I classici nostri contemporanei. Nuovo esame di Stato. Per le Scuole superiorii. Con e-book. Con espansione online (Vol. 2) [Vol. 2] 8839536310, 9788839536310

Un manuale che, al rigore e all’affidabilità della linea “Baldi”, unisce una particolare attenzione a mostrare come i ca

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Italian Pages 708 Year 2019

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Table of contents :
L’ETÀ UMANISTICA
I luoghi della cultura
Il contesto. Società e cultura
1. Le strutture politiche, economiche e sociali nell’Italia del Quattrocento
La voce dei documenti - C. Colombo, La scoperta del Nuovo Mondo
2. Centri di produzione e di diffusione della cultura
3. Intellettuali e pubblico
4. Le idee e le visioni del mondo
5. Geografia della letteratura: i centri dell’Umanesimo
Il contesto. Storia della lingua e fenomeni letterari
1. La lingua: latino e volgare (filo rosso)
2. Caratteristiche e generi della letteratura italiana in età umanistica
La voce dei testi - P. Bracciolini, La riscoperta dei classici
Ripasso visivo
In sintesi
Capitolo 1 - L’Umanesimo latino
Lorenzo Valla
T1 - L. Valla, La falsa donazione di Costantino
Giannozzo Manetti
T2 - G. Manetti, L’esaltazione del corpo e dei piaceri…
Giovanni Pico della Mirandola
T3 - G. Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo
In sintesi
Capitolo 2 - L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico
Matteo Maria Boiardo
T1 - M. M. Boiardo, Già vidi uscir de l’onde una matina
Lorenzo de’ Medici
T2 - L. de' Medici, Trionfo di Bacco e Arianna
Angelo Poliziano
T3 - A. Poliziano, I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
T4 - A. Poliziano, Iulio e Simonetta
Domenico di Giovanni, detto il Burchiello
T5 - Burchiello, Nominativi fritti e mappamondi
In sintesi
Capitolo 3 - L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco
1. I cantari cavallereschi
2. La degradazione dei modelli: il Morgante di Pulci
Luigi Pulci
T1 - L. Pulci, L’autoritratto di Margutte
3. La riproposta dei valori cavallereschi: l’Orlando innamorato di Boiardo
Matteo Maria Boiardo
T2 - M. M. Boiardo, Proemio del poema e apparizione di Angelica
T3 - M. M. Boiardo, Il duello di Orlando e Agricane
In sintesi
Capitolo 4 - L’Umanesimo volgare: la prosa
Leon Battista Alberti
T1 - L. B. Alberti, Elogio della “masserizia”
Letteratura e Economia. T2 - L. B. Alberti, Il valore economico della “villa”
Leonardo da Vinci
T3 - Leonardo da Vinci, Osservazioni e pensieri
Letteratura e Scienza. T4 - Leonardo da Vinci, Studi di anatomia
Letteratura e Tecnica. T5 - Leonardo da Vinci, Lettera a Ludovico il Moro
Iacopo Sannazaro
T6 - I. Sannazaro, Prosa prima
In sintesi
L’ETÀ DEL RINASCIMENTO
I luoghi della cultura
Il contesto. Società e cultura
1. Le strutture politiche, economiche e sociali
2. Le idee e la visione del mondo
Microsaggio. La Poetica di Aristotele
3. I centri e i luoghi di elaborazione culturale in età rinascimentale
La voce dei testi - B. Castiglione, La corte di Urbino
4. Trasformazione del pubblico e figure intellettuali
Il contesto. Storia della lingua e fenomeni letterari
1. La questione della lingua (filo rosso)
Microsaggio. Il canone bembiano
2. Forme e generi della letteratura rinascimentale
Microsaggio. Rabelais e le origini del romanzo moderno
Ripasso visivo
In sintesi
Capitolo 1 - La trattatistica
Pietro Bembo
T1 - P. Bembo, Il «buono amore» è «di bellezza disio»
Baldesar Castiglione
T2 - B. Castiglione, Grazia e sprezzatura
In sintesi
Capitolo 2 - Il petrarchismo
T1 - P. Bembo, Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura
Gaspara Stampa
T2 - G. Stampa, Voi, ch’ascoltate in queste meste rime
Michelangelo Buonarroti
T3 - M. Buonarroti, Giunto è già ’l corso della vita mia
Giovanni Della Casa
T4 - G. Della Casa, O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa
In sintesi
Capitolo 3 - La novella
La prosa narrativa nell’età rinascimentale
Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca
T1 - A. F. Grazzini, detto il Lasca, L’“introduzione al novellare”
Matteo Bandello
T2 - M. Bandello, La novella di Giulia da Gazuolo
In sintesi
Capitolo 4 - L’anticlassicismo
1. Il rifiuto del “sublime” nella poesia lirica
Francesco Berni
T1 - F. Berni, Chiome d’argento fine, irte ed attorte
2. La degradazione della trattatistica
Pietro Aretino
T2 - P. Aretino, Una lezione di vita
3. Lo svuotamento dei valori dell’epica
Teofilo Folengo
T3 - T. Folengo, Le Muse maccheroniche
4. Un teatro dei “vinti”
Angelo Beolco, detto il Ruzante
T4 - A. Beolco, detto il Ruzante, Il mondo dei vinti…
5. Le origini del romanzo
François Rabelais
T5 - F. Rabelais, L’infanzia di Gargantua
In sintesi
Capitolo 5 - Ludovico Ariosto
1. La vita
2. Le opere minori
T1 - La condizione subalterna dell’intellettuale cortigiano
T2 - L’intellettuale cortigiano rivendica la sua autonomia
3. Incontro con l’Opera: L’Orlando furioso
Microsaggio. Bachtin e la «narrazione polifonica»
T3 - Proemio
T4 - Un microcosmo del poema: il canto I
La voce del Novecento. Dall’Orlando furioso al Cavaliere inesistente di Calvino…
T5 - Il palazzo incantato di Atlante
Letteratura e teatro. L’Orlando furioso secondo Ronconi e Sanguineti
Letteratura e Tecnica. T6 - La condanna delle armi da fuoco
T7 - Cloridano e Medoro
Interpretazioni critiche. S. Zatti, Apertura romanzesca e chiusura epica…
T8 - La follia di Orlando
T9 - Astolfo sulla luna (analisi attiva)
L’arte incontra la ltteratura. Astolfo sulla luna in un affresco del Cinquecento
Interpretazioni critiche. F. Picchio, Schemi, simboli, codici dell’“invenzione”
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Ariosto
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia A
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia C - Ambito filosofico
Capitolo 6 - Niccolò Machiavelli
1. La vita
2. L’epistolario
T1 - La lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513
3. Gli scritti politici del periodo della segreteria (1498-1512)
4. Incontro con le Opere: Il Principe e i Discorsi
Il Principe
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
Il pensiero politico nel Principe e nei Discorsi
T2 - L’«esperienzia delle cose moderne» e la «lezione delle antique»
T3 - Quanti siano i generi di principati e in che modi si acquistino
T4 - I principati nuovi che si acquistano con armi proprie… (analisi attiva)
T5 - I principati nuovi che si acquistano con le armi altrui…
T6 - Di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati…
T7 - In che modo i principi debbano mantenere la parola data (analisi attiva)
Letteratura e cinema. La crisi degli Stati italiani nel Mestiere delle armi…
T8 - Quanto possa la fortuna nelle cose umane…
L’arte incontra la ltteratura. La Fortuna col ciuffo nell’arte del Cinquecento
T9 - Esortazione a pigliare l’Italia e a liberarla…
Echi nel Tempo. Gramsci e il «moderno Principe»
T10 - L’imitazione degli antichi
Letteratura e Politica. T11 - Quali scandoli partorì in Roma la legge agraria
Interpretazioni critiche. C. Vivanti, Machiavelli repubblicano?
5. L’Arte della guerra e le opere storiche
6. Le opere letterarie
T12 - «Per tutto traligna da l’antica virtù el secol presente»
T13 - La Mandragola
Interpretazioni critiche. L. Blasucci, I personaggi di Ligurio e Lucrezia
La voce del Novecento. Machiavelli e Pirandello: la «tragedia annegata in una farsa»
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Machiavelli
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia B - Ambito letterario e politico
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia C - Ambito storico e politico
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia C - Ambito letterario e sociale
Capitolo 7 - Francesco Guicciardini
1. La vita
2. Le opere minori
3. Incontro con l’Opera: I Ricordi
T1 - L’individuo e la storia
T2 - Gli imprevisti del caso
T3 - Il problema della religione
T4 - Le ambizioni umane (analisi attiva)
T5 - Le «varie nature degli uomini»
Interpretazioni critiche. A. Asor Rosa, Per una lettura “antropologica” dei Ricordi
4. La Storia d’Italia
T6 - L’Italia alla fine del Quattrocento
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Guicciardini
Dialoghi immaginari. Machiavelli e Guicciardini
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA
I luoghi della cultura
Il contesto. Società e cultura
1. Dalla Riforma alla Controriforma
La voce dei documenti - I processi dei benandanti
2. Le istituzioni culturali
3. Le tendenze culturali e la visione del mondo
Microsaggio. L’“alienazione” dell’artista
Il contesto. I fenomeni letterari
Generi e forme della letteratura
La voce dei testi - G. Botero, La consacrazione religiosa del potere politico
Ripasso visivo
In sintesi
Capitolo 1 - La prosa
Benvenuto Cellini
T1 - B. Cellini, La fusione del Perseo
Tommaso Campanella
T2 - T. Campanella, La comunione dei beni
Giordano Bruno
T3 - G. Bruno, Contro le regole e i pedanti
Letteratura e cinema. Giordano Bruno di Giuliano Montaldo
In sintesi
Capitolo 2 - La letteratura drammatica
Battista Guarini
T1 - B. Guarini, La bella età dell’oro
T2 - G. Bruno, L’intellettuale incompreso
In sintesi
Capitolo 3 - Torquato Tasso
1. La vita
2. L’epistolario
3. Il Rinaldo
4. Le Rime
T1 - Qual rugiada o qual pianto
T2 - La canzone al Metauro
5. La produzione drammatica
T3 - «S’ei piace, ei lice»
6. Incontro con l’Opera: La Gerusalemme liberata
T4 - Proemio
Interpretazioni critiche. E. Russo, Epica e romanzo nella Gerusalemme liberata
T5 - La parentesi idillica di Erminia (analisi attiva)
La voce del Novecento. Paesi tuoi: il mondo rurale senza idillio di Cesare Pavese
T6 - La morte di Clorinda
T7 - La selva incantata
Letteratura e Scienza. T8 - Scienza e religione
T9 - Il giardino di Armida
L’arte incontra la ltteratura. Rinaldo e Armida nel giardino incantato
Interpretazioni critiche. G. Getto, Illusione e delusione nella poesia della Gerusalemme
7. I Dialoghi
Letteratura e Società. T10 - La condizione della donna nella società cinquecentesca
8. Le ultime opere
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Tasso
Dialoghi immaginari. Tasso e Ariosto
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia A
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia B - Ambito storico e sociale
Prova di competenza. Simulazione di esperienza reale
Il teatro per immagini
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I classici nostri contemporanei. Nuovo esame di Stato. Per le Scuole superiorii. Con e-book. Con espansione online (Vol. 2) [Vol. 2]
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Guido Baldi Silvia Giusso Mario Razetti Giuseppe Zaccaria

I CLASSICI NOSTRI

CONTEMPORANEI 2

L’Umanesimo, il Rinascimento e l’età della Controriforma Il teatro per immagini a cura di Gigi Livio e Armando Petrini

Editor: Gigi Livio Coordinamento editoriale: Franca Crosetto Coordinamento redazionale: Pierandrea De Lorenzo Redazione: Cristina Billò, Gaia Collaro (Prove per il nuovo esame di Stato) Progetto grafico e copertina: Sunrise Advertising, Torino Consulenza grafica: Elena Marengo Ricerca iconografica: Maria Alessandra Montagnani Cartografia: Andrea Mensio Impaginazione elettronica: Essegi, Torino Controllo qualità: Andrea Mensio Segreteria di redazione: Enza Menel L’opera è stata unitariamente concepita e discussa in ogni suo particolare da tutti gli autori con il coordinamento di Gigi Livio. Il Contesto della Sezione 1 e i capitoli su Ariosto, Machiavelli e Tasso sono di Guido Baldi. I Contesti delle Sezioni 2 e 3, i paragrafi dei Contesti relativi ai fenomeni letterari e il capitolo su Guicciardini sono di Giuseppe Zaccaria. I capitoli di genere sono di Giuseppe Zaccaria con alcuni apporti di Guido Baldi e Silvia Giusso. La revisione dei Contesti è a cura di Roberto Favatà. Alla stesura delle schede di alcuni autori hanno collaborato Paola Bigatti, Anna Garbero e Patrizia Pellizzari, a quella delle note ai testi di Ariosto e Tasso Silvia Sanseverino. Le rubriche Che cosa ci dicono ancora oggi i classici relative ad Ariosto, Machiavelli e Tasso sono di Guido Baldi, quella relativa a Guicciardini è di Giuseppe Zaccaria. Le rubriche Pesare le parole sono di Guido Baldi. Le rubriche Dialoghi immaginari sono di Giuseppe Zaccaria. Gli apparati Esercitare le competenze e la Simulazione di esperienza reale sono di Daniela Marro e di Francesca Maura, che ha curato anche la revisione dei Ripassi visivi relativi agli autori. Le Analisi attive sono di Lucia Jacona. Le prove di tipologia A in preparazione alla prima prova del nuovo esame di Stato sono di Daniela Paganelli; le prove di tipologia B sono di Federico Demarchi, che ha curato anche le prove di tipologia C su Machiavelli; la prova C su Ariosto è di Elena Caraglio. Gli schemi (Visualizzare i concetti) e le schede In sintesi sono di Lorenza Pasquariello e di Roberto Favatà, che ha curato anche i Ripassi visivi dei Contesti. Le schede Facciamo il punto sono di Silvia Giusso e di Roberto Favatà. Le rubriche L’arte incontra la letteratura e le didascalie delle immagini commentate sono di Maria Alessandra Montagnani. Le schede Letteratura e cinema e Letteratura e teatro sono di Enrico Antonio Pili. Il teatro per immagini è stato ideato da Gigi Livio e scritto in collaborazione con Armando Petrini. La realizzazione grafica delle rubriche Che cosa ci dicono ancora oggi i classici è a cura di Elena Marengo. Si ringraziano per i preziosi suggerimenti: Ilaria Archilletti, Annarita Bisceglia, Mariacristina Colonna, Piera Comba, Laura Costa, Ilaria Domenici, Mimmo Genga, Aldo Intagliata, Manuela Lori, Daniela Marro, Francesca Maura, Isabella Molinari, Immacolata Sirianni. In copertina: Domenico Ghirlandaio, Miracolo del fanciullo risuscitato, 1482-86, affresco, part., Firenze, Santa Trinita, Cappella Sassetti © Mondadori Portfolio/Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone. Per le opere di Clerici, Heisig e Morlotti © by SIAE 2016 Tutti i diritti riservati © 2019, Pearson Italia, Milano - Torino

978 88 395 36310 A Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Stampato per conto della casa editrice presso L.E.G.O. - LAVIS - TN Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8

Anno 19 20 21 22 23 24 25

Indice generale

L’età umanistica

2

I LUOGHI DELLA CULTURA

3

Il contesto Società e cultura 1. Le strutture politiche, economiche e sociali nell’Italia del Quattrocento

4

La voce dei documenti La scoperta del Nuovo Mondo

T

DIGITALE INTEGRATIVO TUTOR Visione d’insieme Verifica interattiva

P 4

DIGITALE INTEGRATIVO PLUS

Testi Ficino L’uomo è simile a Dio dalla Theologia platonica Poliziano Imitazione e originalità Salutati L’elogio della libertà fiorentina dall’Invectiva in Luschum

7



Cristoforo Colombo | Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel Sánchez

Facciamo il punto

10

2. Centri di produzione e di diffusione della cultura 3. Intellettuali e pubblico

11 14

Film L’età di Cosimo de’ Medici di Rossellini

Facciamo il punto

15

4. Le idee e le visioni del mondo 5. Geografia della letteratura: i centri dell’Umanesimo

15

Arte L’imitazione degli antichi nelle arti figurative

20

Facciamo il punto

21

Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. La lingua: latino e volgare Filo rosso 2. Caratteristiche e generi della letteratura italiana in età umanistica

22

La voce dei testi La riscoperta dei classici



22 23 23

Poggio Bracciolini | dalla Lettera a Guarino Guarini

Facciamo il punto

30

Ripasso visivo In sintesi

31 32

CAPITOLO 1

L’Umanesimo latino

Lorenzo Valla

T1 La falsa donazione di Costantino

VERIFICA INTERATTIVA

Verifica interattiva

T

Arte L’uomo misura della realtà

P

33 34 35

dalla De falso credita et ementita Constantini donatione

Giannozzo Manetti

39

T2 L’esaltazione del corpo e dei piaceri,

contro l’ascetismo medievale

39

dal De dignitate et excellentia hominis, IV

III

INDICE GENERALE

Giovanni Pico della Mirandola

T3 La dignità dell’uomo

42 43

dall’Oratio de hominis dignitate

Facciamo il punto

In sintesi

45 45

VERIFICA INTERATTIVA

L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico 46 CAPITOLO 2

Matteo Maria Boiardo

T1 Già vidi uscir de l’onde una matina

Audio Lorenzo de’ T Medici Trionfo di Bacco e Arianna dai Canti carnascialeschi Poliziano I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino dalle Canzoni a ballo



47 48

dagli Amorum libri, I

Lorenzo de’ Medici

T2 Trionfo di Bacco e Arianna

Verifica interattiva

50 51

Testi Poliziano Ben P venga Maggio dalle Canzoni a ballo Lorenzo de’ Medici La Nencia da Barberino Divagazione sul motivo della rosa dal Corinto Poliziano Il regno di Venere dalle Stanze per la giostra Il pastore innamorato da La favola di Orfeo

dai Canti carnascialeschi

Angelo Poliziano AUDIOLETTURE

T3 I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino



54 56



• •

dalle Canzoni a ballo

T4 Iulio e Simonetta

58

dalle Stanze per la giostra

Domenico di Giovanni, detto il Burchiello

T5 Nominativi fritti e mappamondi Facciamo il punto

In sintesi CAPITOLO 3 L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

1. I cantari cavallereschi 2. La degradazione dei modelli: il Morgante di Pulci Luigi Pulci

T1 L’autoritratto di Margutte

Arte Botticelli e il Neoplatonismo

64 64 66 67

Audio da Cogli la prima mela di Branduardi VERIFICA INTERATTIVA

68

Audio Boiardo Proemio del poema e apparizione di Angelica dall’Orlando innamorato

68 69

Testi Pulci Il P diavolo Astarotte; Ghiottoneria e furfanteria: le imprese di Morgante e Margutte all’osteria; La morte di Orlando a Roncisvalle dal Morgante Boiardo Alcune dichiarazioni di poetica; Orlando insegue Morgana dall’Orlando innamorato

80



Matteo Maria Boiardo

T1 Proemio del poema e apparizione di Angelica

83

dall’Orlando innamorato, I, I, 1-4; 8-9; 11-12; 19-34

T1 Il duello di Orlando e Agricane AUDIOLETTURA

L’Orlando innamorato

IV

91

dall’Orlando innamorato, I, XVIII, 32-55

Facciamo il punto

In sintesi

100 101

T

Verifica interattiva

69 71

dal Morgante, XVIII, 112-124; 128-142

3. La riproposta dei valori cavallereschi: l’Orlando innamorato di Boiardo

Video da L’attimo fuggente di Weir

VERIFICA INTERATTIVA

CAPITOLO 4

la prosa

L’Umanesimo volgare:

Leon Battista Alberti

102

T1 Elogio della “masserizia”

103

da Libri della famiglia, III

> Letteratura e Economia

T2 Il valore economico della “villa”

Verifica interattiva

T

Arte Una nuova dignità per l’artista: Leonardo e Raffaello

P

Visione d’insieme

T

102

106

da Libri della famiglia, III

Leonardo da Vinci

T3 Osservazioni e pensieri

108 109

T4 Studi di anatomia

112

T5 Lettera a Ludovico il Moro

114

Iacopo Sannazaro

118 118

> Letteratura e Scienza

> Letteratura e Tecnica T6 Prosa prima dall’Arcadia

Facciamo il punto

In sintesi

120 121

L’età del Rinascimento

122

I LUOGHI DELLA CULTURA

123

Il contesto Società e cultura 1. Le strutture politiche, economiche e sociali

124

Facciamo il punto

127

2. Le idee e la visione del mondo

127 129

MICROSAGGIO La Poetica di Aristotele

Verifica interattiva

124

Facciamo il punto

130

3. I centri e i luoghi di elaborazione culturale in età rinascimentale

130

La voce dei testi La corte di Urbino

VERIFICA INTERATTIVA

133

Baldesar Castiglione | dal Cortegiano, I, capp. IV-V

4. Trasformazione del pubblico e figure intellettuali

136

Facciamo il punto

138

V

INDICE GENERALE

Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. La questione della lingua Filo rosso MICROSAGGIO Il canone bembiano

2. Forme e generi della letteratura rinascimentale MICROSAGGIO Rabelais e le origini del romanzo moderno

139 139 140 141 144

Facciamo il punto

145

Ripasso visivo In sintesi

146 147

CAPITOLO 1

La trattatistica

Pietro Bembo

T1 Il «buono amore» è «di bellezza disio»

VERIFICA INTERATTIVA

149

Verifica interattiva

151 152

dagli Asolani, III, cap. VI

Baldesar Castiglione

T2 Grazia e sprezzatura

In sintesi CAPITOLO 2

161 162

Il petrarchismo

Testi Della Casa Le P buone maniere dal Galateo Bembo Gli scrittori e la lingua fiorentina; Dante e Petrarca dalle Prose della volgar lingua Castiglione Il principe e il «cortegiano»; La lingua cortigiana dal Cortegiano



156 157

dal Cortegiano, I, cap. XXVI

Facciamo il punto

T



VERIFICA INTERATTIVA

163

Verifica interattiva

T

Testi Bembo Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra dalle Rime Stampa Piangete, donne; Mesta e pentita

P

Verifica interattiva

T

Pietro Bembo

T1 Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura

164

dalle Rime, V

Gaspara Stampa

T2 Voi, ch’ascoltate in queste meste rime

167 167



dalle Rime, I

Michelangelo Buonarroti

T3 Giunto è già ’l corso della vita mia

170 171

dalle Rime, CCLXXXV

Giovanni Della Casa

T4 O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa

174 175

dalle Rime e prose, LIV

In sintesi Facciamo il punto

CAPITOLO 3

La novella

177 177 178

La prosa narrativa nell’età rinascimentale

178

Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca

180 181

T1 L’“introduzione al novellare”

VERIFICA INTERATTIVA



da Le cene

Matteo Bandello

T2 La novella di Giulia da Gazuolo

Facciamo il punto

VI



184 185

dal Novelliere, VIII

In sintesi

192 192

Testi Fiorenzuola P Novella accaduta nuovamente Straparola Pietro Pazzo dalle Piacevoli notti Giraldi Cinzio Il moro di Venezia dagli Ecatommiti Lasca La novella di Falananna da Le cene Bandello La contessa di Challant dal Novelliere

VERIFICA INTERATTIVA





CAPITOLO 4 L’anticlassicismo 1. Il rifiuto del “sublime” nella poesia lirica Francesco Berni

T1 Chiome d’argento fine, irte ed attorte

193 194 194 195

Testi Aretino La P malvagità delle corti dal Dialogo delle corti L’inizio del dialogo dai Ragionamenti Folengo L’epica degradata; La condizione contadina dal Baldus Rabelais La lettere sull’educazione dal Pantagruele Prologo dell’autore dal Gargantua e Pantagruele

dalle Rime, XXXI

2. La degradazione della trattatistica Pietro Aretino

T2 Una lezione di vita



198 198 200

Teofilo Folengo

T3 Le Muse maccheroniche





dal Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa, giornata I

3. Lo svuotamento dei valori dell’epica

T

Verifica interattiva



204 205 207

dal Baldus, I, vv. 1-63

4. Un teatro dei “vinti” Angelo Beolco, detto il Ruzante

211 211

T4 Il mondo dei vinti: il contadino torna

dalla guerra

213

dal Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, scene III e V

5. Le origini del romanzo François Rabelais

T5 L’infanzia di Gargantua

220 220 222

dal Gargantua, cap. XI

In sintesi Facciamo il punto

CAPITOLO 5 Ludovico Ariosto 1. La vita 2. Le opere minori T1 La condizione subalterna dell’intellettuale cortigiano

225 225

226

Videolezioni

231

Carta interattiva VIDEOLEZIONI

235

La biografia e le opere minori

T2 L’intellettuale cortigiano rivendica

la sua autonomia

238

Laboratori interattivi Proemio; La follia di Orlando dall’Orlando furioso

Incontro con l’Opera MICROSAGGIO Bachtin e la «narrazione polifonica»

243 258

T3 Proemio

259

dall’Orlando furioso, I, 1-4

T4 Un microcosmo del poema: il canto I AUDIOLETTURE

L’Orlando furioso

263

dall’Orlando furioso, I, 5-81

La voce del Novecento Dall’Orlando furioso al Cavaliere inesistente di Calvino: 285 modernità e perdita di sé T5 Il palazzo incantato di Atlante 290 dall’Orlando furioso, XII, 1-20; 26-42; 51-62

Audio Proemio; Il palazzo incantato di Atlante; La follia di Orlando dall’Orlando furioso Analisi interattive Proemio; Il palazzo incantato di Atlante; La follia di Orlando; La maga Alcina dall’Orlando furioso

dalle Satire, III, vv. 1-72

3. L’Orlando furioso

T

Videolezione d’autore

228

dalle Satire, I, vv. 85-123, 139-171 VIDEOLEZIONE D’AUTORE

VERIFICA INTERATTIVA

Mappe interattive Ripasso interattivo VIDEOLEZIONE

L’Orlando furioso

Verifica interattiva Competenze Analisi interattiva Linea del tempo Testi La legge dell’interesse economico dalla Lena Ruggiero e Alcina; Le «molte fila» del poema: alcune dichiarazioni di poetica;

P



VII

INDICE GENERALE

LETTERATURA E TEATRO L’Orlando furioso secondo Ronconi

e Sanguineti

302

T6 La condanna delle armi da fuoco

304

> Letteratura e Tecnica

Orlando pazzo ed Angelica; Rodomonte e Isabella; Mandricardo e Doralice dall’Orlando furioso Video da Norma di Bellini L’Orlando furioso secondo Ronconi e Sanguineti

dall’Orlando furioso, IX, 28-29; 88-91; XI, 21-28

T7 Cloridano e Medoro

310

Galleria di immagini L’Orlando furioso nelle arti figurative

dall’Orlando furioso, XVIII, 164-172; 183-192; XIX, 1-16

Interpretazioni critiche

Sergio Zatti | Apertura romanzesca e chiusura epica nel racconto del Furioso

320

T8 La follia di Orlando

323

Immagine interattiva Angelica, Ruggiero e il mostro marino Arte «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori»

dall’Orlando furioso, XXIII, 100-136; XXIV, 1-14

T9 Astolfo sulla luna

La critica

337

Analisi attiva dall’Orlando furioso, XXXIV, 70-87



Testi critici G. Contini L. Caretti B. Croce



L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA Astolfo sulla luna



Per la ricerca nel web

343

in un affresco del Cinquecento

Interpretazioni critiche

Franco Picchio | Schemi, simboli, codici dell’“invenzione” Facciamo il punto CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

344 345

Ariosto

Ripasso visivo In sintesi

346 348 349

Bibliografia

VERIFICA INTERATTIVA

350

Per il nuovo esame di Stato PRIMA PROVA Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano T10 La maga Alcina 351 dall’Orlando furioso, VII, 9-23

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito filosofico Follia e creatività

CAPITOLO 6

VIDEOLEZIONE D’AUTORE

Niccolò Machiavelli

1. La vita 2. L’epistolario T1 L’esilio all’Albergaccio e la nascita del Principe: la lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 dalle Lettere 3. Gli scritti politici del periodo della segreteria (1498-1512)

355

356 358

VIII

Carta interattiva

VIDEOLEZIONI

362 369

371 371

T

Videolezioni

362

Incontro con le Opere 4. Il Principe e i Discorsi Il Principe

Videolezione d’autore

La biografia e i primi scritti politici

Audio L’esilio all’Albergaccio e la nascita del Principe: la lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 dalle Lettere Analisi interattive L’esilio all’Albergaccio e la nascita del Principe: la lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 dalle Lettere; Quanti siano i generi di principati e in che modo si acquistino; Di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi,

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Il pensiero politico nel Principe e nei Discorsi T2 L’«esperienzia delle cose moderne» e la «lezione delle antique»

373

sono lodati o vituperati; In che modo i principi debbano mantenere la parola data dal Principe

374 382

VIDEOLEZIONE

Il Principe

dal Principe, Dedica

T3 Quanti siano i generi di principati

e in che modo si acquistino

385

dal Principe, cap. I

Mappe interattive

T4 I principati nuovi che si acquistano

con armi proprie e con la virtù

Analisi attiva

Ripasso interattivo

387

Verifica interattiva

dal Principe, cap. VI

T5 I principati nuovi che si acquistano

con le armi altrui e con la fortuna

Testi Perché i principi italiani hanno perso i loro Stati dal Principe Uno solo è atto a ordinare una repubblica, a molti sta mantenerla; La religione dei Romani dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Il realismo politico di un ciompo dalle Istorie fiorentine Atto I; Atto IV, scene II, VI-X dalla Mandragola



T6 Di quelle cose per le quali gli uomini, e 399

dal Principe, cap. XV

T7 In che modo i principi debbano mantenere

la parola data

Analisi attiva dal Principe, cap. XVIII

• •

403

LETTERATURA E CINEMA La crisi degli Stati italiani

nel Mestiere delle armi di Ermanno Olmi

Video La crisi degli Stati italiani nel Mestiere delle armi di Ermanno Olmi La Mandragola tra teatro e cinema Fortuna e attualità del Principe

407



T8 Quanto possa la fortuna nelle cose umane

e in che modo occorra resisterle

409



dal Principe, cap. XXV

Immagine interattiva L’allegoria della Fortuna

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA La Fortuna col ciuffo

nell’arte del Cinquecento

P

Linea del tempo

392

dal Principe, cap. VII

specialmente i principi, sono lodati o vituperati

Laboratori interattivi L’esilio all’Albergaccio e la nascita del Principe: la lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 dalle Lettere; In che modo i principi debbano mantenere la parola data dal Principe

414

La critica

T9 Esortazione a pigliare l’Italia e a liberarla



415

Testi critici G. Ferroni F. Chiappelli G. Inglese A. Gramsci G. Bàrberi Squarotti L. Russo

ECHI NEL TEMPO Gramsci e il «moderno Principe»

420

Per la ricerca nel web

T10 L’imitazione degli antichi

421

dalle mani dei barbari



dal Principe, cap. XXVI



• •

dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, Proemio

> Letteratura e Politica

T11 Quali scandoli partorì in Roma

la legge agraria

425

dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, cap. XXXVII

Interpretazioni critiche

Corrado Vivanti | Machiavelli repubblicano?

5. L’Arte della guerra e le opere storiche 6. Le opere letterarie T12 «Per tutto traligna da l’antica virtù el secol presente»

429 431 432 435

dalla Mandragola, Prologo

T13 La Mandragola

439

VIDEOLEZIONE La Mandragola

Interpretazioni critiche

Luigi Blasucci | I personaggi di Ligurio e Lucrezia

452

IX

INDICE GENERALE

La voce del Novecento Machiavelli e Pirandello: la «tragedia annegata in una farsa» CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI Machiavelli

460

Facciamo il punto

462

Ripasso visivo In sintesi

463 464

Bibliografia

454

VERIFICA INTERATTIVA

465

Per il nuovo esame di Stato PRIMA PROVA Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito letterario e politico Gabriele Pedullà Machiavelli, lo scienziato prestato

alla politica

466

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito storico e politico I mezzi dell’attività politica 468 Ambito letterario e sociale La lezione degli antichi 469

CAPITOLO 7

Francesco Guicciardini

1. La vita 2. Le opere minori

470 472 474

Incontro con l’Opera 3. I Ricordi T1 L’individuo e la storia

476 478

dai Ricordi, 6, 110, 114, 189, 220

T2 Gli imprevisti del caso

482

dai Ricordi, 30, 117, 161

484

dai Ricordi, 1, 28, 125 Analisi attiva

486

T5 Le «varie nature degli uomini»

490

dai Ricordi, 15, 16, 17, 32, 118 dai Ricordi, 44, 60, 61, 134

Interpretazioni critiche

Alberto Asor Rosa | Per una lettura “antropologica” dei Ricordi

492

4. La Storia d’Italia T6 L’Italia alla fine del Quattrocento

495 496

dalla Storia d’Italia, capp. I-II CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

X

Guicciardini

502

T

Verifica interattiva Testi I rapporti e le relazioni sociali dai Ricordi Echi nel tempo Da Guicciardini a Pirandello: l’irruzione del “caso” La critica Per la ricerca nel web

T3 Il problema della religione T4 Le ambizioni umane

Audio Le «varie nature degli uomini» dai Ricordi

P

DIALOGHI IMMAGINARI

Machiavelli e Guicciardini

504

Ripasso visivo In sintesi

507 508

Facciamo il punto

509

Bibliografia

509

L’età della Controriforma

510

I LUOGHI DELLA CULTURA

511

Il contesto Società e cultura 1. Dalla Riforma alla Controriforma

512

Facciamo il punto

514

La voce dei documenti I processi dei benandanti

VERIFICA INTERATTIVA

T

Visione d’insieme Verifica interattiva Testi Doni La città utopica dai Mondi

P

Verifica interattiva

T

512 514

Atti dei processi ai benandanti

2. Le istituzioni culturali

516

Facciamo il punto

517

3. Le tendenze culturali e la visione del mondo

518 519

MICROSAGGIO L’“alienazione” dell’artista

Facciamo il punto

520

Il contesto I fenomeni letterari Generi e forme della letteratura

521 521

La voce dei testi La consacrazione religiosa del potere politico

522

Giovanni Botero | da Della ragion di Stato

Facciamo il punto

525

Ripasso visivo In sintesi

526 527

CAPITOLO 1

La prosa

Benvenuto Cellini

T1 La fusione del Perseo

VERIFICA INTERATTIVA

528 529 530 533 534

Testi Cellini L’uso P delle armi da fuoco; Benvenuto e il “sacco di Roma; L’evocazione dei demoni dalla Vita Bruno Il processo; Il «Proprologo» dal Candelaio

537 538

Video Giordano Bruno di Montaldo

dalla Vita, II, capp. 76-77

Tommaso Campanella

T2 La comunione dei beni



dalla Città del Sole

Giordano Bruno

T3 Contro le regole e i pedanti dagli Eroici furori, dialogo I

LETTERATURA E CINEMA Giordano Bruno di Giuliano Montaldo 540

Facciamo il punto

In sintesi

541 542

VERIFICA INTERATTIVA

XI

INDICE GENERALE

CAPITOLO 2

La letteratura drammatica

Battista Guarini

543

Verifica interattiva

T

Videolezione d’autore

T

543 544

T1 La bella età dell’oro dal Pastor fido

Giordano Bruno

T2 L’intellettuale incompreso

548

da Il candelaio

In sintesi

551

Facciamo il punto

CAPITOLO 3

551

Torquato Tasso

552

1. 2. 3. 4. VIDEOLEZIONE D’AUTORE

VERIFICA INTERATTIVA

La vita L’epistolario Il Rinaldo Le Rime T1 Qual rugiada o qual pianto dalle Rime T2 La canzone al Metauro dalle Rime 5. La produzione drammatica T3 «S’ei piace, ei lice» dall’Aminta, coro dell’atto I

554

Videolezioni

558 558 559 560

Carta interattiva VIDEOLEZIONI

La biografia e le opere minori

561 565 567

Mappe interattive

6. La Gerusalemme liberata T4 Proemio

572 587

VIDEOLEZIONE

Ripasso interattivo

L’Aminta

Verifica interattiva Competenze Analisi interattiva

dalla Gerusalemme liberata, I, 1-5

Interpretazioni critiche La Gerusalemme liberata

Analisi attiva

592

La voce del Novecento Paesi tuoi: il mondo rurale senza idillio di Cesare Pavese

600

T6 La morte di Clorinda

605

T7 La selva incantata

VIDEOLEZIONE

613

dalla Gerusalemme liberata, XIII, 17-46

> Letteratura e Scienza T8 Scienza e religione



626

Galleria di immagini La Gerusalemme liberata nella pittura

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA Rinaldo e Armida

636

Immagine interattiva Il paesaggio come stato d’animo La critica Testo critico M. Fubini

Interpretazioni critiche

Per la ricerca nel web

Giovanni Getto | Illusione e delusione nella poesia della Gerusalemme



622

dalla Gerusalemme liberata, XVI, 1-2; 8-35

nel giardino incantato

La Gerusalemme liberata

Audio da Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi

dalla Gerusalemme liberata, XIV, 37-47

T9 Il giardino di Armida

P

Testi Donna, il bel vetro tondo dalle Rime Il paradiso degli amori infantili dall’Aminta La storia, il verisimile, il meraviglioso; Unità e varietà del poema «eroico» dai Discorsi dell’Arte poetica Satana: l’«orrida maestà» del grande ribelle; La purificazione di Rinaldo; Rinaldo nella selva incantata; Tancredi e Clorinda dalla Gerusalemme liberata



dalla Gerusalemme liberata, VII, 1-22

dalla Gerusalemme liberata, XII, 50-71

XII

Linea del tempo

Emilio Russo | Epica e romanzo nella Gerusalemme liberata 590

T5 La parentesi idillica di Erminia

Analisi interattive Proemio; La morte di Clorinda; Il giardino di Armida dalla Gerusalemme liberata Laboratori interattivi Proemio dalla Gerusalemme liberata

Incontro con l’Opera

AUDIOLETTURE

Audio Proemio; La morte di Clorinda dalla Gerusalemme liberata

638

7. I Dialoghi > Letteratura e Società T10 La condizione della donna nella società cinquecentesca

640

641

da Il padre di famiglia

8. Le ultime opere CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI DIALOGHI IMMAGINARI

644

Tasso

Tasso e Ariosto

645 648

Facciamo il punto

651

Ripasso visivo In sintesi

652 653

Bibliografia

VERIFICA INTERATTIVA

654

Per il nuovo esame di Stato PRIMA PROVA Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano T11 Goffredo chiamato all’«alta impresa» 655 dalla Gerusalemme liberata, I, 11-18

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito storico e sociale Scipione Guarracino Islam e Cristianità in dialogo

657

PROVA DI COMPETENZA Simulazione di esperienza reale Donne e cultura fra sacro e profano: vecchi e nuovi ruoli per l’emancipazione nel Cinquecento

659

Il teatro per immagini

663

Glossario Indice dei nomi Indice delle rubriche e delle schede Indice delle illustrazioni

680 689 692 694

XIII

OXFORD

L’età umanistica

LONDRA

1400-1492 PARIGI

I luoghI della cultura DEVENTER

VENEZIA • La Repubblica di Venezia ha il controllo di buona parte delle coste adriatiche. Città prosperosa, sarà un importante centro di diffusione della cultura umanistica. Qui Guarino Veronese istituisce una scuola di lingua greca; Aldo Manuzio avvia la sua attività di editore e fonda l’Accademia Aldina; nasce la Biblioteca Marciana.

NORIMBERGA STRASBURGO

MANTOVA • La sfarzosa corte dei Gonzaga è culturalmente molto aperta e vivace. La città ospita una delle maggiori scuole umanistiche, fondata da Vittorino da Feltre, precettore della famiglia ducale.

MILANO • Governata prima dai Visconti e poi dagli Sforza, la città, popolosa e produttiva, ospita numerosi intellettuali. La corte, attenta a promuovere lo sviluppo del pensiero artistico e scientifico, accoglie Leonardo che trascorrerà qui molti anni.

TORINO

FERRARA • La corte estense costituisce un altro centro rilevante della cultura umanistica. Gli Este si circondano di numerosi intellettuali (come Guarino Veronese, divulgatore della cultura classica) e promuovono l’attività letteraria di uno dei maggiori poeti del secolo, Matteo Maria Boiardo.

MILANO BRESCIA PAVIA GENOVA

VERONA MANTOVA

PADOVAVENEZIA FERRARA

PARMA

FIRENZE • Firenze è il centro di elaborazione della nuova cultura umanistica. Già in fase repubblicana la Cancelleria è diretta da prestigiosi intellettuali (Salutati, Bruni, Bracciolini), ma è soprattutto con la Signoria di Lorenzo de’ Medici che la città attrae i più celebrati filosofi, studiosi e letterati della seconda metà del Quattrocento (come Poliziano, Alberti, Pulci). Nasce l’Accademia Neoplatonica per volere di Marsilio Ficino.

BOLOGNA FIRENZE

ROMA • Con il rientro del papato in Italia, dopo la cattività avignonese, la corte pontificia rilancia la città anche sul piano artistico e culturale. Nascono la Biblioteca Apostolica Vaticana e l’Accademia Romana, istituzioni che svolgono un ruolo importante nel recupero e nella diffusione della cultura classica.

SIENA

URBINO AREZZO PERUGIA

ROMA

NAPOLI

BARI

SALERNO

NAPOLI • Con Alfonso d’Aragona la corte si apre ai nuovi interessi umanistici e intrattiene scambi culturali con gli altri maggiori centri europei. In città giungono umanisti assai celebri come il Panormita, Lorenzo Valla e Giovanni Pontano, che gestisce un’importante Accademia a cui aderisce anche Jacopo Sannazaro.

URBINO • La corte, soprattutto durante la Signoria di Federico di Montefeltro, è un ambiente intellettualmente ricco e stimolante, che attrae filosofi, letterati e soprattutto artisti (come Raffaello e Piero della Francesca).

Il contesto

Società e cultura

1

Le strutture politiche, economiche e sociali nell’Italia del Quattrocento

Visione d’insieme

Signorie e Principati

Rafforzamento delle Signorie

Brunelleschi inizia la costruzione del duomo a Firenze (1420)

Masaccio L’Annunciazione affresca di Beato la cappella Angelico Brancacci (1434 ca.) (1425)

Leon Battista Alberti scrive il trattato Della pittura (1435-36)

Il David Gutenberg di donatello inventa a Firenze la stampa a (1440) caratteri mobili (1448-50)

Letteratura

Cultura

Il caso di Firenze

Già a partire dalla fine del Duecento i conflitti tra le fazioni nelle varie città italiane erano divenuti talmente aspri che le istituzioni comunali ne risultavano indebolite, e ciò aveva consentito a individui singoli o a famiglie di imporre il loro dominio personale; in altri casi proprio il bisogno di pace e stabilità aveva indotto i cittadini a consegnare il potere nelle mani di un signore, che fungesse da arbitro e mediatore delle contese. Nel corso del Trecento e del Quattrocento le Signorie si consolidano, il potere passa stabilmente in mano a un individuo e si trasmette ereditariamente alla sua famiglia. Il potere dei signori viene poi spesso legittimato da titoli feudali conferiti dall’imperatore o dal pontefice e la Signoria si trasforma in Principato. Soltanto Firenze continua a reggersi secondo gli originari ordinamenti comunali (anche se il potere effettivo era detenuto da un ristretto numero di famiglie ricche e potenti); ma anch’essa, pur conservando formalmente le istituzioni repubblicane, nel 1435 passa

Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca (1454)

Alberti scrive i trattati La scultura e L’architettura (1452)

Burchiello (1404-49) Matteo Maria Boiardo (1441-49)

Giannozzo Manetti (1396-59) Lorenzo Valla (1405-57)

Scienza e Tecnica

Storia e Società

PRIMA MEtà dEL XV SEC.

4

Signoria di Cosimo de’ Medici a Firenze (1435-64) Progressi considerevoli nelle costruzioni navali in Occidente. Vengono fabbricati i primi alambicchi di vetro (Inizio XV secolo)

SECONdA ME I turchi conquistano Costantinopoli: fine dell’Impero romano d’Oriente (1453)

Inizia la ripresa economica europea (1450-70) Gli Sforza diventano i signori di Milano (1450)

Nelle botteghe veneziane e padovane si diffonde la lavorazione e l’incisione del cristallo (Metà XV secolo)

La pace di Lodi pone fine alla guerra scoppiata per la successione al ducato di Milano e assicura all’Italia un lungo periodo di pace (1454)

Il contesto · Società e cultura

Film L’età di Cosimo de’ Medici

di fatto sotto la Signoria di Cosimo de’ Medici, appartenente a una potentissima famiglia di mercanti e di banchieri. Al figlio Piero succederà Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, che all’abilità politica unirà le doti di scrittore ( cap. 2, T2, p. 51), facendosi garante dell’equilibrio fra gli Stati della penisola. L’anno della sua morte, il 1492, coincise con quello in cui Cristoforo Colombo scopriva l’America, aprendo nuovi scenari allora di impensabile estensione alla storia dell’umanità ( La voce dei documenti, p. 7). Due anni più tardi il re di Francia Carlo VIII percorreva con il suo esercito l’Italia, dando inizio al tramonto dell’indipendenza dei piccoli Stati italiani, soggetti alla supremazia delle grandi potenze europee, Francia e Spagna in primo luogo.

Caratteri del potere signorile

La cultura come strumento di potere

La riduzione delle libertà politiche

Viene fondata l’Accademia Platonica di Firenze (1459)

Il signore si circonda di consiglieri, di persone a lui fedeli e da lui scelte, e di funzionari devoti, obbedienti in tutto e per tutto alla sua volontà; decide la politica interna ed estera, controlla la vita economica e culturale, amministra la giustizia. Attorno a lui si crea una corte, di cui fanno parte non solo il personale amministrativo, ma anche intellettuali e artisti. Il signore ama infatti proteggere la cultura e le arti, per ricavarne prestigio presso gli altri Stati, ma anche per assicurarsi il consenso interno. È questo il fenomeno del mecenatismo, uno dei più tipici della società e della cultura del Rinascimento. Grazie ad esso le Signorie divengono splendidi centri di cultura, in cui si coltivano la letteratura, la filosofia, le scienze, le arti. I signori, imitati dalle famiglie più ricche, investono somme enormi per costruire palazzi e ville, per ornarli con affreschi e statue, o per far decorare cappelle a loro intitolate nelle chiese. Di qui trae alimento la prodigiosa fioritura artistica del Quattrocento, che sperimenta linguaggi artistici nuovi e rivoluzionari. A questo splendore intellettuale fa riscontro però uno spegnersi della dialettica politica e della vita civile che caratterizzava l’età comunale. Non si assiste più a una contrapposizione di tendenze e partiti e viene meno la partecipazione dei cittadini alla conduzione del potere. Il cittadino si trasforma in suddito: non è più soggetto autonomo di scelte e decisioni, ma si uniforma alla volontà di uno solo.

Piero della Francesca scrive in latino il trattato La prospettiva nella pittura (1474 ca.)

La Primavera di Botticelli (1478)

Il Cristo morto di Andrea La nascita di Venere di Botticelli (1483-85) Mantegna (1480 ca.) Leonardo da Vinci compie i primi studi sul volo strumentale (1482)

Agnolo Poliziano (1454-94) Giovanni Pico della Mirandola (1463-94)

Leon Battista Alberti (1404-72 )

Luigi Pulci (1432-84)

Età dEL XV SEC.

Estrazione intensiva dell’argento in Europa centrale e orientale (1460)

Jacopo Sannazaro (1457-30)

1492 La famiglia fiorentina dei Pazzi cerca con una congiura di rovesciare la Signoria medicea (1478)

Lorenzo de’ Medici diventa signore di Firenze (1469) Il Rossellino progetta la città di Pienza secondo i criteri dell’arte umanistica (1459)

Lorenzo de’ Medici (1449-92)

Marsilio Ficino (1433-99)

Cristoforo Colombo scopre il continente americano. Muore Lorenzo de’ Medici (1492)

Fabbricazione di strumenti di precisione a Norimberga (1470)

5

L’età umanistica

La formazione degli Stati regionali Egemonia e scontri

La pace di Lodi

Un’altra caratteristica saliente dell’organizzazione politica di questa età è la tendenza delle Signorie più potenti all’espansione territoriale a spese delle città vicine. Si viene così a creare un sistema di Stati di dimensioni regionali; i più potenti e vasti sono Milano, Venezia e Firenze, ma anche gli Estensi di Ferrara e i Montefeltro di Urbino riescono a estendere il loro dominio sui territori circostanti. Anche lo Stato pontificio assume l’aspetto di un principato, che differisce ben poco dagli altri negli stili di vita e nelle strategie politiche. Pertanto, tra tutti questi Stati, nella prima metà del secolo, scoppiano guerre continue e feroci. Con la pace di Lodi del 1454 ha inizio invece un lungo periodo di tranquillità, che dura per mezzo secolo, sino al 1494 ( L’Italia politica in età umanistica). Si stabilisce così tra gli Stati italiani un delicato equilibrio, favorito e garantito dall’abilità politica di Lorenzo de’ Medici. La pace e la stabilità consentono uno sviluppo economico notevole e una grande fioritura artistica, ma impediscono il formarsi di un’unità statale in Italia (o per lo meno di uno Stato abbastanza esteso e forte), e ciò costituisce un pericoloso fattore di debolezza nei confronti degli altri Paesi europei, come la Francia, la Spagna o l’Impero germanico, in cui si sono formate forti compagini statali.

Economia e società Il ritorno alla terra

Rispetto agli ultimi decenni del Trecento, segnati da una forte crisi economica e da un sensibile calo demografico, nel corso del Quattrocento si ha una netta seppur graduale ripresa. Sembra però allentarsi lo spirito di intraprendenza che aveva caratterizzato la società urbana nei due secoli precedenti e molte famiglie di antica tradizione mercantile preferiscono investire i loro capitali nell’acquisto di proprietà terriere, perché l’agricoltura presenta meno rischi del commercio.

L’Italia politica in età umanistica Marchesato di Mantova Ducato di Savoia Marchesato del Monferrato

Ducato di Milano

Repubblica di Venezia Ducato di Ferrara

Marchesato di Saluzzo

Repubblica di Genova Repubblica Repubblica di Firenze di Lucca Stato Repubblica della di Massa Chiesa Ducato di Repubblica Piombino di Genova Repubblica di Siena

Regno di Napoli (Aragonesi)

Sardegna (Aragonesi)

MAR MEDITERRANEO

Sicilia (Aragonesi)

6

La carta mostra l’assetto geopolitico dell’Italia definito con la pace di Lodi, nel 1454, che rimarrà sostanzialmente invariato fino agli ultimi anni del secolo. Nel Nord e CentroNord perdura una situazione di estrema frammentazione politica; l’istituzione repubblicana resiste nell’area toscana e nelle antiche città marinare di Genova e Venezia, mentre la maggior parte dei Comuni si sono evoluti in Signorie e Principati. Il Centro e il Sud continuano a essere divisi in due grandi compagini politiche, rispettivamente sotto il controllo della Chiesa (che non riesce tuttavia a ostacolare la formazione di Signorie locali sostanzialmente autonome) e della dinastia aragonese (succeduta a quella angioina nel Regno di Napoli).

Il contesto · Società e cultura trasformazioni della grande borghesia

Estraneità delle masse ai mutamenti culturali

La grande borghesia cittadina tende sempre più ad assimilarsi all’aristocrazia di antica tradizione, non solo negli stili di vita, ma ormai anche nella base del potere economico, che è prevalentemente la rendita terriera. Possiede notevoli ricchezze, che può spendere in generi di lusso (stoffe preziose, gemme, spezie, profumi orientali), nella costruzione di splendidi palazzi e ville, nella committenza di opere d’arte. Si diffonde altresì, nei ceti privilegiati, uno stile di vita improntato all’edonismo, alla ricerca cioè del piacere, del godimento squisito, del lusso esteriore. Questi modi di vita si riflettono nelle nuove concezioni umanistiche ( La visione antropocentrica, p. 16), che propongono un’esaltazione laica dei valori della vita terrena. Quanto più aumenta lo splendore di vita di questa élite, tanto più peggiorano le condizioni dei contadini e il divario tra le classi sociali si accentua. Per questo motivo i grandi mutamenti culturali che caratterizzano questa età restano limitati a una ristretta cerchia di privilegiati (gli intellettuali, i signori mecenati, i gentiluomini di corte, le famiglie nobili, la ricca borghesia) e nulla di essi trapela negli strati inferiori della società.

La voce dei documenti | AUTORE: Cristoforo Colombo | OPERA: Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel Sánchez

La scoperta del Nuovo Mondo Questa lettera fu terminata il 4 marzo a lisbona, dove cristoforo colombo era sbarcato dopo la scoperta dell’america. Fu inviata a luís de Santángel, cancelliere del re di Spagna, l’amico che aveva anticipato i denari per il finanziamento del viaggio, e al tesoriere di corte gabriel Sánchez, che ne inviò copia al fratello Juan, residente allora a Firenze; di qui la sua diffusione in Italia.

Io riuscivo a capire, parlando con altri Indiani che avevo catturati, che questa terra era un’unica isola: e così ne seguii la costa verso oriente per cento e sette leghe1, fin dove essa terminava. Da quella estremità vidi un’altra isola ad oriente, distante da questa diciotto leghe, alla quale posi poi nome «la Spagnola»2, e lì mi diressi, e ne seguii la parte setten5 trionale, come per la Giovanna3, procedendo verso oriente per centottantotto grandi leghe4 in linea retta: questa e tutte le altre isole sono fertilissime in sommo grado, ma questa lo è in modo particolare. Essa offre molti porti sulla costa del mare, senza paragone migliori di quanti ne conosca in paesi cristiani, e parecchi fiumi buoni e grandi, che è una meraviglia. Le sue terre sono elevate, e mostra molte catene di montagne con cime altis10 sime, senza confronto con quelle dell’isola di Teneriffa5: e tutte bellissime, di mille forme, e tutte accessibili e piene di alberi di mille specie, e di tale altezza che sembrano toccare il cielo; e mi è stato detto che non perdono mai le foglie, e ben lo posso comprendere, poiché li ho visti tanto verdi e belli come sono di maggio in Ispagna, e alcuni erano in fiore, altri col frutto, altri in un’altra fase, secondo la specie; e gli usignoli e mille altri

1. leghe: unità di misura variabile. È qui sinonimo di grandi leghe (cfr. nota 4), corrispondenti a circa 6 km. 2. «la Spagnola»: «la Haitì (“montuosa”) degli indigeni, nome che finì per prevalere su quello di Española (“piccola Spagna”) imposto da Colombo, che aveva ravvisato nella nuova terra paesaggio, clima e vegetazione che ricordavano quelli della Spagna in ottobre» (Firpo). 3. Giovanna: l’attuale Cuba, «ricevette il nome dell’erede al trono, Giovanni, principe delle Asturie, ch’era destinato a

morire prematuramente per una caduta da cavallo il 4 ottobre 1497» (Firpo). 4. grandi leghe: le 188 leghe corrispondono a circa 1113 km. In realtà il percorso effettivo non dovette superare i 600 km» (Firpo). 5. Teneriffa: «in verità la più alta vetta di Haiti (Loma Tina) misura m 3140, mentre il cratere del Pico de Teyde a Teneriffa raggiunge m 3716» (Firpo).

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15 uccelletti diversi cantavano nel mese di novembre, quando io mi trovavo laggiù. Ci sono

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palme di sei od otto specie, che è una meraviglia vederle per la loro splendida varietà, e lo stesso vale per gli altri alberi, frutti ed erbe. Ci sono pinete stupende e campagne vastissime, e c’è miele, e molte qualità di uccelli, e frutta affatto diverse. Nell’interno ci sono molte miniere di metalli e abitanti in numero ragguardevole. La Spagnola è una meraviglia: le catene, i monti, le pianure e le campagne hanno terreno ottimo e grasso per piantagioni e semine, per allevare bestiame d’ogni sorta, per costruire città e villaggi. I porti sul mare sono d’una bellezza incredibile per chi non li ha visti; i fiumi, frequenti ed ampi, hanno acque salubri e quasi tutti trascinano oro6. Alberi, frutti ed erbe sono molto differenti da quelli della Giovanna; in questa ci sono spezie in abbondanza e grandi miniere d’oro e di altri metalli. Gli abitanti di quest’isola e di tutte le altre che ho scoperto o di cui ho avuto notizia vanno tutti nudi, uomini e donne, così come le loro madri li mettono al mondo, anche se alcune donne si coprono una sola parte del corpo con una foglia o una pezzuola di cotone che preparano a tale scopo. Non hanno ferro, né acciaio, né armi, e non vi sono tagliati, non già perché non siano gente robusta o di bella statura, ma per il fatto che sono incredibilmente paurosi. Non hanno altre armi fuor di quelle che si fabbricano con canne ormai secche dopo essere andate in semenza7, sulla cui estremità conficcano un bastoncino aguzzo. E non osano servirsene, ché molte volte mi è accaduto d’inviare a terra due o tre uomini in qualche villaggio per trarre informazioni e di scorgerne un numero sterminato uscire loro incontro: ma, non appena li vedevano arrivare, fuggivano come impazziti8, e questo non perché si fosse fatto del male a persona; anzi, in ogni luogo dove sono stato e dove ho potuto scambiar parola, ho dato loro tutto quanto avevo, come stoffa e molti altri oggetti, senza ricevere in cambio cosa alcuna; ma sono proprio così paurosi senza rimedio. La verità è che, dopo che si sono rassicurati e hanno deposto questo timore, sono tanto privi di malizia e tanto liberali9 di quanto posseggono, che non lo può credere chi non l’ha visto. Qualunque sia la cosa in loro mano che venga ad essi richiesta, non dicono mai di no; anzi, invogliano le persone a chiederla e si mostrano tanto amorevoli, che darebbero il cuore stesso e, si tratti di cosa di valore, oppure di poco prezzo, la cedono in cambio di un oggettino qualsiasi e se ne tengono paghi. Io vietai che si dessero loro cose tanto vili come cocci di scodelle e frammenti di vetri rotti e pezzetti di nastro, sebbene, quando essi potevano giungere a tanto, sembrasse loro di possedere la più splendida gemma del mondo. È accaduto che un marinaio in cambio d’un nastro ricevette oro per il peso di due castigliani10 e mezzo, e altri ottennero molto di più per oggetti che valevano anche meno; per delle «bianche» fresche di conio davano poi tutto ciò che avevano, fosse pure dell’oro per un valore di due o tre castigliani o un’arroba11 o due di cotone filato. Prendevano persino i pezzi degli archi rotti e dei barili e davano quello che avevano, senza discernimento, come bestie: tanto che mi parve male, e lo proibii, e io stesso donavo loro mille oggetti graziosi e utili che avevo portato con me, perché si affezionino, e di conseguenza si facciano cristiani, e siano inclini alla devozione e al servizio delle Loro Altezze12 e di tutta la nazione castigliana, e procurino di raccogliere e consegnarci i prodotti di cui abbondano e che ci sono necessari.

6. oro: «il 9 gennaio aveva battezzato “Rio de Oro” un corso d’acqua che sboccava a levante di Monte Christi; ma le pagliuzze scorte fra le sabbie erano in quantità irrilevante» (Firpo). 7. dopo … semenza: dopo aver fatto il seme. 8. come impazziti: «letteralmente: senza che padre avesse riguardo a figlio» (Firpo). 9. liberali: generosi.

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10. castigliani: moneta d’oro, del peso di circa cinque grammi. Le bianche sono monete di scarsissimo valore, «che venivano argentate per renderle più accette» (Firpo). 11. arroba: «misura spagnuola di peso, pari a kg 11,502» (Firpo). 12. Loro Altezze: Ferdinando II d’Aragona (1452-1516) e Isabella di Castiglia e León (1451-1504).

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Essi non professavano credenza né idolatria di sorta: tutti però stimano che la potenza e il bene stiano nel cielo, e credevano fermamente che io, con queste navi e questa gente, fossi venuto dal cielo, e con tale convinzione mi ricevevano dovunque, dopo essersi scrollata di dosso la paura. E ciò non accade perché siano ignoranti, ché, anzi, sono di ingegno molto sottile, e navigatori esperti di tutti quei mari, tanto che fa meraviglia come sanno render conto di tutto, ma perché non avevano mai visto gente vestita, né navigli simili ai nostri. […] In tutte queste isole sembra che tutti gli uomini si accontentino di una sola donna, ma al loro capo o re ne concedono fino a venti. Le donne mi pare che lavorino più degli uomini. Non ho potuto accertare se posseggono beni personali, ma mi sembrò di capire che ogni cosa fosse comune, specialmente in fatto di cibarie. In queste isole finora non ho trovato uomini mostruosi, come molti pensavano […]. In conclusione, per tener conto soltanto di ciò che si è fatto in questo viaggio, che s’è svolto così di corsa, le Loro Altezze possono vedere che io darò loro tutto l’oro di cui avranno bisogno, purché mi concedano un minimo di aiuto13; e, subito, spezierie e cotone quanto le Loro Altezze comanderanno, e mastice14 quanto ordineranno di caricarne, e di qualità che finora non si è trovata se non in Grecia, nell’isola di Chio, e la Signoria15 lo vende al prezzo che vuole, e legno d’aloe16 quanto ordineranno di caricarne, e schiavi quanti vorranno che se ne imbarchi, e questi saranno scelti tra gli idolatri; e credo di aver trovato rabarbaro17 e cannella, e troverò mille altre merci pregiate grazie alle ricerche della gente che ho lasciato laggiù, perché non mi sono trattenuto in nessun luogo, quando il vento mi dava la possibilità di navigare, tranne che al villaggio di Natale, dove sostai il tempo necessario per lasciare le cose sicure e bene ordinate. E, a dire il vero, avrei fatto molto di più, se i navigli mi avessero servito come ragione richiedeva18. C. Colombo, A. Vespucci, G. da Verazzano, Prime relazioni di navigatori italiani sulla scoperta dell’America, trad. it. di L. Firpo, utet, Torino 1965

13. minimo di aiuto: «Colombo sperava che l’interno di Haiti celasse miniere d’oro, ma prevedeva la necessità di ricerche e scavi faticosi» (Firpo). 14. mastice: la resina, ricavata dall’albero del lentisco. 15. la Signoria: la Signoria di Genova, perché «dal 1346 al 1566 l’isola fu in potestà di una corporazione di armatori genovesi. In gioventù Colombo aveva navigato sino a Chio» (Firpo). 16. legno d’aloe: legno odoroso, ricavato da una pianta detta “aquilaria”, che si usava per fare cofanetti e cassetti. 17. rabarbaro: pianta erbacea, da cui si estrae un succo

medicinale e digestivo (la cannella è una corteccia aromatica, usata come spezia). 18. se i navigli … richiedeva: «accenno fatto con mano leggera alla trascuraggine colpevole di chi aveva fatto naufragare la S. Maria e all’insubordinazione di Martin Alonso Pinzón, capitano della Pinta, che aveva disertato con la nave il 21 novembre per correre da solo alla ricerca dell’oro; costui era rientrato in squadra di mala voglia soltanto il 6 gennaio, e il 13 febbraio s’era nuovamente perduto nella tempesta, tanto che l’Ammiraglio, mentre scriveva questa lettera, non sapeva più nulla di lui e della sua nave» (Firpo).

Guida alla lettura Un descrizione “letteraria” del Nuovo Mondo La lettera costituisce la prima testimonianza

scritta della scoperta del Nuovo Mondo e, in quanto tale, presenta un valore storico di assoluto rilievo, anche se non mancano particolari suggestioni di tipo letterario. Cristoforo Colombo è immediatamente colpito dalla bellezza e dalla vastità del paesaggio, che lo inducono a usare un’aggettivazione iperbolica, basata soprattutto sui superlativi (dalle “cime altissime” alle “campagne vastissime”). Questa descrizione non ha nulla a che vedere con quella tradizionale del locus amoenus, del luogo idillico concepito come convenzionale raffigurazione di elementi stilizzati (si veda l’Arcadia del Sannazaro, cap. 4, T6, p. 118); qui la descrizione si riferisce a una precisa realtà, che tuttavia, nel momento in cui si definisce come scrittura, appare riconducibile

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a schemi particolari. Viene in mente il mito dell’Eden, del paradiso terrestre, di una natura incontaminata e felice, dove le varietà della fauna e della flora presentano aspetti multiformi, e la “meraviglia” dovuta alla grandiosità degli spettacoli naturali è alimentata dall’idea di una natura eternamente verde e rigogliosa. Ma si può aggiungere che il mito cristiano del paradiso terrestre si accompagna con quello pagano dell’‘età dell’oro’, secondo cui la natura forniva spontaneamente agli uomini tutti i mezzi per il loro sostentamento. La prospettiva dell’uomo europeo A questa prospettiva mitica si sovrappone però il punto di vista dell’uomo europeo, affascinato non solo dalla “bellezza” del paesaggio, ma attratto dalla possibilità di sfruttare le risorse sul piano economico. I due punti di vista si fondono in un’unica immagine, come aspetti complementari di un unico discorso. La piacevolezza dei luoghi non è disgiunta dalla loro fertilità (le isole sono tutte “fertilissime in sommo grado” e “le campagne hanno terreno ottimo e grasso”); le coste offrono porti comodi e sicuri; i fiumi trasportano oro, che si trova anche, con altri metalli, nelle viscere della terra. Proprio il motivo dell’oro permette di esemplificare simbolicamente (e concretamente) il passaggio dalla dimensione mitico-naturale a quella storico-economica, risultando uno dei moventi fondamentali della sete di ricchezze dei conquistadores (alla fine della lettera, infatti, Colombo dichiarerà alle “Loro Altezze” di poter fornire “tutto l’oro di cui avranno bisogno”, con altri prodotti rari e pregiati). Uno sguardo antropologico Ma l’attenzione riguarda anche la dimensione umana e antropologica, il rapporto stabilito con gli indigeni. Viene sottolineata subito la diversità estrema rispetto ai costumi sconosciuti e, in particolare, quella più immediatamente percepibile, che riguarda l’assenza di vestiti. Altre osservazioni si riferiscono alla mancanza di armi e all’indole pacifica, addirittura timorosa, degli abitanti, che diventano implicite indicazioni sulla facilità estrema di una loro sottomissione. L’immagine del “buon selvaggio” viene così recuperata in una prospettiva di maggiore vicinanza. Se i costumi sono molto diversi, non c’è tuttavia una totale incompatibilità: gli indigeni sono «liberali», «amorevoli», «privi di malizia»; non sono idolatri, ma credono a una divinità che sta in cielo e, addirittura (come si dice nelle righe qui omesse), «mostrano molta propensione» per la «nostra santa fede»; praticano – a eccezione dei capi – la monogamia. Di qui la possibilità di convertirli e di assimilarli, assoggettandoli alle abitudini e alle leggi dei conquistatori (tanto più se si pensa che Cristoforo Colombo appare, ai loro occhi, come una vera e propria divinità). La strumentalità di questo atteggiamento tocca direttamente il movente economico, con una ambiguità che, mentre predica il rispetto nei loro confronti, ammette la violenza della coercizione e persino la schiavitù (subordinandola, si noti, al rifiuto della conversione). Cristoforo Colombo, arrivato nel Nuovo Mondo, è accolto dagli indigeni, XVI secolo, incisione a colori dalla Scoperta dell’America di Theodor de Bry.

Facciamo il punto 1. Come cambia l’assetto politico in Italia nel corso del Quattrocento? Quali forme di governo si affermano? 2. Quali cambiamenti si verificano nel corso del secolo in campo economico e sociale? 3. In che cosa consiste il fenomeno del mecenatismo?

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Il contesto · Società e cultura

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Centri di produzione e di diffusione della cultura Firenze comunale

La cancelleria della Repubblica fiorentina

Poiché nei primi decenni del secolo Firenze conserva ancora istituzioni repubblicane, in essa sopravvivono forme di produzione della cultura che prolungano quelle dell’età comunale. Il centro più importante è la cancelleria della Repubblica, dove si scrivono le lettere ufficiali e si tengono i rapporti diplomatici. La sua direzione viene affidata agli intellettuali più prestigiosi, quelli che vanno elaborando la fisionomia della nuova cultura umanistica: il primo è Coluccio Salutati (1331-1406); dopo di lui assumono la cancelleria Leonardo Bruni (1370 ca.-1444) e Poggio Bracciolini (1380-1459). Essi considerano l’attività culturale come impegno nella dialettica politica della città e il loro ruolo all’interno della vita pubblica rimane del tutto simile a quello dell’intellettuale-cittadino di età comunale.

La corte

I valori della civiltà di corte

Il circuito produzione-fruizione

La funzione degli scrittori e degli artisti

Nel resto d’Italia invece, e a Firenze stessa più tardi con l’affermarsi della Signoria medicea, il centro per eccellenza di elaborazione della cultura è la corte. I principi sono spesso colti, o comunque amanti della letteratura e delle arti, e per questo si circondano di scrittori, pittori, architetti, musicisti, filosofi. Nel Quattrocento nasce una vera civiltà di corte, fondata sul culto della raffinatezza, dell’armonia, dell’eleganza e della misura, che trae ispirazione anche dalla contemporanea riscoperta del mondo classico. Sono questi i princìpi che ispirano gli intellettuali, i quali, con le loro opere, hanno il compito di elaborare e celebrare gli ideali dell’élite colta che si raccoglie nella corte. Talora è il principe stesso a richiedere la composizione di opere letterarie che esaltino la magnificenza del suo casato o le sue imprese diplomatiche e militari. L’intellettuale è costretto a elogiare il suo signore e a consacrarne la fama attraverso le opere poetiche per ottenere in cambio protezione e mantenimento economico. La corte è quindi un luogo dove si produce cultura, e al tempo stesso si consuma, dal momento che il pubblico a cui lo scrittore si rivolge è composto soprattutto dai cortigiani. È un luogo chiuso, che, proprio in nome degli ideali di estrema e aristocratica raffinatezza di cui si nutre, tende a isolarsi dalla realtà circostante, a disprezzare il mondo esterno, le sue attività, i princìpi che lo regolano. L’elaborazione ideologica dei letterati tende a trasformarla in una società perfetta, secondo quella tendenza all’idealizzazione che è propria del classicismo del tempo ( L’Umanesimo “cortigiano”, p. 19). Oltre ad avere il compito di elaborare i valori costitutivi dell’ambiente di corte e di celebrarne la magnificenza, lo scrittore e l’artista sono tenuti a intrattenere e divertire il loro pubblico: le opere dei poeti vengono lette pubblicamente, per allietare gli ozi della corte; gli artisti decorano saloni e cappelle con affreschi e statue, progettano palazzi, ville, giardini; sono molto richiesti anche gli spettacoli teatrali, il cui allestimento è spesso curato dai letterati, che elaborano i testi e la messa in scena, e dagli artisti, che si occupano delle scenografie.

Aspetti positivi e negativi della civiltà di corte

Separatezza dell’intellettuale

Da tutto ciò si può capire come la corte quattrocentesca sia un ambiente culturalmente molto vivo e ricco di stimoli, che renderà possibile la straordinaria fioritura letteraria del secondo Quattrocento e del Cinquecento, il periodo forse più splendido della nostra letteratura. E tuttavia, nell’organizzazione cortigiana della cultura sono impliciti notevoli rischi: innanzitutto la separatezza dell’intellettuale e il suo distacco dalla realtà, che nascono da una concezione aristocratica ed elitaria della cultura e dalla chiusura del circuito produzione-fruizione; in secondo luogo l’atteggiamento di servilismo e adulazione determinato dal legame di stretta dipendenza degli artisti e dei letterati rispetto al principe. 11

L’età umanistica

Entrambi questi fattori possono impedire una partecipazione viva ai problemi, alle aspirazioni, alle passioni del proprio tempo. Ne possono scaturire sterilità creativa, ripetizione stanca di formule e schemi, puro formalismo decorativo; ne può derivare, cioè, una letteratura priva di nutrimenti vitali, arida e vuota. Questi pericoli, presenti potenzialmente nella vita cortigiana in quanto tale, diverranno reali più avanti, in concomitanza con la crisi politica delle corti italiane nel corso del Cinquecento.

L’accademia

Il dialogo culturale

Un’istituzione nuova, tipica del Quattrocento, e nata in stretta interdipendenza con la corte, è l’accademia. Questo termine deriva dalla scuola filosofica creata nel IV secolo a.C. da Platone, il quale aveva fondato il suo metodo di ricerca sul dialogo. I nuovi intellettuali umanisti elaborano una concezione “dialogica” della cultura, ritengono cioè che essa sia il prodotto di un continuo scambio di idee, di un confronto, della discussione. Le accademie umanistiche sono dunque cenacoli dove i dotti si incontrano amichevolmente per conversare, discutere, scambiarsi conoscenze, facendo vita comune. Le riunioni di questi gruppi di intellettuali avvenivano nei palazzi o nelle ville dei nobili mecenati, o addirittura presso le corti stesse, sotto il patrocinio del signore: così è il caso dell’Accademia Platonica di Firenze, che godeva della protezione di Lorenzo de’ Medici in persona; così pure è il caso dell’Accademia Pontaniana di Napoli, che aveva la protezione del re Alfonso d’Aragona.

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Le istituzioni culturali del Quattrocento CANCELLEriA dELLA rEPUbbLiCA di FirENzE

Si occupa della stesura di lettere ufficiali e dei rapporti diplomatici: è un centro culturale strettamente collegato con la vita civile e politica

CorTE

Insieme di intellettuali (artisti, scrittori, musicisti, filosofi), funzionari e dignitari che si raccolgono intorno a un signore, dal quale traggono sostentamento e ricevono protezione. È nello stesso tempo un luogo di produzione e di fruizione culturale, poiché i cortigiani rappresentano il pubblico cui sono destinate le opere artistiche e letterarie

ACCAdEMiA

iSTiTUzioNi SCoLASTiChE

Le università continuano a rivestire un ruolo molto importante per la formazione culturale e professionale. Accanto ad esse nascono tuttavia scuole “umanistiche”, ispirate a nuovi princìpi pedagogici, che vedono l’allievo come soggetto attivo nel processo educativo e che mirano ad una formazione più completa e armonica dell’individuo

boTTEghE di ArTiSTi E di STAMPATori

Le botteghe di artisti acquistano un prestigio di cui non avevano mai goduto in precedenza, grazie alla maggiore considerazione culturale riservata alla loro attività. Nell’ambito letterario, le botteghe degli stampatori, che incominciano a diffondersi con l’invenzione della stampa, sono anche un luogo d’incontro e di scambio culturale tra intellettuali

bibLioTEChE

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Cenacolo, spesso formatosi sotto il patrocinio di un signore, dove gli intellettuali si incontrano liberamente per confrontarsi, discutere, scambiarsi idee

Ricevono un impulso dall’invenzione della stampa; non sono solo luoghi di conservazione, ma anche di circolazione (seppur limitata a pochi dotti) dei testi

Il contesto · Società e cultura

L’università e le scuole umanistiche

Le scuole umanistiche

Sopravvivono naturalmente in questa età le università, che continuano a formare i rappresentanti delle diverse professioni, ma esse sono spesso in contrasto con i nuovi indirizzi della cultura umanistica, conservando, contro il dominante idealismo platonico ( L’Umanesimo “cortigiano”, p. 19), un indirizzo naturalistico e razionalistico di ascendenza aristotelica. La cultura umanistica ha come fondamento l’idea di una formazione armonica dell’uomo: perciò l’insegnamento in quest’età assume un ruolo fondamentale, e molti umanisti sono essenzialmente degli insegnanti. Nascono così scuole ispirate ai nuovi princìpi pedagogici, in cui si guarda al discente non come “contenitore” di una somma di nozioni da apprendere a memoria (come esigeva lo schema educativo medievale), ma come soggetto attivo di un processo di formazione che deve sviluppare armonicamente tutte le facoltà della persona, non solo quelle intellettive, ma anche quelle morali, emotive e fisiche, attraverso processi di socializzazione con i compagni e il maestro, attraverso lo studio delle discipline “umanistiche” ma anche attraverso l’attività fisica ( Gli studia humanitatis e la pedagogia umanistica, p. 18). Celebri maestri furono Guarino Veronese (1374-1460) a Ferrara e Vittorino da Feltre (1373 o 1378-1446) a Mantova.

Le botteghe e le biblioteche Il prestigio sociale degli artisti

Centri di cultura tipici di questa età sono anche le botteghe artistiche dei pittori e degli scultori: essi possiedono una buona cultura umanistica e sono esperti di scienze matematiche e geometriche ( La rappresentazione prospettica dello spazio), perciò non sono più considerati semplici rappresentanti di “arti meccaniche”, lavoratori manuali alla stregua degli artigiani, ma godono di grande prestigio e considerazione presso la corte.

La rappresentazione prospettica dello spazio

Filippo Lippi, Il Convito di Erode, 1452-65, affresco dalle Storie di San Giovanni Battista, part., Prato, Duomo.

Nel Quattrocento, agli artisti fu richiesto un bagaglio sempre più ampio di conoscenze teoriche, sia scientifiche che letterarie. Per le prime, basti pensare alle regole della prospettiva lineare, il rivoluzionario sistema geometrico-matematico inventato dall’architetto e scultore fiorentino Filippo Brunelleschi nei primi decenni del secolo per rendere sulle superfici piane la tridimensionalità del mondo reale. In questo sistema tutte le linee di contorno degli oggetti rappresentati convergono verso un punto situato all’orizzonte. In tal modo viene creato uno spazio unitario e coerente, come quello del Convito di Erode del pittore fiorentino Filippo Lippi, dove sono definite in modo rigoroso la grandezza, la forma e la disposizione di tutto ciò che è presente.

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L’età umanistica La comparsa della stampa

La nascita delle biblioteche pubbliche

3 L’intellettualecittadino

L’intellettualecortigiano

Alla fine del Quattrocento, con la diffusione della stampa (inventata da Gutenberg in Germania a metà secolo), nasce ancora un altro centro, la bottega dello stampatore, che diviene luogo di incontro, discussione e scambio culturale tra letterati e filosofi. A Venezia si trova la bottega del più famoso stampatore del periodo, Aldo Manuzio, uomo colto, che fu anche animatore di una vera e propria accademia, l’Accademia Aldina. Tra i centri di cultura cominciano inoltre ad assumere peso le biblioteche. Esistevano già in precedenza grandi biblioteche di conventi e vescovadi o di signori o di grandi intellettuali, come Petrarca, ma erano istituzioni chiuse, inaccessibili al pubblico. Nel corso del Quattrocento iniziano invece a formarsi le prime biblioteche pubbliche, che non si limitano a conservare il libro, ma lo mettono a disposizione dei lettori. A Firenze, grazie al mecenatismo di Lorenzo de’ Medici, nasce la Biblioteca Laurenziana; a Roma Sisto IV apre la Biblioteca Vaticana, a Venezia sorge la Marciana.

Intellettuali e pubblico L’intellettuale laico Nell’ambito atipico della Firenze repubblicana sopravvive la figura dell’intellettuale comunale: il cittadino che non trae il suo sostentamento dalla professione intellettuale, ma da altre attività, e che partecipa alla vita politica del Comune, ricopre cariche pubbliche ed esprime in ciò che scrive i suoi ideali civili. Tali sono i rappresentanti del primo Umanesimo fiorentino, che si suole definire appunto “Umanesimo civile”: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini. Ma il tipo di intellettuale che diviene dominante è quello cortigiano, che si colloca cioè nell’ambiente della corte. Talora questo intellettuale può provenire da famiglia aristocratica o può addirittura essere il signore della città (come nel caso di Lorenzo de’ Medici), ma più spesso egli si trova alle dipendenze di un signore e ne riceve protezione e mantenimento in cambio dei suoi servizi. Alcuni intellettuali sono stipendiati esclusivamente per svolgere la loro attività di poeti e di studiosi, ad altri, invece, sono affidati incarichi diplomatici o politici; altri ancora sono segretari, bibliotecari o precettori dei figli del signore. La subordinazione al potere e la professionalità sono i due principali aspetti che differenziano questa figura da quella dell’intellettuale-cittadino: lo scrittore deve la sua posizione alla volontà del signore ed è uno specialista, che si dedica interamente all’attività intellettuale e trae sostentamento da questa sua professione. Il maggiore o minor grado di libertà d’espressione deriva dall’atteggiamento dei prìncipi: in questa età essi tendono a concedere grande autonomia ai letterati cortigiani, senza imporre vincoli ideologici troppo pesanti. La situazione cambierà nel Cinquecento, specie nella seconda metà del secolo, in età controriformistica.

i chierici

Autonomia dei letterati La mobilità degli intellettuali

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L’unica alternativa che si offre agli intellettuali che non vogliono entrare alle dipendenze dei principi è la condizione clericale, che offre notevoli vantaggi materiali. Vescovi e cardinali erano in realtà grandi signori, non dissimili da quelli laici, che conducevano vita splendida e raffinata; i papi stessi conducevano una vita fastosa ed erano amanti delle lettere e mecenati. Gli intellettuali alle loro dipendenze non erano obbligati a riempire le loro opere di contenuti strettamente religiosi e devozionali, ma potevano trattare argomenti profani, a volte perfino licenziosi. Una caratteristica tipica dei letterati di questo periodo è la loro estrema mobilità nello spazio. L’Italia, come già nei secoli precedenti, possiede una grande pluralità di

Il contesto · Società e cultura

centri culturali, ognuno dei quali, ha una sua fisionomia peculiare. Il continuo movimento degli intellettuali, che si spostano alla ricerca di sistemazioni più convenienti, favorisce da un lato la circolazione e lo scambio di idee tra i vari centri, dall’altro una sostanziale omogeneità culturale dell’Umanesimo italiano.

Un pubblico elitario Una drastica contrazione del pubblico

Le lingue letterarie

Si è detto che nel corso dell’età comunale i ceti emergenti si erano appropriati della cultura per favorire la loro affermazione sociale e politica, determinando una notevole espansione del pubblico. La concezione umanistica della cultura è invece strettamente elitaria: la produzione umanistica è a circuito chiuso, nel senso che gli intellettuali scrivono quasi esclusivamente per altri intellettuali. Si crea un distacco nettissimo tra la cultura “alta” e quella popolare, che si affida ancora all’oralità e resta limitata prevalentemente al campo religioso (prediche, sacre rappresentazioni). Il panorama comincia a cambiare con l’introduzione della stampa, che favorisce una maggiore alfabetizzazione e diffusione della cultura. Per quanto riguarda la scelta linguistica, in un primo momento si afferma il ritorno al latino come lingua letteraria di prestigio, mentre nella seconda metà del secolo si assiste ad una rivalutazione del volgare. Anche in questo caso si tratta comunque di una produzione raffinatissima, rivolta a un’élite colta dai gusti aristocratici, che usa una lingua modellata sul latino, ricca di riferimenti dotti ( Il contesto, La lingua: latino e volgare, p. 22).

Facciamo il punto 1. Quali sono i luoghi e gli ambienti di elaborazione culturale in età umanistica? 2. Quale figura di intellettuale risulta prevalente nella seconda metà del Quattrocento? 3. Quali cambiamenti si verificano nella composizione del pubblico in età umanistica?

4 La distanza dal Medioevo

Nascita di una nuova civiltà

Le idee e le visioni del mondo il mito della “rinascita” Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento si diffonde fra gli uomini di cultura italiani l’idea che i secoli precedenti fossero da considerare come un periodo di barbarie e di decadenza, che si era venuto a frapporre tra l’antichità e il presente, stravolgendo l’immagine dei classici e ostacolando l’accesso al loro messaggio. Nasce di conseguenza il mito di una “rinascita” della civiltà classica e si avverte il bisogno di far rivivere il mondo antico nella sua fisionomia autentica, liberandolo di tutte le deformazioni medievali. Il mito della rinascita ha influenzato tutta la storiografia successiva, sicché è divenuto corrente il termine di Rinascimento per indicare il periodo di storia della civiltà iniziato nel Quattrocento e che si estende al secolo successivo. Anche se per noi moderni risulta ormai chiaro che il Medioevo non fu un’epoca di barbarie e di rozzezza, ma al contrario un periodo di originale e altissima civiltà, tuttavia il concetto di “rinascita” conteneva in sé, sia pure nelle sue connotazioni mitiche, un’autentica verità: esprimeva la presa di coscienza di una diversità ormai irriducibile del presente rispetto alla civiltà medievale, la consapevolezza che era nata una civiltà nuova. 15

L’età umanistica

La visione antropocentrica L’uomo al centro della realtà

Religiosità, edonismo e naturalismo

Il Medioevo aveva una concezione del mondo di tipo teocentrico: Dio era posto al centro dell’universo come motore di tutta la realtà e autore della storia, che era vista come il prodotto di un suo disegno provvidenziale. Ora invece si afferma una visione antropocentrica (dal greco ánthropos, “uomo”), in cui l’uomo pone se stesso al centro della realtà, come protagonista e autore della propria storia. Ciò ha fondamentali riflessi sul modo di concepire l’uomo: se prima egli era visto come una creatura fragile, contaminata dal peccato originale, continuamente insidiata dalle tentazioni della carne, ora invece si afferma una visione ottimistica dell’uomo, che appare sicuro e ricco di forze, capace di contrastare i colpi della fortuna con la propria energia e la propria intelligenza, di costruirsi il proprio destino con una libera scelta. Per questo uno dei temi prediletti dalla cultura quattrocentesca è l’esaltazione della dignità dell’uomo. Non si scorge più opposizione tra facoltà spirituali e corpo, ma la possibilità di un armonico equilibrio, che esalta le capacità dell’uomo e permette una realizzazione più compiuta delle sue potenzialità; il corpo non è più condannato, ma celebrato nella sua bellezza. Questo rovesciamento della visione ascetica e l’affermazione di una concezione laica non implicano affatto il rifiuto della spiritualità cristiana; al contrario, questa è un’età profondamente religiosa, che mira al ritorno a una purezza originaria del messaggio evangelico, poiché si ritiene che il Medioevo l’abbia deformato e inaridito. Il fine ultraterreno della vita non viene negato, ma si rivendica il valore autonomo della realtà mondana: l’uomo si realizza anche nell’esistenza terrena prima che in quella celeste, nella vita sociale che egli costruisce collaborando con gli altri uomini, tra le ricchezze e le bellezze artistiche che crea con la sua intelligenza e la sua operosità. Ne scaturisce un atteggiamento che si può definire edonistico, teso cioè a ricercare il piacere senza sensi di colpa. Esso va unito al naturalismo, la tendenza a considerare la natura, e a goderla, in se stessa, senza riferimenti al suo significato metafisico (come esigeva la concezione simbolica medievale), e a non contrastare il libero espandersi delle forze naturali.

il rapporto con i classici e il principio di imitazione

Arte L’imitazione degli antichi nelle arti figurative

L’imitazione creativa

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Gli intellettuali del Quattrocento sono affascinati dal mondo classico, in cui ritrovano una visione della realtà affine alla propria, a cominciare proprio dal ruolo assegnato all’uomo e alla sua capacità di dominare la realtà esterna. Si rivolgono, pertanto, con entusiasmo ai testi antichi, per trovare uno strumento mediante il quale comprendere meglio se stessi e fissare un modello ideale da cui trarre uno stimolo. Si afferma così il principio di imitazione, che si sostituisce al principio d’autorità tipico della cultura medievale e diventa uno dei cardini fondamentali della visione della nuova civiltà: se gli antichi hanno raggiunto un livello insuperabile di perfezione, è necessario, per ottenere risultati validi, imitarli in ogni campo. E difatti, per tutto il Quattrocento e il Cinquecento, le manifestazioni della vita intellettuale e sociale recano i segni inconfondibili di questa imitazione: si riporta in vita la filosofia di Platone (V-IV secolo a.C.), si scrive come Cicerone (I secolo a.C.), si esaltano le forme della repubblica romana o del principato augusteo, si costruiscono edifici che riprendono gli stili antichi, si scolpiscono statue che sembrano uscite dallo scalpello di artisti greci. Poiché risulta chiara la consapevolezza del fatto che, al di là di ogni possibile affinità, il presente è pur sempre diverso dal passato, l’imitazione non può essere passiva, non può mirare a una meccanica riproduzione dei modelli: deve anzi essere attiva, dinamica, creativa. I classici sono modelli ideali a cui tendere, ma ciò che conta davvero è scoprire la propria genuina individualità e costruire un mondo spirituale e civile che risponda alle esigenze del presente.

Il contesto · Società e cultura

La riscoperta dei testi antichi e lo studio del greco

La riscoperta degli autori dimenticati

Lo studio della lingua greca

Nel Medioevo si era continuato a leggere i classici e ad ammirarli, ma non si sentiva il bisogno di spingere lo sguardo al di là di quel canone di autori che la tradizione delle scuole aveva fissato sin dalla tarda età imperiale. Di conseguenza molti autori, anche fondamentali, non venivano più letti, e i loro testi restavano dimenticati nelle biblioteche delle abbazie o dei vescovadi. A partire da Petrarca e Boccaccio si comincia ad avvertire la curiosità di conoscere anche quegli autori latini di cui si aveva notizia ma di cui non si leggevano più i testi, che si ritenevano ormai perduti. Comincia così un’intensa ricerca dei manoscritti antichi che giacevano ignorati nelle biblioteche di tutta Europa. Nell’arco di pochi decenni una serie di scoperte arricchirà così enormemente la conoscenza della letteratura latina. Inoltre nel mondo occidentale era venuta a mancare da molti secoli la conoscenza della cultura greca, che costituiva una parte essenziale della cultura classica. Anche in questo caso Petrarca e Boccaccio sono dei precursori poiché intraprendono per la prima volta lo studio della lingua greca e fanno di tutto per favorirne la diffusione. Ben presto la conoscenza del greco comincia a essere considerata parte integrante della formazione dell’uomo di cultura.

La scoperta della prospettiva storica

La coscienza umanistica del distacco dall’antichità

Oltre a questo allargamento quantitativo delle conoscenze, vi è poi una differenza qualitativa nel modo di accostarsi ai classici. Gli intellettuali medievali non avevano infatti piena coscienza delle differenze esistenti tra il passato e il presente, e tendevano a leggere i testi antichi secondo la propria mentalità, sovrapponendo le proprie concezioni etiche e religiose e il proprio metodo di interpretazione allegorica. Gli uomini di cultura del Quattrocento appaiono invece consapevoli del distacco che si era venuto a creare rispetto all’antichità, e proprio per questo sentono il bisogno di recuperarla correttamente nella sua essenza più autentica, liberandola dalle deformazioni che il Medioevo vi aveva sovrapposto. I testi del passato non sono più considerati come “autorità” che affermano una verità assoluta ed eterna, ma come la voce di uomini vissuti in un determinato momento della storia, che per essere compresa nel suo significato originario deve essere collocata esattamente nel suo tempo: nasce l’idea del carattere relativo dei prodotti della civiltà umana.

La filologia e la scienza umanistica

Il metodo filologico

L’esempio della “donazione di Costantino”

Con gli umanisti si afferma dunque una nuova scienza, la filologia, che studia i testi e li ricostruisce in modo critico per riportarli alle condizioni originali, poiché nelle varie redazioni manoscritte che erano pervenute dall’antichità attraverso il Medioevo si erano accumulati errori dei copisti, interpolazioni, lacune. Per correggerli e per ristabilire la lezione corretta, occorreva un accurato confronto tra le varie copie a disposizione, in base a criteri estremamente rigorosi di scelta tra le varianti. Questi criteri si basano su conoscenze di tipo linguistico e storico, poiché, per intendere fedelmente l’opera, occorreva conoscere in profondità non soltanto la lingua latina nel suo preciso uso antico, ma anche i fatti storici, i costumi, le istituzioni politiche, giuridiche e religiose. Un esempio potrà meglio chiarire i concetti esposti: tutta la civiltà medievale aveva creduto alla cosiddetta “donazione di Costantino”, un documento in cui l’imperatore lasciava Roma al papa, e da cui la Chiesa traeva legittimazione giuridica al suo potere temporale. Ma il filologo Lorenzo Valla (1405-57), invece di accettare l’universale convinzione, basandosi su una precisa analisi filologica della lingua del documento dimostrò che esso non poteva essere stato redatto nel IV secolo d.C., e che si trattava di un falso 17

L’età umanistica

Il metodo scientifico

medievale. Come si vede, il filologo mette la sua competenza tecnica e scientifica al servizio di una grande audacia intellettuale e di una grande indipendenza di pensiero, che osano sfidare la tradizione secolare e l’autorità della Chiesa pur di ristabilire una verità. Questa mentalità nuova non è limitata al campo filologico e letterario, ma si estende anche alla natura. Come sappiamo, la scienza medievale era basata non sull’osservazione dei fenomeni, ma sui libri e sulla tradizione; Leonardo da Vinci invece preferisce trarre le sue conclusioni dall’esperienza diretta. Comincia così a studiare direttamente l’anatomia del corpo umano, i fenomeni naturali, le leggi fisiche, cercando la spiegazione di ciò che vede non in princìpi sovrannaturali, ma nella matematica, perché per lui «nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche». Sono princìpi che saranno poi ripresi da Galileo e dalla scienza moderna.

gli studia humanitatis e la pedagogia umanistica

La centralità delle discipline letterarie

L’armonia tra spirito e corpo

Virtù ed educazione

Mentre per il Medioevo la conoscenza era finalizzata essenzialmente alla salvezza ultraterrena, nel Quattrocento la concezione della cultura e delle sue funzioni si laicizza: il suo scopo diviene la formazione dell’uomo. Le discipline letterarie (l’eloquenza, la filosofia, la filologia, la storia) acquistano una centralità assoluta e gli studi delle lettere classiche (definiti studia humanitatis, cioè “studi di umanità”) vengono ritenuti indispensabili per lo sviluppo armonioso delle facoltà e delle virtù di ciascun individuo. Proprio a causa del ruolo fondamentale esercitato dagli studia humanitatis, questo primo periodo del Rinascimento, coincidente all’incirca con il Quattrocento, viene chiamato Umanesimo, e “umanisti” gli intellettuali che ne sono esponenti. Secondo questa impostazione, alla formazione intellettuale si affianca quella fisica, attraverso l’esercizio del corpo e dall’unione di questi due aspetti deriva un ideale di uomo armonico in tutte le sue componenti, spirituali e fisiche, un uomo in cui alla bellezza e alla forza del carattere devono corrispondere la bellezza e la forza del corpo, rispettando l’ideale classico per cui la bellezza esteriore era considerata specchio della bellezza interiore. Anche l’indicazione delle virtù morali era di derivazione classica, ispirata soprattutto agli stoici e a Cicerone: a essere insegnati erano il senso della misura e del decoro, la giustizia, la forza d’animo, e la capacità di sopportare le avversità, il dominio razionale degli istinti, il rispetto per gli altri uomini. Nell’ambito educativo, queste virtù si esercitano soprattutto nella vita in comune, nei rapporti con gli altri fanciulli e col maestro: la struttura delle scuole umanistiche è infatti quella del collegio, in cui maestri e allievi vivono insieme (anche questo è un modello destinato a durare a lungo nei secoli successivi, e permane all’interno dell’organizzazione universitaria del mondo anglosassone, fondata sui colleges).

L’Umanesimo “civile”

L’esaltazione della vita attiva

La tradizione borghese dell’Umanesimo fiorentino

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La prima fase dell’Umanesimo si sviluppa a Firenze nella prima metà del Quattrocento e pone al centro della sua visione i legami tra la cultura e la vita civile: per questo motivo viene comunemente designata come Umanesimo “civile”. Nella concezione dei primi umanisti gli “studi di umanità” non hanno soltanto il fine di formare il singolo nella sua individualità, ma devono formare il cittadino, che partecipa attivamente alla vita politica della sua patria. L’uomo si può realizzare pienamente solo nella vita civile: perciò si esalta la vita attiva al di sopra di quella contemplativa e si concepisce la cultura essenzialmente come civile conversazione, dialogo di uomini con i loro simili, all’interno della comunità sociale. Gli esponenti più significativi dell’Umanesimo fiorentino (Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Leonardo Bruni) provengono dall’alta borghesia e partecipano alla vita politica ricoprendo importanti cariche pubbliche.

Il contesto · Società e cultura Il rovesciamento dei valori medievali

Essi rovesciano la scala di valori su cui si fondava la visione della vita economica nel Medioevo: l’ideale cristiano condannava infatti il desiderio di ricchezza ed esaltava la povertà evangelica, e anche gli ideali feudali e cortesi ritenevano spregevoli le attività intese al guadagno e celebravano come suprema virtù la liberalità, la generosità disinteressata. Al contrario, gli umanisti considerano il lavoro non come una condanna, ma come benedizione per l’uomo e ritengono che il desiderio di denaro sia naturale e legittimo e che la ricchezza sia il segno tangibile dell’approvazione di Dio. Un rovesciamento analogo si verifica nella concezione del matrimonio: l’ideale ascetico escludeva infatti per l’eroe cristiano, cioè il santo, la vita familiare, e perfino l’amor cortese escludeva il matrimonio come condizione desiderabile. Gli umanisti fiorentini ritengono invece che il primo nucleo della società sia la famiglia e che l’uomo si realizzi veramente solo nel matrimonio.

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La prima fase dell’Umanesimo Ambienti di elaborazione culturale: istituzioni cittadine (Firenze) Atteggiamento degli intellettuali: partecipazione attiva alla vita pubblica Finalità della cultura: formazione del cittadino UMANESiMo “CiViLE” (prima metà del Quattrocento)

Ruolo dei classici: esempio di virtù civili Valori e princìpi: - riflessione sulla politica e sulle istituzioni - scoperta della prospettiva storica - importanza della filologia Protagonisti: - Coluccio Salutati - Poggio Bracciolini

- rivalutazione dell’attività economica - esaltazione del matrimonio e della famiglia

- Leonardo Bruni - Lorenzo Valla

- Giannozzo Manetti

L’Umanesimo “cortigiano”

I mutamenti sociali e culturali

L’elaborazione di una nuova filosofia

Nel 1435 si instaura a Firenze la Signoria di Cosimo de’ Medici, che pone fine al sistema repubblicano e muta profondamente il quadro in cui operano gli intellettuali: nel contesto delle corti infatti è diversa la posizione sociale dell’umanista, che diviene prevalentemente un letterato di professione al servizio di un signore. Tutto ciò ha inevitabili riflessi sulla concezione della cultura e della realtà: il culto dei classici, ad esempio, perde il significato che possedeva nel primo Umanesimo e tende a divenire puro ideale letterario, imitazione esteriore di belle forme e di preziose soluzioni stilistiche. La perdita di contatto con la dimensione civile e la chiusura in ambienti raffinatamente intellettuali generano una tendenza ad anteporre alla vita attiva quella contemplativa, a rifuggire dalla realtà per vagheggiare un mondo ideale di bellezza e di armonia, in cui tutti i contrasti si compongano in un superiore equilibrio. Un modello per questa concezione della realtà viene trovato nella filosofia di Platone, che sostiene, al di là del mondo reale, l’esistenza di un mondo ideale, di forme perfette ed eterne. Il platonismo esercita un forte fascino sugli uomini del secondo Quattrocento e diviene la forma di pensiero dominante nella civiltà cortigiana. Il luogo in cui viene elaborata questa filosofia è l’Accademia platonica di Firenze, che sotto la 19

L’età umanistica

Testi Ficino • L’uomo è simile a Dio dalla Theologia platonica

protezione di Lorenzo de’ Medici vede la presenza di intellettuali come Giovanni Pico della Mirandola (1463-94) e Marsilio Ficino (1435-99), il quale provvede alla traduzione latina delle opere di Platone e tenta una conciliazione tra platonismo e cristianesimo (neoplatonismo).

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La seconda fase dell’Umanesimo Ambienti di elaborazione culturale: corti signorili, cenacoli, accademie Atteggiamento degli intellettuali: isolamento accademico Finalità della cultura: tensione verso un ideale di perfezione UMANESiMo “CorTigiANo” (seconda metà del Quattrocento)

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Ruolo dei classici: puro ideale letterario, repertorio di modelli da imitare Valori e princìpi: - riflessione metafisica e religiosa (neoplatonismo)

- funzione pedagogica della bellezza - l’uomo al centro dell’universo

Protagonisti: - Giovanni Pico della Mirandola - Marsilio Ficino

- Leonardo da Vinci - Leon Battista Alberti

Geografia della letteratura: i centri dell’Umanesimo Abbiamo visto come una caratteristica tipica dell’intellettuale del Quattrocento fosse la grande mobilità. Ciò faceva sì che gli scambi culturali fra i vari centri della penisola fossero molto intensi, e ne derivava una sostanziale omogeneità culturale fra di essi. Tuttavia è possibile cogliere caratteristiche peculiari, che individuano la fisionomia dei vari centri, pur nel comune denominatore della cultura umanistica.

L’area settentrionale Padova e Venezia

Milano

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Tralasciando il caso di Firenze, nel Nord d’Italia diventano centri umanistici di grande rilievo Padova e Venezia. Caratteristici dell’Umanesimo veneto sono gli interessi filologici e antiquari, il legame con l’oriente bizantino, che favoriva lo studio della lingua greca, e l’interesse pedagogico, segnato dalla presenza di Guarino Veronese, che tiene scuola a Padova e a Venezia, prima di passare a Ferrara. L’Umanesimo veneziano mostra stretti rapporti con la ricca fioritura artistica della città (Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio) e si segnala anche per l’attività editoriale: a Venezia ha la sua bottega, alla fine del secolo, il più grande stampatore italiano, Aldo Manuzio. Sotto il patrocinio prima dei Visconti e poi degli Sforza, si afferma a Milano un Umanesimo cortigiano caratterizzato dall’esaltazione dell’ambiente di corte in polemica con gli umanisti fiorentini, che celebravano invece la “libertà fiorentina”. A Milano

Il contesto · Società e cultura

Mantova

Ferrara

operarono grandi artisti come l’architetto Bramante e Leonardo da Vinci, che nel cenacolo di Santa Maria delle Grazie dipinse l’Ultima cena, ma fu autore anche di varie opere di ingegneria (fortificazioni militari e canalizzazioni per l’agricoltura). Sempre in area settentrionale, a Mantova, presso i Gonzaga, opera Vittorino da Feltre. In un periodo di rottura con i Medici vi soggiorna anche Poliziano, che scrive, per una festa nuziale, la Favola di Orfeo. Nel palazzo Ducale lascia stupendi affreschi Andrea Mantegna (la Camera degli sposi). Un altro centro importante è Ferrara, dove i duchi d’Este lasciano un’impronta profonda con il loro splendido mecenatismo. A Ferrara svolge la sua opera Guarino Veronese, alla cui scuola si riuniscono discepoli provenienti da diverse città. L’università è un centro di studi filosofici, scientifici, medici, astrologici, e viene frequentata anche dal polacco Nicolò Copernico, autore della teoria che sconvolge il secolare sistema tolemaico, proclamando che era la Terra a girare intorno al sole. Alla corte estense nasce la grande tradizione del poema cavalleresco rinascimentale, che sarà famoso in tutta Europa grazie all’opera di Boiardo e, nel secolo successivo, di Ariosto.

L’area centro-meridionale Roma

Napoli

Centro vivo di studi umanistici è anche Roma, specie per impulso dei papi Niccolò V e Pio II. Qui sorge l’Accademia romana, i cui membri coltivano soprattutto studi filologici e archeologici e mostrano un tale entusiasmo per l’antichità da spingersi ad assumere atteggiamenti paganeggianti, a usare pseudonimi in latino e a celebrare gli antichi riti romani; per questo motivo saranno in seguito sospettati di eresia, processati e torturati. Grazie al mecenatismo dei re aragonesi, anche Napoli diventa uno splendido centro di cultura umanistica, dove soggiornano a lungo Lorenzo Valla e Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471). Quest’ultimo, squisito poeta latino, fonda un’accademia, che dal suo nome è detta Antoniana. Più tardi invece sarà intitolata a un altro illustre letterato della corte, l’umbro Giovanni Pontano (1426-1503), e pertanto si chiamerà Pontaniana. Nella città partenopea è attivo, tra gli altri, Iacopo Sannazaro (1455-1530), che introduce il nuovo genere del romanzo pastorale con l’Arcadia, un’opera destinata ad avere immensa fortuna.

Andrea Mantegna, Oculo, 1467-74, affresco dal soffitto della Camera degli Sposi (Camera Picta), part., Mantova, Museo di Palazzo Ducale e Castello di San Giorgio.

Facciamo il punto 1. Quale atteggiamento mostrano gli umanisti nei confronti degli autori greci e latini? 2. Quali differenze si possono riscontrare tra la prima e la seconda fase dell’Umanesimo? 3. In quali città si trovano i principali centri di elaborazione della cultura?

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Il contesto

Storia della lingua e fenomeni letterari

1 Filo rosso Storia della lingua

Il ritorno al latino dei classici

L’uso del volgare nel primo Quattrocento

La lingua: latino e volgare La fase dell’Umanesimo in latino Il culto umanistico dei classici, la volontà di recuperare la fisionomia genuina dell’antichità e di riappropriarsi del suo insegnamento determinano nuovamente il predominio del latino come lingua letteraria, interrompendo quel processo di espansione del pubblico che aveva caratterizzato l’età comunale, durante la quale si era verificato un vero e proprio trionfo del volgare come lingua della cultura. I primi umanisti scrivono le loro opere esclusivamente in latino, ridando vita a generi classici come l’orazione, il dialogo, l’epistola, ma praticando anche generi poetici. Il latino che riprende il predominio non è più ovviamente quello medievale, che gli umanisti disprezzano come corrotto e barbaro, ma il latino classico nella sua purezza, quello usato dagli autori della tarda età repubblicana e dell’età augustea. In questo periodo il volgare resta relegato soprattutto a usi pratici: è impiegato, oltre che nella comunicazione quotidiana, nelle cancellerie, negli atti pubblici, nei tribunali. Le opere letterarie composte in volgare sono estranee all’ambiente umanistico e sono legate a radici popolari; si tratta perlopiù di prediche, laude, sacre rappresentazioni, vite di santi, libri di mercanti, lettere familiari, cantari cavallereschi.

La fase dell’Umanesimo in volgare Il volgare letterario del secondo Quattrocento

Il prestigio del fiorentino

La lingua letteraria nazionale

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Verso la metà del secolo si ha una nuova inversione di tendenza: il volgare comincia a riaffermarsi come lingua di cultura. La lingua usata dagli scrittori tende tuttavia a modellarsi sul latino dei classici: si riproduce l’ampio periodare ricco di subordinate, si introducono latinismi nel lessico, si riprendono figure retoriche, si inseriscono spesso vere e proprie citazioni testuali. Il volgare che viene adottato è sostanzialmente quello fiorentino, ormai consacrato come lingua letteraria dal prestigio dei tre grandi scrittori del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio), ma non è un modello rigidamente codificato e riprodotto da tutti con scrupolosa fedeltà: la letteratura volgare del Quattrocento è caratterizzata da una grande libertà e varietà linguistica, in parallelo con lo sperimentalismo delle forme e dei generi. Questa lingua unitaria adottata a livello nazionale è solo una lingua letteraria, impiegata da una ristretta minoranza colta, e solo per determinati usi culturali; una lingua d’uso comune, quotidiana, che sia omogenea in tutti i ceti sociali in tutti i centri della penisola non esiste ancora: le lingue veramente parlate sono i dialetti, che costituiscono un panorama infinitamente vario e frammentato. Si ha perciò una netta frattura tra la lingua letteraria, estremamente raffinata, che è impiegata da pochi e solo per usi particolari, e la lingua effettivamente parlata dalla maggioranza della popolazione.

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

Ciò determina da un lato il carattere estremamente aristocratico della letteratura italiana, che è separata dalla vita delle masse, e dall’altro l’estraneità totale di queste masse rispetto alla cultura di alto livello. È una situazione destinata a durare secoli e che non è del tutto scomparsa neppure oggi.

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Caratteristiche e generi della letteratura italiana in età umanistica il genere epistolare

divulgazione e discussione

Testi Poliziano • Imitazione e originalità

La riscoperta dei classici latini determina la ripresa di generi ampiamente praticati nell’antichità, come la lettera, che, già coltivata con particolare cura da Petrarca, perde adesso le sue caratteristiche private per diventare strumento di divulgazione e discussione dei problemi culturali. Si ricordano soprattutto le Lettere di Poggio Bracciolini, segretario apostolico presso la Curia papale, del quale si segnala in particolare quella in cui comunica il ritrovamento di alcuni classici come una sorta di loro “liberazione” dalla prigionia dei “barbari” del Medioevo ( La voce dei testi). Nella misura in cui la lettera svolge la funzione, per così dire, di un dialogo a distanza fra i dotti, la sua natura è affine a quella del trattato, sia pure su un piano di più occasionale immediatezza. Lo scambio di lettere intercorso fra Angelo Poliziano e Paolo Cortese (1465-1510) rappresenta invece un celebre esempio di discussione su argomenti di tipo letterario, in cui risulta di fondamentale importanza la polemica sul problema dell’imitazione. Per il Cortese, nell’imitare i classici occorre adottare un modello unico, il migliore; Poliziano sostiene invece che bisogna assimilare modelli diversi e scegliere il meglio di ognuno, per comporre qualcosa di originale.

La voce dei testi | AUTORE: Poggio Bracciolini | OPERA: Lettera a Guarino Guarini

La riscoperta dei classici In questa lettera del 15 dicembre 1416, indirizzata all’amico umanista guarino guarini (1374-1460), Poggio Bracciolini narra dell’avvenuto ritrovamento, nella biblioteca della celebre abbazia benedettina di San gallo, di importanti testi, fra cui l’Institutio oratoria di Quintiliano.

La natura, madre di tutte le cose, ha dato al genere umano intelletto e ragione, quali ottime guide a vivere bene e felicemente, e tali che nulla possa pensarsi di più egregio. Ma non so se non siano veramente eccellentissimi, fra tutti i beni che a noi ha concesso, la capacità e l’ordine del dire, senza cui la ragione stessa e l’intelletto nulla potrebbero valere. Infatti è 5 solo il discorso quello per cui perveniamo ad esprimere la virtù dell’animo, distinguendoci dagli altri animali. Bisogna quindi essere sommamente grati sia agli inventori delle altre arti liberali1, sia soprattutto a coloro che, con le loro ricerche e con la loro cura, ci tramandarono i precetti del dire e una norma per esprimerci con perfezione2. Fecero infatti in 1. arti liberali: costituivano i due indirizzi dell’insegnamento medievale, quello letterario e quello scientifico. Si dividevano in arti del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e arti del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia).

Ebbero origine a Roma negli ultimi anni del periodo repubblicano. 2. i precetti … perfezione: i princìpi e le regole della retorica, come arte perfetta del dire.

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L’età umanistica

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modo che, proprio in ciò in cui gli uomini sovrastano specialmente gli altri esseri animati, noi fossimo capaci di oltrepassare gli stessi limiti umani. E, molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi nell’arte di perfezionare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano3, il quale così chiaramente e compiutamente, con diligenza somma, espone le doti necessarie a formare un oratore perfetto, che non mi sembra gli manchi cosa alcuna, a mio giudizio, per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquenza. Se egli solo rimanesse, anche se mancasse il padre dell’eloquenza Cicerone4, raggiungeremmo una scienza perfetta nell’arte del dire. Ma egli presso di noi italiani era così lacerato, così mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si riconosceva più aspetto alcuno, abito alcuno d’uomo. Finora avevamo dinanzi un uomo «con la bocca crudelmente dilacerata, il volto e le mani devastati, le orecchie strappate, le nari sfregiate da orrende ferite»5. Era penoso, e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. Ché se Marco Tullio si rallegrava tanto per il ritorno di Marcello6 dall’esilio, e in un tempo in cui a Roma di Marcelli ce n’erano tanti, ugualmente egregi ed eccellenti in pace e in guerra, che devono fare i dotti, e soprattutto gli studiosi di eloquenza, ora che noi abbiamo richiamato, non dall’esilio, ma quasi dalla morte stessa, tanto era lacero e irriconoscibile, questo singolare ed unico splendore del nome romano, estinto il quale restava solo Cicerone? E infatti, per Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai necessariamente vicino al giorno della morte. Poiché non c’è dubbio che quell’uomo splendido, accurato, elegante, pieno di qualità, pieno di arguzia, non avrebbe più potuto sopportare quel turpe carcere, lo squallore del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido come solevano essere i condannati a morte, con la barba squallida e i capelli pieni di polvere7, sicché con l’aspetto medesimo e con l’abito mostrava di essere destinato a un’ingiusta condanna. Sembrava tendere le mani, implorare la fede dei Quiriti8, che lo proteggessero da un ingiusto giudizio; e indegnamente colui che una volta col suo soccorso, con la sua eloquenza, aveva salvato tanti, soffriva ora, senza trovar neppur un difensore che avesse pietà della sua sventura, che si adoperasse per la sua salvezza, che gli impedisse di venire trascinato a un ingiusto supplizio. Ma, come dice il nostro Terenzio9, quanto inopinatamente avvengono spesso le cose che non oseresti sperare! Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza10, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era tenuto recluso. V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo11, a circa venti miglia. Perciò mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella biblioteca, come richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed oscuro carcere, nel fondo di una 3. M. Fabio Quintiliano: famoso retore vissuto dal 35 al 95 d.C. Era nato in Spagna, ma visse a Roma, dove esercitò l’avvocatura e ricoprì la prima cattedra di eloquenza. È l’autore della Institutio oratoria (Istituzione oratoria), trattato retorico che ebbe grande importanza nell’antichità, ma che il Medioevo conobbe solo in maniera parziale e scorretta. 4. Cicerone: Marco Tullio Cicerone, il grande oratore, filosofo e letterato romano, vissuto nel I secolo a.C. Dopo aver esercitato un’influenza profonda nella storia della lingua e della cultura latina, venne considerato, nel periodo medievale e soprattutto in quello umanistico, il più insigne modello di stile. 5. «con la bocca … ferite»: Virgilio, Eneide, VI, vv. 496-498. 6. Marcello: console romano nel 51 a.C. Partigiano di Pom-

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peo, fu esiliato da Cesare ma, grazie alla difesa di Cicerone, poté tornare in patria. Morì nel 46 a.C. 7. con la barba … polvere: riprende liberamente Virgilio, Eneide, VI, v. 277. 8. Quiriti: gli antichi romani, nella loro qualità di cittadini. 9. Terenzio: Publio Terenzio Afro, il commediografo latino nato a Cartagine ma operante a Roma nel II secolo a.C. 10. Costanza: città del Baden, sul lago omonimo, dove si svolse il concilio cui Poggio partecipava. 11. S. Gallo: monastero fondato nel VII secolo da san Gallo, monaco irlandese discepolo di san Colombano. Fu ben presto un centro culturale di primo piano e sede di un’importante biblioteca, in cui vennero trascritti moltissimi testi antichi.

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

torre, in cui non si caccerebbero neppure dei condannati a morte. Ed io son certo che chi per amore dei padri andasse esplorando con cura gli ergastoli in cui questi grandi son chiusi, 50 troverebbe che una sorte uguale è capitata a molti dei quali ormai si dispera. Trovai inoltre i tre primi libri e metà del quarto delle Argonautiche di Caio Valerio Flacco12, ed i commenti a otto orazioni di Cicerone, di Quinto Asconio Pediano13, uomo eloquentissimo, opera ricordata dallo stesso Quintiliano. Questi libri ho copiato io stesso, ed anche in fretta, per mandarli a Leonardo Bruni14 e a Niccolò Niccoli15, che avendo saputo da me la 55 scoperta di questo tesoro, insistentemente mi sollecitarono per lettera a mandar loro al più presto Quintiliano. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, trad. it. di E. Garin, Ricciardi, Milano-Napoli 1952

12. Caio Valerio Flacco: scrittore latino del I secolo d.C., autore del poema epico-mitologico Argonautica, interrotto all’ottavo libro. 13. Asconio Pediano: grammatico latino del I secolo d.C., ha lasciato, come opera principale, proprio il commento alle orazioni ciceroniane rinvenuto da Poggio. 14. Leonardo Bruni: p. 27. 15. Niccolò Niccoli: nato a Firenze nel 1364 e morto nel

1437, fu uno dei giovani che si riunirono intorno a Coluccio Salutati ( p. 26) per promuovere la diffusione della cultura umanistica. Assiduo ricercatore di codici antichi e copista, lasciò, alla sua morte, una biblioteca di circa 8000 volumi, che formò il primo nucleo della Biblioteca Laurenziana. Una specie di guida alla ricerca dei codici, concepita come resoconto di un viaggio in Germania, è la sola opera da lui scritta.

Guida alla lettura Necessità di far rivivere gli antichi scrittori La lettera esprime compiutamente lo spirito che animava la ricerca dei testi antichi presso gli umanisti. Gli scrittori del passato sono visti come dei contemporanei, che occorre far rivivere sottraendoli all’oblio in cui per secoli sono caduti. Gli antichi per gli umanisti come Poggio sono infatti depositari di quella verità e bellezza ideali, tipiche del mondo classico, che si erano perdute nei secoli del Medioevo; sono i maestri a cui attingere il sapere e con i quali intessere un dialogo quotidiano. Di qui la polemica implicita nei confronti del presente, e in particolare di quella cultura religioso-monastica, di stampo medievale, che ha oramai esaurito la sua funzione: non a caso i monaci lasciano marcire tra la polvere, nel più desolato abbandono, queste preziose testimonianze, condannandole alla distruzione e alla morte. Processo di personificazione Il riferimento al «turpe carcere», allo «squallore del luogo» e alla «crudeltà dei custodi» – che allude a questa realtà – rientra in un processo di personificazione che trasforma il testo nella presenza viva e palpitante del suo autore. Il procedimento non ha più nulla a che vedere con l’allegoria medievale, che attribuiva al particolare significati universali; qui l’oggetto del discorso viene umanizzato, per restituirlo alla sua piena attualità, che fa dei «padri» i veri fratelli e compagni di strada, gli autentici scrittori della contemporaneità. Quello che potrebbe rimanere un rapporto eminentemente tecnico – fra il testo e lo studioso – diventa così elemento di vita, ansia gioiosa e commossa di un incontro personale, opera riverente e pietosa di soccorso. E proprio questo atteggiamento può dirci molto sul modo in cui gli umanisti vivevano e proponevano la loro riscoperta dell’antichità, strumento per capire e leggere il presente. importanza del discorso Ma anche altre indicazioni non vanno trascurate. Poggio insiste, all’inizio, sull’«intelletto» e sulla «ragione», che si fondano sulla parola e sulla nobile eleganza del discorso: il ritrovamento dell’opera di Quintiliano assume quindi un’importanza decisiva (quasi superiore a quella del massimo oratore latino, Cicerone), in quanto esalta, attraverso le regole della retorica, i valori civili e politici dell’Umanesimo. Socializzazione delle scoperte Alla fine dell’epistola Poggio comunica di aver copiato egli stesso, e «in fretta», il testo, per inviarlo agli amici più cari (che sono poi tra i maggiori umanisti del tempo); è la conferma del carattere non individuale della ricerca umanistica, che deve essere socializzata e diffusa il più ampiamente possibile negli ambienti intellettuali.

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L’età umanistica

La trattatistica

Il trattato filosofico-morale

Il trattato politico

Testi Salutati

• L’elogio della libertà fiorentina

dall’Invectiva in Luschum

La trattatistica sulle arti

La trattatistica in volgare

Autori europei

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Il trattato, che si ispira ai grandi modelli classici (da Platone a Cicerone), rappresenta insieme al dialogo il mezzo più adatto per trasmettere i contenuti dell’intenso dibattito ideologico attraverso cui si esprime la nuova visione della realtà proposta dall’Umanesimo. Di fondamentale importanza sono i trattati di argomento filosofico-morale, in cui, alla visione ascetica dell’età medievale, si contrappone una nuova rivalutazione dell’individuo, del corpo umano e dei beni mondani. È la linea che, inaugurata da Giannozzo Manetti, si arricchirà di elementi neoplatonici nelle opere di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. Al tema della fortuna – considerata non più come soggetta alla provvidenza divina, ma come campo di forze imprevedibili – sono dedicati: De fato, fortuna et casu (“Il fato, la fortuna e il caso”, 1396-99) di Coluccio Salutati, cancelliere del Comune fiorentino, precursore e autorevole esponente dell’Umanesimo civile; De varietate fortunae (“La varietà della fortuna”, 1431) di Poggio Bracciolini; De fortuna (“La fortuna”, 1460 ca.) di Giovanni Pontano, attivo presso la corte napoletana e autore anche di eleganti versi latini. A Firenze la trattatistica politica si propone di salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia del Comune repubblicano, contro l’affermarsi delle Signorie. Una vibrante celebrazione della “libertà fiorentina” si trova nella Invectiva in Luschum (“Invettiva contro il Loschi”), in cui Coluccio Salutati confuta le accuse contenute nella Invectiva in Florentinos (“Invettiva contro i fiorentini”, 1397) di Antonio Loschi (1368-1441), che era al servizio della Signoria milanese dei Visconti. L’esaltazione della “libertà fiorentina” viene ripresa da Leonardo Bruni, anch’egli cancelliere della Repubblica di Firenze e prestigioso esponente dell’Umanesimo civile, nella Laudatio florentinae urbis (“Lode della città di Firenze”, 1403-04). La tesi sarà ripetuta da Alamanno Rinuccini (1426-99) nel Dialogus de libertate (“Dialogo sulla libertà”, 1479), ma in un clima del tutto mutato, come nostalgia per un’istituzione ormai soffocata dalla politica autoritaria dei Medici. Di segno opposto, la trattatistica di ambiente cortigiano mira invece a delineare la figura del principe ideale, esaltandone non le virtù cristiane, ma quelle laiche della liberalità, del mecenatismo, della giustizia, che vengono sublimate in senso neoplatonico. A questa tendenza appartengono De optimo cive (“L’ottimo cittadino”) del Platina (Bartolomeo Sacchi, 1421-81), che è dedicato a Cosimo de’ Medici, rielaborato poi come De principe (“Il principe”, 1471) e dedicato a Francesco Gonzaga, e De principe (1468) di Giovanni Pontano, dedicato ad Alfonso, figlio di Ferdinando d’Aragona. La straordinaria fioritura delle arti nel Quattrocento vede coinvolti artisti che sono al tempo stesso letterati e teorici: Piero della Francesca scrive ad esempio De prospectiva pingendi (“La prospettiva nella pittura”), mentre Leon Battista Alberti compone in latino De statua (“La scultura”) e De re aedificatoria (“L’architettura”, 1452), in volgare Della pittura (1435-36). Uomo “completo” nell’accezione umanistico-rinascimentale del termine (fu architetto, teorico, letterato), l’Alberti ci ha lasciato il più importante trattato in volgare del Quattrocento, i tre Libri della famiglia (1434-41), in cui si trattano temi come il matrimonio, l’educazione dei figli, la “masserizia”, ossia l’oculata amministrazione del patrimonio, mentre il conflitto tra la fortuna e la virtù è risolto nel nome di un equilibrio fatto di operosità e saggezza. Al genere del trattato appartengono ancora due opere fondamentali scritte in latino che risalgono ai primi anni del Cinquecento e rappresentano una testimonianza della diffusione europea dell’Umanesimo: si tratta dell’Elogio della follia (1511) dell’olandese Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536), che, auspicando una riforma della Chie-

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

sa nel nome dei princìpi evangelici, smaschera le finzioni e le ipocrisie della vita sociale, e dell’Utopia (1516) dell’inglese Thomas More (Tommaso Moro, 1478-1535) che delinea l’immagine della repubblica ideale, democratica e tollerante, libera dalla corruzione e dalle ingiustizie.

La storiografia e la memorialistica Impregnata di interessi politici è anche la storiografia umanistica, che non vede più la storia come disegno della provvidenza divina, ma come opera dell’uomo, dei suoi interessi e delle sue passioni; i modelli sono gli storici latini (Sallustio, Livio, Tacito). Animate da un’intensa partecipazione storica sono opere come gli Historiarum florentini populi libri XII (“Storia del popolo fiorentino”) di Leonardo Bruni, che va dalle origini al 1404, e la Historia florentina di Poggio Bracciolini, in otto libri, che dal 1350 giunge alla pace di Lodi del 1454. Un genere affine alla trattatistica politica e alla storiografia è la memorialistica. I Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt (“Diario dei fatti memorabili che avvennero nei suoi tempi”, 1462) di Enea Silvio Piccolomini, squisito umanista e papa dal 1485 col nome di Pio II, sono scritti in terza persona, sul modello dei Commentarii di Giulio Cesare; vi si alternano memorie autobiografiche, commenti alle vicende politiche del tempo, descrizioni di popoli e Paesi conosciuti nei viaggi per l’Europa.

il dibattito sulla lingua e sulla letteratura

Le opere di argomento filologico

La riflessione sulla letteratura, fondamentale in un periodo in cui gli studi classici sono al centro della nuova idea della cultura e dell’uomo, registra la divaricazione in atto fra il latino e il volgare. Nei suoi Dialogi ad Petrum Histrum (“Dialoghi a Pietro Istriano”, 1401-06) Leonardo Bruni difende il volgare dal disprezzo della maggior parte degli umanisti, a conferma del fatto che a Firenze non era venuto meno il legame con la tradizione culturale del Comune. La validità del volgare accanto alle lingue classiche è ribadita nella Vita di Petrarca e nella Vita di Dante (1436), in cui si esalta la grandezza della poesia dantesca. Per contro Lorenzo Valla, nelle Elegantiarum linguae latinae libri VI (“L’eleganza”, 1435-44), analizza le caratteristiche morfologiche e stilistiche del latino classico, contrapponendolo alla forma ritenuta “imbarbarita” del latino medievale. Ma l’opera in cui la competenza filologica di Valla ha raggiunto un’importanza storica fondamentale è la De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (“Discorso sulla falsa donazione di Costantino ingiustamente considerata vera”, 1440), in cui, dimostrando che la lingua usata e i costumi tratteggiati non potevano appartenere all’età dell’imperatore Costantino, rivelava in maniera inoppugnabile la falsità di quella “donazione” su cui si era fondato il potere temporale dei papi.

La novella Il modello di Boccaccio

Più eterogenee appaiono le soluzioni della narrativa in prosa. Agli anni fra il 1430 e il 1440 risale Il paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato (1367 ca.1445), che riprende la struttura decameroniana della “cornice”. Privo di “cornice” è invece il Novellino di Masuccio Salernitano, attivo alla corte napoletana. Ognuna delle 50 novelle che compongono l’opera è seguita da un commento ideologico-morale e preceduta da una lettera dedicatoria rivolta a illustri personaggi. L’ispirazione di Masuccio si traduce soprattutto nella satira violenta contro la corruzione ecclesiastica e la perfidia delle donne; lo stile è esasperato e trionfa il gusto per le tinte cupe, fosche e per i dettagli violenti. 27

L’età umanistica

Alcuni dei risultati più significativi sono stati raggiunti da novelle singole: in latino, ad esempio, l’Historia de duobus amantibus (“Storia di due amanti”) di Enea Silvio Piccolomini, che riprende il motivo boccacciano del tradimento coniugale e del marito beffato; in volgare la Novella del Grasso legnaiuolo, giuntaci in tre redazioni (la più ampia è attribuita ad Antonio Manetti), nella quale il protagonista, il Grasso, è vittima di una beffa che lo porta a dubitare della sua stessa identità. Di tradizione popolare e comunale è il gusto della facezia, in cui la brevissima narrazione si concentra attorno al motto tagliente e alla battuta di spirito. Ma la mediazione colta, anche in questo caso, è evidente nel Liber facetiarum (“Libro delle facezie”) messo insieme fra il 1438 e il 1452 da Poggio Bracciolini, che, oltre a scrivere in latino, si richiama a Cicerone, per il quale, nella conversazione con gli amici, l’«uomo faceto» mira al «ristoro dalle fatiche e dagli affanni».

il romanzo allegorico Unico nel suo genere risulta il “romanzo” in prosa di fine Quattrocento che porta il titolo di Hypnerotomachia Polyphili (“La battaglia d’amore combattuta in sogno da Polifilo”) ed è stato attribuito a un non meglio identificato Francesco Colonna. Il protagonista Polifilo (“colui che ama molte cose”) si perde in sogno in una selva e con la donna amata visita il palazzo di Venere, in un susseguirsi di descrizioni, tra il reale e il fantastico, di gusto erudito e antiquario. L’opera contiene uno strano miscuglio di elementi arcaici e moderni, risultando, al tempo stesso, un romanzo allegorico e la misteriosa storia di un’iniziazione. L’oscurità dei significati si riflette nella sintassi contorta e complessa, ma soprattutto nello strano impasto linguistico, costituito da un volgare padano illustre su cui si innestano numerosi latinismi.

La poesia lirica Lirica in latino

Lirica in volgare

L’uso del latino si ritrova anche nella poesia lirica, ad esempio nei versi musicalmente eleganti e raffinati di Giovanni Pontano: gli Amorum libri (“Gli amori”) e gli Hendecasyllaborum libri (“Gli endecasillabi”), la cui vena sensuale risente dell’influsso dei poeti latini Catullo, Tibullo e Ovidio; le elegie De amore coniugali (“L’amore coniugale”) e i Tumuli (“Le tombe”), in cui domina la delicatezza del sentimento familiare. La ripresa della poesia in volgare avviene ad opera di poeti cortigiani come Antonio Tebaldi di Ferrara detto il Tebaldeo (1463-1537), Serafino Ciminelli detto Aquilano (1466-1500), che fu al servizio degli Sforza e dei Gonzaga, il catalano Benedetto Gareth detto il Cariteo, attivo alla corte napoletana. Si avverte già, in questi poeti, l’imitazione del Petrarca, che verrà codificata nel secolo successivo; ma le soluzioni restano ancora piuttosto incerte e provvisorie. Più vicino all’essenziale e armonico monolinguismo del modello petrarchesco è il canzoniere di Iacopo Sannazaro, anche se i risultati più originali sono raggiunti da Matteo Maria Boiardo negli Amorum libri (“Gli amori”), con la loro fresca ed esuberante vitalità ( cap. 2, T1, p. 48).

i “canti carnascialeschi” e la poesia parodica La fama poetica di Lorenzo de’ Medici è collegata, più che alle Rime, ai suoi Canti carnascialeschi e soprattutto ad una delle ballate in essi contenuta, il Trionfo di Bacco e Arianna ( cap. 2, T2, p. 51), dove si trova quell’invito a godere della giovinezza e dei piaceri che ritorna anche nelle canzoni a ballo di Poliziano ( cap. 2, T3, p. 56). In composizioni come queste, che sono opera di autori estremamente colti e raffinati, compare quell’elemento “popolare” e irriverente che caratterizza la letteratura cosiddetta carnevalesca, ossia scritta in occasione delle feste del carnevale. 28

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

A questa tradizione parodica e burlesca si collega la Nencia da Barberino – sempre di Lorenzo de’ Medici –, che demistifica l’immagine convenzionale e idealizzata della donna insieme con il motivo della dichiarazione amorosa. Un caso limite è rappresentato da Domenico di Giovanni, detto il Burchiello (1404 ca.49), autore di sonetti bizzarri in cui l’accumulo delle parole risulta privo di senso ( cap. 2, T5, p. 64). La sua maniera di comporre, detta “alla burchia”, e perfino il suo soprannome derivano dalla parola con la quale si indicava un tipo di imbarcazione in cui si gettavano le merci alla rinfusa.

il poemetto mitologico ed encomiastico Accanto alla poesia lirica esiste anche una poesia che assume forme descrittive o narrative, ad esempio nei poemetti mitologici o idilliaci che riprendono tematiche ampiamente diffuse nella letteratura classica. Così, oltre alla Nencia (ma si ricordino anche I beoni, galleria di grotteschi ritratti dei più famosi bevitori della Firenze del tempo), Lorenzo de’ Medici scrive anche il poemetto mitologico Ambra, storia dell’omonima ninfa trasformata in sasso, e il Corinto, poemetto pastorale che aggiorna i modelli della poesia bucolica greca e latina. È la conferma che, alla corte medicea, la ripresa del classicismo, che diventerà dominante nel secolo successivo, coesiste con il recupero di una tradizione municipale ricca anche di elementi folklorici e burleschi. Al genere encomiastico appartengono piuttosto le Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici (1475-78) di Angelo Poliziano, in cui si intrecciano il motivo mitologico e quello della natura idillica, pervasa di edonismo voluttuoso e di malinconia per la fugacità della bellezza.

il poema epico-cavalleresco La materia epico-cavalleresca, ancora ampiamente circolante a livello popolare nei cantari, viene di nuovo ripresa da scrittori colti e raffinati, che la rielaborano in forme assai complesse e articolate, dando vita ad ampi poemi.

Piero di Cosimo, La scoperta del miele da parte di Bacco, 1499 ca., pittura su tavola, Worcester (Massachusetts, USA), Worcester Art Museum.

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L’età umanistica

Luigi Pulci con il suo Morgante ( cap. 3, p. 69), si richiama al “basso” burlesco della tradizione realistico-borghese, e predilige il gusto carnevalesco per la deformazione caricaturale e grottesca, per l’irrisione e la dissacrazione. Nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo ( cap. 3, p. 80), al contrario, si percepisce la nostalgia per il mondo dei valori cavallereschi e cortesi e si assiste al tentativo più che mai serio di farli rivivere nella civiltà delle corti del proprio tempo secondo un ideale rinnovato alla luce della concezione umanistica. Spetterà all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, nel primo Cinquecento, operare la sintesi più grandiosa fra questi due diversi atteggiamenti, esaltando l’attualità della materia nel distacco ironico e nella perfezione formale della pura invenzione fantastica.

il genere bucolico: l’Arcadia All’ambiente napoletano appartiene Iacopo Sannazaro, che tra il 1480 e il 1485 scrisse l’Arcadia, un prosimetro composto da dodici prose e altrettante egloghe. Nelle prime prose prevale un andamento lirico-descrittivo; in quella iniziale, in particolare, è rappresentato l’ambiente dell’Arcadia, regione della Grecia dove si immagina che i pastori conducano una vita serena e felice. In seguito, prefigurando l’andamento di un romanzo autobiografico, emerge in primo piano la vicenda del narratore, Sincero, che ha abbandonato la città per cercare sollievo dalle pene amorose e dagli affanni cittadini. In questo mondo pastorale, che risale ai modelli già indicati dell’antichità e che avrà anche in seguito grande fortuna, si proietta evidentemente il desiderio di una vita naturale e spontanea, come ansia di liberazione e di fuga dagli intrighi e dai bisogni artificiali della vita delle corti. Anche stilisticamente l’opera si ispira alla raffinatezza formale dei modelli antichi, ponendosi come esempio squisito del nuovo gusto classicheggiante.

La letteratura drammatica Le sacre rappresentazioni

La favola pastorale

La commedia

Infine, per quanto riguarda la letteratura drammatica, prosegue nel Quattrocento la fortuna delle sacre rappresentazioni, spettacoli all’aperto in cui, sulla fondamentale ispirazione religiosa, si innestano nuovi spunti di tipo più laico e comico. Ricordiamo la Rappresentazione di Abramo e Isacco e la Rappresentazione dell’Annunciazione di Feo Belcari (1410-84), la Rappresentazione di Barlaam e Giosafat di Bernardo Pulci, fratello di Luigi, la Rappresentazione di san Giovanni e san Paolo di Lorenzo de’ Medici. Destinata alla corte è invece la raffinata Favola di Orfeo scritta intorno al 1479, per i Gonzaga di Mantova, da Poliziano, che per primo sostituisce i personaggi del mito classico a quelli della tradizione religiosa. Seguendo il suo esempio Niccolò da Correggio allestisce la Fabula di Cefalo, rappresentata nel 1487 a Ferrara, dove fu messo in scena anche il Timone di Boiardo. In latino Enea Silvio Piccolomini scrisse la commedia Chrysis (1444), ma in generale venivano ancora rappresentate le opere latine di Terenzio e soprattutto di Plauto. E proprio l’influsso plautino risulterà fondamentale per la rinascita della commedia in volgare, ai primi del Cinquecento, per opera di Ludovico Ariosto.

Facciamo il punto 1. Quali caratteristiche presenta il latino utilizzato dai primi umanisti? 2. Quale ruolo assume il volgare nella produzione letteraria a partire dalla seconda metà del Quattrocento? 3. Quali sono i generi di maggior successo nella prosa e nella poesia di età umanistica?

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Ripasso visivo

L’ETà UMANiSTiCA (1400-1492)

PoLiTiCA, ECoNoMiA E SoCiETà

• affermazione delle Signorie e dei Principati • formazione degli Stati regionali: - ducati di

- repubbliche di

• conversione dei ceti mercantili alla rendita immobiliare

• aumento del divario economico tra le classi sociali • perdita della libertà politica

Milano Ferrara Urbino Firenze Venezia

CULTUrA E MENTALiTà

• visione antropocentrica del mondo • creazione del mito della “rinascita” • culto della civiltà classica:

• concezione elitaria della cultura • affermazione della figura dell’intellettuale cortigiano:

- principio di imitazione - senso della storia: l’antichità è presa a modello, ma con la coscienza della distanza storica • fenomeno del mecenatismo • straordinaria fioritura letteraria e artistica • atteggiamento edonistico

• cenacoli • accademie • corti signorili

- subordinazione al potere - professionalizzazione del ruolo intellettuale

• formazione di

nuovi luoghi di elaborazione culturale

• omogeneità culturale tra i vari centri di produzione

• scuole umanistiche • botteghe artistiche • stamperie

• Firenze • Padova • Venezia • Milano

• Mantova • Ferrara • roma • Napoli

LiNgUA E LETTErATUrA

• recupero del latino classico come lingua della cultura alta • proposta del volgare fiorentino trecentesco come lingua letteraria nazionale • ripresa di generi letterari classici e affermazione di nuove forme ProSA LATiNA • epistole • dialoghi • trattati

PoESiA iN VoLgArE • lirica • burlesca • mitologica • encomiastica TEATro iN VoLgArE • sacra rappresentazione • favola pastorale

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L’età umanistica

In sintesi

L’ETà UMANiSTiCA (1400-1492) Verifica interattiva

LE STrUTTUrE PoLiTiChE, ECoNoMiChE E SoCiALi NELL’iTALiA dEL QUATTroCENTo l’alto livello di conflittualità interna che caratterizza i comuni italiani già a partire dalla fine del duecento determina la comparsa e il consolidamento di forme di potere monarchico che si concentrano nelle mani di alcune famiglie potenti. Presso le corti di queste Signorie o Principati si verifica una splendida fioritura letteraria e artistica perché per i membri dell’aristocrazia diventa segno di distinzione e prestigio la possibilità di offrire aiuto e protezione ai più grandi poeti e artisti (fenomeno del mecenatismo). alcune Signorie riescono a imporre il loro dominio sul territorio circostante e si vengono a creare dei veri e propri Stati regionali. I più vasti e potenti sono i ducati di Milano, Ferrara e urbino, la repubblica di Venezia e quella di Firenze. le famiglie dell’alta borghesia mercantile convertono i loro interessi nell’acquisto di proprietà terriere e danno luogo a un processo di rifeudalizzazione dei rapporti sociali.

CENTri di ProdUzioNE E di diFFUSioNE dELLA CULTUrA la corte è il luogo privilegiato in cui si produce e si consuma la cultura. Se da un lato l’ambiente cortigiano ha reso possibile una stagione artistica impareggiabile, dall’altro però ha determinato un cambiamento notevole nell’atteggiamento degli intellettuali, che elaborano una concezione della cultura sempre più aristocratica ed elitaria e si legano in modo ambiguo alla protezione dei signori. altri ambienti che favoriscono l’incontro e la discussione tra persone di cultura sono i cenacoli e le accademie, che si riuniscono in modo informale presso i palazzi o le ville dei nobili mecenati; le università e le scuole umanistiche, nelle quali si elaborano i nuovi sistemi filosofici e si applicano princìpi pedagogici diversi dal passato; le botteghe degli artisti e degli stampatori. I centri culturali più importanti in cui si diffondono i valori e i princìpi dell’umanesimo sono Firenze, Padova, Venezia, Milano, Mantova, Ferrara, roma e Napoli.

LE idEE E LE ViSioNi dEL MoNdo la mentalità del Quattrocento si basa essenzialmente sulla visione antropocentrica del mondo, che pone l’uomo come centro dell’universo e protagonista assoluto della storia. la spiritualità cristiana non viene rinnegata, ma si rivendica il valore autonomo della realtà mondana e si esaltano la libertà di scelta e la dignità intellettuale dell’uomo. Sorge pertanto il mito della “rinascita”, perché si afferma la convinzione che le radici di questa nuova concezione dell’uomo e della realtà fossero già presenti in modo compiuto nella civiltà classica greca e latina, deformata e

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trascurata durante quelli che gli umanisti considerano i secoli bui del Medioevo. gli intellettuali si rivolgono con entusiasmo ai testi antichi per riportarli alla loro integrità originaria e per trovare nuovi modelli da imitare, consapevoli della distanza temporale che li divide dalla cultura classica e delle numerose differenze che contraddistinguono la loro epoca (la cosiddetta prospettiva storica). Il termine “umanesimo” deriva proprio dagli studia humanitatis (ossia “studi di umanità”), con cui si faceva riferimento all’interesse per le discipline letterarie e per gli autori classici.

UMANESiMo “CiViLE” E “CorTigiANo” la prima fase dell’umanesimo si sviluppa nella Firenze repubblicana della prima metà del Quattrocento e si definisce “civile” in quanto è caratterizzata soprattutto dalla profonda riflessione sulla politica, sulle istituzioni pubbliche e sul ruolo dell’uomo all’interno della società. In seguito, l’affermarsi di nuove forme di governo signorile e l’allontanamento degli intellettuali dalla gestione delle cariche pubbliche determinano un cambiamento radicale negli interessi culturali, che saranno perlopiù rivolti alla speculazione filosofica e al vagheggiamento del mito della bellezza, dell’armonia e della perfezione.

LE SCELTE LiNgUiSTiChE dEgLi UMANiSTi E i gENEri Più diFFUSi I primi umanisti compongono le loro opere esclusivamente in latino, promuovendo un ritorno alla lingua codificata dagli autori della tarda età repubblicana e dell’età augustea (I secolo a.c.-I secolo d.c.). Il volgare rimane relegato alla comunicazione quotidiana e a un uso non letterario almeno fino alla metà del Quattrocento, quando alcuni importanti autori propongono un modello linguistico basato sul fiorentino trecentesco (quello di dante, Petrarca e Boccaccio) e sul latino classico. alla fine del secolo il volgare si è ormai affermato come la lingua letteraria per eccellenza. la quasi totalità delle opere scritte in prosa è composta in latino e i generi che hanno maggior diffusione in epoca umanistica sono: le epistole, i dialoghi, i trattati (che in rari casi possono essere scritti anche in volgare), le opere storiografiche e memorialistiche. al contrario, la maggior parte della produzione poetica è caratterizzata da opere scritte in volgare e le forme letterarie più usate sono la lirica, la poesia parodica e burlesca, quella mitologica ed encomiastica, il poema cavalleresco e la poesia bucolica. anche il teatro sceglie come lingua d’adozione il volgare e i generi di maggior successo sono la sacra rappresentazione (destinata al popolo riunito in piazza) e la favola pastorale (composta per il pubblico raffinato della corte).

Capitolo 1

L’Umanesimo latino

La dignità dell’uomo

L’uomo al centro dell’universo

Arte L’uomo misura della realtà

La natura divina dell’uomo

La consapevolezza storica

Se il trattato è il genere letterario che caratterizza la cultura dell’Umanesimo, ai trattati scritti in latino sembra spettare il compito di affrontare argomenti particolarmente impegnativi ed elevati, tipici della svolta che la letteratura umanistica ha rappresentato. Il problema della “dignità dell’uomo”, considerato soprattutto in quanto essere sociale, appare così come il fondamento della visione umanistica della realtà. Nel De dignitate et excellentia hominis (“Dignità e eccellenza dell’uomo”), Giannozzo Manetti ( A2, p. 39) muove dalla confutazione del De contemptu mundi (“Il disprezzo del mondo”) di Lotario De’ Segni, che della cultura medievale aveva rappresentato una delle linee significative, basata sul rifiuto dei beni terreni e su un’idea del tutto negativa della natura umana. Manetti sostiene invece che l’uomo è la più nobile delle creature perché sa produrre mirabili opere con la sua intelligenza e la sua operosità: “Nostre infatti, e cioè umane perché fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono, le case, i villaggi, le città […]. Sono nostre le pitture, le sculture, le arti e le scienze […]. Nostre sono tutte le invenzioni, quasi infinite; nostra opera tutti i generi delle varie lingue e delle varie lettere, i cui usi necessari quanto più profondamente andiamo ripensando, da tanto maggiore ammirazione e stupore siamo trascinati”. Se nel 1451 Giannozzo Manetti poneva la dignità dell’uomo soprattutto nella sua capacità di creare grandi opere nell’ambito della società civile, nel 1484 Giovanni Pico della Mirandola ( A3, p. 42), nel De hominis dignitate (“La dignità dell’uomo”) riprende il grande tema umanistico in una prospettiva diversa, di tipo metafisico: egli esalta l’uomo perché è il centro dell’universo, partecipe dell’eternità di Dio attraverso l’anima immortale e della materialità degli esseri bruti attraverso il corpo, ed è libero di plasmare il proprio carattere e la propria vita, sia degenerando verso gli esseri inferiori sia elevandosi all’altezza degli angeli (è la ripresa della concezione, già classica, dell’homo faber, dell’uomo artefice del proprio destino). Ma già poco prima, nell’affrontare lo stesso argomento, il filosofo neoplatonico Marsilio Ficino, una delle personalità più eminenti della cerchia di Lorenzo il Magnifico, aveva posto ancora più decisamente l’accento, nella sua Theologia platonica (1482), sulla natura divina dell’uomo. Si veniva approfondendo, in questo modo, una concezione dell’individuo strettamente legato alle condizioni della società e più intimamente partecipe dei processi della storia. Alla conoscenza del passato contribuiva anche la filologia, che, come scienza dell’interpretazione dei testi antichi, poteva favorire una maggiore consapevolezza storica, utile anche per una più attenta comprensione del presente. Clamoroso, in questo senso, il contributo recato da un filologo come Lorenzo Valla ( A1, p. 34), il quale dimostrò la falsità della presunta donazione di Costantino, su cui la Chiesa aveva fondato la legittimità del suo potere politico. A queste conclusioni Valla giunse attraverso una stringente dimostrazione che, basandosi su prove razionali, rilevava punto per punto le incongruenze e gli errori commessi dall’anonimo falsario, privo di cultura e delle necessarie conoscenze storiche. Ma non si trattava, si è detto, di una pura ricerca erudita, se è vero che la scoperta si risolveva in un pesante atto d’accusa nei confronti delle ingiustizie e delle sopraffazioni del potere. Anche la testimonianza della verità, con gli stessi rischi che può comportare, diventava allora un segno tangibile della “dignità dell’uomo”, e dell’uomo di cultura in particolare, chiamato a combattere gli errori e i pregiudizi. 33

L’età umanistica

A1

Il De voluptate

La formazione filologica

La critica neotestamentaria

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Lorenzo Valla La filologia umanistica, che muove i primi passi all’inizio del secolo XV, raggiunge maturità e fondamento scientifico con la figura di Lorenzo Valla. Valla era nato a Roma nel 1405 e qui ebbe la sua prima formazione umanistica, in seguito proseguita a Firenze sotto la guida di Giovanni Aurispa. Decisivo, per la sua maturazione, fu il soggiorno a Pavia tra il 1431 e il 1433. La città lombarda offriva un ambiente culturalmente ricco e vivace in cui Valla, che vi si era stabilito come professore di eloquenza, ebbe l’opportunità di conoscere altri umanisti, in particolare Antonio Beccadelli, detto il Panormita. Il contatto con l’ambiente spregiudicato di Pavia dovette contribuire alla stesura del De voluptate (“Il piacere”, 1431), che nella successiva edizione venne intitolato De vero falsoque bono (“Il vero e falso bene”), un’opera dialogica in cui il Valla mira ad esaltare l’ideale della voluptas (piacere, gioia) assunta a fondamento dell’etica cristiana, impulso naturale dell’uomo verso il bene. L’opera del Valla non intendeva affatto essere irreligiosa: anzi, da essa traspare solo il rifiuto di una religiosità falsa e lontana dall’uomo. La novità sostanziale consiste nella rivalutazione dell’epicureismo, riscattato dalla condanna medievale, e nella conseguente critica dell’ascetismo, responsabile dell’allontanamento dell’uomo dalla sua sana e naturale aspirazione alla gioia. Durante il soggiorno a Pavia, inoltre, il Valla, frequentando l’ambiente degli studi giuridici, aveva maturato una grande coscienza filologica e approfondito il metodo dello studio accurato e minuto del singolo vocabolo, sorretto non solo da conoscenze linguistiche e grammaticali, ma anche storiche.

La vita e le prime opere

Le opere filologiche ed esegetiche Valla, nel 1435, si trasferì a Napoli come segretario di Alfonso d’Aragona; durante questo soggiorno l’avversione per la Chiesa e le sue istituzioni e l’esperienza di umanista e di filologo convergeranno per dar vita ad una delle opere più conosciute del Valla, l’opuscolo De falso credita et ementita Constantini donatione (“La falsa donazione di Costantino ingiustamente considerata vera”, 1440). L’opera, con estremo rigore filologico, storico e giuridico, dimostra la falsità del documento su cui si basava il potere temporale della Chiesa. Iniziata già la loro elaborazione durante il soggiorno napoletano, Valla si decise a pubblicare i sei libri delle Elegantiarum linguae latinae (“L’eleganza”) una volta a Roma, dove era ritornato nel 1447. Quest’opera si presenta come una trattazione esaustiva della grammatica latina, ampliata da un esame approfondito delle parole speciali e dei vocaboli simili. Il principio ispiratore dell’opera non era nuovo al Valla: si fondava sulla considerazione che l’eleganza della lingua consiste essenzialmente nell’uso appropriato dei suoi vocaboli e costrutti. L’autore preso a modello è Cicerone. Un ultimo accenno merita l’attività di critica testuale neotestamentaria, che occupò gli ultimi anni della vita di Valla, morto a Roma nel 1457. Sempre alla luce della sua visione libera e aperta del cristianesimo, in una disposizione tutt’altro che irriverente, compose, nel 1449, le Adnotationes in Novum Testamentum (“Annotazioni sul Nuovo Testamento”). Qui l’esegesi mira a riportare allo stato di originaria purezza le Scritture, liberandole dalle incrostazioni ed interpolazioni successive. A tale impresa egli si accinse confrontando tre manoscritti greci e tre latini del Nuovo Testamento. Poggio Bracciolini fu uno dei primi ad avvertire il rischio dell’applicazione dei metodi della critica filologica alla Scrittura e polemizzò col Valla. L’opera del Valla verrà infatti messa all’Indice durante il Concilio tridentino, anche se all’inizio del Cinquecento era stata lodata e ammirata per la sua lezione innovatrice dal grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam.

Capitolo 1· L’Umanesimo latino

T1

Lorenzo Valla

Temi chiave

La falsa donazione di Costantino

• la rivendicazione della libertà di parola • la filologia come ricerca di verità • la polemica antipapale • l’attenzione per il testo e il linguaggio

dalla De falso credita et ementita Constantini donatione Secondo la tradizione, il potere temporale della Chiesa traeva la sua legittima origine da un documento, in cui l’imperatore Costantino, dopo avere dichiarato il cristianesimo religione di Stato, cedeva al papa Silvestro I il possesso, giuridico e amministrativo, del cosiddetto Stato pontificio. Si trattava in realtà di un testo redatto nell’VIII o IX secolo, di cui Valla dimostra, con prove storico-linguistiche, la falsità.

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1. Più e più libri ormai ho pubblicato in quasi ogni ramo dello scibile1 e, per il fatto che in essi esprimo il mio dissenso da alcuni autori importanti, ormai da lungo tempo altamente valutati, c’è chi si adonta2 e mi dà del temerario e sacrilego. E allora, che cosa dobbiamo pensare che faranno adesso certuni, quanto si infurieranno contro di me e, se potessero, con quanta smania si affretterebbero a trascinarmi al supplizio, dato che scrivo non solo in polemica con i morti, ma con persone ancora vive, e non per osteggiare uno o due, ma un bel po’ di gente, e non solo contro privati, ma anche contro magistrati? E che magistrati! Addirittura il sommo pontefice, che è armato non solo della spada temporale, come i re e i principi, ma pure di quella ecclesiastica, di modo che da lui uno non può proteggersi, per così dire, neppure dietro lo scudo di qualche principe, sì da evitare di essere colpito da scomunica3, anatema4, maledizione. 2. […] Quale tribuno, quale governatore, quale re, se il sommo sacerdote mi avrà messo le mani addosso, potrà strapparmi a lui, ammesso che lo voglia? Però non c’è motivo che io ora mi lasci turbare e distogliere dal mio proposito da un duplice timore di pericolo, perché al sommo pontefice non è consentito di legare o sciogliere alcuno in aperta violazione del diritto umano e divino, e poi dare la vita per la difesa della verità e della giustizia implica somma virtù, somma lode e sommo premio. E del resto molti hanno affrontato il rischio di morte per difendere la patria terrena: io dovrei lasciarmi spaventare dal rischio di morte per conquistare la patria celeste (e la conquistano quelli che piacciono a Dio, non quelli che piacciono agli uomini)? E allora: bando alla preoccupazione, via le paure, fuori i timori. Con animo forte, con grande fiducia, con buona speranza si deve difendere la causa della verità, la causa della giustizia, la causa di Dio. Non si può ritenere vero oratore quello che sa parlare bene, se non osa anche parlare. Osiamo dunque accusare chiunque commette azioni che meritano accusa. E chi si rende colpevole verso tutti, sia ripreso dalla voce di uno solo al posto di tutti. 3. Ma non devo rimproverare il fratello apertamente, bensì tra me e lui (Mt. 18,15)? Nient’affatto: se uno pecca pubblicamente e non ammette un consiglio privato, deve essere accusato pubblicamente perché gli altri abbiano paura. […] 4. E non lo faccio perché desideri dar la caccia a qualcuno e scrivere contro di lui una sorta di Filippica5 – lungi da me un simile misfatto! –, ma per strappare un errore dalle menti degli uomini, per distoglierli, o con consigli o con rimproveri, da colpe e empietà; non oserei dire: perché altri, resi edotti da me, mettano mano alla falce per ridurre l’eccessivo rigoglio dei sarmenti6 che affligge la sede papale, cioè la vigna di Cristo,

1. scibile: ciò che può essere oggetto della conoscenza umana (dal latino scio: so, conosco). 2. si adonta: si ritiene offeso. 3. scomunica: è il giudizio di condanna del-

la Chiesa, che esclude il battezzato dalla comunità dei fedeli e gli vieta l’accesso ai sacramenti. 4. anatema: maledizione scagliata con particolare violenza.

5. Filippica: orazione violenta e sferzante, come quelle pronunciate da Demostene, fra il 351 e il 340 a.C., contro Filippo II di Macedonia (di qui il nome). 6. sarmenti: tralci.

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e la costringano a produrre ricchi grappoli, non gracili uve selvatiche. E se faccio questo, chi potrà chiudere a me la bocca, a sé le orecchie, e tanto meno proporre il supplizio e la morte? Una persona simile, che facesse questo, quand’anche fosse il papa, come dovrei chiamarla? Buon pastore? o non piuttosto vipera sorda, che non vuol ascoltare la voce dell’incantatore, ma vuole bloccare le sue membra con il veleno del suo morso? […] 50. Per il momento limitiamoci a parlare degli errori con questo impostore7, la cui sfacciatissima menzogna si manifesta da sé, in base alle sciocchezze che dice. «Trasmettiamo, dice, il palazzo Lateranese che appartiene al nostro impero»: come se avesse sbagliato a collocare a questo punto, tra gli ornamenti, il dono del palazzo, lo ha ripetuto una seconda volta in seguito, dove tratta dei doni. «Quindi il diadema», e, come se i presenti non vedessero, spiega: «ossia la corona». Però qui non ha aggiunto “d’oro”, ma successivamente ribadendo le stesse cose dice: «d’oro purissimo e di pietre preziose». Da uomo ignorante non sapeva che il diadema è di stoffa o forse di seta. […] 51. «E insieme il frigio, nonché il coprispalle, ossia la correggia che di solito cinge il collo dell’imperatore». Chi mai ha sentito dire in latino «frigio» (phrygius)? Tu parli da barbaro e pretendi che mi sembri la lingua di Costantino o di Lattanzio8? Plauto9 nei Menecmi usa «frigione» (phrygio) per indicare il ricamatore di vesti. Plinio10 chiama «frigie» (phrygiones) le vesti ricamate, perché i Frigi11 ne erano stati gli inventori. Tu però che cosa significhi questo «frigio» non spieghi, anche se è oscuro; spieghi ciò che è più chiaro. Dici che la correggia è coprispalle (superhumerale), ma non sai che cosa sia la correggia (lorum). Non ti accorgi infatti che è una cinghia di cuoio, che si chiama correggia, a cingere come ornamento il collo di Cesare. Di qui viene che chiamiamo corregge le briglie e le fruste. E se talora si dedicano delle corregge d’oro, bisogna intendere che si tratta di briglie, che di solito, dopo essere state indorate, si mettono intorno al collo di un cavallo o di un’altra bestia. Questo fatto, secondo la mia opinione, ti ha tratto in inganno e quando vuoi che una correggia cinga il collo di Cesare e di Silvestro, in realtà fai di un uomo, di un imperatore, di un sommo pontefice, un cavallo o un asino. […] 7. questo impostore: l’autore del falso documento. 8. Lattanzio: scrittore latino convertitosi al cristianesimo (240 ca.-320 ca.), fu definito, per il suo stile raffinato ed elegante, il «Cicerone cristiano». Fu scelto da Costantino come precettore del figlio Crispo. 9. Plauto: Tito Maccio Plauto, vissuto tra il III e il II secolo a.C., il maggiore autore del teatro comico romano (i Menaechmi, dal nome dei gemelli che ne sono i protagonisti, è il titolo di una delle sue più note commedie). 10. Plinio: Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), l’autore della Naturalis historia (Storia naturale). 11. Frigi: gli abitanti della Frigia, regione dell’Asia minore.

Raffaello, La donazione di Costantino, 1517-24, affresco, part., Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza di Costantino.

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53. «Conferendogli anche gli scettri imperiali». Ma com’è costruito il discorso? Dov’è l’eleganza? Dove l’ordine? Che cosa sono questi scettri imperiali? C’è un solo scettro, non di più. Se allora l’imperatore portava lo scettro, dovrà portare in mano lo scettro anche il pontefice? Perché non dargli allora anche la spada, l’elmo, il dardo? […] 54. «Ogni solennità che accompagna l’uscita (processio) della massima autorità (culminis) imperiale, ogni gloria del nostro potere». […] Che cos’è questa processio da cocomero imperiale che striscia tra l’erba e cresce sul ventre? Credi che Cesare guidasse un corteo trionfale ogni volta che usciva di casa, come fa ora di solito il papa, preceduto da cavalli bianchi, addobbati con qualdrappe12 e finimenti dai valletti? Lasciando stare altre sciocchezze, nulla di più vano e nulla di più estraneo al pontefice romano. […] 55. E poi quanta magnificenza, imperatore! Non ti basta di aver ornato il pontefice: vuoi ornare anche tutto il clero? Come «massima forma di potere straordinario e di eccellenza» dici «che diventino consoli patrizi». […] Ma forse i membri del clero possono diventare consoli? I membri del clero latini si sono vietati il matrimonio e diventeranno consoli? Fatta la leva militare, con le legioni e le truppe ausiliarie si recheranno nelle province che avranno sorteggiate? Ministri e servi (di Dio) diventeranno consoli non due per volta, come avveniva di solito, ma cento per volta, mille per volta? Ministri al servizio della romana chiesa riceveranno una dignità da imperatori? […] I membri del clero diventeranno militari o porteranno decorazioni militari? A meno che tu attribuisca decorazioni imperiali a tutti i membri del clero. Non so infatti che cosa tu voglia dire. Come si fa a non vedere che queste fandonie sono state inventate da gente che voleva licenza di vestirsi in qualunque modo? Sicché sono portato a credere che, se tra i demoni che abitano nell’aria si praticano forme di giochi13, le praticano inducendo i chierici all’eleganza, al fasto, al lusso e da questo genere di spettacolo teatrale traggono il massimo diletto. […] 94. Io asserisco che non solo Costantino non poté fare doni simili, non solo il romano pontefice non poté far valere il proprio possesso su di essi, ma, se anche entrambe le cose fossero possibili, entrambi i diritti sono stati estinti dalle colpe dei possessori, dato che vediamo che da quest’unica fonte sono scaturite la rovina e la devastazione dell’intera Italia e di molte province. Se la fonte è amara, lo è anche il ruscello, se la radice è impura, lo sono anche i rami, se la primizia non è santa, neppure il mucchio del raccolto lo è. Così, inversamente, se il ruscello è amaro, bisogna chiudere la fonte, se i rami sono impuri, il difetto viene dalla radice, se il mucchio non è santo, si deve respingere anche la primizia. O possiamo invece ammettere come un diritto il principio del potere papale, che vediamo essere la causa di tanti misfatti e di tanti mali di ogni genere? La letteratura italiana rinascimentale, a cura di M. Guglielminetti, M. Masoero, L. Nay, trad. it. di C. Mazzucco, Il Segnalibro, Torino 1989

12. qualdrappe: drappi, riccamente lavorati, posti sulla groppa dei cavalli.

13. forme di giochi: incantesimi.

Analisi del testo Unione di filologia e ideologia

Il testo di Valla, da cui sono ricavate queste pagine, è l’esempio più insigne di quell’atteggiamento critico della cultura umanistica che unisce strettamente la filologia e l’ideologia. In altri termini: partendo da una interpretazione del testo, l’autore riesce a condurre un discorso che acquista rilevanti implicazioni storico-politiche, a conferma del rapporto, istituito in larghi settori dell’Umanesimo, tra cultura e intervento sul reale. 37

L’età umanistica Carica polemica della letteratura

Affermazione della “libertà di parola” svincolata da ogni autorità

Polemica antipapale

Critica del testo attraverso la filologia

Caratteristiche dello stile

Fin dall’inizio del brano Valla mette in evidenza la carica polemica della scrittura, la sua concezione dell’intervento letterario come dissenso e denuncia, in un senso antagonistico e provocatorio, che non esclude, ma addirittura richiama, l’avversione e la persecuzione dei potenti (come dirà più avanti, al paragrafo 3, la presa di posizione deve avere un carattere pubblico e ufficiale: «se uno pecca pubblicamente…, deve essere accusato pubblicamente»). È una rivendicazione orgogliosa dell’autonomia dell’intellettuale e, insieme, del compito che si prefigge, di cercare e difendere a tutti i costi la verità. La “libertà di parola” è collegata alla «buona coscienza» e si propone di servire «la causa della verità, la causa della giustizia, la causa di Dio». Il significato della critica non contraddice l’ortodossia religiosa e la volontà divina; ne illumina ed esalta, al contrario, lo spirito più autentico, opponendosi ad ogni forma di mistificazione: «al sommo pontefice non è consentito di legare o sciogliere alcuno in aperta violazione del diritto umano e divino, e poi dare la vita per la difesa della verità e della giustizia implica somma virtù, somma lode e sommo premio». La ricerca intellettuale, così concepita, non riconosce alcun principio di autorità, proponendosi orgogliosamente come la più alta forma di esperienza umana e spirituale, per la quale è giusto affrontare anche il martirio. La polemica antipapale coglie subito la contraddizione fra i valori spirituali, che dovrebbero essere prerogativa esclusiva del pontefice, posto di fronte all’alternativa di presentarsi come «Buon pastore» o come «vipera sorda», e un costume di vita quale si conviene alla dignità di un potere politico e mondano, come quello imperiale. Proprio sulla confusione fra questa diversità di funzioni si erano basate le accuse di Dante e di Petrarca contro la corruzione della Chiesa, che aveva tradito la sua missione originaria per perseguire invece fini puramente terreni, di cupidigia e di potere. Questo topos, nelle pagine di Valla, costituisce solo un aspetto, e il meno originale, dell’argomentazione. La discussione, nel suo andamento sostanziale, si sviluppa invece, con puntuale e circostanziata applicazione, attorno al testo, considerato nei suoi elementi costitutivi. Valla ne opera una specie di smontaggio, che ne mette in evidenza gli elementi assurdi e anacronistici. Ma la contestazione si basa non solo sugli errori e sulle incongruenze di tipo più propriamente storico; o, per meglio dire, alla critica storica si giunge attraverso l’analisi filologica, fondata su prove linguistiche e su considerazioni di stile, che recano l’impronta inconfondibile del metodo e del gusto umanistici. Si ricordi che Valla fu anche autore degli Elegantiarum libri; ma anche in queste pagine, dalle spiccate caratteristiche ideologiche e polemiche, il decoro e l’eleganza costituiscono il canone interpretativo e il punto di riferimento essenziale. Essi valgono come una prova di civiltà e di misura, che, ristabilendo il contatto con il mondo classico, condanna i secoli di mezzo, ritenuti barbari (fino all’invettiva e all’anatema: «Dio ti maledica, perfido uomo, che cerchi di attribuire a un secolo colto un linguaggio barbaro»), a conferma del significato non puramente formale ma politico dello stile.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Delinea, in base al testo, la posizione dell’autore: è consapevole del proprio ruolo e dell’importanza del fine che si è prefissato? Motiva la tua risposta. > 2. In quali affermazioni presenti nel testo è ravvisabile una sorta di tensione morale e civile? > 3. Nell’operazione di “smontaggio” del testo della falsa donazione l’autore mostra di considerare soltanto il livello linguistico? Motiva la tua risposta. AnALizzAre

> 4.

Stile Sebbene il testo sia proposto in traduzione, è evidente il ricorrere ad un procedimento ternario, vale a dire ad una successione per asindeto di tre vocaboli aventi la stessa funzione grammaticale. Dopo averli individuati, considera se possono essere considerati climax.

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Capitolo 1· L’Umanesimo latino

> 5.

Stile Sono presenti nel testo immagini metaforiche tanto articolate da sembrare vere e proprie allegorie? Se sì, quali? > 6. Lessico Individua vocaboli e/o espressioni che, oltre ai casi evidenziati nell’Analisi del testo, esprimono il giudizio negativo dell’autore del documento ritenuto falso.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 7.

Esporre oralmente Quali conoscenze risultano indispensabili per la formazione dell’intellettuale umanista che pratica la filologia? Rispondi oralmente facendo riferimento al contesto in cui opera Valla (max 3 minuti).

PER IL POTENZIAMENTO

> 8. Effettua un approfondimento sulle ripercussioni che l’introduzione della stampa ebbe sull’attività degli scrittori e sulla cura delle edizioni dei testi.

PASSATO E PRESENTE Filologia e autenticità del testo al tempo di internet

> 9. Nell’odierna realtà “liquida” del web l’autenticità del testo scritto sembra aver perso sempre più valore,

nell’impossibilità di “fissare” in modo definitivo le forme della comunicazione. In quale ambito – non necessariamente letterario – ritieni tuttavia che oggi sia indispensabile fare tesoro della lezione di Valla e della filologia nel verificare l’attendibilità di un testo? Confrontati con il docente e i compagni in una discussione in classe.

A2

Giannozzo Manetti La vita Nato a Firenze nel 1396 da una ricca famiglia della borghesia mercantile, ebbe

una formazione umanistica e cristiana, fondata sulla lettura dei classici ma anche dei testi biblici (conosceva infatti l’ebraico) e dei Padri greci e latini. Fu amico dei maggiori esponenti dell’Umanesimo fiorentino, Leonardo Bruni, Niccolò Niccoli. Partecipò direttamente alla vita politica, assumendo varie cariche cittadine, poi esercitò la funzione di ambasciatore a Genova, Venezia, Roma, Napoli: è perciò il rappresentante più notevole dell’ultima fase dell’Umanesimo civile. Negli ultimi anni si scontrò con l’ascesa della Signoria medicea, e dovette andare in esilio. Si rifugiò prima a Roma, poi a Napoli presso Alfonso I d’Aragona, presso cui era già stato ambasciatore. A Napoli morì nel 1459.

Interessi religiosi e civili

L’esaltazione dell’uomo e della realtà terrena

T2

Le opere La sua opera riflette la duplice direzione della sua cultura, animata dagli interessi religiosi e dall’impegno umanistico e civile. Scrisse infatti in latino una vasta opera apologetica della fede cristiana, opere storiche, biografie di Dante, Petrarca e Boccaccio. Dottissimo nelle discipline classiche, tradusse le opere morali di Aristotele e, conoscendo anche l’ebraico, tentò la traduzione dei Salmi. La sua opera più importante è però il De dignitate et excellentia hominis (“Sulla dignità e l’eccellenza dell’uomo”, in quattro libri, 1451-52, ma edito solo nel 1532), inteso ad esaltare il valore dell’individuo e della realtà terrena contro le impostazioni ascetiche della religiosità medievale.

Giannozzo Manetti

L’esaltazione del corpo e dei piaceri, contro l’ascetismo medievale

Temi chiave

• la confutazione dell’ascetismo medievale

• l’esaltazione del corpo umano • la rivalutazione dei piaceri

dal De dignitate et excellentia hominis, IV Queste pagine sono tratte dal IV libro dell’opera, in cui Manetti vuole confutare quanto trova scritto in famosi autori «in lode della morte e sulla miseria della vita umana». Obiettivo principale della confutazione è il papa Innocenzo III, autore nel XII secolo del De contemptu mundi.

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Ma avendo il già ricordato Innocenzo1 composto un particolare trattato2, intitolato alla miseria della vita umana, in cui cominciando dall’origine prima ed arrivando all’ultima fine ha riunito molti argomenti, noi ne abbiamo scelti quelli che ci sono sembrati più degli altri degni di menzione3 e più convenienti al nostro proposito di una piena confutazione4. Egli, dunque, dopo avere parlato della vile5 putredine onde l’embrione è concepito, soggiunge che tutti, quando si nasce, quando ancora non si è viziati a causa dell’età, maschi e femmine, si piange e si geme con queruli6 lamenti per esprimere la verace miseria della nostra natura. [...] Posti dunque in qualche modo questi e simili argomenti, che gli sembravano le migliori e più solide basi del suo futuro edificio, largamente e diffusamente procede valendosi della nudità, dei pidocchi, degli sputi, dell’orina, dello sterco, della brevità della vita, della vecchiaia, dei vari travagli e dolori dei mortali, dei diversi affanni, della morte incombente, dei molti generi di tormenti, dei molti consimili malanni del corpo umano. Ora se noi, con la grazia di Dio, riusciremo a confutare come desideriamo, secondo la nostra capacità, tutte queste affermazioni, porremo convenientemente termine al nostro discorso, dopo avere sul fine dell’opera nostra ammonito accuratamente e diligentemente noi stessi e gli eventuali lettori a riconoscere come doni del Signore onnipotente le ottime e felici condizioni dell’umana natura, largamente e diffusamente dichiarate nei tre libri precedenti7, onde possiamo vivere in questo mondo sempre lieti ed alacri bene operando, e godere poi eternamente della divina Trinità, da cui ci son venute tutte quelle doti. Desiderando quindi sommamente di confutare a fondo tutti gli argomenti riportati, seguiremo nel rispondere il medesimo ordine in cui li abbiamo riferiti; cominciando perciò dal corpo, non esitiamo a rispondere nel modo seguente a quanto si dice della sua debolezza e dei suoi incomodi. [Tutti i malanni di cui l’uomo soffre non derivano affatto da Dio e dalla natura, ma dal peccato commesso dall’uomo stesso, il peccato originale di Adamo.]

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Ma forse qualcuno obbietterà: anche se si concedesse tutto questo, non ne deriverebbe perciò la conseguenza che i corpi umani, per natura o – come tu cerchi di provare e affermare – per il peccato, non abbiano ricevuto, e poi trasmesso, questa loro soggezione alla fragilità, alla malattia, alla morte e a tutti gli altri malanni? Ché anzi a tale e tanta soggezione essi furono condannati che, qualunque essa sia e da qualunque causa derivi, appare naturale e risale fino al principio della creazione, dal momento che non v’è dubbio che quella legge della morte e di tutti gli altri malanni incombe su tutti i corpi umani fin dalla nascita e per ogni tempo. Orbene, anche se noi concedessimo questo e altro, tuttavia, se non fossimo troppo queruli e troppo ingrati e ostinati e delicati, dovremmo riconoscere e dichiarare che in questa nostra vita quotidiana possediamo molti più piaceri che non molestie. Non c’è infatti atto umano, ed è mirabile cosa, sol che ne consideriamo con cura e attenzione la natura, dal quale l’uomo non tragga almeno un piacere non trascurabile: così attraverso i vari sensi esterni, come il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, l’uomo gode sempre piaceri così grandi e forti, che taluni paiono a volte superflui ed eccessivi e soverchi8. Sarebbe infatti difficile a dirsi, o meglio impossibile, quali godimenti l’uomo ottenga dalla visione chiara ed aperta dei bei corpi, dall’audizione9 di suoni e sinfonie e armonie varie, dal profumo dei fiori e di si-

1. Innocenzo: cfr. p. 39. 2. particolare trattato: si allude al De contemptu mundi (Il disprezzo del mondo). 3. menzione: ricordo. 4. confutazione: procedimento con il qua-

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le si controbatte un’argomentazione, dimostrandone la falsità e/o l’infondatezza. 5. vile: spregevole. 6. queruli: lamentosi. 7. tre libri precedenti: si allude ai tre libri del

De dignitate et excellentia hominis (Sulla dignità e l’eccellenza dell’uomo), che precedono questo in cui è collocato il brano antologizzato. 8. soverchi: sovrabbondanti. 9. audizione: ascolto.

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mili cose odorate, dal gustare cibi dolci e soavi, e infine dal toccare cose estremamente molli. E che diremo degli altri sensi interni? Non possiamo dichiarare a sufficienza con parole quale diletto rechi seco10 quel senso che i filosofi chiamano comune nel determinare le differenze delle cose sensibili; o qual piacere ci dia la varia immaginazione delle diverse sostanze e accidenti11, o il giudicare, il ricordare, e infine l’intendere, quando prendiamo a immaginare, comporre, giudicare, ricordare ed intendere le cose già apprese mediante qualche senso particolare. Perciò se gli uomini nella vita gustassero quei piaceri e quei diletti, piuttosto che tormentarsi per le molestie e gli affanni, dovrebbero rallegrarsi e consolarsi invece di piangere e di lamentarsi, soprattutto poi avendo la natura fornito con larghezza copiosa12 numerosi rimedi del freddo, del caldo, della fatica, dei dolori, delle malattie; rimedi che sono come sicuri antidoti13 di quei malanni, e non aspri, o molesti, o amari, come spesso suole accadere con i farmachi, ma piuttosto molli, grati, dolci, piacevoli. A quel modo infatti che quando mangiamo e beviamo, mirabilmente godiamo nel soddisfare la fame e la sete, così ugualmente ci allietiamo14 nel riscaldarci, nel rinfrescarci, nel riposarci. [...] In tal modo tutte le opinioni e le sentenze sulla fragilità, il freddo, il caldo, la fatica, la fame, la sete, i cattivi odori, i cattivi sapori, visioni, contatti, mancanze, veglie, sogni, cibi, bevande, e simili malanni umani; tutte, insomma, tali argomentazioni appariranno frivole, vane, inconsistenti a quanti considereranno con un po’ più di diligenza e di accuratezza la natura delle cose. [...] Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, trad. it. di E. Garin, Ricciardi, Milano-Napoli 1952

10. seco: con sé. 11. sostanze e accidenti: termini del linguaggio della filosofia scolastica che si riferiscono rispettivamente a ciò che è di neces-

sità, quindi immutabile e costante, e a ciò che è mutabile. 12. larghezza copiosa: grande abbondanza.

13. antidoti: sostanze che impediscono o annullano l’effetto di un veleno. 14. ci allietiamo: ci procuriamo piacere.

Analisi del testo

L’affermazione ottimistica del valore dell’uomo

La rivalutazione dei piaceri sensibili L’esaltazione del corpo

Contro l’ascetismo medievale di Innocenzo III, Manetti esalta l’eccellenza del corpo dell’uomo su quello di tutti gli altri esseri del creato, perché – come scrive nelle righe successive al passo riportato – è «atto a operare, a parlare e a intendere», funzioni di cui gli altri esseri sono privi. E quindi l’elemento terrestre, pur essendo per natura ignobile, nel corpo dell’uomo viene «sublimato ed esaltato». È un rovesciamento radicale della visione medievale, un’affermazione ottimistica del valore dell’uomo e del mondo terreno, in cui si può vivere «sempre lieti ed alacri bene operando»: come si vede, l’esaltazione dell’uomo si inscrive nell’esaltazione di una vita attiva ed operosa, vissuta all’interno delle istituzioni civili ed intesa alla creazione di grandi opere politiche, economiche, artistiche. Entro questa rivalutazione della vita terrena si colloca anche la rivalutazione dei piaceri sensibili, che non sono più avvertiti come peccaminosi, ma come elemento essenziale di una vita serena e gioiosa. In Manetti si possono così cogliere i fondamenti teorici di quell’edonismo che pervade tanta letteratura quattrocentesca. Anche l’esaltazione del corpo è un dato costante nella cultura del Quattrocento, ed è testimoniata in forme immediatamente visibili dalla pittura e dalla scultura del tempo, che vagheggiano la bellezza e l’armonia di proporzioni della figura umana, vista come microcosmo in cui si riflette l’armonia del cosmo intero. Nelle arti figurative il corpo nudo è osservato e rappresentato senza più alcun senso di colpa e di peccato, come perfettamente innocente: si pensi alla Venere di Botticelli, o al David di Donatello. Per parte sua, Manetti afferma: «Sarebbe infatti difficile a dirsi […] quali godimenti l’uomo ottenga dalla visione chiara ed aperta dei bei corpi». 41

L’età umanistica

La religiosità

Non bisogna però ritenere che in questa esaltazione del corpo vi sia una posizione paganeggiante ed atea. Il rovesciamento dell’ascetismo medievale, in Manetti, non si risolve in atteggiamenti antireligiosi: al contrario, si può osservare in queste pagine una robusta fede religiosa, che ha sempre ben presente la prospettiva del trascendente e dell’eterno («[…] vivere in questo mondo sempre lieti ed alacri bene operando, e godere poi eternamente della divina Trinità, da cui ci son venute tutte quelle doti»). È solo una religiosità diversa, che non nega la sfera terrena, ma concede ad essa autonomia e valore.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Per quale motivo, secondo Innocenzo III, «quando si nasce […] si piange e si geme con queruli lamenti»? > 2. Che cosa intende dimostrare l’autore? Qual è il fine dell’opera? > 3. Da dove derivano tutti i mali dell’uomo? > 4. Quali “atti umani” sono ricordati come fonte di piacere (rr. 35-56)? AnALizzAre

> 5.

Stile

In quali parti del testo è impiegata la figura dell’enumerazione e quale funzione espressiva svolge?

Approfondire e inTerpreTAre

> 6. esporre oralmente Nel testo compaiono alcuni riferimenti alla religione cristiana e alle sue dottrine. Illustra oralmente (max 2 minuti) in che modo Manetti concilia la propria esaltazione dell’uomo e della vita terrena con le verità della fede. pASSATo e preSenTe il culto della forma fisica

> 7. Quale idea di “edonismo” ti sembra prevalga ai nostri giorni? Non è forse vero che ad una esaltazione sana e gioiosa del corpo e del godimento si è sostituito un vero e proprio culto della forma fisica e una ricerca del piacere fine a se stesso? Quali forme di esaltazione del corpo e ricerca dei piaceri vedi manifestarsi nella società in cui vivi? Discutine in classe con il docente e i compagni.

A3 Gli interessi filosofici

Giovanni pico della mirandola La vita La vita di Giovanni (Mirandola, Modena, 1463-Firenze, 1494), appartenente alla famiglia principesca dei Pico, conti della Mirandola, fu breve ma particolarmente intensa. Dopo aver studiato a Bologna, Ferrara e Padova, Pico, poco più che ventenne, si trasferisce a Firenze, dove hanno luogo gli incontri più significativi per la sua formazione. Qui infatti egli entra in contatto con il Magnifico e il Poliziano e comincia a frequentare l’Accademia platonica di Ficino. Pur interessato alla letteratura (come testimonia la lettera indirizzata a Lorenzo, in cui istituisce un parallelo fra la poesia del Magnifico e quella di Dante e Petrarca), il suo maggiore interesse resta di carattere filosofico. Le opere In questo campo egli era aperto ad ogni espressione di pensiero: nelle sue

Vastità di interessi

La De hominis dignitate

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Conclusiones (“Tesi conclusive”) del 1486 (novecento tesi di carattere filosofico-religioso) non esita a mostrare le sue eclettiche simpatie per il pensiero platonico, aristotelico, scolastico, ermetico e cabalistico. Nonostante il tentativo sincretistico di fondere ed armonizzare queste diverse correnti di pensiero, prova della vastità degli interessi di Pico (la cui memoria prodigiosa, tra l’altro, è rimasta proverbiale persino nella cultura popolare), sarebbe vano cercare nella sua opera il risultato di un pensiero organicamente costruito. Il che non significa incoerenza o mancanza di originalità: si trovano, nella De hominis dignitate (“La dignità dell’uomo”), orazione introduttiva alle novecento tesi so-

Capitolo 1· L’Umanesimo latino

pra citate, tutti i grandi temi della speculazione filosofica umanistica ripensati in maniera originale. Dio, il cosmo, l’uomo, di cui viene proclamata, in una concezione dinamica e spiritualistica, l’infinita libertà, sono i temi dominanti nell’orazione, che venne a lungo considerata come il manifesto più compiuto degli ideali dell’Umanesimo quattrocentesco.

T3

Giovanni pico della mirandola

La dignità dell’uomo dall’Oratio de hominis dignitate

Temi chiave

• la creazione dell’uomo al centro dell’universo • l’autodeterminazione dell’uomo • l’autonomia delle scelte umane • la sintesi tra pensiero cristiano e pensiero

classico L’operetta, da cui è tratto il brano presentato, composta tra il 1485 e il 1486, contiene alcune fra le più significative proposte sul tema, tipicamente umanistico, della “dignità dell’uomo”, esaltato per le sue potenzialità e libertà di costruirsi da solo, con i propri mezzi, la propria perfezione o degenerazione.

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Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana1 sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania2, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi3, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo4, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi5 non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medî, negli infimi6 gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà7 venir meno8, quasi impotente, nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di consiglio9; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio10 fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita11 e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa12 tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero

1. arcana: segreta, misteriosa. 2. la zona iperurania: l’Empireo, che, anche nella concezione dantesca del mondo ultraterreno, era il più alto dei cieli, dove, insieme a Dio, risiedevano gli angeli ed i beati. 3. eterei globi: corpi celesti. 4. Mosè e Timeo: cioè la Bibbia ed un dialogo del filosofo greco Platone. 5. archetipi: modelli originari ed ideali delle

cose create, presenti nella mente di Dio, di cui le realtà materiali sono solo copie imperfette, secondo la dottrina platonica. 6. sommi … infimi: più elevati, mediocri, più bassi. 7. paterna potestà: l’onnipotenza di Dio. 8. venir meno: rinunciare al suo compito ed al suo progetto. 9. consiglio: capacità di discernere e di de-

cidere. 10. nulla … di proprio: caratteristiche che fossero sue e di nessuna altra creatura. 11. di natura indefinita: l’uomo, essendo libero, può decidere della propria sorte, nel bene e nel male, mentre le altre creature hanno già un comportamento determinato dalla natura stessa. 12. prerogativa: privilegio particolare.

43

L’età umanistica

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e sovrano artefice ti plasmassi13 e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti14; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». O suprema liberalità di Dio padre! O suprema e mirabile felicità dell’uomo! A cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco15 recano dal seno materno tutto quello che avranno, come dice Lucilio16. Gli spiriti superni17 o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, in De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942

13. ti plasmassi: modellassi te stesso. 14. bruti: creature prive di ragione e dominate dall’istinto.

15. seco: con sé. 16. Lucilio: poeta latino del II secolo a.C., autore di trenta libri di Satire.

17. Gli spiriti superni: gli angeli.

Analisi del testo

Manetti, Ficino e Pico secondo Garin

L’autonomia dei comportamenti e delle scelte

Una sintesi tra religiosità e laicismo, fra cristianesimo e classicismo

L’emergere del pensiero metafisico

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Nel De hominis dignitate Pico affronta soprattutto il tema della centralità dell’uomo nel mondo, della sua eccellenza e dignità, in termini del tutto originali rispetto alle conclusioni di Giannozzo Manetti, tenendo conto dell’insegnamento di Marsilio Ficino (1433-99). Secondo Pico ogni realtà esistente presenta una sua natura, che determina il suo agire; di conseguenza il cane vivrà caninamente e leoninamente il leone. L’uomo, che non ha una sua natura particolare e che è stato posto da Dio al centro del mondo, gode di un’assoluta libertà, che gli consente sia di raggiungere la suprema perfezione divina sia di abbassarsi alla condizione dei bruti. «Il Manetti – afferma Garin – aveva parlato di un uomo creatore del mondo dell’arte; Ficino di un orizzonte dei mondi. Per Pico la condizione umana è di non aver condizione, di essere veramente un quis [chi], non un quid [che cosa], una causa, un atto libero. E l’uomo è tutto, perché può essere tutto, animale, pianta, pietra; ma anche angelo e “figlio di Dio”. E la immagine e somiglianza di Dio è qui: nell’essere causa, libertà, azione; nell’essere resultato del proprio atto» (L’Umanesimo italiano, Laterza, Bari 1958). A queste considerazioni si può aggiungere qualche altra osservazione: se l’uomo risulta l’artefice della propria fortuna, l’accento cade sull’autonomia dei comportamenti e delle scelte, privilegiando quindi, implicitamente, la «virtù» rispetto alla «fortuna», l’agire rispetto alla pura contemplazione; per la centralità della sua posizione, l’uomo realizza anche una condizione di equilibrio, che fa di lui un essere unico e privilegiato (e l’equilibrio è considerato un essenziale valore educativo e formativo dalla civiltà umanistico-rinascimentale). C’è infine da notare come le tesi sostenute rappresentino una sintesi fra il pensiero religioso e quello laico, fra cultura cristiana e cultura classica (platonica in particolare): ce lo conferma il legame stabilito fra la Bibbia e il Timeo, dialogo platonico, indicati fra le “fonti” dell’argomentazione filosofica. Il discorso di Pico sull’uomo che può diventare divino ribadisce il motivo umanistico della sua superiorità su tutte le cose del creato, ma rivela anche la sua estraneità rispetto ai problemi della vita pratica ed associata, caratteristica precipua dell’Umanesimo civile del primo Quattrocento. Infatti, il nuovo assetto politico-sociale determinato dall’affermarsi delle Signorie, che soppiantano i Comuni, favorisce la riflessione degli intellettuali non più sul piano della storia terrena (ad esempio sul rapporto tra l’uomo e la città), ma su quello metastorico, sul rapporto tra l’uomo e il cosmo.

Capitolo 1· L’Umanesimo latino

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Dividi il brano in sequenze e assegna loro un titolo, secondo l’esempio proposto. righe

Titolo

rr. 1-7

Dopo la creazione dell’universo ........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

> 2. Qual è la motivazione che spinge Dio a creare l’uomo? > 3. Quali caratteristiche attribuisce Dio all’essere umano? > 4. Riassumi con parole tue il discorso che Dio rivolge ad Adamo (rr. 21-32). AnALizzAre

> 5.

Stile

Individua e sottolinea le metafore riferite a Dio e all’universo.

Approfondire e inTerpreTAre

> 6. A partire da questo testo spiega in circa 10 righe (500 caratteri) in che cosa consiste la visione “antropocentrica” ed “edonistica” che si delinea nell’Umanesimo.

In sintesi

L’umAneSimo LATino Verifica interattiva

LA riVALuTAzione deLL’eSperienzA umAnA neL QuATTroCenTo Con lo sviluppo della civiltà comunale, tra Due e Trecento, si assiste a una rivalutazione dell’attività pratica nei diversi campi, dalla politica al commercio. Nel Quattrocento, l’Umanesimo segna il definitivo superamento, anche sul piano della riflessione teorica, della visione pessimistica della realtà terrena e dell’uomo. L’umanista fiorentino Giannozzo Manetti (1396-1459) nella sua opera dal titolo emblematico De dignitate et excellentia hominis riconosce “la dignità ed eccellenza dell’uomo”, il cui operato terreno e la cui fisicità (il corpo e il piacere sensibile) vengono esaltati in una prospettiva pur sempre religiosa, ma in polemica con l’impostazione ascetica della spiritualità medievale. Considerata a lungo come il manifesto più compiuto degli ideali dell’Umanesimo quattrocentesco, l’Oratio de hominis dignitate di Gio-

vanni Pico della Mirandola (1463-94) affronta con originalità i grandi temi della speculazione filosofica umanistica. L’autore vi proclama, in una concezione dinamica e spiritualistica, l’infinita libertà dell’uomo. Si veniva approfondendo così una concezione dell’individuo strettamente legato alle condizioni della società e più intimamente partecipe dei processi della storia.

LA fiLoLoGiA AL SerVizio deLLA ConoSCenzA Alla conoscenza del passato contribuiva anche la filologia, che poteva favorire una maggiore consapevolezza storica, utile anche per una più attenta comprensione del presente. Clamoroso, in questo senso, fu il contributo recato da un filologo come Lorenzo Valla, il quale dimostrò la falsità della presunta donazione di Costantino, su cui la Chiesa aveva fondato la legittimità del suo potere politico.

facciamo il punto 1. In che cosa consiste la rivalutazione della dignità umana che si coglie nella riflessione filosofica a parti-

re dal Quattrocento? 2. Come cambia la concezione del rapporto tra Dio e l’uomo nel passaggio tra il Medioevo e l’età umanistica? 3. Qual è il ruolo del corpo nella mentalità quattrocentesca?

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Capitolo 2

L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico L’imitazione petrarchesca

L’originalità di Boiardo

La ripresa della tradizione toscana

Edonismo e malinconia in Poliziano

Testi Poliziano • Ben venga Maggio dalle Canzoni a ballo

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Già nella prima metà del Quattrocento comincia a delinearsi, nell’ambito della poesia volgare, il fenomeno dell’imitazione petrarchesca, che ha poi il suo sviluppo più significativo in una serie di poeti cortigiani della seconda parte del secolo: Antonio Tebaldi di Ferrara, detto il Tebaldeo (1463-1537), Serafino Ciminelli, detto Aquilano (1466-1500), cortigiano presso gli Sforza di Milano e i Gonzaga di Mantova, il catalano Benedetto Gareth, detto il Cariteo (1450 ca.-1514), attivo alla corte napoletana. In questi poeti la ripresa di Petrarca è caratterizzata da un’esasperata insistenza sugli artifici formali, antitesi, corrispondenze, bisticci concettuali e giochi di parole, che sembrano preludere al gusto barocco. L’imitazione del Canzoniere sarà poi destinata a dominare nel secolo successivo, quando sarà rigidamente regolata e darà origine a uno dei generi più diffusi della letteratura cortigiana. Nell’ambito di questo petrarchismo quattrocentesco spicca per originalità il canzoniere di Matteo Maria Boiardo ( p. 47), gli Amorum libri (“Gli amori”), in cui gli smorti schemi della lirica di imitazione sono investiti da una carica di fresca ed esuberante vitalità. Non si ritrovano nelle poesie boiardesche le atmosfere rarefatte, le linee stilizzate, la sorvegliatissima musicalità del modello petrarchesco, ma si riscontra uno slancio di calda sensualità, di vitale ottimismo, che si allarga ad abbracciare tutta la natura. Si tratta perciò di una poesia caratterizzata da vividezza di luci, di colori, di suoni, e da un linguaggio egualmente appassionato e colorito ( T1, p. 48). Nell’opera estremamente eterogenea di Lorenzo de’ Medici ( p. 50) si presenta una serie di Rime, ricche di echi petrarcheschi, ma anche dalla Vita nuova di Dante, che esaltano platonicamente l’amore come elevazione spirituale. Però nel Magnifico l’interesse per la tradizione poetica toscana si estende anche alla poesia popolare, di cui vengono ripresi temi e forme. A questo filone poetico appartengono i Canti carnascialeschi, destinati alle feste di carnevale, in cui, al contrario della lirica di ispirazione petrarchesca, risuonano accenti di edonismo, cioè inviti a godere della giovinezza e dei piaceri. Famoso è il Trionfo di Bacco e Arianna ( T2, p. 51), con il ritornello «Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza». Alla poesia popolare guarda anche l’umanista Angelo Poliziano ( p. 54), appartenente alla cerchia medicea, nelle cui Canzoni a ballo ( T3, p. 56) compare lo stesso raffinato edonismo, pervaso di malinconia per il rapido dileguarsi delle gioie della giovinezza e dell’amore. Temi affini, ma in forme più colte e classicheggianti, si riscontrano nelle Stanze per la giostra ( T4, p. 58), un poemetto mitologico e al tempo stesso encomiastico, in quanto esalta la figura del fratello del Magnifico, Giuliano de’ Medici, in occasione di una sua vittoria in una giostra d’armi: domina anche qui il vagheggiamento della natura idillica percorso da un edonismo voluttuoso, e al tempo stesso dalla malinconia per la fugacità della bellezza.

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico La poesia carnevalesca

A1 Alla corte di Ferrara

Alla tradizione aristocratica del petrarchismo, ai suoi temi spiritualmente elevati e alle sue soluzioni formali elegantemente stilizzate, si contrappone una tendenza antitetica, che si collega non agli ambienti di corte ma a un clima cittadino più popolaresco e ridanciano, pervaso dalla tradizione folklorica del carnevale, e che dal punto di vista letterario si rifà alla poesia burlesca e comico-parodica del Duecento e, più indietro ancora, allo spirito dei giullari e dei goliardi, sboccati e irriverenti. È un filone importante, che occorrerà seguire nel Rinascimento, in antitesi al classicismo composto e armonico degli ambienti cortigiani. All’idealizzazione e alla selezione del reale, che sono proprie del classicismo, questa tradizione contrappone il gusto del rovesciamento parodico, della beffa e dello sberleffo irriverente verso tutto ciò che è sublime e sacro, il gusto per la materialità più greve e corposa. È questa l’altra faccia del Rinascimento, una faccia anticlassicistica e “carnevalesca”. Un rappresentante curioso di questa tendenza nel Quattrocento è Domenico di Giovanni detto il Burchiello (1404 ca.-49), autore di bizzarri e oscurissimi sonetti, scritti in un linguaggio gergale e furbesco, che spesso appaiono puri accumuli di parole senza senso ( T5, p. 64).

Matteo Maria Boiardo La vita Nato nel 1441 da una famiglia dell’antica nobiltà feudale, il conte Matteo

Maria Boiardo ad appena vent’anni si trovò a reggere l’avito feudo di Scandiano, presso Reggio Emilia. Qui trascorse parecchi anni, recandosi solo saltuariamente a Ferrara per partecipare a qualche missione diplomatica ed impiegando il resto del tempo negli studi umanistici e nella caccia. Nel 1476 si trasferì stabilmente a Ferrara (dove scrisse la sua opera maggiore, l’Orlando innamorato, cap. 3, p. 80), come “compagno” del duca Ercole, e negli anni successivi ebbe l’incarico di governatore prima a Modena (1480-83), poi dal 1487 a Reggio, dove morì nel 1494.

Le opere minori e gli Amorum libri Dotato di una buona educazione umanistica, Opere in latino e in volgare Il Canzoniere

Boiardo scrisse in latino opere a carattere encomiastico e, in volgare, una commedia, il Timone. Ma soprattutto occorre ricordare il Canzoniere (o Amorum libri, come lo intitolò Boiardo stesso, rifacendosi a Ovidio) che raccoglie le sue liriche in volgare ispirate all’amore per Antonia Caprara, dama della corte reggiana di Sigismondo d’Este. L’opera fu concepita fra il 1469 e il 1471 e ordinata entro il 1476, ed è composta di 180 testi (per lo più sonetti e canzoni). È organizzata secondo una precisa architettura: il primo libro canta le gioie dell’amore felice e corrisposto, il secondo le sofferenze per il tradimento, il terzo, dopo un oscillare tra speranze, nostalgie, rimpianti, si chiude con il pentimento e la preghiera. L’opera ricalca evidentemente modelli letterari, in primo luogo Petrarca, ma anche gli stilnovisti. Però gli smorti schemi della tradizione sono investiti da una carica poetica esuberante e fresca, che fa del Canzoniere boiardesco un’opera originale nell’ambito della lirica di imitazione petrarchesca fiorita nel corso del Quattrocento. È soprattutto il primo libro che appare come cosa nuova: vi si manifesta uno slancio di intensa sensualità, che si estende a tutta la natura: l’amore diviene come un fremito universale di vitalità, che anima tutte le cose ( T1, p. 48). Anche il linguaggio è lontano dalla rarefatta stilizzazione e dalla levigatezza di quello di Petrarca, e nei suoi evidenti caratteri “padani” conserva qualcosa di spontaneo e immediato.

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L’età umanistica

T1

Matteo Maria Boiardo

Già vidi uscir de l’onde una matina

Temi chiave

• l’apparizione della donna • l’amore come sensualità e vitalità • il motivo della rosa

dagli Amorum libri, I I motivi sin qui ripercorsi – la natura idilliaca, la rosa, la donna bella, la «giovanile etade» – trovano in questi versi una loro sintetica esemplificazione. Il sonetto appartiene al primo degli Amorum libri, quello in cui si celebra l’amore felice e la gioia vitale.

> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.

4

Già vidi uscir de l’onde una matina il sol di ragi1 d’or tutto iubato2, e di tal luce in facia3 colorato che ne incendeva tutta la marina4;

8

e vidi a la rogiada5 matutina la rosa aprir d’un color sì infiamato6 che ogni luntan aspetto avria stimato7 che un foco ardesse ne la verde spina;

11

e vidi aprir a la stagion novella8 la molle erbetta9, sì come esser sòle10 vaga più sempre in giovenil etade11;

14

e vidi una legiadra donna e bella su l’erba coglier rose al primo sole e vincer12 queste cose di beltade13.

1. di ragi: di raggi (lo scempiamento delle consonanti doppie è una caratteristica tipica dei linguaggi padani; vedi anche matina, facia, vv. 1, 3). 2. iubato: chiomato, circondato come dalla criniera di un leone (iuba, latino). 3. in facia: in faccia, sul volto (il sole è perso-

nificato). 4. marina: litorale marino. 5. rogiada: rugiada. 6. la rosa … infiamato: la rosa sbocciare con un color rosso così acceso. 7. che … stimato: che ogni occhio (aspetto) lontano avrebbe creduto.

8. la stagion novella: la primavera. 9. la molle erbetta: l’erba tenera. 10. sòle: suole. 11. vaga … etade: sempre bella quando è appena spuntata. 12. vincer: superare. 13. di beltade: in bellezza.

Analisi del testo Il motivo stilnovisticopetrarchesco

L’intensa sensualità e la vitalità dinamica del ritmo

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Il sonetto propone un motivo stilnovistico-petrarchesco, l’apparizione della bella donna sullo sfondo di una natura primaverile e le lodi della sua bellezza a paragone di quelle naturali. Ognuna delle prime tre strofe è dedicata ad un elemento particolare della natura, il sole nascente, la rosa che sboccia, l’erba che spunta. Questi tre elementi si raccolgono poi insieme nella quarta strofa, nel paragone con la donna, che coglie rose al primo sole sull’erba, e vince tutte queste cose con la sua bellezza. In questo sonetto non vi è però nulla delle atmosfere rarefatte, della raffinata stilizzazione, della levigata armonia musicale che sono proprie della poesia petrarchesca: al contrario vi è uno slancio di intensa sensualità, che imprime una forte spinta dinamica a tutto il discorso. L’amore non presenta complicazioni intellettualistiche o sottili conflitti interiori,

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

Luci e colori vividi

L’indugio sensuale sulle cose

Il motivo della rosa

ma è come un fremito di vitalità che pervade tutte le cose, confondendole in una sorta di tripudio. Questo effetto dinamico è reso stilisticamente dal ritmo incalzante del discorso poetico, che è scandito dalla ripetizione anaforica della stessa formula all’inizio di ognuna delle quattro strofe («Già vidi», v. 1; «e vidi», v. 5; «e vidi», v. 9; «e vidi», v. 12) e dall’assenza di pause, spezzature, enjambements all’interno dei versi. La sensualità si esprime attraverso l’insistenza su luci e colori di forte intensità. Il centro di irradiazione di questa energia sensuale è la sequenza di metafore che si incentra sul fuoco: «incendeva tutta la marina», v. 4; «un color sì infiamato», v. 6; «un foco ardesse», v. 8. La prima metafora, in particolare, giunge in conclusione della strofa, in posizione di piena evidenza, ed è preparata da altre due notazioni affini precedenti, la criniera di raggi d’oro del sole nascente e la luce di cui è «in facia colorato». La seconda strofa, poi, propone un forte contrasto tra colori intensi, vivi, netti: il rosso infiammato della rosa e la «verde spina». E si noti la collocazione simmetrica, in piena evidenza all’inizio dei rispettivi versi, dei due termini di paragone, la «rosa» e il «foco» («la rosa aprir d’un color sì infiamato», «che un foco ardesse ne la verde spina», vv. 6 e 8), mentre l’aggettivo «infiamato», che fa da tramite, è in finale di verso, in posizione mediana tra i due estremi. Sempre nella direzione di un sensuale indugio sulle cose, ma in contrasto con le precedenti strofe, la terza insiste su una nota di freschezza, che è evocata dal vezzeggiativo «erbetta» e dalla trama degli aggettivi, «novella», «molle», «vaga», «giovenil». Anche qui la disposizione delle parole è significativa: «molle erbetta» è in apertura del verso (v. 10), «giovenil etade» in chiusura (v. 11). Rispetto ai poeti medicei il motivo della rosa è presentato con una tonalità peculiare, diversa: non vi è, ad esempio, la sognante malinconia di Poliziano dinanzi alla fugacità del piacere, ma appunto un senso di vitale ottimismo, senza ombre e senza perplessità.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Riassumi i versi 1-11 del sonetto. Quali elementi sono descritti in tutta la loro bellezza? > 2. Qual è il contenuto della terzina finale? AnALizzAre

> 3. Dopo aver riletto con attenzione l’Analisi del testo completa la tabella, rilevando affinità e differenze tra il sonetto di Boiardo ed alcuni motivi letterari precedenti o coevi, secondo l’esempio proposto. Motivi

Affinità

differenze

stilnovistici

lode della donna ..................................................................................................................................................................

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petrarcheschi

> 4. > 5. > 6.

Individua nel testo le figure della personificazione e dell’iperbole. Osserva la collocazione delle parole in rima: che cosa noti? Lingua Analizza la sintassi usata nel componimento: prevale la subordinazione o la coordinazione? Stile Stile

Approfondire e inTerpreTAre

> 7.

Scrivere Descrivi in circa 10 righe (500 caratteri) la concezione della natura che traspare dai versi di Boiardo e spiega se, attraverso il paragone con gli elementi naturali, il poeta intenda idealizzare la figura della donna oppure riportarla a una dimensione più concreta e materiale.

49

L’età umanistica

A2 La congiura dei Pazzi

Lorenzo de’ Medici La vita Figura chiave del mondo culturale e politico italiano nel Quattrocento, Lorenzo, detto per antonomasia il Magnifico, fu signore di Firenze dall’età di vent’anni alla morte (era nato nel 1449 e morì nel 1492). Superata la crisi che seguì alla congiura dei Pazzi (1478), dove perse la vita il fratello Giuliano, svolse un ruolo fondamentale nel conservare l’equilibrio fra i diversi Stati italiani. Con la sua morte, a detta di Guicciardini «incommodissima al resto d’Italia», si chiude un’epoca di relativa pace e si crea quel vuoto di potere che permette l’avvento delle dominazioni straniere nella penisola.

Delineando il profilo psicologico di Lorenzo, Machiavelli osserva: «Si vedeva in lui essere due persone diverse quasi con impossibile coniunzione congiunte». La contraddizione, reale o apparente, tra il sottile e scaltro uomo politico e il poeta e cultore d’arte si riflette nell’opera letteraria di Lorenzo, che presenta una sconcertante varietà di tendenze, di toni e di soluzioni formali, talvolta tra loro diametralmente opposti. In primo luogo troviamo un riflesso diretto dell’atmosfera culturale dominante nella Firenze del tempo. Lorenzo era stato discepolo del filosofo “platonico” Marsilio Ficino, animatore dell’Accademia platonica: e a una visione platonizzante sono ispirate appunto le Selve d’amore (così intitolate per la libera disorganicità della costruzione), in cui Lorenzo canta l’innalzamento del suo amore dalle passioni carnali a una contemplazione pura e disinteressata della bellezza. A questo filone tematico si collega l’interesse per la lirica italiana del Due e Trecento, che esaltava appunto l’amore come elevazione spirituale. Nascono di qui le Rime, folte di echi dallo «stil novo» e da Petrarca, ed il Comento ad alcuni sonetti d’amore, una raccolta di una quarantina di sonetti, muniti di un commento in prosa che si rifà evidentemente al modello della Vita nuova di Dante. Ma alle tendenze idealizzanti di queste opere si contrappone il corposo realismo di altre, che si rifanno invece alla tradizione “borghese”, comica e burlesca. Su queste scelte pesò l’influenza esercitata da Pulci ( cap. 3, T1, p. 71) che mirava proprio a fare della letteratura burlesca l’espressione per eccellenza dell’ambiente mediceo; e, almeno fino al 1473-74, lo stesso Magnifico fu propugnatore di questa tendenza. Di qui nascono vari poemetti: la Caccia col falcone, che ritrae vivacemente una scena di caccia popolata di personaggi della corte; i Beoni, una galleria dei più famosi bevitori della Firenze contemporanea, ritratti con un gusto parodico e grottesco; e soprattutto la Nencia da Barberino, che riproduce le lodi cantate dal contadino Vallera alla pastorella di cui è innamorato, con l’intento parodico e finemente divertito di mettere in caricatura la convenzionale figura del pastore innamorato, tipica della poesia pastorale. È un genere, tra l’altro, in cui si cimenta Lorenzo stesso, con il Corinto, un poemetto bucolico di imitazione virgiliana, che riproduce i lamenti del pastore Corinto per il suo amore infelice. Insieme con la presenza di una campagna stilizzata, secondo le linee dell’idillio classico, compare qui la concezione edonistica tipica dell’Umanesimo, che ritorna, in toni meno elegantemente pensosi, più giocosi e vitali, nelle Canzoni a ballo, ispirate alla lirica popolare, e nei Canti carnascialeschi, tra cui famosissima è la Canzone di Bacco (o Trionfo di Bacco e Arianna). Con queste opere, di carattere edonistico e paganeggiante, fanno singolare contrasto altri componimenti di carattere religioso: i Capitoli, parafrasi di testi biblici, le Laude, che si collegano alla tradizione iniziata sin dal Duecento, e la Sacra rappresentazione dei Santi Giovanni e Paolo. Questa estrema varietà di generi, modelli letterari, toni e stili rende molto difficile il compito di individuare una fisionomia unitaria della personalità di Lorenzo. C’è anzi Le opere

Il platonismo e le Selve d’amore

Le Rime e il Comento

La tradizione comica

Testi Lorenzo de’ Medici • La Nencia da Barberino • Divagazione sul motivo della rosa dal Corinto

Idillio ed edonismo: le Canzoni a ballo e i Canti carnascialeschi

Le opere religiose

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Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

chi l’ha definito un «dilettante», sostanzialmente indifferente alle diverse materie via via assunte, pago soltanto di trovarvi occasione per un virtuosismo tecnico e formale. Tuttavia un interesse fondamentale che costituisce il centro unificatore di così varie esperienze esiste: solo che non va cercato a livello dei contenuti, bensì nell’atteggiamento del colto letterato, innamorato della poesia, che si compiace di sperimentarne tutte le forme, di ripercorrerne tutte le tendenze antiche e nuove, e da questo esercizio insieme appassionato e disincantato trae un sottile piacere intellettuale.

T2

Lorenzo de’ Medici

Temi chiave

Trionfo di Bacco e Arianna

• l’invito a godere delle gioie effimere

dai Canti carnascialeschi

• la fugacità del tempo

della vita

La “canzone a ballo”, musicata, accompagnava uno dei cosiddetti “trionfi”, carri mascherati che, inventati dallo stesso Magnifico, sfilavano per le vie di Firenze durante il carnevale, con accompagnamento di musiche e canti. Il genere dei “canti carnascialeschi”, ossia carnevaleschi, ebbe molta fortuna fino al Cinquecento e se ne prepararono diverse raccolte. Il testo che qui proponiamo, sicuramente il più noto, venne scritto probabilmente per il carnevale del 1490.

> Metro: ballata costituita da sette stanze di ottonari intervallate da una ripresa di quattro versi, con reciproca coinci-

denza, negli ultimi tre, delle parole in rima: «tuttavia»/«sia»/«certezza» (fa eccezione il terzultimo verso); gli ultimi due versi, a loro volta, si ripetono identici, rafforzando la cadenza di un ritornello divenuto quasi proverbiale; schema delle rime: ababbyyx per le stanze, xyyx per la ripresa.

Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia1! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.

Audio

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1. tuttavia: continuamente, senza sosta. 2. Bacco e Arïanna: Arianna, figlia di Minosse, sposò Bacco dopo essere stata abbandonata da Teseo, che aveva aiutato a uccidere il

Quest’è Bacco e Arïanna2, belli, e l’un dell’altro ardenti3: perché ’l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti. Queste ninfe ed altre genti4 sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questi lieti satiretti5, delle ninfe innamorati, per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or, da Bacco6 riscaldati, ballon, salton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Minotauro. 3. ardenti: ardentemente innamorati. 4. genti: personaggi che accompagnano il corteo.

5. satiretti: esseri mitologici per metà uomini e per metà di aspetto caprino. 6. Bacco: qui sta per il vino.

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L’età umanistica

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7. hanno caro … ingannate: sono contente di essere ingannate dai satiri, cadendo nei loro agguati (v. 16). 8. non può … ingrate: solo le persone volgari e senza grazia (ingrate) possono resistere all’amore (gente è plurale e concorda con può).

Queste ninfe anche hanno caro da lor essere ingannate7: non può fare a Amor riparo se non gente rozze e ingrate8: ora, insieme mescolate, suonon, canton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questa soma9, che vien drieto sopra l’asino, è Sileno10: così vecchio, è ebbro e lieto, già di carne e d’anni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Mida11 vien drieto12 a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro13, s’altri poi non si contenta14? Che dolcezza vuoi che senta chi ha sete tuttavia? Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi15; oggi siàn, giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi; ogni tristo pensier caschi16: facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. 9. soma: peso, carico. 10. Sileno: era il precettore di Bacco, è presentato come privo di ogni dignità, grasso e vecchio (di carne e d’anni pieno, v. 32). 11. Mida: il mitico re della Frigia, che ebbe da Bacco il privilegio – rivelatosi poi rovinoso – di trasformare in oro tutto ciò che toccava.

12. drieto: dietro. 13. tesoro: ricchezze. 14. s’altri … contenta: se uno poi non è contento. 15. si paschi: si nutra (nessuno viva pensando al domani). 16. caschi: cada, venga meno.

pesare le parole Ingrate (v. 24)

> Qui vale “prive di grazia”, quindi “sgradevoli, spiacevoli”;

viene dal latino gràtum, “gradito”, con il prefisso in- negativo. Il senso corrente oggi è invece “che non sente o dimostra gratitudine, riconoscenza” (es. sei stato ingrato verso chi ti ha fatto del bene). Il senso originario è però

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rimasto in qualche modo di dire (es. aspetto fisico ingrato, verità ingrata, ricordo ingrato), oppure a indicare qualcosa di faticoso, che si fa malvolentieri (es. mi hai affidato un compito ingrato).

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

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Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core! Non fatica, non dolore! Ciò c’ha a esser, convien sia17. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.

17. convien sia: bisogna che sia così.

Analisi del testo Bacco destinatario del canto

Il sentimento del tempo che scorre e la caducità dei beni terreni

La funzione del ritornello

Il canto è dedicato a Bacco, la divinità del vino e, per estensione, della gioia e del piacere. L’allegoria mitologica ha radici nella letteratura conviviale dell’antichità, ma il suo spirito si ritrova anche in quel filone della letteratura medievale che canta il godimento della vita e dei sensi, secondo una concezione “carnevalesca”. La ripresa di questa tematica, da parte di Lorenzo il Magnifico, appare tuttavia letterariamente più elaborata e distaccata, quasi estenuata. Del canto bacchico resta l’andamento agile e incalzante, quale si conviene alla situazione raffigurata. Ma il carattere edonistico della rappresentazione, che anima le ottave con la presenza di altri personaggi mitologici, congiungendo giovani e vecchi nella ricerca del piacere, nasce da una concezione di fondo pessimistica e malinconica: quella che si basa sul trascorrere del tempo e sulla caducità dei beni terreni (si veda il v. 7, in cui la congiunzione «perché» indica un preciso rapporto di derivazione causale). Si consideri, nel ritornello divenuto quasi proverbiale, l’alternarsi parallelo di versi che alludono, rispettivamente, alla bellezza e alla gioia da un lato, al fuggire della giovinezza e alla precarietà del futuro dall’altro, con un ritmo di facile cantabilità.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Descrivi i personaggi di Bacco e Arianna, Sileno e re Mida, come appaiono nel Trionfo. AnALizzAre

> 2. Individua e spiega che cosa rappresenta ciascun personaggio del canto. > 3. Stile Nel testo prevale la coordinazione o la subordinazione? Con quale effetto? > 4. Lessico Individua e sottolinea in ogni strofa le immagini appartenenti ai due campi semantici contrapposti:

quello della gioia e del godimento del presente e quello della fugacità del tempo e dell’incertezza del futuro. > 5. Lessico Analizza il lessico usato. Prevalgono termini rari, aulici, preziosi oppure quelli di uso comune? La scelta dell’autore è coerente con la destinazione dell’opera? Approfondire e inTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente Come si fa notare nell’Analisi del testo, in questa ballata l’esaltazione della giovinezza e dei piaceri ad essa collegati convive ed è generata dalla constatazione della fugacità del tempo e della fragilità della vita umana. Quale di questi due aspetti secondo te è prevalente? La suggestione che ti deriva dalla lettura ha un sapore allegro o malinconico? Spiega oralmente (max 3 minuti) il motivo di questa tua sensazione.

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L’età umanistica

> 7. Video da L’attimo fuggente

Altri linguaggi: cinema L’attimo fuggente è un film del 1989, diretto da Peter Weir ed interpretato da Robin Williams, il cui senso ultimo è l’invito a godere delle gioie della giovinezza e a vivere la vita con pienezza. Dopo aver visto il film, soffermati sulla parte in cui il professore illustra la filosofia del «carpe diem». A quali versi fa riferimento? Che cosa esprimono?

per iL poTenziAMenTo

> 8. I personaggi del corteo sono tutti legati al dio Bacco: in che modo e perché?

Fotogramma dal film L’attimo fuggente di Peter Weir, con Robin Williams, USA 1989.

A3 La cerchia medicea

Arte Botticelli e il Neoplatonismo

Dopo la morte di Lorenzo de’ Medici

Angelo poliziano Angelo Ambrogini (Montepulciano 1454-Firenze 1494), detto Poliziano dal suo luogo di origine, latinamente Mons Politianus, può essere considerato in assoluto una delle personalità culturali più importanti e forse il maggior poeta italiano del Quattrocento. Uccisogli il padre quando aveva solo dieci anni, giunse giovanissimo a Firenze, dove fu ammesso nella cerchia degli intimi di Lorenzo il Magnifico e divenne precettore del figlio di questi Piero. Nel 1479, venuto in urto con la moglie di Lorenzo, Clarice Orsini, passò alla corte mantovana dei Gonzaga. Già nel 1480 però, riconciliatosi coi Medici (famosa è la lettera con cui egli implora il perdono di Lorenzo), ritornò a Firenze, dove ottenne la cattedra di eloquenza latina e greca presso lo Studio fiorentino. Solo raramente, da quel momento, si allontanerà da Firenze e dalla sua occupazione di insegnante. Con la morte di Lorenzo de’ Medici, nel 1492, e la crisi che ne seguì, Poliziano si volse alla ricerca di una sistemazione più sicura, intraprendendo la carriera ecclesiastica. Nel 1493 Piero de’ Medici lo raccomandò al papa per la nomina a cardinale; ma nel 1494, poco prima del crollo del regime mediceo in conseguenza della calata in Italia di Carlo VIII, Poliziano morì, appena quarantenne.

La vita

Alla sua produzione di poeta Poliziano affianca il lavoro filologico, che fa di lui uno dei più grandi filologi umanisti. Il frutto del suo lavoro si trova nei Miscellanea (1489), raccolta di cento discussioni di varia lunghezza intorno a questioni testuali e interpretative di particolare importanza. Egli mette a frutto la sua straordinaria conoscenza del mondo antico e delle lingue classiche per uno studio rigorosamente scientifico, sostenuto da un profondo senso della storia, dei testi e dei problemi linguistici. Dallo studio appassionato dei documenti della classicità nasce anche la produzione poetica originale latina e greca. In latino scrisse odi, elegie ed epigrammi, con temi non dissimili da quelli della produzione di altri umanisti; a queste liriche vanno aggiunte le prolusioni in versi ai corsi universitari da lui tenuti, raccolte sotto il titolo di

L’attività filologica e la produzione poetica in latino e in greco La filologia: i Miscellanea

La poesia latina, le Sylvae e gli Epigrammi in greco

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Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

Sylvae. In greco scrisse circa una sessantina di Epigrammi, che dimostrano una straordinaria padronanza di quella lingua. Si tratta di una produzione erudita, che si risolve spesso in puro esercizio di lingua. Nella produzione in volgare Poliziano riesce a fondere le suggestioni della cultura e della lingua classica con il patrimonio della poesia toscana del Due e Trecento. Anche la sua attività di poeta volgare prende le mosse da un intervento filologico: si ricordi il ruolo decisivo da lui svolto nella compilazione della cosiddetta Raccolta aragonese (1476-77), l’antologia di poesie toscane inviata dal Magnifico a Federico d’Aragona. Negli stessi anni in cui viene redatta questa raccolta, Poliziano attende alla stesura delle Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano (1475-78). Si tratta di un poemetto in ottave, inteso a celebrare la vittoria di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, in una giostra d’armi, e a cantare l’amore del giovane per una bella donna genovese, Simonetta Cattaneo ( T4, p. 58). L’opera, pur partendo da intenti encomiastici e descrittivi, svolge una trama di fantasie remotissime da ogni realtà cronachistica e quotidiana (poiché il poemetto è rimasto incompiuto, la giostra e la vittoria non sono neppure trattate). Il poemetto è tutto pervaso dal vagheggiamento della bellezza e della giovinezza, proiettate in un mondo ideale, fuori dello spazio e del tempo storico. Questo mondo è però dominato da un senso di precarietà, perché il bel sogno è insidiato dallo scorrere del tempo, dalla fortuna, dalla morte. Accanto alla celebrazione edonistica della pienezza vitale giovanile vi sono però intenzioni allegoriche, ispirate alla cultura neoplatonica, che alludono a un percorso di elevazione e rinnovamento interiore dell’eroe. Dal punto di vista letterario e stilistico siamo di fronte a un perfetto esempio di gusto classicheggiante: continui sono i rimandi ai miti antichi, e il discorso è tutto intessuto di reminiscenze e citazioni di parole, clausole, immagini tratte dai classici latini e greci come dagli autori italiani, il tutto fuso in una straordinaria levigatezza e musicalità del verso. Vi si realizza così pienamente l’ideale polizianesco della mescolanza e fusione di elementi attinti da fonti diverse. Anteriori al 1480, cioè appartenenti al periodo giovanile, sono i Rispetti e le Canzoni a ballo, in cui, come Lorenzo il Magnifico, anche Poliziano si volge alla poesia popolare, affascinato dalla sua levità aggraziata e musicale, che tuttavia viene sottoposta a una raffinatissima elaborazione letteraria ( T3, p. 56). Vicina a questi temi e a queste soluzioni stilistiche è la Favola di Orfeo. Favola ha il senso del latino fabula, cioè testo teatrale: si tratta infatti di un testo composto per una festa nuziale celebrata presso la corte dei Gonzaga a Mantova nel 1480 (ma non si sa se fu realmente messo in scena). L’impianto dell’opera è tratto dalle sacre rappresentazioni, che all’epoca erano ancora molto diffuse. Ma, con ardita innovazione, Poliziano sostituisce gli argomenti sacri con un argomento profano, mitologico, la vicenda di Orfeo ed Euridice: la Favola viene così a costituire il primo testo drammatico in lingua italiana di argomento non religioso, fondendo l’elemento pastorale con quello mitologico. Anche questa è un’opera squisitamente letteraria, che nasce dal vagheggiamento dei modelli classici, in primo luogo Virgilio e Ovidio; si ripropone inoltre il raffinato intarsio di citazioni e reminiscenze da poeti precedenti, classici e italiani, che è costitutivo del gusto classicistico di Poliziano. Ritorna anche qui il sogno idillico di una vita priva di contrasti e di dolori, fuori dal tempo e dallo spazio e remota dalla realtà quotidiana, insieme col vagheggiamento della bellezza, della giovinezza, dell’amore, e anche qui, nel tragico destino di Euridice, per due volte sottratta all’amore di Orfeo, si proietta la malinconica consapevolezza della precarietà di quei beni, del loro essere sottoposti continuamente a forze ostili. Nemmeno la forza della poesia, adombrata nella figura del mitico cantore Orfeo, che col suo canto piega il volere degli dei infernali, riesce a vincere la morte.

La produzione in volgare La Raccolta aragonese

Le Stanze

Testi Poliziano • Il regno di Venere dalle Stanze per la giostra

La forma e i contenuti classici

I Rispetti e le Canzoni a ballo

La Favola di Orfeo

La materia mitologica

Il gusto classicistico

Testi Poliziano • Il pastore innamorato da La favola di Orfeo

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L’età umanistica

T3

Angelo poliziano

Temi chiave

i’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino

• il giardino come luogo di delizie • la breve durata della bellezza • l’invito a godere le gioie dell’amore in età giovanile

dalle Canzoni a ballo Domina in questa famosa ballata la celebrazione della giovinezza, della bellezza e dell’amore, proiettati su uno sfondo di natura primaverile: la voce narrante è quella di una ragazza.

> Metro: ballata, o “canzone a ballo”, di endecasillabi; schema delle rime: ABABBX per la strofa, XX per la ripresa. L’ultima parola del componimento, «giardino», coincide con l’ultima della ripresa.

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio1 in un verde giardino. Audio

5

Eran d’intorno vïolette e gigli fra l’erba verde, e vaghi2 fior’ novelli3, azzurri, gialli, candidi e vermigli4: ond’io porsi la mano a côr5 di quelli per adornar e mie’ biondi capelli e cinger di grillanda el vago crino6. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

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Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo7, vidi le rose, e non pur8 d’un colore: io corsi allor per empier tutto el grembo, perch’era sì soave il loro odore che tutto mi sentì’ destar9 el core di dolce voglia e d’un piacer divino. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

20

I’ posi mente10: quelle rose allora mai non vi potre’ dir quant’eron belle: quale scoppiava della boccia11 ancora; qual’ eron un po’ passe12 e qual’ novelle13. Amor mi disse allor: – Va’, cô’14 di quelle che più vedi fiorire in sullo spino –. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

25

Quando la rosa ogni suo’ foglia15 spande, quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a metterla in grillande,

1. di mezzo maggio: verso la metà di maggio. 2. vaghi: belli, graziosi. 3. novelli: appena sbocciati. 4. vermigli: color rosso fuoco. 5. côr: cogliere. 6. cinger … crino: incoronare con una ghir-

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landa i leggiadri capelli. 7. un lembo: della veste. 8. non pur: non solo. 9. destar: risvegliare, commuovere. 10. posi mente: fermai l’attenzione, mi misi a riflettere.

11. scoppiava della boccia: era nella piena fioritura. 12. passe: appassite. 13. novelle: ancora in bocciolo. 14. cô’: cògli, imperativo. 15. foglia: petalo.

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

prima che sua bellezza sia fuggita: sicché, fanciulle, mentre è più fiorita, cogliàn16 la bella rosa del giardino. 30

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.

16. cogliàn: raccogliamo.

Analisi del testo

> il motivo del giardino

Il giardino e la tematica idillica

La civiltà cortigiana e l’otium

Il motivo della rosa

La malinconia per la labilità delle cose belle

Lo sfondo della poesia è costituito da una natura primaverile, rappresentata con colori vivi, intensi, nettamente delineati («azzurri, gialli, candidi e vermigli», v. 5), che rimandano alle immagini della pittura del tempo. Oltre al gusto figurativo, tale scenario si collega anche ad un motivo molto caro alla cultura umanistico-rinascimentale: il giardino, inteso come luogo di delizie, locus amoenus. A sua volta, il giardino non è che la manifestazione particolare di una tematica più vasta, quella idillica: essa consiste essenzialmente nel vagheggiare una natura fresca, ridente, come immagine di perfetta serenità e gioia, che esclude ogni affanno e preoccupazione (una visione della natura che spesso è legata alla vita pastorale). Il motivo idillico è particolarmente caro alla cultura cortigiana del Rinascimento perché in esso si manifestano le sue fondamentali aspirazioni: un ideale di otium (cioè un distacco da ogni attività) sereno, lontano dagli urti della realtà prosaica e dai conflitti della storia, dedicato al culto della bellezza, della poesia, dei piaceri e dell’amore. È il sogno di un’élite privilegiata, che ha sensibilità e raffinatezza in grado di gustare tutto ciò che è bello, e il tempo libero per farlo, e perciò ama collocarsi idealmente in una sfera separata dalla realtà comune.

> L’edonismo

Nella seconda parte della canzone spicca il motivo del «cogliere la rosa», che ha un chiaro valore simbolico: è un invito a godere le gioie dell’amore sinché l’età giovanile lo consente. In questa luce l’ambiente primaverile acquista anch’esso un valore metaforico: la primavera è la stagione in cui la natura è ricca di forze, come la giovinezza, ed è la stagione degli amori. Al vagheggiamento idillico del “luogo ameno” si associa così un altro tema centrale nella cultura cortigiana del Quattrocento, l’edonismo. Questo tema in Poliziano, come è stato sempre sottolineato, si vela di malinconia, al considerare la labilità delle cose belle e la fugacità del tempo («prima che sua bellezza sia fuggita», v. 27). Tuttavia è un senso della fragilità delle cose ben diverso da quello petrarchesco. Petrarca, dinanzi all’inevitabile dissolversi della bellezza, prospettava (sia pur senza riuscire a raggiungerla coerentemente) una soluzione religiosa, la rinuncia alle cose mondane che passano e il rivolgersi a quelle eterne. La posizione di Poliziano è invece del tutto laica: se le cose belle sono effimere, bisogna goderle prima che esse si dileguino.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Riassumi i temi principali della ballata. AnALizzAre

> 2. Che cosa rappresentano, al di là del significato letterale, il giardino, la fanciulla e la stagione primaverile? > 3. Lingua Nel componimento sono presenti una proposizione con valore consecutivo e alcune con valore finale: riconoscile e trasforma quelle implicite in esplicite.

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L’età umanistica

Approfondire e inTerpreTAre

> 4.

Audio

Testi a confronto Svolgi in circa 12 righe (600 caratteri) un confronto tra questo componimento e il Trionfo di Bacco e Arianna ( T2, p. 51) di Lorenzo de’ Medici, riflettendo in particolare sul modo in cui viene affrontato dai due poeti il tema della brevità della vita e della caducità dei beni terreni. > 5. Altri linguaggi: musica Un famoso cantautore italiano, violinista e polistrumentista contemporaneo, Angelo Branduardi, ha rielaborato sul tema del carpe diem una melodia medievale ungherese: ne è nato il brano dal titolo Cogli la prima mela. Dopo aver ascoltato il brano ed averne esaminato il testo, rintraccia le possibili affinità con l’invito a godere le gioie dell’amore dei testi e delle ballate cinquecentesche.

Copertina dell’album Cogli la prima mela di Angelo Branduardi, 1979.

T4

Angelo poliziano

Temi chiave

iulio e Simonetta

• l’aspirazione platonica alla bellezza • la visione naturalistica dell’amore

dalle Stanze per la giostra

• idillio ed edonismo • l’imitazione dei classici

e il percorso iniziatico

Il giovane e bellissimo Iulio (il cui nome latineggiante allude a Giuliano de’ Medici) trascorre le sue giornate tra la caccia e le armi, disdegnando l’amore e coloro che sono vittime del suo «van furore». Per questo il dio Cupido decide di punirlo. In una mattina di primavera Iulio esce a caccia con i suoi compagni. Il dio forma l’immagine di una bella cerva e Iulio la insegue per il bosco, ma non riesce a raggiungerla. Arrivato in un prato verde e fiorito, al posto della cerva gli appare sotto un candido velo una ninfa. Pieno di meraviglia la contempla e sente in cuore una dolcezza mai provata, mentre un fuoco d’amore lo invade (libro I, ottave 43-55).

> Metro: ottave di endecasillabi, con rime ABABABCC. 43

Candida è ella1, e candida la vesta, ma pur di rose e fior’ dipinta2 e d’erba; lo inanellato crin dall’aurea testa scende in la fronte3 umilmente superba; rideli4 a torno tutta la foresta, e quanto può suo cure disacerba5; nell’atto regalmente è mansüeta, e pur col ciglio6 le tempeste acqueta.

44

Fólgoron7 gli occhi d’un dolce sereno, ove sue face tien Cupido ascose8; l’aier d’intorno si fa tutto ameno, ovunque gira le luci9 amorose;

1. ella: si tratta di Simonetta Cattaneo, la donna amata da Giuliano de’ Medici. 2. dipinta: «ornata, adorna» (Maier). 3. lo inanellato … fronte: i riccioli (inanellato crin) biondi, d’oro, scendono dal capo

58

sulla fronte (umilmente superba è un ossimoro). 4. rideli: le sorride. 5. suo … disacerba: mitiga il suo affanno. 6. pur col ciglio: solo con lo sguardo.

7. Fólgoron: risplendono. 8. ove … ascose: dove Cupido tiene nascoste le sue fiaccole (sue face). 9. le luci: gli occhi.

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

di celeste letizia il volto ha pieno, dolce10 dipinto di ligustri11 e rose; ogni aura tace al suo parlar divino, e canta ogni augelletto in suo latino12. 45

Con lei se’n va Onestate umile e piana13 che d’ogni chiuso cor volge la chiave14; con lei va Gentilezza in vista15 umana, e da lei impara il dolce andar16 soave; non può mirarli il viso alma villana17, se pria di suo fallir doglia non have18; tanti cori Amor piglia, fere o ancide19, quanto20 ella o dolce parla o dolce ride21.

46

Sembra Talia22 se in man prende la cetra, sembra Minerva23 se in man prende l’asta; se l’arco ha in mano, al fianco la faretra, giurar potrai che sia Dïana24 casta. Ira dal volto suo trista25 s’arretra, e poco, avanti a lei, Superbia basta26; ogni dolce virtù l’è in compagnia, Biltà27 la mostra a dito e Leggiadria.

47

Ell’era assisa28 sovra la verdura29, allegra, e ghirlandetta avea contesta di quanti fior’ creassi mai natura30, de’ quai tutta dipinta era sua vesta; e, come prima al gioven puose cura31, alquanto32 päurosa alzò la testa, poi, colla bianca man ripreso il lembo, levossi in piè con di fior’ pieno un grembo.

48

Già s’invïava, per quindi partire33, la ninfa, sovra l’erba, lenta lenta34, lasciando il giovinetto in gran martire35, che fuor di lei null’altro omai talenta36. Ma non possendo el miser ciò soffrire37,

10. dolce: dolcemente. 11. ligustri: piccoli fiori bianchi. 12. in suo latino: nel suo linguaggio. Cfr. Cavalcanti, Fresca rosa novella, vv. 10-11 («e cantino gli auselli / ciascuno in suo latino»). 13. piana: semplice (compare, in questa ottava, la caratterizzazione tipica della donna stilnovistica). 14. che … chiave: che riesce ad aprire anche i cuori più chiusi. 15. in vista: sotto forma, in forma. 16. andar: portamento. 17. alma villana: persona scortese. Cfr. Guinizzelli, I’ voglio del ver la mia donna laudare, v. 12, «non le pò appressar om che sia vile»; Dante, Donne ch’avete intelletto d’amore, vv. 33 e 56, «gitta ne’ cor villani amore un gelo», «là ve non pote alcun mirarla fiso».

18. se pria … have: se prima non prova dolore, non si è pentita dei propri errori. 19. fere o ancide: ferisce o uccide. 20. quanto: quando. 21. o dolce … ride: cfr. Petrarca, CLIX, v. 14 («e come dolce parla e dolce ride»). Ma a sua volta Petrarca ricalca Catullo, «te spectat et audit / dulce ridentem» (Carmi, LI, vv. 4-5: «ti vede e ode ridere dolcemente») e Orazio (Odi, I, 22: «dulce ridentem Lalagen amabo, dulce loquentem»; «amerò Lalage che dolce ride e dolce parla»). 22. Talia: una Musa (è indicazione generica, in quanto Talia era propriamente la musa della poesia comica). 23. Minerva: dea della sapienza e anche della guerra. 24. Dïana: dea della caccia, alla quale Iulio era particolarmente devoto.

25. trista: malvagia. 26. basta: dura, resiste. 27. Biltà: beltà, bellezza. 28. assisa: seduta. 29. sovra la verdura: sopra il verde prato. 30. ghirlandetta … natura: aveva intrecciato una piccola ghirlanda con tutti i fiori creati dalla natura. 31. come … cura: appena rivolse l’attenzione al giovane. 32. alquanto: un poco. 33. Già … partire: già si avviava per allontanarsi di lì. 34. lenta lenta: lentamente. 35. in gran martire: in una grande angoscia. 36. che … talenta: che ormai non desidera nient’altro al di fuori di lei. 37. soffrire: sopportare.

59

L’età umanistica

con qualche priego38 d’arrestarla tenta; per che, tutto tremando e tutto ardendo, così umilmente incominciò dicendo: 49

– O qual che tu ti sia, vergin sovrana, o ninfa o dea – ma dea m’assembri39 certo; se dea, forse se’ tu la mia Dïana; se pur40 mortal, chi tu sia fammi certo41, ché tua sembianza è fuor di guisa umana42; né so già io qual sia tanto mio merto43, qual dal ciel grazia, qual sì amica stella, ch’io degno sia veder cosa sì bella –.

50

Volta la ninfa al suon delle parole, lampeggiò d’un sì dolce e vago riso44, che i monti avre’ fatto ir, restare il sole45: ché ben parve s’aprisse un paradiso. Poi formò voce fra perle e vïole46, tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso47; soave, saggia e di dolcezza piena, da innamorar, non ch’altri48, una Sirena49:

51

– Io non son qual tua mente in vano auguria50, non d’altar degna, non di pura vittima51; ma là sovra Arno innella52 vostra Etruria sto soggiogata alla teda legittima53; mia natal patria è nella aspra Liguria54, sovra una costa alla riva marittima55, ove fuor de’ gran massi indarno56 gemere si sente il fer Nettunno57 e irato fremere.

52

Sovente in questo loco mi diporto58, qui vegno a soggiornar tutta soletta; questo è de’ mia59 pensieri un dolce porto, qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier m’alletta60; quinci il tornare a mia magione è accorto61, qui lieta mi dimoro Simonetta62,

38. priego: preghiera. 39. m’assembri: mi sembri. 40. pur: invece. 41. fammi certo: rivelami, dimmi. Cfr. Odissea, VI, vv. 149-153, in cui Odisseo si rivolge a Nausicaa: «Sei dea o sei mortale? Se dea tu sei […] Artemide certo […] per bellezza e grandezza e figura mi sembri. Ma se tu sei mortale …» (trad. it. di R. Calzecchi Onesti). 42. tua sembianza … umana: il tuo aspetto è sovrumano, al di sopra di ogni possibilità umana. 43. tanto mio merto: il mio merito così grande. 44. lampeggiò … riso: lanciò un sorriso dolce e bello. 45. i monti … sole: avrebbe fatto muovere

60

(ir) i monti e fermare il sole (figura retorica dell’adynaton). 46. perle e vïole: metafora per «denti e labbra» (Contini). 47. diviso: spezzato in due. 48. non ch’altri: per non dire di altri. 49. Sirena: «secondo il mito le Sirene erano bensì vaghe allettatrici, ma insensibili e crudeli» (Maier). 50. auguria: presagisce, immagina. 51. di pura vittima: che mi venga sacrificata, come a un dio, una vittima innocente. 52. innella: nella. 53. soggiogata … legittima: sposata (teda era la fiaccola usata nell’antichità per accompagnare la sposa alla casa dello sposo). 54. Liguria: «Simonetta Cattaneo, moglie di

Marco Vespucci, era genovese e risiedeva a Portovenere» (Contini). 55. sovra … marittima: sopra una costa alta sul mare. 56. fuor … indarno: sopra gli scogli invano. 57. Nettunno: Nettuno, dio del mare. 58. diporto: passeggio. 59. mia: miei. 60. m’alletta: mi piace. 61. quinci … accorto: di qui il ritorno a casa mia è rapido. 62. lieta … Simonetta: io, che mi chiamo Simonetta, me ne sto lieta (il nome della donna è un sostantivo che funge da apposizione e che conferisce un tono elevato alla costruzione del periodo).

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa63, e spesso in compagnia d’alcuna ninfa. 53

Io soglio pur nelli ozïosi tempi64, quando nostra fatica s’interrompe, venire a’ sacri altar’ ne’ vostri tempî65 fra l’altre donne con l’usate pompe66; ma perch’io in tutto el gran desir t’adempî67 e ’l dubbio tolga che tuo mente rompe68, meraviglia di mie bellezze tenere non prender già69, ch’i’ nacqui in grembo a Venere70.

54

Or, poi che ’l sol sue rote in basso cala e da questi arbor cade maggior l’ombra71, già cede al grillo la stanca cicala, già ’l rozzo zappator del campo sgombra72, e già dell’alte ville il fumo essala, la villanella all’uom suo el desco ingombra73, omai riprenderò mia via più accorta74; e tu lieto ritorna alla tua scorta –.

55

Poi con occhi più lieti e più ridenti, tal che ’l ciel tutto asserenò75 d’intorno, mosse sovra l’erbetta a passi lenti con atto d’amorosa grazia adorno. Feciono e boschi allor dolci lamenti e gli augelletti a pianger cominciorno: ma l’erba verde sotto i dolci passi bianca, gialla, vermiglia e azzurra fassi76.

63. linfa: fonte. 64. nelli ozïosi tempi: nei giorni festivi. 65. tempî: templi, chiese. 66. usate pompe: consueto abbigliamento sfarzoso ed elegante. 67. el gran … t’adempî: esaudisca il tuo grande desiderio. 68. tuo mente rompe: assilla la tua mente. 69. meraviglia … prender già: non ti stupire della mia graziosa bellezza. 70. in grembo a Venere: in riva al mare, dal quale era nata Venere. Qui però si riferisce alla bellezza di Venere. 71. Or … ombra: ora che il sole tramonta e le

ombre si allungano. È una reminescenza dei versi finali della prima Bucolica di Virgilio, «et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae» («e già di lontano i comignoli dei casolari fumano, e più lunghe calano le ombre dagli alti monti»); cfr. il verso 5 di questa stessa ottava, «e già dell’alte ville il fumo essala». Però Virgilio è filtrato attraverso Petrarca, Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina, v. 12: «onde discende / dagli altissimi monti maggior l’ombra». 72. sgombra: se ne va. L’immagine dello zappatore che torna a sera dal campo è ri-

presa da Petrarca, canzone Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina: «l’avaro zappador l’arme riprende, […] et poi la mensa ingombra / di povere vivande», vv- 18-22. Si noti come Poliziano riprenda anche le rime petrarchesche «sgombra» / «ingombra». 73. el desco ingombra: apparecchia la tavola. 74. più accorta: più sollecita. 75. asserenò: rasserenò. 76. ma … fassi: invece l’erba sotto i suoi dolci passi assume diverse colorazioni; gli uccelli sono tristi per la partenza di Simonetta, l’erba è lieta di essere calpestata.

Analisi del testo La bellezza e lo spirito della classicità

> L’aspirazione platonica alla bellezza

Il mito centrale delle Stanze è quello della bellezza: una bellezza armoniosa, perfetta, dall’assoluta purezza di linee, contemplata attraverso lo spirito della classicità. È questo il sogno di tutto l’Umanesimo “platonico”, l’aspirazione a un mondo ideale che si collochi al di là del mondo effimero e squallido delle apparenze contingenti: Poliziano, che vive im61

L’età umanistica

La figura femminile e la natura

merso nell’atmosfera platonizzante della Firenze medicea, lo traduce nella musicalità delle sue ottave. L’ideale della bellezza prende corpo nella figura di Simonetta: tutta la scena del suo incontro con Iulio è immersa in un’atmosfera di miracolo e di apparizione sovrannaturale, in cui la figura femminile si colloca in una dimensione oltreumana, ed è contemplata in una sorta di rapimento estatico. Tra l’immagine della donna e la bella natura primaverile che la circonda si crea una segreta armonia («rideli a torno tutta la foresta…», «ogni aura tace al suo parlar divino»). La bellezza si presenta anche come giovinezza, freschezza intatta di forze. La stagione primaverile in cui avviene l’apparizione, con i suoi colori vividi («ma l’erba verde sotto i dolci passi / bianca, gialla, vermiglia e azzurra fassi»), diviene per il poeta il simbolo di questa stagione privilegiata della vita, capace di aprirsi all’assaporamento del piacere e dell’amore con slancio vitale e con innocenza insieme.

> La visione naturalistica dell’amore L’amore forza naturale e sana

Un percorso iniziatico

Moduli stilnovistici e petrarcheschi

L’armonia con la natura Un Eden incantato

La fugacità delle belle cose

62

Oltre all’idealizzazione platonizzante della bellezza si coglie perciò nell’episodio una visione naturalistica, in modo analogo a quanto avviene più volte in Boccaccio: l’esaltazione dell’amore come forza naturale e sana, che nulla deve ostacolare nella sua affermazione. Questo è uno dei significati centrali dell’episodio: Iulio, prima estraneo all’amore, ora si apre ad esso, impara ad accogliere in sé la sua forza vivificante. Vi è quindi una stretta affinità tematica tra questo episodio delle Stanze e la canzone a ballo I’ mi trovai, fanciulle ( T3, p. 56). C’è chi ha sostenuto che questa celebrazione dell’amore celi significati segreti ed alluda ad un percorso iniziatico del giovane, di elevazione e rigenerazione spirituale in senso platonizzante, dalla vita dei sensi alla vita contemplativa, dai valori terreni a quelli metafisici, dalla Venere terrena a quella celeste (come hanno osservato Branca, Martelli, Doglio). Questo è indubbiamente vero, e lo conferma poi l’impianto simbolico del libro II, ma appartiene più che altro all’intenzione, al disegno astratto del poemetto; la realtà effettuale è diversa, ed è innegabilmente colma di naturalismo sensuale e di edonismo.

> La visione idillica, l’edonismo e la malinconia

L’apparizione sovrannaturale della bellezza femminile sullo sfondo di una ridente natura è evidentemente ricalcata su moduli stilnovistici e petrarcheschi, come rivela il fitto intreccio di parole, formule, versi interi attinti a Dante e Petrarca. Tuttavia la presenza di questa esaltazione della forza naturale dell’amore fa sì che la celebrazione della donna e la contemplazione estatica della sua bellezza siano lontanissime dallo spirito di quei poeti: è assente in Poliziano ogni complicazione intellettualistica, ogni esplorazione tormentata di un contraddittorio paesaggio interiore: nella sua poesia vi è solo un dolce e voluttuoso abbandonarsi alle cose, un sereno assaporare una condizione di armonia con la natura. È questo il sentimento della vita che si definisce idillico: il creare un mondo remoto dalla vita reale, una sorta di Eden incantato che ignora lotte, conflitti, meschinità quotidiane, dolori, la morte stessa. È una concezione che è tipica del classicismo cortigiano del Rinascimento, come abbiamo già sottolineato nell’analisi di I’ mi trovai, fanciulle ( T3, p. 56); e questo sogno troverà subito dopo, alla fine del canto, la sua espressione più chiara ed esplicita nella descrizione del giardino di Venere, in cui ride sempre primavera, in cui nulla decade e muore, in cui regnano solo la bellezza e l’amore. Alla visione idillica della cultura cortigiana si associa quindi strettamente l’edonismo. Tuttavia, a questo edonistico assaporamento delle belle cose si accompagna la coscienza della loro inevitabile fugacità; perciò, come nella ballata delle rose, il vagheggiamento della bellezza, della giovinezza e delle gioie d’amore nella conclusione dell’episodio si vela di malinconia: il dileguarsi di Simonetta, mentre cadono le ombre della sera e gli usignoli intonano il loro canto, esprime tutto lo struggimento di Poliziano per il rapido passare di ogni cosa bella.

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

> Gli ideali formali del classicismo I miti antichi

L’intarsio delle reminiscenze letterarie

La poetica dell’imitazione

Come le Stanze esprimono esemplarmente la visione idillica ed edonistica del tardo Umanesimo cortigiano, così realizzano perfettamente anche gli ideali formali della poesia volgare classicheggiante. Il sogno di bellezza e giovinezza è continuamente contrappuntato dal ricordo dei miti classici, ed è fissato nelle loro linee nitide e armoniose, quali il poeta poteva trovare nei versi degli antichi. Si vedano ad esempio, nell’ottava 46, i paragoni di Simonetta con la musa Talia che prende in mano la cetra, con la dea Minerva che impugna l’asta, con Diana che reca l’arco in mano. Ma soprattutto al livello della lingua e dello stile tutto il discorso poetico risulta un intarsio di immagini, parole, versi attinti a classici greci, latini, italiani, che la melodiosità della frase assorbe e fonde, creando una superficie eguale di assoluta levigatezza e nitore. Abbiamo richiamato in nota questi rimandi. Vediamo passare in atto, attraverso questi procedimenti, la poetica dell’imitazione che è propria della letteratura umanistica, anzi per l’esattezza della «dotta varietà», che Poliziano teorizza nella polemica con Paolo Cortese ( Il contesto, Caratteristiche e generi della letteratura italiana in età umanistica, p. 23). Sembra che il poeta non possa esprimere nulla che non sia già stato fissato nelle clausole armoniose e perfette di un classico, greco, latino o italiano. In questo assaporamento voluttuoso della bellezza di formule, cadenze, immagini di poeti classici si può cogliere una diversa manifestazione dell’edonismo che ispira Poliziano: un edonismo della parola.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Quali riferimenti presenti nel testo sono tipici del genere encomiastico cui appartiene l’opera? > 2. Delinea, in base al testo, la descrizione fisica di Simonetta. > 3. Emergono, dalla presentazione di Simonetta, tratti del comportamento? Motiva la tua risposta. AnALizzAre

> 4. Individua nel testo un’affermazione riconducibile al mondo cortese. > 5. Stile Come spieghi la quasi totale assenza, nel testo, di enjambements? > 6. Stile Nel testo risulta prevalente la coordinazione rispetto alla subordinazione? Motiva la tua risposta. Approfondire e inTerpreTAre

> 7.

Scrivere Delinea sinteticamente la figura di Iulio: presenta i tratti caratteristici dell’amante nella poesia stilnovista? Motiva la tua risposta in circa 10 righe (500 caratteri). > 8. Altri linguaggi: arte Metti a confronto la descrizione di Simonetta e l’immagine: quali analogie fra le due rappresentazioni autorizzano l’ipotesi di suggestioni polizianesche nell’opera di Botticelli?

Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1482-85, tempera su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi.

63

L’età umanistica

per iL reCUpero

> 9. Quale poeta, fra i maggiori del Trecento, ha cantato la figura femminile rappresentandola in uno scenario naturale idillico? Motiva la tua risposta.

per iL poTenziAMenTo

> 10. Effettua un approfondimento sulla complessa simbologia sottesa alle figure femminili mitologiche citate nel passo: Talia, Minerva, Dïana (particolarmente cara a Iulio), Sirena.

A4

domenico di Giovanni, detto il Burchiello Domenico di Giovanni (Firenze, 1404) esercitava a Firenze il mestiere di barbiere: nella sua bottega erano accolti letterati ed artisti e non si facevano misteri sull’antipatia del proprietario per il regime mediceo. Cosimo lo mandò in esilio nel 1434 ed egli, dopo un lungo soggiorno a Siena, morì squattrinato a Roma nel 1449. La vita

La sua produzione consiste esclusivamente di una raccolta di sonetti, composti alla “burchia”, alla maniera cioè con cui vengono caricate le barche, ossia alla rinfusa: di qui il soprannome. Il Burchiello mette insieme materiale linguistico assai disparato che, legato spesso più dalle assonanze foniche che dai legami logici, produce una poesia grottesca e surreale. Servendosi del sonetto caudato, metro caro ai poeti giocosi, mostra un evidente intento parodico nei confronti del linguaggio di Dante e Petrarca. Può dirsi comunque l’inventore di un genere nuovo, di puro divertimento linguistico, che verrà molto imitato nei secoli successivi.

Le opere

T5

domenico di Giovanni, detto il Burchiello

nominativi fritti e mappamondi

Temi chiave

• l’espressione del nonsenso • l’idea di un mondo privo di ordine

Il testo è particolarmente indicativo della maniera del Burchiello, tutta giocata sul filo del nonsenso.

> Metro: sonetto caudato. Presenta, dopo l’ultimo verso della seconda terzina, la “coda” di una terzina formata da un

settenario, che rima con l’ultimo verso del sonetto, e da due endecasillabi a rima baciata; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD, dEE.

4

Nominativi1 fritti e mappamondi e l’arca di Noè fra due colonne cantavan tutti chirïeleisonne2 per l’infuenza de’ taglier’ mal tondi3. La Luna mi dicea: – Ché non rispondi? –. E io risposi: – Io temo di Giansonne4,

1. Nominativi: il “nominativo” è, nella grammatica delle lingue flessive (come il latino e il greco), il caso della declinazione che corrisponde al soggetto. È superfluo osservare (e ne spiegheremo le ragioni nell’analisi) che

64

queste annotazioni non possono dare un significato di plausibilità logica al testo. 2. chirïeleisonne: trascrizione popolare dell’invocazione liturgica, in lingua greca, kýrie eléison (Signore, abbi pietà).

3. taglier’ mal tondi: taglieri da cucina imperfettamente arrotondati. 4. Giansonne: Giasone, il mitico eroe greco che conquistò il vello d’oro.

Capitolo 2 · L’Umanesimo volgare: la poesia lirica e il poemetto idillico-mitologico

8

però ch’io5 odo che ’l dïaquilonne6 è buona cosa a fare i capei biondi –.

11

Per questo le testuggini e i tartufi m’hanno posto l’assedio alle calcagne, dicendo: – Noi vogliam che tu ti stufi –.

14

E questo sanno tutte le castagne: pei caldi d’oggi son sì grassi i gufi, ch’ognun non vuol mostrar le sue magagne7.

17

E vidi le lasagne andare a Prato a vedere il Sudario8, e ciascuna portava l’inventario.

5. però ch’io: poiché io. 6. dïaquilonne: diachilo, preparato medicinale per curare ferite e ascessi. 7. magagne: difetti, vizi.

8. il Sudario: l’immagine della Veronica, raffigurante il volto di Cristo. Era però conservata a Roma, non a Prato.

Analisi del testo

> La struttura

Una sintassi rigorosa

L’equilibrio formale

La ricerca di situazioni originali, che si basa su effetti bizzarri e paradossali, raggiunge qui una delle sue più significative possibilità: l’espressione del nonsenso, affidata a una parola che non rinvia ad una definita zona di significati, ma si risolve in se stessa, nella gratuità dei suoi accostamenti. Si noti, in ogni caso, la persistenza di una struttura sintattica rigorosamente costruita e calibrata, quale si conviene ad una esposizione ordinata e logica del pensiero. Nella prima quartina i tre soggetti sono seguiti dal verbo reggente, che indica in modo preciso l’azione, a sua volta specificata dalla preposizione causale «per». Ugualmente logico si presenta l’andamento della quartina successiva, impostata su due battute parallele (discorso diretto), come domanda e poi come risposta, motivata dalla proposizione causale («però»). L’inizio delle terzine presenta un carattere deduttivo («Per questo»), con l’intento di sviluppare le precedenti indicazioni. Analoga impostazione hanno i versi che seguono, nettamente definiti nelle loro articolazioni: l’uso del gerundio, che introduce nuovamente il discorso diretto (v. 11); la proposizione oggettiva, che specifica il «questo sanno» del verso 12 ecc. Nell’ambito di un disegno ordinato e consequenziale, assumono importanza anche le riprese («Ché non rispondi?» / «E io risposi») e le corrispondenze («Per questo» – «E questo»; la congiunzione «e», con cui iniziano paratatticamente le ultime terzine), le variazioni (passaggio alla prima persona, ai vv. 6 e 15), nell’elaborazione di un preciso sistema formale.

> L’assenza di significati La parola come suono

Un mondo privo di ordine

In questa ben delimitata impalcatura, tuttavia, non si dispone un percorso fornito di senso. I termini impiegati (in particolare i sostantivi e i verbi) non hanno fra di loro nessuna congruenza, nessun rapporto che possa dare origine a un significato qualsiasi. La parola vale unicamente come suono, come significante; la sua scelta è determinata da ragioni puramente formali, come risulta con particolare evidenza dalle rime dure e difficili (tutto l’opposto dell’armonia petrarchesca) con vistose deformazioni come in «chirïeleisonne» – «Giansonne» – «dïaquilonne». Si tratta, in ultima analisi, di un gioco di parole, in cui il contrasto fra l’assenza di significati e il rigore della costruzione strutturale finisce anche per insinuare l’idea di un mondo stralunato e strampalato, privo di ordine e di direzioni. 65

L’età umanistica

Esercitare le competenze AnALizzAre

> 1.

Stile Ricerca nella poesia le principali figure retoriche: assonanze, consonanze, allitterazioni, metonimie, metafore e personificazioni. > 2. Lessico Individua i termini che appartengono all’ambito culinario.

Approfondire e inTerpreTAre

> 3.

esporre oralmente Il sonetto sembra rifarsi alla tradizione comico parodica fiorentina del secolo precedente, in particolare a quella di Cecco Angiolieri. Che cosa differenzia, in realtà, i versi del Burchiello da quelli di Cecco? Che cosa li accomuna? Esponi le tue considerazioni oralmente (max 5 minuti). > 4. Testi a confronto Il termine «nonsenso» definisce un’espressione che appare priva di significato per mancanza del nesso causa-effetto tra i sintagmi, per l’uso di parole composte o di arditi neologismi e per l’associazione di immagini più disparate: metti a confronto il sonetto di Burchiello con Il lonfo, componimento del poeta contemporaneo Fosco Maraini (di cui puoi rintracciare sul web la lettura espressiva dell’attore Gigi Proietti), e distingui in ciascuno se la mancanza di senso riguarda il piano lessicale o l’accostamento di immagini diverse e spesso irrelate.

«Il Lonfo non vaterca né gluisce e molto raramente barigatta, ma quando soffia il bego a bisce bisce, sdilenca un poco e gnagio s’archipatta. È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna arrafferia malversa e sofolenta! Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna se lugri ti botalla e ti criventa. Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto che bete e zugghia e fonca nei trombazzi fa legica busia, fa gisbuto; e quasi quasi in segno di sberdazzi gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi». F. Maraini, Il lonfo, in Gnosi delle Fànfole, Boldini Castoldi Dalai, 2007

facciamo il punto 1. Quali sono i temi ricorrenti trattati dagli autori antologizzati? 2. Il topos della rosa, presente nei testi di Poliziano e di Boiardo, quale concezione del mondo veicola? 3. Lorenzo, Boiardo e Poliziano operano a corte: c’è un riflesso di questo fatto nella loro produzione? 4. In che cosa consiste la ricerca del piacere descritta nei testi antologizzati di questo percorso? 5. La ricerca del piacere in un ambiente idillico, da parte di élites privilegiate caratterizza gran parte della

cultura umanistica: quali sono gli antecedenti storici letterari? (Ad esempio si pensi alla produzione cortese, a certi aspetti della produzione di Boccaccio, di Petrarca...). 6. L’insistita ricerca del piacere, tipica di un certo Umanesimo, come si colloca rispetto alla concezione del mondo del Medioevo? 7. Quali sono i punti di contatto tra gli autori “anticlassicisti” e la tradizione goliardica? Si può istituire un legame con la poesia comico-parodica del Duecento?

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In sintesi

L’UMAneSiMo voLGAre: LA poeSiA LiriCA e iL poeMeTTo idiLLiCo-MiToLoGiCo Verifica interattiva

LA poeSiA LiriCA e BoiArdo Già nella prima metà del Quattrocento comincia a delinearsi, nell’ambito della poesia volgare, il fenomeno dell’imitazione petrarchesca, poi destinata a dominare nel secolo successivo. Spicca per originalità il canzoniere di Matteo Maria Boiardo (1441-94), gli Amorum libri (“Gli amori”), in cui gli schemi della lirica di imitazione sono investiti da una carica di fresca ed esuberante vitalità.

Lorenzo de’ MediCi Riveste un particolare rilievo Lorenzo de’ Medici, detto “il Magnifico” (1449-92), che fu signore di Firenze e nel contempo un raffinato cultore delle arti. La sua produzione poetica contempla una sorprendente varietà di temi e toni, includendo liriche amorose, componimenti realistici e opere di argomento religioso. Toni allegri e gioiosi, improntati a un edonismo paganeggiante, emergono soprattutto nelle Canzoni a ballo e nei Canti carnascialeschi, tra cui famosissimo è il Trionfo di Bacco e Arianna, una sorta di inno a godere della vita e dei sensi finché ciò è ancora possibile. La variante bucolica del motivo edonistico caratterizza invece il Corinto, un poemetto d’imitazione virgiliana che riproduce i lamenti del pastore Corinto per il suo amore infelice.

AnGeLo AMBroGini, deTTo iL poLiziAno La vena malinconica dell’edonismo umanistico affiora soprattutto nella produzione lirica di Angelo Poliziano (1454-94), attivo presso la corte medicea. Tipico espo-

nente dell’Umanesimo colto ed erudito, Poliziano si dedicò intensamente agli studi filologici e fu autore di componimenti poetici in lingua greca e latina. Le suggestioni della cultura classica sono presenti anche nella produzione lirica in volgare. La docta varietas, ossia la mescolanza di elementi attinti a fonti diverse, caratterizza le Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano, un poemetto incompiuto che narra l’amore tra Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, e Simonetta Cattaneo: la vicenda, trasfigurata in chiave mitologica e proiettata in un mondo ideale dominato da un senso di precarietà, si risolve in una malinconica celebrazione della bellezza e della giovinezza destinate a svanire. Un tema analogo è sviluppato nella Fabula di Orfeo, incentrata sul mito di Orfeo ed Euridice: essa costituisce il primo testo drammatico di argomento non religioso della letteratura italiana.

LA poeSiA CArnevALeSCA: BUrChieLLo Alla tradizione del petrarchismo si contrappone una tendenza antitetica, che si collega a un clima cittadino più popolaresco e ridanciano, pervaso dalla tradizione folklorica del carnevale, e che si rifà alla poesia burlesca e comico-parodica del Duecento. All’idealizzazione e alla selezione del reale, che sono proprie del classicismo, questa tradizione contrappone il gusto del rovesciamento parodico, della beffa e dello sberleffo irriverente. Un rappresentante curioso di questa tendenza nel Quattrocento è Domenico di Giovanni detto il Burchiello (140449), che nei suoi sonetti priva l’enunciato di ogni logico significato, dando vita a un linguaggio dell’assurdo.

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Capitolo 3

L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

1 La persistenza dei temi legati al ciclo carolingio e bretone

L’avventura e il meraviglioso

I motivi dell’amore e del comico

I cantari cavallereschi Un genere destinato a un pubblico popolare Se i valori politico-religiosi dell’epica delle origini, espressi ad esempio nella Chanson de Roland, avevano già perso la loro efficacia nel passaggio dall’età feudale a quella comunale, il racconto delle avventure di cavalieri e paladini continuava a godere di una grande fortuna presso gli ambienti popolari e incolti attraverso la recitazione dei cantari cavallereschi. Sono componimenti narrativi in versi (la versificazione prediletta è basata sull’ottava, strofa di otto versi endecasillabi con rime ABABABCC), che trattano la materia cavalleresca carolingia o bretone. Tali componimenti vengono recitati nelle piazze da giullari, o da canterini girovaghi, e sono destinati a soddisfare le richieste di un pubblico ingenuo, avido di divertimento fantastico. In essi scompare l’austera solennità epica dell’antica materia carolingia e si fa strada il gusto per la pura avventura fine a se stessa, per il meraviglioso e l’esotico. Si assiste insomma ad una fusione tra personaggi del ciclo carolingio (Carlo Magno, Orlando, Rinaldo, Gano di Maganza) e l’atmosfera tipica del ciclo bretone (una fusione che era già in germe nella letteratura franco-veneta e nei romanzi in prosa di Andrea da Barberino). Vi acquista rilievo il motivo dell’amore, ignoto alla primitiva epica carolingia, ma compare anche il comico: il giullare si prende tanta familiarità con gli eroi della tradizione che finisce per trasformarli in chiave buffonesca. Dovendo compiacere ed avvincere un pubblico non colto, gli autori ricorrono a meccanismi narrativi elementari, basati su una serie ripetitiva e potenzialmente infinita di avventure, su effetti di sorpresa, su iperboli straordinarie, intese a sbalordire e meravigliare, specie negli scontri e nei duelli. Anche la metrica e lo stile sono rozzi e irregolari.

Le opere principali e la loro influenza sui poeti successivi

La ripresa nell’ambito della cultura di corte

Il dialogo tra autore e pubblico

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Di questa produzione si possono citare la Spagna in rima, che comprende tutta la materia inerente alla spedizione di Carlo Magno in Spagna, con la morte di Orlando a Roncisvalle; il Rinaldo da Montalbano, dove il famoso eroe, ingiustamente perseguitato dal re, e ridotto alla fame, assume le sembianze del ladrone di strada; l’Orlando, che Pulci prenderà come base per il Morgante. Infatti la materia dei cantari sarà tenuta presente dai successivi poeti colti, Pulci, Boiardo e Ariosto, che riprenderanno quelle vicende dando ad esse una veste letteraria ed indirizzandole ad un pubblico del tutto diverso, cortigiano e comunque di condizione elevata. Non solo, ma spesso tali poeti, oltre a far propri personaggi, vicende, episodi interi, si compiacciono anche di riprodurre certe movenze narrative, il dialogo con gli ascoltatori, il riferimento a fonti fantasiose come il «libro di Turpino», il gusto delle iperboli nelle battaglie e nei duelli. Si instaura così un gioco d’intesa tra il poeta e il suo pubblico, poiché si divertono entrambi, ad un livello più sofisticato, a riprendere tratti tipici di una narrativa diffusissima e popolarissima.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

2 Il gioco e lo sberleffo

A1 L’ingresso alla corte medicea

Il clima platonizzante

La polemica con Ficino

La degradazione dei modelli: il Morgante di Pulci Rispetto alle opere di Boiardo e Ariosto, più vicino allo spirito dei cantari è il Morgante di Luigi Pulci che riprende gli intenti giocosi e burleschi tipici della tradizione “borghese” fiorentina, rimasta viva anche all’interno della Signoria medicea (si pensi ai canti carnascialeschi, cap. 2, T2, p. 51). Oltre a rifare il verso alla materia dei canterini, Pulci si richiama alle esperienze della poesia comico-parodica, da Cecco Angiolieri al Burchiello, con il suo gusto per lo sberleffo, per la deformazione caricaturale e grottesca, per le realtà più materiali e corpose (come il motivo del cibo e della ghiottoneria). Il racconto delle avventure cavalleresche diventa così lo spazio aperto non solo al divertimento, ma anche all’irriverenza e alla dissacrazione, quando il riso si trasforma in irrisione. I contenuti dell’epica vengono svuotati dall’interno, offrendo l’occasione per un’avventura della parola – anch’essa eccentrica e corposa – che consente di cogliere le debolezze e i pregiudizi della mentalità dominante.

Luigi Pulci Nato a Firenze nel 1432, Pulci ebbe un’educazione letteraria che comprendeva la conoscenza del latino, ma non ai livelli raffinatissimi degli umanisti. La sua famiglia era antica e nobile ma impoverita: pertanto Luigi conobbe in gioventù momenti difficili. Intorno al 1461 cominciò a frequentare il palazzo dei Medici e si legò di intima amicizia con Lorenzo de’ Medici, il futuro “signore”. Amato e ammirato per il suo umore bizzarro e giocoso, per il suo gusto della deformazione burlesca, influenzò per un certo periodo il clima della “brigata medicea”: ne è indizio la Nencia da Barberino del Magnifico, a cui Pulci replicò con un’ulteriore parodia della letteratura pastorale e amorosa, la Beca da Dicomano. Ma verso il 1473-74 il clima della cerchia medicea cominciò a mutare per l’influenza che assunsero i filosofi “platonici” dell’Accademia (Ficino, Pico della Mirandola, Landino) e si instaurò un atteggiamento pervaso di profonda pietà religiosa. Pulci, con le sue posizioni estrose e le sue curiosità eterodosse in materia religiosa e filosofica, entrò in urto con questi personaggi ed ebbe una dura polemica con Ficino sull’immortalità dell’anima; di conseguenza, anche il Magnifico lo lasciò sempre più ai margini. Nel 1476 si pose al servizio del capitano di ventura Roberto Sanseverino e lasciò Firenze. Mentre lo accompagnava a Venezia, morì di febbri a Padova nel 1484; e poiché era accusato di magia, empietà ed eresia, fu sepolto in terra sconsacrata.

La vita

Oltre alla già ricordata Beca da Dicomano, che ricalca la Nencia con toni di satira del villano più grossolani, e a componimenti giocosi e burleschi, Pulci scrisse la Giostra, poemetto in ottave in onore di una vittoria riportata nel 1469 da Lorenzo in un torneo. Ma l’opera principale di Pulci è il Morgante, un ampio poema in ottave di argomento cavalleresco. Esso trae il titolo dal nome del gigante omonimo, che con le sue stravaganti imprese riscuoteva ampio favore nel pubblico. Pulci si proponeva inizialmente di dare una forma letteraria più degna ad un cantare popolaresco, l’Orlando, riversando nelle leggende dei paladini di Carlo Magno (qui ormai vecchio e mezzo rimbecillito) i suoi umori bizzarri e mutevoli, oltre a inserire episodi e personaggi nuovi, che sono le creazioni più straordinarie del poema, come il furfante Margutte e il diavolo sapiente Astarotte. Una prima redazione, pubblicata probabilmente nel 1478, non ci è pervenuta; nel 1483 uscì una nuova edizione ampliata, che ricevette il titolo di Morgante maggiore.

Le opere minori e il Morgante La Beca da Dicomano e la Giostra

Il Morgante



Testi Pulci Il diavolo Astarotte dal Morgante

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L’età umanistica Gli ultimi canti

La vicenda

Testi Pulci • Le imprese di Morgante e Margutte all’osteria • La morte di Orlando dal Morgante

Narrazione frammentata e materia plebea

L’avventura mutevole dei toni e degli umori

Il fondo serio

L’avventura delle parole La mescolanza e la forzatura espressiva della lingua

L’eredità di Pulci

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Negli ultimi cinque canti aggiunti Pulci si concentra sull’episodio della rotta di Roncisvalle e della morte di Orlando, cercando di dare al racconto una maggiore organicità e solennità epico-religiosa, si direbbe per una volontà di gareggiare con il nuovo clima della Firenze “platonica”. Il poema trae l’argomento dalle leggende carolinge, che da secoli godevano di larga fortuna sul suolo italiano, e narra le avventure e gli amori di Orlando, Rinaldo e altri paladini nei paesi più lontani, a cui si accompagnano le vicende comiche dell’ingenuo gigante Morgante e del mezzo gigante Margutte, un astuto furfante. Il poema termina con la morte di Orlando, sopraffatto dai saraceni a Roncisvalle a causa del tradimento di Gano, la punizione del traditore e la morte di Carlo Magno. L’opera, man mano che veniva composta, era letta alla corte medicea, e conserva in sé i caratteri di una poesia destinata all’ascolto. La narrazione non ha un disegno organico e unitario: gli episodi scaturiscono l’uno dall’altro in modo apparentemente casuale, e spesso si arruffano in modo tortuoso, oppure procedono a sbalzi, senza legami evidenti tra loro. Vi si può riconoscere il gusto di riprodurre il linguaggio e le movenze dei canterini di piazza, e di proporre la materia plebea ai nobili ascoltatori con divertita e ammiccante complicità. A questo atteggiamento risale la familiarità con cui vengono trattati i paladini, che spesso perdono la loro eroica dignità, degradandosi a livelli buffoneschi e furfanteschi, e vi si riconducono parimenti il gusto di tratteggiare scene realistiche, gli interventi arguti della voce narrante, i riferimenti a novelle e proverbi. Per questo aspetto il Morgante si collega ad una tradizione schiettamente toscana e fiorentina, di poesia borghesemente popolare e dialettale. Ma non è solo questo: la materia cavalleresca dei giullari, al di là di questa divertita familiarità, offre al Pulci lo spazio più aperto per lo sbrigliarsi dell’immaginazione, per l’inseguimento degli umori più bizzarri. Il poema diventa allora una mutevole avventura di toni diversi, ora buffoneschi e furfanteschi, ora seri ed eroici, ora patetici e teneri, ora fiabeschi. Se la vita è per Pulci «uno zibaldone [raccolta confusa di oggetti] mescolato di dolce e d’amaro e mille sapori varii», il suo poema ne rispecchia fedelmente l’immagine. Occorre però precisare che questi umori bizzarri e sbrigliati non sono indizio di una mente superficiale: il riso di Pulci ha un fondo serio e pensoso, che emerge a tratti nel poema.

Le caratteristiche del poema

La lingua e lo stile Alla legge della mutevolezza e della varietà si adeguano anche la

lingua e lo stile, una sorta di calderone in cui ribollono gli ingredienti più vari, mescolati con lo stesso umore imprevedibile con cui si arruffano le trame avventurose e le varie tonalità degli episodi. È cioè una lingua che viene forzata al di là dei codici consueti del linguaggio letterario, e che si colloca quindi agli antipodi rispetto al canone classicistico della regolarità decorosa, del levigato unilinguismo, quale era stato fissato dalla tradizione petrarchesca ed era stato ripreso da Poliziano. Il fondo è il toscano parlato, dialettale, ricco di termini saporosi e di modi di dire vivacissimi e incisivi; ma su di essi Pulci innesta una variegata ricerca linguistica, che attinge volentieri ai gerghi malandrini e furbeschi (di cui lo scrittore compilò anche un vocabolario), e recupera termini latini, o letterari, o scientifico-filosofici. Su tutto domina il gusto della deformazione: la parola è assaporata proprio in quanto strana, disusata, abnorme, violentemente espressiva. Questo gusto della mescolanza linguistica, della deformazione e della forzatura espressiva della parola, in concomitanza con la ricerca dell’eccesso, della derisione beffarda e corrosiva, del provocatorio rovesciamento di ciò che è serio, elevato e degno, attraverso l’insistenza sugli aspetti più materiali e plebei della realtà, perdurerà nel secolo successivo, e troverà in Italia un grande interprete, Folengo, artefice del latino maccheronico ( L’età del Rinascimento, cap. 4, A3, p. 205), e fuori d’Italia si esprimerà nello straordinario capolavoro di Rabelais ( L’età del Rinascimento, cap. 4, A5, p. 220), Gargantua e Pantagruele.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

T1

Luigi Pulci

Temi chiave

L’autoritratto di Margutte

• la celebrazione della materialità

dal Morgante, XVIII, 112-124; 128-142

• il gusto per il rovesciamento • lo spirito popolare del carnevale

dell’uomo

Il gigante Morgante, l’eroe che dà il titolo al poema, dopo aver superato molte prove e mostrato grande coraggio, incontra casualmente a un «crocicchio» il mezzo gigante (e furfante matricolato) Margutte. Dopo un’autopresentazione di Margutte, personaggio che si colloca al di fuori di ogni tradizionale schema cavalleresco, i due decidono di unire i loro destini in un sodalizio che si rivelerà fruttuoso di straordinarie avventure.

> Metro: ottave di endecasillabi; schema delle rime ABABABCC. 112

Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio1, uscito d’una valle in un gran bosco, vide venir di lungi2, per ispicchio3, un uom che in volto parea tutto fosco4. Dètte del capo del battaglio un picchio5 in terra, e disse: «Costui non conosco»; e posesi a sedere in su ’n un sasso, tanto che questo capitòe al passo6.

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Morgante guata7 le sue membra tutte più e più volte dal capo alle piante8, che gli pareano strane, orride e brutte: – Dimmi il tuo nome – dicea –, vïandante –. Colui rispose: – Il mio nome è Margutte9; ed ebbi voglia anco10 io d’esser gigante, poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto11: vedi che sette braccia12 sono appunto –.

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Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto: ecco ch’io arò13 pure un fiaschetto allato14, che da due giorni in qua non ho beuto; e se con meco sarai accompagnato15, io ti farò a camin quel che è dovuto16. Dimmi più oltre: io non t’ho domandato se se’ cristiano o se se’ saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino17 –.

1. in su ’n un crocicchio: ad un crocevia; la reggente è «preposizione multipla» (Contini), ripresa nel penultimo verso dell’ottava. 2. di lungi: da lontano. 3. per ispicchio: di traverso. 4. fosco: cupo, tetro. 5. Dètte del capo … picchio: diede con l’estremità, la punta, del batacchio della campana (con cui Morgante era armato) un colpo. 6. tanto … passo: finché costui giunse al crocicchio (passo). 7. guata: guarda attentamente. 8. alle piante: ai piedi. 9. Margutte: «È stato mostrato da Vincen-

zo Belli che margutte o margutto indica nei dialetti centrali qualcosa di brutto e spregevole, uno spaventapasseri e in particolare un fantoccio da giostra (meno sicuro che muova da “marabutto”, santone musulmano – e quindi la sua tomba –, trasportato a designare un pupo saracino)» (Contini). 10. anco: anche. 11. quando … giunto: quando fui cresciuto fino a mezza altezza (rispetto a quella di un gigante); Margutte, come si è detto, è un mezzo gigante. 12. sette braccia: quattro metri circa; un braccio era un’unità di misura lunga circa mezzo metro.

13. arò: avrò. 14. allato: al fianco. Essendo un po’ più piccolo, Margutte sembra una di quelle fiaschette che i viandanti portano legate alla cintura. 15. meco … accompagnato: con me ti accompagnerai. 16. io … dovuto: ti tratterò lungo il cammino come si conviene. 17. Apollino: Apollo. Uno degli dei in cui, secondo una falsa opinione popolare, credevano i musulmani. Con Maometto (Macometto, ottava 116, v. 7) e Trivigante (ottava 117, v. 2) componeva una specie di trinità, opposta a quella cristiana.

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L’età umanistica

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Rispose allor Margutte: – A dirtel tosto18, io non credo più al nero ch’a l’azzurro19, ma nel cappone, o lesso o vuogli20 arrosto; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia21 e, quando io n’ho, nel mosto22, e molto più nell’aspro che il mangurro23; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo24 che sia salvo chi gli crede.

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E credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; e ’l vero paternostro è il fegatello25, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo26, se Macometto il mosto vieta e biasima27, credo che sia il sogno o la fantasima;

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ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la tregenda. La fede è fatta come fa il solletico28: per discrezion29 mi credo che tu intenda. Or tu potresti dir ch’io fussi eretico: acciò che invan parola non ci spenda30, vedrai che la mia schiatta non traligna31 e ch’io non son terren da porvi vigna32.

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Questa fede è come l’uom se l’arreca33. Vuoi tu veder che fede sia la mia? che nato son d’una monaca greca e d’un papasso34 in Bursia35, là in Turchia. E nel principio sonar la ribeca36 mi dilettai, perch’avea fantasia

18. tosto: subito. 19. io … l’azzurro: non credo in niente (calco dal proverbio “non credere più al bianco che al nero”). 20. o vuogli: oppure, o se preferisci. 21. cervogia: birra. 22. mosto: il succo delle uve pigiate. 23. aspro … mangurro: monete turche, rispettivamente d’argento e di rame (di qui la preferenza di Margutte). Ma aspro indica anche il vino, con un evidente gioco di parole. 24. e credo: a partire di qui si fa esplicita la parodia, empia e blasfema, del Credo cristiano, «e in particolare dell’Incarnazione e della Trinità» (Contini). I sublimi misteri della fede e i più alti valori spirituali vengono degradati e dissacrati; ad essi si sostituisce la realtà “materiale-corporea” propria della tradizione carnevalesca. 25. fegatello: pezzetto di fegato di maiale,

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involto in una rete e cucinato con erbe aromatiche. 26. ghiacciuolo: recipiente usato per raccogliere il ghiaccio, e quindi particolarmente capace. 27. se Macometto … biasima: la religione musulmana proibisce l’uso delle bevande alcoliche e quindi, per Margutte, Maometto non è altro che un sogno o un fantasma. Analogamente Apollino è considerato un pazzo (il farnetico, ottava 117, v. 1) e Trivigante rappresenta un convegno di demoni (la tregenda, ottava 117, v. 2). 28. come … solletico: «cioè c’è chi l’ha e chi no» (Contini). Ma si può anche pensare che la fede faccia ridere, come il solletico. 29. discrezion: capacità di comprendere, discernimento. Margutte ammicca a Morgante, come per dirgli: «penso che tu, persona accorta e discreta, mi capisca».

30. acciò … spenda: affinché tu non spenda inutilmente delle parole (per cercare di convertirmi). 31. la mia … traligna: la mia razza non degenera (Margutte non è meno miscredente dei suoi progenitori). 32. da porvi vigna: su cui piantare una vigna, perché porti i frutti della fede e delle buone opere. La metafora della vigna è tratta dal Vangelo, in cui Cristo è paragonato alla vite. 33. come … l’arreca: «congenita» (Contini), come uno la riceve e la porta con sé (se l’arreca) dalla nascita. 34. papasso: sacerdote orientale di religione musulmana. 35. Bursia: Brussa (in turco Bursa), città sacra dei primi Ottomani. 36. ribeca: antico strumento a tre corde, simile al violino.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille37, non una volta già, ma mille e mille. 119

Poi che m’increbbe38 il sonar la chitarra, io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso39. Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra40, e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso, mi posi allato questa scimitarra e cominciai pe’l mondo andare a spasso; e per compagni ne menai con meco tutti i peccati o di turco o di greco41;

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anzi quanti ne son giù nello inferno: io n’ho settanta e sette de’ mortali42, che non mi lascian mai la state o ’l verno43; pensa quanti io n’ho poi de’ venïali! Non credo, se durassi il mondo etterno44, si potessi45 commetter tanti mali quanti ho commessi io solo alla mia vita; ed ho per alfabeto ogni partita46.

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Non ti rincresca l’ascoltarmi un poco: tu udirai per ordine la trama47. Mentre ch’io48 ho danar, s’io sono a giuoco, rispondo come amico a chiunque chiama49; e giuoco d’ogni tempo e in ogni loco, tanto che al tutto50 e la roba e la fama io m’ho giucato, e’ pel’ già51 della barba: guarda se questo pe’l52 primo ti garba.

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Non domandar quel ch’io so far d’un dado, o fiamma o traversin, testa o gattuccia, e lo spuntone53, e va’ per parentado, ché tutti siàn d’un pelo e d’una buccia54. E forse al camuffar ne incaco o bado o non so far la berta o la bertuccia, o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?55 Io so di questo ogni malizia e frodo56.

37. d’Ettore e d’Achille: i protagonisti dell’Iliade, il modello dei poemi epici. 38. m’increbbe: non mi piacque più. 39. turcasso: faretra. 40. sciarra: rissa, alterco. 41. o di turco o di greco: ereditati cioè dal padre e dalla madre. Secondo un diffuso luogo comune, i turchi erano noti per la loro violenza, i greci per la loro fraudolenza. 42. de’ mortali: di peccati mortali. 43. la state … verno: d’estate o d’inverno (cioè non lo lasciano mai). 44. etterno: in eterno.

45. si potessi: che si potrebbero. 46. ho … partita: «conosco ogni parte (francese partie) dall’a alla zeta» (Contini) di questa materia (del peccato). 47. la trama: l’elenco delle malefatte. 48. Mentre ch’io: quando io. 49. chiama: invita (termine tecnico del gioco delle carte). 50. al tutto: del tutto, completamente. 51. e’ pel’ già: anche, persino i peli. 52. pe’l primo: come primo (fra i tanti peccati commessi). 53. o fiamma … spuntone: diverse combi-

nazioni nel gioco dei dadi. 54. e va’… buccia: «e così via, perché siamo della stessa razza» (Contini). 55. E forse … lodo?: «Ridondanza di termini gergali o comunque violentemente espressivi: “Forse che la truffa (del baro) la disprezzo o sto come un babbeo (bado) o non so imbrogliare (bertuccia è connesso solo verbalmente con berta) o non riesco nel raggiro (reso con sinonimi furbeschi)?”» (Contini). 56. frodo: frode, raggiro.

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L’età umanistica

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La gola ne vien poi drieto a questa arte. Qui si conviene aver gran discrezione57, saper tutti i segreti, a quante carte58, del fagian, della starna e del cappone, di tutte le vivande a parte a parte dove si truovi morvido59 il boccone; e non ti fallirei di ciò parola60 come tener si debba unta la gola.

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S’io ti dicessi in che modo io pillotto61, o tu vedessi com’io fo col braccio62, tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto; o quante parte63 aver vuole un migliaccio64, che non vuole65 essere arso, ma ben cotto, non molto caldo e non anco di ghiaccio, anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso (parti ch’i’ ’l sappi?66), e non troppo alto o basso. [...]

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Or lasciàn questo, e d’udir non t’incresca un’altra mia virtù cardinalesca67.

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Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe68: pensa quand’io sarà condotto al rue69! Sappi ch’io aro70, e non dico da beffe71, col cammello e coll’asino e col bue; e mille capannucci e mille gueffe72 ho meritato già per questo o piùe73; dove il capo non va, metto la coda74, e quel che più mi piace è ch’ognun l’oda.

130

Mettimi in ballo, mettimi in convito, ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani; io son prosuntüoso, impronto75, ardito, non guardo76 più i parenti che gli strani77: della vergogna, io n’ho preso partito78, e torno, chi79 mi caccia, come i cani;

57. discrezione: «discernimento» (Ageno). 58. a quante carte: quante sono le ricette (nei fogli di un immaginario libro di cucina). 59. morvido: morbido, tenero. 60. non ti … parola: non commetterei nessun errore nel dirti. 61. pillotto: verso il condimento (sull’arrosto che gira sullo spiedo). 62. com’io … braccio: come muovo bene il braccio. 63. parte: cure (nel senso di “attenzioni”). 64. migliaccio: sanguinaccio. 65. vuole: nel senso di deve.

74

66. parti … sappi?: credi che non lo sappia? 67. virtù cardinalesca: inizia qui una parodia delle quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). 68. Ciò … all’effe: quello che io dico non arriva sino all’effe nell’elenco alfabetico delle mie qualità. 69. sarà … rue: sarò giunto alla fine (rue: abbreviazione posta in fondo all’alfabeto). 70. io aro: nel senso di «amoreggiare» (Contini) contro natura, secondo una espressione gergale. 71. da beffe: per scherzo.

72. capannucci … gueffe: condanne al rogo e al carcere. 73. piùe: anche più, anche per cose peggiori. 74. dove … coda: se non va in un modo, provo in un altro (è sottinteso un doppio senso osceno). 75. impronto: sfacciato, impudente. 76. guardo: ho riguardo per. 77. gli strani: gli estranei. 78. n’ho … partito: ne ho tratto vantaggio, facendoci l’abitudine. 79. chi: quando, se qualcuno.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

e dico ciò ch’io fo per ognun sette80, e poi v’aggiungo mille novellette. 131

S’io ho tenute dell’oche in pastura81, non domandar, ch’io non te lo direi: s’io ti dicessi mille alla ventura82, di poche credo ch’io ti fallirei83; s’io uso a munister84 per isciagura, s’elle85 son cinque, io ne traggo fuor sei86: ch’io le fo in modo diventar galante87 che non vi campa servigial né fante88.

132

Or queste son tre virtù cardinale, la gola e ’l culo e ’l dado89, ch’io t’ho detto; odi la quarta, ch’è la principale, acciò che ben si sgoccioli il barletto90: non vi bisogna uncin né porre scale dove con mano aggiungo91, ti prometto92; e mitere da papi ho già portate, col segno in testa, e drieto le granate93.

133

E trapani e paletti94 e lime sorde95 e succhi96 d’ogni fatta e grimaldelli e scale o vuoi di legno o vuoi di corde, e levane97 e calcetti di feltrelli98 che fanno, quand’io vo, ch’ognuno assorde99, lavoro di mia man puliti100 e belli; e fuoco che per sé lume non rende101, ma con lo sputo a mia posta102 s’accende.

134

S’ tu mi vedessi in una chiesa solo, io son più vago di spogliar gli altari che ’l messo di contado del paiuolo103; poi corro alla cassetta de’ danari; ma sempre in sagrestia fo il primo volo,

80. dico … sette: quello che faccio, a parole lo moltiplico per sette. 81. S’io … pastura: nel senso, metaforico, di avere sfruttato delle donne. 82. alla ventura: a casaccio. 83. di poche … fallirei: credo che mi sbaglierei di poco nel calcolo. 84. s’io … munister: se mi trovo in un monastero. 85. elle: le monache. 86. sei: «per dire che le trae fuori dal monastero tutte senza eccezione» (Ageno). 87. galante: galanti, innamorate. 88. non vi … fante: «non si sottraggono nemmeno le fantesche e le converse» (Contini), ossia le suore laiche che vivono nel monastero. 89. la gola … dado: riprende, degradando-

la, una celebre espressione di un sonetto dell’Angiolieri («Tre cose solamente m’ènno in grado, / le quali posso non ben ben fornire, / cioè la donna, la taverna e ’l dado). 90. acciò … barletto: affinché si svuoti ben bene il bariletto, per vuotare del tutto il sacco. 91. non … aggiungo: non occorrono né uncini né scale dove arrivo con la mano. Ossia ruba tutte le volte che può. 92. ti prometto: ti garantisco, te lo assicuro. 93. mitere … granate: il condannato messo alla gogna aveva in testa una mitra (le mitere: copricapi portati dal papa e dalle più alte gerarchie ecclesiastiche) e due scope (granate) incrociate dietro la schiena. 94. paletti: piedi di porco. 95. sorde: che limano il metallo senza fare rumore.

96. succhi: succhielli (attrezzi per praticare fori nel legno). 97. levane: leve. 98. calcetti di feltrelli: calzature di feltro. 99. fanno … assorde: fanno sì, quando io cammino, che nessuno mi possa sentire (letteralmente, che ognuno sia reso come sordo). 100. puliti: «ben fatti» (Ageno). 101. fuoco … rende: allude probabilmente ad una specie di lanterna cieca, che non lascia trapelare la luce. Altri intendono un lume che si accende solo quando Margutte vi sputa sopra. 102. a mia posta: a mio piacere. 103. io son … paiuolo: sono più desideroso io di depredare gli altari, che l’ufficiale giudiziario di confiscare un paiolo.

75

L’età umanistica

e se v’è croce o calici, io gli ho cari, e’ crucifissi scuopro tutti quanti, poi vo spogliando le Nunziate104 e’ santi. 135

Io ho scopato105 già forse un pollaio; s’ tu mi vedessi stendere106 un bucato, diresti che non è donna o massaio107 che l’abbi così presto rassettato: s’io dovessi spiccar, Morgante, il maio108, io rubo sempre dove io sono usato109; ch’io non istò a guardar più tuo che mio, perch’ogni cosa al principio è di Dio.

136

Ma innanzi ch’io rubassi di nascoso110, io fui prima alle strade malandrino111: arei spogliato un santo il più famoso, se santi son nel ciel, per un quattrino; ma per istarmi in pace e in più riposo, non volli poi più essere assassino; non che la voglia non vi fussi pronta, ma perché il furto spesso vi si sconta112.

137

Le virtù tëologiche ci resta113. S’io so falsare un libro, Iddio tel dica: d’uno iccase farotti un fio114, ch’a sesta115 non si farebbe più bello a fatica; e traggone ogni carta116, e poi con questa raccordo l’alfabeto e la rubrica117, e scambiere’ti118, e non vedresti come119, il titol, la coverta e ’l segno120 e ’l nome.

138

I sacramenti falsi121 e gli spergiuri mi sdrucciolan giù proprio per la bocca come i fichi sampier122, que’ ben maturi, o le lasagne, o qualche cosa sciocca123, né vo’ che tu credessi ch’io mi curi contro a questo o colui: zara a chi tocca!124

104. le Nunziate: le statue della Madonna (con particolare riferimento all’Annunziata, la Vergine cui viene annunciato dall’angelo che sarà madre di Cristo). 105. scopato: spazzolato, depredato. 106. stendere: nel senso di riporre, mettere via. 107. massaio: persona che cura con particolare attenzione le proprie cose. 108. spiccar … maio: staccare, rubare una cosa senza valore (il maio era il ramoscello fiorito che veniva appeso, a maggio, alla porta o alla finestra della donna amata). 109. dove … usato: nei posti che frequento. 110. di nascoso: di nascosto.

76

111. malandrino: brigante. 112. vi si sconta: si paga a caro prezzo. 113. Le virtù … ci resta: rimangono le virtù teologali (fede, speranza, carità). Cioè, Margutte ora illustra le virtù teologali. 114. d’uno … fio: di un x ti farò un y (con fio nel Medioevo si indicava la lettera y); Margutte allude qui alle sue grandi abilità come falsario. 115. a sesta: con il compasso. 116. traggone ogni carta: tolgo (dal libro) una qualsiasi pagina. 117. raccordo … rubrica: riordino l’indice e i titoli in ordine alfabetico (perché non ci si accorga della mancanza).

118. scambiere’ti: falsificherei. 119. e non vedresti come: e non te ne accorgeresti. 120. la coverta e ’l segno: la copertina e il segnalibro. 121. I sacramenti falsi: le bestemmie. 122. fichi sampier: fichi fiori, che maturano per san Pietro. 123. sciocca: senza sale. 124. zara a chi tocca!: guai a chi tocca! La zara era un gioco di tre dadi diffuso nel Medioevo; si diceva “zara” anche il punteggio più basso (di qui l’esclamazione).

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

ed ho commesso già scompiglio e scandolo125, che mai non s’è poi ravvïato il bandolo126. 139

Sempre le brighe compero a contanti127. Bestemmiator, non vi fo ignun divario128 di bestemmiar più uomini che santi, e tutti appunto gli ho in sul calendario129. Delle bugie nessun non se ne vanti, ché ciò ch’io dico, fia130 sempre il contrario. Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra, e ’l mondo e ’l cielo in peste e ’n fame e ’n guerra131.

140

E carità, limosina o digiuno, orazïon132 non creder ch’io ne faccia. Per non parer provàno133, chieggo a ognuno, e sempre dico cosa che dispiaccia; superbo, invidïoso ed importuno: questo si scrisse nella prima faccia134; ché i peccati mortal’ meco eran tutti e gli altri vizi scelerati e brutti.

141

Tanto è ch’io posso andar per tutto ’l mondo col cappello in su gli occhi, com’io voglio135; com’una schiancerìa136 son netto e mondo137; dovunque i’ vo, lasciarvi il segno soglio come fa la lumaca, e no’l nascondo; e muto fede e legge, amici e scoglio138 di terra in terra, com’io veggo o truovo, però ch’io139 fu’ cattivo insin nell’uovo140.

142

Io t’ho lasciato indrieto un gran capitolo141 di mille altri peccati in guazzabuglio142; ché s’i’ volessi leggerti ogni titolo, e’ ti parrebbe troppo gran mescuglio143; e cominciando a sciòrre144 ora il gomitolo, ci sarebbe faccenda145 insino a luglio; salvo che questo alla fine udirai: che tradimento ignun146 non feci mai –.

125. ho commesso … scandolo: ho suscitato scompigli e disordini. 126. ravvïato il bandolo: rimessa a posto la cosa. 127. le brighe … contanti: mi caccio sempre nei guai; espressione proverbiale. 128. ignun divario: nessuna differenza. 129. in sul calendario: pronti per bestemmiarli. 130. fia: sarà. 131. Vorrei … guerra: vi è anche qui una ripresa di un celebre sonetto di Cecco An-

giolieri (S’i’ fosse fuoco, ardereï ’l mondo). 132. orazïon: preghiere. 133. provàno: cocciuto, testardo. 134. questo … faccia: «ciò (il dimostrativo riprende quanto precede) è stato scritto nella prima pagina del libro della mia vita, è mia qualità sin dalla nascita» (Ageno). 135. Tanto … voglio: è detto ironicamente, in quanto deve cercare di nascondere il volto, per non farsi riconoscere. 136. schiancerìa: «asse da cucina» (Contini). 137. netto e mondo: pulito e puro.

138. scoglio: pelle. 139. però ch’io: perché io. 140. insin nell’uovo: prima ancora che nascessi (è forma proverbiale). 141. Io … capitolo: non ti ho raccontato un lungo capitolo della mia vita (relativo a tanti altri peccati). 142. in guazzabuglio: alla rinfusa. 143. mescuglio: mescolanza. 144. sciòrre: sciogliere. 145. faccenda: da fare, da raccontare. 146. ignun: nessuno.

77

L’età umanistica

Analisi del testo

> L’infrazione della norma

Irriverenza e ghiottoneria

Un ribelle trasgressore

Il parricidio

La figura di Margutte non si trova nell’Orlando, il cantare da cui Pulci attinge la materia del suo poema: è una creazione interamente dovuta alla fantasia del poeta, e ne rappresenta perfettamente gli umori bizzarri e corrosivi. Già l’aspetto fisico del personaggio, appena compare in scena, è significativo: la sua condizione a metà strada fra l’uomo e il gigante fa presentire il suo carattere strambo, irregolare, al di là di ogni norma. È Margutte stesso a tracciare il suo ritratto, compiacendosi ad ingigantire tutte le proprie qualità negative. L’autoritratto comincia con la sua “professione di fede”, da cui emerge la sua irriverenza blasfema, il gusto di rovesciare beffardamente tutto ciò che è sacro. Sul tema della miscredenza si innesta quello della ghiottoneria: l’unica cosa in cui Margutte crede è il cibo. Nel lungo, insistito accumulo di realtà culinarie (ottave 115-116, riprese poi nelle ottave 123-124 e nelle successive che abbiamo omesso) si celebra il trionfo di ciò che vi è di più corposamente materiale, sempre in polemica con ciò che è elevato e spirituale, ed erompe l’esaltazione di un vivere gaudente, privo di ogni freno morale e religioso, liberamente immerso nei piaceri carnali (motivo poi ripreso nell’ottava sul sesso, la 129). Margutte si presenta come un ribelle, un trasgressore, che gode a infrangere ogni norma, ogni tabù, a corrodere con il suo riso ogni principio morale, ogni valore positivo (a questi atteggiamenti resterà fedele persino dopo la morte, nell’inferno). La sua stessa nascita è trasgressiva e sacrilega, in quanto egli è stato generato da una monaca greca e da un prete maomettano. Egli stesso si compiace a insistere sui propri vizi, a presentare in un iperbolico accumulo tutti i peccati più nefandi e repellenti: oltre che miscredente e ghiottone, è giocatore, baro, truffatore, sodomita, sfruttatore di donne, ladro, sacrilego, falsario, spergiuro, bestemmiatore, mentitore. Questo ritratto di un ribelle, che rovescia sistematicamente tutte le norme e tutti i valori, culmina nel parricidio. L’uccisione del padre assume in questo contesto un significato profondamente simbolico: la figura del padre rappresenta per essenza l’autorità, la norma, l’ordine; l’irregolare, il deviante, il ribelle, è tale in quanto si contrappone a una figura “paterna”: ogni ribellione è in fondo un’uccisione (simbolica) del padre.

> Il “carnevalesco” Il gusto del rovesciamento Gli antecedenti

Lo spirito carnevalesco

L’altra faccia dell’Umanesimo

78

In questo colossale elenco di colpe non bisogna certo vedere una sorta di satanico compiacimento del male, che sarebbe atteggiamento romantico, ottocentesco, quindi del tutto anacronistico ed estraneo a Pulci. Vi è solo un’oltranza provocatoria, una volontà di rovesciare ciò che è serio e ufficiale, a fini di riso, per sfidare beffardamente la visione “normale”, benpensante. L’atteggiamento di Pulci nasce da una lunga tradizione letteraria, che abbiamo via via seguito nel corso dei secoli precedenti: la poesia goliardica latina, quella giullaresca, la poesia burlesca toscana del Due-Trecento (si pensi a Cecco Angiolieri, ma anche alla rappresentazione dei diavoli danteschi, nei canti XXI-XXII dell’Inferno). A questo ambito risale l’esaltazione della vita scioperata, irregolare e gaudente, del gioco d’azzardo e del vino, della ghiottoneria e degli amori carnali. Dietro a tutta questa tradizione letteraria vi è lo spirito popolare del carnevale, col suo gusto irriverente di rovesciare tutto ciò che è serio, sacro e ufficiale, con l’esaltazione del godimento fisico più sfrenato e della materialità più corposa. Questo filone, dalle radici così lontane, riaffiora in Pulci, che, nel raffinatissimo e aristocratico ambiente della corte medicea, rappresenta le istanze di una tradizione cittadina più borghese e popolare, amante del riso dissacratore e della beffa. È questa l’altra faccia dell’Umanesimo, opposta a quella cortigiana, classicheggiante, platonica. L’umore bizzarro e

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

La violazione delle norme linguistiche

beffardo è uno strumento per corrodere certezze consacrate, per opporsi alle tendenze platoniche e spiritualeggianti del tempo, uno strumento quindi culturalmente sofisticato e usato in modo seriamente consapevole. Il compiacimento dell’irregolarità e del rovesciamento si manifesta naturalmente a livello stilistico: anche qui si coglie il gusto di violare la norma, di forzare in forme violentemente espressive il linguaggio corrente e codificato. Pulci porta alle estreme conseguenze lo sperimentalismo linguistico che connota la letteratura volgare del Quattrocento, e si colloca agli antipodi rispetto al raffinato intarsio classicheggiante di Poliziano.

Esercitare le competenze CoMPrendere

> 1. Dividi il brano in sequenze ed assegna loro un titolo, secondo l’esempio proposto. ottave

Titolo

115-120

Il......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... credo “rovesciato” di Margutte

.........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

133-136

Il......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... furto .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

> 2. Come appare Margutte agli occhi di Morgante? E agli occhi del lettore, dopo il suo “discorso”? > 3. Quali sono i principali bersagli polemici del mezzo gigante Margutte? Quali i valori che irride? AnALIzzAre

> 4. Numerosi sono i proverbi utilizzati da Margutte: qual è la loro funzione? > 5. Stile Individua le metafore presenti nelle ottave indicate in tabella, secondo l’esempio proposto. ottava

Versi

Metafora

114

v. ........................................................

«ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato» .........................................................................................................................................................................................................................................................................

117

v. ........................................................

.........................................................................................................................................................................................................................................................................

137

v. ........................................................

«d’uno iccase farotti un fio» .........................................................................................................................................................................................................................................................................

138

v. 6 ........................................................

.........................................................................................................................................................................................................................................................................

138

v. ........................................................

.........................................................................................................................................................................................................................................................................

> 6.

Stile Il linguaggio di Margutte è ricco di iperboli. Individua le ricorrenza di questa figura nelle ottave 141-142 e spiega il rilievo che essa assume rispetto alla caratterizzazione del personaggio. > 7. Lessico Analizza la prima parte del brano (ottave 112-120) da un punto di vista lessicale: sono presenti termini che appartengono al linguaggio colto o aulico? L’aggettivazione è scarsa o abbondante?

APProfondIre e InTerPreTAre

> 8.

esporre oralmente Delinea oralmente (max 3 minuti) le caratteristiche dell’altro protagonista del brano, il gigante Morgante, qui semplice “spalla” del mezzo gigante Margutte.

Per IL PoTenzIAMenTo

> 9. Quale significato acquista, nell’ambito dell’Umanesimo, la ripresa delle tradizioni letterarie riconducibili allo

spirito del carnevale, a partire dalla poesia comico-realistica di origine medievale, più volte riecheggiata nel brano antologizzato?

79

L’età umanistica

3 Il pubblico cortigiano del poema cavalleresco

La poesia a Ferrara

La riproposta dei valori cavallereschi: l’Orlando innamorato di Boiardo Come si è visto, i cantari venivano per lo più recitati nelle piazze, conservando le caratteristiche prevalenti della tradizione orale, mentre la ripresa del poema cavalleresco con elevate intenzioni d’arte ha luogo nell’ambiente sfarzoso della corte, almeno per due ragioni: da un lato esso viene incontro alle esigenze di divertimento e di svago di una società raffinata e culturalmente evoluta (anche se i canti venivano letti davanti ai signori, non si può certo parlare qui di tradizione orale); dall’altro gli ideali cavallereschi del mondo feudale, depurati alla luce di una nuova civiltà, sembravano poter rivivere nell’ambiente aristocratico della nobiltà cortigiana. Particolare importanza assume la corte estense di Ferrara, dove opera Matteo Maria Boiardo e dove ancora, portando a compimento il processo indicato, Ludovico Ariosto comporrà l’Orlando furioso ( L’età del Rinascimento, cap. 5, p. 243). La corte ferrarese aveva conservato vivo il culto della cortesia, della magnanimità cavalleresca, delle gesta valorose e degli amori sublimi. I romanzi francesi e italiani erano lettura avidamente cercata dai duchi stessi e dai gentiluomini e dalle dame di corte (come testimoniano i testi presenti nella biblioteca estense). È in questo contesto che Boiardo compone il suo poema, l’Orlando innamorato, intriso di nostalgia per il mondo della cavalleria e della cortesia.

Matteo Maria Boiardo

Capitolo 2, a2, p. 47

L’Orlando innamorato: la composizione Dal 1476 Boiardo cominciò a lavorare all’Orlando innamorato, il suo capolavoro. Nel 1483 furono pubblicati i primi due libri, in 60 canti. La composizione di un terzo libro procedette molto più lentamente, e fu interrotta bruscamente al IX canto, pochi mesi prima della morte del poeta; nell’ultima ottava si coglie l’eco dei dolorosi eventi storici contemporanei, la calata di Carlo VIII nel 1494.

La novità della materia

La fusione tra la materia carolingia e quella bretone

La vicenda

80

La materia e i modelli Il poema riprende la materia cavalleresca ed è destinato al diletto di un’élite cortigiana, come il poeta stesso dichiara nel proemio: «Signori e cavallier che ve adunati / per odir cose dilettose e nove». E già il titolo indica qual è la “novità” su cui Boiardo punta per suscitare l’interesse del suo aristocratico pubblico: il forte paladino Orlando, protagonista di tante imprese guerresche, l’austero e saggio difensore della fede, cade in preda all’amore, come uno degli eroi dei romanzi bretoni. Boiardo porta così a compimento quella fusione dei due cicli cavallereschi, il carolingio e l’arturiano, che già era stata avviata nei secoli precedenti. Nel poema si intrecciano armi ed amori, a cui fa da sfondo un altro elemento tipicamente bretone, il meraviglioso fiabesco, affidato alla presenza di fate, maghi, incantesimi, mostri, giardini fatati. In un proemio famoso (libro II, canto XVIII) il poeta giustifica questa scelta, sostenendo di preferire la corte di re Artù, che fu gloriosa un tempo «per l’arme e per l’amore», a quella di Carlo Magno, che «tenne ad Amor chiuse le porte / e sol se dette alle battaglie sante». I suoi ideali sono infatti amore e forza guerriera: queste sono per lui le virtù inseparabili del perfetto cavaliere, poiché solo Amore può procurare «onore» e «gentilezza». In tal modo, nell’austero mondo dell’epica carolingia, Boiardo scatena la forza dell’amore, e ne fa la molla di una serie infinita di avventure. L’apparizione di Angelica, la bellissima figlia del re del Cataio (la Cina), durante una «corte bandita» di Carlo

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

Magno, scatena i desideri di tutti i cavalieri, cristiani e pagani, che l’inseguiranno per ottenere il suo amore. Per lei Orlando stesso perderà la ragione, fino a sfidare un altro dei tanti spasimanti, il paladino Rinaldo. Re Carlo li separa e promette la fanciulla a quello dei due che combatterà più valorosamente nella battaglia imminente contro i Saraceni. A questo punto si interrompe la narrazione, che verrà poi ripresa e continuata da Ariosto nell’Orlando furioso. Al centro del poema si collocano dunque le armi e gli amori. A differenza di Pulci, che negli stessi anni affrontava nel Morgante un’analoga materia, i valori del mondo cavalleresco sono da Boiardo profondamente sentiti. Il poeta ritiene che quei valori, che nel corso della civiltà urbana e mercantile parevano tramontati, rivivano nella società cortigiana, in particolare in quella ferrarese, appassionata di prodezza, lealtà e cortesia, avida di amori galanti. Per lui quindi i valori cavallereschi non sono solo sogni da proiettare in un passato mitico, ma sono praticabili nel presente. Boiardo può dunque essere definito “cantore della cavalleria”: il suo poema vibra continuamente di entusiasmo per le azioni valorose, i gesti magnanimi, gli amori sublimi. Ma proprio perché corrisponde agli interessi vivi della società cortigiana quattrocentesca, quel mondo cavalleresco non è più quello espresso dalla civiltà medievale, né potrebbe esserlo. Boiardo è immerso nella civiltà umanistica del suo tempo: di conseguenza per lui, come per la società a cui si rivolge, la cavalleria è ormai svuotata degli originari contenuti religiosi, etici e politici, e si è riempita di valori moderni, quelli umanistico-rinascimentali. In primo luogo la “prodezza” cavalleresca (come ha dimostrato Bigi) non è più solo forza guerriera, ma è la “virtù” dell’individuo libero, attivo, energico, che sa superare ogni ostacolo e imporre il suo dominio sulla Fortuna. Dietro le avventure cavalleresche compare così un tema che era da tempo al centro della civiltà italiana, a partire da Boccaccio. Il motivo della “virtù” umana che vince la Fortuna è più volte teorizzato nel poema e prende corpo in uno degli episodi più significativi, quello in cui Orlando insegue e dopo mille ostacoli riesce a raggiungere la fata Morgana, che simboleggia la Fortuna volubile e inafferrabile. Questo culto della vita attiva ed energica, al livello più alto, si manifesta come individualismo proteso all’affermazione di sé, alla conquista della gloria e della fama. Pertanto anche l’onore perde la sua fisionomia feudale e rispecchia l’esigenza tutta umanistica del primeggiare, ponendosi come giusta ricompensa della “virtù” e dell’agire energico.

Valori cavallereschi e valori umanistici nell’Orlando innamorato

L’attualità dei valori cavallereschi

La cavalleria secondo i valori rinascimentali

Prodezza e “virtù” dell’individuo

Testi Boiardo • Alcune dichiarazioni di poetica • Orlando insegue Morgana dall’Orlando innamorato

L’individualismo

Niccolò Dell’Abate, Paesaggio con Matteo Maria Boiardo che scrive il suo poema, 1540, affresco staccato, Modena, Galleria Estense.

81

L’età umanistica La lealtà e la tolleranza La cultura e l’essenza dell’uomo

L’amore come manifestazione di gioia ed energia

Angelica e l’immagine della donna

L’ironia di Boiardo

A loro volta la lealtà e la cortesia assumono l’aspetto tutto moderno del rispetto per la personalità altrui, anche dei nemici, e della tolleranza verso credenze diverse. Ma il rozzo individualismo guerriero non basta per definire un autentico ideale umano: esso deve venire integrato e raffinato dalle doti intellettuali, dalla cultura. È questo l’aspetto in cui meglio si coglie il nuovo senso umanistico che assumono i valori cavallereschi in Boiardo. Eloquente è a tal proposito l’episodio del duello fra Orlando ed Agricane ( T3, p. 91): il re tartaro rappresenta il tipo più arcaico e superato di eroe guerriero, caratterizzato dalla bruta forza; Orlando è invece superiore a lui perché è un cavaliere colto, “filosofo”, che sa discettare opportunamente sulle più alte questioni etiche e metafisiche. È Orlando stesso ad affermare che nel sapere risiede l’essenza dell’uomo, ciò che lo fa degno di questo nome e lo distingue dai bruti («et è simile a un bove, a un sasso, a un legno, / chi non pensa allo eterno Creatore; / né ben se può pensar senza dottrina», libro I, canto XVIII, ottava 44). Come il motivo della prodezza cavalleresca è spogliato ormai di ogni idealità medievale, così nel poema boiardesco l’amore è lontano dalla visione cortese di origine feudale. L’amore non è che un’altra manifestazione di quel senso gioioso, energico e attivo della vita, che si rivela nella prodezza guerriera. Perciò amore e armi, formando un’inscindibile unità, esprimono una visione già rinascimentale della vita, in senso laico, mondano, edonistico. La più felice incarnazione di questa visione dell’amore è Angelica, che non ha più nulla delle diafane creature stilnovistiche, o dello stilizzato figurino della Laura petrarchesca, ma è donna in tutta la complessa mobilità della sua psicologia, seducente e tenera, sensuale e capricciosa, crudele e appassionata, protesa con tutte le forze a soddisfare il suo desiderio amoroso. Per trovare antecedenti a una figura così nuova, si può solo risalire a certe complesse eroine boccacciane. Non manca lo sguardo sorridente con cui l’autore segue alcuni personaggi; ma quella che è stata definita l’“ironia” di Boiardo non è certo, come si è creduto, l’atteggiamento di uno spirito adulto e disincantato, che guarda con distacco idealità definitivamente tramontate, poiché nel poema la cavalleria è veicolo di ideali ancora vivi e attuali. Al contrario, il sorriso di Boiardo è l’effetto di una partecipazione goduta allo slancio vitale che anima le sue storie, l’indizio della simpatia per l’esuberanza gagliarda dei suoi eroi, e mira a rendere quel mondo più familiare e simpatico anche ai lettori. Il senso di esuberante vitalità che anima la materia dell’Innamorato è anche la legge che presiede al formarsi della sua struttura narrativa. La trama del poema si costruisce attraverso un proliferare inesauribile di fatti, personaggi, situazioni. L’affollarsi di avventure meravigliose, battaglie, duelli, incontri con mostri, giganti, fate, incantesimi, amori, è mosso da uno slancio prepotente, che nasce dal piacere assaporato di narrare una «bella istoria» dinanzi ad un ideale uditorio, avido di «odir cose dilettose e nove». Il fluire della narrazione sembra poter continuare all’infinito, senza mai arrivare ad un punto terminale, conclusivo. In questa struttura narrativa rigogliosa numerosi fili, riguardanti personaggi diversi, si intrecciano fra loro (è la cosiddetta tecnica dell’entrelacement: le vicende di un personaggio sono seguite sino ad un certo punto, poi interrotte per seguire quelle di un altro, poi riprese, mescolate, creando l’impressione di una selva lussureggiante). La libertà vitale dell’organismo narrativo si riflette anche nello stile. La lingua di Boiardo è lontana dalle rigide codificazioni classicistiche che saranno proprie, di lì a pochi anni, della letteratura cinquecentesca, dominata dall’autorità del Bembo. È una lingua ibrida, che sul fondo letterario toscano innesta elementi fonetici, morfologici, lessicali tipicamente “padani” (senza escludere latinismi colti). L’effetto è quello di una grande freschezza e immediatezza, che si intona perfettamente con lo slancio che pervade la narrazione.

La struttura narrativa e lo stile Il proliferare rigoglioso dell’intreccio

La lingua ibrida

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Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

T2

Matteo Maria Boiardo

Proemio del poema e apparizione di Angelica

Temi chiave

• l’appello al pubblico di corte • la dissacrazione del paladino Orlando • la centralità del tema amoroso

dall’Orlando innamorato, I, I, 1-4; 8-9; 11-12; 19-34 Nel primo canto dell’Orlando innamorato, dopo il tradizionale proemio, Boiardo descrive i preparativi per la giostra che re Carlo sta organizzando a Parigi. Nel mezzo di un sontuoso banchetto arriva la bella Angelica che ammalia con la sua sfolgorante bellezza tutti i presenti.

> Metro: ottave di endecasillabi; schema delle rime ABABABCC. 1

Signori e cavallier che ve adunati1 per odir cose dilettose e nove2, stati attenti e quïeti, ed ascoltati3 la bella istoria che ’l mio canto muove4; e vedereti i gesti smisurati5, l’alta fatica e le mirabil prove che fece il franco6 Orlando per amore nel tempo del re Carlo imperatore.

2

Non vi par già, signor, meraviglioso7 odir cantar de Orlando inamorato. Ché qualunque8 nel mondo è più orgoglioso, è da Amor vinto, al tutto subiugato9; né forte braccio, né ardire animoso, né scudo o maglia10, né brando11 affilato, né altra possanza12 può mai far diffesa, che al fin non sia da Amor battuta e presa.

3

Questa novella13 è nota a poca gente, perché Turpino14 istesso la nascose, credendo forse a quel conte15 valente esser le sue scritture dispettose16, poi che contra ad Amor pur17 fu perdente colui che vinse tutte l’altre cose: dico di Orlando, il cavalliero adatto18. Non più parole ormai, veniamo al fatto.

Audio

1. ve adunati: vi adunate (indica il pubblico della corte, che si riunisce per ascoltare il racconto delle avventure di Orlando). 2. dilettose e nove: piacevoli e mai udite prima (le ragioni della novità verranno spiegate poco dopo). 3. ascoltati: ascoltate. 4. che … muove: che offre lo spunto, dà origine al mio canto. 5. vedereti … smisurati: vedrete le gesta, gli atti straordinari (si ricordi l’antico appellativo di “canzoni di gesta”). 6. franco: nobile e coraggioso (anche questo termine riprende la terminologia epico-cortese).

7. Non vi … meraviglioso: non vi sembri, signore, strano, stupefacente (l’uso di signor può essere inteso, forse volutamente, come plurale e singolare, nel qual caso il poeta si rivolgerebbe direttamente al principe). 8. qualunque: chiunque (anche i più orgogliosi, duri e insensibili). 9. al tutto subiugato: del tutto soggiogato. 10. maglia: la maglia di ferro della corazza. 11. brando: spada. 12. possanza: forza, potenza. 13. novella: racconto, vicenda. 14. Turpino: arcivescovo di Reims, vissuto nell’VIII secolo e caduto a Roncisvalle. Identificato con l’autore di una Storia di Carlo Ma-

gno e di Orlando, del secolo XII, venne arbitrariamente considerato come la fonte del ciclo carolingio. 15. conte: epiteto con il quale viene abitualmente indicato Orlando (è sinonimo di paladino, che deriva a sua volta da “conte palatino”). 16. esser … dispettose: il racconto per iscritto della “novella” avrebbe provocato dispetto, dispiacere a Orlando. 17. pur: invece (l’antitesi indica il contrasto, essenziale per lo svolgimento dell’azione, fra la forza e l’amore). 18. adatto: perfetto (il termine deriva dalla tradizione dei cantari).

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L’età umanistica

4

La vera istoria di Turpin ragiona19 che regnava in la terra de orïente, di là da l’India, un gran re di corona, di stato e de ricchezze sì potente20 e sì gagliardo de la sua persona, che tutto il mondo stimava nïente: Gradasso nome avea quello amirante21, che ha cor di drago e membra di gigante.

[Gradasso organizza un numeroso esercito di «cento cinquanta millia cavallieri» con il quale si dirige in Francia, desideroso di conquistare Durindana, la spada di Orlando, e Baiardo, il destriero di Ruggiero.]

8

Lassiam costor che a vella22 se ne vano, che sentirete poi ben la sua gionta23; e ritornamo in Francia a Carlo Mano24, che e soi magni baron provede25 e conta; imperò che26 ogni principe cristiano, ogni duca e signore a lui se afronta27 per una giostra28 che aveva ordinata allor di maggio, alla pasqua rosata29.

9

Erano in corte tutti i paladini per onorar quella festa gradita, e da ogni parte, da tutti i confini era in Parigi una gente infinita. Eranvi ancora molti Saracini, perché corte reale era bandita30, ed era ciascaduno assigurato, che non sia traditore o rinegato. [...]

11

Parigi risuonava de instromenti, di trombe, di tamburi e di campane; vedeansi i gran destrier con paramenti, con foggie disusate, altiere31 e strane; e d’oro e zoie32 tanti adornamenti che nol potrian contar33 le voci umane; però che per gradir lo imperatore34 ciascuno oltra al poter si fece onore.

12

Già se apressava35 quel giorno nel quale si dovea la gran giostra incominciare, quando il re Carlo in abito reale alla sua mensa fece convitare

19. ragiona: racconta. 20. di corona … sì potente: così potente per il titolo (corona), la forza politico-militare (stato) e la ricchezza. 21. amirante: emiro. 22. a vella: a vela, sulle navi. 23. la sua gionta: la sua aggiunta; cioè il seguito dell’impresa di Gradasso. 24. Carlo Mano: Carlo Magno (oltre che per

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ragioni di rima, anche per evitare la ripetizione con il successivo magni, grandi). 25. provede: passa in rassegna. 26. imperò che: poiché, giacché. 27. se afronta: si presenta. 28. giostra: torneo. 29. pasqua rosata: Pentecoste. 30.era bandita: era stata convocata. La corte reale era aperta anche ai pagani e ciascuno, par-

tecipandovi, poteva essere sicuro (assigurato), purché non fosse un traditore o un rinnegato. 31. altiere: superbe. 32. zoie: gioie, gioielli. 33. nol potrian contar: non lo potrebbero raccontare. 34. gradir lo imperatore: far cosa grata, rendersi gradito all’imperatore. 35. se apressava: si avvicinava.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

ciascun signore e baron naturale36, che venner la sua festa ad onorare; e fôrno37 in quel convito li assettati38 vintiduo millia e trenta annumerati. [Carlo Magno dà inizio al banchetto, ospitando alla sua tavola gli illustri cavalieri cristiani, mentre i Saraceni stanno sdraiati «come mastini» sopra tappeti secondo la loro usanza. Rinaldo, osservando i Saraceni, pregusta le vittorie che riporterà su di essi, mentre re Balugante, il cognato di Carlo Magno, si informa sulla condizione dei vari cavalieri, per poterli onorare adeguatamente.]

19

Mentre che stanno in tal parlar costoro, sonarno li instrumenti da ogni banda39, ed ecco piatti grandissimi d’oro, coperti de finissima vivanda40; coppe di smalto, con sotil lavoro41, lo imperatore a ciascun baron manda. Chi de una cosa e chi d’altra onorava, mostrando che di lor si racordava42.

20

Quivi si stava con molta allegrezza, con parlar basso43 e bei ragionamenti: re Carlo, che si vidde in tanta altezza44, tanti re, duci45 e cavallier valenti, tutta la gente pagana disprezza, come arena del mar denanti a i venti46; ma nova47 cosa che ebbe ad apparire, fe’ lui con gli altri insieme sbigotire.

21

Però che in capo48 della sala bella quattro giganti grandissimi e fieri intrarno, e lor nel mezo49 una donzella, che era seguìta da un sol cavallieri50. Essa sembrava matutina stella51 e giglio d’orto e rosa de verzieri52: in somma, a dir di lei la veritate, non fu veduta mai tanta beltate53.

22

Era qui nella sala Galerana, ed eravi Alda, la moglie de Orlando, Clarice ed Ermelina54 tanto umana, ed altre assai, che nel mio dir non spando55, bella ciascuna e di virtù fontana56.

36. naturale: di nascita. 37. fôrno: furono (va con annumerati, nel senso che furono presenti, si contarono...). 38. li assettati: i partecipanti (coloro che erano seduti a tavola). 39. banda: parte, lato. 40. de finissima vivanda: di ricercate vivande. 41. con sotil lavoro: finemente lavorati, cesellati. 42. si racordava: si ricordava. 43. basso: a bassa voce. Viene ricreata un’atmosfera di matura civiltà, più vicina alla vita delle corti contemporanee che a quella dell’età medievale.

44. in tanta altezza: così altamente onorato, per la presenza di tanti nobili personaggi (duci, duchi). 45. duci: capitani. 46. come arena … venti: come se (i pagani) fossero dei granelli di sabbia sollevata dal vento. 47. nova: straordinaria. 48. in capo: in fondo. 49. intrarno … mezo: entrarono, e in mezzo a loro. 50. da un sol cavallieri: si tratta di Uberto, fratello di Angelica. 51. matutina stella: la stella del mattino era

propriamente Venere; ma l’appellativo è attribuito anche alla Vergine. 52. verzieri: giardino. 53. beltate: bellezza. 54. Galerana … Ermelina: Galerana era la moglie di Carlo Magno. Nella Chanson de Roland Alda la Bella, sorella di Uliveri, muore quando Carlo Magno le annuncia la fine di Orlando, di cui era fidanzata. Clarice ed Ermelina (tanto umana, ossia cortese) sono rispettivamente le spose di Rinaldo e di Uggieri il Danese. 55. spando: nomino, cito. 56. fontana: fonte, esempio.

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L’età umanistica

Dico, bella parea ciascuna, quando non era giunto in sala ancor quel fiore, che a l’altre di beltà tolse l’onore57. 23

Ogni barone e principe cristiano in quella parte ha rivoltato il viso, né rimase a giacere alcun pagano; ma ciascun d’essi, de stupor conquiso58, si fece a la donzela prossimano59; la qual, con vista allegra e con un riso da far inamorare un cor di sasso, incominciò così, parlando basso:

24

– Magnanimo segnor, le tue virtute e le prodezze de’ toi paladini, che sono in terra tanto cognosciute, quanto distende il mare e soi confini, mi dan speranza che non sian perdute le gran fatiche de duo peregrini60, che son venuti dalla fin del mondo per onorare il tuo stato giocondo61.

25

Ed acciò ch’io62 ti faccia manifesta, con breve ragionar, quella cagione che ce ha condotti alla tua real festa, dico che questo è Uberto dal Leone63, di gentil stirpe nato e d’alta gesta64, cacciato del suo regno oltra ragione65: io, che con lui insieme fui cacciata, son sua sorella, Angelica nomata66.

26

Sopra alla Tana duecento giornate67, dove reggemo il nostro tenitore68 ce fôr di te le novelle aportate69, e della giostra e del gran concistoro70 di queste nobil gente qui adunate; e come né città, gemme o tesoro son premio de virtute71, ma si dona al vincitor di rose una corona72.

27

Per tanto ha il mio fratel deliberato, per sua virtute quivi dimostrare,

57. l’onore: il primato. 58. conquiso: conquistato, vinto. 59. prossimano: vicino. 60. peregrini: pellegrini, viaggiatori (Angelica, che sta parlando, e il fratello, da cui è accompagnata), giunti dalla fin del mondo, dalla parte opposta e più lontana della Terra. Angelica proviene dal Catai, corrispondente all’attuale Cina. 61. il tuo stato giocondo: il tuo regno felice. 62. acciò ch’io: affinché io.

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63. Uberto dal Leone: falso nome dietro cui si nasconde il fratello di Angelica, Argalia. 64. gesta: rango. 65. oltra ragione: senza motivo, ingiustamente. 66. nomata: chiamata. 67. Sopra … giornate: duecento giornate di cammino (anche in questo caso la cifra è iperbolica) oltre il Tanai (il fiume russo Don). 68. reggemo … tenitore: governiamo il nostro territorio, stato.

69. ce … aportate: ci furono portate notizie di te. 70. concistoro: convegno. 71. son … virtute: sono dati in premio al valore. 72. una corona: la corona di rose, premio del vincitore della giostra, indica il disinteresse dei cavalieri che gareggiano solo per mostrare il loro valore.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

dove il fior de’ baroni è radunato, ad uno ad un per giostra contrastare73: o voglia esser pagano o battizato, fuor de la terra lo venga a trovare74, nel verde prato alla Fonte del Pino, dove se dice al Petron di Merlino75. 28

Ma fia questo con tal condizïone (colui l’ascolti che si vôl provare): ciascun che sia abattuto de lo arcione, non possa in altra forma repugnare76, e senza più contesa sia pregione77; ma chi potesse Uberto scavalcare78, colui guadagni la persona mia: esso79 andarà con suoi giganti via. –

29

Al fin delle parole ingenocchiata davanti a Carlo attendia80 risposta. Ogni om per meraviglia81 l’ha mirata, ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta col cor tremante e con vista cangiata82, benché la voluntà83 tenìa nascosta; e talor gli occhi alla terra bassava, ché di se stesso assai si vergognava.

30

«Ahi paccio84 Orlando!» nel suo cor dicia85 «Come te lasci a voglia86 trasportare! Non vedi tu lo error che te desvia87, e tanto contra a Dio te fa fallare. Dove mi mena la fortuna mia? Vedome preso e non mi posso aitare88; io, che stimavo tutto il mondo nulla, senza arme vinto son da una fanciulla.

31

Io non mi posso dal cor dipartire89 la dolce vista del viso sereno, perch’io mi sento senza lei morire, e il spirto90 a poco a poco venir meno. Or non mi val la forza, né lo ardire contra d’Amor, che m’ha già posto il freno91;

73. per giostra contrastare: combattere in duello. 74. o voglia … trovare: sia esso pagano o cristiano (battizato, battezzato), fuori di Parigi (terra, città) venga a incontrarlo. 75. Petron di Merlino: la pietra sotto la quale, secondo la leggenda arturiana, era stato sepolto per incantesimo il mago Merlino. C’è anche in questo caso una contaminazione, del tutto arbitraria, fra le leggende dei due cicli. 76. repugnare: combattere nuovamente, riprendere il combattimento in altro modo (for-

ma). 77. pregione: prigioniero. 78. potesse … scavalcare: riuscisse a disarcionare. 79. esso: Uberto. 80. attendia: attendeva, aspettava. 81. per meraviglia: come se fosse una cosa meravigliosa, un prodigio. 82. con vista cangiata: con aspetto mutato, alterato per l’emozione provata alla vista di Angelica. 83. voluntà: passione, desiderio. 84. paccio: pazzo, folle. È questo il primo

germe da cui nascerà l’idea dell’Orlando furioso di Ariosto. 85. dicia: diceva. 86. a voglia: dal desiderio, dall’istinto. 87. te desvia: ti allontana dalla retta via (in quanto lo induce a fallare, a peccare contro la legge di Dio). 88. aitare: aiutare (non posso far nulla per difendermi). 89. dipartire: staccare. 90. il spirto: lo spirito, la vita. 91. m’ha … freno: mi ha già imbrigliato (il freno è il morso che si mette in bocca ai cavalli).

87

L’età umanistica

né mi giova saper92, né altrui consiglio, ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio93». 32

Così tacitamente il baron franco si lamentava del novello amore. Ma il duca Naimo94, ch’è canuto e bianco, non avea già de lui men pena al core, anci95 tremava sbigotito e stanco, avendo perso in volto ogni colore. Ma a che dir più parole? Ogni barone di lei si accese, ed anco il re Carlone96.

33

Stava ciascuno immoto e sbigottito, mirando quella con sommo diletto; ma Feraguto97, il giovenetto ardito, sembrava vampa viva nello aspetto, e ben tre volte prese per partito di torla98 a quei giganti al suo dispetto, e tre volte afrenò99 quel mal pensieri per non far tal vergogna allo imperieri100.

34

Or su l’un piede, or su l’altro se muta101, grattasi ’l capo e non ritrova loco; Rainaldo102, che ancor lui l’ebbe veduta, divenne in faccia rosso come un foco; e Malagise103, che l’ha cognosciuta, dicea pian piano: «Io ti farò tal gioco, ribalda incantatrice, che giamai de esser qui stata non te vantarai».

92. saper: il sapere (anche nel senso di convinzione razionale). 93. ch’io … m’appiglio: perché vedo ciò che è meglio, ma scelgo il partito peggiore. 94. Naimo: Namo, vecchio e saggio cavaliere cristiano. 95. anci: anzi.

96. Carlone: Carlo Magno. A prescindere dalle ragioni della rima, l’appellativo non è privo di ironia. 97. Feraguto: cavaliere pagano. 98. di torla: di portarla via. 99. afrenò: frenò. 100. allo imperieri: all’imperatore.

101. Or … se muta: saltella ora su un piede, ora su un altro. 102. Rainaldo: Rinaldo, paladino, cugino di Orlando. 103. Malagise: Malagigi, mago cristiano, unico ad aver compreso che Angelica, con un tranello, vuole dividere l’esercito cristiano.

Pesare le parole Sbigottito (ottava 33, v. 1)

> È il participio passato del verbo sbigottire, che può es-

>

88

sere transitivo, “intimorire, turbare profondamente qualcuno” (es. le notizie del terremoto sbigottirono l’intera nazione) oppure intransitivo, “turbarsi profondamente, perdersi d’animo” (es. non sbigottì nemmeno davanti al pericolo di morte). L’etimologia è incerta, forse dall’antico francese esbahir (oggi s’ébahir), “sbalordire”, “stupire”, con la sovrapposizione di bagutta, “maschera”. Sinonimi: sconcertare, dal prefisso s- (latino ex-) che indica la cancellazione di qualcosa + concerto (dal latino cum + certàre, “gareggiare”), quindi “alterare il ‘concerto’, l’armonia delle facoltà dell’animo”; sgomentare, dal latino parlato excommentàre (ex + commentàri, “meditare”, connesso con mèntem, “mente”, sempre con il prefisso ex- negativo): quindi “impedire di pensare, di ragionare,

turbare le facoltà mentali, indurre a perdersi d’animo”; sbalordire, da ex-, qui con valore intensivo, più balordo (di etimologia discussa, forse dall’antico francese beslourd, composto da bis- e lùridus, “pallido”), quindi “rendere sciocco, stolido, privo di senno”; disorientare, da dis + orientare, “perdere la facoltà di individuare il punto di riferimento dell’oriente”, quindi di prendere la direzione giusta; confondere, da cum + fùndere, “versare”, cioè “mescolare senza ordine né distinzione” e per traslato “turbare tanto da togliere la chiarezza del pensiero”. Si può vedere come perdere il controllo delle proprie facoltà mentali e il dominio di sé venga indicato con una grande ricchezza di immagini, provenienti dai campi più diversi: segno dell’importanza che riveste per l’uomo una simile esperienza negativa, che suscita evidentemente apprensione e timore.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

Analisi del testo Il pubblico del poema Fusione tra ciclo bretone e ciclo carolingio

Caratteri epici e iperbolici di Gradasso

La descrizione del banchetto

L’apparizione di Angelica Il discorso di Angelica

La novità del personaggio di Angelica

La reazione dei paladini di fronte ad Angelica

> Il proemio, Gradasso e il banchetto di Carlo Magno (ottave 1-20)

Il pubblico («Signori e cavallier») al quale Boiardo si rivolge è composto dai nobili di corte e forse dallo stesso signore, «adunati» intorno al poeta per ottenere un piacevole svago dall’ascolto di «cose dilettose e nove». L’autore opera poi la fusione tra ciclo carolingio e ciclo bretone già effettuata in parte dai cantari, ma attribuendo all’amore un’importanza straordinaria, in quanto forza naturale che imprime movimento a tutte le azioni. L’eroe che dà il titolo all’opera compirà ancora «gesti smisurati», «alta fatica» e «mirabil prove», ma questi avverranno non per lealtà e vassallaggio verso il proprio sire e per adesione alla fede cristiana, ma per amore. Una connotazione esclusivamente epica è attribuita alla figura del “nemico” Gradasso («un gran re di corona [...] ha cor di drago e membra di gigante»), che decide la guerra con l’unico scopo di conquistare la spada di Orlando e il cavallo di Rinaldo, mitici emblemi della forza e della destrezza. Dal piano epico il narratore passa poi nell’ambito di raffinate consuetudini cortesi. A Parigi infatti è convenuta «una gente infinita» per la giostra che il re Carlo aveva ordinata «alla pasqua rosata» ed alla quale possono partecipare tutti quelli che non sono traditori o rinnegati. La descrizione del banchetto rivela un gusto del decoro formale che rimanda al raffinato livello di vita raggiunto dalla corte estense di Ferrara. Alla corte di Carlo ci sono oggetti preziosi ed artisticamente lavorati, come «piatti grandissimi d’oro», «coppe di smalto»; l’atmosfera generale è di civile ed elevata armonia, in cui l’«allegrezza» si accompagna al parlare a bassa voce e ai «bei ragionamenti», oramai nobilitati da una lunga tradizione letteraria.

> Angelica e le reazioni dei paladini (ottave 21-34)

Nel seguito del canto l’elemento amoroso si materializza ben presto nella figura della bellissima Angelica. La sua apparizione è molto teatrale: la scena è la «sala bella», il corteo è costituito da «quattro giganti grandissimi e fieri» e «da un sol cavallieri». Il discorso che Angelica pronuncia è sapientemente organizzato: alla captatio benevolentiae, con il riconoscimento del valore di Carlo e dei paladini, segue la propria presentazione, il ricordo del torto subito, la disponibilità ad essere schiava del vincitore del fratello. Angelica, come accadrà anche in Ariosto, è la bella donna che sa sfruttare la propria bellezza; è calcolatrice, astuta e accorta come ben sa Malagise (vedi ottava 34, vv. 6-8). Questo aspetto, accoppiato con quello della seduzione, fa di Angelica un personaggio completamente nuovo rispetto alla donna angelicata della tradizione precedente. In questa luce appare chiaro come il nome “Angelica” assuma tutta una colorazione antifrastica, in quanto Angelica è proprio il contrario della donna angelicata. La presenza di Angelica nel campo dei cristiani provocherà infatti la defezione dei più validi tra i campioni di Carlo Magno, abbagliati dalla sua irresistibile bellezza. È evidente che Boiardo ha profondamente trasformato Carlo e i paladini, che non sono più integerrimi difensori della fede cristiana e portatori di valori assoluti, ma uomini in carne e ossa che subiscono fino in fondo il fascino femminile. Boiardo si diverte e diverte il suo pubblico descrivendo l’imbarazzo dei cavalieri, cristiani e pagani, che si scoprono affascinati da Angelica. Anche il duca Namo «ch’è canuto e bianco» trema d’amore «sbigotito e stanco»; ma, quello che è ancor più sorprendente, «anco il re Carlone» s’accende per Angelica. Gli eroi non sono più personaggi ideali, da presentare come modelli di comportamento, ma vengono smitizzati, caricati d’umanità. Alle reazioni di Orlando all’apparizione di Angelica, il narratore dedica maggiore spazio utilizzando il monologo, che gli consente di vedere dall’interno i sentimenti del personaggio. L’atteggiamento del paladino davanti ad Angelica è l’antitesi di quello tipico del cavaliere coraggioso, dai gesti «smisurati»: ora ha il «cor tremante», la «vista cangiata», tiene gli occhi a terra e «di se stesso assai si vergognava». 89

L’età umanistica L’auto-analisi di Orlando

La tecnica narrativa: l’entrelacement

Lucidamente l’eroe avverte il proprio mutamento: «io, che stimavo tutto il mondo nulla, / senza arme vinto son da una fanciulla»; comprende di intraprendere la strada sbagliata, quella che gli farà inseguire i beni fallaci e mondani e lo porterà a «contra a Dio [...] fallare». Si autodefinisce «paccio», anticipando il giudizio su di sé, sul quale Ariosto costruirà il suo poema. Un’ultima osservazione riguarda un aspetto tipico della tecnica narrativa di Boiardo, ripresa dai cantari: nell’ottava 8 è presente quello che diventerà un consueto espediente o meccanismo strutturale, chiamato entrelacement, per operare il cambiamento della scena e introdurre il successivo momento narrativo: «Lassiam costor [...] e ritornamo in Francia a Carlo Mano».

Esercitare le competenze CoMPrendere

> 1. Dividi il testo in sequenze ed assegna loro un titolo, secondo l’esempio proposto. ottave

Titolo

1-4

Il......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... proemio ......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

> 2. Perché Turpino nasconde la vicenda di Orlando innamorato? > 3. Qual è il premio per colui che riuscirà a disarcionare Uberto/Argalia, il fratello di Angelica? > 4. Per quali motivi Orlando pecca contro le leggi di Dio innamorandosi di Angelica? > 5. Chi si accorge dell’inganno di Angelica? AnALIzzAre

> 6. Individua i momenti in cui emerge l’ironia di Boiardo. > 7. Rintraccia, nella descrizione di Angelica, gli elementi che rinviano alla tradizione stilnovista ed indica quali aspetti invece ne fanno un personaggio nuovo. > 8. Lessico Individua nelle prime ottave (1-4) gli aggettivi presenti, indica a quali cose o persone si riferiscono e spiega a quali campi semantici e a quali temi del poema rimandano. > 9. Lingua Analizza l’ottava 33 dal punto di vista sintattico, riconosci tutte le proposizioni da cui è composta e svolgi l’analisi del periodo completa. APProfondIre e InTerPreTAre

> 10.

esporre oralmente Dopo la lettura delle ottave riportate qui sotto, rispondi oralmente (max 5 minuti) alle seguenti domande. a) Che cosa afferma Boiardo sul rapporto con la Fortuna, tema tipicamente rinascimentale? b) E sull’amore?

1

90

Tutte le cose sotto della luna, L’alta ricchezza, e’ regni della terra, Son sottoposti a voglia di Fortuna: Lei la porta apre de improviso e serra, E quando più par bianca, divien bruna; Ma più se mostra a caso della guerra Instabile, voltante e roïnosa, E più fallace che alcuna altra cosa;

2

Come se puote in Agrican vedere, Quale era imperator de Tartaria, Che avia nel mondo cotanto potere, Per una dama al suo talento avere, Sconfitta e morta fu sua compagnia; E sette re che aveva al suo comando Perse in un giorno sol per man di Orlando (Orlando innamorato, I, XVI, ottave 1-2)

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

T3

Matteo Maria Boiardo

Temi chiave

Il duello di orlando e Agricane

• il codice cavalleresco • il valore paritetico della cultura

dall’Orlando innamorato, I, XVIII, 32-55

• la concezione umanistica dell’uomo

e della forza fisica

in armonia con la natura L’episodio del duello di Orlando e Agricane, sicuramente uno l’amore come forza motrice della • dei più famosi del poema, mette in luce sia le caratteristiche narrazione cavalleresche sia quelle più specificatamente culturali dei personaggi. Agricane, vedendo le proprie schiere in difficoltà, decide di attirare Orlando lontano dalla mischia, sicuro di poterlo sconfiggere. Vinto il nemico, tornerà a combattere con i suoi. Finge allora di fuggire e Orlando si getta al suo inseguimento.

> Metrica: ottave di endecasillabi; schema delle rime ABABABCC. 32

Fermosse ivi1 Agricane a quella fonte, e smontò dello arcion2 per riposare, ma non se tolse l’elmo della fronte, né piastra3 o scudo se volse4 levare; e poco dimorò che gionse il conte5, e come il vide alla fonte aspettare, dissegli: – Cavallier, tu sei fuggito, e sì forte mostravi6 e tanto ardito!

33

Come tanta vergogna pôi soffrire7 a dar le spalle ad un sol cavalliero? Forse credesti la morte fuggire: or vedi che fallito hai il pensiero8. chi morir può onorato, die’9 morire; ché spesse volte aviene e de legiero10 che, per durare in questa vita trista11, morte e vergogna ad un tratto s’acquista. –

1. Fermosse ivi: si fermò lì. 2. dello arcion: dall’arcione, di sella. 3. piastra: armatura. 4. volse: volle.

5. poco … conte: non si fermò a lungo che giunse anche Orlando. 6. mostravi: ti mostravi, sembravi. 7. pôi soffrire: puoi sopportare.

8. fallito … pensiero: ti sei sbagliato. 9. die’: deve. 10. de legiero: facilmente. 11. trista: malvagia.

Pesare le parole Soffrire (ottava 33, v. 1) > Deriva

>

dal latino colloquiale sufferìre, variante del più classico suffèrre, “sopportare, tollerare”, composto di sub-, “sotto”, e fèrre, “portare”. Nel testo di Boiardo conserva dunque il senso originario latino. Nell’italiano attuale invece soffrire indica il “patire dolori fisici o morali”, e può essere transitivo (es. soffrire le pene dell’inferno) oppure intransitivo (es. nella sua vita ha molto sofferto). Sinonimo è pàtire (dal latino pati), che oltre a “soffrire” ha anche i significati di “subire” (es. patire offese) o “sopportare, tollerare” (es. non posso patire la disonestà; in questo senso ricorre qui all’ottava 51, v. 1). Dalla stessa radice proviene passione, “sentimento forte”, o in senso religioso “sofferenza fisica” (es. la Passione di Cristo). La provenienza da una radice che significa “subire” ci fa vedere come la passione (amorosa, per il gioco d’azzardo, per lo sport…) sia una forza che si impone a noi, che subiamo, e che quindi può annullare la nostra volontà, tanto che non riusciamo a controllarla. Dalla stessa radice derivano ancora

passivo, “che è incapace di agire o subisce senza reagire”; compassione, “partecipazione ai dolori altrui” (composto di cum- e pati, quindi “patire insieme”); pathos, “intensa commozione” (che propriamente è una parola greca, ma proveniente da una radice comune con il latino); patema (sempre dal greco), “stato d’ansia e di timore”, spesso nella locuzione patema d’animo (che talora nel linguaggio di persone poco colte diventa paté d’animo, con una buffa confusione con il pâté, termine francese che significa “pasticcio”, di fegato d’oca o di altri tipi di carni); patetico, “ciò che desta tristezza e commozione”; passibile, “che può subire qualcosa”, specie nel linguaggio giuridico (es. è passibile di ergastolo); pazienza, “virtù di chi sa tollerare con calma e serenamente avversità, dolori, situazioni irritanti e sgradevoli” o “di chi sa attendere senza insofferenza e nervosismo”, o ancora “di chi sa lavorare con precisione, meticolosità e senza fretta”; paziente è infine chi viene sottoposto alle cure di un medico.

91

L’età umanistica

34

Agrican prima rimontò in arcione, poi con voce suave rispondia: – Tu sei per certo il più franco12 barone ch’io mai trovassi nella vita mia; e però del tuo scampo fia cagione13 la tua prodezza e quella cortesia che oggi sì grande al campo usato m’hai, quando soccorso a mia gente donai.

35

Però14 te voglio la vita lasciare, ma non tornasti15 più per darmi inciampo! Questo la fuga mi fe’ simulare, né vi ebbi altro partito16 a darti scampo. Se pur17 te piace meco18 battagliare, morto ne rimarrai su questo campo; ma siami testimonio il cielo e il sole che darti morte me dispiace e duole. –

36

Il conte li rispose molto umano, perché avea preso già de lui pietate19: – Quanto sei, – disse, – più franco e soprano20, più di te me rincresce in veritate, che serai morto21, e non sei cristïano, et andarai tra l’anime dannate; ma se vôi il corpo e l’anima salvare, piglia battesimo, e lasciarotte22 andare. –

12. franco: nobile, coraggioso. 13. e però … cagione: e perciò della tua salvezza (scampo) sarà (fia) causa (ossia: «ti risparmierò la vita per il tuo coraggio e per la grande cortesia che oggi mi hai dimostrato in battaglia, quando mi hai consentito di prestare soccorso alla mia gente»). 14. Però: Per questo. 15. non tornasti: non tornare. 16. partito: mezzo. 17. pur: tuttavia. 18. meco: con me. 19. de lui pietate: compassione di lui. 20. soprano: sovrano, superiore agli altri. 21. morto: ucciso. 22. piglia battesimo, e lasciarotte: ricevi il battesimo e ti lascerò.

Frontespizio dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, Venezia 1528.

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Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

37

Disse Agricane, e riguardollo23 in viso: – Se tu sei cristïano, Orlando sei. Chi me facesse re del paradiso, con tal ventura24 non la cangiarei; ma sino or te ricordo e dòtti aviso25 che non me parli de’ fatti de’ Dei26, perché potresti predicare in vano: diffenda il suo27 ciascun col brando28 in mano. –

38

Né più parole: trasse fuor Tranchera29, e verso Orlando con ardir se affronta30. Or se comincia la battaglia fiera, con aspri colpi di taglio e di ponta31; ciascuno è di prodezza una lumera32, e sterno33 insieme, come il libro conta34, da mezo giorno insino a notte scura, sempre più franchi35 alla battaglia dura.

39

Ma poi che il sole avea passato il monte36, e cominciosse a fare il cel stellato37, prima38 verso il re parlava il conte: – Che farem, – disse, – che il giorno ne è andato? Disse Agricane con parole pronte: – Ambo se poseremo39 in questo prato; e domatina, come il giorno pare40, ritornaremo insieme a battagliare. –

40

Così de acordo il partito se prese41. Lega il destrier ciascuno come li piace, poi sopra a l’erba verde se distese; come fosse tra loro antica pace, l’uno a l’altro vicino era e palese42. Orlando presso al fonte isteso43 giace, et Agricane al bosco più vicino stassi colcato44, a l’ombra de un gran pino.

41

E ragionando insieme tuttavia di cose degne e condecente45 a loro, guardava il conte il celo e poi dicia46: – Questo che or vediamo, è un bel lavoro,

23. riguardollo: lo guardò. 24. ventura: fortuna. Vale a dire: non cambierei la fortuna di combattere con te, nemmeno se mi facessero re del paradiso. 25. ma sino … aviso: ma sin d’ora ti ammonisco (ricordo) e ti avverto. 26. de’ fatti de’ Dei: dei problemi degli dei, di questioni religiose. 27. il suo: la sua fede (sottinteso Dio). 28. col brando: con la spada. 29. Tranchera: è questo il nome della spada di Agricane, secondo l’abitudine, propria del poema epico-cavalleresco, di personalizzare gli strumenti più vicini della forza e del corag-

gio (si ricordi Durindana, la spada di Orlando). 30. se affronta: si dirige per affrontarlo. 31. ponta: punta. 32. lumera: luce, insigne e luminoso esempio (è un francesismo di uso arcaico). 33. sterno: stettero. 34. come … conta: come racconta il libro di Turpino, l’arcivescovo di Reims identificato con l’autore di una Storia di Carlo Magno ( nota 14 del T2, p. 83). 35. franchi: gagliardi, animosi. 36. avea … monte: era tramontato. 37. e cominciosse … stellato: e il cielo cominciò a diventare stellato.

38. prima: per primo. 39.Ambo se poseremo: entrambi ci riposeremo. 40. pare: appare, nasce. 41. de acordo … prese: di comune accordo si prese la decisione. 42. palese: ben visibile (sottolinea il fatto che, inermi, si esponevano entrambi a un attacco proditorio dell’avversario). 43. isteso: steso, sdraiato. 44. stassi colcato: se ne sta coricato. 45. condecente: convenienti, confacenti (è sinonimo di degne). 46. dicia: diceva.

93

L’età umanistica

che fece la divina monarchia47; e la luna de argento, e stelle d’oro, e la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. – 42

Disse Agracane: – lo comprendo per certo che tu vôi de la fede ragionare; io de nulla scïenzia sono esperto, né mai, sendo48 fanciul, volsi49 imparare, e roppi il capo al mastro mio per merto50; poi non si puoté un altro ritrovare che mi mostrasse51 libro né scrittura, tanto ciascun avea di me paura.

43

E così spesi la mia fanciulezza in caccie, in giochi de arme e in cavalcare; né mi par che convenga a gentilezza52 star tutto il giorno ne’ libri a pensare; ma la forza del corpo e la destrezza conviense al cavalliero esercitare. Dottrina53 al prete et al dottor sta bene: io tanto saccio54 quanto mi conviene. –

44

Rispose Orlando: – Io tiro teco a un segno55, che l’arme son de l’omo il primo onore; ma non già che il saper faccia men degno, anci56 lo adorna come un prato il fiore; et è simile a un bove, a un sasso, a un legno, chi non pensa allo eterno Creatore; né ben se può pensar senza dottrina la summa maiestate57 alta e divina. –

47. la divina monarchia: Dio, in quanto sovrano dell’universo. 48. sendo: essendo. 49. volsi: volli. 50. roppi … merto: ruppi la testa al mio maestro come ricompensa (per merto, merito) dei suoi insegnamenti. 51. mostrasse: insegnasse. 52. a gentilezza: a persona nobile; indica gli

attributi di un nobile cavaliere, secondo il linguaggio cortese (si ricordi che nella prima società feudale i cavalieri erano per lo più privi di istruzione), ovvero la forza del corpo e la destrezza, l’abilità. 53. Dottrina: scienza, sapienza. 54. saccio: so. 55. tiro … segno: sono d’accordo con te, giungo ad una medesima conclusione. Il segno indi-

ca il bersaglio, verso il quale si lancia (tiro) la freccia. L’espressione metaforica è adatta all’indole dei personaggi; ma si noti anche l’accortezza del parlare di Orlando, che dà inizialmente ragione all’avversario, per poi confutarne (attraverso l’avversativa) le convinzioni. 56. anci: anzi. 57. summa maiestate: somma maestà (riprende la divina monarchia dell’ottava 41, v. 5).

Pesare le parole Scïenzia (ottava 42, v. 3)

> Deriva dal latino scìre, “sapere, conoscere”. In questo testo

conserva il significato originario, “conoscenza, sapere”, in senso generico. Nella lingua attuale ha un senso più ristretto e indica una conoscenza fondata sul metodo rigoroso e sull’esperienza, intesa a individuare le cause dei fenomeni e le leggi che li governano, tipo di conoscenza nato in epoca moderna, da Galileo, Newton ecc. Oggi si suole distinguere tra scienze umane (tra cui rientrano le scienze storiche, filosofiche, filologiche, quelle politiche, psicologiche, l’economia, l’antropologia culturale, la sociologia) e scienze

94

matematiche, fisiche e naturali (matematica, fisica, biologia…). Nella scuola la dizione scienze indica comunemente le scienze naturali (es. l’insegnante di scienze). Lo scientismo è l’atteggiamento che consiste nel subordinare alla scienza ogni altra attività umana. Resta però in alcune locuzioni dell’italiano moderno il senso originario di “conoscenza” (es. pozzo di scienza, avere la scienza infusa). Permane anche nel sostantivo lo scibile, che designa il complesso di ciò che si può conoscere (es. l’immensità dello scibile) e nell’avverbio scientemente, “in modo consapevole”.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

45

Disse Agricane: – Egli è gran scortesia a voler contrastar con avantaggio58. Io te ho scoperto59 la natura mia, e te cognosco che sei dotto e saggio. Se più parlassi, io non risponderia; piacendoti dormir, dòrmite ad aggio60, e se meco parlare hai pur diletto, de arme, o de amore a ragionar t’aspetto.

46

Ora te prego che a quel ch’io dimando rispondi il vero, a fè de omo pregiato61: se tu sei veramente quello Orlando che vien tanto nel mondo nominato; e perché qua sei gionto62, e come, e quando, e se mai fosti ancora63 inamorato; perché ogni cavallier che è senza amore, se in vista64 è vivo, vivo è senza core. –

47

Rispose il conte: – Quello Orlando sono che occise65 Almonte e il suo fratel Troiano66; amor m’ha posto tutto in abandono67, e venir fammi in questo loco strano68. E perché teco più largo ragiono69, voglio che sappi che ’l mio core è in mano de la figliola del re Galafrone che ad Albraca dimora nel girone70.

48

Tu fai col patre guerra e gran furore per prender suo paese e sua castella, et io qua son condotto per amore e per piacere a quella damisella71. Molte fiate72 son stato per onore e per la fede mia sopra alla sella73; or sol per acquistar la bella dama faccio battaglia, et altro non ho brama74. –

49

Quando Agricane ha nel parlare accolto75 che questo è Orlando, et Angelica amava, fuor di misura se turbò nel volto76, ma per la notte77 non lo dimostrava; piangeva sospirando come un stolto,

58. Egli è … avantaggio: è un atto molto scortese (contrario cioè a ogni forma di gentilezza) voler contrastare (combattere) da una posizione di superiorità (con avantaggio, vantaggio). 59. te ho scoperto: ti ho fatto conoscere, ti ho rivelato apertamente. 60. piacendoti … aggio: se hai voglia di dormire, dormi pure con tuo comodo (ad aggio, a tuo agio). 61. rispondi … pregiato: tu rispondi la verità, per la fede di un uomo d’onore.

62. gionto: giunto. 63. ancora: talvolta. 64. in vista: all’apparenza. 65. occise: uccise. 66. Almonte … Troiano: principi dei Mori. 67. amor … abandono: l’amore mi ha completamente sconvolto. 68. loco strano: paese straniero. 69. perché … ragiono: per parlarti più chiaramente. 70. la figliola … girone: Angelica, che si trovava dentro le mura (nel girone) di Albraccà,

la città assediata da Agricane e difesa da Orlando, entrambi innamorati della giovane. 71. per piacere … damisella: per far cosa grata a quella damigella. 72. fiate: volte. 73. sopra alla sella: a cavallo, combattendo. 74. non ho brama: non desidero. 75. nel parlare accolto: capito da queste parole. 76. fuor … volto: cambiò espressione (per l’emozione provata). 77. per la notte: essendo buio.

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L’età umanistica

l’anima, il petto e il spirto78 li avampava; e tanta zelosia79 gli batte il core, che non è vivo, e di doglia80 non muore. 50

Poi disse a Orlando: – Tu debbi pensare che, come il giorno serà dimostrato81, debbiamo insieme la battaglia fare, e l’uno o l’altro rimarrà sul prato. Or de una cosa te voglio pregare, che, prima che veniamo a cotal piato82, quella donzella che il tuo cor disia83, tu la abandoni, e lascila per mia84.

51

Io non puotria patire85, essendo vivo, che altri con meco amasse il viso adorno86; o l’uno o l’altro al tutto serà privo del spirto87 e della dama al novo giorno. Altri mai non saprà, che88 questo rivo e questo bosco che è quivi d’intorno, che l’abbi riffiutata in cotal loco e in cotal tempo, che serà sì poco89. –

52

Diceva Orlando al re: – Le mie promesse tutte ho servate90, quante mai ne fei91; ma se quel che or me chiedi io promettesse, e se io il giurassi, io non lo attenderei92; così potria spiccar93 mie membra istesse, e levarmi di fronte gli occhi miei, e viver senza spirto e senza core, come lasciar de Angelica lo amore. –

53

Il re Agrican, che ardeva oltra misura, non puote tal risposta comportare94; benché sia al mezo della notte scura, prese Baiardo95, e su vi ebbe a montare; et orgoglioso, con vista sicura96, iscrida al conte et ebbelo a sfidare97, dicendo: – Cavallier, la dama gaglia98 lasciar convienti99, o far meco battaglia. –

54

Era già il conte in su l’arcion100 salito, perché, come se mosse il re possente, temendo dal pagano esser tradito,

78. il spirto: lo spirito, l’animo. 79. zelosia: gelosia. 80. doglia: dolore. 81. dimostrato: apparso. 82. a cotal piato: a questo duello mortale. 83. disia: desidera, ama. 84. lascila per mia: la lasci a me. 85. non puotria patire: non potrei sopportare. 86. il viso adorno: il bel viso (di Angelica).

96

87. al tutto … spirto: sarà completamente privato della vita. 88. che: tranne, eccetto. 89. serà sì poco: sarà così breve. 90. servate: serbate, mantenute. 91. ne fei: ne feci. 92. non lo attenderei: non lo manterrei, non potrei mantenerlo. 93. potria spiccar: potrei strappare, tagliare. Indica l’impossibilità di rinunciare all’a-

more di Angelica. 94. comportare: tollerare, sopportare. 95. Baiardo: il cavallo di Rainaldo, che apparteneva allora ad Agricane. 96. vista sicura: sguardo fermo. 97. iscrida … sfidare: grida al conte, mentre lo sfida a duello. 98. gaglia: gaia, bella. 99. convienti: ti conviene, devi. 100. in su l’arcion: sulla sella, a cavallo.

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

saltò sopra al destrier subitamente; unde101 rispose con l’animo ardito: – Lasciar colei non posso per nïente, e, se io potessi ancora, io non vorria102; avertila convien per altra via103. 55

Sì come il mar tempesta a gran fortuna104, cominciarno105 lo assalto i cavallieri; nel verde prato, per la notte bruna, con sproni urtarno adosso e buon destrieri; e se scorgiano106 a lume della luna dandosi colpi dispietati e fieri, ch’era ciascun di lor forte et ardito. Ma più non dico: il canto è qui finito.

[Il duello, la cui descrizione prosegue nella prima parte del canto XIX, termina con la conversione e la morte di Agricane.]

101. unde: per cui. 102. non vorria: non vorrei. 103. avertila … via: devi conquistarla in un

altro modo. 104. tempesta … fortuna: ribolle, è sconvolto in un grande fortunale (è sinonimo di

tempesta). 105. cominciarno: cominciarono. 106. se scorgiano: si vedevano.

Analisi del testo

> La struttura narrativa

Il primo segmento narrativo

La morte gloriosa e l’onore

Il secondo segmento narrativo

L’episodio del duello di Orlando ed Agricane si estende per due canti, la fine del XVIII e l’inizio del XIX. Ne abbiamo riportato la prima parte, in cui possono essere individuati due momenti: 1. stanze 32-37: scambio di cortesie cavalleresche tra Orlando e Agricane; 2. stanze 38-55: autopresentazione dei due personaggi e dichiarazione d’amore per Angelica. Nel primo momento i due cavalieri rivelano entrambi la loro adesione alle regole del mondo cavalleresco, che non ammette la fuga del cavaliere dinanzi al pericolo. Il concetto della morte gloriosa, acquistata in battaglia, è strettamente connesso con quello dell’onore, tipico valore cortese-cavalleresco e si oppone a quello, invece, disonorante per un cavaliere, della vergogna che segue la fuga. Il discorso di Orlando, anche se il paladino non s’è presentato, rivela ad Agricane la sua identità; il pagano mostra di riconoscerne i tratti caratterizzanti di «prodezza e … cortesia» e gli è grato per l’aiuto che gli ha offerto al campo. Di conseguenza vuole ricambiare la cortesia, lasciandogli la vita. Agricane ammette il valore del «più franco barone», ma nello stesso tempo è del tutto convinto della propria superiorità, che procurerà la morte all’avversario. In questa prima parte dell’episodio, in cui Orlando esprime il proprio rincrescimento per la prossima morte non cristiana di Agricane e si offre di battezzare il pagano, è evidente che il personaggio di Orlando mantiene le caratteristiche che ne avevano fatto il tipico eroe dell’omonima chanson de geste: è valoroso uomo d’arme che combatte per il suo re e per la fede. Orlando si preoccupa infatti di assicurare la salvezza dell’anima ad Agricane che invece, legato al suo codice di valori pagani, rifiuta. Nella seconda parte dell’episodio i due contendenti, dopo aver gareggiato con tutte le loro forze, all’arrivo della sera decidono la tregua, che, sempre in base al codice cavalleresco, verrà rigorosamente rispettata (ottava 40, v. 4). 97

L’età umanistica

Una cosmogonia armonica L’elogio della cultura

Orlando, cavaliere cristiano, inizia ad elogiare Dio che ha creato il mondo «per la umana gente», manifestando una tipica concezione umanistica che non vede, come nel Medioevo, contrapposizione tra Dio, l’uomo e la natura. L’immagine del cosmo data da Orlando è armonica, umanisticamente finalizzata alla presenza dell’uomo (ottava 41, vv. 4-8). Ma l’elemento che più rivela la fisionomia umanistica del personaggio è l’elogio della cultura, che, unitamente al valore guerriero, «adorna [l’uomo] come un prato il fiore». Agricane, celebratore solo della «forza del corpo» e della «destrezza», è figura arcaica, al di fuori di quello spirito umanistico, che ritiene invece che nell’uomo ideale debbano coesistere qualità intellettuali e fisiche. Un elemento accomuna però i due cavalieri sinora antitetici per scelta di campo: l’amore per la stessa donna; ed è proprio questa rivelazione che spinge i due a rompere la tregua e a riprendere il combattimento. Il canto XVIII infine si chiude con un intervento del narratore: «Ma più non dico: il canto è qui finito». È una di quelle tipiche formule consacrate da tutta la tradizione dei “cantari”, che la letteratura colta, di corte, ama riecheggiare (lo farà poi spesso anche Ariosto).

> L’epos cavalleresco secondo la cultura umanistica La cavalleria secondo lo spirito umanistico

L’amore, forza motrice della narrazione

98

Nel suo complesso l’episodio esemplifica l’ideale cavalleresco rivissuto dal Boiardo e dalla società cui appartiene: quello della forza e del coraggio, non disgiunti dalla lealtà e dalla nobiltà dei sentimenti. È lo spirito che animava l’epica delle origini (con la sua idealizzazione dei valori feudali), trasferito però nel mondo delle corti umanistiche, in un ambiente cioè criticamente più consapevole e culturalmente maturo. Si veda il pensiero di Agricane, il quale, dopo aver nettamente separato la nobiltà («gentilezza», secondo la terminologia medievale e cortese) dalla «dottrina», afferma: «ma la forza del corpo e la destrezza / conviense al cavalliero esercitare». Orlando concorda appieno con questa visione arcaica ed eroica del mondo, tanto da ribadire: «Io tiro teco a un segno, / che l’arme son de l’omo il primo onore» (ottava 44, vv. 1-2). Ma corregge subito dopo la rigidezza dell’affermazione, integrandola con una difesa della cultura e del sapere che non ha più nulla dello spirito feudale: (ottava 44, vv. 1-4). La materia rappresentata si carica di suggestioni e di idealità remote, ma non estranee alla civiltà delle corti quattrocentesche, nella misura in cui era possibile identificarsi in esse e riviverle come attuali. Al di là dell’interesse più precisamente narrativo e romanzesco per l’avventura, distintivo del genere, l’ideologia aristocratica dell’epos, basata sul coraggio e sulla nobiltà, diveniva nuovamente attuale in una società aristocratica come quella delle Signorie, in cui la magnanimità dei gesti e dei comportamenti si presentava come un modello di civiltà e di vita. Anche se, come si è detto, il culto della forza non era più inscindibile rispetto all’educazione artistica e intellettuale (da questa sintesi deriverà la concezione dell’uomo propria del Rinascimento, come risulta, ad esempio, dall’equilibrio proposto nel Cortegiano dal Castiglione). All’amore, in particolare, è intitolato il poema e l’amore risulta la forza motrice della narrazione. Di fronte alla passione ogni altra idealità cavalleresca passa in secondo piano, come dichiara esplicitamente Orlando, sottolineando la distanza fra il passato e il presente («Molte fiate» e «or», ottava 48, vv. 5-8). Lo scarto cronologico, riferito al personaggio, finisce anche per alludere emblematicamente, in senso estensivo, a quello fra gli antichi valori dell’epica e la coloritura della loro attuale riproposta, in cui l’amore incarna il vitalismo dell’uomo contemporaneo, il suo incardinarsi nella realtà moderna. E a questo sentimento finiscono per essere subordinati tutti gli altri valori: la gentilezza e la lealtà, l’“onore” e la “fede”. Non a caso Agricane, quando scopre che Orlando gli è rivale in amore, interrompe la nobile tregua e, nel cuore della notte, riprende il duello, per conquistare con le armi l’oggetto del suo desiderio (o per rinunciarvi per sempre, andando incontro alla morte).

Capitolo 3 · L’Umanesimo volgare: il poema epico-cavalleresco

Esercitare le competenze CoMPrendere

> 1. Spiega, in base al testo, la posizione di Agricane in materia religiosa. > 2. Sintetizza in poche battute il racconto che il re tartaro fa della propria fanciullezza. AnALIzzAre

> 3.

Lessico Nel passo proposto è ricorrente il lessico relativo ai valori cavallereschi: completa secondo l’esempio proposto la tabella seguente, relativa alle ottave 32-36.

ottava

Versi

Vocabolo/i

32

8 ........................................................

ardito .........................................................................................................................................................................................................................................................................

........................................................

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APProfondIre e InTerPreTAre

> 4.

Scrivere Il passo può essere considerato un esempio significativo della fusione fra i due cicli cavallereschi, quello carolingio e quello arturiano, su cui si fonda il poema. Scrivi in proposito un testo espositivo di circa 10 righe (500 caratteri). > 5. esporre oralmente Quali argomentazioni proposte dal testo confermano la preferenza accordata da Boiardo (cfr. Proemio libro II, canto XVIII) alla corte di re Artù rispetto a quella di Carlo Magno? Motiva la tua risposta in un’esposizione orale (max 3 minuti).

Per IL reCUPero

> 6. La reazione di Agricane alla rivelazione di Orlando (ottave 49-54) è coerente con il profilo del personaggio delineatosi nelle ottave precedenti e nell’Analisi del testo? Motiva la tua risposta. PASSATo e PreSenTe Confronto fra civiltà

> 7. Le figure di Orlando e Agricane sembrano incarnare due differenti modelli di comportamento: da un lato

il valore della cultura e dell’equilibrio, dall’altro la forza fisica e la destrezza nelle armi. Ritieni che tale opposizione sia riscontrabile anche oggi in un ideale confronto fra civiltà? Ritieni che ad alcuni popoli possano essere attribuite caratteristiche peculiari del tutto differenti da quelle di altri? Nel rispondere considera il contesto odierno a livello mondiale, e preparati a sostenere la tua tesi in un dibattito in classe con il supporto di letture tratte da articoli di giornale piuttosto recenti.

SCrITTUrA CreATIVA

> 8. La bella Angelica, inseguita da paladini e guerrieri saraceni, tiene un diario personale in cui racconta le espe-

rienze di cui è protagonista. Immagina una pagina da lei scritta in cui spiega le ragioni del suo perenne fuggire e in cui riflette sulle avventure, sui conflitti e sulle morti che involontariamente provoca nei due eserciti contrapposti. Non superare le 30 righe (1500 caratteri).

99

L’età umanistica

Visualizzare i concetti

I cantari, il Morgante e l’O r l a n d o i n n a m o r a t o a c o n f r o n t o CAnTArI

MOrgante

OrlandO innaMOratO

Materia

Vicende tratte dai poemi cavallereschi del ciclo carolingio e dai romanzi del ciclo bretone; intrusione dell’elemento comico

Materia carolingia, arricchita da nuovi personaggi e da situazioni narrative comiche

Fusione della materia cavalleresca del ciclo carolingio con quella amorosa e fiabesca del ciclo bretone

Pubblico

Popolare e incolto

Colto

Colto

Contesto e modalità di fruizione

Recitazione nelle piazze a opera di giullari e canterini girovaghi

Recitazione nell’ambito della corte medicea di Firenze e, secondariamente, lettura privata

Recitazione nell’ambito della corte estense e lettura privata

Finalità

Divertimento e svago

Divertimento e svago; dissacrazione dei valori più seri e “ufficiali”

Divertimento e svago; adattamento degli ideali cavallereschi ai nuovi valori espressi dalle corti

Metrica

Ottave di endecasillabi, spesso irregolari

Ottave di endecasillabi

Ottave di endecasillabi

Rozzo e popolare

Vivace ed espressionistico, caratterizzato dalla mescolanza di toni e di registri lessicali diversi

Esuberante e immediato

Stile

facciamo il punto 1. Compila la seguente tabella per visualizzare le caratteristiche dei poemi di Pulci e Boiardo. Autore

opera

Lingua

Modelli

Temi

Personaggi

Pulci

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Boiardo

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2. Tratta i seguenti argomenti nella forma della trattazione breve e sintetica (max 15 righe). a) Quale formazione culturale hanno i due autori? b) In quali ambienti sociali e culturali operano? c) Qual è la loro posizione nei confronti dei valori cavallereschi? d) In quale modo Pulci e Boiardo si pongono nei confronti del poema cavalleresco tradizionale? Quali

aspetti riprendono fedelmente? Quali modificano? e) A quale pubblico i due autori indirizzano le loro opere?

100

In sintesi

L’UMAneSIMo VoLGAre: IL PoeMA ePICo-CAVALLereSCo Verifica interattiva

I CAnTArI CAVALLereSChI Nel passaggio dalla civiltà feudale a quella comunale, i valori etico-religiosi dell’epica delle origini perdono la loro efficacia, mentre la narrazione delle avventure cavalleresche continua a godere di grande fortuna presso il pubblico popolare e incolto. Per soddisfare le richieste di svago e divertimento di tale pubblico nascono i cantari, componimenti narrativi in versi (per lo più in ottave di endecasillabi) che fondono la materia avventurosa propria del ciclo carolingio con quella amorosa e fiabesca del ciclo bretone e che ammettono l’intrusione dell’elemento comico attraverso la deformazione buffonesca degli eroi della tradizione. Pur trattandosi di una produzione dalle forme rozze, destinata alla recitazione nelle piazze cittadine a opera di giullari, essa sarà tenuta presente dai successivi poeti colti – Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto – che nel Quattrocento e nel Cinquecento daranno una veste letteraria alle medesime vicende, indirizzandole però al pubblico delle corti signorili.

LUIGI PULCI: IL MOrgante Amico di Lorenzo il Magnifico, il fiorentino Pulci (143284) fu legato per un lungo periodo alla corte medicea, sulla quale esercitò una notevole influenza culturale; nel 1476 fu tuttavia costretto ad allontanarsene per il prevalere dei più austeri orientamenti promossi dall’Accademia platonica. La sua opera principale è il Morgante, un poema cavalleresco assai vicino ai modi dei cantari, di cui riprende la forma metrica, la materia carolingia (tratta dal cantare Orlando) e soprattutto l’elemento comico, amplificato dal contatto con la tradizione comico-parodica fiorentina. Da tale retroterra culturale scaturisce un’opera irriverente, che svuota dall’interno i contenuti dell’epica attraverso il rovesciamento parodico dei suoi valori più autentici, la deformazione caricaturale degli eroi tradizionali e l’introduzione di nuovi personaggi abnormi e grotteschi, come il gigante Morgante. Destinata alla recitazione nell’ambito della corte medicea ancor prima che alla lettura, l’opera manca di un disegno organico e unitario e si caratterizza per la grande varietà dei

toni, ora seri ed eroici, ora buffoneschi, ora patetici, ora fiabeschi. Il gusto della varietà e la ricerca dell’eccesso si riflettono anche sulla lingua, che ha come base il toscano parlato, ricco di espressioni vivacissime e incisive, molte delle quali tratte dal lessico furfantesco, ma che include anche latinismi, vocaboli squisitamente letterari, termini scientifico-filosofici.

MATTeo MArIA BoIArdo: L’OrlandO innaMOratO L’attività letteraria di Boiardo (1441-94) gravitò intorno all’ambiente della corte estense. Dopo aver composto opere encomiastiche in latino e in volgare, una commedia e un Canzoniere (o Amorum libri) alla maniera petrarchesca, Boiardo si dedicò alla composizione di un poema cavalleresco in ottave rimasto incompiuto, l’Orlando innamorato, per suggestione dell’ambiente ferrarese, dove era ancora vivo il culto dell’epica e delle virtù in essa celebrate; la narrazione, che s’interrompe al III libro, sarà poi ripresa dall’Orlando furioso di Ariosto. Sulla scia dei cantari, la materia carolingia è fusa con quella bretone, in quanto l’eroe principale dell’epopea di Carlo Magno, Orlando, è rappresentato come vittima dell’amore, uno degli ingredienti tipici dei romanzi arturiani insieme con l’elemento fiabesco, anch’esso ampiamente sviluppato nel poema. La nostalgia per il mondo della cavalleria e della cortesia pervade l’opera, che mira a recuperare i valori feudali adattandoli al nuovo contesto umanistico-rinascimentale: la virtù è ora intesa come capacità di affermare se stessi dominando la Fortuna; l’etica cavalleresca si apre all’esaltazione della cultura e al rispetto della personalità altrui e delle civiltà diverse dalla propria; l’amore s’intride di vitalismo edonistico. Una vitalità esuberante pervade anche la struttura del poema, che presenta un proliferare di avventure, incontri e situazioni narrative che si susseguono all’infinito. La lingua corrisponde grosso modo al toscano letterario, mescolato tuttavia con elementi linguistici tipicamente “padani” e libero dalle codificazioni classicistiche che prenderanno il sopravvento nei primi decenni del Cinquecento.

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Capitolo 4

L’Umanesimo volgare: la prosa

Se la prosa dell’Umanesimo latino appare più strettamente legata alla dignità e alla sostenutezza dei modelli classici, i testi scritti in volgare rivelano una maggiore attenzione ai problemi pratici, di tipo economico (nel caso di Leon Battista Alberti, T1, p. 103 e T2, p. 106) o di tipo scientifico (è il caso di Leonardo da Vinci, T3, T4 e T5, p. 109 e ss.), oppure, pur richiamandosi più direttamente alla classicità (è il caso del genere bucolico già praticato da Teocrito e Virgilio), cercano soluzioni formali più originali, come quelle del “prosimetro”, che – sull’esempio della Vita nuova di Dante – alterna prose e versi (è il caso dell’Arcadia di Iacopo Sannazaro, T6, p. 118).

A1

Attività d’architetto

Leon Battista Alberti Leon Battista Alberti (1404-72), membro di una delle più nobili casate fiorentine, esiliata verso la fine del Trecento per motivi politici, nacque a Genova, figlio naturale di uno degli esponenti di maggiore spicco della famiglia. Terminati a Padova, tra il 1415 e il 1420, gli studi umanistici sotto la guida di Gasparino Barzizza, si trasferì a Bologna dove, oltre a diritto canonico, studiò il greco col Filelfo. Divenuto abbreviatore apostolico (funzionario che scriveva le minute degli atti pontifici e preparava gli estratti delle suppliche ricevute) presso la Curia pontificia, divise la sua attività tra Firenze (da cui era stato nel frattempo revocato il bando), Bologna e Roma, città a cui rimase particolarmente legato, per aver qui potuto approfondire ed ampliare gli studi dell’arte che praticò con risultati eccelsi: l’architettura. Sua è, ad esempio, la ricostruzione del Tempio Malatestiano a Rimini, e su suo progetto si costruirono a Firenze la facciata di Santa Maria Novella ed il palazzo Rucellai. A Mantova progettò le chiese di San Sebastiano e Sant’Andrea.

La vita e l’attività di architetto

I trattati e le opere giovanili Della sua attività di artista rimangono tracce nei trattati Trattati sull’arte

Opere latine giovanili

d’arte come il De Pictura (“La pittura”, 1435), redatto in latino e tradotto in volgare l’anno seguente; il De Statua (“La scultura”), di datazione incerta, probabilmente da attribuirsi agli anni giovanili, e il De re aedificatoria (“L’architettura”), vasto trattato in dieci libri, pubblicato, postumo, nel 1485, ma già in circolazione nel 1452. Agli anni giovanili vanno attribuite due opere latine, la commedia Philodoxeos (“Filodosseo”) ed il trattato De commodis atque incommodis litterarum (“Vantaggi e svantaggi delle lettere”), interessanti non solo perché ricchi di importanti dati biografici ma anche perché in essi si riscontrano già temi poi ricorrenti in tutta la produzione dell’Alberti, ad esempio quelli della contrapposizione tra virtù e fortuna e del diffuso pessimismo verso la società in genere.

La produzione della maturità Alberti si fece promotore della diffusione della lingua Opere in volgare

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volgare: non solo egli è infatti l’autore della prima Grammatica della lingua toscana, ma, nel 1441, fu anche tra gli ideatori del “Certame Coronario”, una competizione poetica destinata a rilanciare la poesia in volgare. Il suo maggior contributo in tal senso è costituito, comunque, dagli scritti morali redatti in volgare, destinati a diffondere i

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

Opere latine

T1

nuovi ideali di vita umanistici oltre la ristretta cerchia dei letterati (anche se si tratta di un volgare talmente irto di latinismi da essere spesso più vicino alla lingua di Cicerone che alla parlata popolare fiorentina). Tra le sue opere vanno ricordati in modo particolare i dialoghi raccolti nei Libri della famiglia (1434-41), in cui si affrontano temi come l’educazione dei figli, il matrimonio, l’amministrazione della casa e del podere. Tutti gli ideali sono riconducibili a quello della piccola repubblica familiare, ben ordinata e ben condotta, anche se tratteggiata dall’autore in una prospettiva abbastanza lontana dalla realtà. Tornano, nel proemio dell’opera, i temi della virtù e della fortuna. La virtù per l’Alberti è una qualità legata all’esperienza terrena dell’uomo e si traduce in operosità, capacità di discernere, saggezza, prudenza in senso latino, insomma. Grazie ad essa l’uomo può contrapporsi al capriccioso arbitrio del fato, il cui dominio è limitato all’ambito dell’accadere fisico e non può determinare l’azione dell’uomo virtuoso, che, anche se colpito dalla sventura, resta di esempio e di monito alla comunità in cui vive. Anche nel Theogenius (“Teogenio”), scritto forse sotto l’impressione della guerra contro i Visconti del 1440, dopo le allusioni agli avvenimenti del tempo e alle vendette dei Medici contro gli avversari politici, l’attenzione dell’autore si appunta sull’individuo che sa opporre ai colpi della sorte il suo equilibrio interiore. All’incirca la stessa tematica ritorna nel Profugiorum ab aerumna libri (“Libri di coloro che sono scampati dalla rovina”), dialogo più noto come Della tranquillità dell’animo e dedicato al tema della pace interiore, da mantenersi nelle avversità. Nel De iciarchia (“Il governo della famiglia”, 1468) vengono invece ripresi alcuni spunti già presenti nei Libri della famiglia, come il governo della casa e la formazione del buon cittadino. Opere di carattere irriverente e satirico sono invece i dialoghi Intercoenales e il romanzo Momus o De principe (“Momo o Del principe”). Leon Battista Alberti

Elogio della “masserizia” da Libri della famiglia, III

Temi chiave

• la figura del perfetto massaio • l’importanza dell’esperienza • il valore dei beni materiali • la giusta misura

Il brano è tratto dal III dei Libri della famiglia (Economicus, ossia dedicato all’economia), in cui, per bocca di Giannozzo – che rappresenta l’uomo saggio, legato ai valori della tradizione – si definiscono i concetti di “masserizia” e di “massaio”.

Testé1, Lionardo mio, sono io prudente, e conosco chi getta via il suo essere pazzo . Chi non ha provato quanto sia duolo e fallace a’ bisogni andare pelle mercé altrui3, non sa quanto sia utile il danaio4. E chi non pruova con quanta fatica s’acquisti, facilmente spende5: e chi non serva6 misura allo spendere suole bene presto impoverire7; e chi vive povero, figliuoli miei, in questo mondo soffera8 molte necessità e molti stenti: e meglio forse sarà morire che stentando vivere in miseria. Sicché, Lionardo mio, quello proverbio de’ nostri contadini […] così comprendo che gli è verissimo: «Chi non truova il danaio nella sua scarsella molto manco il troverà in quella d’altrui»9. Figliuoli miei, e’ si vuole essere massaio, e quanto da uno mortale inimico10 guardarsi dalle superflue spese.

gianozzo 2

5

1. Testé: adesso. 2. conosco … pazzo: so [che] chi getta via i suoi beni (il suo) è (essere) un pazzo. 3. quanto … altrui: quanto sia doloroso (duolo) e incerto (fallace) nelle necessità (a’ bisogni) andare a cercare (pelle) i favori (mercé) degli altri.

4. danaio: denaro. 5. E … spende: e chi non prova con quanta fatica [il denaro] si guadagni (s’acquisti), spende con facilità. 6. serva: conserva. 7. suole … impoverire: è solito (suole) ben presto diventar povero.

8. soffera: patisce. 9. «Chi … altrui»: «chi non trova il denaro nella sua borsa (scarsella) molto meno (manco) lo troverà in quella degli altri». 10. inimico: nemico.

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L’età umanistica

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Non credo però, Gianozzo, in questo tanto fuggire le spese11 a voi piaccia né essere, né parere avaro. gianozzo Dio me ne guardi! Avaro sia chi male ci vuole. Nulla si truova tanto contrario alla fama e grazia degli omini quanto la avarizia12. E qual sarà sì chiara13 e nobile virtù alcuna, la quale non stia oscurata e isconosciuta14 sotto dell’avarizia? E è cosa odiosissima quanto al continuo15 abita in l’animo degli omini troppo stretti16 e avari gran rodimento e grieve molestia ora affanata in congregare, ora adolorata per qualche fatta ispesa: le quali cose pessime sempre vengono agli avari17. Mai li veggo lieti, mai godono parte alcuna delle sue fortune. lionardo Chi non vuole parere avaro, lo tiene necessità sempre spendente18. gianozzo E anche a chi vuole parere non pazzo, gli sta necessità essere massaio. […] lionardo Adunque questa vostra masserizia che cosa sarà? gianozzo Tu sai, Lionardo, che io non so lettere19: io mi sono in vita ingegnato conoscere le cose più colla pruova mia che col dire d’altrui20, e quello che io intendo più tosto lo compresi da la verità che dall’argomentare d’altrui21. E perché22 uno di questi i quali leggono tutto il dì a me dicesse, così sta; io non gli credo però, se io non veggo aperta ragione, la quale più tosto mi dimostri così essere che convinca a confessallo23. E se uno altro non litterato mi adduce24 quella medesima ragione, così crederrò io a lui senza allegarvi25 autorità, come a chi mi dia testimonianza del libro; che stimo chi scrisse pur fu26 come io uomo. Sì che forse io testé non saprò così a te rispondere ordinato quanto faresti tu a me, che tutto il dì stai col libro in mano. Ma vedi tu, Lionardo, quelli spenditori, de’ quali io dissi testé, dispiaciono a me, perché eglino spendono sanza ragione: e quelli avari ancora mi sono a noia, perché essi non usano le cose quando bisogna27; e anche perché quelli medesimi desiderano troppo. Sa’ tu quali mi piaceranno? Quelli i quali a’ bisogni usano le cose quanto basta, e non più: l’avanzo serbano28; e questi chiamo io massai. lionardo Ben v’intendo: quelli che sanno tenere il mezzo tra il poco e il troppo. lionardo

11. in questo … spese: in questo così grande [proposito di] rifuggire dalle spese. 12. Nulla … avarizia: nulla si trova così contrario all’onore (fama) e alla benevolenza (gra­ zia) degli uomini (omini) quanto l’avarizia. 13. chiara: limpida. 14. isconosciuta: misconosciuta. 15. al continuo: continuamente. 16. troppo stretti: troppo tirchi. 17. gran rodimento … avari: un grande tormento (rodimento) e un pesante (grieve) fastidio (molestia), ora affannato nell’accumulare (in congregare), ora addolorato per qualche spesa fatta: le quali pessime cose

sempre accadono (vengono) agli avari. 18. lo tiene … spendente: deve per forza sempre spendere. 19. io non so lettere: che io non sono un letterato. 20. più colla pruova … altrui: più con la mia esperienza che con le parole (col dire) degli altri. 21. e quello … altrui: e quello che io conosco (intendo) l’ho imparato dalla realtà (ve­ rità) dei fatti piuttosto che dai ragionamenti (dall’argomentare) degli altri. 22. perché: anche se. 23. se io … confessallo: se non ne vedo una

motivazione (ragione) evidente (aperta), che mi dimostri che la cosa è veramente così, piuttosto che convincermi ad ammetterlo (confessallo) [senza prove reali]. 24. mi adduce: mi fa presente. 25. allegarvi: attribuirgli. 26. pur fu: anch’egli. 27. bisogna: è necessario. 28. Quelli … serbano: quelli che a seconda (a’) dei bisogni usano le cose quanto è sufficiente, e non di più: conservano (serbano) ciò che resta (l’avanzo).

Analisi del testo

> La masserizia come fondamento della società

La centralità della masserizia

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Il passo assume un’importanza centrale per comprendere la proposta ideologica di Alberti. Alla base del sistema economico, e come fondamento della società, viene collocata la «masserizia», ossia il patrimonio della casata, che deve essere amministrato con sagacità, oculatezza e «misura». Le parole di Giannozzo, nel quale l’anzianità coincide con la raggiunta saggezza, hanno il compito di definire in che cosa consista la «masserizia», fornendo precetti e insegnamenti

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

L’importanza dell’esperienza

L’esaltazione della prudenza

Il valore dei beni materiali

La finalità didattica

che concorrono a definire la figura del perfetto «massaio», capace di dirigere l’istituto domestico e di regolarne il funzionamento. La sua cultura è di tipo pratico, non letterario e libresco; è anch’egli un «omo sanza lettere», come dirà Leonardo di se stesso ( T3, p. 109). L’insistenza su questo particolare non intende svalutare l’importanza della formazione culturale, ma affiancare a essa un’altra componente, l’esperienza, che deve costituirne il necessario complemento. Essa appare qui tanto più importante, in quanto tocca l’aspetto economico, riferendosi a quella tradizione umanistico-borghese a cui si erano legate in larga misura le fortune di Firenze. Di questa tradizione Giannozzo vuole essere considerato l’erede e quasi il garante, diffidente delle novità e depositario di un’antica sapienza (la “prudenza” dei vecchi, con cui inizia il brano antologizzato, è contrapposta alla spensieratezza e alla mancanza di preoccupazioni proprie della gioventù). L’espansionismo mercantile e bancario delle grandi famiglie fiorentine, tuttavia, si trova in una fase di stagnazione e di riflusso; alla spregiudicatezza imprenditoriale dei padri si è sostituita, oramai, l’opera di più cauta conservazione degli eredi. Le parole di Giannozzo – che contengono una difesa e una esaltazione della prudenza, intesa come virtù del “giusto mezzo” fra gli estremi – suonano a conferma di questa situazione; nel medesimo tempo, operano una nuova sintesi (di tipo pratico-operativo, anziché teorico-formale) fra i valori della società borghese e gli ideali umanistici dell’equilibrio e della misura. Si comprende allora per quale motivo l’Alberti sia contrario all’avarizia, non perché questa sia un peccato, come nella concezione del cristianesimo medievale, ma perché essa può nuocere all’onore della famiglia. Inoltre, diversamente dalla cultura medievale, che non dava importanza al denaro e ai beni materiali, considerati come occasione di sviamento dalla retta strada verso Dio, per l’Alberti, pienamente inserito nella società mercantile del suo tempo, essi acquistano un valore positivo, in quanto consentono la nascita e la conservazione del patrimonio della casa.

> Lo scopo educativo legato all’ambito privato

In questo ambito rientra la struttura del testo, che presenta una chiara finalità didattica, affidata alla forme dialogica. Lo scopo educativo, pur collegandosi alle preoccupazioni civili dell’Umanesimo soprattutto fiorentino, si è sensibilmente spostato dalla sfera del pubblico a quella del privato, anche se inteso nel senso più ampiamente sociale del nucleo famigliare; al tempo stesso si registra il passaggio dalla vita in città a quella più riposante e tranquilla che si può godere soprattutto in campagna.

Esercitare le competenze ComprEndErE

> 1. In quali affermazioni di Giannozzo sono evidenti la consapevolezza dell’esperienza maturata nel corso del tempo e l’atteggiamento paternalistico nei confronti delle giovani generazioni?

AnALIzzArE

> 2.

Stile Qual è, in base al testo, il profilo di Lionardo? La sua posizione appare antitetica rispetto a quella di Giannozzo? > 3. Stile «Chi non truova il danaio nella sua scarsella molto manco il troverà in quella d’altrui» è un proverbio citato da Giannozzo. Il brano, tuttavia, presenta altre affermazioni analoghe che sembrano espressioni della cultura popolare: individuale e spiega le caratteristiche formali che le accomunano.

ApprofondIrE E InTErprETArE

> 4.

Scrivere Metti a confronto in circa 10 righe (500 caratteri) la tesi sostenuta da Alberti e l’interpretazione della novella di Federigo degli Alberighi di Boccaccio: quali tratti comuni e/o non comuni presentano?

pEr IL poTEnzIAmEnTo

> 5.

Esporre oralmente Quali importanti autori del Trecento hanno trattato il tema dell’avarizia intesa come cupidigia, ovvero attaccamento ai beni materiali? In quali opere? Esponi le tue riflessioni oralmente (max 5 minuti).

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L’età umanistica

L e t t e r a t u r a e Economia

T2

Leon Battista Alberti

Il valore economico della “villa” da Libri della famiglia, III Il brano, tratto anch’esso dal libro III dei Libri della famiglia, presenta la «villa» come un luogo privilegiato, in cui è possibile condurre una vita serena, ottenere l’utile e il piacere.

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Il brano dimostra come l’ideale “autarchico” della vita agreste si contrapponga a quello cittadino dei commerci e della socializzazione, avviato a un progressivo declino.

Porge la villa1 utile grandissimo, onestissimo e certissimo. […] Se tu la governi2 con diligenza e con amore, mai a lei parerà averti satisfatto: sempre agiugne premio a’ premii. Alla primavera la villa ti dona infiniti sollazzi3, verzure, fiori, odori, canti; sforzasi in più modi farti lieto, tutta ti ride4 e ti promette grandissima ricolta, émpieti5 di buona speranza e di piaceri assai. Poi e quanto la truovi tu teco alla state6 cortese! Ella ti manda a casa ora uno ora un altro frutto, mai ti lascia la casa vòta di qualche sua liberalità7. Eccoti poi presso l’autunno. Qui rende la villa alle tue fatiche e a’ tuoi meriti smisurato premio e copiosissime mercé8, e quanto volentieri e quanto abundante, e con quanta fede9! Per uno dodici, per uno piccole sudore più e più botti di vino10. E quello che tu aresti11 vecchio e tarmato12 in casa, la villa con grandissima usura13 te lo rende nuovo, stagionato, netto14 e buono. Ancora ti dona le passule15 e l’altre uve da pendere e da seccare, e ancora a questo agiugne16 che ti riempie la casa per tutto il verno di noci, pere e pomi odoriferi e bellissimi. Ancora non resta17 la villa di dì in dì mandarti de’ frutti suoi più serotini18. Poi neanche il verno si dimentica teco essere la villa liberale; ella ti manda la legna, l’olio, ginepri e lauri per, quando ti conduca19 in casa dalle nevi e dal vento, farti qualche fiamma lieta e redolentissima20. E, se ti degni starti seco21, la villa ti fa parte22 del suo splendidissimo sole, e porgeti la leprettina, il capro, il cervo, che tu gli corra drieto, avendone piacere e vincendone23 il freddo e la forza del verno. Non dico de’ polli, del cavretto24, delle giuncate25 e delle altre delizie, quali26 tutto l’anno la villa t’alieva27 e serba. Al tutto28 così è: la villa si sforza a te in casa manchi nulla, cerca che nell’animo tuo stia niuna malinconia, émpieti di piacere e d’utile.

1. villa: casa e podere di campagna. 2. governi: amministri. 3. sollazzi: piaceri, divertimenti. 4. ti ride: ti sorride. 5. émpieti: ti riempie. 6. alla state: in estate. 7. liberalità: offerta generosa. 8. copiosissime mercé: ricompense molto abbondanti. 9. fede: fedeltà, costanza. 10. per uno … vino: in cambio di un po’ di

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Testo e realtà

(piccole) sudore [ti dà] moltissime botti di vino. 11. aresti: avresti. 12. tarmato: «non fresco» (Contini). 13. usura: interesse. 14. netto: pulito. 15. passule: uve passe. 16. agiugne: aggiungi. 17. resta: cessa. 18. serotini: tardivi, che maturano tardi. 19. ti conduca: ti ritiri, rientri.

20. redolentissima: profumatissima. 21. seco: con lei. 22. parte: partecipe. 23. vincendone: vincendo grazie ad essi. 24. cavretto: capretto. 25. giuncate: formaggi freschi ottenuti lasciando scolare il latte coagulato tra giunchi o foglie di felci. 26. quali: che. 27. t’alieva: produce per te. 28. Al tutto: in tutto.

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

Analisi del testo La rivalutazione della campagna Il ritorno a un’economia chiusa

La decadenza della città

La campagna come luogo di vita sana

Gli stretti legami con la realtà

> Il vagheggiamento della «villa» e i mutamenti economici

La crisi economica di vaste proporzioni che si manifesta a partire dal XIV secolo conduce anche a una rivalutazione della campagna nei confronti della città, che era stata, nell’età comunale, il centro propulsivo delle attività economiche e sociali. Il vagheggiamento della «villa» appare così il segno di una riconversione, il ritorno a forme di economia più chiuse e ristrette: non a caso la campagna è considerata qui un mondo perfetto, un microcosmo che può rendere l’uomo quasi autosufficiente, fornendogli tutti i mezzi per il suo sostentamento. Questo ideale “autarchico” è un ulteriore sintomo del restringersi, sul piano civile e culturale, degli ideali umanistici della perfezione e dell’uomo sicuro di sé; sul piano storico, è l’avvio di una decadenza delle città che porterà, nel Cinque-Seicento, a quello che gli storici hanno definito un processo di «rifeudalizzazione», con un ritorno al prevalere di una società contadina e delle sue risorse economiche.

> La contrapposizione città-campagna

Per il momento, la campagna è rappresentata come il luogo della vita sana e dei piaceri genuini, contrapposta alla città caotica e corrotta (è questo un topos che, già presente nella letteratura antica, acquisterà un’importanza crescente nella letteratura dell’età moderna e contemporanea, caratterizzata dal fenomeno dell’industrializzazione e delle grandi concentrazioni urbane). L’immagine che ce ne offre Giannozzo è quella tipica dell’idillio, che, se indica una tendenza all’evasione, conserva però in questo caso robusti legami con la realtà, osservata con uno sguardo di compiaciuta attenzione, o di ideale vagheggiamento, per i beni e le ricchezze possedute, oltre che per il benessere che vi si può fisicamente e spiritualmente godere. Giusto Utens, Villa la Magia, 1599, tempera su tavola, part., Firenze, Museo di Firenze com’era.

Esercitare le competenze ComprEndErE

> 1. Quali affermazioni lasciano intendere che l’utilità della vita di campagna deriva dal lavoro? Individuale nel testo e sottolineale.

AnALIzzArE

> 2. > 3.

Il testo presenta una personificazione che sorregge tutta l’argomentazione: quale? Nell’illustrazione del «piacere» e dell’«utile» della villa osservi una certa gradualità nella presentazione degli argomenti? Motiva la tua risposta. > 4. Lessico Individua vocaboli e/o espressioni con cui sono indicate le azioni direttamente riferite alla villa: quale “ritratto” ne evidenziano? > 5. Lingua Individua nel testo i superlativi dell’aggettivo e dell’avverbio e spiegane la funzione. Stile Stile

ApprofondIrE E InTErprETArE

> 6.

Scrivere La concezione della natura che emerge dal brano può essere considerata in linea con gli ideali della cultura dell’Umanesimo? Motiva la tua risposta in circa 5 righe (250 caratteri).

pEr IL poTEnzIAmEnTo

> 7. Nel De re rustica, dialogo in tre libri dell’autore latino Varrone (I secolo a.C.), sulla linea inaugurata da Catone il Censore con il suo De agri cultura, l’autore dà precetti e consigli riguardo le attività tipiche della villa romana, analogamente a quanto espresso dall’Alberti nel brano analizzato. Effettua un confronto fra i due autori, evidenziando soprattutto le differenze che i contesti di riferimento presentano sul piano socio-economico e politico.

107

L’età umanistica pASSATo E prESEnTE Le ragioni della “decrescita”

> 8. Considerando l’ideale “autarchico” espresso da Alberti commenta il passo, di seguito riportato, tratto da

uno studio del francese Serge Latouche, esperto di antropologia economica particolarmente attento a nuovi scenari che si profilano nel pianeta: Decrescita è soprattutto una parola d’ordine per indicare con forza la necessità di abbandonare l’insensato obiettivo della crescita per la crescita, obiettivo il cui unico motore è la ricerca sfrenata del profitto da parte di chi detiene il capitale. Evidentemente, non si tratta di rovesciare in modo caricaturale la situazione sostenendo la decrescita per la decrescita. Soprattutto, decrescita non significa crescita negativa, espressione antinomica e assurda che esprime bene la dominazione dell’immaginario della crescita. […] Il progetto della decrescita è un progetto politico che consiste nella costruzione, al Nord come al Sud, di società conviviali autonome e sobrie. S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2010

A2 L’attività artistica

Arte Una nuova dignità per l’artista: Leonardo e Raffaello

L’attività scientifica

Una raccolta di appunti

108

Leonardo da Vinci La vita Leonardo nacque a Vinci (Firenze) nel 1452 e morì in Francia ad Amboise nel 1519. Trasferitosi a 17 anni a Firenze, autodidatta, si accostò alla cultura umanistica della città. Fu giovane di bottega di Andrea del Verrocchio, che lo avviò anche all’architettura e alle tecniche ingegneresche. Di questo periodo sono i dipinti dell’Annunciazione e dell’Adorazione dei Magi. Nel 1482 entrò a Milano al servizio di Ludovico il Moro; qui eseguì la Vergine delle Rocce e l’Ultima Cena (Refettorio di Santa Maria delle Grazie). In seguito alla sconfitta dei milanesi per opera di Luigi XII di Francia si trasferì a Mantova, a Venezia, a Firenze e poi nuovamente a Milano. Nel 1506 entrò alle dipendenze di Luigi XII. Per un breve periodo fu anche a Roma alla corte di Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse ad Amboise, alle dipendenze di Francesco I; qui dipinse la Gioconda e la Sant’Anna. Oltre all’attività pittorica molto importanti sono gli studi e le applicazioni di carattere scientifico: la scienza per Leonardo è fusione di esperienza e di ragionamento matematico e deve avere un suo fine pratico. Studiando il movimento, intuì il moderno principio d’inerzia, i princìpi di composizione delle forze e del piano inclinato. Conoscitore dell’idraulica, scoprì il principio dei vasi comunicanti. Nutrì profondo interesse per l’anatomia, come rivelano le sue interessanti osservazioni sul funzionamento degli occhi e la circolazione del sangue. Tutti i suoi numerosi interessi in campo scientifico si tradussero nella sua attività di pittore, nella quale fu fedele imitatore della natura. L’opera letteraria Per quanto riguarda più specificamente la sua attività letteraria, parlare di Leonardo scrittore significa affrontare una situazione paradossale: Leonardo infatti non lasciò alcuna opera programmatica bensì una raccolta di appunti dove si mescolano disegni, riflessioni sulla pittura e sulle scienze, favole, facezie, lettere. Vergati con una scrittura “mercantile” ma elegante, talvolta difficili da decifrare perché scritti da destra a sinistra – tanto da aver creato un alone di mistero intorno alla loro stesura –, i testi di Leonardo giunti fino a noi sono costituiti da un totale di circa settemila fogli disseminati, dopo complesse vicende storiche, in varie biblioteche europee. A rigore, dunque, opere come il Trattato della pittura (pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1651), che raccoglie il materiale scritto da Leonardo sulla pittura, o il libro Del moto e misura delle acque, sono operazioni editoriali arbitrarie. L’ortografia degli appunti di Leonardo risulta approssimativa, il lessico tratto dal vernacolo fiorentino, la sintassi complessa, spesso appesantita da anacoluti. D’altro canto Leonardo stesso si riconosceva «omo sanza lettere»; era completamente digiuno di latino, il che

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

gli impediva di accedere alla maggior parte della bibliografia scientifica. La sua formazione aveva avuto luogo più che sui libri nei laboratori artigiani, come la bottega fiorentina dello scultore, pittore ed ingegnere Andrea del Verrocchio. Resta, in ogni caso, l’originalità assoluta della sua scelta linguistica e dei temi affrontati come scrittore: la visione della realtà e l’approccio col mondo non sono mai mediati da idee preconcette, né condizionati da dogmi filosofici o religiosi. Ogni elemento del reale viene letto con lo stupore della novità assoluta e con la curiosità di una mente aperta ad ogni tipo di conoscenza.

T3

Leonardo da Vinci

Temi chiave

osservazioni e pensieri

• il rapporto con la cultura umanistico-letteraria

Leonardo da Vinci non ha lasciato opere complete. I testi che • l’importanza dell’osservazione e dell’esperienza leggiamo sono tratti dagli appunti e dalle osservazioni che, in • la conoscenza forma più o meno compiuta, Leonardo veniva mettendo su carta insieme con quei disegni che ipotizzavano, con lo studio dei fenomeni, la possibile applicazione della sue scoperte e conoscenze alla costruzione di macchine e congegni. Ha scritto Anna Maria Brizio, nella sua edizione degli Scritti scelti (utet, Torino 1952): «I manoscritti di Leonardo, nonostante le dispersioni e le perdite, formano ancora una mole imponente: oltre settemila fogli superstiti, che sono stati negli ultimi ottant’anni quasi integralmente trascritti e pubblicati in fac-simile». I passi che seguono, oltre a precisare la posizione di Leonardo in rapporto alla cultura umanistico-letteraria del tempo, collegano all’osservazione e all’esperienza diretta della natura il problema della conoscenza.

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[a] E tirato dalla mia bramosa voglia1, vago2 di vedere la gran co[pia] delle varie e strane forme fatte dalla artificiosa3 natura, raggiratomi alquanto fra gli ombrosi scogli4, pervenni all’entrata d’una gran caverna5; dinanzi alla quale restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa6, piegato le mie reni in arco e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi feci ten[ebra] alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi7 alcuna cosa, e questo vietatomi la grande oscurità che là entro era, stato alquanto8, sùbito sa[l]se9 in me 2 cosa: paura e desidèro10: paura per la minacciante e scura spilonca, desidèro per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa. [b] Molti mi crederanno ragionevolmente potere riprendere11, allegando le mie prove esser contro l’alturità d’alquanti omini di gran reverenza apresso de’ loro inesperti iudizi12, non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e mera sperienzia13, la quale è maestra vera. [c] So bene che per non essere io letterato, che alcuno prosuntuoso14 gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere15. Gente stolta! Non

1. E tirato … voglia: e attratto (tirato) dalla mia ardente volontà. 2. vago: desideroso. 3. artificiosa: non nel senso adesso corrente, ma nel senso di artefice, in quanto “fa le cose con arte”. 4. raggiratomi … scogli: dopo essermi aggirato per un po’ di tempo (alquanto) fra gli scogli che fanno ombra. 5. gran caverna: è probabile che ci sia qui una ripresa del mito della caverna, che Platone racconta all’inizio del VII libro della Repubblica. Anche Platone si riferisce al problema della conoscenza, sia pure in una

prospettiva diversa: quella degli uomini che, imprigionati da sempre in una caverna, vedono passare all’esterno solo delle ombre, e devono quindi essere liberati per poter distinguere la realtà vera. 6. ignorante di tal cosa: senza sapere perché. 7. discernessi: distinguessi. 8. stato alquanto: rimasto un po’ di tempo [in sospeso]. 9. sa[l]se: mi assalirono: 10. desidèro: desiderio, per indicare la curiosità di scoprire qualcosa di nuovo. 11. Molti … riprendere: molti penseranno di potermi a ragione rimproverare.

12. allegando … iudizi: sostenendo (alle­ gando) che le mie dimostrazioni sono contrarie all’autorità (l’alturità) di diverse persone [che godono] di grande credito (reverenza) nei loro giudizi (iudizi) inesperti. 13. sperienzia: esperienza. 14. prosuntuoso: presuntuoso. 15. coll’allegare… omo sanza lettere: sostenendo che io sono un uomo privo di cultura letteraria. Omo sanza lettere: è una definizione diventata famosa. Leonardo si riferisce qui agli umanisti, i raffinati cultori delle “umane lettere”, che si preoccupavano più della forma che del contenuto dei loro scritti.

109

L’età umanistica

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sanno questi tali ch’io potrei […] rispondere, dicendo quelli che dell’altrui fatiche sé medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliono concedere. Diranno che per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare16. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienzia che d’altrui parola, la quale fu maestra di chi ben scrisse; e così per maestra la piglio e quella in tutt’i casi allegherò17.

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[d] Se bene, come loro, non sapessi allegare gli altori18, molto maggiore e più degna cosa a leggere allegando la sperienzia, maestra ai loro maestri. Costoro vanno sgonfiati e pomposi, vestiti e ornati, non delle loro, ma delle altrui fatiche; e le mie a me medesimo non concedano; e se me inventore disprezzeranno, tanto maggiormente loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere19, potranno essere biasimati. [e] I’ ho tanti vocaboli nella mia lingua materna, ch’io m’ho più tosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole20, colle quali io possa bene espriemere il concetto della mente mia.

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[f] La sperienzia, interprete infra l’artifiziosa21 natura e la umana spezie, ne ’nsegna ciò che essa natura infra mortali adopra da necessità constretta non altrimenti oprar si possa, che la ragione, suo timone, oprare le ’nsegni. [g] Non è da biasimare lo inestare infra l’ordine del processo della scienzia alcuna regola generale […].

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[h] Delle scienze. Nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche, over22 che non sono unite con esse matematiche.

16. Diranno … trattare: diranno che, per il fatto che non ho competenze letterarie (lette­ re), non posso bene esprimere le cose di cui voglio trattare. 17. le mie cose … allegherò: le mie conoscenze devono essere ricavate dall’esperienza più che dalle parole altrui, la quale [esperien-

za] è stata la maestra di chi ha scritto bene; e così come maestra la scelgo (piglio) e la presenterò [come giustificazione] in tutti i casi. 18. altori: autori. 19. non inventori … altrui opere: non inventori, ma che ripetono le opere scritte da altri. 20. ch’io … parole: che io devo lamentarmi

[più] della capacità di comprendere bene le cose piuttosto (più tosto) che della mancanza delle parole. 21. artifiziosa: cfr. la precedente nota 1. 22. over: ovvero.

Analisi del testo

> Il desiderio di conoscenza

Il mito della caverna

L’atteggiamento preumanistico di Leonardo L’apertura alla scienza

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In questi passi Leonardo espone i fondamenti del suo pensiero, con una concretezza che esclude ogni forma di compiacimento ma che guarda alla sostanza delle cose. Nel riprendere [a] il mito platonico della caverna, ha modo di precisare l’atteggiamento di chi va incontro all’ignoto, la «scura spilonca», che diventa una metafora delle possibilità della natura umana. Il problema della conoscenza, delle sue difficoltà e dei suoi rischi, ne coglie le ragioni insieme psicologiche e metodologiche: il timore quasi reverenziale di chi si appresta a interrogare i segreti della natura e, al tempo stesso, la curiosità, ossia l’impulso che spinge l’uomo (soggetto a opposte tensioni, «paura e desidèro») a non rinunciare alla ricerca. Il tutto tradotto in un’immagine visiva, quella dell’uomo che scruta nel buio, che ricorda le straordinarie qualità del Leonardo pittore. Si è parlato di un atteggiamento preumanistico o antiumanistico insito nelle posizioni leonardesche, e c’è del vero, se si pensa che Leonardo non ebbe una particolare educazione letteraria, né ritenne che questa dovesse costituire la base fondamentale per la formazione dell’individuo. In realtà l’umanesimo di Leonardo, che per molti versi può apparire arretrato, si apre a nuove prospettive di ricerca, affiancando e sostituendo, alla tradizionale dimensione letteraria, quella scientifica.

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

> Il valore dell’esperienza

La polemica contro la cultura attenta solo ai valori formali L’origine del metodo sperimentale

La ragione guida dell’esperienza verso regole generali

Alla cultura teorica si unisce quella più propriamente pratica, in una direzione che prelude alle ricerche e ai contenuti sperimentali della scienza moderna. Di qui l’orgogliosa affermazione, che ha il preciso sapore di una rivalsa, con cui Leonardo può proclamarsi, senza complessi di inferiorità, «omo sanza lettere», anteponendo le ragioni della «sperienzia» a quelle dell’«altrui parola». La polemica nei confronti di una cultura attenta soprattutto ai valori formali conduce al rifiuto di «allegare gli altori», che, oltre al disprezzo nei confronti di coloro che passivamente si fanno «trombetti e recitatori delle altrui opere», suona come condanna di quel principio di autorità su cui si basava, dogmaticamente e al di fuori di ogni verifica razionale, l’affermazione della verità [b, c e d]. Con Leonardo siamo alle origini di quel metodo sperimentale che consiste nella capacità di studiare i fenomeni della natura sulla base delle loro specifiche leggi e che avrà, nei primi anni del Seicento, la più coerente e definitiva formulazione con Galileo Galilei. Interessante la nota [e] sul linguaggio, che – mettendo a disposizione un’ampia gamma di vocaboli – non può rappresentare un limite per la capacità di descrivere e trasmettere i risultati delle osservazioni (ancora un’affermazione secondo cui lo studio delle «cose» è più importante della ricerca sulle «parole»). L’esperienza poi non può fare a meno del controllo della «ragione» [f ], come criterio-guida che, attraverso rigorose verifiche, deve consentire di giungere, dall’analisi dei casi particolari, alla formulazione di qualche «regola generale» [g]. È un passaggio necessario perché possa nascere una scienza moderna, fondata su princìpi non più approssimativi ma rigorosi, come quelli garantiti [h] dalla matematica e dalle altre scienze esatte («delle scienze matematiche» o «unite con esse matematiche»).

Esercitare le competenze ComprEndErE

> 1. I pensieri proposti permettono di tratteggiare un “autoritratto” – anche involontario – dell’autore? Rispondi con riferimento ai testi. > 2. Nei testi proposti Leonardo fa riferimento ad altri intellettuali suoi contemporanei? AnALIzzArE

> 3. > 4.

In quale testo è riscontrabile la tendenza dell’autore a rappresentare plasticamente le azioni? L’immediatezza e la concretezza dello stile dell’autore sembrerebbero non far emergere alcun ricorso alla retorica e alla stilistica. Eppure, nei testi proposti non è difficile individuare: a) figure di suono; b) figure di posizione; c) figure di significato. Fornisci almeno un esempio significativo per ogni categoria indicata. > 5. Lessico Individua nel pensiero [a] i vocaboli e/o le espressioni riferiti agli stati emotivi dell’autore. > 6. Lingua I pensieri [f ], [g], [h] evidenziano un tono sentenzioso assente dai testi precedenti: quali aspetti morfosintattici lo confermano? Stile Stile

ApprofondIrE E InTErprETArE

> 7. Esporre oralmente Commenta la frase di Leonardo: «Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienzia che d’altrui parola». Attraverso l’analisi di questa affermazione, secondo te, quale principio medievale Leonardo sta mettendo in discussione? Rispondi oralmente (max 3 minuti). pEr IL rECupEro

> 8. Perché dai pensieri di Leonardo emergono il valore e il significato dell’esperienza pratica e diretta? Rispondi

dopo aver considerato il ruolo dell’intellettuale nell’età dell’Umanesimo e averlo confrontato con quello dell’età medievale.

pEr IL poTEnzIAmEnTo

> 9. Nel rievocare il mito della caverna, Leonardo, «omo sanza lettere», si richiama alla lezione di Platone e al clima di adesione al platonismo che caratterizzò il contesto culturale fiorentino di quegli anni. Quali aspetti del pensiero del filosofo greco risultarono congeniali allo sviluppo delle lettere e delle arti?

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L’età umanistica

L e t t e r a t u r a e Scienza

T4

Leonardo da Vinci

Studi di anatomia Tra i molteplici interessi testimoniati dagli appunti e dai disegni di Leonardo, particolare importanza assumono quelli relativi agli studi di anatomia.

Testo e realtà I testi dimostrano come gli studi di anatomia, oltre ad essere indispensabili per l’esercizio delle arti figurative, aprano a nuovi interessi di carattere scientifico.

[a] Tante sono le ramificazioni de’ nervi, quanto sono li muscoli. Né possano essere più né meno, perché tali muscoli sol si rattraggano1 o distendano per causa d’essi nervi, dalli quali li muscoli ricevano il sentimento loro2. E tanto son le corde motrice3 de’ membri, quanto son li muscoli. 5

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[b] Il core in sé non è principio di vita, ma è un vaso fatto di denso muscolo, vivificato e nutrito dall’arteria e vena4, come sono li altri muscoli. [c] E questo vecchio, di poche ore innanzi la sua morte, mi disse lui passare cento anni5 e che non si sentiva alcun mancamento nella persona, altro che debolezza; e così standosi a sedere sopra uno letto nello spedale6 di Santa Maria Nova di Firenze, senza altro movimento o segno d’alcuno accidente, passò di questa vita. E io ne feci notomia7, per vedere la causa di sì dolce morte: la quale trovai venire meno per mancamento di sangue e arteria, che notria il core e li altri membri inferiori, li quali trovai molti aridi, stenuati e secchi. La qual notomia discrissi assai diligentemente e con gran facilità, per essere privato di grasso e di omore8, che assai impedisce la cognizione delle parte. L’altra notomia fu d’un putto9 di 2 anni, nel quale trovai ogni cosa contraria a quella del vecchio. Li vecchi che vivano con sanità, moiano per carestia di nutrimento. E questo accade perché elli è ristretto al continuo il transito alle vene miseraiche10, per lo ingrossamento della pelle d’esse vene11 successivamente insino alle vene capillari, le quali son le prime che interamente si richiudano; e da questo nasce che li vecchi teman più il freddo che li giovani, e che quelli che son molti vecchi hanno la pelle di color di legno o di castagna secca, perché tal pelle è quasi al tutto privata di nutrimento. E tale tònica12 di vene fa nell’omo come nelli pomeranci13, alle quali tanto più ingrossa la scorza e diminuisce la midolla14, quanto più si fanno vecchi. E se tu dirai che lo ingrossamento del sangue non corre per le vene, questo non è vero15, perché il sangue non ingrossa nelle vene, perché al continuo more e rinasce.

1. si rattraggano: si contraggono. 2. il sentimento loro: i loro impulsi. 3. corde motrice: i nervi, in quanto determinano il movimento. 4. arteria e vena: le arterie sono i vasi sanguigni che portano il sangue dal cuore agli organi periferici (l’arteria principale è l’aorta), mentre le vene seguono il cammino inverso, portando il sangue dagli organi periferici al cuore. 5. mi disse … anni: mi disse che aveva superato i cento anni.

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6. spedale: ospedale. 7. notomia: anatomia. 8. omore: umore, nel senso di liquido sieroso. 9. putto: bimbo. 10. Li vecchi … miseraiche: i vecchi che vivono in buona salute muoiono per mancanza (carestia) di nutrimento. E questo accade perché si restringe progressivamente (al conti­ nuo) il passaggio delle vene mesenteriche (miseraiche). Le vene meseraiche o, più comunemente, mesenteriche sono i vasi sanguigni che irrorano il canale digerente e gli

organi della parete dell’addome (il mesentere). 11. pelle … vene: il rivestimento, a indicare i canali attraverso cui scorre il sangue. 12. tònica: tunica (ha il significato della «pelle» di cui alla nota precedente). 13. pomeranci: arance. 14. midolla: polpa. 15. E se tu … vero: e se tu dirai che [la causa è] l’ispessimento (ingrossamento) del sangue [che] non scorre (corre) [più] nelle vene, [ti rispondo che] questo non è vero.

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

Analisi del testo

> L’importanza del corpo umano per la cultura rinascimentale

Nel momento in cui la cultura umanistica rivaluta le capacità e l’autonomia dell’uomo, la cui intelligenza è in grado di indirizzarne il comportamento e le scelte, ecco che diventa importante la conoscenza del corpo umano, in quanto anche l’equilibrio fisico, insieme con quello intellettuale, concorre alla formazione di un individuo completo (nelle scuole dirette dagli umanisti Vittorino da Feltre e Guarino Guarini, a Mantova e a Ferrara, si dava la stessa importanza alla preparazione culturale e agli esercizi fisici).

> L’incontro fra arte e scienza nell’opera leonardesca

Le funzioni degli organi interni

L’invecchiamento del corpo

Lo studio dell’anatomia si rivela essenziale anche per i pittori, che si propongono di imitare le forme esistenti in natura, realizzando una sintesi delle loro bellezze. Ma l’interesse per il corpo in Leonardo (pur senza dimenticare la sua fondamentale presenza nella storia della pittura italiana) va oltre le idee e le forme, per concentrarsi sul funzionamento degli organi interni, ad esempio attraverso lo studio del rapporto fra i muscoli e i nervi, che può rendere conto dei movimenti del corpo. In questo modo viene a rifiutare le astrazioni di chi genericamente definisce il «core in sé» come «principio di vita», per considerarlo scientificamente nella sua reale natura di «muscolo», non diverso dagli «altri muscoli» (al tempo stesso Leonardo demistificava quella ininterrotta tradizione letteraria che aveva esaltato – e ancora per secoli esalterà – il cuore come sede dei sentimenti e degli affetti, “principio” e termine della passione amorosa). Quanto i suoi studi fossero attenti e consentissero di giungere, sul piano sperimentale, a conclusioni particolarmente significative è confermato dal brano più lungo fra quelli proposti, dove, in maniera insieme descrittiva e analitica, la flessibilità delle vene è considerata in relazione all’invecchiamento dell’uomo. Con Leonardo si può dire che lo studio scientifico del corpo umano introduca a quelle conoscenze anatomiche che costituiranno la base per i successivi sviluppi della medicina e della chirurgia.

Leonardo da Vinci, I muscoli del braccio, le vene del braccio e del tronco, la testa di un uomo anziano, 1510-11, disegno a penna e inchiostro su gessetto nero, Windsor Castle, The Royal Collection.

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L’età umanistica

Esercitare le competenze ComprEndErE

> 1. Da quale dimensione nascono gli studi di anatomia di Leonardo? Rispondi facendo riferimento ai testi. > 2. Nell’osservazione delle cose è messo in evidenza dall’autore il rapporto causa-effetto? Rispondi facendo riferimento ai testi.

> 3. In quale testo è riscontrabile la tendenza dell’autore ad evidenziare i colori e le forme di ciò che osserva? AnALIzzArE

> 4.

Stile Individua le relazioni che le descrizioni intrattengono con il mondo naturale, indicando, di volta in volta, la figura retorica di riferimento (paragone, similitudine, metafora). > 5. Lessico Individua nei testi vocaboli e/o espressioni che indicano la vitalità del corpo umano. > 6. Lingua Nel testo [c], in riferimento alla morte, l’autore ricorre ad espressioni diverse: quali sembrano estranee al linguaggio della scienza? quali proprie di tale linguaggio? Perché ne differenzia l’uso? Rispondi in base alle argomentazioni del testo.

ApprofondIrE E InTErprETArE

> 7.

Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato attentamente l’immagine proposta a pagina precedente, facendo riferimento al testo [c] rispondi alle seguenti domande. a) Quali caratteristiche del disegno fanno comprendere che si tratta di uno studio con finalità scientifiche e non di un’opera con intendimento d’arte? b) Dopo aver descritto i particolari anatomici rappresentati, spiega se sussistono riferimenti o meno all’argomento trattato nel testo. c) Quale particolare del disegno si ricollega invece all’esperienza da cui è scaturito lo studio di Leonardo? > 8. Competenze digitali Dopo aver selezionato immagini di specifiche parti del corpo tratte anche da altri studi anatomici di Leonardo, realizza un montaggio in PowerPoint affiancandole con altrettante immagini attuali, di carattere puramente illustrativo in ambito scientifico, tra quelle facilmente reperibili in rete. Avvalendoti del lavoro svolto, prova a verificare e a mettere in evidenza l’attendibilità delle illustrazioni dell’artista.

L e t t e r a t u r a e Tecnica

T5

Leonardo da Vinci

Lettera a Ludovico il moro

Testo e realtà

In questa lettera, inviata al duca di Milano Ludovico Sforza, Il documento, oltre ad attestare il rapporto di un artista geniale con il detto il Moro, Leonardo offre i suoi servizi per la costruzione di potere, dimostra come l’amore per la macchine militari e per l’esecuzione di opere di ingegneria cisperimentazione lo induca ad vile. Ha osservato in proposito Anna Maria Brizio, curatrice degli affrontare la sfida delle innovazioni tecniche del suo tempo. Scritti scelti: «Questa lettera non è scritta di mano di Leonardo, ma la sua autenticità è ormai universalmente ammessa. È significativo come ad affermare le proprie capacità di pittore e scultore Leonardo dedichi solo poche righe in fondo alla lettera, e si diffonda invece soprattutto a magnificare le proprie capacità come costruttore di ordigni bellici e ideatore di modi da offendere e difendere».

«Avendo, Signor mio Illustrissimo1, visto e considerato oramai ad sufficienzia le prove di tutti quelli che si reputono2 maestri e compositori de instrumenti bellici3, e che le 1. Signor mio Illustrissimo: Ludovico Sforza, duca di Milano dal 1480 al 1499.

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2. si reputono: si reputano. 3. compositori de instrumenti bellici: co-

struttori di macchine da guerra.

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

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invenzione e operazione di dicti4 instrumenti non sono niente alieni del comune uso5, mi exforzerò6, non derogando a nessuno altro, farmi intender da Vostra Excellenzia, aprendo a quella li secreti miei, e appresso offerendoli ad omni suo piacimento in tempi opportuni operare cum effecto circa tutte quelle cose che sub brevità in parte saranno qui di sotto notate7: 1. Ho modi8 de ponti leggerissimi e forti e atti a portare9 facilissimamente; e con quelli seguire, e alcuna volta fuggire, li inimici; e altri securi e inoffensibili da foco e battaglia, facili e commodi da levare e ponere10; e modi de ardere e disfare quelli de l’inimico11. 2. So in la obsidione de una terra toglier via l’acqua de’ fossi12, e fare infiniti ponti, gatti13, e scale e altri instrumenti pertinenti ad dicta espedizione14. 3. Item15, se per altezza de argine, o per fortezza di loco e di sito16, non si potesse in la obsidione de una terra usare l’officio de le bombarde17, ho modi di ruinare onni rocca o altra fortezza, se già non fusse fondata in su el sasso18. 4. Ho ancora modi de bombarde comodissime e facile a portare, e cum quelle buttare minuti saxi ad similitudine di tempesta19, e con el fumo di quella dando20 grande spavento all’inimico, con grave suo danno e confusione. 5. Item, ho modi, per cave e vie secrete e distorte, facte sanza alcuno strepito, per venire ad uno certo e designato, ancora che bisognasse passare sotto fossi o alcuno fiume21. 6. Item, farò carri coperti, securi e inoffensibili22, e quali intrando intra li inimici cum sue artiglierie23, non è sì grande moltitudine di gente d’arme che non rompessino24. E dietro a questi poteranno seguire fanterie assai, illesi e senza alcuno impedimento. 7. Item, occurrendo di bisogno, farò bombarde, mortari25 e passavolanti26 di bellissime e utile forme, fora del comune uso. 8. Dove mancassi la operazione de le bombarde, componerò briccole27, mangani28, trabucchi29 e altri instrumenti di mirabile efficacia, e fora dell’usato; e insomma, secondo la varietà de’ casi, componerò varie e infinite cose da offender e difendere. 9. E quando accadesse essere in mare30, ho modi de molti instrumenti attissimi da offender e defender e navili31, che faranno resistenzia al trarre de omni grossissima bombarda, e polvere e fumi32.

4. dicti: detti. 5. non sono niente alieni del comune uso: non sono per nulla estranei all’uso comune. 6. exforzerò: mi sforzerò. 7. e appresso … notate: e poi (appresso) mostrandoli [per venire incontro] (offeren­ doli) a ogni (ad omni) suo desiderio (piaci­ mento) nei tempi opportuni, mentre funzionano (operare) con gli effetti [che producono] (cum effecto), per quanto riguarda (circa) tutte quelle cose che in breve (sub brevità) saranno esposte (notate) in parte qui sotto. 8. modi: progetti. 9. atti a portare: adatti a essere trasportati. 10. e altri … ponere: e altri sicuri (securi) e inattaccabili (inoffensibili) dal fuoco (foco) e dalle armi da guerra (battaglia), facili e comodi (commodi) da togliere (levare) e collocare (ponere). 11. e modi … inimico: e progetti per bruciare e distruggere (disfare) quelli del nemico. 12. So … fossi: so come, nell’assedio (in la obsidione) di una città (terra), togliere via l’acqua dai fossati (fossi). 13. gatti: macchine da assedio simili all’ariete. 14. e altri … espedizione: e altre macchine (instrumenti) appropriate (pertinenti) per il

detto scopo (espedizione, dal latino expedire, “mandare a effetto”). 15. Item: idem, “allo stesso modo” (avverbio latino). 16. sito: posizione. 17. l’officio de le bombarde: il sussidio delle bombarde; si tratta di bocche da fuoco a tiro curvo, che potremmo considerare i primi cannoni. 18. ho modi … sasso: ho mezzi per far cadere (ruinare) ogni rocca o altra fortezza, anche se fosse (se già non fusse) fondata sulla pietra (in su el sasso). 19. Ho ancora … tempesta: ho ancora tipi di bombarde molto pratiche (comodissime) e facili da trasportare, con le quali scagliare (but­ tare) piccoli (minuti) sassi (saxi) quasi a somiglianza (ad similitudine) di una tempesta. 20. dando: provocando. 21. Item … fiume: allo stesso modo, ho delle maniere per [scavare] cunicoli (cave) e vie segrete (secrete) e tortuose (distorte), fatte (facte) senza [che si senta] alcun rumore (strepito), per raggiungere (venire) un certo [luogo] prestabilito (designato), anche se (ancora che) bisognasse passare sotto dei fossati o un fiume.

22. inoffensibili: inattaccabili. 23. intrando … artiglierie: entrando (in­ trando) con le loro artiglierie in mezzo (intra) ai nemici; artiglierie: le armi da fuoco in generale (qui di non grande misura, per la possibilità di essere trasportate sui carri). 24. che non rompessino: che non sbaraglierebbero. 25. mortari: mortai, pezzi d’artiglieria a canna corta. 26. passavolanti: armi da fuoco in grado di scagliare palle molto pesanti. 27. Dove … briccole: se non ci fosse bisogno di fare (Dove mancassi la operazio­ ne) delle bombarde, costruirò (componerò) briccole; briccole: armi simili al mangano ( nota 28). 28. mangani: macchine da guerra simili alla catapulta. 29. trabucchi: antiche macchine da pesca. 30. E quando … mare: e quando si dovesse combattere per mare. 31. e navili: le navi. 32. che faranno … e fumi: che si opporranno (faranno resistenzia) ai colpi sparati (al trarre) da tutte le più grosse bombarde, e [alle] polveri e [al] fumo.

115

L’età umanistica

10. In tempo di pace credo satisfare benissimo a paragone de omni altro in architettura, in composizione di edifici e pubblici e privati, e in conducer acqua da uno loco ad un altro33. 35

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Item, conducerò in scultura di marmore, di bronzo e di terra34, similiter35 in pictura, ciò che si possa fare, a paragone de omni altro, e sia chi vole36. Ancora si poterà dare opera al cavallo di bronzo37, che sarà gloria immortale e eterno onore de la felice memoria del Signor vostro patre38 e de la inclita39 Casa Sforzesca. E se alcuna de le sopra dicte cose a alcuno paresse impossibile e infactibile40, me òffero paratissimo a farne experimento in el parco vostro41, o in qual loco piacerà a Vostr’Excellenzia. […]

33. In tempo di pace … un altro: in tempo di pace credo di poter essere utile (satisfare), [mettendomi] a confronto (a paragone) con ogni altro, per quanto riguarda l’architettura, la progettazione (composizione) di edifici sia pubblici sia privati, e la conduzione (in conducer) dell’acqua da un luogo a un altro.

34. terra: terracotta. 35. similiter: similmente (avverbio latino). 36. e sia chi vole: chiunque esso sia. 37. Ancora … bronzo: inoltre si potrà (si poterà) mettere mano (dare opera) alla statua equestre (al cavallo) di bronzo. 38. patre: Francesco Sforza.

39. inclita: gloriosa. 40. infactibile: irrealizzabile. 41. me òffero … vostro: mi offro (me òffe­ ro) prontissimo (paratissimo) a farne l’esperimento (experimento) nel vostro parco.

Analisi del testo Lo stile enumerativo

Il legame tra esperienza artistica e tecnica

Leonardo inventore

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> Le macchine da guerra e gli altri progetti

È la lettera più famosa fra le poche che di Leonardo ci sono rimaste. Lo stile enumerativo che la caratterizza assume la forma di un elenco preciso e ordinato, volto a proporre possibili realizzazioni di progetti tecnici, da un punto di vista operativo. Si tratta, in gran parte, di macchine da guerra; ma questo non deve stupire se si pensa che la guerra era la principale occupazione, e preoccupazione, dei governanti del tempo, attenti a mantenere o a incrementare i loro domini. L’Italia, divisa in tanti piccoli Stati, era stata invasa dalle truppe del re di Francia Carlo VIII, chiamato proprio da Ludovico il Moro, a cui la lettera è indirizzata, per combattere i Visconti, appoggiati dalla Spagna. Si spiega così, in questo campo, l’ampiezza e l’urgenza delle proposte militari avanzate da Leonardo rispetto alle esigenze della vita civile, che riguardano non solo l’urbanistica e l’architettura ma anche l’incanalamento delle acque, legato verosimilmente a ragioni igieniche oltre che commerciali (il Naviglio, che attraversava Milano, era navigabile e consentiva di raggiungere il Po). Non mancano poi, sia pure anch’essi marginali, i riferimenti alle arti figurative – scultura e pittura –, a conferma dello stretto legame istituito fra l’esperienza artistica e la tecnica; un legame agevolato dallo studio e dalle conoscenze dell’anatomia ( T4, p. 112). Non va dimenticata, infine, la proposta di «farne experimento» di fronte allo Sforza, con la rivendicazione dell’eccellenza dei risultati raggiunti, di una superiorità che non teme paragoni o confronti. Altrove Leonardo scrive: «ciascuno strumento per sé debbe essere operato colla esperienza dond’esso è nato»; non a caso dalle sue osservazioni – come risulta dai numerosi disegni che accompagnano i suoi appunti manoscritti – lo scienziato-inventore Leonardo ricavava suggerimenti e indicazioni per progettare congegni e strumenti che potessero avere concrete applicazioni nel campo dell’ingegneria o di altre esigenze pratiche della vita (così, studiando il volo degli

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

uccelli, cercò di progettare macchine che consentissero all’uomo di volare). Accanto al Leonardo-scienziato e al Leonardo-pittore si colloca così la versatile e complessa personalità del Leonardo-inventore, sintesi di quell’ideale di uomo completo vagheggiato dalla cultura dell’Umanesimo.

Leonardo da Vinci, Due mortai che lanciano palle esplosive (Bombarda), 1478-1519, disegno a penna con tracce di matita nera dal Codice Atlantico, Milano, Biblioteca Ambrosiana.

Esercitare le competenze ComprEndErE

> 1. Quali affermazioni presenti nel testo dimostrano che Leonardo ha imparato, sull’arte della guerra, da esperienze altrui?

AnALIzzArE

> 2. Stile Rintraccia nel testo la frequenza del grado superlativo dell’aggettivo e dell’avverbio: a quale funzione assolve? > 3. Lingua La successione delle argomentazioni, attraverso i vari punti dell’elenco, sembra seguire una certa gradualità? Se sì, quale? Motiva la tua risposta.

ApprofondIrE E InTErprETArE

> 4.

Esporre oralmente Perché artisti e intellettuali, nell’età dell’Umanesimo, offrirono il loro operato ai signori del tempo attivando una stretta collaborazione con il potere? Nel rispondere oralmente (max 3 minuti), prova a delineare il contesto storico-sociale di riferimento, evidenziando gli aspetti positivi di tale condizione.

SCrITTurA CrEATIVA

> 5. Immagina la reazione di Ludovico il Moro alla lettera di Leonardo: elabora la risposta, sempre sotto forma di

lettera, del signore di Milano, in cui viene espressa l’ammirazione per il grande artista e sono spiegate le ragioni della necessità di ricorrere, da parte dei potenti del suo tempo, alla professionalità altamente specializzata di intellettuali come lui anche in campi diversi da quello bellico. Non superare le 40 righe (2000 caratteri).

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L’età umanistica

A3

Iacopo Sannazaro La vita Nell’ambiente napoletano della seconda metà del Quattrocento Sannazaro (Napoli, forse 1456-ivi, 1530) occupa un ruolo di primo piano. Tutta la giovinezza di Sannazaro fu spesa tra la corte aragonese e l’Accademia Pontaniana, ambienti da cui assorbì la raffinata cultura che emerge nelle sue opere. Durante la dominazione spagnola egli rimase fedele al suo re e trascorse la maturità e la vecchiaia nel silenzio della sua villa di Mergellina, votato alla dimensione di raccoglimento interiore che caratterizzò tutta la sua esistenza.

Sannazaro si era formato culturalmente con la lettura dei classici, soprattutto latini: Virgilio, Ovidio, Lucrezio, Orazio e gli elegiaci, che lasciarono una traccia evidente anche nel suo linguaggio poetico. I primi componimenti furono alcune egloghe, confluite poi nell’Arcadia, che egli venne stendendo probabilmente fra il 1480 e il 1485 e che portò a termine fra il 1491 e il 1496. L’Arcadia è un prosimetro, un componimento in prosa e poesia, alla maniera della Vita nuova di Dante, cui si ricollega anche per il contenuto: nella pur esile trama spicca la narrazione di un amore giovanile dell’autore, raccontato in volgare ma con i modi e lo stile del Virgilio bucolico. In dodici egloghe e dodici prose la narrazione autobiografica ha come sfondo la natura incontaminata e quasi irreale dell’Arcadia (regione della Grecia), dove i pastori, più che condurre vita agreste, conversano d’amore. L’atmosfera malinconica, il tono pacato e suadente, il linguaggio arricchito senza forzature da frequenti latinismi contribuirono, probabilmente, alla grande fortuna dell’Arcadia nel Cinquecento e Seicento, secoli in cui fu uno dei libri più letti in Italia e in Europa. Poco numerose sono le Rime, di contenuto amoroso, politico e morale, interessanti più che altro perché precorrono, nella prassi poetica, le teorie petrarchiste del Bembo. In latino Sannazaro scrisse tre libri di Epigrammata (Epigrammi) e di Elegiae (Elegie). Più originali per il contenuto sono le Eclogae Piscatoriae (Egloghe dei pescatori), cinque egloghe di ambiente non pastorale bensì marittimo. Il De partu Virginis (Il parto della Vergine) infine costituisce l’opera latina più matura di Sannazaro: un tentativo ardito di cantare un argomento cristiano con il linguaggio e lo stile del poeta dell’Eneide.

La produzione letteraria in volgare e in latino

L’Arcadia

Le Rime Le opere latine

T6

Iacopo Sannazaro

Temi chiave

prosa prima

• l’ideale arcadico di una natura idillica • la rappresentazione del “luogo ameno”

dall’Arcadia Nella Prosa prima troviamo la descrizione dell’altopiano di Partenio, dove si svolgerà la vicenda raccontata, effettuata rispettando i canoni del locus amoenus.

Giace nella sommità di Partenio1, non umile monte de la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso, però che2 il sito3 del luogo no’l consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che, se le lascive4 pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno5, vi si potrebbe di ogni tempo6 ritrovare verdura7.

1. Partenio: alto (non umile) monte, nella regione greca dell’Arcadia. 2. però che: poiché.

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3. sito: conformazione. 4. lascive: nel senso di spensierate, capricciose.

5. vi pascesseno: vi pascolassero, si nutrissero. 6. di ogni tempo: in ogni stagione. 7. verdura: erba verde e fresca.

Capitolo 4 · L’Umanesimo volgare: la prosa

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Ove (se io non mi inganno) son forse dodeci o quindeci alberi, di tanto strana et eccessiva bellezza, che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli8. Li quali, alquanto distanti, et in ordine non artificioso9 disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono10. Quivi senza nodo veruno11 si vede il drittissimo abete, nato a sustinere12 i pericoli del mare; e con più aperti rami la robusta quercia e l’alto frassino e lo amenissimo platano vi si distendono con le loro ombre, non picciola parte del bello e copioso13 prato occupando. Et èvi14 con più breve fronda15 l’albero di che Ercule coronar si solea16, nel cui pedale17 le misere figliuole di Climene18 furono trasformate. Et in un de’ lati si scerne il noderoso castagno19, il fronzuto bosso, e con puntate20 foglie lo eccelso pino carico di durissimi frutti; ne l’altro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia21 e ’l fragile tamarisco22, insieme con la orientale palma, dolce et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo, presso un chiaro fonte, sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete23, nel quale, non che Ciparisso24, ma (se dir conviensi) esso25 Apollo non si sdegnarebbe essere transfigurato26. Né sono le dette piante sì discortesi, che del tutto con le loro ombre vieteno i raggi del sole entrare27 nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente gli riceveno, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda grandissima recreazione28: e come che di ogni tempo piacevole stanza vi sia29, ne la fiorita primavera più che in tutto il restante anno piacevolissima vi si ritruova. In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti convenire30, e quivi in diverse e non leggiere pruove31 essercitarse: sì come in lanciare il grave palo32, in trare con gli archi al versaglio33, et in adestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte, piene di rusticane34 insidie; e ’l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro35, non senza pregio36 e lode del vincitore. Ma essendo una fiata37 tra l’altre quasi tutti i convicini38 pastori con le loro mandre quivi ragunati, e ciascuno varie maniere cercando di sollacciare39, si dava maravigliosa festa. Ergasto solo, senza alcuna cosa dire o fare, appiè di un albero, dimenticato40 di sé e de’ suoi greggi giaceva, non altrimente che se una pietra o un tronco stato fusse, quantunque per adietro41 solesse oltra gli42 altri pastori essere dilettevole e grazioso.

8. vi si fusse … formarli: si fosse ingegnata con grandissimo piacere di formarli ad arte. 9. in ordine non artificioso: non a distanza regolare, in maniera simmetrica, e quindi artificiosa. 10. annobiliscono: nobilitano. 11. veruno: alcuno. 12. a sustinere: per sostenere, affrontare. Il suo legno era infatti particolarmente usato per la costruzione delle navi; ma si tratta anche, come sottolinea Contini, di un’immagine «poeticamente proverbiale». 13. copioso: ricco di tutte queste bellezze. 14. èvi: vi è, vi si trova. 15. con più breve fronda: con rami più corti. 16. l’albero … solea: l’albero con le cui fronde Ercole era solito incoronarsi; si tratta del pioppo. 17. pedale: tronco. 18. figliuole di Climene: le Eliadi, figlie di Climene e del Sole, furono trasformate in pioppi quando il loro fratello, Fetonte, guidò il carro fiammeggiante del padre e venne

fatto precipitare da Zeus. 19. si scerne … castagno: si vede il nodoso castagno (distinto in ciò dall’abete, senza nodo veruno). 20. puntate: appuntite, aghiformi. 21. tiglia: tiglio, latinismo; è definito incorruttibile per la durezza del suo legno. 22. tamarisco: tamerice, definita «umile» da Virgilio (Bucoliche, IV, v. 2) e quindi contrapposta sia al tiglio sia alla palma (la corona di palma era il premio dei vincitori delle gare olimpiche, come ricorda ancora Virgilio, Georgiche, III, v. 49). 23. mete: gli obelischi o i pennoni, dietro i quali dovevano girare i carri che gareggiavano nell’arena, per percorrerla in senso inverso. 24. Ciparisso: il fanciullo caro ad Apollo e da lui trasformato in cipresso. 25. esso: lo stesso. 26. transfigurato: trasformato. 27. vieteno … entrare: vietino ai raggi del sole di entrare, di penetrare (costruzione latina).

28. recreazione: piacere, sollievo. 29. come … sia: sebbene in ogni stagione sia piacevole la dimora. 30. convenire: riunirsi. 31. non leggiere pruove: gare difficili, faticose. 32. il grave palo: il pesante giavellotto. 33. trare … al versaglio: tirare al bersaglio con gli archi. 34. rusticane: rustiche, proprie della vita dei campi. 35. a pruova … altro: a gara uno con l’altro (si riferisce anche alla struttura del canto amebeo propria delle egloghe, in cui i versi sono cantati alternativamente da due pastori). 36. pregio: gloria. 37. una fiata: una volta (nel senso, generico, di un giorno). 38. convicini: circonvicini, dei dintorni. 39. di sollacciare: per divertirsi. 40. dimenticato: dimentico. 41. per adietro: per il passato. 42. oltra gli: più degli.

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L’età umanistica

Analisi del testo L’ideale arcadico Il locus amoenus

Gli elementi costitutivi

Le radici classiche

La Prosa prima definisce l’ideale arcadico dell’autore: non la natura selvaggia, ma un paesaggio idillico, in cui la natura stessa sembra sostituirsi alla civiltà, costruendo il proprio armonico disegno. La pagina costituisce la significativa esemplificazione di un topos letterario particolarmente diffuso: quello del locus amoenus, che (pur affermando, come in questo caso, di seguire un «ordine non artificioso») presenta il paesaggio secondo schemi convenzionali e idealizzati, attribuendogli dei connotati fissi e di maniera: la bellezza, la serenità, la grazia, l’armonia. Tra gli elementi costitutivi si possono indicare il «boschetto» (qui presentato in maniera originale da una sequenza di alberi, ognuno accompagnato da un aggettivo caratterizzante), la «minuta e verdissima erbetta», il «chiaro fonte», la presenza dell’ombra ristoratrice e del benefico sole. Mancano, tra le altre abituali componenti, il canto degli uccelli e i fiori, anche se si parla di «fiorita primavera», la stagione che soprattutto esalta le caratteristiche del locus amoenus. La resa stilistica è ottenuta attraverso termini che indicano la piacevolezza e la leggiadria, con la delicata impressione suggerita anche da qualche diminutivo (si vedano, ravvicinati: «dilettoso boschetto», «graziosamente», «erbetta», «grandissima recreazione», «piacevole stanza» e, con ripresa rafforzativa, «piacevolissima»). A conferma delle radici classiche del motivo si noti la presenza – sia pure discreta – dei riferimenti mitologici, che introducono il movimento chiaroscurale della “metamorfosi”: il cipresso, «nel quale, non che Ciparisso, ma (se dir conviensi) esso Apollo non si sdegnarebbe essere transfigurato». Sullo sfondo di questo ambiente vengono alla fine collocati i pastori, anch’essi idealizzati (si dedicano all’esercizio fisico, alla poesia e al canto), secondo i moduli dell’antica tradizione bucolica.

Esercitare le competenze ComprEndErE

> 1. Riassumi in non più di circa (250 caratteri) il contenuto della prima parte del brano (rr. 1-24). > 2. Diversamente dagli altri pastori, qual è il comportamento di Ergasto? > 3. L’autore nomina alcuni personaggi della mitologia classica. Quali caratteristiche comuni possiedono? AnALIzzArE

> 4.

Stile Nel brano è frequente l’uso della litote. Individua tutte le occorrenze di questa figura retorica e spiegane la funzione. > 5. Lessico Individua e sottolinea i termini che si riferiscono al campo semantico della “piacevolezza” e dell’“amenità”. > 6. Lingua Svolgi l’analisi dell’ultimo periodo (rr. 32-35), individuando tutte le proposizioni e indicando per ciascuna di esse se si tratta di principale, coordinata o subordinata; in quest’ultimo caso specificane anche il valore.

ApprofondIrE E InTErprETArE

> 7.

Esporre oralmente Che posto ha l’amore nella poesia bucolica di Sannazaro? E per quale motivo tale sentimento può rappresentare anche una fonte di sofferenza? Rispondi oralmente in max 3 minuti.

facciamo il punto 1. Nei Libri della famiglia Alberti dà ampio spazio ai problemi di tipo pratico, come l’educazione dei figli, il

matrimonio, l’amministrazione della casa e del podere. A quale ideale sono riconducibili le sue riflessioni? 2. Che legame c’è, secondo Alberti, tra virtù e fortuna? 3. Qual è il valore dell’esperienza e dell’osservazione secondo Leonardo? 4. In che cosa consiste l’originalità di Sannazaro, dal punto di vista formale, rispetto ai modelli classici?

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In sintesi

L’umAnESImo VoLgArE: LA proSA Verifica interattiva

LA proSA VoLgArE Nell’Umanesimo i testi scritti in volgare rivelano una maggiore attenzione ai problemi pratici, di tipo economico (Leon Battista Alberti) o di tipo scientifico (Leonardo da Vinci), oppure, pur richiamandosi alla classicità, cercano soluzioni formali più originali, come quelle del “prosimetro” (Iacopo Sannazaro).

LEon BATTISTA ALBErTI Leon Battista Alberti (1404-72), membro di una delle più nobili casate fiorentine, nacque a Genova e studiò a Padova e Bologna. Divenuto segretario apostolico presso la Curia pontificia, divise la sua attività tra Firenze, Bologna e Roma. Autore di numerose opere, tra cui vari trattati d’arte e alcuni scritti in latino, si fece promotore della diffusione della lingua volgare. Nei Libri della famiglia, in forma di dialoghi, affronta temi come l’educazione dei figli, il matrimonio, l’amministrazione della casa e del podere, avendo come ideale la cura degli interessi famigliari.

LEonArdo dA VInCI Leonardo nacque a Vinci nel 1452. Trasferitosi a Firenze, studiò da autodidatta accostandosi alla cultura umanistica della città; Andrea del Verrocchio, presso il quale fu a

bottega, lo avviò all’architettura e alle tecniche ignegneristiche. Trascorse gli ultimi anni ad Amboise, in Francia, dove morì nel 1519. Oltre all’attività pittorica sono importanti gli studi e le applicazioni di carattere scientifico: la scienza è per Leonardo fusione di esperienza e ragionamento matematico e ha un fine pratico. Non lasciò nessuna opera scritta, ma una raccolta di appunti che mescola disegni, riflessioni, lettere.

IACopo SAnnAzAro Iacopo Sannazaro (1456?-1530) fu attivo presso la corte napoletana, ma se ne allontanò quando il Regno di Napoli passò sotto il diretto controllo della corona spagnola. Nella sua opera principale, l’Arcadia, appartenente al genere bucolico e composta in prosa alternata a poesia (prosimetrum), trova piena espressione l’idillio come proiezione del desiderio di evasione dall’ambiente cittadino e cortigiano: la natura incontaminata e quasi irreale dell’Arcadia (la regione della Grecia che dà il titolo all’opera) fa da sfondo a una vicenda amorosa ispirata sia ai grandi modelli classici (soprattutto il Virgilio delle Bucoliche) sia a un’esperienza autobiografica dell’autore. L’Arcadia avrà grande fortuna nel corso del Cinquecento, stimolando la successiva e abbondante produzione bucolica italiana ed europea.

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L’età del Rinascimento 1493-1559

VALLADOLID SALAMANCA MADRID

SIVIGLIA

I luoghI della cultura CAMBRIDGE

VENEZIA • Venezia è un altro polo di sviluppo della grande produzione artistica rinascimentale: da Bellini a Tiziano, da Veronese a Palladio, i grandi pittori e architetti veneti offrono modelli con i quali si confrontano gli artisti di tutta Europa. Soggiornano e pubblicano le loro opere in terra veneta diversi letterati (come Aretino e Ruzante).

OXFORD LONDRA

ANVERSA

PARIGI NORIMBERGA

MILANO • Ricca e popolosa, Milano assume un importante ruolo culturale soprattutto in ambito architettonico e artistico. Emblematica di una apertura della corte sforzesca alla sperimentazione artistica è la presenza di Leonardo, attratto in città dalle molte possibilità di impiego.

STRASBURGO

FERRARA • La corte ferrarese continua ad essere uno dei più importanti centri letterari e musicali dell’Italia settentrionale. Fedeli alla tradizione letteraria quattrocentesca, gli Este favoriscono la produzione e la diffusione della letteratura cavalleresca. Vi soggiorna Ariosto, il maggiore poeta italiano del Rinascimento.

LIONE MILANO TORINO

FIRENZE • La città è il centro propulsivo dello straordinario rinnovamento artistico e letterario che caratterizzerà l’età del Rinascimento. Vi nascono e operano molti dei maggiori artisti, pensatori e letterati di tutti i tempi (a cominciare da Michelangelo e Machiavelli).

VERONA VENEZIA MANTOVA PADOVA PARMA GENOVA FERRARA BOLOGNA LUCCA RIMINI FIRENZE

URBINO

PERUGIA ROMA

ROMA • La corte pontificia chiama a sé i più grandi scultori, pittori e architetti del Rinascimento (da Raffaello a Michelangelo): la città, che attrae anche numerosi letterati (come Bembo, Castiglione, Della Casa), diviene così il più importante centro di produzione artistica europeo.

NAPOLI

NAPOLI • La città, anche grazie ai costanti rapporti con la Repubblica di Firenze ma anche con la Francia e la penisola iberica, è una delle capitali del Rinascimento italiano e principale centro culturale dell’intero Mezzogiorno.

Il contesto

Società e cultura

1

Le strutture politiche, economiche e sociali

Visione d’insieme

Le vicende politiche italiane

Fragilità politica degli Stati italiani

Leonardo comincia ad affrescare Il Cenacolo (1494)

Leonardo compie studi sull’anatomia umana (Inizio XVI secolo)

Letteratura

Cultura

La discesa di Carlo VIII

Con la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) ha termine la politica di equilibrio e di pace che aveva caratterizzato le vicende della storia italiana negli ultimi decenni del Quattrocento. La penisola diventa terra di scontri e di conquista per le grandi nazioni europee, la Francia, la Spagna e l’Austria (queste ultime due riunite poi nell’Impero asburgico), che proprio in questo periodo raggiungono la loro massima forza ed espansione. Ridotti a un ruolo marginale e nuovamente in contrasto fra loro, agli Stati italiani non resta che cercare il favore delle grandi potenze, mettendosi completamente nelle loro mani e subendo così pesanti conseguenze. Nel 1494 il re di Francia Carlo VIII scende in Italia con le sue truppe, aiutato da Ludovico il Moro, che riesce a impadronirsi di Milano cacciando Gian Galeazzo Sforza; entra in Firenze, viene accolto benevolmente dal pontefice Alessandro VI e s’impadronisce senza difficoltà del Regno di Napoli.

Leonardo dipinge La Gioconda (1503-06)

Michelangelo affresca la Cappella Sistina (1508-12)

Michelangelo termina la scultura del Mosè (1515) Tommaso Moro scrive l’Utopia (1516)

Erasmo da Rotterdam pubblica l’Elogio della follia (1511) Bembo pubblica gli Asolani (1505)

Prima edizione dell’Orlando furioso di Ariosto (1516)

Machiavelli porta a termine il Principe (1513)

Machiavelli scrive la Mandragola (1518)

Scienza e Tecnica

Storia e Società

1493-1519

124

Carlo VIII scende in Italia; a Firenze Savonarola restaura la repubblica (1494)

Savonarola viene condannato al rogo (1498)

Nella tipografia di Aldo Manuzio si riunisce l’Accademia Aldina (Inizio XVI secolo)

I francesi conquistano il Ducato di Milano (1500)

A Firenze la famiglia de’ Medici ritorna al potere (1512)

Magellano raggiunge le Indie Lutero stende attraversando le 95 tesi di l’oceano Pacifico Wittenberg (1517) (1522)

Sviluppo dell’industria laniera veneziana, inglese e olandese (Inizio XVI secolo) Leonardo compie studi sull’anatomia umana (Inizio XVI secolo)

Il contesto · Società e cultura

Il sacco di Roma

Nel 1500 il Ducato di Milano cade nelle mani del re francese Luigi XII, mentre la Spagna, poco dopo, si insedia nell’Italia meridionale. Nel 1527 le truppe mercenarie del nuovo re di Spagna Carlo V, i lanzichenecchi, incendiano e saccheggiano Roma. Questo episodio, che ha lasciato numerose tracce anche nell’immaginario della letteratura, è stato giustamente considerato come l’episodio rivelatore della gravissima crisi vissuta dalla storia italiana in questo secolo. Nel 1530 la contesa tra Francia e Spagna per il predominio sull’Italia si risolve a favore di quest’ultima: Carlo V viene incoronato a Bologna imperatore e re d’Italia dal pontefice Clemente VII.

Lo Stato della Chiesa, Firenze, Venezia e il predominio spagnolo La Chiesa e Cesare Borgia

Firenze

Venezia

Anche lo Stato della Chiesa rivela una debolezza profonda: il figlio del pontefice spagnolo Alessandro VI, Cesare Borgia detto il Valentino, conquista le Romagne e tenta di realizzare un audace disegno politico, che, costringendo all’obbedienza i signori ribelli, giunga alla creazione di uno Stato forte nell’Italia centrale. Ma il suo progetto (al quale guarderà con particolare attenzione Machiavelli nel Principe) è destinato ben presto a naufragare, per la morte del padre (1503). Più complesse e oscillanti le vicende di Firenze, che più volte cerca di opporsi alla situazione esistente, sforzandosi di richiamare in vita le tradizioni di un ormai lontano passato. La discesa di Carlo VIII provoca una reazione popolare, che conduce alla cacciata di Piero de’ Medici e alla proclamazione di una repubblica di tipo democratico; ma la scomunica del frate domenicano Girolamo Savonarola, che era divenuto la guida spirituale della città, e la sua condanna a morte già preludono alla fine di questa esperienza, nonostante gli sforzi compiuti dal gonfaloniere Pier Soderini. I Medici rientrano in città nel 1512 e vi rimangono fino al 1527, quando viene proclamata una seconda repubblica, che cadrà tre anni dopo di fronte all’ostilità e alle forze congiunte dell’Impero spagnolo e degli altri Stati italiani. Solo Venezia, che conserva le istituzioni repubblicane, mantiene la sua autonomia e la sua forza, legata alla prosecuzione dell’attività mercantile e a ragioni strategiche. Il suo dominio, che si estende alla Dalmazia e alle isole greche, costituisce infatti un impor-

Michelangelo affresca il Giudizio Universale nella Cappella Sistina (1536-41) Bembo scrive le Prose della volgar lingua (1525) Castiglione pubblica il Cortegiano (1528)

Palladio progetta la villa La Rotonda (1550-51)

Cellini realizza la statua in bronzo del Perseo (1554)

Edizione definitiva dell’Orlando furioso (1532) Francesco Guicciardini stende l’ultima redazione dei Ricordi (1530)

1520-1549 Sviluppo delle banche genovesi (1526)

Ignazio di Loyola fonda l’ordine dei gesuiti (1540)

Viene pubblicato postumo il Galateo di Della Casa (1558)

1550-1559 Carlo V viene incoronato imperatore e re d’Italia (1530)

I lanzichenecchi saccheggiano Roma (1527)

Scisma della Chiesa anglicana in Inghilterra (1533) Prime coltivazioni del mais importato dall’America. Uso delle rotaie nelle miniere (1540)

La riforma di Calvino si diffonde Abdicazione di in Europa (1541 ca.) Carlo V (1556) Francia e Inghilterra Ha inizio il Concilio di Trento firmano la pace di (1545) Cateau-Cambrésis (1559) Papa Paolo III istituisce l’Inquisizione (1542) Andrea Vesalio fonda l’anatomia moderna (1543) L’astronomo polacco Niccolò Copernico sostiene la tesi eliocentrica (1543)

Giorgio Agricola (Georg Bauer) inizia gli studi mineralogici (1556)

125

L’età del Rinascimento

La pace di CateauCambrésis

tante baluardo di difesa contro la ricorrente minaccia turca, rendendo la sua potenza politicamente conveniente e necessaria. Con la pace di Cateau-Cambrésis, a partire dal 1559, la situazione si stabilizza, rimanendo poi a lungo sostanzialmente statica ( L’Europa dopo la pace di Cateau-Cambrésis). La Spagna, che ha sconfitto la Francia, estende e consolida il suo predominio in Italia, occupando Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna, mentre alla Francia non rimane che il Marchesato di Saluzzo. Restano indipendenti, ma privi di reale autonomia politica, gli altri Stati italiani.

Economia e società La società delle corti

Il processo di “rifeudalizzazione”

Per quanto riguarda le condizioni economico-sociali, la situazione italiana si presenta in parte analoga a quella descritta per il periodo precedente: la società delle corti è costituita dall’aristocrazia e da una ricca borghesia, che, abbandonata l’intraprendenza mercantile dei secoli precedenti, tende a convertire le proprie ricchezze nel possesso delle terre e nell’acquisto di beni immobili. Ma si tratta di un’economia prevalentemente parassitaria, che non viene compensata dall’incremento delle attività imprenditoriali e produttive. Questo processo, che gli storici hanno definito di “rifeudalizzazione dei rapporti sociali”, finisce per interessare tutta quanta l’Italia ed è destinato a estendersi nel se-

L’Europa dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559) REGNO DI SCOZIA

MARE DEL NORD

Territori appartenenti alla Spagna Territori degli Asburgo d’Austria Confini del Sacro Romano Impero germanico OCEANO ATLANTICO

REGNO DI NORVEGIA

REGNO DI DANIMARCA

REGNO DI INGHILTERRA

PAESI BASSI Calais CateauCambrésis Parigi REGNO DI FRANCIA

RE PO GNO RTO D GA EL LLO

Savoia

Madrid

Gibilterra

Corsica

isole Baleari

Sardegna

Ceuta MAROCCO

Copenaghen

IMPERO RUSSO

DUCATO DI PRUSSIA

Berlino Praga

REP. DI VENEZIA

Vilna

Varsavia REGNO DI POLONIA

Vienna AUSTRIA Milano

REGNO DI SPAGNA

REGNO DI SVEZIA

R. D ’UN GH

Territori dell’Impero ottomano e Stati vassalli

IA ER

GRANDUCATO DI LITUANIA

Tra Moldavia ns ilv an ia

UNGHERIA

STATO DELLA CHIESA

MAR NERO

Valacchia

Istanbul

REGNO DI NAPOLI

IMPERO OTTOMANO

REGNO DI SICILIA

ALGERIA TUNISIA

MAR MEDITERRANEO

Creta

Cipro

La carta mostra l’assetto geopolitico dell’Europa, definito dal trattato di Cateau-Cambrésis. Questa pace fu stipulata al termine della lunga guerra che vide la Francia contrapposta ai domini asburgici, ossia all’Impero germanico e alla Spagna. Per quanto riguarda l’Italia, la Spagna ottiene Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna, ma esercita una forte egemonia anche sugli Stati formalmente indipendenti, con la sola eccezione della Repubblica di Venezia, che conserva una certa autonomia.

126

Il contesto · Società e cultura

La Riforma protestante

colo successivo. Lo stato generale di recessione economica si riflette soprattutto sulle condizioni della povera gente, che paga più duramente anche gli effetti delle carestie, delle epidemie e delle distruzioni dovute alle invasioni straniere. Mentre in Italia si delinea questa situazione statica e di riflusso, nel Nord dell’Europa si assiste alla nascita e all’affermazione del capitalismo moderno. L’investimento del denaro nell’acquisto di macchine, attrezzi e materie prime determina una migliore e più razionale organizzazione della produzione, che consente una moltiplicazione vertiginosa dei profitti. A incrementare questo tipo di economia – mercantile, produttivistica e monetaria – contribuiscono notevolmente le scoperte geografiche, che comportano lo spostamento dell’asse economico dal Mediterraneo all’Atlantico. L’Italia resta inoltre estranea a quel grande moto religioso che è la Riforma protestante, sorto in Germania alla fine del Quattrocento, e che produce una profonda divisione all’interno della cristianità; nato per combattere i privilegi del clero, il movimento risponde anche a profonde esigenze economiche e sociali, non estranee ai fermenti del nascente capitalismo. Il Concilio di Trento (1545-63) non riesce a sanare la divisione ma ribadisce, per l’Italia, la situazione preesistente.

Facciamo il punto 1. Quali sono le cause della debolezza politica dell’Italia all’inizio del Cinquecento? 2. Quali differenze si riscontrano tra la situazione socio-economica italiana e quella del Nord dell’Europa?

2

Le idee e la visione del mondo Umanesimo, Rinascimento e Manierismo: problemi di periodizzazione Secondo una distinzione da molti accettata (ma che non ha mancato di suscitare perplessità e riserve), la cultura e la letteratura del Cinquecento si possono dividere in due momenti: il Rinascimento, che si afferma nei primi decenni del secolo e porta a conclusione il processo culturale già avviato nel Quattrocento dall’Umanesimo; il Manierismo, che ne rappresenta la crisi e anticipa le nuove espressioni della sensibilità secentesca e barocca.

La fioritura culturale del Rinascimento La lezione dell’Umanesimo

Il classicismo e la letteratura italiana

Come abbiamo visto, il concetto di “rinascita” è uno dei cardini della cultura umanistica, che intendeva così sottolineare il suo distacco dalla mentalità e dalla concezione dell’uomo proprie dell’età medievale. I modelli ideologici e letterari vengono individuati nel mondo classico, che ha offerto testimonianze non più eguagliate di civiltà e di cultura. Di qui il “classicismo” dell’Umanesimo, che si ispira direttamente alla letteratura degli antichi, con l’intento di farne rivivere lo splendore. Il suo fondamento consiste appunto nel principio dell’“imitazione”, che si propone di adeguare le nuove forme letterarie a quelle della classicità greca e latina. Il Rinascimento porta a compimento il processo già avviato dall’Umanesimo, ribadendo il principio dell’imitazione dei classici e trasferendolo a pieno titolo alla letteratura in volgare. Il termine “Rinascimento” indica non solo la straordinaria fioritura delle lettere 127

L’età del Rinascimento

La continuità tra passato e presente

La svolta del Concilio di Trento

e delle arti, ma implica anche la convinzione di essere gli eredi di una somma altissima di valori (quelli della latinità, integrati in seguito da quelli della tradizione italiana), che occorre riproporre e perfezionare. Caratteristici del Rinascimento appaiono il classicismo formale, il sentimento della bellezza intesa come equilibrio spirituale e ordine intellettuale, una ricerca delle proporzioni che ha alcune delle sue massime espressioni nelle contemporanee manifestazioni dell’arte figurativa. La grande fioritura letteraria del primo Cinquecento, nel giro di pochi anni, rafforza l’immagine di una letteratura ormai giunta a maturazione e padrona delle proprie risorse tecniche ed espressive, entrando così, di fatto, nella dimensione della “classicità”, intesa come raggiungimento di una misura superiore di stile. Il “classicismo” rinascimentale raggiunge la sua piena consapevolezza con le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, che lega saldamente la letteratura del presente a quella del passato, individuando nei modelli trecenteschi di Petrarca e Boccaccio una tradizione di particolare prestigio, capace di indirizzare e guidare le stesse scelte del futuro. La presenza di questi nuovi modelli rende finalmente possibile applicare il canone dell’“imitazione” anche alla recentissima letteratura in lingua volgare. Oltre a questi modelli letterari considerati come termini di riferimento ideali e immutabili, il classicismo rinascimentale obbedisce anche alle regole aristoteliche (dopo la fondamentale traduzione della Poetica di Aristotele, nel 1536, p. 129), che definiscono in maniera rigorosa il funzionamento dei generi letterari. L’affermazione di questi criteri interpretativi e conoscitivi è parallela alla svolta storico-culturale che si realizza soprattutto dopo la conclusione del Concilio di Trento, con la Controriforma: il “ritorno all’ordine” che si verifica in letteratura coincide con il “ritorno all’ordine” imposto dalle scelte politiche. Pur corrispondendo a profonde esigenze culturali, le regole finiranno per essere avvertite come dei limiti sempre più restrittivi e vincolanti. La “precettistica” diventa indice di un atteggiamento dogmatico, che riporta alla luce antiche tendenze autoritarie e determina, come reazione, lo sprigionarsi di forze contrastanti, che finiranno per alterare profondamente, negli ultimi decenni del secolo, il quadro letterario preesistente.

Platonismo e aristotelismo È possibile distinguere, all’interno della letteratura rinascimentale, due linee distinte: una idealistica, che si afferma ad esempio nella trattatistica spiritualizzante e nella lirica petrarchista; una naturalistica, di tipo pragmatico e antisublime, che si può ricondurre alle opere e al pensiero di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini. In particolare, sul piano più propriamente filosofico, nel corso del secolo si configurano e si intersecano tendenze di tipo platonico e aristotelico. Sin dalla cultura medievale, infatti, il platonismo (che interpreta la realtà alla luce delle idee) e l’aristotelismo (che si propone di rimanere aderente alle leggi della natura) avevano costituito alternative filosofiche ugualmente valide, anche per la possibilità di venire adattate e integrate nella visione del mondo cristiana.

L’irrazionale e l’anticlassicismo Fermenti critici e tematiche “negative”

128

Armonia ed equilibrio delle forme, senso della misura e delle proporzioni, sono tra le caratteristiche riconosciute alla più tipica produzione rinascimentale. Non mancano, tuttavia, elementi dissonanti. Scrittori come Machiavelli e Guicciardini mostrano una spregiudicatezza realistica e uno scetticismo corrosivo che contraddicono una visione rasserenante o pacificata delle cose. Nei capolavori più rappresentativi della civiltà rinascimentale non mancano poi componenti di tipo negativo e irrazionale, che alludono alle condizioni di precarietà dell’esistenza. Un esempio per tutti può essere fornito dall’Orlando furioso di Ludovico

Il contesto · Società e cultura

L’ordine e il caos

La reazione al classicismo

Il Manierismo

Ariosto (1474-1533), in cui l’elemento della “follia” costituisce un argomento di riflessione già presente nella cultura umanistica (si pensi anche ad Erasmo da Rotterdam, che pubblica, nel 1511, il celebre Elogio della follia). Il fondamento razionale del Rinascimento viene inteso per lo più come espressione di un equilibrio in cui si manifesta la capacità dell’uomo di controllare le forze della natura, riportando l’ordine dell’intelligenza anche là dove la storia e la natura sembrano essere preda del caos. Ora, questo culto della forma (che diventa, in letteratura, culto dello stile) corrisponde anche a un processo di “rimozione”, in cui vengono cancellati o sublimati tutti gli elementi di disturbo, capaci di creare alterazioni e rotture dell’equilibrio esistente. La ricerca della perfezione formale, in altri termini, non annulla le suggestioni irrazionali – anche di tipo magico e demoniaco – che persistono nella coscienza collettiva, conservando profondi legami con la mentalità popolare; questi aspetti, che coesistono accanto al prevalente spirito razionalista e scientifico, costituiscono l’altra faccia del Rinascimento (si parla, a questo proposito di “controrinascimento” o di “antirinascimento”), destinata a riemergere soprattutto nella seconda parte del secolo. Nato come reazione alle regole del “classicismo” e al principio di imitazione, il cosiddetto anticlassicismo trova nelle diverse forme del comico e della parodia i suoi punti di forza. Se la letteratura ufficiale rappresenta le forme più nobili ed elevate del reale, sottoponendolo a un processo di idealizzazione, la letteratura anticlassicista propone una visione delle cose dal basso, aderendo a quella tradizione carnevalesca profondamente radicata nella cultura popolare, di cui coglie gli aspetti materiali e corporei, oltre alle componenti satiriche, irriverenti e dissacranti. Inoltre l’anticlassicismo presenta alcuni aspetti che già potrebbero essere definiti “manieristi”, intendendo con il termine “Manierismo” – come meglio vedremo nel capitolo sull’età della Controriforma ( p. 510) – la rinuncia alla misura e all’armonia formale che aveva caratterizzato le ricerche del classicismo rinascimentale. È l’incertezza di una crisi che si riflette nella forma irregolare delle opere d’arte, come preannuncio di quella che sarà, già nel primo Seicento, l’esperienza del Barocco.

Microsaggio

La Poetica di Aristotele l’opera era già parzialmente nota nel Medioevo ed era stata tradotta in latino nel 1498 da giorgio Valla. Ma fu la nuova traduzione del 1536, ad opera di alessandro de’ Pazzi, ad animare il dibattito culturale sul principio di imitazione. la Poetica aristotelica corrispondeva perfettamente alle attese della cultura del tempo, volta alla ricerca di norme e di regole capaci di razionalizzare le forme e gli stili delle opere letterarie. Nelle parti che ci sono pervenute, relative alla tragedia e all’epica, aristotele aveva analizzato le opere della letteratura greca, per ricavarne le regole alle quali i generi letterari in questione obbedivano. a queste norme – in particolare le unità di tempo, di luogo e di azione – i teorici cinquecenteschi attribuirono per lo più un carattere esemplare, ma insieme vincolante e riduttivo, poiché pretendevano che fossero applicate in maniera rigorosa da

tutti gli scrittori. Non si deve tuttavia considerare questa esperienza in termini puramente negativi, dopo che la cultura contemporanea ha indicato nell’idea della libertà espressiva una componente essenziale delle manifestazioni artistiche e letterarie. Il principio dell’imitazione e i canoni aristotelici rappresentano i fondamenti di una precisa posizione razionalistica, che corrisponde a un’autentica esigenza conoscitiva. anche i concetti del “verisimile” e dell’imitazione della “natura”, su cui si fonda la Poetica aristotelica, non vanno intesi come una banale riproduzione, o “mimesi”, del reale. essi vengono interpretati, infatti, in un senso essenzialmente retorico; la loro importanza consiste nella possibilità di ridurre la realtà entro prospettive logiche e rigorose, esercitando il controllo dell’intelligenza e della scrittura sugli aspetti contingenti e mutevoli delle cose.

129

L’età del Rinascimento

Visualizzare i concetti

Classicismo e anticlassicismo a confronto ClassiCismo

Imitazione di modelli precostituiti

Contenuti raffinati e sublimi

Petrarca e Boccaccio

antiClassiCismo

Principio letterario

“Natura”, ossia rifiuto delle regole precostituite

Realtà rappresentata

Tematiche basse e volgari

Modelli letterari

Retorica dell’ordine, dell’armonia, della proporzione

Stile

Monolinguismo: toscano letterario trecentesco

Lingua

Esaltazione della corte come luogo ideale

Rapporto con la corte Contesto di produzione

Corte

Tradizione comico-realistica e cultura popolare Retorica del disordine, della disarmonia, dell’eccesso Plurilinguismo ed espressionismo Dissacrazione della cultura cortigiana dominante Editoria

Facciamo il punto 1. Quali sono i valori e i princìpi fondamentali della mentalità rinascimentale? 2. Che cosa si intende con “classicismo rinascimentale”? 3. Quali fenomeni culturali e letterari appartengono al cosiddetto “anticlassicismo”?

3

I centri e i luoghi di elaborazione culturale in età rinascimentale Il carattere stesso del classicismo rinascimentale, che si basa sul principio di imitazione, e la mobilità degli intellettuali fanno sì che la cultura del Cinquecento si presenti, per molti suoi aspetti, come un fatto sostanzialmente omogeneo e compatto. Tuttavia la frantumazione politica dell’Italia e la persistenza di tradizioni locali, diverse fra di loro anche sul piano linguistico, consentono di individuare centri e aree culturali che si differenziano per le scelte compiute.

Firenze

La riflessione politica a Firenze

130

A Firenze, durante tutto il Quattrocento, il consolidamento del regime signorile incontra maggiori resistenze che altrove, per la sopravvivenza delle antiche istituzioni comunali. Anche quando si afferma il regime signorile (1534), resta aperta la possibilità di un confronto tra le varie posizioni politiche, che, ricollegandosi alla tradizione del passato,

Il contesto · Società e cultura

La posizione all’interno della questione linguistica

Le caratteristiche della produzione letteraria

incide sulle caratteristiche dell’attività letteraria, sugli scopi e sulla destinazione. Per questo motivo sopravvive nei primi anni del Cinquecento una linea di riflessione politica e di ricerca storiografica che in altre parti d’Italia si era oramai venuta esaurendo. Basti pensare all’opera di Niccolò Machiavelli (1469-1527), anticonformistica, spregiudicata e ancora strettamente connessa con la cultura dell’Umanesimo civile fiorentino, che, nei primi decenni del Quattrocento, aveva concepito la letteratura in funzione della vita politica. L’orgoglio di appartenere a una gloriosa tradizione repubblicana fa sì che la maggior parte degli intellettuali, intervenendo nella questione della lingua, si schieri a favore del fiorentino parlato, considerato come la medesima lingua in cui avevano scritto e poetato i grandi autori del passato. Di qui il rifiuto del fiorentino letterario proposto da Bembo, a favore di una lingua che sappia continuamente trasformarsi, accogliendo gli apporti e i suggerimenti derivanti dall’uso. Si spiega così anche il motivo per il quale il fenomeno del “petrarchismo” ( cap. 2, p. 163) tocchi solo marginalmente la Toscana. La letteratura fiorentina, nel corso del Cinquecento, presenta spesso caratteristiche spiccatamente municipali, che si traducono in scelte stilistiche e tematiche di tipo per così dire minore, orientandosi verso i generi comici e farseschi: la novella, praticata da numerosi autori; la poesia satirica e burlesca, come quella di Francesco Berni (14961535); i “canti carnascialeschi”, in cui si cimentarono anche Machiavelli e, soprattutto, il Lasca (1503-84); un certo tipo di teatro, popolare e farsesco. Così, di fronte alla scarsa incidenza del “petrarchismo”, si afferma la poesia didascalica (a questo genere appartengono i poemetti Le api di Giovanni Rucellai e La coltivazione di Luigi Alamanni). Proprio a causa di questo municipalismo, che finisce per rappresentare il segno di un’involuzione e di una crisi, il modello linguistico e letterario proposto da Firenze non riesce più a diffondersi nel resto d’Italia.

Venezia La proposta classicista di Pietro Bembo

La libertà culturale veneziana

Nel corso del Cinquecento i nuovi centri culturali di riferimento diventano pertanto Venezia e Roma, le città in cui matura l’esperienza del veneziano Pietro Bembo. A Venezia, Bembo aveva non solo rilanciato il neoplatonismo, ma anche proposto la norma del fiorentino letterario come esclusiva misura del nuovo classicismo. Che ne fosse promotore un veneziano si spiega anche col fatto che Venezia non aveva una tradizione autonoma da difendere e poteva quindi impadronirsi dei risultati più alti e duraturi raggiunti dalla cultura nazionale, facendosene in qualche modo depositaria e rilanciandoli come segno di un rinnovato prestigio storico-politico. La Repubblica veneziana si distingue dal resto della penisola per la mancanza della corte e il permanere delle antiche istituzioni, ma resta un organismo politico chiuso, oligarchico e aristocratico, in cui il potere è detenuto dalle famiglie più nobili e influenti. In questo senso anche la sua cultura risulta profondamente elitaria, ma la mancanza di un regime assoluto consente condizioni di maggiore tolleranza e libertà, che incidono sulla produzione letteraria. Lo stesso precoce affermarsi della stampa, soprattutto per merito del tipografo umanista Aldo Manuzio (1450-1515), crea le condizioni per il sorgere di una cultura della “modernità” per molti aspetti più libera e aperta che in altri centri italiani.

Roma e i centri minori

Urbino e Ferrara

L’importanza di Roma consiste invece nel fatto di essersi posta come crocevia di incontri e di scambi culturali. Roma esalta il ruolo della corte, soprattutto con alcuni pontefici – Giulio II, Leone X e Clemente VII –, che danno particolare impulso allo sviluppo delle lettere e delle arti. I grandi artisti del tempo – da Raffaello a Michelangelo – lasciano nei palazzi Vaticani testimonianze indelebili ( La volta della Cappella Sistina di Michelangelo, p. 132) ; molti fra i maggiori scrittori, fra cui Bembo e l’Aretino, soggiornano più o meno lungamente nella capitale pontificia, ricavando stimoli e fermenti dalla sua intensa vita culturale. Anche le piccole corti continuano a svolgere un valido ruolo di promozione culturale: 131

L’età del Rinascimento

non è un caso che presso la corte di Urbino venga ambientato il Cortegiano di Castiglione ( La voce dei testi, p. 133). Tra i centri particolarmente attivi sul piano delle proposte e dell’elaborazione del discorso letterario è da ricordare almeno la Ferrara degli Estensi, dove prosegue la tradizione del poema cavalleresco, che, già avviata da Boiardo, raggiunge il suo culmine con l’Orlando furioso di Ariosto.

Il ruolo centrale della corte

Un modello di civiltà

Le contraddizioni del rapporto intellettuale-potere

La corte, nel Cinquecento, non costituisce solo il centro della vita politica, ma anche dell’attività culturale. Essa viene considerata come una misura di civiltà, entro la quale si elaborano non soltanto le caratteristiche della letteratura e dell’arte, ma anche i modelli di comportamento e le ideologie (dalle convinzioni politiche ai costumi mondani, dalle forme della conversazione all’arte dell’intrattenimento). Si delinea un sistema di valori tendenzialmente omogeneo nel quale si rispecchiano gli ideali di un’intera civiltà: quelli di un “edonismo” che si propone come ricerca di un piacere raffinato e sublime, fatto di grazia e di armonia. Ma questa stagione sarà di breve durata, perché a partire dagli anni Trenta e Quaranta anche le corti, come sistema politico-economico, e di conseguenza culturale, saranno investite dalla crisi che attraversa la penisola. Si rafforza, nel Cinquecento, l’istituto del mecenatismo ( L’intellettuale cortigiano, p. 137), già avviato nel periodo umanistico, ossia la protezione che i principi e i signori accordano ad artisti e scrittori, dai quali traggono a loro volta lustro e splendore. Il legame con il potere che emerge all’interno delle opere stesse si rivela però non sempre positivo: infatti il prestigio che circonda gli intellettuali all’interno della corte può trasformarsi nella loro debolezza, sia per la precarietà delle relazioni intrattenute con i principi, che possono togliere a piacimento la loro protezione, sia per l’ambito chiuso e ristretto in cui si svolge la loro attività, nettamente estranea e separata rispetto alle attese culturali della maggior parte della popolazione. La presenza dell’intellettua-

La volta della Cappella Sistina di Michelangelo Michelangelo Buonarroti, La sibilla libica, 1508-12, affresco, part., Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Cappella Sistina, Volta.

Nei primi decenni del Cinquecento, grazie al mecenatismo e all’ambizione di papi che desideravano legare il proprio nome a opere d’arte eccelse, Roma divenne un cantiere di capolavori d’arte rinascimentale. Tra questi un posto di riguardo spetta sicuramente alla decorazione della volta della Cappella Sistina, commissionata da Giulio II a Michelangelo Buonarroti (1475-1564), che la realizzò in quattro anni di intenso lavoro, dal 1508 al 1512. Il significato del grandioso affresco, per la cui ideazione l’artista fiorentino si avvalse quasi sicuramente della collaborazione dei teologi della corte papale, rimane tuttora oscuro, perché esso si compone di parti diverse, che, integrandosi, determinano numerosi livelli di lettura. Nella volta, alla complessità contenutistica si sposa una straordinaria abilità tecnica: Michelangelo popolò l’opera di possenti figure umane, come le sibille, la cui perfezione anatomica è valorizzata dall’adozione di colori accesi e cangianti.

132

Il contesto · Società e cultura

le perde così in gran parte la funzione attiva che ancora conservava nel primo Quattrocento, per ridursi a una dimensione sempre più decorativa e celebrativa.

Le accademie e le università Le accademie umanistiche

La trasformazione voluta dai signori

Un caso esemplare

Le università

Nate spontaneamente, come libero incontro di personalità intellettuali, le accademie avevano svolto un ruolo centrale nell’elaborare le idee guida dell’Umanesimo e nel diffondere, attraverso lo scambio e la circolazione intellettuale, la nuova cultura. Sviluppatesi parallelamente all’affermazione delle corti, avevano poi ottenuto la protezione di signori particolarmente interessati alla fioritura delle arti e sensibili agli sviluppi della politica culturale. Il loro sostegno dipendeva sia da ragioni di prestigio sia dal bisogno di controllare da vicino l’azione degli intellettuali, adattandola alle necessità del potere. L’appoggio accordato dai signori finisce per trasformare queste istituzioni in veri e propri organismi ufficiali, regolati da rigide norme e da un preciso cerimoniale. Divenute centri di prestigio e di potere, le accademie tendono alla codificazione e alla conservazione della cultura, più che alla ricerca sperimentale di nuove soluzioni. Esse si caratterizzano per l’ossequio alle convenzioni e per la risposta a esigenze sempre più decorative; di qui il significato negativo e spregiativo che comincia ad accompagnare il termine “accademico”. Indicativa di questo processo di trasformazione è la vicenda dell’Accademia degli Umidi, fondata a Firenze nel 1540, che si fece espressione di tendenze letterarie municipali, collegandosi alla tradizione di spregiudicata indipendenza propria, anche sul piano linguistico, della cultura fiorentina. L’intromissione di Cosimo I nelle vicende interne dell’Accademia determinò la sua trasformazione in un’istituzione ufficiale (l’Accademia fiorentina), a cui furono demandati anche i compiti dell’insegnamento universitario. Anche le università, depositarie della cultura e delle forme più alte del sapere, risultano infatti sempre più sottoposte al controllo del potere.

La voce dei testi | Autore: Baldesar Castiglione | operA: Cortegiano, I, capp. IV-V

La corte di Urbino In questi due brevi capitoli (il IV e il V del libro I) la corte di urbino rappresenta la “cornice”, la scena in cui si svolgeranno i dialoghi riferiti da Baldesar castiglione nel Cortegiano, l’opera che più di ogni altra ha esaltato, con una risonanza a livello europeo, gli ideali artistici e intellettuali della civiltà del rinascimento.

Erano adunque tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi così del corpo come dell’animo; ma perché il signor Duca1 continuamente2, per la infirmità3, dopo cena assai per tempo4 se n’andava a dormire, ognuno per ordinario5 dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga6 a quell’ora si riduceva7; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emilia Pia8, 5 la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio9, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore10. Quivi adunque i soavi11 ragionamenti e 1. il signor Duca: Guidubaldo da Montefeltro, duca d’Urbino (1472-1508). 2. continuamente: ordinariamente. 3. infirmità: il duca era ammalato di gotta (malattia dovuta ad un elevato deposito di acido urico nei tessuti) ai piedi. 4. assai per tempo: molto presto. 5. per ordinario: di solito, abitualmente. 6. elisabetta Gonzaga: moglie del duca (1471-1526). 7. si riduceva: si riuniva, conveniva raccogliendosi.

8. emilia pia: vedova di un fratello naturale del duca, donna colta e intelligente. 9. giudicio: accortezza, intelligenza pratica. 10. valore: illuminato dall’intelligenza pronta di Emilia ognuno dei presenti riesce a valorizzarsi, a fare entrare cioè nel circuito della comunicazione, del dialogo, le sue qualità e le sue conoscenze. 11. soavi: dolci, graditi.

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L’età del Rinascimento

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l’oneste facezie12 s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente13 che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo14 della allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quello che già di sopra ho detto15, a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà16 o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo17 era tra le donne con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commerzio18; ché a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la reverenzia19 che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno20; né era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi21, oltre agli argutissimi sali22, d’una graziosa e grave maestà23; ché quella modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva24 della signora Duchessa, motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai più25 veduta non l’avesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E così nei circostanti imprimendosi26, parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse27; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi dalla presenzia d’una tanta e così virtuosa signora […]. Ma lassando questo, dico che consuetudine di tutti i gentilomini della casa era ridursi sùbito dopo cena alla signora Duchessa; dove, tra l’altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponeano belle questioni28, talor si faceano alcuni giochi ingeRaffaello Sanzio, Ritratto di Baldesar Castiglione, niosi ad arbitrio29 or d’uno or d’un altro, ne’ 1514-15, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre. 30 quali sotto varii velami spesso scoprivano i 12. facezie: amenità, “trovate”, giochi di parole, racconti arguti e piacevoli. Alle «facezie» vere e proprie è dedicata una parte cospicua del II libro del Cortegiano (capitoli XLII-XCII), dove vengono individuate tre tipi di facezie: il «ragionar lungo e continuato», il «detto pronto ed acuto», le «burle». 13. talmente: tanto (anche in seguito). 14. il proprio albergo: il vero ricovero, la vera sede. 15. lassando … detto: al di fuori dell’onore che a ciascuno di noi perveniva dal servire un tale signore (generoso e così degno di stima) come quello di cui ho già parlato più sopra, cioè il duca Guidubaldo. 16. concordia di voluntà: accordo di desideri (cordiale, poco dopo, significa “profondo”, “proveniente dal cuore”). 17. Il medesimo: la medesima cosa. 18. commerzio: rapporto, consuetudine. 19. reverenzia: rispetto. 20. libertà … freno: è qui espresso un concetto di una profondità e di un’importanza notevoli, il quale serve a comprendere la genesi del dialogo che è alla base del trattato di Castiglione. La libertà, al di là dell’obbligo dell’uo-

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mo di corte che deve “servire” il signore, è rintracciata nel freno che ciascuno pone a se stesso per non offendere gli altri, per uniformarsi cioè a un modello di condotta ideale. 21. conditi: mescolati, abbelliti. 22. sali: sono le facezie di prima, i motti scherzosi e arguti. 23. graziosa … maestà: nobiltà piena di grazia e dignità. 24. componeva: caratterizzava e ordinava, armonizzandoli. 25. mai più: non ancora. 26. imprimendosi: i soggetti sottintesi sono “modestia” e “grandezza”. 27. temperasse: uniformasse, accordasse. 28. questioni: temi da discutere o discussioni (anche, talvolta, “quesiti”, “dispute”). 29. ad arbitrio: secondo la scelta e la direzione (anche il piacere). 30. velami: forme velate, espedienti; motti e gesti “segreti” che potevano venire decifrati come un’allegoria. Il messaggio era nascosto vuoi per gioco vuoi per riservatezza, soprattutto – ed era cosa sovente – là dove si faceva veicolo di una speranza d’amore (a chi più loro piaceva, la persona di cui ci si era invaghiti, innamorati).

Il contesto · Società e cultura

circonstanti allegoricamente i pensier sui a chi più loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni31 di diverse materie, o vero si mordea con pronti detti32; spesso si faceano imprese33, come oggidì chiamiamo; dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni […].

31. disputazioni: contese, accese discussioni (poi ragionamenti). 32. si mordea … detti: ci si punzecchiava con battute ironiche, rapide e taglienti. 33. imprese: figure, disegni accompagnati da brevi frasi molto ingegnose e talora sibilline, celanti anche diversi sensi possibili.

Solitamente si trattava di sentenze, di massime. Nelle corti del Rinascimento italiano scrivere imprese divenne un’attività così popolare che in seguito persino grandi autori come Tasso vi si dedicarono, dando vita a un vero e proprio filone letterario.

Guida alla lettura Urbino, la corte ideale La suddivisione della giornata in varie occupazioni indica subito quel-

la misura di ordine ben regolato, che rappresenta l’ideale di un alto equilibrio mondano e sociale; viene in mente il Decameron, che proprio a questo succedersi di compiti e di mansioni aveva affidato la ricomposizione dei valori di civile convivenza sconvolti dalla peste. Ma si trattava, per il Decameron, di una finzione letteraria, mentre qui il Castiglione indica nella corte dei Montefeltro, a Urbino, un termine storico di riferimento, in cui si incarna e si concretizza il valore della sua proposta. Questa si basa, in primo luogo, su un ideale di completezza, che, riguardando gli «esercizi così del corpo come dell’animo», si richiama direttamente ai princìpi elaborati dalla pedagogia umanistica. Viene ripreso anche il tema boccacciano della “brigata”, trasferito nell’ambito della corte; ad esso si collega, sul piano delle soluzioni letterarie, il motivo dei «soavi ragionamenti» e delle «oneste facezie», che, all’interno della discussione, offre lo spazio all’elemento novellistico. L’atmosfera gioiosa ed armonica della corte Il quadro che si delinea (l’autore stesso usa il termine «ritratto», suggerendo una interpretazione di tipo visivo e pittorico) è soffuso da un’atmosfera di gioiosa e serena compostezza, che viene tradotta in parole ed espressioni come «gioconda ilarità», «albergo della allegria», «la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva», «a tutti nascea nell’animo una summa contentezza». L’insistenza su questi particolari ricrea il clima di una superiore e pura armonia, reso possibile da un’assoluta «concordia di voluntà o amore cordiale». Tutta la perfezione ideale che si respira nei saloni della corte fa capo alla duchessa e da lei emana, come un fluido di cordiale simpatia e di altissima spiritualità. Ponendosi al vertice di tutti questi valori, la sua figura viene presentata come un sublime e indiscusso modello: «pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore». Il principio dell’imitazione e la vita sociale Il principio dell’imitazione, proprio della cultura rinascimentale, passa dalla letteratura alla pratica sociale e mondana, risolvendosi in un costume di vita e in una forma superiore di civiltà. Sono da sottolineare, in tale ambito: l’intenzione pedagogico-formativo («maestra»); il richiamo esplicito allo «stile», come scopo e risultato dell’imitazione; la presenza della «norma», in quanto regola e unità di misura del comportamento dell’uomo. La «qualità e forma» di questa figura ideale è la sintesi di ogni più alta ispirazione, il segno vivente di quell’armonia che dà ordine e proporzione a tutte le cose. Proiezione quasi divina di un’assoluta perfezione, essa riunisce gli elementi contrastanti e contempera in sé, armonizzandole, tutte le differenze: «la medesima libertà era grandissimo freno»; «onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa e grave maestà». 135

L’età del Rinascimento

Il divertimento come esercizio dell’intelligenza Il contemperamento di piaceri diversi, il

cui valore risiede prima di tutto nell’equilibrio e nel decoro formale, riguarda anche il divertimento e lo svago, che non sono mai fine a se stessi, ma si risolvono in un gioco dell’intelligenza, come interpretazione critica o esercizio letterario («belle questioni», «giochi ingeniosi», «sotto varii velami… allegoricamente», «altre disputazioni», «pronti detti», «imprese»). La letteratura penetra profondamente nella vita, ed entrambe sono sottoposte a uno stesso criterio di valutazione estetica, nella dimensione di un sublime raffinato e aristocratico. Se si considera che la «regina» è circondata da «nobilissimi ingegni» (costante è, in tutto il brano, l’uso del superlativo), si avrà un’idea della forza e del prestigio del modello civile e culturale proposto in questa pagina dal Castiglione, che ricorderà subito dopo molti fra i più noti intellettuali del tempo, quasi a volerne storicizzare le presenze in un quadro esemplare.

4

Trasformazione del pubblico e figure intellettuali Il pubblico

Un pubblico elitario

La rivoluzione della stampa

Nella maggior parte dei casi l’opera letteraria nasce nella corte e in quello stesso ambiente ha il suo pubblico di riferimento, poiché i primi fruitori del testo sono spesso il principe e i cortigiani. Anche quando si diffonde nel tessuto sociale, la fruizione letteraria riguarda sempre gruppi assai ristretti, per lo più riducibili all’aristocrazia e alla ricca borghesia, un pubblico elitario che corrisponde molto bene alle caratteristiche raffinate della letteratura cinquecentesca; si viene così a creare un distacco sempre più radicale dalle masse popolari e dai ceti inferiori della popolazione, afflitti da un tasso altissimo di analfabetismo. Questo non significa, ovviamente, che ci troviamo di fronte a un sistema statico e chiuso. L’introduzione della stampa, che si afferma in maniera netta e definitiva nella prima metà del Cinquecento, dà un impulso decisivo alla diffusione dei testi letterari. I volumi a stampa, prodotti a costi molto inferiori e in tempi molto più rapidi, consentono un’ampia circolazione della letteratura e introducono per la prima volta il concetto di pubblico in senso moderno. Le opere non sono più composte soltanto per altri intellettuali o per la lettura di fronte a un uditorio, ma raggiungono direttamente il lettore attraverso il libro, che può essere più facilmente acquistato e liberamente usato.

L’editoria di mercato Un nuovo ruolo per la letteratura e per l’intellettuale

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La letteratura abbandona così il suo carattere specialistico per diventare un fatto mondano e di costume e può risultare, in questo modo, un investimento economico e un valore di mercato, destinato a modificare la collocazione sociale dello scrittore, che comincia a considerare questa attività come una possibile fonte di guadagno. Di qui la particolare attenzione nei confronti del pubblico, che può decretare il successo, anche da un punto di vista materiale, di un’opera o di un autore. Sono, questi, i primi segni di un’editoria di mercato, che si consolida soprattutto a Venezia, dove sono attivi i maggiori editori del tempo (basti ricordare Aldo Manuzio) e dove si forma un gruppo di intellettuali che svolgono mansioni editoriali.

Il contesto · Società e cultura L’editoria sostiene le tendenze anticonformiste

Crescita culturale e leggi di mercato

Comparsa delle mode letterarie

Questi ultimi sono spesso autori di scritti anticonformistici e bizzarri, composti anche per venire incontro alle esigenze e alle richieste del pubblico. L’editoria, in questo senso, crea nuovi spazi per soddisfare i gusti diversi da quelli della cultura ufficiale della corte e trovano così modo di affermarsi anche tendenze che esprimono concezioni irriverenti e antidogmatiche: ci riferiamo, in particolare, alle diverse forme dell’“anticlassicismo”. La personalità più rappresentativa di questa nuova situazione è Pietro Aretino (1492-1556), che sfrutta abilmente le nuove possibilità offerte dal mercato librario mettendo la sua penna al servizio del migliore offerente. Si comincia quindi a individuare, nell’ambito della vicenda editoriale, un duplice movimento: da un lato la capacità di promuovere la crescita culturale e la sensibilità estetica del pubblico; dall’altro l’esigenza di venire incontro ai gusti e alle attese dei lettori a scopo di profitto. Anche se non è possibile dividere i due momenti, quest’ultimo è certo uno dei modi più sicuri per ottenere il successo dell’opera, secondo una legge, propria del mercato editoriale, che raggiungerà le sue più tipiche espressioni nella letteratura dall’Ottocento a oggi, oramai pienamente inserita in un sistema di rapporti capitalistici e industriali. Nel Cinquecento, un simile processo è appena agli inizi, ma già lascia intravedere segni evidenti, soprattutto per quanto riguarda i generi più apprezzati e amati da un pubblico medio. È il caso della poesia “petrarchista”, che non corrisponde solo alle scelte di una poetica precisa, ma diventa anche un fenomeno alla moda, destinato a incontrare una grande diffusione.

L’intellettuale cortigiano A Firenze sopravvive ancora, agli inizi del secolo, una figura di intellettuale che si può ricondurre nel solco della tradizione comunale e repubblicana, sia per il suo impiego presso le istituzioni cittadine (Machiavelli fu segretario della seconda cancelleria nella Repubblica fiorentina) sia per il suo rapporto con le professioni civili (il Lasca, autodidatta, era uno speziale); ma si tratta di una figura ormai in netto declino.

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L’ e d i t o r i a : a s p e t t i s o c i a l i e c u l t u r a l i Introduzione della stampa

Aristocrazia e alta borghesia si avvicinano alla fruizione letteraria

Ampliamento del pubblico

EDITORIA DI MERCATO

Diffusione delle mode letterarie

Trasformazione della figura dell’intellettuale

Differenziazione dell’offerta culturale

Gli scrittori hanno la possibilità di raggiungere l’indipendenza economica attraverso la vendita delle proprie opere

I gusti e le scelte del pubblico decretano il successo di alcuni generi letterari non convenzionali

La letteratura diventa un fenomeno mondano e di costume

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L’età del Rinascimento Il ruolo dell’intellettuale a corte

Castiglione e la celebrazione del perfetto cortigiano

Aretino e la critica del mecenatismo Ambiguità della condizione intellettuale

Risulta invece prevalente, in questo periodo, la condizione del letterato cortigiano, che vive alle dipendenze del principe, oppure cerca una sistemazione nelle gerarchie della Chiesa. Quando non sia egli stesso un nobile, il letterato si pone al servizio delle grandi casate aristocratiche, da cui viene stipendiato, ottenendo protezione e favori, che a sua volta contraccambia, svolgendo anche mansioni di tipo amministrativo o di rappresentanza diplomatica. Ma soprattutto paga il suo debito attraverso la letteratura, che può divenire una sorta di professione particolarmente apprezzata e lucrosa, quando soddisfi le esigenze del potere. La figura del cortigiano e quella dell’intellettuale finiscono ben presto per coincidere, come appare evidente nel Cortegiano di Baldesar Castiglione (1478-1529 cap. 1, A2, p. 156), che delinea il ritratto del perfetto uomo di corte, come sintesi delle più alte qualità sociali e culturali ( cap. 1, T2, p. 157). Pietro Aretino, nella sua polemica rappresentazione della vita della corte, ci mostra invece il negativo di questa condizione: l’adulazione come pratica servile, le umiliazioni subite, la perdita di ogni dignità. Da un lato infatti la protezione e gli onori accordati dal principe accrescono il prestigio sociale ed economico dell’intellettuale, dall’altro comportano la perdita della sua indipendenza, la rinuncia ad autonome iniziative di intervento e a ogni forma critica di contestazione o di dissenso. Il rapporto non è certo paritetico e può in ogni momento, e per qualsiasi ragione, subire vistose alterazioni, fino a essere troncato e disdetto da chi esercita il potere. Si aggiunga, tra i più frequenti fattori di disturbo, anche il clima di accesa competizione, quell’“invidia” fra i cortigiani che diventerà un diffuso motivo letterario.

La condizione precaria degli intellettuali La crisi politica, economica e culturale delle corti

L’esigenza di stabilità degli intellettuali

Il distacco dai problemi sociali

L’intellettuale indipendente

La progressiva perdita di potere delle corti che si verifica intorno agli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento si riflette in ambito culturale nella crisi che investe il ruolo degli intellettuali, ai quali sempre meno vengono richieste prestazioni culturali e sempre più il disbrigo di mansioni burocratiche, tanto da trasformarli spesso nella figura subalterna di segretari. Non sentendosi più interamente tutelato e soddisfatto nelle sue aspirazioni, l’intellettuale cercherà così una nuova identità in altre forme di aggregazione, come le accademie, che non a caso raggiungono una grande diffusione a partire da questo periodo. La ricerca di una stabile collocazione sociale ed economica induce anche non pochi scrittori a intraprendere una carriera religiosa, che dà diritto al godimento di particolari rendite e benefici, offrendo maggiori garanzie di sicurezza. Sia esso “chierico” o “laico”, l’intellettuale cortigiano si allinea alle direttive del potere, divenendo l’interprete dell’ideologia e delle concezioni di élites sociali molto selezionate e ristrette. Di qui il suo distacco da più vaste problematiche storico-politiche, mentre la produzione letteraria conserva un carattere prevalentemente aristocratico, lontano dalle esigenze di un pubblico vasto e socialmente articolato. Una collocazione alternativa a quella della corte, sebbene ancora molto parziale e limitata, comincia a essere offerta dall’editoria, che richiede nuove qualifiche e capacità professionali, coinvolgendo gli scrittori nelle diverse fasi della produzione del libro. In questo campo si delinea a poco a poco una nuova figura di intellettuale “indipendente”, che non deve più rispondere alle richieste di un committente, ma cerca di assecondare i gusti e le attese del suo pubblico.

Facciamo il punto 1. In che cosa consiste l’editoria di mercato? Quali novità introduce in campo letterario? 2. Per quale motivo la condizione degli intellettuali nel Cinquecento diventa precaria? 3. Che importanza riveste Firenze come centro di elaborazione culturale nel XVI secolo? 4. Quale trasformazione subiscono le accademie rispetto all’età umanistica?

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Il contesto

Storia della lingua e fenomeni letterari

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La questione della lingua La ricerca di un’unità linguistica

Uno degli aspetti dominanti della cultura del Cinquecento è costituito dalle discusFilo rosso sioni linguistiche, che si susseguono per tutto il secolo e rappresentano un’esigenza Storia della lingua profonda, decisiva per le sorti stesse della letteratura in un Paese come l’Italia, privo di unità politica e di uno stabile punto di riferimento culturale. Le scelte linguistiche La scelta del latino come strumento della comunicazione letteraria, compiuta da molti di età umanistica intellettuali del primo Quattrocento, esprimeva un’esigenza di universalità e di unità culturale, sia pure raggiunta attraverso una soluzione artificiale e forzata, incapace di resistere a lungo. In seguito, il ritorno al volgare si realizza soltanto dopo il riconoscimento della pari dignità rispetto al latino, tenendo conto del grado di elaborazione formale raggiunto e dell’eccellenza della tradizione a cui faceva riferimento. Se la letteratura latina veniva considerata classica per definizione, anche la letteratura italiana aveva oramai raggiunto un grado di perfezione che le consentiva di essere ritenuta tale.

La teoria del classicismo volgare Il nuovo canone di Pietro Bembo

Il carattere “astratto” della soluzione classicista

Questa concezione idealistica, elaborata dalla cultura cinquecentesca, è all’origine del classicismo rinascimentale e dei suoi canoni: eleganza, armonia, equilibrio, misura, ordine, proporzione. Ma una poetica del classicismo è possibile soltanto se sono disponibili modelli ideali e universalmente riconosciuti, quali erano stati, per la latinità, Cicerone e Virgilio. Era necessario compiere un’operazione analoga per la letteratura italiana, proprio per poter legittimare la nozione stessa di “classico” e il canone dell’“imitazione” che ne doveva derivare. Se ne fa promotore e teorico il veneziano Pietro Bembo: egli nelle Prose della volgar lingua (1525), propone una soluzione puristica e convenzionale che, isolando alcune esperienze letterarie del passato ritenute esemplari (fondamentalmente Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa, Il canone bembiano, p. 140), le propone come modelli di imitazione. In Italia continuava a esistere una grande varietà di forme linguistiche e dialettali, e di fronte a questa realtà la soluzione bembiana aveva il merito di rivendicare e di ribadire l’aspirazione a un’unità letteraria che consentisse di superare la frammentazione politica e le delusioni della storia, opponendo ad esse il primato dell’arte e della cultura. Ma la forza di questa posizione contiene anche dei limiti evidenti: la lingua voluta da Bembo risulta in parte frutto di un’operazione astratta e arbitraria, in quanto non coincide con quella dell’uso né può essere da questa rinnovata. Tale lingua è considerata immutabile, ed è questa la condizione perché possa esprimersi, attraverso di essa, una letteratura “classica”, che tuttavia, proprio per queste ragioni, rischia di risultare troppo stilizzata, irrigidita, poco duttile e maneggevole. La proposta bembiana risulterà comunque egemonica, dettando le leggi del gusto dominante nel corso del secolo e rispondendo alle attese di un pubblico assai selezionato e ristretto. 139

L’età del Rinascimento

La teoria cortigiana e la teoria fiorentinista Il modello della lingua parlata nelle corti italiane

Il modello del fiorentino contemporaneo

Le soluzioni alternative

Accanto alla concezione di Bembo altre soluzioni erano state avanzate, in un confronto-scontro che sottolinea l’urgenza del problema, vitale per l’esistenza stessa della letteratura. La prima è la soluzione “cortigiana” o “italiana”, proposta da Gian Giorgio Trissino (1478-1550) nel dialogo Il castellano, del 1529. A farsene assertore era stato soprattutto Baldesar Castiglione (nel primo libro del Cortegiano), che l’aveva vigorosamente ribadita con il prestigio del suo esempio. Secondo questa tesi, il linguaggio letterario doveva ispirarsi alla consuetudine delle conversazioni nelle corti dell’Italia, raccogliendo, in mancanza di un centro unificatore, il meglio dei risultati provenienti dalle varie parti della penisola. Anche la proposta di Baldesar Castiglione, come quella bembiana, si basava su un’astrazione, ma il suo merito consisteva nel voler agganciare lo stile letterario a una lingua che risultasse effettivamente parlata e disponibile alle innovazioni e alle sperimentazioni. Nella realtà italiana però esistevano diverse corti, geograficamente distinte e caratterizzate da numerose varietà linguistiche e in tali condizioni il progetto di una duratura unità linguistica si mostrava per molti aspetti improponibile. Più direttamente ispirata all’uso è la soluzione “fiorentinista”, che ebbe come portavoce, tra gli altri, Niccolò Machiavelli. Essa si basa non sul fiorentino letterario, come nella teoria del classicismo volgare, ma su quello effettivamente parlato, vivacemente espressivo e mutevole. Nemmeno questo progetto poteva avere la forza per imporsi, per il suo carattere troppo limitato e circoscritto, oltre che per la perdita del ruolo propulsivo della città di Firenze. Contrapposte e intrecciate, le varie teorie linguistiche animano la vicenda culturale e letteraria del secolo. La prevalenza di quella di Bembo, che meglio corrisponde ai gusti del classicismo rinascimentale, non annulla le tendenze antagonistiche ma segna una linea dominante, soprattutto per quanto riguarda la letteratura ufficiale e i generi più codificabili, come la lirica. La realtà delle opere letterarie appare tuttavia più mossa e variegata di quanto potrebbe a prima vista sembrare. Nonostante la forte tendenza livellatrice e “monolinguistica”, molti testi fanno uso di un linguaggio spregiudicatamente libero e indipendente.

Microsaggio

Il canone bembiano la teoria del classicismo volgare si basa sulla proposta di un modello linguistico convenzionale che Pietro Bembo elabora partendo dal riconoscimento dell’eccellenza del fiorentino letterario usato da due grandi autori trecenteschi, Petrarca e Boccaccio. l’autorità di Petrarca si riferisce all’esperienza del Canzoniere e condizionerà gli sviluppi della lirica cinquecentesca, dando vita al fenomeno del “petrarchismo”. I versi petrarcheschi potevano fornire l’esempio di un linguaggio poetico scorrevole e musicale, ottenuto con parole accuratamente scelte e disposte secondo un gusto squisito delle corrispondenze: in questo stile si identificava il senso dell’equilibrio e delle proporzioni proprio della visione del mondo rinascimentale. Si aggiunga che, anche da un punto di vista tecnico, la poesia petrarchesca poteva essere più facilmente imitabile, in quanto il linguaggio usato si basava su un catalogo di vocabo-

140

li limitato (il cosiddetto “monolinguismo”), che si prestava facilmente a essere codificato. In conseguenza di questa scelta si comprende dunque l’esclusione di Dante dal canone degli autori “classici”, poiché il suo “plurilinguismo”, aperto nei confronti dei più disparati aspetti del reale e disponibile all’uso di registri anche bassi e plebei, doveva essere giudicato da parte dell’aristocratica sensibilità rinascimentale una scelta rozza e primitiva. anche con Boccaccio, però, i conti non potevano tornare facilmente. Molte novelle del Decameron rappresentavano infatti aspetti comici e bassi della realtà. Non a caso Bembo opera una selezione all’interno del testo: il Boccaccio da proporre all’imitazione dei prosatori è quello della cornice e delle novelle tragiche (quella di tancredi e ghismunda, per esempio), dove lo stile appare più elevato e ricercato, lontano da una “mimesi” diretta del vissuto e del quotidiano.

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

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La questione della lingua: tesi a confronto AUTORE

OPERA

Pietro Bembo

Prose della volgar lingua

Gian Giorgio Trissino

Il castellano

Baldesar Castiglione

Cortegiano

Niccolò Machiavelli

Discorso intorno alla nostra lingua

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MODELLO LINGUISTICO PROPOSTO

La lingua “ideale” coincide col fiorentino letterario del Trecento: per la poesia il modello è rappresentato dal Canzoniere di Petrarca, per la prosa dalla “cornice” e dalle novelle tragiche del Decameron di Boccaccio. Si tratta dunque di modelli storicamente dati, ma squisitamente letterari, che esprimono una lingua pura e selettiva, lontana da quelle parlate nelle varie regioni italiane Il linguaggio letterario deve ispirarsi a quello in uso nelle corti italiane, raccogliendo da ciascun contesto le forme più eleganti. Si tratta di una lingua “astratta”, inesistente, anche se modellata su quelle realmente parlate negli ambienti cortigiani di tutta Italia

Il modello linguistico proposto è il fiorentino, ma non quello letterario trecentesco, bensì quello realmente parlato

Forme e generi della letteratura rinascimentale La trattatistica

Il trattato politico: Machiavelli

Il trattato è il genere letterario che più compiutamente rappresenta le tendenze dell’età rinascimentale, in quanto consente di esporre e dibattere i problemi più urgenti e significativi avvertiti dalla cultura del tempo, proponendo al tempo stesso dei modelli particolarmente elevati e selezionati. La sua forma può essere “monologica”, quando è organizzato come se a parlare fosse una sola persona, o “dialogica”, quando si risolve in un dialogo fra più interlocutori. In questa veste l’elaborazione è spesso particolarmente articolata e complessa, in quanto utilizza elementi provenienti da altri generi: la narrazione, con il possibile inserimento di aneddoti, esempi e novellette; la stilizzata descrizione ambientale, che funge anche da “cornice”; la discussione teorico-dottrinale; lo schema teatrale, costituito appunto dalle battute del dialogo. Per quanto riguarda gli argomenti politici, la situazione storica stava rapidamente mutando e avrebbe finito per restringere gli spazi di una autonoma riflessione critica. Se nel Quattrocento si discute ancora sulla forma di governo (repubblica e principato), o sui grandi temi della libertà e della democrazia, l’affermazione dei principati come forma di governo assoluto toglie forza a questo dibattito e impone soprattutto di affrontare la questione della debolezza dell’Italia, divisa in tanti piccoli Stati, di fronte al consolidarsi delle grandi potenze europee. Questi problemi sono al centro del più famoso trattato rinascimentale, il Principe (1513) di Niccolò Machiavelli ( cap. 6, p. 356), che avrà anche nei secoli successivi una straordinaria risonanza europea (ad esempio sarà ancora letto e commentato da Napoleone). 141

L’età del Rinascimento I trattati sul costume e sul comportamento

Il capovolgimento dei modelli

Ma la trattatistica sul comportamento è forse il prodotto più rappresentativo dell’età rinascimentale, in quanto si propone come una sorta di bilancio esemplare, codificando i princìpi e i valori su cui si era venuta edificando la nuova civiltà. A orientare i modi della sensibilità e del gusto sarà Pietro Bembo ( cap. 1, A1, p. 151), che, negli Asolani (1505), applica i canoni del neoplatonismo all’amore, considerato come un’esperienza puramente spirituale; lo stesso Bembo, nelle Prose della volgar lingua (1525), stabilisce i criteri del classicismo rinascimentale, indicando con precisione i modelli da imitare: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Proverbiale è diventata un’opera come il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa, libro delle buone maniere che si rivolge a un pubblico medio; sulla vita delle corti, e sul modo di comportarsi dei gentiluomini e delle gentildonne, si sofferma invece il Cortegiano (1528) di Baldesar Castiglione ( cap. 1, A2, T2, p. 157), che otterrà una immediata risonanza, offrendosi come modello di comportamento elegante e raffinato per le stesse grandi monarchie europee e per le loro rappresentanze diplomatiche. Ma esiste anche, nell’ambito del cosiddetto “anticlassicismo”, il rovesciamento dei contenuti ideali e sublimi proposti dalla trattatistica rinascimentale: se ne fa carico Pietro Aretino ( cap. 4, A2, p. 198), che nei Ragionamenti dissacra le convenzioni dell’amore platonico, mentre nel Dialogo delle corti smaschera ogni visione idilliaca dell’ambiente cortigiano, mostrandone la corruzione e la falsità.

La storiografia

Guicciardini e la nascita della storiografia moderna

A differenza del classicismo di Machiavelli (per il quale l’«esperienza delle cose moderne» non può rinunciare alla «lezione delle antique»), per Francesco Guicciardini ( cap. 7, p. 470) il passato non ha più alcun valore esemplare e la storia non può quindi essere considerata “maestra di vita”. È quanto si ricava anche dall’opera più autobiografica, i Ricordi, che, per la loro struttura discontinua e frammentaria, finiscono per dissolvere la forma umanistico-rinascimentale del trattato. Se Machiavelli è l’inventore della scienza politica, a Guicciardini – per le sue capacità di analisi, libere da ogni condizionamento – si può attribuire il merito di avere inaugurato la moderna storiografia. Ricondotte a una dimensione puramente umana, le vicende storiche sono viste come terreno di scontro delle volontà e delle ambizioni dei potenti.

La letteratura dei viaggi e delle scoperte geografiche Le relazioni dei grandi esploratori

Rielaborazioni e raccolte

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Il restringersi degli orizzonti storico-politici contrasta con l’aprirsi di nuovi spazi geografici, di cui recano notizia i primi esploratori oceanici. Nella Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel Sánchez del 1493 ( L’età umanistica, Il contesto, p. 7), in cui annunciava la scoperta dell’America, Cristoforo Colombo descrive la bellezza, la vastità del paesaggio e l’indole pacifica degli abitanti, che, pur nella diversità dei costumi, sembra prospettare un facile processo di conquista e di assimilazione. Si delinea sin d’ora il motivo del “buon selvaggio”, che tanta fortuna avrà nella letteratura successiva. Addirittura opposto sarà il giudizio di Amerigo Vespucci, che scava un solco fra la mentalità europea e le abitudini degli indigeni: questi «vivono secondo natura» e, praticando la poligamia e la comunanza dei beni, «non tengono né legge né fede nessuna». Non resta quindi che sottometterli con la forza, costringendoli alla conversione o condannandoli al massacro. Ai nomi di Colombo e di Vespucci si possono aggiungere quelli di Antonio Pigafetta, che partecipò alla spedizione di Magellano, e di Giovanni da Verazzano, che esplorò le coste dell’America settentrionale. L’infittirsi delle testimonianze consentiva anche di giungere a una prima storia dei viaggi oceanici, le Decadi del nuovo mondo, scritte in latino da Pietro Martire d’Anghiera e tradotte a Venezia da Andrea Navagero (1483-1529). Una fondamentale raccolta delle relazioni di viaggio è quella messa insieme, a partire dal 1550, da Giambattista Ramusio (1485-1557), con il titolo Navigazioni e viaggi, pubblicata a partire dal 1550; in essa

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

venivano codificate anche le forme letterarie di un genere che prima – salvo casi sporadici – non esisteva e che avrebbe avuto in seguito grandi esponenti, fino al secolo scorso.

La novella

La scelta comica degli autori fiorentini

La contaminazione con la fiaba Sperimentazioni ed eccessi

La proposta classicista di Pietro Bembo, che si basava sull’imitazione della prosa raffinata ed elegante della cornice e delle novelle tragiche contenute nel Decameron di Boccaccio, trascurava in modo eccessivo l’elemento del comico, che della novellistica ha sempre rappresentato la parte dominante. Non stupisce allora che soprattutto gli autori fiorentini di novelle, per nulla disposti a rinunciare a un aspetto ritenuto essenziale per la loro scrittura, si rifacciano alla lingua dell’uso anziché al modello purista bembiano; ma anche in questi casi il tentativo di riproporre lo schema boccacciano era destinato al fallimento. Incompleti sono sia i Ragionamenti di Agnolo Firenzuola (1493-1543) sia le Cene di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca ( cap. 3, A1, p. 180); queste ultime si muovono in un’atmosfera “carnevalesca”, privilegiando le scelte bizzarre e grottesche. La ricerca di nuove soluzioni espressive spinge Giovan Francesco Straparola (vissuto nella prima metà del XVI secolo), nei due libri delle Piacevoli notti (1550 e 1553), a integrare i racconti con gli elementi della fiaba, ricavati dal repertorio delle tradizioni popolari. Nel suo Novelliere, Matteo Maria Bandello ( cap. 3, A2, p. 184) abbandona l’espediente della cornice e fa precedere le novelle da una lettera dedicatoria, rivolta a illustri esponenti del mondo di corte; all’erotismo delle novelle comiche si affiancano le soluzioni esasperate delle novelle tragiche. La ricerca del macabro e dell’orrido raggiunge alcune delle più tipiche espressioni negli Ecatommiti di Giraldi Cinzio (1504-73); le novelle di questa raccolta sono inserite all’interno di una cornice e sono caratterizzate da un cupo e dogmatico moralismo, già partecipe del clima della Controriforma.

Il poema cavalleresco Boiardo e Ariosto

L’idea di riprendere il patrimonio letterario dei secoli precedenti e di portarlo a perfezione anima uno dei capolavori assoluti del primo Cinquecento, l’Orlando furioso (prima edizione 1516) di Ludovico Ariosto ( cap. 5, p. 243), con cui culmina la lunga stagione delle gesta epico-cavalleresche, dalla Chanson de Roland all’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo.

Queste sono le nuove persone trovate…, foglio con incisione colorata dal Mundus Novus di Amerigo Vespucci, Lipsia 1505.

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L’età del Rinascimento L’eccellenza dell’Orlando furioso

Folengo e la parodia dell’epica

Da quest’ultimo poema Ariosto recupera tematiche e personaggi, ma la ripresa comporta anche un profondo diversificarsi dell’atteggiamento e dei risultati, a partire dall’armonica scioltezza e levigatezza dello stile, sempre più orientato nella direzione indicata dal Bembo. All’adesione sentimentale e nostalgica nei confronti della materia trattata si sostituisce però il distacco critico di un’ironia che esalta l’inesauribilità dell’invenzione fantastica, come pura narrazione e libertà di un’espressione unicamente riferibile al superiore controllo, senza freni e inibizioni, dello scrittore. Nell’ambito dell’anticlassicismo va inserita l’ardita sperimentazione di Teofilo Folengo ( cap. 4, A3, p. 205), il maggior esponente della letteratura cosiddetta “maccheronica”, che usa un impasto di latino contaminato con elementi linguistici volgari e dialettali. La sua opera principale è un poema intitolato Baldus, dal nome del protagonista, un giovane scapestrato e ribelle che ripropone, degradandole, le avventure degli eroi cavallereschi. Tra denuncia “realistica” della condizione contadina e trasfigurazione fantastica del reale, il Baldus si propone come un’irriverente e dissacrante parodia del poema epico, ricca di trovate e di effetti inventivi. Con il Morgante di Pulci, eserciterà una profonda influenza su Rabelais ( Rabelais e le origini del romanzo moderno).

La poesia lirica

Il trionfo del petrarchismo

Il rischio dell’applicazione rigida di un codice e della ripetizione sterile delle forme esteriori, insito nella proposta linguistica di Bembo, se da una parte fu evitato da Ariosto nell’ambito del poema cavalleresco con la sua capacità di imitare i modelli per migliorarli e renderli adatti ai nuovi tempi, dall’altro invece non poté essere eliminato nel campo della poesia lirica, dove l’esempio di Petrarca si impone in modo assoluto e vincolante. Nonostante questo, il cosiddetto petrarchismo resta un fatto particolarmente rilevante, non solo per la sua enorme diffusione (che dà origine a una vera e propria moda, trasformandosi in un fenomeno di costume), ma come indicatore di un gusto e di una particolare idea di letteratura (quella, appunto, dell’imitazione classicistica, che ha avuto momenti di grande fortuna, ma non corrisponde più alla nostra concezione dell’arte); né mancano esempi di forti personalità poetiche, come quella di Michelangelo Buonarroti ( cap. 2, A2, p. 170), uno dei più grandi artisti di tutto il Rinascimento. Il petrarchismo ha inoltre interessato anche altri Paesi europei, come la Spagna e soprattutto la Francia, dove si formerà la scuola della cosiddetta Pléiade sotto la guida di Pierre de Ronsard (1524-85).

Microsaggio

Rabelais e le origini del romanzo moderno Molti critici letterari e teorici della letteratura hanno ricondotto le origini del romanzo moderno al Gargantua e Pantagruele (1534-52) di François rabelais ( cap. 4, A5, p. 220) e al più tardo (1605-15) Don Chisciotte di Miguel de cervantes. la narrativa di rabelais non solo rifiuta ogni regola e misura di impronta classicistica, ma non rientra in nessuno dei generi praticati dal classicismo. la realtà subisce un processo di deformazione abnor-

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me e iperbolica, ai contenuti elevati della tradizione letteraria si accompagna la loro riduzione al livello basso del materiale-corporeo, i generi vengono contaminati fra di loro attraverso una mescolanza dei linguaggi e degli stili che sa raggiungere esiti di sconvolgente plurilinguismo. Vengono così a essere esaltate tutte quelle caratteristiche che saranno poi attribuite al romanzo, inteso come opera non soggetta a leggi prestabilite, aperta e in divenire.

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari Il rovesciamento del modello

Anche nel caso della poesia lirica si assiste al rovesciamento dei canoni classicistici; nasce così il fenomeno dell’antipetrarchismo (il suo esponente più noto è Francesco Berni, cap. 4, A1, p. 194), che, partendo dal modello di Petrarca, ne degrada i significati, attraverso un rovesciamento parodico che riguarda lo stile, le tematiche amorose e, in particolare, la figura femminile.

La letteratura drammatica La commedia

Principali autori comici

La tragedia

Il primo Cinquecento registra anche la nascita della commedia regolare, che si richiama, per la tipologia dei personaggi e i meccanismi dell’intreccio, ai modelli classici di Plauto e Terenzio, anche se non manca l’influsso di Boccaccio per quanto riguarda il motivo della beffa. Nata come spettacolo di corte (a Ferrara, Mantova e Urbino), ma anche ben radicata nell’ambiente municipale fiorentino, la commedia ha avuto tra i suoi cultori alcuni fra i maggiori scrittori del secolo, come Ariosto e Machiavelli. Grande fortuna ebbe, a Mantova, la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena ( Il teatro per immagini, p. 677); a Siena l’Accademia degli Intronati fece rappresentare, nel carnevale del 1531, il testo anonimo Gl’ingannati; nel 1543 Annibal Caro mise in scena Gli straccioni, ambientandoli in una Roma animata da elementi magici. All’ambiente romano è inizialmente legato anche Pietro Aretino, che nella Cortigiana (1525) delinea un quadro crudo e feroce della corte papale. In area veneta si situa l’importante esperienza di Angelo Beolco detto il Ruzante ( cap. 4, A4, p. 211 e Il teatro per immagini, p. 676), che si fa portatore di un discorso teatrale fortemente polemico e alternativo nei confronti dell’ideologia e della cultura cittadine. Notevoli risultati ottiene anche l’anonimo autore della Venexiana, basata su un intreccio di allusioni e giochi erotici che si esprime negli scambi plurilinguistici fra dialetto veneziano, dialetto bergamasco e volgare lombardo. Minore interesse suscita la tragedia, che trova scarsa rispondenza presso i gusti del pubblico, proponendosi piuttosto come un’operazione erudita. A Tito Livio sono ispirate sia la Sofonisba (1515) di Gian Giorgio Trissino sia l’Orazia (1546) di Pietro Aretino ( Il teatro per immagini, p. 671). La traduzione in latino, nel 1536, della Poetica aristotelica alimenta la discussione sui generi letterari e sulle unità di tempo, luogo e azione nella tragedia; uno dei frutti più famosi di questo dibattito è la Canace (1542) di Sperone Speroni. Seguendo il modello classico offerto da Seneca, Giambattista Giraldi Cinzio scrive, negli anni Quaranta, Orbecche, Didone ed Epitia ( Il teatro per immagini, p. 671), poi ripresa da Shakespeare in Misura per misura; prevalgono nettamente i temi truculenti, con il compiacimento per le scene di crudeltà e di sangue.

Facciamo il punto 1. Quali sono le teorie linguistiche principali dell’età rinascimentale? 2. Che cosa si intende per “canone bembiano”? 3. Quali sono i generi letterari (in prosa e in poesia) che meglio rappresentano il gusto delle corti rinasci-

mentali?

145

L’età del Rinascimento

Ripasso visivo

L’ETà DEL RINASCIMENTO (1493-1559)

POLITICA, ECONOMIA E SOCIETà

• affermazione dei grandi Stati europei:

- Francia - Spagna • esplorazioni geografiche • espansione coloniale • lotta per la conquista dei territori italiani • impero di Carlo V (1519-55) • Sacco di roma (1527)

• in Europa:

- affermazione del capitalismo moderno - diffusione della Riforma protestante • in Italia: - rifeudalizzazione dei rapporti sociali - recessione economica - crisi delle corti

CULTURA E MENTALITà

• ricerca di regole e modelli da imitare • mito della perfezione • concezione della bellezza come equilibrio spirituale e ordine razionale

• irrigidimento delle regole, dei valori e degli ideali • concezione sublime ed elitaria della cultura • diffusione dell’anticlassicismo (rifiuto del gusto e delle ideologie ufficiali)

• nascita dell’editoria di mercato: - il pubblico aumenta

- lo scrittore inizia a potersi mantenere autonomamente con il suo lavoro - si diffondono le mode letterarie • crisi della figura dell’intellettuale cortigiano • affermazione della figura dell’intellettuale indipendente • istituzionalizzazione dei luoghi di elaborazione culturale: - corte signorile - accademia - università

LINGUA E LETTERATURA

• discussione sulla lingua letteraria nazionale:

- teoria del classicismo volgare di P. Bembo - teoria cortigiana di g.g. trissino e B. castiglione - teoria fiorentinista di N. Machiavelli • circolazione ampia delle opere e delle tendenze letterarie • formazione di una cultura letteraria unitaria • generi e forme più diffusi: POESIA • epico-cavalleresca • lirica petrarchista

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TEATRO • commedia PROSA • trattato di argomento politico • trattato sul comportamento • trattato di argomento linguistico e letterario • opere storiografiche • relazioni di viaggio • novellistica

In sintesi

L’ETà DEL RINASCIMENTO (1493-1559) Verifica interattiva

LE STRUTTURE POLITIChE, ECONOMIChE E SOCIALI

I CENTRI E I LUOGhI DI ELAbORAzIONE CULTURALE IN ETà RINASCIMENTALE

Nel corso del XVI secolo l’Italia diventa il terreno di scontro delle grandi nazioni europee e perde definitivamente la sua autonomia politica. Nel 1519 sale al trono imperiale carlo V d’asburgo, che riunisce sotto la sua corona anche la Spagna. Per affermare il suo controllo sulla penisola permette ai suoi soldati mercenari, i lanzichenecchi, di entrare in roma e di saccheggiarla (1527). dopo alterne vicende, nella seconda metà del secolo la situazione si stabilizza: il ducato di Milano e il regno di Napoli (con la Sardegna e la Sicilia) passano sotto il controllo spagnolo, mentre tutti gli altri Stati italiani sono costretti a entrare nell’orbita delle grandi potenze straniere. Mentre nel Nord dell’europa si assiste alla nascita del capitalismo moderno, in Italia il processo di “rifeudalizzazione dei rapporti sociali” determina un periodo di grave recessione economica. Questa arretratezza sociale ed economica fa sì che gli Stati italiani rimangano estranei al movimento religioso della riforma protestante, che nasce in germania e si diffonde in tutta europa per combattere i privilegi del clero.

Il classicismo rinascimentale, proprio per la sua esigenza di imporre un modello perfetto da imitare, determina una sostanziale omogeneità delle esperienze artistiche. Sul piano letterario, però, le profonde differenze culturali e linguistiche fra le varie città italiane consentono la sopravvivenza di alcune specificità territoriali. a Firenze, ad esempio, rimane aperta la possibilità di una riflessione storiografica e politica (di cui si occupano Francesco guicciardini e Niccolò Machiavelli), che nel resto d’Italia si era spenta a causa della ridotta libertà di pensiero. a Venezia l’opera del tipografo umanista aldo Manuzio crea le condizioni per il sorgere di una cultura della modernità più vivace rispetto a quelle di tutti gli altri centri italiani. roma non gode di un clima culturale particolarmente favorevole al libero confronto delle idee, ma rimane un importante luogo d’incontro per gli artisti (vi operano Michelangelo e raffaello) e per gli intellettuali di tutta europa. Nel corso del cinquecento la corte costituisce il centro indiscusso della vita politica e dell’attività culturale. al suo interno operano gli artisti e gli scrittori, fissando non soltanto le caratteristiche della letteratura e dell’arte, ma anche i modelli di comportamento e le ideologie. le accademie e le università, nate nel Quattrocento come luoghi di libero incontro tra intellettuali, si trasformano in organismi ufficiali sotto il diretto controllo dei Signori.

LE IDEE E LA VISIONE DEL MONDO Il termine “rinascimento” si riferisce al mito della “rinascita”, che è uno dei cardini della cultura umanistica e consiste nel ritenere che, dopo un periodo buio di decadenza (il Medioevo), la civiltà umana possa tornare all’antico splendore mostrato durante l’epoca classica. I modelli ideologici e letterari vengono individuati in un primo momento soltanto negli autori greci e latini, ma più tardi entrano a far parte del canone da imitare anche gli scrittori italiani del trecento (soprattutto Petrarca e Boccaccio). caratteristici del “classicismo” rinascimentale appaiono la ricerca dell’ideale di perfezione formale e il sentimento della bellezza intesa come equilibrio spirituale e ordine intellettuale. rispetto alla fase umanistica quattrocentesca, che si era mostrata incline a un’idea di cultura in continua evoluzione, il rinascimento rappresenta un periodo culturale più statico e maturo in cui si fissano regole, valori e ideali sul piano artistico e sociale. la reazione a questa concezione sublime ed elitaria della cultura si manifesta attraverso il cosiddetto “anticlassicismo”: sotto questa etichetta generica vengono catalogate tutte le esperienze letterarie che si basano sulla deformazione e sul ribaltamento del gusto e delle mode ufficiali.

TRASFORMAzIONE DEL PUbbLICO E FIGURE INTELLETTUALI un fatto di grande rilievo culturale e sociale è costituito, nel cinquecento, dall’affermazione della stampa, che comporta la nascita di una vera e propria editoria di mercato. Il numero dei lettori aumenta lentamente e la letteratura comincia delinearsi come fenomeno di rilevanza economica. Il rapporto tra lo scrittore e il suo pubblico diventa più stretto e la possibilità di mantenersi con gli introiti del proprio lavoro prospetta per gli intellettuali un più ampio margine di autonomia. la fruizione letteraria però interessa per il momento gruppi assai ristretti, per lo più riducibili all’aristocrazia e alla ricca borghesia, e la corte continua a rappresentare l’ambiente privilegiato per la produzione e la diffusione della cultura. risulta perciò ancora prevalente la figura del letterato cortigiano, che vive alle dipendenze del principe, oppure cerca una sistemazione nelle gerarchie della chiesa. la progressiva perdita di potere delle

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L’età del Rinascimento

corti si riflette nella crisi che investe il ruolo degli intellettuali, ai quali sempre meno vengono richieste prestazioni culturali e sempre più il disbrigo di mansioni burocratiche.

LA qUESTIONE DELLA LINGUA Per quanto riguarda le scelte linguistiche, in età rinascimentale si affermano tre teorie alternative: la prima è quella del “classicismo”, che, sostenuta da Pietro Bembo, propone un modello puristico basato sull’opera di Petrarca e di Boccaccio; la seconda è la soluzione “cortigiana”, elaborata da gian giorgio trissino e Baldesar castiglione e ispirata alla consuetudine linguistica delle conversazioni nelle corti dell’Italia; la terza, sostenuta da Niccolò Machiavelli, è la cosiddetta teoria “fiorentinista”, che individua nel fiorentino contemporaneo il modello linguistico più adatto all’uso letterario. la proposta bembiana risulterà vincente perché rispondeva alle esigenze del pubblico dell’epoca, selezionato e colto.

FORME E GENERI DELLA LETTERATURA RINASCIMENTALE Il genere letterario più frequentato in età rinascimentale è il trattato, che si presta ad esporre gli argomenti più

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vari per fissare regole e modelli. Numerosi sono pertanto i sottogeneri che si possono individuare: il trattato politico (opera di riferimento: il Principe di Niccolò Machiavelli), il trattato sul comportamento (il Cortegiano di Baldesar castiglione e il Galateo di giovanni della casa), il trattato di argomento linguistico-letterario (le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo). Nella prosa si distinguono inoltre le opere di argomento storiografico di Francesco guicciardini, le relazioni di viaggio e le testimonianze delle grandi scoperte geografiche e le raccolte di novelle (come le Cene del lasca e il Novelliere di Matteo Maria Bandello). In poesia il fenomeno più rilevante è l’affermazione del poema cavalleresco, che presso la corte di Ferrara prima si impone con l’Orlando innamorato (1483) di Matteo Maria Boiardo e poi giunge a maturazione con il capolavoro di ludovico ariosto, l’Orlando furioso (1516). grande è il successo del “petrarchismo”, ossia della poesia di imitazione petrarchesca, che, sebbene tenda ad appiattirsi sul modello, presenta comunque alcune personalità degne di nota (dallo stesso Bembo a gaspara Stampa, da della casa a Michelangelo). Sulle scene teatrali fiorisce la commedia, grazie all’intervento dei maggiori autori del secolo: ariosto e Machiavelli.

Capitolo 1

La trattatistica I caratteri della trattatistica

Una proposta di modelli La struttura argomentativa

Il trattato è forse il genere più rappresentativo dell’età rinascimentale. Ereditato dalla tradizione umanistica, ma orientato ormai decisamente verso l’uso del volgare rispetto al latino, esso si propone di definire nella maniera più rigorosa e compiuta i molteplici aspetti dell’agire umano, sul piano del pensiero, delle attività culturali e dello stesso modo di comportarsi dell’uomo in società. La trattatistica prende in considerazione un ampio numero di problematiche, che spaziano dalla politica (il Principe di Machiavelli) alle questioni della lingua (le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo), dalla letteratura alla spiritualità, fino ai diversi ambiti della vita pratica. In questo genere letterario si manifesta così la volontà di stabilire delle norme e dei criteri stabili di giudizio che sono tipici del classicismo, in cui l’esigenza di una codificazione corrisponde a una proposta di modelli culturali e comportamentali. Nei trattati l’intellettuale discute, giudica, organizza i dati della realtà. Anche nel trattato dialogico, costruito cioè sul dialogo fra diversi personaggi, prevale la struttura argomentativa, razionale, tesa a una dimostrazione che è sì analitica, ma si propone di partire non da princìpi astratti o dogmatici, bensì da quella che Machiavelli chiama la «verità effettuale» ( cap. 6, p. 356). Nel suo insieme il quadro che ne deriva, portando a compimento il processo già avviato nel secolo dell’Umanesimo, offre un’immagine dell’uomo come individuo completo e totale, che trova la sua piena realizzazione solo sul piano sociale, nel confronto con gli altri (quel confronto che si realizza nei testi, simbolicamente, attraverso il dialogo fra gli interlocutori). Di qui l’importanza dei trattati sul comportamento, che danno la misura delle aspirazioni e delle convenzioni aristocratiche di un’intera civiltà.

Modelli ed esempi di comportamento Pietro Bembo

Baldesar Castiglione

A questo filone si possono ricondurre anche gli Asolani di Pietro Bembo ( A1, p. 151), che si presentano come un dialogo filosofico, sviluppando motivi propri del neoplatonismo. L’importanza dell’opera non consiste tuttavia in un approfondimento di questi problemi, bensì nella proposta di un’idea dell’amore che, ispirandosi all’idealismo di origine platonica, viene a incidere sulla pratica dei rapporti sociali, oltre che sulle abitudini culturali e intellettuali (i suoi influssi avranno profonde ripercussioni sugli sviluppi della letteratura, e soprattutto della poesia petrarchista, nel corso del secolo). Ma il significato più alto e davvero emblematico, per quanto riguarda la trattatistica sul comportamento, è raggiunto dal Cortegiano di Baldesar Castiglione ( A2, p. 156), un testo destinato a diventare ben presto esemplare. Il tentativo di definire in che cosa consistano la natura e le qualità del perfetto «cortegiano» esalta il ruolo della “corte”, proponendola come modello superiore e insuperabile di un costume di vita; un costume al quale ogni gentiluomo deve tendere, per realizzare nella propria esistenza un ideale di perfezione mondana. Questo risiede nelle maniere di un equilibrio che contempera e armonizza, in un’unità indissolubile, 149

L’età del Rinascimento

Giovanni Della Casa

Testi Della Casa • Le buone maniere dal Galateo

le più elevate capacità dello spirito e del corpo, rivivendole come se fossero profondamente connaturate con la propria essenza, o meglio con il proprio modo di essere e di presentarsi nel mondo (si può pensare a una nuova interpretazione del mito dell’uomo signore della natura, elaborato nel corso dell’Umanesimo). La corte, in quanto posta al vertice della piramide e delle aspirazioni sociali, ribadisce il carattere esemplare dell’opera. Pur essendo concepito in forma dialogica, del resto, il trattato non intende presentare una verità “relativa”, ma soprattutto codifica, attraverso la “ricerca” e il confronto delle opinioni, i dati di una pratica sociale esistente, selezionandone e sublimandone i contenuti. Rispetto al modello verticistico e grandioso offerto dal Cortegiano, le prospettive erano comunque destinate a restringersi, come risulta dal Galateo di Giovanni Della Casa ( cap. 2, A3, p. 174), un altro testo che ottenne grande successo, al punto che il suo titolo è divenuto proverbiale. L’opera abbandona la proposta di regole generali, tanto più eccelse quanto più rare e difficili da realizzare, per ridurle a una specie di precettistica minuta, volta ad insegnare una pratica delle buone maniere che si possa facilmente applicare nelle comuni circostanze della vita. Lo scopo è infatti quello di trattare non «della natura de’ vizi e delle virtù, ma solamente degli acconci e sconci modi che noi l’uno con l’altro usiamo». Si realizza così un doppio movimento, di segno opposto, nei confronti del Cortegiano: da un lato si abbassano i contenuti, dall’altro si allarga sensibilmente l’ambito sociale dei destinatari. L’intento rendeva inadeguata la forma dialogica, più conveniente al dibattito di tematiche generali; di qui la scelta monologica, che risulta la più adatta per impartire un insegnamento preciso.

Visualizzare i concetti

Forme e caratteri della trattatistica TRaTTaTIsTIca RInascIMenTaLe

Primato della dimensione sociale come ambito di realizzazione dell’uomo

Importanza del confronto reciproco nell’elaborazione di modelli culturali

Classicismo: ricerca di modelli ideali da proporre all’imitazione

Codificazione di modelli esemplari di comportamento e di linguaggio

Esaltazione della corte come luogo “ideale”

Forma dialogica

Cortegiano

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Interventi sulla “questione della lingua”

Trattati sul comportamento

Principe

Cortegiano

Prose della volgar lingua

Galateo

Cortegiano

Asolani Cortegiano

Idealizzazione dell’amore

Trattati di politica

Asolani Prose della volgar lingua

Tendenze idealizzanti di matrice neoplatonica

Asolani

Capitolo 1· La trattatistica

A1 La formazione

La collaborazione con Aldo Manuzio

Storiografo di Venezia

La carriera religiosa

Gli Asolani

L’amore platonico

L’imitazione di Boccaccio e di Petrarca Le Rime

Pietro Bembo Nato a Venezia nel 1470 in una nobile ed influente famiglia, Pietro Bembo crebbe sotto l’influsso dell’amore paterno per le lettere ed ebbe a disposizione una ricca biblioteca; inoltre, seguendo gli spostamenti del padre, venne a contatto con alcuni fra gli ambienti culturali più vivaci del tempo. Tra il 1478 ed il 1480 fu a Firenze, alla corte del Magnifico, e circa dieci anni dopo a Ferrara, presso gli Estensi. Più tardi Bembo si recò a Messina per imparare il greco alla famosa scuola di Costantino Lascaris, di cui riportò a Venezia una grammatica che fece stampare da Aldo Manuzio. Rientrato a Venezia, prese parte all’attività culturale promossa da Manuzio attorno alla sua tipografia; nel 1501-02 curò le edizioni di Petrarca e di Dante, accostandosi così in maniera decisiva alla letteratura volgare. Nel 1505 uscì la sua prima opera importante, gli Asolani. Tra il 1506 ed il 1512 fu ad Urbino e poi a Roma, dedicandosi allo studio e partecipando alla vita mondana. Quando questa gli venne a noia e iniziò a vagheggiare la quiete della campagna, abbandonò la capitale (1519) e si stabilì a Padova (1522), dove, in una villa non lontana dalla città, creò un ritrovo di letterati e studiosi. Qui condusse a termine le Prose della volgar lingua (1525), un testo fondamentale per intendere gli sviluppi della letteratura cinquecentesca. Nel 1530 la Signoria di Venezia lo nominò bibliotecario della Libreria Nicena (poi Biblioteca Marciana) e storiografo della Repubblica, affinché continuasse la Storia Veneziana del Sabellico. In dodici libri (scritti dapprima in latino, poi da lui stesso tradotti in italiano) narrò gli avvenimenti compresi fra il 1487 ed il 1513, attento più all’eleganza dello stile che alla dialettica degli eventi. Nel 1535 morì la Morosina, la donna dalla quale aveva avuto tre figli senza mai legalizzare l’unione, per timore di perdere i benefici ecclesiastici di cui godeva. Quattro anni dopo fu creato cardinale da Paolo III, che gli affidò i vescovadi di Gubbio e di Bergamo senza obbligo di residenza. Morì a Roma nel 1547 mentre correva voce, nella città pontificia, che egli potesse diventare papa. L’onore con cui venne sepolto nella chiesa della Minerva testimonia non solo la sua posizione di prestigio nella gerarchia ecclesiastica, ma anche la fama immensa di cui godette ai suoi tempi. Fu senza alcun dubbio una figura di primo piano nella storia cinquecentesca della cultura e del gusto, esercitando una vera e propria dittatura letteraria ed intellettuale.

La vita

Le opere Tra il 1497 ed il 1498 il Bembo già attendeva alla stesura degli Asolani, un

trattato dialogico in tre libri sull’amore, pubblicato nel 1505 con una galante dedica a Lucrezia Borgia. Si immagina che le conversazioni avvengano per tre giornate consecutive nel Castello di Asolo (Treviso), appartenente a Caterina Cornaro, che era stata regina di Cipro. Gli interlocutori sono tre giovani nobili veneziani e tre gentildonne. Nella prima giornata viene affrontato il quesito se l’amore sia un bene o un male. Alle affermazioni pessimistiche sulla natura e sugli effetti dell’amore, fatte da Perottino, ribatte il giorno successivo Gismondo, che esalta l’amore fisico come fonte di piacere. Nella terza giornata interviene Caterina Cornaro, che ascolta le obiezioni di Lavinello. Secondo Lavinello il solo amore «buono» è quello puro e spirituale, che si risolve nel desiderio e nella contemplazione della bellezza ideale ( T1, p. 152). Se il vero amore tende alla perfezione, l’amore più alto sarà quello divino. La soluzione religiosa ribadisce l’esaltazione dell’amore platonico, che gli Asolani diffonderanno nel costume culturale dell’intero secolo. Nelle cadenze della prosa degli Asolani è già evidente l’imitazione dello stile boccacciano, mentre compaiono, all’interno del dialogo, dei componimenti poetici strettamente legati all’imitazione di Petrarca. L’importanza di Bembo consiste anche, storicamente, nell’aver dato vita a quel fenomeno del “petrarchismo”, che caratterizza gli sviluppi della lirica cinquecentesca ( cap. 2, p. 164). Le sue Rime, pubblicate nel 1530, ne offrono un esempio paradigmatico, proprio per il tentativo di ritrascrivere una vicenda stilistica ed esistenziale che

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L’età del Rinascimento

Le Prose della volgar lingua

Testi Bembo • Gli scrittori e la lingua fiorentina • Dante e Petrarca dalle Prose della volgar lingua

Il fiorentino letterario e il classicismo

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ricalca fedelmente – nel lessico, nelle forme e nei contenuti – quella affidata al suo canzoniere dal Petrarca (non a caso il “petrarchismo” venne detto anche “bembismo”). Le convinzioni teorico-critiche di Bembo sono compiutamente esposte e definite nelle Prose della volgar lingua, un trattato in tre libri comprendente i dialoghi che si immaginano tenuti nel 1502 a Venezia, con la partecipazione di Carlo Bembo, fratello di Pietro, Giuliano de’ Medici, Ercole Strozzi e Federico Fregoso. Strozzi cerca di denigrare la lingua volgare come vile e povera, suscitando la vivace reazione di Carlo Bembo. Segue una distinzione fra lingua parlata e lingua scritta, che viene definita un «parlare pensatamente». Viene quindi tracciata una breve storia della lingua volgare, dalle sue origini latino-barbariche alla sua incredibile varietà attuale nelle regioni d’Italia. Proprio da questa considerazione sorge il problema del volgare letterario. Una mescolanza dei volgari darebbe luogo a un linguaggio ibrido, non avvalorato da alcuna tradizione. Al contrario, assai ricca di tradizione – sottolinea Carlo Bembo – è la lingua toscana e questa dovrebbe usare chi volesse essere letto e inteso da tutti gli italiani, prendendo a modello i grandi trecentisti. La superiorità del fiorentino letterario è confermata soprattutto dalle opere di Petrarca e di Boccaccio, con cui la lingua italiana ha raggiunto una perfezione che non è più stata eguagliata: sono questi i “modelli”, rispettivamente per la poesia e per la prosa, ai quali gli scrittori contemporanei devono ispirarsi. Il secondo libro si occupa più in particolare della scelta delle parole, della metrica e dello stile, che deve essere elevato e raffinato, abilmente costruito su rapporti di equilibrio e di misura, armonico e musicale. In questo senso Bembo privilegia il Boccaccio più aristocratico (ma l’imitazione del Decameron riguardava solo le parti stilisticamente più elevate ed elaborate, come la cornice e le novelle tragiche) rispetto a quello comico, mentre la poesia di Petrarca viene nettamente anteposta a quella di Dante. Il terzo libro abbozza una grammatica dell’italiano, con esempi tratti ancora, in prevalenza, dagli scrittori preferiti. Il merito delle Prose consiste essenzialmente nell’aver codificato esigenze e aspirazioni ampiamente diffuse nella cultura del secolo. Veniva così fissato, in maniera chiara e definitiva, quel principio dell’“imitazione” su cui si basava il “classicismo” rinascimentale.

Pietro Bembo

Temi chiave

Il «buono amore» è «di bellezza disio»

• l’amor platonico • amore come soddisfazione dell’istinto naturale e piacere dei sensi

dagli Asolani, III, cap. VI Nel secondo libro Gismondo aveva proposto una concezione dell’amore come soddisfazione dell’istinto naturale e piacere dei sensi; nel libro successivo gli risponde, confutandolo, Lavinello.

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Ma non credere tuttavia, Gismondo, perciò che1 io così parlo, che io per aventura stimi buono essere, lo amare nella guisa che2 tu ci hai ragionato. Io tanto sono da te, quanto tu dalla verità lontano, dalla quale ti discosti ogni volta, che fuori de’ termini de’ duo primi sentimenti3 e del pensiero ti lasci dal tuo disiderio traportare, e di loro amando non stai contento4. Perciò che5 è verissima openione, a noi dalle più approvate6 scuole degli antichi diffinitori7 lasciata, nulla altro essere il buono amore che di

1. perciò che: per il fatto che, poiché. Poco prima Lavinello aveva in parte accolto alcune considerazioni di Gismondo. 2. nella guisa che: nella maniera in cui. 3. fuori … sentimenti: oltre i confini dei

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sensi della vista e dell’udito; i soli che Lavinello concede all’amante. 4. di loro … contento: e non ti accontenti, quando ami, di questi soli due sensi e del pensiero. 5. Perciò che: infatti.

6. approvate: accreditate, tenute in grande considerazione. 7. antichi diffinitori: sono i filosofi che in età antica hanno trattato dell’amore cercandone una definizione.

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bellezza disio8. La qual bellezza, che cosa è, se tu con tanta diligenza per lo adietro avessi d’intendere procacciato, con quanta ci hai le parti della tua bella donna voluto ieri dipignere sottilmente, né come fai, ameresti tu già, né quello, che ti cerchi amando, aresti agli altri lodato, come hai9. Perciò che ella10 non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza11 nasce e d’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e più vaghi12, et è accidente negli uomini non meno dell’animo che del corpo13. Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra tengono proporzione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto più sono di bellezza partecipi e l’uno e l’altro, quanto in loro è quella grazia, che io dico, delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e più piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, e d’animo parimente e di corpo, e allei14, sì come a suo vero obbietto, batte e stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre ha: l’una, che a quella dell’animo lo manda, e questa è l’udire; l’altra, che a quella del corpo lo porta, e questa è il vedere. Perciò che sì come per15 le forme, che agli occhi si manifestano, quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli orecchi ricevono, quanta quella16 dell’animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare dalla natura dato, che perché esso fosse tra noi de’ nostri animi segno e dimostramento17. Ma perciò che il passare a’ loro obbietti per queste vie la fortuna e il caso sovente a’ nostri disiderii tôr possono, dalloro, sì come spesso aviene, lontanandoci, ché, come tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l’occhio né l’orecchio non si stende, quella medesima natura, che i due sentimenti dati n’avea, ci diede parimente il pensiero, col quale potessimo al godimento delle une bellezze e delle altre, quandunque a noi piacesse, pervenire18. Con ciò sia cosa che19, sì come ci ragionasti tu ieri lungamente, e le bellezze del corpo e quelle dell’animo ci si rappresentano col pensarvi20, e pigliasene21, ogni volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come alle bellezze dell’animo aggiugnere22 né fiutando né toccando né gustando non si può, così non si può né più né meno eziandio23 a quelle del corpo, perciò che questi sentimenti tra le siepi di più materiali obbietti si rinchiudono24, che non fanno quegli altri25. Che perché26 tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra quest’erbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è odorante, quale fiatoso27, quale amaro, quale dolce, quale aspero28, quale morbido, ma che bellezza sia la loro, se tu non gli

8. di bellezza disio: desiderio del bello. Cioè brama non di una bellezza particolare, ma ricerca incessante di una bellezza assoluta, sovrumana ed eterna; è l’esaltazione non di un corpo ma dell’anima, dell’idea. 9. La qual … come hai: se tu ti fossi sforzato di capire (avessi d’intendere procacciato) prima (per lo adietro) che cosa è questa bellezza, con quell’impegno (diligenza) con il quale ieri ci hai finemente descritta (dipignere sottilmente) l’anatomia (le parti) della tua bella donna, tu certo (già) non ameresti come ami (come fai) né avresti lodato ai tuoi ascoltatori quello che tu vuoi trovare nell’amore (che ti cerchi amando), come invece hai fatto (come hai). 10. ella: la bellezza vera, come la intende Lavinello. 11. di convenenza: dall’equilibrio, dalla corrispondenza delle parti. 12. vaghi: belli, graziosi e quindi desiderabili, nella loro grazia quasi inafferrabile.

13. et … corpo: ed è una qualità che si manifesta sia nell’anima sia nel corpo degli uomini. 14. allei: a lei. 15. per: attraverso. 16. quanta quella: quanta è la bellezza. 17. dimostramento: dimostrazione, svelamento. 18. Ma … pervenire: ma poiché il destino spesso può distogliere (tôr) i nostri desideri dal procedere verso le loro mete (obbietti) attraverso i sensi della vista e dell’udito (per queste vie), allontanandoci da questi (i desideri), così come non di rado avviene, dal momento che, come tu hai anticipato, né l’occhio né l’orecchio possono raggiungere (si stende) ciò che non è materialmente presente, allora quella stessa natura, che ci ha fatto dono di quei due sensi, allo stesso modo ci regalò il pensiero, in virtù del quale noi potessimo giungere al godimento delle bellezze dell’animo e di quelle del corpo, in qualsiasi momento (quandunque) a noi facesse pia-

cere. Il periodo, costruito in maniera molto complessa, vuole dire che solo il pensiero consente una compiuta realizzazione dell’amore, anche quando la donna amata sia fisicamente lontana. 19. Con … che: poiché. 20. ci si … pensarvi: ci appaiono nella mente (col pensarvi) come se fossero reali e concrete. 21. pigliasene: se ne piglia, se ne può prendere (si riferisce a godimento). 22. aggiugnere: giungere, pervenire. 23. eziandio: anche, altresì (è sottinteso “giungere”). 24. perciò … rinchiudono: dal momento che l’olfatto, il tatto e il gusto riducono la loro funzione (si rinchiudono) nei limiti degli oggetti materiali. 25. che non … altri: più di quanto non succede agli altri due sensi. 26. perché: per quanto. 27. fiatoso: maleodorante. 28. aspero: aspro.

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mirassi altresì29, mica non potresti tu conoscere, più di quello che potesse conoscere un cieco la bellezza d’una dipinta imagine, che davanti recata gli fosse. Perché se il buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, e se alla bellezza altro di noi e delle nostre sentimenta non ci scorge30 che l’occhio e l’orecchio e il pensiero, tutto quello che è dagli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori di ciò che per sostegno della vita si procaccia31, non è buono amore, ma è malvagio; e tu in questa parte32 amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose. Perciò che sozzo e laido è l’andare di que’ diletti cercando, che in straniera balìa dimorano e avere non si possono senza occupazione dell’altrui33 e sono in se stessi e disagevoli e nocenti34 e terrestri e limacciosi35, potendo tu di quelli avere, il godere de’ quali nella nostra potestà giace e godendone nulla s’occupa, che alcuno tenga proprio suo36, e ciascuno è in sé agevole, innocente, spiritale, puro.

29. gli mirassi altresì: li guardassi anche, in aggiunta. 30. ci scorge: ci guida, ci accompagna. 31. fuori … procaccia: fatta eccezione per ciò a cui si provvede per la continuazione (sostegno, le necessità) della vita. 32. in questa parte: sotto questo aspetto, a questo riguardo.

33. che … altrui: che si trovano sotto il potere di altri (in straniera balìa) e non si possono ottenere senza occupare l’altrui dominio. 34. nocenti: dannosi. 35. limacciosi: fangosi, torbidi, sozzi. L’amore sessuale sporca e tiene legato l’uomo alla materia, impedendone il volo verso l’idea

della bellezza vera, per riprendere la metafora usata sopra dallo stesso Bembo. 36. potendo … proprio suo: mentre tu puoi avere di quei piaceri il cui godimento è in nostro potere e, godendo i quali, non ci si impadronisce di nulla che qualcuno possegga come una proprietà personale.

Analisi del testo

> L’amore platonico

L’amore come esperienza spirituale e intellettuale L’ideale della bellezza

Il significato culturale e letterario

«Grazia» e «armonia»

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Il brano contiene un’esaltazione dell’amore platonico, definito nelle sue caratteristiche fondamentali. La distanza dalla verità, che Lavinello rimprovera a Gismondo, è la stessa che separa l’amore carnale da quello puramente spirituale, posto al culmine delle più alte aspirazioni umane. Esso consiste nei «termini de’ duo primi sentimenti e del pensiero», ossia in quei sensi – la vista e l’udito – che più sono lontani da un contatto diretto con la realtà fisica e materiale; di qui è facile il passaggio al pensiero, trattandosi, in primo luogo, di un’esperienza intellettuale e mentale. Il vero amore viene così definito «di bellezza disio»: una tensione o aspirazione tutta ideale, proprio in quanto rivolta a un’idea assoluta di “totalità” che, pur corrispondendo a un sentimento umano, si colloca al di là e al di sopra di ogni verifica puramente e concretamente terrena (l’accusa rivolta a Gismondo è quella di essersi limitato a «dipignere sottilmente» «le parti della sua bella donna»). Come confermerà più avanti, nel capitolo XVII, lo stesso Lavinello: «la vera bellezza non è umana e mortale, che mancar possa, ma è divina e immortale». L’importanza di questo atteggiamento non è da cercare sul piano filosofico, dal momento che il Bembo si limita a riprendere le tesi elaborate nel Quattrocento soprattutto da Marsilio Ficino, ricollegandosi anche alla concezione “cortese” e stilnovistica dell’amore per trasferirla nella nuova realtà sociale e mondana. Si tratta quindi di un passo essenziale per comprendere le caratteristiche e gli atteggiamenti della mentalità e della sensibilità contemporanee, sul piano di un costume aristocratico. Lo sviluppo dell’argomentazione articola e precisa i significati della definizione proposta. La «bellezza» viene concepita come uno stato di «grazia», che cerca «nelle cose» non i contenuti, ma soprattutto le forme: la «proporzione», la «convenenza» e l’«armonia», parole cardine della misura e dell’equilibrio rinascimentali, in cui il contemperarsi delle stesse differenze in una superiore unità è il segno che riflette l’ordine del mondo.

Capitolo 1· La trattatistica

L’affrancamento dalla realtà terrena I sensi spirituali

La contemplazione

Distacco dal Boccaccio e culto del Petrarca

> Il «buono amore» e quello «malvagio»

L’amore, in questo senso, tende ad affrancarsi dalle cose terrene, come conferma la metafora delle «ali» e del «volo», che non riesce però a introdurre un movimento lirico, di accensione fantastica o di partecipazione emotiva (fredda e inerte risulta anche l’immagine complementare delle «finestre»). I sensi che più si addicono a questa idea dell’amore sono, appunto, la vista, che contempla le «bellezze del corpo», e l’udito, che intende «quelle dell’animo». Tuttavia, nonostante la loro nobiltà, i sensi indicati hanno un potere limitato, in quanto dipendono dalla presenza dell’oggetto; alla loro manchevolezza può porre rimedio il pensiero, che, riuscendo sempre e comunque a vagheggiare la bellezza della donna amata, assume una funzione decisiva. L’amore platonico, nel suo più alto significato, si risolve così nel crescendo di una aspirazione del tutto staccata dalla realtà; una sorta di astrazione mentale, in cui conta la contemplazione, non il possesso. L’amore fisico è «sozzo e laido», in quanto si basa su piaceri «e disagevoli e nocenti e terrestri e limacciosi»; al contrario il vero appagamento è «agevole, innocente, spiritale, puro» (si noti l’unione delle sequenze, parallele e antitetiche, prima per polisindeto e poi per asindeto). È evidente la distanza che separa Bembo da Boccaccio, con la sua proposta – nel Decameron – dell’amore come fatto fisico e naturale; mentre nasce anche di qui il culto per Petrarca, quale si tradurrà, sul piano sia stilistico sia spirituale, nel fenomeno del “petrarchismo”, inteso come ideologia integrale ( cap. 2, p. 163). Che il discorso sia essenzialmente letterario è confermato dall’invito finale a celebrare «con le prose e con le rime» la bellezza incorruttibile del «buono amore».

Esercitare le competenze coMPRendeRe

> 1. Quale definizione della bellezza viene fornita dall’autore nel brano? > 2. Completa la tabella sintetizzando i vari passaggi del ragionamento di Lavinello, secondo l’esempio proposto. Righe

sintesi

1-7

confutazione della teoria di Ghismondo: l’amore non è soddisfazione dell’istinto naturale, ma desiderio ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ di bellezza ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

anaLIzzaRe

> 3.

stile Ricerca tutte le similitudini e le metafore presenti nelle prime ventuno righe del brano: a quali campi semantici fanno riferimento?

aPPRofondIRe e InTeRPReTaRe

> 4.

Testi a confronto Metti a confronto gli Asolani, le Prose della volgar lingua e le Rime ed enuclea i tratti fondamentali della poetica di Bembo. PassaTo e PResenTe che cosa è bello oggi?

> 5. L’edonismo sfrenato che caratterizza la società contemporanea induce molti a considerare come valide

le sole forme di bellezza appariscente ed esteriore, “visibile agli occhi” e rispondente a precisi canoni, spesso stabiliti ed imposti dalle logiche di mercato. Che cos’è bello oggi? Che valore ha nel mondo in cui viviamo, a tuo avviso, la cosiddetta “bellezza interiore”, fatta di equilibrio, rispetto per gli altri, profondità di pensiero? Motiva la tua risposta.

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L’età del Rinascimento

A2 Il soggiorno a Urbino

L’intento dell’opera

Testi Castiglione • Il principe e il «cortegiano» • La lingua cortigiana dal Cortegiano

L’ambientazione

Il primo libro: la «sprezzatura»

La “questione della lingua”

Il secondo libro: le facezie

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Baldesar castiglione La vita Baldesar Castiglione nacque a Casatico, presso Mantova, nel 1478, in una famiglia di antica origine feudale. Compì gli studi a Milano, dove ebbe una raffinata preparazione umanistica e iniziò la pratica delle corti presso Ludovico il Moro, prima di passare al servizio di Francesco Gonzaga (1499). Fra il 1504 e il 1513 soggiornò prevalentemente presso Guidubaldo da Montefeltro e Francesco Maria della Rovere, alla corte di Urbino. In questo ambiente, particolarmente aperto e vivace, intensificò anche la sua non abbondante attività di scrittore, che, oltre alle lettere, annovera poesie in latino e in volgare, l’egloga Tirsi e il Prologo da lui scritto per la Calandria del Bibbiena. È un’attività, questa, strettamente legata alle esperienze della corte, le cui suggestioni gli offriranno lo spunto per la sua opera più importante e davvero emblematica, Il libro del cortegiano, decisiva per comprendere i princìpi e i valori della civiltà rinascimentale (nella misura in cui l’ideale letterario si identificava completamente con l’ideale cortigiano). Rientrato a Mantova nel 1516, vi sposò Ippolita Torelli; nel 1521, rimasto vedovo, intraprese la carriera ecclesiastica. Nel 1524, in qualità di nunzio apostolico, fu inviato da Clemente VII a Madrid, alla corte dell’imperatore. Morì a Toledo nel 1529 e lo stesso Carlo V, nell’elogio funebre, lo definì il miglior cavaliere del mondo.

Il libro del cortegiano fu concepito con l’intento di descrivere «qual sia la forma di cortegiania più conveniente a gentilomo che viva in corte de’ principi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia [gratitudine] e dagli altri laude; in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli manchi». Ma il rapporto con il principe può essere rovesciato, per la speranza di «formare un cortegian tale, che quel principe che sarà degno d’esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore». In queste indicazioni è contenuta la genesi sociologica dell’opera e, insieme, la sua trasfigurazione ideale, con il significato esemplare della proposta avanzata. Pubblicato nel 1528 e suddiviso in quattro libri, il Cortegiano è ambientato presso la corte di Urbino nell’autunno del 1506, quando Castiglione era al servizio di Guidubaldo e il palazzo dei Montefeltro riuniva intellettuali di grande prestigio (da Bembo al Bibbiena), che sono i principali interlocutori del dialogo. Nel primo libro, dopo un esame preliminare delle virtù che deve possedere il «cortegiano» (essere nobile non di sangue ma di animo; muoversi con grazia in ogni forma di rapporto sociale; essere eccellente nell’uso delle armi e nei tornei; vestirsi con misurata eleganza; rifuggire in tutto ogni eccesso), viene enunciata la regola fondamentale del comportamento: evitare in ogni modo l’affettazione, in quanto pratica dell’ostentazione e dello sforzo, e usare invece la «sprezzatura» (che è la parola emblematica del trattato), in quanto pratica che dissimula lo sforzo, facendo apparire come naturali anche gli atti più studiati e ricercati ( T2, p. 157). Il criterio della «sprezzatura» deve regolare anche l’esercizio del conversare e del parlare. Inizia la parte dedicata alla “questione della lingua”, in cui è espresso un ideale di lingua italiana che rispecchi l’ambiente eterogeneo (geograficamente, non socialmente) dei cortigiani. La tesi di Castiglione si oppone nettamente all’uso del fiorentino parlato e di quello letterario, sostenuto da Bembo. Decisiva è l’importanza della parola, e soprattutto della parola arguta, che permette di esprimere, attraverso le facezie e i motti di cui si tratta nel secondo libro, un raffinato gioco di intelligenza e di cultura. Ma proprio perché i motti si fondano su proceIl Cortegiano

Capitolo 1· La trattatistica

Il terzo libro: la «donna di palazzo»

Il quarto libro Il rapporto col potere

L’amore platonico

L’ideale e la storia

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dimenti del contrario e del doppio finiscono per essere perfettamente funzionali alla vita di corte, che è pur sempre “maschera”, esercizio di simulazione e dissimulazione. Il terzo libro intende formare la «donna di palazzo», nel rispetto delle stesse regole che valgono per il «perfetto cortegiano». Naturalmente emergono dei tratti specifici della condizione femminile: in primo luogo la bellezza, finalizzata allo scenario della vita di corte. Ma il discorso si sofferma soprattutto sugli aspetti sociali: di qui, ancora, l’insistenza sulla capacità di conversare e sulla preparazione culturale, esemplificata attraverso il racconto di aneddoti e novellette. Nel quarto libro si sviluppa l’argomento centrale dell’opera, nella speranza di «formare un cortegian tale, che quel principe che sarà degno d’esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore». L’auspicio è che si venga a instaurare una sorta di rapporto paritetico: il cortigiano deve evitare ogni forma di adulazione e di falsità, mentre il principe deve cercare in lui i consigli di una sicura guida intellettuale e morale. La condanna della tirannide fa uso di un linguaggio crudo, violento, aspro nell’invettiva, a conferma di quanto Castiglione vivesse in forma drammatica la crisi storico-politica del suo tempo. L’esaltazione dell’amore platonico, nella seconda parte di questo libro, si impone invece per il tono di appassionata perorazione con cui Bembo sostiene la bontà di un legame spirituale che è nobilitazione dell’anima e avvicinamento a Dio. Nella sua proiezione ideale, la figura del «perfetto cortegiano» diviene il simbolo di una civiltà colta e raffinata, che il presente rischiava di travolgere: quella dei piccoli Stati italiani di fronte alle grandi potenze europee. Alla loro forza si poteva opporre solo l’immagine di una supremazia culturale, una tradizione vittoriosa, sebbene già minacciata, di gusto e di costume.

Baldesar castiglione

Grazia e sprezzatura

Temi chiave

• il comportamento del cortigiano • grazia e «sprezzatura»

dal Cortegiano, I, cap. XXVI Il passo assume un’importanza centrale nell’economia dell’opera, in quanto definisce la natura e il comportamento del perfetto uomo di corte.

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Chi adunque vorrà esser bon discipulo1, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi2 al maestro e, se possibil fosse, transformarsi3 in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi4 con quel bon giudicio5 che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia6 ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori7, così il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que’8 che a lui parerà che la tenghino9 e da ciascun quella parte che più sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser

1. bon discipulo: buon discepolo, un allievo modello (nel capitolo precedente si era parlato di come imparare a comportarsi con grazia). 2. assimigliarsi: rendersi simile (anche per quanto riguarda il comportamento si fa ricorso al principio dell’imitazione). 3. transformarsi: immedesimarsi. 4. governandosi: regolandosi.

5. bon giudicio: retto giudizio, accorto discernimento. 6. pecchia: ape. Similitudine ereditata dai classici, dai latini (Lucrezio, Orazio) ai “grandi” della letteratura italiana (Petrarca, Poliziano). Anche il cortigiano deve imparare a scegliere, da ognuno, le qualità e gli atteggiamenti migliori.

7. va carpendo i fiori: vola per carpire (prendendo quasi con astuzia) il miglior nettare dei fiori. 8. que’: quelli. 9. parerà che la tenghino: sembrerà che la possiedano.

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molto simile al re Ferrando minore d’Aragona10, né in altro avea posto cura d’imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo11 una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto così da infirmità12. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili ad un grand’omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa13. Ma avendo io già più volte pensato meco14 onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno15, trovo una regula universalissima16, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po17, e come un asperissimo18 e pericoloso scoglio, la affettazione19; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura20, che nasconda l’arte21 e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità22 genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia23 e fa estimar poco24 ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po25 dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio26, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato.

10. Ferrando minore d’Aragona: Ferdinando II, re di Napoli. Nel 1495 il padre, Alfonso II, abdica in suo favore, lasciandogli il territorio invaso dalle truppe di Carlo VIII di Francia e insanguinato da una nuova rivolta dei baroni; muore l’anno successivo senza aver potuto liberare il suo regno. 11. torzendo: torcendo (lombardismo). 12. il qual … infirmità: abitudine che il re aveva contratto a causa di una malattia. 13. si appigliano … viciosa: si fissano su ciò che in quell’uomo costituisce il solo difetto.

14. pensato meco: pensato fra me e me, riflettuto. 15. lasciando … l’hanno: tralasciando coloro che la possiedono fin dalla nascita, che l’hanno avuta dal cielo. 16. universalissima: del tutto generale. 17. quanto più si po: più che si può. 18. asperissimo: durissimo (da “aspero”, forma antica di “aspro”). 19. affettazione: ostentazione. 20. sprezzatura: la sprezzatura è il complemento necessario, per così dire il completamento, della grazia e consiste nel mo-

Pesare le parole Sprezzatura (riga 18) > Qui

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designa una maniera disinvolta di comportarsi, per cui appaiono naturali qualità che invece sono costate fatica ed esercizio. Viene dal latino prétium, “prezzo, pregio”, più s- negativo; propriamente indica il disprezzo per ogni atteggiamento artificioso, manierato, affettato, costruito. Dalla stessa origine proviene infatti disprezzo, composto sempre di prétium con il prefisso negativo dis-, “ritenere qualcosa o qualcuno indegno di stima o considerazione” (es. ha dimostrato totale disprezzo per le buone maniere). Si può rilevare un fenomeno già più volte sottolineato, che dallo stesso termine latino, prétium, derivano due parole italiane con diverso significato: una, prezzo, più vicina alla forma originaria, “valore di scambio di una merce, il suo costo”, anche nel senso figurato (es. pagare a caro prezzo la libertà); l’altra, pregio, che è più lontana dalla forma latina per il fenomeno della palatalizzazione (/ti/ che dà /gi/) e ha perso il riferimento al denaro, indicando il valore, la buona qualità di qualcuno o qualcosa (es. il romanzo ha molti pregi, è un edificio di pregio), oppure la stima (es. tiene in gran pregio quell’amico).

strare come naturali le acquisizioni che sono costate tanta fatica di studio e d’esercizio. 21. l’arte: l’artificio. 22. la facilità: la naturalezza nell’eseguirle. 23. disgrazia: nel senso di dispiacere, provato da chi fa l’azione, ma soprattutto di malagrazia, comportamento impacciato e sgraziato, avvertito dagli altri. 24. estimar poco: giudicare come di poco conto. 25. Però si po: perciò si può. 26. poner studio: porre attenzione, cura.

> Il sinonimo di sprezzatura, disinvoltura, viene dallo spa-

gnolo desenvoltura, da desenvolver, “disinvolgere, togliere da un impaccio” (il participio disinvolto da disnegativo più envuelto, “impacciato”). La radice è la stessa dell’italiano avvolgere: il latino vòlvere, “volgere”.

Disgrazia

(riga 22)

> Qui è il contrario di grazia, quindi equivale a “malagrazia,

comportamento impacciato”. Nel linguaggio attuale invece il significato più comune è “sorte avversa, sventura” (es. è perseguitato dalla disgrazia), oppure “avvenimento luttuoso” (es. è morto in una disgrazia). Sinonimi del primo senso: scalogna, di etimologia discussa, forse dal latino calùmnia, “raggiro, frode”, più s- intensivo (come se la sfortuna tramasse alle nostre spalle per frodarci); sventura, da s- negativo più ventura, participio futuro del verbo latino venìre, “ciò che avverrà, la sorte”, quindi “cattiva sorte”; nel secondo senso: calamità, dal latino calamitátem; sciagura, da sciagurato, a sua volta dal latino exauguràtum, “profanato, sconsacrato”, quindi “qualcosa di cattivo augurio”.

Capitolo 1· La trattatistica

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30

35

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45

E ricordomi io già aver letto27 esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie28 sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere29; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte30; la qual se fosse stata conosciuta, arìa dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati31. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un così intento32 studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo33 danza alla foggia34 sua, con que’ saltetti35 e gambe stirate36 in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno37, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è così cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione38? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti così la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi39, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello40, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?

Agnolo Bronzino, Ritratto di Ludovico Capponi, 1550-55, olio su tavola, New York, Frick Collection.

27. E ricordomi … letto: si riferisce probabilmente al primo libro del De oratore (L’oratore) di Cicerone, in cui Crasso e Antonio discutono su questo argomento. 28. industrie: espedienti, accorgimenti. 29. sé non … lettere: che loro non avevano alcuna pratica delle lettere, ossia che non erano dei letterati né degli uomini colti. 30. più tosto … l’arte: piuttosto seguendo i suggerimenti della natura e dell’immediatezza, che attraverso lo studio e l’apprendimento dell’arte, delle tecniche della parola. Le due coppie proposte devono in altri termini fon-

dersi in un’unica dimensione, che ha, come solida base, lo studio e l’arte, mentre risaltano, all’esterno, la natura e la verità. 31. arìa … ingannati: avrebbe provocato nelle menti del popolo il dubbio di essere ingannato dall’arte (quella), ossia: il carattere costruito e artefatto delle parole avrebbe fatto dubitare la gente, per il timore che queste fossero menzogne. 32. intento: attento, intenso. 33. messer Pierpaulo: un gentiluomo della corte d’Urbino. 34. foggia: maniera.

35. saltetti: saltelli. 36. gambe stirate: gambe rigide, contratte. 37. un legno: un pezzo di legno (quasi fosse, per l’eccessiva rigidità, un burattino). 38. affettazione: comportamento innaturale, troppo ostentato e artefatto (è il contrario della sprezzatura, o – più avanti – sprezzata desinvoltura); per questo è una disgrazia, in antitesi rispetto alla grazia. 39. adattarsi: atteggiarsi in relazione agli altri. 40. non estimar … quello: di non pensare a nient’altro se non a quello che stanno facendo.

Pesare le parole Industrie (riga 26) > Viene

dal latino endo-, “dentro”, e strùere, “costruire”. Qui significa “accorgimento, espediente”; nella lingua più arcaica il suo senso è appunto “operosità ingegnosa per raggiungere qualche fine” (per cui occorre avere una personalità forte, solidamente costruita, come indica l’etimologia). Nella lingua attuale designa invece il modo di produrre merci su larga scala, mediante l’impiego di macchinari e grandi investimenti di capitali, che si è imposto a partire dalla metà del Settecento in Inghilterra e poi via via nel resto del mondo avanzato. Come si vede,

>

qualcosa del senso originario è rimasto, ma in un ambito molto più specifico, in collegamento con la realtà tecnologica e capitalistica: in fondo per far funzionare l’industria moderna occorre anche l’industria nel senso antico. Più vicini al senso originario sono rimasti il verbo industriarsi, “adoperarsi con abilità per ottenere qualcosa” (es. si è molto industriato per uscire dalle difficoltà economiche), e l’aggettivo industrioso, “laborioso, capace, ingegnoso” (es. è un giovane industrioso, che farà strada).

159

L’età del Rinascimento

Analisi del testo L’educazione

Il «bon giudicio»

L’imitazione come conquista

La «grazia»

> La formazione del cortigiano

Queste pagine esemplificano, sul piano pratico e concettuale, l’ideale di vita della civiltà delle corti. Castiglione tocca, all’inizio, il problema dell’educazione, intesa, in senso lato, come formazione della personalità dell’uomo nel sistema delle sue relazioni sociali: vale, anche in questo caso, il principio dell’imitazione, in quanto il «bon discipulo» deve «metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui». Occorre osservare attentamente la realtà e scegliere, fra le tante possibilità, le soluzioni più adatte e convenienti, facendosi guidare dal «bon giudicio», ossia dalla retta capacità di intendere e valutare le cose: viene in mente la «discrezione» di Guicciardini ( cap. 7, T1, p. 478), anche se qui il discorso non riguarda le scelte politiche, ma la pratica di un costume mondano. L’imitazione non deve comunque essere intesa in un senso meccanico e puramente esteriore. Essa coincide con un lungo esercizio e mira a un’ardua conquista, che si pone al culmine di un assiduo processo educativo. In quanto tale, deve essere profondamente assimilata e quasi interiorizzata, fino a coincidere con la natura stessa, l’essenza, dell’individuo. Il risultato ultimo dell’educazione è costituito dalla «grazia», che traduce sul piano del comportamento, e del ruolo sociale, l’ideale di misura e di equilibrio, di decoro e di armonia, tipico della civiltà cinquecentesca. Ed è proprio questo il valore che l’autore si propone di definire (si noti ancora la predilezione per la codificazione e la precettistica) secondo una «regula universalissima» e, di conseguenza, esemplare.

> «affettazione» e «sprezzatura»

La sintesi dei contrari

La «grazia» deve essere distinta, preliminarmente, dall’«affettazione», che, mirando ostentatamente al suo scopo, ottiene il risultato contrario, risolvendosi in goffaggine e in «somma disgrazia». Essa si identifica invece con una «certa sprezzatura», che sta ad indicare un comportamento sciolto e disinvolto, in cui si compiono con naturalezza e spontaneità anche le cose più difficili, nascondendo l’«arte» (l’applicazione e la tecnica, diremmo adesso) con cui sono state imparate. La «difficultà» si risolve nella «facilità», che, attraverso una sapiente dissimulazione, «genera grandissima maraviglia», dando risalto alle «cose rare e ben fatte». Castiglione enuncia così il paradosso su cui si basa la visione del mondo rinascimentale: la «vera arte» è quella «che non pare esser arte». Ma il paradosso è solo apparente, se è vero che l’aspirazione all’ordine e all’armonia, a cui tende questa civiltà, si basa su una sintesi o unità dei contrari: la facilità e la difficoltà, la spontaneità e l’artificio, la semplicità e la raffinatezza, la natura e la civiltà. Gli estremi, in altri termini, si compongono nel “giusto mezzo” di un superiore equilibrio.

Esercitare le competenze coMPRendeRe

> 1. Sintetizza nella tabella le argomentazioni dell’autore, secondo l’esempio proposto. Righe

sintesi

rr. 1- 13

L’autore enuncia la sua tesi riguardo la grazia, che si consegue attraverso l’imitazione dei buoni maestri, dai ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ quali il «bon discipulo» dovrà ricavare vari esempi di comportamento, e non rifarsi ad un unico atteggiamento. ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

rr. 13-24

................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

rr. 25-30

................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

rr. 30-46

................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

160

Capitolo 1· La trattatistica anaLIzzaRe

> 2. L’espressione «Qual di voi è che non rida…» (r. 31) è un procedimento espressivo riconducibile alla partico-

lare forma che l’autore sceglie per il trattato? Motiva la tua risposta. stile Individua nel brano almeno un esempio di affermazione riconducibile a detti popolari e/o proverbi. Lessico Analizza il lessico e individua tutti i termini che appartengono al campo semantico dell’imitazione e della finzione. A chi sono riferiti?

> 3. > 4.

aPPRofondIRe e InTeRPReTaRe

> 5. Individua nel passo eventuali riferimenti a quanto Castiglione tratterà nei libri del dialogo successivi al primo

(l’importanza della parola, la condizione femminile a corte, il rapporto con il potere), riepilogando così le tesi proposte nell’intera opera.

PeR IL RecuPeRo

> 6. Nella seguente tabella sono riportate alcune parole tratte dal brano: esamina ciascuna nel suo contesto e

poi indica dei sinonimi che possano sostituirla senza modificare il significato generale, secondo l’esempio proposto. Riga

Parola

sinonimi

2

diligenzia

attenzione, cura ........................................................................................................................................................................................................................

6

rubare

........................................................................................................................................................................................................................

7

laudevole

........................................................................................................................................................................................................................

20

rare

........................................................................................................................................................................................................................

21

maraviglia

........................................................................................................................................................................................................................

24

credito

........................................................................................................................................................................................................................

29

dubbio

........................................................................................................................................................................................................................

40

sprezzata

........................................................................................................................................................................................................................

facciamo il punto 1. Per quali ragioni il genere del trattato è così diffuso nel Cinquecento? 2. Quali caratteristiche presenta il trattato dialogico? 3. Quali sono i modelli culturali seguiti dai trattatisti come Bembo e Castiglione? 4. I personaggi che partecipano ai dialoghi, i luoghi dove questi si svolgono, gli argomenti affrontati nei

trattati di Bembo e Castiglione sono propri di quale ambiente sociale? 5. La trattatistica cinquecentesca risponde ad un’esigenza solo accademica o presenta anche una funzione pratica? 6. Tra gli Asolani di Bembo ed il Cortegiano di Castiglione ci sono delle analogie e/o delle differenze? (Rifletti sulla struttura delle due opere, sui personaggi, sul luogo dove si svolge il dialogo, sulla lingua usata).

161

L’età del Rinascimento

In sintesi

La TRaTTaTIsTIca Verifica interattiva

La TRaTTaTIsTIca Il trattato, tra i generi più rappresentativi dell’età rinascimentale, risponde all’esigenza, tipica del classicismo, di stabilire norme e criteri di giudizio condivisi sui diversi aspetti dell’agire umano. Caratteri generali di tale produzione sono l’uso prevalente del volgare, l’impostazione argomentativa e la tendenza a elaborare modelli ideali a partire dall’analisi della realtà concreta. La concezione umanistica secondo cui l’uomo si realizza pienamente solo sul piano sociale spiega la preferenza accordata alla forma dialogica, che riflette simbolicamente il momento del confronto con gli altri, e il proliferare di trattati sul comportamento. A questo filone appartengono gli Asolani di Pietro Bembo, il Cortegiano di Baldesar Castiglione e il Galateo di Giovanni Della Casa.

PIeTRo BeMBo Figura di primo piano nella cultura cinquecentesca, Bembo nacque a Venezia nel 1470 e frequentò gli ambienti culturalmente più vivaci e prestigiosi del suo tempo, fra cui il circolo culturale veneziano che ruotava intorno alla stamperia di Aldo Manuzio e le corti di Firenze, Ferrara, Urbino. Nel 1539 fu nominato cardinale e da allora visse prevalentemente a Roma, dove morì nel 1547. Gli Asolani (1505) sono un dialogo filosofico in tre libri che sviluppa un’idea dell’amore ispirata al neoplatonismo: il solo amore «buono» è quello puro e spirituale, che tende alla perfezione e si risolve nella contemplazione della bellezza ideale, rappresentata nella sua forma più alta da Dio. Tale visione inciderà profondamente sulla pratica dei rapporti sociali e nel costume culturale dell’intero secolo,

162

costituendo fra l’altro uno dei motivi ispiratori della poesia petrarchista. Le Rime (1530) offrono un esempio di tale poetica, caratterizzata dalla ripresa a livello lessicale, stilistico e tematico del Canzoniere di Petrarca. Bembo espone la propria teoria letteraria compiutamente nelle Prose della volgar lingua (1525), un dialogo in tre libri che indica nel toscano trecentesco di Petrarca e di Boccaccio il modello linguistico cui far riferimento rispettivamente per la poesia e per la prosa: viene così fissato definitivamente quel principio dell’“imitazione” su cui si basava il “classicismo” rinascimentale.

BaLdesaR casTIGLIone Castiglione nacque a Casatico, presso Mantova, nel 1478. Soggiornò presso le corti di Milano, Mantova, Urbino, per poi intraprendere la carriera ecclesiastica. Nel 1524 fu inviato come nunzio apostolico in Spagna, dove morì nel 1529. Il dialogo in quattro libri del Cortegiano (1528) intende definire la natura e le qualità del perfetto uomo di corte. La regola fondamentale del suo comportamento deve essere la «sprezzatura», ossia la capacità di far apparire come naturali anche gli atti più studiati e ricercati. Nella parte dedicata al modo di esprimersi del «cortegiano» è espresso un ideale di lingua che sia la sintesi dei diversi idiomi parlati nelle corti italiane. L’opera affronta inoltre le qualità che deve possedere la «donna di palazzo» e la questione centrale del rapporto tra uomo di corte e potere politico, definito in termini paritetici: il «cortegiano» deve evitare ogni forma di adulazione, mentre il principe deve trovare in lui un’affidabile guida intellettuale e morale.

Capitolo 2

Il petrarchismo ll modello del Canzoniere di Petrarca

L’imitazione di Petrarca Le cause

La struttura della poesia lirica

Le tematiche

L’immagine femminile

Lo stile

Il monolinguismo

Un genere di successo

Considerato da Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua, il modello per eccellenza, Petrarca assume un ruolo centrale per il configurarsi della poesia cinquecentesca, dando luogo a uno dei fenomeni più vistosi della cultura rinascimentale: il cosiddetto petrarchismo. Già si sono sottolineate, nel paragrafo sulla questione della lingua ( Il contesto, p. 139), le ragioni di questa scelta, che incarna le più alte aspirazioni di decoro formale e l’idea stessa di classicismo. Il plurilinguismo di Dante appariva a Bembo non solo troppo rozzo, ma anche mutevole e non ben definito, tale quindi da non poter offrire un termine di riferimento stabile e sicuro. La lirica di Petrarca, al contrario, aveva in sé tutti i requisiti per essere imitata, presentandosi con l’armonica levigatezza di un sistema poetico chiaro e compiuto. Il problema riguarda anche, in ogni caso, le caratteristiche interne di questo genere letterario. La poesia lirica si presenta, infatti, come una struttura chiusa, sia per la limitata estensione di ogni singolo testo, sia per l’andamento regolato dei versi, dovuto allo schema metrico e all’uso delle rime. Soprattutto il sonetto realizza al più alto grado queste condizioni, richiedendo una grande capacità di concentrazione e consentendo un limitato movimento discorsivo o delle immagini. Disponendosi all’interno di questo schema, circoscritto e uniforme, la lezione petrarchesca poteva essere recepita ed espressa a tutti i livelli del testo. Sul piano esistenziale, i canzonieri del Cinquecento ripropongono, per lo più, le tematiche fondamentali della poesia del Petrarca: da un lato una passione esclusiva e ideale, che anche quando non sia corrisposta, ha la forza di sopravvivere oltre la morte; dall’altro il contrasto fra l’amore terreno e l’amore divino, vissuto come un dissidio profondo e insanabile. Quando riprendono questi spunti, le raccolte dei petrarchisti tendono a risolverli su un piano più superficiale, talora quasi aneddotico e cronachistico, che, attraverso i rapporti interni fra i diversi componimenti, sembra voler proporre soprattutto gli sviluppi di un romanzo sentimentale, con le sue incertezze e i suoi trasalimenti. Anche la tipologia del personaggio poetico presenta evidenti analogie. La donna cantata dai petrarchisti è spesso una creatura stilizzata e quasi soprannaturale (la tradizione lirica risale qui, oltre al Petrarca, alla poesia provenzale e stilnovistica), che conserva attributi costanti, sul piano fisico e spirituale: la bellezza e la virtù, l’incedere insieme maestoso e modesto, lo sguardo che costringe all’amore, fino all’incarnato del volto e al colore dei capelli (biondi, sull’esempio di Laura: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi»). Questi elementi trovano la loro risoluzione e fusione sul piano del ritmo, scorrevole e musicale, e del linguaggio. I vocaboli usati dal Petrarca appartengono a un registro particolarmente omogeneo e compatto, selezionato e aristocratico, che riguarda le qualità più elevate dell’esperienza, evitando con cura ogni nota dissonante e stridente. Il lessico petrarchesco poteva essere ridotto a un catalogo di termini ben definiti e limitati, al quale attingono a piene mani i “petrarchisti”. Il monolinguismo di Petrarca forniva così un modello facile da codificare e riproporre, ricomponendolo in uno schema concluso. Queste caratteristiche possono spiegare il successo del petrarchismo, che, favorito anche dall’affermazione dell’editoria, era destinato a divenire un genere di largo consumo, molto letto e praticato a tutti i livelli, fino a trasformarsi in una vera e propria moda. 163

L’età del Rinascimento

Gli autori principali Testi Bembo • Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra dalle Rime

Pietro Bembo Giovanni Della Casa Michelangelo Buonarroti La poesia al femminile

Proprio per la facilità con cui il modello poteva essere imitato, la lirica del Cinquecento si presenta sostanzialmente come un fenomeno piuttosto monotono e prevedibile. Ma occorrerà poi sempre distinguere fra i componimenti più ripetitivi o scolastici e quelli in cui l’adesione all’insegnamento petrarchesco non impedisce una più libera e indipendente ricerca poetica. Lo stesso Bembo (che, oltre a teorizzare il petrarchismo, ne fu anche il più autorevole esponente) passò da moduli piuttosto esterni e meccanici, anche se esemplari ( T1), ai risultati di una più complessa e matura ispirazione; nelle rime di Giovanni Della Casa ( T4, p. 175), da molti ritenuto il maggiore poeta cinquecentesco prima del Tasso, la solennità dell’ispirazione coesiste con un senso di stanchezza e di inquietudine che, soprattutto mediante l’uso degli enjambements, allenta e amplifica la struttura rigida del verso tradizionale; Michelangelo Buonarroti ( A2, p. 170), nei versi degli ultimi anni, esprime una più tormentata e sofferta nudità esistenziale, servendosi di uno stile meno scopertamente letterario. Il petrarchismo svolse anche un ruolo di promozione sociale e culturale. Un posto significativo occupa, in questo panorama, la presenza delle poetesse, che sottolinea l’importanza della donna nella cultura cinquecentesca, non solo in quanto termine di riferimento ideale, ma come soggetto attivo nella letteratura. Il gruppo delle scrittrici – ed è questo un fatto nuovo e di notevole rilievo – risulta cospicuo. Ci limitiamo a ricordare i nomi più importanti: Gaspara Stampa, su cui torneremo in maniera più dettagliata ( A1, p. 167); Veronica Gambara (1485-1550), che sposò il signore di Correggio e resse poi, alla morte del marito, il piccolo Stato; Vittoria Colonna (1490-1547), moglie del marchese di Ferrara, che visse intensamente i problemi religiosi del tempo ed ebbe un profondo legame spirituale con Michelangelo.

Pietro BemBo

T1

Capitolo 1, A1, p. 151

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura dalle Rime, V

Temi chiave

Il testo è particolarmente indicativo delle intenzioni, ma anche dei limiti, del petrarchismo.

> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, DEC.

4

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole1, occhi soavi e più chiari che ’l sole, da far giorno seren la notte oscura2,

8

riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura3, rubini e perle4, ond’escono parole sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle5, man d’avorio, che i cor distringe e fura6,

1. Crin … vole: capelli ricci (crespo), biondi come l’oro, lucenti e nitidi (o trasparenti) come l’ambra (una resina fossile anch’essa di colore giallo), che ondeggiate e volate (dipendono dal singolare crin) sul volto candi-

164

do (indicato dalla metafora della neve) all’aria. Si ricordi che l’aura, nella poesia petrarchesca, implicava spesso il bisticcio con il nome della donna amata, Laura. 2. da far … oscura: tanto splendenti (chiari),

• la convenzionalità della figura femminile • il carattere scontato delle attribuzioni metaforiche

da trasformare (far) la notte scura in un giorno luminoso (seren). L’antitesi, di gusto concettoso, dipende dal paragone metaforico fra gli occhi e il sole. 3. riso, ch’acqueta … dura: sorriso (sguardo sorridente), che calma e placa anche le sofferenze più crudeli, portando la pace e la serenità. 4. rubini e perle: pietre preziose e gioielli, dal colore rosso vivo e bianco. Sono sostantivi con valore metaforico e indicano, rispettivamente, le labbra e i denti. 5. ond’escono … vòle: da cui (ond’) escono parole così dolci che l’anima (alma) non desidera (vòle, vuole, in rima equivoca con il vole del v. 2) nessun’altra gioia (ben, bene). 6. i cor … fura: incatena, tiene avvinti e ruba (fura, latinismo) i cuori.

Capitolo 2 · Il petrarchismo

11

cantar7, che sembra d’armonia divina, senno maturo a la più verde etade8, leggiadria9 non veduta unqua10 fra noi,

14

giunta11 a somma beltà somma onestade12, fur l’esca del mio foco13, e sono in voi grazie, ch’a poche il ciel largo destina14.

7. cantar: canto (infinito sostantivato). 8. senno … etade: assennatezza e prudenza (proprie di una persona matura), nella più giovane età (a la più verde etade). Si noti, anche in questo verso, il gusto delle antitesi.

9. leggiadria: grazia, finezza. 10. unqua: mai, latinismo. 11. giunta: congiunta, unita. 12. a somma … onestade: il termine onestade, che risale alla tradizione stilnovisti-

ca, sintetizza, insieme con beltà, le più alte qualità fisiche e spirituali della donna, enunciate al loro grado superlativo (si noti la simmetrica ripetizione di somma); queste qualità costituiscono i soggetti di fur (furono), con cui inizia il verso successivo. 13. l’esca … foco: l’esca (la materia secca accesa con le scintille dell’acciarino) da cui sprigionò il fuoco, la passione amorosa del poeta. 14. grazie … destina: grazie (nel senso anche religioso del termine) che a poche creature il cielo concede (destina, riserva) con tanta larghezza, generosità.

Analisi del testo Soggetto e predicati

Esemplarità e meccanicità

La figura femminile

Le connotazioni metaforiche Le antitesi I motivi esistenziali I vocaboli e gli stilemi petrarcheschi

Altri riferimenti a Petrarca

> La costruzione del sonetto

È l’esempio più famoso del “petrarchismo” di Bembo. I primi dodici versi si possono considerare come un solo soggetto, costituito, al suo interno, da un lungo elenco delle attrattive fisiche e spirituali della donna. Ne risulta una direzione unica, ma assai frammentata, del discorso poetico, che concepisce questa parte preliminare in funzione dei due versi conclusivi. La sproporzione non è solo quantitativa, ma viene accentuata dal carattere generico dei predicati nominali: il primo («fur l’esca del mio foco») giustifica l’occasione del sonetto attraverso una metafora del tutto convenzionale; il secondo («sono in voi / grazie, ch’a poche il ciel largo destina») generalizza in termini ugualmente scontati il motivo della grazia, riportandolo, in senso neoplatonico, alla sua origine divina (dello stesso Bembo si veda, in proposito, cap. 1, A1, p. 151).

> L’adesione convenzionale al modello

L’esemplarità del sonetto consiste proprio in questa adesione a stilemi poetici ricavati, con una giustapposizione piuttosto inerte ed elementare, dal repertorio di immagini e di metafore utilizzato da Petrarca, come sintesi di tutta la più alta tradizione lirica precedente. Se ne vedano alcuni esempi, a diversi livelli tematici e stilistici: 1. la convenzionalità del figurino femminile che viene abbozzato, con il ricorso a elementi costanti (i capelli biondi; gli occhi «soavi» e «chiari»; il sorriso rasserenante; le mani bianche; la voce armoniosa; la «leggiadria» e la «beltà», di grado assoluto e superlativo, congiunte con il «senno» e l’«onestade», che è attributo già tipicamente stilnovistico e dantesco); 2. il carattere scontato delle connotazioni metaforiche («Crin d’oro [...] e d’ambra», «più chiari che ’l sole», «rubini e perle», «man d’avorio»); 3. il gusto dei contrasti e delle antitesi, già usati da Petrarca per sottolineare le contraddizioni e i contrasti interiori («da far giorno seren la notte oscura», «senno maturo a la più verde etade»); 4. l’allusione alle sofferenze e ai dolori della vita (v. 5), che trovano sollievo nella grazia femminile (più complesso e conflittuale il rapporto stabilito da Petrarca con l’amore per Laura); 5. la presenza di sostantivi e aggettivi reperibili nel vocabolario petrarchesco e la ripresa, in tale ambito, di luoghi precisi: l’inizio («Crin d’oro [...] / ch’a l’aura [...] ondeggi») rinvia ad esempio al celebre «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi», senza ovviamente l’allusione al bisticcio, tutto interno alla poesia di Petrarca, Laura / «l’aura»; il verso conclusivo è un calco evidente del verso iniziale del sonetto CCXIII delle Rime petrarchesche, «Grazie ch’a pochi il ciel largo destina», che è senza dubbio la fonte più diretta del componimento antologizzato di Bembo. Ma l’imitazione di Petrarca risulta un fenomeno ben più capillare e diffuso, estensibile a più luoghi sparsamente disseminati nell’opera. È quanto ha dimostrato Carlo Dionisotti, secondo cui si può capire come «questo abile centone diventasse esemplare ai trattatisti 165

L’età del Rinascimento Esteriorità del procedimento

cinquecenteschi della bellezza femminile che ad esso rinviano spesso». Ma il procedimento bembiano è più esterno che interiorizzato, rivissuto e rielaborato. Le componenti indicate restano isolate e frammentarie, in versi per lo più staccati fra di loro, senza comporsi in un fluido movimento poetico (nonostante certi accorgimenti formali, come la simmetrica ripetizione di «somma» al verso 12 e, soprattutto, l’allitterazione di r, particolarmente insistita nella prima parte).

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Riassumi il contenuto del sonetto in non più di 5 righe (250 caratteri). AnALizzARe

> 2. > 3.

Quali sono nel testo le metafore riferite alle bellezze fisiche della donna? Sottolinea i numerosi paragoni iperbolici con cui il poeta esalta la grazia dell’amata. Quale altra figura vi compare che concorre allo stesso fine? > 4. Stile Rileva nel componimento le antitesi e dittologie. > 5. Lessico Individua, a livello lessicale, almeno due termini che, in modo significativo, rinviino direttamente a Petrarca. Stile Stile

APPRofondiRe e inTeRPReTARe

> 6.

Scrivere Esponi in un testo di circa 15 righe (750 caratteri) la concezione dell’amore adombrata in questo sonetto, mettendone in luce i rapporti con la tradizione lirica italiana. > 7. Altri linguaggi: arte Secondo alcuni critici, la donna celebrata da Bembo sarebbe Lucrezia Borgia, figlia illegittima di papa Alessandro VI, nota per la sua bellezza e personaggio assai controverso per i presunti intrighi di cui fu al centro. Un ritratto della donna sembra essere anche quello di Bartolomeo Veneto, dal titolo Ritratto di Flora. Rintraccia nel dipinto. a) Gli elementi riferibili all’iconografia propria di Flora, dea della primavera; b) Quelli che il ritratto ha in comune con la figura femminile descritta da Bembo.

Bartolomeo Veneto, Presunto ritratto di Lucrezia Borgia nelle vesti di Flora, 1520-25, olio su tela, Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinstitut.

PeR iL ReCuPeRo

> 8. Completa la tabella, distinguendo nel sonetto le diverse parti in cui sono elencate le qualità fisiche e morali della donna, secondo l’esempio proposto.

166

Strofe

Qualità della donna

Prima quartina

fisiche: capelli… ...........................................................................................................................................................................................................................................................................

Seconda quartina

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

Prima terzina

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

Seconda terzina

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

Capitolo 2 · Il petrarchismo

A1

Gaspara Stampa La vita Nata a Padova intorno al 1523 da una nobile famiglia, alla morte del padre Gaspara Stampa si trasferì a Venezia con la madre, il fratello Baldassarre, anch’egli poeta, e la sorella Cassandra, che esercitava la professione di cantatrice. Sufficientemente colta nella letteratura e nella musica, Gaspara fu portata dalla forte carica della sua personalità a vivere in modo libero diverse esperienze amorose, che segnano profondamente la sua vita e la sua produzione poetica. I romantici videro in lei una novella Saffo, anche per la sua breve esistenza (morì nel 1554), vissuta in una maniera intensamente passionale. La vicenda della poetessa va però ridimensionata e collocata nel quadro della vita mondana del tempo, dove le relazioni sociali, comprese quelle amorose, rispondono spesso a un cerimoniale e a convenzioni precise. In particolare l’amore per il conte Collaltino di Collalto durò circa tre anni (1548-51) e si concluse con l’abbandono della poetessa, che attraversò anche una crisi religiosa.

Le forme del “diario”

Testi Stampa • Piangete, donne • Mesta e pentita

T2

Le rime A Collaltino è dedicata la maggior parte delle rime della Stampa (pubblicate dalla sorella nel medesimo anno della morte), che, concepite secondo il modello petrarchesco, costituiscono una delle più interessanti raccolte liriche del Cinquecento: «Umanamente complesso, ricco di “moderna” psicologia, il canzoniere della Stampa, che la nostra romantica sensibilità ha visto soprattutto come un “ardente diario” amoroso, risente dell’inquieta originalità di una vicenda umana “confessata” con femminile espansione. Nessun altro canzoniere cinquecentesco ci offre un così vivo interesse documentario e psicologico» (Ponchiroli). L’originalità coincide con i limiti stessi di una versificazione che tende a risolversi nelle forme immediate e quasi discorsive di una confessione autobiografica, rifiutando una più complessa elaborazione tecnico-formale del discorso poetico.

Gaspara Stampa

Temi chiave

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime

• gli effetti passionali della sofferenza amorosa

• l’affermazione di una condizione di superiorità femminile

• la tendenza autobiografica

dalle Rime, I È il sonetto con cui si apre la raccolta delle Rime di Gaspara Stampa.

> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.

4

Voi, ch’ascoltate in queste meste1 rime, in questi mesti, in questi oscuri2 accenti il suon degli amorosi miei lamenti e de le pene mie tra l’altre prime3,

8

ove fia chi4 valor apprezzi e stime, gloria, non che5 perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti6, poi che la lor cagione7 è sì sublime.

1. meste: dolenti, accorate. 2. oscuri: resi tali dal tormento della passione.

3. tra l’altre prime: «prime fra tutte» (Baldacci), ossia più acute e tormentose di tutte le altre.

4. ove fia chi: se ci sarà qualcuno che (il “valore” indica qui, in particolare, l’altezza del sentimento, che rende quasi eroica l’esperienza vissuta e registrata poi dalla poesia). 5. non che: oltre che. 6. le ben … genti: le persone che si distinguono non solo per la nascita, ma anche per la sensibilità e la preparazione culturale. 7. poi … cagione: poiché la loro causa (sull’origine e sulla natura sublime di questa passione si veda la nota 4).

167

L’età del Rinascimento

11

E spero ancor che debba dir qualcuna8: – Felicissima lei, da che sostenne per sì chiara cagion danno sì chiaro9!

14

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna per sì10 nobil signor a me non venne, ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro11?

8. qualcuna: «qualche donna ansiosa d’imitarne l’esempio» (Baldacci).

9. da che … chiaro: poiché o, più precisamente, da quando sopportò (sostenne) un

dolore (danno) così glorioso (chiaro) per una causa così ugualmente gloriosa. 10. per sì: da parte di (il nobil signor è Collaltino di Collalto). 11. n’andrei … paro: sarei uguale a, sarei alla pari con una donna così grande (la donna felicissima del v. 10).

Analisi del testo Il sonetto proemiale

> il confronto con Petrarca

È evidente ed esplicito, in questo sonetto, il richiamo al modello petrarchesco, sia per i voluti riferimenti a versi particolari, sia per la collocazione strutturale, che, in apertura dell’opera, gli attribuisce una funzione chiaramente programmatica. Il confronto è da stabilire in primo luogo con il corrispondente sonetto introduttivo delle Rime del Petrarca e si basa sulle seguenti riprese: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ’l core

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, in questi mesti, in questi oscuri accenti il suon degli amorosi miei lamenti

ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, non che perdono.

ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti,

Questi versi costituiscono il cardine su cui si sviluppa il discorso poetico, che muove da una dichiarata base comune. Un dissidio esteriore Determinazione e amplificazione

Il motivo del «perdono» Il motivo della «gloria»

La poetica e il pubblico

168

> La distanza dal modello

In Gaspara Stampa il dissidio petrachesco risulta motivato più dall’esterno, in maniera più meccanica e intenzionale, senza aver la forza di proporsi come segno emblematico di una condizione esistenziale, su un piano di validità esemplare. Se Petrarca tende a sfumare, presentando la situazione in termini vaghi e generali, la poetessa cinquecentesca insiste su una maggiore determinazione dei suoi sentimenti, a partire dalle insistite riprese del distico iniziale («in queste meste rime, / in questi mesti, in questi oscuri accenti»). Non è un caso, forse, che i luoghi petrarcheschi citati vengano amplificati dalla Stampa, che li porta da due a tre versi. Un analogo discorso si può fare per la richiesta del «perdono», nel secondo confronto che abbiamo proposto. In Petrarca il termine è associato a «pietà» (a indicare la sofferta denuncia delle lusinghe mondane), mentre nella Stampa si collega a «gloria», segnando uno scarto di non poco conto rispetto al modello. Essa costituisce un motivo di consolazione e di rivalsa, anche per quanto riguarda l’orgogliosa affermazione di una condizione di superiorità femminile (si veda anche, in proposito, l’ultimo verso). In Petrarca la gloria poetica, al pari dell’amore, è coinvolta in un medesimo giudizio di condanna, in quanto appartiene anch’essa alla stessa categoria delle lusinghe vane. Il vocativo con cui inizia, petrarchescamente, il sonetto, diffondendosi poi nei versi delle quartine («ch’ascoltate», «ove fia», sino al verbo reggente «spero»), ha un’ulteriore e particolare specificazione («fra le ben nate genti»), che opera una distinzione di tipo storico-

Capitolo 2 · Il petrarchismo

La tendenza autobiografica

sociale (rispetto al «popol tutto», indicato come termine di riferimento dal Petrarca), nella misura in cui si rivolge a un particolare tipo di pubblico, quello della nobiltà, che gravita intorno all’ambiente delle corti. È questa una conferma del carattere insieme mondano e altamente decorativo di molto petrarchismo, che, in casi come questi, non riesce a sintetizzare gli elementi conflittuali e profondi, oltreché altamente innovatori, reperibili nel modello. Non manca, nel canzoniere della Stampa, il dissidio fra beni terreni e valori spirituali; ma esso appartiene piuttosto a momenti distinti e segue un itinerario esteriore, cogliendo soprattutto gli effetti biografici e passionali della sofferenza amorosa. Più che in altri è evidente, in questa poetessa, la tendenza, propria del petrarchismo cinquecentesco, a costruire un «romanzo sentimentale», in un senso lirico che si ispira alla vicenda d’amore di Petrarca per Laura.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Sintetizza per ogni strofa il contenuto del sonetto, secondo l’esempio proposto. Strofe

Sintesi contenuto

I quartina

L’autrice si rivolge al suo pubblico, definendo la natura e la genesi della sua poesia. ...........................................................................................................................................................................................................................................................................

II quartina

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

I terzina

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

II terzina

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

AnALizzARe

> 2. Quali argomenti trattati dal sonetto riflettono la vita mondana del tempo con i suoi codici di comportamento? Motiva la tua risposta. Stile Riporta nella tabella seguente un esempio significativo, tratto dal testo, per ogni figura indicata, riconducibile al gusto petrarchesco per le simmetrie espressive.

> 3.

figure retoriche

esempi

ripetizione

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

dittologia

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

chiasmo

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

APPRofondiRe e inTeRPReTARe

> 4. Scrivere Il tema della “scrittura delle donne” suggerisce un confronto, malgrado l’appartenenza a contesti diversi, fra le figure storiche di Gaspara Stampa e di Santa Caterina da Siena. Elabora un breve scritto sull’argomento di circa 15 righe (750 caratteri). SCRiTTuRA CReATiVA

> 5. Siamo nel 1551, anno in cui si concluse la relazione amorosa che legò la poetessa al conte Collaltino di Collalto:

immagina le ultime lettere di un loro carteggio segreto, attraverso cui emergano i veri motivi dell’abbandono della poetessa e del rifugiarsi di quest’ultima nelle fede religiosa. Nell’elaborare i due scritti, che non dovranno superare le 30 righe (1500 caratteri) ciascuno, tieni conto delle informazioni fornite dal manuale ed eventualmente da altre fonti, e soprattutto delle peculiarità che la prospettiva femminile e maschile comportano in riferimento alla scrittura di tipo autobiografico.

169

L’età del Rinascimento

A2 A Roma

Il David

La Cappella Sistina

Il ritorno a Firenze

Tommaso Cavalieri

Il Giudizio universale

Vittoria Colonna e l’ispirazione religiosa

Michelangelo Buonarroti La vita Michelangelo Buonarroti nacque a Caprese, in provincia di Arezzo, nel 1475. Proveniente da famiglia non agiata, ottenne la protezione di Lorenzo il Magnifico, stringendo rapporti di amicizia anche col Poliziano. Dopo la morte di Lorenzo si trasferì a Roma per circa cinque anni. Le opere pervenuteci di questo periodo sono il Bacco eseguito per il banchiere romano Iacopo Galli, ora al Museo Nazionale di Firenze, e la famosa Pietà, che appartiene agli anni 1497-99. Nel 1501 tornò a Firenze dove condusse a termine la statua del David, che fu posta all’entrata del palazzo della Signoria nella primavera del 1504. La sua fama era cresciuta notevolmente se poco dopo gli giunse improvvisamente da Roma la chiamata di papa Giulio II, con l’incarico di costruirgli una tomba. L’impresa, iniziata con entusiasmo, naufragò quando lo scultore, ritornato a Roma dopo essere stato a Carrara per procurarsi i marmi, entrò in disaccordo col pontefice e fuggì adirato a Firenze, nell’aprile del 1506. Grazie all’intermediazione del gonfaloniere Pier Soderini si riconciliò con Giulio II e poco dopo ricevette l’incarico di affrescare la volta della Cappella Sistina in Vaticano. Negli anni successivi, dopo la morte di Giulio II nel 1513, assunse altri impegni con il suo successore, Leone X, fra cui quello di eseguire la facciata della chiesa di San Lorenzo a Firenze. L’impresa fallì per alcune difficoltà tecniche e per il sopraggiunto disinteresse di Leone X. Ma Clemente VII (eletto al soglio pontificio nel 1523) volle che proseguisse i lavori in San Lorenzo e che intraprendesse la costruzione della Biblioteca Laurenziana. Michelangelo si dedicò a questi lavori fino al 1527, anno in cui furono cacciati i Medici da Firenze. La sua fede repubblicana lo indusse ad aderire al nuovo governo e a sovraintendere alla fortificazione della città, minacciata dall’esercito del papa e dell’imperatore. Quando la città cadde, nel 1530, dovette in un primo tempo nascondersi, ma in seguito venne richiamato da Clemente VII per portare a termine i lavori in San Lorenzo. In un viaggio a Roma, nel 1532, conobbe un gentiluomo romano, Tommaso Cavalieri, di cui lo colpì profondamente la bellezza. Iniziò un’intensa amicizia, che durò fino alla morte dell’artista. Nel 1534 lasciò Firenze senza aver ultimato i lavori in San Lorenzo. Già Clemente VII aveva progettato di far dipingere a Michelangelo il Giudizio universale, sulla parete dell’altare della Cappella Sistina. L’idea venne ripresa ed attuata dal suo successore Paolo III: l’opera fu eseguita tra il 1535 ed il 1541 e rivela un fervore religioso sconosciuto durante l’affresco della volta. Probabilmente nel 1536 avvenne l’incontro e l’amicizia con Vittoria Colonna, dalla quale ricevette lo stimolo per una rinnovata interiorizzazione del sentimento religioso. La poetessa aveva creato un cenacolo di letterati ed artisti, aperto alla discussione sui problemi della fede, che Michelangelo frequentò per un certo periodo. Il compito della riedificazione di San Pietro e dell’erezione della cupola occupò gli ultimi anni dell’artista, che attese a questa impresa come ad una missione che avrebbe giovato alla salute della sua anima. Per questo motivo rifiutò tutti gli inviti di Cosimo I a tornare a Firenze, ma non rinunciò a dar spazio anche in altro modo alla sua creatività.

Michelangelo Buonarroti, Pietà, 1497-99, marmo, part., Città del Vaticano, Basilica di San Pietro.

170

Capitolo 2 · Il petrarchismo

Ne sono testimonianza le due Pietà marmoree non finite, quella del Duomo di Firenze e la Pietà Rondanini, eseguite entrambe su iniziativa personale dell’artista anziché su commissione. Alla Pietà Rondanini Michelangelo lavorò fino a pochi giorni prima della morte, che avvenne nel febbraio del 1564. La raccolta

Il neoplatonismo

Il rapporto con il petrarchismo

Lo stile

L’ispirazione religiosa

T3

Le Rime La figura di Michelangelo scrittore è legata alla sua produzione in versi, le Rime, pubblicate solo nel 1623 dal nipote Michelangelo Buonarroti il Giovane. La raccolta definitiva comprende più di duecento poesie finite (in prevalenza madrigali, sonetti ed epitaffi), oltre a un centinaio fra componimenti incompiuti e frammenti isolati. Le prime prove risalgono al 1502-03 e rimangono abbastanza episodiche fino agli anni Trenta, infittendosi poi in concomitanza con le due amicizie fondamentali per l’artista: quella con Tommaso Cavalieri e quella con Vittoria Colonna, che, inducendolo ad approfondire e a interiorizzare la concezione neoplatonica, offrirono nuovi spunti alla sua ispirazione. I pareri su questa esperienza poetica sono stati a lungo discordi: di certo Michelangelo non si adeguò supinamente agli schemi della poesia del tempo e, per molti aspetti, le sue rime si distinguono dalla produzione corrente dei petrarchisti; al punto che Francesco Berni ( cap. 4, A1, p. 194) scriverà in un suo verso: «e’ dice cose, e voi dite parole». Pur essendo un estimatore del Petrarca, non tentò neppure di dare al suo stile la perfezione formale che poteva derivare dall’ideale petrarchesco (e classicistico) di equilibrio ed armonia (sin dall’inizio è presente, anche, l’influsso del Dante delle “rime petrose”). Si direbbe che il rapporto di Michelangelo con la lingua sia stato particolarmente difficile e faticoso; ne emerge un poetare aspro, arduo, spezzato, che si fa espressione sofferta del travaglio emotivo ed esistenziale del poeta. Lo sforzo di conciliare l’urgenza della confessione interiore con la precisione della forma fa sì che il dettato risulti spesso oscuro, spingendosi sino alla ricerca di un concettismo prezioso, che sembra anticipare alcuni aspetti della sensibilità manieristica e barocca (non a caso alcuni critici d’arte hanno visto in Michelangelo uno dei precursori del Manierismo pittorico). Con la morte di Vittoria Colonna (1547), l’abbandono della tematica amorosa segna un approfondirsi della problematica religiosa, in cui l’ansia e il tormento interiore vengono espressi attraverso uno stile più immediato ed essenziale.

Michelangelo Buonarroti

Giunto è già ’l corso della vita mia

Temi chiave

• la vanità delle cose umane • la metafora della vita come navigazione • il valore dell’arte • l’ispirazione religiosa

dalle Rime, CCLXXXV «Si può collocare intorno al 1554, come si può ricavare da una lettera di quell’anno al Vasari, sebbene variamente discussa» (Baldacci).

> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.

4

1. per: su una. «Il gusto delle metafore, nella prima quartina, è petrarchesco» (Baldacci). 2. al comun … varca: al porto comune (l’ap-

Giunto è già ’l corso della vita mia con tempestoso mar, per1 fragil barca, al comun porto, ov’a render si varca2 conto e ragion d’ogni opra trista3 e pia. prodo della morte, che aspetta tutti gli uomini), dal quale (ov’) si passa (varca) per rendere.

3. opra trista: opera malvagia.

171

L’età del Rinascimento

8

Onde l’affettuosa4 fantasia, che l’arte mi fece idol e monarca5, conosco or ben, com’era d’error carca6, e quel che a mal suo grado ogn’uom desia7.

11

Gli amorosi pensier, già vani8 e lieti, che fien9 or, s’a duo morte10 m’avicino? D’una so ’l certo11, e l’altra mi minaccia.

14

Né pinger né scolpir fie più che quieti12 l’anima volta a quell’amor divino ch’aperse a prender noi ’n croce le braccia13.

4. affettuosa: «calda di seducenti pensieri» (Baldacci). 5. che l’arte … monarca: che rese l’arte il mio dio e il mio sovrano; cioè Michelangelo fece di essa la sua padrona assoluta. 6. carca: carica, piena. 7. quel … desia: quello che ogni uomo desidera contro di lui, a suo danno (a mal suo grado).

8. vani: vanitosi, vuoti. 9. che fien: che cosa diventeranno. 10. duo morte: «la morte del corpo e quella dell’anima, sulle quali s’insiste nel verso seguente» (Baldacci). 11. D’una … certo: di una (la morte del corpo) sono sicuro, la conosco con certezza. 12. Né pinger … quieti: né la pittura né la

scultura faranno sì che si plachi, trovi la sua pace (quieti). 13. ch’aperse … braccia: si avverte un’eco della canzone petrarchesca I’ vo pensando: «Quelle pietose braccia, / in ch’io mi fido, veggio aperte ancora» (Quelle pietose braccia [del Cristo crocifisso], / alle quali desidero affidarmi, le vedo ancora aperte, CCLXIV, vv. 14-15).

Analisi del testo La vanità delle cose umane La metafora della nave

Durezza e drammaticità di espressione

Le due morti La funzione delle rime

> La percezione della fine

Il motivo sviluppato è quello petrarchesco della vanità delle cose umane di fronte alla prospettiva della morte. La metafora della prima quartina, che paragona il corso della vita a una «fragil barca» abbandonata in un «tempestoso mar», riprende e sintetizza l’immagine ampiamente elaborata da Petrarca nel sonetto CLXXXIX: «Passa la nave mia colma d’oblio / per aspro mare» (ma diffusa anche in altri componimenti, come l’immagine del «porto»). Il carattere del dettato michelangiolesco appare tuttavia lontano dall’armoniosa levigatezza dei versi propria del Petrarca e del petrarchismo contemporaneo. C’è in lui una durezza di espressione (si noti l’allitterazione di r + consonante, particolarmente insistita nell’ultimo verso), che sottolinea l’urgenza di un sentimento intensamente conflittuale e drammatico. Lo stile dei versi lascia emergere i tratti di una vigorosa e risentita individualità, non imbrigliata dalle convenzioni di un semplice esercizio di scrittura. Petrarchesca è l’immagine degli «amorosi pensier», con l’aggettivazione che l’accompagna («già vani e lieti»), ma il richiamo alle «duo morte» si impone per un senso cupo e incombente, quasi fisico, della fine. Anche l’atteggiamento nei confronti della vanità della gloria poetica risale al Petrarca, a partire dal nesso «d’error carca» («errore» è termine di frequente uso petrarchesco), che, in rima con «monarca» (il sostantivo esprime il concetto di una assoluta tirannia), stabilisce una netta opposizione con la rima «fantasia» / «desia», nei due versi che incorniciano la quartina (l’opposizione, sul piano temporale, è segnata dall’uso del passato remoto e dal presente, accompagnato dall’avverbio «or», nei versi centrali).

> il significato e il valore dell’arte

Accennando appena ad altri traviamenti, Michelangelo pone decisamente il contrasto all’interno dell’esperienza artistica, interrogandosi drammaticamente sulle sue possi-

172

Capitolo 2 · Il petrarchismo

L’insufficienza dell’arte

L’autobiografismo religioso

bilità di realizzare le aspirazioni dell’uomo: all’inizio della seconda quartina l’«arte» è considerata, teneramente, come una «affettuosa fantasia», piena di lusinghe e di dolcezze, ma il suo imperio finisce per essere tale da trasformarla, crudelmente, in «idol e monarca», ossia nella tirannica signora di un culto quasi eretico e blasfemo. La risposta, sottolineandone l’insufficienza e la relatività, risulta quindi completamente negativa; essa non può dare risposte alle speranze dell’individuo, che, per trovare la pace, deve affidarsi interamente all’«amor divino». L’immediatezza degli infiniti che fungono, in negativo, da soggetto («Né pinger né scolpir»), ponendo in primo piano le prevalenti attività artistiche esercitate dal poeta, chiude il sonetto con il carattere di un’urgente e prepotente confessione autobiografica, che rende umanamente credibili e persuasivi la sofferta testimonianza esistenziale e il motivo dell’ispirazione religiosa.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Di che cosa è preoccupato il poeta, giunto alla fine della sua vita? > 2. In quali versi fa riferimento all’attività artistica? Che cosa afferma a tale proposito? AnALizzARe

> 3.

Stile Individua e spiega tutti gli elementi che compongono la metafora della navigazione, presente nella prima quartina. > 4. Stile Individua nel testo esempi di inversioni sintattiche, dittologie, enjambements, allitterazioni e scontri consonantici.

APPRofondiRe e inTeRPReTARe

> 5.

Scrivere Illustra, in circa 15 righe (750 caratteri), la contrapposizione tra passato e presente che emerge in questo sonetto e confrontala con quella che ispira molti sonetti del Canzoniere petrarchesco (pensa, ad esempio, al sonetto iniziale Voi ch’ascoltate in rime sparse ’l suono). > 6. Altri linguaggi: arte Osserva e poni a confronto due opere scultorie realizzate da Michelangelo a distanza di anni: la Pietà del 1497-99 ( p. 170) e la cosiddetta Pietà Rondanini del 1564, realizzata poco prima della sua morte. Poi rispondi alle domande. a) Che cosa noti sia a livello tematico sia a livello artistico, ad una prima osservazione? b) Si discute ancora se la Pietà Rondanini, realizzata da Michelangelo nel 1564, sia un’opera incompiuta o se si tratti di un modo nuovo e diverso di intendere la scultura da parte dell’artista. Esponi le tue considerazioni in merito, prendendo in esame quanto l’autore scrive nell’ultima terzina del sonetto analizzato.

Michelangelo Buonarroti, Pietà Rondanini, 1552-64, marmo, part., Milano, Museo della Pietà Rondanini.

173

L’età del Rinascimento

A3 Gli studi e la formazione La carriera ecclesiastica

Il Galateo

Il rapporto con il Cortegiano

Un ideale medio

Lo stile

174

Giovanni della Casa Giovanni Della Casa nacque da una nobile e ricca famiglia fiorentina nel 1503. Compiuti i primi studi a Firenze, si recò a Bologna per seguirvi i corsi di diritto. Nel 1528 si trasferì a Padova, dove intraprese lo studio del greco, e poco dopo a Roma, dove compose alcuni capitoli licenziosi (Sopra il forno, Del bacio, Del martello, Della stizza). Nel frattempo decise di intraprendere la carriera ecclesiastica, non per vocazione, ma attratto dal prestigio che questa gli avrebbe conferito. Nel 1544 fu nominato arcivescovo di Benevento e, nello stesso anno, inviato come nunzio a Venezia. Qui introdusse, per la prima volta nel Veneto, il tribunale dell’Inquisizione e promosse i primi processi contro i riformati. Nel 1547, per incarico del papa, indusse la Repubblica Veneta ad allearsi con la Francia per combattere contro l’Impero. Alla morte di Paolo III (1549) lasciò la nunziatura di Venezia e ritornò a Roma, dove rimase fino al 1551, per poi tornare a vivere in Veneto, dove attese alla stesura del Galateo e delle più mature fra le sue Rime. Quando salì al soglio pontificio il nuovo papa Paolo IV (1555), Della Casa fu convocato a Roma e si fece più forte in lui la speranza di ottenere il cappello cardinalizio; ma anche in quest’occasione il desiderio, che aveva amareggiato gli ultimi anni della sua vita, non poté realizzarsi. Non molto dopo la morte lo colse a Montepulciano, nel novembre del 1556.

La vita

Il Galateo deriva il suo titolo dal vescovo Galeazzo Florimonte, già presente nelle poesie latine di Della Casa con il nome di Galatheus. Discutendo con lui «del dire civile e politico e della leggiadria e convenienza dei costumi e delle laide maniere, che gli uomini usano bene spesso fra di loro», lo scrittore sarebbe stato invitato a comporre su questi temi un trattato in volgare. Nella finzione si immagina che un vecchio illetterato, ma ricco di esperienza, insegni ad un giovinetto inesperto le buone maniere, affinché sappia comportarsi onorevolmente in società. La forma del trattatello è quindi monologica, in quanto si basa su una sola “voce”, che espone e sviluppa analiticamente l’argomento. L’autore non intende soffermarsi sulle virtù più alte ed eroiche, che convengono a pochi individui eccezionali; il suo scopo è quello di correggere i difetti più frequenti e di formare quelle doti che si esercitano quotidianamente, nella pratica comune del vivere in società. La funzione ideologica dell’opera risulta così assai diversa rispetto a quella del Cortegiano: il modello proposto da Castiglione viene abbassato ed esteso, per adattare a più ampi settori e ceti sociali il gusto delle maniere aristocratiche e dei comportamenti raffinati. Si diversifica anche, di conseguenza, la composizione del pubblico e si spiega, in questo modo, la grande fortuna incontrata anche in seguito dall’opera. La vocazione pedagogica di Della Casa trasforma l’ideale di grazia e di misura, tipico della civiltà rinascimentale, in un ideale medio, finalizzandolo alle capacità di una immediata ricezione. Solo a partire di qui si può comprendere l’ideale estetico del Galateo, fatto di eleganza e di misura; esso si rivela nei suggerimenti sui modi e sulle forme della conversazione, che riecheggiano un gusto già boccacciano, o nella definizione della bellezza come superiore armonia e “unità” («vuole essere la bellezza uno», mentre «la bruttezza per lo contrario è molti»). Misura e moderazione devono regolare anche la pratica delle convenzioni sociali; Della Casa non esita a polemizzare con l’eccessivo formalismo e l’abuso delle “cerimonie”, che si stavano esageratamente diffondendo in Italia anche per l’influsso del costume spagnolo. Anche lo stile del trattato – in linea con queste intenzioni – si basa su una scrittura agilmente mossa e discorsiva, che, seppur mantenendo un vigile controllo formale, non ignora le espressioni della lingua parlata.

Le opere

Capitolo 2 · Il petrarchismo Le rime

T4

Il Galateo venne pubblicato postumo, nel 1558, nell’edizione delle Rime e prose, insieme con le poesie ( T4). L’importanza di queste nella storia della lirica cinquecentesca è notevole, per l’originalità con cui rielaborano la lezione di Petrarca, integrandola con l’esempio offerto dalle rime “petrose” di Dante. A differenza del Galateo, i versi muovono da un’ispirazione sostenuta e solenne, che tocca argomenti di particolare gravità esistenziale; concedendo poco spazio alla più convenzionale tematica amorosa, essi esprimono piuttosto la drammaticità delle contraddizioni interiori, con un senso di sottile inquietudine psicologica e morale. Elaborati con grande attenzione e sapienza tecnica, questi componimenti rifiutano le cadenze di una facile musicalità per insistere piuttosto sul rapporto fra la parola e l’immagine, reso con particolare intensità dall’uso suggestivo degli enjambements.

Giovanni della Casa

o Sonno, o de la queta, umida, ombrosa

Temi chiave

• l’invocazione al sonno come cura per gli affanni mortali

• la precarietà della condizione umana

dalle Rime e prose, LIV Il componimento, considerato fra i più suggestivi del petrarchismo, sviluppa un motivo che si inserisce in una lunga tradizione letteraria.

> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.

4

O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa notte placido figlio1; o de’ mortali egri2 conforto, oblio3 dolce de’ mali sì gravi, ond’è4 la vita aspra e noiosa5;

8

soccorri6 al core omai7, che langue, e posa non ave8; e queste membra stanche e frali9 solleva: a me ten vola10, o Sonno, e l’ali tue brune sovra me distendi e posa.

11

Ov’è ’l silenzio, che ’l dì fugge e ’l lume11? e i lievi12 Sogni, che con non secure vestigia di seguirti han per costume13?

14

Lasso14! che ’nvan te chiamo, e queste oscure e gelide ombre invan lusingo15. O piume d’asprezza colme16! O notti acerbe17 e dure!

1. O Sonno … figlio: il sonno è definito figlio della notte, perché nasce da lei; la triplice aggettivazione che la caratterizza sottolinea prima di tutto una sensazione di pace (queta), poi di morbida protezione (umida) e di mistero (ombrosa). 2. egri: ammalati (latinismo) ma soprattutto, più in generale, sofferenti. 3. oblio: dimenticanza (nel senso che l’abbandono al sonno fa dimenticare ogni cosa). 4. ond’è: per i quali è, che rendono. 5. aspra e noiosa: dura e piena di affanni. 6. soccorri: aiuta, vieni in soccorso.

7. omai: ormai, finalmente. 8. langue … ave: è stanco e non ha pace (posa, riposo, in rima equivoca con il verbo che chiude il v. 8). 9. frali: fragili, deboli. 10. a me ten vola: volatene, vieni fino a me. 11. che ’l … lume: che (non ama, e quindi) fugge la luce del giorno (dì e lume formano un’endiadi). 12. lievi: leggeri, impalpabili. 13. che con … costume: «che sono soliti [han per costume] seguirti con passi [vestigia, orme] incerti [non secure]». Parole evo-

catrici «dell’incertezza e della labilità dei sogni nel loro svolgimento» (Baldacci). 14. Lasso: misero me (esclamazione tradizionale). 15. lusingo: cerco di allettare, di attirare (le ombre sono quelle della notte, che dovrebbero portare il sonno). 16. piume … colme: letto (piume) pieno di durezza, perché il sonno non vuole venire e il poeta continua a tormentarsi nella veglia (si osservi l’antitesi piume / asprezza). 17. acerbe: crudeli, dolorose.

175

L’età del Rinascimento

Analisi del testo

> L’argomento

Fortuna del topos letterario

Ritmo spezzato

L’uso degli enjambements

Il lento fluire dei versi I campi semantici

Movimento contrastante

L’invocazione al sonno, come cura e ristoro per gli affanni mortali, è un motivo ampiamente diffuso nella tradizione letteraria, dall’antichità classica fino alle letterature moderne. Ricollegandosi alla linea classicistica, il sonetto di Della Casa si propone a sua volta come un modello di grande suggestione, per il sottile fascino che emana (piacerà a Tasso, a Marino e a Foscolo, che se ne ricorderà nel suo sonetto Alla sera). La ripresa del topos letterario raggiunge infatti risultati di notevole efficacia e originalità espressiva, anche attraverso la convergenza, per così dire, di due movimenti poetici contrastanti.

> il ritmo e il lessico

Da un lato i versi appaiono spezzati mediante accorgimenti particolari: le frequenti invocazioni; le interrogative e le esclamative delle terzine; le frasi brevi, nettamente scandite e distinte fra di loro (ad esempio dal «che» relativo) oppure al loro interno (come nella triplice aggettivazione del primo verso). Il ritmo che ne deriva sottolinea la sensazione di stanchezza e di dolore, quasi la durezza e la faticosa difficoltà di una «vita aspra e noiosa» (si noti nell’ultimo verso la ripresa di «asprezza»), mostrando l’angoscia – sono parole di Foscolo – «dell’uomo travagliato da’ pensieri e dalla veglia». A una lettura più lenta, tuttavia, questo ritmo interrotto e spezzato si ricompone e si distende, attraverso l’uso davvero notevole e sapientemente calcolato degli enjambements, che prolungano il discorso poetico oltre la fine del verso per farlo continuare in quello successivo (tutti i versi delle singole quartine e terzine sono legati fra di loro da questo procedimento, ad eccezione del v. 9). Ne deriva un fluire più lento e continuo, che corrisponde al bisogno di tranquillità e di pace invocate con il sonno. Ai due registri si riferiscono campi semantici diversi, indicanti serenità («queta», «placido», «oblio dolce») e affanno («aspra e noiosa» e «stanche e frali», ad esempio, simmetricamente disposti). La loro opposizione, come momenti del desiderio e della realtà, è evidente negli accostamenti antitetici («de’ mortali / egri conforto, oblio dolce de’ mali / sì gravi», «piume / d’asprezza colme») e nelle espressioni negative («posa / non ave», «con non secure / vestigia», «’nvan te chiamo» e «invan lusingo», con ripresa in versi contigui). Questo movimento contrastante introduce un senso, impalpabile e oscillante, di incertezza e di precarietà, che si riassume nell’immagine dei «lievi Sogni», simbolo del carattere illusorio e ingannevole della condizione umana. Nella ricerca del «silenzio» si può cogliere così un desiderio di morte (le «oscure / e gelide ombre»), o comunque di fuga e di abbandono, come nel venir meno della luce del giorno.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Quali caratteristiche presenta il Sonno in base al testo? AnALizzARe

> 2.

Stile Riconosci le figure retoriche presenti nelle seguenti espressioni: a) «o de’ mortali / egri conforto, oblio dolce de’ mali / sì gravi» (vv. 2-4); b) «non secure» (v. 10); c) «piume» (v. 13).

APPRofondiRe e inTeRPReTARe

> 3.

esporre oralmente Verifica, nel testo analizzato, le definizioni di «sottile inquietudine psicologica e morale» e di insistenza «sul rapporto fra la parola e l’immagine» riferite in generale alla produzione in versi dell’autore ( p. 175) (max 5 minuti).

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In sintesi

iL PeTRARChiSMo Verifica interattiva

iL PeTRARChiSMo Indicato da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525) come modello di decoro formale, Petrarca assume un ruolo centrale nella poesia cinquecentesca, dando luogo a un diffuso fenomeno di imitazione, ossia al “petrarchismo”. I canzonieri del Cinquecento tendono infatti a riprodurre il modello petrarchesco a livello sia formale sia contenutistico, cantando l’amore esclusivo e ideale per una figura stilizzata dai tratti analoghi a quelli di Laura e il dissidio profondo e insanabile fra tale sentimento e l’amore divino. Se il monolinguismo e l’uniformità stilistica della poesia di Petrarca rendono l’imitazione piuttosto facile, i risultati di tale operazione appaiono spesso, per la medesima ragione, monotoni e prevedibili. Nella vasta produzione petrarchista si colgono tuttavia anche momenti in cui l’imitazione “scolastica” cede il passo a un’ispirazione più autentica e personale, come nelle Rime di Giovanni Della Casa e di Michelangelo Buonarroti o nella produzione poetica più tarda di Pietro Bembo. Un posto significativo in questo genere poetico di successo occupano inoltre le poetesse, come Gaspara Stampa e Vittoria Colonna, la cui attività dimostra il rilievo assunto dalla donna nella cultura cinquecentesca.

PieTRo BeMBo Il teorizzatore dell’imitazione del Petrarca, Pietro Bembo (1470-1547), fu anche uno dei principali esponenti della poesia petrarchista. A lui si deve la lirica “manifesto” di questo genere poetico, Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, una sorta di “centone” di immagini e metafore attinte direttamente al repertorio del Canzoniere.

GASPARA STAMPA Nata a Padova intorno al 1523, Gaspara Stampa si trasferì giovanissima a Venezia, dove visse in modo libero diverse esperienze amorose, che lasciarono una traccia profonda nella sua produzione poetica. Morì nel 1554. All’amore per il conte Collaltino di Collalto è ispirata la maggior parte delle sue Rime (pubblicate postume dalla sorella), che, pur essendo concepite secondo i canoni

petrarchisti, costituiscono una delle più interessanti raccolte liriche del Cinquecento e rappresentano un’originale testimonianza di vicenda umana e sentimentale “al femminile”. Del resto, nella produzione poetica della Stampa l’imitazione di Petrarca rimane esteriore e piuttosto formale, senza che il modello riesca a imporsi come paradigma esistenziale di valore assoluto.

MiCheLAnGeLo BuonARRoTi Nato a Caprese, vicino ad Arezzo, nel 1475, Buonarroti fu attivo come artista sia a Firenze sia a Roma, dove lavorò presso la Curia papale e dove morì nel 1564. Più noto come scultore e pittore, Michelangelo deve la sua fama come scrittore alle Rime (pubblicate solo nel 1623), influenzate in gran parte dalla concezione neoplatonica dell’amore, che il poeta aveva approfondito e interiorizzato grazie all’amicizia con la scrittrice Vittoria Colonna. Pur essendo un estimatore di Petrarca, Michelangelo non si adegua supinamente agli schemi della poesia petrarchista né si sforza di dare al proprio stile una perfezione formale improntata all’ideale classicistico di equilibrio ed armonia. Il suo poetare aspro, arduo e spezzato rivela infatti un certo influsso del modello dantesco delle “rime petrose” e il suo gusto per l’espressione concettosa anticipa alcuni aspetti della sensibilità manieristica e barocca. Nella produzione poetica più tarda, l’abbandono del tema amoroso coincide con un approfondirsi della riflessione religiosa e con l’adozione di uno stile più immediato ed essenziale con cui esprimere l’ansia e il tormento interiore.

GioVAnni deLLA CASA La ripresa del modello petrarchista ha nelle Rime di Giovanni Della Casa (1503-56) una delle sue espressioni più riuscite. Pur ricollegandosi alla linea classicistica, il poeta raggiunge infatti risultati di notevole efficacia e originalità espressive, come nel sonetto O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa, che sviluppa in modo suggestivo il motivo del carattere illusorio e ingannevole della condizione umana.

facciamo il punto 1. Quali ragioni determinano la scelta di Petrarca come modello per i poeti del Cinquecento? 2. Per quale motivo il petrarchismo ebbe anche un ruolo di promozione sociale? 3. Qual è l’originalità delle Rime di Della Casa? 4. Dalla lettura dei testi antologizzati di Bembo ( T1, p. 164), Stampa ( T2, p. 167), Buonarroti ( T3, p. 171),

Della Casa ( T4, p. 175) quali caratteristiche comuni emergono per quanto riguarda il lessico, lo stile, i temi trattati?

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Capitolo 3

La novella

La prosa narrativa nell’età rinascimentale Il ruolo secondario della narrativa Il romanzo

I modelli

La novella

Francesco Bonciani

L’imitazione del Decameron

Si può dire che la prosa narrativa, nel corso del Cinquecento, goda di un’attenzione minore rispetto ad altri generi, che meglio sembrano corrispondere alle aspirazioni di quel secolo: ad esempio il trattato, in cui si discute dei più svariati problemi socio-culturali, sul piano del comportamento e delle stesse soluzioni letterarie. Al contrario, non erano ancora maturate le condizioni perché potesse nascere il romanzo in prosa, nel senso moderno del termine; una sola eccezione va individuata nel Gargantua di Rabelais ( cap. 4, A5, p. 220) che del romanzo può essere ritenuto un precursore. Restava il Decameron, in cui Bembo aveva indicato un modello a cui avrebbero dovuto attenersi i prosatori. Ma il discorso riguardava soprattutto la cornice e le novelle tragiche, mentre era ritenuta inferiore la scrittura comica, che non solo costituiva un elemento essenziale dell’opera, ma rappresentava un passaggio obbligato per gli sviluppi futuri del genere novellistico. In quanto estranea a ogni possibile applicazione del principio di imitazione, e quindi al di fuori della scala di valori stabiliti dal canone del classicismo rinascimentale, la novella è considerata un genere di minore importanza, a cui viene dedicata una scarsa attenzione da parte dei teorici del Cinquecento. Si può ricordare un solo testo, composto verso la fine del secolo: la Lezione sopra il comporre delle novelle di Francesco Bonciani, che peraltro analizza un unico tipo di novella – la novella di beffa – e ne coglie l’elemento distintivo nella figura del protagonista sciocco e credulone (il riferimento esemplare è al Calandrino boccacciano), mentre in realtà, come lo stesso Decameron sta a dimostrare, la novellistica tocca una ben più vasta gamma di temi e di argomenti, dal comico al tragico. Non per questo vengono meno i tentativi di imitare il Decameron, soprattutto in area fiorentina e toscana, dove più evidenti sono il rifiuto delle teorie linguistiche del Bembo e il ricorso a una lingua vicina all’uso del parlato, più duttile e quindi adatta a una narrazione vivace e scorrevole come quella delle novelle; ma anche questi tentativi, soprattutto quelli del Firenzuola e del Lasca, erano destinati al fallimento, in particolare per quanto riguarda la possibilità di riproporre l’equilibrio del rapporto fra le novelle e la cornice.

La crisi del modello boccacciano Agnolo Firenzuola

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Nei suoi Ragionamenti Agnolo Firenzuola (Firenze, 1493-1543) dilata a dismisura lo spazio della cornice – immettendovi gli elementi più vari ed eterogenei, propri dei generi dialogici e della trattatistica –, ma ben presto la narrazione si inceppa, arrestandosi alla novella seconda della seconda giornata. Non a caso, allora, le più vivaci novelle del Firenzuola sono le due novelle cosiddette “pratesi” (da Prato, città vicino a Firenze), che,

Capitolo 3 · La novella

Testi Fiorenzuola • Novella accaduta nuovamente, e raccolta secondo la vulgata fama

Machiavelli e Da Porto

Il Lasca

La distanza dal Decameron

Testi Straparola • Pietro pazzo dalle Piacevoli notti

Giovan Francesco Straparola

libere da condizionamenti strutturali, raccontano con vivace immediatezza ed estrosa coloritura di linguaggio altrettante “beffe” avvenute nel contado. Se il rapporto fra novelle e cornice implica un preciso disegno ideologico (evidente nell’equilibrio irripetibile a cui era pervenuto il Decameron), la novella singola risulta più liberamente godibile nella sua autonomia, proponendosi come puro piacere dell’intelligenza e del racconto. Fra le novelle nate singolarmente, e non per essere inserite in un più ampio organismo narrativo, ricordiamo Belfagor arcidiavolo, di Niccolò Machiavelli ( cap. 6, p. 356), e l’Istoria di due nobili amanti, scritta da Luigi Da Porto (Vicenza, 1485-1529), che narra la vicenda di Giulietta e Romeo resa poi celebre da Shakespeare (il quale, però, la lesse nella versione successiva fattane da Bandello). Ci sono giunte incomplete le Cene di Anton Francesco Grazzini (Firenze, 150384), detto il Lasca ( A1, p. 180). L’imitazione del Boccaccio (definito con ammirazione «ser Giovanni Boccadoro») si trasforma qui in una sorta di emulazione, che conduce alla ricerca di nuove soluzioni espressive. La diversità delle prospettive è già sottolineata nell’«introduzzione al novellare» ( T1, p. 181): il riunirsi di una brigata di giovani è giustificato non dalla tragica fatalità della peste, ma dall’occasione festosa del carnevale, che favorisce l’andamento di un gioco più sbrigliato e disordinato. Al controllo operato dall’“intelligenza” dell’autore, che regola l’ordine e l’equilibrio caratteristici del Decameron, il Lasca sostituisce una “casualità” che pone invece l’accento sugli aspetti gratuiti e imprevedibili del reale, dando luogo a sensibili scarti nello svolgimento del racconto: il rovesciamento delle situazioni e la proliferazione dei nuclei narrativi; l’insistenza sui «contrari», che, «posti insieme, all’infinito accrescono la maraviglia». Elementi, tutti, che sembrano preludere alle successive soluzioni del Manierismo. Il caso del Lasca ci fa capire come, pur assumendolo come punto di partenza, si potesse addirittura rovesciare il modello boccacciano, difficilmente imitabile nelle sue profonde motivazioni ideologiche e strutturali. Non stupisce quindi che le scelte dei novellieri tendano a diversificarsi, privilegiando aspetti e componenti più settoriali. Giovan Francesco Straparola (Caravaggio, presso Bergamo, ultimo ventennio del XV secolo dopo il 1557), ad esempio, nei due libri delle Piacevoli notti, integra la novella con l’elemento fiabesco, ricavato dal ricco repertorio delle tradizioni popolari.

La ricerca del macabro Matteo Bandello

Giambattista Giraldi Cinzio

Testi Giraldi Cinzio • Il moro di Venezia dagli Ecatommiti

Il compito di concludere questo discorso spetta, intorno e oltre la metà del secolo, a due novellieri assai diversi fra di loro, ma ugualmente significativi, come Matteo Bandello ( A2, p. 184) e Giambattista Giraldi Cinzio (Ferrara, 1504-73). Bandello, nel suo Novelliere, rifiuta nettamente la soluzione boccacciana, a favore di una libertà compositiva che scioglie i racconti da ogni legame strutturale, facendoli precedere da una lettera rivolta a personaggi del mondo delle corti. Già presente nella raccolta di Bandello, la ricerca del macabro e dell’orrido raggiunge alcune delle più tipiche espressioni negli Ecatommiti (Cento racconti) di Giraldi Cinzio, il solo a cui riesca di riproporre il modello boccacciano. Alla peste viene comunque sostituito il Sacco di Roma del 1527; dalla città sconvolta fugge un gruppo di persone, che raggiunge su una nave Marsiglia, per ritrovare condizioni di vita serene e sicure. La cornice riproduce così lo schema del Decameron, come movimento che va dal disordine all’ordine; ma i significati sono radicalmente diversi, addirittura opposti. Alla disinibita rappresentazione dell’amore corrisponde un rigido moralismo (il solo amore consentito è quello coniugale), mentre la raffigurazione del male e del peccato, con i suoi contenuti orridi e repellenti, è funzionale a un atteggiamento di dura condanna, ispirato ai princìpi dell’ideologia controriformistica. 179

L’età del Rinascimento

A1 Il nome

Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca La vita Nacque il 22 marzo 1503 a Firenze, dove morì il 18 febbraio 1584. Autodidatta, esercitò la professione dello speziale, prima di dedicarsi interamente alla letteratura, dove manifestò ben presto i suoi umori bizzarri e capricciosi. Nel 1540 fu tra i fondatori dell’Accademia degli Umidi, in cui prese l’appellativo del Lasca, dal nome di un pesce d’acqua dolce che fece disegnare nella sua impresa, mentre sta per catturare una farfalla. Secondo la spiegazione fornita da uno studioso ottocentesco, Pietro Fanfani, la sua indole, «portandolo nelle sue composizioni allo stile faceto e ghiribizzoso, finge che quel pesce, siccome è solito, si lanci fuor dell’acqua a pigliare le farfalle, che per loro incerto svolazzamento sono figura de’ ghiribizzi dell’umana fantasia». Queste osservazioni ci fanno capire la propensione del Lasca per lo stile satirico e burlesco, che caratterizza gran parte delle sue rime, rifacendosi all’esempio del Berni (di questo scrittore curò, nel 1548 e nel 1552, un’edizione delle opere). Quando, nel 1541, l’Accademia degli Umidi passò sotto il diretto controllo di Cosimo de’ Medici, trasformandosi nell’Accademia Fiorentina, il Lasca non nascose i suoi risentimenti e malumori, esprimendo atteggiamenti di insofferenza e di dissenso; espulso dall’Accademia nel 1547, vi fu riammesso solo nel 1566, per l’interessamento di Leonardo Salviati (un letterato di formazione ideologicamente assai diversa, curatore, fra l’altro, di una edizione “censurata” del Decameron); con il Salviati sarà poi, nel 1583, fra i fondatori dell’Accademia della Crusca.

Nonostante le oscillazioni e le incertezze nei confronti del potere, il Lasca resta profondamente legato alle tradizioni culturali della sua città, sul piano letterario e linguistico: oltre che delle rime del Berni, per quanto riguarda l’attività editoriale, curò l’edizione dei sonetti del Burchiello, dei Beoni di Lorenzo il Magnifico e di una raccolta di Canti carnascialeschi (1559), un genere in cui egli stesso si era cimentato. Questo suo “municipalismo” si rivela sia nelle preferenze per uno stile comico e bizzarro, pronto ad accogliere forme e costrutti del linguaggio parlato (fu autore anche di un poema eroicomico, Guerra dei mostri), sia nella vivace partecipazione all’allestimento di spettacoli e feste cittadine. In tale contesto deve essere inquadrata la sua abbondante produzione teatrale, che comprende tre farse (Il frate, La giostra e, non pervenutaci, La monica) e sette commedie, scritte prima del 1566 ma pubblicate solo nel 1582 (La gelosia, La spiritata, La pinzochera, La strega, La Sibilla, L’arzigogolo e I parentadi). Una ricerca di effetti capricciosi e paradossali si ritrova anche nell’opera più significativa del Lasca, la raccolta di novelle intitolata Le cene, la cui stesura venne iniziata intorno al 1540, impegnando l’autore per oltre un decennio. L’opera rimase tuttavia inedita e venne pubblicata solo a partire dal Settecento; ci è giunta lacunosa e incompleta, per un totale di ventidue novelle rispetto alle trenta previste (mancano otto novelle della terza «cena»). Il titolo indica le riunioni conviviali che, durante il carnevale, vedono impegnati cinque giovani e cinque ragazze a narrare ciascuno, per tre sere, una novella. Le «cene» corrispondono quindi alle «giornate» del Decameron, ma alludono fin dall’inizio a una atmosfera di divertimenti più giocosi e festosi, estranei a ogni evento drammatico o funesto; dal Boccaccio il Grazzini deriva anche il rapporto fra novella e cornice, pur piegandolo, come vedremo nell’analisi dei testi, a esiti diversi, che corrispondono a una concezione più estremistica e bizzarra, nelle strutture narrative o nello stile, del racconto.

Le opere L’attività editoriale

Produzione teatrale

Le cene

Testi Lasca • La novella di Falananna da Le cene

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Capitolo 3 · La novella

T1

Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca

L’“introduzione al novellare” da Le cene

Temi chiave

• ripresa della materia boccacciana • visione carnevalsca del mondo • principio di casualità

Riportiamo in parte l’introduzione alle Cene, in cui il Lasca espone in maniera articolata e precisa la sua «poetica» della novella, in relazione al modello boccacciano.

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E per ch’egli era già restato1 di nevicare, ragionavano d’andare in qualche lato2 a spasso; e mentre che tra loro si disputava del luogo, cominciò per sorte, come spesse volte veggiamo che la neve si converte in acqua, a piovere rovinosamente, di modo che si risolverono3 di starse quivi per la sera; e fatto portar dei lumi, perché di già s’era rabbuiato, e raccendere il fuoco, si dierono a cantare certi madrigali4 a cinque voci di Verdelotto e d’Arcadelte5. […] E, poi che essi ebbero cantati sei od otto madrigali con sodisfacimento e piacere non piccolo di tutta la brigata, si misero a sedere al fuoco; dove un di quei gioveni, avendo arrecato di camera un Centonovelle6, e tenendolo così sotto il braccio, fu domandato da una di quelle donne che libro egli fusse: alla quale colui rispose essere il più bello e il più utile che fusse mai stato composto: – Queste – disse – sono le favole di messer Giovanni Boccaccio, anzi di san Giovanni Boccadoro7. – E bene – rispose un’altra di loro – santo mi piacque! – e sogghignò8. E perché il giovane aveva bella voce e buona grazia nel leggere, fu d’intorno pregato che qualcuna ne volesse dire a sua scielta; ma egli, ricusando, voleva che altri leggesse prima, quando un’altra delle donne, ripigliando le parole, disse che tòrre9 si dovesse una giornata: e ciascuno leggiendo la sua, atteso che10 essi erano diece, verrebbe a fornirse11, ché a ogniuno toccherebbe la sua volta. Piacque assai la proposta di costei; e così mentre che si contendeva12 delle giornate, ché chi13 voleva la quinta, chi la terza, altri la sesta, altri la quarta e chi la settima, venne voglia alla donna principale14 di mettere ad effetto15 un pensiero che all’ora all’ora le era venuto nella fantasia. E senza dire altro, levatasi dal fuoco, se ne andò in camera, e fattosi chiamare il servidore di casa e il famiglio16, impose loro ordinatamente quel tanto che ella voleva che essi facessero; e tornatasene al suo luogo, là dove ancora, tra la compagnia, della giornata si disputava, con bella maniera e tutta festevole, così prese a dire: – Poiché la necessità, più che il vostro senno o il vostro avvedimento17, valorosi giovini e voi leggiadre fanciulle, ci ha qui insieme per la non pensata18 a ragionare stasera intorno a questo fuoco condotti, io sono forzata a chiedervi e pregarvi che mi facciate

1. restato: cessato (per ch’egli: perché, siccome). 2. lato: parte. 3. si risolverono: decisero. 4. madrigali: sin dal XIV secolo il madrigale è una forma poetico-musicale che rappresenta uno dei primi esempi di musica polifonica profana. Veniva eseguito in liete riunioni di giovani, nelle case signorili o all’aria aperta. Il soggetto dei testi era amoroso-pastorale e la musica era a due, raramente a tre voci. Poi il termine comincia a essere usato, intorno al 1530, per indicare componimenti musicali per lo più a quattro voci e, prima del 1550, il numero delle voci sale a cinque o anche più. 5. di Verdelotto e d’Arcadelte: Philippe

Verdelot e Jacques Archadelt, compositori fiamminghi (o francesi) trasferitisi in Italia all’inizio del Cinquecento e attivi a Firenze, Venezia, Roma. 6. un Centonovelle: un’edizione del Decameron. 7. san Giovanni Boccadoro: epiteto di Boccaccio, già nel Novellino (1476) di Masuccio Salernitano. 8. sogghignò: rise in modo un po’ maligno, con ironia (vuol dire che Boccaccio è tutt’altro, nel Decameron, che uno scrittore santo). 9. tòrre: prendere, nel senso di “scegliere” (le “giornate” corrispondono alle dieci parti in cui è diviso il Decameron e contengono ciascuna dieci novelle). 10. atteso che: dal momento che (la sua sot-

tintende “novella”). 11. a fornirse: a compiersi, a completarsi la lettura della giornata prescelta. 12. si contendeva: si discuteva circa la giornata da scegliere (più avanti si disputava). 13. ché chi: perché c’era chi. 14. donna principale: la donna più autorevole, la padrona di casa. 15. mettere ad effetto: mandare a effetto, realizzare. 16. famiglio: domestico. 17. avvedimento: intendimento, avvedutezza. Può valere anche come “espediente ingegnoso”. 18. per la non pensata: in modo inatteso e improvviso.

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L’età del Rinascimento

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una grazia: voi uomini, dico, percioché le mie donne (tanta fidanza19 ho nella benignità e nella cortesia loro) so che non mancheranno di fare quel tanto che mi piacerà. – Per la qual cosa, i giovini promettendo tutti e giurando di fare ogni cosa che per loro20 si potesse e che le tornasse commodo21, ella seguitando disse: – Voi udite come non pur22 piove, anzi diluvia il cielo; e però23 la grazia che far mi devete sarà che, senza partirvi di qui altrimenti, vi degniate questa sera di cenar meco domesticamente, e col mio fratello e amicissimo vostro insieme; intanto la pioggia doverrà fermarse, e quando bene24 ella seguitasse, giù a terreno sono tante camere fornite25, che molti più che voi non sète vi alloggerebbero agiatamente. Ma intanto che l’ora ne venga del cenare, io ho pensato, quando vi piaccia, come passare allegramente il tempo; e questo sarà non leggiendo le favole scritte del Boccaccio, ancora che26 né più belle, né più gioconde, né più sentenziose27 se ne possono ritrovare, ma trovandone28 e dicendone da noi, séguiti29 ogniuno la sua: le quali, se non saranno né tanto belle, né tanto buone, non saranno anche né tanto viste, né tanto udite30, e per la novità e varietà ne doverranno porgere, per una volta, con qualche utilità non poco piacere e contento, sendo31 tra noi delle persone ingegnose, soffistiche, astratte e capricciose32. E voi, giovini, avete tutti buone lettere d’umanità33, siete pratichi coi poeti, non solamente latini e toscani, ma greci altresì, da non dover mancarvi invenzione o materia di dire; e le mie donne ancora s’ingegneranno di farse onore. E, per dirne la verità, noi semo ora per carnovale34, nel qual tempo è lecito ai religiosi di rallegrarsi, e i frati tra loro fanno35 al pallone, recitano comedie e, travestiti, suonano, ballano e cantano; e alle monache ancora non si disdice, nel rappresentare le feste36, questi giorni vestirsi da uomini, colle berrette di velluto in testa, colle calze chiuse in gamba37 e colla spada al fianco. Perché dunque a noi sarà sconvenevole38 o disonesto il darci piacere novellando? Chi ce ne dirà male con verità? Chi ce ne potrà con ragione riprendere39? Stasera è giovedì, e, come voi sapete, non quest’altro che verrà, ma quell’altro di poi è Berlingaccio40; e però41 voglio e chieggiovi42 di grazia che questi altri due giovedì sera vegnienti vi degniate di venire a cenare similmente con mio fratello e meco, percioché stasera, non avendo tempo a pensare, le nostre favole saranno piccole; ma queste altre due sere, avendo una settimana di tempo, mi parrebbe che nell’una si dovessero dir mezzane43 e nell’altra, che sarà la sera di Berlingaccio, grandi. E così ciascheduno di noi, dicendone una piccola, una mezzana e una grande, farà di sé prova nelle tre guise44: oltre che il numero ternario45 è tra gli altri perfettissimo, richiudendo in sé principio, mezzo e fine.

19. fidanza: fiducia. 20. per loro: da parte loro. 21. le tornasse commodo: le facesse piacere. 22. non pur: non soltanto. 23. però: perciò. 24. quando bene: qualora, quand’anche (poco dopo quando, qualora). 25. fornite: preparate, pronte per essere utilizzate. 26. ancora che: sebbene. 27. sentenziose: dense di significati, di insegnamenti. 28. trovandone: inventandone. 29. séguiti: racconti. Significa: «e questo avverrà (cioè passeremo allegramente il tempo) se, anziché leggere le novelle (favole) scritte dal Boccaccio, ognuno racconterà una sua novella originale». 30. anche … udite: neppure così note e risapute (il Grazzini insiste sull’originalità delle

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novelle, sulla loro novità e varietà, collegandole alle caratteristiche dei novellatori illustrati poco dopo). 31. sendo: essendoci. 32. ingegnose … capricciose: questi aggettivi possono essere considerati dei sinonimi. Posti sullo stesso piano semantico, suggerirebbero lo spirito stravagante e, conseguentemente, le potenzialità creative dei giovani convitati. I quattro termini però si possono anche leggere come degli elementi distinti, indicanti, in un crescendo tonale, le diverse qualità necessarie per “inventare” e raccontare una novella: ingegno, finezza nel ragionamento, estro e capacità di astrazione, originalità spinta fino alla bizzarria (soffistiche vuol dire “particolarmente sottili e quasi cavillose”, come le dimostrazioni dei sofisti, filosofi greci). 33. buone lettere d’umanità: una apprezzabile preparazione umanistica, letteraria.

34. per carnovale: di carnevale (dove tutte le cose, come viene subito specificato, possono essere viste e rappresentate in maniera inusuale, addirittura “alla rovescia”). 35. fanno: giocano. 36. nel rappresentare le feste: nell’allestire uno spettacolo durante i giorni festivi. 37. colle … gamba: con i pantaloni attillati. 38. sconvenevole: disonesto. 39. riprendere: rimproverare. 40. Berlingaccio: è l’ultimo giovedì di Carnevale, il famoso “giovedì grasso“ (da berlengo, tavola per mangiare o per giocare). 41. però: perciò. 42. chieggiovi: vi chiedo. 43. mezzane: di media lunghezza. 44. nelle tre guise: nella capacità di organizzare questi tre modi, o misure, del racconto. 45. ternario: tre.

Capitolo 3 · La novella

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Quanto il parlare della donna piacesse agli uomini parimente46 e alle giovani donne, non che scriverlo a pieno, non si potrebbe pure47 immaginare imparte48; e ne fecero manifesto segno49 le parole, gli atti e i gesti di tutti quanti, che non pareva che per la letizia e per la gioia capessero in loro stessi50, laonde la donna seguitò, così dicendo: – Egli mi pare di necessità51 che tutte le cose che si pigliono a fare52, si debbano fare con qualche ordine, a fine che lo effetto ne séguiti per quello ch’elle son fatte53; e per questo mi parrebbe, quando a voi paresse, che noi ci reggessimo non con re o con reina54, ma che ci governassimo a guisa di republica; e mi parrebbe ancora, piacendo nondimeno55 a voi tutti quanti, che, nello essere o prima o poi al novellare56, che la sorte o la fortuna lo disponesse57 […].

46. parimente: ugualmente. 47. pure: neppure. 48. imparte: in parte. 49. ne fecero manifesto segno: lo rivelarono in maniera evidente. 50. capessero … stessi: come dire stessero nella loro pelle (laonde: sicché). 51. di necessità: necessario.

52. pigliono a fare: intraprendono. 53. a fine …. fatte: allo scopo che, affinché ne segua un effetto appropriato, conveniente. 54. ci reggessimo … reina: ci governassimo non con un re o una regina, come avveniva nella soluzione narrativa proposta dal Decameron (più avanti a guisa di: come una). Si veda, su questi aspetti, l’analisi del

testo. 55. piacendo nondimeno: se piace, se siete d’accordo. 56. nello essere … novellare: nell’ordine da seguire (o prima o poi) nel raccontare le novelle. 57. lo disponesse: lo decidesse.

Analisi del testo Il rapporto con il Decameron

> Il rapporto con Boccaccio

Dopo aver ingaggiato una battaglia giocosa a colpi di palle di neve, per sfuggire al perdurare delle intemperie una brigata di dieci giovani uomini e donne si ritira in casa e decide di trascorrere il tempo raccontando della novelle, dopo aver respinto l’ipotesi di leggere quelle del Decameron. Il rapporto così stabilito con Boccaccio indica, insieme, una linea di continuità e uno scarto: se da un lato il Centonovelle è proposto come un modello («essere il più bello e il più utile [libro] che fusse mai stato composto»), d’altro canto al principio della stretta imitazione, sottinteso nella proposta iniziale, si sostituisce quello dell’emulazione, che finisce per prenderne le distanze, proponendo soluzioni anche fortemente diversificate.

> Le trasformazioni rispetto al modello Novità e varietà dei racconti

La visione carnevalesca

Il sistema narrativo del Decameron subisce così un processo di trasformazioni che si può sintetizzare in alcuni punti fondamentali. 1. Il capolavoro boccacciano si basa su un equilibrio sottile (sia nel rapporto fra novelle e cornice, sia in quello fra le singole novelle), strettamente sottoposto a una rigorosa misura formale. Il Lasca pone invece l’accento sulla «novità» e «varietà» dei racconti, dove si troveranno cose «né tanto viste, né tanto udite», mentre i narratori vengono presentati come «persone ingegnose, soffistiche, astratte e capricciose». 2. Alla peste, che attribuisce all’opera la profonda serietà dei suoi significati, si sostituisce il carnevale, con un evidente ribaltamento delle prospettive ideologiche. Il carnevale rappresenta il tempo della libertà e della licenza (se non dell’anarchia), in cui vengono alterate e sconvolte le regole della vita abituale, con il venir meno della distinzioni sociali (si ricordi che il Lasca promosse anche la pubblicazione di una raccolta di Canti carnascialeschi). La visione del mondo carnevalesca è caratterizzata dall’inversione e dalla mescolanza dei ruoli, dalla confusione e dalla sregolatezza: «nel qual tempo è lecito ai religiosi di rallegrarsi, e i frati tra loro fanno al pallone, recitano comedie e, travestiti, suonano, ballano e cantano; e alle monache ancora non si disdice, nel rappresentare le feste, questi giorni vestirsi da uomini, colle berrette di velluto in testa, colle calze chiuse in gamba e colla spada al fianco». Rispetto al Decameron, che intende riproporre l’ordine là dove regnava il disordine, si registra nelle Cene un movimento opposto, come se dall’ordine si andasse verso il disordine. 183

L’età del Rinascimento Il criterio quantitativo

Il principio di casualità

3. Salvo due eccezioni, Boccaccio distingue la sua raccolta in giornate, caratterizzate da un tema ben definito. A questo criterio qualitativo il Lasca sostituisce un criterio puramente quantitativo, in base al quale la distinzione dipende unicamente dalla misura delle novelle, “piccole”, “mezzane” e “grandi”. 4. Nel Decameron le giornate sono simbolicamente sottoposte al governo di un re o di una regina, a indicare una concezione ordinatamente gerarchica nello sviluppo dei racconti. L’ordinamento voluto dal Lasca si risolve invece nei capricci del caso, in quanto il turno dei narratori è stabilito dalla «fortuna», dalla «sorte». All’ordine del Decameron, quasi un controllo dell’intelligenza sulla materia narrata, si sostituisce il principio di casualità, che contraddistingue una diversa, per così dire anarchica, scelta letteraria. In conclusione: se i narratori sono persone «soffistiche» e «capricciose», le novelle, andando oltre la misura boccacciana, cercheranno piuttosto di ottenere effetti imprevisti e sorprendenti, esasperando i contrasti e puntando su ciò che è strano, curioso, con una sensibilità di tipo già manieristico.

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Quali azioni dei protagonisti dimostrano l’efficacia e la piacevolezza della comunicazione orale? > 2. In che modo le donne assolvono ad un ruolo fondamentale? AnALIzzARe

> 3. Il brano proposto può essere definito, nella prospettiva boccacciana, “cornice”? Motiva la tua risposta. > 4. Rintraccia nel testo riferimenti alla formazione letteraria tipica dell’Umanesimo. > 5. Perché, a tuo parere, le novelle di Boccaccio sono indicate con il termine «favole»? > 6. Stile Ritieni che il periodare del Lasca risenta del modello sintattico boccacciano? Motiva la tua risposta con un esempio significativo tratto dal testo.

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 7.

Scrivere Riguardo alla crisi del modello boccacciano, metti a confronto la soluzione proposta dal Lasca con quella adottata da Matteo Bandello in un testo di circa 10 righe (500 caratteri). > 8. esporre oralmente Nel passo «E, per dirne la verità … e colla spada al fianco» (rr. 47-51) l’autore – attraverso il discorso della donna – accenna al comportamento “licenzioso” che anche i religiosi, uomini e donne, adottano durante il carnevale: quale significato assume, nell’ambito di un confronto con l’opera di Boccaccio, il riferimento ai frati e alle monache? Rispondi in max 3 minuti.

A2 La formazione

Le novelle

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Matteo Bandello La vita Nacque a Castelnuovo Scrivia, nei pressi di Tortona (ora provincia di Alessandria), nel 1485. Dopo avere studiato a Pavia, entrò ventenne nell’ordine dei Domenicani, conducendo però soprattutto una vita mondana e avventurosa. Fra il 1508 e il 1509 fu a Parigi presso la corte di Luigi XII, passando poi al servizio, anche come agente diplomatico, di vari signori. Abbandonato l’abito nel 1526, fu al seguito di Cesare Fregoso, luogotenente del re di Francia Francesco I. Quando il Fregoso venne fatto uccidere da Carlo V (1541), ne accompagnò la moglie e i figli in Francia, dove ottenne i favori del re e venne nominato vescovo di Agen. In questa città morì nel 1561. Le opere Opere decisamente minori sono il canzoniere amoroso e i “capitoli” in terza rima Le tre Parche. L’importanza e l’originalità dello scrittore vanno cercate nell’ampia produzione di novelle, riunite nel 1554 in tre libri dal titolo Novelliere (una quarta

Capitolo 3 · La novella

Testi Bandello • La contessa di Challant dal Novelliere

La lingua Il rapporto con Boccaccio

L’influenza esercitata su Shakespeare

T2

parte uscì postuma, a Lione, nel 1573). La narrativa bandelliana nasce nell’ambito dei costumi della corte e trova, nelle corti, il suo pubblico privilegiato; di qui l’abbandono del modello decameroniano e l’autonomia dei singoli racconti. Inoltre la presenza di una lettera dedicatoria, che precede ogni singola novella ed è rivolta a illustri personaggi del tempo, rinvia piuttosto alla soluzione quattrocentesca proposta nel suo Novellino da Masuccio Salernitano. Per quanto riguarda il problema della lingua, Bandello rifiuta di aderire ai precetti del Bembo, accettando invece la soluzione – più adatta alla concezione dell’opera – di tipo cortigiano. Ma il rifiuto dell’imitazione boccacciana, che ribadisce polemicamente una propria particolare identità, non è solo stilistico, riguardando più in generale, come si è detto, ragioni sostanziali di poetica e di concezione del racconto. Il significato della novella si risolve nell’interesse e nel “diletto” che sa procurare, mentre nella lettera dedicatoria si prolungano gli echi delle convenzioni e delle consuetudini della vita di corte. William Shakespeare conobbe la traduzione francese delle novelle di Bandello, da cui trasse il soggetto per le commedie Molto rumore per nulla e La dodicesima notte. Anche la tragedia Romeo e Giulietta si ispira a un testo di Bandello, che aveva rielaborato un racconto del vicentino Luigi Da Porto, l’Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti, scritta nel 1529. Matteo Bandello

Temi chiave

La novella di Giulia da Gazuolo

• la forza dell’umiltà • un’eroina tragica dai tratti dolenti e sommessi

dal Novelliere, VIII Questa «patetica e tragica storia era stata già narrata, assai più brevemente, e con minor rilievo, dal Castiglione, nel Cortegiano, libro III, capitolo 47. Nel Cortegiano la protagonista non ha nome: è una “contadinella” che, “essendo ita […] ne’ campi, vinta dalla sete, entrò in una casa per bere dell’acqua”; ivi “il patrone della casa” le fece violenza» (Ferrero). Abbiamo omesso la lettera che precede, indirizzata al cardinale Pirro Gonzaga, nipote del personaggio omonimo presente nel racconto.

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Devete1 adunque sapere che, mentre il liberale e savio2 prencipe, l’illustrissimo e reverendissimo monsignor Lodovico Gonzaga, vescovo di Mantova, qui in Gazuolo3 abitava, che4 egli sempre vi tenne una corte onoratissima di molti e vertuosi gentiluomini, come colui che si dilettava de le vertù e molto largamente5 spendeva. In quei dì fu una giovane d’età di dicesette anni, chiamata Giulia, figliuola d’un poverissimo uomo di questa terra6, di nazione7 umilissima, che altro non aveva che con le braccia tutto il dì lavorando ed affaticandosi guadagnar il vivere8 per sé, per la moglie e due figliuole, senza più9. La moglie anco, che era buona femina, s’affaticava in guadagnar qualche cosa filando ed altri simili servigi donneschi facendo. Questa Giulia era molto bella e di leggiadri costumi10 dotata, e molto più leggiadra che a sì basso sangue11 non conveniva. Ella ora con la madre ed ora con altre donne andava in campagna a zappare e far altri

1. Devete: dovete. 2. liberale e savio: generoso, magnanimo e saggio. 3. Gazuolo: il paese di Gazzuolo, nel Mantovano, era sotto il dominio dei Gonzaga. 4. che: pleonastico (riprende e ripete il che

precedente). 5. largamente: generosamente. 6. questa terra: il paese, appunto, di Gazzuolo. 7. nazione: nascita. 8. altro … vivere: non aveva altra possibili-

tà, lavorando e affaticandosi tutto il giorno, che quella di guadagnare da vivere. 9. senza più: e nient’altro. 10. costumi: maniere. 11. a sì basso sangue: a una condizione sociale così bassa.

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essercizi, secondo che bisognava12. Sovviemmi13 che un giorno, essendo io con l’eccellentissima madama14 Antonia Bauzia madre di questi nostri illustrissimi signori, e andando a San Bartolomeo15, che incontrammo la detta Giulia, la quale con un canestro in capo a casa se ne ritornava tutta sola. Madama, veggendo così bella figliuola che poteva avere circa quindeci anni, fatto fermar la carretta16, le domandò di chi fosse figliuola. Ella riverentemente17 rispose e disse il nome del padre, e molto al proposito18 a le domande di madama sodisfece19, che pareva che non in un tugurio20 e casa di paglia fosse nata e allevata, ma che tutto il tempo de la sua età fosse stata nodrita21 in corte, di modo che madama mi disse volerla pigliar in casa ed allevarla con l’altre donzelle. Perché poi si rimanesse22, io non vi saperei già dire. Ritornando dunque a Giulia, vi dico che ella tutti i giorni che si lavorava non perdeva mai tempo, ma o sola o in compagnia sempre travagliava23. Le feste poi, come è la costuma24 del paese, ella dopo il desinare andava con l’altre giovanette ai balli e davasi onestamente piacere25. Avvenne un dì che, essendo ella in età di circa dicesette anni, che un camerier del detto monsignor vescovo, che era ferrarese, le gettò l’ingorda vista26 a dosso veggendola ballare, e parendogli pure la più vaga27 e bella giovanetta che veduta da gran tempo avesse, e tale che, come s’è detto, pareva ne le più civil case nodrita, di lei sì stranamente28 s’innamorò, che ad altro il suo pensiero rivolger non poteva. Finito il ballo, che era parso lunghissimo al cameriero, e cominciandosi a sonare un’altra danza, egli la richiese di ballare e ballò seco un ballo a la gagliarda29, perciò che30 ella a la gagliarda danzava molto bene e tanto a tempo che era un grandissimo spasso a mirarla come aggraziatamente si moveva. Ritornò il cameriero a danzar seco, e se non fosse stato per vergogna, egli ogni danza l’averebbe presa, parendogli quando la teneva per la mano che sentisse il maggior piacer che sentito avesse già mai. E ancor che31 ella tutto il dì lavorasse, nondimeno32 ella aveva una man bianca, lunghetta e morbida molto. Il misero amante così subitamente di lei e de le sue belle maniere acceso33, mentre che credeva mirandola ammorzar le novelle34 nascenti fiamme che già miseramente lo struggevano35, non se ne accorgendo a poco a poco le faceva maggiori36, accrescendo con gli sguardi la stipa37 al fuoco. Ne la seconda e terza danza che seco fece, assai motti38 e parolucce il giovine le disse come far sogliono i novelli amanti. Ella sempre saggiamente gli diede risposta dicendo che non le parlasse d’amore, perciò che39 a povera giovane come ella era non stava bene mai a dar orecchie40 a simil favole, né altro mai l’importuno ferrarese cavare ne puoté. Fornito41 il ballare, il ferrarese le andò dietro per imparar ove ella aveva la stanza42. Ebbe poi più volte e in Gazuolo e fuori comodità di parlar con Giulia e di scoprirle43 il suo ferventissimo amore, sforzandosi pur sempre di farla de le sue parole capace44 e riscaldarle il

12. essercizi … bisognava: lavori a seconda dei bisogni. 13. Sovviemmi: mi ricordo. 14. madama: signora (è un francesismo, ancora in uso nel dialetto piemontese). Ad Antonia Bauzia è dedicata la quinta novella della IV parte. 15. San Bartolomeo: «pare che sia da intendere come nome di luogo» (Ferrero). Anche il successivo che è pleonastico. 16. la carretta: la carrozza. 17. riverentemente: rispettosamente. 18. al proposito: in maniera precisa e appropriata. 19. a le domande … sodisfece: rispose alla signora. 20. non in un tugurio: ricorda molto da vicino la condizione di Griselda, la protagoni-

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sta dell’ultima novella del Decameron. 21. nodrita: nutrita, educata. 22. si rimanesse: rinunciasse, non realizzasse questo progetto. 23. travagliava: si affaticava (è sinonimo di lavorava). 24. la costuma: costume, abitudine. 25. davasi onestamente piacere: si divertiva. 26. l’ingorda vista: uno sguardo pieno di desiderio. 27. vaga: graziosa, deliziosa. 28. stranamente: «in modo inconsueto: all’improvviso e con violenza» (Ferrero). 29. ballò … gagliarda: «la “gagliarda” era un ballo in uso specialmente in Francia e in Lombardia» (Ferrero); seco, con lei. 30. perciò che: perché. 31. ancor che: sebbene.

32. nondimeno: tuttavia. 33. acceso: innamorato. 34. mirandola … novelle: guardandola di smorzare le nuove. 35. struggevano: consumavano, tormentavano. 36. le faceva maggiori: le aumentava, le faceva diventare più grandi. 37. stipa: paglia. 38. motti: battute allusive. 39. perciò che: perché. 40. a dar orecchie: prestare ascolto. 41. Fornito: finito. 42. imparar … stanza: sapere dove aveva la sua abitazione, dove abitava. 43. scoprirle: rivelarle. 44. farla … capace: renderla convinta, convincerla delle sue parole, della loro sincerità.

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freddissimo petto. Ma per cosa ch’egli le dicesse già mai ella punto non si mosse45 dal suo casto proponimento, anzi caldamente lo pregava che la lasciasse stare e non le desse noia46. Ma il meschino amante a cui l’amoroso verme47 fieramente48 rodeva il core, quanto più ella dura e ritrosa si mostrava, tanto più egli s’accendeva, tanto più la seguitava49 e tanto più s’affaticava di renderla pieghevole a’ suoi appetiti, ben che il tutto era indarno50. Fecele da una vecchia, che pareva santa Cita51, parlare, la quale fece l’ufficio52 suo molto diligentemente, sforzandosi con sue lusinghevoli53 ciance corromper l’indurato affetto54 de la casta Giulia. Ma la giovanetta era così ben fondata55, che mai parola che la ribalda vecchia le dicesse non le puoté nel petto entrare. Il che intendendo il ferrarese, si trovava il più disperato uomo del mondo, non si potendo imaginare di lasciar costei, con speme pure56 che pregando, servendo, amando e perseverando, dovesse la fiera durezza di Giulia render molle57, parendogli impossibile che a lungo andare egli non la devesse ottenere. Egli, come proverbialmente si dice, faceva il conto senza l’oste. Ora veggendo che di giorno in giorno ella più si mostrava ritrosa e che quando lo vedeva lo fuggiva come un basilisco58, volle provare se ciò che le parole e la servitù59 non avevano potuto fare, lo farebbero i doni, riserbandosi la forza da sezzo60. Tornò a parlare a la scelarata vecchia e le diede alcune cosette non di molta valuta61, che portasse da parte sua a Giulia. Andò la vecchia e ritrovò che Giulia tutta sola era in casa; e volendo cominciar a parlar del ferrarese, le mostrò i doni che egli le mandava. Ma l’onesta figliuola, tolte62 quelle cosette che la vecchia recate aveva, tutte le gettò fuori de l’uscio su la via publica, e la traditora vecchia cacciò di casa, dicendole se più le tornava a far motto63 ch’ella anderebbe in Rocca64 a dirlo a madama Antonia. La vecchia, prese le cose che su la strada erano, se ne tornò a parlar al ferrarese e a dirgli che impossibil era piegar la fanciulla e che ella non saperebbe più in questo caso che farle. Il giovine si trovava tanto di mala voglia65 quanto dir si possa. Egli volentieri si sarebbe da l’impresa ritirato; ma, come66 egli pensava di lasciarla, il misero si sentiva morire. A la fine non potendo il povero e cieco amante più sofferire67 di vedersi sì poco gradire, deliberò, avvenissene ciò che si volesse, se la comodità bella si vedeva, quello per viva forza da lei prendere che ella di grado dar non gli voleva68. Era in corte uno staffiero69 di monsignor vescovo molto amico del ferrarese, e, se ben mi ricordo, egli anco era da Ferrara. A costui il cameriero scoperse70 tutto il suo ferventissimo amore, e quanto s’era affaticato per imprimere nel petto de la fanciulla un poco di compassione, ma che ella sempre s’era dimostrata più dura e più rigida che un marino scoglio, e che mai non l’aveva potuta né con parole né con doni piegare. – Ora – diceva egli – veggendo io che viver non posso se i desir miei non contento71, sapendo quanto tu m’ami, ti prego che tu

45. punto non si mosse: in nulla si distolse, nel senso che non si lasciò convincere. 46. le desse noia: la infastidisse. 47. verme: nel senso di “tormento”. 48. fieramente: crudelmente. 49. seguitava: seguiva, nel senso anche di “perseguitava”. 50. pieghevole … indarno: cedevole ai suoi desideri, alle sue voglie, anche se tutto questo era inutile (indarno è avverbio: invano). 51. santa Cita: santa Zita (1212-78), protettrice di Lucca. 52. fece l’ufficio: svolse l’incarico. 53. lusinghevoli: carezzevoli, ma anche ingannevoli. 54. l’indurato affetto: il resistente, tenace atteggiamento.

55. fondata: decisa, salda (in quanto la sua educazione aveva delle solide basi). 56. con speme pure: con la speranza inoltre (pure), ossia «continuando a sperare» (Ferrero). 57. render molle: ammorbidire. 58. basilisco: serpente (rettile favoloso che, nelle credenze medievali, dava la morte con lo sguardo). 59. la servitù: il “servizio d’amore”, che risale alla tradizione dell’amore cortese (prima servendo). 60. da sezzo: da ultimo, alla fine. 61. valuta: valore, pregio. 62. tolte: prese. 63. se … motto: se ancora una volta (più) fosse tornata a fargliene parola (motto). 64. in Rocca: «al castello dei signori di Ga-

zuolo, dove alloggiava Antonia Bauzia, che si era interessata alla Giulia» (Ferrero). 65. di mala voglia: di cattivo umore. 66. come: non appena. 67. sofferire: sopportare, tollerare. 68. deliberò … non gli voleva: decise, qualsiasi cosa dovesse succedere, «se si fosse presentata una buona occasione» (Ferrero), di prendere da lei con viva forza quello che non gli voleva concedere di buon grado, volentieri. 69. staffiero: staffiere, servitore che per lo più accompagnava il signore quando questi usciva a cavallo. 70. scoperse: rese noto, fece conoscere. 71. se i desir miei non contento: se non accontento, se non soddisfo i miei desideri.

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voglia esser meco ed aiutarmi a conseguir quanto io desio72. Ella va spesso sola in campagna, ove, essendo le biade73 già assai alte, poteremo far74 l’intento nostro. – Lo staffiero, senza pensar più oltre, li75 promise che sempre sarebbe seco a far tutto quello che egli volesse. Il perché76 il cameriero, spiando di continuo ciò che ella faceva, intese un dì che ella tutta sola usciva di Gazuolo. Onde, chiamato lo staffiero, là se n’andò ove ella faceva non so che in certo campo. Quivi giunto, cominciò come era consueto a pregarla che omai volesse di lui aver pietate. Ella, veggendosi sola, pregò il giovine che non le desse più fastidio, e dubitando77 di qualche male se ne venne verso Gazuolo. Il giovine, non volendo che la preda gli uscisse di mano, finse col compagno di volerle far compagnia, tuttavia78 con umili ed amorevoli parole affettuosamente pregandola che avesse de le sue pene pietà. Ella, messasi la via fra’ piedi79, frettolosamente verso casa se n’andava. E caminando senza dar risposta a cosa che il giovine dicesse, pervennero ad un gran campo di grano che bisognava attraversare. Era il penultimo giorno di maggio e poteva quasi esser mezzo dì, e il sole era secondo la stagione forte80 caldo, e il campo assai rimoto81 da ogni abitazione. Come furono nel campo entrati, il giovine, poste le braccia al collo a Giulia, la volle basciare; ma ella, volendo fuggire e gridando aita82, fu da lo staffiero presa e gettata in terra, il quale subito le mise in bocca uno sbadaglio83 a ciò84 non potesse gridare, e tutti dui la levarono85 di peso e per viva forza la portarono un pezzo lungi86 dal sentiero che il campo attraversava; e quivi, tenendole le mani lo staffiero, lo sfrenato87 giovine lei, che sbadagliata era e non poteva far contesa88, sverginò. La miserella amaramente piangeva e con gemiti e singhiozzi la sua inestimabil89 pena manifestava. Il crudel cameriero un’altra volta, a mal grado di lei, amorosamente seco si giacque, prendendone tutto quel diletto che volle. Dapoi la fece disbadagliare90, e cominciò con molte amorevoli parole a volerla rappacificare, promettendole che mai non l’abbandonaria e che l’aiuteria a maritare, di modo che starebbe bene. Ella altro non diceva, se non che la liberassero e la lasciassero andar a casa, tuttavia91 amaramente piangendo. Tentò di nuovo il giovine con dolci parole, con larghe92 promesse e con volerle alora dar danari di rachetarla. Ma il tutto era cantare a’ sordi93, e quanto più egli si sforzava consolarla ella più dirottamente piangeva. E veggendo pur che egli in parole multiplicava94, gli disse: – Giovine, tu hai di me fatto ogni tua voglia95 e il tuo disonesto appetito saziato. Io ti prego, di grazia, che omai tu mi liberi e mi lasci andare. Ti basti quanto hai fatto, che pur è stato troppo. – L’amante, dubitando96 che per dirotto pianto che Giulia faceva non fosse discoperto, poi che vide che indarno97 s’affaticava, deliberò di lasciarla e di partirsi98 col suo compagno; e così fece. Giulia, dopo l’aver amaramente buona pezza99 pianto la violata verginità, racconciatasi100 in capo i suoi disciolti pannicelli e a la meglio che puoté rasciugatosi gli occhi, se ne venne tosto101 a Gazuolo e a casa sua se n’andò. Quivi non era né il padre né la madre di lei; v’era solamente in quel punto102 una sua sorella d’età di dieci in

72. desio: desidero. 73. le biade: il grano, le messi. 74. far: realizzare. 75. li: gli. 76. Il perché: e perciò. 77. dubitando: temendo, avendo paura. 78. tuttavia: sempre. 79. messasi … piedi: dopo essersi messa a camminare, prendendo la via del ritorno. 80. forte: molto. 81. rimoto: lontano. 82. gridando aita: invocando aiuto. 83. uno sbadaglio: un bavaglio. 84. a ciò: affinché.

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85. levarono: alzarono. 86. un pezzo lungi: per un tratto lontano. 87. sfrenato: scatenato (ma può dare anche l’idea di un animale a cui sia stato tolto il morso, il freno). 88. sbadagliata … contesa: era imbavagliata e non poteva lottare, opporre resistenza. 89. inestimabil: grandissima, immensa. 90. Dapoi … disbadagliare: dopo le fece togliere il bavaglio. 91. tuttavia: sempre. 92. larghe: generose. 93. cantare a’ sordi: espressione proverbia-

le, già usata dai latini. 94. in parole multiplicava: si diffondeva sempre più in chiacchiere inutili. 95. ogni tua voglia: tutto quello che volevi. 96. dubitando: temendo (costruito con il non, pleonastico). 97. indarno: inutilmente. 98. partirsi: andarsene, allontanarsi. 99. buona pezza: a lungo. 100. racconciatasi: sistematisi. 101. tosto: subito. 102. punto: momento.

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undeci103 anni, che per esser alquanto inferma non era potuta andar fuori. Giunta che fu Giulia in casa, ella aperse un suo forsiero104, ove teneva le sue cosette. Dapoi, dispogliatasi105 tutti quei vestimenti che indosso aveva, prese una camicia di bucato e se la mise. Poi si vestì il suo valescio di boccaccino106 bianco come neve ed una gorgiera107 di velo candido lavorato, con uno grembiale di vel bianco, che ella solamente soleva portar le feste. Così anco si messe108 un paio di calzette di saia109 bianca e di scarpette rosse. Conciossi110 poi la testa più vagamente111 che puoté, ed al collo si avvolse una filza112 d’ambre gialle. Insomma ella s’adornò con le più belle cosette che si ritrovò avere, come se fosse voluta ire a far la mostra su la113 più solenne festa di Gazuolo. Dapoi domandò114 la sorella e le donò tutte l’altre sue cose che aveva, e quella presa per mano e serrato l’uscio de la casa, andò in casa d’una lor vicina, donna molto attempata che era gravemente nel letto inferma. A questa buona donna, lagrimando tuttavia115, narrò Giulia tutto il successo de la sua disgrazia116 e sì le disse. – Non voglia Iddio che io stia in vita, poi che perduto ho l’onore che di stare in vita m’era cagione117. Già mai non avverrà che persona118 mi mostri a dito o sugli occhi119 mi dica: «Ecco gentil fanciulla ch’è diventata puttana e la sua famiglia ha svergognato, che se avesse intelletto120 si deveria nascondere». Non vo’121 che a nessuno dei miei mai rinfacciato sia, che io volontariamente abbia al cameriero compiaciuto. Il fine mio farà a tutto il mondo manifesto e darà certissima fede122 che, se il corpo mi fu per forza violato, che sempre l’animo mi restò libero. Queste poche parole v’ho voluto dire a ciò che123 ai dui miei miseri parenti124 possiate il tutto riferire, assicurandoli che in me mai non fu consentimento di125 compiacere al disonesto appetito del cameriero. Rimanetevi in pace. – Detto questo, ella uscì fuori e andava di lungo126 verso Oglio, e la sua piccola sorella dietro la seguiva piangendo, né sapendo di che. Come Giulia arrivò al fiume, così col capo avanti nel profondo127 de l’Oglio si lanciò. Quivi al pianto de la sorella che gli stridi128 mandava sino al cielo corsero molti, ma tardi, perciò che129 Giulia, che volontariamente dentro il fiume s’era gettata per annegarsi, in un tratto130 se stessa abbandonando vi s’affogò. Il signor vescovo e madama, udito il miserabil accidente131, la fecero pescare132. In questo133 il cameriero, chiamato a sé lo staffiero, se ne fuggì. Fu il corpo ritrovato, e divolgatasi la cagione per che s’era affogata, fu con universal pianto di tutte le donne ed anco degli uomini del paese con molte lagrime onorata. L’illustrissimo e reverendissimo signor vescovo la fece su la piazza, non si potendo in sacrato134 seppellire, in un deposito mettere che ancora v’è, deliberando135 seppellirla in un sepolcro di bronzo

103. di dieci in undeci: fra i dieci e gli undici. 104. forsiero: forziere, cassetta. 105. dispogliatasi: spogliatasi di. 106. si vestì … boccaccino: indossò «la sua veste di tela assai fine (valescio è propriamente una sorta di tela; qui è usata per indicare una veste fatta con quella tela)» (Ferrero). 107. gorgiera: collarino. 108. messe: mise. 109. saia: stoffa di lana sottile e leggera. 110. Conciossi: si acconciò. 111. vagamente: leggiadramente. 112. filza: collana (l’ambra è una resina fossile usata come pietra ornamentale). 113. ire … su la: andare a far bella mostra di sé alla.

114. domandò: chiamò. 115. lagrimando tuttavia: continuando a piangere ( nota 91). 116. tutto … disgrazia: tutta la disgrazia che le era accaduta. 117. di stare … cagione: costituiva la ragione per cui potessi continuare a vivere. 118. persona: qualcuno (il non che precede è insieme rafforzativo e pleonastico). 119. sugli occhi: davanti ai miei occhi, in mia presenza. 120. intelletto: giudizio. 121. vo’: voglio. 122. Il fine … fede: la mia fine, la mia morte renderà a tutti (tutto il mondo è un francesismo, come il persona della nota 118) evidente e fornirà una indiscutibile testimonianza.

123. a ciò che: perché, affinché. 124. parenti: genitori (ancora un francesismo). 125. in me … di: mai acconsentii a. 126. di lungo: lontano. 127. nel profondo: nelle profonde acque. 128. gli stridi: le urla. 129. perciò che: perché. 130. in un tratto: in un momento. 131. il miserabil accidente: il caso, l’avvenimento miserevole. 132. la fecero pescare: disposero che il cadavere venisse recuperato. 133. In questo: allora, nel frattempo. 134. in sacrato: in territorio consacrato (dove era negata la sepoltura ai suicidi). 135. deliberando: decidendo, ordinando di.

189

L’età del Rinascimento

155

e quello far porre su quella colonna di marmo ch’in piazza ancor veder si puote. E in vero per mio giudicio136, quale egli si sia, questa nostra Giulia non minor lode merita, che meriti Lucrezia romana137; e forse, se il tutto ben si considera, ella deve esser preposta138 a la romana. Solo si può la natura accusare che a sì magnanimo e generoso spirito come Giulia ebbe non diede nascimento139 più nobile. Ma assai nobile è tenuto140 chi è de la virtù amico e chi l’onore a tutte le cose del mondo prepone141.

136. per mio giudicio: secondo me, a mio parere. 137. Lucrezia romana: la moglie di Collatino, vissuta nel VI secolo a.C., che si uccise per non sopravvivere alla violenza fattale da Se-

sto, figlio di Tarquinio il Superbo. L’episodio avrebbe determinato la cacciata dell’ultimo re di Roma e l’instaurazione della repubblica. 138. preposta: anteposta, ritenuta superiore.

139. nascimento: una nascita, un’origine. 140. tenuto: ritenuto, considerato. 141. prepone: antepone, mette innanzi.

Analisi del testo

> La protagonista

La trama lineare

Umiltà e grandezza d’animo

Vittima e carnefice

La misura del dolore

La partecipazione emotiva

190

La povertà e le umili origini di Giulia da Gazuolo si accompagnano con una grazia e una modestia che ne fanno un esempio di perfetta virtù. La trama, estremamente semplice e lineare, si può agevolmente suddividere nei suoi segmenti costitutivi: la presentazione del personaggio; le profferte, sempre respinte, del cameriere; la violenza carnale; la morte e il compianto generale da cui è accompagnata. Ma proprio questa semplicità esalta il carattere e il comportamento del personaggio, la cui umiltà si trasforma via via nella forza di una grandezza d’animo straordinaria. Allo scopo concorre anche, con particolare efficacia, la semplificazione degli accorgimenti della tecnica narrativa, che evita ogni dispersione o concessione a un gusto romanzesco. Nella prima parte l’attenzione è concentrata sui tentativi del cameriere per piegare la giovane ai suoi desideri. L’antagonismo tra la “vittima” e il “carnefice” si risolve poi nella cruda e sintetica descrizione della violenza, fissata in pochi gesti di efferatezza e di disperazione. Alla bassezza d’animo e alla viltà dello stupratore, Giulia risponde con parole di sommesso rimprovero e di accorata preghiera: «Io ti prego, di grazia, che omai tu mi liberi e mi lasci andare. Ti basti quanto hai fatto, che pur è stato troppo».

> Un personaggio tragico

È questa la misura del suo carattere, che chiude il dolore dentro di sé, per tradurlo nelle proprie azioni, messe in pratica senza dubbi e ripensamenti. Giulia non si abbandona alle manifestazioni esterne della disperazione, che avrebbero potuto fare di lei un personaggio melodrammatico e romanzesco. La natura contenuta e interiore della sua sofferenza, risolvendosi interamente nella disperata decisione, la rende un personaggio tragico; ma di una tragedia quasi elegiaca, dolente e inespressa, chiusa nell’incomunicabilità del proprio oltraggiato pudore. Il narratore, concentrando su di lei la propria attenzione, registra i fatti quasi con una discreta e delicata commozione, quale si rivela, ad esempio, nell’uso dei vezzeggiativi («calzette», «scarpette», «cosette»), che accompagna il suo povero e infantile abbigliarsi per andare incontro alla morte (il bianco e il rosso hanno evidenti significati simbolici). L’umiltà di Giulia diventa così il corrispettivo della sua forza e della sua grandezza, che fanno di lei una indimenticabile eroina.

Capitolo 3 · La novella

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Assegna un titolo a ciascuna sequenza in cui il testo è stato diviso, secondo l’esempio proposto. Righe

Titolo

1-24

Presentazione di Giulia ...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

24-72

...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

72-116

...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

116-159

...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

> 2. Quali sono le varie fasi del corteggiamento messo in pratica dal «misero amante»? AnALIzzARe

> 3. Come viene descritto il personaggio di Giulia? > 4. Stile Analizza le righe 36-52 e individua tutte le metafore con cui si descrive la passione amorosa. A quale

campo semantico appartengono? Stile Indica la tipologia del narratore: è interno o esterno ai fatti narrati? Lingua Quali sono le caratteristiche della lingua usata nella novella? Appartiene alla tradizione letteraria “alta” e/o contiene espressioni popolari, proverbi?

> 5. > 6.

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 7.

esporre oralmente Rileggi la parte finale della novella, in cui si assiste al proposito di Giulia di mettere fine alla sua vita, in particolare soffermati sulle motivazioni addotte per tale scelta e sul momento della sua vestizione. Rintracci in quest’ultima elementi simbolici? Rispondi in max 5 minuti.

peR IL poTenzIAMenTo

> 8. Analizza il significato dell’affermazione contenuta alla riga 10 («molto più leggiadra che a sì basso sangue non

conveniva») e della frase conclusiva (rr. 157-158: «Solo si può la natura accusare che a sì magnanimo e generoso spirito come Giulia ebbe non diede nascimento più nobile»). Perché l’autore sottolinea l’umile condizione sociale di Giulia? Che importanza riveste questo “dettaglio” nella trama della novella? Con quale atteggiamento l’autore rappresenta il mondo degli umili?

Visualizzare i concetti

Le principali tendenze della narrativa cinquecentesca Tra imitazione e variazione del modello boccacciano

nARRATIVA CInQUeCenTeSCA

Opere estranee al modello boccacciano

Dilatazione dello spazio della cornice

Sostituzione del principio di “casualità” a quello di ordine

Schema narrativo boccacciano ma tematica rigidamente moralistica

Novelle singole

Raccolta di novelle prive di una cornice

Ragionamenti di Agnolo Firenzuola

Cene del Lasca

Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio

Belfagor arcidiavolo di Machiavelli

Novelle di Matteo Bandello

191

L’età del Rinascimento

In sintesi

LA noVeLLA Verifica interattiva

LA CRISI deL GeneRe nARRATIVo La prosa narrativa non ha grande sviluppo nel Cinquecento, sia perché la componente realistica, propria di questa forma letteraria, non è congeniale ai princìpi poetici rinascimentali, sia perché non esistono modelli cui l’artista possa ispirarsi facilmente. Il Decameron di Boccaccio, indicato da Bembo come punto di riferimento linguistico per la prosa, non si presta infatti a una facile imitazione, tenuto conto del sottile equilibrio che regge il rapporto tra “cornice” e novelle e della mescolanza di elemento “serio” ed elemento comico.

LA noVeLLA I tentativi di imitare il Decameron si dimostrano per lo più fallimentari. Nei suoi Ragionamenti Agnolo Firenzuola dilata a dismisura lo spazio della cornice e lascia l’opera interrotta alla seconda giornata. Le Cene di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, dovevano comprendere trenta novelle, recitate durante il carnevale da dieci giovani per tre giorni. Se la struttura complessiva ricalca in qualche modo quella del Decameron, il modello appare rovesciato per il clima festoso e giocoso della cornice. La struttura compositiva delle novelle, inoltre, è caratterizzata dalla proliferazione dei nuclei narrativi e da continui scarti nell’andamento del racconto, che sembra ispirarsi a un principio di casualità opposto a quello boccacciano di ordine e di equilibrio.

Altri autori, pur prendendo spunto dal modello boccacciano, si concentrano su una tematica particolare, come quella fiabesca privilegiata da Giovan Francesco Straparola. Meglio riuscite sono le novelle singole, concepite al di fuori di una struttura compositiva generale, come il Belfagor arcidiavolo di Machiavelli e l’Istoria di due nobili amanti di Luigi Da Porto. Il solo a cui riesca di riprodurre lo schema boccacciano è il ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-73): negli Ecatommiti egli immagina che un gruppo di fuggiaschi, in seguito al sacco di Roma del 1527, narrino cento novelle navigando verso Marsiglia. Il gusto del macabro e il rigido moralismo, tuttavia, fanno dell’opera un testo antitetico al Decameron per quanto riguarda la concezione ideologica della realtà.

MATTeo BAndeLLo Il rifiuto del modello boccacciano caratterizza le Novelle di Matteo Bandello (1485-1561), concepite come racconti autonomi gli uni dagli altri, ciascuno dei quali è preceduto da una lettera dedicatoria secondo l’esempio quattrocentesco del Novellino di Masuccio Salernitano. Lo scopo dichiarato dell’opera, permeata da un certo gusto del macabro, è il «diletto» di un pubblico identificabile con i frequentatori delle corti.

Facciamo il punto 1. Le novelle del Lasca vengono raccontate durante il Carnevale, quelle di Boccaccio durante la peste.

Quali sono le conseguenze sulla narrazione di queste diverse scelte dei due autori? 2. Quali classi sociali vengono rappresentate da Bandello nella novella esaminata? 3. Il Lasca e Bandello possono essere considerati i novellieri della tradizione fiorentina e di quella settentrionale. Ci sono differenze tra queste produzioni?

192

Capitolo 4

L’anticlassicismo Il rifiuto dei modelli e il primato della “natura”

L’opposizione al classicismo Il “comico”

Il rifiuto dei modelli e delle regole

La poetica anticlassicistica

Rovesciamento e degradazione

All’interno delle istituzioni letterarie dell’età rinascimentale si sviluppa ben presto una decisa opposizione nei confronti del “classicismo”, che si propone come ricerca di soluzioni alternative contro le consuetudini e i condizionamenti della cultura ufficiale. Questa ribellione, se così si può dire, non nasce improvvisamente, dal nulla, ma si richiama a quelle tendenze maggiormente penalizzate e mortificate da una concezione dell’arte troppo selettiva e aristocratica. Alludiamo in particolare al “comico” e alla parodia, che, opponendo una visione delle cose dal basso alla loro trasfigurazione ideale o sublime, potevano sprigionare forze pericolosamente eversive, tali da rovesciare i valori e mettere in crisi i fondamenti della cultura dominante. Il carattere distintivo dell’“anticlassicismo” consiste, di conseguenza, nel rifiuto dei modelli letterari e di ogni regola prestabilita, per la convinzione che il solo e vero modello sia quello offerto dalla «natura». In una lettera del 25 giugno 1537, così scriveva Pietro Aretino a Niccolò Franco: «Andate pure per le vie che al vostro studio mostra la natura, se volete che gli scritti vostri faccino stupire le carte dove sono notati, e ridetevi di coloro che rubano le paroline affamate [rinsecchite]». Seguire la «natura» non vuol dire, ovviamente, abbandonarsi a un’ispirazione libera e incontrollata, ma sottrarsi alle regole del classicismo, nel nome di un concetto diverso di letteratura. Le scelte divergenti compiute dagli anticlassicisti corrispondono anch’esse a una precisa poetica, che si può facilmente definire sia in rapporto alla tradizione precedente (ripresa di generi satirici, burleschi, irriverenti), sia rispetto alla letteratura contemporanea, sottoposta a un processo di irrisione e di deformazione. Ai suoi contenuti raffinati e sublimi vengono sostituite tematiche basse e volgari, volutamente degradate e degradanti; alla retorica dell’ordine subentra una retorica del disordine e del caos; lo stile abbandona le sue armoniche e levigate proporzioni per accogliere forme eterogenee e dissonanti, cercando accostamenti inusuali e impensati.

La tradizione “carnevalesca” e lo sradicamento dell’intellettuale Una letteratura “carnevalesca”

Le provocazioni dell’Aretino

La presenza di queste componenti parodiche, dissacranti, materiali e corporee, che attingono non di rado alla cultura popolare, fa sì che queste tendenze possano essere ricondotte a quella letteratura “carnevalesca” o “carnevalizzata”, che contesta le forme e i valori della cultura dominante ( L’età umanistica, cap. 2, p. 47). Pur presentando evidenti legami con questa tradizione, la letteratura dell’anticlassicismo non persegue, se non indirettamente, fini di contestazione sociale o politica. La sua polemica resta interna alla dimensione del fenomeno culturale, instaurando un rovesciamento che presuppone anch’esso un’educazione letteraria particolarmente raffinata. Le provocazioni così intensamente ricercate da Pietro Aretino ( A2, p. 198), che offre l’esempio più significativo di questa tendenza, non mirano a sovvertire le istituzioni, ma sono mosse da una voluta ricerca dello scandalo, come condizione per promuovere e incrementare il successo dell’opera. 193

L’età del Rinascimento L’erotismo

Lo sradicamento dell’intellettuale

1 L’amore spirituale

La desublimazione dell’amore

Burchiello e Berni

A1

L’antipetrarchismo I sonetti e i capitoli

194

Tra gli elementi dotati di una maggiore forza d’urto e di scandalo vi era certamente l’erotismo, che l’Aretino non esita a spingere fino ai limiti estremi dell’osceno e della pornografia. L’anticlassicismo può anche risultare indicativo, in questo senso, di uno sradicamento dell’intellettuale, della sua alienazione nei confronti del potere. Non a caso proprio a Venezia si costituisce – più o meno direttamente legato all’Aretino – un piccolo gruppo di scrittori che cercano di ottenere nell’attività editoriale una sistemazione alternativa, spesso difficoltosa e precaria. Si tratta di poligrafi (autori che si cimentano nei più svariati generi e tipi di scrittura), scrittori di testi irregolari e bizzarri, che la critica di un tempo – legata a impropri pregiudizi moralistici – ha variamente definito “avventurieri della penna” o “scapigliati” (per certe analogie con la tendenza letteraria affermatasi a Milano nella seconda metà dell’Ottocento).

Il rifiuto del “sublime” nella poesia lirica La tradizione lirica aveva rappresentato i più alti ideali della società cortese, trasferendo poi la sua influenza dalla Sicilia di Federico II alla civiltà dei Comuni, soprattutto a Firenze e in Toscana. La concezione spirituale dell’amore aveva dato vita a un’immagine immateriale e per così dire soprannaturale della donna amata, che non solo appariva staccata da ogni concretezza terrena, ma diveniva quasi il simbolo di una proposta di valori assoluti, sul piano ideologico e culturale. Sin dall’inizio, però, si era sviluppata – con i carmina burana e i fabliaux – una tendenza fortemente critica e alternativa, che guardava allo stesso sentimento amoroso da una prospettiva opposta, operando dal basso un processo di smascheramento, di desublimazione: si pensi ancora alla poesia “comica” e irriverente di Cecco Angiolieri, antagonistica rispetto al “sublime” del «dolce stil novo»; un “sublime” che sembrava racchiudere l’essenza stessa della lirica. L’intero edificio di questa costruzione viene contestato dal Burchiello ( L’età umanistica, cap. 2, A4, p. 64), che priva addirittura le parole dei loro significati, spingendosi fino all’assurdo del nonsenso. E se Petrarca diventa il modello indiscusso della lirica cinquecentesca, Berni ( A1) ne opera un radicale rovesciamento, irridendo le pedisseque convenzioni dei petrarchisti.

Francesco Berni Nato a Lamporecchio, in Val di Nievole, presso Pistoia, nel 1496 o 1497, compì gli studi a Firenze. Trasferitosi a Roma nel 1517, abbandonò la città nel 1522, quando venne eletto pontefice Adriano VI, contro il quale ingaggiò una dura polemica. Dopo aver soggiornato presso vari signori, fu nuovamente a Firenze, dal 1532, al servizio del cardinale Ippolito de’ Medici. Qui morì nel 1535, forse avvelenato per ragioni interne ai conflitti politici cittadini.

La vita

La poetica e le opere Tra i più significativi esponenti dell’“anticlassicismo” cinquecentesco, la sua poetica è chiaramente formulata nel Dialogo contra i poeti (1526), in cui dileggia la figura del letterato ufficiale e alla moda, respingendo il significato umanistico-rinascimentale della poesia come forma di conoscenza superiore e quasi sacra. Costante è il rifiuto del petrarchismo, che, mentre si propone di raggiungere il sublime, rischia il ridicolo delle vuote parole e dei luoghi comuni. Questo atteggiamento assume un particolare risalto nelle Rime di Berni ( T1, p. 195), sia nei sonetti

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

Gli argomenti e lo stile

T1

(spesso caudati), sia nei 32 capitoli che, dal suo nome, vennero chiamati “alla bernesca”. Il “capitolo” in terza rima, composto da endecasillabi a rima incatenata che hanno una forte cadenza narrativa (sull’esempio della Commedia di Dante e, soprattutto, dei Trionfi di Petrarca), era stato impiegato per proporre riflessioni politiche o morali; Berni lo usa invece per immettervi dei contenuti satirici e caricaturali, che ne stravolgono la funzione originaria, ottenendo effetti espressionistici e stranianti. I componimenti possono nascere da spunti irrilevanti (i debiti, le anguille, il calore del letto), intessere elogi paradossali (della peste, dell’orinale), colpire personaggi storici (il Capitolo di papa Adriano), condurre polemiche sociali e culturali (contro gli aristotelici, ad esempio, nel Capitolo in laude di Aristotele). Lo stile affianca la parola letteraria alla locuzione plebea, con risultati di grande vivacità e forza espressiva, che tendono al doppio senso, al sarcasmo, alla deformazione grottesca.

Francesco Berni

Temi chiave

Chiome d’argento fine, irte ed attorte

• la parodia del petrarchismo • lo stravolgimento dei canoni della bellezza femminile

• l’esaltazione degli elementi più repellenti della donna cantata

dalle Rime, XXXI È la parodia del sonetto di Bembo Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura ( cap. 2, T1, p. 164).

> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, DCE.

4

Chiome d’argento fine, irte ed attorte senz’arte1, intorno ad un bel viso d’oro2; fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro3, dove spunta i suoi strali4 Amore e Morte;

8

occhi di perle vaghi, luci tòrte da ogni obbietto disuguale a loro5; ciglia di neve6, e quelle, ond’io m’accoro7, dita e man dolcemente grosse e corte;

11

labbra di latte, bocca ampia celeste, denti d’ebano, rari e pellegrini, inaudita ineffabile armonia8;

14

costumi alteri e gravi9: a voi divini servi d’Amor10, palese fo11 che queste son le bellezze della donna mia.

1. Chiome … senz’arte: capelli grigi, ispidi e arruffati, ossia attorcigliati senza nessuna cura. 2. d’oro: giallastro. 3. crespa … scoloro: rugosa, per cui (u’, dove) solo a guardarla impallidisco (mi scoloro). 4. spunta … strali: smussa la punta delle sue frecce, che non riescono a penetrare. Il tradizionale binomio di amore e morte, spesso uniti nella raffigurazione poetica della passione amorosa, non ha nulla a che vedere con que-

sta donna; ma si può anche intendere che nemmeno la morte vorrebbe averla. 5. occhi … loro: occhi lacrimosi e annacquati (vaghi assomma, parodicamente, il duplice significato di “vaganti“ e “leggiadri”), sguardi (luci) distolti (tòrte) da ogni oggetto distante da loro (in quanto convergono verso l’interno; la perifrasi sta per occhi strabici). 6. di neve: bianche, canute per la vecchiezza come i capelli. 7. ond’io m’accoro: per le quali mi si stringe il cuore.

8. labbra … armonia: labbra pallide ed esan­ gui, bocca enorme, denti scuri, radi e vacillanti, voce sgraziata (armonia è detto per antifrasi), che non si è mai udita e non si può quindi descri­ vere. 9. costumi … gravi: comportamento super­ bo e insopportabile. 10. servi d’Amor: innamorati (riprende il linguaggio della tradizione cortese). 11. palese fo: rendo noto, rivelo.

195

L’età del Rinascimento

Analisi del testo

> La ripresa del sonetto di Bembo

Il rovesciamento dei valori lirici

Il componimento prende di mira uno dei testi fondamentali del petrarchismo cinquecentesco, il sonetto Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura di Pietro Bembo ( cap. 2, T1, p. 164). La parodia funziona come rovesciamento del modello prescelto, dal quale deriva le componenti di segno positivo per trasformarle in negativo. Il testo bembiano rappresentava l’esaltazione delle bellezze e delle virtù della donna amata, attraverso la sequenza e l’elencazione delle sue attrattive. Anche Berni riprende lo stile enumerativo, soffermandosi via via sugli attributi femminili, ma l’elogio riguarda le caratteristiche più brutte e repellenti, risolvendosi nell’opposto delle sue apparenti intenzioni.

> Il procedimento parodico Le riprese

Gli spostamenti La ripresa parodica di Petrarca

I versi conclusivi

Cura della forma e degli equilibri interni

196

Il meccanismo, secondo cui il significato contraddice ciò che in apparenza potrebbe sembrare, si basa su un rapporto di affermazione-negazione, in un sistema di rimandi e di dislocazioni, di spostamenti semantici. Il primo verso del sonetto di Bembo («Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura») viene ripreso in quello corrispondente di Berni («Chiome d’argento fine, irte ed attorte») con un lieve mutamento della specificazione metaforica: all’«oro» viene sostituito l’«argento», che è pur sempre un metallo pregiato (e in questo senso, congiunto con l’aggettivo «fine», sembra designare una qualità eletta e preziosa) ma che indica, invece, la canizie della donna; l’immagine è completata dagli attributi di «chiome», la cui negatività viene ribadita dall’uso del privativo «senza», riferito a un termine («arte») che dovrebbe invece distinguere gli ornamenti e la grazia dell’acconciatura femminile. Gli altri elementi dell’incipit bembiano non vengono lasciati cadere, ma riportati ad altre realtà, per le quali risultano fuori posto e incongrui, sottolineando quindi, anche in questo caso, gli aspetti più ripugnanti: il «bel viso» (con una denotazione positiva, in senso tradizionale) è «d’oro», suggerendo un’immagine di luminosità, che tuttavia si riferisce semanticamente al colorito giallastro del volto; l’aggettivo «crespo», che in Bembo si riferiva ai capelli ondeggianti per la brezza (in Berni viene sostituito dalla rigidità stopposa di «irte»), è adattato qui alla «fronte», per indicare i solchi segnati dalle rughe. Il gioco delle variazioni e degli spostamenti è sostenuto e ribadito dal ricorso ad altri moduli e stilemi (ad esempio «u’ mirando io mi scoloro») che appartengono al tradizionale repertorio della lirica. Il verbo “scolorarsi”, usato più volte da Petrarca, indica una tipica fenomenologia amorosa, l’impallidire dell’uomo di fronte alle virtù soprannaturali della donna amata; nel Berni, al contrario, sta a significare una reazione del tutto diversa, determinata da un senso di repulsione e quasi di spavento. Un analogo procedimento viene impiegato nella sequenza dei versi successivi. Gli ultimi tre, isolati nel loro insieme, potrebbero appartenere a un qualsiasi componimento poetico di impostazione spiritualmente elevata; il loro carattere parodico è tuttavia ribadito dall’andamento e dall’impostazione delle notazioni precedenti.

> Il carattere letterario

Si tratta in ogni caso di un’operazione molto abile e raffinata, di tipo squisitamente letterario. All’effetto concorre anche la cura formale, sia per quanto riguarda certi artifici verbali (si veda l’allitterazione nei due versi iniziali di «irte»/«attorte»/«arte»), sia per la calibrata geometria del sonetto: le quartine sono divise in coppie di distici; nella prima terzina i versi risultano singolarmente scanditi e separati fra di loro, mentre in quella di chiusura il discorso si distende attraverso l’uso dell’enjambement.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Svolgi la parafrasi del sonetto. AnALIzzARe

> 2. Ricerca ed indica nel testo le espressioni che fanno riferimento alle reazioni del poeta-amante in seguito alla visione della donna. Ve ne sono che abbiano valore antifrastico? > 3. Da quali elementi descrittivi possiamo ricavare informazioni sulle caratteristiche morali della donna? > 4. Stile Individua nella prima quartina la figura della consonanza. Quali effetti produce? AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 5.

esporre oralmente Ad una prima lettura tutto nel sonetto rimanda ai modi del petrarchismo di Bembo, dall’ordine e dalla disposizione dei termini, al tessuto lessicale e morfosintattico, dalle metafore utilizzate, fino al tono e al ritmo del componimento. Soffermarti, rispondendo alle domande, sul modo in cui l’autore giunge al rovesciamento parodico attraverso un uso sapiente degli aggettivi ed esponi oralmente le tue considerazioni (max 5 minuti). a) Come sono i capelli della donna rispetto a come sono descritti in Bembo? Quale attributo è utilizzato per definirne il colore? b) L’aggettivo «crespo» a che cosa è riferito in Bembo? E in Berni? Qual è il diverso significato veicolato? c) Quale significato assume in Berni l’espressione «occhi di perle vaghi»? A che cosa allude, invece, in Bembo, il termine «perle»? E l’aggettivo «vago»? Quale “slittamento” di significato si registra rispetto alla tradizione petrarchesca? d) Confronta le due espressioni «su la neve», al verso 2 in Bembo, e «ciglia di neve», al verso 7 in Berni. Che cosa noti? > 6. Testi a confronto Procedi ad un confronto puntuale tra il sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi di Petrarca, Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura di Bembo e Chiome d’argento fine, irte ed attorte di Berni, quindi completa la tabella, secondo l’esempio proposto.

descrizione

petrarca

Bembo

Berni

capelli

«Capei d’oro» .....................................................

«Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura» .....................................................................................................................................................................

«Chiome d’argento fine» ................................................................................

capigliatura

.....................................................

....................................................................................................................................................................

................................................................................

occhi

.....................................................

....................................................................................................................................................................

................................................................................

viso ed espressioni

.....................................................

....................................................................................................................................................................

................................................................................

> 7.

Altri linguaggi: arte Il ritratto femminile detto la Vecchia è un dipinto di Giorgione, che si presta bene come equivalente pittorico della descrizione di Berni, volta a smascherare la vuota artificiosità dei moduli del petrarchismo, anche se Giorgione, rispetto all’impertinente gioco bernesco, propone una lettura allegorica del passare del tempo e della vanità della bellezza ben più profonda. Dopo aver osservato il dipinto e riletto con attenzione il sonetto, rispondi alle domande. a) Descrivi la capigliatura della Vecchia del dipinto. Quali versi del sonetto si prestano a descriverla? b) Soffermati ora sul volto dipinto da Giorgione: il colore della pelle, la fronte rugosa, gli occhi e la bocca. Che cosa scrive, a questo proposito, Berni della sua amata?

Giorgio da Castelfranco detto Giorgione, La Vecchia (Col tempo), 1508-10, tempera e olio di noce su tela di canapa per trasporto da tela di lino, part., Venezia, Gallerie dell’Accademia.

197

L’età del Rinascimento

2 Uno stile di vita raffinato La ricerca di un modello ideale

La demistificazione di Pietro Aretino

A2 Arezzo Roma

Venezia

Una nuova figura di intellettuale

198

La degradazione della trattatistica La trattatistica rinascimentale aveva selezionato ed esemplificato i più diversi aspetti delle esperienze umane, per quanto riguarda non solo le questioni della cultura e della letteratura, ma anche i risvolti delle attività pratiche e comportamentali, nella convinzione che uno “stile” particolarmente elevato e raffinato dovesse regolare tutte le manifestazioni della vita, nei suoi piccoli e grandi momenti. C’è, all’origine, la fiducia classicistica nell’efficacia dei modelli, ricavati dal mondo classico ma anche rielaborati in nuove forme, che possano valere come esempi in grado, a loro volta, di essere imitati. Naturalmente la proposta del modello comporta una ricerca della perfezione che tende a rappresentare la realtà nei suoi contorni più nobili e ideali, dando di essa un’immagine ottimistica, che tende a eliminare tutti gli elementi sgradevoli e negativi. A questa opera di idealizzazione, propria dell’ideologia ufficiale, si oppone la demistificazione condotta da Aretino ( A2), che applica l’insegnamento delle buone maniere all’“educazione” di una prostituta, ribaltando così le convenzioni pedagogiche ufficiali che si trovano nel Cortegiano di Castiglione e nel Galateo di Della Casa

pietro Aretino

La vita La leggenda, alimentata dai suoi numerosi nemici, volle che l’Aretino fosse figlio

di una donna di malaffare e avesse due sorelle cortigiane. Invece egli nacque probabilmente dalla relazione che la madre ebbe, dopo essere stata abbandonata dal marito, con un nobile di Arezzo. Rifiutato l’originario cognome paterno, Pietro volle prendere il nome dalla città in cui era nato, nel 1492. In giovane età abbandonò la famiglia, per recarsi a Perugia, a Siena e poi a Roma. Qui il momento culminante della sua notorietà si ebbe in seguito alla morte di papa Leone X, quando il poeta, facendosi portavoce dei malumori e dei risentimenti di tutta la società cortigiana, scrisse delle Pasquinate (composizioni anonime denigratorie, che venivano così dette perché affisse sul torso di un’antica statua, detta di Mastro Pasquino), indirizzate contro il nuovo pontefice Adriano VI. Lo scalpore sollevato lo costrinse a lasciare Roma, seppure sotto la protezione del cardinale Giulio de’ Medici. Quando quest’ultimo venne eletto, nel 1523, al soglio pontificio, l’Aretino tornò a Roma al suo seguito, suscitando ben presto nuovi scandali e polemiche. Nella notte del 28 luglio 1527 fu ferito da un sicario e lasciato come morto. Riuscì comunque a salvarsi, ma fu costretto ad abbandonare Roma per sempre. Riparatosi a Mantova, si recò da ultimo a Venezia, che divenne la sua dimora stabile fino alla morte, avvenuta nel 1556. Lì poté dare libero sfogo alla sua vena satirica e polemica: la sua fama di libellista si accrebbe a tal punto che, nel 1533, Francesco I gli inviò in dono una collana d’oro; nel 1536 Carlo V gli assegnò una pensione annua e molti altri signori furono munifici con lui. La vita veneziana poté così essere elegante, sfrenata e gaudente come a lui piaceva: moltissime le relazioni amorose; molte le amicizie con intellettuali ed artisti, fra cui Tiziano e Sebastiano del Piombo, Ariosto e Bembo; accanite anche le inimicizie che il carattere aggressivo e spregiudicato dell’Aretino si guadagnò: con Niccolò Franco, Berni e Doni. Minacciare ricatti, sferzare con parole infuocate chi gli era inviso o elargire elogi era la pratica corrente di un autore che venne generalmente riconosciuto come poco dotato di senso morale. Il problema, in ogni caso, non deve essere affrontato in un’ottica moralistica. La personalità dell’Aretino va inquadrata nell’ambiente culturale veneziano, particolarmente aperto e vivace, che, soprattutto attraverso l’espansione dell’industria editoriale, gli offrì ampi spazi per sviluppare e affermare le sue naturali predisposizioni. Proprio queste particolari condizioni gli permisero di realizzare un programma di vita e di lavoro indipendente, che si trasformò in una vera e propria egemonia culturale,

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

in una specie di “dittatura” esercitata nei confronti del gusto letterario (ma la sua fortuna, nella seconda parte del secolo, era destinata ben presto a declinare, per il mutare della situazione storico-politica nell’età della Controriforma). La polemica contro le corti

Testi Aretino • La malvagità delle corti dal Dialogo delle corti

La poetica anticlassicistica Le caratteristiche delle opere

Aretino poligrafo

I sonetti La critica d’arte

La scrittura teatrale

Le opere di argomento sacro

I Ragionamenti

La tematica

Testi Aretino • L’inizio del dialogo dai Ragionamenti

Struttura e ideologia

In quanto “principe” di se stesso, se così si può dire, l’Aretino doveva necessariamente condannare la figura dell’intellettuale cortigiano (sottomesso invece al volere del principe) e, più in generale, quell’ideologia delle corti, la cui pratica si era rivelata insufficiente a soddisfarne le aspirazioni; di qui la violenta polemica da lui condotta nel Ragionamento delle corti (1538), che rovescia impietosamente la visione ideale proposta da Castiglione nel Cortegiano, facendo dell’ambiente di corte il luogo dell’arrivismo, dell’ipocrisia e di ogni malvagità. Ugualmente netto e perentorio è il rifiuto delle regole, su cui si basava la poetica letteraria del classicismo. All’“arte” l’Aretino contrappone la “natura”, intesa come assoluta libertà dello scrittore, che non è vincolato all’imitazione di nessun modello precostituito. A questa convinzione corrispondono le caratteristiche tematiche e formali delle opere; l’esigenza di stupire e di tenere costantemente desta la curiosità giustifica sia i contenuti scandalistici e provocatori, sia la continua ricerca di effetti capricciosi e bizzarri, riscontrabile nel gioco funambolico delle invenzioni stilistiche. Una poetica del genere doveva anche basarsi, per forza di cose, sulla novità e molteplicità delle soluzioni letterarie. La definizione di “poligrafo” (attribuita all’Aretino e ad altri scrittori del medesimo ambiente) indica appunto la disponibilità a cimentarsi nei generi più diversi, trattando anche soggetti antitetici, con lo scopo – si direbbe – di coprire tutti gli spazi offerti dal mercato culturale e librario. Al petrarchismo dei primi sonetti (Opera nova, del 1512), accettato per seguire le tendenze della moda, seguiranno ad esempio i Sonetti lussuriosi, concepiti come illustrazione in versi di incisioni erotiche. All’attività letteraria si accompagna quella di critico d’arte, in cui fu considerato particolarmente autorevole (amico di grandi pittori, aveva egli stesso studiato e praticato la pittura negli anni giovanili della permanenza a Perugia). La versatilità degli interessi e l’attenzione per ogni forma di esperienza spettacolare trovano un importante punto d’arrivo nella sua attività di autore teatrale. Nella sua commedia più famosa, la Cortigiana (1525; seconda redazione 1534), rappresenta la corruzione dell’ambiente romano (il motivo ricompare nei Ragionamenti), con evidenti intenzioni di polemica sociale (altre commedie sono Il marescalco, la Talanta, l’Ipocrito e Il filosofo). Del 1546 è la tragedia in versi Orazia, ritenuta da molti la migliore del secolo. Nel decennio 1534-43 viene intanto componendo una serie di opere di argomento sacro e agiografiche, che non nascono da un autentico sentimento religioso, ma appaiono legate al gusto del miracolistico, della narrazione di episodi straordinari o terribili, destinati a suscitare l’interesse di un pubblico non particolarmente colto. Non deve stupire se, proprio in questi anni, l’Aretino pubblica i Ragionamenti (detti poi anche Sei giornate), in cui confluiscono due opere già edite separatamente, ma collegate in modo molto stretto fra di loro: il Ragionamento della Nanna e della Antonia (1534) e il Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa (1536) ( T2, p. 200). Entrambe sono divise in tre giornate. Nel Ragionamento la Nanna narra alla vecchia Antonia le vicende della sua carriera erotica, prima come monaca, poi come maritata e infine come prostituta. Nel Dialogo la Nanna istruisce la figlia, Pippa, sull’«arte puttanesca»; segue il racconto delle «poltronerie degli uomini inverso de le donne»; infine, la «Comare espone a la Balia, presente la Nanna e la Pippa, il modo del ruffianare». I personaggi sono prostitute, mogli infedeli, frati e monache gaudenti, e sui loro rapporti si sviluppa la tematica dell’opera. Come risulta da queste semplici indicazioni, i Ragionamenti contraddicono in maniera vistosa il gusto delle maniere raffinate e delle conversazioni eleganti codificato dalla trattatistica rinascimentale. In questo senso rappresentano anch’essi un’antitesi nei confronti della trattatistica sul comportamento, degradandone la materia aristocratica e La poetica e le opere

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L’età del Rinascimento

Lo stile

Le Lettere

T2

sublime. L’oscenità e la pornografia, che svolgono nell’opera un ruolo preminente, introducono così una concezione ideologica alternativa, che si basa sul prevalere degli istinti e su una cruda demistificazione del costume sociale. In tutte le sue opere l’Aretino conduce un’accanita battaglia contro il petrarchismo, le regole aristoteliche, la pedanteria scolastica e tardo-umanistica. Il corrispettivo, sul piano dello stile, è offerto da un linguaggio particolarmente libero e sciolto, che, rifiutando ogni uniformità di tipo normativo, mescola con una eccentricità disinibita, spinta fino al virtuosismo, espressioni di diversa origine e provenienza, da quelle letterarie a quelle ricavate dal parlato. Va infine segnalata la pubblicazione delle Lettere, che contribuirono in maniera decisiva ad affermare la fortuna di questo genere nel corso del Cinquecento. Il primo libro, pubblicato nel 1537 dopo sei mesi di lavoro dedicato alla raccolta del materiale, ottenne un clamoroso successo; altri cinque libri seguirono tra il 1542 e il 1557.

pietro Aretino

Temi chiave

Una lezione di vita

• una pedagogia negativa e rovesciata • il ribaltamento del valore normativo

dal Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa, giornata I

• l’esaltazione della sensualità e

del trattato rinascimentale dell’erotismo

Dopo essere diventata esperta nella sua “arte”, la Nanna può, a sua volta, impartire lezioni di vita alla figlia, la Pippa. Proponiamo, con ampi tagli, la parte iniziale del Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa.

Odimi pure e ficcati nel capo le mie pístole1 e i miei vangeli, i quali ti chiariscano in due parole dicendoti: se un dottore, un filosofo, un mercatante, un soldato, un frate, un prete, un romito2, un signore e un monsignore e un Salamone3 è fatto parer bestia da le pazzarone4, come credi tu che quelle che hanno sale in zucca trattassero i babbioni5? pippa Male gli trattarebbono. nanna E perciò non è il diventar puttana mestiere da sciocche, e io, che il so, non corro a furia col fatto tuo6; e bisogna altro che alzarsi i panni e dir «Fà, che io fo», chi non vuol fallire il dí che apre bottega. E per venir al midollo7, egli interverrà8, sentendosi che tu sei manomessa9, che molti vorranno esser dei primi serviti; e io somigliarò un confessore che riconcili la ciurma, cotanti pissi pissi10 arò11 ne le orecchie dagli imbasciadori di questo e di quello, e sempre sarai caparrata12 da una dozzina: talché ci verria bene che la stomana13 avesse più dì che non ha il mese; ma eccoti che io sto in su le mie, e rispondo a un servidor di messer tale: «Egli è il vero che Pippa mia ci è stata colta14, Iddio sa come (comar vacca, comar ruffiana, io te ne pagarò15), e la mia figliuola, più pura che un colombo, non ci ha colpa; e da leal Nanna, una volta sola ha nanna

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1. pístole: epistole (le lettere degli apostoli accolte nel Nuovo Testamento, di cui si dà lettura durante la messa); anche questo riferimento è irriverente. 2. romito: eremita. 3. un Salamone: una persona eccezionalmente saggia e sapiente, per antonomasia (Salomone, figlio di Davide, è il re d’Israele celebre appunto per la sua saggezza). 4. pazzarone: ragazze stolte, sciocche.

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5. babbioni: stupidi, imbecilli. 6. non corro … tuo: non voglio affrettare i tempi per il tuo bene, nei tuoi interessi. 7. al midollo: alla sostanza, al nocciolo della questione. 8. egli interverrà: succederà, accadrà. 9. manomessa: non più vergine. 10. pissi pissi: messaggi sussurrati (espressione onomatopeica). 11. arò: ha funzione di gerundio, avendo.

12. caparrata: richiesta insistentemente (quasi “prenotata con il versamento di una caparra”). 13. ci verria … stomana: bisognerebbe, sa­ rebbe per noi opportuno che la settimana. 14. ci è stata colta: ha perso la verginità. 15. te ne pagarò: te la farò pagare (finge di rivolgersi, imprecando, a una fantomatica ruffiana, responsabile della “caduta” della figlia).

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

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consentito, e vorria esser ben barba chi mi recassi a dargnele16; ma sua Signoria mi ha incantata di sorte17 che io non ho lingua che sappia dirgli di no: sì che ella verrà poco doppo l’avemaria». [...] nanna Or tu te ne andrai a casa de l’uomo da bene che io ti do per essempio, e io con teco; e subito arrivata a lui, ti verrà incontra o in capo la scala o fino a l’uscio: fermati tutta in su la persona, che potria sgangararsi18 per la via; e rassettate le membra sul dosso19 e guardati un tratto20 sottomano i compagni che ragionevolmente gli staranno poco di lungi, affige21 umilmente i tuoi occhi nei suoi, e sciorinata che tu hai una profumata riverenzia, sguaina il saluto con quella maniera che sogliono far le spose e le impagliate22 (disse la Perugina23), quando i parenti del marito o i compari gli toccano la mano. pippa Io diventarò forse rossa a farlo. nanna E io allegra, perché il belletto24 che ne le gote de le fanciulle pone la vergogna, cava l’anima altrui. pippa Basta dunque. nanna Fatte le cerimonie secondo che25 si richiede, quello col quale tu hai a dormire, la prima cosa te si farà sedere a lato, e nel pigliarti la mano accarezzerà me che, per far correre26 il volto dei convitati nel tuo viso, terrò sempre fitti gli occhi ne la tua faccia, facendo vista di stupire de le tue bellezze. E così cominciarà a dirti: «Madonna vostra madre ha ben ragione di adorarvi, perché le altre fanno27 donne, ed ella angeli»; e si28 avviene che dicendo simili parole si chini per basciarti l’occhio o la fronte, rivolgetigli dolcemente e sfodera un sospiretto che appena sia inteso da lui: e si fosse possibile che in cotal atto tu ti facessi le guance del rosato che io dico, lo coceresti al primo29. pippa Sì, eh? nanna Madesì30. pippa La ragione? nanna La ragione è che il sospirare e lo arrossare insieme, sono segni amorosi e un principiar di martello31; e perché ognuno si contiene stando in sul tirato32, colui che ha a goderti la seguente notte cominciarà a darsi ad intendere che tu sia guasta33 di lui: e tanto più il crederà, quanto più lo perseguitarai con gli sguardi; e ragionando tuttavia34 teco, ti tirarà a poco a poco in un cantone: e con le più dolci parole e con le più accorte che potrà, entraratti su le ciance35. Qui ti bisogna risponder a tempo; e con boce36 soave sforzati di dire alcuna parola che non pizzichi del chiasso37. Intanto la brigata, che si starà giorneando38 meco, si accostarà a te come bisce che si sdrucciolano

16. vorria … dargnele: dovrebbe essere una bella barba, ossia una persona molto prestigiosa e autorevole, colui al quale io deci­ dessi di recarmi per offrire mia figlia. 17. di sorte: in modo tale. 18. sgangararsi: sgangherarsi, scomporsi. 19. rassettate … dosso: ricomponi (imperativo), appoggia le mani sulle spalle (indica il gesto pudico di chi incrocia le braccia sul seno). 20. un tratto: per un po’. 21. affige: affiggi, fissa. 22. impagliate: puerpere. Così venivano dette le donne che avevano appena partorito, perché con la paglia si coprivano superstiziosamente le fessure della stanza in cui

giacevano, in modo che i venti non recassero loro danno. 23. la Perugina: una cortigiana, amica della Nanna. 24. il belletto: il trucco; allude qui al rossore naturale delle guance. 25. secondo che: come, nel modo in cui. 26. correre: convergere. 27. fanno: partoriscono. 28. si: se (anche più avanti, si fosse possibile). 29. al primo: subito. 30. Madesì: certo che sì. 31. un principiar di martello: l’inizio della passione, del desiderio. 32. ognuno … tirato: le persone si tratten­ gono, restano imbarazzate, se uno sta sulle

sue, non dà confidenza e non fa capire le sue intenzioni. 33. guasta: follemente innamorata. 34. ragionando tuttavia: continuando a discorrere. 35. entraratti su le ciance: entrerà con te nel vivo del discorso, per rivelarti i suoi veri obiettivi. 36. boce: voce. 37. che non … chiasso: che non dia l’im­ pressione di derivare da una casa di piacere (chiasso può essere il postribolo, ma anche la via stretta, il vicolo in cui si trovavano di solito le case delle prostitute). 38. giorneando: intrattenendo, chiacchie­ rando.

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L’età del Rinascimento

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su per l’erba; e chi dirà una cosa e chi un’altra, ridendo e motteggiando39: e tu in cervello40; e tacendo e parlando, fà sì che il favellare e lo star queta paia bello ne la tua bocca; e accadendoti di rivolgerti ora a questo e ora a quell’altro, miragli senza lascivia, guardandogli come guardano i frati le moniche osservantine41; e solamente lo amico che ti dà cena e albergo pascerai42 di sguardi ghiotti e di parole attrattive43. E quando tu vuoi ridere, non alzar le boci puttanescamente spalancando la bocca, mostrando ciò che tu hai in gola: ma ridi di modo che niuna fattezza del viso tuo non diventi men bella; anzi accrescile grazia sorridendo e ghignando44, e lasciati prima cadere un dente che un detto laido; non giurar per Dio né per santi, ostinandoti in dire «Egli non fu così», né ti adirare per cosa che ti si dica da chi ha piacere di pungere le tue pari: perché una che sta sempre in nozze debbe vestirsi più di piacevolezza che di velluto, mostrando del signorile in ogni atto; e ne lo essere chiamata a cena, se bene sarai sempre la prima a lavarti le mani e andare a tavola, fattelo dire più d’una volta: perché se ringrandisce ne lo umiliarsi45. pippa Lo farò. nanna E venendo la insalata, non te le avventare come le vacche al fieno: ma fà i boccon piccin piccini, e senza ungerti appena le dita póntigli in bocca; la quale non chinarai, pigliando le vivande, fino in sul piatto come talor veggo fare ad alcuna poltrona46: ma statti in maestà47, stendendo la mano galantemente; e chiedendo da bere, accennalo con la testa; e se le guastade48 sono in tavola, tòltene49 da te stessa; e non empire il bicchiere fino a l’orlo, ma passa il mezzo di poco: e ponendoci le labbra con grazia, nol ber mai tutto. pippa E s’io avessi gran sete? nanna Medesimamente beene50 poco, acciò che non te si levi un nome51 di golosa e di briaca. E non masticare il pasto a bocca aperta, biasciando52 fastidiosamente e sporcamente: ma con un modo che appena paia che tu mangi; e mentre ceni favella men che tu puoi: e se altri non ti dimanda, fà che non venga da te il ciarlare53; e se te si dona o ala o petto di cappone o di starna54 da chi siede al desco55 dove tu mangi, accettalo con riverenzia, guardando perciò l’amante con un gesto che gli chiegga licenza senza chiederla; e finito di mangiare, non ruttare, per l’amor d’Iddio! pippa Che saria se me ne scappasse uno? nanna Ohibò! Tu caderesti di collo56 a la schifezza, non che agli schifi57. pippa E quando io farò quello che mi insegnate e più, che sarà? nanna Sarà che tu acquistarai fama de la più valente e de la più graziosa cortigiana che viva; e ognuno dirà, mentovandosi58 l’altre, «State queti, che val più l’ombra de le scarpe vecchie de la signora Pippa, che le tali e le cotali calzate e vestite»; e quelli che ti conosceranno, restandoti schiavi, andran predicando de le tue vertù; onde sarai più desiderata che non son fuggite59 quelle che han i fatti60 di mariuole e di malandrine: e pensa s’io ne gongolarò61.

39. motteggiando: scherzando. 40. in cervello: stai accorta, fai attenzione. 41. osservantine: che seguono la stretta os­ servanza di una regola. 42. pascerai: nutrirai, alimentandone l’attrazione e la passione. 43. attrattive: attraenti, piene di fascino e di seduzione. 44. sorridendo e ghignando: ridendo in maniera garbata e misurata, evitando la risata sguaiata, gli eccessi a cui può portare il riso (“ghigno” indicava allora il sorriso). 45. se ringrandisce … umiliarsi: contraffa-

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zione parodica della massima evangelica «chi si umilia sarà esaltato». 46. alcuna poltrona: qualche persona vol­ gare, che non conosce le buone maniere. 47. statti in maestà: comportati in maniera dignitosa e aristocratica, quasi regale. 48. guastade: caraffe. 49. tòltene: prenditene. 50. beene: bevine. 51. te si … nome: te ne venga la fama. 52. biasciando: biascicando, masticando. 53. fà che … ciarlare: non iniziare tu a chiac­ chierare.

54. starna: pernice grigia, dalle carni squisite. 55. al desco: alla tavola. 56. di collo: rompendoti il collo, in maniera rovinosa. 57. schifi: coloro che fanno gli schifiltosi. 58. mentovandosi: quando si ricordano. 59. che … fuggite: di quanto non siano evi­ tate. 60. i fatti: la reputazione. 61. ne gongolarò: non ne gongolerò, non ne sarò più che contenta.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

Analisi del testo I rapporti familiari

La trattatistica rinascimentale

Un’antipedagogia

L’erotismo

> Un “galateo” alternativo

Il fatto che in questo dialogo sia una madre, la Nanna, a istruire la figlia, la Pippa, svolgendo un ruolo negativo di mediazione e di iniziazione, vuole forse alludere, se non proprio a una situazione di crisi dei rapporti familiari, alla sfiducia nella possibilità di promuovere un autentico miglioramento sociale basato su un programma pedagogico. Il discorso è comunque impostato in maniera parodica e caricaturale, dal momento che le battute della Nanna insistono invece, almeno formalmente, sul valore educativo dei suoi insegnamenti. Non diversi erano gli scopi della trattatistica di ambiente aristocratico e di aspirazioni elevate, impegnata a proporre valori etici e contenuti ideali. Per stabilire termini più precisi di riferimento, la lezione di buone maniere a tavola, impartita dalla Nanna, coincide perfettamente con quella che somministra il precettore al suo discepolo, nel Galateo del Della Casa ( Il contesto, p. 142); addirittura giunge a riproporre, degradandone i significati, i motivi della «grazia» e della «sprezzatura», illustrati dal Castiglione nel Cortegiano ( cap. 1, T2, p. 157), là dove, ad esempio, si consiglia di guardare «l’amante con un gesto che gli chiegga licenza senza chiederla». Il risultato da raggiungere non mira infatti ad una elevazione morale, ma persegue obiettivi assai meno nobili e ben altrimenti concreti: il denaro in primo luogo, se è vero che – come si legge in una battuta non riportata – «la soavità degli scudi [monete correnti dell’epoca] non lascia arrivare al naso i fiati marci né la puzza dei piedi». Sicché, nel godimento a qualsiasi prezzo dei piaceri materiali, consiste la sola e vera forma della beatitudine: «se farai a mio senno, se aprirai ben le orecchie ai miei ricordi [insegnamenti], beata te, beata te, beata te» dice Nanna nelle righe che precedono il testo proposto. Il comportamento non è ispirato a un ideale aristocratico di misura, ma al soddisfacimento di istinti e bisogni elementari, al desiderio tutto esteriore del lusso e del guadagno, da ottenere a ogni costo anche attraverso gli inganni e i raggiri (di qui deriva la ripresa di un ampio repertorio comico e novellistico). Alla spiritualità platonica, che risolveva la realtà nella perfezione dell’idea e l’amore nella contemplazione pura della bellezza, si sostituisce l’esaltazione dei sensi e di uno sfrenato erotismo.

> Lo stile Le forme espressive

Anche lo stile, di conseguenza, abbandona il livello elevato e nobilitante della trattatistica tradizionale, con la sua struttura retorica elaborata e complessa. Il linguaggio dell’Aretino rifiuta le costruzioni altisonanti e ricercate, per seguire l’andamento di una sintassi più libera e sciolta. L’espressione si fa colorita e vivace; la parola assume un valore impressionistico; la cadenza acquista in spontaneità e immediatezza, attingendo a modi e locuzioni tendenzialmente vicine al parlato, che danno un risalto anche “visivo” alla rappresentazione. Si notino le forme figurate, metaforiche ed ellittiche, l’onomatopea (i «pissi pissi») e la prosopopea («un Salamone»), le iterazioni e le sequenze enumerative.

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Quali sono gli argomenti fondamentali su cui si fondano gli insegnamenti impartiti dalla Nanna a sua figlia? AnALIzzARe

> 2. Quale idea delle relazioni con le altre donne e con il mondo maschile emerge dal dialogo? > 3. Descrivi le protagoniste del dialogo riportando alcune parti del brano che ritieni particolarmente significative per la caratterizzazione dei personaggi.

203

L’età del Rinascimento

> 4.

Stile Analizza il linguaggio usato nella prima parte del testo (rr. 1-18) e individua le espressioni del parlato, quelle metaforiche e proverbiali. > 5. Lingua Rintraccia tutte le congiunzioni presenti alle righe 6-18 e indica se svolgono una funzione coordinante o subordinante.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6.

Contesto: storia Delinea, anche attraverso ulteriori approfondimenti, il quadro generale del contesto socio-culturale della Venezia del Cinquecento in cui matura buona parte dell’esperienza umana e letteraria dell’autore.

PER IL RECUPERO

> 7. Nella tabella seguente sono riportate alcune parole di uso non comune: indica con l’aiuto del dizionario il significato di ciascuna e almeno un paio di sinonimi, secondo l’esempio proposto. Riga

Parola

Significato

Sinonimi

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sciorinata

fatta pubblicamente ..............................................................................................................

esibita, ostentata ..............................................................................................................

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riverenzia

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gote

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47

cantone

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50-51

sdrucciolano

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favellare

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53-54

lascivia

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laido

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SCRITTURA CREATIVA

> 8. Prova a riscrivere, in forma sintetica, il dialogo tra la Nanna e la Pippa adottando un tono serio, a tratti anche

drammatico, in cui la madre metta in guardia la figlia dalle insidie del mestiere che esercita e la scoraggi dall’intraprendere la stessa scelta di vita. Per delineare il contesto storico-sociale di riferimento, puoi avvalerti degli spunti ricavati dalla lettura del brano analizzato, ma puoi avvalerti anche di altre tue conoscenze. Non superare complessivamente 60 righe (3000 caratteri).

3 I valori e i sentimenti della tradizione

Folengo

204

Lo svuotamento dei valori dell’epica Il poema epico era considerato il genere letterario per eccellenza, quello in cui il grande poeta celebrava le gesta di un grande eroe, facendosi interprete dei sentimenti e dei valori di un’intera nazione o di un’intera civiltà. Petrarca, come abbiamo visto a suo tempo, affidava le speranze di gloria presso i posteri non alle poesie in volgare del Canzoniere, ma all’Africa, scritto in esametri latini, con cui intendeva rivaleggiare con l’Eneide, l’opera nella quale Virgilio aveva celebrato le origini e la grandezza di Roma. Nell’età della Controriforma, alla fine del Cinquecento, Tasso vorrà scrivere, con la Gerusalemme liberata ( L’età della Controriforma, cap. 3, p. 572), il poema della cristianità divisa dalla Riforma protestante e minacciata dall’avanzare dei turchi. Se l’epica era portatrice di valori sacri e assoluti, il Folengo li corrode dall’interno e li svuota di ogni significato, a partire dalla scelta, nel suo poema eroicomico, il Baldus, del latino come strumento espressivo. Non si tratta infatti del latino classico o di quello umanistico, bensì di un latino “maccheronico”, particolarmente adatto per esprimere contenuti comici e bassi, che si collocano all’estremo opposto nella scala dei valori dell’epos.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

A3

Le origini

La carriera ecclesiastica

Le redazioni delle Maccheronee

La rivendicazione delle origini contadine

Teofilo Folengo La letteratura maccheronica Teofilo Folengo si presenta come l’esponente più rappresentativo di quella singolare forma di letteratura che fu la poesia maccheronica. La poesia maccheronica ha i suoi antecedenti più diretti nel latino tutto intriso di vocaboli ed elementi volgari, tipico del periodo medievale, che fu chiamato latinus grossus. Quest’ultimo non può tuttavia ancora essere definito latino maccheronico in quanto in esso gli errori e gli strafalcioni sono un prodotto casuale dovuto all’ignoranza. Il latino maccheronico è invece un’esercitazione di intellettuali che sfruttano l’aspetto paradossale, grottesco e comico degli errori di grammatica e della mescolanza con il volgare, per operare una parodia dell’elegante latino classico e umanistico (del quale vengono esteriormente conservate le caratteristiche morfologiche, sintattiche e metriche), contaminandolo con le forme lessicali della lingua italiana e del dialetto. Pur nell’imprecisione dei dati storici, si può supporre che il fenomeno abbia avuto origine nella seconda metà del Quattrocento da un gioco tra goliardi e docenti dell’Università di Padova, in opere come la Macaronea (1490 ca.) di Tifi Odasi e il Nobile Vigonze opus di autore sconosciuto. Si tratta di racconti di beffe, ricchi di ritratti comici, che trovano tanti paralleli nella novellistica del tempo, irti di un linguaggio espressionistico e grottesco. La vita Folengo nacque a Mantova nel 1491, da una famiglia di nobili decaduti ed entrò nel 1508 nell’ordine benedettino, assumendo il nome di Teofilo in luogo dell’originario Girolamo. Gli anni più importanti per la sua formazione furono quelli trascorsi, tra il 1513 e il 1516, a Padova, culla della poesia maccheronica. A causa di una vicenda piuttosto oscura e intricata, Teofilo e suo fratello Giambattista uscirono dall’ordine; il rancore verso il superiore ed i confratelli, che li avevano accusati di furto, fu assai aspro, ma non valse a spegnere il desiderio della vita monastica. Dopo un breve periodo trascorso a Venezia (1526), Folengo decise di rientrare nell’ordine; vi fu riammesso nella primavera del 1534, dopo una serie di prove. In seguito venne inviato per circa quattro anni in Sicilia. Morì nel convento di Santa Croce Campese, presso Bassano, nel dicembre 1544. Le Maccheronee Se si escludono gli episodi come l’espulsione dall’ordine benedettino ed il decennio trascorso fuori dal convento, la vita di Folengo fu tutt’altro che avventurosa. Anche lo spirito di rivolta, che alcuni critici vollero individuare in alcuni passi anticlericali della sua opera, appartiene in realtà ad un filone letterario abbastanza diffuso fino al periodo umanistico. L’impegno maggiore della sua esistenza appare concentrato attorno alle varie redazioni delle Maccheronee (in latino Opus macaronicum), pubblicate fra il 1517 e il 1552. L’ultima edizione, postuma, comprende, oltre a una piccola scelta di epigrammi e lettere poetiche: la Moscheide, racconto in chiave comica della guerra tra le mosche e le formiche; la Zanitonella ovvero Inamoramentum Zoaninae et Tonelli, egloga rusticana che narra l’amore infelice del contadino Tonello per la bella e indifferente Zanina; il Baldus in 24 libri. A partire dallo pseudonimo Merlin Cocai (come risulta dalle stesse opere, cocaium è il tappo di un barilotto, mentre cercava il quale sua madre lo aveva partorito; Merlinus viene invece dalla merla che gli portava il cibo ogni giorno nella culla) è chiaro l’intento dell’autore di staccarsi da una civiltà letteraria cittadina, per rivendicare, non senza una punta di sapore polemico, la propria origine contadina. Il Baldus Il mondo contadino viene rappresentato con calore e originalità nella

prima parte del Baldus ( T3, p. 207), ampio poema che, nella parte iniziale, narra l’amore di Guidone da Montalbano, discendente di Rinaldo, e di Baldovina, figlia del re di Francia, i quali, dopo una serie di affanni e disavventure, riparano presso un contadino 205

L’età del Rinascimento

Testi Folengo L’epica degradata • La condizione contadina dal Baldus •

Il comico

La “letteratura carnevalesca”

della campagna mantovana trovando nella semplicità della vita umile una felicità e una libertà più profonde. In questo ambiente nasce Baldus, il quale, nel piccolo borgo di Cipada, vive una fanciullezza esuberante, che rivela già l’eccezionale tempra dell’eroe. Nei primi scontri con i monelli di Mantova si intuiscono le premesse degli atti di prepotenza che Baldus si troverà più avanti a compiere. Nonostante la volontà di instaurare un nuovo ordine per riparare alle ingiustizie del mondo, di fatto Baldus si trova ad infliggere angherie d’ogni sorta a Tognazzo, podestà del paese, e Zambello, figlio di Berto Panada, il contadino che aveva accolto i suoi genitori esuli dalla Francia. I tradizionali valori cavallereschi e cortesi sono stravolti e predomina l’immagine di un mondo in cui la fame, i soprusi e la violenza sono all’ordine del giorno. Baldus, con le sue sregolate prodezze, finisce ben presto in prigione. Liberato, si imbarca in una serie di avventure popolate da mostri, draghi, streghe e fate, per poi approdare addirittura all’inferno, in una zucca, dove incontra lo stesso autore dell’opera, Merlin Cocai. Ci sono anche Omero e Virgilio perché ormai non vige più alcuna distinzione fra i poeti epici e quelli maccheronici, a parte la differenza delle Muse ispiratrici. Nella comicità dell’opera – spesso straripante – trovano spazio e forma l’elemento drammatico e quello più prettamente ridicolo, come momenti inseparabili, ravvisabili nel gusto paradossale e quasi surreale della deformazione caricaturale e grottesca. L’opera di Folengo rappresenta uno dei momenti più significativi di quella che Michail Bachtin ha definito la “letteratura carnevalesca”, una letteratura che, ispirandosi allo spirito irriverente e dissacratore del carnevale, rifiuta i valori della cultura ufficiale. I suoi procedimenti sono qui facilmente reperibili: la parodia dei generi letterari tradizionali; la mescolanza e la contaminazione dei linguaggi e degli stili; la visione del mondo dal basso, che dà cittadinanza letteraria anche agli elementi della realtà materiale più vile e spregevole (riferita, in questo caso, a un mondo emarginato e subalterno come quello contadino); lo smascheramento e il rovesciamento delle convenzioni universalmente accettate. Non a caso tra i primi ammiratori del Folengo ci sarà François Rabelais ( A5, p. 220), il maggiore esponente di questo tipo di letteratura.

Scuola di Vincenzo Campi, Una cucina, XVI secolo, olio su tela, Milano, Pinacoteca di Brera.

206

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

T3

Teofilo Folengo

Temi chiave

Le Muse maccheroniche

• la deformazione parodica del mito • l’accentuazione della materialità e

dal Baldus, I, vv. 1-63

• i riferimenti al cibo • il mito del paese di Cuccagna

della corporeità dell’uomo

Folengo adatta qui l’invocazione alle Muse, tipica dei poemi epici, alla particolare qualità della sua ispirazione “maccheronica”.

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Phantasia mihi plus quam phantastica venit historiam Baldi grassis cantare Camoenis, altisonam cuius phamam nomenque gaiardum terra tremat baratrumque metu sibi cagat adossum. Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat, o macaronaeam Musae quae funditis artem. An poterit passare maris mea gundola scoios, quam recomandatam non vester aiuttus habebit? Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia, non Phoebus grattans chitarinum carmina dictent; panzae nanque meae quando ventralia penso, non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam. Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae, Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala, imboccare suum veniant macarone poëtam, dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos. Hae sunt divae illae grassae nymphaeque colantes, albergum quarum, regio propriusque terenus clauditur in quodam mundi cantone remosso, quem Spagnolorum nondum garavella catavit.

Mi è venuta la fantasia – matta più che mai – di cantare con le grasse Camene1 la storia di Baldo. La sua fama altisonante, il suo nome gagliardo ammira tremando la terra, e il baratro d’inferno per la paura si caca addosso. Ma prima bisogna invocare l’aiuto vostro, o Muse che effondete con larghezza l’arte maccheronica2. Potrà mai la mia gondola superare gli scogli del mare, se il vostro aiuto non l’avrà raccomandata? No, i carmi3 non mi dettino Melpomene4, né quella minchiona di Talia5, né Febo6 che gratta la sua chitarrina; ché, se penso alle budella della mia pancia, non si addicono alla mia piva7 le ciance di Parnaso8. Ma soltanto le Muse pancifiche9, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala10, vengano a imboccare di gnocchi il loro poeta, e mi rechino un cinque o un otto catini di polenta. Queste son quelle grasse mie dee, queste le ninfe sbrodolate d’intingolo11, il cui albergo, regione e territorio stan racchiusi in un remoto cantone del mondo12 che la caravella d’Ispania13 non ancora ha raggiunto.

1. grasse Camene: le Camene sono le Muse, in origine ninfe delle acque e delle fonti. L’aggettivo grasse lascia sin d’ora intendere le caratteristiche del poema: Folengo si rivolge a Muse goderecce e festaiole (vedi anche i vv. 11-16). 2. arte maccheronica: o “macaronica”, da “macarone“ o “maccarone”, termine che indicava allora propriamente gli gnocchi, mentre solo dal Settecento assumerà il significato attuale. 3. carmi: versi, poesie. 4. Melpomene: è la Musa “cantante”, quella

a cui si ispiravano i tragediografi. 5.Talia: è la“festosa”, la Musa della commedia. 6. Febo: “il lucente”, è uno dei nomi di Apollo, dio delle arti da cui dipendono tutte le Muse. 7. piva: è la zampogna della poesia pastorale, qui simbolo del procedere spontaneo e rozzo dell’arte maccheronica, rispetto alla raffinata lirica classica rappresentata ironicamente al verso 10 dalla chitarrina (chitarinum) con la quale strimpella confusamente (gratta) i suoi canti “il brillante” Febo.

8. Parnaso: monte greco sacro appunto a Febo e alle Muse. 9. pancifiche: panciute. 10. Gosa … Pedrala: nomi comuni popolari. 11. intingolo: salsa, sugo. 12. in un … mondo: è il paese di Cuccagna o di Bengodi, luogo immaginario dell’abbondanza, in cui si trovano delizie di ogni genere e dove tutti possono mangiare e bere “a sbafo”. 13. la caravella d’Ispania: le navi spagnole.

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L’età del Rinascimento

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Grandis ibi ad scarpas Lunae montagna levatur, quam smisurato si quis paragonat Olympo collinam potius quam montem dicat Olympum. Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi, non solpharinos spudans mons Aetna brusores, Bergama non petras cavat hinc montagna rotondas, quas pirlare vides blavam masinante molino: at nos de tenero, de duro deque mezano formaio factas illinc passavimus alpes. Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam possem, per quantos abscondit terra tesoros: illic ad bassum currunt cava flumina brodae, quae lagum suppae generant pelagumque guacetti. Hic de materia tortarum mille videntur ire redire rates, barchae grippique ladini, in quibus exercent lazzos et retia Musae, retia salsizzis vitulique cusita busecchis, piscantes gnoccos, fritolas gialdasque tomaclas. Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat turbatisque undis coeli solaria bagnat. Non tantum menas, lacus o de Garda, bagordum, quando cridant venti circum casamenta Catulli. Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri, in quibus ad nubes fumant caldaria centum, plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.

Si leva in tal luogo una grande montagna che giunge fino alle scarpe14 della Luna, e, se qualcuno la paragona allo smisurato Olimpo15, dirà pure l’Olimpo una collinetta piuttosto ma non un monte. Qui non ci sono i corni16 del Caucaso17, non le giogaie18 del Marocco, non l’Etna che sputa i suoi bruciori di zolfo; qui non si cavano, come nella montagna di Bergamo19, le rotonde pietre che vedi pirlare20 nel mulino a macinare la biada; alpi di formaggio invece noi abbiamo attraversato laggiù, di formaggio tenero, stagionato e stagionatello. Credetemelo, ve lo giuro, per quanti tesori la terra nasconde, una bugia non potrei mai dirvela: scorrono colaggiù profondi fiumi di brodo che formano un lago di zuppa e un pelago21 di guazzetto22. E qui, fatti di pasta di torta, si vedono passare e ripassare mille zattere, barche, brigantini leggeri, da cui le Muse gettano di continuo lacci e reti cucite con budella di maiale e con busecche23 di vitello, e pescano gnocchi, fritole24 e gialle tomacelle25. Ma son dolori quando quel lago va in tempesta, e con le onde turbate bagna i soffitti del cielo. Non buriane di tal fatta26, o lago di Garda, tu meni27 quando strepitano i venti intorno alle case di Catullo28. Qui le costiere sono di fresco e tenero burro, e cento pentole mandano il fumo sino alle nubi, cento pentole, piene di tortelli, di gnocchi e di tagliatelle.

14. alle scarpe: ai piedi. 15. Olimpo: monte fra la Tessaglia e la Macedonia, dimora degli dei (ridotto, rispetto a questa grande montagna, alle dimensioni di una collinetta). 16. i corni: i picchi, le cime aguzze. 17. Caucaso: è un sistema montuoso dell’Asia occidentale che si estende dal mar Nero al mar Caspio. 18. giogaie: sommità montuose tondeggianti, valichi.

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19. montagna di Bergamo: «Sarnico, che con le sue cave forniva ottime pietre da molino» (Cordié). 20. pirlare: scintillare. 21. pelago: mare. 22. guazzetto: diminutivo di “guazzo”: manicaretto in umido, con sugo abbondante. 23. busecche: trippe. 24. fritole: frittelle. 25. tomacelle: «specie di sgonfiotti o salsicciotti fatti con frattaglie varie tritate, aggiun-

ta di uova e formaggio, pigmentate di spezie e avvolte nella reticella del maiale per la friggitura»; sono gialle «per lo zafferano, in uso nella cucina del tempo» (Cordié). 26. buriane di tal fatta: burrasche (per estensione anche trambusto, chiasso) di questo genere, così intense. 27. meni: conduci, sostieni. 28. Catullo: il celebre poeta romano, vissuto nel I secolo a.C., che era proprietario di una villa sul lago di Garda, a Sirmione.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

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Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum, formaiumque tridant gratarolibus usque foratis. Sollicitant altrae teneros componere gnoccos, qui per formaium rigolant infrotta tridatum, seque revoltantes de zuffo montis abassum deventant veluti grosso ventramine buttae. O quantum largas opus est slargare ganassas, quando velis tanto ventronem pascere gnocco! Squarzantes altras pastam, cinquanta lavezzos pampardis videas grassique implere lasagnis. Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella, stizzones dabanda tirant sofiantque dedentrum, nanque fogo multo saltat brodus extra pignattam. Tandem quaeque suam tendunt compire menestram, unde videre datur fumantes mille caminos, milleque barbottant caldaria picca cadenis. Hic macaronescam pescavi primior artem, hic me pancificum fecit Mafelina poëtam.

Le ninfe abitano il cacume29 dell’alto monte, e tritano continuamente formaggio sulle grattuge forate. Altre si dan da fare a formar teneri gnocchi che rotolano già alla rinfusa nel formaggio grattugiato e dal ciuffo del monte van sempre giù ruzzolando sino a farsi grossi come panciute botti. O quanto fa d’uopo30 spalancare le ganasce ancorché31 larghe, se d’un tal gnocco vuoi pascere la ventraia32! Altre tagliano a strisce la fogliata33 e tu le vedi riempire cinquanta lavezzi34 di tagliatelle e di grasse lasagne. Nel frattempo altre, mentre la padella brontola per il troppo fuoco, tirati da parte i tizzoni, vi soffiano sopra, se per il molto fuoco il brodo salta fuori dalla pignatta. Per farla breve, ognuna di esse si dà da fare a cuocere la propria minestra; ond’è che mille camini vedi fumare, e mille pentole borbottano appese alla catena. È qui35 che ho pescato, primo fra tutti, l’arte maccheronesca, qui Mafelina mi ha fatto pancifico poeta36. T. Folengo, Opere, a cura di C. Cordié, trad. it. di C. Cordié, Ricciardi, Milano-Napoli 1977

29. il cacume: la sommità, la cima, come poco più sotto ciuffo (si pensa anche, in questo caso, alla presenza di alberi). 30. fa d’uopo: è necessario. 31. ancorché: anche se già sono.

32. la ventraia: il grosso ventre, lo stomaco. Si noti il procedimento iperbolico, l’ingigantimento deformante delle immagini. 33. la fogliata: le foglie della pasta. 34. lavezzi: o “laveggi”, recipienti, paioli.

35. qui: nel paese di Cuccagna. 36. pancifico poeta: letteralmente vale poe­ ta panciuto, come le Muse del verso 13; qui significa, più in particolare, poeta macchero­ nico.

Analisi del testo La funzione del proemio

Il latino folenghiano

> Il proemio

Il proemio dei poemi epici e cavallereschi è un luogo particolarmente solenne, in cui all’indicazione dell’argomento e alla dedica si accompagna l’invocazione alle Muse, come simbolo della poesia. L’operazione compiuta qui dal Folengo si basa invece su una deformazione parodica, condotta a due livelli, tra loro strettamente connessi: quello del linguaggio e quello dei contenuti.

> Il linguaggio

Il latino folenghiano non appartiene alla tradizione del classicismo umanistico e la sua scelta va quindi, ovviamente, in una direzione opposta: non verso il sublime ma verso una contraffazione e degradazione del sublime, di tipo dissacrante. Formalmente assunto come lingua dell’operazione letteraria, il suo uso viene infatti ricalcato sulla falsariga dell’italiano, sia per quanto riguarda la sintassi del periodo, sia per quanto riguarda l’aspetto lessicale (si vedano 209

L’età del Rinascimento

Il plurilinguismo L’intento demistificante

Le muse maccheroniche

Il “basso materialecorporeo”

Il cibo

Il paese di Cuccagna

espressioni come «chiamare bisognat»), che presenta anche vistosi elementi dialettali. Questo plurilinguismo di fondo, che dà luogo alle più diverse distorsioni e deformazioni, consente una grande libertà inventiva, che ottiene risultati vivacemente espressivi. Il contrasto che si crea ha anche lo scopo di demistificare i valori e le convenzioni della tradizione letteraria ufficiale. Consideriamo il riferimento ad Apollo («Phoebus»), inteso come divinità della poesia («carmina», in perfetto latino); la sua raffigurazione mitologica, che lo immagina accompagnato da una cetra, viene qui mantenuta, ma nello stesso tempo degradata dall’uso di un verbo volgare («grattans») e dalla riduzione dello strumento musicale classico a un volgare «chitarinum». Ancora più forte è il contrasto tra il riferimento alle Muse e l’aggettivo «menchiona», che accompagna come epiteto il nome di «Thalia». Si giunge così, su questa via, all’uso di espressioni plebee, come «sibi cagat adossum»; anche il riferimento alla realtà escrementizia rientra in una visione delle cose dal basso, che oppone, ai valori più nobili e ideali, la presenza e i fermenti di una cultura popolare.

> I contenuti

Alle Muse della tradizione Folengo contrappone le Muse dell’“arte maccheronica”, attribuendo loro delle caratteristiche del tutto opposte: sono «grasse» e «pancifiche»; i loro nomi corrispondono a una realtà di tipo contadino e plebeo («Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala»), e sono invocate per «imboccare di gnocchi il loro poeta». A partire di qui viene introdotta una serie di significativi rovesciamenti. La poesia tradizionale, indicata attraverso la sede del monte Parnaso, sacro alle Muse, è definita spregiativamente con l’appellativo di «ciance»; ad essa è contrapposta quella del poeta, che nasce non dalla cetra, ma da una volgare «piva» (strumento musicale rustico e grossolano). L’ispirazione a cui obbedisce non è localizzata in organi considerati per definizione nobili ed elevati, come il cuore o la mente, sedi dei sentimenti e dell’intelligenza, ma nasce dalle «budella della mia pancia». L’impostazione metaforica abbandona ogni riferimento ideale o spirituale, per riferirsi al “basso materiale-corporeo”. Compare subito, non a caso, il termine «macarone», che indicava allora gli gnocchi; con la polenta, essi costituiscono i cibi propri del mondo contadino, rappresentato anche come punto di vista alternativo e polemico rispetto all’ideologia e alla letteratura ufficiali. La tematica del cibo è profondamente radicata nella visione del mondo “carnevalesca” e appartiene, più in generale, all’immaginario popolare, in secoli nei quali la fame era un fenomeno tragicamente diffuso fra le classi povere, in una società spesso devastata da guerre, pestilenze e carestie. Si afferma, come reazione a questa realtà di miseria, il mito del paese di Cuccagna, che si configura, nella descrizione di Folengo, come un luogo fantastico costituito da una realtà culinaria ingigantita fino all’iperbole, e che rappresenta, come sogno di benessere e di opulenza, le delusioni e i desideri della povera gente, la materializzazione utopica di ciò che risulta nella realtà quotidiana irraggiungibile.

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Dove si trova il luogo abitato dalle Muse maccheroniche? Come viene descritto dal poeta? > 2. Che cosa fanno le ninfe (vv. 46-61)? AnALIzzARe

> 3. Individua nel testo riferimenti alla consapevolezza da parte dell’autore del proprio ruolo di poeta e al suo rapporto con il pubblico dei lettori.

> 4. Individua gli attributi e gli epiteti riferibili alle Muse della tradizione e spiega quali caratteristiche pongono in risalto.

> 5.

Stile Dopo aver spiegato la metafora della «gundola» (v. 7), individua nel testo altre immagini legate alla navigazione.

210

Capitolo 4 · L’anticlassicismo AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 6.

Scrivere Elabora in circa 20 righe (1000 caratteri) un commento sui temi del cibo e del corpo, mettendo a confronto il proemio del Baldus con i versi tratti dal Morgante di Luigi Pulci che descrivono il personaggio di Margutte ( L’età umanistica, cap. 3, T1, p. 71). Spiega i motivi per cui questi temi sono importanti nella poesia anticlassicistica. > 7. Testi a confronto: esporre oralmente Confronta la descrizione del paese di Cuccagna presente nel testo con quella della novella Calandrino e l’elitropia di Boccaccio riportata qui di seguito: quale funzione assume in ciascuna delle due opere? (max 3 minuti)

terra […] nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino 1980 pASSATo e pReSenTe Il mito immortale del “paese di Cuccagna”

> 8. Come si configura, nell’immaginario di oggi, il paese di Cuccagna? Il suo mito è ancora fondato sui temi

del cibo e del corpo, o il sogno utopico del benessere e dell’opulenza si avvale di altri elementi simbolici?

Discutine in classe con l’insegnante e i compagni.

4 I modelli classici Il successo della commedia

La vena polemica del Ruzante

A4 La formazione culturale e l’agiatezza economica

Un teatro dei “vinti” Si può dire che il Cinquecento registri la nascita del teatro moderno, proponendo, anche ad opera di alcuni fra i maggiori scrittori del secolo, testi di grande importanza e significato. Fondamentale resta il richiamo ai modelli del mondo classico, sia per la commedia sia per la tragedia, che può anche avvalersi delle indicazioni ricavate dalla Poetica di Aristotele. Ma, a differenza della tragedia, la commedia ottiene immediatamente un grande successo di pubblico, sia nell’ambito degli spettacoli di corte sia in quello delle feste popolari. A prevalere è sempre, comunque, una ricerca di soluzioni esclusivamente letterarie, affidate all’interesse dell’intreccio, al gioco brillante degli scambi e degli equivoci, alla scioltezza di un linguaggio immediato e vivace. Il Ruzante ( A4 ) non rinuncia all’efficacia di questi meccanismi, ma introduce un forte e nuovo elemento di polemica sociale, ponendo in primo piano la miseria e le sofferenze dei ceti subalterni; per la prima volta si affaccia alla ribalta della nostra letteratura quel mondo dei “vinti” a cui solo molto più tardi si presterà ampia attenzione, da Manzoni a Verga e a non pochi scrittori del Novecento. All’efficacia della denuncia concorre anche l’uso del dialetto.

Angelo Beolco, detto il Ruzante La vita Angelo Beolco (detto il Ruzante, dal nome del protagonista di alcune sue com-

medie) nacque a Padova intorno al 1500, figlio illegittimo di un medico proprietario di terre, che assicurò al giovane un’educazione e una discreta agiatezza; alla morte del padre, fra il 1535 e il 1539, Beolco amministrò i beni fondiari dei cinque fratellastri. Risale a quegli anni la sua amicizia con il patrizio veneto Alvise Cornaro (1475-1566), possidente terriero e umanista.

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L’età del Rinascimento Gli spettacoli nella villa del Cornaro

Ferrara e Venezia

La scelta del dialetto

La Pastoral: parodia dell’ecloga pastorale

La Betìa: mariazo, parodia degli Asolani

Il Parlamento: la condizione del reduce Ruzante

Bìlora: sopruso e vendetta Il contrasto tra città e campagna

La naturalità del villano

La presenza del folclore e del carnevalesco

Il rovesciamento della satira del villano

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Angelo Beolco fu ospite quasi permanente nella splendida casa del Cornaro, nel cui giardino rappresentò le commedie che era venuto componendo. Il modello di questo luogo teatrale con una loggia di pietra e gradinate di legno, che venivano rimosse alla fine degli spettacoli, fu probabilmente ispirato da conversazioni avute con Ariosto, con il quale il commediografo veneto collaborò nell’allestimento di spettacoli teatrali, rappresentati a Ferrara tra il 1529 e il 1532. Angelo Beolco fondò infatti con amici, tutti ruotanti nell’area d’influenza del Cornaro, una delle prime compagnie teatrali semiprofessioniste, che operò a Venezia tra il 1520 e il 1526 e, come s’è detto, a Ferrara. Beolco morì nel 1542. La critica più recente ha ormai smentito l’ipotesi romantica di un Beolco scrittore “ingenuo”, “scapigliato” e irregolare e ha messo in luce la sua squisita educazione letteraria: la sua scelta del dialetto è da collocarsi nella scia delle esperienze goliardiche, vive nell’area veneta e che si espressero anche nella tradizione maccheronica ( A3, p. 205). Le opere Nella Pastoral (1519-20) l’autore spezza l’eleganza e la leggerezza dell’ecloga pastorale con l’immissione di forti elementi parodistici determinati dall’ingresso in scena di rozzi contadini. La Betìa (1522-25) celebra la prorompente sensualità dei contadini in contrapposizione ai modelli amorosi platonici proposti dagli Asolani di Bembo ( cap. 1, A1, p. 151). In quest’opera Beolco riprende lo schema del mariazo, farsa in versi che celebra il matrimonio, rielaborando spunti e motivi della poesia giullaresca. Con un tono solo apparentemente scherzoso il Ruzante rappresenta la durezza e la crudeltà che regolano le leggi del mondo contadino, dominato dalla fame e dalla sofferenza, e invoca leggi che consentano ai villani una vita meno dura. Ma è nei due Dialoghi, scritti probabilmente tra il 1527 e il 1531, Il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo ( T4, p. 213) e il Bìlora, che lo scrittore raggiunge il massimo livello di drammaticità. Nel primo si rappresenta la condizione disperata di Ruzante che, reduce dalla guerra, dopo aver salvato a fatica la pelle senza avere nulla guadagnato, viene abbandonato anche dalla moglie, stanca di una vita di stenti e di sofferenze. Lo stesso mondo di fame, paura, dolore e sesso, visto come unico risarcimento di tanti torti subiti, è presente nel Bìlora, dove l’omonimo contadino si reca a Venezia per riprendersi la moglie che l’ha tradito con un ricco possidente. Il rifiuto del vecchio Andronico di restituirgli la moglie spinge Bìlora all’assassinio del rivale. In entrambi i dialoghi viene delineato anche il contrasto tra città e campagna; in città si rifugiano le due donne per scampare alle ataviche condizioni di fame e qui il contadino viene nuovamente sconfitto. Protagonista assoluto di questi dialoghi è il villano (Ruzante e Bìlora), che si esprime in dialetto padovano, o pavano, ed era portato sulla scena dallo stesso Beolco. Il personaggio del villano si oppone agli «sletran» (letterati), che vivono in un mondo di falsità, e cerca di affermare i sinceri valori naturali su cui deve fondarsi un nuovo «roesso mondo» (espressione dialettale che allude sia all’«universo mondo» sia al «mondo rovesciato»). È evidente come la visione arcadica e idillica umanistico-rinascimentale della campagna, ad esempio del Sannazaro ( L’età umanistica, cap. 4, A3, p. 118), venga del tutto superata. Con il personaggio del villano Beolco rivisita la cultura contadina impregnata di tradizioni folcloriche e legata al fenomeno del carnevale come momento di libertà, di autoaffermazione, di rovesciamento dei valori e delle gerarchie tradizionali. Le esagerazioni nel campo del cibo e del sesso, a cui il villano si abbandona, peraltro solo con la fantasia, sono infatti riconducibili all’immaginario carnevalesco. Con questa operazione Beolco si inserisce nella tradizione letteraria della satira del villano che aveva l’intento di far divertire il pubblico dei signori con il racconto delle disavventure del rozzo personaggio, ma rovescia radicalmente il significato dell’esperienza, adottando un punto di vista

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

La Moscheta: la polemica contro il fiorentino

La Piovana e la Vaccaria: la ripresa dei modelli classici

T4

interno alla narrazione, quello del contadino. Di conseguenza il ritratto di questa società “bassa” fa emergere tutta la drammatica condizione di sfruttamento e di emarginazione in cui vivono i contadini e da occasione di comicità si trasforma in un documento di denuncia. Nella Moscheta, composta negli stessi anni dei Dialoghi, Ruzante è alle prese con l’infedeltà della moglie Betìa che ha come amanti Menato e il soldato bergamasco Tonin; Ruzante travestito si rivolge alla moglie in lingua fina (moscheta) per metterne alla prova l’onestà. La polemica qui è nuovamente contro la lingua “alta”, usata come strumento per ribadire le condizioni d’inferiorità del mondo contadino. La Piovana e La Vaccaria (1532-33) costituiscono il tentativo di Beolco di avvicinarsi ai testi classici – fase obbligata per ogni drammaturgo del Cinquecento – traendo ispirazione dal Rudens e dall’Asinaria di Plauto. I modelli latini sono trasferiti nel mondo contadino, la lingua è il volgare padovano; gli intrecci delle due commedie presentano intrighi, beffe, amori. Angelo Beolco, detto il Ruzante

Il mondo dei vinti: il contadino torna dalla guerra

Temi chiave

• una visione della donna volgare e calcolatrice

• la grettezza del mondo contadino padovano

dal Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, scene III e V In precedenza Ruzante aveva presentato la dura realtà della guerra fatta di sofferenza, di fame e di morte. Non si è arricchito, come sperava; l’unico compenso è quello di essere sopravvissuto. È venuto a Venezia per riprendersi la Gnua, qui trasferitasi al seguito di un bravaccio. In queste scene compaiono: il villano Ruzante, reduce dalla battaglia di Agnadello (1509), dove l’esercito veneziano venne sconfitto dagli imperiali della Lega di Cambrai; Menato, suo compare; la Gnua, moglie di Ruzante e un bravo che non parla.

SCENA III Gnua, Ruzante e Menato gnua

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[passa indifferente sul fondo. Alle grida festose di Ruzante volge appena il capo verso di lui. Il tono della sua risposta è gelido e sprezzante] Ruzante? Si’-tu ti? Ti è vivo, ampò? Pota1, te è sì sbrendoloso, te hê sì mala çiera... Te n’hê guagnò ninte, n’è vero, no? ruzante Mo’ n’he-gi guagnò assè per ti, s’a’ t’he portò el corbame vivo? gnua Poh, corbame! Te me hê ben passù. A’ vorae che te m’aìssi pigiò qualche gonela pre mi. ruzante [tentando un ammicco] Mo’ n’è miegio che sipia tornò san de tuti i limbri, com a’ son?

SCena iii Ruzante? Sei tu? Sei vivo ancora? Potta, sei così stracciato, hai una tal brutta cera... Non hai guadagnato niente, vero o no? ruzante Ma non ho guadagnato assai per te, se ti ho portato la carcassa viva? gnua Oh, la carcassa! Mi hai ben pasciuta. Vorrei che tu mi avessi preso qualche gonnella per me. ruzante Ma non è meglio che sia tornato sano di ogni membro, così come sono? gnua

1. Pota: potta, esclamazione volgare (il termine indica l’organo genitale femminile).

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Mei sì, limbri mè in lo culo! A’ vorae che te m’aìssi pigiò qualche cossa. [Rapida pausa] Mo’ a’ vuogio andare, ché a’ son aspità. ruzante Pota, mo’ te hê ben la bela fuga al culo. Mo’ aspeta un puo’. gnua [calma] Mo’ che vuò-tu ch’a’ façe chì, s’te n’hê gnente de far de mi? Laga-me andare. ruzante O cancaro2 a quanto amore a’ t’he portò! Te te vuossi ben presto andar a imbusare, e sì a’ son vegnù de campo3 a posta per vêr-te. gnua Mo’ non m’hê-tu vezùa? A’ no vorae, a dir-te el vero, che te me deroiniessi; ché a’ he uno che me fa del ben, mi. No se cata cossì agno dì de ste venture. ruzante [senza scomporsi] Poh, el te fa del ben! A’ te l’he pur fato an mi. A’ no t’he fato zà mè male, com te sê. El no te vuol zà tanto ben com a’ te vuogio mi. gnua Ruzante, sê-tu chi me vol ben? Chi me ’l mostra. ruzante Mei sì, che a’ no te l’he mè mostrò... gnua Che me fa che te me l’ebi mostrò, e che te no me ’l puossi mostrare adesso, ché adesso a’ he anche de besogno? No sê-tu che agno dì se magna? Se me bastasse un pasto al’ano, te porissi dire. Mo’ el besogna che a’ magne ogni dì, e perzò besognerae che te me ’l poìssi mostrare anche adesso, ché adesso he de besogno. ruzante Poh, mo’ el se dé pur far deferinçia da om a omo. Mi, com te sê, a’ son om da ben e om compìo. gnua [interrompendolo] Mo’ a’ la fazo ben. Mo’ el ghe è an deferinçia da star ben a star male. Aldi, Ruzante: s’a’ cognosesse che te me poìssi mantegnire, che me fa a mi?, a’ te vorae ben mi, intienditu? Mo’ com a’ penso che te si’ poverom, a’ no te posso vêre. No che a’ te vuogie male, mo’ a’ vuogio male ala to sagura: ché a’ te vorae vêre rico, mi, alzò a’ stassem ben mi e ti.

Ma sì, membro in culo! Vorrei che tu mi avessi preso qualcosa. Su, ora voglio andare, ché sono aspettata. Potta, ma hai proprio una gran fretta al culo. Aspetta un po’. gnua Ma che vuoi che faccia qui, se non hai niente da fare con me? Lasciami andare. ruzante Oh, canchero a quanto amore ti ho mai portato. Ti vuoi subito andare a imbucare, e non pensi che io sono venuto dal campo apposta per vederti. gnua E ora non mi hai veduta? Non vorrei, a dirti il vero, che tu mi rovinassi, ché ho uno che mi fa del bene, io. Non si trovano mica ogni giorno di queste fortune. ruzante Poh, ti fa del bene! Te l’ho pur fatto anch’io. Non ti ho mai fatto del male, come sai. Quello non ti vuole certo tanto bene come ti voglio io. gnua Ruzante, sai chi mi vuol bene? Chi me lo mostra. ruzante Ma sì, come se io non te l’avessi mai mostrato... gnua Che mi fa che tu me l’abbia mostrato, e che non me lo possa mostrare adesso? Perché adesso ne ho anche bisogno. Non sai che ogni giorno si mangia? Se mi bastasse un pasto all’anno, potresti parlare. Ma bisogna che mangi ogni giorno, e perciò bisognerebbe che tu me lo potessi mostrare anche adesso, perché adesso ne ho bisogno. ruzante Oh, ma si deve pur far differenza tra uomo e uomo. Io, come sai, sono uomo dabbene e uomo compito. gnua Sicuro che la faccio. Ma c’è anche differenza tra star bene e star male. Senti, Ruzante: se io sapessi che tu mi puoi mantenere, che mi fa a me? ti vorrei bene, io, intendi? Ma quando penso che sei un poveruomo, io non ti posso vedere. Non che voglia male a te, ma voglio male alla tua disgrazia; ché ti vorrei vedere ricco, io, acciò che stessimo bene, io e te. gnua

ruzante

2. cancaro: canchero, imprecazione popolare veneta.

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3. de campo: dal campo di battaglia. Ruzante ha partecipato alla guerra condotta

da Venezia contro la Lega di Cambrai.

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[avvilito] Mo’, se a’ son povereto, a’ son almanco leale. gnua Mo’ che me fa ste tuò’ lealté, s’te no le può mostrare? Che vuò-tu darme? Qualche peogion, an? ruzante Mo’ te sê pure che, se aesse, a’ te darae, com t’he zà dò. Vuò-tu ch’a’ vaghe a robare e a farme apicare? Me consegere-tu mo’? gnua Mo’ vuò-tu ch’a’ viva de agiere? E che a’ staghe a to speranza? E che a’ muora al’ospeale? Te n’iè tropo bon compagno, ala fé, Ruzante. Me consegiere-tu mo’ mi? ruzante Pota, mo’ a’ he pur gran martelo de ti, mo’ a’ sgangolisso. Mo’ no hê-tu piatè? gnua E mi he pur gran paura de morir da fame, e ti no te ’l pinsi. Mo’ n’hê-tu consinçia? El ghe vuol altro ca vender radicio né polizuolo4. Com fazo, ala fé, a vivere? ruzante Pota, mo’ s’te me arbandoni, a’ moriré d’amore. A’ muoro, a’ te dighe che a’ sgangolo. gnua E mi l’amore m’è andò via dal culo per ti, pensanto che te n’hê guagnò com te dîvi. ruzante Pota, te hê ben paura che ’l ne manche. No manca zà mè... a robare. gnua Pota, te hê pur el gran cuore e tristi lachiti. A’ no vego niente, mi. [Lo guarda con disprezzo da capo a piedi] ruzante Pota, mo’ a’ no son se lomé arivò chive... gnua Mo’ l’è pur quatro misi che ti te partissi. ruzante L’è ben an quatro misi che non te ho dò fastibio. gnua Mo’ el non è minga assè, questo che te me dì adesso, a vêr-te cossì poverom? E anche sempre a’ n’he abù, ché a’ me pensava ben, mi, che l’anderae cossì, che te tornerissi frofante. ruzante Mo’ l’è stò per mea sagura... gnua Mo’ porta an la penitinçia ti. Vuò-tu che la porte mi, an, compagnon? Sarà-ela mo’ onesta? A’ cherzo ben de no.

Ma se sono povero, sono almeno leale. E che me ne faccio, io, delle tue lealtà, se non me le puoi mostrare? Che vuoi darmi? Qualche pidocchio, forse? ruzante Ma sai pure che, se avessi, ti darei, come ti ho già dato. Vuoi che vada a rubare e a farmi impiccare? Mi consiglieresti così? gnua E tu vuoi che viva d’aria, e stia qua a sperare in te, e che muoia all’ospedale? Non sei mica un buon compagno, in fede mia, Ruzante. Mi consiglieresti così, tu? ruzante Potta, ma io ho una gran passione per te, io spasimo. Ma non hai pietà? gnua E io ho invece una gran paura di morire di fame, e tu non ci pensi. Ma non hai coscienza? Ci vuol altro che vendere radicchio o borragine. Come faccio, in fede mia, a vivere? ruzante Potta, ma se tu mi abbandoni, morirò d’amore. Muoio, ti dico che spasimo. gnua E a me l’amore m’è andato via dal culo per te, pensando che non hai guadagnato come dicevi. ruzante Potta, hai ben paura che [la roba] ci manchi. Non manca mai, [se si va] a rubare. gnua Eh sì, hai proprio un gran cuore, e triste gambe. Non vedo niente, io. ruzante Potta, ma sono appena arrivato qui... gnua Ma sono pur quattro mesi che tu partisti. ruzante E sono anche quattro mesi che non ti ho dato fastidio. gnua Ma non è mica abbastanza questo che mi dài adesso, a vederti così miserabile? E poi sempre ne ho avuto, perché me lo immaginavo, io, che sarebbe andata così, che saresti tornato furfante. ruzante Ma è stato per mia disgrazia... gnua E portane anche la penitenza, tu. Vuoi che la porti io, vero, compagnone? Ti sembrerebbe giusto? Credo proprio di no. ruzante gnua

4. polizuolo: borragine, pianta erbacea commestibile.

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Mo’ a’ no he zà colpa mi... gnua Mo’ sì, a’ l’he mi, Ruzante! Chi no se mete a prìgolo no guagna. A’ no cherzo che ti t’abi cazò tropo inanzo per guagnare; ché el se te ne vêrae pur qualche segno. Se Diè m’ai’, te no si’ stò gnan in campo. Te si’ stò in qualche ospeale. No vì-tu che te hê fato tuta la çiera da un furfante? menato [che ha assistito in disparte al litigio, ora interloquisce] Vî-u, compare, se la è com a’ ve dighe mi? A’ dî po vu de avere sfrisò o tagiò el viso. Sarà-ela mo’ megio per vu? Ché la ’l crêrae che a’ fossé stò soldò e braoso. gnua [a Menato] Compare, a’ vorae che l’aesse pì presto butò via un brazo o una gamba, o cavò un ogio, o tagiò via el naso, e che paresse che ’l foesse stò ananzo da valentomo; e che paresse che l’aesse fato per guagnare, o per me amore, intendì-u, compare? No che a’ faza, compare, intendì-u, per roba; ché mi, intendì-u? no me pò mancare. Mo’ perché el par che l’eba pur fato puoco conto de mi, e che ’l sipia stò poltron, e che el s’abia portò da poltron, intendì-u? El me promesse de morire o guagnare, e sì è tornò com a’ vî. No che, compare, a’ volesse che l’aesse male. Mo’ chi crêrae che ’l foesse stò in campo? menato A’ v’intendo, comare. Se Diè m’ai’, che aì rason. A’ ghe l’he dito an mi. A’ vossè-vu un signale5 che ’l foesse stò ananzo: almanco cossì, una sfrisaùra... [Accenna a descriverla sul volto di Ruzante] gnua Sì, che ’l poesse dire e mostrar-me: «A’ he questa per to amore». ruzante [scoppiando] O morbo ala roba e chi la fé mè! gnua [di rimbalzo] O morbo ai da puoco e ai traitore che n’ha fé! Che me prometis-tu? ruzante [di nuovo umiliato] A’ te dighe che a’ son stò desgraziò. gnua Mo’, se Diè m’ai’, che te dì ben vero. E mi mo’, che a’ stago ben e che a’ no son desgrazià, per no deventar desgrazià, a’ no me vuò impazar pì con ti. E fà i fati tuò’, che mi faré i miè’. [Guarda il fondo] O iandussa, vê aponto el me omo. Laga-me andare.

Ma non ne ho già colpa io... Ma sì, l’ho io, Ruzante! Chi non si mette a rischio non guadagna. Io non credo che tu ti sia cacciato troppo avanti per guadagnare; ché ti si vedrebbe pure qualche segno. Se Dio m’aiuta [giurerei che] tu non sei nemmeno stato al campo. Tu sei stato in qualche ospedale. Non vedi che hai fatto tutta la cera del furfante? menato Vedete, compare, se è come vi dico io? Poi dite voi di [non] avere il viso tagliato o sfregiato. Non sarebbe stato meglio per voi? Così lei crederebbe che foste stato soldato e valoroso. gnua Compare, vorrei piuttosto che avesse perso un braccio o una gamba, o [che gli fosse stato] cavato un occhio, o tagliato il naso, e che si vedesse che fosse stato avanti da valentuomo, e che l’avesse fatto per guadagnare, o per amor mio, intendete, compare? Non che io lo faccia, compare, intendete? per la roba; ché a me [la roba], intendete? non può mancare. Ma perché pare che lui abbia fatto poco conto di me, che sia stato poltrone e si sia portato da poltrone, intendete? Mi promise di guadagnare o di morire, e invece è tornato come vedete. Non che io volessi, compare, che avesse del male. Ma chi crederebbe che fosse stato al campo? menato V’intendo, comare. In nome di Dio, avete ragione. Glielo ho detto anch’io. Voi vorreste un segno che fosse stato avanti; almeno, così, una graffiatura... gnua Sì, che potesse dire e mostrarmi: «Ho questa per amor tuo». ruzante Oh, in malora la roba e chi mai la fece! gnua Oh, in malora i dappoco e i traditori senza fede! Che mi avevi promesso? ruzante Ti dico che sono stato disgraziato. gnua Ora sì, Dio m’aiuti, che dici il vero. E io ora, che sto bene e che non sono disgraziata, per non diventare disgraziata, non voglio più impicciarmi con te. E fa’ i fatti tuoi, che io farò i miei. Oh, peste, vedi appunto il mio uomo. Lasciami andare. ruzante gnua

5. un signale: qualche segno sul corpo, come una ferita, che testimoni la partecipazione attiva di Ruzante alla guerra.

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Capitolo 4 · L’anticlassicismo ruzante

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[furioso] A’ incago al to omo! A’ no cognosso altro to omo al mondo ca mi. [L’afferra per un braccio e fa per trascinarla via] gnua [grida divincolandosi] Laga-me andare, desgraziò, om da puoco, frofante, peogioso! ruzante [tentando di trascinarla] Viè con mi, te dighe. Pota, che te me farè... Non me far abavare! Te no me cognussi: a’ no son pì da lagar-me menare per el naso, com te fasivi. menato [con sarcasmo] Comare, andè via, che el no ve amaçerà. gnua [che è riuscita a svincolarsi, corre verso il bravo che sopraggiunge, gridando] Vàghe amazar d’i piuogi che ’l’ha adosso!

SCENA IV [Il bravo si fa avanti, affronta Ruzante e gli somministra una scarica di bastonate. Ruzante si lascia subito cadere a terra, senza tentare la minima difesa. Menato si scosta e rimane a guardare. Il bravo infierisce ancora sul caduto; poi agguanta la Gnua, che ha assistito impassibile alla scena, e si allontana minaccioso. Lunga pausa.]

SCENA V Ruzante e Menato ruzante

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[leva appena il capo e, accortosi che il bravo e la Gnua se ne sono andati, chiede con un filo di voce] Compare, è-gi andè via? Gh’è pì negun? Guardè ben, an? menato [avvicinandosi cautamente] No, compare. L’è andò via, elo e ela. I no gh’è pì. ruzante [rialzando di più la testa] Mo’ i gi altri, è-gi andè via tuti? menato [stupito] Mo’ che altri? A’ n’he vezù se lomé quelù, mi. ruzante [rinfrancato, si mette a sedere] A’ no ghe vî tropo ben, compare. I giera pì de çento, che m’ha dò. menato [lo guarda sbalordito] No, cancaro, compare! ruzante Sì, cancaro, compare! Volì-u saer megio de mi? La sarae ben bela. [Aiutato da Menato, si rimette in piedi, con pena] Te par che ghe sipia stò pì descrizion? Uno contra çento, an? Alanco me aìssi agiò, compare, o destramezò.

Me ne infischio del tuo uomo! Non conosco altro tuo uomo al mondo che me. Lasciami andare, disgraziato, buono a niente, furfante, pidocchioso! ruzante Vieni con me, ti dico. Potta, che mi farai... Non mi fare infuriare! Tu non mi conosci: non sono più [tipo] da lasciarmi menare per il naso, come facevi. menato Comare, andate via, che non vi ammazzerà. gnua Vada a ammazzare i pidocchi che ha addosso! ruzante gnua

SCena V Compare, sono andati via? C’è più nessuno? Guardate bene, eh? No, compare. Sono andati via, lui e lei. Non ci sono più. ruzante Ma gli altri sono andati via tutti? menato Quali altri? Non ho visto che quello solo, io. ruzante Non ci vedete troppo bene, compare. Erano più di cento, quelli che mi hanno picchiato! menato No, canchero, compare! ruzante Sì, canchero, compare! Volete saperlo meglio di me? Sarebbe proprio bella. Ti pare che ci sia [stata] più discrezione? Uno contro cento, eh? Almeno mi aveste aiutato, compare, o vi foste messo di mezzo. ruzante menato

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Mo’ che cancaro volì-u che a’ me vaghe a ficar de mezo, se a’ me dî che a’ si’ sì braoso, e che se a’ fossé ale man, che a’ me tuoge via da un lò, che a’ me dassè a mi, che a’ no cognossì né amistanza né parentò? ruzante A’ ve ’l dissi per çerto. Mo’ com a’ vîvi tanti contra mi solo, doìvi pur agiarme. Crî-u che sia Rolando6, mi? menato Ala fé, compare, che el no giera se lomé uno, ala fé! [...] ruzante [in ripresa, dopo una pausa] Mo’, se ’l giera un solo, questo è stò un traimento, qualche precàntola de incantason, ché la gh’in sa fare. La l’ha fato ela, che la è strigona. Che crî-u? La m’ha ben afaturò7 an mi, che la me pare la pì bela che foesse al mondo; e sì a’ sè che la no è, che ghe ne è assè de pì bele. Mo’ ben, an adesso la ha fato che uno me ha parso çento. Se Diè m’ai’, che a’ me parea un bosco de arme, a rivare, bulegare e menar-me. A’ vêa tal bota che me vegnìa cossì de ponso, che a’ tegnìa de esser spazò. Crî-u che ghe n’abia fato degl’invò? Doh, cancaro la magne, che a’ la vuò far brusare, che a’ sè pur che ’l sta a mi. Pota, compare, mo’ che no me ’l disivi-u che ’l ghe giera un solo? A’ me ’l doìvi dire, a lome del diavolo! menato Mo’, a sangue de mi, a’ crêa che ’l vêssé. El ve giera pur a pè. ruzante Mei sì, a’ ne vêa pì de çento, a’ ve dighe. Mo’ ben: che ve par, compare, de mi? Chi arae durò a tante bastonè? Son-ge forte omo e valente? menato Pota, compare, bastonè, an? A’ sarae morto un aseno! Mo’ a’ no vêa se no çielo e bastonè. No ve dole? Com si’-u vivo? ruzante Poh, compare, a’ ghe son uso, a’ gh’he fato el calo. A’ no sento niente, mi.

Ma perché canchero volete che mi vada a ficcare in mezzo, se mi dite che siete tanto bravaccio che, quando foste alle mani, mi tiri via da una parte, che potreste dare anche a me, perché non conoscete né amicizia né parentela? ruzante Ve lo dissi di certo. Ma quando ne vedeste tanti contro me solo, dovevate pure aiutarmi. Credete che sia Rolando, io? menato In fede mia, compare, non era che uno solo, in fede mia! [...] ruzante Ma se era uno solo, questo è stato un tradimento, qualche formula di incantesimo, ché lei ne sa fare. Sì, lo ha fatto lei, che è una strega. Che credete? Mi ha bene affatturato anche me, che mi pare la più bella che mai fosse al mondo; eppure so che non lo è, che ce ne sono tante di più belle. Ebbene, anche adesso lei ha fatto sì che uno mi sono parsi cento. Che Dio m’aiuti, mi pareva un bosco d’armi, tante ne vedevo muoversi e menarmi. Vedevo qualche botta venirmi così di punta, che credevo di essere spacciato. Credete che non ne abbia fatto, dei voti? Ah, che il canchero la mangi, la voglio far bruciare, che so bene che sta a me [di farlo]. Potta, compare, ma perché non me lo dicevate che era uno solo? Me lo dovevate dire, in nome del diavolo! menato Ma, al sangue di me, credevo che lo vedeste. Vi era pure vicino. ruzante Ma sì, ne vedevo più di cento, vi dico. Ebbene: che vi pare, compare, di me? Chi avrebbe durato a tante bastonate? Sono un uomo forte e valente? menato Potta, compare, bastonate, dite? Sarebbe morto un asino! Io non vedevo se non cielo e bastonate. Non vi dolgono? Come siete vivo? ruzante Poh, compare, ci sono avvezzo, ci ho fatto il callo. Non sento niente, io. menato

Angelo Beolco, detto il Ruzante, Teatro, trad. it. di L. Zorzi, Einaudi, Torino 1967

6. Rolando: Orlando, il famoso paladino di Carlo Magno, protagonista della Canzone

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di Orlando e della letteratura cavalleresca, dai cantari fino a Boiardo e Ariosto.

7. m’ha ben afaturò: mi ha fatto una fattu­ ra, un incantesimo.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

Analisi del testo L’interesse di Gnua per il denaro

La rabbia di Ruzante

La sconfitta di Ruzante Ruzante: una figura tragica

Il dialetto pavano rustico: una scelta anticlassicista

> La tragedia di Ruzante

Sin dalla prima battuta pronunciata dalla Gnua emerge l’interesse della donna solo per il guadagno e per il tornaconto personale, non per il Ruzante «sbrendoloso» che pure ha ottenuto il vero guadagno, salvando «el corbame» (la carcassa). Con crudele realismo la Gnua dichiara di voler mangiare tutti i giorni, rivelando l’atavica paura di morire di fame, comune a tante generazioni di contadini immiseriti. Solo Ruzante usa parole d’amore per la donna: «ma io ho una gran passione per te, io spasimo. Ma non hai pietà?». Al linguaggio alto d’amore, pur se dialettale, la Gnua risponde con una volgarità e con disprezzo rimprovera l’uomo di non presentare alcun segno nel corpo, qualche «sfrisò o tagiò el viso» (viso tagliato o sfregiato) che testimonierebbe del valore dimostrato sul campo di battaglia per amor suo. Umiliato Ruzante non può che ribadire la propria disgrazia. Trova però la forza per trattenere con violenza presso di sé la Gnua, quando questa vuole andarsene con il nuovo uomo che l’aspetta in silenzio. La rabbia di Ruzante, rivolta peraltro solo verso una debole donna, si rivela anche nella ripresa da parte dell’ignorante contadino del linguaggio ecclesiale (vedi Decalogo di Mosè, Genesi, 20, 3: «Non avrai altro Dio fuori di me»), quasi questo potesse conferire maggiore autorevolezza al suo discorso: «Me ne infischio del tuo uomo! Non conosco altro tuo uomo al mondo che me». La reazione del bravo al gesto di possesso di Ruzante verso la Gnua è fulminea e il poveraccio si ritrova a terra, pesto e dolorante, convinto di essere stato assalito da «pì de çento» (più di cento). Nel Parlamento Beolco ha creato un’opera tragica più che comica, avendo rappresentato il mondo politico-economico e sociale del contado padovano in tutta la sua miseria e degradazione (se le bastonate appartengono alla tradizione del comico, disperata è la condizione di chi vi è talmente abituato che neppure più le sente).

> Il linguaggio

La scelta del dialetto pavano rustico risponde da un lato all’esigenza di rappresentare con immediatezza un personaggio appartenente al mondo subalterno, dall’altro testimonia la volontà di Beolco, intellettuale veneto, di opporsi all’avanzare in letteratura della lingua fiorentina propugnata a Venezia da Bembo (così come ogni idealizzazione dell’amore viene a cadere di fronte alle più brutali necessità della vita).

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Che cosa rimprovera la Gnua a Ruzante, oltre alla povertà? > 2. Come si conclude la vicenda tra i due protagonisti? Che cosa capita infine a Ruzante? AnALIzzARe

> 3. > 4. > 5.

Rintraccia nella parte finale del brano un’iperbole e le metafore presenti, spiegandone il significato. Quali aree semantiche sono presenti nelle battute pronunciate dalla Gnua? Lingua Individua nel testo le espressioni tipiche del parlato e del linguaggio popolare, adatte a suscitare il riso dello spettatore. Stile

Lessico

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 6.

Scrivere Descrivi in circa 6 righe (300 caratteri) la concezione dell’amore che emerge dal rapporto dei due protagonisti, verificando quanto le loro condizioni economiche influenzino i loro comportamenti. > 7. esporre oralmente Delinea oralmente (max 3 minuti) la condizione dei contadini nel XVI secolo, come emerge dal testo.

219

L’età del Rinascimento

5 L’anticlassicismo come parodia dei modelli letterari François Rabelais

A5 Gli studi umanistici

L’interesse per la medicina

Il Pantagruele e il Gargantua

Le censure della Sorbona

Il seguito dell’opera

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Le origini del romanzo Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, l’anticlassicismo degli scrittori del Cinquecento si è espresso in prevalenza come parodia dei generi letterari più ampiamente diffusi e, insieme, rigorosamente codificati; ma questo atteggiamento consentiva anche l’emergere di elementi, tematici ed espressivi, più liberi e indipendenti, al di fuori di ogni schema precostituito. A uscire completamente dalla forma “chiusa” dei generi tradizionali, sul piano linguistico, tematico e strutturale, sarà François Rabelais ( A5), con il suo Gargantua. L’opera rifiuta di sottostare a ogni schema fissato a priori, per costruirsi attraverso una libertà espressiva insofferente di ogni limite e misura, mescolando fra di loro componenti eterogenee e antitetiche, fino a inglobare anche ciò che si presenta come abnorme o inverosimile. Non a caso il Gargantua, che riassume ed esalta lo spirito della letteratura “carnevalesca”, è stato collocato alle origini del romanzo moderno, inteso come forma “aperta” e in divenire, che sfugge a ogni regola o catalogazione precisa.

François Rabelais La vita Figlio di un avvocato, Rabelais nacque intorno al 1494 e studiò probabilmente ad Angers, ma notizie certe sulla sua vita si hanno solo a partire dal 1521, quando divenne frate francescano. Autorizzato fra il 1524 e il 1525 a passare nell’Ordine benedettino, dove cercava un ambiente più tollerante, vi rimase presumibilmente fino al 1527, anno in cui, abbandonata la tonaca e divenuto prete secolare, iniziò il suo peregrinare di “chierico vagante” fra le varie città universitarie francesi, approdando infine alla Sorbona di Parigi. Apprezzato non solo dagli umanisti, ma anche dagli specialisti di scienze per le profonde cognizioni mediche (era fervido sostenitore dello studio diretto della natura e del corpo umano, anche attraverso la pratica dell’anatomia), nel 1532 si stabilì a Lione, dove pubblicò le prime opere, a carattere scientifico. Nominato medico, esercitò la professione presso un ospedale della città, della quale continuò a frequentare gli ambienti culturali, iniziando anche un importante rapporto epistolare con Erasmo da Rotterdam. Verso la fine di quell’anno operoso Rabelais pubblicava il primo libro della sua opera più famosa, il Pantagruele, divenuto poi il secondo, in quanto il successo ottenuto lo indusse a scrivere, qualche tempo dopo, il Gargantua, narrazione della vita e delle gesta del gigante padre di Pantagruele. Ma al gradimento del pubblico non corrispose quello dei dotti della Sorbona, che lo censurarono implacabilmente, inducendolo ad allontanarsi dalla città al seguito di Jean Du Bellay, vescovo di Parigi. Rientrato a Lione nel 1534, all’apparizione del Gargantua ebbe altri problemi con la censura sorboniana e, anche perché coinvolto nell’affare dei placards (manifesti contro l’autorità ecclesiastica), decise di allontanarsi per qualche tempo e di seguire nuovamente il Du Bellay, ora cardinale, a Roma, dove ottenne dal papa l’assoluzione per i voti monastici infranti. Analoghe reazioni suscitò l’uscita del terzo e del quarto libro, nel 1546 e nel 1548, e ancora una volta Rabelais poté giovarsi dell’aiuto del Du Bellay, che da ultimo gli assicurò alcuni benefici, fra cui il reddito della parrocchia di Meudon, nella diocesi di Parigi, dove morì probabilmente nel 1553. Nel 1562 apparvero postumi, con il titolo L’isola sonante, sedici capitoli del Quinto e ultimo libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruele (uscito poi per intero nel 1564), la cui autenticità fu (ed è tutt’oggi) contestata.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo La figura dell’intellettuale

Testi Rabelais • La lettera sull’educazione dal Pantagruele

Le caratteristiche dell’opera

Lo stile La letteratura “carnevalesca”

Testi Rabelais Prologo dell’autore dal Gargantua e Pantagruele •

Si può dire, in conclusione, che la figura di Rabelais è quella di un eminente studioso e di uno dei più grandi intellettuali del Rinascimento. La ricca cultura classica unita alle salde convinzioni naturalistiche, lo spirito umanitario e tollerante, la fertile curiosità verso tutte le forme del sapere, si manifestano in lui con vivo entusiasmo e con una straordinaria potenza immaginativa ed espressiva. Poliedrico, intemperante, con il gusto dell’eccesso, della dismisura nella parola e nel gesto, egli sfugge alle interpretazioni critiche rigide e restrittive. Varia e composita, l’opera presenta una struttura caotica, in cui gli elementi più corposi della realtà si mescolano e si confondono con le invenzioni anche più irreali della fantasia. Rabelais ci presenta un mondo straripante e quasi abnorme, che, bene esemplificato dalle figure dei suoi giganteschi protagonisti, è disponibile ad accogliere tutti gli elementi del reale, da quelli bassi a quelli elevati. Le trame degli episodi si intrecciano con le digressioni del tipo più vario ed eterogeneo, che toccano i più diversi problemi sociali, filosofici, religiosi, morali. Anche lo stile si adegua a queste condizioni, alternando (e mescolando) il livello comico e il livello sublime, le forme dotte e quelle popolari, con effetti talora incontenibili di deformazione caricaturale e grottesca ( T5, p. 222). Pur muovendo da presupposti estremamente colti, Rabelais si fa portatore di una cultura “popolare”, che parte “dal basso”, proponendo, in alternativa ai valori della letteratura ufficiale, una visione rovesciata e “carnevalesca” del mondo. La teoria del romanzo, come genere che più di ogni altro è in grado di recepire, simbolicamente, i contenuti e le forme del “carnevale”, è stata compiutamente formulata da Michail Bachtin, che ha visto proprio in Rabelais il suo maggiore esponente dell’età rinascimentale. Il Gargantua e Il Pantagruele

L’opera

Il Gargantua di François Rabelais Il primo libro Per dare un esempio dell’opera, ci limitiamo a una breve sintesi del primo libro, il Gargantua, che si apre con la narrazione della nascita del gigante, avvenuta da Grandgousier (tradotto con Gargamagna o Grangola) e da Gargamelle (Gargamella), che lo partorisce dall’orecchio sinistro. Principe ereditario del regno di Utopia, a Gargantua viene impartita dapprima un’educazione che segue i dettami dell’epoca medievale (quegli stessi ridicolizzati da Rabelais), ma, visti i risultati poco brillanti, il padre decide di affidarlo al saggio Ponocrate, che, dopo avergli fatto dimenticare gli insegnamenti già ricevuti, lo inizia ad una formazione armoniosa dello spirito e del corpo, fondata sui princìpi umanistici cari a Rabelais. Gargantua si reca quindi a Parigi con un seguito di amici e vi entra a cavallo di una giumenta; qui, dopo aver a lungo gozzovigliato, si impadronisce delle campane di Nôtre-Dame, per farne dei sonagli per il suo gigantesco animale, e viene pregato di renderle da un “dotto” sorboniano, messo in ridicolo dal suo stesso linguaggio. Gargantua dà poi prova di valore impegnandosi nella guerra scatenata

dal potente re Picrochole, avido di conquiste, contro Grandgousier. Sconfitto il nemico, anche con l’aiuto di fra Giovanni Fracassatutto, uomo di grande forza e coraggio, Gargantua decide di ricompensarlo edificando per lui l’abbazia di Thélème, un non-convento in cui vige la regola del «Fa quel che vuoi», all’insegna di una vita libera e serena. I temi dominanti Fra le tematiche dei libri successivi, oltre alle situazioni abnormi e grottesche, e alle avventure surreali e mirabolanti, ci limitiamo a ricordare le riflessioni sui problemi dell’educazione, la satira anche violenta delle istituzioni ecclesiastiche, l’affermazione delle idee di tolleranza, le discussioni sul matrimonio, le proposte di un rinnovamento culturale e scientifico, i viaggi in paesi lontani, che offrono lo spunto per una critica alle credenze distorte e ai corrotti costumi del tempo, per giungere, infine, al tempio della Divina Bottiglia, in cui l’elogio del vino si risolve nel consiglio di bere non solo al calice o al boccale dell’osteria, ma anche, metaforicamente, alle nuove fonti del sapere e della conoscenza.

221

L’età del Rinascimento

T5

François Rabelais

Temi chiave

L’infanzia di Gargantua dal Gargantua, cap. XI

• il rovesciamento dei luoghi comuni • l’abolizione delle leggi di natura • il ricorso all’iperbole e al paradosso

Dopo la descrizione della nascita, Rabelais presenta il periodo dell’infanzia di Gargantua, che, come tutti i bambini (viene qui momentaneamente dimenticata la sua natura di gigante), conduce una vita quasi animalesca (sottolineata, ad esempio, dal paragone con i cagnolini del padre), intesa unicamente a soddisfare i propri bisogni naturali. Ma la forza dello stile travalica ben presto ogni intento puramente descrittivo.

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Dai tre ai cinque anni Gargantua fu allevato e istruito in ogni acconcia1 disciplina per espressa volontà del padre, e passava il suo tempo a bere, mangiare e dormire, mangiare, dormire e bere, dormire, bere e mangiare, come gli altri bambini del paese. Si voltolava sempre nelle pozze, s’incarbonava il naso, s’impiastricciava la faccia, scalcagnava le scarpe, sbadigliava alle mosche, inseguiva i parpaglioni2 (di cui suo padre aveva l’imperio3), si pisciava nelle scarpe, faceva la cacca nella camicia, si puliva il naso con le maniche, smoccicava4 dentro la zuppa, pasticciava dappertutto, beveva nella pantofola, si aguzzava i denti negli zoccoli, si lavava nel brodo, si pettinava col bicchiere, si grattava col paniere, spegneva il fuoco con la stoppa5, beveva fischiando, mangiava la mostarda senza pane, mordeva ridendo, rideva morsicando, sputava nel piatto, spetazzava di grasso, pisciava contro il sole, fuggiva l’acqua sotto le grondaie, pigliava lucciole per lanterne6, faceva lo smorfioso, sbruffava, sbofonchiava, faceva le boccacce, tornava a bomba7, faceva i maialini, mulinava a vanvera, menava il can per l’aia, sputava contro vento, batteva il cane per il8 padrone, menava il carro avanti ai buoi9, abbracciava troppo e non stringeva nulla, teneva due piedi in una staffa10, mangiava il grano in erba, metteva i ferri alle11 cicale, si faceva il solletico per farsi ridere da sé, menava stragi in cucina, lavava la testa all’asino12, rideva agli angeli, faceva cantare il Magnificat13 al mattino perché diceva che andava bene così, mangiava cavoli e cacava porri, aveva tempo e lo aspettava, distingueva le starne dagli storni14, strappava i piedi alle mosche, faceva i buchi senza le ciambelle15, metteva le ali ai piedi, tirava alle botte, faceva i conti senza l’oste, scambiava nuvole per padelle e Gustave Doré, L’infanzia di Gargantua, vesciche per lampioni16, accorciava le gambe alle bu- illustrazione per Gargantua di François 17 gie, faceva l’asino per aver la crusca , curava la tosse Rabelais in Œuvres de Rabelais, Parigi 1873.

1. acconcia: opportuna, conveniente. 2. i parpaglioni: le farfalle. 3. l’imperio: il comando. 4. smoccicava: lasciava cadere il moccio dal naso. 5. stoppa: sostanza fibrosa, tratta dal lino o dalla canapa, e molto infiammabile. 6. pigliava … lanterne: si dice “scambiare lucciole per lanterne”, per indicare chi cade in un vistoso equivoco. 7. tornava a bomba: l’espressione, tratta da un gioco infantile, significa tornare al punto di

222

partenza. 8. per il: al posto del. 9. menava … buoi: rovescia il detto secondo cui“non si deve mettere il carro davanti ai buoi”. 10. teneva … staffa: l’espressione “tenere i piedi in una staffa” significa portare avanti contemporaneamente, e di nascosto, due iniziative che sono in contrasto fra di loro. 11. metteva … alle: ferrava le (come si fa con i cavalli). 12. lavava … asino: secondo il proverbio, come è noto, “a lavare la testa all’asino si spre-

ca il tempo e il sapone”. 13. Magnificat: inno di gioia, che si canta nella liturgia cattolica. 14. distingueva … storni: di chi non capisce nulla si dice che “non distingue le starne dagli storni” (tipi di uccelli assai diversi fra loro). 15. faceva … ciambelle: dal proverbio “non tutte le ciambelle riescono col buco”. 16. scambiava … lampioni: stravolgimento del precedente proverbio ( nota 6). 17. crusca: residuo della macinazione del grano, dato in pasto agli asini.

Capitolo 4 · L’anticlassicismo

35

40

alle pulci, vuotava lo staio18 chicco a chicco, a caval donato guardava sempre in bocca19, saltava di palo in frasca, metteva le mele marce20 con le buone, faceva di ogni erba un fascio, cavava un chiodo e metteva un cavicchio21, difendeva la luna dai lupi, cacciava i topi per far ballare i gatti22, andava per acqua col crivello23, credeva che le allodole piovessero già cotte, faceva il pane con la zuppa, vomitava ogni mattina, i cagnolini di suo padre mangiavano nella sua scodella e lui mangiava con loro; lui mordeva loro le orecchie e loro gli graffiavano il naso; lui gli soffiava il culo e loro gli leccavano il grugno. Ma volete saperla tutta, che il vino vi strangoli? Questo piccolo puttaniere si dava un gran da fare a stazzonare24 le sue governanti, di su di giù, davanti e didietro, come viene viene e sotto a chi tocca. F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. it. di A. Frassineti, Rizzoli, Milano 1984

18. lo staio: il recipiente in cui viene tenuto il grano. 19. a caval … bocca: il proverbio dice invece che “a caval donato non si guarda in bocca”. 20. mele marce: richiama anche in questo

caso un’espressione proverbiale (“una mela marcia ne guasta una montagna”). 21. cavicchio: legnetto rotondo e aguzzo, che ha la stessa funzione di un chiodo. 22. cacciava … gatti: il proverbio dice che,

“quando non ci sono i gatti, i topi ballano”. 23. crivello: setaccio, recipiente bucato. 24. stazzonare: palpeggiare.

Analisi del testo Le enumerazioni e le accumulazioni caotiche L’iperbole e il paradosso

Una rappresentazione assurda e irreale

L’unione dei contrari L’uso dei proverbi

Il rovesciamento

> Le enumerazioni, le descrizioni, i proverbi

La pagina è costruita attraverso una lunga sequenza enumerativa, che, mescolando gli elementi più vari ed eterogenei, si risolve, senza soluzioni di continuità, in un procedimento di accumulazione caotica, attraverso un gioco verbale travolgente. La resa stilistica altera vistosamente i contorni della realtà e la ricostruisce secondo le proprie autonome esigenze. Le leggi su cui si basa sono quelle dell’iperbole (che estremizza i dati del reale) e del paradosso (che accosta e mescola elementi antitetici o inconciliabili fra di loro), che danno vita a soluzioni espressivamente esasperate e deformanti. La forma consiste in brevi segmenti descrittivi, che sottolineano, fin dall’inizio, aspetti particolari: la sporcizia («Si voltolava sempre nelle pozze, s’incarbonava il naso, s’impiastricciava la faccia»); la trascuratezza e il disordine («scalcagnava le scarpe»); la noia («sbadigliava alle mosche») e l’inutilità («inseguiva i parpaglioni»). La precisazione relativa («di cui suo padre aveva l’imperio») indica il carattere irreale e assurdo dell’intera rappresentazione, che non è legata ad alcun criterio di credibilità. Le successive indicazioni pongono l’accento sugli aspetti anche più volgari, fino alla realtà escrementizia («si pisciava nelle scarpe, faceva la cacca nella camicia, si puliva il naso con le maniche, smoccicava dentro la zuppa»). La pagina di Rabelais recepisce i suggerimenti più disparati e opposti, componendoli in un unico impasto, capace di accogliere tutto e il contrario di tutto. L’atteggiamento riguarda in particolare i proverbi e i luoghi comuni, che vengono integralmente accolti quando si riferiscono all’inutilità e all’inconcludenza («pigliava lucciole per lanterne», «menava il can per l’aia», «lavava la testa all’asino»); ma possono facilmente essere rovesciati, quando presentano un significato di tipo morale o comunque positivo (se il proverbio dice che “non si deve mettere il carro davanti ai buoi”, Gargantua «menava il carro avanti ai buoi»). Deriva di qui il rovesciamento dei luoghi comuni, nella misura in cui riflettono il pensiero ufficiale e le opinioni più consolidate.

> L’irrazionalità del mondo infantile

Gargantua compie operazioni autolesionistiche («sputava contro vento»), prive di significato («rideva agli angeli»), del tutto gratuite o insensate («si faceva il solletico per farsi ridere da sé»), impensabili e impossibili («metteva i ferri alle cicale», «curava la tosse alle pulci», «andava per acqua col crivello»). Le leggi di natura vengono abolite («mangiava cavoli e cacava porri»), mentre la giustificazione delle azioni risulta inesistente 223

L’età del Rinascimento

L’impasto stilistico

Il rapporto forma-contenuto

(«faceva cantare il Magnificat al mattino perché diceva che andava bene così»), in un contesto in cui viene abolita ogni logica della realtà e della ragione (fino agli esiti surreali di «accorciava le gambe alle bugie» o «difendeva la luna dai lupi»). Si tratta di un caleidoscopico impasto verbale, realizzato attraverso le opposizioni, i capovolgimenti, le antitesi («abbracciava troppo e non stringeva nulla»), il chiasmo («mordeva ridendo, rideva morsicando»). Ne risulta un esempio altamente significativo di scrittura “carnevalesca”, in cui il plurilinguismo sostiene la tecnica delle inversioni e dei rovesciamenti. C’è da chiedersi, a questo punto, quale rapporto esista tra la scelta stilistica e l’argomento del passo proposto. La risposta non è difficile, se si pensa che se l’educazione sottoporrà via via gli istinti a un controllo razionale, l’infanzia è il periodo in cui l’individuo tende a vivere spontaneamente e a stabilire un rapporto disinibito con la realtà che lo circonda, dando corso ai propri desideri e capricci, con quella libertà che il “carnevale”, come periodo dell’anno sottratto alle regole della vita comune, rappresenta.

Esercitare le competenze CoMpRendeRe

> 1. Sintetizza in circa 4 righe (200 caratteri) il contenuto del testo. AnALIzzARe

> 2. Analizza e commenta le righe 1-3: in che senso si può affermare che il narratore “smentisce” subito ciò che annuncia di raccontare?

> 3. Quale atteggiamento mostra l’autore nei confronti dei lettori con l’espressione «che il vino vi strangoli» (r. 38)? > 4. Stile Illustra, attraverso esempi significativi tratti dal testo, la differenza fra iperbole e paradosso spiegata nell’Analisi del testo.

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 5. Testi a confronto: esporre oralmente Carlo Collodi, nel classico per l’infanzia Le avventure di Pinocchio (1883), presenta il “rovesciamento” dei tradizionali modelli educativi attraverso l’immaginario “paese dei balocchi”. Nel passo riportato l’autore lo descrive. Individua nel testo eventuali analogie (tematiche o stilistiche) con la rappresentazione proposta da Rabelais (max 3 minuti). Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano 14 anni: i più giovani ne avevano 8 appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto… […] Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci (invece di balocchi): non vogliamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili. (C. Collodi, Pinocchio, introduzione e commento critico di F. Tempesti, disegni di Igort, Feltrinelli, Milano 2010)

peR IL poTenzIAMenTo

> 6. Il russo Michail Bachtin (1895-1975), grande studioso dell’opera di Rabelais, mette in evidenza nel suo celebre saggio del 1965 l’importanza del Gargantua anche sul piano antropologico:

Il mangiare e il bere sono una delle manifestazioni più importanti della vita del corpo grottesco. Le particolarità di questo corpo stanno nella sua apertura, nel suo carattere non definito, nella sua interazione con il mondo; ed è nell’atto del mangiare che esse si manifestano nel modo più tangibile e concreto: il corpo supera i propri limiti, inghiotte, assimila, dilania il mondo, lo assorbe tutto, si arricchisce e cresce alle sue spalle. L’incontro dell’uomo con il mondo che avviene nella grande bocca spalancata nell’atto di sgranocchiare, dilaniare e masticare, è uno dei soggetti più antichi e più importanti del pensiero e dell’imagerie umana [modalità di rappresentazione da parte dell’uomo]. Qui l’uomo assapora il mondo, sente il gusto del mondo, lo introduce nel suo corpo e lo rende parte di se medesimo. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 2001

Rileggi, alla luce delle considerazioni di Bachtin, il brano analizzato mettendo in evidenza gli aspetti che sembrano confermare la tesi dello studioso, ed elabora un commento personale alla tematica proposta.

224

In sintesi

LA noveLLA Verifica interattiva

IL RIFIUTo deL CLASSICISMo Nei confronti del classicismo rinascimentale sorge ben presto una letteratura di contestazione, che rifiuta il principio di imitazione e la visione idealizzata della realtà prodotti dall’ambiente cortigiano. Gli autori “anticlassicisti” sottopongono la cultura “ufficiale” a una deformazione parodica o a un vero e proprio rovesciamento attraverso l’elaborazione di tematiche irregolari e bizzarre, di strutture caotiche e di una lingua composita ed espressiva.

LA LIRICA: FRAnCeSCo BeRnI L’intento parodistico nei confronti del petrarchismo è assai marcato nei componimenti di Francesco Berni (1496 ca.-1535), che sfrutta il repertorio di stilemi e immagini tradizionali immettendovi contenuti imprevisti, satirici e plebei, con effetti stranianti. A Berni si deve inoltre una presa di posizione teorica nei confronti del classicismo, formulata nel Dialogo contra i poeti del 1526.

LA TRATTATISTICA: pIeTRo AReTIno Una vera e propria opera di demistificazione dell’ideologia espressa dalla trattatistica rinascimentale è condotta da Pietro Aretino (1492-1556) nei Ragionamenti, due dialoghi incentrati sulla figura della monaca e «puttanesca» Nanna. La tematica oscena e immorale si contrappone al codice di raffinata eleganza enunciato dai trattati cinquecenteschi sulle “buone maniere”, proponendo una concezione alternativa dell’uomo, basata sul prevalere degli istinti. La medesima contestazione del classicismo caratterizza le altre opere dell’autore, che sperimenta i generi più disparati.

L’epICA: TeoFILo FoLenGo Teofilo Folengo (1491-1544) è autore di una serie di opere poetiche, pubblicate nel periodo compreso fra il 1517 e il 1522 e confluite in un’unica raccolta dal titolo Maccheronee (Opus macaronicum). Adottando la for-

ma epica, Folengo la svuota dei suoi significati originari attraverso l’introduzione dell’elemento comico-grottesco e lo stravolgimento dei valori cavallereschi e cortesi della tradizione. Il carattere surreale dell’opera è potenziato dall’uso di un latino volutamente scorretto, intriso di vocaboli e strutture morfosintattiche del volgare italiano e del dialetto (latino “maccheronico”).

IL TeATRo: IL RUzAnTe Angelo Beolco (1500 ca.-42), detto il Ruzante dal nome del protagonista di alcune sue commedie, collaborò attivamente alla realizzazione di spettacoli teatrali e fu tra i fondatori di una delle prime compagnie teatrali semiprofessioniste, attiva a Ferrara e a Venezia. Nelle sue commedie egli utilizza i meccanismi drammatici tipici del genere (gli scambi di persona, gli equivoci ecc.), ma introduce un nuovo elemento di polemica sociale, portando in primo piano la miseria e le sofferenze degli umili, con un voluto rovesciamento della visione idealizzata della campagna che contraddistingue la letteratura umanistico-rinascimentale. Innovativa è anche la scelta di far parlare i personaggi in dialetto padovano, in polemica con il classicismo linguistico, espressione dei ceti dominanti.

IL RoMAnzo: FRAnçoIS RABeLAIS Rinomato medico francese, Rabelais (1494 ca.-1553) è autore di un’opera aperta e innovativa, il Gargantua e Pantagruele, che anticipa per molti aspetti il romanzo moderno. Essa si compone di cinque libri, pubblicati in tempi diversi, e ha come protagonisti due personaggi abnormi, il gigante Gargantua e suo padre Pantagruele. Le vicende si susseguono in modo caotico e digressivo, con situazioni comiche e surreali che si alternano a divagazioni serie su vari argomenti. Composita anche la lingua, che presenta registri stilistici diversi a seconda dei contenuti.

Facciamo il punto 1. Quale tipo d’intellettuale rappresentano gli autori antologizzati in questo percorso? (Ad esempio rifletti

sullo stato sociale della famiglia di nascita, sui modi di guadagnarsi il necessario per vivere, sui rapporti con il potere, sui generi letterari frequentati...). 2. Gli autori antologizzati in questo percorso quali aspetti codificati dal classicismo rifiutano? 3. Qual è la poetica di ogni autore “anticlassicista”?

225

Capitolo 5

Ludovico Ariosto Il piacere della fantasia e la riflessione sul reale

Le favole cavalleresche narrate nell’Orlando furioso immergono il lettore in una dimensione fantastica e meravigliosa di avventure e prodigi. Ma il poema non è solo pura evasione, fuga dalla realtà in un mondo di aeree fantasie. Il piacere di narrare quelle storie, per Ariosto, è solo il punto di partenza per una seria riflessione su alcune tematiche centrali del suo tempo: la molteplicità mutevole e inafferrabile del reale, il capriccio imprevedibile della Fortuna e la possibilità di contrapporsi ad essa dominando razionalmente il caos del mondo, l’agire dell’uomo che, spinto dal desiderio, si muove incessantemente alla ricerca di oggetti che sempre gli sfuggono e lo deludono, la sua capacità di adattarsi realisticamente alla mutevolezza della Fortuna o l’irrigidirsi in posizioni unilaterali che lo portano al fallimento, alla 226

perdita del senno e a volte alla morte. Il poema è questa miracolosa fusione di due componenti eterogenee, che sembrerebbe impossibile amalgamare, da un lato l’abbandono al piacere della fantasia e dall’altro l’intento conoscitivo, l’atteggiamento liberamente critico di fronte agli uomini e alla loro vita sociale. I temi della riflessione ariostesca ci toccano ancora da vicino, sono ancora i nostri: il Rinascimento, di cui il Furioso è espressione tipica, si pone all’inizio della modernità, di cui noi facciamo parte.

Come raccende il gusto il mutar esca così mi par, che la mia historia, quanto hor qua hor la più variata sia meno a chi l’udirà noiosa fia. (Orlando furioso, XIII, 80, vv. 5-8)

Videolezione d’autore

a saggiarne tutte le possibilità corrispondono ancora al nostro modo di vedere il mondo.

Fluidità del verso e armonizzazione dei toni Oltre all’immersione nel meraviglioso e a questa sollecitazione della riflessione critica sull’uomo e i suoi comportamenti, al piacere della lettura dà un contributo decisivo il ritmo dei versi ariosteschi. I toni possono essere i più diversi, svariare dall’ironia maliziosa alla lucidità della riflessione moraleggiante, dalla solennità delle parti epiche all’intensità commossa dei momenti patetici, ma sopra ogni varietà trionfa una fluidità miracolosa, che armonizza tutti questi toni.

Signor far mi convien come fa il buono sonator, sopra il suo instrumento arguto: che spesso muta corda, e varia suono, ricercando hora il grave, hora l’acuto (Orlando furioso, VIII, 29, vv. 1-4)

Il pluralismo prospettico Di fronte agli uomini, ai loro vizi e alle loro virtù, Ariosto non assume mai una prospettiva di giudizio rigida e univoca, ma gioca continuamente l’una contro l’altra diverse prospettive, senza mai aderire completamente a nessuna di esse. Nella narrazione si affermano molte voci, portatrici di varie visioni della realtà, ciascuna dotata di una sua autonomia, in una variegata impostazione polifonica. Nessuna certezza appare mai definitiva, ma è superata in un processo di correzione continua. Viene cioè a crearsi una pluralità prospettica: diversi modi di giudicare un fatto, un comportamento possono alternarsi, senza che si imponga un giudizio definitivo e unilaterale. È un altro aspetto della modernità della poesia ariostesca: il rifiuto di ogni rigidezza dogmatica, l’apertura della visione di fronte a un reale molteplice e mobile, la disponibilità dell’intelligenza 227

L’età del Rinascimento

1 Ariosto intellettuale cortigiano

La vita Videolezione

Ariosto, che opera per tutta la vita nell’ambiente della corte, rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano del Rinascimento, ma al tempo stesso nei confronti di tale ambiente è mosso da sentimenti di malcelato rifiuto e sottile polemica: il suo rapporto col mondo cortigiano è quindi percorso da una segreta ambivalenza, che ha importanti riflessi sui temi toccati dalla sua opera.

La formazione e il servizio del cardinale Ippolito

Gli studi

L’amicizia con Bembo

Il poeta proveniva da una nobile famiglia: il padre, Niccolò, era funzionario al servizio dei duchi d’Este ed era comandante della guarnigione militare di Reggio Emilia. In questa città nacque Ludovico l’8 settembre 1474, primo di dieci tra fratelli e sorelle. Dall’84 il padre si stabilì a Ferrara, con vari incarichi amministrativi, e in tale città Ludovico intraprese i primi studi. Tra i 15 e i 20 anni frequentò corsi di diritto all’Università di Ferrara, ma contro la sua vocazione, soltanto per obbedire al padre. Lasciati gli studi poco graditi, si dedicò ad approfondire la sua formazione letteraria e umanistica, di cui fu frutto la sua produzione di liriche latine (tuttavia, con suo grande rammarico, non ebbe un’adeguata istruzione nel campo delle lettere greche). A Ferrara, tra il 1497 e il 1499, poi tra il 1501 e il 1505, soggiornò Pietro Bembo, l’intellettuale più prestigioso dell’epoca, ed Ariosto, che strinse legami d’amicizia con lui, ne subì l’influenza, indirizzandosi verso la poesia volgare. Nel frattempo aveva anche cominciato a frequentare la corte del duca Ercole I, entrando nella cerchia dei cortigiani stipendiati. La morte del padre, nel 1500, lo mise di fronte alle necessità della vita: dovette occuparsi del patrimonio familiare, che gli procurò diverse noie per beghe giuridiche, dovette assumere la tutela dei fratelli minori e cercare di accasare le sorelle. Per far fronte alle necessità familiari dovette anche

Ariosto e il suo tempo

Linea del tempo

A

Inizia la composizione dell’Orlando furioso

Liriche latine

Nasce a Reggio Emilia da una nobile famiglia

Si trasferisce a Ferrara con la famiglia Interrompe gli studi per dedicarsi alla letteratura

Reggio Emilia A

1474

1484

Muore il padre: è costretto a farsi carico delle necessità familiari

Entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este

Prende gli ordini minori

Ferrara: periodo giovanile

1492

Morte di Lorenzo il Magnifico. Scoperta dell’America

228

Entra a far parte della corte estense e stringe amicizia con Bembo

1494 Carlo VIII, re di Francia, scende in Italia

1500 Nuovo intervento francese in Italia

1503

1504

Gli spagnoli s’impadroniscono del Regno di Napoli, che manterranno per due secoli

1505

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto Al servizio del cardinale Ippolito

I rapporti con Roma

La delusione nei confronti di Leone X

Alessandra Benucci

accettare cariche ufficiali da parte degli Estensi. Nell’autunno del 1503 entrò al servizio del cardinale Ippolito, figlio del duca Ercole I, con incarichi molto vari, che andavano dalle missioni politiche e diplomatiche a minute incombenze pratiche. Come il poeta stesso afferma nelle Satire, questo tipo di incarichi gli sembrava disdicevole alla sua dignità di letterato ed in contrasto con la sua vocazione agli studi e alla poesia, che esigeva quiete e raccoglimento. Come tanti altri letterati cortigiani del tempo, per aumentare le entrate assunse anche la veste di chierico, prendendo gli ordini minori, in modo da poter godere di benefici ecclesiastici. Nel frattempo si occupò degli spettacoli di corte, scrivendo a tal fine due commedie, La Cassaria (1508) e I Suppositi (1509). I primi del Cinquecento erano anni turbolenti, in cui l’Italia era sconvolta dai conflitti tra Francia e Spagna, nei quali i vari stati della penisola, compresa Ferrara, erano in vari modi coinvolti. A causa dei rapporti tesi tra il nuovo duca, Alfonso I, ed il papa Giulio II, Ariosto dovette recarsi più volte, tra il 1509 e il 1510, come ambasciatore a Roma, correndo anche rischi personali per il carattere irascibile e violento del pontefice. Nel frattempo cominciò a stringere rapporti con ambienti fiorentini, che miravano alla restaurazione del potere mediceo, ed in particolare con il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio del Magnifico. In tal modo, accortamente, Ariosto si preparava uno sbocco nella carriera, pensando di passare dalla provinciale Ferrara alla splendida corte romana. Quando Giovanni de’ Medici divenne papa con il nome di Leone X, nel 1513, Ariosto credette che fosse giunta l’occasione di ottenere gli incarichi ambiti, che gli consentissero una vita più agiata e tranquilla; ma le sue aspettative andarono deluse, e dovette adattarsi a restare a Ferrara, con un magro beneficio in più. Intanto a Firenze aveva stretto un legame con una donna sposata, Alessandra Benucci. Nel 1515 il marito morì, ma Ariosto, costretto al celibato a causa degli ordini minori, non poté mai convivere con lei e la sposò in segreto solo anni più tardi.

La Cassaria I Suppositi Ambascerie a Roma presso il papa Giulio II

1a edizione dell’Orlando furioso Frequenta gli ambienti fiorentini e stringe una relazione con Alessandra Benucci

Rifiuta di seguire Ippolito in Ungheria e passa al servizio di Alfonso d’Este

Satire Il Negromante

Lena

2 edizione dell’Orlando furioso

È inviato Sposa come Torna a segretamente governatore in Garfagnana Ferrara la Benucci

Al servizio del cardinale Ippolito

1509-10 Conflitto tra Ferrara e Venezia

1516

1517

Pubblicazione delle 95 tesi di Lutero

3a edizione dell’Orlando furioso

a

Muore a Ferrara

Al servizio del duca Alfonso

1520 1521 1522 Inizio del conflitto tra l’imperatore Carlo V e Francesco I di Francia

1525 1527

1529-30

I mercenari di Carlo V saccheggiano Roma

1532 1533

Riconoscimento dell’egemonia asburgica sull’Italia

229

L’età del Rinascimento

Al servizio del duca Alfonso Il governo della Garfagnana

Gli ultimi anni

Nel 1516 Ariosto pubblicò la prima edizione dell’Orlando furioso, alla quale lavorava da circa un decennio, e la dedicò al cardinale Ippolito, il quale però non dimostrò di apprezzare l’opera come il poeta si attendeva. Nel 1517, recandosi a prendere possesso di un vescovato in Ungheria, il cardinale impose ad Ariosto di seguirlo, ma il poeta rifiutò, passando al servizio del duca Alfonso. Nel 1522 questi gli affidò un difficile compito, quello di governatore della Garfagnana, regione appenninica da poco annessa al Ducato estense: una regione turbolenta, infestata da banditi, in cui l’ordine doveva essere mantenuto con la forza. Qui Ariosto dette prova di capacità politiche, di equilibrio e di energia, come testimoniano le sue relazioni al duca. La lontananza dalla sua città però gli pesava, ma soprattutto gli causavano fastidio le incombenze pratiche, che gli impedivano di dedicarsi alle occupazioni più amate, la poesia e gli studi. Tornato a Ferrara nel 1525, riprese ad occuparsi degli spettacoli di corte, scrivendo una nuova commedia, La Lena, e riprendendone un’altra scritta nel 1520, Il Negromante. Furono, questi, anni più tranquilli, con pochi spostamenti. Il poeta, circondato dagli affetti familiari, si era sistemato in una modesta casa in contrada Mirasole, dove continuò a lavorare alla revisione stilistica e all’ampliamento del Furioso. Ammalatosi di enterite, morì nel 1533 per complicazioni polmonari.

Carta interattiva

I luoghi e la vita di Ariosto

REGGIO EMILIA

2

1

1 REGGIO EMILIA

Nasce l’8 settembre del 1474.

5

FERRARA

FIRENZE

GARFAGNANA

4

3

ROMA

2 FERRARA

Nel 1484 si trasferisce a Ferrara. Tra il 1497 e il 1505 frequenta la corte del duca Ercole I, entrando nella cerchia dei cortigiani stipendiati. Nell’autunno del 1503 è al servizio del cardinale Ippolito, figlio del duca Ercole I, e nel 1517 del duca Alfonso I d’Este. Nel 1525 torna a Ferrara dopo il soggiorno in Toscana, occupandosi degli spettacoli di corte. Muore nel 1533.

230

5 GARFAGNANA Nel 1522 assume il compito di governatore della Garfagnana. Accusando la lontananza dalla sua città, provato dalle tante incombenze pratiche, decide di tornare a Ferrara e dedicarsi alla poesia e agli studi.

4 FIRENZE

3 ROMA Svolge numerose missioni diplomatiche a Roma tra il 1509 e il 1510, in qualità di ambasciatore al servizio di Alfonso I.

Nei primi anni del 1500 comincia a stringere rapporti con gli ambienti fiorentini che mirano alla restaurazione del potere mediceo.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto L’amore per la vita sedentaria

La difesa della libertà intellettuale

L’acutezza d’indagine

2 Le liriche latine I modelli classici

I motivi personali

Le rime volgari

Le rime d’occasione e d’amore

I capitoli

Ariosto stesso, nelle Satire, si è compiaciuto di lasciare di sé l’immagine di uomo amante della vita sedentaria, placida e contemplativa, tutto teso a risarcire nell’evasione fantastica le angustie della vita pratica e quotidiana. Ma si tratta di un’immagine letteraria, non perfettamente rispondente alla realtà. In effetti, come si è già avuto modo di osservare, Ariosto fu uomo accorto e saggio, che manifestò eccellenti doti pratiche nel destreggiarsi tra gli intrighi della vita cortigiana del tempo, e dimostrò capacità politiche e diplomatiche negli incarichi da lui assunti. La sua aspirazione ad un’esistenza quieta ed appartata, come ha osservato Caretti, non fu affatto «un pigro arrendersi alla mediocrità», ma «una scelta matura e meditata», mirante a difendere, nell’unico modo che era possibile in una società cortigiana, la propria libertà di individuo e di intellettuale. Nella sua scelta si rivelò «un senso concreto e realistico dell’esistenza», un’inclinazione «disincantata e profondamente saggia» a «elaborare un ideale di vita dominato dal sentimento della misura e dell’equilibrio interiori». Un atteggiamento che è anche nutrito dalla capacità di «indagare più da vicino la natura degli uomini e la verità del proprio tempo, con spirito quanto mai penetrante e acuto». Ed è questa acutezza nello studiare e nel penetrare la vita sociale del tempo ed i comportamenti umani che si manifesta nella sua opera, anche in quella che apparentemente può risultare più lontana, il poema cavalleresco che canta di armi e di amori.

Le opere minori Le liriche latine e le rime volgari

Videolezione

La lirica latina di Ariosto risale prevalentemente agli anni giovanili. Sono 67 componimenti, scritti quasi tutti fra il 1494 e il 1503, che non furono mai raccolti dall’autore in forma organica né pubblicati come opera compiuta. Vi si rivela la formazione umanistica di Ariosto e sono chiaramente ravvisabili i modelli classici, Orazio, un autore a lui particolarmente congeniale, con il suo ideale di serenità imperturbabile, ma anche Catullo, Virgilio, i poeti elegiaci come Tibullo, Properzio, Ovidio. Di personale, Ariosto vi immette un’intonazione più realistica, come la denuncia del contrasto fra la durezza quotidiana e le aspirazioni all’otium intellettuale (cioè al distacco da ogni attività pratica) proprie del letterato. Accanto ai componimenti più leggeri se ne trovano altri più ufficiali e di intonazione più erudita, ed inoltre epigrammi che tratteggiano gustosamente figure umane. Nelle poesie più tarde affiora una materia più dimessa, una ricerca di affettuosa intimità borghese. A differenza della poesia latina, le rime volgari sono state scritte lungo tutto l’arco dell’esistenza del poeta, tra il 1493 e il 1527, e spesso non sono facilmente databili. Anch’esse non furono mai raccolte organicamente dall’autore, e furono pubblicate solo postume, nel 1546. Vi sono componimenti d’occasione, legati ad avvenimenti della storia contemporanea, ma buona parte delle rime si concentra intorno al tema amoroso e alla figura della donna amata, Alessandra Benucci, giungendo quasi a comporre un canzoniere. Vi confluiscono varie suggestioni culturali: la lirica cortigiana del secondo Quattrocento, gli Amorum libri di Boiardo ( L’età umanistica, cap. 2, T1, p. 48), ma già anche il nuovo petrarchismo ortodosso e rigorosamente classicheggiante propugnato dal Bembo (non si dimentichi che la sua presenza a Ferrara esercitò un forte influsso sul giovane Ariosto). Il tono peculiare di questa poesia amorosa è lontano dalla rarefazione assoluta della poesia petrarchesca: vi sono spunti più intimi e affettuosi, persino scherzosi, e spunti di più caldo erotismo, ispirati ai classici latini. Interessanti sono anche i capitoli. 231

L’età del Rinascimento

Il capitolo era un componimento di una certa ampiezza, in terzine dantesche, diffuso già nel Trecento per trattare temi allegorici e dottrinali, mentre nel Quattrocento aveva assunto la forma della conversazione (anche come lettera in versi), con argomenti variamente mescolati di carattere morale o politico. I capitoli ariosteschi contengono riferimenti autobiografici, effusioni liriche e amorose, il tutto in toni misurati e pacati e con un linguaggio medio, colloquiale, che li accosta alle Satire.

Le commedie

Ariosto inaugura la commedia cinquecentesca

Il modello plautino

La Cassaria e I Suppositi

Il passaggio dalla prosa ai versi

Il Negromante La satira delle credenze irrazionali

232

Ariosto si occupò professionalmente di teatro, poiché, come si è accennato, tra i suoi compiti di intellettuale cortigiano vi era anche l’allestimento di spettacoli per le feste di corte, secondo una tradizione che era particolarmente viva a Ferrara già nel Quattrocento. Per tali spettacoli si utilizzavano inizialmente traduzioni e adattamenti di testi comici latini, ma in seguito si passò anche all’elaborazione di testi originali in volgare. Ariosto fu colui che inaugurò questa nuova tradizione, con due commedie fatte rappresentare alla corte di Ferrara, La Cassaria nel carnevale del 1508, I Suppositi in quello dell’anno successivo. Questi due testi hanno una grande importanza storica, perché costituiscono l’inizio e il modello di tutta la successiva, foltissima produzione di commedie classicheggianti del Cinquecento. Pur rivolgendosi a soddisfare i bisogni del pubblico, con fini quindi di intrattenimento, Ariosto mirò egualmente a un’alta dignità artistica, e, secondo i modelli del classicismo rinascimentale, che prescrivevano l’imitazione degli antichi, nell’elaborazione dei suoi testi guardò ai modelli classici, in particolare a Plauto. Mentre però le commedie latine erano in versi, Ariosto scelse in un primo tempo la prosa. Le sue due prime commedie riprendono il tipico schema plautino del conflitto fra i giovani, tesi a raggiungere i loro obiettivi amorosi, ed i vecchi che in vari modi li ostacolano. Una parte importante hanno anche i servi astuti, che aiutano i giovani ad ottenere ciò che desiderano con espedienti e inganni. Al modello dell’intreccio plautino si aggiunge la suggestione della novella italiana, in particolare di Boccaccio, nel motivo dell’intraprendenza dei giovani nella ricerca del soddisfacimento amoroso e in quello dell’astuzia dei servi (è il motivo dell’«industria», che ha tanta parte nel Decameron, come sappiamo). La trama è complicata da infiniti intrighi ed equivoci, ma si conclude di regola col lieto fine. La scena, come nel teatro comico antico, è collocata in ambienti borghesi cittadini. La Cassaria (così chiamata dalla cassa che è al centro dell’intrigo), si svolge in una città greca, Metelino, ed è caratterizzata dalla serie di trovate astute di molti servi, che si susseguono con intenso dinamismo. I Suppositi (“Gli scambiati”) si fonda su una serie di scambi di persona e sugli equivoci che ne nascono. Una novità di grande rilievo in questo secondo testo è costituita dal fatto che la scena è in Ferrara, e vi è una fitta rete di riferimenti a realtà e luoghi cittadini ben noti agli spettatori, che potevano così vedere riflesso sul palcoscenico, con curiosità e divertimento, il mondo a loro familiare. Dopo queste due commedie l’attività teatrale di Ariosto si interruppe per quasi un decennio. Ripresa la scrittura di commedie, l’autore lasciò la prosa per il verso, più adatto all’idea di teatro letterariamente elevato che gli era propria e più vicino ai modelli classici a cui egli si rifaceva. Il verso prescelto fu l’endecasillabo sciolto sdrucciolo (terminante cioè con una parola dall’accento sulla terzultima sillaba), che aveva un andamento simile a quello del verso più usato dai comici latini, il senario giambico. Nel 1520 Ariosto inviava al papa Leone X Il Negromante, già ideato sin dal 1509. La commedia fu poi nuovamente rielaborata nel 1529, con l’aggiunta di nuove scene. Al dinamismo dell’intreccio e delle trovate comico-furfantesche, che era proprio delle prime commedie, si sostituiscono intenti di satira di costume: al centro della vicenda vi è infatti, come indica il titolo, la figura di un mago imbroglione, e Ariosto prende da essa lo spunto per ridicolizzare con laico scetticismo le credenze irrazionali e la magia.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto La Lena: il motivo dell’interesse economico

Testi La legge dell’interesse economico dalla Lena

Gli studenti

La rappresentazione realistica di costume caratterizza anche La Lena (1528, ma ampliata negli anni successivi), in cui si insiste, al di là del solito motivo dell’amore contrastato di due giovani, sul tema dell’interesse economico, rappresentato soprattutto dalla ruffiana che dà il titolo alla commedia. Fitti sono anche i riferimenti alla realtà ferrarese, con spunti satirici nei confronti della disonestà e corruzione di uno stuolo di personaggi che ruotano intorno alla corte estense e alla burocrazia amministrativa. Vi si manifesta pertanto una visione disincantata e amara dell’uomo, che appare solo mosso da interessi utilitaristici e meschini; una visione che non è poi molto lontana dal pessimismo con cui Machiavelli rappresenta la società contemporanea nella Mandragola ( cap. 6, TT12-13, pp. 435 e ss.). A partire dal 1518-19 Ariosto aveva anche abbozzato un’altra commedia, Gli studenti, ambientata nel mondo universitario. La commedia rimase interrotta all’inizio del IV atto, e dopo la morte dell’autore fu completata in modo diverso dal fratello Gabriele (L’imperfetta) e dal figlio Virginio (La scolastica). Negli ultimi anni Ariosto ritornò anche sui due testi più antichi, che erano in prosa, riscrivendoli in versi, con modificazioni rilevanti nella struttura, soprattutto per La Cassaria (nuovamente rappresentata nel 1531).

Le lettere

L’assenza di letterarietà

Ci sono giunte 214 lettere di Ariosto, scritte fra il 1498 e il 1532. Si tratta di un epistolario di carattere molto diverso da quelli umanistici, che hanno come modello quello petrarchesco: la lettera ariostesca non è componimento squisitamente letterario, che trasfigura la realtà smussando i riferimenti troppo crudi e diretti in nome di un ideale classicheggiante, ma un documento autentico, non scritto per la pubblicazione, scevro di intenti letterari. Si tratta di lettere private, relazioni diplomatiche, rapporti ai signori, biglietti d’occasione. Non sono scritte in un linguaggio letterario elaborato, ma in stile semplice e immediato. Vi si riflette il realismo di Ariosto, la sua capacità di penetrare acutamente situazioni e persone, in specie nelle lettere che si riferiscono al periodo della Garfagnana.

Le satire

Il modello oraziano

Destinatari e contenuti

Tra il 1517 e il 1525 Ariosto scrisse sette satire in forma di lettere in versi indirizzate a parenti ed amici; non ne curò però la stampa, ed una prima edizione uscì solo dopo la sua morte, nel 1534. Anche per questi componimenti vi erano dei modelli classici, le Satire e le Epistole di Orazio. La satira antica era in origine un componimento che permetteva di toccare i più vari argomenti, senza un ordine prefissato (il nome pare che derivi appunto da satura lanx, un piatto votivo che conteneva i più vari tipi di cibi). Orazio, nell’età augustea (I secolo a.C.), aveva fissato il modulo della satira come libera e svagata conversazione (il titolo della sua opera è anche Sermones, cioè “conversazioni, chiacchierate”, ma anche le Epistole hanno uno schema affine), in cui l’autore può toccare gli argomenti più diversi, riferimenti autobiografici, riflessioni generali sul comportamento umano, ritratti di persone, apologhi, favole. Ad Orazio Ariosto è particolarmente vicino, nell’ideale di una vita quieta e modesta ma indipendente da ogni servitù e nel distacco ironico con cui sa guardare se stesso e gli altri. Ariosto, a rendere il modello oraziano, impiega la forma del capitolo in terzine dantesche, già consacrato da una tradizione abbastanza lunga, e da lui stesso sperimentato. La Satira I (1517) è indirizzata al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno, ed in essa l’autore spiega le ragioni per cui ha rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito suo signore, insistendo sull’incompatibilità degli incarichi pratici del cortigiano con la vocazione letteraria. La Satira II è rivolta al fratello Galasso (1517), e contiene una rappresentazione critica e polemica della corte papale. 233

L’età del Rinascimento

La struttura dialogica

I temi

L’ironica tolleranza

Lo stile colloquiale

Le Satire: chiave per capire il Furioso

234

La Satira III, dedicata al cugino Annibale Malaguzzi (1518), tratta della condizione del poeta nel nuovo servizio del duca Alfonso, e ribadisce con vigore la sua esigenza di autonomia dalla corte. La Satira IV (1523), destinata a Sigismondo Malaguzzi, descrive le difficoltà del suo compito di governatore della Garfagnana, il rimpianto dell’attività letteraria interrotta, la nostalgia della sua città e della sua donna. La Satira V (forse scritta tra il ’19 e il ’21), ancora rivolta ad Annibale Malaguzzi, è una disamina dei vantaggi e degli svantaggi della vita matrimoniale, e contiene una serie di consigli sui criteri da seguire nella scelta della moglie; vi compaiono perciò gli umori misogini che erano propri di una lunga tradizione letteraria (si pensi al Corbaccio di Boccaccio). Nella Satira VI, indirizzata a Pietro Bembo, Ariosto chiede all’illustre letterato consigli per l’educazione del figlio Virginio, esprime il suo rammarico per non aver mai potuto approfondire la conoscenza del greco, ed esalta, seguendo una tradizione umanistica, la funzione incivilitrice della poesia. Nella Satira VII, dedicata a Bonaventura Pistofilo, il poeta motiva il suo rifiuto di andare a Roma come ambasciatore, ed esprime il suo amore per il suo “nido” ferrarese. La struttura di questi componimenti è, secondo il modello oraziano, quella della chiacchierata alla buona, che trascorre disinvoltamente, talora senza apparenti connessioni, tra i più vari argomenti. Cesare Segre ne ha sottolineato la struttura intimamente dialogica: il poeta vi dialoga continuamente, con se stesso, con i destinatari, con interlocutori immaginari. Il discorso risulta quindi un fitto intreccio di voci, che propongono prospettive diverse sul reale. È una caratteristica, questa, che compare anche nel poema, come vedremo, sia pure in forme diverse dato il suo carattere narrativo. I temi centrali delle Satire sono la condizione dell’intellettuale cortigiano ( T1 e T2, p. 238), i limiti e gli ostacoli che essa pone alla libertà dell’individuo, l’aspirazione ad una vita quieta ed appartata, lontana dalle ambizioni e dalle invidie della realtà di corte, dedita agli studi, ai voli della fantasia e agli affetti famigliari, il fastidio per le incombenze pratiche che dell’esercizio poetico costituiscono l’ostacolo, la follia degli uomini che si danno ad inseguire oggetti vani, la fama, il successo, la ricchezza. L’atteggiamento dell’autore è ironico, ma raramente ha punte di asprezza polemica: in genere è pacato, misurato, tollerante, di una tolleranza che nasce dalla consapevolezza della comune “follia” degli uomini, dei limiti che ciascuno di noi ha in sé e che lo allontanano dal raggiungimento della serenità e della saggezza. Si è già avuto modo di osservare che questo distacco non va confuso con un atteggiamento pigramente rinunciatario di fronte al mondo: in realtà, dietro quegli atteggiamenti bonari e sorridenti, si celano uno sguardo acuto nel cogliere le contraddizioni e i nodi problematici della società contemporanea (si pensi solo al rilievo che vi assume l’ambiente della corte) ed una visione sostanzialmente pessimistica e amara della vita e dei tempi. Il tono svagatamente conversevole delle Satire dà ragione dello stile in cui sono scritte: uno stile colloquiale, volutamente prosaico ed in certi tratti apparentemente disadorno, che non si arresta dinanzi alle realtà più dimesse e “impoetiche” ed impiega largamente modi di dire della lingua parlata. Anche il ritmo del verso ha qualcosa dell’andamento colloquiale e rifugge dalle cadenze troppo musicali, prediligendo spesso fratture e pause che avvicinano il verso alla prosa. Naturalmente questa sprezzatura è voluta e ha dietro di sé una perizia letteraria finissima. Nel complesso le Satire sono un’opera che ha un’importanza fondamentale e costituisce una chiave preziosa per penetrare nel mondo del capolavoro: in esse si trova allo stato puro quell’atteggiamento riflessivo e conoscitivo nei confronti della realtà che nel poema, pur essendo una delle componenti essenziali, è dissimulato dietro il fluire delle avventure cavalleresche e dietro il fascino del meraviglioso e del fiabesco. E vi si trova anche quell’impalpabile atteggiamento ironico, che del Furioso è la caratteristica saliente.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

T1

La condizione subalterna dell’intellettuale cortigiano dalle Satire, I, vv. 85-123, 139-171

Temi chiave

• la rivendicazione dell’autonomia dell’intellettuale

• l’ideale dell’“ozio” • la condizione dell’intellettuale cortigiano

Nella I satira Ariosto spiega i motivi per cui si è rifiutato di seguire il suo signore, il cardinale Ippolito d’Este, quando, nel 1517, era stato nominato vescovo ad Agria, in Ungheria: in primo luogo ragioni di salute, in quanto il clima rigido e i cibi avrebbero costituito per lui un grave pericolo. A chi gli obietta che potrebbe comprarsi lui stesso i cibi, risponde che il servizio del cardinale non gli consente entrate sufficienti.

> Metro: terzine dantesche a rime incatenate, ABA, BCB, CDC ecc.

85

90

95

100

105

Io, per la mala servitude mia, non ho dal Cardinale ancora tanto ch’io possa fare in corte l’osteria1. Apollo, tua mercé, tua mercé, santo collegio de le Muse, io non possiedo tanto per voi, ch’io possa farmi un manto2. – Oh! il signor t’ha dato… – io ve ’l conciedo, tanto che fatto m’ho più d’un mantello3; ma che m’abbia per voi4 dato non credo. Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello voglio anco5, e i versi miei posso a mia posta mandare al Culiseo per lo sugello6. Non vuol che laude sua da me composta per opra degna di mercé si pona; di mercé degno è l’ir correndo in posta7. A chi nel Barco8 e in villa il segue, dona9, a chi lo veste e spoglia, o pona10 i fiaschi nel pozzo per la sera in fresco a nona11; vegghi12 la notte, in sin che i Bergamaschi13 se levino a far chiodi14, sì che spesso col torchio15 in mano addormentato caschi. S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo, dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio16; più grato fòra essergli stato appresso17.

1. Io … osteria: per la modesta retribuzione del mio disgraziato mestiere di cortigiano, non percepisco dal cardinale ancora una somma tale da potermi comperare i cibi a mie spese; in corte: alla corte del cardinale; fare l’osteria, che in generale significa preparare i cibi da ammannire agli avventori, qui vuol dire procurarsi il cibo. 2. Apollo … manto: grazie alla poesia (Apollo e le Muse) non possiedo neppure il denaro per procurarmi un mantello. 3. Oh … mantello: obietta la poesia, rappresentata da Apollo e dalle Muse: «Il cardinale (signor) ti ha fatto dono…»; interviene il poeta ed ammette che il cardinale gli ha fatto dono di qualcosa di più di un mantello.

4. per voi: per i meriti derivati dall’ispirazione di Apollo e delle Muse, cioè in premio delle sue opere poetiche. 5. dirlo … anco: voglio ripeterlo. 6. i versi … sugello: il poeta ripete la battuta un po’ greve del cardinale che rivela la scarsa considerazione di costui per la poesia: i suoi versi può mandarli al Culiseo (che letteralmente è storpiatura di Colosseo ma qui è usato come una giocosa allusione, frequente nella poesia burlesca) per il bollo (sugello), ossia può gettarli via. 7. Non vuol … posta: il cardinale non vuole che sia considerata opera degna di compenso una lode composta da me per lui: opera degna di ricompensa è compiere viaggi spostan-

dosi velocemente (correre in posta: spostarsi cambiando i cavalli ad ogni posta in modo da averli sempre freschi). 8. nel Barco: generalmente nel parco; nello specifico qui allude al grande parco lungo il Po, riserva di caccia della famiglia d’Este, dove il cardinale, appassionato di caccia, si recava di frequente. 9. dona: fa dono. 10. pona: ponga; va legato a in fresco del verso successivo. 11. a nona: a mezzogiorno. 12. vegghi: vegli. 13. Bergamaschi: poiché dalle valli del bergamasco ne provennero di famosi, il termine passò per antonomasia a designare i fabbri ferrai. 14. se levino a far chiodi: si mettano al lavoro. 15. torchio: grosso cero. 16. a piacere e in ocio: per mio piacere e standomene a oziare. 17. più grato … appresso: a lui sarebbe stato più gradito se io fossi stato al suo seguito.

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E se in cancellaria m’ha fatto socio a Melan del Constabil, sì c’ho il terzo di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio18, gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo mutando bestie e guide, e corro in fretta per monti e balze, e con la morte scherzo19. Fa a mio senno20, Maron21: tuoi versi getta con la lira in un cesso, e una arte impara, se beneficii22 vuoi, che sia più accetta. Ma tosto che n’hai23, pensa che la cara tua libertà non meno abbi perduta che se giocata te l’avessi a zara24; e che mai più, se ben alla canuta età vivi e viva egli25 di Nestorre26, questa condizïon non ti si muta. […] Ruggier27, se a la progenie tua mi fai sì poco grato28, e nulla mi prevaglio che li alti gesti e tuo valor cantai29, che debbo far io qui? poi ch’io non vaglio smembrar su la forcina in aria starne, né so a sparvier, né a can metter guinzaglio30? Non feci mai tai cose e non so farne: alli usatti, alli spron, perch’io son grande, non mi posso adattar per porne o trarne31. Io non ho molto gusto di vivande, che scalco io sia; fui degno essere al mondo quando viveano gli uomini di giande32. Non vo’ il conto di man tòrre a Gismondo33; andar più a Roma in posta non accade a placar la grande ira di Secondo34; e quando accadesse anco, in questa etade35, col mal36 ch’ebbe principio allora forse37, non si convien38 più correr per le strade.

18. E se in cancellaria … negocio: allude al beneficio della cancelleria vescovile di Milano (di cui godeva di un usufrutto pari ad un terzo delle rendite provenienti da ogni atto stilato dal notaio; le altre due parti spettavano al citato Antonio Constabili e a Benedetto Fantini). 19. gli è … scherzo: enumera i servigi in virtù dei quali ha ottenuto tale beneficio: il viaggio a Roma per ottenere dal pontefice aiuto contro i Veneziani nel 1509; la difficile ambasciata a Giulio II l’anno successivo; la fuga da Roma nel 1512 per evitare le ritorsioni del papa alla notizia di un’alleanza estense con i Francesi. 20. a mio senno: come ti suggerisco. 21. Maron: Andrea Marone, poeta bresciano, famigliare del cardinale.

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22. beneficii: benefici ecclesiastici. 23. Ma tosto che n’hai: non appena hai ricevuto qualche beneficio. 24. a zara: ai dadi. 25. egli: il cardinale. 26. Nestorre: Nestore, l’anziano eroe omerico che visse tre secoli. 27. Ruggier: il capostipite della dinastia estense, insieme a Bradamante, secondo una genealogia accreditata da Boiardo. È un personaggio del poema di Ariosto. 28. se … grato: se mi renderai così poco gradito ai tuoi discendenti. 29. e nulla … cantai: e non mi deriva alcun vantaggio dall’aver celebrato le tue nobili imprese e la tua virtù. 30. poi … guinzaglio: dal momento che io non sono abile in nessuna di quelle mansioni

che sono apprezzate a corte, come trinciare le pietanze tenendole con il forchettone alzato in aria, addestrare falconi e cani da caccia. 31. alli usatti … trarne: dal momento che sono già adulto (grande) e non più un giovane, non posso adeguarmi a calzare o sfilare gli stivali (usatti) o gli sproni al signore. 32. giande: ghiande. Il poeta ritiene che sarebbe stato degno di vivere nella mitica età dell’oro, quando gli uomini si cibavano di ghiande. 33. Gismondo: Sigismondo Cestarelli, al servizio di Alfonso d’Este come fattore e poi di Ippolito in qualità di amministratore. 34. andar … Secondo: non occorre più adesso andare a Roma con un viaggio celere (cambiando i cavalli ad ogni posta) per placare la potente ira di Giulio II (Secondo). 35. in questa etade: a 44 anni, tanti ne aveva Ariosto quando scrisse questa satira. 36. col mal: i disturbi di stomaco. 37. ch’ebbe … forse: che forse cominciarono proprio allora. 38. non si convien: non è opportuno.

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Se far cotai servigi e raro tòrse39 di sua presenza de’40 chi d’oro ha sete, e stargli come Artofilace a l’Orse41; più tosto che arricchir, voglio quïete42: più tosto che occuparmi in altra cura43, sì che inondar lasci il mio studio a Lete44. Il qual, se al corpo non può dar pastura, lo dà a la mente con sì nobil ésca che merta di non star senza cultura45. Fa che46 la povertà meno m’incresca47, e fa che la ricchezza sì non ami che di mia libertà per suo amor esca48; quel ch’io non spiero aver, fa ch’io non brami49, che né sdegno né invidia me consumi perché Marone o Celio il signor chiami50 […]

39. raro tòrse: togliersi raramente. 40. de’: deve. 41. e stargli … Orse: e accompagnarlo sempre come la stella Boote (Artofilace) accompagna la costellazione dell’Orsa minore. 42. quïete: pace.

43. cura: occupazione. 44. sì che … Lete: così da dover dimenticare (il Lete è il fiume dell’oblio) i miei studi prediletti. 45. Il qual … cultura: il quale studio, se non dà alcun nutrimento al corpo, lo dà alla mente

con cibo così nobile, che merita di essere coltivato. 46. Fa che: fa’ sì che. 47. la povertà meno m’incresca: meno di quanto succede normalmente io provi rincrescimento per la mia povertà. 48. che … esca: che perda la mia libertà per amore della ricchezza. 49. brami: desideri ardentemente. 50. perché … chiami: perché il cardinale accordi la sua predilezione ad Andrea Marone o a Celio Calcagnini.

Analisi del testo

> La condizione dell’intellettuale

L’amarezza del poeta

La mancanza di libertà

L’ideale dell’“ozio”

Il passo è interessante perché getta luce sulla condizione subalterna in cui era tenuto l’intellettuale Ariosto nella provinciale corte estense. L’amarezza del poeta non nasce però solo dal fatto di essere ridotto a mansioni pratiche, quasi servili («e di poeta cavallar mi feo», dirà ancora nella Satira VI, v. 238), ma soprattutto dal fatto che non viene considerata come merita la sua attività intellettuale. Di essa Ariosto, formatosi in clima umanistico, ha una concezione altissima: di qui deriva il conflitto con il suo signore, che, tutto preso dalle sue preoccupazioni politiche, privilegia altre attività più pratiche e prosaiche, e verso la letteratura ostenta un atteggiamento sprezzante, tanto da scendere al livello di battute volgari come quella sui versi da «mandare al Culiseo per lo sugello» (v. 96). Per questo Ariosto, rivolgendosi a un altro poeta, riprende polemicamente l’immagine greve, che con la sua volgarità rivela tutta l’amarezza del poeta («tuoi versi getta con la lira in un cesso», vv. 115-116).

> Il tentativo di salvaguardare la propria autonomia

Un altro motivo di amarezza è che il servizio di corte compromette la libertà dell’intellettuale, la sua possibilità di dedicarsi agli studi, che per lui sono il valore più alto, un’autentica ragione di vita. Per questo il poeta ha compiuto il gesto di rottura e si è rifiutato di seguire il suo signore, per salvaguardare la propria autonomia, anche a costo della povertà, di cui peraltro dichiara di non aver paura. Il suo ideale è la quiete, cioè l’“ozio”, il tempo libero da dedicare all’attività poetica, con l’animo sgombro da preoccupazioni e da fastidi provocati dal servizio del duca, che lo costringe ad attività umilianti per la sua dignità personale e a missioni politiche faticose, oltre che pericolose. Sono qui toccati alcuni temi centrali delle Satire, che vedremo più ampiamente sviluppati nella Satira III ( T2, p. 238). 237

L’età del Rinascimento

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Quale considerazione ha il cardinale dell’attività poeta svolta dall’autore (vv. 94-114)? Quali sono, a suo av-

viso, le mansioni più utili da svolgere? > 2. Quali consigli rivolge Ariosto al poeta bresciano Andrea Marone? Che cosa gli dice a proposito della libertà? > 3. Spiega l’espressione «che li alti gesti e tuo valor cantai» (v. 141). A che cosa si riferisce Ariosto? > 4. Quali sono le abilità pratiche che il poeta possiede? Quando sarebbe stato meglio che egli fosse vissuto? Perché? AnALizzAre

> 5. Individua tutti gli interlocutori ai quali la voce narrante si rivolge in questi versi. > 6. Stile Descrivi il tono e lo stile della satira rilevando l’uso ironico e prosastico di alcune espressioni. Approfondire e inTerpreTAre

> 7.

Scrivere Qual è il modello di vita che Ariosto predilige (vv. 157-171)? Quale opinione ha della cultura e quale valore attribuisce alla libertà personale? Rispondi in un testo di circa 10 righe (500 caratteri). > 8. esporre oralmente Dopo aver individuato tutti i punti della satira in cui Ariosto parla di poesie, rifletti sulla concezione della letteratura che l’autore esprime (max 2 minuti).

T2

L’intellettuale cortigiano rivendica la sua autonomia dalle Satire, III, vv. 1-72

Temi chiave

• il tono bonario e quotidiano della conversazione

• l’insofferenza per la vita di corte • la realizzazione dell’uomo nella sfera privata

Dopo aver rifiutato di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria, • la povertà come prezzo della “libertà” Ariosto dovette cercare un’altra sistemazione ed entrò al servizio del duca Alfonso I, nell’aprile del 1518. Questa satira deve risalire a data di poco posteriore. È indirizzata ad Annibale Malaguzzi, cugino del poeta, e, sotto forma di lettera, risponde alla sua richiesta, se il poeta sia soddisfatto di essere passato dal servizio del cardinale a quello del duca. Riportiamo la parte iniziale della satira.

> Metro: terzine dantesche a rime incatenate, ABA, BCB ecc.

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1. Annibale: Annibale Malaguzzi, il cugino grazie ai cui buoni uffici il poeta entrò al servizio del duca Alfonso. 2. la fo: me la passo. 3. più grave … some: più appesantito o più leggero dopo aver mutato servizio. L’uso del sostantivo soma sta ad indicare che, pur

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Poi che, Annibale1, intendere vuoi come la fo2 col duca Alfonso, e s’io mi sento più grave o men de le mutate some3; perché, s’anco4 di questo mi lamento, tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto5, o ch’io son di natura un rozzon lento6: senza molto pensar, dirò di botto7 che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, e fòra8 meglio a nessuno esser sotto. Dimmi or c’ho rotto il dosso e, se ’l ti piace, dimmi ch’io sia una rózza9, e dimmi peggio: avendo mutato signore, per Ariosto servire è sempre un peso gravoso che ostacola i suoi studi, a cui sottrae tempo. 4. anco: anche. 5. c’ho … rotto: “rompere il guidalesco” equivale a far scoppiare la bolla provocata dalla piaga (guidalesco, appunto) che si for-

ma per lo strofinamento dei finimenti sulla pelle dell’animale. Ciò provoca una reazione indocile nella bestia da soma. 6. rozzon lento: un ronzino senza fiato. 7. di botto: senza pensarci su. 8. fòra: sarebbe. 9. una rózza: un ronzino.

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insomma esser non so se non verace. Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio Daria mi partorì, facevo il giuoco che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio10, sì che di me sol fosse questo poco ne lo qual dieci tra frati e serocchie è bisognato che tutti abbian luoco11, la pazzia non avrei de le ranocchie fatta già mai12, d’ir procacciando a cui scoprirmi il capo e piegar le ginocchie13. Ma poi che figliolo unico non fui, né mai fu troppo a’ miei Mercurio amico14, e viver son sforzato15 a spese altrui; meglio è s’appresso il Duca mi nutrico16, che andare a questo e a quel de l’umil volgo accattandomi il pan come mendico17. So ben che dal parer dei più mi tolgo18 che ’l stare in corte stimano grandezza19, ch’io pel contrario a servitù rivolgo20. Stiaci volentier dunque chi la apprezza; fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figliuolo di Maia21 vorrà usarmi gentilezza. Non si adatta una sella o un basto22 solo ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia, all’altro stringe e preme e gli dà duolo23. Mal può durar il rosignuolo in gabbia, più vi sta il gardelino, e più il fanello24; la rondine in un dì vi mor di rabbia. Chi brama onor di sprone o di capello25, serva re, duca, cardinale o papa; io no, che poco curo questo e quello. In casa mia mi sa meglio26 una rapa ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, e mondo27, e spargo poi di acetto e sapa28, che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio29; e così sotto una vil coltre, come di seta o d’oro, ben mi corco30.

10. Che … seggio: se avessi fatto a mio padre (Niccolò), quando a Reggio mi partorì Daria (Daria Malaguzzi), lo stesso scherzo che in cielo (ne l’alto seggio) fece Saturno a Urano, suo padre; Saturno castrò il padre per evitare che nascessero altri fratelli. 11. sì che … luoco: sì che fosse solo mio questo piccolo patrimonio, dal quale è stato necessario che dieci tra fratelli e sorelle (serocchie) ricavassero da vivere (letteralmente: nel quale trovassero posto). 12. la pazzia … mai: allude alla favola in cui Esopo racconta del gesto sconsiderato delle rane, che andarono dal dio Giove per ottenere un re, ed ebbero un serpente che le divorò tutte (I, 2). 13. d’ir … ginocchie: di andare a procurar-

mi una persona al cospetto della quale levarmi il cappello e genuflettermi (in segno di obbedienza). 14. né mai … amico: Mercurio, dio dei traffici e delle ricchezze, non favorì mai troppo la famiglia di Ariosto. 15. sforzato: costretto. 16. mi nutrico: mi nutro (dantismo, Purgatorio, XVI, v. 78). 17. accattandomi … mendico: mendicando il pane come un accattone. 18. mi tolgo: mi allontano. 19. grandezza: motivo di prestigio. 20. ch’io … rivolgo: scelta che io, al contrario, considero servile. 21. figliuolo di Maia: Mercurio (vedi nota 14). 22. basto: sella in legno piuttosto ampia, su

cui si pone il carico. 23. duolo: dolore. 24. fanello: piccolo uccello simile al cardellino (gardellino). 25. di sprone o di capello: cavallereschi o ecclesiastici. 26. mi sa meglio: mi piace di più. 27. s’un stecco … mondo: la infilzo con uno stecco e la sbuccio. 28. acetto e sapa: aceto e mostarda (composta di aceto e mosto cotto). 29. tordo … selvaggio: pietanze prelibate a base di cacciagione; il porco selvaggio è il cinghiale. 30. sotto … corco: mi corico bene sotto una coperta (coltre) da poco prezzo (vil) come se fosse di seta o d’oro.

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E più mi piace di posar le poltre membra, che di vantarle che alli Sciti sien state, agli Indi, a li Etiopi, et oltre31. Degli uomini son varii li appetiti32: a chi piace la chierca, a chi la spada33, a chi la patria, a chi li strani34 liti. Chi vuole andare a torno35, a torno vada: vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; a me piace abitar la mia contrada. Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna, quel monte che divide e quel che serra Italia36, e un mare e l’altro37 che la bagna. Questo mi basta; il resto de la terra, senza mai pagar l’oste, andrò cercando con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra38; e tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte verrò, più che sui legni, volteggiando39. Il servigio del Duca, da ogni parte che ci sia buona, più mi piace in questa: che dal nido natio raro si parte40. Per questo i studi miei41 poco molesta, né mi toglie onde mai tutto partire non posso, perché il cor sempre ci resta42.

31. E più … oltre: e preferisco riposare le mie membra pigre (poltre è dantismo) che vantarmi di essere stato in Russia, India, Etiopia e oltre. 32. appetiti: desideri (è un tema oraziano). 33. a chi … spada: c’è chi predilige la carriera ecclesiastica e chi quella militare (la chierca è la tonsura). 34. strani: stranieri. 35. a torno: in giro. 36. quel monte … Italia: Appennini e Alpi.

37. un mare e l’altro: Tirreno e Adriatico. 38. il resto … guerra: visiterò il resto del mondo leggendo i libri di geografia, seguendo i confini del mondo fissati da Tolomeo sull’atlante, senza mai bisogno di pagare i conti per vitto e alloggio e senza bisogno di sapere se i luoghi attraversano un periodo di pace o di guerra (Tolomeo è il famoso geografo antico, II secolo a.C.). 39. e tutto … volteggiando: e andrò percorrendo tutti i mari, senza dover far voti a Dio

durante le tempeste, più sicuro sulle carte geografiche che sulle navi (legni, metonimia). 40. Il servigio … si parte: stare alle dipendenze del duca, oltre a tutti i vantaggi che può offrire, ne ha uno grandissimo, allontanarsi di rado da Ferrara. 41. i studi miei: i miei interessi. 42. né mi toglie … resta: né mi allontana da quel luogo dal quale non posso mai allontanarmi del tutto perché in esso lascio sempre il mio cuore (Ferrara).

Pesare le parole Strani (v. 54)

> Qui vale “stranieri”. Viene dal latino extràneum, da ex-

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tra, “fuori”, con caduta della /e/ iniziale. Strano ha quindi la stessa origine di estraneo, oltre che di straniero (che passa attraverso l’antico francese estrangier). Il legame etimologico fra le tre parole suggerisce una riflessione: chi è estraneo, straniero, chi non appartiene alla stessa famiglia, allo stesso gruppo o alla stessa nazione appare anche strano, diverso dal consueto, dal normale, e per questo suscita facilmente inquietudine, diffidenza, sospetto, spesso paura e odio. Dalla stessa radice viene estraniarsi, “rendersi estraneo” (es. si è estraniato dalla classe); estraniarsi dalla realtà è fuggirla chiudendosi nella propria interiori-

tà o nella solitudine. Lo straniamento è un artificio letterario individuato dal gruppo dei formalisti russi negli anni Venti del Novecento, che consiste nel presentare una realtà normale e nota attraverso un punto di vista estraneo, abnorme, in modo da farla apparire strana, in una luce del tutto inedita (ad es. nel racconto di Tolstoj Cholstomer tutto viene presentato dalla prospettiva di un cavallo). Il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956) ha teorizzato l’effetto di straniamento, un modo di recitare degli attori che si distanziano dai personaggi, per impedire agli spettatori di immedesimarsi e indurli così ad un atteggiamento critico.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Analisi del testo

> La struttura del testo

La struttura dialogica

L’andamento divagante

Risalta anche solo dalla lettura di questo brano del testo la struttura tipica della satira ariostesca. La forma della lettera, come ha indicato Cesare Segre, le conferisce la forma del dialogo, con continue apostrofi del poeta al suo destinatario, ma anche a dei “tu” immaginari, che propongono di rimando dubbi, interrogativi, obiezioni. È naturalmente tutto un dialogo fittizio: Ariosto, in realtà, dialoga con se stesso, in una pacata ma rigorosa disamina delle proprie inclinazioni, dei propri limiti. Nasce di qui, da questo carattere di chiacchierata alla buona, l’andamento divagante del testo, il passaggio come casuale da un argomento all’altro.

> Il linguaggio La prosaicità del linguaggio

La rivendicazione dell’indipendenza personale

La realizzazione dell’uomo nella sfera privata

L’elogio della vita semplice

La saggia tolleranza

All’impianto oraziano della svagata e libera conversazione si adegua anche il linguaggio. Pur essendo in versi, il discorso mira a riprodurre la prosaicità del parlare quotidiano. Vi sono termini molto comuni, immagini popolaresche (il «guidalesco rotto»); il verso non è musicale e scorrevole, ma riflette l’andamento piatto, a volte spezzato e faticoso, del parlato. Si tratta però pur sempre, per quanto prosaica e quotidiana, di conversazione tra persone dotte: e quindi nel discorso cadono, con perfetta naturalezza, riferimenti alla mitologia (Saturno, Mercurio figlio di Maia) o alla cultura antica (Tolomeo), che, nel loro tono scherzoso, testimoniano un’assidua consuetudine con un certo patrimonio culturale.

> Autonomia dell’intellettuale e polemica contro la corte

Nonostante il suo carattere apparentemente divagante, il discorso si concentra in realtà intorno ad alcuni nuclei tematici essenziali: in primo luogo la ferma rivendicazione dell’indipendenza personale come valore supremo, che non può essere posposto a nessun altro. Questo senso geloso, orgoglioso della dignità e dell’autonomia dell’individuo, che deve essere libero di autodeterminarsi e realizzarsi come crede, è uno dei grandi princìpi della mentalità moderna, in opposizione alla concezione feudale della dipendenza personale, che era propria del Medioevo ma sopravviveva in buona misura nella civiltà di corte, nei rapporti tra cortigiano e signore. Di questo fondamentale valore Ariosto si propone come uno dei più lucidi e fermi propugnatori. Ne scaturisce un atteggiamento di insofferenza e rifiuto per quell’ambiente di corte, che tende per la sua stessa essenza a limitare l’indipendenza dell’individuo, sottomettendolo in tutto alla volontà e ai favori del principe. Per questo Ariosto polemicamente si contrappone a coloro che ritengono grande motivo d’onore far parte della corte. Secondo il poeta l’uomo non si realizza compiutamente nella vita cortigiana, ma nella sfera privata, nella vita domestica, familiare. Solo nell’ambito privato l’uomo è veramente libero, interiormente ed esteriormente, mentre la vita del cortigiano non è che «servitù» (v. 30).

> L’atteggiamento etico

Ariosto sa bene che la rivendicazione dell’autonomia individuale rispetto ai condizionamenti della corte ha un prezzo: la povertà. Ma è disposto a pagarlo, e afferma risoluto che preferisce una vita semplice, ai limiti dell’indigenza, ad una vita sontuosa, ma priva della libertà. In questo riaffiora di nuovo visibilmente il modello oraziano, l’ideale di una vita povera ma indipendente, che ritorna di continuo nelle pagine dello scrittore “cortigiano” antico, il quale, pur essendo legato a Mecenate e ad Augusto, era pronto a restituire ogni beneficio ricevuto pur di salvaguardare la propria autonomia personale. Analogamente, in sintonia con lo spirito oraziano, nell’affermare il suo ideale Ariosto non assume atteggiamenti dogmatici ed assoluti, non vuole imporre i suoi princìpi a 241

L’età del Rinascimento

nessuno: anzi, è propria della sua etica una disposizione aperta, saggiamente tollerante nei confronti delle varie manifestazioni della natura umana, delle diverse opinioni, dei diversi gusti e desideri degli uomini. Questa accettazione aperta della realtà nella sua molteplicità è un aspetto che caratterizza anche il Furioso. L’esaltazione della vita domestica

Gli spazi dell’immaginazione

La satira, chiave del Furioso

> Vita sedentaria e attività intellettuale

Il rifiuto della vita cortigiana e la convinzione che la vera realizzazione dell’uomo si collochi nella sfera del privato portano Ariosto a respingere la vita attiva, resa frenetica e convulsa da viaggi, affari e preoccupazioni, e ad esaltare una vita puramente sedentaria, confinata nel ristretto spazio delle mura domestiche. Ma questa prospettiva, che potrebbe apparire mediocre e limitata, è riscattata dalla cultura: la vita domestica quieta ed appartata è la più propizia alla meditazione e agli studi. La sfera privata, oltre ad essere il baluardo dell’autonomia individuale, si presenta anche come difesa dell’attività intellettuale. L’ideale prosaicamente “borghese” di tranquillità familiare si fonde con l’ideale umanistico e classico dell’otium, indispensabile per coltivare l’intelletto e la poesia. Ma, come il poeta confessa, la vita sedentaria, oltre che condizione necessaria per gli studi, è anche l’occasione per lo sbrigliarsi della fantasia: ai vasti spazi del mondo, inquietanti e densi di pericoli, si contrappongono gli spazi egualmente vasti dell’immaginazione, dei viaggi sulle carte geografiche. Sembra qui di cogliere un’eco della sterminata e varia geografia su cui si estende l’azione del poema, della sua dimensione fantastica e meravigliosa. Presentando da un lato atteggiamenti lucidamente riflessivi sulla realtà sociale ed etica, e suggerendo dall’altro lato questa dimensione fantastica, la satira si offre quindi come eccellente chiave per penetrare nell’universo del Furioso: in cui, appunto, si dispiega liberamente l’immaginazione, nell’inseguire le infinite avventure di donne e cavalieri, ma in cui le vicende romanzesche sono sempre anche supporto della riflessione sulla realtà, nutrita di vigile curiosità conoscitiva.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Che cosa risponde il poeta nei versi 67-72 al suo destinatario? > 2. Quale situazione personale ha spinto Ariosto a mettersi al servizio dei signori? AnAlizzAre

> 3. > 4. > 5.

Qual è la struttura del componimento? Spiega il senso delle metafore contenute nei versi 34-42. Stile Riconosci nel testo almeno un esempio di ciascuno dei seguenti procedimenti espressivi, tipici dell’impostazione dialogica. a) Apostrofe. b) Obiezione di un interlocutore fittizio. c) Interrogativa retorica (precisa la risposta implicita). > 6. lessico Individua i vocaboli che denotano realtà basse e quotidiane. Stile Stile

Approfondire e interpretAre

> 7.

Scrivere In riferimento ai versi 49-51 della satira, definisci in circa 12 righe (600 caratteri) l’ideale ariostesco della vita semplice e tranquilla.

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Incontro con l’Opera L’Orlando furioso

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La continuazione dell’Orlando innamorato

Le edizioni del 1516 e 1521

Testo critico G. Contini

L’edizione del 1532

La revisione linguistica secondo i canoni bembeschi

Le aggiunte

Un clima più cupo

Le fasi della composizione

Videolezione

Interrotta l’Obizzeide, poema epico che aveva l’intento di esaltare la casa d’Este, intorno al 1505 Ariosto mise mano alla composizione di un poema cavalleresco, l’Orlando furioso. La materia cavalleresca era molto amata nella corte ferrarese e aveva già trovato espressione, pochi decenni prima, in un capolavoro, l’Orlando innamorato di Boiardo ( L’età umanistica, cap. 3, TT2-3, pp. 83 e ss.), che aveva incontrato grande successo. Nella sua opera Ariosto si collega direttamente a quella boiardesca, riprendendo la narrazione esattamente al punto in cui il poeta l’aveva interrotta e proseguendola con nuove avventure. Una prima redazione dell’Orlando furioso, in 40 canti, era terminata nell’ottobre del 1515, e vide la luce a Ferrara nel 1516. Appena uscita questa edizione, il poeta si mise subito al lavoro per correggerla e limarla. Una seconda edizione uscì nel 1521, senza cambiamenti di grande rilievo, con qualche aggiustamento, qualche taglio, e con una complessiva revisione linguistica. Già in queste prime due edizioni il poema ebbe un grande successo, testimoniato dalle numerose ristampe, ben 17, che si succedettero fra il 1517 e il 1531. Insoddisfatto, tuttavia, Ariosto si accinse a una nuova e più radicale revisione dell’opera. Una terza edizione del poema apparve infine nel 1532. La revisione fu in primo luogo linguistica: nelle prime due edizioni il poeta aveva usato quella lingua cortigiana che era stata propria anche di Boiardo, basata fondamentalmente sul toscano letterario ma con numerose coloriture padane e latineggianti; nell’ultima redazione adeguò invece la lingua ai canoni classicistici che erano stati autorevolmente fissati da Bembo nel 1525 con le Prose della volgar lingua: il modello era una lingua pura e levigatissima, priva di ogni ibridismo locale, che si rifaceva rigorosamente al fiorentino dei “classici” trecenteschi. Questa revisione linguistica non è solo un fatto esteriormente formale. La prima edizione rivelava un Ariosto ancora radicato in una tradizione cortigiana municipale, prettamente quattrocentesca; l’edizione del 1532, invece, vede ormai un poeta pienamente inserito in un orizzonte letterario nazionale, secondo la direzione assunta dalla cultura del primo Cinquecento. La revisione però riguarda anche i contenuti: vi sono aggiunte cospicue, di interi episodi, come quello di Olimpia (canti IX-XI), della Rocca di Tristano (XXXII-XXXIII), di Marganorre (XXXVII), di Ruggiero e Leone (XLIV-XLVI). Più fitti inoltre sono i riferimenti a fatti della storia contemporanea, che in quegli anni vedeva un precipitare inesorabile della crisi italiana, a causa delle guerre che le potenze straniere combattevano sulla penisola. A causa di questi ampliamenti il numero dei canti fu elevato a 46. L’inserzione di nuovi episodi determinò lo spostamento di equilibri strutturali, creando nuove simmetrie (ad esempio l’episodio del tiranno Marganorre, feroce persecutore delle donne, viene a far da contrappeso a quello delle femmine omicide). Non solo, ma le inserzioni vengono a determinare un clima diverso, più cupo, permeato di pessimismo sulla Fortuna e l’azione umana, e caratterizzato da tematiche negative, quali il tradimento, la violenza, la tirannide, in cui si possono cogliere i riflessi del progredire della crisi italiana fra il 1516 e il 1532. 243

L’età del Rinascimento I Cinque canti

In questo clima rientrano anche i Cinque canti. Essi furono scritti presumibilmente intorno al 1518-19, con l’intenzione di inserirli nella seconda edizione del poema. In realtà Ariosto, pur lavorandovi ancora in anni successivi, rinunziò all’inserzione e li lasciò inediti. Probabilmente si rese conto che l’immissione di un blocco narrativo così ampio avrebbe alterato irreparabilmente l’equilibrio compositivo dell’opera e ne avrebbe compromesso la fisionomia e lo spirito. I Cinque canti furono poi pubblicati postumi dal figlio Virginio, in appendice a un’edizione veneziana del Furioso (1545). In questi nuovi canti ha largo spazio il motivo del tradimento del malvagio Gano di Maganza, che fa nascere la discordia tra Rinaldo e Orlando; vi è inoltre la fantastica avventura di Ruggiero che viene inghiottito da una balena, nel cui ventre ritrova Astolfo e altri cavalieri.

La materia del poema La fusione tra materia carolingia e arturiana

Mappa interattiva

Continuando il poema interrotto da Boiardo, Ariosto riprende la materia cavalleresca che già aveva avuto tanta fortuna sul suolo italiano, dai volgarizzamenti duecenteschi dei romanzi francesi ai cantari tre e quattrocenteschi. Anche nel Furioso si opera quella fusione, già consacrata da Boiardo, tra materia carolingia e arturiana. I personaggi, Carlo Magno, Orlando, Rinaldo, Astolfo, sono quelli della tradizione carolingia, ma grande rilievo hanno sia il motivo amoroso sia quello fiabesco e meraviglioso, tipico della materia di Bretagna. Il poeta porta poi alle estreme conseguenze gli effetti dell’immissione del tema romanzesco dell’amore nell’austera epica carolingia, immissione già audacemente sperimentata da Boiardo: se questi produceva lo choc e la sorpresa del saggio paladino che cade preda d’amore, Ariosto per amore fa divenire Orlando addirittura pazzo.

Visualizzare i concetti

L e s u g g e s t i o n i c u l t u r a l i d e l l ’O r l a n d o f u r i o s o materia classica (Virgilio, Ovidio ecc.)

materia bretone

materia carolingia

Episodi, rimandi mitologici ecc.

Amore, avventura, “meraviglioso”

Ambientazione “storica”, materia d’armi

argomento

Orlando innamorato di Boiardo

ORLANDO FURIOSO

lingua

244

forma metrica

Fiorentino trecentesco

Ottave di endecasillabi

Prose della volgar lingua di Bembo

Cantari poesia cavalleresca italiana

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto Le reminiscenze classiche

L’originalità del poema

Alla materia romanza si aggiungono poi infinite reminiscenze della letteratura classica, di Virgilio (si pensi solo all’episodio di Cloridano e Medoro, che è la ripresa di quello di Eurialo e Niso nell’Eneide), di Ovidio e di tanti altri autori antichi: e può trattarsi di interi episodi ricalcati, di rimandi mitologici, o di semplici riecheggiamenti di versi o di clausole stilistiche. In questo, Ariosto si rivela poeta del pieno Rinascimento e utilizza la sua formazione umanistica: la materia medievale e romanza di «armi» ed «amori» si riveste di forme squisitamente classiche. Ma il fatto che per tanti episodi, personaggi, motivi si possa risalire ad una fonte, classica o romanza, non deve indurre ingenuamente a concludere che l’opera ariostesca manchi di originalità: le «fonti» sono solo spunti, suggerimenti iniziali, che poi Ariosto assimila alla sua visione della vita ed amalgama nell’organismo del poema, che è profondamente originale.

Il pubblico

Il pubblico cortigiano

Un pubblico nazionale

Come il poeta stesso dichiara in una nota pagina, una supplica del 1528 al doge di Venezia per ottenere una stampa «con privilegio», cioè protetta da edizioni non autorizzate, l’opera è composta «per spasso e recreatione de’ Signori e persone de animo gentile», fatta di «cose piacevole e dilettevole di arme et amor», e per questo merita di essere pubblicata «per solazzo et a piacer d’ognuno». Il poema è dunque pensato come opera di intrattenimento, indirizzata ad un pubblico di cortigiani e persone colte. Esso presenta ancora i caratteri del racconto rivolto a viva voce ad un pubblico fisicamente presente dinanzi al poeta, carattere che era proprio di tutta la tradizione romanzesca. In realtà quella della comunicazione orale è ormai solo una convenzione: il Furioso è opera già interamente pensata per la diffusione attraverso la stampa. Ciò significava che il pubblico non era più costituito in primo luogo dalla cerchia ristretta dell’ambiente in cui l’opera era nata, come era proprio di quasi tutte le opere che erano state pubblicate prima dell’invenzione della stampa, destinate alla limitatissima circolazione manoscritta, ma era ormai il pubblico nazionale, formato dall’insieme delle persone colte di tutti i centri della penisola: una corte “ideale” dunque, non solo più l’ambito ristretto della corte ferrarese. Se questo pubblico si appassionava ancora alle vicende cavalleresche di armi e di amori, il suo gusto era ormai educato ai canoni del classicismo: proprio in consonanza con i gusti di questo pubblico, allora, oltre che in rispondenza ai propri ideali poetici, Ariosto doveva tendere a dare forma classica, sia nella lingua sia nei riferimenti alla letteratura antica, alla materia cavalleresca.

L’organizzazione dell’intreccio

L’entrelacement

Le novelle

Gli esordi

Come già nell’Orlando innamorato, anche nel Furioso si intrecciano le vicende di numerosissimi eroi; Ariosto riprende l’espediente boiardesco di interrompere improvvisamente la narrazione, in un momento cruciale, per passare a narrare la vicenda di un altro personaggio. Nel Furioso anzi questo procedimento diventa sistematico, dando luogo ad un calibratissimo congegno narrativo: il narratore porta avanti in parallelo il racconto di più vicende contemporaneamente, troncandole e riprendendole, conducendo numerosi fili narrativi ad intersecarsi tra di loro, per dividersi poi nuovamente. Questo procedimento è stato definito dalla critica entrelacement. Nel tessuto narrativo sono inoltre inserite delle novelle, raccontate da vari personaggi: si tratta dunque di racconti nel racconto, che hanno con la vicenda generale un rapporto simile a quello delle novelle del Decameron con la “cornice”. Oltre alle avventure cavalleresche, vi sono poi episodi in cui si profetizzano eventi storici futuri (ad esempio la maga Melissa nella grotta di Merlino indica a Bradamante tutti i discendenti della casa d’Este), offrendo così al poeta lo spunto per introdurre celebrazioni encomiastiche dei suoi signori, ma anche per alludere ad eventi politici e militari contemporanei. Infine, ogni canto presenta un esordio in cui la voce narrante, prima di riprendere le fila dell’intreccio, traendo spunto dai casi dei personaggi si abbandona a considerazioni 245

L’età del Rinascimento

I principali fili narrativi

morali sul comportamento umano in generale, aprendo spesso, con un modulo che ricorda le Satire, un dialogo con gli ipotetici destinatari. Tra gli innumerevoli fili narrativi che compongono l’intreccio del Furioso, l’autore stesso, nel Proemio ( T3, p. 259), ne indica tre principali: 1. la guerra mossa dal re africano Agramante a Carlo Magno sul suolo di Francia, per vendicare la morte del proprio padre Troiano; 2. l’amore di Orlando per Angelica e l’inesausta quanto vana ricerca della donna amata, che si risolve nella scoperta del suo tradimento e dello sposalizio con Medoro, nella follia dell’eroe e nel suo finale rinsavimento, grazie ad Astolfo che ha ricuperato il suo senno con un viaggio sulla Luna; 3. le vicende di Ruggiero e Bradamante, divisi da infinite peripezie (ed anche dagli sviamenti morali del giovane), che si concludono con la conversione di Ruggiero al cristianesimo e con le nozze, da cui avrà origine la casa estense. Però uno spazio molto ampio è occupato dalle avventure di altri eroi, Rinaldo, Astolfo, Grifone, Aquilante, Marfisa, Sacripante, Gradasso, Rodomonte, Mandricardo ecc. La guerra tra cristiani e Mori costituisce il nucleo centrale dell’intreccio, intorno a cui ruotano tutte le altre vicende: da Parigi assediata si allontanano i vari personaggi, o ad essa convergono. Tuttavia non si può dire che il poema abbia un vero centro: prevale la spinta centrifuga, il dipartirsi a raggiera di innumerevoli personaggi in tutte le direzioni, su uno scenario geografico vastissimo. Il centro è costituito di volta in volta dal personaggio che in quel momento è il protagonista dell’azione.

L’intreccio dell’Orlando furioso

La fuga di Angelica

La ricerca di Bradamante

Rinaldo in Scozia Ruggiero e Alcina

246

Alla vigilia della battaglia tra i Mori che assediano Parigi ed i cristiani, Carlo Magno affida Angelica al vecchio Namo di Baviera, per evitare la contesa tra Orlando e Rinaldo che ne sono entrambi innamorati, e la promette a chi si dimostrerà più valoroso in battaglia. I cristiani sono messi in rotta, e Angelica ne approfitta per fuggire. Viene inseguita da Rinaldo e Ferraù, poi incontra Sacripante, dal quale pensa di farsi proteggere nel viaggio di ritorno in patria, nel Catai; ma Sacripante viene scavalcato da Bradamante, poi è sfidato a duello da Rinaldo. Angelica ne approfitta per fuggire ancora, ed incontra un vecchio eremita; questi, con un incantesimo, invia Rinaldo a Parigi; qui il paladino viene sottratto alla ricerca della donna amata e mandato da re Carlo in Inghilterra, a cercare aiuti. Bradamante, che cerca l’amato Ruggiero, apprende da Pinabello che questi è tenuto prigioniero in un castello fatato sui Pirenei dal mago Atlante, che vuole sottrarlo così al suo destino di morte precoce. Durante il viaggio il perfido Pinabello scopre che Bradamante appartiene alla casata dei Chiaramontesi, nemica di quella di Maganza, a cui egli appartiene: allora a tradimento getta la fanciulla in una profonda caverna. Qui però Bradamante è salvata dalla maga Melissa, che la guida alla tomba di Merlino, dove la guerriera viene a conoscere tutta la sua illustre discendenza, la casata estense. Melissa informa Bradamante che, per poter liberare Ruggiero, dovrà impadronirsi dell’anello magico di Angelica, ora in possesso del nano Brunello; l’anello infatti ha un doppio potere: portandolo al dito dissolve gli incantesimi, mettendolo in bocca rende invisibili. Mediante l’anello Bradamante riesce a sconfiggere il mago Atlante, che cavalca l’ippogrifo, un mostro alato mezzo cavallo e mezzo grifone, ed ha uno scudo magico che abbagliando lascia tramortiti. Ruggiero però, appena liberato, sale sull’ippogrifo e questo lo porta lontano. Rinaldo, giunto in Scozia, salva la figlia del re, Ginevra, che sta per essere messa a morte a causa di un’accusa ingiusta, mossale dal perfido Polinesso. Ruggiero, in groppa all’ippogrifo, giunge all’isola della maga Alcina, nelle estreme regioni orientali. Sedotto dalle arti della maga, Ruggiero dimentica Bradamante e resta prigioniero nell’isola. In aiuto a Bradamante interviene di nuovo la buona maga Melissa, che raggiunge Ruggiero e, con l’anello magico, gli fa vedere gli incantesimi della maga, che appare ai suoi occhi

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Testi Ruggiero e Alcina dall’Orlando furioso

Olimpia

Immagine interattiva Angelica, Ruggiero e il mostro marino

Il palazzo di Atlante

L’assalto di Parigi Astolfo

Cloridano e Medoro

La pazzia di Orlando

qual è realmente, una laida megera. Liberati tutti gli altri cavalieri prigionieri di Alcina, tra cui Astolfo, Ruggiero raggiunge il regno di Logistilla, che rappresenta la virtù, e mette in rotta l’armata di Alcina. Rinaldo intanto ottiene dai re di Inghilterra e di Scozia gli aiuti sperati. Angelica viene rapita dagli abitanti dell’isola di Ebuda, che la vogliono offrire in pasto ad un mostro marino. Orlando, in seguito ad un sogno, parte da Parigi alla ricerca di Angelica, seguito dal fedele amico Brandimarte. A sua volta la sposa di questi, dopo un mese, parte alla sua ricerca. Orlando salva Olimpia dagli intrighi di Cimosco, re della Frigia, e libera il suo promesso sposo, Bireno. L’uomo però si innamora della figlia di Cimosco, sua prigioniera, e abbandona Olimpia su una spiaggia deserta. Intanto Ruggiero, che ha appreso da Logistilla a mettere le redini all’ippogrifo, giunge in Occidente, salva Angelica dall’orca ed è affascinato dalla sua bellezza; ma la fanciulla, che è tornata in possesso del suo anello fatato, si dilegua. Orlando giunge anch’egli all’isola di Ebuda e salva Olimpia da una sorte analoga a quella di Angelica. Proseguendo nella ricerca della donna amata, resta prigioniero in un palazzo fatato di Atlante, insieme a Ruggiero, Gradasso, Ferraù, Brandimarte: tutti costoro, ingannati dal mago, inseguono nel palazzo vane immagini degli oggetti del loro desiderio. Vi giunge anche Angelica, che libera Sacripante per farsi da lui scortare, ma per errore anche Orlando e Ferraù la seguono. Mentre questi combattono, Angelica si dilegua portando via l’elmo di Orlando. Il paladino libera la pagana Isabella, che, innamorata del cristiano Zerbino, è stata rapita dai briganti mentre cercava di raggiungerlo. Nel palazzo fatato di Atlante cade prigioniera anche Bradamante, sempre alla ricerca di Ruggiero. Intanto i Mori scatenano l’assalto a Parigi, e il re saraceno Rodomonte riesce a penetrare nella città, compiendo imprese straordinarie. Astolfo giunge in Egitto, dove uccide il mostro Orrilo, che ha la prerogativa di ricomporsi ogni volta che viene tagliato a pezzi. Poi, con Grifone e Aquilante, ha numerose avventure, tra cui quella delle femmine omicide, che uccidono tutti gli uomini che capitano nel loro regno. Qui al gruppo si unisce Sansonetto. A Parigi intanto Rodomonte, stretto da ogni parte, si salva gettandosi nel fiume. A Damasco, in Siria, dopo le loro varie peripezie si riuniscono Astolfo, Grifone, Aquilante, Sansonetto, e ad essi si aggiunge la guerriera saracena Marfisa. Tutto il gruppo fa vela verso la Francia. In soccorso a Parigi è giunto Rinaldo con le truppe inglesi e scozzesi, e con l’aiuto dell’arcangelo Michele. Il paladino uccide il re Dardinello; nella notte due suoi fedeli, Cloridano e Medoro, cercano sul campo di battaglia il corpo del loro sovrano, ma vengono sorpresi dai cristiani; Cloridano viene ucciso e Medoro resta gravemente ferito sul terreno. Viene trovato da Angelica, che si innamora di lui, anche se è un umile fante; i due si uniscono in matrimonio e partono per raggiungere il Catai. Astolfo, giunto in Francia, dissolve l’incantesimo del palazzo di Atlante grazie ad un libro donatogli da Logistilla. Ruggiero e Bradamante, finalmente riunitisi, partono per Vallombrosa, dove Ruggiero vuole farsi battezzare. Ma, in seguito a varie vicende, i due giovani sono di nuovo separati. Orlando intanto ricongiunge Isabella a Zerbino e insegue il re tartaro Mandricardo. Per caso capita sul luogo degli amori di Angelica e Medoro e vede incisi i loro nomi ovunque. Dal pastore che li aveva ospitati apprende la loro storia d’amore, e per il dolore diviene pazzo. Trasformatosi in una sorta di essere bestiale, compie folli imprese distruttive. Per difendere le armi che Orlando ha disperso, Zerbino si batte con Mandricardo e viene ucciso. A Parigi i cristiani sono di nuovo sconfitti in battaglia. Ma l’arcangelo Michele scatena la discordia nel campo pagano, e i vari guerrieri entrano in contesa fra di loro. Rodomonte apprende che la sua promessa sposa, Doralice, gli ha preferito Mandricardo, e, quasi folle per il dolore, lascia il campo saraceno, proclamando il suo disprezzo per tutte le donne. Invece, incontrata Isabella, si innamora di lei. La fanciulla, per serbarsi fedele alla memoria di Zerbino e per sottrarsi alla violenza del pagano, si fa uccidere da lui con un inganno. Rodomonte allora costruisce per Isabella un mausoleo e sfida a 247

L’età del Rinascimento

Astolfo sulla luna

La guerra in Africa

Il duello di Lipadusa

Ruggiero e Leone

La morte di Rodomonte

duello tutti coloro che passano sul ponte ad esso vicino. Vi giunge Orlando folle, che ingaggia una lotta con Rodomonte. Poi, sempre fuori di sé, passa a nuoto sino in Africa. I Saraceni sono di nuovo sconfitti, e devono ripiegare nel Sud della Francia, ad Arles. Astolfo, venuto in possesso dell’ippogrifo, vaga per varie regioni, giunge in Etiopia, dove libera il re Senapo dalla persecuzione delle Arpie, discende nell’inferno, sale al paradiso terrestre, poi sulla luna, dove ricupera il senno perduto da Orlando. Bradamante cade in preda ad una folle gelosia, perché crede che Ruggiero ami Marfisa. Ma l’ombra del mago Atlante, morto di dolore per non aver potuto salvare Ruggiero dalla sua sorte, rivela che in realtà Marfisa è la sorella di Ruggiero e che entrambi sono figli di un guerriero cristiano. Ruggiero però, in nome dei suoi doveri cavallereschi, raggiunge il re Agramante ad Arles, ed affronta Rinaldo in duello, per decidere le sorti della guerra. Intanto in Africa Astolfo, con un magico esercito messogli a disposizione dal re Senapo, stringe d’assedio Biserta, la capitale del regno di Agramante. Vi arriva anche Orlando, e viene fatto rinsavire con l’annusare l’ampolla che contiene il suo senno. Ad Arles Melissa compare ad Agramante sotto le false spoglie di Rodomonte e convince Agramante a rompere i patti, attaccando battaglia e interrompendo il duello fra Ruggiero e Rinaldo, che così viene liberato dai suoi vincoli di fedeltà al sovrano. La battaglia si risolve in una rotta disastrosa per i pagani, che fuggono verso l’Africa; ma la flotta, intercettata dalle navi di Astolfo, viene sbaragliata. Orlando e Brandimarte attaccano Biserta, mettendola a ferro e fuoco. Agramante fugge a Lipadusa. Qui avviene il duello decisivo per le sorti della guerra: Orlando, Brandimarte e Oliviero contro Agramante, Gradasso e Sobrino. Nel duello Brandimarte resta ucciso, Orlando uccide a sua volta Agramante e Gradasso; Sobrino, risparmiato, si converte al cristianesimo. Rinaldo si libera della sua passione per Angelica e parte per raggiungere Lipadusa, sperando di poter partecipare al duello. Lungo il tragitto visita varie corti padane, tra cui Ferrara, e ha modo di compiere un’«inchiesta» sul tema della fedeltà delle donne. Raggiunto Orlando, porta con questi Oliviero ferito presso un eremita per farlo guarire: qui viene trovato Ruggiero che, scampato ad una tempesta, è stato battezzato. Il matrimonio con Bradamante è però ritardato da una serie di complicazioni: i genitori della fanciulla l’hanno promessa al figlio dell’imperatore di Bisanzio, Leone, perché ai loro occhi Ruggiero è troppo povero. Tra Ruggiero e Leone avviene una nobile gara di rinunce, ma alla fine Ruggiero può sposare Bradamante, anche grazie al fatto che, con le sue imprese, ha ottenuto il regno dei Bulgari. Mentre si sta svolgendo la festa di nozze giunge Rodomonte a sfidare Ruggiero. È questo l’ultimo duello del poema: Ruggiero uccide il guerriero pagano, ponendo così definitivamente termine alla guerra.

Il motivo dell’«inchiesta»

Il carattere profano dell’«inchiesta»

L’«inchiesta» fallimentare

248

La critica più recente ha notato che anche al centro del Furioso, come già nei romanzi cavallereschi precedenti, vi è il motivo dell’«inchiesta» (per usare il termine di Ariosto stesso): ciò che muove la vicenda e suscita le imprese dei cavalieri è la ricerca di un oggetto di desiderio. Ma mentre nei romanzi arturiani medievali la queste (in francese moderno quête, ricerca) si caricava di sensi mistico-religiosi (soprattutto la ricerca del Santo Graal, la coppa che, secondo la leggenda, aveva raccolto il sangue di Cristo e possedeva poteri miracolosi), nel Furioso l’«inchiesta» assume un carattere del tutto profano e laico. Tutti i personaggi desiderano e ricercano qualche cosa, una donna, l’uomo amato, un elmo, una spada, un cavallo. Ma il desiderio è vano, gli oggetti ricercati deludono sempre le attese e appaiono irraggiungibili, l’«inchiesta» risulta sempre fallimentare e inconcludente. Un emblema degli oggetti del desiderio che deludono e della vanità dell’«inchiesta» è il personaggio di Angelica, vagheggiata da Orlando e da tanti altri cavalieri, che sfugge sempre loro dinanzi, irraggiungibile, svanendo ai loro occhi grazie all’anello magico che la rende invisibile. Il motivo dell’«inchiesta» si dichiara sin dall’apertura

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Il movimento circolare

L’«errore»

del poema, nel canto I, che è subito percorso da un movimento incessante, con la fuga di Angelica nella selva e la serie continua di incontri, con Ferraù, con Rinaldo, che si pongono al suo inseguimento, lasciando la ricerca di altri oggetti, un elmo, un cavallo ( T4, p. 263). Così emblema del motivo dell’«inchiesta» fallimentare è l’episodio del palazzo d’Atlante, in cui vari cavalieri, Orlando, Ruggiero, Sacripante, Ferraù, Astolfo, Bradamante, sono attirati dal mago col miraggio ingannevole degli oggetti da loro desiderati, e si aggirano senza sosta in una sorta di labirinto senza uscita ( T5, p. 290). Il motivo dell’«inchiesta» percorre tutta la vicenda di Orlando, perennemente alla ricerca di Angelica, ma domina anche l’altro principale filone narrativo, quello degli amori di Ruggiero e Bradamante: per tutto il poema la fanciulla insegue l’uomo amato, e quando fortunosamente lo raggiunge, questi per i motivi più vari sistematicamente si dilegua ai suoi occhi. L’«inchiesta» inconcludente si traduce in un movimento circolare, che non approda mai ad una meta e ritorna sempre su se stesso, ad indicare il carattere ossessivamente ripetitivo della ricerca. Il movimento circolare, come ha notato un critico americano, Carne-Ross, trova espressione in una formula che compare di frequente, in varie forme, nel poema, «di qua, di là», «di su, di giù», «or quinci, or quindi». Il moto circolare e l’azione ripetitiva rendono metaforicamente il senso della ricerca inappagata e della sua frustrante inutilità. L’inseguire vanamente questi oggetti delusori costituisce per i personaggi uno sviarsi, un «errore», altro termine chiave del poema: che può essere errore in senso materiale, l’errare, l’allontanarsi fisicamente (ad esempio dall’assedio di Parigi), ma anche morale (Orlando, allontanandosi dal campo cristiano, viene meno al suo dovere di paladino difensore della fede) e intellettuale: il desiderio ossessivo e insoddisfatto può trasformarsi in follia (è ancora il caso di Orlando, che diviene folle per amore; ma anche Bradamante è “folle” di gelosia per Ruggiero, Rodomonte “folle” di dolore per il tradimento di Doralice).

La struttura del poema: l’organizzazione dello spazio Lo spazio

Questo filone tematico centrale, costituito dall’«inchiesta», si riflette sulla struttura del poema. Poiché la vicenda è costituita dal movimento incessante dei personaggi alla ricerca degli oggetti del loro desiderio, una funzione essenziale ha nel Furioso l’organizzazione dello spazio. Si tratta di uno spazio vastissimo, che svaria dalla Francia alla Penisola iberica all’Italia, al Nord dell’Europa, al vicino e all’estremo Oriente, all’Africa. La concezione dello spazio è estremamente indicativa a rivelare la concezione del mondo di un autore. Per Ariosto possiamo prendere come termine di confronto un poeta che

La Maga Melissa guida Bradamante alla ricerca di Ruggiero, ceramica dipinta, Caltagirone.

249

L’età del Rinascimento Lo spazio verticale e il movimento lineare nella Commedia di Dante

Lo spazio orizzontale del Furioso

Un mondo tutto immanente

Il movimento circolare e plurimo

Il capriccio della Fortuna

La selva e l’intrico del mondo

è interprete di una civiltà molto diversa, Dante. Lo spazio della Commedia è uno spazio verticale. Vi è in esso una netta contrapposizione di valore tra il basso e l’alto, la terra e il cielo, che rappresentano la materia e lo spirito, il peccato e la salvezza, la tenebra e la luce, il tempo e l’eterno. Anche il poema dantesco è percorso da un continuo movimento, il viaggio di Dante: esso, coerentemente con la struttura spaziale del mondo dantesco, è un viaggio in direzione verticale, dal basso verso l’alto, ad indicare il percorso di affrancamento dal peccato e dalla materialità terrena verso la salvezza e la pura vita dello spirito. Oltre che verticale, il movimento è lineare: poiché il suo viaggio è voluto da Dio, Dante non può deflettere dal suo cammino, piegare in altre direzioni, ma prosegue sempre dritto verso la sua meta finale. Lo spazio del Furioso è invece uno spazio del tutto orizzontale: il movimento dei cavalieri avviene sul piano di una perfetta orizzontalità, nella dimensione puramente terrena. Può sembrare un’eccezione il viaggio di Astolfo sulla luna (che tra l’altro risente chiaramente del modello letterario dantesco), ma solo apparentemente, in quanto la luna non è che il complemento della terra, il suo rovescio speculare, il luogo dove s’aduna tutto ciò che sulla terra si perde ( T9, p. 337): di fatto, quindi, Astolfo non abbandona mai realmente il piano orizzontale della terrestrità. Il mondo del Furioso è dunque un mondo tutto immanente, che ignora o mette tra parentesi la trascendenza (convenzionale e letterario è l’intervento delle forze angeliche in aiuto di Parigi). Il mondo è il campo di azioni essenzialmente umane, dei desideri, delle passioni degli uomini. Quindi, se la Commedia interpretava perfettamente il senso della trascendenza medievale, il Furioso riflette la concezione laica che è propria del Rinascimento. Non solo, ma mentre di fronte al «pellegrino» Dante si apre un’unica direzione di movimento, e il suo viaggio è destinato a raggiungere la meta, dinanzi ai cavalieri ariosteschi si apre ad ogni momento un campo infinito e infinitamente vario di possibilità tra cui scegliere, e la ricerca non raggiunge mai il suo oggetto: il movimento quindi non è lineare, ma, come si è detto, circolare, e ritorna sempre su se stesso; inoltre, mentre nella Commedia si ha un movimento solo, nel Furioso infiniti movimenti di infiniti personaggi si intersecano, contrastandosi a vicenda. Quello del Furioso è quindi uno spazio aperto al desiderio e alla scelta umani, ma anche labirintico e frustrante. In esso domina non il disegno divino che tutto regola provvidenzialmente, ma l’azione capricciosa e imprevedibile della Fortuna. Né l’uomo ariostesco si impone al caso come gli eroi di Boiardo, che riescono a «far forza alla Fortuna» con la loro energia attiva e il loro ardimento: al contrario, ne è l’inerme zimbello. Rispetto alla fiducia nella virtù dell’uomo nella lotta contro la Fortuna, che era propria dell’Umanesimo quattrocentesco, ed è ancora di Machiavelli, Ariosto ha una visione più disincantata e pessimistica. È questo il segno della crisi che sta travolgendo l’Italia, e che, all’altezza dell’ultima edizione del poema (1532), è ormai matura. Lo stesso Machiavelli, nel capitolo XXV del Principe, vede chiaramente come lo scetticismo dei suoi contemporanei, la loro convinzione che occorre «lasciarsi governare alla sorte», è l’effetto della crisi italiana, della «variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuori di ogni umana coniettura». Di questo spazio del poema costituisce una metafora sensibile la selva, che fa da sfondo all’azione del primo canto, e in seguito di molti altri episodi: uno spazio intricato, in cui infiniti sentieri si aggrovigliano ed in cui i personaggi si muovono nelle loro «inchieste» mossi «ad arbitrio di Fortuna». La selva è come un microcosmo che rende l’immagine del poema stesso, così come il poema si pone come simulacro del mondo: un mondo intricato e labirintico, in cui le possibilità si aggrovigliano e realtà infinitamente varie si mescolano.

La struttura del poema: l’organizzazione del tempo Il tempo labirintico

250

L’organizzazione del tempo è analoga a quella dello spazio. Nella Commedia il tempo del viaggio è strutturato in una successione temporale ben scandita, lineare come il movimento nello spazio. Nel Furioso il tempo non è lineare, ma anch’esso labirin-

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

La struttura narrativa divagante

L’aggrovigliarsi dei fili narrativi

tico: poiché sono molteplici i fili narrativi che si intrecciano, molti fatti, che si succedono sull’asse sintagmatico del racconto, sono in realtà contemporanei, oppure fatti raccontati successivamente sono precedenti, o viceversa. È un tempo aggrovigliato, che torna costantemente su se stesso, perché il poeta torna continuamente indietro a riprendere fili narrativi che aveva lasciati interrotti. Anche dall’organizzazione del tempo emerge quindi l’idea di un mondo labirintico e molteplice. La stessa idea scaturisce dalla struttura dell’intreccio narrativo. Come ha osservato Sergio Zatti (dal cui discorso in queste pagine ricaviamo parecchi spunti), l’inchiesta perennemente frustrata, l’irraggiungibilità degli oggetti desiderati, il differimento sistematico del compimento delle ricerche danno origine ad una struttura narrativa divagante, digressiva, che gioca sulla sospensione e sull’attesa e rimanda sempre il suo compimento. Vi è quindi un’omologia tra contenuti e forme, tra il differimento della soddisfazione del desiderio dei personaggi e il differimento della conclusione narrativa. Inoltre l’intersecarsi e l’aggrovigliarsi delle «inchieste» fra di loro dà origine all’aggrovigliarsi dei fili narrativi: si è visto infatti che Ariosto porta alle estreme conseguenze il metodo compositivo che era già di Boiardo (ed era in germe nei romanzi medievali), l’entrelacement, cioè l’intrecciarsi fra di loro delle varie narrazioni, con continue interruzioni e riprese: anche in questo caso, allora, si può dire che la struttura formale del poema è omologa a quella tematica, dei contenuti. La materia romanzesca tende potenzialmente ad espandersi all’infinito, senza mai arrivare ad una conclusione, tende a svolgersi per continua addizione.

Labirinto e ordine: struttura narrativa e visione del mondo Il reale labirintico Il disegno organizzativo rigoroso

Testi Le «molte fila» del poema: alcune dichiarazioni di poetica dall’Orlando furioso

Come dall’organizzazione dello spazio e del tempo, anche da questa struttura narrativa emerge l’immagine di un reale labirintico, infinitamente vario e molteplice, mutevole e imprevedibile. Ma l’impressione che il poema rende non è quella del disordine, del caos informe; anzi, l’immagine che si ricava è quella di un cosmo perfettamente ordinato e armonico. In primo luogo l’entrelacement, l’intrecciarsi delle vicende narrate, non dà mai il senso di un accostamento casuale, come spesso avveniva in Boiardo, ma appare sempre inserito in un disegno organizzativo rigoroso, che la lucida mente del poeta regola dall’alto, con perfetto dominio e perfetta consapevolezza registica, dando luogo a un congegno mirabilmente preciso, che scatta sempre al momento giusto, senza uno scarto, senza una sfasatura, senza un eccesso o un difetto. Il poeta stesso nel corso del racconto più volte enuncia il principio dell’unità che vi deve essere nella molteplicità, della sapiente armonizzazione della varietà di fili narrativi, di materiali e di toni che sono presenti nel poema. Afferma infatti che, nel compiere la «gran tela» a cui lavora, per stimolare l’interesse del lettore gli occorrono «molte» e «varie fila»; ma sostiene anche che deve fare come il buon suonatore, che spesso sul suo strumento muta corda e varia suono, cercando ora toni gravi e ora acuti: Signor, far mi convien come fa il buono sonator sopra il suo instrumento arguto [armonioso], che spesso muta corda, e varia suono, ricercando ora il grave, ora l’acuto. Canto VIII, 29, vv. 1-4

L’armonizzazione concertante

Le geometriche simmetrie

C’è qui l’idea di un’armonizzazione concertante delle varie vicende e delle varie materie trattate, imprese guerresche e amori, eventi tragici e intermezzi maliziosi e comici; e vi si rispecchia il principio, caro alla poetica rinascimentale, come ha indicato il critico Robert Durling, dell’artista che nella sua opera è come Dio nel mondo, perfetto dominatore della sua creazione. In secondo luogo le intricate e multiformi vicende della trama si vengono a comporre in equilibrate architetture e geometriche simmetrie. Le più evidenti sono quelle che si instaurano tra le due «inchieste» principali del poema: Orlando cerca la donna amata, Bradamante cerca l’uomo che ama; ma Orlando ama Angelica nei termini dell’amor cortese, 251

L’età del Rinascimento

mentre Bradamante ricerca Ruggiero per giungere al matrimonio; Orlando, tradito da Angelica, piomba nella follia, Bradamante, credendosi tradita da Ruggiero con Marfisa, si lascia impossessare dalla gelosia, che è quasi una forma di follia. Una simmetria si istituisce anche tra i percorsi di Orlando e Ruggiero. Per Orlando si tratta di un percorso di degradazione, dal positivo al negativo: da guerriero pio e assennato si abbassa al livello delle bestie selvagge; per Ruggiero è invece un percorso di elevazione, dal negativo al positivo, da una giovanile incostanza di propositi, che lo induce a sviarsi, all’acquisto della saggezza e al riconoscimento delle proprie responsabilità di guerriero. Un’altra simmetria si instaura tra Orlando e Rodomonte, i due guerrieri più forti dei rispettivi eserciti: entrambi, delusi dalle loro donne, cadono in preda ad una forma di follia e si allontanano dal campo venendo meno ai loro doveri. Le simmetrie, dirette o rovesciate, si determinano anche tra i personaggi femminili. Angelica ed Olimpia sono entrambe esposte come preda all’orca marina nell’isola di Ebuda, ed entrambe sono salvate in extremis, rispettivamente da Ruggiero e da Orlando. Isabella rappresenta un esempio sublime di nobiltà d’animo e di fedeltà all’uomo amato, sino al sacrificio della vita; Doralice rappresenta invece la donna mutevole e incostante, pronta a seguire capricciosamente i suoi desideri sensuali.

dal romanzo all’epica La conclusione dei principali filoni narrativi

La struttura chiusa dell’epica

Il ricupero della struttura epica

Fabrizio Clerici, Orlando combatte contro i soldati del re Cimosco, tavola per l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (Milano 1967), Pisa, Collezione privata.

252

Inoltre se la materia cavalleresca dà l’impressione, come si osservava, di una struttura aperta, capace di espandersi all’infinito per addizione di avventure su avventure, per il ricominciare ininterrotto della sequela di vicende, in realtà tutti i filoni narrativi principali arrivano a una conclusione: Angelica sposa l’umile fante Medoro e sparisce dal poema, Orlando riacquista il senno e dà un contributo decisivo alla vittoria dei cristiani, Ruggiero sposa Bradamante e diventa fondatore di una dinastia illustre, Rinaldo, bevendo alla fonte delle Ardenne, rinsavisce e rinuncia al suo amore ossessivo per Angelica, la guerra tra i cristiani e i Mori, dopo alterne vicende, si conclude con la sconfitta dei secondi, i guerrieri pagani più valorosi, Mandricardo, Gradasso, Agramante, Rodomonte, muoiono. Alla struttura aperta del romanzo cavalleresco, che non arriva mai ad una vera conclusione ed è potenzialmente capace di continuare all’infinito, ad un certo punto dell’intreccio comincia a sostituirsi una struttura completamente diversa, quella chiusa e compatta che è propria dell’epica classica (come osservano Parker e Zatti). Una serie di indizi testimonia la volontà, da parte del poeta, del ricupero della struttura epica. La sconfitta del mago Atlante e la dissoluzione dell’incantesimo del palazzo (canto XX, quasi alla metà del poema) segnano la fine degli inganni, che con il loro gioco di vane apparenze e la proposizione di fittizi oggetti del desiderio costituivano una delle molle prin-

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Lo scacco nella realtà...

... e il risarcimento nella finzione

cipali dell’inesauribile movimento delle avventure. L’entrelacement, nella seconda parte del poema, dopo il culmine toccato dalla follia di Orlando, si fa più raro: predominano sequenze narrative lunghe e ininterrotte, la vicenda di Rodomonte che si allontana dal campo saraceno per la delusione di Doralice e inizia una sua sorta di «inchiesta» sulla vera natura delle donne, la lunga sequenza lunare di Astolfo, le vicende della guerra in Africa, il viaggio di Rinaldo nelle corti padane, pur esso incentrato sul motivo della fedeltà delle donne. Anche l’«inchiesta» muta carattere, non è più ricerca di un oggetto, ma ricerca intellettuale, come nei casi citati di Rodomonte, Astolfo, Rinaldo. Un momento culminante della trasformazione della struttura romanzesca aperta in struttura epica chiusa è la conversione di Ruggiero, che segna la fine del continuo «errore» cavalleresco del personaggio e l’approdo finale al suo destino di eroe epico, fondatore di una civiltà. Se la materia cavalleresca che prolifera all’infinito, con il continuo differimento delle conclusioni e l’aggrovigliarsi di mille fili narrativi, rende l’immagine di una realtà multiforme, labirintica, continuamente mutevole, imprevedibile, caotica, su di essa il poeta cala precisi moduli d’ordine. Nella visione pessimistica di Ariosto la pluralità del reale e il caos del mondo retto dall’arbitrio capriccioso della Fortuna non sono dominabili. L’uomo che si muove dentro questa realtà, inseguendo le infinite possibilità che gli si offrono, è destinato allo scacco, a non raggiungere mai gli obiettivi. Ma il poeta, creando l’universo fantastico del poema, costruisce un simulacro, un modello del mondo, che è dominabile intellettualmente, passibile di essere strutturato in un ordine perfetto: Ariosto, consapevole di non poter dominare la realtà, ne domina almeno razionalmente il simulacro artistico, attraverso l’organizzazione formale dell’opera. Se il mondo è caos, contraddittorietà, mutevolezza, rovesciamento continuo delle attese, gioco di apparenze ingannevoli, il poema che ne è il simulacro può essere ridotto all’ordine, chiuso in una struttura limpida e simmetrica. L’unico ordine possibile per Ariosto è la letteratura, l’universo del fittizio; solo la letteratura consente un dominio simbolico del reale. Lo scacco pratico, nel campo della realtà, trova un risarcimento estetico nella finzione. Se nella realtà l’uomo è soggetto a forze capricciose e incontrollabili e va incontro all’inevitabile delusione, all’errore, alla follia, nell’universo della finzione l’uomo-artista è appunto come Dio, che può esercitare un controllo totale sulla sua creazione.

Il significato della materia cavalleresca Mappa interattiva

Boiardo, celebratore della cavalleria

La cavalleria, mondo remoto per Ariosto

Il piacere di narrare

Il discorso sin qui svolto conduce ad affrontare la questione del significato e del valore della materia cavalleresca nel Furioso. Quale senso poteva dare a tale materia, tipicamente medievale, un uomo del pieno Rinascimento quale Ariosto? Abbiamo già visto la soluzione offerta dall’Orlando innamorato. Boiardo era il celebratore della cavalleria, ma non più nel senso medievale: egli credeva che i valori cortesi potessero rivivere nella società cortigiana e che fossero in essa ancora praticabili, se venivano rivitalizzati con contenuti nuovi, moderni: la prodezza guerriera diveniva l’energia dell’individuo che si sa imporre alla Fortuna, la lealtà si trasformava in tolleranza. Ariosto non crede più in questa attualizzazione del mondo cavalleresco: anche se scrive solo ad una generazione di distanza da Boiardo, ai suoi tempi la civiltà cortigiana, ultimo baluardo della visione cortese, è ormai in piena crisi e in irreversibile declino. Se la cavalleria si è ormai svuotata degli originari valori etico-religiosi, non per questo può essere riempita di valori nuovi: la cavalleria è per Ariosto un mondo ormai remoto, che può solo essere vagheggiato con nostalgia, ma anche con distacco. Questo è il senso della famosa esclamazione contenuta nel canto I, «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!». Nell’Orlando furioso due sono le possibilità che si dipartono da questo disincanto del poeta. Da un lato vi è il piacere di immergersi, narrando, in un mondo fittizio, di abbandonarsi al meraviglioso e al fantastico, alla serie di infinite avventure, battaglie, duelli, amori. Ma non è un abbandono fine a se stesso. Le letture più recenti hanno fatto giustizia delle vecchie interpretazioni, come quella di Momigliano (1928), che vedevano nel poema un «sentimento ingenuo», una «fantasia che corre e s’incanta». Il Furioso non è pura evasione fantastica, sogno smemorato, fuga dalla realtà in un sopramondo meraviglioso di aeree 253

L’età del Rinascimento La riflessione sui grandi temi rinascimentali

L’aggancio alla realtà Il poema cavalleresco trasformato in «romanzo contemporaneo»

Testo critico L. Caretti

fantasie. Il piacere di narrare belle storie romanzesche è solo il punto di partenza per una seria, approfondita riflessione etico-filosofica su tutta una serie di temi centrali della civiltà rinascimentale, quelli che si sono esaminati nelle pagine precedenti: la molteplicità e mobilità del reale, il capriccio imprevedibile della Fortuna e la possibilità di dominio razionale, l’agire dell’uomo che si muove, spinto dal desiderio, in una ricerca incessante di oggetti vani e delusori che sempre gli sfuggono, le sue velleità e i suoi errori, la sua capacità di adattarsi alla mutevolezza della Fortuna o il suo irrigidirsi unilaterale che conduce allo scacco e alla follia, l’amore idealizzato, cortese e platonico, l’amore liberamente carnale, l’amore coniugale. Le avventure cavalleresche non si riducono a puri pretesti di facciata, svuotati al loro interno, anzi conservano tutto il loro fascino, ma al tempo stesso offrono al poeta un campo aperto ed infinitamente disponibile per la sua riflessione etica. Un esempio perfetto può essere l’episodio del palazzo di Atlante, dove la materia romanzesca e meravigliosa degli incantesimi del mago assurge a simbolo del carattere ingannevole della realtà, che delude perennemente i desideri degli uomini, protesi nelle loro «inchieste» e avvolti nel movimento circolare dei loro «errori» ( T5, p. 290). Nel poema trovano così una miracolosa fusione due componenti eterogenee che sembrano impossibili da amalgamare, l’abbandono al piacere del fantastico avventuroso e la riflessione concettuale. Dietro le avventure meravigliose si manifesta un lucido intento conoscitivo, un autentico impegno intellettuale, che è profondamente agganciato alla realtà e rivela un atteggiamento liberamente critico nei confronti degli uomini e della società, affine a quello delle Satire. Giustamente, sin dal 1954, Caretti rovesciava le interpretazioni tradizionali affermando che «la vera materia del Furioso» è costituita da una «moderna concezione della vita e dell’uomo», e che pertanto Ariosto trasforma il poema cavalleresco in «romanzo contemporaneo», «nel romanzo cioè delle passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo». Del tutto ingiustificata appare quindi una contrapposizione tra Machiavelli e Guicciardini da un lato, lucidi e disincantati realisti, e Ariosto dall’altro, il sognatore che cerca nella fantasia il riscatto dall’angustia del quotidiano: anche Ariosto è un acuto e spregiudicato osservatore della realtà e dei comportamenti umani, nella loro dimensione privata come in quella collettiva e politica.

Lo straniamento e l’ironia Lo straniamento della materia cavalleresca

Gli interventi della voce narrante

La limitazione dell’onniscienza

254

Proprio perché sempre accompagnato da questa ferma volontà di riflessione sul reale, l’abbandono al piacere del meraviglioso romanzesco in Ariosto non può essere totale. Di qui nasce il procedimento dello straniamento ( Pesare le parole, p. 240), che è costante nel Furioso. Esso consiste in un improvviso mutamento nella prospettiva da cui è presentata la materia, nell’allontanarla e nel guardarla con occhio estraneo, in modo da impedire l’immedesimazione emotiva nel mondo narrato e in modo da costringere anche il lettore a guardare personaggi, situazioni e sentimenti come da lontano, e quindi a riflettere su di essi con atteggiamento critico. Un simile effetto è ottenuto con vari procedimenti. Il più tipico è il continuo intervenire della voce narrante con giudizi e commenti, in genere maliziosi e sornioni, che spezzano l’illusione narrativa. Ad esempio nel canto I, quando Angelica dinanzi a Sacripante afferma con vigore di essere ancora vergine, la voce narrante commenta: «Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore; / ma parve facilmente a lui possibile, / ch’era perduto in via più grave errore» ( T4, p. 263, ottava 56, vv. 1-4): come si vede, l’intrusione del narratore impedisce l’immedesimazione ingenua nei fatti narrati, costringe a guardarli da una prospettiva diversa, a riflettere su di essi tenendo conto dell’ambiguità del reale, del gioco delle apparenze. In altri casi il narratore ostenta una imperfetta conoscenza dei fatti, giocando deliberatamente a limitare il proprio statuto di onniscienza. Quando Orlando si trova di fronte alla scritta con cui Medoro esalta gli amori con Angelica, il narratore commenta: «Che fosse culta in suo linguaggio io penso»: fingendo di non avere dati certi

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

L’effetto ironico

e di essere costretto a formulare ipotesi, il narratore si allontana così dai fatti narrati, mette in piena evidenza il suo sorridente distacco. Questi procedimenti di straniamento sono tra gli strumenti principali dell’ironia ariostesca, che implica sempre una forma di distacco dalla materia, uno sguardo da lontano, sornione e disincantato.

L’ironia e l’abbassamento L’abbassamento

I paragoni prosaici

Lo straniamento e l’abbassamento, punto d’avvio della riflessione L’ironia strumento della disposizione conoscitiva e critica

Testo critico B. Croce

Un procedimento affine allo straniamento, e sempre veicolo di ironia, è l’abbassamento. Si è detto che per Ariosto i valori cavallereschi non sono più praticabili, sono solo una realtà remota da guardare con distacco. Ebbene, questo non induce l’autore al rovesciamento parodico, alla beffa aperta, come sarà di lì a un secolo nel Don Chisciotte di Cervantes (1605-15): Ariosto si limita ad abbassare leggermente la dignità epica ed eroica dei personaggi, portandoli a un livello più prosaico e familiare e facendo così emergere al di sotto delle apparenze dei cavalieri e delle dame gli uomini e le donne comuni, con i loro limiti e i loro errori. Questo abbassamento può scaturire dal semplice montaggio della scena, dall’oggettività dei fatti raccontati: si pensi, nel canto I ( T4, p. 263), a Sacripante, che, dopo aver millantato la sua sicura vittoria sul misterioso cavaliere, viene da lui abbattuto proprio sotto gli occhi della dama, e che da questa è aiutato a liberarsi dal peso del cavallo, scoprendo per di più che a gettarlo a terra è stata una donna, Bradamante: è inevitabile che il personaggio sia avvolto da un sorriso. In altri casi invece l’abbassamento è prodotto da un intervento del narratore, mediante l’uso di paragoni e similitudini prosaiche, che determinano un contrasto con la qualità dei personaggi. Quando Orlando ha avuto la certezza indubitabile degli amori di Angelica con Medoro, e non riesce a prendere sonno nella capanna del pastore, il suo letto gli pare «più duro ch’un sasso, e più pungente / che se fosse d’urtica» ( T8, p. 323): è evidente come l’immagine dell’ortica sia poco confacente alla statura eroica del paladino e come il contrasto sia deliberatamente cercato per avvolgere il personaggio in una luce ironica. Proprio abbassando i personaggi eroici alla realtà quotidiana e familiare e rivelando in essi l’uomo comune, questo procedimento trasforma la materia epica e cavalleresca in punto d’avvio della riflessione sulla natura del reale e sul comportamento degli uomini. L’ironia ariostesca non nasce quindi, come spesso si è detto, dall’indifferenza per la materia, dalla consapevolezza del suo carattere fittizio, non è solo il distacco compiaciuto con cui l’artista contempla la sua creazione, secondo la definizione di Croce, non è insomma strumento di evasione fantastica: se l’ironia è indispensabile per rendere la materia romanzesca campo aperto per la riflessione etico-filosofica, essa appare lo strumento della disposizione lucidamente conoscitiva di Ariosto nei confronti del reale, del suo atteggiamento critico dinanzi al mondo e agli uomini.

personaggi “sublimi” e personaggi pragmatici I personaggi idealisti

Testi Orlando pazzo ed Angelica • Rodomonte e Isabella dall’Orlando furioso •

I limiti dell’idealismo

Questa disincantata disposizione conoscitiva verso il reale dà origine ad un atteggiamento critico soprattutto nei confronti dei personaggi più “sublimi” del poema, quelli eroicamente fedeli ai loro ideali e ai loro princìpi. Un esempio illuminante è Orlando, l’eroe in certo modo principale, quello dall’animo più nobile ed elevato: la sua fedeltà ad Angelica è assoluta, egli non desiste mai dall’idealizzarla secondo i canoni dell’amore cortese-platonico che sono tipici della civiltà cortigiana rinascimentale, e proprio per questo diventa pazzo. Il suo corrispettivo femminile è Isabella, che spinge la sua fedeltà alla memoria di Zerbino ad una forma di autodistruttività, ad una sorta di suicidio, per non cadere preda della bramosie di Rodomonte. Ariosto celebra la virtù sublime di questi eroi, ma ne indica anche sottilmente i limiti: è una virtù destinata allo scacco, alla sconfitta, non solo, ma è una virtù pericolosamente vicina alla follia, perché è fissazione unilaterale e rigida ad un’idea, incapacità di adattarsi alla mobilità del reale 255

L’età del Rinascimento

I personaggi pragmatici

Testi Mandricardo e Doralice dall’Orlando furioso

Il realismo spregiudicato

e alle situazioni concrete determinate dal gioco della Fortuna: per questo l’esito dell’idealismo di questi personaggi è fallimentare e tragico, la follia e la morte. Di contro ad essi invece Ariosto introduce personaggi più spregiudicati e pragmatici, più flessibili a conformarsi al reale e alla Fortuna, presentando così esempi di una «virtù» di altro tipo, che piacerebbe a Machiavelli. Questi personaggi non sono rigidamente fedeli ad un oggetto idealizzato, ma, rinunciando ai princìpi, sanno accontentarsi di oggetti sostitutivi, meno elevati ma più facilmente disponibili. Così Ferraù, nel canto I, sa rinunciare ad inseguire Angelica e si accontenta di un oggetto meno sublime, l’elmo di Orlando; ma soprattutto Mandricardo, incontrata Doralice, dimentica subito la sua inchiesta “eroica” di Orlando, con cui vuole misurarsi, e si accontenta di godere delle grazie immediatamente disponibili della donna; la quale, a sua volta, è il suo perfetto equivalente, subito pronta a cogliere il piacere là dove le si offre. Il realismo spregiudicato di personaggi del genere costituisce il correttivo dell’idealismo estremizzato dei personaggi “sublimi” e viene a creare un suo controcanto ironico-realistico lungo tutta la vicenda. L’autore non si identifica mai rigidamente con una prospettiva: se ammira la fedeltà eroica, ne sottolinea anche con sottile distacco la rigidezza unilaterale e gli esiti fallimentari; se ironizza sulla disinvolta spregiudicatezza di personaggi come Mandricardo e Doralice, li guarda anche con divertita, sorniona simpatia, e riconosce l’efficacia pratica dei loro comportamenti (Zatti).

Il pluralismo prospettico e la narrazione polifonica

I diversi modi di giudicare

La pluralità di voci

Così Ariosto gioca continuamente l’una contro l’altra diverse prospettive, senza mai interamente coincidere con alcuna di esse. Nel poema, ogni certezza e ogni acquisizione non è mai definitiva, ma viene superata con un procedimento di correzione continua, che rende sempre reversibile la lettura. Viene a crearsi in tal modo un pluralismo prospettico, che è uno dei caratteri salienti del Furioso. Nel corso della narrazione diversi modi di giudicare un fatto o un comportamento possono alternarsi, senza che mai si imponga un giudizio definitivo, univoco e incontrovertibile. Un significativo esempio è l’atteggiamento del narratore nei confronti del problema della fedeltà delle donne, che occupa ampio spazio nel poema tra il canto XXVIII e il XXX, cioè tra la sequenza di Rodomonte deluso da Doralice e l’ultimo incontro di Orlando pazzo con Angelica. La voce narrante può lasciarsi andare ad un’aspra requisitoria contro le donne (fine canto XXIX), e subito dopo, nelle prime ottave del canto XXX, fare ammenda e ritrattare la sua posizione, celebrando l’immagine femminile; così, nell’episodio di Rodomonte e Isabella, si fronteggiano le ragioni della naturalistica libertà amorosa e quelle della virtuosa castità. Nel poema si manifestano varie voci, portatrici di varie prospettive sul reale, di vari orientamenti ideologici, tutte in perfetta autonomia, senza che l’autore intervenga a fissare una prospettiva privilegiata. Questa pluralità di prospettive corrisponde specularmente al mondo infinitamente molteplice di cui il poema vuole essere l’immagine.

La lingua e la metrica del Furioso

Il modello bembesco La varietà lessicale

L’amalgama unitario

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A creare nel poema l’immagine di un ordine armonico ed equilibrato, al di là della molteplicità eterogenea di vicende, di personaggi, di toni, concorrono anche la lingua e la metrica. Il criterio linguistico seguito da Ariosto nella revisione del poema per la terza redazione è, come si è indicato, quello bembesco, ispirato ad un’idea classicistica di uniformità, compostezza, levigatezza, equilibrio. Il modello è l’unilinguismo di Petrarca. In realtà la lingua del Furioso è più variegata e multiforme della lingua del petrarchismo, non è così selettiva e circoscritta nelle scelte lessicali. Possono comparire nel discorso del poema termini aulici (sia della tradizione italiana, sia latinismi) e termini più comuni, colloquiali, costrutti eleganti e costrutti più pedestri, vicini al parlato. Ma il fatto è che, nonostante questa composita varietà, non si avvertono mai stridori e urti tra livelli diversi, non spiccano mai nello scorrere del discorso macchie di colore più inten-

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

L’ottava

se, che forzino il dettato in direzione di un’intensificazione espressionistica: siamo cioè al polo opposto rispetto al plurilinguismo di Dante, che gioca proprio sugli urti violenti di livelli; i vari ingredienti nel Furioso sono amalgamati in un impasto che appare perfettamente fuso, unitario, levigato e senza increspature. La stessa tendenza a comporre il molteplice nell’uno, che si manifesta al livello dei contenuti tematici e delle strutture narrative, compare anche al livello della lingua e dello stile: il Furioso è un organismo perfettamente costruito, in cui ogni livello è coerente con tutti gli altri. Alla fusione unitaria contribuisce anche il ritmo dell’ottava ariostesca, che è di una fluidità miracolosa. L’ottava era il metro tradizionale della poesia cavalleresca, ma nel Furioso essa non ha più nulla della ripetitività monotona e un po’ meccanica che possedeva nei cantari, e, sia pure ad un altro livello di consapevolezza stilistica, ancora in Boiardo; né d’altro canto ha qualcosa in comune con i ritmi bizzarri dell’ottava di Pulci. A seconda della materia trattata l’ottava ariostesca può avere impostazioni diverse: quando prevale la riflessione oppure l’ironia straniante l’andamento è più prosaico e distesamente colloquiale, nelle parti epiche può farsi solenne, nei momenti di maggior patetismo può divenire vibrante: ma al di sopra di ogni varietà tonale trionfa una costante fluidità di ritmo, uno slancio che sembra tradurre sul piano formale il movimento incessante che percorre tutta la vicenda narrata.

Visualizzare i concetti

L’ i m p i a n t o n a r r a t i v o d e l l ’O r l a n d o f u r i o s o Cavalleresco e cortese

Il poema prosegue la trama dell’Orlando innamorato di Boiardo, narrando vicende legate all’epopea di Carlo Magno mescolate con situazioni amorose e fiabesche, tipiche dei romanzi cortesi del ciclo bretone

Entrelacement

I numerosi fili narrativi di cui il poema si compone, tra loro contemporanei e interrelati, sono sviluppati in parallelo: il racconto di una vicenda, interrotto nel momento di massima tensione per seguire uno o più fili narrativi diversi, viene poi ripreso e nuovamente lasciato in sospeso

SpAzIo

Orizzontale, labirintico

I personaggi del poema si muovono su uno spazio generalmente orizzontale, che rispecchia emblematicamente la realtà terrena; nel tentativo fallimentare di raggiungere una meta ideale (l’oggetto del loro desiderio), essi compiono spesso movimenti circolari ritornando al punto di partenza, come se fossero intrappolati in un labirinto

Tempo

Non lineare

Il racconto di diverse vicende in parallelo determina continue oscillazioni della narrazione avanti e indietro sulla linea del tempo

nARRAToRe dI I gRAdo

Eterodiegetico, onnisciente

Interviene a commentare le vicende sistematicamente nell’esordio di ciascun canto ed estemporaneamente nel corso della narrazione; il suo giudizio sornione e distaccato spesso abbassa la dignità epica della materia, producendo effetti di straniamento a fini ironici

nARRAToRI dI II gRAdo

Autodiegetici o omodiegetici

All’interno del poema sono inseriti alcuni racconti di II grado, affidati a diversi personaggi che narrano vicende in cui sono stati coinvolti

peRSonAggI

Variamente caratterizzati

Alcuni personaggi sono portatori di valori ideali sublimi, cui rimangono ossessivamente fedeli, e proprio per questo sono destinati alla sconfitta o alla follia; altri, più spregiudicati e pragmatici, risultano capaci di adattarsi meglio alle circostanze fortuite della vita

punTo dI VISTA

Variabile (pluralismo prospettico)

Non esiste un solo o prevalente punto di vista, coincidente con quello del narratore esterno o di un personaggio, ma le vicende sono presentate da una pluralità di prospettive diverse

ARgomenTo

TeCnICA nARRATIVA (InTReCCIo)

257

L’età del Rinascimento

microsaggio

Bachtin e la «narrazione polifonica»

Una pluralità di concezioni autonome

Il dialogismo tra le varie voci

La polifonia

La pluralità di voci nei romanzi di dostoievskij Il concetto di «narrazione polifonica» è stato introdotto dallo studioso russo Michail Bachtin (1895-1975) in un fondamentale libro su Dostoievskij (Dostoievskij. Poetica e stilistica, 1a ed. 1929, 2a ed. rielaborata e arricchita 1963, trad. it., Einaudi, Torino 1968), che contiene stimolanti proposte metodologiche, estensibili anche ad altri testi letterari. Secondo Bachtin la realizzazione più compiuta di tale tipo di narrazione è data dai romanzi di Dostoievskij, anche se essi non sono che il punto d’arrivo di una lunga tradizione precedente, che ha inizio sin dalla letteratura classica. Il critico osserva che nei romanzi dello scrittore russo si può ravvisare non un’unica concezione filosofica, quella dell’autore, ma una pluralità di concezioni a volte contrastanti, di cui sono portatori i vari personaggi. Le concezioni dell’autore si collocano fra queste, e neppure al primo posto. Le idee dei personaggi sono del tutto autonome: ciascuno di essi è concepito come autore di una sua propria visione del mondo. Il personaggio non è solo «l’oggetto della parola dell’autore», ma «l’integro e legittimo portatore della sua parola». I personaggi non sono semplici portavoce delle idee dell’autore, ma si collocano a pari diritti accanto a lui, possono non condividere le sue opinioni, e persino ribellarsi a lui. Nei romanzi di Dostoievskij si ha quindi una pluralità di voci e di coscienze indipendenti che intrecciano fra loro un fitto dialogo, coinvolgendo nella discussione sui grandi temi dell’uomo anche il lettore. Le varie prospettive possono essere contraddittorie fra loro: nello stesso romanzo si afferma una cosa e anche il suo contrario. Nessuna idea di fondo domina incontrastata, ma vi è un costante confronto, a volte persino uno scontro fra idee diverse, senza che nessuna possa imporsi sulle altre in modo esclusivo e definitivo. Tutte queste voci e queste prospettive ideologiche non sono unificate dall’autore in un’unica prospettiva, la sua, né subordinate ad essa: i personaggi sono soggetti con pieni diritti. Per questa presenza di un folto intreccio di voci dialoganti il romanzo di Dostoievskij è stato definito da Bachtin polifonico: la polifonia è infatti, nella tradizione musicale dell’Occidente, il canto a più voci (dal greco polýs, “molto”, e phoné, “voce”).

Romanzo Il romanzo monologico Il romanzo europeo prima di Dostoievskij, osserva Bachtin, era invece fondadialogico mentalmente monologico (termine che è il contrario di dialogico, quindi anche di polifonico): vi si ascole monologico

tava un’unica voce, quella dell’autore, e le voci dei personaggi erano subordinate ad essa; le prospettive dei personaggi erano solo delegate ad esprimere le idee dell’autore. Le idee estranee o venivano assimilate o negate polemicamente, mai ad esse veniva consentito di vivere autonomamente accanto alle idee dell’autore. Un bell’esempio di romanzo monologico, nel senso bachtiniano, è offerto dai Promessi sposi: nel romanzo manzoniano i personaggi portatori di idee sono i portavoce delle idee dell’autore: fra Cristoforo, il cardinale Federigo; i personaggi che potrebbero esprimere idee antitetiche a quelle religiose di Manzoni, i malvagi libertini come don Rodrigo, Attilio, Egidio, non hanno diritto di parola, ad essi non è consentito, nel romanzo, di esprimere la loro visione della vita. Nei romanzi di Dostoievskij, invece, anche personaggi del genere, anche portatori di idee folli e aberranti come Raskolnikov di Delitto e castigo, che assassina una vecchia usuraia per dimostrare la propria superiorità, hanno ampio diritto di parola e possono esprimere le loro idee, accanto a quelle dell’autore.

La polifonia La polifonia ariostesca Un’impostazione che può far pensare a questa “polifonia” (ovviamente solo del Furioso dal punto di vista formale, escludendo le problematiche trattate, che sono diversissime, poiché i due

scrittori appartengono a civiltà e a momenti storici diversi) si può trovare nell’Orlando furioso: come si è visto, infatti, Ariosto, nella sua visione aperta del reale, non impone mai un’idea univoca, ma fa dialogare fra loro diversi modi di vedere il mondo.

258

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Analisi interattiva

T3

proemio

Temi chiave

dall’Orlando furioso, I, 1-4 Riportiamo le prime quattro ottave del canto I, che fungono da proemio all’intero poema.

• la centralità delle vicende di amore e di guerra

• la vicenda di Orlando innamorato e folle

• l’encomio degli Estensi • la rivendicazione del valore della poesia

1

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto1, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto2, seguendo l’ire e i giovenil furori3 d’Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano.

2

Dirò d’Orlando4 in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai né in rima5: che per amor venne in furore e matto6, d’uom che sì saggio7 era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso8.

3

Piacciavi, generosa Erculea prole9, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir10 questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono11.

Audio

1. Le donne … canto: vengono indicati nella proposizione dell’argomento, luogo canonico del poema epico e cavalleresco, i temi delle armi (i cavallier, l’arme, l’audaci imprese) e dell’amore (le donne, gli amori, le cortesie), il cui collegamento segna la fusione tra due cicli che già Boiardo aveva collegati, quello di Carlo Magno e quello di re Artù. 2. che furo … tanto: che avvennero al tempo in cui i Mori (il nome deriva da Mauri, abitanti della Mauritania, anche se in senso lato indica gli Arabi) passarono il mare africano e procurarono molti danni in Francia. La collocazione storica è del tutto fantastica e dipende dal racconto di Boiardo, che Ariosto intende continuare. Troiano (personaggio di invenzione come Agramante), re di Biserta, secondo la tradizione romanzesca era stato

ucciso da Orlando. Il figlio Agramante per vendicarlo invase la Francia, governata da Carlo Magno, allora imperatore del Sacro Romano Impero. 3. giovenil furori: Agramante aveva ventidue anni. 4. Orlando: personaggio storico, governatore della Marca di Bretagna, morto a Roncisvalle, trasfigurato dall’epopea cavalleresca che, a partire dalla Chanson de Roland, ne fece un paladino integerrimo di Carlo Magno in lotta per il trionfo della fede e della Francia. 5. cosa … rima: nessuno infatti aveva mai accennato alla follia di Orlando, impensabile per un paladino valoroso e saggio come lui, soprattutto perché tale condizione è causata dall’amore per una donna, Angelica, per giunta non cristiana.

6. venne … matto: divenne pazzo furioso. 7. sì saggio: nella tradizione romanzesca Orlando è presentato come eroe saggio. 8. se da colei … promesso: se dalla mia donna, che mi ha fatto quasi simile ad Orlando (ossia mi ha reso folle d’amore), tanto da consumare a poco a poco il mio ingegno, si concederà che me ne rimanga ancora quel tanto che mi consenta di portare a termine quanto mi sono proposto. La donna è Alessandra Benucci Strozzi, che sostituisce in questi versi la musa tradizionalmente invocata dai poeti. 9. generosa … prole: segue la dedica del poema, altro luogo comune dell’epica cavalleresca; è rivolta al cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I d’Este, al cui servizio Ariosto fu dal 1503 al 1517. L’aggettivo generosa è riferito alla nobiltà del personaggio. 10. aggradir: gradire; è retto da Piacciavi, verso 1 dell’ottava. 11. Quel … vi dono: per i favori ricevuti posso sdebitarmi solo in parte attraverso le parole e gli scritti; non sono da condannare se do poco perché è tutto quello che posseggo.

259

L’età del Rinascimento

4

Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio12, ricordar quel Ruggier13, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio14. L’alto valore e’ chiari gesti15 suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio16, e vostri alti pensier cedino17 un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco18.

12. nominar … m’apparecchio: mi preparo a nominare con lode.

13. Ruggier: eroe saraceno. Sposerà Bradamante, sorella di Rinaldo, e da queste nozze

avrà origine la dinastia estense. Ariosto avvalora la discendenza indicata già da Boiardo per fugare la maldicenza fatta circolare dai nemici degli Estensi che li volevano discendenti dal perfido Gano di Maganza. 14. ceppo vecchio: capostipite. 15. e’ chiari gesti: le nobili gesta. 16. date orecchio: prestate attenzione. 17. cedino: cedano. 18. loco: spazio.

pesare le parole Chiari (ottava 4, v. 5)

> Qui ha il senso del latino clàrum, “famoso, insigne, no-

bile”. Invece i sensi correnti oggi sono: “luminoso” (es. d’estate fa chiaro presto), o, detto di colore, “tenue, pallido” (es. un vestito verde chiaro), o ancora “limpido, trasparente” (es. l’acqua del mare oggi è chiara); in

senso figurato, “che si ode o vede distintamente” (es. l’immagine della foto è molto chiara), o “di facile comprensione” (es. la lezione è stata perfettamente chiara). Un residuo del senso latino è l’appellativo di chiarissimo dato ai docenti universitari.

Analisi del testo

> La prima ottava

L’esposizione dell’argomento

L’incipit

Arte «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori»

L’imitazione Il doppio chiasmo

260

Seguendo i canoni tradizionali della poesia epica, il Furioso ha inizio con un proemio che contiene l’esposizione dell’argomento, l’invocazione e la dedica al signore. Il poeta, nell’indicazione dell’argomento, si concentra sui tre filoni principali dell’azione, la guerra portata dai Mori sul suolo francese, la vicenda di Orlando e quella dell’eroe capostipite della casa estense, tralasciando i mille altri fili narrativi che da essi si dipartono. L’incipit, formato dai primi due versi, evoca una tipica materia cavalleresca costituita da armi, amori e cortesie. Ma due elementi ci avvertono subito del fatto che non si tratta solo di una ripresa della materia medievale: 1. i due versi sono il riecheggiamento diretto di una formula dantesca, «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia» (Purgatorio, XIV, vv. 109-110); più indirettamente richiamano un altro modello, l’inizio dell’Eneide virgiliana, esempio per eccellenza della poesia epica: «Canto le armi e l’eroe...». Ci troviamo cioè di fronte al tipico procedimento rinascimentale dell’imitazione, la ripresa di modelli illustri e consacrati; 2. i versi si compongono a formare una figura retorica aulica, anch’essa consacrata da tutta una tradizione classica, il chiasmo. Anzi, per essere più precisi, la figura è duplicata, sicché ci troviamo di fronte ad un doppio chiasmo: le donne i cavallier l’arme gli amori le cortesie l’audaci imprese La complessità del procedimento segnala come lo stile punti ad un alto livello di elaborazione formale, secondo i codici classicistici del tempo. Sin dai due versi iniziali del poema, dunque, possiamo capire come esso riprenda sì una materia cavalleresca medievale, ma la tratti secondo le prospettive e nei modi formali del classicismo rinascimentale.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto Il tono epico della prima ottava

La prima ottava è di intonazione decisamente epica. Il tono è reso solenne da una serie di accorgimenti: vi è un unico periodo, che nel suo ampio movimento, ricco di subordinate, abbraccia l’intera strofa; ricorrono inversioni dell’ordine naturale delle parole, sul modello del latino; spiccano poi vari enjambements, che hanno la funzione di dilatare il discorso e di conferirgli più ampie risonanze: «l’arme, gli amori, / le cortesie», «passaro i Mori / d’Africa il mare», «i giovenil furori / d’Agramante», «si diè vanto / di vendicar». La solennità epica con cui viene esposto l’argomento guerresco fa presentire il tono epico che sarà effettivamente caratteristico della trattazione della guerra tra cristiani e Saraceni nel poema.

> La seconda ottava e la novità della materia

Lo straniamento degli amori cavallereschi

L’abbassamento del tono

La materia cavalleresca punto d’avvio della riflessione

Il motivo encomiastico L’ironia

La seconda ottava si concentra su Orlando e sulla sconcertante novità costituita dall’eroe saggio per eccellenza, quale era stato fissato da una lunga tradizione, che diviene pazzo per amore. Il fatto che il poeta nel proemio metta in primo piano la follia di Orlando ribadisce quanto il titolo dell’opera, Orlando furioso, già suggeriva, cioè la centralità dell’episodio nel sistema dei significati del poema (come verificheremo nell’analisi, T8, p. 323). Il cenno sulla pazzia ci fa ancora capire che Ariosto non intende esaltare, secondo la tradizione cortese e cavalleresca, quegli «amori» annunciati nel primo verso, ma intende presentarli in una luce straniata e critica, come la fonte della follia degli uomini. Ciò dà ragione del mutamento stilistico di questa ottava rispetto alla precedente. Si può notare infatti, nel passaggio dalla materia guerresca alla pazzia di Orlando, un sensibile smorzamento di toni: non più ampie volute sintattiche, inversioni solenni, enjambements, ma un discorso semplice, immediato, colloquiale. Il verso anzi che propone il motivo della follia («che per amor venne in furore e matto») ha un andamento prosaico, quasi stentato, che ricorda la voluta piattezza, vicina al parlato quotidiano, di certi versi delle Satire. Anche il termine chiave, «matto», è un vocabolo comune, poco nobile. Il tono familiare è chiaramente indizio di un ironico, straniante distacco del poeta dalle vicende del suo eroe. Anche questo abbassamento di tono, dall’epico al prosaico, ci dà quindi preziose indicazioni su quella che sarà la poesia del Furioso: la medievale materia cavalleresca, ormai lontana dalla matura coscienza rinascimentale, non è propriamente fatta oggetto di parodia, ma è abbassata, appunto, ad un livello familiare, perché è presa come punto di partenza per un’ironica riflessione sull’uomo, sulle sue passioni, sui suoi vani desideri, sui suoi errori, sulle sue follie. Così, subito dopo l’indicazione sulle aspirazioni epiche, offerta dalla prima ottava, abbiamo l’indicazione su un altro aspetto essenziale del poema, la sua qualità di riflessione etico-filosofica sui grandi problemi che assillano la coscienza rinascimentale. Il distacco è sottolineato anche dal fatto che la tradizionale invocazione non è rivolta alle Muse, come nella poesia classica, oppure a Dio e alla Vergine, come nella tradizione dei cantari, ma alla donna amata, vista come causa di una pazzia simile a quella di Orlando. L’accomunare l’autore e il paladino nella stessa follia amorosa abbassa ancora più ironicamente la figura del grande eroe epico e, contribuendo ulteriormente a conferire al discorso un tono di prosaica colloquialità, ribadisce la volontà di prendere le vicende degli eroi cavallereschi come materia di saggia e disincantata riflessione.

> La terza e quarta ottava: il rapporto con la corte

La terza e quarta ottava, con la dedica al cardinale Ippolito, propongono il motivo encomiastico, che richiama subito il clima cortigiano della letteratura rinascimentale e la posizione del poeta stesso all’interno di tale civiltà. Con la contrapposizione tra i «versi» del poeta e gli «alti pensier» del signore (ottava 4, vv. 7-8) il proemio si conclude ancora su una nota 261

L’età del Rinascimento

L’antifrasi

La rivendicazione del valore della poesia contro la politica

ironica. Per cogliere l’ironia bisogna accostare a questi versi quelli della Satira I, in cui Ariosto lamenta come la poesia fosse poco apprezzata dal cardinale Ippolito, che esigeva da lui tutt’altre prestazioni, più pratiche e prosaiche, come le missioni diplomatiche. Questi due versi sono quindi fondati sulla figura dell’antifrasi, sono cioè da intendere a rovescio: il poeta sembra esaltare gli «alti pensieri» dell’uomo di Stato e sminuire il valore dei «versi» come cosa di trascurabile rilevanza, in realtà è proprio il contrario, egli prova fastidio se non disprezzo per le questioni politiche e diplomatiche in cui è immerso il cardinale e ritiene invece che l’attività più alta sia proprio la poesia. Egli finge di ritenere il contrario, e di condividere la scala di valori del signore: ma, nel momento in cui più si adegua al codice cortigiano, se ne distacca con l’ironia, rivendicando segretamente l’autonomia dell’intellettuale dalla corte e il valore delle lettere contro gli affari politici: questi implicitamente presentati come cosa vana, come follia in cui si disperdono gli sforzi umani, quelle come l’unica attività in cui l’uomo può realizzare pienamente se stesso e raggiungere la serenità e la saggezza.

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

CompRendeRe

> 1. Elabora per ogni ottava una sintesi del contenuto, utilizzando se vuoi vocaboli e/o espressioni ricavati dal testo, secondo l’esempio proposto. ottava

Contenuto

1

Il......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... poeta intende cantare le imprese d’amore e d’armi che avvennero al tempo in cui i Mori portarono la guerra in Francia, al seguito del re Agramante, contro Carlo Magno. .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

2

......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

3

......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

4

......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

AnALIzzARe

> 2. > 3. > 4. > 5. > 6.

Ariosto si limita a citare solo alcuni fra gli innumerevoli personaggi ed episodi del poema: quali e perché? Quali altre figure, oltre al chiasmo, è possibile osservare nei primi due versi? Lessico Quali vocaboli e/o espressioni appartengono a un registro colloquiale? Lessico Quali vocaboli e/o espressioni appartengono a un registro alto? Lingua Con quale forma verbale (modo e tempo) l’autore auspica o prefigura un riscontro riguardo alla propria opera presso il pubblico a cui è destinata? Rintraccia gli esempi nel testo. Stile Stile

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 7.

Scrivere In base alla lettura dell’ottava 3, quale immagine dà il poeta di sé? Spiegalo in circa 5 righe (250 caratteri). > 8. esporre oralmente Argomenta (max 5 minuti) sul tema “La committenza dell’Orlando furioso e il suo pubblico”. > 9. Competenze digitali Realizza un lavoro in PowerPoint in cui siano montati, in successione e ordine cronologico, i proemi dei fondamentali poemi della letteratura occidentale (Iliade, Odissea, Eneide ecc.). Per ogni slide puoi fare in modo che il testo evidenzi – a livello grafico o cromatico – formule, espressioni, vocaboli o altri elementi ricorrenti. Se lo ritieni opportuno, puoi accompagnare le citazioni con immagini da te selezionate in base ai contesti di riferimento.

peR IL ReCupeRo

> 10. Effettua l’analisi del periodo dell’ottava 1.

262

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

T4

un microcosmo del poema: il canto I dall’Orlando furioso, I, 5-81 Dopo le quattro ottave proemiali riportiamo per intero il canto I, per dare un’idea di un segmento significativo del poema nella sua interezza, e per poter così mettere in rilievo le leggi della sua costruzione. 5

Orlando1, che gran tempo inamorato fu de la bella Angelica2, e per lei in India, in Media, in Tartaria3 lasciato avea infiniti et immortal trofei4, in Ponente5 con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna6 re Carlo era attendato alla campagna7,

6

per far al re Marsilio8 e al re Agramante battersi ancor del folle ardir la guancia9, d’aver condotto, l’un, d’Africa quante genti erano atte a portar spada e lancia; l’altro, d’aver spinta la Spagna inante10 a destruzion del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò quivi a punto11: ma tosto12 si pentì d’esservi giunto;

7

che vi fu tolta la sua donna poi13: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperii ai liti eoi14 avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. Il savio imperator, ch’estinguer volse un grave incendio15, fu che gli la tolse.

8

Nata pochi dì inanzi era una gara tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo16, che ambi avean per la bellezza rara d’amoroso disio l’animo caldo17. Carlo, che non avea tal lite cara, che gli rendea l’aiuto lor men saldo, questa donzella, che la causa n’era, tolse, e diè in mano al duca di Bavera18;

1. Orlando: nelle ottave 5-9 Ariosto riassume l’antefatto, ossia gli eventi principali della trama dell’Orlando innamorato di Boiardo. 2. Angelica: figlia di Galafrone, re del Catai,

è stata seguita da Orlando per tutta l’Asia, da dove l’ha ricondotta in Occidente. 3. Media, Tartaria: il paese dei Medi (la Persia), quello dei Tartari (in Asia centrale).

Temi chiave

• la vanità della ricerca • l’abbassamento della dignità epica dei personaggi

• la fuga di Angelica come motore dell’azione

• l’attualizzazione della materia epica

4. infiniti … trofei: infinite prove di valore. 5. Ponente: Occidente. 6. Lamagna: Alemagna (Germania). 7. alla campagna: in campo aperto. 8. re Marsilio: è il re degli Arabi di Spagna. Personaggio d’invenzione, ma già presente in Pulci e Boiardo. 9. battersi … guancia: pentirsi di aver condotto, con folle ardire, i loro eserciti contro la Francia. 10. inante: avanti. 11. a punto: al momento opportuno. 12. tosto: presto. 13. che … poi: perché qui (vi) gli fu tolta la sua donna. 14. dagli … eoi: dalle sponde occidentali (Espero era il nome della stella che designava l’Ovest) a quelle orientali (Eos era il nome greco dell’aurora). 15. ch’estinguer … incendio: che volle placare una feroce contesa (che minacciava di scoppiare tra i cavalieri del campo cristiano innamorati di Angelica). 16. e il suo cugin Rinaldo: i fratelli Milone e Amone erano i padri rispettivamente di Orlando e Rinaldo, fra loro cugini. Aver bevuto alle fonti dell’amore e dell’odio ha fatto sì che Angelica odi Rinaldo mentre quest’ultimo, al pari del cugino, è follemente innamorato di lei. 17. che ambi … caldo: poiché entrambi avevano l’animo ardente di desiderio amoroso per la rara bellezza (di Angelica). 18. duca di Bavera: è Namo di Baviera, vecchio amico e consigliere di Carlo.

263

L’età del Rinascimento

9

10

11

in premio promettendola a quel d’essi ch’in quel conflitto, in quella gran giornata19, degli infideli più copia20 uccidessi, e di sua man prestassi opra più grata21. Contrari ai voti poi furo i successi; ch’in fuga andò la gente battezzata, e con molti altri fu ’l duca prigione, e restò abbandonato il padiglione22. Dove, poi che rimase la donzella ch’esser dovea del vincitor mercede23, inanzi al caso24 era salita in sella, e quando bisognò25 le spalle diede, presaga che quel giorno esser rubella26 dovea Fortuna alla cristiana fede: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venìa. Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; e più leggier27 correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo28. Timida pastorella mai sì presta29 non volse piede inanzi a serpe crudo30,

19. gran giornata: la giornata della battaglia campale.

20. più copia: maggior quantità. 21. opra più grata: imprese più utili (alla

causa cristiana). 22. Contrari … padiglione: l’esito della battaglia fu contrario alle attese (voti) di Carlo: i cristiani (gente battezzata) furono messi in fuga, il duca Namo fu preso prigioniero insieme con molti altri e la tenda (padiglione, in cui era custodita Angelica) rimase abbandonata. 23. mercede: premio. 24. inanzi al caso: prima della rotta dei cristiani. 25. bisognò: fu il momento adatto. 26. rubella: avversa. 27. leggier: rapido. 28. pallio … ignudo: di quanto corra un contadino mezzo nudo nella gara in cui il premio è rappresentato da un drappo rosso (reminiscenza dantesca: «E parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna»; Inferno, XV, vv. 121-123). 29. sì presta: così veloce. 30. crudo: velenoso.

pesare le parole Voti (ottava 9, v. 5)

> Viene dal latino vòtum, “preghiera, desiderio”, dal verbo

vovère, “far voto”. Qui ha appunto il senso di “auspicio, desiderio, speranza”. Qualcosa del senso antico è rimasto nel linguaggio religioso attuale, a indicare la promessa fatta a Dio, alla Madonna o a un santo di compiere un’azione ad essi gradita, o di rinunciare a qualcosa (es. far voto alla Madonna di recarsi in pellegrinaggio al santuario, far voto a Dio di rinunciare ai dolci); voti sono gli obblighi di castità, povertà e obbedienza che assume chi entra nello stato religioso (es. ha preso i voti e si è fatta suora); l’ex voto è l’oggetto offerto in conseguenza di un voto, spesso per grazia ricevuta. Il senso di “auspicio, desiderio” è rimasto nel linguaggio più colto (es. ciò era nei voti di tutti, formulare voti per la vittoria). L’uso più corrente oggi è però quello in senso politico, la dichiarazione della propria volontà in un’elezione o in una delibera (es. sciogliere le Camere e andare al voto, voto a scrutinio segreto, per appello nominale, per alzata di mano, voto di fiducia). Nella scuola e nell’università è il giudizio espresso in numeri sulle capacità e sul grado di preparazione di uno studente.

Rubella

>

264

(ottava 10, v. 5)

Viene dal latino rebèllem, composto da re- e bèllum, “guerra”, quindi “che rinnova la guerra”. Nell’italiano attua-

le assume la forma ribelle. Qui la parola è vicina al senso originario, poiché significa “avversa”. Il senso più comune oggi è “che rifiuta di sottomettersi, di obbedire”, “che si oppone a un’autorità, a una legge” (es. ribelle di fronte all’ingiustizia, è ribelle all’autoritarismo paterno); per un soggetto collettivo, ribellarsi è anche “sollevarsi con violenza” (es. il popolo si ribellò all’oppressione del dittatore).

Crudo

(ottava 11, v. 6)

> Qui riferito al serpente vale “crudele, aggressivo e temibi-

>

le” (a causa del veleno). Viene dal latino crùdum, “sanguinante”, da cruòrem, “sangue che sgorga da una ferita”. Il senso di “crudele, duro, spietato” è rimasto solo nel linguaggio letterario e colto (es. ha subito una cruda condanna), mentre il senso più corrente è “non sottoposto a cottura”. In senso figurato può voler dire “aspro, brusco” (es. mi ha rivolto parole crude), o, riferito al clima, significa “inclemente, rigido” (es. sarà un inverno molto crudo). Una spiegazione del passaggio dal senso originario “sanguinante” a “crudele” può essere questa: la carne non cotta, sanguinante, è dura, e questa proprietà è passata in senso metaforico alla durezza dell’animo. Da cruòrem deriva cruento, “sanguinoso” (es. la battaglia fu molto cruenta).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

come Angelica tosto il freno torse, che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse31. 12

Era costui quel paladin gagliardo, figliuol d’Amon, signor di Montalbano32, a cui pur dianzi33 il suo destrier Baiardo34 per strano caso uscito era di mano. Come alla donna egli drizzò lo sguardo, riconobbe, quantunque di lontano, l’angelico sembiante35 e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto36.

13

La donna il palafreno37 a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per la folta, la più sicura e miglior via procaccia38: ma pallida, tremando, e di sé tolta39, lascia cura al destrier che la via faccia40. Di su di giù, ne l’alta selva fiera41 tanto girò, che venne a una riviera42.

14

Su la riviera Ferraù43 trovosse44 di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse45, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso46, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco47 riavere.

15

Quanto potea più forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino e nel viso la guata48; e la conosce49 subito ch’arriva, ben che di timor pallida e turbata, e sien più dì che non n’udì novella50, che51 senza dubbio ell’è Angelica bella.

31. tosto … s’accorse: tirò immediatamente le redini per far cambiare direzione al suo

cavallo, non appena (tosto … che) si accorse del guerriero che giungeva a piedi.

32. Era … Montalbano: Rinaldo. 33. pur dianzi: poco prima. 34. Baiardo: cavallo fatato straordinariamente veloce e di intelligenza quasi umana. 35. sembiante: aspetto. 36. involto: avvolto. 37. il palafreno: cavallo, usato per i viaggi, non per i combattimenti. 38. né per la rara … procaccia: e non si cura di cercare la via migliore e più sicura dove la selva è più rada che folta. 39. di sé tolta: fuori di sé. 40. lascia … faccia: lascia al cavallo l’incarico di scegliere la via. 41. alta … fiera: la foresta di piante alte e selvaggia. 42. riviera: riva di un fiume. 43. Ferraù: Ferraguto nell’Orlando innamorato; anche lui innamorato di Angelica, aveva ucciso in combattimento Argalia, fratello di lei, e gli aveva sottratto l’elmo nonostante avesse promesso di restituire le armi al corpo del defunto. 44. trovosse: si trovò. 45. fermosse: si fermò. 46. ingordo e frettoloso: i due aggettivi connotano l’indole di Ferraù, impulsivo e pronto a cedere agli appetiti. 47. anco: ancora. 48. la guata: la guarda fissamente. 49. la conosce: la riconosce. 50. novella: notizia. 51. che: è retto da conosce, verso 5 dell’ottava.

pesare le parole Novella (ottava 15, v. 7)

> Viene dal latino novèllam, diminutivo femminile di nò-

vum, “nuovo”. Qui ha il senso di “notizia”, che è rimasto ancora nel linguaggio colto (es. mi ha recato buone novelle), anche nella forma nuove (es. mi porti buone o cattive nuove?); nel linguaggio religioso la buona novella è il messaggio di Cristo, il Vangelo (in greco “buon mes-

saggio”); l’uso nel senso di “notizia” è invece comune nel francese attuale, nouvelle, e anche in inglese le notizie sono news, da new, “nuovo”. Il senso più corrente nell’italiano di oggi è però “narrazione breve di vicende reali o immaginarie” (es. le novelle di Boccaccio, di Verga, di Pirandello).

265

L’età del Rinascimento

16

E perché era cortese, e n’avea forse non men dei dui cugini il petto caldo52, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo53, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Più volte s’eran già non pur54 veduti, m’al paragon de l’arme conosciuti55.

17

Cominciàr quivi una crudel battaglia, come a piè si trovàr, coi brandi ignudi56: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi57. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia58, bisogna al palafren che ’l passo studi59; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna60.

18

Poi che s’affaticàr gran pezzo invano61 i duo guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto62; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto63, sì come quel c’ha nel cor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco64.

19

Disse al pagan: – Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso65: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol66 t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso67, non però tua la bella donna fia68, che, mentre noi tardiàn69, se ne va via.

52. era cortese … caldo: conosceva l’etica cavalleresca (e questo gli imponeva di prestare aiuto ad Angelica) e non ne era meno innamorato (n’avea … non men … il petto caldo: il sentimento d’amore viene sempre espresso attraverso immagini che rinviano al fuoco o al calore che esso sprigiona) dei due cugini (Orlando e Rinaldo).

53. pur come … l’elmo: come se avesse avuto l’elmo. 54. non pur: non solo. 55. m’al … conosciuti: ma conosciuti attraverso il confronto con le armi. 56. brandi ignudi: spade sguainate. 57. non che … gl’incudi: i colpi che sferravano erano di tale violenza che non solo non li

avrebbero retti le piastre (lamine di ferro dell’armatura) e la maglia (di ferro che i cavalieri indossavano sotto l’armatura), ma neppure un’incudine. 58. si travaglia: si impegna per vincere. 59. bisogna … studi: bisogna che il cavallo di Angelica affretti il passo. 60. che … campagna: perché quanto più può spronarlo (menar de le calcagna) lo spinge verso il bosco e la campagna. 61. invano: la fuga di Angelica rende vana la sfida dei due. 62. quando … dotto: poiché nessuno dei due era meno esperto (dotto) dell’altro nell’uso delle armi. 63. fu primiero… motto: fu Rinaldo il primo che rivolse la parola a Ferraù (cavallier di Spagna). 64. non ritrova loco: non si dà pace. 65. Me sol … offeso: ti sarai illuso, attaccando battaglia, di danneggiare me solo, ed invece, al tempo stesso hai danneggiato anche te. 66. i fulgenti … sol: gli occhi luminosi di Angelica, che sono come i raggi splendenti di un nuovo sole. 67. quando … preso: quand’anche tu mi abbia ucciso o catturato. 68. fia: sarà. 69. noi tardiàn: noi indugiamo.

pesare le parole Offeso (ottava 19, v. 2)

> Viene dal latino offèndere, “urtare, ferire, far del male”: e qui offeso ha appunto il valore di “danneggiato”. Il senso più comune di offendere è nell’italiano attuale “colpire con un insulto, un’espressione sgradita”, per cui offeso è chi è indispettito, impermalito per un’ingiuria o uno sgarbo. È rimasto però anche il più forte senso originario,

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“danneggiare, ledere” (es. è stato offeso nell’onore), “violare” (es. offendere il pudore), “molestare, dar fastidio” (es. la bruttezza dell’edificio offende il buon gusto), “ferire” in senso fisico (es. il chirurgo operando ha offeso un nervo). Nel linguaggio giuridico la parte offesa è chi ha ricevuto un danno.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

20

Quanto fia meglio, amandola tu ancora70, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora71, prima che più lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate72, allora di ch’esser de’73 si provi con la spada: non so altrimenti74, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno. –

21

Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita75 la tenzone76; e tal tregua tra lor subito nacque, sì l’odio e l’ira va in oblivione77, che ’l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliol d’Amone: con preghi invita, et al fin toglie in groppa78, e per l’orme79 d’Angelica galoppa.

22

Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!80 Eran rivali, eran di fé81 diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi82; e pur per selve oscure e calli obliqui83 insieme van senza sospetto aversi84. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva85.

23

E come quei che86 non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenzia alcuna apparia in amendue l’orma novella87), si messero ad arbitrio di fortuna88, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraù molto s’avvolse89, e ritrovossi al fine onde si tolse90.

24

Pur91 si ritrova ancor su la riviera, là dove l’elmo gli cascò ne l’onde.

70. amandola … ancora: se anche tu la ami. 71. farle far dimora: arrestarla. 72. in potestate: in nostro potere. 73. di ch’esser de’: a chi deve appartenere. 74. altrimenti: diversamente. 75. differita: rinviata.

76. tenzone: duello. 77. va in oblivione: vengono dimenticati. 78. toglie in groppa: lo fa montare sul suo cavallo. 79. per l’orme: sulle tracce. 80. Oh … antiqui!: l’esclamazione nasce dal-

la considerazione dello scarto esistente fra i valori di un tempo e quelli del presente. 81. fé: fede. 82. e si sentian … dolersi: avvertivano sul proprio corpo ancora il dolore per le ferite ricevute. 83. calli obliqui: sentieri tortuosi. 84. sospetto aversi: senza nutrire il sospetto che nell’atteggiamento dell’uomo si possa celare un inganno verso l’altro: in questo consiste la gran bontà de’ cavallieri antiqui, il valore della lealtà cavalleresca. 85. ove … dipartiva: ad un bivio. 86. E come quei che: poiché essi. 87. però che … novella: poiché in entrambe le vie apparivano senza differenze le orme fresche. 88. si messero … fortuna: si affidarono alla sorte. 89. s’avvolse: si aggirò. 90. onde si tolse: da cui era partito. La selva è uno spazio labirintico. 91. Pur: alla fine.

pesare le parole Calli (ottava 22, v. 5)

> Viene dal latino càllem, “sentiero, cammino”. È rimasto

solo nella lingua letteraria (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 5-6: «Ancor non sei tu [la luna] paga / di riandare i sempiterni calli?»), ma si chiamano così ancora le strette strade di Venezia. Non è da

confondere con calli, dal latino càllum, “ispessimento della cute, specie delle mani e dei piedi”. Bisogna dunque fare attenzione perché a volte parole apparentemente uguali derivano in realtà da radici diverse e hanno significati lontani fra loro.

267

L’età del Rinascimento

Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde92, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde93: ma quello era sì fitto ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l’abbia. 25

Con un gran ramo d’albero rimondo94, di ch’avea fatto una pertica lunga, tenta95 il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l’indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d’aspetto fiero96.

26

Era, fuor che la testa, tutto armato, et avea un elmo ne la destra mano: avea il medesimo elmo che cercato da Ferraù fu lungamente invano. A Ferraù parlò come adirato, e disse: – Ah mancator di fé, marano97! perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi98, che render già gran tempo mi dovevi?

27

Ricordati, pagan, quando uccidesti d’Angelica il fratel99 (che son quell’io), dietro all’altr’arme tu mi promettesti gittar fra pochi dì100 l’elmo nel rio101. Or se Fortuna (quel che non volesti far tu) pone ad effetto102 il voler mio, non ti turbare; e se turbar ti déi103, turbati che di fé mancato sei104.

28

Ma se desir pur hai d’un elmo fino105, trovane un altro, et abbil con più onore; un tal ne porta Orlando paladino, un tal Rinaldo, e forse anco migliore:

92. asconde: nasconde. 93. ne l’estreme … sponde: sul limitare della riva, sul bagnasciuga. 94. rimondo: sfrondato. 95. tenta: scandaglia.

96. fiero: risentito e sdegnato. 97. Ah … marano: mancator di fe’ equivale a marano, marrano: con questo termine venivano designati gli Ebrei spagnoli che, dopo l’abiura, accettarono di convertirsi al cattoli-

cesimo pur di sfuggire alle persecuzioni dei sovrani spagnoli, ma furono sospettati di continuare a praticare di nascosto la loro religione. La connotazione negativa del sostantivo fece sì che esso fu presto usato come un epiteto con un significato spregiativo. 98. t’aggrevi: ti crucci. 99. d’Angelica il fratel: è Argalia. 100. fra pochi dì: entro pochi giorni. 101. nel rio: nel fiume. Argalia, fratello di Angelica, benché dotato di armi fatate, era stato vinto e ucciso da Ferraù in battaglia. Aveva ottenuto dal vincitore di essere sepolto nel fiume con le sue armi. Ferraù aveva acconsentito ma aveva chiesto di tenere per quattro giorni il suo elmo, essendone sprovvisto; l’avrebbe poi gettato nel fiume. Ferraù però non aveva mantenuto la promessa. 102. pone ad effetto: realizza. 103. ti déi: ti devi. 104. che … sei: perché non hai tenuto fede all’impegno. 105. se desir … fino: se hai desiderio di un elmo pregiato.

pesare le parole Tenta (ottava 25, v. 3)

> Deriva dal latino temptàre, “toccare”. Qui ha appunto questo significato, “toccare per accertarsi della presenza di qualcosa”, l’elmo di Argalia nel fiume. I sensi oggi più comuni sono: “cercare di corrompere, istigare al male” (es. l’assessore è stato tentato con l’offerta di

268

una grossa tangente), “allettare” (es. sono tentato dall’idea di prendermi una bella vacanza), oppure ancora “cercare di fare qualcosa” (es. ha tentato inutilmente di evitare l’ostacolo), “sperimentare” (es. stanno tentando una nuova cura per il cancro).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

l’un fu d’Almonte106, e l’altro di Mambrino107: acquista un di quei duo col tuo valore; e questo, c’hai già di lasciarmi detto, farai bene a lasciarmi con effetto108. – 29

All’apparir che fece all’improviso de l’acqua l’ombra109, ogni pelo arricciossi, e scolorossi al Saracino il viso110; la voce, ch’era per uscir, fermossi. Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso quivi avea già (che l’Argalia nomossi), la rotta fede così improverarse111, di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.

30

Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ’l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse, che giurò per la vita di Lanfusa112 non voler mai ch’altro elmo lo coprisse, se non quel buono che già in Aspramonte trasse del capo Orlando al fiero Almonte.

31

E servò113 meglio questo giuramento, che non avea quell’altro fatto prima. Quindi si parte tanto malcontento, che molti giorni poi si rode e lima114. Sol di cercare è il paladino115 intento di qua di là, dove trovarlo stima. Altra ventura al buon Rinaldo accade, che da costui tenea diverse strade.

32

Non molto va Rinaldo, che si vede saltare inanzi il suo destrier feroce: – Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! che l’esser senza te troppo mi nuoce. – Per questo116 il destrier sordo a lui non riede117, anzi più se ne va sempre veloce. Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo118 Angelica che fugge.

33

Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi119 e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure120, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con sùbite paure trovar di qua di là strani viaggi121; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

106. d’Almonte: cavaliere pagano, fratello di Troiano, ucciso in Aspromonte da Orlando, che si impadronì del suo elmo, del cavallo Brigliadoro e della spada Durindana.

107. di Mambrino: nemico di Rinaldo, che l’uccise prendendogli l’elmo. 108. con effetto: realmente. 109. l’ombra: il fantasma.

110. ogni … viso: citazioni dantesche: «Già mi sentia arricciar tutti li peli / da la paura» (Inferno, XXIII, v. 19); «e scolorocci il viso» (Inferno, V, v. 131). 111. Udendo … improverarse: sentendosi poi rimproverare il suo atto sleale da Argalia, che tempo prima aveva ucciso in quel luogo (si chiamava infatti Argalia). 112. Lanfusa: madre di Ferraù. 113. servò: mantenne. 114. si rode e lima: è molto crucciato e tormentato. 115. il paladino: è Orlando, che cerca per sottrargli l’elmo che fu di Almonte. 116. Per questo: ciononostante. 117. riede: ritorna. 118. seguitiamo: seguiamo. 119. ermi: solitari. 120. verzure: germogli. 121. fatto … viaggi: il rumore provocato dallo spostamento dei cerri, degli olmi e dei faggi provocava in Angelica timori improvvisi, in seguito ai quali si dirigeva senza meta nella selva.

269

L’età del Rinascimento

34

Qual pargoletta o damma o capriuola122, che tra le fronde del natio boschetto alla madre veduta abbia la gola stringer dal pardo123, o aprirle ’l fianco o ’l petto, di selva in selva dal crudel s’invola124, e di paura triema e di sospetto: ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera125 in bocca.

35

Quel dì e la notte e mezzo l’altro giorno s’andò aggirando, e non sapeva dove: trovossi al fine in un boschetto adorno126, che lievemente la fresca aura muove. Duo chiari rivi, mormorando intorno, sempre l’erbe vi fan tenere e nuove; e rendea ad ascoltar dolce concento, rotto tra picciol sassi, il correr lento127.

36

Quivi parendo a lei d’esser sicura e lontana a Rinaldo mille miglia, da la via stanca128 e da l’estiva arsura, di riposare alquanto si consiglia129: tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura andare il palafren senza la briglia; e quel va errando intorno alle chiare onde, che di fresca erba avean piene le sponde.

37

Ecco non lungi130 un bel cespuglio vede di prun131 fioriti e di vermiglie rose, che de le liquide onde al specchio siede132, chiuso133 dal sol fra l’alte quercie ombrose; così vòto nel mezzo, che concede fresca stanza fra l’ombre più nascose134: e la foglia coi rami in modo è mista, che ’l sol non v’entra, non che minor vista135.

38

Dentro letto vi fan tenere erbette, ch’invitano a posar chi s’appresenta. La bella donna in mezzo a quel si mette, ivi si corca et ivi s’addormenta. Ma non per lungo spazio così stette, che un calpestio le par che venir senta136: cheta si leva, e appresso alla riviera vede ch’armato un cavallier137 giunt’era.

122. Qual … capriuola: come un cucciolo (pargoletta) di daino o di capriolo. 123. dal pardo: dal leopardo. 124. dal crudel s’invola: fugge dalla belva feroce. 125. empia fera: la fiera crudele.

270

126. adorno: ridente. 127. rendea … lento: lo scorrere lento, interrotto da piccoli sassi, produceva ad ascoltare dolce armonia; concento è complemento oggetto di rendea, mentre il correr lento del verso successivo è il soggetto.

128. da la via stanca: stanca per la lunga fuga. 129. si consiglia: decide. 130. non lungi: non lontano. 131. prun: biancospini. 132. che … siede: che si riflette nelle acque limpide essendo collocato sulla riva. 133. chiuso: protetto. 134. concede … nascose: concede un fresco ricovero fra le ombre più nascoste. 135. che … vista: che non solo non vi penetrano i raggi del sole ma anche gli sguardi (vista) degli uomini (che sono minor, meno penetranti della luce del sole). 136. le par … senta: le pare di sentire avvicinarsi. 137. un cavallier: è Sacripante, re di Circassia, innamorato di Angelica.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

39

Se gli è amico o nemico non comprende: tema e speranza il dubbio cor le scuote138; e di quella aventura il fine attende, né pur d’un sol sospir l’aria percuote. Il cavalliero in riva al fiume scende sopra l’un braccio a riposar le gote; e in un suo gran pensier tanto penètra, che par cangiato in insensibil pietra.

40

Pensoso più d’un’ora a capo basso stette, Signore139, il cavallier dolente; poi cominciò con suono afflitto e lasso140 a lamentarsi sì soavemente, ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso, una tigre crudel fatta141 clemente. Sospirando piangea, tal ch’un ruscello parean le guancie, e ’l petto un Mongibello142.

41

– Pensier – dicea – che ’l cor m’aggiacci et ardi143 e causi il duol che sempre il rode e lima144, che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, e ch’altri a còrre il frutto145 è andato prima? A pena avuto io n’ho parole e sguardi, et altri n’ha tutta la spoglia opima146.

138. tema … scuote: timore (tema) e speranza le fanno battere il cuore dubbioso.

139. Signore: Ariosto si rivolge al destinatario dell’opera, Ippolito d’Este, seguendo

pesare le parole Tema (ottava 39, v. 2)

Lasso

un topos che appartiene alla tradizione del genere, come se l’ascoltatore fosse fisicamente presente dinanzi a lui. 140. suono … lasso: voce afflitta e infelice. 141. fatta: resa. 142. tal … Mongibello: iperbole: vengono esagerate le sue reazioni paragonando il pianto a un fiume di lacrime, il petto ansimante al vulcano Etna. 143. Pensier … ardi: è la pena d’amore per Angelica che ora agghiaccia ed ora fa ardere di passione il cuore di Sacripante. 144. e causi … lima: e causi il dolore che sempre mi rode e mi consuma. 145. còrre il frutto: cogliere (còrre è forma contratta) il frutto; fuor di metafora, la verginità di Angelica. 146. spoglia opima: il ricco bottino. Sacripante continua a ricorrere alla metafora che, in questo caso, appartiene al repertorio delle espressioni militari: la spoglia, ossia la preda, il bottino, è in questo caso il possesso di Angelica.

(ottava 40, v. 3)

> Qui vale “timore”. Parola arcaica, derivante dalla ra- > Dal latino popolare làssum, “stanco”. In italiano è padice di temere (latino timère) e rimasta nell’uso letterario. Da pronunciare con la e chiusa, quindi da non confondere con tèma, con la e aperta (che viene da un’altra radice, il greco théma, poi passato anche in latino), “argomento, soggetto di uno scritto, di una discussione, di un ragionamento”, o, in ambito scolastico, “argomento proposto per un componimento scritto, traccia”, e anche il componimento stesso, o ancora “motivo ricorrente in opere letterarie, teatrali, cinematografiche, artistiche, musicali (es. il tema d’amore nella poesia stilnovistica, il tema del duello nel film western); in linguistica infine è la parte della parola a cui si aggiunge la desinenza. Come si vede due parole che scritte appaiono uguali si diversificano invece nella pronuncia, per la differenza fra la e chiusa ed aperta. La differenza tra le due e è importante nella lingua italiana, perché in vari casi distingue fra loro due parole: es. pésca, l’atto di pescare, e pèsca, il frutto. Lo stesso vale per la o: bótte, con la o chiusa, “recipiente per il vino o altri liquidi”, bòtte, con la o aperta, “percosse”. Purtroppo nell’italiano parlato in molte regioni le differenze non sono avvertite.

>

>

rola di uso esclusivamente letterario, sia nel senso di “stanco” sia in quello di “misero, infelice” (che è quello che qui ricorre). Il termine è rimasto invece nell’uso corrente in francese: nella forma dell’aggettivo las, “stanco”, del sostantivo lassitude, “stanchezza”, del verbo lasser, “stancare”, e anche dell’espressione hélas!, “ahimé!”. Non è da confondere con lasso, voce dotta che viene dal latino làxum e che significa “allentato” (es. ramo lasso, “che si piega facilmente”), o “privo di compattezza” (es. tessuti lassi) e in senso figurato “che eccede per indulgenza”. Dalla stessa radice del verbo laxàre vengono rilassato, lassativo (“purgante”), lassismo, “eccessivo permissivismo” (in origine, nella storia della morale cattolica, era una corrente che nel XVIII secolo modificava in senso accomodante il rigore dei precetti cristiani). Esiste anche il sostantivo lasso, ma dal latino làpsum, participio passato del verbo labi, “scivolare, scorrere”, usato nell’espressione lasso di tempo, nel senso di “periodo” (es. in un breve lasso di tempo). È uno dei vari casi di parole apparentemente uguali, ma in realtà di origini e significati molto diversi.

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L’età del Rinascimento

Se non ne tocca a me frutto né fiore, perché affliger per lei mi vuo’ più il core?147 42

La verginella è simile alla rosa148, ch’in bel giardin su la nativa spina149 mentre150 sola e sicura si riposa, né gregge né pastor se le avicina151; l’aura soave152 e l’alba rugiadosa, l’acqua, la terra al suo favor153 s’inchina: gioveni vaghi154 e donne inamorate amano averne e seni e tempie ornate.

43

Ma non sì tosto dal materno stelo rimossa155 viene, e dal suo ceppo verde, che quanto avea dagli uomini e dal cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che ’l fior, di che più zelo che de’ begli occhi e de la vita aver de’, lascia altrui còrre156, il pregio ch’avea inanti157 perde nel cor di tutti gli altri amanti.

44

Sia vile158 agli altri, e da quel solo amata a cui di sé fece sì larga copia159. Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia160. Dunque esser può che non mi sia più grata161? dunque io posso lasciar mia vita propia162? Ah più tosto oggi manchino i dì miei163, ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –

45

Se mi domanda alcun chi costui sia che versa sopra il rio lacrime tante, io dirò ch’egli è il re di Circassia, quel d’amor travagliato Sacripante; io dirò ancor che di sua pena ria164 sia prima e sola causa essere amante, e pur un degli amanti di costei: e ben riconosciuto fu da lei.

147. perché … core?: perché mi vuoi (rivolto al Pensier del v. 1) ancora affliggere il cuore per lei? 148. La verginella … rosa: Sacripante intesse qui un elogio della verginità che ricalca alcuni celebri versi catulliani (Carme, LXII, vv. 39 e ss.): una fanciulla che non ha ancora concesso il suo amore ad un uomo è paragonabile ad una rosa, fiore che tutti desiderano; non appena si dà, il suo fascino sfiorisce perché ha perso quell’innocenza che costituiva l’attrattiva per i suoi amanti. La seduzione, sembra dire Ariosto, consiste nell’impedire al desiderio di realizzarsi, al contrario il possesso fa dilegua-

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re l’attrattiva esercitata dal bene desiderato. Ironicamente il poeta fa pronunciare questa meditazione ad un personaggio che, nel giro di poche ottave, da cavaliere rispettoso diverrà pronto a carpire la verginità della fanciulla. 149. su la nativa spina: sull’arbusto spinoso su cui è nata. 150. mentre: finché. 151. se le avicina: le si avvicina. 152. l’aura soave: brezza. 153. favor: fascino. 154. vaghi: innamorati. 155. rimossa: divelta. 156. La vergine … còrre: la vergine che

lascia cogliere ad altri il fiore, che dovrebbe avere a cuore più dei begli occhi e della stessa vita. 157. inanti: prima. 158. vile: di scarso valore. 159. sì larga copia: dono tanto generoso. 160. ne moro … inopia: ne muoio per la mancanza. 161. più grata: più cara. 162. mia vita propia: Angelica, che è la mia stessa vita. 163. oggi … miei: possa io morire oggi. 164. pena ria: crudele sofferenza.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

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Appresso ove il sol cade165, per suo amore venuto era dal capo166 d’Orïente; che seppe in India con suo gran dolore, come ella Orlando seguitò in Ponente: poi seppe in Francia che l’imperatore sequestrata l’avea da l’altra gente, per darla all’un de’ duo167 che contra il Moro più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro168.

47

Stato era in campo, e inteso avea di quella rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo169: cercò vestigio170 d’Angelica bella, né potuto avea ancora ritrovarlo. Questa è dunque la trista e ria novella che d’amorosa doglia fa penarlo171, affligger, lamentare e dir parole che di pietà potrian fermare il sole.

48

Mentre costui così s’affligge e duole, e fa degli occhi suoi tepida fonte172, e dice queste e molte altre parole, che non mi par bisogno esser racconte173; l’aventurosa sua fortuna174 vuole ch’alle orecchie d’Angelica sian conte175: e così quel ne viene a un’ora, a un punto, ch’in mille anni o mai più non è raggiunto176.

49

Con molta attenzion la bella donna al pianto, alle parole, al modo attende177 di colui ch’in amarla non assonna178; né questo è il primo dì ch’ella l’intende: ma dura e fredda più d’una colonna, ad averne pietà non però scende179, come colei c’ha180 tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno.

165. Appresso … cade: ad Occidente. 166. capo: estremità. 167. all’un … duo: o ad Orlando o a Rinaldo. 168. i Gigli d’oro: contrassegnavano lo stemma della casata francese.

169. inteso … Carlo: aveva sentito della sconfitta crudele che Carlo aveva subito poco prima. 170. vestigio: traccia. 171. la trista … penarlo: la triste e crudele

notizia che lo fa soffrire di pena amorosa. 172. tepida fonte: fonte tiepida di lacrime. 173. racconte: raccontate. 174. l’aventurosa sua fortuna: la sua buona sorte. 175. conte: conosciute. 176. e così … raggiunto: in tal modo in un solo istante gli succede di ottenere quello che né lui né altri avrebbero potuto ottenere in mille anni, o addirittura mai. È un motto latino citato anche da Boccaccio nel Teseida. Il favore che Sacripante ottiene è (se pure transitorio) quello di Angelica. 177. attende: presta attenzione. 178. non assonna: non si addormenta, ossia non tralascia di amarla. 179. non però scende: tuttavia non si abbassa. 180. come colei c’ha: poiché ha.

pesare le parole Copia (ottava 44, v. 2)

> Qui conserva il senso del latino còpiam, “abbondanza,

gran quantità”. Questo senso è rimasto in qualche modo di dire, soprattutto nel linguaggio colto (es. in quella casa vi sono libri in gran copia), oppure nell’aggettivo derivato copioso, “abbondante”. I sensi oggi correnti sono invece: “trascrizione fedele di uno scritto” (es. fare una copia del

contratto), “riproduzione di un oggetto d’arte” (es. ho in casa la copia di un quadro di Picasso), “esemplare di un’opera stampata, o di un film, o di un disco” (es. ho ricevuto una copia del tuo libro, il film è stato distribuito in cinquecento copie). Il senso attuale deriva comunque da quello latino, inteso come “abbondanza di riproduzioni”.

273

L’età del Rinascimento

50

Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola le fa pensar di tòr181 costui per guida; che chi ne l’acqua sta fin alla gola, ben è ostinato se mercé182 non grida. Se questa occasione or se l’invola183, non troverà mai più scorta sì fida184; ch’a lunga prova conosciuto inante s’avea quel re fedel sopra ogni amante185.

51

Ma non però disegna de l’affanno che lo distrugge alleggierir chi l’ama, e ristorar d’ogni passato danno con quel piacer ch’ogni amator più brama186: ma alcuna finzione, alcuno inganno di tenerlo in speranza ordisce e trama; tanto ch’a quel bisogno se ne serva, poi torni all’uso suo dura e proterva187.

52

E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco fa di sé bella et improvisa mostra, come di selva o fuor d’ombroso speco188 Diana in scena o Citerea si mostra189; e dice all’apparir: – Pace sia teco190; teco difenda Dio la fama nostra191, e non comporti192, contra ogni ragione, ch’abbi di me sì falsa opinïone193. –

53

Non mai con tanto gaudio194 o stupor tanto levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, ch’avea per morto sospirato e pianto,

181. tòr: prendere. 182. mercé: aiuto. 183. se l’invola: le sfugge. 184. fida: fedele. 185. a lunga … amante: per lunga esperien-

za aveva prima conosciuto quel re fedele più di ogni altro amante. Nell’Orlando innamorato Angelica aveva avuto l’aiuto di Sacripante quando era assediata in Albracca. 186. Ma non … brama: ma non per questo

pensa di sollevare chi l’ama (Sacripante) dalla sofferenza che lo distrugge e ricompensarlo d’ogni danno arrecatogli in passato con quel piacere che ogni amante più desidera. Il danno è quello subito per l’amore non corrisposto; la ricompensa consisterebbe nell’offrirgli se stessa, soddisfacendo in questo modo il suo desiderio. 187. ma … proterva: ma inventa un inganno per fargli sperare di avere il suo amore per tutto il tempo in cui avrà bisogno di servirsi di lui; poi, secondo un costume per lei abituale, tornerà dura e superba. 188. d’ombroso speco: antro ricoperto di vegetazione. 189. Diana … si mostra: compare in scena (Ariosto aveva familiarità con il teatro di corte) come Diana o Venere (Citerea è uno degli appellativi di Venere). 190. teco: con te. 191. teco … nostra: Dio difenda il mio onore presso di te. 192. e non comporti: Dio non permetta. 193. falsa opinïone: che, cioè, Angelica sia già stata di qualche altro cavaliere. 194. gaudio: gioia.

pesare le parole Ristorar (ottava 51, v. 3)

> Viene dal latino restauràre, “restaurare, rinnovare”. Qui > La doppia voce ristorare / restaurare è un altro caso di

>

274

vale “ricompensare”; il senso oggi più corrente è invece “ridare energie, rifocillare” (donde ristorante, luogo dove si ristorano le forze mediante il cibo; a sua volta rifocillare viene dal latino re-focilàre, “riscaldare, rianimare”, da fòculum, “fornello, scaldavivande”). Dalla stessa parola latina nell’italiano attuale deriva anche restaurare, “restituire allo stato primitivo opere d’arte, monumenti, palazzi” (es. restaurare un quadro di Caravaggio, il Colosseo), oppure “riportare in vita” (es. restaurare le rappresentazioni teatrali classiche). Sinonimo è ripristinare, dal latino pristinum, “ciò che era prima, precedente”, col prefisso re- che indica ripetizione.

parola latina che dà origine a due parole italiane con significato diverso, l’una più vicina alla forma originaria, l’altra più lontana in seguito ai soliti processi di trasformazione (il dittongo /au/ che si chiude in /o/). Si può osservare che la forma più vicina al latino è usata per le operazioni più nobili, legate alle arti, quella più lontana per quelle più materiali, riferite al cibo e al corpo. Ciò significa che questa era di uso più comune e popolare, e per questo ha subito maggiori modificazioni, mentre l’altra è stata introdotta dall’uso colto ed era meno frequente.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

poi che senza esso udì tornar le squadre195; con quanto gaudio il Saracin, con quanto stupor l’alta presenza196 e le leggiadre maniere e il vero angelico sembiante197, improviso apparir si vide inante198. 54

Pieno di dolce e d’amoroso affetto, alla sua donna, alla sua diva199 corse, che con le braccia al collo il tenne stretto, quel ch’al Catai non avria fatto forse200. Al patrio regno, al suo natio ricetto, seco avendo costui, l’animo torse201: subito in lei s’avviva la speranza di tosto riveder sua ricca stanza202.

55

Ella gli rende conto pienamente203 dal giorno che mandato fu da lei a domandar soccorso in Orïente al re de’ Sericani e Nabatei204; e come Orlando la guardò sovente da morte, da disnor, da casi rei205 e che ’l fior virginal così avea salvo, come se lo portò del materno alvo206.

56

Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore; ma parve facilmente a lui possibile, ch’era perduto in via più grave errore207. Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, e l’invisibil fa vedere Amore. Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole208.

57

«Se mal si seppe il cavallier d’Anglante pigliar per sua sciocchezza il tempo buono209, il danno se ne avrà; che da qui inante nol chiamerà Fortuna a sì gran dono»: tra sé tacito parla210 Sacripante

195. le squadre: l’esercito di cui il figlio faceva parte. 196. l’alta presenza: nobile figura. 197. vero … sembiante: Angelica sembra tale, a Sacripante, non solo di nome ma anche di fatto. 198. improviso … inante: all’improvviso si vide apparire innanzi. 199. diva: dea. 200. quel … forse: quello che forse non avrebbe fatto nel suo paese d’origine, il Catai (la Cina).

201. Al patrio … torse: rivolse il pensiero (per tornare) al regno paterno, al suo paese natale, portando con sé costui. 202. ricca stanza: il suo ricco paese. 203. gli rende … pienamente: gli racconta i dettagli. 204. dal giorno … Nabatei: quando era assediata con il padre in Albracca, Angelica aveva inviato Sacripante da Gradasso, re di Sericana e di Nabatea, per ottenerne l’aiuto. 205. casi rei: sventure. 206. e come … alvo: le parole di Angelica

sono volte a rassicurare Sacripante: Orlando l’ha scortata a lungo difendendola dalla morte, dal disonore, dai pericoli, ma non le ha mai chiesto nulla in cambio; ella è ancora vergine come quando era nata (il materno alvo è l’utero materno). 207. Forse … errore: l’autore avanza delle riserve sull’illibatezza della corteggiatissima Angelica; anche se non ne esclude la possibilità, ritiene tale condizione poco credibile a chi fosse stato nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Ma Sacripante, essendo innamorato, e quindi non padrone di sé, crede facilmente alle parole di Angelica. 208. ’l miser … vuole: l’infelice è solito credere facilmente a ciò che vuole. 209. Se mal … buono: se Orlando, signore di Anglante, non seppe per la sua stoltezza cogliere l’occasione favorevole. 210. tra sé … parla: parla tra sé in silenzio.

275

L’età del Rinascimento

«ma io per imitarlo già non sono, che lasci211 tanto ben che m’è concesso, e ch’a doler poi m’abbia di me stesso. 58

Corrò212 la fresca e matutina rosa, che, tardando, stagion perder potria213. So ben ch’a donna non si può far cosa che più soave e più piacevol sia, ancor che se ne mostri disdegnosa, e talor mesta e flebil214 se ne stia: non starò per repulsa o finto sdegno, ch’io non adombri e incarni il mio disegno215».

59

Così egli dice; e mentre s’apparecchia216 al dolce assalto, un gran rumor che suona dal vicin bosco gl’intruona217 l’orecchia, sì che mal grado l’impresa abbandona, e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia di portar sempre armata la persona). Viene al destriero, e gli ripon la briglia: rimonta in sella e la sua lancia piglia.

60

Ecco pel bosco un cavallier venire, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero: candido come nieve è il suo vestire, un bianco pennoncello218 ha per cimiero.

211. che lasci: tanto da lasciare. 212. Corrò: coglierò. 213. che … potria: che, se io esitassi, potrebbe perdere la sua freschezza.

214. flebil: piangente. 215. non starò … disegno: non rinuncerò, per il rifiuto o il finto sdegno (di Angelica) a perseguire e a dar compimento al mio progetto.

216. s’apparecchia: si prepara. 217. gl’intruona: gli rintrona. 218. bianco pennoncello: pennacchio bianco.

Giovanni Salerno, Duello di Orlando e Rinaldo, 1970 ca., tempera su tela, Palermo, Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino.

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Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Re Sacripante, che non può patire che quel con l’importuno suo sentiero219 gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea, con vista il guarda disdegnosa e rea220. 61

Come è più presso, lo sfida a battaglia; che crede ben fargli votar l’arcione221. Quel che di lui non stimo già che vaglia un grano meno, e ne fa paragone222, l’orgogliose minaccie a mezzo taglia223, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone224. Sacripante ritorna con tempesta225, e corronsi a ferir testa per testa226.

62

Non si vanno i leoni o i tori in salto227 a dar di petto, ad accozzar sì crudi228, sì come i duo guerrieri al fiero assalto, che parimente si passàr 229 gli scudi. Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi230; e ben giovò che fur buoni e perfetti gli osberghi231 sì, che lor salvaro i petti.

63

Già non fero232 i cavalli un correr torto233, anzi cozzaro a guisa di montoni: quel del guerrier pagan morì di corto234, ch’era vivendo in numero de’ buoni; quell’altro cadde ancor, ma fu risorto235 tosto ch’al236 fianco si sentì gli sproni. Quel del re saracin restò disteso adosso al suo signor con tutto il peso.

64

L’incognito campion che restò ritto, e vide l’altro col cavallo in terra, stimando avere assai237 di quel conflitto, non si curò di rinovar la guerra238; ma dove per la selva è il camin dritto, correndo a tutta briglia si disserra239; e prima che di briga esca240 il pagano, un miglio o poco meno è già lontano.

219. sentiero: percorso. 220. rea: aggressiva. 221. votar l’arcione: sbalzarlo di sella. 222. Quel … paragone: l’altro cavaliere, che io credo non valga meno di lui, e ne dà la prova. 223. a mezzo taglia: tronca a metà. 224. e la lancia … pone: appoggia la lancia sulla resta, ossia sull’incavo collocato al lato destro della corazza, per iniziare con slancio l’azione.

225. con tempesta: con foga. 226. testa per testa: fronteggiandosi. 227. in salto: in amore. La similitudine riprende quella famosa dell’Eneide (XII, vv. 715-724) che a sua volta riprendeva quella dell’Iliade (VII, vv. 255-257). 228. ad accozzar … crudi: a scontrarsi così ferocemente. 229. si passàr: si trapassarono. 230. poggi ignudi: alture brulle. 231. osberghi: armature.

232. fero: fecero. 233. correr torto: corsa tortuosa. 234. di corto: subito. 235. fu risorto: si risollevò. 236. tosto ch’al: non appena. 237. stimando … assai: ritenendo di aver dato sufficiente dimostrazione di valore. 238. rinovar la guerra: rinnovare l’assalto. 239. si disserra: si allontana. 240. di briga esca: si tolga dall’impaccio.

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L’età del Rinascimento

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Qual istordito e stupido aratore241, poi ch’è passato il fulmine, si leva di là dove l’altissimo fragore appresso ai morti buoi steso l’aveva; che mira senza fronde e senza onore242 il pin che di lontan veder soleva: tal si levò il pagano a piè rimaso243, Angelica presente al duro caso244.

66

Sospira e geme, non perché l’annoi245 che piede o braccia s’abbi rotto o mosso246, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più, ch’oltre al cader, sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso247. Muto restava248, mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella249.

67

– Deh! – diss’ella – signor, non vi rincresca! che del cader non è la colpa vostra, ma del cavallo, a cui riposo et esca meglio si convenia che nuova giostra250. Né perciò quel guerrier sua gloria accresca; che d’esser stato il perditor dimostra: così, per quel ch’io me ne sappia, stimo, quando251 a lasciare il campo è stato primo. –

68

Mentre costei conforta il Saracino, ecco col corno e con la tasca252 al fianco, galoppando venir sopra un ronzino253 un messaggier che parea afflitto e stanco; che come a Sacripante fu vicino, gli domandò se con un scudo bianco e con un bianco pennoncello in testa vide un guerrier passar per la foresta.

241. Qual … aratore: come un contadino stupefatto e stordito (similitudine già presente in Omero e Ovidio). 242. senza onore: senza fogliame.

243. rimaso: rimasto. 244. Angelica … caso: essendo Angelica presente alla vergognosa caduta. 245. l’annoi: l’infastidisca.

246. mosso: slogato. 247. sua donna … d’adosso: che sia poi Angelica ad aiutarlo a togliersi di dosso il pesante fardello è e resterà motivo di profonda vergogna. 248. restava: sarebbe rimasto. 249. favella: parola. 250. ma … giostra: ma fu colpa del cavallo che aveva bisogno di riposo e cibo (esca) piuttosto che di un altro duello. 251. quando: dal momento che. 252. tasca: borsa dei dispacci. 253. ronzino: a differenza del destriero (cavallo da battaglia) e del palafreno (cavallo da viaggio), il ronzino è un cavallo da trasporto.

pesare le parole L’annoi (ottava 66, v. 1)

> Noia viene dal provenzale enoja. Nella lingua arcaica (e si tenga presente che nel Cinquecento si prendeva a modello la lingua del Trecento) aveva un valore molto più forte che oggi, “dolore, pena, afflizione”. Nella lingua attuale indica invece una condizione di fastidio, di tristezza che deriva dalla mancanza di interessi, di occasioni di

278

divertimento, o dalla ripetizione monotona delle stesse attività (es. la domenica è una gran noia, che noia ripetere sempre le stesse cose), oppure equivale a “seccatura, guaio” (es. ho avuto delle noie con il fisco, l’auto ha avuto delle noie al motore).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

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Rispose Sacripante: – Come vedi, m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora; e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi, fa che per nome io lo conosca ancora. – Et egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi, io ti satisfarò senza dimora254: tu déi saper che ti levò di sella l’alto valor d’una gentil donzella255.

70

Ella è gagliarda et è più bella molto; né il suo famoso nome anco t’ascondo: fu Bradamante256 quella che t’ha tolto quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. – Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto il Saracin lasciò poco giocondo, che non sa che si dica o che si faccia, tutto avvampato di vergogna in faccia.

71

Poi che gran pezzo al caso intervenuto257 ebbe pensato invano258, e finalmente si trovò da una femina abbattuto, che pensandovi più, più dolor sente; montò l’altro destrier259, tacito e muto: e senza far parola, chetamente tolse260 Angelica in groppa, e differilla261 a più lieto uso, a stanza più tranquilla.

72

Non furo iti duo miglia262, che sonare odon la selva che li cinge intorno, con tal rumore e strepito, che pare che triemi la foresta d’ogn’intorno; e poco dopo un gran destrier n’appare, d’oro guernito e riccamente adorno, che salta macchie e rivi, et a fracasso arbori mena263 e ciò che vieta il passo.

73

– Se l’intricati rami e l’aer fosco – disse la donna – agli occhi non contende264, Baiardo265 è quel destrier ch’in mezzo il bosco con tal rumor la chiusa via si fende266. Questo è certo Baiardo, io ’l riconosco: deh, come ben nostro bisogno intende! ch’un sol ronzin per dui saria mal atto, e ne viene egli a satisfarci ratto267. –

254. ti satisfarò … dimora: ti soddisferò senza indugio. 255. l’alto … donzella: vergogna si aggiunge a vergogna: non solo disarcionato davanti

ad Angelica e da lei aiutato a risollevarsi, ma battuto da una donna. Ariosto sembra accanirsi implacabilmente su questo personaggio.

256. Bradamante: sorella di Rinaldo e futura sposa di Ruggiero, darà vita con lui alla dinastia estense. 257. intervenuto: che gli era accaduto. 258. pensato invano: senza darsene spiegazione. 259. l’altro destrier: quello di Angelica. 260. tolse: sollevò. 261. differilla: rimandò il possesso di Angelica. 262. Non … miglia: non furono andati per due miglia. 263. a fracasso … mena: travolge e abbatte. 264. agli occhi … contende: non impedisce di vedere con chiarezza. 265. Baiardo: Angelica lo conosce bene per essersi innamorata, nell’Orlando innamorato, di Rinaldo, legittimo proprietario di Baiardo. 266. la chiusa … fende: si apre la via sbarrata (dalla vegetazione). 267. un sol … ratto: un solo cavallo per due non sarebbe adatto, ed esso viene rapido a soddisfarci.

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L’età del Rinascimento

74

Smonta il Circasso et al destrier s’accosta, e si pensava dar di mano al freno268. Colle groppe il destrier gli fa risposta269, che fu presto a girar come un baleno; ma non arriva dove i calci apposta270: misero il cavallier se giungea a pieno! che nei calci tal possa271 avea il cavallo, ch’avria spezzato un monte di metallo.

75

Indi va mansueto alla donzella, con umile sembiante e gesto umano272, come intorno al padrone il can saltella, che sia duo giorni o tre stato lontano. Baiardo ancora avea memoria d’ella, ch’in Albracca273 il servia già di sua mano274 nel tempo che da lei tanto era amato Rinaldo, allor275 crudele, allor ingrato.

76

Con la sinistra man prende la briglia, con l’altra tocca e palpa il collo e ’l petto; quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia, a lei, come un agnel, si fa suggetto276. Intanto Sacripante il tempo piglia277: monta Baiardo, e l’urta e lo tien stretto278. Del ronzin disgravato la donzella lascia la groppa, e si ripone in sella279.

77

Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira venir sonando d’arme un gran pedone280. Tutta s’avvampa di dispetto e d’ira, che conosce il figliuol del duca Amone281. Più che sua vita l’ama egli e desira; l’odia e fugge ella più che gru falcone. Già fu ch’esso odiò lei più che la morte; ella amò lui: or han cangiato sorte.

78

E questo hanno causato due fontane282 che di diverso effetto hanno liquore283, ambe in Ardenna284, e non sono lontane: d’amoroso disio l’una empie il core;

268. al freno: al morso. 269. colle groppe … risposta: il destriero gli risponde colla groppa (cioè girandosi). 270. apposta: indirizza. 271. possa: potenza. 272. gesto umano: perché fra le doti di Baiardo vi erano la memoria e l’intelligenza. 273. in Albracca: durante l’assedio di Albracca. 274. il servia … mano: badava a lui personalmente.

280

275. allor: a quel tempo Rinaldo non ricambiava, anzi, detestava Angelica. 276. si fa suggetto: si sottomette. 277. il tempo piglia: approfitta della circostanza. 278. e l’urta … stretto: lo spinge e lo trattiene. 279. Del ronzin … in sella: Angelica lascia la groppa del proprio cavallo, liberato del peso di Sacripante, e si pone di nuovo sulla sella. 280. un gran pedone: un guerriero appiedato.

281. il figliuol … Amone: Rinaldo. 282. due fontane: le fonti dell’amore e dell’odio (di cui narra Boiardo). 283. di diverso … liquore: hanno liquidi di diverso effetto (l’acqua dell’una provoca amore in chi la beve, l’acqua dell’altra odio). 284. ambe in Ardenna: entrambe in Ardenna (la foresta che si estende tra il fiume Mosa e il fiume Reno).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

chi bee de l’altra, senza amor rimane, e volge tutto in ghiaccio il primo ardore. Rinaldo gustò d’una, e amor lo strugge: Angelica de l’altra, e l’odia e fugge. 79

Quel liquor di secreto venen misto285, che muta in odio l’amorosa cura286, fa che la donna che Rinaldo ha visto, nei sereni occhi subito s’oscura; e con voce tremante e viso tristo supplica Sacripante e lo scongiura che quel guerrier più appresso non attenda287, ma ch’insieme con lei la fuga prenda.

80

– Son dunque, – disse il Saracino – sono dunque in sì poco credito con vui288, che mi stimiate inutile, e non buono da potervi difender da costui? Le battaglie d’Albracca già vi sono di mente uscite, e la notte ch’io fui per la salute289 vostra, solo e nudo, contra Agricane e tutto il campo, scudo290? –

81

Non risponde ella, e non sa che si faccia, perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso, che da lontano al Saracin minaccia, come vide il cavallo e conobbe esso, e riconobbe l’angelica faccia che l’amoroso incendio in cor gli ha messo. Quel che seguì tra questi duo superbi vo’ che per l’altro canto si riserbi.

285. liquor … misto: liquido frammisto ad un filtro magico. Autore di questo sortilegio fu il mago Merlino. 286. amorosa cura: passione amorosa. 287. quel guerrier … attenda: non atten-

da che quel guerriero si avvicini ulteriormente. 288. dunque … vui: valgo così poco ai vostri occhi. 289. salute: salvezza. 290. contra … scudo: la vicenda è raccon-

tata nell’Orlando innamorato: Sacripante, immobilizzato a causa di una ferita, venuto a conoscenza che i nemici erano entrati in città, aveva abbandonato il letto e, nudo, li aveva affrontati e sbaragliati.

pesare le parole Cura (ottava 79, v. 2)

> Qui è usato nel senso del latino cùram, “affanno, tor-

mento”. Questo senso è rimasto solo nell’uso letterario (Foscolo, Alla sera, vv. 10-12: «Intanto fugge / questo reo tempo, e van con lui le torme / delle cure onde meco egli si strugge»). I sensi oggi correnti sono: “interessamento costante per qualcuno o qualcosa, premura” (es. si prende molta cura dell’educazione dei figli),

“impegno e attenzione nel fare qualche cosa” (es. il lavoro è stato eseguito con grande cura), “insieme dei rimedi e dei trattamenti per una malattia (es. le cure lo hanno guarito perfettamente). Nel linguaggio religioso è il ministero dei sacerdoti, che hanno cura d’anime (donde il termine curato per parroco, oggi però meno in uso).

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L’età del Rinascimento

Analisi del testo

> una summa dei motivi del poema

L’«inchiesta»

Il percorso circolare L’oggetto del desiderio irraggiungibile La selva Le aspettative rovesciate

Il mondo cavalleresco

L’abbassamento

Sublimazione idealizzante e realismo

L’ironia sul petrarchismo

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Nel primo canto compaiono già tutti quei motivi che abbiamo messo in luce introducendo la lettura del poema: l’«inchiesta» (tutti i personaggi sono mossi dal desiderio e cercano qualcosa, intralciandosi fra loro), il movimento centrifugo determinato dalla ricerca, che percorre inarrestabilmente tutto il canto e anticipa il movimento che poi percorrerà tutto il poema (di questo movimento è emblema la fuga di Angelica, che inizia qui e proseguirà per buona parte dell’opera, come motore dell’azione); il percorso circolare, che torna sempre al punto di partenza e rende concretamente l’immagine della vanità della ricerca, l’avvolgersi degli uomini nei loro errori; il dileguarsi dell’oggetto del desiderio, sempre irraggiungibile, il carattere delusorio della realtà, simboleggiato da Angelica che già in questo canto svanisce regolarmente alla vista dei suoi spasimanti; la selva come spazio simbolico del vano movimento della ricerca, metafora di una realtà sottoposta all’«arbitrio di fortuna» e metafora del poema stesso che quella realtà rispecchia; il rovesciamento delle aspettative e lo scacco dei progetti, il cui senso è sintetizzato dalla voce narrante con la sentenza «ecco il giudicio uman come spesso erra!». Tutti questi motivi fanno tangibilmente avvertire quanto si indicava, cioè come il poema non sia solo una trama di aeree fantasie, ma vi si addensi anche una seria materia riflessiva. Si può verificare concretamente anche il rapporto di Ariosto con il mondo cavalleresco: il fascino esercitato da quel mondo lontano e favoloso, che però è preso come campo per sviluppare la riflessione sui problemi attuali.

> Straniamento e ironia

Così si può scorgere in atto il tipico procedimento dell’abbassare la dignità epica dei personaggi e delle vicende, che dà origine all’effetto di straniamento: ne sono esempi la poco dignitosa sconfitta di Sacripante, gettato a terra da una donna, e Rinaldo, «un cavalier che a piè venia», dove la formula sottolinea con malizia il contrasto insito nella situazione di un cavaliere costretto ad andare a piedi. Oggetto di ironia è anche la sublimazione idealizzante, propria del mondo cavalleresco, che subisce un continuo controcanto realistico: la donna, oggetto di adorazione in termini cortesi da parte di tutti i cavalieri, si rivela in realtà una scaltra e cinica opportunista; così Sacripante rinuncia al culto della donna ed è pronto a prendersi subito il godimento materiale. Sappiamo che Ariosto ammira personaggi idealisti come Orlando, ma ne registra implacabilmente la sconfitta, mentre, pur guardando con ironia quelli pragmatici, riconosce l’efficacia pratica del loro comportamento. Un indizio eloquente di questo controcanto realistico e ironico che viene fatto subire all’idealismo cortese è il continuo ricorrere, nel canto, delle formule stereotipate del linguaggio della poesia amorosa petrarchesca. Anche qui non vi è la parodia aperta, lo sberleffo irriverente, ma basta la semplice registrazione di quelle formule per metterne in rilievo il carattere sottilmente convenzionale e per presentarle in una prospettiva straniata, velandole di ironia. Ne forniamo una rapida rassegna: «avean per la bellezza rara / d’amoroso disio l’animo caldo» (8), «l’angelico sembiante e quel bel volto / ch’all’amorose reti il tenea involto» (12), «n’avea [...] il petto caldo» (16), «ha nel cor tanto fuoco, / che tutto n’arde e non ritrova loco» (18), «i fulgenti rai / del nuovo sol t’abbino il petto acceso» (19), «Sospirando piangea, tal ch’un ruscello / parean le guancie, e ’l petto un Mongibello» (40), «e dir parole / che di pietà potrian fermare il sole» (47), «il vero angelico sembiante» (53), «alla sua diva corse» (54), «l’angelica faccia / che l’amoroso incendio in cor gli ha messo» (81).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Riassumi il contenuto del canto dividendo il brano in sequenze, assegnando ad ogni sequenza un titolo se-

condo l’esempio proposto (puoi servirti a tal proposito dello schema di p. 284, in cui è stata riprodotta graficamente la struttura del I canto e in cui risulta evidente la tecnica dell’entrelacement). ottave

Titolo

5-9

Antefatto: riassunto dell’Innamorato ..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

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Fuga di Angelica ..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

11-13

Incontro tra Angelica e Rinaldo ..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

14-16

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17-22

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23-30

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31-32

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33-38

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39-59

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60-64

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65-76

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77-81

..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

AnALIzzARe

> 2. Considera le figure di Angelica e Bradamante: quali analogie e/o differenze presentano? > 3. Stile Analizza la presentazione – “l’entrata in scena” – dei principali personaggi maschili del canto (Rinaldo, Ferraù e Sacripante). In quali gesti e atteggiamenti sono colti? Si tratta di gesti e atteggiamenti che rispecchiano o rovesciano il “tipo” tradizionale del cavaliere? > 4. Stile Rintraccia e sottolinea nelle prime 45 ottave tutti i casi in cui la voce narrante interviene per esprimere commenti e giudizi sulla storia. Di quale narratore si tratta? Quali funzioni hanno tali interventi? > 5. Stile Individua e sottolinea nelle prime 45 ottave le situazioni prosastiche e familiari in cui si trovano i paladini, che contrastano con la loro dignità eroica, le similitudini bassamente realistiche o volutamente iperboliche. > 6. Lessico Analizza la presenza nel testo delle forme «erra» (ottava 7, v. 2), ed «errore» (ottava 56, v. 4), che, secondo alcune interpretazioni, rimandando al significato di “colpa”, “sbaglio”, “vaneggiamento” o “vagare errabondo”, risultano parole chiave del canto e del poema. Esprimi le tue considerazioni in proposito. AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 7.

Scrivere La selva in cui i paladini si addentrano, seguendo l’oggetto del loro desiderio, è metafora del poema stesso, spazio labirintico in cui ci si perde, luogo di incontri e di avventure. Di volta in volta ostacolo o nascondiglio, è uno spazio che può diventare all’improvviso, da oscuro e minaccioso, accogliente e protettivo come accade nelle ottave 33-38 di questo canto, in cui si passa dalle «selve spaventose e scure» (ottava 33, v. 1) al «boschetto adorno» (ottava 35, v. 3), al locus amoenus di derivazione classica. Scrivi un testo espositivo di circa 20-24 righe (1000-1200 caratteri) sul tema della selva intesa come locus horridus e locus amoenus.

SCRITTuRA CReATIVA

> 8. Scrivi il soggetto di un cortometraggio ispirandoti al passo ariostesco appena analizzato; nella tua storia il

contesto dovrà essere modificato e attualizzato: racconterai di una “inchiesta”, da parte di vari personaggi, nel “labirinto” di una metropoli dei nostri giorni, dentro la “selva” di strade, edifici, presenze umane, o in una città ancora oggi scenario di guerra (pensiamo, ad esempio, ai tanti conflitti in Medio Oriente che hanno anche matrici religiose). La lunghezza del testo deve essere di circa 50 righe (2500 caratteri).

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L’età del Rinascimento

Visualizzare i concetti

L a s t r u t t u r a d e l I c a n t o d e l l ’O r l a n d o f u r i o s o ottave 1-4

Proemio

5-9

Antefatto

Angelica 10

Fuga di Angelica Rinaldo

11-13

Incontro tra Angelica e Rinaldo Ferraù Incontro tra Angelica, Rinaldo e Ferraù

14-16

17-22

Fuga di Angelica e duello tra Rinaldo e Ferraù

23-30

Separazione tra Rinaldo e Ferraù Ferraù: apparizione di Argalia

31-32

33-38

Rinaldo all’inseguimento di Baiardo Fuga di Angelica e sosta nel “luogo ameno” Sacripante

39-59

Incontro tra Angelica e Sacripante Bradamante Arrivo di Bradamante

60-64

Duello fra Bradamante e Sacripante

284

65-76

Angelica e Sacripante in cammino

77-81

Angelica e Sacripante incontrano Rinaldo

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

La voce del Novecento

dall’Orlando furioso al Cavaliere inesistente di Calvino: modernità e perdita di sé Presentiamo il capitolo iniziale del breve romanzo di Italo Calvino (1923-85), Il cavaliere inesistente, uscito nel 1959 e poi ripubblicato nel 1960 in un volume dal titolo complessivo I nostri antenati, insieme con Il visconte dimezzato (1951) e Il barone rampante (1957). Il romanzo tratta una materia cavalleresca che chiaramente fa riferimento ad Ariosto. Già Pavese, recensendo nel 1947 il primo romanzo di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, parlava di una storia «di sapore ariostesco», mettendo in rilievo le affinità fra il poeta rinascimentale e il romanziere. Era un’intuizione acuta; in effetti Calvino stesso nel 1959 proclamerà: «Tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo oscuro e affascinante è Ludovico Ariosto, e non mi stanco di rileggerlo». A conferma di questa predilezione, nel 1970 pubblicherà poi l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, in cui le vicende del poema sono narrate in una forma agile e sciolta, rivolta a un ampio pubblico, in particolare a quello giovanile. E ancora nel Castello dei destini incrociati proporrà la riscrittura di celebri episodi ariosteschi, Storia di Orlando pazzo per amore e Storia di Astolfo sulla Luna.

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Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da più di tre ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po’ coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell’immobile fila di cavalieri già non avesse perso i sensi o non si fosse assopito, ma l’armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo. D’un tratto, tre squilli di tromba: le piume dei cimieri sussultarono nell’aria ferma come a uno sbuffo di vento, e tacque subito quella specie di mugghio marino che s’era sentito fin qui, ed era, si vede, un russare di guerrieri incupito dalle gole metalliche degli elmi. Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri. Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giù. – E chi siete voi, paladino di Francia? – Salomon di Bretagna, sire! – rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato; e aggiungeva qualche notizia pratica, come sarebbe: – Cinquemila cavalieri, tremilacinquecento fanti, milleottocento i servizi, cinque anni di campagna. – Sotto coi brètoni, paladino! – diceva Carlo, e toc-toc, toc-toc, se ne arrivava a un altro capo di squadrone.

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– Ecchisietevòi, paladino di Francia? – riattaccava. – Ulivieri di Vienna, sire! – scandivano le labbra appena la griglia dell’elmo s’era sollevata. E lì: – Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi! – Ben fatto, bravo il viennese, – diceva Carlomagno, e agli ufficiali del seguito: – Magrolini quei cavalli, aumentategli la biada –. E andava avanti: – Ecchisietevòi, paladino di Francia? – ripeteva, sempre con la stessa cadenza: «Tàtta-tatatài tàta-tàtatatàta…» – Bernardo di Mompolier1, sire! Vincitore di Brunamonte e Galiferno. – Bella città Mompolier! Città delle belle donne! – e al seguito: – Vedi se lo passiamo di grado –. Tutte cose che dette dal re fanno piacere, ma erano sempre le stesse battute, da tanti anni. – Ecchisietevòi, con quello stemma che conosco? – Conosceva tutti dall’arma che portavano sullo scudo, senza bisogno che dicessero niente, ma così era l’usanza che fossero loro a palesare il nome e il viso. Forse perché altrimenti qualcuno, avendo di meglio da fare che prender parte alla rivista, avrebbe potuto mandar lì la sua armatura con un altro dentro. – Alardo di Dordona, del duca Amone… – In gamba Alardo, cosa dice il papà, – e così via. «Tàtta-tatatài tàta-tàta-tatàta…» – Gualfré di Mongioja! Cavalieri ottomila tranne i morti! Ondeggiavano i cimieri. – Uggeri Danese! Namo di Baviera! Palmerino d’Inghilterra! Veniva sera. I visi, di tra la ventaglia e la bavaglia2, non si distinguevano neanche più tanto bene. Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello, condotto sempre secondo quelle regole, cosicché si sapeva già oggi per domani chi avrebbe vinto, chi perso, chi sarebbe stato eroe, chi vigliacco, a chi toccava di restare sbudellato e chi se la sarebbe cavata con un disarcionamento e una culata in terra. Sulle corazze, la sera al lume delle torce i fabbri martellavano sempre le stesse ammaccature. – E voi? – Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennacchio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma

Federico Maggioni, Agilulfo, illustrazione per Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Oscar Mondadori, Milano 2010.

1. Mompolier: Montpellier. 2. ventaglia … bavaglia: nelle antiche armature erano parti dell’elmo, a protezione del viso.

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tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato più piccolo ancora. Con disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. – E voi lì, messo su così in pulito… – disse Carlomagno che, più la guerra durava, meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere. – Io sono, – la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco, – Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez! – Aaah… – fece Carlomagno e dal labbro di sotto, sporto avanti, gli uscì anche un piccolo strombettio, come a dire: «Dovessi ricordarmi il nome di tutti, starei fresco!» Ma subito aggrottò le ciglia. – E perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso? Il cavaliere non fece nessun gesto; la sua destra inguantata d’una ferrea e ben connessa manopola si serrò più forte all’arcione, mentre l’altro braccio, che reggeva lo scudo, parve scosso come da un brivido. – Dico a voi, ehi, paladino! – insisté Carlomagno. – Com’è che non mostrate la faccia al vostro re? La voce uscì netta dal barbazzale3. – Perché io non esisto, sire. – O questa poi! – esclamò l’imperatore. – Adesso ci abbiamo in forza anche un cavaliere che non esiste! Fate un po’ vedere. Agilulfo parve ancora esitare un momento, poi con mano ferma ma lenta sollevò la celata. L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era dentro nessuno. – Mah, mah! Quante se ne vedono! – fece Carlomagno. – E com’è che fate a prestar servizio, se non ci siete? – Con la forza di volontà, – disse Agilulfo, – e la fede nella nostra santa causa! – E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che non esiste, siete in gamba! Agilulfo era il serrafila. L’imperatore ormai aveva passato la rivista a tutti; voltò il cavallo e s’allontanò verso le tende reali. Era vecchio, e tendeva ad allontanare dalla mente le questioni complicate. La tromba suonò il segnale del «rompete le righe». Ci fu il solito sbandarsi di cavalli, e il gran bosco delle lance si piegò, si mosse a onde come un campo di grano quando passe il vento. I cavalieri scendevano di sella, muovevano le gambe per sgranchirsi, gli scudieri portavano via i cavalli per la briglia. Poi, dall’accozzaglia e il polverone si staccarono i paladini, aggruppati in capannelli svettanti di cimieri4 colorati, a dar sfogo alla forzata immobilità di quelle ore in scherzi ed in bravate, in pettegolezzi di donne e onori. Agilulfo fece qualche passo per mischiarsi a uno di questi capannelli, poi senz’alcun motivo passò a un altro, ma non si fece largo e nessuno badò a lui. Restò un po’ indeciso dietro le spalle di questo o di quello, senza partecipare ai loro dialoghi, poi si mise in disparte. Era l’imbrunire; sul cimiero le piume iridate ore parevano tutte d’un unico indistinto colore; ma l’armatura bianca spiccava isolata lì sul prato. Agilulfo, come se tutt’a un tratto si sentisse nudo, ebbe il gesto d’incrociare le braccia e stringersi le spalle.

3. barbazzale: nelle armature, pezzo che integra la celata aperta, a difesa della gola e del mento.

4. svettanti di cimieri: i pennacchi degli elmi svettano al di sopra dei gruppi di guerrieri.

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Poi si riscosse e, di gran passo, si diresse verso gli stallaggi. Giunto là, trovò che il governo dei cavalli non veniva compiuto secondo le regole, sgridò gli staffieri, inflisse punizioni ai mozzi, ispezionò tutti i turni di corvé5, ridistribuì le mansioni spiegando minuziosamente a ciascuno come andavano eseguite e facendosi ripetere quel che aveva detto per vedere se avevano capito bene. E siccome ogni momento venivano a galla le negligenze nel servizio dei colleghi ufficiali paladini, li chiamava a uno a uno, sottraendoli alle dolci conversazioni oziose della sera, e contestava con discrezione ma con ferma esattezza le loro mancanze, e li obbligava uno ad andare di picchetto6, uno di scolta7, l’altro giù di pattuglia8, e così via. Aveva sempre ragione, e i paladini non potevano sottrarsi, ma non nascondevano il loro malcontento. Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez era certo un modello di soldato; ma a tutti loro era antipatico. I. Calvino, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 1992

5. corvé: lavoro di fatica assegnato a una squadra di soldati. 6. picchetto: gruppo di soldati che viene tenuto pronto per essere impiegato in qualunque momento.

7. di scolta: di sentinella. 8. pattuglia: gruppo di soldati incaricati di compiti particolari, come ad esempio di esplorazione.

Analisi del testo

> L’attualizzazione del passato in Ariosto e in Calvino

Ariosto e i contenuti nuovi della materia cavalleresca

Calvino e gli anni del boom

L’alienazione nelle funzioni

La perdita totale di sé

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Come si può vedere, Calvino riprende i personaggi tipici dell’epica cavalleresca trattata da Ariosto, il re Carlo Magno con la serie dei suoi valorosi paladini. Già Ariosto aveva riempito la materia medievale e feudale di contenuti e significati nuovi, come abbiamo avuto modo di verificare: ad esempio la ricerca sempre fallimentare di oggetti del desiderio che sfuggono e deludono, il capriccio della Fortuna che contrasta l’iniziativa umana. Cioè lo scrittore rinascimentale “attualizzava” motivi nati in altri tempi e in altri contesti sociali, esprimenti una diversa concezione della vita. La stessa operazione compie lo scrittore novecentesco su quello del Cinquecento. Le figure dei paladini offrono a Calvino lo spunto per affrontare problemi di stringente attualità, nei suoi anni: gli anni del boom economico, del rapido sviluppo, in cui l’Italia da Paese arretrato ed essenzialmente agricolo si avviava a diventare un moderno paese industriale, con tutti gli effetti che tale processo poteva produrre sulla vita sociale e la stessa struttura psicologica dell’uomo. Il «cavaliere inesistente», estremamente ligio al dovere e precisissimo nel compiere le sue funzioni, ma che in sé non esiste, non essendo che un’armatura vuota, è l’immagine dell’uomo che poteva essere creato dall’avanzamento della modernità, ridotto a pura funzione, a esecutore di mansioni, del tutto alienato in esse, senza esser nulla per sé, senza più avere un’individualità e una personalità. Come scrive Calvino stesso nella prefazione a I nostri antenati, «oggi viviamo in un mondo […] di persone cui la più semplice individualità è negata, tanto sono ridotte a un’astratta somma di comportamenti prestabiliti. Il problema oggi non è ormai della perdita di una parte di se stessi [il tema cioè del Visconte dimezzato], è della perdita totale, del non esserci per nulla. […] Siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto […] con ciò che […] gli sta intorno, ma solo astrattamente “funziona”. […] Agilulfo, il guerriero che non esiste, presenta i linea-

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

menti psicologici d’un tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti della nostra società». A noi questa armatura vuota, ma pure così efficiente, fa venire in mente un robot, uno dei prodotti più caratteristici della tecnologia moderna.

> due visioni diverse Il gusto del favoloso e l’ironia

Il passo può suggerire una riflessione: come la stessa materia possa assumere significati diversi a seconda della visione dell’autore che l’affronta, e soprattutto a seconda delle problematiche in cui egli si trova storicamente immerso. Del tanto amato Ariosto resta però in Calvino da un lato il gusto del favoloso e dell’avventuroso, delle fantasie aeree e bizzarre, dall’altro l’ironia sottile, che è ben avvertibile nella scena della rassegna dei paladini. Tale ironia testimonia un’analoga distanza dall’originario mondo cavalleresco medievale nello scrittore rinascimentale come in quello novecentesco, entrambi portatori di una visione molto lontana da quella di quell’epoca.

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Riassumi in circa 24 righe (1200 caratteri) il contenuto del testo, prestando attenzione alle informazioni sul tempo e sul luogo nei quali è ambientata la vicenda.

AnALIzzARe

> 2.

Stile Analizza e descrivi l’aspetto fisico e il comportamento dei due personaggi principali, Carlomagno e Agilulfo: ti sembrano due figure antitetiche? Perché? Motiva la tua risposta. > 3. Stile Nel brano ricorrono numerose similitudini, spesso ironiche e paradossali, tipiche dello stile dell’autore, il quale se ne serve per spiegare e meglio definire situazioni e stati d’animo, in modo volutamente prosastico e familiare. Rintracciale e spiegane il significato.

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 4.

esporre oralmente Il cavaliere inesistente è un romanzo costruito attorno a un’immagine, un’invenzione fantastica con un messaggio relativo all’uomo contemporaneo, privato della sua umanità da una società che lo induce ad uniformarsi e dunque all’alienazione. Descrivi in max 5 minuti sia gli aspetti negativi sia quelli positivi di Agilulfo, gli insegnamenti che possiamo desumere dal suo esistere o non esistere, così come emergono dal brano. pASSATo e pReSenTe Il mondo cavalleresco, un’energia rivolta verso il futuro

> 5. Rifletti ed argomenta oralmente (max 5 minuti) sul significato e sul valore della materia cavalleresca nel

Furioso e nel Cavaliere inesistente: quale senso può attribuire a valori tipicamente medievali un uomo del pieno Rinascimento come Ariosto? E uno scrittore di oggi come Italo Calvino? Riguardo Ariosto, nel rispondere tieni conto della trattazione dell’argomento nel manuale; per Calvino considera quanto egli scrive in un’Introduzione inedita del 1960 ai Nostri antenati: Rileggo Ariosto. Mi è stato, in questi anni, tra tutti i poeti della nostra tradizione, il più vicino […]. Il suo rapporto verso la letteratura cavalleresca è complesso: egli poteva veder tutto soltanto attraverso la deformazione ironica, eppure mai rendeva meschine le virtù fondamentali che la cavalleria aveva espresse, mai abbassava la nozione di uomo che aveva animato quelle vicende, anche se a lui non restava che tradurle in un gioco ritmico e colorato. Ma voleva, così facendo, salvare qualcosa d’esse, in un mondo che già le aveva date per perdute, qualcosa che poteva essere salvato solo in questo modo… […]. È evasione, tenersi oggi all’Ariosto? No, ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, d’immaginazione, d’ironia, d’accuratezza formale, e come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come possano entrare a far parte d’una concezione del mondo, servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali. È un’energia volta verso il futuro, ne sono certo, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo… I. Calvino, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 1991

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L’età del Rinascimento

Analisi interattiva

T5

Il palazzo incantato di Atlante

• la vanità delle aspirazioni umane • l’oggetto del desiderio come

dall’Orlando furioso, XII, 1-20; 26-42; 51-62

• Angelica come metafora della realtà

Orlando ha lasciato il campo cristiano e i suoi doveri di paladino, e percorre infaticabilmente varie zone d’Europa per inseguire Angelica.

• l’ironia come strumento di riflessione

creazione soggettiva ingannevole

1

Cerere, poi che da la madre Idea1 tornando in fretta alla solinga valle, là dove calca la montagna Etnea al fulminato Encelado le spalle2, la figlia3 non trovò dove l’avea lasciata fuor d’ogni segnato calle4; fatto ch’ebbe alle guancie, al petto, ai crini e agli occhi danno5, al fin svelse duo6 pini;

2

e nel fuoco gli7 accese di Vulcano, e diè lor8 non potere esser mai spenti: e portandosi questo uno per mano sul carro che tiravan dui serpenti9, cercò le selve, i campi, il monte, il piano, le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti, la terra e ’l mare; e poi che tutto il mondo cercò di sopra, andò al tartareo fondo10.

3

S’in poter fosse stato Orlando pare all’Eleusina dea, come in disio11, non avria, per Angelica cercare, lasciato o selva o campo o stagno o rio o valle o monte o piano o terra o mare, il cielo e ’l fondo de l’eterno oblio12; ma poi che ’l carro e i draghi non avea, la gìa13 cercando al meglio che potea.

4

L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia14 per Italia cercarla e per Lamagna15, per la nuova Castiglia e per la vecchia16, e poi passare in Libia17 il mar di Spagna18. Mentre pensa così, sente all’orecchia

Audio

1. la madre Idea: la madre di Cerere, Cibele, era chiamata Idea perché venerata con un culto particolare sul monde Ida. 2. alla solinga … spalle: nella valle solitaria della Sicilia, dove Etna incombe sulle spalle del fulminato Encelado, uno dei giganti uccisi dal fulmine di Giove e seppellito sotto il vulcano. 3. la figlia: è Proserpina. 4. fuor … calle: affinché Proserpina fosse più sicura, nell’allontanarsi la madre l’aveva lasciata in un luogo solitario, lontano da sentieri segnati da tracce umane.

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Temi chiave

5. fatto … danno: dopo essersi graffiata le guance, il petto e strappata i capelli (per manifestare la propria disperazione). 6. duo: due. 7. gli: li. 8. diè lor: attribuì loro la prerogativa. 9. dui serpenti: due draghi. 10. andò … fondo: scese negli inferi. La disperata ricerca di Proserpina da parte di Cerere viene paragonata alla ricerca di Angelica da parte di Orlando. 11. S’in … disio: se Orlando fosse stato pari in potere a Cerere (chiamata Eleusina dea per-

ché particolarmente venerata nel tempio di Eleusi) come lo era nel desiderio (di ritrovare Angelica). 12. ’l fondo … oblio: perifrasi per indicare gli inferi. 13. gìa: andava. 14. s’apparecchia: si appresta a. 15. Lamagna: Germania. 16. la nuova … vecchia: sono due regioni della Spagna centrale. 17. Libia: sta per Africa. 18. il mar di Spagna: lo stretto di Gibilterra.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

una voce venir che par che piagna19: si spinge inanzi; e sopra un gran destriero trottar si vede inanzi un cavalliero, 5

che porta in braccio e su l’arcion20 davante per forza21 una mestissima donzella. Piange ella e si dibatte e fa sembiante di gran dolore22, et in soccorso appella il valoroso principe d’Anglante23, che come mira alla24 giovane bella, gli par colei, per cui la notte e il giorno cercato Francia avea dentro e d’intorno.

6

Non dico ch’ella fosse, ma parea Angelica gentil ch’egli tant’ama. Egli, che la sua donna e la sua dea vede portar sì addolorata e grama25, spinto da l’ira e da la furia rea26, con voce orrenda27 il cavallier richiama: richiama il cavalliero e gli minaccia28, e Brigliadoro a tutta briglia caccia29.

7

Non resta quel fellon30, né gli risponde, all’alta preda31, al gran guadagno intento, e sì ratto32 ne va per quelle fronde, che saria tardo a seguitarlo il vento33. L’un fugge, e l’altro caccia34; e le profonde selve s’odon sonar d’alto lamento. Correndo usciro35 in un gran prato; e quello avea nel mezzo un grande e ricco ostello36.

8

Di vari marmi con suttil37 lavoro edificato era il palazzo altiero38. Corse dentro alla porta messa d’oro39 con la donzella in braccio il cavalliero. Dopo non molto giunse Brigliadoro, che porta Orlando disdegnoso e fiero. Orlando, come è dentro, gli occhi gira, né più il guerrier, né la donzella mira.

9

Subito smonta, e fulminando40 passa dove più dentro il bel tetto s’alloggia41: corre di qua, corre di là, né lassa che non vegga42 ogni camera, ogni loggia43.

19. piagna: pianga. 20. arcion: sella. 21. per forza: trattenendola con la forza. 22. fa … dolore: mostra dall’aspetto grande dolore. 23. in soccorso … Anglante: chiama in aiuto Orlando (che era il signore del castello di Anglante). 24. mira alla: fissa lo sguardo. 25. grama: afflitta. 26. rea: terribile.

27. orrenda: che fa spavento. 28. gli minaccia: lo minaccia. 29. e Brigliadoro … caccia: e sprona Brigliadoro, il suo cavallo, a briglia sciolta. 30. Non … fellon: quel vile non si ferma. 31. all’alta preda: è l’ostaggio prezioso che sta trasportando. 32. ratto: veloce. 33. che … vento: che il vento sarebbe lento nel seguirlo. 34. caccia: dà la caccia, insegue.

35. usciro: uscirono. 36. un grande … ostello: è il palazzo di Atlante. 37. suttil: raffinato. 38. altiero: superbo. 39. messa d’oro: lavorata in oro. 40. fulminando: in atteggiamento minaccioso. 41. dove … s’alloggia: dove, più all’interno, vi sono le stanze dell’abitazione. 42.né lassa…vegga: e non trascura di guardare. 43. loggia: portico.

291

L’età del Rinascimento

Poi che i segreti d’ogni stanza bassa44 ha cerco45 invan, su per le scale poggia46; e non men perde anco a cercar di sopra, che perdessi di sotto il tempo e l’opra47. 10

D’oro e di seta i letti ornati vede: nulla de muri appar né de pareti48; che quelle, e il suolo ove si mette il piede, son da cortine ascose49 e da tapeti. Di su di giù va il conte Orlando, e riede50; né per questo può far gli occhi mai lieti che riveggiano Angelica, o quel ladro che n’ha portato51 il bel viso leggiadro.

11

E mentre or quinci or quindi52 invano il passo movea, pien di travaglio53 e di pensieri, Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso54, re Sacripante et altri cavallieri vi ritrovò, ch’andavano alto e basso55, né men facean di lui vani sentieri; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio.

12

Tutti cercando il van, tutti gli dànno colpa di furto alcun che lor fatt’abbia56: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia; altri d’altro l’accusa: e così stanno, che non si san partir di quella gabbia57; e vi son molti, a questo inganno presi58, stati le settimane intiere e i mesi.

13

Orlando, poi che quattro volte e sei tutto cercato ebbe il palazzo strano, disse fra sé: «Qui dimorar potrei, gittare59 il tempo e la fatica invano: e potria il ladro aver tratta costei da un’altra uscita60, e molto esser lontano». Con tal pensiero uscì nel verde prato, dal qual tutto il palazzo era aggirato.

44. stanza bassa: stanza al piano terreno. 45. ha cerco: ha esplorato. 46. poggia: sale. 47. e non … l’opra: e non perde meno tempo e fatica a cercare anche al piano di sopra di quanti ne abbia persi al piano di sotto. 48. nulla … pareti: non appaiono i muri e le pareti divisorie: sono infatti coperti dai tendaggi e dai tappeti. 49. son … ascose: sono nascoste da tende. 50. riede: ritorna. 51. n’ha portato: ha portato via. 52. or quinci quindi: ora di qui ora di là.

292

53. travaglio: angoscia. 54. Ferraù … Gradasso: il poema non dice come siano finiti nel palazzo di Atlante questi personaggi: tutti saraceni ad eccezione di Brandimarte, fedele amico di Orlando partito alla ricerca di lui, sono dimentichi delle ostilità che vigono fra loro e procedono nella loro vana, inutile «inchiesta». Ricordiamo che Ferraù era alla ricerca dell’elmo di Orlando, Sacripante era il re di Circassia, Gradasso, che combatterà con Agramante contro Brandimarte, era il re di Sericana.

55. andavano … basso: andavano al piano di sopra e a quello di sotto. 56. Tutti … abbia: tutti lo vanno cercando, tutti gli danno la colpa di un furto che abbia loro fatto. 57. non si san … gabbia: non si sanno allontanare da quella gabbia (il palazzo che li tiene prigionieri). 58. a questo … presi: prigionieri di questo inganno. 59. gittare: gettare, sprecare. 60. e potria … uscita: e il ladro potrebbe aver trascinato fuori costei da un’altra uscita.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

14

Mentre circonda la casa silvestra61, tenendo pur a terra il viso chino62, per veder s’orma appare, o da man destra o da sinistra, di nuovo camino63; si sente richiamar da una finestra: e leva gli occhi; e quel parlar divino gli pare udire, e par che miri il viso, che l’ha da quel che fu, tanto diviso64.

15

Pargli Angelica udir, che supplicando e piangendo gli dica: – Aita, aita!65 la mia virginità ti raccomando più che l’anima mia, più che la vita. Dunque in presenzia del mio caro Orlando da questo ladro mi sarà rapita? Più tosto66 di tua man dammi la morte, che venir lasci67 a sì infelice sorte. –

16

Queste parole una et un’altra volta fanno Orlando tornar per ogni stanza, con passione68 e con fatica molta, ma temperata pur d’alta speranza69. Talor si ferma, et una voce ascolta, che di quella d’Angelica ha sembianza70 (e s’egli è da una parte, suona altronde71), che chieggia72 aiuto; e non sa trovar donde73.

17

Ma tornando a Ruggier74, ch’io lasciai quando dissi che per sentiero ombroso e fosco il gigante e la donna seguitando75, in un gran prato uscito era del bosco; io dico ch’arrivò qui dove Orlando dianzi arrivò, se ’l loco riconosco. Dentro la porta il gran gigante passa: Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa76.

18

Tosto che pon dentro alla soglia il piede, per la gran corte e per le loggie mira; né più il gigante né la donna vede, e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira77. Di su di giù va molte volte, e riede78; né gli succede mai quel che desira79: né si sa imaginar dove sì tosto con la donna il fellon si sia nascosto.

61. circonda … silvestra: percorre tutt’intorno il palazzo che sorge nella foresta. 62. tenendo … chino: continuando a tenere lo sguardo chino a terra. 63. per veder … camino: per vedere se a destra o a sinistra appare qualche orma che indichi un passaggio recente (nuovo camino). 64. e par … diviso: e gli sembra di vedere il viso (di Angelica), che lo ha tanto trasformato da quello che era (cioè da guerriero dedito alle armi ad amante infelice che insegue la

donna amata). 65. Aita, aita!: aiuto, aiuto! 66. Più tosto: piuttosto. 67. venir lasci: mi abbandoni. 68. con passione: con tormento. 69. ma … speranza: ma anche attenuata da una profonda speranza (di ritrovare Angelica). 70. ha sembianza: ha l’apparenza. 71. altronde: altrove. 72. chieggia: chieda. 73. donde: da dove provenga.

74. Ma … Ruggier: Ruggiero aveva visto fuggire l’ippogrifo e rapire Bradamante da un gigante che aveva inseguito inutilmente. 75. seguitando: inseguendo. 76. e di seguir non lassa: non smette di inseguirlo. 77. e gli occhi … aggira: e gira invano gli occhi ora di qua ora di là. 78. riede: ritorna. 79. desira: desidera.

293

L’età del Rinascimento

19

Poi che revisto ha quattro volte e cinque di su di giù camere e loggie e sale, pur di nuovo ritorna, e non relinque80 che non ne cerchi fin sotto le scale. Con speme81 al fin che sian ne le propinque82 selve, si parte83; ma una voce, quale richiamò Orlando, lui chiamò non manco84, e nel palazzo il fe’ ritornar anco85.

20

Una voce medesma, una persona che paruta86 era Angelica ad Orlando, parve a Ruggier la donna di Dordona87, che lo tenea di sé medesmo in bando88. Se con Gradasso o con alcun ragiona di quei ch’andavan nel palazzo errando, a tutti par che quella cosa sia, che più ciascun per sé brama e desia89.

[Il narratore spiega che questo palazzo è un nuovo incanto messo in opera dal mago Atlante, che vuole così sottrarre il suo amato pupillo Ruggiero al suo destino di morte precoce, e conduce nel palazzo tutti gli altri famosi guerrieri, affinché Ruggiero non muoia per loro mano. Intanto Angelica, alla ricerca di Orlando o Sacripante che l’aiutino a tornare in patria, capita anch’essa nel palazzo fatato, protetta dall’anello magico che la rende invisibile.]

26

Quivi entra, che veder non la può il mago, e cerca il tutto, ascosa dal suo annello, e truova Orlando e Sacripante vago90 di lei cercare invan per quello ostello. Vede come fingendo la sua imago91 Atlante usa gran fraude92 a questo e a quello. Chi tor93 debba di lor, molto rivolve94 nel suo pensier, né ben se ne risolve.

27

Non sa stimar chi sia per lei migliore, il conte Orlando o il re dei fier Circassi95. Orlando la potrà con più valore meglio salvar nei perigliosi passi96; ma se sua guida il fa, sel fa signore97, ch’ella non vede come poi l’abbassi, qualunque volta, di lui sazia, farlo voglia minore, o in Francia rimandarlo98.

28

Ma il Circasso depor, quando le piaccia, potrà, se ben l’avesse posto in cielo99.

80. non relinque: non tralascia. 81. speme: speranza. 82. propinque: vicine. 83. si parte: si allontana. 84. non manco: non meno. 85. il fe’… anco: lo fece tornare ancora. 86. paruta: sembrata. 87. la donna di Dordona: Bradamante. 88. che lo tenea … bando: che lo teneva fuori di sé, a causa dell’amore. 89. a tutti … desia: a ciascuno pare di vede-

294

re nella medesima cosa l’oggetto del proprio desiderio. 90. vago: desideroso. 91. fingendo … imago: con una falsa immagine di lei. 92. fraude: inganno. 93. tor: scegliere. 94. molto rivolve: riflette a lungo. 95. il re … Circassi: Sacripante. 96. nei … passi: nelle difficoltà. 97. ma se … signore: ma se sceglie lui come

guida, si pone del tutto in suo potere. 98. ch’ella … rimandarlo: perché ella non vede come poi diminuire il suo potere (l’abbassi) ogni volta che, sazia di lui, voglia ridurne l’importanza (farlo minore), o rimandarlo in Francia. 99. Ma il Circasso … cielo: ma potrà mettere da parte Sacripante quando vorrà, anche dopo averlo innalzato al cielo (facendogli credere di donargli il suo amore).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Questa sola cagion vuol ch’ella il faccia sua scorta, e mostri avergli fede e zelo100. L’annel trasse di bocca, e di sua faccia levò dagli occhi a Sacripante il velo101. Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne ch’Orlando e Ferraù le sopravenne102. 29

Le sopravenne Ferraù et Orlando; che l’uno e l’altro parimente giva103 di su di giù, dentro e di fuor cercando del gran palazzo104 lei, ch’era lor diva105. Corser di par tutti alla donna, quando nessuno incantamento gli impediva; perché l’annel ch’ella si pose in mano, fece d’Atlante ogni disegno vano.

30

L’usbergo106 indosso aveano e l’elmo in testa dui107 di questi guerrier, dei quali io canto; né notte o dì, dopo ch’entraro108 in questa stanza, l’aveano mai messo da canto; che facile a portar, come la vesta, era lor, perché in uso l’avean tanto. Ferraù il terzo era anco armato, eccetto che non avea, né volea avere elmetto,

31

fin che quel non avea che ’l paladino tolse Orlando al fratel del re Troiano109; ch’allora lo giurò, che l’elmo fino cercò de l’Argalia nel fiume invano: e se ben quivi Orlando ebbe vicino, né però Ferraù pose in lui mano110; avenne che conoscersi tra loro non si potèr, mentre là dentro foro111.

32

Era così incantato quello albergo, ch’insieme riconoscer non poteansi. Né notte mai né dì, spada né usbergo né scudo pur dal braccio rimoveansi. I lor cavalli con la sella al tergo112, pendendo i morsi da l’arcion, pasceansi in una stanza che, presso all’uscita, d’orzo e di paglia sempre era fornita.

33

Atlante riparar113 non sa né puote, ch’in sella non rimontino i guerrieri

100. Questa … zelo: questo solo motivo la induce a fare di lui la sua scorta, e a mostrargli fedeltà e premura. 101. e di sua faccia … velo: e apparendo di persona a Sacripante, eliminò dai suoi occhi la fittizia immagine di se stessa (il velo) che era stata creata da Atlante. 102. le sopravenne: sopraggiunsero davanti a lei.

103. giva: andava. 104. del gran palazzo: nel grande palazzo. 105. diva: dea (oggetto di adorazione come una dea). 106. L’usbergo: la corazza. 107. dui: due. 108. entraro: entrarono. 109. eccetto … Troiano: Ferraù, nel I canto, dopo il colloquio con il fantasma di Argalia,

aveva deciso di partire alla conquista dell’elmo di Orlando. 110. pose … mano: si scontrò con lui. 111. avenne … foro: avvenne che non si poterono riconoscere fra loro, sinché furono là dentro. 112. al tergo: sul dorso. 113. riparar: evitare.

295

L’età del Rinascimento

per correr dietro alle vermiglie gote, all’auree chiome et a’ begli occhi neri de la donzella ch’in fuga percuote la sua iumenta114 perché volentieri non vede li tre amanti in compagnia, che forse tolti un dopo l’altro avria115. 34

E poi che dilungati dal palagio gli ebbe sì116, che temer più non dovea che contra lor l’incantator malvagio potesse oprar la sua fallacia rea117; l’annel118 che le schivò più d’un disagio tra le rosate labra si chiudea: donde lor sparve subito dagli occhi, e gli lasciò come insensati e sciocchi.

35

Come che fosse il suo primier disegno di voler seco Orlando o Sacripante, ch’a ritornar l’avessero nel regno di Galafron ne l’ultimo Levante119; le vennero amendua120 subito a sdegno, e si mutò di voglia in uno instante: e senza più obligarsi o a questo o a quello, pensò bastar per amendua il suo annello.

36

Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta quelli scherniti121 la stupida faccia; come il cane talor, se gli è intercetta122 o lepre o volpe a cui dava la caccia, che d’improviso in qualche tana stretta o in folta macchia o in un fosso si caccia. Di lor si ride Angelica proterva123, che non è vista, e i lor progressi124 osserva.

37

Per mezzo il bosco appar sol una strada: credono i cavallier che la donzella inanzi a lor per quella se ne vada; che non se ne può andar, se non per quella. Orlando corre, e Ferraù non bada, né Sacripante men sprona e puntella. Angelica la briglia più ritiene125, e dietro lor con minor fretta viene126.

38

Giunti che fur127, correndo, ove i sentieri a perder si venian ne la foresta, e cominciàr per l’erba i cavallieri

114. iumenta: giumenta, cavalla. 115. che forse … avria: che forse avrebbe tollerato uno per volta. 116. E poi … ebbe sì: e dopo che li ebbe allontanati dal palazzo. 117. fallacia rea: malvagio inganno. 118. l’annel: è l’anello che le consente di sparire.

296

119. ch’a ritornar … Levante: che la dovevano ricondurre nel regno di Galafrone (suo padre, re del Cataio, la Cina) nell’estremo Oriente. 120. amendua: entrambi. 121. scherniti: a osservarlo, il loro stupore per la scomparsa di Angelica è comico. 122. gli è intercetta: gli è sottratta.

123. proterva: arrogante. 124. i lor progressi: il loro avanzare. 125. ritiene: trattiene. 126. e dietro … viene: il gioco illusorio apparenza-realtà continua: i cavalieri credono di inseguire Angelica che invece è dietro di loro. 127. fur: furono.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

a riguardar se vi trovavan pesta128, Ferraù che potea, fra quanti altieri mai fosser, gir con la corona in testa129, si volse con mal viso130 agli altri dui, e gridò lor: – Dove venite vui131? 39

Tornate a dietro, o pigliate altra via, se non volete rimaner qui morti: né in amar né in seguir la donna mia si creda alcun, che compagnia comporti132. – Disse Orlando al Circasso: – Che potria più dir costui, s’ambi ci avesse scorti per le più vili e timide puttane che da conocchie mai traesser lane133? –

40

Poi volto a Ferraù, disse: – Uom bestiale, s’io non guardassi che senza elmo sei, di quel c’hai detto, s’hai ben detto o male, senz’altra indugia accorger ti farei134. – Disse il Spagnuol: – Di quel ch’a me non cale135, perché pigliarne tu cura ti dèi136? Io sol contra ambidui per far son buono quel che detto ho, senza elmo come sono.

41

– Deh, – disse Orlando al re di Circassia – in mio servigio a costui l’elmo presta, tanto ch’io gli abbia tratta la pazzia; ch’altra non vidi mai simile a questa. – Rispose il re: – Chi più pazzo saria137? Ma se ti par pur la domanda onesta, prestagli il tuo; ch’io non sarò men atto, che tu sia forse, a castigare un matto. –

42

Suggiunse Ferraù: – Sciocchi voi, quasi che se mi fosse il portar elmo a grado138, voi senza non ne fosse già rimasi139; che tolti i vostri avrei, vostro mal grado. Ma per narrarvi in parte li miei casi, per voto così senza me ne vado140, et anderò, fin ch’io non ho quel fino che porta in capo Orlando paladino.

[Ferraù si vanta di aver più volte sconfitto Orlando. Questi lo smentisce e lo sfida, e, per non aver vantaggi, si toglie anch’egli l’elmo, appendendolo a un albero. I due guerrieri combattono aspramente, senza potersi ferire, poiché entrambi sono fatati. Angelica, invisibile, assiste allo scontro.]

128. pesta: orma. 129. Ferraù … testa: Ferraù che, fra quanti mai furono orgogliosi (della loro elevata condizione), poteva andare con la corona in testa. 130. mal viso: espressione ostile, minacciosa. 131. vui: voi. 132. comporti: tolleri; in questo caso Ferraù non vuole che alcuno si associ alla sua ricer-

ca di Angelica. 133. s’ambi … lane: «se ci avesse presi per due donnicciole di poco conto, atte solo ai più bassi servigi» (Ceserani); conocchie: strumenti per filare. 134. di quel … farei: senz’altro indugio ti farei accorgere se, di quello che hai detto, hai detto bene o male.

135. Di … cale: di ciò di cui io stesso non mi curo, la mancanza dell’elmo. 136. dèi: devi. 137. saria: sarebbe. 138. se mi fosse … a grado: se mi piacesse. 139. rimasi: rimasti. 140. per voto … vado: vado così senza (elmo) per un voto.

297

L’età del Rinascimento

51

Intanto il re di Circassia141, stimando che poco inanzi Angelica corresse, poi ch’attaccati142 Ferraù et Orlando vide restar, per quella via si messe, che si credea che la donzella, quando da lor disparve, seguitata avesse143: sì che a quella battaglia la figliuola di Galafron fu testimonia sola144.

52

Poi che, orribil come era e spaventosa, l’ebbe da parte145 ella mirata alquanto, e che le parve assai pericolosa così da l’un come da l’altro canto; di veder novità voluntarosa146, disegnò l’elmo tor per mirar quanto fariano i duo guerrier, vistosel tolto; ben con pensier di non tenerlo molto147.

53

Ha ben di darlo al conte intenzïone; ma se ne vuole in prima pigliar gioco. L’elmo dispicca148, e in grembio149 se lo pone, e sta a mirare i cavallieri un poco. Di poi si parte, e non fa lor sermone150; e lontana era un pezzo da quel loco, prima ch’alcun di lor v’avesse mente151: sì l’uno e l’altro era ne l’ira ardente.

54

Ma Ferraù, che prima v’ebbe gli occhi152, si dispiccò da Orlando, e disse a lui: – Deh come n’ha da male accorti e sciocchi trattati il cavallier ch’era con nui153! Che premio fia154 ch’al vincitor più tocchi, se ’l bel elmo involato155 n’ha costui? – Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira: non vede l’elmo, e tutto avampa d’ira.

55

E nel parer di Ferraù concorse156, che ’l cavallier che dianzi era con loro

141. il re di Circassia: Sacripante. 142. attaccati: impegnati nello scontro. 143. seguitata avesse: avesse seguito. 144. fu … sola: fu la sola testimone. 145. da parte: stando in disparte. 146. voluntarosa: desiderosa. 147. disegnò … molto: Angelica vuole giocare uno scherzo ai due cavalieri e stabilisce di portare via l’elmo per vedere che cosa

essi avrebbero fatto, vistoselo sottratto, ben determinata a non trattenerlo molto a lungo. 148. dispicca: toglie. 149. grembio: grembo. 150. e non fa lor sermone: e non dice loro nulla. 151. prima … mente: prima che uno dei due se ne accorgesse. 152. v’ebbe gli occhi: se ne accorse.

153. come … nui: come ci ha trattati da poco attenti e sciocchi il cavaliere che era con noi. 154. fia: sarà. 155. involato: rubato. 156. E nel … concorse: fu d’accordo con Ferraù nel giudicare Sacripante un vigliacco che ha approfittato di loro: ancora una volta la loro considerazione non ha colto nel segno.

pesare le parole Sermone (ottava 53, v. 5)

> Proviene dal latino sermònem, “discorso”, e qui conserva

il senso latino. Nella lingua attuale il senso si è ristretto a indicare la predica fatta in chiesa dal sacerdote (o dal pastore, per le confessioni evangeliche) ai fedeli per illu-

298

minarli su questioni religiose e morali. Viene anche usato, soprattutto in senso scherzoso, a indicare un lungo discorso di ammonimento (es. mi ha tenuto un interminabile sermone sui miei errori).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

se lo portasse; onde la briglia torse, e fe’ sentir gli sproni a Brigliadoro. Ferraù che del campo il vide tòrse157, gli venne dietro; e poi che giunti foro dove ne l’erba appar l’orma novella ch’avea fatto il Circasso e la donzella158; 56

prese la strada alla sinistra il conte verso una valle, ove il Circasso era ito159: si tenne Ferraù più presso al monte, dove il sentiero Angelica avea trito160. Angelica in quel mezzo ad una fonte giunta era, ombrosa e di giocondo sito161, ch’ognun che passa alle fresche ombre invita, né senza ber mai lascia far partita162.

57

Angelica si ferma alle chiare onde, non pensando ch’alcun le sopravegna163; e per lo sacro annel che la nasconde, non può temer che caso rio le avegna164. A prima giunta165 in su l’erbose sponde del rivo l’elmo a un ramuscel consegna166; poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca, la iumenta legar, perché si pasca167.

58

Il cavallier di Spagna168, che venuto era per l’orme, alla fontana giunge. Non l’ha sì tosto Angelica veduto,

157. il vide tòrse: lo vide allontanarsi dal campo. 158. e poi … donzella: e dopo che furono giunti dove nell’erba appare l’orma recente che avevano lasciata Sacripante e la fanciulla. 159. ito: andato.

160. trito: calpestato. 161. giocondo sito: luogo piacevole. 162. né … partita: non permette a nessuno di ripartire prima di aver assaporato quelle acque. 163. le sopravegna: sopraggiunga.

pesare le parole Partita (ottava 56, v. 8) > Viene

dal verbo latino partìri, “dividere, separare”, da pàrtem, “parte”. Qui significa “allontanamento, partenza”, cioè appunto il separarsi da qualche cosa (partenza tra l’altro ha la stessa etimologia). In questo senso è ormai in disuso, tranne che nel linguaggio colto, nella forma composta dipartita, spesso usata come eufemismo di “morte” (es. la sua dipartita ci ha molto addolorato). Oggi i sensi più comuni di partita sono: “quantità di merce comprata o venduta” (es. è arrivata una partita di caffè); “registrazione scritta in un conto” (es. partita semplice, doppia, nella tenuta dei registri commerciali); in senso figurato, saldare una partita, “dare o ricevere ciò che si merita”; “competizione fra due giocatori o due squadre” (es. partita a tennis, di calcio); “azione collettiva di svago” (es. partita di caccia; senso presente anche nelle parole inglesi e francesi derivate dalla stessa radice latina: hunting party, “partita di caccia”, partie de campagne, “gita in campagna”).

164. caso rio le avegna: le capiti una sventura. 165. A prima giunta: appena arrivata. 166. consegna: appende. 167. pasca: nutra. 168. cavallier di Spagna: Ferraù.

> Sempre da partìri e da partem deriva partito, “orga-

nizzazione politica per ottenere determinate finalità e per la conquista e l’esercizio del potere”, perché rappresenta solo una parte del corpo sociale, in contrapposizione ad altre; donde anche partigiano, “seguace di un partito” (come aggettivo, “che manca di imparzialità, es. decisione partigiana); durante la Seconda guerra mondiale furono detti partigiani coloro che combattevano per liberare l’Italia dall’esercito tedesco invasore, appoggiato dai fascisti della Repubblica di Salò. Altri sensi di partito: “decisione, risoluzione” (es. prendere partito a favore dell’abolizione della pena di morte); mettere la testa a partito, “ravvedersi e diventare saggi”; un buon partito è chi si propone come buona occasione di matrimonio, specie per ragioni economiche; e ancora “condizione” (es. trovarsi a mal partito); “mezzo, risorsa” (es. rinunciare è l’unico partito che ci resta).

299

L’età del Rinascimento

che gli dispare, e la cavalla punge169. L’elmo, che sopra l’erba era caduto, ritor170 non può, che troppo resta lunge171. Come il pagan d’Angelica s’accorse, tosto vèr172 lei pien di letizia corse. 59

Gli sparve, come io dico, ella davante, come fantasma al dipartir del sonno. Cercando egli la va per quelle piante, né i miseri occhi più veder la ponno173. Bestemiando Macone e Trivigante174, e di sua legge ogni maestro e donno175, ritornò Ferraù verso la fonte, u’176 ne l’erba giacea l’elmo del conte.

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Lo riconobbe, tosto che mirollo177, per178 lettere ch’avea scritte ne l’orlo; che dicean dove179 Orlando guadagnollo, e come e quando, et a chi fe’ deporlo. Armossene il pagano il capo e il collo, che non lasciò, pel duol ch’avea, di tòrlo180; pel duol ch’avea di quella che gli sparve, come sparir soglion notturne larve181.

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Poi ch’allacciato s’ha il buon elmo in testa, aviso gli è182 che a contentarsi a pieno, sol ritrovare Angelica gli resta, che gli appar e dispar come baleno. Per lei tutta cercò l’alta foresta: e poi ch’ogni speranza venne meno di più poterne ritrovar vestigi183, tornò al campo spagnuol verso Parigi;

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temperando il dolor che gli ardea il petto, di non aver sì gran disir sfogato184, col refrigerio di portar l’elmetto che fu d’Orlando, come avea giurato. Dal conte, poi che ’l certo gli fu detto185, fu lungamente Ferraù cercato, né fin quel dì dal capo gli lo sciolse, che fra duo ponti la vita gli tolse186.

169. punge: sprona. 170. ritor: riprendere. 171. lunge: lontano. 172. vèr: verso. 173. ponno: possono. 174. Macone e Trivigante: Macone o Macometto era chiamato Maometto; Trivigante era una divinità pagana inventata dai cristiani. 175. donno: signore.

300

176. u’: dove. 177. tosto che mirollo: non appena lo guardò. 178. per: dalle. 179. dove: in quale occasione. 180. Armossene … tòrlo: il pagano se ne armò il capo e il collo, perché non rinunciò a prenderlo (tòrlo) nonostante il dolore che provava. 181. notturne larve: visioni notturne.

182. aviso gli è: si rende conto. 183. vestigi: tracce. 184. di non … sfogato: di non aver potuto soddisfare il suo desiderio di lei. 185. poi … detto: quando capì con chiarezza che Ferraù si era impadronito dell’elmo. 186. né … tolse: né glielo sfilò dal capo (l’elmo) fino al giorno in cui gli tolse la vita fra i due ponti (si riferisce al duello in cui Orlando ucciderà Ferraù).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Analisi del testo Il palazzo fatato e la selva

Le parole chiave: «cercare», «invano» «di qua, di là», «di su, di giù»

L’oggetto del desiderio è creazione soggettiva

La seconda parte La selva

La follia

Angelica, metafora della realtà

Il realismo spregiudicato

La desublimazione della figura femminile

L’ironia

La reticenza del narratore

> un’immagine del mondo

Il palazzo fatato di Atlante, come ha intelligentemente osservato Zatti, ha un significato simile a quello della selva nel primo canto ( T4, p. 263). Come la selva, il palazzo è un’immagine del mondo, dove gli uomini sono spinti dai loro desideri al vano inseguimento di oggetti deludenti, che loro sfuggono perpetuamente. Si può notare come nell’episodio tornino costantemente due parole chiave, «cercare» e «invano» (o «vano»). Un altro stilema continuamente ricorrente è quello che già compare nel primo canto: «Di su di giù» (ottava 10), «or quinci or quindi» (11), «or quinci or quindi», «di su di giù» (18), «Di su di giù» (19), «di su di giù, dentro e di fuor» (29). Come ha osservato Carne-Ross, questo stilema sottolinea che l’inchiesta inesauribile e fallimentare porta ad avvolgimenti inconcludenti, che ritornano sempre su se stessi, ad una ripetizione insensata di gesti. La vanità delle immagini create dal mago, che appaiono e dispaiono continuamente, allude alla vanità degli oggetti che gli uomini inseguono. La realtà non è che un gioco di apparenze ingannevoli. Nelle immagini evocate dal mago ogni personaggio vede ciò che desidera: ciò significa che l’oggetto del desiderio non è che creazione soggettiva degli uomini e che solo il desiderio e l’immaginazione conferiscono valore agli oggetti. In questo perpetuo inseguimento fallimentare di apparenze ingannevoli gli uomini sprofondano in una totale alienazione: a ciò allude il fatto che i vari cavalieri che si aggirano nel palazzo non si riconoscono fra loro. Gli stessi motivi sono ripresi nella seconda parte dell’episodio, con l’inseguimento di Angelica da parte di Orlando, Sacripante e Ferraù. Ricomincia l’«inchiesta», anzi la serie delle inchieste che si intersecano, dando origine a rivalità e conflitti tra i vari personaggi. Ricompare il motivo della selva, che del palazzo fatato è l’omologo: nella selva i sentieri si perdono, cioè nella sua inchiesta l’uomo smarrisce la via, rischia di perdere il controllo di sé, il senno. Nelle loro contese, Orlando, Sacripante e Ferraù si danno vicendevolmente del pazzo: il fatto possiede una sottile allusività alla follia che è in agguato dietro all’«errore» dell’inchiesta; e per Orlando il rischio si tramuterà ben presto in realtà ( T8, p. 323). Gli inganni del mago sono ripresi e prolungati dalle continue sparizioni di Angelica, che si invola dinanzi ai suoi inseguitori grazie all’anello fatato. È questa un’altra trasparente metafora del carattere ingannevole della realtà.

> materia romanzesca e riflessione etico-filosofica

Alla follia degli uomini si contrappone però un versante più realistico. Esso è rappresentato in primo luogo da Ferraù, che, deluso dalla sparizione della donna desiderata, si accontenta di un oggetto sostitutivo di minor valore e subito a disposizione, l’elmo di Orlando. Ma il realismo è soprattutto della donna: per coloro che l’amano Angelica è una dea, degna di adorazione, mentre, come già risultava dal primo canto, in sé è una fredda calcolatrice, che usa cinicamente gli uomini come strumenti per il suo tornaconto. In tal modo Ariosto persegue un’ironica desublimazione della figura femminile, quella figura tanto celebrata dalla tradizione cortese e da quella petrarchista, entrambe ancora centrali nella civiltà cortigiana del Rinascimento. Nel campione narrativo offerto dall’episodio si può quindi verificare come, nel Furioso, la materia fiabesco-romanzesca (incantesimi, duelli, amori) e la riflessione etico-filosofica siano perfettamente fuse. Lo strumento essenziale del distacco conoscitivo con cui il poeta riflette sulla materia, come sappiamo, è l’ironia. Già il proemio mitologico fornisce la chiave ironica attraverso cui il canto deve essere letto: si crea una sproporzione tra la ricerca della dea Cerere e quella di Orlando, che viene sottilmente indicata dai due versi conclusivi, «ma poi che ’l carro e i draghi non avea, / la gìa cercando al meglio che potea» (3): l’abbassamento improvviso del tono verso il prosaico e il colloquiale vale a straniare maliziosamente la figura del paladino e a mettere in rilievo il motivo dell’impotenza dell’uomo e della vanità dell’«inchiesta». Una funzione ironica ha anche il gioco, da parte del narratore, a limitare la propria onniscienza, un procedimento caro ad Ariosto, che sortisce anch’esso un effetto di straniamento, impedendo l’immedesimazione emotiva del lettore e inducendolo alla riflessione: «Non dico ch’ella fosse, ma parea / Angelica gentil ch’egli tant’ama» (6), «io dico ch’arrivò [Ruggiero] qui dove 301

L’età del Rinascimento

Orlando / dianzi arrivò, se ’l loco riconosco» (17): per questo l’ironia è strumento fondamentale della componente conoscitiva, riflessiva, etico-filosofica del poema. Una funzione oggettivamente ironica ha poi la sproporzione tra la baldanza e la forza guerriera di Orlando («con voce orrenda il cavallier richiama», 6; «Orlando disdegnoso e fiero», 8; «Subito smonta, e fulminando passa», 9), e il gioco ingannevole delle apparenze e degli incantesimi, dinanzi a cui il prode paladino si trova del tutto impotente. La dignità eroica viene abbassata e lievemente ridicolizzata: così l’eroe cavalleresco è pronto per essere fatto oggetto della lucida indagine dello scrittore sugli errori umani.

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Riassumi in ca. 20 righe (1200 caratteri) il contenuto delle ottave 4-20, in cui risulta con evidenza il parallelismo tra le vicende e le azioni di Orlando e di Ruggiero. > 2. Quali altri cavalieri, oltre ad Orlando e Ruggiero si aggirano nel castello di Atlante? Qual è l’oggetto della loro ricerca? > 3. Quale incantesimo mette in atto Atlante nei confronti dei paladini? > 4. Perché il mago ha costruito il maniero? > 5. A partire dall’ottava 26 entra in scena Angelica, che riconduce l’azione all’esterno del palazzo. Qual è il comportamento del personaggio? AnALIzzARe

> 6.

Stile La figura retorica dell’iterazione, tipica delle narrazioni epiche, diviene qui rilevante a livello strutturale, in modo particolare nel parallelismo tra Orlando e Ruggiero. Rintraccia nelle ottave 4-20 tale figura nell’uso degli avverbi di luogo, dei verbi di movimento e del termine «invano», spiegando il senso di tali ricorrenze.

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 7.

Testi a confronto: esporre oralmente Istituisci oralmente un confronto tra la selva del canto I e il castello di Atlante (max 5 minuti). > 8. Competenze digitali Il palazzo di Atlante, che si trova in Bretagna, rappresenta una delle tante tappe dei diversi percorsi dei paladini. Realizza una mappa in cui collocare i luoghi dell’Orlando furioso. Di seguito ne riepiloghiamo l’elenco: Parigi: assedio; Ardenne; Isola di Ebuda (Isole Ebridi, oltre la Scozia); Bretagna; Arli (Arles); Pirenei; Biserta, Lipadusa (Lampedusa); Catai (Cina); Isola di Alcina; Etiopia.

LeTTeRATuRA e TeATRo

L’Orlando furioso secondo Ronconi e Sanguineti

Video

Lo spazio della rappresentazione Il 4 luglio 1969 va per la prima volta in scena a Spoleto

l’Orlando furioso di Luca Ronconi e Edoardo Sanguineti, tratto dall’omonimo poema epico cavalleresco di Ludovico Ariosto. Lo spettacolo, molto dibattuto, andrà incontro a uno straordinario successo. A scriverne il copione è Sanguineti, poeta e teorico di punta della neoavanguardia, che adatta per la scena i versi di Ariosto e suddivide il poema in blocchi narrativi. Questi non sono pensati per essere recitati uno dopo l’altro, ma contemporaneamente: l’obiettivo è “smontare” l’entrelacement ariostesco, cioè quella struttura narrativa secondo cui le vicende del poema, fittamente intrecciate, vengono abbandonate e riprese continuamente dall’autore (per approfondire p. 245). Per questa ragione le diverse parti dello spettacolo vengono messe in scena in un grande spazio rettangolare, delimitato sui lati corti da due palchi all’italiana e occupato al suo interno da piattaforme e carrelli realizzati dallo scenografo Uberto Bertacca. Ogni distanza tra attori e pubblico è soppressa: mentre gli attori, sparsi nello spazio scenico, mettono in scena simultaneamente le diverse parti del testo di Ariosto-Sanguineti, lo spettatore è libero di muoversi tra una situazione e un’altra e di “costruire” da sé la propria personalissima esperienza dello spettacolo. 302

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Il teatro italiano negli anni Sessanta L’operazione di Sanguineti e Ronconi si inse-

risce in un contesto storico molto particolare. Il panorama teatrale italiano degli anni Sessanta è infatti caratterizzato da una grande varietà di proposte alternative a quelle “ufficiali”. A finire sotto accusa è tutto quel teatro ormai incapace di comunicare con il pubblico perché fossilizzato nella ripetizione di forme spettacolari considerate ormai inefficaci. In questo contesto anche Ronconi sente il bisogno di avanzare una proposta teatrale nuova, che lavora sulle potenzialità spettacolari dei testi. Il regista verrà anche influenzato dalla pubblicazione, per la prima volta in Italia, di testi teorici stranieri di particolare importanza, relativi al rapporto fra scena e platea, quindi tra attore e pubblico.

La fedeltà al testo È quindi pensando a un rinnovamento del rapporto fra spettatore,

attore e testo teatrale che Ronconi arriva a mettere in scena il testo di Sanguineti nel modo innovativo che abbiamo descritto. Ma non va dimenticato che il regista cerca anche di essere fedele alla concezione dello spazio propria di Ariosto. Gli attori infatti, in sella a cavalli meccanici, si muovono continuamente da una pedana all’altra, riproducendo il girovagare dei personaggi del poema, alla perenne ricerca dell’oggetto o della persona desiderata. Anche il lavoro di Sanguineti si muove nella stessa direzione. La sua riscrittura del poema infatti è caratterizzata dal ricorso a lunghi monologhi, nei quali gli attori raccontano al pubblico le proprie gesta e le proprie sventure, secondo lo spirito dei cantari cavallereschi che avevano ispirato Ariosto (per approfondire pp. 244-245). In questa immagine possiamo vedere il labirinto di vetro costruito per lo spettacolo dallo scenografo Bertacca. La struttura si rifà esplicitamente al continuo vagare dei personaggi di Ariosto. Il materiale utilizzato rimanda invece al fatto che gli oggetti del desiderio dei cavalieri, anche quando sembrano avvicinarsi, si rivelano in realtà irraggiungibili. Per individuare i legami con il poema di Ariosto si veda per esempio il brano Il palazzo incantato di Atlante riportato a p. 290 ( T5) di questo libro.

Questo il bozzetto definitivo realizzato da Uberto Bertacca per la scena dell’Orlando furioso. Al centro si distinguono, oltre ai cavalli, due navi e la grande carcassa del «mostro delle acque». Più a sinistra possiamo invece osservare l’ippogrifo costituito da una grande struttura metallica, manovrata da cinque attori, progettata per battere le ali e planare sul pubblico.

Esercitare le competenze STABILIRe neSSI TRA TeSTo dRAmmATICo e RAppReSenTAzIone SCenICA

> Prestando particolare attenzione al bozzetto definitivo realizzato da Uberto Bertacca, descrivi lo spazio scenico e il nuovo rapporto tra pubblico e spettatori che un tale allestimento presuppone.

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L’età del Rinascimento

LLeetttteerraattuurraa ee Tecnica xxxxxx

T6

La condanna delle armi da fuoco dall’Orlando furioso, IX, 28-29; 88-91; XI, 21-28 Orlando, mentre vaga per l’Europa in cerca di Angelica, giunge in una città dove ascolta la storia di Olimpia, figlia del conte di Olanda. Promessasi a Bireno, duca di Selandia, mentre questi era lontano a combattere i Mori in Spagna era stata chiesta in moglie dal vicino re di Frisa, Cimosco, per il proprio figlio, ma aveva rifiutato. Il malvagio re aveva allora mosso guerra all’Olanda, valendosi di un’arma potente e mai vista prima.

Testo e realtà Ariosto rivolge lo sguardo sulla realtà dei suoi tempi e riflette sul cambiamento prodotto dall’introduzione delle armi da fuoco, che ha contribuito al tramonto di un’epoca e alla nascita dell’età moderna.

Canto IX 28

Oltre che sia robusto, e sì possente, che pochi pari a nostra età ritruova, e sì astuto in mal far, ch’altrui nïente la possanza, l’ardir, l’ingegno giova; porta alcun’arme che l’antica gente non vide mai, né, fuor ch’a lui, la nuova1: un ferro bugio2, lungo da dua3 braccia, dentro a cui polve et una palla caccia.

29

Col fuoco dietro ove la canna è chiusa, tocca un spiraglio che si vede a pena4; a guisa che toccare il medico usa dove è bisogno d’allacciar la vena5: onde vien con tal suon la palla esclusa6, che si può dir che tuona e che balena; né men che soglia il fulmine ove passa7, ciò che tocca arde, abatte, apre e fracassa.

88

[…] Quindi si parte il senator romano8 il dì medesmo che Bireno scioglie9. Non vòlse porre ad altra cosa mano10,

1. Oltre … nuova: (si riferisce a Cimosco) oltre a essere così robusto e possente che ne trova pochi pari a lui nel nostro tempo, e così astuto nel compiere il male che agli altri non servono a nulla la forza, l’ardimento, l’intelligenza, porta una certa arma che i popoli antichi non videro mai, e nemmeno quelli moderni, fuorché in mano a lui. 2. ferro bugio: un ferro bucato, cioè un archibugio, un antenato del fucile. In realtà le armi da fuoco furono inventate solo nel XIV secolo, mentre le leggende carolinge si svol-

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gono all’epoca di Carlo Magno, cioè tra l’VIII secolo e l’inizio del IX. Il termine archibugio viene dall’olandese hake-bus, “scatola a uncino”, attraverso la forma francese del XV secolo hacquebuche; in Italia assunse un’erronea etimologia ricavata da “arco” e “buco” (toscano “bugio”, la forma usata da Ariosto). 3. lungo da dua: lungo circa due. 4. Col fuoco … a pena: l’archibugio veniva fatto sparare accendendo la polvere con una miccia attraverso una fessura nella parte retrostante della canna.

5. a guisa … vena: come il medico comprime col dito la ferita prima di allacciare la vena. 6. esclusa: espulsa. 7. né men … passa: non meno di quanto suole fare il fulmine dove cade. 8. Quindi … romano: di là [dall’Olanda] si allontana Orlando (l’epiteto «senatore romano» era comunemente a lui attribuito nelle leggende italiane). 9. scioglie: salpa. 10. porre … mano: trattenere, portare con sé.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

fra tante e tante guadagnate spoglie, se non a quel tormento11 ch’abbiàn detto ch’al fulmine assimiglia in ogni effetto. 89

L’intenzïon non già, perché lo tolle, fu per voglia d’usarlo in sua difesa12; che sempre atto stimò d’animo molle13 gir14 con vantaggio in qualsivoglia impresa: ma per gittarlo in parte, onde non volle che mai potesse ad uom più fare offesa: e la polve e le palle e tutto il resto seco portò, ch’apperteneva a questo.

90

E così, poi che fuor de la marea15 nel più profondo mar si vide uscito, sì che segno lontan non si vedea del destro più né del sinistro lito16; lo tolse17, e disse: – Acciò più non istea mai cavallier per te d’esser ardito, né quanto il buono val, mai più si vanti il rio per te valer, qui giù rimanti18.

91

O maladetto, o abominoso19 ordigno, che fabricato nel tartareo fondo20 fosti per man di Belzebù maligno che ruinar per te disegnò il mondo21, all’inferno, onde uscisti, ti rasigno22. – Così dicendo, lo gittò in profondo.

[Il re di Frisa sconfigge gli Olandesi e uccide prima i due fratelli di Olimpia con l’archibugio, poi colpisce il padre a tradimento, da lontano, e conquista il regno. È disposto a concedere la pace se Olimpia sposerà il figlio, e la fanciulla finge di assecondarlo per potersi vendicare. Mentre si preparano le nozze, Bireno corre in aiuto con un esercito ma è sconfitto da Cimosco e preso prigioniero. La prima notte di nozze Olimpia fa uccidere il figlio del re da un fedele seguace e fugge. Cimosco ricatta Bireno, promettendogli salva la vita se l’aiuterà a catturare Olimpia, altrimenti lo ucciderà. Lei vorrebbe consegnarsi per salvarlo, ma teme che ciò non basti e Bireno sia giustiziato egualmente. Orlando allora promette il suo aiuto. Sfida a duello Cimosco, ma questi, sleale e traditore, lo fa circondare dai suoi armati. Orlando li disperde; Cimosco ricorre allora all’arma da fuoco micidiale, ma sbaglia il colpo e Orlando gli fende la testa con un colpo di spada.]

Canto XI 21

[…] Non più di questo; ch’io ritorno a Orlando, che ’l fulgur23 che portò già il re Cimosco, avea gittato in mar nel maggior fondo, acciò mai più non si trovasse al mondo.

11. tormento: in latino “macchina per lanciare proiettili”, cioè l’archibugio. 12. L’intenzïon … difesa: l’intenzione per cui lo porta via non è già perché voglia usarlo a sua difesa. 13. molle: debole, vile. 14. gir: andare. 15. fuor … marea: lontano dalla riva, dove

più si sente la marea. 16. lito: sponda. 17. tolse: prese. 18. Acciò … rimanti: resta quaggiù, affinché più nessun cavaliere mai si trattenga dall’essere ardito per causa tua [cioè per il vantaggio sleale assicurato dall’arma], né l’uomo vigliacco [rio] mai più si vanti di valere quanto il coraggioso.

19. abominoso: abominevole, esecrabile. 20. tartareo fondo: al fondo dell’Inferno. Il Tartaro era la parte più bassa degli Inferi pagani. 21. che ruinar … mondo: che progettò di mandare in rovina il mondo per mezzo tuo. 22. ti rasigno: ti restituisco. 23. fulgur: folgore (l’archibugio).

305

L’età del Rinascimento

22

Ma poco ci giovò24: che ’l nimico empio de l’umana natura, il qual del telo fu l’inventor, ch’ebbe da quel l’esempio, ch’apre le nubi e in terra vien dal cielo; con quasi non minor di quello scempio che ci diè quando Eva ingannò col melo, lo fece ritrovar da un negromante, al tempo de’ nostri avi, o poco inante25.

23

La machina infernal, di più di cento passi d’acqua ove stè ascosa molt’anni, al sommo tratta per incantamento, prima portata fu tra gli Alamanni26; li quali uno er un altro esperimento facendone, e il demonio a’ nostri danni assuttigliando27 lor via più la mente, ne ritrovaro l’uso finalmente28.

24

Italia e Francia e tutte l’altre bande29 del mondo han poi la crudele arte appresa. Alcuno il bronzo in cave forme spande, che liquefatto ha la fornace accesa; bùgia altri il ferro; e chi picciol, chi grande il vaso forma, che più e meno pesa30: e qual bombarda e qual nomina scoppio, qual semplice cannon, qual cannon doppio;

25

qual sagra, qual falcon, qual colubrina31 sento nomar, come al suo autor più agrada; che ’l ferro spezza, e i marmi32 apre e ruina, e ovunque passa si fa dar la strada. Rendi, miser soldato, alla fucina per tutte l’arme c’hai, fin alla spada33; e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi; che senza, io so, non toccherai stipendi34.

26

Come trovasti, o scelerata e brutta invenzïon, mai loco in uman core? Per te35 la militar gloria è distrutta,

24. ci giovò: giovò a noi uomini. 25. ’l nimico … inante: l’empio nemico del genere umano [il diavolo], il quale fu l’inventore dell’arma [telo: letteralmente “arma da lancio”, in latino], che trasse il modello da quello [sottinteso telo: il fulmine] che apre le nubi e cade in terra dal cielo, lo fece ritrovare da un negromante al tempo dei nostri avi o poco prima, con un danno non minore di quello che il diavolo arrecò all’umanità quando ingannò Eva con la mela. Con negromante forse Ariosto intende alludere al frate alchimista tedesco Berthold Schwartz (XIV secolo), a cui era attribuita tradizionalmente l’invenzione della polvere da sparo.

306

26. di più … Alamanni: tratta per incantesimo alla superficie dai più di cento passi d’acqua dove stette nascosta molti anni, fu prima portata fra i Tedeschi. 27. assuttigliando: aguzzando. 28. ne ritovaro … finalmente: ne scoprirono finalmente l’uso (che a tutta prima non era loro chiaro). 29. bande: parti. 30. Alcuno … pesa: alcuni versano in forme di terra cave il bronzo liquefatto da una fornace accesa; altri fora una canna di ferro; e chi forma la canna piccola, chi grande, che pesa più o meno. 31. bombarda … colubrina: Ariosto elen-

ca vari nomi attribuiti a vari tipi di armi da fuoco. La bombarda è un cannone grosso e pesante, lo schioppo un’arma portatile, sagra, falcone e colubrina sono cannoni più piccoli. 32. marmi: le opere in muratura. 33. Rendi … spada: il povero soldato può restituire alla fucina tutte le sue armi (spade, pugnali, lance, frecce, scudi…) per farle rifondere, perché sono diventate inutili dopo l’introduzione di quelle da fuoco. 34. stipendi: gli eserciti erano composti da truppe mercenarie, pagate per combattere. 35. Per te: per colpa tua.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

per te il mestier de l’arme è senza onore; per te è il valore e la virtù ridutta, che spesso par del buono il rio migliore36: non più la gagliardia, non più l’ardire per te può in campo al paragon37 venire. 27

Per te son giti ed anderan sotterra38 tanti signori e cavallieri tanti, prima che sia finita questa guerra39, che ’l mondo, ma più Italia ha messo in pianti; che s’io v’ho detto, il detto mio non erra, che ben fu il più crudele e il più di quanti mai furo al mondo ingegni empii e maligni, ch’imaginò sì abominosi ordigni40.

28

E crederò che Dio, perché vendetta ne sia in eterno, nel profondo chiuda del cieco abisso quella maladetta anima, appresso al maladetto Giuda41. […]

36. il valore … migliore: il valore e il coraggio sono ridotti al punto che spesso il vile pare migliore del valoroso. 37. al paragon: alla prova diretta dello scontro in campo. 38. son giti … sotterra: son morti o moriranno. 39. questa guerra: la guerra tra Francia e

Spagna, combattuta spesso in Italia ai primi del Cinquecento. 40. che s’io … ordigni: che [consecutivo, retto da tanti, v. 2] se io vi ho detto che chi inventò ordigni così abominevoli fu certamente il più crudele di quante menti empie e malvage furono al mondo, ciò che ho detto è la verità. 41. E crederò … Giuda: e crederò che Dio

chiuderà nel profondo del buio abisso infernale quella maledetta anima, vicino al dannato Giuda, perché sia punita in eterno. Giuda nella Commedia dantesca si trova appunto nel cerchio più basso dell’Inferno, fra i traditori, maciullato da una delle bocche di Lucifero. L’uso dell’arma da fuoco è equiparata al tradimento.

Analisi del testo

> L’introduzione delle armi da fuoco

Gli effetti della scoperta delle armi da fuoco

Non si sa precisamente quando e da chi fu scoperta la polvere da sparo. La leggenda attribuisce la scoperta a tal Bertoldo il Nero, tedesco (Berthold Schwartz), ma in realtà la sua esistenza storica non è certa. Comunque già nel Quattrocento erano comunemente in uso cannoni e archibugi, specie di grossi fucili che per sparare erano appoggiati a un’asta biforcuta a un’estremità. L’introduzione delle armi da fuoco ebbe effetti incalcolabili, non solo sulla tecnica militare, ma anche sul piano sociale, economico, urbanistico: sui campi di battaglia diminuì progressivamente l’importanza della cavalleria, che poteva essere agevolmente falciata, durante le sue cariche, dai cannoni e dalla fucileria, e quindi andò a colpire l’aristocrazia di origini feudali, che forniva appunto la cavalleria; diede impulso alle officine che fabbricavano le armi da fuoco, facendole diventare sempre più un elemento importante dell’economia, sino ai giorni nostri, in cui l’industria bellica ha fatturati astronomici; rese quasi inutili le fortificazioni che circondavano le città medievali, le cui mura ora potevano essere abbattute dalle cannonate, quindi le città ebbero agio di espandersi più liberamente nello spazio orizzontale. Le armi da fuoco furono dunque fra i mezzi fondamentali che contribuirono al tramonto del Medioevo e al passaggio all’età moderna. Sempre le tecnologie hanno dato decisivi contributi alle svolte della civiltà: basti pensare, per restare al Quattrocento, all’inven307

L’età del Rinascimento

zione della stampa. E non c’è bisogno di ricordare le rivoluzioni più vicine a noi, determinate dalla macchina a vapore, dall’elettricità, dal motore a scoppio, dalla radio e dalla televisione, dai computer.

> La condanna di Ariosto

Il vantaggio sleale ai vili

La fine di un mondo

La cancellazione dell’ardimento e dell’onore La morte di tanti cavalieri

Ariosto, in questo episodio, si lancia in una requisitoria implacabile contro le armi da fuoco. Nell’Orlando furioso il poeta assume un atteggiamento di ironico distacco dalle leggende cavalleresche, come si è visto. Resta però in lui l’ammirazione per certi valori, quali la prodezza, la lealtà, l’onore, che nella civiltà cortigiana erano rimasti vivi e ammirati. Questo spiega l’esecrazione e la condanna delle armi da fuoco che si riscontrano in questi versi. Ariosto rivela precise competenze tecniche nella descrizione dell’archibugio, ma poi, attraverso le parole del paladino, mette in rilievo come consenta un vantaggio sleale anche ai vili e ai malvagi, cancellando il valore dell’ardimento. Con veemenza addita l’arma come opera del demonio, che l’ha introdotta per mandare in rovina il mondo. In realtà noi vediamo bene che le armi da fuoco non hanno mandato in rovina il mondo, che ha continuato il suo corso, ma un mondo, quello medievale (anche se, con la Seconda guerra mondiale, ci sono andate vicino; semmai la fine del mondo potrà essere causata dalle armi nucleari). Grazie a quelle armi, insiste Ariosto, è stata distrutta la gloria militare, e il mestiere della guerra ha perso l’onore. Il poeta rimpiange che nello scontro tra Francia e Spagna, che mentre scrive ha per teatro il suolo italiano, siano morti tanti cavalieri colpiti dalle armi da fuoco. E davvero aveva allora destato sensazione il fatto che il prode Bayard, il cavaliere francese «senza macchia e senza paura», le cui gesta erano divenute celebri, fosse stato ucciso da una palla di archibugio alla schiena mentre combatteva in Piemonte contro gli imperiali nel 1524. Il fatto assume un significato simbolico: è la modernità tecnologica che sopprime il passato cavalleresco.

bassa

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Giovanni Cini, La battaglia di Porta Camollia a Siena, 1526, XVI secolo, tavoletta di biccherna, tempera su legno, part., Siena, Archivio di Stato, Museo.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Definisci le caratteristiche fisiche e morali di Cimosco. > 2. Che cosa fa Orlando dopo essersi impossessato dell’arma? > 3. Qual è l’opinione del paladino riguardo l’uso dell’archibugio? Rispondi dopo aver riletto le ottave 89-90 del canto IX.

> 4. Secondo Orlando, chi ne è l’inventore? > 5. Chi riporta alla superficie l’archibugio? Chi è, in realtà, l’artefice “nascosto” di tale ritrovamento? E dove viene portato l’ordigno? Rileggi, a tale proposito, le ottave 22-23 del canto XI.

AnALIzzARe

> 6. A quale elemento della natura viene assimilato l’archibugio, per gli effetti che produce? AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 7. Con l’introduzione delle armi da fuoco, leggiamo in Ariosto, sono stati distrutti la gloria militare, la virtù e l’o-

nore, quei valori cavallereschi per cui si distinguono ancora nel Rinascimento Orlando ed i paladini di Carlo. Quando e come nascono il codice e l’etica della cavalleria? Rispondi seguendo le indicazioni di seguito. a) Chi è il cavaliere medievale? Come e perché si afferma questa figura storica? b) Quando e come diviene un combattente per la fede? A tale proposito puoi riferirti alle crociate e ai cavalieri templari, oppure, in ambito letterario, puoi prendere come esempio gli eroi della Chansons de Roland, impegnati nella lotta contro gli infedeli in nome della fede cristiana. c) In cosa consiste il codice cavalleresco? pASSATo e pReSenTe Le invenzioni e il loro uso: la responsabilità dello scienziato

> 8. Dopo aver letto il brano che segue, tratto da Il visconte dimezzato dello scrittore contemporaneo Italo Calvino, rispondi oralmente (max 5 minuti) alle seguenti domande. a) Quale rapporto intercorre tra scienza e tecnica, tra una scoperta scientifica e la sua applicazione? b) Il tecnico-scienziato che costruisce o inventa macchine e ordigni pericolosi è ugualmente responsabile come chi usa materialmente tali armi? Scrive Calvino: Spesso, andavo alla bottega di Pietrochiodo a vedere le macchine che l’ingegnoso maestro stava costruendo. Il carpentiere viveva in angosce e rimorsi sempre maggiori, da quando il Buono veniva a trovarlo nottetempo e gli rimproverava il tristo fine delle sue invenzioni, e lo incitava a costruire meccanismi messi in moto dalla bontà e non dalla sete di sevizie. – Ma quale macchina debbo costruire mastro Medardo? – chiedeva Pietrochiodo. […] Il Buono ogni giorno perfezionava la sua idea e impiastricciava di disegni, carte e carte, ma Pietrochiodo non riusciva a tenergli dietro […]. E al carpentiere veniva in dubbio che costruir macchine buone fosse al di là delle possibilità umane, mentre le sole che veramente potessero funzionare con praticità ed esattezza fossero i patiboli e i tormenti. […] Il maestro s’angustiava: – Sarà forse nel mio animo questa cattiveria che mi fa riuscire solo macchine crudeli? – Ma intanto continuava ad inventare con zelo ed abilità altri tormenti. I. Calvino, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 1991

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L’età del Rinascimento

T7

Cloridano e medoro dall’Orlando furioso, XVIII, 164-172; 183-192; XIX, 1-16

Temi chiave

• la ripresa del modello epico virgiliano

• la celebrazione dell’amicizia L’episodio ricalca quello virgiliano della sortita notturna di Eu• il valore degli ideali cavallereschi rialo e Niso, nel libro IX dell’Eneide (e, in subordine, l’episo• la polemica contro l’ipocrisia di corte dio di Opleo e Dimante nel X libro della Tebaide di Stazio, che segue a sua volta Virgilio). L’esercito dei Saraceni ha subito una dura sconfitta da parte di Carlo Magno. Per tutta la notte nel loro accampamento risuonano pianti e lamenti. Canto XVIII

164

Tutta la notte per gli alloggiamenti dei mal sicuri Saracini oppressi si versan pianti, gemiti e lamenti, ma quanto più si può, cheti e soppressi1. Altri, perché gli amici hanno e i parenti lasciati morti, et altri per se stessi, che son feriti, e con disagio stanno: ma più è la tema2 del futuro danno.

165

Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro3, d’oscura4 stirpe nati in Tolomitta5; de’ quai l’istoria, per esempio raro di vero amore, è degna esser descritta6. Cloridano e Medor si nominaro7, ch’alla fortuna prospera e alla afflitta8 aveano sempre amato Dardinello9, et or passato in Francia il mar con quello.

166

Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era et isnella: Medoro avea la guancia colorita e bianca e grata10 ne la età novella; e fra la gente a quella impresa uscita11 non era faccia più gioconda12 e bella: occhi avea neri, e chioma crespa d’oro: angel parea di quei del sommo coro13.

167

Erano questi duo sopra i ripari14 con molti altri a guardar gli alloggiamenti15, quando la Notte fra distanzie pari mirava il ciel con gli occhi sonnolenti16.

1. soppressi: soffocati. 2. tema: timore. 3. si trovaro: si trovarono. 4. oscura: non nobile, umile. 5. Tolomitta: in Cirenaica, Africa settentrionale. 6. de’ quai … descritta: la storia dei quali è degna di essere narrata, come raro esempio di vero amore. 7. si nominaro: ebbero nome.

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8. ch’alla … afflitta: nella buona e nella cattiva sorte. 9. Dardinello: re africano, figlio di Almonte, morto nella battaglia appena conclusasi. Il suo corpo giace insepolto sul campo. 10. grata: gradevole. 11. a quella … uscita: che aveva partecipato all’impresa dei Saraceni in terra di Francia. 12. gioconda: piacevole (come grata, v. 4). 13. sommo coro: i Serafini, che sono il coro

di angeli più alto, più vicino a Dio e più splendente della sua luce. I cori angelici sono nove, ciascuno collocato in un cielo diverso. 14. ripari: fortificazioni. 15. a guardar gli alloggiamenti: a fare la sentinella al campo. 16. quando … sonnolenti: la Notte (personificata) contempla il cielo con occhi sonnolenti, giunta a metà del suo cammino (fra distanzie pari); è cioè mezzanotte.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Medoro quivi in tutti i suoi parlari17 non può far che ’l signor suo non rammenti, Dardinello d’Almonte, e che non piagna18 che resti senza onor19 ne la campagna. 168

Vòlto al compagno, disse: – O Cloridano, io non ti posso dir quanto m’incresca del mio signor, che sia rimaso al piano20, per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca21. Pensando come sempre mi fu umano, mi par che quando ancor questa anima esca in onor di sua fama, io non compensi né sciolga verso lui gli oblighi immensi22.

169

Io voglio andar, perché non stia insepulto in mezzo alla campagna, a ritrovarlo23: e forse Dio vorrà ch’io vada occulto24 là dove tace il campo del re Carlo. Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto25 ch’io vi debba morir, potrai narrarlo; che se Fortuna vieta sì bell’opra26, per fama almeno il mio buon cor si scuopra27. –

170

Stupisce Cloridan, che tanto core28, tanto amor, tanta fede29 abbia un fanciullo: e cerca assai, perché gli porta amore, di fargli quel pensiero irrito e nullo30; ma non gli val31, perch’un sì gran dolore non riceve conforto né trastullo32. Medoro era disposto o di morire, o ne la tomba il suo signor coprire33.

171

Veduto che nol piega e che nol muove34, Cloridan gli risponde: – E verrò35 anch’io, anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove36, anch’io famosa morte37 amo e disio38. Qual cosa sarà mai che più mi giove39, s’io resto senza te, Medoro mio? Morir teco con l’arme è meglio molto, che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto40. –

17. parlari: discorsi. 18. non piagna: non pianga. 19. senza onor: senza sepoltura. 20. al piano: nella pianura, sul campo di battaglia. 21. per lupi … esca: cibo troppo nobile per lupi e corvi. 22. mi par … immensi: mi sembra che, anche se la mia anima uscisse dal corpo (cioè anche se io morissi) per onorare la sua fama, io non riuscirei a compensare né a pagare (sciolga, latinismo), il debito immenso che ho verso di lui. 23. a ritrovarlo: da collegare a Io voglio andar.

24. occulto: senza essere visto. 25. sculto: scolpito, cioè scritto, stabilito. 26. bell’opra: seppellire Dardinello. 27. per fama … scuopra: almeno il mio animo coraggioso divenga noto grazie alla fama. 28. core: coraggio. 29. fede: fedeltà (al signore). 30. di fargli … nullo: di rendergli quel pensiero vano (irrito, latinismo) e privo di effetti; cioè di fargli abbandonare quel proposito. 31. non gli val: non gli riesce. 32. trastullo: distrazione. 33. coprire: seppellire.

34. nol muove: non lo smuove dal suo proposito. 35. E verrò: allora verrò. 36. pormi … pruove: sottopormi a prove così gloriose. 37. famosa morte: morte che mi faccia acquistare fama. 38. disio: desiderio. 39. Qual cosa … giove: che cosa ormai potrebbe piacermi. 40. Morir … tolto: è molto meglio morire con te con le armi in pugno, che morire poi di dolore, se avverrà che tu mi sia tolto (tu sia ucciso).

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L’età del Rinascimento

172

Così disposti, messero in quel loco le successive guardie41, e se ne vanno. Lascian fosse e steccati, e dopo poco tra’ nostri42 son, che senza cura43 stanno. Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco, perché dei Saracin poca tema hanno. Tra l’arme e’ carrïaggi stan roversi44, nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi45.

[Cloridano e Medoro fanno strage dei cristiani, immersi nel sonno dopo la vittoria, sinché giungono al campo di battaglia cosparso di morti.]

183

Quivi dei corpi l’orrida mistura46, che piena avea47 la gran campagna intorno, potea far vaneggiar la fedel cura dei duo compagni insino al far del giorno48, se non traea fuor d’una nube oscura, a’ prieghi di Medor, la Luna il corno49. Medoro in ciel divotamente fisse50 verso la Luna gli occhi, e così disse:

184

– O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme; ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri l’alta bellezza tua sotto più forme, e ne le selve, di fere e di mostri vai cacciatrice seguitando l’orme51; mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti, che vivendo imitò tuoi studi santi52. –

185

La Luna a quel pregar la nube aperse (o fosse caso o pur la tanta fede53), bella come fu allor ch’ella s’offerse, e nuda in braccio a Endimïon si diede54. Con Parigi a quel lume si scoperse l’un campo e l’altro55; e ’l monte e ’l pian si vede: si videro i duo colli di lontano, Martire a destra, e Lerì all’altra mano56.

41. Così … guardie: così decisi, misero in quel luogo al loro posto le sentinelle del turno successivo. 42. tra’ nostri: tra i cristiani. 43. senza cura: sicuri (di non essere attaccati); cioè senza aver predisposto sorveglianza. 44. roversi: riversi. 45. nel vin … immersi: sono immersi nel sonno, pieni di vino (dopo aver festeggiato la vittoria). 46. mistura: mescolanza. 47. piena avea: aveva riempita. 48. potea … giorno: poteva rendere vana sino allo spuntar del giorno la preoccupazione (cura) dei due compagni, dettata dalla fedeltà (al loro signore). Cioè a causa dell’oscurità della notte Cloridano e Medoro avrebbero potuto cercare invano il corpo di Dardinello

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tra i mucchi di cadaveri. 49. se non … corno: se la luna non avesse fatto uscire il suo corno da una nube oscura, per le preghiere di Medoro. 50. fisse: fissò. 51. che dagli antiqui … orme: che dai nostri antichi sei giustamente detta triforme, perché mostri la tua divina bellezza sotto più forme, in cielo, in terra e nell’inferno, e, come dea cacciatrice, insegui le tracce di fiere mostruose nelle selve. Secondo la mitologia classica la stessa dea si mostrava sotto tre forme, in cielo come la Luna, in terra come Artemide-Diana, negl’Inferi come Persefone-Proserpina. Artemide in particolare era la dea della caccia. Medoro è in realtà musulmano, ma nei poemi cavallereschi era comune la confusione tra musulmani

e pagani, per cui ai primi erano attribuite le credenze religiose dei Greci e dei Romani. 52. che … santi: che vivendo imitò le tue divine attività (studi, latinismo). Cioè anche Dardinello, come Artemide, era dedito alla caccia. 53. o fosse … fede: o fosse un puro caso, o fosse indotta dalla gran fede di Medoro. Si noti lo scetticismo di Ariosto sul fatto sovrannaturale. 54. bella … diede: bella come quando si offrì al suo amante Endimione e si abbandonò nuda fra le sue braccia. 55. Con Parigi … l’altro: insieme con la città di Parigi si scoprì alla vista sia il campo cristiano sia quello saraceno. 56. Martire … mano: sono le due colline che sovrastano Parigi, Montmartre da un lato e Montléry dall’altro.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

186

Rifulse lo splendor molto più chiaro ove d’Almonte giacea morto il figlio57. Medoro andò, piangendo, al signor caro; che conobbe il quartier bianco e vermiglio58: e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio59, in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, che potea ad ascoltar fermare i venti.

187

Ma con sommessa voce e a pena udita60; non che riguardi a non si far sentire, perch’abbia alcun pensier61 de la sua vita, più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire62: ma per timor che non63 gli sia impedita l’opera pia che quivi il fe’ venire. Fu il morto re sugli omeri sospeso di tramendui, tra lor partendo il peso64.

188

Vanno affrettando i passi quanto ponno65, sotto l’amata soma66 che gl’ingombra. E già venìa chi de la luce è donno67 le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra68; quando Zerbino69, a cui del petto il sonno l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra, cacciato avendo tutta notte i Mori, al campo si traea nei primi albori70.

189

E seco alquanti cavallieri avea, che videro da lunge71 i dui compagni. Ciascuno a quella parte si traea, sperandovi trovar prede e guadagni72. – Frate73, bisogna (Cloridan dicea) gittar la soma, a dare opra ai calcagni74; che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto. –

190

E gittò il carco75, perché si pensava che ’l suo Medoro il simil76 far dovesse: ma quel meschin, che ’l suo signor più amava, sopra le spalle sue tutto lo resse,

57. Rifulse … figlio: la luce della luna risplendette più chiaramente sul luogo dove giaceva Dardinello. 58. quartier … vermiglio: lo scudo diviso a quartieri bianchi e rossi. 59. che n’avea … ciglio: di cui aveva un ruscello sotto ogni ciglio. 60. Ma … udita: è sottinteso “si lamenta”. 61. pensier: preoccupazione. 62. uscire: morendo. 63. per timor che non: per timore che (costrutto alla latina). 64. Fu … peso: il morto re fu sollevato sulle

spalle di entrambi in modo da distribuire il peso. 65. ponno: possono. 66. soma: peso (del corpo di Dardinello). 67. chi … donno: chi è signore (donno, latinismo, da dominus) della luce; perifrasi per indicare il sole. 68. le stelle … l’ombra: a togliere (tor) le stelle dal cielo, l’ombra dalla terra. 69. Zerbino: figlio del re di Scozia. 70. a cui … albori: al quale l’alto valore, quando occorre, sgombra dalla mente il sonno, dopo aver inseguito tutta la notte i nemici in fuga, ritorna al campo all’alba. Cioè Zerbi-

no ha rinunciato al sonno per compiere il suo dovere di guerriero. 71. da lunge: da lontano. 72. Ciascuno … guadagni: ciascuno (dei cavalieri di Zerbino), si dirige da quella parte, sperando di trovare prede e bottino. 73. Frate: fratello. 74. gittar … calcagni: gettare il corpo del re e fuggire in fretta. 75. carco: carico. 76. il simil: la stessa cosa.

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L’età del Rinascimento

L’altro con molta fretta se n’andava, come l’amico a paro o dietro avesse77: se sapea di lasciarlo a quella sorte, mille aspettate avria, non ch’una morte78. 191

Quei cavallier, con animo disposto che79 questi a render s’abbino o a morire, chi qua chi là si spargono, et han tosto preso ogni passo80 onde si possa uscire. Da loro il capitan poco discosto, più degli altri è sollicito a seguire81; ch’in tal guisa82 vedendoli temere, certo è che sian de le nimiche schiere.

192

Era a quel tempo ivi una selva antica, d’ombrose piante spessa83 e di virgulti, che, come labirinto, entro s’intrica di stretti calli e sol da bestie culti84. Speran d’averla i duo pagan sì amica, ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti85. Ma chi del canto mio piglia diletto, un’altra volta ad ascoltarlo aspetto. Canto XIX

1

Alcun non86 può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota87 siede; però c’ha88 i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede89. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, et ama il suo signor dopo la morte90.

2

Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme91. Questi umil diverria tosto il maggiore92: staria quel grande infra le turbe estreme93. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che ’n vita e in morte ha il suo signore amato.

77. come … avesse: come se avesse l’amico a fianco o subito dietro alle spalle. 78. mille … morte: si sarebbe fermato ad aspettare mille morti, non una. 79. disposto che: disposto a far sì che. 80. preso ogni passo: occupato ogni passaggio. 81. è … seguire: è rapido a inseguire (i fuggiaschi). 82. guisa: modo.

314

83. spessa: folta. 84. entro … culti: dentro si intrica di sentieri (calli) stretti e frequentati (culti) solo dalle fiere. 85. Speran … occulti: i due pagani sperano che la selva sia loro favorevole, in modo da tenerli nascosti sotto i suoi rami. 86. Alcun non: nessuno. 87. la ruota: della fortuna; cioè gode di buona sorte. 88. però c’ha: perché ha.

89. fede: fedeltà. 90. Se poi … morte: se poi la condizione lieta si muta in condizione triste, la folla degli adulatori si allontana; mentre colui che ama sinceramente rimane costante e continua ad amare il suo signore anche dopo la morte. 91. tal … insieme: chi nella corte ha una posizione dominante ed è superiore agli altri (preme), e chi gode poco del favore (grazia) del signore, si scambierebbero la sorte. Cioè il signore vedrebbe che chi lo ama veramente non è l’adulatore. 92. il maggiore: colui che gode di maggior favore. 93. turbe estreme: la folla di cortigiani inferiori.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

3

Cercando gìa nel più intricato calle il giovine infelice di salvarsi94; ma il grave peso ch’avea su le spalle, gli facea uscir tutti i partiti scarsi95. Non conosce il paese, e la via falle96, e torna fra le spine a invilupparsi. Lungi da lui tratto al sicuro s’era l’altro97, ch’avea la spalla più leggiera.

4

Cloridan s’è ridutto98 ove non sente di chi segue lo strepito e il rumore: ma quando da Medor si vede absente99, gli pare aver lasciato a dietro il core. – Deh, come fui (dicea) sì negligente, deh, come fui sì di me stesso fuore, che senza te, Medor, qui mi ritrassi, né sappia quando o dove io ti lasciassi! –

5

Così dicendo, ne la torta100 via de l’intricata selva si ricaccia; et onde era venuto si ravvia101, e torna di sua morte in su la traccia102. Ode i cavalli e i gridi tuttavia103, e la nimica voce che minaccia: all’ultimo ode il suo Medoro, e vede che tra molti a cavallo è solo a piede.

6

Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: Zerbin commanda e grida che sia preso. L’infelice s’aggira com’un torno104 e quanto può si tien da loro difeso105, or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, né si discosta mai dal caro peso106. L’ha riposato al fin su l’erba, quando107 regger nol puote108, e gli va intorno errando:

7

come orsa, che l’alpestre109 cacciatore ne la pietrosa tana assalita abbia, sta sopra i figli con incerto core110, e freme in suono di pietà e di rabbia111: ira la ‘nvita e natural furore a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia112;

94. Cercando … salvarsi: il giovane sventurato andava (gìa) per i sentieri (calle) più intricati cercando di salvarsi. 95. gli facea … scarsi: faceva sì che tutti i suoi propositi riuscissero vani. 96. falle: sbaglia (latinismo). 97. l’altro: Cloridano. 98. ridutto: rifugiato. 99. absente: lontano. 100. torta: tortuosa.

101. ravvia: si avvia di nuovo. 102. e torna … traccia: e torna sui suoi passi, che lo conducono verso la morte. 103. tuttavia: sempre. 104. torno: tornio. 105. si tien … difeso: si mette al riparo da loro. 106. caro peso: il corpo dell’amato sovrano. 107. quando: dal momento che. 108. nol puote: non lo può.

109. alpestre: montanaro. 110. con incerto core: incerta se difendere i piccoli o assalire il cacciatore. 111. e freme … rabbia: e ruggisce con suoni d’amore (per i figli) e di rabbia (contro il cacciatore). 112. ira … labbia: l’ira e il furore istintivo la invitano a sfoderare le unghie e a insanguinare il muso.

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L’età del Rinascimento

amor la ’ntenerisce, e la ritira a riguardare113 ai figli in mezzo l’ira. 8

Cloridan, che non sa come l’aiuti, e ch’esser vuole a morir seco ancora, ma non ch’in morte prima il viver muti, che via non truovi ove più d’un ne mora114; mette su l’arco un de’ suoi strali acuti, e nascoso con quel sì ben lavora115, che fora ad uno Scotto116 le cervella, e senza vita il fa cader di sella.

9

Volgonsi tutti gli altri a quella banda117 ond’era uscito il calamo118 omicida. Intanto un altro il Saracin ne manda, perché ’l secondo a lato al primo uccida; che mentre in fretta a questo119 e a quel domanda chi tirato abbia l’arco, e forte grida, lo strale arriva e gli passa la gola, e gli taglia pel mezzo la parola.

10

Or Zerbin, ch’era il capitano loro, non poté a questo aver più pazïenza. Con ira e con furor venne a Medoro, dicendo: – Ne farai tu penitenza120. – Stese la mano in quella chioma d’oro, e strascinollo a sé con vïolenza: ma come gli occhi a quel bel volto mise gli ne venne pietade, e non l’uccise.

11

Il giovinetto si rivolse a’ prieghi121, e disse: – Cavallier, per lo tuo Dio, non esser sì crudel, che tu mi nieghi ch’io sepelisca il corpo del re mio. Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi122, né pensi che di vita abbi disio: ho tanta di mia vita, e non più, cura, quanta ch’al mio signor dia sepultura123.

12

E se pur pascer vòi fiere et augelli, che ’n te il furor sia del teban Creonte, fa lor convito di miei membri, e quelli sepelir lascia del figliuol d’Almonte124. –

113. riguardare: proteggere. 114. e ch’esser … mora: e che vuole essere con lui anche nel morire, ma non vuole mutare la vita nella morte prima di trovare il mezzo (via) con cui far morire più d’un nemico. 115. e nascoso … lavora: e, nascosto, opera così bene con l’arco. 116. Scotto: Scozzese (della schiera di Zerbino). 117. banda: lato.

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118. calamo: freccia (latinismo: letteralmente, asticella). 119. a questo: dinanzi a questo. 120. Ne … penitenza: pagherai tu per questi morti. 121. si … prieghi: ricorse alle preghiere. 122. Non vo’… pieghi: non voglio che altra pietà per me ti addolcisca. 123. ho … sepultura: ho tanta cura della mia vita, quanta (m’occorre per) dar sepoltu-

ra al mio signore, e non di più. 124. E se pur … Almonte: e se pur vuoi dar pasto a fiere e a uccelli in modo che vi sia in te il furore del re di Tebe Creonte, offri loro come cibo le mie membra, e lascia seppellire quelle di Dardinello. Creonte, nel mito greco, aveva vietato che fosse seppellito Polinice, figlio di Edipo, morto nell’assalto a Tebe contro il fratello Eteocle.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Così dicea Medor con modi belli, e con parole atte a voltare un monte125; e sì commosso già Zerbino avea, che d’amor tutto e di pietade ardea. 13

In questo mezzo126 un cavallier villano127, avendo al suo signor poco rispetto, ferì con una lancia sopra mano128 al supplicante il delicato petto. Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano129; tanto più, che del colpo130 il giovinetto vide cader sì sbigottito e smorto, che ’n tutto giudicò che fosse morto.

14

E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, che disse: – Invendicato già non fia131! – e pien di mal talento132 si rivolse al cavallier che fe’ l’impresa ria133: ma quel prese vantaggio, e se gli tolse dinanzi in un momento, e fuggì via. Cloridan, che Medor vede per terra, salta del bosco a discoperta guerra.

15

E getta l’arco, e tutto pien di rabbia tra gli nimici il ferro134 intorno gira, più per morir, che per pensier ch’egli abbia di far vendetta che pareggi l’ira. Del proprio sangue rosseggiar la sabbia fra tante spade, e al fin venir si mira135; e tolto che si sente ogni potere136, si lascia a canto al suo Medor cadere.

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Seguon gli Scotti ove la guida loro per l’alta selva alto disdegno mena137, poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro, l’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena. Giacque gran pezzo il giovine Medoro, spicciando138 il sangue da sì larga vena, che di sua vita al fin saria139 venuto, se non sopravenia chi gli diè aiuto140.

125. a voltare un monte: a rovesciare un monte. 126. In questo mezzo: nel frattempo. 127. villano: privo di sentimenti di cortesia e pietà. 128. sopra mano: calandola dall’alto in basso. 129. strano: difforme dalle leggi cortesi. 130. del colpo: per il colpo.

131. fia: sarà. 132. mal talento: disposizione d’animo ostile. 133. ria: infame. 134. ferro: spada. 135. al fin … mira: si vede giungere alla fine. 136. tolto … potere: sentitosi privo di ogni forza. 137. ove … mena: dove il nobile sdegno

conduce il loro capo per il profondo della selva. 138. spicciando: versando. 139. saria: sarebbe. 140. chi … aiuto: si tratta di Angelica

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L’età del Rinascimento

Analisi del testo

> dal romanzo all’epica

I modelli epici di Virgilio e Stazio La svolta dal romanzo all’epica

L’innalzamento del livello stilistico

L’assenza di straniamento e ironia

La dedizione disinteressata

La materia dell’Orlando furioso è tratta prevalentemente dalla tradizione cavalleresca e romanzesca. Qui invece il modello è costituito da Virgilio (e in subordine da Stazio, che imita a sua volta l’Eneide), cioè dal poema epico per eccellenza della classicità. Ciò fa sì che nel poema ariostesco si inseriscano caratteristiche del genere epico, anticipando in tal modo quella svolta dal romanzo all’epica che si verificherà nell’ultima parte dell’opera: in primo luogo la narrazione non è interrotta al fine di riprendere altri filoni della vicenda, ma è condotta dall’inizio alla fine dell’episodio con continuità, è cioè abbandonata, per questo limitato arco del racconto, la tecnica dell’entrelacement, che è propria del romanzo e del poema cavalleresco. In secondo luogo il livello stilistico si innalza, soprattutto nei discorsi di Medoro, che sono delle vere e proprie orazioni in stile elevato, sull’esempio dei discorsi che si trovano nella tradizione epica classica (si veda la preghiera alla Luna, o il rimando a Creonte, che evoca la vicenda tragica di Antigone). La stessa funzione di innalzare il livello del linguaggio possiedono le similitudini, che sono caratteristiche dello stile dell’epica, da Omero a Virgilio. Viceversa, non c’è traccia dei procedimenti dello straniamento, dell’abbassamento, dell’ironia, che contrassegnano l’atteggiamento di Ariosto nei confronti della materia cavalleresca.

> La celebrazione di virtù sublimi

Non c’è posto per l’ironia perché vengono celebrate in queste ottave due virtù sublimi: innanzitutto la dedizione al loro signore degli umili fanti Medoro e Cloridano, che giungono sino al sacrificio della vita per compiere il pietoso ufficio della sepoltura; dedizione del tutto disinteressata, che rifulge dal momento che il signore, essendo morto, non può offrire alcuna ricompensa; parallelamente a questa virtù si ha il forte vincolo di amicizia fra i due giovani, che può arrivare anch’esso al sacrificio, come dimostra il comportamento di Cloridano, pronto a rinunciare alla fuga e alla salvezza quando vede Medoro stretto fra i nemici che stanno per ucciderlo.

> L’amicizia La polemica contro l’ipocrisia di corte

La chiave interpretativa dell’episodio è fornita dall’esordio del canto XIX, con la riflessione moraleggiante, valida per entrambe le virtù, sulla vera amicizia, che si manifesta nei confronti di chi è sfortunato e misero, mentre nei momenti di prosperità tutti gli stanno a fianco, anche i falsi amici. E la riflessione offre al poeta lo spunto per una polemica contro il clima delle corti, in cui ha il primo posto nelle grazie del signore chi finge devozione, mentre chi è sincero viene emarginato. È uno dei tanti punti del poema in cui emerge l’atteggiamento critico di Ariosto verso l’ambiente cortigiano.

> gli elementi cavallereschi Zerbino incarna lo spirito cavalleresco

L’alternanza dei punti di vista

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Se il clima dell’episodio è prevalentemente epico, non mancano tuttavia elementi che rimandano allo spirito cavalleresco e cortese. Essi si incarnano essenzialmente nel personaggio di Zerbino, che resta tanto colpito dalla devozione di Medoro da essere pronto a risparmiare la vita al valoroso e nobile nemico. Per contro il cavaliere che non comprende il valore del nemico e lo ferisce è definito «villano», termine tipico della tradizione cavalleresca, usato a indicare chi non possiede la virtù della cortesia.

> La tecnica narrativa

Per quanto riguarda la tecnica narrativa, l’episodio è giocato sull’alternanza dei punti di vista dei personaggi. All’inizio, soprattutto attraverso i discorsi, prevale quello di Medoro, che assume l’iniziativa della ricerca del corpo di Dardinello; dalla sua prospettiva in particolare è rappresentato il ritrovamento. Si inserisce poi brevemente quella di Cloridano, che, dimostrando una devozione meno sublime, pensa a salvare la propria vita

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

L’alternanza dei punti di vista rende dinamico e vivace il racconto

abbandonando la salma del re, convinto che anche l’amico abbia preso l’analoga risoluzione. Dal suo punto di vista sono poi osservate la lotta coraggiosa sino al sacrificio di Medoro con i cristiani, per difendere i resti del suo re, e la ferita mortale che riceve. La patetica orazione di Medoro, che chiede la grazia non per la propria vita ma per poter seppellire il corpo, riporta in primo piano la sua prospettiva. A rompere l’alternanza, subentra a questo punto quella di Zerbino, che considera commosso e ammirato l’eroismo del giovane. Infine ritorna il punto di vista di Cloridano, che vedendo cadere l’amico si getta nello scontro e poi, sentendosi ormai privo di forze, si lascia cadere accanto al suo Medoro. Questa alternanza rende il racconto molto più vivo e mosso che se Ariosto avesse adottato un punto di vista fisso, su un solo personaggio oppure sul narratore esterno.

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Proponi una sintesi schematica dell’episodio tenendo conto degli spazi in cui si svolge il racconto. > 2. Quali caratteristiche strutturali e tematiche presentano i due blocchi narrativi distribuiti fra XVIII e XIX canto? AnALIzzARe

> 3. Come sono caratterizzati, sul piano fisico e morale, i personaggi di Medoro, Cloridano e Zerbino? Quale ele-

mento li accomuna? > 4. Stile Rintraccia nel testo una similitudine particolarmente efficace ricavata dal mondo animale, e analizzala. > 5. Stile Rintraccia nel testo esempi significativi di figure retoriche di posizione e di significato. > 6. Lessico Analizza il lessico che caratterizza la descrizione della selva: quali vocaboli ricorrono insistentemente? > 7. Lingua Individua, nei versi dedicati alla polemica contro l’ipocrisia di corte (canto XIX, ottava 1; ottava 2, vv. 1-6), esempi di periodo ipotetico, e spiegane l’efficacia. AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 8. Testi a confronto: scrivere Lo spirito cavalleresco incarnato da Zerbino rimanda, in un confronto fra testi, al senso dell’onore mostrato da Agricane nei confronti di Orlando nell’episodio del duello nell’Orlando innamorato di Boiardo ( L’età umanistica, cap. 3, T3, p. 91): in questa prospettiva, delinea in circa 20 righe (1000 caratteri) analogie e differenze fra i due personaggi. peR IL poTenzIAmenTo

> 9. Audio

Altri linguaggi: musica L’invocazione alla Luna, topos romantico per eccellenza, compare anche in Norma, melodramma di Vincenzo Bellini su libretto di Felice Romani, rappresentato per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1831. La vicenda – una storia d’amore e di morte – è ambientata al tempo dell’occupazione romana della Gallia. In un’aria, la sacerdotessa Norma rivolge una preghiera alla Luna affinché porti la pace:

Casta diva che inargenti queste sacre antiche piante, a noi volgi il bel sembiante senza nube e senza vel. Tempra tu de’ cori ardenti, tempra ancor lo zelo audace, spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel.

L’aria “Casta diva”, dalla Norma, Torino, Teatro Regio, 2002.

Dopo aver ascoltato il brano musicale, metti a confronto i versi del libretto con l’invocazione del musulmano Medoro alla divinità greco-romana, e proponi un commento personale.

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L’età del Rinascimento

Interpretazioni critiche

Sergio zatti Apertura romanzesca e chiusura epica nel racconto del Furioso Zatti ricorda che Ariosto utilizza le due strutture portanti del romanzo cavalleresco tradizionale, l’inchiesta e l’entrelacement. L’originalità di Ariosto è nell’intrecciare radicalmente tra di loro tutte queste inchieste, che vengono a ostacolarsi a Sergio Zatti si sofferma sulle strutture del vicenda. Ne scaturisce una struttura digressiva, prodotta dai racconto, ma anziché ricercare modelli formalizzati, ad alti livelli di astrazione, mette vari «errori» dei personaggi, che potrebbe dilatarsi all’infinito in luce la concreta organizzazione del dicon l’addizione di sempre nuovi segmenti: così il continuo scorso narrativo di Ariosto; inoltre non si differimento della conclusione delle inchieste si traduce, sul ferma ad una semplice descrizione delle piano formale, nella struttura digressiva, che allontana semstrutture, ma risale al loro significato, alle pre la conclusione dell’intreccio. E su questa struttura il poeconcezioni che in esse si trasfondono. ta stesso interviene ironicamente a riflettere, mettendo a nudo i meccanismi narrativi. Nella seconda parte del poema si manifesta però una tendenza opposta, a chiudere le vicende: il modulo del romanzo cavalleresco lascia così il posto ad una struttura più vicina a quella epica tradizionale.

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La disinvoltura con cui Ariosto padroneggia la tecnica romanzesca gli consente di sfruttare al massimo tutte le risorse di un codice espressivo fino a metterne a nudo la pura natura di fictio1. La forma del racconto – ma, di fatto, anche uno dei suoi referenti2 – diventa così la digressione potenzialmente infinita dell’“errore”3, che l’unità d’azione epica si sforza di contenere e controllare. Ma anche i luoghi del racconto non possono essere che, alla lettera, dei topoi4. Così, lo spazio ambientale dove si inaugura emblematicamente l’azione del Furioso è la selva, ovvero l’antico territorio simbolico del disorientamento e dell’errore, dell’avventura e del labirinto (i “boscherecci labirinti” di XIII, 42). E la prima digressione dalle strade di Francia è l’avventura di Rinaldo in Scozia, dentro quella selva Calidonia che è il luogo canonico delle ambages5 arturiane: atto d’omaggio sorridente, recupero affettuoso di un mondo per eccellenza letterario. È dentro questo spazio istituzionale che Ariosto situa le due strutture portanti del racconto romanzesco tradizionale: la tecnica narrativa dell’entrelacement6 (la “varia tela” ariostesca, ovvero il moltiplicarsi dei filoni narrativi in rapporto con l’intrecciarsi degli incontri/scontri fra i diversi personaggi, e gli effetti di variatio7 e di suspence che derivano dagli imprevedibili abbandoni e riprese delle diverse storie); e il tema fondante della quête (prova, avventura, impresa di liberazione o di conquista nell’accezione tradizionale; ricerca di un oggetto perduto di desiderio, piuttosto, nell’accezione ariostesca di “inchiesta”). [...] La fedeltà del Furioso al genere cavalleresco si misura nell’accoglimento, ma anche nella decisiva trasformazione, dei due elementi che lo caratterizzano dal punto di vista della forma narrativa e del contenuto tematico. Invece di ripudiare una tecnica ormai abusata e logora come l’entrelacement, Ariosto la fa propria con una tale frequenza e intensità di applicazione da compromettere, in misura ben maggiore dei predecessori recenti (Pulci, Boiardo) che ne fanno un uso relativamente più parco, la linearità e la fluidità del racconto. Parallelamente, estremizza certe infrazioni già boiardesche sul piano tematico: l’amore di Orlando trasformato

1. fictio: finzione. 2. referenti: in linguistica, “referente” è l’oggetto designato dal segno linguistico. 3. errore: il vagare, l’errare.

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4. topoi: luoghi comuni. 5. ambages: l’andirivieni labirintico. 6. entrelacement: interruzione della linearità della narrazione di una vicenda per intrec-

ciarla con la narrazione di un’altra. 7. variatio: variazione.

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e degenerato in follia, l’oltranza8 cortese (e il suo contrario, l’oltranza vilain9) di certe situazioni e personaggi (Isabella, Zerbino, Gabrina). Ariosto insomma sfrutta a fondo le risorse di una tecnica (entrelacement) e valorizza certi meccanismi tematici (inchiesta). Ma fa qualcosa di più importante ancora: mette in rapporto di implicazione reciproca i due elementi in questione. Mi pare che una delle novità storicamente sostanziali del Furioso sia da individuare nella esemplarità di questo rapporto di interdipendenza che si viene a stabilire fra entrelacement e inchiesta, termini che nel riuso ariostesco assumono una sorta di rimotivazione o surdeterminazione reciproca10. E mi pare anche che i famosi effetti di autocoscienza ironica del poema scaturiscano in gran parte dal gioco di complicità/solidarietà, o all’opposto dalla sottolineatura delle frizioni, fra il modo del racconto e il suo referente semantico. L’originalità dell’operazione ariostesca è nell’entrelacement radicale delle quêtes. Nel Furioso tutti o quasi i personaggi sono titolari di un’inchiesta, impegnati in una ricerca, portatori quindi di un desiderio. E pertanto ognuno è ostacolo per tutti gli altri, che gli sono concorrenti e rivali, anche perché gli oggetti di desiderio sono in larga misura comuni. Siamo lontani dalla quête singola dell’eroe cortese che costruisce le sue avventure sul superamento di ostacoli prefissati (le diverse “prove”) che hanno pura funzione nobilitante per l’individuo e ritardante per il racconto, e la cui presenza è, per così dire, quella passiva di farsi eliminare con più o meno destrezza e fatica. Le inchieste ariostesche, favorite e vorrei dire indotte dalla configurazione labirintica della selva, si attraversano reciprocamente, perché ogni personaggio si ritaglia una traiettoria che non può fare a meno di interferire, venire a conflitto con quelle degli altri. Ne consegue che il poema ariostesco è, significativamente, una rappresentazione di quêtes mancate: di azioni e di imprese, cioè, dove la regola è il fallimento e solo un’eccezione il successo. Ciò non solo determina una particolare situazione tematica (alludo ai motivi ampiamente illustrati in sede critica del disinganno, della frustrazione, del rovesciamento delle attese, ecc.), ma presuppone una diversa concezione della tecnica narrativa, che si fonda ora sul differimento e sulla durata, sfruttando gli effetti di sospensione e inadempienza narrativa a fini tematici. In questo quadro mutato, la forma tradizionale del racconto interlaced assume quella diversa funzione e attuazione che dicevo, quasi che il contenuto rappresentato rimotivasse, surdeterminasse l’uso di quella particolare tecnica descrittiva. Scegliendo per sé il doppio ruolo di narratore e personaggio, fuori e dentro il suo testo, Ariosto ottiene infatti di stabilire un legame istituzionale fra l’atto narrativo e l’azione narrata, creando effetti di parallelismo e di controllo che gli consentono, attraverso il gioco di rimandi interno-esterno, di “ironizzare” – che vuol dire, ripeto, riflettere criticamente – tanto sul significato dell’azione romanzesca quanto sui modi del racconto, sulle sue tecniche e strategie rappresentative. Se i contenuti caratteristici del romanzo sono l’errore dei personaggi, il differimento sempre protratto di una conclusione dell’avventura, l’interferenza delle diverse e molteplici inchieste, ecco che l’uso del modo romanzesco nel Furioso punterà a un’ironica riflessione sulla digressione, sulla deviazione, sul differimento degli esiti, sull’interferenza e il groviglio dei fili narrativi. [...] Negli ultimi canti del Furioso Boiardo cede progressivamente il passo a più autorevoli modelli: Dante, che accompagna la quête provvidenziale di Astolfo sulla Luna, e soprattutto Virgilio, che presta a Ruggiero le sembianze di Enea, facendolo salvare dall’intervento di Melissa-Venere che scioglie l’ultima peripezia (episodio di Leone), e suscitandogli contro l’orgogliosa sfida finale di Rodomonte-Turno. Parallelamente a questo movimento intertestuale11, una serie di segnali disseminati qua e là per il testo comincia dentro questo processo a far sistema12, a significare cioè una volontà di recupero dell’epos. Anzitutto, l’abbandono graduale dell’entrelacement, tendenzialmente sempre più raro nella seconda parte del poema. Poi, la progressiva razionalizzazione del mondo magico, che, tuttavia, non significa abbandono dei magici strumenti di cui Astolfo continua efficacemente a disporre. Ma è un fatto che il disincantamento

8. oltranza: superamento sistematico del limite, della misura. 9. vilain: la “villania” era il contrario della “cortesia”.

10. surdeterminazione reciproca: entrelacement e inchiesta, combinandosi insieme, si arricchiscono di significati. 11. movimento intertestuale: il riprende-

re i modelli di Dante e Virgilio. 12. far sistema: non sono più elementi isolati e casuali, ma si compongono in un sistema coerente.

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del palazzo di Atlante, che è il centro stesso del movimento erratico e senza scopo («di qua, di là, di su, di giù»), segna la sconfitta definitiva del mago e degli inganni romanzeschi, in significativa coincidenza con l’approssimarsi del momento di passaggio alla seconda parte del poema. E, infine, i più ovvi espedienti della conversione e dell’agnizione13, che guadagnano alle file cristiane una parte dei cavalieri pagani (Sobrino, Marfisa), mentre un destino di morte è riservato agli “irriducibili” come Mandricardo, Agramante, Gradasso, Rodomonte. Si tratta delle soluzioni classiche elaborate dalla tradizione cavalleresca per dare una conclusione plausibile alle proprie istituzionali divagazioni. La conversione, ad esempio, si era trasformata da tempo in un autentico topos rituale, dove la portata ideologica originaria tanto più perdeva vigore e significato (occorrerà attendere la Clorinda del Tasso per un recupero tragico del nesso conversione-morte), quanto più cresceva la sua funzione di espediente narrativo, a tal punto facile e scontato da prestarsi agli spunti parodici del Pulci lungo tutto il Morgante. Abbastanza frequente nel Boiardo, diventa un esito pressoché obbligato nell’Agostini14, che senza ombra di ironia la infligge sistematicamente a tutti i cavalieri pagani più nobili e generosi. Restringendo l’espediente, in pratica, alla sola conversione mancante nell’Innamorato, quella di Ruggiero, Ariosto mostra di rispettare le regole del gioco nel solo caso in cui può trasformarle in un fattore essenziale per indirizzare il suo racconto verso una conclusione di tipo epico. Conversione quanto mai simbolica – quasi di statuto e di identità – dell’eroe romanzesco, che procede parallela al recupero della ragione dell’altro protagonista regressivamente smarrito nella selva del romanzo. L’“alienazione” di Orlando è, per certi versi, il pendant15 negativo dell’’educazione’ di Ruggiero: due processi evolutivi che, per essere opposti e complementari, consentono ad Ariosto di saggiare a fondo le possibilità di integrazione e dissonanza dei codici narrativi impiegati. Le strade di Orlando e Ruggiero tornano a convergere solo quando la chiusura epica si rende necessaria per stabilire un limite all’errore potenzialmente infinito del romanzo: quell’errore che Tasso, cinquant’anni dopo, cercherà di esorcizzare rivendicando l’unitaria ragione epica contro l’indeterminazione, la distrazione nell’animo, l’impedimento nell’operare. S. Zatti, Il «Furioso» tra epos e romanzo, Pacini Fazzi, Lucca 1990

13. agnizione: riconoscimento. 14. Agostini: Niccolò degli Agostini, uno dei “continuatori” cinquecenteschi di Boiardo.

15. pendant: corrispondente.

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Quali elementi strutturali e tematici Ariosto riprende dai suoi predecessori rielaborandoli ulteriormente

(rr. 1-29)? > 2. Quale effetto determina l’autore con il doppio ruolo di narratore e personaggio (rr. 30-64)? > 3. Quale episodio del poema segna il passaggio da una prima parte ispirata al modulo del romanzo cavalleresco a una seconda caratterizzata da una struttura più vicina a quella dell’epica tradizionale (rr. 65-101)? Motiva la tua risposta. AnALIzzARe

> 4. Quali definizioni utilizzate dal critico rimandano direttamente al movimento dei personaggi ariosteschi (rr. 1-29)? Quali, invece, si riferiscono all’intrecciarsi delle narrazioni tipico del Furioso (rr. 30-64)? > 5. Spiega, anche ricorrendo al dizionario, il preciso significato dell’aggettivo «intertestuale» esplicitato nella nota 11 (r. 69). AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 6. esporre oralmente A quale aspetto della formazione culturale di Ariosto possono essere attribuite le sue competenze in materia di poema epico tradizionale? Rispondi in max 3 minuti.

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Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Analisi interattiva

T8

La follia di orlando dall’Orlando furioso, XXIII, 100-136; XXIV, 1-14 L’episodio della follia di Orlando si distribuisce in numerosi canti, inframmezzato dalle vicende di molti altri personaggi, secondo la tecnica dell’entrelacement. Isoliamo il nucleo centrale dell’episodio, in cui esplode la pazzia dell’eroe.

Temi chiave

• l’instancabile ricerca dell’oggetto desiderato

• il rovesciamento ironico dell’amore cortese

• la sottile polemica contro la cultura di corte

• l’equazione amore-follia

Canto XXIII 100

Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin1 pel bosco senza via, fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo2, né lo trovò, né poté averne spia3. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le cui sponde un bel pratel fioria, di nativo color vago e dipinto, e di molti e belli arbori distinto4.

101

Il merigge facea grato l’orezzo5 al duro6 armento et al pastore ignudo7; sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, che la corazza avea, l’elmo e lo scudo8. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v’ebbe travaglioso albergo e crudo9, e più che dir si possa empio soggiorno, quell’infelice e sfortunato giorno.

102

Volgendosi ivi intorno, vide scritti10 molti arbuscelli in su l’ombrosa riva. Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti, fu certo esser di man de la sua diva11. Questo era un di quei lochi già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi12 vicina la bella donna del Catai regina.

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Angelica e Medor con cento nodi13 legati insieme, e in cento lochi14 vede. Quante lettere son, tanti son chiodi

Audio

1. il cavallo del Saracin: il cavallo di Mandricardo, che, fuggendo spaventato, aveva trascinato nel fitto della boscaglia il suo padrone, con il quale Orlando aveva dato inizio ad un duello. 2. andò … in fallo: errò due giorni inutilmente. 3. spia: indizio. 4. di nativo … distinto: bello e variopinto, con i colori della natura e adornato di molti begli alberi.

5. Il merigge … l’orezzo: il mezzogiorno rendeva gradita l’ombra. 6. duro: resistente alla fatica. 7. ignudo: per la calura. 8. né … scudo: cosicché neppure a Orlando era sgradita la frescura, essendo protetto dall’armatura. 9. travaglioso … crudo: ospitalità dolorosa e crudele (perché in questo luogo Orlando scopre che Angelica ama un altro uomo).

10. scritti: incisi. 11. Tosto … diva: non appena vi ebbe posati e fissati gli occhi, fu certo che (lo scritto) era di mano della sua dea (Angelica). 12. indi: a quel luogo. 13. nodi: i nomi di Angelica e Medoro sono fra loro intrecciati. 14. in cento lochi: ripetuti ovunque.

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L’età del Rinascimento

coi quali Amore il cor gli punge e fiede15. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch’al suo dispetto16 crede: ch’altra Angelica sia creder si sforza, ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza17. 104

Poi dice: – Conosco io pur queste note18; di tal’io n’ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote19: forse ch’a me questo cognome20 mette. – Con tali opinïon dal ver remote usando fraude a sé medesmo21, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando22.

105

Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto23: come l’incauto augel che si ritrova in ragna o in visco24 aver dato di petto, quanto più batte l’ale e più si prova di disbrigar25, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s’incurva il monte a guisa d’arco26 in su la chiara fonte.

106

Aveano in su l’entrata il luogo adorno coi piedi storti27 edere e viti erranti28. Quivi soleano al più cocente giorno stare abbracciati i duo felici amanti. V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, più che in altro dei luoghi circonstanti, scritti qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso.

107

Il mesto conte a piè quivi discese; e vide in su l’entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea, che parean scritte allotta29. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenzia30 in versi avea ridotta. Che fosse culta in suo linguaggio31 io penso; et era ne la nostra tale il senso:

108

«Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata32, dove la bella Angelica che nacque

15. fiede: ferisce. 16. ch’al suo dispetto: suo malgrado. 17. scorza: corteccia. 18. note: caratteri. 19. Finger … puote: questo Medoro può essere frutto della sua fantasia (Orlando si illude che il nome Medoro sia uno pseudonimo col quale Angelica intende alludere a lui).

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20. cognome: soprannome. 21. usando … medesmo: ingannando se stesso. 22. che … procacciando: (speranza) che riuscì a procurare a se stesso. 23. Ma sempre … sospetto: ma quanto più cerca di mettere a tacere (spenger, letteralmente spegnere) il terribile sospetto. Sempre

più lo riaccende e lo rinnova. 24. in ragna o in visco: nella rete o nel vischio (metodi usati per l’uccellagione). 25. disbrigar: liberarsi. 26. s’incurva … d’arco: dove il monte, incurvandosi, forma un arco simile ad una grotta (è quella dove Angelica e Medoro hanno trascorso momenti di intensa felicità). 27. coi … storti: con i rami intrecciati. 28. erranti: rampicanti. 29. allotta: allora. 30. sentenzia: considerazione. 31. culta … linguaggio: espressa in uno stile elegante, nella sua lingua (Medoro è saraceno). 32. spelunca … grata: grotta ombrosa e gradevole per le fresche ombre.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

di Galafron, da molti invano amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità33 che qui m’è data, io povero Medor ricompensarvi d’altro non posso, che d’ognior34 lodarvi; 109

e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante, che qui sua volontà meni35 o Fortuna; ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia che non conduca a voi pastor mai greggia36».

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Era scritto in arabico, che ’l conte intendea così ben come latino37: fra molte lingue e molte ch’avea pronte38, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò39 più volte e danni et onte, che si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n’ebbe frutto, ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto40.

111

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur41 cercando invano che non vi fosse quel che v’era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano: et ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente42.

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Fu allora per uscir del sentimento, sì tutto in preda del dolor si lassa43. Credete a chi n’ha fatto esperimento, che questo è ’l duol che tutti gli altri passa44. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa;

33. commodità: comoda protezione. 34. ognior: sempre.

35. meni: conduca. 36. che proveggia … greggia: che provve-

da affinché nessun pastore conduca il gregge in questo luogo. 37. come latino: come fosse la sua lingua. 38. ch’avea pronte: che parlava fluentemente. 39. gli schivò: gli evitò. 40. scontargli il tutto: fargli scontare tutti i vantaggi. 41. pur: sempre. 42. al … indifferente: lui stesso non differente dal sasso, cioè impietrito. 43. si lassa: si abbandona. 44. tutti … passa: supera tutti gli altri.

pesare le parole Sentenzia (canto XXIII, ottava 107, v. 6)

> Viene dal latino sentèntiam, che voleva dire “opinione,

parere”, e qui vale “pensiero, considerazione”; nell’italiano attuale assume invece significati diversi (anche se nella lingua letteraria può rimanere l’antico valore latino): “decisione pronunciata da un giudice” (es. sentenza di condanna, di assoluzione) oppure “massima”,

cioè frase che in forma concisa esprime un principio, una norma, specie di natura morale (es. pronunci sempre sentenze molto sagge). È curioso osservare che il termine inglese sentence, derivato dal latino, oltre ai sensi della equivalente parola italiana, vuole anche dire “frase”.

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L’età del Rinascimento

né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto45. 113

L’impetüosa doglia46 entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar47 l’acqua nel vase48, che largo il ventre e la bocca49 abbia stretta; che nel voltar che si fa in su la base, l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta, e ne l’angusta via tanto s’intrica, ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica50.

114

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera51: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera, o gravar lui d’insopportabil some52 tanto di gelosia, che se ne pèra53; et abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei54 bene imitato.

115

In così poca, in così debol speme55 sveglia56 gli spirti e gli rifranca un poco; indi al suo Brigliadoro il dosso preme57, dando già il sole alla sorella loco58. Non molto va, che da le vie supreme59 dei tetti uscir vede il vapor del fuoco60, sente cani abbaiar, muggiare armento61; viene alla villa62, e piglia alloggiamento.

116

Languido63 smonta, e lascia Brigliadoro a un discreto64 garzon che n’abbia cura: altri il disarma, altri gli sproni d’oro gli leva, altri a forbir65 va l’armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v’ebbe alta avventura66. Corcarsi Orlando e non cenar domanda, di dolor sazio e non d’altra vivanda.

45. né poté … pianto: e, a causa del dolore, non riuscì ad esprimere i lamenti (querele) con parole (voce) e il desiderio di lacrime con il pianto. 46. doglia: dolore. 47. restar: fermarsi (indica la difficoltà a defluire).

48. vase: anfora. 49. la bocca: il collo. 50. che … a fatica: che, capovolto di colpo, lascia uscire con difficoltà il liquido che contiene. 51. che non … vera: che la cosa non sia vera. 52. some: pesi.

53. che voglia … pèra: ancora una congettura: forse è una macchinazione volta a coprire d’infamia Angelica o a rendere lui tanto geloso da morirne. 54. la man di lei: la grafia di Angelica. 55. debol speme: tenue speranza. 56. sveglia: risveglia. 57. il dosso preme: sale in groppa. 58. dando … loco: quando il sole, al tramonto, cede il passo alla luna. 59. da le vie supreme: dalla sommità (dai comignoli). 60. vapor del fuoco: fumo (le indicazioni ricordano i versi conclusivi della Bucolica I di Virgilio: «e già di lontano i tetti dei casolari fumano»). 61. muggiare armento: muggire le mandrie. 62. villa: casolare. 63. Languido: indebolito. 64. discreto: zelante. 65. a forbir: a lucidare. 66. alta avventura: di essere amato da Angelica.

pesare le parole Querele (canto XXIII, ottava 112, v. 8)

> Proviene dal latino querèlam, “lamento”, da quèri, “la-

mentarsi”: qui conserva appunto il senso latino. Oggi invece il termine è usato solo nel linguaggio giuridico, a designare l’atto con cui la persona che ha subito danno da un reato lo denuncia all’autorità giudiziaria chie-

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dendo che sia promossa l’azione penale (es. sporgere querela per diffamazione). Dalla stessa radice latina provengono l’aggettivo querulo, “lamentoso” (es. un tono querulo) e il sostantivo querimonia, “lamentela”, di uso letterario e colto

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

117

Quanto più cerca ritrovar quïete, tanto ritrova più travaglio e pena; che de l’odiato scritto ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete67; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar perché men nuocer debbia68.

118

Poco gli giova usar fraude a se stesso69; che senza domandarne, è70 chi ne parla. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla71, l’istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch’a molti dilettevole72 fu a udire, gl’incominciò senza rispetto73 a dire:

119

come esso a prieghi d’Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch’era ferito gravemente; e ch’ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla74: ma che nel cor d’una maggior di quella lei ferì Amor75; e di poca scintilla l’accese tanto e sì cocente fuoco, che n’ardea tutta, e non trovava loco76:

120

e sanza aver rispetto ch’ella fusse figlia del maggior re ch’abbia il Levante, da troppo amor constretta si condusse77 a farsi moglie d’un povero fante. All’ultimo l’istoria si ridusse78, che ’l pastor fe’ portar la gemma inante, ch’alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede79.

121

Questa conclusïon fu la secure80 che ’l capo a un colpo gli levò dal collo, poi che d’innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo81. Celar si studia Orlando il duolo; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo82: per lacrime e suspir da bocca e d’occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi83.

122

Poi ch’allargare il freno al dolor puote (che resta solo e senza altrui rispetto84), giù dagli occhi rigando per le gote sparge un fiume di lacrime sul petto:

67. tien … chete: tiene la bocca chiusa. 68. debbia: debba. 69. usar … stesso: ingannarsi.

70. è: c’è. 71. voria levarla: vorrebbe alleviarla. 72. dilettevole: motivo di grande piacere.

73. senza rispetto: senza reticenze. 74. in pochi dì guarilla: Angelica era fra l’altro esperta conoscitrice delle erbe e dei loro poteri. 75. nel cor … Amor: Amore le inferse nel cuore una ferita maggiore di quella. 76. loco: scampo. 77. si condusse: si ridusse a. 78. All’ultimo … ridusse: la conclusione della vicenda fu. 79. ’l pastor … diede: il pastore fece portare lì davanti il gioiello che alla sua partenza Angelica gli diede come ricompensa (mercede) della sua generosa ospitalità. 80. secure: scure. 81. poi che … satollo: dopo che Amore aguzzino (manigoldo) fu sazio (satollo) di avergli inflitto innumerevoli colpi. 82. pòllo: lo può. 83. scocchi: erompa. 84. senza … rispetto: senza il pudore provocato dalla presenza di estranei.

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L’età del Rinascimento

sospira e geme, e va con spesse ruote85 di qua di là tutto cercando il letto86; e più duro ch’un sasso, e più pungente che se fosse d’urtica, se lo sente. 123

In tanto aspro travaglio gli soccorre che nel medesmo letto in che giaceva, l’ingrata donna venutasi a porre col suo drudo87 più volte esser doveva. Non altrimenti or quella piuma abborre88, né con minor prestezza se ne leva, che de l’erba il villan che s’era messo per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

124

Quel letto, quella casa, quel pastore immantinente in tant’odio gli casca89, che senza aspettar luna, o che l’albore che va dinanzi al nuovo giorno nasca, piglia l’arme e il destriero, et esce fuore per mezzo il bosco alla più oscura frasca90; e quando poi gli è aviso91 d’esser solo, con gridi et urli apre le porte al duolo.

125

Di pianger mai, mai di gridar non resta92; né la notte né ’l dì si dà mai pace. Fugge cittadi e borghi, e alla foresta sul terren duro al discoperto93 giace. Di sé si maraviglia ch’abbia in testa una fontana d’acqua sì vivace94, e come sospirar possa mai tanto; e spesso dice a sé così nel pianto:

126

– Queste non son più lacrime, che fuore stillo dagli occhi con sì larga vena. Non suppliron le lacrime al dolore95: finìr, ch’a mezzo era il dolore a pena. Dal fuoco spinto ora il vitale umore96 fugge per quella via ch’agli occhi mena; et è quel che si versa, e trarrà insieme e ’l dolore e la vita all’ore estreme97.

127

Questi ch’indizio fan del mio tormento, sospir non sono, né i sospir son tali. Quelli han triegua98 talora; io mai non sento che ‘l petto mio men la sua pena esali. Amor che m’arde il cor, fa questo vento99, mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.

85. con … ruote: rivoltandosi di continuo. 86. tutto … letto: cercando in tutto il letto una posizione tollerabile. 87. drudo: amante. Ma in realtà nell’unione non vi era nulla di illegittimo: Medoro era il marito di Angelica.

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88. abborre: detesta. 89. immantinente … casca: immediatamente gli diventa tanto odioso. 90. alla … frasca: dove il bosco è più fitto e buio. 91. gli è aviso: si rende conto.

92. non resta: non smette. 93. al discoperto: allo scoperto, senza riparo. 94. sì vivace: tanto inesauribile. 95. Non suppliron … dolore: le lacrime non sono state sufficienti al mio dolore. 96. vitale umore: Orlando vede defluire la sua linfa vitale, spinta dal fuoco d’amore. 97. all’ore estreme: all’ora della morte. 98. han triegua: trovano una tregua. 99. questo vento: i sospiri.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

Amor, con che miracolo lo fai, che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?100 128

Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch’era Orlando è morto et è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé101, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto102 suo da lui diviso, ch’in questo inferno tormentandosi erra, acciò103 con l’ombra sia, che sola avanza104, esempio a chi in Amor pone speranza. –

129

Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar della diurna fiamma lo tornò105 il suo destin sopra la fonte dove Medoro insculse l’epigramma106. Veder l’ingiuria sua scritta nel monte l’accese sì, ch’in lui non restò dramma107 che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando108 fuore.

130

Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe’ le minute schegge. Infelice quell’antro, et ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restàr quel dì, ch’ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge109: e quella fonte, già sì chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura;

131

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell’onde, fin che da sommo ad imo110 sì turbolle111, che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta112 non risponde allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira.

132

Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. Senza cibo e dormir così si serba113, che ’l sole esce tre volte e torna sotto114. Di crescer non cessò la pena acerba, che fuor del senno al fin l’ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso115, e maglie e piastre116 si stracciò di dosso.

100. Amor … mai?: come è possibile che Amore permetta che una persona stia sempre nel fuoco e non si consumi mai? 101. mancando di fé: non corrispondendo alla sua fedeltà in amore. 102. lo spirto: lo spirito, l’anima.

103. acciò: affinché. 104. avanza: resta. 105. lo tornò: lo riportò. 106. insculse l’epigramma: scolpì i versi d’amore. 107. dramma: la dramma è l’ottava parte di

un’oncia, quindi una quantità piccolissima. 108. brando: spada. 109. Così restàr … gregge: la grotta e gli alberi, su cui erano scolpiti i monogrammi di Angelica e Medoro, furono ridotti in modo tale che non offrirono più ombra né fresco ai pastori. 110. da sommo ad imo: da cima a fondo. 111. turbolle: le intorbidò. 112. la lena vinta: la resistenza venuta meno. 113. si serba: rimane. 114. che ‘l sole … sotto: per tre giorni. 115. commosso: sconvolto. 116. e maglie e piastre: sono quelle dell’armatura.

329

L’età del Rinascimento

133

Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi117, e più lontan l’usbergo118: l’arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo119. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l’ispido120 ventre e tutto ’l petto e ’l tergo121; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch’intenda122.

134

In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tòr123 la spada in man non gli sovenne; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne124 era bisogno al suo vigore immenso. Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse, ch’un alto pino al primo crollo125 svelse:

135

e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti126; e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi, di faggi e d’orni e d’illici127 e d’abeti. Quel ch’un ucellator, che s’apparecchi il campo mondo, fa per por le reti dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche, facea de cerri e d’altre piante antiche128.

136

I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo vi potria la mia istoria esser molesta; et io la vo’ più tosto diferire, che v’abbia per lunghezza a fastidire. Canto XXIV

1

Chi mette il piè su l’amorosa pania129, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale130; che non è in somma131 amor, se non insania132, a giudizio de’ savi universale: e se ben133 come Orlando ognun non smania, suo furor134 mostra a qualch’altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso?

117. gli arnesi: le altre parti dell’armatura. 118. l’usbergo: la corazza. 119. differente albergo: diversa collocazione.

330

120. l’ispido: irsuto. 121. ’l tergo: la schiena. 122. de la più … intenda: nessuno mai ne udrà una più grande di questa.

123. tòr: prendere. 124. bipenne: ascia a due lame. 125. crollo: scossone. 126. ebuli o aneti: gli ebuli (latinismo, ebulum; in italiano ebbio) sono i sambuchi, gli aneti sono piante simili ai finocchi. 127. illici: lecci. 128. Quel … antiche: ciò che fa con le erbe e i cespuglietti un cacciatore per predisporre la piazzola pulita per collocare le reti (Orlando) faceva con gli antichi alberi di alto fusto. 129. pania: una sostanza particolarmente vischiosa e adesiva ottenuta dalle bacche del vischio. Si cosparge sui rami per catturare gli uccelli. 130. v’inveschi l’ale: vi resti intrappolato con le ali. 131. in somma: insomma. 132. insania: follia. 133. se ben: sebbene. 134. furor: follia.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

2

Varii gli effetti son, ma la pazzia è tutt’una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire135: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo’ dire: a chi in amor s’invecchia136, oltr’ogni pena, si convengono i ceppi e la catena.

3

Ben mi si potria dir: – Frate137, tu vai l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo138. – Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo139; et ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d’uscir fuor di ballo140: ma tosto141 far, come vorrei, nol posso; che ’l male è penetrato infin all’osso.

4

Signor, ne l’altro canto io vi dicea che ’l forsennato e furïoso Orlando trattesi l’arme e sparse al campo avea142, squarciati i panni, via gittato il brando, svelte le piante, e risonar facea i cavi sassi143 e l’alte144 selve; quando alcun’ pastori al suon trasse in quel lato lor stella, o qualche lor grave peccato145.

5

Viste del pazzo l’incredibil prove poi più d’appresso e la possanza estrema146, si voltan per fuggir, ma non sanno ove, sì come avviene in subitana tema147. Il pazzo dietro lor ratto148 si muove:

135. fallire: smarrire. 136. a chi … s’invecchia: chi perdura nell’errore di innamorarsi.

137. Frate: fratello. 138. fallo: errore. 139. ho … intervallo: la follia d’amore mi

lascia qualche intervallo di lucidità. 140. d’uscir … ballo: di non essere più vittima dell’amore. 141. tosto: subito. 142. trattesi … avea: si era spogliato delle armi e le aveva sparpagliate per il campo. 143. cavi sassi: grotte. 144. alte: fitte. 145. quando … peccato: quando il loro destino (stella) o qualche loro grave peccato attirò in quel luogo alcuni pastori all’udire quel rumore. Poiché i pastori saranno sterminati da Orlando, o è il loro destino avverso a portarli in quel luogo, o è Dio che li vuole punire di qualche peccato. Secondo le credenze astrologiche, le stelle influenzavano il destino umano. 146. Viste … estrema: viste poi più da vicino le incredibili imprese e la straordinaria potenza del pazzo. 147. in subitana tema: per un improvviso timore. 148. ratto: rapido.

pesare le parole Fallo (canto XXIV, ottava 3, v. 2)

> Deriva da fallàre, forma del latino tardo per fàllere, “in-

>

gannare”, e significa “errore”. Ricorre ancora nella lingua attuale in varie locuzioni, come essere colto in fallo, “essere colto in errore”, mettere il piede in fallo, “scivolare”, senza fallo, “senza possibilità di errore, senza dubbio”, anche se quest’ultima appartiene al linguaggio colto. Nel linguaggio sportivo è l’infrazione al regolamento di gara per cui è assegnata una punizione. Il verbo fallare, “sbagliare”, è ormai di uso esclusivamente letterario (Manzoni, I promessi sposi, cap. II: «Posso aver fallato», dice Renzo a don Abbondio, dopo avergli estorto con minacce il nome di don Rodrigo). L’aggettivo colto fallace vale “che può trarre in inganno” (es. indizio fallace, promesse fallaci); ricorre anche il sostantivo fal-

lacia, “carattere ingannevole di qualche cosa “ (es. dimostrare la fallacia del ragionamento). Sempre dalla stessa radice viene falla, fenditura nello scafo di un natante, di un serbatoio, di un argine, da cui passano le acque; è usato anche in senso figurato (es. non riuscirà a turare le falle del suo patrimonio). Derivano ancora fallibilità e infallibilità, “possibilità o impossibilità di sbagliare” (es. il dogma dell’infallibilità del papa). Sempre da fàllere viene fallire, “non raggiungere il fine prefisso” (es. fallire nell’impresa, intransitivo, fallire il calcio di rigore, transitivo). Il fallimento, nel linguaggio giuridico, è il procedimento per cui il patrimonio di un imprenditore che non è più in grado di pagare viene liquidato e il ricavato è ripartito fra i creditori.

331

L’età del Rinascimento

uno ne piglia, e del capo lo scema149 con la facilità che torria alcuno da l’arbor pome, o vago fior dal pruno150. 6

Per una gamba il grave tronco prese, e quello usò per mazza adosso al resto: in terra un paio addormentato stese, ch’al novissimo dì forse fia desto151. Gli altri sgombraro subito il paese, ch’ebbono il piede e il buono aviso presto152. Non saria stato il pazzo al seguir lento, se non ch’era già volto al loro armento153.

7

Gli agricultori, accorti agli altru’ esempli154, lascian nei campi aratri e marre155 e falci: chi monta su le case e chi sui templi (poi che non son sicuri olmi né salci), onde l’orrenda furia si contempli, ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; e ben è corridor chi da lui fugge.

8

Già potreste sentir come ribombe156 l’alto rumor ne le propinque ville157 d’urli e di corni, rusticane158 trombe, e più spesso che d’altro, il suon di squille159; e con spuntoni et archi e spiedi e frombe160

149. scema: priva. 150. con la facilità … pruno: con la facilità con cui qualcuno coglierebbe un frutto da un albero o un leggiadro fiore da un cespuglio spinoso. 151. ch’al novissimo … desto: che forse si risveglierà il giorno del giudizio (novissimo vuol dire ultimo). 152. ch’ebbono … presto: ebbero pronti il piede e la saggia decisione. 153. Non saria … armento: il pazzo non sarebbe stato lento a inseguirli, senonché si era già rivolto alla loro mandria. Orlando non li ghermisce perché il suo interesse è rivolto ai loro armenti, non certo perché sia troppo lento per raggiungerli. 154. accorti … esempli: resi accorti da quanto era accaduto agli altri. 155. marre: zappe. 156. ribombe: rimbomba. 157. propinque ville: località vicine. 158. rusticane: di contadini. 159. squille: campane. 160. frombe: fionde. Arnold Böcklin, Orlando furioso, 1901, olio e tempera su tavola, Lipsia, Museum der Bildenden Künste.

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Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

veder dai monti sdrucciolarne mille, et altritanti andar da basso ad alto, per fare al pazzo un villanesco161 assalto. 9

Qual venir suol nel salso lito162 l’onda mossa da l’austro163 ch’a principio scherza, che maggior de la prima è la seconda, e con più forza poi segue la terza, et ogni volta più l’umore164 abonda, e ne l’arena più stende la sferza165; tal contra Orlando l’empia166 turba cresce, che giù da balze scende e di valli esce.

10

Fece morir diece persone e diece167, che senza ordine alcun gli andaro in mano168: e questo chiaro esperimento169 fece ch’era assai più sicur starne lontano. Trar sangue da quel corpo a nessun lece170, che lo fere171 e percuote il ferro invano. Al conte il re del ciel tal grazia diede, per porlo a guardia di sua santa fede.

11

Era a periglio172 di morire Orlando, se fosse di morir stato capace. Potea imparar ch’era a gittare il brando, e poi voler senz’arme essere audace173. La turba già s’andava ritirando, vedendo ogni suo colpo uscir fallace174. Orlando, poi che più nessun l’attende, verso un borgo di case il camin prende.

12

Dentro non vi trovò piccol né grande, che ‘l borgo ognun per tema175 avea lasciato. V’erano in copia176 povere vivande, convenienti a un pastorale stato177. Senza il pane discerner da le giande178, dal digiuno e da l’impeto cacciato179, le mani e il dente lasciò andar di botto in quel che trovò prima, o crudo o cotto180.

13

E quindi errando per tutto il paese, dava la caccia e agli uomini e alle fere181; e scorrendo pei boschi talor prese i capri182 isnelli e le damme183 leggiere.

161. villanesco: approssimativo perché organizzato da contadini inesperti di tattica militare. 162. salso lito: la riva del mare. 163. austro: vento del Sud. 164. umore: acqua. 165. e ne … sferza: flagella più estesamente la sabbia della riva.

166. empia: ostile, feroce. 167. diece … diece: dieci e dieci persone. 168. che senza … mano: che a caso gli capitarono fra le mani. 169. esperimento: prova. 170. lece: è lecito. 171. fere: ferisce. 172. periglio: rischio.

173. Potea … audace: poteva imparare che cosa volesse dire gettar via la spada e poi voler compiere azioni audaci senza armi. 174. ogni … fallace: ogni percossa andare a vuoto. 175. tema: timore. 176. copia: abbondanza. 177. stato: condizione. 178. giande: ghiande, cibo per gli animali. 179. cacciato: spinto. 180. crudo o cotto: dato significativo della follia e della degradazione animalesca è la non distinzione tra cotto e crudo. 181. fere: animali selvaggi. 182. capri: caprioli. 183. damme: daine.

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L’età del Rinascimento

Spesso con orsi e con cingiai184 contese, e con man nude li pose a giacere; e di lor carne con tutta la spoglia185 più volte il ventre empì con fiera voglia. 14

Di qua, di là, di su, di giù discorre186 per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva, sotto cui largo e pieno d’acqua corre un fiume d’alta e di scoscesa riva. Edificato accanto avea una torre che d’ogn’intorno e di lontan scopriva. Quel che fe’ quivi, avete altrove a udire; che di Zerbin mi convien prima dire.

184. cingiai: cinghiali. 185. con … spoglia: senza aver levato la pelle.

186. discorre: corre attraverso.

Analisi del testo

> La critica dell’idealismo cortese

L’«inchiesta» fallimentare

L’idealismo cortese di Orlando

L’incapacità di adattarsi al reale

La follia, rovesciamento dell’amor cortese

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È l’episodio che dà il titolo al poema: e questo basta a segnalarci che si tratta di un momento narrativo di importanza centrale, denso di significati. Vi ritroviamo il tema fondamentale del desiderio che spinge l’uomo all’«inchiesta», all’instancabile ricerca dell’oggetto desiderato: desiderio vano, oggetto sempre sfuggente e inafferrabile, inchiesta necessariamente fallimentare. Orlando, che ha fin qui inseguito invano Angelica, che sempre gli sfugge, incontra ora, nella grotta e poi nella capanna del pastore, la prova inconfutabile che l’oggetto è per lui perduto per sempre. Ma, nel personaggio di Orlando, desiderio e «inchiesta» hanno caratteri peculiari, sicché si caricano di valenze ulteriori. La tenacia con cui Orlando insegue Angelica e la fedeltà indefettibile nei suoi confronti fanno dell’eroe un perfetto amante secondo i codici cortesi. La donna amata è da lui sottoposta ad una totale idealizzazione: Angelica è una dea, una creatura di assoluta perfezione, da adorare e servire con umile devozione. In questo, Orlando si rivela privo di una virtù che Ariosto ritiene essenziale all’uomo, la duttilità nell’adattarsi alle varie situazioni proposte dalla Fortuna mutevole, il pragmatico realismo: Orlando, ossessivamente fisso nel suo amore, non si piega ad accettare oggetti sostitutivi, un’arma, un cavallo, un’altra donna, come altri personaggi più pragmatici (Ferraù, Mandricardo, lo stesso Rodomonte, che quasi impazzisce per il tradimento di Doralice, ma subito si innamora di Isabella: canti I, XII, XIV, XXIX, TT4 e 5, pp. 263 e 290). Per questo il fortissimo eroe si trova inerme e vulnerabile di fronte alla realtà effettuale, che smentisce ogni idealizzazione. E ciò lo induce a restare impigliato nella trama dell’«errore», a perdere il senno. La fissazione idealizzante su un oggetto, priva di realismo, è l’antecedente diretto della follia. Il furore di Orlando appare quindi come il rovesciamento ironico di una concezione sublimante e idealizzante dell’amore, la concezione cortese, che nella civiltà rinascimentale si era rivestita delle forme del platonismo (Bartlett Giamatti): nel suo caso, con l’esito della pazzia, l’amore e la fedeltà alla donna non nobilitano l’uomo ad una condizione spiritualmente superiore, ma lo degradano ad una condizione bestiale. Si pensi all’insistenza sull’aspetto fisico di Orlando, nudo ed irsuto come una bestia feroce, che gareggia con le altre belve nella corsa e nella lotta e si ciba delle loro carni crude.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto La degradazione dei valori cavallereschi

Con l’amor cortese sono strettamente legati i valori cavallereschi, la prodezza, l’onore, la magnanimità; ebbene, la cavalleria, portata sino alle estreme conseguenze della follia, finisce per autodistruggersi: Orlando si spoglia delle sue armi, e soprattutto getta la spada, che è il simbolo per eccellenza della dignità cavalleresca. Non solo, ma l’eroe, invece di prodigare la sua forza per nobili fini, la difesa della fede e dei deboli, e per compiere imprese mirabili, degne di gloria eterna, la spreca distruggendo cose vili (alberi, sassi), abbassandosi a far la guerra a una masnada di villani, o, nel colmo dell’abiezione, nel far strage di animali.

> La polemica anticortigiana

La parodia del petrarchismo

Non si dimentichi che l’amor platonico, insieme con il culto delle virtù cavalleresche, era uno dei valori fondamentali della società cortigiana. Noi conosciamo, in particolare dalle Satire, la profonda avversione che Ariosto nutriva per l’ambiente della corte ( T2, p. 238): allora, nella follia di Orlando, nella degradazione da essa prodotta dell’amor platonico e della cavalleria, si può vedere trasposta in cifra ironica una sottile polemica contro la civiltà cortigiana e i suoi valori. Una polemica che investe anche le forme letterarie. L’espressione dell’idealismo amoroso platonizzante era essenzialmente il petrarchismo: e in effetti, in questo episodio, si può cogliere una sfumata, maliziosa parodia della poesia petrarchista contemporanea, del suo linguaggio e delle sue immagini. Ci riferiamo soprattutto al monologo di Orlando alle ottave 126-128: l’eroe parla facendo ricorso ai “concettini” correnti del petrarchismo, le lacrime ormai esaurite e sostituite dall’umor vitale, i sospiri che sono il vento provocato dalle ali che Amore sbatte per attizzare il fuoco nel suo cuore. Ariosto, secondo il suo solito, non ricorre alla parodia aperta, violentemente beffarda e caricaturale: si limita a caricare leggermente le immagini e le espressioni, ad andare un po’ sopra le righe, ed in tal modo fa venire alla luce tutta la convenzionalità artificiosa e l’assurdità di quelle concezioni e di quel linguaggio codificato, manifestando così sornionamente ma corrosivamente la propria irrisione.

> I procedimenti dell’ironia L’ironia oggettiva

Gli interventi diretti della voce narrante

Paragoni e similitudini

L’accostamento del narratore all’eroe

La polemica contro la cultura cortigiana non è mai diretta ed esplicita, ma si manifesta nei modi consueti di Ariosto, con l’ironia. Essa è in primo luogo ironia oggettiva, che scaturisce dai meccanismi stessi del racconto, dal suo montaggio: in tal caso alla base vi è sempre una sproporzione, un contrasto implicito. Così avviene quando Orlando, prode cavaliere, invece di combattere altri cavalieri, si scontra con i villani. Ironico è il contrasto tra il luogo ameno e idillico in cui Orlando giunge in apertura di episodio, credendo di potervi trovare ristoro e riposo, e la sventura che vi incontra, scoprendovi il “tradimento” di Angelica: l’ironia oggettiva è qui data dal gioco beffardo della Fortuna, che si compiace di rovesciare le aspettative e i progetti degli uomini. Oltre che dai meccanismi oggettivi del racconto, l’ironia può scaturire anche da interventi diretti della voce narrante, che sottolineano esplicitamente un contrasto o una sproporzione. Il narratore definisce «prove eccelse» lo sradicare con irrisoria facilità gli alberi: il contrasto che si crea tra le formule epiche e il folle accanimento sugli oggetti inerti che degrada l’eroe è l’indizio dell’ironia. Valore ironico ha poi tutta una serie di paragoni che, come di consueto, abbassano la statura epica dell’eroe, pur senza stravolgerla in aperta caricatura e irriverente sberleffo: la similitudine del vaso dal collo troppo stretto, da cui il liquido «a goccia a goccia fuore esce a fatica», l’immagine del letto che sembra ad Orlando pieno di ortiche, o dell’uccellatore che sgombra il campo delle erbacce per stendere le sue reti: l’accostamento a queste realtà quotidiane e prosaiche, abbassando la figura dell’eroe, produce un effetto straniante sulla sua dignità epico-cavalleresca. Funzione ironica hanno ancora gli interventi con cui il narratore accosta la propria esperienza amorosa a quella dell’eroe: «Credete a chi n’ha fatto esperimento, / che questo è ’l duol che 335

L’età del Rinascimento

Il paragone della selva

L’atteggiamento di tolleranza

tutti gli altri passa» (112), e soprattutto l’esordio del canto XXIV. Qui è evidente come l’ironica sovrapposizione della figura del narratore abbia la funzione di abbassare le vicende epico-romanzesche, e quindi di straniarle, per trasformarle, da oggetto di immediata e appassionata partecipazione emotiva del lettore, in spunto per la riflessione disincantata sul comportamento dell’uomo, sui suoi errori e le sue follie. Compare infatti, maliziosamente, l’equazione amore-follia, amore-trappola o catena, ma significativa è soprattutto l’immagine della selva. Essa richiama la selva simbolica dove si svolgono tanti episodi del poema ( TT4 e 5, pp. 263 e 290), il luogo dell’«arbitrio di fortuna». Lo spazio esterno diviene metafora dello spazio interiore, il labirinto della selva è l’equivalente oggettivo del labirinto di passioni e desideri che si agitano nell’animo umano. La selva, oltre ad essere simbolo di un mondo intricato e multiforme, è anche il simbolo dell’intrico della vita interiore dell’uomo che vi si smarrisce, della follia che sempre l’insidia. Ricompare allora puntualmente, in queste ottave dell’esordio al canto, lo stilema ben noto, «chi su, chi giù, chi qua, chi là travia»: è la formula che indica il movimento circolare dell’«inchiesta», movimento vano e ripetitivo che non raggiunge mai la meta, rispondente all’intrico labirintico della selva. L’intromissione della persona del narratore ad accostare la propria esperienza a quella dei personaggi è un procedimento caro ad Ariosto, che compare di frequente nel poema: l’abbiamo già trovato, sempre a proposito di Orlando, nel proemio al canto I, ottava 2 ( T3, p. 259). Il ricorrere del procedimento ci segnala che il giudizio sulla follia e sugli errori degli uomini non è fatto dall’alto di un moralismo arcigno ed implacabile, ma da parte di chi si sente anch’egli partecipe di quella follia, e quindi può studiarla prima in sé che nei personaggi, piegandosi in tal modo ad un atteggiamento di saggia tolleranza.

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

CompRendeRe

> 1. Quali comportamenti rivelano l’autoinganno di Orlando dettato dall’amore per Angelica? > 2. Quali azioni rivelano il manifestarsi prima del dolore, poi della follia di Orlando? AnALIzzARe

> 3. Rispetto alla riflessione proposta nell’Analisi, quali altri temi o motivi sono presenti, anche se non sempre in

primo piano, nel passo? Stile Rispetto alla riflessione proposta nell’Analisi, rintraccia altri paragoni e/o similitudini e/o metafore – anche dal tono meno ironico e più drammatico – riferiti ad Orlando. > 5. Lessico Individua i termini riconducibili all’area semantica relativa ai valori cavallereschi e a quella relativa al petrarchismo. > 6. Lessico Analizza, sul piano etimologico, il preciso significato dei vocaboli «furioso», «matto», «pazzo», «folle» utilizzati da Ariosto nel presente testo e in altri precedenti. > 7. Lingua Individua nel testo (canto XXIII, ottava 112, vv. 3-4; canto XXIV, ottava 3, vv. 1-8) due intromissioni del narratore finalizzate ad accostare la propria esperienza a quella dei personaggi: che cosa osservi sul piano dell’articolazione del discorso?

> 4.

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 8.

esporre oralmente A partire dalle definizioni di follia ricavate dal testo (es. canto XXIII, ottava 128; canto XXIV, ottave 1-2), ricostruisci con l’aiuto del docente ed esponi oralmente (max 5 minuti) il quadro di elementi che sembrano ricondurre ad una vera e propria sintomatologia in tal senso.

peR IL ReCupeRo

> 9. Quali luoghi compaiono nell’episodio? E quali personaggi oltre al protagonista? Forniscine un elenco rispettando l’ordine di apparizione nel canto.

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Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

T9

Astolfo sulla luna dall’Orlando furioso, XXXIV, 70-87

Temi chiave

• la vanità dei desideri umani • la consapevolezza della follia umana

Astolfo, spinto dalla sua curiosità, in groppa all’ippogrifo vola per diverse parti della terra e giunge in Etiopia, di cui è re Senapo. Il paladino, mediante il suono del suo corno magico, scaccia le mostruose Arpie che tormentano il re e le insegue sino all’entrata di una grotta: di lì scende nell’inferno. Qui incontra un’anima dannata, Lidia, che fu ingrata e crudele verso l’uomo che l’amava. Con l’ippogrifo vola poi sin sulla vetta del monte del paradiso terrestre. In uno splendido palazzo è accolto amabilmente da san Giovanni Evangelista. Questi gli rivela che Dio ha voluto farlo giungere sin lì per affidargli una missione, quella di salvare re Carlo dalla sconfitta. Così lo svagato peregrinare di Astolfo muta carattere, prende le forme di una missione provvidenziale. San Giovanni gli spiega che Orlando è stato punito da Dio con la perdita del senno perché si è sviato dal giusto cammino, venendo meno ai suoi doveri di difensore della fede per amore di una pagana. Ma ora il periodo di punizione è terminato e il compito di Astolfo è restituire il senno ad Orlando. Per far ciò occorrerà salire sulla luna, dove si raduna il senno perduto dagli uomini sulla terra. San Giovanni stesso conduce Astolfo, sul carro del profeta Elia, al di là della sfera del fuoco, sin sulla luna. 70

Tutta la sfera varcano del fuoco, et indi vanno al regno de la luna. Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar1 che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch’in questo globo si raguna2, in questo ultimo globo3 de la terra, mettendo4 il mar che la circonda e serra.

71

Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia: che quel paese appresso5 era sì grande, il quale a un picciol tondo6 rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande7; e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia8, s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande discerner vuol; che non avendo luce, l’imagin lor poco alta si conduce9.

72

Altri10 fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi11, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi12: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor cacciano belve.

1. acciar: acciaio. 2. e lo trovano … si raguna: trovano la luna uguale o di poco più piccola rispetto alla terra. 3. ultimo globo: la terra è detta ultimo globo in quanto nella cosmologia tolemaica occupa il posto centrale nell’universo. 4. mettendo: includendo. 5. appresso: visto da vicino.

6. tondo: circolo. 7. miriam … bande: lo guardiamo dalla terra. 8. ambe le ciglia: entrambi gli occhi. 9. s’indi … si conduce: se vuole scorgere da qui (dalla luna) la terra e il mare che la circonda all’intorno, perché, non essendo luminosa, la loro immagine non si innalza ad un’altezza cospicua.

10. Altri: differenti, più grandi. 11. c’han … suoi: che hanno le loro città e i loro villaggi. Ha dimostrato Cesare Segre che la descrizione ha come modello il Somnium (Il sogno) di Leon Battista Alberti. 12. de le quai … poi: di cui il paladino non vide mai, né prima, né in seguito, nessuna maggiore.

337

L’età del Rinascimento

73

Non stette il duca a ricercare13 il tutto; che là non era asceso a quello effetto14. Da l’apostolo santo15 fu condutto in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto16 ciò che si perde o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna17.

74

Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora18; ma di quel ch’in poter di tòr, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora19. Molta fama è là su, che come tarlo il tempo al lungo andar qua giù divora: là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno20.

75

Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco21, i vani desidèri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai.

76

Passando il paladin per quelle biche22, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche23, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch’eran le corone antiche24 e degli Assirii e de la terra lida25, e de’ Persi e de’ Greci, che già furo26 incliti27 et or n’è quasi il nome oscuro.

77

Ami d’oro e d’argento appresso vede in una massa, ch’erano quei doni che si fan con speranza di mercede28 al re, agli avari principi, ai patroni29. Vede in ghirlande ascosi lacci30; e chiede, et ode che son tutte adulazioni. Di cicale scoppiate imagine hanno versi ch’in laude dei signor si fanno31.

13. ricercare: esplorare. 14. a quello effetto: a quello scopo. 15. Da l’apostolo santo: san Giovanni Evangelista. 16. mirabilmente era ridutto: miracolosamente era raccolto. 17. raguna: raduna.

338

18. Non pur … lavora: non parlo solo dei regni o delle ricchezze, su cui si esercita la ruota mutevole della Fortuna. 19. ma … ancora: ma voglio riferirmi a ciò che la Fortuna non ha potere di togliere o di dare. 20. prieghi e voti … fanno: preghiere e voti rivolti dagli uomini peccatori a Dio.

21. vani … loco: vani progetti che non si realizzano mai. 22. biche: mucchi. 23. tumide vesiche: vesciche gonfie. 24. corone antiche: gli antichi regni. 25. de la terra lida: della Lidia, in Asia Minore. 26. furo: furono. 27. incliti: famosi (l’immagine delle vesciche allude alla vanità della potenza di quei regni antichi, che ora è svanita). 28. speranza di mercede: speranza di ricompensa. 29. patroni: protettori. 30. ghirlande … lacci: trappole nascoste dentro ghirlande di fiori. 31. Di cicale … fanno: il poeta di corte è paragonato ad una cicala scoppiata per aver troppo esagerato nel canto (l’adulazione).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

78

Di nodi d’oro e di gemmati ceppi32 vede c’han forma i mal seguiti amori33. V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi, l’autorità ch’ai suoi danno i signori34. I mantici ch’intorno han pieni i greppi35, sono i fumi dei principi e i favori che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi36.

79

Ruine di cittadi37 e di castella stavan con gran tesor quivi sozzopra38. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra39. Vide serpi con faccia di donzella, di monetieri e di ladroni l’opra40: poi vide boccie rotte di più sorti, ch’era il servir de le misere corti41.

80

Di versate minestre una gran massa vede, e domanda al suo dottor ch’importe42. – L’elemosina è – dice – che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte43. – Di varii fiori ad un gran monte passa ch’ebbe già buono odore, or putia44 forte. Questo era il dono (se però dir lece) che Constantino al buon Silvestro fece45.

81

Vide gran copia di panie46 con visco, ch’erano, o donne, le bellezze vostre. Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur47 quivi dimostre48; che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l’occurrenzie nostre49: sol la pazzia non v’è poca né assai; che sta qua giù, né se ne parte mai.

82

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch’egli già avea perduti, si converse50;

32. Di nodi … ceppi: di nodi ricamati d’oro e ceppi (catene, con allusione alla schiavitù) ricoperti di gemme. 33. mal … amori: gli amori sfortunati. 34. l’autorità … signori: il potere che i signori danno ai loro luogotenenti, che lo amministrano in modo crudele. 35. han … greppi: riempiono le balze scoscese. 36. sono i fumi … poi: sono gli onori e i favori che i principi concedono ai loro favoriti, e che svaniscono insieme con la giovinezza di questi. Ganimede era il mitico coppiere degli dei; qui il nome è usato per antonomasia ad indicare i giovani favoriti che godono delle grazie del signore.

37. Ruine di cittadi: rovine di città. 38. sozzopra: alla rinfusa. 39. Domanda … cuopra: domanda (a san Giovanni) e apprende che sono i trattati (violati) e le congiure che si scoprono così facilmente. 40.Vide … opra: vide serpenti con faccia di fanciulla, che rappresentano le azioni di falsari e ladri (cioè l’apparenza gentile cela un’insidia). 41. boccie … corti: recipienti di vetro rotti di varie forme, che sono il servire dei cortigiani nelle tristi corti (che è vano come quei recipienti sono inutili). 42. domanda … ch’importe: domanda a san Giovanni, sua guida, che cosa rappresentino. 43. L’elemosina … morte: il denaro che si la-

scia in testamento perché gli eredi lo devolvano in beneficenza (e che essi invece non distribuiscono; altro esempio di cosa che risulta vana). 44. putia: puzzava. 45. il dono … fece: la “donazione di Costantino” al pontefice Silvestro, alla quale la Chiesa faceva risalire il proprio potere temporale. Ariosto intende dire che di lì prese origine la corruzione della Chiesa, nonostante le buone intenzioni di Costantino. 46. panie: trappole fatte di sostanza vischiosa. 47. fur: furono. 48. dimostre: mostrate. 49. l’occurrenzie nostre: le cose che capitano agli uomini. 50. Quivi … converse: Astolfo rivolge l’attenzione alle sue esperienze sprecate, che ritrova sulla luna.

339

L’età del Rinascimento

che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse51. Poi giunse a quel52 che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse53; io dico il senno: e n’era quivi un monte, solo assai più che l’altre cose conte54. 83

Era come un liquor suttile e molle55, atto a esalar56, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle, qual più, qual men capace, atte a quell’uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d’Anglante era il gran senno infuso; e fu da l’altre conosciuta, quando57 avea scritto di fuor: «Senno d’Orlando».

84

E così tutte l’altre avean scritto anco58 il nome di color di chi59 fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco60; ma molto più maravigliar lo fenno61 molti ch’egli credea che dramma manco62 non dovessero averne, e quivi denno63 chiara notizia che ne tenean poco; che molta quantità n’era in quel loco.

85

Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, richezze; altri ne le speranze de’ signori64, altri dietro alle magiche sciocchezze65; altri in gemme, altri in opre di pittori, et altri in altro che più d’altro aprezze66. Di sofisti67 e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto.

51. che … diverse: se non fosse stato presente san Giovanni per spiegargliele non le avrebbe riconosciute, a tal punto si erano modificate. 52. a quel: la ragione, il senno. 53. che mai … ferse: per riavere il quale nessuno mai rivolse preghiere a Dio.

54. solo … conte: da solo era più abbondante di tutte le altre cose passate in rassegna (conte). 55. suttile e molle: leggero e allo stato gassoso. 56. atto a esalar: facile ad evaporare.

57. quando: poiché. 58. anco: anche. 59. di chi: dei quali. 60. franco: valoroso, non “francese” perché Astolfo è inglese. 61. fenno: fecero. 62. dramma manco: nemmeno un poco di meno. 63. denno: diedero. 64. ne le speranze de’ signori: affidando la realizzazione delle loro speranze ai signori alle cui dipendenze si trovano. 65. magiche sciocchezze: arti magiche. 66. in altro … aprezze: e altri in cose differenti che apprezza più di ogni altra. 67. sofisti: i sofisti nell’Atene del V secolo a.C. erano filosofi che usavano argomenti sottili, apparentemente logici ma ingannevoli. Il termine è poi passato a indicare in senso spregiativo chiunque usi ragionamenti del genere.

pesare le parole Franco (ottava 84, v. 3)

> Viene dal francone frank, “libero” (è quindi voce di origine

germanica). Qui ha il senso di “valoroso, ardito”. Il senso oggi più comune è “sincero, schietto nel carattere e nel parlare” (es. mi ha detto le cose in modo franco), oppure “spigliato, sicuro” (es. ha un piglio franco e battagliero). Un altro senso è “libero da impegni, obblighi, servizi”: porto franco è quello in cui si possono introdurre merci senza

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pagare la dogana; franco tiratore è un soldato irregolare che compie azioni di guerriglia contro le retrovie di un esercito invasore; nel gergo politico, è il parlamentare che nelle votazioni a scrutinio segreto vota contro il governo sostenuto dal proprio partito; farla franca è uscire impuniti da un’impresa poco onesta (es. ha copiato interamente il compito ed è riuscito a farla franca).

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

86

Astolfo tolse il suo68; che gliel concesse lo scrittor de l’oscura Apocalisse69. L’ampolla in ch’era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse70: e che Turpin71 da indi in qua confesse ch’Astolfo lungo tempo saggio visse; ma ch’uno error72 che fece poi, fu quello ch’un’altra volta gli levò il cervello.

87

La più capace e piena ampolla, ov’era il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle73; e non è sì leggiera, come stimò, con l’altre essendo a monte74.

68. Astolfo tolse il suo: Astolfo prese il proprio (senno). 69. lo scrittor … Apocalisse: san Giovanni è l’autore dell’Apocalisse, testo molto oscuro. 70. ne gisse: andasse.

71. Turpin: presunto autore della Vita di Carlo Magno, alla cui autorità spesso Ariosto si richiama. 72. uno error: nel quarto dei Cinque Canti si legge che Astolfo si innamora di una se-

ducente castellana che rapisce; per punizione Alcina lo fa inghiottire da una balena. 73. tolle: prende. 74. a monte: ammonticchiate

Competenze attivate

Analisi attiva CompRendeRe

> Il viaggio di Astolfo

Superata la sfera del fuoco che separa la terra dal cielo della luna, Astolfo e san Giovanni giungono sul mondo lunare, dove in una valle si accumula miracolosamente tutto ciò che gli uomini perdono sulla terra: non solo i regni o le ricchezze, soggetti alla ruota mutevole della Fortuna, ma tutti quegli aspetti della natura umana su cui la Fortuna non esercita alcuna influenza. Sulla luna ci sono la fama, che sulla terra è logorata dal tempo (come la storia stessa), le preghiere e i voti rivolti a Dio dai peccatori, i progetti che gli uomini non portano mai a compimento, i loro desideri inutili, le loro vane speranze ecc. Un’infinità di oggetti accatastati, che nelle diverse forme che qui hanno assunto rivelano la loro vera essenza. Solo la follia, che dalla terra non si allontana mai, non trova posto in questa fiera di beni perduti mentre il senno, che gli uomini perdono con facilità senza avvedersene, è raccolto in una montagna di ampolle che da sola supera tutti gli altri mucchi messi assieme. Astolfo prende, oltre alla propria, l’ampolla nella quale è racchiuso il senno del paladino Orlando. Come tutte le altre reca una scritta con il nome del proprietario ed è la più capiente e piena.

• Leggere, comprendere ed interpreta-

re testi letterari: poesia • Dimostrare consapevolezza della

storicità della letteratura

> 1. Come si presenta agli occhi di Astolfo il paesaggio lunare? Che cosa motiva la sua doppia meraviglia (ottava 71, v. 1)? > 2. Svolgi la parafrasi delle ottave 73-75. > 3. Quali sono le principali cause della

perdita delle cose sulla terra?

AnALIzzARe

> gli oggetti delusori

L’episodio dell’esperienza lunare di Astolfo affronta in modo esplicito un tema che percorre tutto il Furioso ma che resta usualmente dissimulato dietro le molteplici avventure romanzesche: la vanità dei desideri degli uomini, il loro protendersi inconcludente

> 4. Quale concezione del tempo e della Fortuna si esprime nella prima parte dell’episodio?

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L’età del Rinascimento

ad inseguire oggetti delusori, che non possono essere mai raggiunti, o per impotenza ed errore umano, o per colpa del tempo che tutto consuma, o della Fortuna capricciosa («o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna», XXXIV, ottava 73). Questo è il senso essenziale della rassegna delle cose perdute sulla terra, che si radunano nel vallone lunare: l’episodio della luna racchiude in sé in forma sintetica il senso generale del poema.

> 5. Individua e interpreta tutte le espressioni metaforiche impiegate, nelle ottave 76-81, per indicare gli oggetti perduti che sono finiti sulla luna.

> una vanitas laica

> 7. Perché si può sostenere che il mondo lunare descritto da Ariosto è la conseguenza di una visione laica della realtà? La consapevolezza della vanità e dell’inconsistenza delle cose di questo mondo trova consolazione nella speranza nell’aldilà?

> L’intento conoscitivo

> 8. Quale atteggiamento nei confronti della natura umana e della società a lui contemporanea rivela il poeta in questo episodio? Quale immagine delinea dei rapporti sociali? E della vita di corte, cui allude più volte? Rispondi con puntuali riferimenti al testo.

> Straniamento e rovesciamento

> 9. Che rapporto lega la luna al mondo terreno, nell’invenzione ariostesca? Quali sono gli effetti di tale rapporto?

In questo inseguire mete vane si manifesta la fondamentale follia degli uomini; per cui opportunamente Segre, analizzando l’episodio, ha osservato che «la perdita del senno» è «la perdita primaria». E lo stesso critico nota anche come la rassegna allegorica degli oggetti perduti venga a costituire «un vanitas vanitatum mondano», cioè un equivalente laico dell’affermazione della vanità di tutte le cose contenuta nel libro biblico dell’Ecclesiaste («vanità delle vanità, ed ogni cosa è vanità»). La riflessione sui comportamenti umani e la loro follia, che è una componente costitutiva del Furioso, tocca in questo episodio il culmine. Anche qui l’estrosa invenzione fantastica e il clima meraviglioso servono da supporto all’intento lucidamente conoscitivo, venato di amaro disincanto sulla natura umana. L’osservazione della vanità delle azioni umane e della loro follia avviene da una prospettiva inconsueta, da un altro mondo: l’invenzione del viaggio lunare è quindi la traduzione in una metafora sensibile del procedimento di straniamento, che ricorre costantemente nel poema. Vedere la Terra dall’esterno e da un’infinita distanza vale infatti a presentare gli errori umani da una prospettiva inedita, “strana”, che ne fa emergere con terribile chiarezza la follia. Lo straniamento si fonda su un rovesciamento: la luna è come uno specchio della terra (a questo allude il fatto che è di un acciaio senza macchia), ma è uno specchio che presenta le immagini rovesciate. La luna è l’esatto complemento della terra, visto che in essa si viene a radunare tutto ciò che sulla terra si perde; ma è proprio questo rapporto rovesciato che porta alla luce la vera natura delle azioni umane, il loro carattere di vanità e follia. La presenza di questo rovesciamento ci segnala che l’episodio si collega al grande filone del carnevalesco, che abbiamo seguito già nei secoli precedenti e che continua nel Cinquecento. L’atteggiamento di Ariosto non è però quello della dissacrazione violenta, beffarda, gioiosa e vitale sino ai limiti dell’osceno, ma ha il tono abituale di sorniona e misurata ironia. AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> Le analogie con il viaggio dantesco

Sono state riscontrate dai critici delle analogie tra il viaggio di Dante nella Commedia e quello di Astolfo nel Furioso.

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> 6. Le serie metaforiche fanno riferimento a realtà alte o basse e quotidiane? Che funzione ha questa scelta espressiva?

> 10. Analizza i verbi con cui il poeta descrive il mondo lunare, di per sé o attraverso le percezioni di Astolfo. In questo mondo domina l’apparenza ingannevole o la verità, il “sembrare” o l’“essere”?

> 11. Rifletti su queste analogie (ad esempio si tratta di un viaggio nell’aldilà...) e sul significato che assume la ripresa del modello dantesco (si può parlare di un suo “rovesciamento” ironico?).

L’ARTe InConTRA LA LeTTeRATuRA

Astolfo sulla luna in un affresco del Cinquecento Galleria di immagini L’Orlando furioso nelle arti figurative

Le avventure narrate nell’Orlando furioso hanno esercitato, dal Cinquecento ai giorni nostri, una forte suggestione sugli artisti, diventando fonte di ispirazione per creazioni che spaziano dalla pittura alla ceramica e al fumetto. Testimonia la precoce fortuna figurativa del poema il fregio affrescato lungo le pareti del salone d’onore di palazzo Besta a Teglio, in Valtellina. Realizzato fra il 1542 e il 1551 dal pittore di origine bresciana Vincenzo de Barberis (1490 ca. - 1551), non solo è uno dei più antichi, ma è anche il più esteso e originale ciclo decorativo avente per soggetto l’Orlando furioso. Articolato in ventuno scene che non seguono l’ordine della narrazione ariostesca, il fregio propone un percorso etico che parte dal vizio, le Storie di Gabrina, e si conclude con l’elevazione spirituale dell’uomo, cioè con il Volo di Astolfo sulla luna.

Vincenzo de Barberis, Volo di Astolfo sulla luna, 1542-51, affresco, Teglio (Sondrio), Palazzo Besta, Salone d’onore.

L’affresco ci consegna una sintesi visiva dinamica e didascalica dell’episodio di Astolfo sulla luna. La scena è imperniata sul carro di Elia, guidato da san Giovanni e trainato da quattro cavalli rossi, che avanza dal lato destro del riquadro verso il sinistro. L’effetto di movimento risulta particolarmente efficace grazie alla presenza delle volute spumose che avvolgono e precedono il carro. Come nel poema, dopo aver attraversato la sfera del fuoco, il paladino si imbatte prima nelle cose perdute dagli uomini, poi nel palazzo delle Parche (in basso a sinistra). Le cose perdute, da leggere in senso opposto alla direzione in cui avanza il carro, sono serpi con volto di donna, ami ammassati, minestre rovesciate, borse, ampolle con il senno degli uomini. Non tutti gli oggetti citati nel poema sono quindi raffigurati e la loro sequenza non corrisponde a quella originale. Bisogna inoltre rilevare che le borse sono frutto di un fraintendimento del pittore, perché Ariosto non ne parla.

Esercitare le competenze STABILIRe neSSI TRA LeTTeRATuRA e ARTI VISIVe

> Rispetto al testo ariostesco, quale punto di vista adotta Vincenzo de Barberis nel raffigurare l’ambientazione dell’episodio? E dove colloca tutto ciò che gli uomini perdono sulla terra?

343

L’età del Rinascimento

Interpretazioni critiche

Franco picchio Schemi, simboli, codici dell’“invenzione” Il passo insiste su due tesi: 1) le storie di Orlando, Rinaldo, Angelica, Ruggiero e Bradamante sono costruite su un unico modello narrativo, che ricalca i riti di passaggio delle società primitive; 2) dietro a questo schema si scorge quello dell’iniziazione dei misteri antichi, che percorrono tre tappe: purificare i sensi e la ragione, essere illuminati dalla verità, raggiungere la perfezione. Le storie di questi personaggi sono dunque essenzialmente storie sacre, che rimandano sia alla cultura pagana antica sia a quella giudaico-cristiana.

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Se ritagliamo dal testo del Furioso le storie di Orlando, Rinaldo, Angelica, Ruggiero e Bradamante, smontiamo gli incastri creati dalla dispositio1 e rimontiamo ciascuna storia secondo l’ordine sequenziale della fabula2, cercando di penetrarne la struttura e di trovare gli schemi mentali che sorreggono l’inventio3, ci imbattiamo in due scoperte abbastanza sorprendenti. La prima è che tutte le storie risultano costruite su uno schema morfologico unitario e poggiano su un unico modello narrativo. Tale modulo è in grado di spiegare integralmente la composizione di ciascuna favola dal principio alla fine e di rendere conto di tutti gli episodi fondamentali che la compongono nel loro rigoroso ordine di successione. Se riconduciamo le storie, semplicemente, alla tipologia del “rito di passaggio”4, la selva narrativa del Furioso non appare più un labirinto inestricabile e gran parte degli episodi che ne costituiscono l’intrico divengono chiari, comprensibili e necessari, collocati al posto giusto nell’ordine richiesto dallo schema. In termini ancora più espliciti, se consideriamo le vicende di Orlando, Rinaldo, Angelica, Ruggiero e Bradamante come la narrazione di riti di iniziazione, non solo riusciamo a leggere le singole storie come un tutto coerente e dotato di senso unitario, ma cogliamo anche una modalità compositiva unificante, un codice nascosto dell’inventio ariostesca, una grammatica narrativa a lungo cercata e non mai bene identificata [...]. La seconda scoperta è forse anche più inaspettata e sconcertante. Se lo schema dell’iniziazione tribale costituisce il modello narrativo di queste storie, lo schema dell’iniziazione misterica5 sembra fornire il modello culturale. Tutti gli eroi infatti percorrono un cammino codificato che li conduce allo stato di purezza rituale e all’incontro con il sacro [...]. Questi cammini si snodano secondo percorsi strutturati che si svolgono in tre tappe e portano gli eroi prima a purificare i sensi e la ragione, poi a essere illuminati, infine a raggiungere la perfezione. Nello stesso tempo un complesso sistema di motivi, di immagini e di simboli, strettamente correlato alla struttura degli itinerari, sembra intenzionalmente rinviare a contesti dell’immaginario culturale di tipo filosofico-religioso e delineare il senso del cammino. Emergono così scenari imprevedibili rispetto agli attuali paradigmi delle contestualizzazioni del Furio-

1. dispositio: l’ordine con cui i fatti sono presentati dall’intreccio. 2. fabula: i fatti riportati nel loro ordine cronologico.

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Franco Picchio è autore di un volume, da cui è tratto il passo, che offre una prospettiva di lettura del tutto innovativa dell’Orlando furioso. Mentre le interpretazioni tradizionali delineavano una fisionomia di Ariosto fondamentalmente laica, il critico dietro alle strutture narrative del poema ariostesco riconosce un’inquieta religiosità, collegata ai misteri pagani dell’antichità, soprattutto dionisiaci, e alla tradizione neoplatonica ed esoterica viva nel Quattro e Cinquecento, con componenti evangeliche ed eretiche.

3. inventio: l’invenzione della materia narrata. 4.“rito di passaggio”: i riti con cui nelle società primitive si segnava il passaggio dei

giovani all’età matura. 5. iniziazione misterica: anche i riti misterici antichi prevedevano un percorso di iniziazione per chi voleva parteciparvi.

Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

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so che ci riconducono alle cerimonie dei misteri pagani, alle pratiche filosofiche delle scuole neoplatoniche, alle regole ascetiche di vita giudaico-cristiane. Come orientarsi tra contesti religiosi storicamente tanto disparati e trovare un significato attendibile alle nostre storie? In breve, passando subito alle conclusioni, l’ipotesi che guida la presente ricerca è la seguente. Le storie portanti del Furioso, le storie di Orlando, Rinaldo, Angelica, Ruggiero e Bradamante sono anzitutto, essenzialmente, storie sacre. Esse possono essere lette sulla base di codici culturali diversi come storie di iniziazioni religiose pagane, di ritorni filosofici delle anime alla contemplazione, di conversioni biblico-cristiane guidate dalla grazia. Ma più correttamente, forse, esse devono essere intese come una consapevole sintesi dei tre modelli culturali indicati sulla base del medesimo dispositivo centrale codificante dell’iniziazione, come storie di “teologia poetica” di matrice “neoplatonica” e fondamentalmente ficiniana6. F. Picchio, Ariosto e Bacco. I codici del sacro nell’«Orlando furioso», Paravia Scriptorium, Torino 1999

6. ficiniana: l’umanista Marsilio Ficino (1433-99) elaborò una teologia che fonde-

va insieme concezioni pagane antiche e giudaico-cristiane.

Esercitare le competenze CompRendeRe

> 1. Quali caratteristiche comuni presentano gli elementi del poema presi in considerazione dal critico (rr. 1-10)? AnALIzzARe

> 2. > 3.

Che cosa intende il critico con l’espressione «grammatica narrativa» (r. 18)? Quale espressione metaforica viene presentata nelle righe 10-31 in relazione alla struttura narrativa del Furioso? E quale altra immagine richiama direttamente? Stile Stile

AppRoFondIRe e InTeRpReTARe

> 4.

esporre oralmente Prova a verificare l’attendibilità di alcune delle osservazioni del critico scegliendo come esempio uno dei personaggi citati nel brano (rr. 32-40). Esponi oralmente (max 5 minuti) le tue osservazioni.

Facciamo il punto L’eSpeRIenzA dI VITA

1. Individua le esperienze di vita, pubbliche e private, ritenute particolarmente importanti per Ariosto. LA FoRmAzIone

2. Quali studi e quali autori contribuirono alla crescita culturale di Ariosto? IL modeLLo d’InTeLLeTTuALe

3. Quale tipo d’intellettuale rappresenta Ariosto? Qual è il suo legame con la corte? Qual è il suo ideale di vita? Le opeRe

4. Compila la seguente tabella. opere

Lingua

genere

pubblico

modelli seguiti

Liriche latine

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......................................................................

Liriche in volgare

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Commedie

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Satire

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Orlando furioso

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5. Quale significato assume la follia nell’Orlando furioso? 6. La presenza del caso, che determina moltissimi avvenimenti del poema, quale concezione dell’autore rivela? 7. Quali caratteristiche presenta la struttura dell’Orlando furioso?

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Che CoSA CI dICono AnCoRA oggI I CLASSICI

Ariosto due modI dI LeggeRe ARIoSTo Si può leggere l’Orlando furioso immergendosi nel suo mondo di avventure e prodigi fantastici, seguendo solo i tanti fili della trama e dimenticando la realtà, ma lo si può leggere anche cercando, dietro a quelle trame, le linee di un discorso che parla di noi e della realtà in cui siamo inseriti: ed è questo a nostro avviso il modo più corretto e più fruttuoso. Ariosto e la modernità Ariosto ci parla non solo perché tocca temi che riguardano l’universale umano, ma perché è uno scrittore che si colloca nel Rinascimento, cioè all’inizio della modernità, di cui noi siamo ancora i prodotti (anche se oggi si parla molto di una fase ulteriore che sarebbe subentrata, la postmodernità: ma non ci sembra che la fase precedente, quella “moderna”, si sia del tutto esaurita, almeno nelle nostre coscienze). Grazia Nidasio, Il duello di Rinaldo e Ruggiero, illustrazione per l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Milano 2009.

moLTepLICITà e dIVenIRe Gli elementi della visione del mondo ariostesca in cui ancora ci riconosciamo possono essere parecchi. La molteplicità affascinante del mondo In primo luogo la molteplicità del mondo, che ci offre infiniti aspetti diversi, non riducibili a una rigida, schematica unità, affascinanti ai nostri occhi proprio perché infiniti e diversi. La continua trasformazione In secondo luogo il divenire di questi aspetti, che continuamente si trasformano, mettendoci magari in crisi a causa del nostro bisogno di stabilità e di certezze, ma che per altri versi possono darci un senso euforico di libertà da costrizioni e meccanismi ripetitivi. L’arbitrio del caso Poi il capriccio del caso: l’idea che la nostra vita è sottoposta al suo arbitrio, che un accidente fortuito ci si può sempre presentare dinanzi, che una certa scelta o un certo evento possono cambiare tutto il corso della nostra esistenza. Ma se Boccaccio, e dopo di lui Machiavelli, ci prospettano la necessità di farci trovare preparati di fronte agli eventi, di contrastare il caso con l’«industria» o la «virtù», di disporre ripari alla sua azione che possano neutralizzare o almeno contenere i suoi effetti, la posizione di Ariosto su questo punto è più pessimistica: la sua visione del caso non ci infonde fiducia nella possibilità di fronteggiarne e regolarne l’arbitrio.

L’ApeRTuRA dISponIBILe Il rifiuto della rigidezza dogmatica L’atteggiamento che Ariosto prospetta dinanzi a un reale molteplice e mobile è quello che dovrebbe essere ancora il nostro, l’apertura, la disponibilità a saggiare tutte le possibilità, il rifiuto di ogni rigidezza dogmatica, che si fissi su un’unica prospettiva senza prenderne in considerazione nessun’altra. Questa disponibilità ci deve indurre ad assumere un contegno aperto anche dinanzi agli altri uomini, alle loro debolezze, ai loro vizi e alle loro qualità, a non assumere mai un atteggiamento univoco e aprioristico, a valutare sempre ogni lato della realtà, ad essere sempre pronti a correggere i nostri giudizi e le nostre valutazioni.

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Capitolo 5 · Ludovico Ariosto

L’adattamento pragmatico Ciò comporta anche il sapersi adattare realisticamente e pragmaticamente alla mutevolezza del caso, perché irrigidirsi in un’unica posizione può portare a conseguenze gravemente negative, a rovesci e a sconfitte.

IL deSIdeRIo Il desiderio e il continuo inseguimento di obiettivi Un altro tema ariostesco che affronta aspetti universalmente umani e quindi tocca anche noi è quello del desiderio: l’idea che la vita sia una ricerca inesausta, che ci spinge a inseguire certi obiettivi, la conquista di una persona amata, di un oggetto materiale, di una posizione nella società, di un risultato nello studio o nel lavoro, obiettivi che ci balenano dinanzi e che magari ci sfuggono continuamente, lasciandoci delusi, oppure che, una volta raggiunti si rivelano incapaci di appagarci.

so nei suoi «alti pensier» di politico, può difficilmente far posto fra essi ai versi del poeta. Questa punta polemica ci richiama l’indifferenza di certi politici odierni per la cultura, una cosa che «non si mangia», o la loro ignoranza, rivelata dal loro uso della lingua italiana o a volte persino da clamorose gaffes. Più in generale, ci fa riflettere ancora una volta sulla marginalizzazione della letteratura e della cultura umanistica nella realtà attuale, specie in Italia, sulla sua perdita di prestigio sociale.

La perdita dell’equilibrio interiore In tutti i casi, il rischio è quello di perdere il nostro equilibrio interiore, o, come dice Ariosto, il «senno»: infatti il senno perso quaggiù che Astolfo ritrova sulla Luna è stato smarrito o inseguendo un amore, o cariche onorifiche, o ricchezze, o beni di lusso, o l’appoggio di potenti, o «magiche sciocchezze», che il poeta guarda con ironico disincanto. Alla follia umana Ariosto oppone un saggio epicureismo di tipo oraziano, che consiste nel contenere il desiderio e nel mantenere il distacco dalle cose, e che consente la serenità dell’animo.

IL VALoRe deLLA poeSIA Ariosto è figlio della civiltà umanistica, quindi nella sua opera troviamo, come è facile aspettarsi, il culto della poesia, dei valori da essa rappresentati; ma troviamo anche la sottile polemica contro chi quei valori non sa apprezzare. L’ironia sul politico incurante della poesia È il caso del Proemio dell’Orlando furioso, dove l’ironia ariostesca è rivolta contro il cardinale Ippolito che, troppo immerGrazia Nidasio, Rodomonte alla battaglia di Parigi, illustrazione per l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Oscar Mondadori, 2012 (presente nella collana Oscar Junior).

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L’età del Rinascimento

Ripasso visivo

LudoVICo ARIoSTo (1474-1533) Mappe interattive

Ripasso interattivo

eLemenTI BIogRAFICI

• Nato a Reggio Emilia nel 1474, trascorre tutta la sua esistenza a Ferrara, presso gli estensi • I rapporti con la corte sono complessi: legato agli Este per necessità economiche, rivendicherà sempre la sua autonomia di intellettuale

• Svolge diversi incarichi diplomatici. Muore a Ferrara nel 1533 poeTICA e penSIeRo

• Concepisce la realtà come mutevole e inafferrabile: la fortuna esercita la sua influenza in modo del tutto imprevedibile • Descrive la realtà con intenti conoscitivi e con spirito liberamente critico

• Non assume mai una prospettiva di giudizio rigida e univoca (pluralismo prospettico)

• Propone un approccio ironico e distaccato per

cogliere gli aspetti contrastanti dell’esperienza umana

opeRe mInoRI poeSIA LIRICA • componimenti in latino e in volgare (Rime)

LeTTeRe • documenti privati non destinati alla pubblicazione

CommedIe • La Cassaria, • I Suppositi, • Il Negromante, • La Lena, • Gli Studenti

SATIRE • componimenti in terzine dantesche, sul modello di Orazio, di stile dimesso e colloquiale

ORLANDO FURIOSO

mATeRIA

• Continuazione dell’Or-

lando innamorato di Boiardo • Sono tre i principali orientamenti narrativi: la guerra tra cristiani e pagani, l’amore di Orlando per Angelica e le vicende di Ruggiero e Bradamante

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STRuTTuRA e TemI

• Si tratta di un poema

cavalleresco in ottave composto di 46 canti • I temi principali, sapientemente intrecciati, sono: la guerra, l’amore, l’avventura, la magia, la presenza del fiabesco e del meraviglioso

meCCAnISmI nARRATIVI

• Uso della tecnica

dell’entrelacement • La trama ruota attorno al motivo dell’ “inchiesta”, legato a una concezione labirintica dello spazio e del tempo • Il racconto è guidato dal giudizio critico e ironico dell’autore • Limitazione dell’onniscenza del narratore • Presenza di interventi diretti della voce narrante

LInguA e STILe

• Impasto linguistico

equilibrato ed uniforme secondo i precetti di Bembo (classicismo volgare)

In sintesi

LudoVICo ARIoSTo (1474-1533) Verifica interattiva

Massimo esponente del Rinascimento poetico italiano, Ariosto visse gran parte della sua vita a Ferrara, al servizio dei signori d’Este. La condizione di intellettuale cortigiano gli garantì la sicurezza economica e nello stesso tempo gli impose gravosi incarichi politici e diplomatici, che il poeta seppe svolgere con accortezza e realismo, ma che sentì sempre come estranei alla propria indole e contrastanti con la vocazione letteraria. L’aspirazione a una vita tranquilla e contemplativa e la malcelata insofferenza nei confronti dell’ambiente di corte si riflettono nella sua opera, che rivela una straordinaria capacità di penetrare con acutezza e disincanto la natura umana e la realtà.

LA pRoduzIone LIRICA Comprende liriche latine, risalenti al periodo giovanile (1494-1503), e rime in volgare, composte lungo tutto l’arco dell’esistenza del poeta e pubblicate postume (1546). Le prime sono espressione della formazione umanistica di Ariosto e del suo amore per i classici latini, anche se non mancano riferimenti realistici alla società contemporanea. Gli spunti personali s’intensificano nelle rime in volgare, molte delle quali sono incentrate sull’amore per Alessandra Benucci, rappresentato in toni intimi e affettuosi assai distanti dai modi rarefatti della lirica petrarchesca, che pure esercita un influsso notevole sul linguaggio poetico di Ariosto.

Le CommedIe Incaricato di allestire gli spettacoli scenici per le feste di corte, Ariosto non si limitò a riproporre testi latini tradotti e adattati al nuovo contesto di fruizione, com’era consuetudine, ma inaugurò una produzione originale di commedie in volgare, prima in prosa (La Cassaria e I Suppositi, 1508-09) poi in versi (Gli Studenti, 1518-19, rimasta incompiuta; Il Negromante, 1520; La Lena, 1528): esse segnano la “rinascita” di questo genere letterario d’ispirazione classica in età moderna. I modelli sono i commediografi latini e principalmente Plauto, ma si nota anche un’influenza della produzione novellistica italiana.

L’epISToLARIo Si tratta di 214 lettere, sia private sia ufficiali, risalenti al periodo 1498-1532. Non essendo state composte in vista della pubblicazione, esse sono scritte in uno stile semplice e immediato e fanno emergere il buon senso pratico con cui Ariosto seppe affrontare le diverse situazioni in cui si trovò coinvolto.

Le SATIRE Sono sette componimenti in forma di lettere poetiche (in terzine dantesche, come i Capitoli) composte tra il 1517 e il 1525 e pubblicate postume. Ispirate alle Satire e alle Epistole del poeta latino Orazio (I secolo a.C.), le Satire di

Ariosto hanno in comune con il modello la varietà dei temi, i riferimenti autobiografici, il tono colloquiale e apparentemente dimesso, l’impostazione dialogica, la struttura divagante, l’ironia bonaria con cui si rappresentano i difetti degli uomini, l’esaltazione di un ideale di vita quieta e libera da condizionamenti esterni. La rivendicazione dell’indipendenza personale come valore supremo è strettamente connessa alla polemica nei confronti dell’ambiente cortigiano, che limita la libertà dell’intellettuale costringendolo ad assecondare in tutto la volontà del principe.

L’ORLANDO FURIOSO Nel 1505 Ariosto incominciò a comporre l’Orlando furioso, il poema cavalleresco cui è principalmente legata la sua fama. A una prima edizione, pubblicata nel 1516, ne seguì un’altra nel 1521 e poi quella definitiva nel 1532, nella quale il poeta ampliò la materia (da 40 a 46 canti) e adeguò la lingua ai canoni classicisti fissati da Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525), che avevano indicato nel fiorentino toscano del Trecento il modello linguistico di riferimento. Nella scelta dell’argomento, Ariosto opera una fusione tra materia carolingia e materia bretone, rifacendosi all’incompiuto Orlando innamorato di Boiardo, di cui riprende la trama dal punto in cui la narrazione era stata interrotta; reminiscenze classiche si colgono inoltre in diversi episodi e strutture espressive. Tra i numerosi fili narrativi di cui l’Orlando furioso si compone, se ne possono individuare tre principali: la guerra tra il re africano Agramante e Carlo Magno; l’amore infelice e “folle” del paladino Orlando per Angelica; l’amore tra Bradamante e Ruggiero, i progenitori della casata d’Este. Quest’ultimo è il nucleo narrativo intorno al quale convergono i motivi celebrativi che non possono mancare in un’opera legata all’ambiente cortigiano, anche se il pubblico cui Ariosto si rivolge non è rappresentato solo dalla corte ferrarese: l’opera è infatti pensata per la diffusione attraverso la stampa e s’indirizza a una corte “ideale” costituita dalle persone colte di tutti i centri italiani. Il poema delinea l’immagine di una realtà labirintica, infinitamente varia e dominata dalla Fortuna, nella quale i personaggi si muovono alla ricerca costantemente inappagata di oggetti irraggiungibili o che si rivelano illusori. Al disordine della materia fa da contrappunto l’ordine armonico della narrazione, che compone le molteplici vicende in una struttura perfettamente organica e coerente. In questo senso l’opera rappresenta compiutamente l’ideale rinascimentale dell’uomo che domina razionalmente la realtà e, sul piano estetico, dell’artista che dà forma al caos della materia così come Dio ha plasmato il mondo.

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L’età del Rinascimento

Bibliografia La critica

Per la ricerca nel web

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e. saCCone, Il “soggetto” del «Furioso» e altri saggi tra Quattro e Cinquecento, Liguori, Napoli 1974 • C. segRe, Struttura dialogica delle «Satire» ariostesche, in Semiotica filologica, Einaudi, Torino 1979 • R. alahique Pettinelli, L’immaginario cavalleresco nel Rinascimento ferrarese, Bulzoni, Roma 1983 • R. BRusCagli, Stagioni della civiltà estense, Nistri-Lischi, Pisa 1983 • m. santoRo, L’anello di Angelica, Federico & Ardia, Napoli 1983 • g. dalla Palma, Le strutture narrative dell’«Orlando Furioso», Olschki, Firenze 1984 • R. CeseRani, Due modelli culturali e narrativi nell’«Orlando Furioso», in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXI, 1984 • m. BeeR, Romanzi di cavalleria. Il «Furioso» e il romanzo italiano del primo Cinquecento, Bulzoni, Roma 1987 • m. santoRo, Ariosto e il Rinascimento, ESI, Napoli 1989 • C. segRe, I pazzi e la luna dietro al monte, in Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Einaudi, Torino 1990 • s. Zatti, Il «Furioso» tra epos e romanzo, Pacini Fazzi, Lucca 1990 • C. Bologna, Satire e Orlando furioso di L. Ariosto, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Torino 1993, pp. 181-352 • a. Casadei, Il percorso del «Furioso», Il Mulino, Bologna 1993 • F. PiCChio, Ariosto e Bacco. I codici del sacro nell’«Orlando furioso», Paravia Scriptorium, Torino 1999 • id., Ariosto e Bacco due. Apocalisse e nuova religione nel «Furioso», Pellegrini, Cosenza 2007 • g. FeRRoni, Ariosto, Salerno, Roma 2008 • l. BolZoni, m.C. CaBani, a. Casadei (a cura di), Ludovico Ariosto. Nuove prospettive e ricerche in corso, Serra, Pisa-Roma 2009 • s. Jossa, Ariosto, Il Mulino, Bologna 2009 • m. PRaloRan, Le lingue del racconto. Studi su Boiardo e Ariosto, Bulzoni, Roma 2009 • g. VentuRi (a cura di), L’uno e l’altro Ariosto. In corte e nelle delizie, Olschki, Firenze 2011.

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Competenze Analisi interattiva

T10

La maga Alcina dall’Orlando furioso, VII, 10-18 Dopo che Bradamante l’ha liberato dal castello in cui il mago Atlante lo teneva prigioniero, il cavaliere Ruggiero è trascinato via dall’ippogrifo, che lo depone sulle rive di un’isola orientale. Qui incontra Astolfo, trasformato in mirto dalla perfida maga Alcina, che è solita mutare in piante, animali o fonti d’acqua gli amanti di cui vuole disfarsi. Astolfo dice a Ruggiero che in una piccola parte dell’isola è confinato il regno di Logistilla, sorella di Alcina e Morgana, virtuosa tanto quanto le altre due sono corrotte e malvagie. Astolfo invita Ruggiero a evitare il dominio di Alcina, ed egli si avvia a piedi verso il regno di Logistilla, ma il cammino gli è sbarrato da un branco di mostri; quando sta per essere sopraffatto, due bellissime fanciulle escono dalla città di Alcina e vengono in suo soccorso. Dispersi i mostri, le fanciulle lo invitano a entrare nella città dalle altissime mura d’oro, dove sorge uno splendido palazzo. Ad attenderlo c’è Alcina con tutta la sua corte.

1. era escellente: eccelleva. 2. fiorita etade: gioventù. 3. me’: meglio (apocope). 4. finger: rappresentare.

10

Non tanto il bel palazzo era escellente1 perché vincesse ogn’altro di ricchezza, quanto ch’avea la più piacevol gente che fosse al mondo e di più gentilezza. Poco era l’un da l’altro differente e di fiorita etade2 e di bellezza: sola di tutti Alcina era più bella, sì come è bello il sol più d’ogni stella.

11

Di persona era tanto ben formata, quanto me’3 finger4 san pittori industri5; con bionda chioma lunga et annodata: oro non è che più risplenda e lustri. Spargeasi per la guancia delicata misto color di rose e di ligustri6; di terso avorio era la fronte lieta, che lo spazio finia con giusta meta7.

5. industri: abili. 6. ligustri: fiori bianchi. 7. che … meta: proporzionata in modo armonioso (letteralmente: che si esten-

deva nello spazio assegnatole dalla natura con giusto limite).

351

L’età del Rinascimento

12

Sotto duo negri e sottilissimi archi son duo negri occhi, anzi duo chiari soli, pietosi a riguardare, a mover parchi8, intorno cui par ch’Amor scherzi e voli, e ch’indi tutta la faretra scarchi9 e che visibilmente i cori involi10: quindi il naso per mezzo il viso scende, che non truova l’Invidia ove l’emende11.

13

Sotto quel sta, quasi fra due vallette12, la bocca sparsa di natio cinabro13 quivi due filze son di perle elette14, che chiude et apre un bello e dolce labro, quindi15 escon le cortesi parolette da render molle ogni cor rozzo e scabro16, quivi si forma quel suave riso, ch’apre a sua posta17 in terra il paradiso.

14

Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte; il collo è tondo, il petto colmo e largo: due pome acerbe, e pur d’avorio fatte, vengono e van come onda al primo margo18, quando piacevole aura il mar combatte. Non potria l’altre parti veder Argo19: ben si può giudicar che corrisponde a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde.

15

Mostran le braccia sua misura giusta; e la candida man spesso si vede lunghetta alquanto e di larghezza angusta20, dove né nodo21 appar, né vena escede22. Si vede al fin de la persona augusta il breve, asciutto e ritondetto piede. Gli angelici sembianti nati in cielo non si ponno23 celar sotto alcun velo.

8. parchi: lenti. 9. scarchi: scarichi. 10. i cori involi: rubi i cuori. 11. l’Invidia … emende: neppure l’Invidia trova un difetto da correggere. 12. vallette: fossette delle guance. 13. cinabro: colore rosso vivo. 14. quivi … elette: qui ci sono due file di denti simili a perle scelte.

352

15. quindi: di qui. 16. scabro: ruvido. 17. a sua posta: a suo piacere. 18. vengono … margo: ondeggiano come l’acqua sulla riva del mare. 19. Non … Argo: neppure Argo sarebbe in grado di scorgere le altre parti. Argo era un personaggio mitologico dotato di cento occhi.

20. angusta: stretta. 21. nodo: escrescenza. 22. escede: fuoriesce. 23. ponno: possono.

Nuovo esame di Stato

16

Avea in ogni sua parte un laccio teso24, o parli o rida o canti o passo muova: né maraviglia è se Ruggier n’è preso, poi che tanto benigna se la truova. Quel che di lei già avea dal mirto inteso25, com’è perfida e ria, poco gli giova; ch’inganno o tradimento non gli è aviso26 che possa star con sì soave riso.

17

Anzi pur creder vuol che da costei fosse converso Astolfo in su l’arena27 per li suoi comportamenti ingrati e rei, e sia degno di questa e di più pena: e tutto quel ch’udito avea di lei, stima esser falso, e che vendetta mena, e mena astio et invidia quel dolente a lei biasmare28, e che del tutto mente.

18

La bella donna29 che cotanto amava, novellamente30 gli è dal cor partita; che per incanto Alcina gli lo lava31 d’ogni antica amorosa sua ferita; e di sé sola e del suo amor lo grava32, e in quello essa riman sola sculpita33: sì che scusar il buon Ruggier si deve, se si mostrò quivi34 inconstante e lieve35.

24. Avea … teso: ogni suo atto era come una trappola tesa ad adescare amanti. 25. dal mirto inteso: compreso dal mirto, ovvero da Astolfo, che era stato trasformato in mirto da Alcina. 26. non gli è aviso: non gli pare credibile. 27. converso … in su l’arena: trasformato sulla spiaggia.

28. e che … biasmare: e che sentimenti di rivincita, risentimento e invidia inducono Astolfo ad accusare ingiustamente Alcina. 29. La bella donna: Bradamante. 30. novellamente: immediatamente, improvvisamente. 31. gli lo lava: gli elimina dal cuore.

32. lo grava: lo occupa. 33. e … sculpita: e nel cuore (di Ruggiero) solo l’immagine di Alcina rimane scolpita. 34. quivi: in questa occasione. 35. lieve: superficiale, malaccorto.

353

L’età del Rinascimento

COMPRENSIONE E ANALISI

> 1. Il passo è divisibile in due parti, in ognuna delle quali prevale una diversa focalizzazione: a partire da quale ottava ha inizio la seconda parte? Quale parola di tale ottava avverte il lettore del cambio di focalizzazione?

> 2. In quali punti il narratore onnisciente interviene a commentare il comportamento di Ruggiero? Con quali riflessioni?

> 3. Aiutandoti con le note fornite, svolgi la parafrasi delle ottave 11-13. > 4. Chiarisci l’immagine presente ai versi 4-5 dell’ottava 12 («intorno cui par ch’Amor scherzi e voli, / e ch’indi tutta la faretra scarchi»).

> 5. Quale particolare nella descrizione fisica di Alcina non rientra nello stereotipo della donna angelicata e dovrebbe dunque mettere sull’avviso Ruggiero circa la sua natura di maga?

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti. GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dalle ottave tratte dal canto VII dell’Orlando furioso di Ariosto, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: – l’offuscamento delle capacità critiche causato dall’amore; – i vocaboli e le immagini che richiamano il modello petrarchesco, reinterpretato da Ariosto con un evidente atteggiamento ironico; – il valore semantico delle rime nell’ottava 10, considerando che i versi descrivono la corte di Alcina. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo. Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: – tema dominante dell’opera ariostesca è certamente il carattere ingannevole degli oggetti del desiderio umano, ovvero il gioco delusorio di apparenze che costituisce tutta la realtà; – l’edonismo come caratteristica peculiare delle corti italiane rinascimentali, che la letteratura e l’arte coeve hanno interpretato raffigurando un’élite raffinata e colta, protesa verso un’immagine di esistenza serena e gioiosa in una sfera ideale separata dalla vita comune e immune dagli urti della realtà; – le innumerevoli trasformazioni che hanno subìto nei secoli i canoni estetici femminili: dalle proporzioni armoniose classiche (si pensi alla Venere di Milo) alle forme straripanti (tipiche delle donne ritratte nel Seicento da Rubens), da curve sensuali (promosse dal cinema degli anni Cinquanta e Sessanta) a corpi androgini. Quali sono le ricadute che può avere sulla società l’imposizione di un canone estetico?

354

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito filosofico argomento

Follia e creatività

Lo psichiatra Eugenio Borgna (1930), docente presso l’Università di Milano e autore di numerosi saggi divulgativi, nel volume Il tempo e la vita riflette sul significato della follia nella vita dell’uomo: La follia non è qualcosa di statico, e di immobile, ma qualcosa di dinamico, qualcosa che si muove nel tempo, e che le circostanze della vita esasperano, o leniscono. Non c’è follia, del resto, che non si accompagni a fragilità e a sensibilità, a dolore e sofferenza dell’anima, a nostalgia di vicinanza e di amore; e queste esperienze psicologiche e umane sono talora premessa alla insorgenza di significative forme di creatività. (E. Borgna, Il tempo e la vita, Feltrinelli, Milano 2015)

Ispirandoti al passo citato, alla trattazione della follia nel poema di Ariosto e ad altri autori a te noti, scrivi due testi argomentativi antitetici: un “Elogio della normalità” e un “Elogio della follia”. Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto.

355

Capitolo 6

Niccolò Machiavelli Il metodo della scienza moderna Machiavelli, ai primi del Cinquecento, inaugura il metodo della scienza moderna, che consiste nel basarsi sull’osservazione diretta della realtà, sui dati offerti dall’esperienza. È il metodo che sarà poi di Galileo e delle scienze fisico-naturali: egli prima ancora lo applica alla scienza politica, poiché costruisce le sue teorie partendo non da princìpi astratti ma dalla «verità effettuale della cosa».

constata che il politico, se vuole raggiungere i suoi fini, creare lo Stato e mantenerlo saldo ed efficiente, deve all’occorrenza saper essere «non buono», dovendo operare fra tanti che «non sono buoni». Non vuole pertanto giustificare tali comportamenti, osserva solo che il giudizio politico sugli atti di uno statista è autonomo da quello morale, deve basarsi su un metro di misura specifico.

Passione e rigore

Il pensiero di Machiavelli nasce da una situaL’autonomia del giudizio politico zione storica precisa, la decadenza degli Stati itaDi Machiavelli si è tramandata nei secoli un’im- liani, che nella sua epoca stavano per perdere la magine negativa, quella del sovvertitore della morale, del consigliere di atti subdoli e perversi, tanMi è parso più conveniente andare to che “machiavellico” nel parlare comune evoca drieto alla verità effettuale della cosa l’idea dell’astuzia e dell’inganno privi di scrupoli. che alla imaginazione di essa È un’immagine del tutto falsa. Machiavelli tiene ben ferma la morale tradizionale: semplicemente (Principe, cap. XV) 356

Videolezione d’autore

realtà così com’è, l’incitamento all’energia attiva, all’intraprendenza, l’esaltazione della capacità umana di lottare contro le avversità e superarle.

È principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme (Principe, cap. XII)

Lo stile Alla forza e alla vivezza di questo messaggio contribuisce lo stile di Machiavelli: uno stile lontano dalla prosa classicheggiante rinascimentale e dalla sua ornamentazione retorica, vigoroso, incisivo, lucido a volte, altre volte pervaso da un’intensa carica passionale e quasi profetica, pieno di immagini corpose che si incidono potentemente nella memoria del lettore.

La Mandragola

loro indipendenza, sotto l’urto dei grandi Stati europei. Il suo intento è fornire a un principe gli strumenti per impedire questa catastrofe: di qui deriva lo straordinario calore passionale che anima le sue pagine e le rende così coinvolgenti; alla passione si unisce poi il lucido rigore del ragionare e dell’argomentare, che ne accresce il fascino.

Machiavelli non è solo teorico della politica, ma anche scrittore: come tale ci ha lasciato un capolavoro, la Mandragola, che traccia una diagnosi critica crudele dei costumi del suo tempo, diagnosi che si può ancora applicare alla realtà attuale: non a caso la commedia è spesso portata in scena oggi.

Lo Stato e il cittadino Dalle teorie machiavelliane emerge un’idea dello Stato e del cittadino che costituisce ancora una lezione per noi oggi: uno Stato fondato sulle buone leggi, che garantisca un vivere civile ordinato e pacifico, arginando le spinte egoistiche degli uomini; l’amore per la libertà, l’onestà, la solidarietà dei cittadini, che sono il cemento del vivere collettivo. Un altro messaggio che scaturisce da quelle teorie è il rifiuto del fatalismo, che porta all’accettazione rassegnata e passiva della 357

L’età del Rinascimento

1 La formazione

Gli incarichi politici

Le missioni diplomatiche

Cesare Borgia

La vita Videolezione

L’attività politica

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese di modesta agiatezza (ricavava non cospicue rendite da alcune proprietà terriere) e di buone tradizioni culturali. Dei primi anni di Niccolò abbiamo scarse notizie. Ebbe un’educazione umanistica, basata sui classici latini, ma non apprese il greco, e quindi non era in grado di leggere nell’originale gli scrittori greci di storia e politica. La prima notizia sicura sulle sue attività è la sua collocazione tra gli oppositori di Savonarola ( Il contesto, p. 125), che dominava la scena politica della città: nel febbraio del 1498 concorse alla segreteria della seconda cancelleria del Comune, ma fu superato dal candidato del partito savonaroliano. Poté ottenere la carica solo dopo la caduta del frate, nel giugno di quell’anno; e nel luglio divenne anche segretario di un’altra magistratura, i Dieci di libertà e pace. I suoi incarichi gli conferivano grandi responsabilità nel campo della politica interna, estera e militare della Repubblica; la sua posizione implicava missioni diplomatiche presso Stati italiani e stranieri e la tenuta di una rete di corrispondenze. Era anche il collaboratore di fiducia del gonfaloniere a vita Pier Soderini. I quattordici anni della segreteria furono perciò oltremodo preziosi per Machiavelli, perché gli consentirono di accumulare un’esperienza diretta della realtà politica e militare del tempo, da cui egli poté trarre lo spunto per le riflessioni, le teorie e le analisi trasferite poi nelle sue opere. Segnaliamo le principali tra le missioni diplomatiche da lui compiute in questi anni. Tra il luglio e il dicembre del 1500 fu in Francia presso il re Luigi XII, dove cominciò a conoscere la forte monarchia francese e la salda struttura di quello Stato assoluto moderno, per cui ebbe poi sempre ammirazione, additandolo come un modello per uno Stato italiano. Nel giugno del 1502 compì una missione presso Cesare Borgia, il duca Valentino, che, con l’appoggio del padre, papa Alessandro VI, si era impadronito del Ducato

Machiavelli e il suo tempo

Riceve un’educazione umanistica, basata sui classici latini Nasce a Firenze da un’agiata famiglia borghese

È tra gli oppositori del regime di Savonarola

Linea del tempo

Legazioni e commissarie Scritti sulla politica italiana

Assume la segreteria della seconda cancelleria del Comune e dei Dieci di libertà e pace

Ritratto delle cose della Magna Ritratto delle cose di Francia Diviene segretario della magistratura dei Nove, che si occupa della milizia

Missioni diplomatiche in Francia e presso Cesare Borgia

Periodo giovanile

1469

1492 1494

Morte di Lorenzo il Magnifico e fine della politica di equilibrio in Italia. Scoperta dell’America

358

Missioni diplomatiche presso l’imperatore e in Francia

Periodo della segreteria

1498 1500-03

Carlo VIII, re di Francia, scende in Italia. A Firenze i Medici vengono cacciati: Savonarola istituisce una Repubblica teocratica

Savonarola è condannato a morte per eresia: a Firenze si afferma una Repubblica oligarchica

1504

1506

Gli spagnoli s’impadroniscono del Regno di Napoli, che manterranno per due secoli

1507-10

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

di Urbino, e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e spregiudicato, che aspirava a costruirsi un vasto Stato nell’Italia centrale, sino a dominare la stessa Toscana. Nel Principe proprio la figura del duca Valentino viene assunta come esempio della «virtù» che deve possedere un principe nuovo, che voglia costruire una forte compagine statale, capace di opporsi alla crisi che stava travolgendo l’Italia. Tra l’ottobre del 1502 e il gennaio 1503 fu di nuovo presso Cesare Borgia in Romagna e poté seguire con i suoi occhi l’abile politica con cui il duca riportò l’ordine in quella zona travagliata da conflitti ancora feudali tra i tirannelli locali; si trovava a Senigallia quando il duca attirò astutamente in un agguato e fece sterminare i partecipanti a una congiura ordita contro di lui da vari di questi signorotti: la freddezza e la decisione spietata del personaggio colpirono di nuovo fortemente Machiavelli, che del fatto stese una relazione (Del modo tenuto dal duca Valentino per ammazzar Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini in Senigaglia). Nell’estate morì il papa Alessandro VI, e il successore, Pio III, morì a sua volta dopo soli due mesi. In ottobre Machiavelli si recò a Roma per seguire il conclave, da cui era destinato a uscire papa Giulio II, e poté assistere alla rovina della costruzione politica di Cesare Borgia, che, perduto l’appoggio del padre, non riuscì neppure ad evitare l’elezione del suo più accanito nemico. Dopo poco tempo la parabola del duca Valentino si concluse con la sua stessa morte.

La riflessione politica e le missioni diplomatiche Nel frattempo Machiavelli si dedicò anche all’attività letteraria e scrisse in versi una cronaca delle vicende italiane fra il 1494 e il 1504, il Decennale primo, che pubblicò nel 1506. In questi anni maturarono in lui le teorie, poi sostenute nel Principe e nell’Arte della guerra, sulla necessità di evitare le infide milizie mercenarie e di creare un esercito permanente, alle dirette dipendenze dello Stato, composto non di soldati di ventura ma di cittadini in armi. Machiavelli si adoperò per convincere i maggiorenti della città a creare questa milizia comunale e si recò nelle campagne per arruolare i soldati. Costituita la magistratura dei Nove, preposta a dirigere questa milizia, Machiavelli ne divenne segretario.

Il problema delle milizie

Mandragola

Vita di Castruccio Castracani Arte della guerra

Istorie fiorentine Clizia

Principe Inizia i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

È licenziato dagli incarichi pubblici

È incarcerato con il sospetto di complotto contro i Medici e poi rilasciato. Si ritira all’Albergaccio

1512

1513

La Lega Santa sconfigge la Francia, alleata di Firenze: i Medici tornano al potere

1515

Ricomincia a ottenere incarichi pubblici

Ottiene l’incarico di scrivere una storia di Firenze

Periodo del ritiro forzato

1518

Francesco I di Francia conquista Milano

Cade in disgrazia per il suo riavvicinamento ai Medici. Muore il 21 giugno

Graduale rientro nella vita pubblica

1519

1520

Muore Lorenzo de’ Medici e gli succede il cardinale Giulio, futuro papa Clemente VII

Inizio del conflitto tra l’imperatore Carlo V e Francesco I di Francia

1525

1527

I mercenari di Carlo V saccheggiano Roma. A Firenze i Medici sono nuovamente scacciati e viene ristabilita la Repubblica

359

L’età del Rinascimento

La Germania e la Francia

Tra il 1507 e il 1508, insieme con l’amico Francesco Vettori, compì una lunga missione in Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo. Durante il viaggio attraverso Svizzera e Germania restò ammirato dalla compattezza delle comunità di quei popoli e dalle loro forti tradizioni civili e guerriere, che gli richiamavano quelle dei primi tempi della Roma repubblicana. Le sue osservazioni furono affidate al Rapporto delle cose della Magna (1509; la Magna è la Germania), poi rielaborato col titolo Ritratto delle cose della Magna (1512). Tra il luglio e il settembre 1510 fu di nuovo presso il re di Francia Luigi XII, per fungere da mediatore in un conflitto con il papa Giulio II, e ne ricavò un Ritratto delle cose di Francia. Nel settembre 1511 si profilò inevitabilmente lo scontro tra la Francia, di cui la Firenze repubblicana era alleata, e la Lega Santa capeggiata dal papa; con la battaglia di Ravenna (1512) i francesi sconfissero gli spagnoli, ma poi furono a loro volta sconfitti dagli svizzeri, ed anche le truppe fiorentine furono battute dalle milizie pontificie e spagnole a Prato: la Repubblica cadde, i Medici tornarono a Firenze e Machiavelli venne licenziato da tutti i suoi incarichi.

L’esclusione dalla vita politica Il ritorno dei Medici a Firenze

L’esclusione dalla vita politica, che per quindici anni aveva costituito l’interesse dominante di Machiavelli, fu per lui un colpo durissimo. A ciò si aggiunse il fatto che nel febbraio 1513 fu sospettato d’aver preso parte ad una congiura antimedicea, torturato e tenuto in prigione per quindici giorni. Liberato in occasione dell’ascesa al pontificato di Giovanni de’ Medici (Leone X), si ritirò, in una sorta di esilio forzato, nel suo podere dell’Albergaccio, presso San Casciano. Lì, nell’inattività a cui era costretto, si dedicò agli studi, tenendo però i contatti con la vita politica attraverso la cor-

Carta interattiva

I luoghi e la vita di Machiavelli PARIGI

1 FIRENZE Nasce nel 1469 da una famiglia borghese di modesta agiatezza. Nel 1498 ottiene l’incarico di segretario della cancelleria del Comune.

6 FIRENZE

Nel 1512 i Medici tornano a Firenze e Machiavelli viene licenziato da tutti i suoi incarichi e incarcerato con l’accusa di congiura. Liberato in occasione dell’ascesa al pontificato di Giovanni de’ Medici (Leone X), si ritira all’Albergaccio. 5 TIROLO

Tra il 1507 e il 1508 insieme con l’amico Francesco Vettori, svolge una missione in Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo, per poi intraprendere un viaggio attraverso la Svizzera e la Germania.

TIROLO

ROMAGNA 2 PARIGI Nel 1500 è in Francia presso il re Luigi XII. Nel 1510 è di nuovo presso Luigi XII, per fungere da mediatore in un conflitto con il papa Giulio II.

360

4 ROMA

FIRENZE

3 ROMAGNA Tra il 1502 e il 1503 è presso Cesare Borgia in Romagna.

Segue il conclave del 1503 che nominerà papa Giulio II. ROMA

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli Il Principe, i Discorsi, la Mandragola

L’ultima Repubblica fiorentina

rispondenza con Francesco Vettori, ambasciatore a Roma. In questo periodo scrisse il Principe (1513) e probabilmente iniziò i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio; l’amarezza trovò anche sfogo in una commedia, la Mandragola (1518). La lontananza dalla vita politica attiva era però per lui intollerabile, quindi cercò un riavvicinamento ai Medici, al fine di riottenere qualche incarico. Con questo intento il Principe fu dedicato nel 1516 a Lorenzo de’ Medici, a cui il papa aveva affidato il governo di Firenze. Tuttavia le speranze dello scrittore andarono deluse, poiché i Medici continuarono a guardarlo con diffidenza. Si avvicinò ad un gruppo di giovani intellettuali aristocratici, ammiratori della Roma repubblicana, che si ritrovavano nei giardini di palazzo Rucellai (gli Orti Oricellari), e a due di essi, Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, dedicò i Discorsi. Nel 1519, morto Lorenzo, il governo della città fu assunto dal cardinale Giulio de’ Medici, più favorevole a Machiavelli, che vide così rinascere la speranza di un rientro nella vita politica. Il cardinale gli procurò l’incarico, da parte dello Studio fiorentino, di stendere una storia di Firenze, con adeguato compenso. Nel 1521 stampò i dialoghi dell’Arte della guerra, dedicati al cardinale Giulio. Nello stesso anno, inviato a Carpi per un incarico di poca importanza, strinse amicizia con Francesco Guicciardini, che era governatore della città a nome del papa. Nel 1523 Giulio de’ Medici divenne papa a sua volta con il nome di Clemente VII, ed a lui, nel 1525, Machiavelli offrì, ancora manoscritte, le Istorie fiorentine. Revocata l’interdizione dagli uffici pubblici, cominciò a poco a poco a riottenere vari incarichi, di carattere militare e diplomatico, in Emilia e Romagna, in collaborazione con Guicciardini. Nel 1527 i Medici vennero di nuovo scacciati e si ristabilì la Repubblica: Machiavelli sperava di riottenere l’antica segreteria, ma venne guardato con sospetto e ostilità per il suo riavvicinamento alla Signoria medicea. La delusione fu amara. Ammalatosi all’improvviso, morì il 21 giugno del 1527.

Un ritratto inedito di Machiavelli (Attrib.) Pedro Rubiales, Ritratto di Machiavelli, 1546-47, olio su tavola, Perugia, Collezione Campi-De Angelis.

Acquistato online da un collezionista italiano di «cose machiavelliane», il piccolo dipinto che raffigura un volto maschile di profilo e reca iscritto il nome di Niccolò Machiavelli è oggetto di un interessante dibattito tra studiosi. L’attribuzione e la datazione dell’opera proposte in occasione della sua presentazione al pubblico, avvenuta nel 2014, non trovano infatti tutti concordi. Il profilo dall’espressione poco convenzionale è considerato una scoperta di grande rilievo storico e artistico da chi vi riconosce il più antico, anche se postumo, ritratto di Machiavelli giunto sino a noi: secondo questa ipotesi l’opera sarebbe stata realizzata nel 1546-47 da Pedro Rubiales, detto Roviale Spagnolo (1511 ca.-1582), un bravo allievo dell’artista e scrittore aretino Giorgio Vasari. Per chi vede nel dipinto una copia tarda e di scadente qualità di un ritratto del letterato fiorentino, la presunta vivacità stilistica della tavola diventa invece maldestra fattura.

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L’età del Rinascimento

2 Varietà di toni

Le lettere a Vettori

I Ghiribizzi al Soderini

Analisi interattiva

T1

L’epistolario Le lettere “familiari”, scritte da Machiavelli ad amici e conoscenti, ci sono pervenute solo parzialmente, attraverso autografi o copie. Non sono lettere composte in vista della pubblicazione, quindi non sono letterariamente atteggiate come erano quelle di Petrarca e degli umanisti, che miravano a proporre un’immagine idealizzata di chi scriveva e del suo ambiente: stese con grande immediatezza, intessono un colloquio autentico e libero con i destinatari. In esse si alternano argomenti e toni vari: vi si ritrovano serie riflessioni di teoria politica ed analisi dei problemi contemporanei, ma anche scherzi, motti, facezie, sfoghi di umore, descrizioni di figure e macchiette, spunti di novelle, un materiale a volte giocato su un tono beffardo o sull’allusione oscena, che si colloca in una precisa tradizione, quella “borghese” fiorentina, comica e burlesca. È uno spirito che caratterizza anche la produzione propriamente letteraria di Machiavelli. Tra tutte queste lettere spicca il blocco di quelle scritte a Francesco Vettori posteriormente alla perdita degli incarichi politici, tra il 1513 e il 1515. Spesso sono l’occasione per la riflessione sulla situazione politica, ma non mancano spunti autobiografici e resoconti della propria vita quotidiana. Famosissima è quella del 10 dicembre 1513 ( T1), in cui Machiavelli descrive la sua giornata nell’esilio dell’Albergaccio, le futili occupazioni del mattino e del pomeriggio, a cui si contrappone lo studio serale dei classici, che è l’occasione di un riscatto dalla degradazione e dall’avvilimento di una vita vuota. La lettera è importante anche perché fornisce l’indicazione dell’avvenuta composizione del Principe. Fra le lettere vanno annoverati anche i cosiddetti Ghiribizzi al Soderini, un abbozzo di epistola, indirizzata al nipote del gonfaloniere fiorentino, Giovan Battista Soderini, ma non finita e giuntaci solo in una minuta. Risale presumibilmente al 1506, ed è molto interessante perché contiene in germe alcuni dei punti fondamentali del pensiero di Machiavelli: la necessità di «riscontrare» (cioè di adattare) il proprio modo di procedere con i tempi, assecondando la variabilità della fortuna (tesi poi ripresa nel capitolo XXV del Principe), la conoscenza della realtà che può avvenire sia attraverso l’esperienza diretta sia attraverso quella mediata dai libri, l’idea che «si abbi nelle cose a vedere il fine e non il mezzo».

L’esilio all’Albergaccio e la nascita del Principe: la lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513

• il valore dell’esperienza diretta della realtà • il ruolo della fortuna nelle vicende umane

• la lontananza forzata dalla politica • il colloquio con i classici • la necessità di un’azione decisa e immediata per salvare l’Italia

dalle Lettere

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Temi chiave

La lettera è scritta da Machiavelli nella sua casa di campagna, l’Albergaccio, presso San Casciano in Val di Pesa, dove si trova come confinato dopo il ritorno dei Medici a Firenze (1512) e dopo essere stato privato dei suoi incarichi. La lettera è indirizzata all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede, con il quale Machiavelli tenne un fitto scambio epistolare tra il 1513 e il 1515. In essa lo scrittore, riprendendo punto per punto la lettera a lui precedentemente inviata dal Vettori (23 novembre), descrive il modo in cui trascorre la propria giornata.

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine1. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita2 la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi, ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione3. E di tutte quelle mi venivono nella mente 1. Tarde … divine: è una citazione dal Trionfo dell’eternità di Petrarca («Le grazie divine, anche quando si fanno attendere, sono pur sempre efficaci»), usata scherzo-

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samente per indicare che la lettera, benché giunga dopo un lungo silenzio dell’amico, è molto gradita. 2. perduta … smarrita: si “perde” per sem-

pre, mentre si “smarrisce” solo temporaneamente. 3. donde … cagione: quale potesse essere la causa.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

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tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere4; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le haveva viste5. Honne rihauto per l’ultima vostra de’ 23 del passato6, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico7, e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non gli è saputo grado8. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole9 lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga10, e aspettare tempo che ella lasci far qualche cosa agl’huomini e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar11 più le cose, e a me partirmi di villa12 e dire eccomi. Non posso pertanto, volendovi render pari grazie, dirvi in questa lettera altro che qual sia la vita mia, e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla. Io mi sto in villa, e poiché seguirono quelli miei ultimi casi13, non sono stato, ad accozarli tutti, venti dì a Firenze14. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di mia mano; levavomi innanzi dì, impaniavo15, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo il Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Anphitrione16; pigliavo almeno dua, al più sei tordi. E così stetti tutto settembre; dipoi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano17, è mancato con

4. di tutte … lettere: di tutte (le cause) che mi venivano in mente tenevo poco con­ to, salvo che di questa: dubitavo che aveste smesso di scrivermi perché vi era stato scrit­ to che non avevo accuratamente custodito le vostre lettere (buon massaio), cioè che le facevo leggere ad altri. 5. io sapevo … viste: invece sapevo che nessun altro le aveva viste per opera mia (per mio conto), salvo Filippo Casavecchia (amico di entrambi) e Paolo Vettori (fratello di Francesco). 6. Honne … passato: ho riacquistato il vostro favore (il -ne si riferisce alla grazia di cui parla nelle righe precedenti) con

l’ultima vostra lettera del 23 novembre. 7. ufizio publico: l’incarico di ambasciatore a Roma. 8. perché … grado: chi lascia i propri co­ modi per fare quelli degli altri, so che perde i suoi, e di ciò che fa per gli altri non riceve alcuna gratitudine. 9. si vuole: bisogna. 10. le dare briga: contrastarla. 11. vegliar: vigilare. 12. partirmi di villa: allontanarmi dalla campagna. 13. seguirono … casi: era stato accusato di aver fatto parte di una congiura antimedicea, arrestato e torturato; poi, rico-

nosciuto innocente, era stato liberato. 14. ad accozarli … Firenze: a sommarli tutti, non sono stato venti giorni a Firenze. 15. impaniavo: le panie erano trappole cosparse di una sostanza appiccicosa; gli uccelli che vi si posavano restavano imprigionati. 16. il Geta … Anphitrione: allude ad una novella popolare quattrocentesca in ottave, Geta e Birria, tratta dall’Anfitrione di Plauto. Geta, schiavo di Anfitrione, tornato ad Atene con il padrone, è da lui inviato a casa carico di libri. La novella era molto nota al tempo. 17. badalucco … strano: passatempo (con una sfumatura spregiativa) fatto per dispet­ to ed estraneo alle mie inclinazioni.

Pesare le parole Ufizio (riga 8)

> Qui ha il senso di “carica pubblica”. Proviene dal latino

>

offìcium, fondamentalmente “dovere” ma anche “carica, funzione, servizio”. Nell’italiano attuale il significato più comune di ufficio è “posto di lavoro di un impiegato o di un dirigente”, e si riferisce sia al luogo fisico sia all’attività che vi si svolge. In un’azienda pubblica o privata indica anche un complesso di funzioni omogenee: es. ufficio vendite, ufficio amministrativo. Ma può avere uno dei tanti sensi della parola latina, “cerimonia, funzione religiosa” (es. ufficio funebre) o la liturgia religiosa con cui la Chiesa cattolica santifica le diverse ore del giorno (es. recitare l’ufficio); più rara e aulica è l’accezione di “compito” (es. mancare al proprio ufficio, l’ufficio di madre). L’espressione buoni uffici vale “intervento, raccomandazione” (es. grazie ai buoni uffici dell’onorevole sono riuscito ad avere il finanziamento). Difensore d’ufficio è quello designato dal giudice per chi non può permettersi un avvocato di fiducia. L’espressione d’ufficio indica l’iniziativa autonoma di un’autorità, senza una preventiva istanza (es. contro quel reato il giudice procede d’ufficio). Dal sostantivo deriva l’aggettivo ufficiale, che indica un documento, una delibera, una notizia, un discorso che proviene da un’autorità competente (es. bollettino ufficiale, manifestazione ufficiale, discorso ufficiale). Uffi-

cioso designa invece una comunicazione, una notizia che non è ufficiale (es. in via ufficiosa confermo le prossime dimissioni del Presidente del Consiglio). Il sostantivo ufficiale indica una persona incaricata di un pubblico ufficio (es. ufficiale sanitario, ufficiale giudiziario), e nell’esercito il graduato che ha compiti di comando. Si può vedere dunque quale gamma vastissima di significati può fare capo a una sola radice (e abbiamo ricordato solo quelli principali).

Accozarli

(riga 15)

> Accozzare è composto di a e cozzare (“urtare con vio-

lenza”, da coccia, “testa”, e qui vuol dire “mettere insieme”. Oggi è rimasto nell’uso colto, soprattutto a indicare una mescolanza disordinata (es. accozzare in un discorso idee disparate); più comune è il sostantivo derivato accozzaglia, “raccolta disordinata di cose o persone” (es. il suo pubblico è un’accozzaglia di persone di varia estrazione sociale e di scarsa cultura). Il legame fra “testa” e “urtare” implicito nella parola probabilmente viene dall’osservazione del regno animale, dove in alcune specie i maschi lottano appunto cozzando a cornate (tori, montoni, cervi…).

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mio dispiacere; e quale la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole e vommene18 in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua hore a riveder l’opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alla mane19 o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Frosino da Panzano20 e con altri che voleano di queste legna. E Frosino in spezie21 mandò per certe cataste senza dirmi nulla, e al pagamento mi voleva rattenere dieci lire, che dice haveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca22 in casa Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare il diavolo, volevo accusare il vetturale, che vi era ito per esse per ladro23, tandem24 Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tramontana25 soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti, e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figliuoli26, che pareva il Gabburra27 quando il giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso28, e in specie Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato29. Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare30; ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori31, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori; ricordomi de’ mia32, godomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, domando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, e noto vari gusti e diverse33 fantasie d’huomini. Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata34 mi mangio di quelli cibi che questa mia povera villa, e paululo patrimonio comporta35. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio36, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo37 per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach38, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino39 e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così rinvolto in tra questi pidocchi traggo il cervello di muffa40, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi41. Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango e di loto42, e mi metto panni reali e curiali43; e rivestito condecentemente44 entro nelle antique corti degli antiqui huomini45, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e ch’io nacqui per lui46; dove

18. vommene: me ne vado. 19. qualche … mane: qualche lite in corso. 20. Frosino da Panzano: un amico comune. 21. in spezie: specialmente. 22. a cricca: gioco di carte. 23. volevo … ladro: volevo incriminare co­ me ladro il carrettiere che era andato (ito, latinismo) a ritirare le cataste di legna. 24. tandem: infine. 25. quella tramontana: vento freddo del Nord, che spinge a cercare legna da ardere. Altri vi vede un’allusione all’incarceramento subito all’inizio dell’anno. 26. tornò … figliuoli: quando giunse a Firenze valeva la metà, in quanto tutta la famiglia si era data da fare per accatastarla molto stretta; era stata venduta a volume, non a peso, quindi in quel modo veniva pagata di meno, e Machiavelli subiva una specie di truffa. 27. Gabburra: evidentemente un macellaio fiorentino molto noto.

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28. ne hanno … grosso: se la sono presa a male. 29. Batista … Prato: è detto in senso ironico: Prato era stata saccheggiata dagli spagnoli nell’agosto del 1512, e Battista Guicciardini vi ricopriva la carica di podestà. 30. uccellare: un bosco approntato per catturare gli uccelli con le panie. 31. poeti minori: li considera minori non quanto al valore poetico, ma perché trattano una materia amorosa, ritenuta inferiore rispetto a materie più elevate, quali quella epica o tragica. 32. de’ mia: dei miei amori. 33. diverse: non solo nel senso di varie, ma anche singolari. 34. brigata: famiglia. 35. questa … comporta: che questo povero podere e l’esiguo patrimonio permettono (paululo è termine latino, poco). 36. beccaio: macellaio. 37. m’ingaglioffo: m’incanaglisco. 38. trich-trach: detto anche “tavola reale”;

gioco a due, che si giocava con pedine spostate su un tavoliere a seconda del lancio dei dadi. 39. si combatte un quattrino: ci si disputa per un quattrino. 40. traggo … muffa: tengo in esercizio il cervello. 41. sfogo … vergognassi: sfogo la maligni­ tà della mia sorte, essendo contento che essa mi calpesti in questo modo, per vedere se non arrivi a vergognarsi di perseguitarmi. 42. loto: fango (latinismo). 43. curiali: adatti alle corti. 44. condecentemente: nel modo dovuto, con decoro. 45. antiqui huomini: metaforicamente, leggere le opere dei classici è come entrare in una illustre corte, popolata da grandi personaggi. 46. mi pasco … lui: mi nutro di quel cibo che solo è il mio, e per il quale io nacqui (si è sempre sottolineata la grande forza espressiva dell’anacoluto, con il brusco trapasso di sog-

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io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro actioni47, e quelli per loro humanità48 mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia49, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza senza ritener lo havere inteso50 – io ho notato51 quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus52, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto53, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono; e se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo54, questo non vi doverrebbe dispiacere; ed a un principe, e massime55 a un principe nuovo, doverebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla M.tia di Giuliano56. Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé, e de’ ragionamenti ho hauto seco57, ancor ché tuttavolta io l’ingrosso et ripulisco58. Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo, ma quello che mi tenta59 hora è certe mie faccende che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costì quelli Soderini60 e quali sarei forzato, venendo costì, visitargli61 e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello62, perché ancora ché questo stato habbia grandissimi fondamenti e gran securtà, tamen egli è nuovo63, e per questo sospettoso, né vi manca di saccenti, che, per parere come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono il pensiero a me64. Pregovi mi solviate65 questa paura, e poi verrò infra il tempo detto a trovarvi a ogni modo. Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era bene darlo o non lo dare66; e sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto, e che questo Ardinghelli si facessi honore di questa ultima mia fatica67. Il darlo mi faceva la necessità che mi caccia68, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare così che io non diventi per povertà contennendo69. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso70; perché se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me71, e per questa cosa quando la fussi letta, si vedrebbe che

getto). La lettura dei classici è il suo nutrimento spirituale. Si noti però che qui non si tratta genericamente di scrittori antichi, ma degli storici, quali Tito Livio, che offrono a Machiavelli lo stimolo per le sue riflessioni politiche. 47. domandoli … actioni: attraverso la lettura degli storici latini Machiavelli entra idealmente in contatto con i grandi personaggi di Roma antica, e può chiedere loro la ragione delle azioni che compirono. 48. humanità: cortesia (latinismo). 49. noia: ha un senso più forte che per noi, vale “fastidio”. 50. Dante … inteso: Dante, Paradiso, V, vv. 41-42, afferma che avere compreso qualcosa senza fissarlo nella memoria non costituisce sapere. 51. notato: annotato. 52. De principatibus: il Principe. 53. cogitazioni … subietto: riflessioni su questo soggetto. 54. ghiribizzo: fantasia bizzarra; è affermazione di modestia. 55. massime: specialmente (latinismo). 56. M.tia di Giuliano: Magnifico Giuliano (M.tia è abbreviazione del latino Magnifi­

centia). È il figlio di Lorenzo il Magnifico, governò Firenze dopo il ritorno dei Medici nel 1512. Dopo la sua morte (1516) il Principe fu dedicato a Lorenzo de’ Medici. 57. ragionamenti … seco: dei discorsi che ho avuto con lui. 58. ancor … ripulisco: benché io continui a rivedere e limare l’opera. 59. mi tenta: mi trattiene. 60. Soderini: a Roma si trovavano in esilio i Soderini, tra cui Piero, che era stato gonfaloniere della Repubblica fiorentina fino al 1512. 61. e quali … visitargli: che io sarei costret­ to, venendo a Roma, a visitare. 62. Dubiterei … Bargiello: temo, al mio ri­ torno, invece di scendere da cavallo a casa mia, di dover scendere al Bargello, cioè in prigione. Ovviamente frequentare i Soderini in esilio sarebbe stato oltremodo compromettente per Machiavelli. 63. tamen … nuovo: tuttavia è un regime nuovo (il potere dei Medici era stato restaurato solo l’anno prima). 64. né vi manca … me: passo oscuro e variamente interpretato. Si può forse intendere: non mancano dei saccenti come Paolo

Bertini (personaggio a noi non noto, ma probabilmente acceso sostenitore del Medici), che, per mettersi in mostra, manderebbero al­ tri all’albergo, lasciando da pagare a me il conto, cioè mi farebbero andare in prigione. 65. mi solviate: mi togliate. 66. darlo … dare: sottinteso “a Giuliano de’ Medici”. 67. Ardinghelli … fatica: e che Piero Ardin­ ghelli (segretario del papa Leone X) si sareb­ be fatto bello della mia opera (presentandola come propria). 68. caccia: incalza, perseguita; Machiavelli si trovava in cattive condizioni economiche, essendo privato dei suoi incarichi, e dovendo vivere solo del suo piccolissimo patrimonio di famiglia. 69. contennendo: spregevole (latinismo). 70. Appresso … sasso: inoltre mi spingeva (a dare l’opera a Giuliano) il desiderio che avrei che i Medici cominciassero ad adoperar­ mi, anche se dovessero cominciare a farmi voltolare una pietra (cioè con un incarico umile). 71. perché … di me: perché se poi io non ri­ uscissi a guadagnarmi la loro stima, dovrei dolermi solo di me.

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quindici anni che io sono stato a studio dell’arte dello stato, non gli ho né dormiti, né giuocati72; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienzia73. E della fede74 mia non si doverrebbe dubitare, perché havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia75. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia, e a voi mi raccomando. Sis felix76. Die 10 Decembris 1513 Niccolò Machiavegli in Firenze

72. per questa … giuocati: quanto al Principe, se venisse letto, si vedrebbe che durante i quindici anni che io ho passati occupando­ mi dell’arte di governare lo Stato non ho sprecato il mio tempo; cioè il trattato dovrebbe testimoniare quale profonda sapienza politica egli ha ricavato da quella

esperienza. Machiavelli era stato segretario della seconda cancelleria dal 1498 al 1512. 73. e doverrebbe … esperienza: ciascu­ no dovrebbe aver caro di servirsi di qualcu­ no che avesse accumulato tanta esperienza al servizio di un precedente regime. 74. fede: fedeltà, lealtà.

75. e della fede … mia: la mia povertà è la prova della mia lealtà e bontà; è sottinteso che chi è sleale e scorretto può facilmente arricchirsi. 76. Sis felix: sii felice.

Pesare le parole Fede (righe 83-85)

> Viene dal latino fidem, “fiducia, fedeltà”, e qui significa

appunto “fedeltà, lealtà”, alla latina. Nel linguaggio attuale invece i sensi più comuni sono: “adesione a un’idea, a un fatto non fondata interamente sulla ragione” (es. prestar fede alla magia, all’astrologia), oppure “complesso dei princìpi seguiti in politica, in filosofia ecc.” (es. avere una fede incrollabile nei valori democratici); in senso religioso, “adesione a verità soprannaturali o rivelate non dimo-

strabili dalla ragione” (es. la fede lo ha sostenuto nella sventura); “fiducia, credito dato a qualcosa” (es. ha fede nel trionfo della tecnologia); “attestato, prova” (es. fa fede quanto scritto nel documento) e il documento stesso (es. la fede di battesimo); la fede è poi l’anello che gli sposi si scambiano il giorno del matrimonio; resta anche il senso originario di “fedeltà, lealtà” in espressioni come mantener fede alla parola data, tener fede ai patti.

Analisi del testo Pessimismo e leggi universali

Una disposizione cauta verso la fortuna

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> Il pessimismo e la fortuna

Subito nel primo paragrafo della lettera si possono cogliere spunti preziosi a intendere il pensiero di Machiavelli e la sua visione della realtà. Innanzitutto affiora il pessimismo disincantato e amaro sulla natura umana, che si fissa nella massima generale, assolutizzante: «Perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non gli è saputo grado», dove si manifesta la tendenza, abituale per il Machiavelli pensatore, a ricavare sempre leggi universali dall’esperienza diretta della realtà. In secondo luogo compare un motivo centrale della riflessione machiavelliana, la fortuna. Il modo in cui il problema è affrontato sembra in contraddizione con le affermazioni del capitolo XXV del Principe ( T8, p. 409), in cui compare un atteggiamento combattivo nei confronti della fortuna, che rifiuta ogni acquiescenza passiva e fatalistica, mentre qui sembra di vedere un Machiavelli più cauto e remissivo, disponibile a «lasciarla fare» all’avversaria, a «stare quieto» e a «non le dare briga». Tuttavia non vi è vera contraddizione tra i due passi. A ben vedere compare anche qui il concetto dell’«occasione» offerta dalla fortuna, che la «virtù» umana deve saper cogliere; né vi è in realtà un atteggiamento rinunciatario e rassegnato, ma si può riconoscere sempre una fiducia nella capacità, propria dell’uomo, di sfruttare i margini che la fortuna, sia pur potentissima, concede alla sua intraprendenza.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Compare infine l’idea fondamentale della necessità di «riscontrarsi» con i tempi, cioè di adeguare i comportamenti alla varietà delle circostanze; e poiché questo, per la situazione personale dello scrittore e del Vettori, è un momento in cui la fortuna «vuol fare ogni cosa», il comportamento più adatto non è prenderla di petto, ma adeguarsi, cedere temporaneamente, aspettando l’occasione propizia per reinserire nel corso degli eventi l’azione umana. L’insistenza su operazioni futili

La funzione di chiaroscuro

Lo studio della natura umana

L’impeto eroico contro la fortuna

> La lontananza dalla politica e l’«ingaglioffarsi»

Nella descrizione della propria giornata spicca l’insistenza su operazioni futili, su particolari mediocri e insignificanti della vita quotidiana e il fatto che lo scrittore proponga di sé un’immagine comica. Ma non è affatto una comicità distesa e bonaria: si sentono al fondo tutta l’amarezza e l’ira rattenuta, ma cocente, di chi ha maneggiato gli affari dello Stato, è venuto a contatto con i sovrani stranieri e con la diplomazia europea, ed ora deve ridursi a queste avvilenti occupazioni. L’insistenza sui particolari futili risponde quindi a un fine ben preciso: con essa in primo luogo Machiavelli vuol fare risaltare dalle cose stesse la sua degradazione e la sua umiliazione; in secondo luogo vuole creare un effetto di chiaroscuro, poiché la descrizione minuta di una vita futile e inautentica serve a mettere in rilievo, per contrasto, quello che sarà il momento del riscatto, della vita autentica, lo studio serale degli autori classici. Un’analoga funzione chiaroscurale possiede, nel paragrafo successivo, la descrizione del tempo trascorso all’osteria. Ma anche in questo tempo ozioso e vuoto emerge la vera natura di Machiavelli: il contatto con la gente di bassa estrazione sociale gli offre pur sempre l’occasione di soddisfare la sua curiosità nei confronti del reale, di studiare la natura umana, e questo concorre a formare quell’esperienza su cui si fonda poi la riflessione politica. Non ha importanza per Machiavelli se lo studio viene compiuto su un campione ristretto e di basso livello, costituito da coloro che passano per un’osteria di campagna, perché per lui la natura umana è uguale ad ogni livello sociale, in ogni tempo e in ogni luogo, perciò qualunque campione venga studiato può offrire utili indicazioni per ricavare le leggi generali dell’agire dell’uomo. Nell’ultima frase del paragrafo dal tono ironicamente distaccato lo scrittore passa improvvisamente ad un tono appassionato e vibrante, in cui lo sdegno trattenuto che si indovinava sotto l’ironia erompe con violenza. Avvolgersi tra quei «pidocchi», toccare il fondo della degradazione, è come una provocazione nei confronti della fortuna, nel tentativo di indurla a vergognarsi di tanta ostilità verso chi non la merita. Emerge qui una concezione energica, attivistica del rapporto con la fortuna, che contrasta con quella che compare nel primo paragrafo. Al pacato teorizzare, ai calcoli accorti di prudenza si sostituisce lo slancio passionale, l’impeto eroico: è questa una dialettica che è caratteristica di Machiavelli, e che comparirà anche nel Principe, nel salto di tono tra il lucido argomentare “scientifico” dei primi venticinque capitoli e l’oratoria appassionata dell’ultimo, l’esortazione a liberare l’Italia dai «barbari».

> Il colloquio con i classici

L’atteggiamento umanistico

Nel paragrafo successivo avviene la svolta capitale, il riscatto. Se l’esistenza vuota della campagna rappresenta l’esclusione da ciò che per lo scrittore costituisce la ragione stessa di vivere, la politica, la lettura dei classici gli permette di tornare idealmente a muoversi nell’ambito della grande politica degli Stati. Nel modo di accostarsi ai classici affiora in Machiavelli un atteggiamento squisitamente umanistico, i cui elementi costitutivi sono il vedere negli antichi degli esempi supremi di pensiero e di vita civile, il considerare lo studio ciò in cui consiste l’humanitas, l’essenza stessa dell’uomo. Ma questo calarsi nel mondo antico non è fuga dalla realtà: la «lezione» dei classici sostituisce l’«esperienzia» impossibile. Il risultato è la riflessione politica, che vuol essere attività militante. Dal colloquio serale con i classici nasce infatti il Principe, che non è un’opera esclusivamente teorica, ma vuole essere «utile a chi la intende». 367

L’età del Rinascimento L’umanesimo di Machiavelli e l’Umanesimo “civile”

L’analisi realistica

L’anelito appassionato all’azione

L’umanesimo di Machiavelli pertanto non è quello cortigiano e letterato del tempo, si collega piuttosto con il primo Umanesimo fiorentino, l’Umanesimo “civile”. La lettera ci fornisce dunque un prezioso documento dello stato d’animo da cui nasce il Principe, che prende vita in un momento di inattività forzata e si offre come un equivalente dell’azione impossibile.

> La «verità effettuale della cosa»

Il paragrafo successivo registra ancora un cambiamento di tono, in quel soppesare accuratamente le ragioni che consigliano allo scrittore di evitare di venire a Roma. Compare qui il Machiavelli acuto analizzatore della «verità effettuale della cosa», dei vantaggi e degli svantaggi delle azioni, misurate sempre su un metro realistico. La stessa disposizione lucidamente riflessiva, attenta a valutare vantaggi e svantaggi delle azioni, continua nel paragrafo conclusivo, dove viene esaminata l’opportunità o meno di dare il libro a Giuliano de’ Medici. Ma di nuovo il freddo raziocinare è rotto improvvisamente da un’espressione vibrante e appassionata, in cui echeggia tutto l’anelito di Machiavelli all’azione, la sua disperazione per esser ridotto ad una condizione di avvilente inattività: «che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso». La lettera si chiude con una massima secca, lapidaria, in cui si coglie tutto il pessimismo di Machiavelli: «e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia».

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

CoMPRendeRe

> 1. Rintraccia nel brano i passi in cui, seppure nell’ambito di futili occupazioni, Machiavelli rappresenta se stesso come attento alla realtà concreta che lo circonda.

> 2. Rintraccia nel brano i riferimenti alle letture, distinguendo i momenti in cui esse avvengono, e alla robusta formazione letteraria dell’autore. Segui l’esempio proposto. Letture dell’autore

alle righe 35-36 Machiavelli precisa di avere con sé Dante o Petrarca ........................................................................................................................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................................

Formazione letteraria dell’autore

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> 3. Alle righe 83-86 Machiavelli conclude la lettera con una rappresentazione di sé: quale? AnALIzzARe

> 4.

Stile Rintraccia nel testo i passi funzionali all’effetto di chiaroscuro evidenziato nell’analisi del testo, distinguendo quelli in cui l’autore fa risaltare la degradazione del proprio stato e quelli in cui fa riferimento allo studio degli autori classici. > 5. Stile Individua le figure retoriche presenti nel passo «Venuta la sera … in loro» (rr. 48-55). > 6. Lessico Il resoconto della propria giornata da parte dell’autore è caratterizzato in buona parte da un lessico basso e quotidiano, corrispondente alla materia “comica” trattata: individua vocaboli e/o espressioni di questo tipo. > 7. Lessico Rintraccia nel brano vocaboli e/o espressioni di derivazione colta (ad esempio i latinismi), indicandone anche l’etimologia. > 8. Lingua Analizza il periodo «Dico questo … la cagione» (rr. 1-3) individuando frase principale ed eventuali proposizioni coordinate e/o subordinate.

368

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

> 9.

Lingua Nel primo paragrafo della lettera (rr. 1-14) sono presenti un paio di espressioni che sembrano richiamare la saggezza popolare resa attraverso l’uso vivo della lingua: quali?

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 10.

esporre oralmente Ricostruisci, avvalendoti dello studio del contesto, il quadro degli avvenimenti che determinarono l’esilio di Machiavelli, e delinea eventuali analogie e/o differenze con la condizione di esule politico di Dante Alighieri (max 3 minuti). > 11. Competenze digitali Illustra le caratteristiche del Principe indicate dall’autore in questa lettera (rr. 55 e ss.) disponendole in una tabella che predisporrai in un file di word oppure visualizzandole in slides. Considera, per l’impostazione del lavoro, le seguenti “etichette”: fonti, argomenti, destinatari ideali, destinatario reale, finalità pratica.

PeR IL ReCuPeRo

> 12. Completa la seguente tabella, illustrando la giornata tipica di Machiavelli nel periodo in cui redige questa lettera, secondo l’esempio proposto. Tempo

Luogo

Attività

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fonte

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Ora di pranzo

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Pomeriggio

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Sera

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Mattina

3

Gli scritti politici del periodo della segreteria(1498-1512)

Videolezione

Le Legazioni e commissarie

I primi esempi del pensiero e del linguaggio machiavelliano

Tra gli scritti politici di questo periodo bisogna distinguere innanzitutto quelli ufficiali, connessi con la carica di segretario della seconda cancelleria, le cosiddette Legazioni e commissarie, cioè le relazioni e i dispacci inviati al governo fiorentino durante le varie missioni diplomatiche o gli incarichi interni al territorio della Repubblica, conservati autografi nell’Archivio dello Stato. Sono testi interessanti perché, dal contatto vivo con i problemi politici, si può cogliere il delinearsi del pensiero di Machiavelli e si vedono in germe gli schemi di analisi delle situazioni storiche, l’affermazione del principio dell’esperienza come fonte della conoscenza, il riferimento agli esempi dei Romani, persino un certo linguaggio che sarà caratteristico delle opere maggiori, come l’enunciazione di massime generali, da cui si ricavano le indicazioni per procedere nei casi particolari. Anche in quelli che dovrebbero essere documenti ufficiali, asettici e impersonali, emerge la vigorosa personalità intellettuale dello scrittore, la sua originalità che lo induce spesso ad atteggiamenti polemici. I più interessanti di questi documenti sono quelli che si riferiscono ai momenti salienti della politica del tempo, le missioni presso Cesare Borgia nel 1502-03, presso il conclave da cui esce papa Giulio II, presso il re di Francia: tutti eventi su cui spesso tornerà la riflessione di Machiavelli nelle opere politiche maggiori. 369

L’età del Rinascimento

Scritti sulla politica italiana Suggerimenti pratici per il governo

Oltre a queste relazioni ci sono giunti anche, del periodo della cancelleria, altri brevi scritti politici, dal carattere meno ufficiale, seppur sempre destinati a fornire suggerimenti politici al governo della Repubblica. Il primo è il Discorso sopra le cose di Pisa del 1498, dove si sostiene la necessità della forza per sottomettere la città che si era ribellata al dominio fiorentino. In Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) lo scrittore respinge la ricerca della «via di mezzo» nella soluzione delle questioni politiche (i popoli ribellati si debbono «o beneficare o spegnere»), e consiglia di prendere decisioni rapide e radicali, imitando in questo gli antichi Romani. Del 1503 sono anche le Parole da dire sopra la provvisione del danaio, in cui afferma la tesi che la base della solidità dello Stato sono le armi e l’accortezza («prudenzia»), e tesse l’elogio delle libertà repubblicane. Dello stesso anno è anche il racconto della strage di Senigallia, in cui il duca Valentino si liberò dei signorotti dell’Emilia e Romagna che congiuravano contro di lui (Del modo tenuto dal duca Valentino per ammazzar Vitellozzo Vitelli ecc., che già abbiamo ricordato), di grande vigore narrativo, attento a delineare il ritratto di Cesare Borgia e la sua calcolata, astuta condotta.

Il Ritratto delle cose della Magna e il Ritratto delle cose di Francia

La Francia modello di Stato moderno

Giorgio Vasari e aiuti, Assedio di Pisa (1494-1509), 1568-71, affresco, Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei Cinquecento.

370

Vi sono poi gli scritti in cui Machiavelli raccoglie le riflessioni suscitate dalle sue missioni in Germania e in Francia: del 1508, come si è visto, è il Rapporto delle cose della Magna, poi rielaborato nel 1512 nel Ritratto delle cose della Magna; del 1510 è il Ritratto delle cose di Francia (a cui si collega il De natura Gallorum, La natura dei Galli, una serie di notazioni sul carattere e i costumi dei francesi). La Francia agli occhi di Machiavelli diviene il modello di uno Stato moderno, solido, unito, che poggia su un forte esercito, mentre il modello imperiale germanico, frazionato in feudi e comunità cittadine, gli appare disunito e debole. Restano ancora gli scritti che trattano del problema delle milizie e propongono di organizzare in Firenze un esercito cittadino, l’«ordinanza»: Discorso dell’ordinare lo stato di Firenze alle armi e Le cagioni dell’ordinanza (1506).

Incontro con le Opere

4

Il Principe e i Discorsi Videolezione

Il Principe La genesi e la composizione dell’opera

Mappa interattiva

La data di composizione

Il rapporto con i Discorsi

Come si è letto, il 10 dicembre 1513, dall’“esilio” dell’Albergaccio, Machiavelli annunciava all’amico Vettori di aver composto un «opuscolo De Principatibus», in cui si trattava «che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». L’indicazione fissa il momento in cui l’opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi di datazione: in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse, e soprattutto quali siano i rapporti che la legano ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione tra luglio e dicembre 1513, in una stesura di getto, mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de’ Medici (tra il settembre 1515 e il settembre 1516) e probabilmente anche il capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l’Italia dai «barbari», sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato. Per quanto riguarda i rapporti con i Discorsi, si è pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente nel corso del 1513 e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana. L’opuscolo non fu dato alle stampe e circolò manoscritto in una cerchia abbastanza ristretta; fu pubblicato postumo solo nel 1532, a Firenze e a Roma, suscitando immediatamente molto scalpore.

Il genere e i precedenti dell’opera I legami con gli specula principis e i trattati umanistici

La «verità» effettuale della politica

Pur essendo un’opera rivoluzionaria nell’impostazione del pensiero, il Principe si può collegare ad una precedente tradizione di trattatistica politica. Già nel Medioevo erano diffusi trattati intesi a tracciare il modello del principe e a indicare le virtù che egli doveva possedere. Venivano chiamati specula principis, “specchi del principe”, perché, secondo la mentalità simbolica propria dell’epoca, dovevano fornirgli lo “specchio” in cui riflettersi e conoscersi, apprendendo quali dovevano essere i suoi comportamenti. Nel Quattrocento poi, con l’affermarsi delle Signorie e dei Principati, il genere ebbe nuova fortuna nell’ambito della cultura umanistica. Si possono citare il De regis et boni principis officio (“Il dovere del re e del buon principe”, 1480 ca.) di Diomede Carafa, il De vero principe (1481 ca.) di Battista Platina, il De principe liber (“Il libro sul principe”, 1503) di Giovanni Pontano. Se da un lato il Principe di Machiavelli si riallaccia a questa tradizione, dall’altro però la rovescia radicalmente: mentre tutti questi trattati mirano a fornire un’immagine ideale ed esemplare del regnante, consigliandogli di praticare tutte le più lodevoli virtù, la clemenza, la mitezza, la giustizia, la liberalità, la fedeltà alla parola data, la magnificenza, Machiavelli proclama di voler guardare alla «verità effettuale della 371

L’età del Rinascimento

cosa» e non all’ideale, quindi non propone al principe le virtù morali, ma quei mezzi che possono consentirgli effettivamente la conquista e il mantenimento dello Stato, e, con coraggiosa spregiudicatezza, arriva a consigliargli di essere anche non buono, crudele, mentitore, dissimulatore, quando le esigenze dello Stato lo impongano. L’opera di Machiavelli ha poi radici anche in un’altra tradizione, quella dei promemoria che eminenti cittadini solevano inviare al principe per suggerirgli determinati indirizzi politici. Il genere era particolarmente vivo a Firenze, ed aveva ricevuto nuovo stimolo con il ritorno dei Medici al potere, che aveva indotto diversi fiorentini ad offrire il contributo della loro esperienza all’ordinamento dello Stato rinnovato.

La struttura e i contenuti

I tipi di principato (I-XI)

Le milizie (XII-XIV)

Testi Perché i principi italiani hanno perso i loro Stati dal Principe

I comportamenti del principe (XV-XXIII)

Perché i principi italiani hanno perso i loro Stati (XXIV) Virtù e fortuna (XXV)

L’esortazione finale (XXVI)

372

Il Principe è un’operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in ventisei capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino, secondo la consuetudine trattatistica dell’epoca. La materia è divisa in diverse sezioni. I capitoli I-XI esaminano i vari tipi di principato ( T3, p. 385) e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari (a cui è dedicato il capitolo II) e nuovi; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe (capitolo III) o nuovi del tutto (capitoli IVV); a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie (capitolo VI, T4, p. 387), oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui (capitolo VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino, T5, p. 392). Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà «bene e male usata»: la prima è quella impiegata solo per assoluta necessità, e che si converte nella maggiore utilità possibile per i sudditi; male usata invece è quella che cresce col tempo anziché cessare, ed è compiuta per l’esclusivo vantaggio del tiranno. Nel capitolo IX si affronta il principato «civile», in cui cioè il principe riceve il potere dai cittadini stessi; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell’XI si tratta dei principati ecclesiastici, in cui il potere è detenuto dall’autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I capitoli XII-XIV sono dedicati al problema delle milizie. Machiavelli giudica negativamente l’uso degli eserciti mercenari, abituale nell’Italia del tempo, perché essi, combattendo solo per denaro, sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte da essi subite nelle recenti guerre; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa. I capitoli XV-XXIII trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici. È questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente è più radicale e polemico, in cui Machiavelli, anziché esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe, va dietro alla «verità effettuale della cosa». Sono i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l’esecrazione e la condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi successiva al 1494, hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è essenzialmente l’«ignavia» dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava e porvi i necessari ripari. Di qui scaturisce naturalmente l’argomento del capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini alle variazioni della fortuna, paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L’ultimo capitolo, il XXVI, è invece un’appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l’Italia dai «barbari».

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Mappa interattiva

La composizione

La materia

La struttura

I contenuti e il problema del genere Il nucleo originario dell’opera dovette essere costituito dalle carte “liviane”, cioè dagli appunti a cui Machiavelli affidava le riflessioni politiche suggeritegli dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Livio, in cui si tratta principalmente degli inizi della Roma repubblicana. Probabilmente fra il 1517 e il 1518 lo scrittore riprese e rifuse quelle annotazioni e vi antepose alcuni capitoli scritti precedentemente, forse nel 1513, sulle repubbliche. Ne risultarono i Discorsi, che sono dedicati ai due amici Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, due esponenti di quel cenacolo di intellettuali che si riunivano negli Orti Oricellari e che guardavano a Machiavelli come ad un maestro. L’opera fu divisa in tre libri, ciascuno ordinato intorno ad una precisa tematica: nel primo si tratta delle iniziative di politica interna di Roma, intraprese per deliberazione pubblica; nel secondo delle iniziative di politica estera e dell’espansione dell’Impero; nel terzo delle azioni di singoli cittadini, che contribuirono alla grandezza di Roma. Al di là di questa ossatura basilare, i temi si intersecano poi tra libro e libro, secondo un ordinamento alquanto libero. L’analisi della storia romana, come è proprio del pensiero di Machiavelli, che ritiene che dalla storia del passato si possano ricavare esempi validi per ogni tempo, offre continuamente lo spunto per riflessioni su problemi politici generali e sulla situazione di Firenze e dell’Italia del presente. Anche i Discorsi, come il Principe, non furono stampati dall’autore, e circolarono manoscritti. Furono poi pubblicati postumi, nel 1531. Se il Principe può essere ricondotto ad un preciso genere rinascimentale, il trattato, e si collega, sia pur rovesciandola polemicamente, a tutta una tradizione di trattatistica politica umanistica, i Discorsi non rientrano in un genere precisamente individuabile. Il libro infatti non ha la struttura del trattato organico, ma si presenta come una serie di riflessioni su singoli temi, suggeriti via via dal racconto di Livio, senza una rigorosa architettura generale. È quindi un’opera che appare, dall’esterno, profondamente diversa dal Principe: tanto questo è conciso, teso, incalzante, altrettanto i Discorsi si abbandonano alla riflessione, si direbbe, divagante e diffusa.

Il rapporto tra Discorsi e Principe e l’ideologia politica dell’autore Le differenze dal Principe: simpatie repubblicane

Testi Uno solo è atto a ordinare una repubblica, a molti sta mantenerla dai Discorsi

La Repubblica garantisce stabilità

Le differenze riguardano anche livelli più profondi e sostanziali del pensiero: se nel Principe Machiavelli affronta la forma di governo monarchica ed assoluta, e celebra la «virtù» del principe, nei Discorsi lascia trasparire chiaramente forti simpatie repubblicane ed indica la repubblica come la forma più alta e preferibile di organizzazione dello Stato. Queste contraddizioni hanno suscitato infinite dispute fra gli studiosi. Una spiegazione delle oscillazioni del pensiero machiavelliano può essere questa: l’orientamento di fondo di Machiavelli è certamente repubblicano, come è inevitabile data la sua formazione e la lunga esperienza politica nella Repubblica fiorentina; ma il Principe è scritto sotto l’urgenza immediata di una situazione gravissima, a cui era indispensabile porre rimedio, la catastrofica crisi italiana che minacciava l’integrità e la stessa indipendenza degli Stati della penisola: allo scrittore sembrava necessaria la costruzione di uno Stato abbastanza forte da opporsi all’espansione delle grandi potenze europee che si stavano contendendo l’Italia. Machiavelli riteneva che nel momento della creazione di uno Stato nuovo fosse indispensabile la virtù politica straordinaria di un singolo, mentre restava convinto che la repubblica fosse la forma di governo che garantiva maggiore stabilità e durata alle istituzioni e stimolava la «virtù» dei cittadini, in senso civile come militare ( T11, p. 425). Pertanto, se il principe in Italia era necessario nella fase iniziale, quella della costruzione delle istituzioni statali, la forma che Machiavelli vagheggiava per il futuro Stato italiano era quella repubblicana, ispirata al modello della repubblica romana antica. 373

L’età del Rinascimento

Le contraddizioni tra le due opere sono dunque più apparenti che reali e sono il frutto della loro diversa destinazione: il Principe ha il carattere dell’opera militante, destinata ad incidere direttamente nello scenario politico, a fornire strumenti concreti e immediatamente applicabili a chi vi opera, mentre i Discorsi hanno più il carattere di riflessione teorica generale, meno rispondente ad esigenze contingenti (seppur sempre legata ad un preciso orizzonte di problemi contemporanei). Comunque, al di là di queste differenze, la sostanza del pensiero machiavelliano è unitaria nelle due opere, come unitario è il metodo di indagine.

Il pensiero politico nel Principe e nei Discorsi Teoria e prassi

La fusione di teoria e prassi La crisi politica, militare e morale dell’Italia

Francesco Granacci, Entrata di Carlo VIII a Firenze, 1515-17, olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi.

374

Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire “in laboratorio”: le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica, in cui egli è impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi: la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi è la coscienza lucida e sofferta della crisi che l’Italia contemporanea sta attraversando: una crisi politica, in quanto l’Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili; crisi militare, in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura, anziché su eserciti “cittadini”, che soli possono garantire fedeltà, ubbidienza, serietà di impegno; ma anche crisi morale, perché sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall’antica Roma, l’amore di patria, il senso civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l’orgoglio e il senso dell’onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare. Perciò, come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei francesi nel 1494, gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli La necessità di un principe La passionalità e la teoria scientifica

Per Machiavelli l’unica via d’uscita da una così straordinaria «gravità de’ tempi» è un principe dalla straordinaria «virtù», capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo storicamente concreto è indirizzata tutta la teorizzazione politica di Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese. Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente, poiché altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto il nostro interesse: partendo da quella situazione particolare, cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza, Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica.

La politica come scienza autonoma Il campo della scienza politica

L’autonomia della politica

Una teoria rivoluzionaria nella cultura occidentale

Concordemente, Machiavelli è stato indicato come il fondatore della moderna scienza politica. Innanzitutto egli delimita nettamente il campo di tale scienza, distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano egualmente dell’agire dell’uomo, come la morale, sia essa laica o ispirata ad una visione religiosa. La teoria politica nel Medioevo, ed ancora nell’età umanistica, era subordinata alla morale, nel senso che il giudizio sull’operato di un politico era soggetto al criterio del bene o del male: era giudicato positivamente il sovrano che si comportava secondo le norme etiche, negativamente quello che le violava. Si è visto come gli specula principis medievali e i trattati umanistici offrissero ai regnanti un modello di comportamento ideale, proponendo tutte le virtù più raccomandabili e condannando i vizi ad esse contrari. Machiavelli rivendica invece vigorosamente l’autonomia del campo dell’azione politica: essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l’agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi: occorre cioè, nell’analisi dell’operato di un principe, valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica, rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro criterio, se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data, non è pertinente alla valutazione politica del suo operato. È una teoria di sconvolgente novità, veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale. Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica, non di delineare, come si era sempre fatto, degli Stati ideali «che non si sono mai visti essere in vero». Proclama infatti di voler andare dietro alla «verità effettuale della cosa» anziché all’«immaginazione di essa», proprio perché non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica, ma scrivere un’opera «utile a chi la intenda», fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia. Come si vede, il rigore scientifico scaturisce direttamente dal carattere pratico del pensiero di Machiavelli, e per altro verso è come la condizione necessaria della sua incidenza concreta sulla realtà.

Il metodo L’aderenza alla «verità effettuale»

Oltre al campo autonomo su cui si applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio fondamentale nell’aderenza alla «verità effettuale», come si è appena detto. Machiavelli, proprio perché vuole agire sulla realtà, ne deve tenere conto, quindi per ogni costruzione teorica parte sempre dall’indagine sulla realtà 375

L’età del Rinascimento

I dati dell’esperienza

«Esperienzia delle cose moderne» e «lezione delle antique»

concreta, empiricamente verificabile, mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire princìpi generali. Colpisce, nella trattazione del Principe e dei Discorsi, il continuo ricorrere di massime universali, pronunciate con apodittica sicurezza, come se fossero certe e indiscutibili. Se ne potrebbe ricavare l’idea che il pensiero di Machiavelli sia tutto deduttivo, cioè sia ricavato per deduzione da princìpi primi universali e indimostrati. Ma è un’impressione erronea: in realtà dietro ognuna di quelle massime così perentorie è accumulata una massa enorme di dati ricavati dall’esperienza. Ebbene, proprio il partire dall’osservazione diretta della realtà, da dati empirici offerti dall’esperienza, è l’aspetto caratterizzante il metodo scientifico moderno, quello che sarà poi di Galileo e delle scienze fisico-naturali: Machiavelli prima ancora lo applica alle scienze dell’uomo, le scienze che studiano il suo operare politico. L’esperienza per Machiavelli può essere di due tipi: quella diretta, ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi. Machiavelli, nella dedica del Principe, le definisce rispettivamente «esperienzia delle cose moderne» e «lezione delle antique» ( T2, p. 382). Si tratta però solo apparentemente di due forme diverse. Anche nei libri dei classici è accumulata una ricca esperienza diretta del reale, per chi sa coglierla e ricavarla, perciò studiare il comportamento di un uomo politico attuale o quello di un personaggio antico è la stessa cosa, cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell’informazione su cui lavorare, ma il contenuto è lo stesso.

La concezione naturalistica dell’uomo e il principio di imitazione L’immutabilità della natura umana

L’imitazione

Le leggi della politica

Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi è una concezione tipicamente naturalistica: Machiavelli è convinto che l’uomo sia un fenomeno di natura al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non varino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle stelle o i cicli delle stagioni. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l’esperienza diretta, si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale, applicabili infallibilmente ad ogni situazione. Per questo, ancora, la sua trattazione è sempre costellata di esempi tratti dalla storia antica: essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l’agire degli antichi può offrire un modello e una lezione al nostro agire di oggi. Per lui gli uomini «camminano sempre per vie battute da altri», perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell’imitazione. Nel Proemio al libro I dei Discorsi ( T10, p. 421) egli constata che l’imitazione degli antichi ai suoi tempi è pratica costante nelle arti figurative, nella medicina, nel diritto, che si possono definire l’applicazione dei princìpi elaborati dalla civiltà classica, e depreca che lo stesso non avvenga nella politica, «nello ordinare le repubbliche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio». Auspica quindi che gli uomini di oggi guardino a quei grandi esempi, li prendano a modello e si sforzino di riprodurli. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell’agire politico, che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente, e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta allo statista.

Il giudizio pessimistico sulla natura umana Il pessimismo

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Punto di partenza per la formulazione di tali leggi è una visione crudamente pessimistica dell’uomo come essere morale. Gli uomini per Machiavelli sono malvagi: egli non ne teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo siano per natura o in conseguenza di una colpa originaria da essi commessa (come vuole il cristianesimo), si limita a constatarne empiricamente gli effetti nella realtà. Gli uomini sono per lui «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno».

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Il politico centauro

In un passo famoso del Principe afferma che dimenticano più facilmente l’uccisione del padre che la perdita del patrimonio, cioè che la molla che li spinge è l’interesse materiale ed egoistico, non i valori e i sentimenti disinteressati e nobili. L’uomo politico deve agire su questo terreno, non su un terreno ideale, per cui deve commisurare ad esso le sue azioni. Dovendo agire «in fra tanti che non sono buoni», non può fare «in tutte le parti la professione di buono», perché andrebbe sicuramente incontro alla rovina. Le leggi della convivenza umana sono dure e spietate, perciò il principe non può seguire sempre l’ideale e la virtù: deve sapere anche essere «non buono», dove lo richiedano le esigenze dello Stato, deve essere umano oppure feroce come una bestia, a seconda delle circostanze: per questo Machiavelli propone per il politico l’immagine del centauro, che è appunto mezzo uomo e mezza bestia. Sono queste le affermazioni che hanno attirato su Machiavelli tanta esecrazione, ai suoi tempi e nei secoli successivi. Ma non bisogna credere che il segretario fiorentino sia un diabolico consigliere di atti immorali e perversi, come spesso si è voluto credere, sino a creare di lui quasi un’immagine mitica e leggendaria: ad esempio i tenebrosi malvagi del teatro elisabettiano, nella protestante Inghilterra di fine Cinquecento, hanno tratti inconfondibilmente machiavellici, e continueranno ad averli anche i perversi del romanzo “gotico” di fine Settecento; d’altronde lo stesso aggettivo “machiavellico”, nel parlare comune, evoca l’idea del subdolo inganno, dell’astuzia perversa e priva di scrupoli.

L’autonomia della politica dalla morale

I criteri dell’utile e del dannoso

«Principi» e «tiranni»

In Machiavelli c’è un profondo, sofferto travaglio morale. Egli sa bene che certi comportamenti del principe, come venir meno alla parola data o uccidere senza pietà i nemici, sono atti riprovevoli, ripugnanti moralmente. Ma ha il coraggio di andare sino in fondo nella sua distinzione del giudizio politico da quello morale: questi comportamenti, che sono “malvagi” secondo la morale, sono “buoni”, cioè efficaci e produttivi, in politica, perché assicurano il bene dello Stato, e con esso anche il bene dei cittadini. Viceversa altri comportamenti, che sarebbero “buoni” moralmente, risultano “cattivi” in politica, perché indebolirebbero lo Stato e comprometterebbero la sua sicurezza ( T6, p. 399). Machiavelli non è quindi, come è stato detto, il fondatore di una nuova morale: quando dà un giudizio etico, i suoi termini di riferimento sono quelli tradizionali; semplicemente, egli individua un ordine di giudizi autonomi, che si regolano su altri criteri, non il bene o il male, ma l’utile o il danno politico. Non è che egli, di conseguenza, consigli la spregiudicatezza dei mezzi all’uomo in genere, ed indiscriminatamente in ogni caso: certi comportamenti immorali e crudeli sono adottabili solo dal politico, solo per il bene dello Stato e solo quando sono strettamente necessari. Né Machiavelli vuole “giustificarli”: è stato detto che il principio basilare del suo pensiero è «il fine giustifica i mezzi», ma l’affermazione è inesatta, perché il verbo “giustificare” introdurrebbe proprio quel criterio morale che Machiavelli vuole escludere dal giudizio politico inteso autonomamente. Machiavelli non “giustifica”, constata solo che certi comportamenti, buoni o cattivi che siano, sono indispensabili per conquistare e mantenere lo Stato. Commettere crudeltà e violenze, mancare alla parola, mentire e simulare sono una triste necessità a cui il politico si deve piegare, perché deve fare i conti con la reale natura dell’uomo; e sono un comportamento obbligato se vuole perseguire l’utile della comunità. Non solo, ma Machiavelli distingue tra «principi» e «tiranni»: principe è chi opera a vantaggio dello Stato, e, se usa metodi riprovevoli, lo fa per il bene pubblico; tiranno è chi è crudele senza necessità, e solo a suo vantaggio. Il principe che egli auspica è quindi non un despota folle, ma uno strumento al servizio dei sudditi, in quanto costruisce uno Stato ben ordinato, pacifico e sicuro, che solo può garantire ai cittadini tranquillità e benessere. 377

L’età del Rinascimento

Lo Stato e il bene comune Lo Stato come rimedio alla malvagità dell’uomo

La religione come strumento di governo

Testi La religione dei Romani dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

Le leggi e le milizie

Principato e Repubblica

Solo lo Stato può costituire un rimedio alla malvagità dell’uomo, al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualistiche contrapposte le une alle altre. Questa congerie rissosa e violenta può essere ordinata in repubblica, cioè, come dice l’etimologia del termine, in una comunità in cui il fine delle azioni è la “cosa pubblica”, il bene comune. La durezza e la violenza del principe devono sempre avere per fine questo bene comune, cioè la salvaguardia della convivenza civile dalle spinte bestiali alla disgregazione e alla violenza. Per mantenere lo Stato sono indispensabili certe virtù civili (l’amore di patria, l’amore per la libertà, la solidarietà, l’onestà) che costituiscono il cemento del vivere collettivo. Ma per radicare tali virtù, in uomini generalmente non buoni, sono necessarie precise istituzioni: la religione, le leggi, le milizie. A Machiavelli non interessa, nella prospettiva del discorso politico, la religione nella sua dimensione concettuale, come contenuto di verità, né nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo come “strumento di governo” (instrumentum regni). La religione, in quanto fede in certi princìpi comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi gli uni con gli altri, a mantenere la parola data. Questa era la funzione rivestita dalla religione dei Romani, che, secondo Machiavelli, con i suoi insegnamenti induceva anche alla forza virile, al coraggio, allo sprezzo del pericolo, quindi era uno dei fondamenti più saldi del vivere civile dell’antica repubblica. In un capitolo famoso dei Discorsi (II, 2) rimprovera invece alla religione cristiana di avere avuto un’influenza negativa, inducendo gli uomini alla mitezza e alla rassegnazione, a svalutare le cose del mondo per guardare solo al cielo. In secondo luogo, in ogni Stato bene ordinato sono le buone leggi il fondamento del vivere civile, perché disciplinano il comportamento dei cittadini, inibiscono i loro istinti bestiali, li indirizzano a fini superiori. Infine le milizie sono il fondamento della forza dello Stato. Esse devono essere composte di cittadini, da un lato perché solo così si possono avere truppe fedeli e valorose, dall’altro perché assumere le armi rinsalda i legami del cittadino con la sua patria, contribuisce a stimolare in lui le virtù civili. La forma di governo che meglio compendia in sé questa idea di Stato ordinato e sicuro, che argina e disciplina le forze anarchiche dell’uomo, è quella repubblicana, come sappiamo. Il principato è per Machiavelli una forma d’eccezione e transitoria, indispensabile solo in determinate contingenze, come quella che l’Italia sta vivendo, per costruire uno Stato sufficientemente saldo. Ma lo Stato creato dalla «virtù» eccezionale del singolo, per mantenersi, deve darsi «buoni ordini», istituzioni che durino nel tempo; e la forma repubblicana è quella che meglio può garantire la continuità, perché non si fonda sulle doti di uno solo, che può venire meno in ogni momento, ma su istituzioni stabili, svincolate dai singoli individui, che possono rimanere inalterate anche se diverse personalità si avvicendano a dirigerle.

(Attrib.) Girolamo Romanino, Cristiano I e Bartolomeo Colleoni a cavallo, 1520-30, affresco dalla Visita di Cristiano I di Danimarca, part., Cavernago (Bergamo), Castello di Malpaga, Salone d’Onore.

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Virtù e fortuna

La fiducia nella «virtù» umana

La fortuna

L’«occasione»

La capacità di porre ripari

La «virtù»

Il «riscontrarsi» con i tempi

Si delineano così due concezioni della “virtù”: la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabili istituzioni dello Stato, e che non è meno eroica della prima, come dimostrano tanti esempi della storia di Roma, dove rifulse la virtù di semplici cittadini. Machiavelli ha comunque una visione eroica dell’agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza dell’uomo, che era stata patrimonio della civiltà comunale (si pensi a Boccaccio), ed era stata poi ereditata e consapevolmente teorizzata dalla civiltà umanistica. Ma, proprio sulla scorta di questa tradizione di pensiero, Machiavelli sa bene che l’uomo nel suo agire ha precisi limiti, e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni, che non dipendono dalla sua volontà. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante della fortuna. È questo un altro grande tema della civiltà umanistico-rinascimentale, che fa anch’esso la sua comparsa sin da Boccaccio. È il frutto di una concezione laica e immanentistica, che mette tra parentesi la presenza nel mondo della provvidenza, intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente ad un fine, e porta in primo piano il combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalità trascendente. Dalla tradizione umanistica Machiavelli eredita la convinzione che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna. Egli ritiene che essa sia arbitra solo della metà delle cose umane, e lasci regolare l’altra metà agli uomini. Vi sono per Machiavelli vari modi in cui l’uomo può contrapporsi con felice esito alla fortuna. In primo luogo essa può costituire l’«occasione» del suo agire, la «materia» su cui egli può imprimere la «forma» da lui voluta. La «virtù» del singolo e l’«occasione» si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico «virtuoso» non sa approfittarne. L’occasione può anche essere una condizione negativa, che serve di stimolo ad una virtù eccezionale. Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell’Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perché potesse rifulgere la «virtù» di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro ( T4, p. 387). In secondo luogo la «virtù» umana si impone alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti quieti l’abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena (capitolo XXV, T8, p. 409). Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante, volubile, e la virtù umana, che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La «virtù» di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico, ricavate, come sappiamo, sia dall’esperienza diretta sia dalla «lezione» della storia passata; in secondo luogo la capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni, il mutare dei rapporti di forza, l’incidenza degli interessi dei singoli; infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la «virtù» del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche, che conferma come nel pensiero machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte. Ma vi è ancora un terzo modo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna, e quindi un’altra dote che concorre a determinare la «virtù» umana: il «riscontrarsi» con i tempi, cioè la duttilità nell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in cui si è obbligati ad operare. Ad esempio, in certe occasioni occorre agire con cautela e ponderatezza, in altre con impeto e ardimento, in certi casi occorre l’astuzia della volpe, in altri la forza del leone ( T7, p. 403). E qui compare una nota pessimistica: questa duttilità è 379

L’età del Rinascimento

una dote altamente auspicabile, ma quasi mai si ritrova negli uomini, che non sanno variare il loro comportamento secondo le circostanze, perché, se hanno sempre avuto buon esito nell’operare in un certo modo, difficilmente sanno adattarsi a ricorrere a moduli diversi; per cui i politici avranno buon esito solo se le circostanze saranno conformi alle loro doti naturali: cioè lo statista, se sarà cauto e prudente, avrà successo solo se si troverà ad agire in circostanze che esigono prudenza, ma se i tempi variassero, ed esigessero decisioni pronte e audaci, egli non saprebbe certamente adattarsi ed andrebbe in rovina. Come si vede Machiavelli reintroduce così, pessimisticamente, un fattore di casualità che sfugge al controllo dell’uomo.

Realismo “scientifico” e utopia profetica Un sistema scientifico con interessi pratici immediati

Testo critico G. Ferroni

Le idee politiche di Machiavelli si organizzano in un sistema logico e coerente, che possiede, come si è cercato di mettere in luce, i caratteri di un vero e proprio sistema scientifico. Ma si è anche notato come l’origine prima di questo sistema non sia un’asettica speculazione teorica, bensì l’urgere di interessi pratici immediati. Tali interessi sono un potente stimolo alla formazione del pensiero scientifico, perché inducono il pensatore ad aderire alla «verità effettuale della cosa», a partire sempre dai dati empirici e a guardare in faccia la realtà così com’è, per poter agire su di essa; però, d’altro lato, introducono in quel pensiero una componente passionale che va al di là della pura scienza. L’aderenza alla «verità effettuale» avrebbe dovuto mettere in piena evidenza agli occhi di Machiavelli la vera entità della crisi italiana, il punto di non ritorno a cui essa era pervenuta, e avrebbe dovuto indurlo al pessimismo e allo scetticismo sulle possibilità di una rinascita (quel pessimismo che era proprio di Guic-

Visualizzare i concetti

Il pensiero politico di Machiavelli Frammentazione politica

uso di truppe mercenarie

unità politica e centralizzazione dei poteri

CRISI deGLI STATI ReGIonALI ITALIAnI

RAFFoRzAMenTo deGLI STATI euRoPeI

Gli Stati italiani rischiano di subire l’egemonia delle potenze straniere

È necessario un PRINCIPE che possegga la VIRTÙ POLITICA non necessariamente coincidente con quella morale

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per costituire in Italia uno

ben ordinato, con istituzioni – la religione, le leggi e le milizie – che disciplinino il comportamento dei cittadini, garantendo il perseguimento del

STATO FORTE BENE COMUNE

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli Lo slancio fideistico

L’atteggiamento profetico

La sfasatura tra il pensiero di Machiavelli e il contesto storico

ciardini, realista ben più rigoroso di lui, cap. 7, p. 470). Ma in Machiavelli la passione politica ha il sopravvento sul freddo calcolare. In lui vi è un impeto eroico che non gli consente di adagiarsi nell’inerzia rassegnata, per quanto lucida e consapevole. Nell’ultimo capitolo del Principe la situazione disperata, ed evidentemente senza via d’uscita, dell’Italia diviene l’occasione ideale per un principe che voglia mettere in atto la sua virtù e costruire uno Stato nuovo; il popolo italiano, in cui, come afferma lo stesso Machiavelli altrove, non vi è «osservanza di religione, non di leggi, non di milizie», un popolo corrotto, scettico, rassegnato e inerte, diventa una sorta di popolo eletto che aspetta il suo messia, un organismo in cui vi è grande forza nelle membra e che aspetta solo un capo capace di organizzarle e dirigerle; i mediocri principi di casa Medici possono diventare gli emuli moderni dei grandi fondatori di Stati dell’antichità, di Mosè, Teseo, Romolo, Ciro. In questa conclusione del Principe, all’analisi scientifica delle leggi della politica si sostituisce un atteggiamento profetico e messianico, pervaso da un vibrante accento passionale, che si traduce in un’oratoria veemente e incalzante e non disdegna di impiegare immagini bibliche e citazioni poetiche ( T9, p. 415). L’evidente sfasatura tra questa generosa utopia e la «verità effettuale» dell’Italia del primo Cinquecento mette in luce la più profonda sfasatura tra il pensiero di Machiavelli nel suo complesso ed il contesto da cui nasceva e su cui, nelle intenzioni dello scrittore, avrebbe dovuto agire. Machiavelli costruisce le fondamenta teoriche di uno Stato moderno, unito, forte, libero dalle spinte disgregatrici del particolarismo feudale e municipale, basato su istituzioni stabili, su buone leggi, su un esercito regolare e soprattutto sul consenso dei cittadini; ma le condizioni per dare vita a tutto questo in Italia non esistevano più. Il messaggio del pensatore non poteva quindi essere raccolto proprio dal contesto a cui era indirizzato. Ma, paradossalmente, il pensiero di Machiavelli, se era sfasato rispetto al presente, era in sintonia con il futuro: le sue idee avrebbero infatti trovato applicazione fuori d’Italia, in contesti più avanzati, e avrebbero contribuito a creare i fondamenti teorici dei grandi Stati moderni.

La lingua e lo stile

Testo critico F. Chiappelli

Il rifiuto dello stile aulico

L’originalità sconvolgente del pensiero di Machiavelli si riflette sullo stile del suo argomentare. È uno stile profondamente diverso da quello del genere trattatistico rinascimentale. Quest’ultimo rientra essenzialmente nel gusto classicistico del tempo e, mirando a riprodurre il modello della prosa ciceroniana, tende al sublime, impiegando tutte le risorse della retorica (metafore, metonimie, iperboli, interrogazioni, parallelismi ecc.), utilizzando un lessico scelto e aulico e costruendo un periodare complesso, ricco di subordinate e architettonicamente strutturato. Machiavelli rifiuta esplicitamente tale modello. Nella dedica al Principe afferma: «La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio [abbellimento artificioso] o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata».

La scelta deriva dallo stretto rapporto che l’opera vuole avere con la prassi, con la realtà politica effettuale: per incidere sul reale, per fornire uno strumento da applicare immediatamente, non è pensabile il ricorso alle ornamentazioni retoriche, ma occorre una prosa agile, chiara, di immediata presa, che si imponga solo grazie alla forza delle cose che deve dire; per cui leggendo il Principe e i Discorsi non si ha l’impressione di un discorso retoricamente costruito, ma di un discorso che scaturisce direttamente dal pensiero e si modella su di esso. Quando il pensiero è denso e complesso il periodo si fa anch’esso ampio e complesso, ma, quando l’argomentazione si concentra in massime generali, in cui confluisce una ricca esperienza, lo stile si fa secco, conciso, lapidario. 381

L’età del Rinascimento

Il lessico

Le immagini concrete

Testo critico G. Inglese

L’invenzione della moderna prosa scientifica

T2

È un periodare comunque sempre ricco di energia, nervoso, incalzante, incisivo. Talora, per tener dietro alla passione che lo anima (che può essere anche la lucida passione intellettuale di chi stringe da vicino un’idea essenziale, di sconvolgente novità), può anche divenire rotto, spezzato da anacoluti e irregolarità sintattiche. Il lessico impiegato è lontano da quello aulico della trattatistica, che si uniforma ai canoni puristici bembeschi e si rifà al lessico petrarchesco e boccacciano. È un lessico libero e vario, dove si mescolano, in un impasto unico, latinismi tecnici del linguaggio delle cancellerie, arditi latinismi letterari desunti dai classici, ma anche parole comuni e quotidiane, o addirittura termini plebei, che spiccano sulla pagina con violenta espressività. Si pensi, nel capitolo conclusivo del Principe, all’appassionata perorazione a liberare l’Italia dai barbari, dove, nel tessuto di una sostenuta eloquenza, si immette a forza un’espressione come «a ognuno puzza questo barbaro dominio». Una funzione essenziale hanno poi le metafore, le immagini e i paragoni. Come nel pensiero Machiavelli rifugge dall’astrazione e vuol essere aderente al concreto, così il suo linguaggio rifugge dall’astratto e dal vago ed ama le immagini corpose, concrete, materiali: lo Stato che deve mettere le «barbe» (radici) come un albero, la fortuna che è come un fiume in piena che allaga i piani e abbatte alberi e case, il politico che deve essere mezzo uomo e mezzo bestia, come un centauro, e deve tenere della «volpe» e del «leone». È proprio questa immediatezza che costituisce la modernità e la vitalità della prosa di Machiavelli. Egli non è solo il fondatore della scienza politica, ma anche del moderno linguaggio della prosa scientifica; e, in definitiva, anche in questo risiede la sua grandezza letteraria.

L’«esperienzia delle cose moderne» e la «lezione delle antique»

Temi chiave

• l’orgoglio dello scrittore per la conoscenza della politica

• l’esperienza della realtà concreta • il rifiuto del linguaggio aulico

dal Principe, Dedica Come risulta dalla lettera al Vettori del 10 dicembre 1513 ( T1, p. 362), Machiavelli inizialmente aveva pensato di dedicare il Principe a Giuliano de’ Medici; poi, probabilmente dopo la morte di questi, lo indirizzò a Lorenzo de’ Medici, che governava di fatto la città a nome dello zio, il papa Leone X, e sembrava essere valido strumento dei progetti espansionistici del pontefice. La Dedica deve essere anteriore all’ottobre del 1516, quando Lorenzo fu investito del Ducato di Urbino, perché non gli viene attribuito il titolo di duca.

Nicolaus Maclavellus ad Magnificum Laurentium Medicem1

5

Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia2 appresso uno Principe, farseli incontro con quelle cose che infra3 le loro abbino più care o delle quali vegghino lui più delettarsi4; donde si vede molte volte essere loro presentati5 cavalli, arme, drappi d’oro, pietre preziose e simili ornamenti degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque offerirmi6 alla Vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella7, non ho trovato intra la mia suppellettile8 cosa quale io abbi più

1. Nicolaus … Medicem: Niccolò Machiavel­ li al Magnifico Lorenzo de’ Medici. 2. grazia: favore. 3. infra: fra. 4. vegghino … delettarsi: vedano che egli più si diletti (il costrutto con l’infinito è mo-

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dellato sul latino). 5. presentati: in dono. 6. offerirmi: presentarmi. 7. verso di quella: riferito a Magnificenzia. 8. suppellettile: è usato in senso figurato, in riferimento ai doni abitualmente offerti ai

principi prima elencati, cavalli, armi, drappi d’oro; lo scrittore invece può offrire solo doni intellettuali, la sua conoscenza della politica, come spiega subito dopo.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

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cara o tanto esìstimi9 quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi imparata da me con una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione10 delle antique: le quali11 avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate12 ed esaminate e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra. E benché io giudichi questa opera indegna della presenzia di quella13, tamen14 confido assai che per sua umanità15 li debba essere accetta, considerato come da me non li possa essere fatto maggiore dono che darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi ho conosciuto e inteso. La quale operando io non ho ornata né ripiena di clausule ample16 o di parole ampullose e magnifiche17, o di qualunque altro lenocinio18 o ornamento estrinseco19 con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare; perché io ho voluto, o che veruna20 cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata21. Né voglio sia reputata presunzione se uno uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare e governi22 de’ principi; perché, così come coloro che disegnano e paesi23 si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra e monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi bisogna essere populare. Pigli adunque Vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io lo mando; el quale se da quella24 fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio che Lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e le altre sue qualità gli promettano. E se Vostra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti25 una grande e continua malignità di fortuna.

9. esìstimi: stimi (latinismo). 10. lezione: lettura (nei libri degli storici classici). 11. le quali: riferito all’esperienzia e alla lezione. 12. escogitate: meditate (altro latinismo). 13. di quella: la Magnificenzia. 14. tamen: tuttavia (latino). 15. umanità: cortesia. 16. clausule ample: periodi complessi e alti­

sonanti. 17. ampullose e magnifiche: gonfie e ma­ gniloquenti. 18. lenocinio: artificio teso ad allettare il lettore. 19. ornamento estrinseco: ornamento re­ torico aggiunto dall’esterno, che non scaturisca dall’intima natura del discorso. 20. veruna: nessuna. 21. la gravità … grata: la gravità della ma­

teria la renda gradita. 22. regolare e governi: dettare le regole ai governi. 23. coloro … paesi: coloro che disegnano le carte geografiche. 24. da quella: riferito alla Magnificenzia. 25. indegnamente sopporti: subisca im­ meritatamente.

Pesare le parole Lezione (riga 9)

> Viene dal latino lectiònem, “lettura”, da lègere, “leg-

gere”, e qui la parola conserva appunto il senso latino (come si potrà spesso verificare, la lingua di Machiavelli è ricca di latinismi, fenomeno d’altronde tipico degli scrittori italiani dal Tre all’Ottocento, dato il perdurante classicismo). Per noi indica invece un insegnamento impartito a uno o più allievi (es. ho seguito le lezioni di matematica; viceversa in inglese una lezione di livello universitario si dice lecture). In senso più generale e figurato può significare “ammaestramento” (es. mi ha dato una bella lezione di coerenza). Nel linguaggio filologico designa il modo in cui risultano scritti una parola o un passo nei manoscritti o nelle stampe che forniscono testimonianza di

un testo (es. per quel passo dei Promessi sposi si preferisce la lezione dell’edizione del 1840 a quella del 1827).

Escogitate

>

(riga 10)

Escogitare deriva dal latino cogitàre, “pensare”, con il prefisso rafforzativo ex-. Qui il verbo ha appunto il senso di “meditare”; nel linguaggio attuale invece vale “trovare qualcosa con estrosa inventività, specie in situazioni difficili”, e viene usato spesso ironicamente (es. ha escogitato un bell’espediente per tirarsi fuori dai guai).

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L’età del Rinascimento

Analisi del testo L’orgoglio dello scrittore

L’esperienza delle cose moderne e la lezione delle antiche

Il rifiuto del linguaggio aulico

> La conoscenza delle leggi della politica

Ciò che in primo luogo colpisce nella Dedica è l’orgoglio dello scrittore per la conoscenza delle leggi della politica da lui acquisita in tanti anni di attività, e con tanti «disagi e periculi». È lo stesso orgoglio espresso nella lettera al Vettori ( T1, p. 362), in cui afferma che dal Principe, quando venisse letto, si vedrebbe che i «quindici anni» in cui è stato «a studio dell’arte dello stato» non li ha «né dormiti, né giuocati». Machiavelli è convinto di aver inteso a fondo quelle leggi, di poterle dominare perfettamente, e con il suo libro vuole offrire ad uno statista la possibilità di penetrarle «in brevissimo tempo»: è sottinteso per applicarle nella pratica, nella costruzione di uno Stato.

> L’esperienza della realtà concreta

La fonte della sua conoscenza della politica è qui definita da Machiavelli con una formula famosissima, divenuta quasi proverbiale: la «lunga esperienzia delle cose moderne» e la «continua lezione delle antique». Machiavelli tiene a ribadire che la sua conoscenza non è mai astratta, dedotta da puri princìpi speculativi, ma scaturisce sempre dall’esperienza della realtà concreta: sappiamo infatti che anche nei libri antichi è depositata un’esperienza vissuta ( La politica come scienza autonoma, p. 375); non solo, ma la «lezione» della storia antica si può sempre applicare al presente perché, per Machiavelli, la natura umana è immutabile e le leggi che regolano il comportamento politico degli uomini restano identiche in ogni tempo e in ogni luogo.

> La lingua e lo stile del Principe

Il terzo punto rilevante della Dedica riguarda la lingua e lo stile dell’opera. Come si legge, lo scrittore rifiuta le «clausule ample» e le «parole ampullose e magnifiche», cioè il periodare complesso e la terminologia aulica che erano propri della trattatistica classicheggiante dei suoi tempi. Machiavelli è uomo di solida cultura umanistica, ma non si identifica affatto con il tipo del letterato del Cinquecento, chiuso nel suo mondo libresco: è uomo d’azione, che è vissuto quindici anni nel fervore della scena politica europea, a contatto diretto con i grandi problemi e le grandi figure del momento storico; in secondo luogo la sua opera vuole avere un carattere militante, vuole conseguire un’utilità immediata. Per questo gli ornamenti retorici sarebbero fuori luogo, risulterebbero di disturbo: le “cose” dette si devono imporre per la loro forza intrinseca, senza mediazioni letterarie.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. In quali passi del brano Machiavelli fa diretto riferimento alla propria consolidata esperienza in campo politico? > 2. Spiega il significato delle righe 20-25 e valutane l’efficacia nell’ambito generale del discorso. AnALIzzARe

> 3.

Stile Quali espressioni sembrano evidenziare un atteggiamento di captatio benevolentiae nei confronti di Lorenzo de’ Medici? > 4. Lessico Verifica le affermazioni di Machiavelli rispetto allo stile della sua opera: sono presenti termini colti o ricercati? La sintassi è semplice e lineare? Motiva le tue risposte con alcuni esempi. > 5. Lingua Verifica le caratteristiche della lingua utilizzata nel brano rispetto alle affermazioni programmatiche di Machiavelli individuando qualche elemento e/o aspetto significativo.

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

esporre oralmente A quale situazione fa riferimento l’espressione «una grande e continua malignità di fortuna» (r. 31)? Nel rispondere, delinea la vicenda personale di Machiavelli nel contesto storico, politico e culturale fiorentino (max 3 minuti).

384

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli PeR IL ReCuPeRo

> 7.

esporre oralmente Con l’aiuto dell’insegnante, prova a spiegare il senso dell’affermazione che Maurizio Viroli, autore di un saggio su Machiavelli intitolato Il sorriso di Niccolò, attribuisce a Machiavelli (max 3 minuti).

Si racconta che prima di morire, il 21 giugno 1527, Niccolò Machiavelli abbia raccontato agli amici che gli restarono vicini fino all’ultimo di un suo sogno, che diventò poi celebre nei secoli come “il sogno di Machiavelli”. Disse di aver visto in sogno una schiera di uomini, malvestiti, dall’aspetto misero e sofferente. Chiese loro chi fossero e quelli gli risposero «siamo i santi e i beati; andiamo in paradiso». Vide poi una moltitudine di uomini di aspetto nobile e grave, vestiti con abiti solenni, che discutevano solennemente di importanti problemi politici. Riconobbe fra di essi i grandi filosofi e storici dell’antichità che avevano scritto opere fondamentali sulla politica e sugli stati, fra i quali Platone, Plutarco e Tacito. Chiese anche a loro chi fossero e dove andassero. «Siamo i dannati dell’Inferno», gli risposero. Terminato il racconto spiegò agli amici che preferiva di gran lunga andarsene all’inferno per ragionare di politica con i grandi uomini dell’antichità piuttosto che in paradiso a morire di noia con i beati e i santi. M. Viroli, Il sorriso di Niccolò, Laterza, Roma-Bari 1998

Analisi interattiva

T3

Quanti siano i generi di principati e in che modo si acquistino

Temi chiave

• una classificazione sistematica delle forme di governo

• il metodo induttivo e dilemmatico

dal Principe, cap. I

Quot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur Tutti gli stati, tutti e dominii che hanno avuto e hanno imperio1 sopra li uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E principati sono: o ereditarii, de’ quali el sangue2 del loro signore ne sia suto3 lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza4, o e’ sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna5. Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe o usi ad essere liberi6; e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù. 1. imperio: potere, sovranità. 2. sangue: la stirpe. 3. suto: stato. 4. come … Sforza: Francesco Sforza (140166), condottiero e uomo politico, nel 1450 si

impadronì di Milano, divenuta repubblica alla morte di Filippo Maria Visconti (Repubblica Ambrosiana). 5. come … Spagna: Ferdinando II re di Spagna (1452-1516) conquistò il Regno di

Napoli nel 1503 dopo una guerra con la Francia. 6. ad essere liberi: a vivere sotto un governo repubblicano.

Analisi del testo

> L’impostazione del ragionamento

Il metodo deduttivo medievale

Il primo capitolo ha il compito di enunciare la materia del trattato e di passare rapidamente in rassegna tutti i temi principali che vi saranno affrontati. Nel modo di impostare il ragionamento e di costruire il discorso il capitolo è subito illuminante, poiché ci dà l’idea della forza e della rivoluzionaria novità della trattazione successiva. La trattazione medievale infatti procedeva sempre da princìpi primi metafisici (da Dio) e costruiva il ragionamento per via deduttiva: i concetti erano via via dedotti da altri concetti più alti e generali, che avevano il fondamento nel trascendente. Tale era la prosa del Dante dottrinario del Convivio e della Monarchia, tale era la prosa di san Tommaso e degli altri filosofi della Scolastica. 385

L’età del Rinascimento

Machiavelli invece non parte da premesse metafisiche né da princìpi trascendenti, si muove solo sul piano della realtà immanente, che egli ha sotto gli occhi; di conseguenza non vi sono gerarchie a piramide di concetti dedotti gli uni dagli altri, ma le osservazioni si susseguono a catena, tutte su uno stesso piano, il piano della realtà concreta e verificabile.

> Il metodo induttivo Il partire dall’esperienza

In apparenza anche il pensiero di Machiavelli è deduttivo, perché poggia su definizioni che vogliono avere valore generale, come quella che apre il capitolo. In realtà questa definizione universale non è un punto di partenza, ma è il punto d’arrivo di un’esplorazione del reale compiuta in precedenza e sottintesa. Machiavelli afferma che tutti gli Stati sono o repubbliche o principati non in nome di un principio metafisico, ma dopo aver raccolto i dati oggettivi in base all’esperienza, sia l’«esperienzia» tratta dalle «cose moderne» sia la «lezione» delle antiche ( T2, p. 382). Quindi quella che può sembrare l’affermazione universale di un procedere deduttivo è in realtà il risultato di un percorso induttivo, che raccoglie i dati della realtà empirica.

> Il metodo dilemmatico

L’allinearsi delle varie osservazioni l’una dopo l’altra si organizza in un modo che è caratteristico del pensiero e del metodo espositivo di Machiavelli, quello dilemmatico. La realtà si scinde sempre in due possibilità nettamente contrapposte, e a sua volta il secondo corno di ogni “dilemma” di norma si scinde in altre due alternative: o repubbliche o principati, i principati sono o ereditari o nuovi ecc.; i principati si acquistano con armi altrui o con le proprie, con virtù o con fortuna. È un modo di procedere che si definisce propagginato, in quanto derivazione da un ceppo o radice comune.

La secchezza del periodare

> Lo stile

La brevità e la secchezza estrema del periodare permettono di vedere subito all’opera il principio che Machiavelli enunciava nella Dedica, di voler evitare la sintassi ampia e il linguaggio ampolloso della trattatistica classicheggiante e di volersi affidare solo alla forza della materia in sé, senza ornamenti retorici estrinseci. Ancora importante è la comparsa, in chiusura del capitolo, della coppia oppositiva «virtù»-«fortuna», che è centrale nel pensiero di Machiavelli e costituirà l’ossatura fondamentale di tutto il trattato.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Quali sono i temi affrontati nel primo capitolo oltre a quelli enunciati nel titolo? > 2. Quali riferimenti alla realtà «effettuale» conosciuta attraverso l’«esperienzia» sono presenti nel testo? AnALIzzARe

> 3.

Stile Completa il seguente schema, che permette di visualizzare il tipico procedimento «dilemmatico propagginato» di Machiavelli.

Stati

..............................................................

principati

..............................................................

.............................................

386

.............................................

.............................................

.............................................

nuovi

acquistati con le armi altrui .............................................

.............................................

.............................................

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

> 4.

Stile Nel testo è rispettato il principio relativo alla lingua e allo stile che Machiavelli enunciava nella Dedica? Motiva la tua risposta. > 5. Lessico Ricostruisci, con l’ausilio di un dizionario etimologico disponibile anche on line, il significato dei termini «virtù» e «fortuna» nell’accezione intesa da Machiavelli ( Virtù e fortuna, p. 379).

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Testi a confronto: esporre oralmente Effettua un confronto con De Monarchia, III, XV, 7-18 di Dante: è avvalorata la chiave di lettura in termini di applicazione del metodo deduttivo per l’autore medievale e induttivo per Machiavelli? Motiva la tua risposta (max 5 minuti).

T4

I principati nuovi che si acquistano con armi proprie e con la virtù

Temi chiave

• la fondazione di un principato nuovo • il valore esemplare della storia • una concezione naturalistica dell’uomo • il rapporto tra virtù e fortuna • la necessità di ricorrere alla forza

dal Principe, cap. VI

De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur

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Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e di principe e di stato1, io addurrò grandissimi esempli; perché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere2, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere3, debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore4; e fare come gli arcieri prudenti5, e quali parendo el loco dove disegnano ferire6 troppo lontano e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco7, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere8 con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con l’aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro9. Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si truova a mantenerli più o meno difficultà, secondo che più o meno è virtuoso colui che gli acquista. E perché questo evento, di diventare di privato principe10, presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighi in parte di molte difficultà: nondimanco colui che è stato meno in su la fortuna11 si è mantenuto più.

1. di principe … stato: nella dinastia re­ gnante e negli ordinamenti. 2. tenere: seguire. 3. alla virtù … aggiugnere: raggiungere lo stesso livello di virtù di coloro che sono imitati. 4. ne renda … odore: ne conservi qualche traccia.

5. prudenti: accorti. 6. el loco … ferire: il bersaglio che intendo­ no colpire. 7. a quanto … arco: qual è la gittata, fino a dove può giungere il loro arco. 8. aggiugnere: giungere. 9. pervenire … loro: colpire il bersaglio desi­

gnato. 10. di diventare … principe: di passare dalla condizione di privato cittadino a quella di principe. 11. colui … fortuna: colui che si è basato meno sulla fortuna.

Pesare le parole Prudente (riga 6)

> Proviene dal latino prudentem, da pro e vidère, “vedere

prima” (quindi in modo da non essere colti di sorpresa e da poter provvedere ripari). Qui è usato nel senso latino, “accorto, avveduto, che sa agire con intelligenza e sag-

gezza”. Nel linguaggio attuale ha assunto sfumature diverse, “cauto, circospetto, che usa misura nell’agire e nel parlare ed evita il rischio” (es. è molto prudente nella guida).

387

L’età del Rinascimento

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Genera ancora facilità12 essere el principe costretto, per non avere altri stati, venire personalmente ad abitarvi. Ma per venire a quelli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo13 e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto14 uno mero esecutore delle cose che li erano ordinate da Dio, tamen15 debbe essere ammirato solum16 per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma consideriamo Ciro e li altri che hanno acquistato o fondato regni: li troverrete tutti mirabili17. E se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quelli di Moisè, che ebbe sì gran precettore18. Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia a potere introdurvi drento quella forma parse loro19: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano. Era dunque necessario a Moisè trovare el populo d’Isdrael, in Egitto, stiavo20 e oppresso dalli Egizii, acciò che quelli21 per uscire di servitù si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capissi22 in Alba, fussi stato esposto al nascere23, a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e Persi malcontenti dello imperio de’ Medi, e li Medi molli ed effeminati per la lunga pace. Non posseva Teseo dimostrare la sua virtù se non trovava li Ateniesi dispersi24. Queste occasioni pertanto feciono questi uomini felici25, e la eccellente virtù loro fece quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima. Quelli e quali per vie virtuose26, simili a costoro, diventano principi, acquistono el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli hanno nello acquistare el principato, in parte nascono da’ nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e la loro securtà27. E debbasi considerare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire né più periculosa a maneggiare, che farsi capo a28 introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene29, e ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi fareb-

12. facilità: sottinteso: a mantenere lo Stato. 13. Moisè … Teseo: Mosè (vissuto forse nel XIII secolo a.C.) liberò gli Ebrei dalla schiavitù in Egitto e li guidò alla terra promessa, dando loro le leggi; Ciro fu il fondatore della monarchia persiana (560 a.C.); Romolo secondo la tradizione fu il primo re di Roma (VIII secolo a.C.); Teseo fu il mitico re di Atene (XII secolo a.C.). Machiavelli pone indifferentemente sullo stesso piano personaggi storici e personaggi leggendari. 14. sendo suto: essendo stato. 15. tamen: tuttavia. 16. solum: solo.

17. mirabili: degni di ammirazione. 18. precettore: Dio (vi è un’evidente sfumatura ironica). 19. la quale … loro: la quale (occasione) diede loro materia di introdurvi quella forma che parve loro opportuna. 20. stiavo: schiavo. 21. quelli: riferito a senso al populo d’Isdrael. 22. non capissi: non trovasse posto. Romolo fu espulso da Alba Longa. 23. fussi … nascere: fosse abbandonato appena nato. La leggenda narra che Romolo e Remo furono allattati da una lupa. 24. li Ateniesi dispersi: Teseo riunì i popoli

dell’Attica, divisi in dodici città, in un unico organismo politico, che aveva come centro Atene. 25. feciono … felici: garantirono il successo. Felici conserva il senso del latino, fortunato, prospero. 26. per vie virtuose: mediante la virtù, cioè l’accortezza e l’energia attiva. 27. nascono … securtà: le difficoltà nasco­ no dai nuovi ordinamenti e modi di organiz­ zare lo Stato che sono costretti ad introdurre per dare saldi fondamenti al loro potere. 28. farsi capo a: prendere l’iniziativa di. 29. fanno bene: traggono vantaggio.

Pesare le parole Felici (riga 36)

> Anche qui la parola è usata nel senso del latino felìcem,

“fortunato, che gode di una prospera condizione”. Per noi ha un senso un po’ diverso, più soggettivo, psicologico: “lieto, contento, che prova piacere, è pieno di gioia, è appagato nei suoi desideri” (es. sono felice di vederti dopo tanto tempo, leggere quel bel libro mi ha reso fe-

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lice). Se riferito a una realtà oggettiva, vale “che dà felicità” (es. ho vissuto giorni felici). In senso figurato può significare “favorevole, propizio, che dà buoni risultati” (es. l’operazione ha avuto esito felice, ha fatto una scelta felice, ha avuto un’idea felice, nel tirare a sorte ha avuto la mano felice).

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

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bono bene30. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii che hanno le leggi dal canto loro31, parte dalla incredulità delli uomini: li quali non credano in verità le cose nuove se non ne veggano nata una ferma esperienzia. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare32, lo fanno partigianamente, e quelli altri defendano tepidamente33: in modo che insieme con loro si periclita34. È necessario pertanto, volendo discorrere35 bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi36 o se dependano da altri; cioè, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino o vero possono forzare37. Nel primo caso capitano sempre male e non conducano38 cosa alcuna; ma quando dependano da loro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano39. Di qui nacque che tutti e profeti armati40 vinsono, e gli disarmati ruinorno41. Perché oltra alle cose dette, la natura de’ populi è varia42; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo che, quando e’ non credano più, si possa fare credere loro per forza43. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto fare osservare loro44 lungamente le loro costituzioni se fussino45stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra’ Ieronimo Savonerola46, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi come la moltitudine cominciò a non credergli47, e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto, né a far credere e discredenti48. Però questi tali49 hanno nel condursi50 gran difficultà, e tutti e loro periculi sono fra via51, e conviene che con la virtù gli superino; ma superati che gli hanno, e che cominciano ad essere in venerazione52, avendo spenti quelli che di sua qualità gli avevano invidia53, rimangono potenti, securi, onorati, felici.

30. ha tepidi … bene: trova tiepidi difensori in tutti quelli che potrebbero trarre vantaggio dagli ordinamenti nuovi, perché, come spiega subito dopo, non avendoli ancora sperimentati sono diffidenti. 31. hanno … loro: hanno le leggi dalla loro parte, perché si rifanno ai vecchi ordinamenti, non ancora sostituiti, mentre i nuovi ordinamenti sono ancora tutti da creare. 32. assaltare: di combattere (il nuovo principe). 33. partigianamente … tepidamente: i difensori del vecchio regime lo difendono con accanimento, mentre i fautori del nuovo lo appoggiano con poco slancio. 34. si periclita: si corre pericolo (latinismo). 35. discorrere: esaminare. 36. stanno … medesimi: possono basarsi sulle loro forze. 37. bisogna … forzare: occorre che invochi­ no l’aiuto di altri, oppure possono usare la forza. 38. conducano: portano a compimento. 39. periclitano: corrono il rischio di fallire. 40. profeti armati: si riferisce ai grandi perso-

naggi come Mosè, Romolo ecc., fondatori di nuovi Stati. Con «profeti disarmati» Machiavelli allude essenzialmente a Girolamo Savonarola, di cui tratterà più avanti nel capitolo. 41. ruinorno: andarono in rovina. 42. varia: variabile. 43. però … forza: perciò è necessario fon­ darsi su ordinamenti tali che, quando i popoli non hanno fiducia nei principi, li si possa ob­ bligare con la forza. 44. loro: ai loro popoli. 45. fussino: fossero. 46. Ieronimo Savonerola: frate domenicano ferrarese (1452-98), fu molto popolare a Firenze per le sue prediche apocalittiche, in cui preannunciava grandi sciagure ai fiorentini in punizione dei loro peccati. Le sue profezie sembrarono avverarsi quando Carlo VIII re di Francia entrò in Firenze e i Medici furono costretti alla fuga, sicché acquistò grande prestigio. Ebbe una parte decisiva nell’elaborazione della nuova costituzione repubblicana e finì per esercitare sulla città una specie di dittatura, appoggiato dal partito dei “pia-

gnoni”. Le altre forze politiche però lo avversarono violentemente, con l’appoggio del papa Alessandro VI, sinché, nel 1498, fu condannato a morire sul rogo come eretico. 47. ruinò … credergli: andò in rovina insie­ me ai nuovi ordinamenti da lui introdotti non appena il popolo cominciò a non credergli più. 48. non aveva … discredenti: non dispo­ nendo di forze proprie (è un «profeta disarmato»), non riuscì a tenere dalla sua parte quelli che, dopo averlo seguito, gli si erano rivoltati, né indurre a seguirlo quelli che lo avversavano. 49. questi tali: coloro che possono contare su forze proprie. 50. nel condursi: nel portare a compimento i loro disegni. 51. fra via: durante il percorso. 52. ad … in venerazione: ad essere venerati dal popolo. 53. avendo spenti … invidia: avendo ri­ dotto in condizione di non nuocere (con l’eliminazione fisica, o con altri mezzi) coloro che li avevano in odio per le loro qualità (invidia è un latinismo).

Pesare le parole Invidia (riga 65)

> Ancora un latinismo: in latino, come qui, invìdia significa

“odio”. Nel linguaggio attuale ha sfumature diverse: “rancore, astio per la fortuna o le qualità altrui, unito al desiderio che tutto ciò si trasformi in male” (es. è roso dall’invidia per il successo commerciale del concorrente). Può avere anche un’accezione benevola, “ammirare

>

beni o qualità altrui desiderando di possederne in uguale misura” (es. ha una salute che fa invidia): la differenza è che nel secondo caso non si desidera il male altrui. L’etimologia di invidia è da in- più vidère, letteralmente “guardare di mal’occhio in modo da recar danno a ciò che si guarda”, cioè “gettare il malocchio”.

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L’età del Rinascimento

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A sì alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene arà qualche proporzione con quelli54, e voglio mi basti per tutti li altri simili: e questo è Ierone Siracusano55. Costui di privato diventò principe di Siracusa; né ancora lui conobbe altro dalla fortuna che la occasione: perché, sendo e Siracusani oppressi56, lo elessono per loro capitano; donde meritò di essere fatto loro principe. E fu di tanta virtù, etiam in privata fortuna57, che chi ne scrive dice «quod nihil illi deerat ad regnandum praeter regnum58». Costui spense59 la milizia vecchia, ordinò della nuova60, lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e come ebbe amicizie e soldati che fussino suoi, possé in su tale fondamento edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare e poca in mantenere61.

54. arà … quelli: potrà avere dei punti di pa­ ragone con quelli. 55. Ierone Siracusano: Gerone, tiranno di Siracusa nel III secolo a.C. 56. Siracusani oppressi: Siracusa era minacciata dai Mamertini, mercenari italici che

dominavano Messina; Gerone li sconfisse nel 269 a.C., e grazie a questa vittoria divenne “tiranno” di Siracusa. 57. etiam … fortuna: anche nella vita privata. 58. chi … regnum: Giustino, scrittore latino del II secolo d.C., dice di lui, che «nulla gli

mancava per essere re, tranne il regno». 59. spense: abolì. 60. ordinò della nuova: arruolò nuove truppe. 61. durò … mantenere: fece grande fatica a conquistare il potere, ma poca a mantenerlo.

Competenze attivate

Analisi attiva CoMPRendeRe

> La fondazione del principato nuovo

In questo capitolo, Machiavelli punta la sua attenzione sulla fondazione dei principati «al tutto nuovi» grazie alla «virtù» del principe e mediante l’utilizzo di «armi proprie». Il tema è illustrato attraverso i casi esemplari di grandi uomini dell’antichità, indicati al principe nuovo come modelli da imitare: si tratta di personaggi virtuosi ed eccezionali, che seppero trarre profitto dalle loro qualità personali sfruttando a proprio vantaggio la contingenza storica e conducendo a buon esito le loro imprese con il ricorso alla forza.

• Leggere, comprendere ed interpretare

testi letterari: prosa • Dimostrare consapevolezza della

storicità della letteratura

> 1. Che cosa intende Machiavelli con l’espressione «principati al tutto nuovi»? > 2. Quali figure illustri sono citate a titolo di esempio nel capitolo?

> 3. Riassumi il contenuto del capitolo in 20-25 righe (1000-1250 caratteri).

AnALIzzARe

> Il principio di imitazione

Il capitolo, senz’altro uno dei più importanti del Principe, prende le mosse affrontando problemi teorici e metodologici: vi si manifesta la concezione della storia propria di Machiavelli, che ravvisa nel comportamento degli uomini delle costanti pressoché fisse in ogni tempo e in ogni luogo («camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri»). Da questa sostanziale fissità dei caratteri dell’uomo deriva per Machiavelli la possibilità di ricavare leggi generali dell’agire politico e di trarre insegnamenti dagli eventi politici del passato per l’azione nel presente: è l’applicazione al campo politico del principio di imitazione caro alla cultura rinascimentale.

> La visione naturalistica

Alla base di questa concezione della storia vi è una visione tipicamente naturalistica, nel senso che l’uomo viene considerato come uno dei tanti fenomeni della natura e pertanto è ritenuto immutabile nel tempo e nello spazio, come il corso del sole e delle stelle o come il ciclo delle stagioni. Tuttavia il naturalismo di Machiavelli non dà origine ad una forma di determinismo: le leggi non sono così

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> 4. Come viene giustificata nel testo l’applicazione in campo politico del principio di imitazione?

> 5. A quale proposito è introdotta la similitudine degli «arcieri prudenti»? Spiegane brevemente il significato.

> 6. Confronta la concezione della storia che si manifesta in apertura del capitolo con quella enunciata nel Proemio al libro I dei Discorsi ( T10, p. 421). Quale idea dell’uomo ha alla propria base?

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

ferree da determinare necessariamente, in ogni minimo dettaglio, il comportamento umano. A parere del pensatore resta un margine di libertà per l’uomo, a seconda di come la sua «virtù» personale si mette in rapporto con la realtà oggettiva che si trova di fronte.

> un’opera militante

> 7. Di quali doti intellettuali e pratiche è composta secondo Machiavelli la «virtù» del principe, per quanto si può dedurre da questo capitolo?

> Il rapporto tra virtù e fortuna

> 8. Il rapporto tra virtù e fortuna è un motivo centrale nel Principe. Che concezione emerge qui della fortuna? Machiavelli ammette interventi trascendenti e provvidenziali o considera solo i fattori immanenti?

Non bisogna infatti dimenticare che il libretto nasce come opera militante, intesa a fornire ad un principe abile ed energico gli strumenti per operare in una situazione di straordinaria difficoltà, la crisi italiana del primo Cinquecento, e per superarla felicemente: per questo le doti che il principe deve possedere per affrontare in modo efficace l’eccezionale «gravità de’ tempi» assumono un rilievo centrale nella riflessione machiavelliana. Qui il problema del rapporto tra virtù e fortuna, che restava sottinteso in tutti i capitoli precedenti, è affrontato per la prima volta esplicitamente. Proprio questo è il secondo grande problema teorico affrontato dal capitolo, il rapporto tra virtù e fortuna. La «fortuna» è costituita dall’insieme delle circostanze oggettive in cui il politico si trova ad operare, e che sono indipendenti dalla sua volontà; un insieme di circostanze molto varie, che hanno il carattere della pura casualità. Ebbene, per il principe che sia «virtuoso», la «fortuna» costituisce semplicemente l’occasione del suo agire, come una materia informe su cui, con il suo operare, egli esprime una «forma», plasmandola secondo le sue esigenze. È evidente qui il proposito machiavelliano di esaltare la forza dell’uomo (dell’uomo eccezionale, naturalmente, dell’eroe), la sua capacità di esercitare il dominio sul mondo che lo circonda. Per il vero politico le circostanze fortuite sono solo il punto d’avvio della sua azione.

> L’occasione

L’«occasione» resta però un limite oggettivo, ineliminabile, di tale agire. Virtù e fortuna non sono variabili indipendenti, ma si implicano l’una con l’altra, ciascuna delle due è condizione necessaria, ma non sufficiente. Come con grande chiarezza afferma Machiavelli, senza l’occasione esterna la virtù del principe non avrebbe modo di mostrarsi, e viceversa senza una virtù che la sappia cogliere l’occasione sarebbe vana, non potrebbe produrre da sola certi eventi (come la creazione dello Stato). La forza creatrice del principe demiurgo (come è stato chiamato) non è assoluta, da sola non basta, deve sempre fare i conti con la realtà oggettiva; ma d’altro lato la fortuna non è onnipotente.

> Il realismo nell’analisi

Uno dei concetti centrali del capitolo è che chi conquista il principato non affidandosi alla fortuna, ma grazie alla sua virtù, ha maggiori difficoltà nell’acquistarlo, ma trova maggiore facilità nel mantenerlo. La difficoltà consiste soprattutto nell’introdurre i nuovi ordinamenti dello Stato. Nel motivare questa asserzione, Machiavelli dà prova del suo tipico metodo d’analisi, realistico e spregiudicato, che calcola solo i rapporti di forza e gli interessi, mai le motivazioni ideali.

> 9. Secondo Machiavelli il politico ha la possibilità di piegare le circostanze nella direzione da lui voluta? Motiva la risposta con opportuni riferimenti al testo.

> 10. Quale ruolo Machiavelli attribuisce all’«occasione»?

> 11. L’«occasione» migliore per l’esercizio della virtù politica è indicata nel testo in una condizione negativa, come dimostrano gli esempi di Mosè, Teseo, Ciro e Romolo. Individua e illustra brevemente quali «occasioni» ha rispettivamente offerto loro la fortuna.

> 12. Quali difficoltà incontra il principe nell’introdurre i nuovi ordinamenti dello Stato e perché?

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L’età del Rinascimento

> La forza

Ne scaturisce una delle affermazioni più caratteristiche del realismo di Machiavelli, che nella politica guarda alla «verità effettuale della cosa», non all’ideale e al dover essere ( T6, p. 399): la necessità della forza. E si inserisce qui la polemica contro i «profeti disarmati», che, non disponendo di forze proprie, sono necessariamente destinati alla sconfitta. Solo nella forza risiede la ragione della saldezza degli Stati. Però se per Machiavelli la forza è fattore indispensabile, non bisogna credere che egli ne auspichi un uso brutale e indiscriminato: come emerge da molti luoghi del Principe, altro elemento fondamentale per la stabilità del potere è il consenso dei sudditi; senza di esso lo Stato ha fondamenti fragili.

> L’impostazione dilemmatica

Dal punto di vista dell’organizzazione logica ed espressiva del discorso, si può osservare nel capitolo la tipica impostazione dilemmatica. La realtà si presenta sempre a Machiavelli per antitesi nette, divisa in opportunità fortemente divaricate, tra cui è giocoforza scegliere.

> 13. Quale ruolo assume l’uso della forza nella conservazione del potere in un principato nuovo?

> 14. Che cosa intende Machiavelli per «profeti disarmati»?

> 15. Individua tutti i punti del capitolo nei quali Machiavelli ricorre all’impostazione dilemmatica del discorso. Quali sono i termini che entrano in opposizione?

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> La polemica contro Savonarola

Tra i personaggi ricordati in questo capitolo vi è il frate domenicano Gerolamo Savonarola, citato come esempio in negativo a dimostrazione dell’importanza della forza militare in campo politico.

T5

I principati nuovi che si acquistano con le armi altrui e con la fortuna

> 16. Ricerca in che modo le vicende della “repubblica” di Savonarola s’intrecciano con la biografia di Machiavelli. La figura del frate domenicano è tratteggiata in modo obiettivo o parziale?

Temi chiave

• il caso esemplare di Cesare Borgia • il realismo politico di Machiavelli

dal Principe, cap. VII

De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur

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Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano: e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano1; ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti2. E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia3 di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua securtà e gloria4; come erano fatti ancora quelli imperatori che di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio5.

1. vi volano: arrivano al potere con grande facilità, di slancio. 2. e’ sono posti: si sono insediati al potere. 3. grazia: favore. 4. come intervenne … gloria: come av­

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venne a molti nelle colonie greche dell’Asia Minore, dove nel VI secolo Dario, re dei Per­ siani, creò dei tiranni che governassero quel­ le città per tutelare la sua sicurezza e la sua gloria.

5. come erano … imperio: come avvenne a quegli imperatori romani che acquistarono la loro carica corrompendo gli eserciti con dona­ zioni. È l’esempio di coloro che acquistano lo Stato “per denari”.

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Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e fortuna di cui lo ha concesso loro6, che sono dua cose volubilissime e instabili: e non sanno e non possono tenere quel grado. Non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna7, sappi comandare: non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli. Dipoi li stati che vengano subito8, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro9; in modo che el primo tempo avverso le spenge: se già quelli tali, come è detto, che sì de repente10 sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli faccino poi11. Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti circa el diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra12: e questi sono Francesco Sforza13 e Cesare Borgia14. Francesco, per li debiti mezzi15 e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; nonostante che per lui si usassi ogni opera16 e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso17 uomo si dovea fare per mettere le barbe18 sua in quelli stati che l’arme e fortuna d’altri gli aveva concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio19. Se adunque si considerrà tutti e progressi20 del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia: e quali non iudico superfluo discorrere21, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non li profittorono22, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità23 di fortuna. Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande24 el duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e’ Viniziani non gnene consentirebbano25: perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ Viniziani. Vedeva oltre di questo l’arme di Italia26, e quelle in spezie di chi si fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa; e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi27 e loro complici.

6. Questi … loro: questi dipendono sempli­ cemente dalla volontà e dalla fortuna di chi ha concesso loro il potere. 7. in privata fortuna: in condizione di priva­ to, senza cariche politiche. 8. vengano subito: che nascono con grande rapidità. 9. barbe e corrispondenzie loro: radici e loro ramificazioni. Il paragone con le radici dell’albero rivela la concezione naturalistica di Machiavelli, che concepisce lo Stato come un organismo vivente che nasce, cresce e muore. 10. de repente: improvvisamente. 11. quelli fondamenti … poi: a meno che non creino poi quei fondamenti del potere, che altri hanno costruito prima di diventare principi. 12. ne’ dì … nostra: verificatisi nella storia recente. 13. Francesco Sforza: nel 1450 prese il potere a Milano, rovesciando la Repubblica

Ambrosiana nata dopo la morte di Filippo Maria Visconti. 14. Cesare Borgia: figlio del papa Alessandro VI, fu detto duca Valentino dal ducato di Valentinois, in Francia, di cui era insignito. Con l’appoggio del padre si impadronì della Romagna e del ducato di Urbino, mirando a costruire uno Stato personale nell’Italia centrale, con la conquista anche della Toscana. La morte del papa fece però crollare tutta la sua costruzione, ed egli stesso, di lì a poco (1507), si ammalò e morì. 15. per li debiti mezzi: con i mezzi necessari. 16. che per lui … opera: che da parte sua fosse compiuta ogni azione. 17. prudente e virtuoso: accorto ed energico. 18. le barbe: le radici. 19. con disagio … edifizio: con sforzo del costruttore e con pericolo dell’edificio politico costruito. Sviluppa la metafora dei fondamenti.

20. progressi: modi di procedere. 21. discorrere: esaminare. 22. li ordini … profittorono: e se le costru­ zioni politiche da lui messe insieme non ne trassero profitto. 23. malignità: avversità. 24. fare grande: farlo principe di uno Stato. 25. volgendosi … consentirebbano: rivol­ gendosi ai domini della Chiesa per assicurare uno Stato al figlio, sapeva che il duca di Milano e i Veneziani non glielo avrebbero consentito: Ludovico Sforza, detto il Moro, proteggeva alcuni della sua casata che erano signori di Forlì e Pesaro; i veneziani invece proteggevano Faenza e Rimini. 26. l’arme di Italia: le milizie mercenarie disponibili in Italia. 27. Orsini e Colonnesi: Orsini e Colonna, fra le più potenti famiglie nobili di Roma, erano potenti condottieri, ed erano ferocemente ostili al papa Alessandro VI.

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Era adunque necessario che si turbassino quelli ordini, e disordinare li stati di coloro28, per potersi insignorire securamente di parte di quelli. Il che li fu facile perché e’ trovò e Viniziani che mossi da altre cagioni29 si erono volti a fare ripassare e Franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse ma lo fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antiquo del re Luigi30. Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ Viniziani e consenso di Alessandro: né prima fu in Milano31 che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la quale li fu consentita per la reputazione del re. Acquistata adunque el duca la Romagna e sbattuti e Colonnesi32, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una l’arme sua che non gli parevano fedeli, l’altra la volontà di Francia: cioè che l’arme Orsine33 delle quali s’era valuto li mancassino sotto34, e non solamente li impedissino lo acquistare ma li togliessino lo acquistato, e che il re35 ancora non gli facessi el simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro36 quando dopo la espugnazione di Faenza assaltò Bologna, ché gli vidde andare freddi in quello assalto; e circa el re, conobbe l’animo suo quando, preso el ducato di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa el re lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme e fortuna d’altri. E, la prima cosa, indebolì le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti gli aderenti loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provvisioni37, e onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi38: in modo che in pochi mesi nelli animi loro l’affezione delle parti39 si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutisi li Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione40 nel Perugino; da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca; li quali tutti superò con lo aiuto de’ Franzesi. E ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare si volse alli inganni41; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini medesimi, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco42: con il quale el duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo43, dandogli danari veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle sua mani44. Spenti adunque questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua45, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con el ducato di Urbino, parendoli massime46 aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el bene essere loro47.

28. disordinare … coloro: abbattere le si­ gnorie sopra menzionate. 29. altre cagioni: i veneziani appoggiavano la discesa del re di Francia Luigi XII in Italia, sperando che questi favorisse la loro espansione in Lombardia. 30. il che … Luigi: il papa non solamente non contrastò la venuta dei francesi in Italia, ma la facilitò sciogliendo il primo matrimo­ nio del re Luigi e consentendogli così di sposa­ re la vedova di Carlo VIII, discendente dai Vi­ sconti, e quindi di vantare pretese sul ducato di Milano. 31. fu … Milano: nell’ottobre 1499; nel novembre Cesare Borgia iniziò la conquista della Romagna. 32. sbattuti e Colonnesi: scacciati i Colon­ na dalle loro terre (nel luglio 1500). 33. l’arme Orsine: le truppe degli Orsini, che erano passate dalla parte del duca Valentino.

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34. mancassino sotto: defezionassero nel bel mezzo dell’impresa. 35. il re: Luigi XII di Francia. 36. riscontro: conferma. 37. provvisioni: stipendi in denaro. 38. di condotte … governi: di cariche mili­ tari o civili (a seconda che fossero condottieri o uomini politici). 39. l’affezione delle parti: l’attaccamento alle fazioni degli Orsini e dei Colonna. 40. una dieta … Magione: un’adunanza al castello della Magione, vicino a Perugia, il 9 ottobre 1502. 41. per non … inganni: per non dover met­ tere ancora alla prova delle forze esterne infi­ de, ricorse agli inganni. 42. li Orsini … seco: la fazione degli Orsini si riconciliò con lui nell’ottobre 1502; a condurre le trattative ad Imola fu Paolo Orsini. 43. non mancò … assicurarlo: usò ogni ti­

po di cortesie per rassicurarlo. 44. la simplicità … mani: l’ingenuità con cui credettero alle sue simulazioni li indusse a venire a Senigaglia e a cadere nelle sue mani. Il 31 dicembre 1502 il Borgia fece uccidere a Senigaglia due signori della fazione degli Orsini che avevano partecipato alla congiura della Magione, Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo; il 18 gennaio stessa sorte riservò a Paolo Orsini e al duca di Gravina Orsini. 45. ridotti … sua: costretti i seguaci della lo­ ro fazione a seguirlo. 46. massime: soprattutto (latinismo). 47. per avere … loro: poiché quei popoli avevano cominciato a gustare, grazie al Valen­ tino, una condizione di tranquillità. Il Borgia, con metodi violenti, era riuscito a portare la pace in una regione dilaniata da conflitti e turbolenze (come spiega subito dopo).

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E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti48, e quali più presto avevano spogliato e loro sudditi che corretti49, e dato loro materia di disunione non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe50 e di ogni altra ragione di insolenzia51, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio52, darli buon governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco53, uomo crudele ed espedito54, al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Dipoi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa55; e preposevi56 uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo57, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo58. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli populi59 e guadagnarseli in tutto, volle monstrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui ma dalla acerba60 natura del ministro. E, presa sopr’a questo occasione61, lo fece a Cesena una mattina mettere in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto62. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi63. Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che trovandosi el duca assai potente e in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che vicine lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere con lo acquisto, el respetto del re di Francia64: perché conosceva come dal re, il quale tardi si era accorto dello errore suo, non li sarebbe sopportato65. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e vacillare66 con Francia nella venuta che feciono gli Franzesi verso el regno di Napoli contro alli Spagnoli che assediavono Gaeta67. E lo animo suo era assicurarsi di loro68, il che li sarebbe presto riuscito se Alessandro viveva. E questi furono e governi69 sua quanto alle cose presenti. Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico70 e cercassi tòrli71 quello che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e sangui72 di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzo, ridurre el Collegio più suo che poteva73; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto74.

48. impotenti: a imporre l’ordine. 49. corretti: disciplinati. 50. brighe: conflitti, rivalità violente. 51. ogni altra … insolenzia: ogni altro tipo di turbamento dell’ordine pubblico. 52. braccio regio: al potere del principe. 53. Remirro de Orco: Ramiro de Lorqua, nominato dal Valentino suo luogotenente in Romagna. 54. espedito: dai metodi sbrigativi. 55. dubitava … odiosa: temeva che diven­ tasse odiosa, e quindi suscitasse malcontento e rivolte. 56. preposevi: pose al governo della regione non più un capo militare come il de Lorqua, ma una magistratura civile, che usava tutt’altri metodi. 57. presidente eccellentissimo: Antonio del Monte, uomo colto e di valore. 58. ogni città … suo: ogni città della Romagna aveva presso questa magistratura, detta la Rota,

un suo avvocato, che ne difendeva gli interessi. 59. purgare … populi: per liberare gli animi dei romagnoli dall’odio contro di lui. 60. acerba: crudele. 61. presa … occasione: preso pretesto dalla crudeltà del suo luogotenente. 62. uno pezzo … a canto: il pezzo di legno allude probabilmente al ceppo delle esecuzio­ ni capitali, e il coltello insanguinato rimanda all’omicidio. I due simboli presentano l’uccisione di Ramiro de Lorqua come giusta punizione della sua ferocia sanguinaria. 63. satisfatti e stupidi: soddisfatti nel loro odio per Ramiro e sbalorditi per la ferocia dell’uccisione. 64. gli restava … Francia: nel procedere nella conquista di nuovi territori per il suo Sta­ to, doveva fare i conti con il re di Francia. 65. non … sopportato: non avrebbe soppor­ tato una sua ulteriore espansione, che avrebbe costituito un pericolo per la potenza francese.

66. vacillare: rendere meno stretta l’alleanza. 67. nella venuta … Gaeta: quando i france­ si scesero per contendere agli spagnoli il regno di Napoli, nel 1503. 68. assicurarsi di loro: mettersi le spalle al sicuro con i Francesi. Dopo che questi furono sconfitti a Cerignola nell’aprile 1503, Alessandro VI si accordò con gli spagnoli per una spedizione in Toscana e nel Milanese, ma morì poco dopo, nell’agosto. 69. governi: modo di comportarsi. 70. dubitare … amico: doveva temere in pri­ mo luogo che il nuovo papa non gli fosse amico. 71. tòrli: togliergli. 72. sangui: le dinastie (in modo che il nuovo papa non potesse restituire i territori ai signori precedenti). 73. ridurre … poteva: cercare di guada­ gnarsi la maggior parte del Collegio dei cardi­ nali, che doveva eleggere il nuovo papa. 74. impeto: assalto (latinismo).

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Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre: la quarta aveva quasi per condotta; perché, de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere75, e pochissimi si salvorono; e gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e, quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E come non avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gliene aveva ad avere più, per essere di già e Franzesi spogliati del Regno dalli Spagnoli76, di qualità che77 ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua), e’ saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia78 de’ Fiorentini, parte per paura: e Fiorentini non avevano remedio. Il che se gli fussi riuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì79), si acquistava tante forze e tanta reputazione che per se stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro morì dopo cinque anni ch’elli aveva cominciato a trarre fuora la spada80. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato81, con tutti li altri in aria, intra due potentissimi eserciti inimici, e malato a morte. Ed era nel duca tanta ferocità82 e tanta virtù, e sì bene conosceva come gli uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che se lui non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà. E che e fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più di uno mese83; in Roma, ancora che mezzo vivo84, stette sicuro, e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono seguito contro di lui; possé fare, se non chi e’ volle, papa, almeno che non fussi chi non voleva85. Ma se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa li era facile. E lui mi disse86, ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire. Raccolte87 io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo88; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile89 a tutti coloro che per fortuna e con l’armi d’altri sono ascesi allo imperio. Perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare90 altrimenti; e solo si oppose a’ sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, sequire e reverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possano o debbano offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato91, magnanimo e liberale92, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de’ re e de’ principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o a offendere con respetto, non può trovare e più freschi esempli93 che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale lui ebbe mala elezione94; perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, e’ poteva

75. aggiugnere: raggiungere. 76. non gliene aveva … Spagnoli: in effet­ ti non doveva più avere riguardo dei francesi, perché gli spagnoli avevano già tolto loro il regno di Napoli. 77. di qualità che: di modo che. 78. invidia: odio (latinismo). 79. gli riusciva … morì: gli sarebbe riuscito entro l’anno stesso in cui il papa morì, nel 1503. 80. trarre … spada: a prendere le armi per cominciare le sue conquiste, nel 1498. 81. assolidato: consolidato.

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82. ferocità: fierezza, decisione, tenacia in­ domita (latinismo). 83. la Romagna … mese: le città della Ro­ magna si rifiutarono di sottomettersi alla Chie­ sa fino a dicembre. 84. mezzo vivo: in precarie condizioni fisiche. 85. possé fare … voleva: l’influenza del Borgia sul Collegio dei cardinali era tale che, se non era in grado di fare eleggere il papa da lui desiderato, era almeno in grado di impedire l’elezione di chi non desiderava. 86. mi disse: Machiavelli era a Roma in occa-

sione del conclave che elesse papa Giulio II, in qualità di osservatore per conto della Repubblica fiorentina. 87. Raccolte: esaminate nel loro complesso. 88. reprenderlo: rimproverarlo. 89. preporlo imitabile: proporlo come mo­ dello da imitare. 90. governare: comportarsi. 91. grato: gradito, bene accetto. 92. liberale: generoso. 93. freschi esempli: esempi più recenti. 94. mala elezione: cattiva scelta.

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tenere95 che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato96 di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino ad avere paura di lui. Perché gli uomini offendono97 o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano, infra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio98; tutti li altri, divenuti papi, aveano a temerlo, eccetto Roano99 e li Spagnoli: questi per coniunzione100 e obligo, quello per potenzia, avendo coniunto seco il regno di Francia101. Pertanto el duca innanzi a ogni cosa doveva creare papa uno spagnolo; e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede che ne’ personaggi grandi e benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s’inganna. Errò adunque el duca in questa elezione102, e fu cagione dell’ultima ruina sua.

95. tenere: ottenere. 96. consentire al papato: consentire che fossero candidati al papato. 97. offendono: danneggiano, fanno del ma­ le. 98. San Piero … Ascanio: nell’ordine Giu-

liano della Rovere, poi papa Giulio II, Giovanni Colonna, Raffaello Riario, Ascanio Sforza. 99. Roano: Georges d’Amboise, arcivescovo di Rouen (Roano). 100. coniunzione: Alessandro VI era spagnolo.

101. quello … Francia: il cardinale d’Amboise non doveva temerlo perché aveva dietro la Francia. 102. elezione: scelta (di non impedire l’elezione di Giulio II)

Analisi del testo

> Il «principe nuovo»

L’esempio di Cesare Borgia

I rapporti di forza e gli interessi

Il giudizio politico

In questo capitolo Machiavelli esamina l’ipotesi opposta a quella trattata nel capitolo precedente, coloro che hanno acquistato lo Stato grazie alla fortuna e alle armi altrui, e delinea un esito simmetricamente rovesciato: una grande facilità nell’acquistare, ma una grande difficoltà nel mantenere. L’esempio che lo scrittore adduce, attraverso un’ampia e minuziosa analisi, è quello di Cesare Borgia. Benché Machiavelli propenda a ritenere un esempio positivo soprattutto chi si vale della virtù e delle armi proprie, tuttavia ammira egualmente il duca Valentino per l’abilità e l’energia con cui aveva cercato di creare al suo Stato quei fondamenti che non possedeva all’origine, al punto che lo assume come modello di comportamento per un «principe nuovo» che voglia creare in Italia uno Stato forte, capace di opporsi alla crisi che sta travolgendo la penisola. La figura del Borgia viene così idealizzata: ciò che Machiavelli ha in mente, nel passare in rassegna le sue azioni politiche, è in realtà non tanto la figura storica, quanto l’immagine del «principe nuovo» da lui vagheggiata.

> Il realismo nell’analisi politica

Il capitolo è un perfetto esempio della capacità machiavelliana di costruire analisi politiche “realistiche”. Nel valutare la situazione in cui Alessandro VI e il Borgia si trovano ad operare, lo scrittore è attento soprattutto ai rapporti di forza e agli interessi in gioco, visti come i soli moventi dell’agire umano e come gli unici fattori che determinano lo svolgersi degli eventi sulla scena politica. Si veda la precisione con cui delinea i rapporti tra il papa, i francesi, i veneziani. Un altro significativo esempio di analisi politica di Machiavelli è quello dedicato alla pacificazione della Romagna: il Valentino prima usa il pugno di ferro tramite Ramiro de Orco, poi, ottenuto l’intento, instaura una magistratura civile e scarica tutto su Ramiro l’odio per la brutalità dei mezzi di governo, facendolo trovare morto in modo efferato e spettacolare sulla piazza di Cesena. È un gesto atroce, di sanguinosa crudeltà, ma Machiavelli, coerente con il suo metodo (quello che teorizzerà pochi capitoli più avanti, nel XV, T6, p. 399), mette tra parentesi il giudizio morale, tenendo conto solo di quello politico e valutando esclusivamente l’utilità e l’efficacia di quel gesto. È questa spregiudicatezza rivoluzionaria, lontana dagli abituali modi di pensare e giudicare, che tanta esecrazione attirerà in seguito sul segretario fiorentino. 397

L’età del Rinascimento

> La sconfitta del Borgia

La «colpa» del Borgia La «malignità di fortuna»

Ma il Borgia storico coincide solo in parte con l’immagine del «principe nuovo» vagheggiata da Machiavelli: il suo tentativo si conclude con una totale sconfitta. Per salvare il suo esempio Machiavelli sostiene allora che il fallimento non fu dovuto a «colpa» del Valentino, ma solo ad una «straordinaria ed estrema malignità di fortuna», quale nessuna virtù umana, neppure quella eccezionale del suo eroe, avrebbe potuto contrastare: la morte del padre, e poco dopo la sua malattia e la sua stessa morte. In realtà, nella conclusione Machiavelli capovolge il giudizio: fu un errore del duca la «cagione dell’ultima ruina sua», l’aver consentito l’elezione a pontefice di un suo mortale nemico, Giulio II. Nel suo implacabile rigore intellettuale, Machiavelli fa crollare il mito da lui stesso creato (Borsellino). Comunque, anche questo errore può essere di esempio: il principe nuovo, come dovrà imitare per il restante delle azioni Cesare Borgia, così dovrà trarre una lezione salutare da quell’errore, per evitare di compiere a sua volta errori analoghi.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Rintraccia nel testo i riferimenti a:

a) la «lezione delle antique» cose; b) il rapporto fra virtù e fortuna; c) l’«esperienza delle cose moderne», ovvero la visione realistica dei rapporti fra Stati e famiglie al potere. > 2. Nel testo compaiono, anche se non trattati sistematicamente, argomenti su cui la riflessione di Machiavelli si soffermerà in altri capitoli del Principe. a) Le «armi altrui». b) Il denaro. c ) Il popolo. Individuali e illustrali sinteticamente. AnALIzzARe

> 3.

Stile Individua nel testo: a) gli interventi dell’autore che tendono a delineare il passaggio da un argomento all’altro del discorso; b) il passo in cui l’autore procede rigorosamente e schematicamente per enumerazione di punti. > 4. Stile Commenta la similitudine alle righe 13-15 ( nota 9) e la metafora alle righe 28-30 ( nota 19): a quali ambiti appartengono le immagini utilizzate? > 5. Stile Individua nel testo le affermazioni di carattere generale formulate in tono di sentenza, e spiegane la funzione. > 6. Lessico Delinea il ritratto comportamentale e psicologico di Cesare Borgia attraverso vocaboli e/o espressioni chiave utilizzati da Machiavelli. > 7. Lingua Quale tipologia di proposizione subordinata in forma esplicita – la cui concentrazione si rileva in alcuni passi in particolare – prevale nell’intero capitolo? Motiva la tua risposta.

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 8. esporre oralmente Per quale motivo Machiavelli propone come esempio per questo capitolo un personaggio

che fallì la sua impresa? Si tratta di una scelta che può essere interpretata oppure mancano nella storia esempi di uomini che abbiano acquistato stabilmente il potere con la fortuna e con armi altrui? (max 3 minuti) > 9. Competenze digitali In seguito a un’opportuna ricerca in rete, realizza un montaggio di spezzoni video relativi alla rappresentazione di Cesare Borgia nel cinema, nelle serie tv e persino nei videogiochi: in quali aspetti il personaggio è stato “costruito” anche attraverso le pagine di Machiavelli? SCRITTuRA CReATIVA

> 10. Ispirandoti alla conclusione del brano («Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima ruina

sua») scrivi una lettera immaginando di essere Cesare Borgia e di indirizzarla a Machiavelli poco prima di morire. Puoi prendere in considerazione gli argomenti che hai studiato e approfondito riguardo al personaggio; nel tuo elaborato, egli potrà spiegare le ragioni della propria determinazione e del proprio carattere violento anche attraverso il racconto della sua infanzia, vissuta in una famiglia ossessionata dal potere e incline ai complotti. La lunghezza del testo deve essere compresa tra le 30 righe (1500 caratteri).

398

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Analisi interattiva

T6

di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o vituperati dal Principe, cap. XV

Temi chiave

• la nascita della scienza politica moderna

• l’autonomia della politica dalla morale

• il proposito di partire dall’esperienza

De his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur

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Resta ora a vedere quali debbano essere e modi e governi1 di uno principe con sudditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso2, partendomi, massime nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri3. Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla imaginazione di essa4. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero5. Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere6, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua7: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte8 professione di buono, conviene9 ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere10, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare11 secondo la necessità. Lasciando adunque indrieto12 le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo13 quelle che sono vere, dico che tutti li uomini quando se ne parla, e massime e principi per essere posti più alti14, sono notati di15 alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è16, che alcuno è tenuto liberale17, alcuno misero18 (usando uno termine toscano,

1. e modi e governi: i modi di comportarsi. 2. dubito … prosuntuoso: temo di essere ri­ tenuto presuntuoso, scrivendo anch’io su que­ sto argomento. 3. partendomi … altri: poiché io mi allontano, soprattutto (massime) nel discutere di questa materia, dalla via seguita dagli altri (ponendo la virgola dopo massime, altri intende: poiché mi allontano moltissimo ecc.). Machiavelli lascia nell’indeterminato l’obiettivo della sua polemica; può riferirsi sia ai filosofi antichi, come Platone, che aveva tracciato l’immagine di uno Stato ideale, sia al genere medievale degli specula principis ( Il genere e i precedenti dell’opera,

p. 371), sia alla trattatistica degli umanisti, che mirava a tracciare le virtù ideali del principe. 4. verità … essa: tener conto della realtà così come essa è effettivamente, piuttosto che im­ maginare una realtà ideale che non esiste. 5. mai visti … vero: non si sono mai visti né conosciuti nella realtà effettiva. 6. Perché … vivere: perché è tanto lontano il modo in cui si vive realmente da quello in cui si dovrebbe vivere (cioè la realtà è tanto diversa dall’ideale). 7. impara … sua: assiste alla sua rovina anzi­ ché alla conservazione del suo Stato. 8. in tutte le parte: in ogni situazione.

9. conviene: è inevitabile. 10. mantenere: al potere. 11. usarlo … usare: usare o non usare questo criterio di comportamento, cioè l’essere non buono. 12. Lasciando … indrieto: tralasciando. 13. discorrendo: esaminando. 14. per … alti: per essere posti in una condi­ zione più elevata, più in vista. 15. sono notati di: sono giudicati per. 16. E questo è: cioè. 17. liberale: generoso. 18. misero: avaro (come l’autore stesso spiega subito dopo).

Pesare le parole Liberale (riga 16)

> Deriva dal latino lìberum, “libero”. Qui significa “gene-

roso”. Liberale, nell’italiano antico come in latino, indicava ciò che era proprio dell’uomo libero, cioè l’elevatezza del sentire, l’assenza di ogni meschinità, la magnanimità, la generosità. In qualche locuzione il senso è rimasto anche nella lingua attuale (es. erogazioni liberali, come le donazioni che si fanno a istituzioni che si occupano di attività benefiche). Oggi invece il senso più comune e generico di liberale è “fautore della libertà”, in senso politico. Storicamente, durante il Risorgimento liberali erano coloro che si opponevano ai regimi assoluti e tirannici e rivendicavano costituzioni, libere elezioni dei rappresentanti del popolo, libertà di associazione, di opinione, di espressione, di stampa.

Costituivano una corrente politicamente moderata e conservatrice sul piano sociale, in contrasto e spesso in conflitto aperto con i democratici, che esigevano forme più avanzate di eguaglianza (Cavour, liberale, era ostile al democratico Mazzini, su cui nel Regno di Sardegna pendeva una condanna a morte per attività sovversive). Nel Novecento il partito liberale in Italia, oltre a ereditare la tradizione risorgimentale, si rifaceva ai princìpi del liberismo in economia, era cioè fautore della libera concorrenza senza ingerenze statali. Oggi un partito liberale così denominato non esiste più, ma molti partiti proclamano di riferirsi ai suoi princìpi ispiratori. Nell’inglese d’America liberal ha un senso molto diverso: “progressista, di sinistra”.

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L’età del Rinascimento

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perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele19; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce20 e animoso; l’uno umano21, l’altro superbo; l’uno lascivo22, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astuto23; l’uno duro, l’altro facile24; l’uno grave, l’altro leggieri25; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute26 buone: ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono27, gli è necessario essere tanto prudente che sappi fuggire l’infamia di quelli vizii che li torrebbano lo stato28, e da quelli che non gnene tolgano29 guardarsi se gli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare30. Et etiam31 non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato32; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà33 e il bene essere suo.

19. fedifrago … fedele: fedifrago è chi non mantiene fede ai patti, fedele è chi la mantiene. 20. feroce: fiero, coraggioso, deciso (latinismo). 21. umano: affabile (il contrario di superbo). 22. lascivo: dissoluto. 23. intero … astuto: l’uno franco e schietto, l’altro astuto e doppio. 24. duro … facile: l’uno rigido, l’altro malleabi­ le. 25. leggieri: leggero, frivolo (contrapposto a

grave, serio, austero). 26. tenute: ritenute. 27. per le … consentono: perché bisogna agire fra uomini che «non sono buoni». 28. gli è … stato: (il principe) deve essere tan­ to accorto (prudente) da saper fuggire quei vi­ zi infamanti che (gettando su di lui il discredito e generando odio nei suoi confronti) gli farebbero correre il rischio di perdere lo Stato. 29. da quelli … tolgano: da quei vizi che

non sono tali da compromettere il suo potere. 30. vi si può … andare: si può abbandona­ re ad essi con meno riguardo. 31. etiam: anche. 32. vizii … stato: vi sono delle cattive azioni che sono indispensabili per mantenere lo Stato: il principe non deve curarsi dell’infamia che esse gli attirerebbero. 33. securtà: sicurezza (del principe, e quindi dello Stato che si identifica con lui).

Pesare le parole Feroce (riga 20)

> Qui ha il senso del latino feròcem, “fiero”; nella lingua attuale invece significa “crudele, spietato, inumano” (es. ha commesso un feroce delitto, è stato un dittatore feroce che si è macchiato di orribili crudeltà). Il nostro fiero, “dignitoso, coraggioso, orgo-

glioso” (es. ha un carattere fiero e indomabile) deriva dal latino ferum, che invece vuol dire “feroce”: come si vede le due parole latine ferocem e ferum, dando origine a parole italiane, si sono scambiati i significati.

Analisi del testo I fondamenti del pensiero politico machiavelliano

Teoria e prassi

400

> La consapevolezza della propria originalità

È il capitolo in cui più chiaramente si possono vedere enunciati i princìpi fondamentali del pensiero politico machiavelliano ( Il pensiero politico nel Principe e nei Discorsi, p. 374). A questo punto del libro Machiavelli sente il bisogno di ripensare i fondamenti della sua costruzione. Lo scrittore ha una chiara consapevolezza della propria originalità, sa di allontanarsi radicalmente da tutta la tradizione del pensiero politico precedente. Non fa riferimenti precisi, ma proprio questa vaghezza ci fa capire che si indirizza ad un campo molto vasto, da Platone agli specula principis (“specchi del principe”) medievali ( Il genere e i precedenti dell’opera, p. 371) ai trattati umanistici sul comportamento del principe.

> La verità effettuale

Il discrimine che egli subito ravvisa tra il suo pensiero e quello precedente è che egli vuole fare «cosa utile a chi la intende»: non vuole mettere insieme una costruzione

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

puramente teorica, ma fornire un’opera che sia uno strumento per l’azione nelle mani di un principe capace di impegnarsi nella costruzione di un forte Stato in Italia. Per questo ritiene che non servano costruzioni ideali: dovendo misurarsi con la realtà concreta, che è sempre lontanissima dall’ideale, è alle sue leggi effettive che il politico deve guardare, se vuole ottenere i risultati che si prefigge. Non l’immagine di uno Stato ideale, quale potrebbe essere se gli uomini fossero perfetti, Machiavelli vuole tracciare, ma esaminare come si fa realmente politica, in un mondo in cui gli uomini sono «non buoni». Il campo della nuova scienza politica

L’autonomia della politica

Il superamento della tradizione medievale e umanistica

L’esperienza

Qualità lodevoli e biasimevoli

> La nascita della scienza politica

Sono affermazioni rivoluzionarie. In questo breve passo si può assistere all’atto di fondazione della scienza politica moderna. Innanzitutto Machiavelli delimita il campo della nuova scienza, distinguendolo da altri ambiti dell’azione umana. Questa distinzione è la premessa essenziale per un operare scientifico. Il campo della politica è dal pensatore distinto primariamente da quello della morale. Machiavelli ha la lucidità e il coraggio intellettuale di affermare che una stessa azione può essere valutata secondo due metri di misura diversi: o in base al criterio morale, fondato sulla distinzione tra bene e male, o in base al criterio politico, fondato sulla distinzione tra utile e danno. Sono criteri tra loro autonomi: ciò che è bene moralmente può essere dannoso politicamente, e, viceversa, ciò che è utile politicamente può essere contrario alla morale. Dovendo operare tra uomini che non sono buoni, osservare certe virtù mette in condizioni di debolezza, mentre usare metodi riprovevoli può essere utile a raggiungere il risultato. Machiavelli afferma che lo statista deve essere pronto anche a usare tali metodi, ove sia indispensabile; e il giudizio politico sul suo operato deve essere positivo. La vigorosa affermazione dell’autonomia dell’agire politico dalla morale segna una svolta di incalcolabile portata nel pensiero moderno: viene superata di colpo tutta la tradizione medievale, che subordinava totalmente la teoria politica alla morale, e questa a princìpi trascendenti, ma è superata anche quella umanistica quattrocentesca, che si ispirava ad un idealismo platonizzante. L’agire politico dell’uomo può, dopo Machiavelli, essere valutato secondo princìpi propri: è la condizione necessaria perché possa nascere uno studio scientifico dei fatti politici.

> Il metodo

Il secondo aspetto fondamentale che emerge da questo capitolo è l’enunciazione del metodo di indagine. Lo scrittore afferma con molto vigore il suo proposito di partire dall’esperienza, tenendo conto della realtà così com’è. Il costruire la teoria osservando il modo effettivo di comportarsi degli uomini è la prova migliore del fatto che il suo metodo è induttivo, non deduttivo, come già si era colto nel capitolo I, cioè che egli parte non da princìpi primi universali ma dai dati empirici, sperimentabili, direttamente osservabili, e da essi ricava le leggi generali. Il procedere da princìpi ideali è da lui respinto con atteggiamento sprezzante e bollato come pura «immaginazione». Nel secondo paragrafo il capitolo fornisce esempi concreti della distinzione tra politica e morale. Machiavelli propone un elenco di tutte le qualità che sarebbero lodevoli in un principe e di quelle che sarebbero biasimevoli: non necessariamente le qualità positive sono adatte al conseguimento dei fini, anzi possono nuocere, e, viceversa, quelle negative possono risultare indispensabili. È qui fissata la struttura logica e discorsiva che sarà costante nei capitoli successivi di questa sezione del Principe: «sarebbe laudabilissima cosa... ma»; da un lato si colloca il dover essere, la norma morale, dall’altro la «verità effettuale della cosa», entro la quale il politico deve operare e della quale deve tener conto. 401

L’età del Rinascimento

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Da quali passaggi del discorso emerge la consapevolezza, da parte di Machiavelli, della propria originalità? > 2. Quali affermazioni dell’autore esprimono in modo categorico l’autonomia della nuova scienza politica rispetto alla morale?

AnALIzzARe

> 3.

Stile Dalla coppia oppositiva «verità effettuale»-«imaginazione» (rr. 6-7) discendono una serie di contrapposizioni tra realtà e ideale. Rintracciale e inseriscile nella tabella seguente, secondo l’esempio proposto.

Righe

«Verità effettuale»

«Imaginazione»

8

«come si vive» ............................................................................................................................................................................

«come si dovrebbe vivere» ............................................................................................................................................................................

9

............................................................................................................................................................................

............................................................................................................................................................................

9

«ruina» ............................................................................................................................................................................

............................................................................................................................................................................

13-14

............................................................................................................................................................................

............................................................................................................................................................................

23-24

............................................................................................................................................................................

«sarebbe … buone» ............................................................................................................................................................................

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............................................................................................................................................................................

............................................................................................................................................................................

31

............................................................................................................................................................................

............................................................................................................................................................................

> 4.

Lessico Alle righe 17-18 è espressa una interessante valutazione sul lessico in riferimento ai termini «avaro» e «misero»: prova a sostenere le ragioni dell’autore attraverso la riflessione sui rispettivi significati anche in rapporto all’italiano corrente. > 5. Lingua Come motivi il frequente ricorso al modo verbale del condizionale?

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Scrivere Dopo aver riletto con attenzione il titolo del capitolo, spiega in circa 5 righe (250 caratteri) perché nel formularlo Machiavelli si riferisce prima a «gli uomini» e poi al caso particolare dei «principi». > 7. Altri linguaggi: arte Osserva attentamente lo studio di Leonardo da Vinci per il monumento equestre di Francesco Sforza (1485-90): ritieni, pur nell’incompiutezza del disegno, che la rappresentazione del condottiero abbia tratti comuni con la descrizione del principe secondo Machiavelli? Motiva la tua risposta facendo diretto riferimento all’immagine.

Leonardo da Vinci, Studio per il monumento equestre a Francesco Sforza, 1485-90, punta metallica su carta colorata, Windsor Castle, Royal Collection.

PASSATo e PReSenTe Concretezza e astrattezza della politica (oggi)

> 8. Discuti con il docente e i compagni di classe sulla presunta o reale “astrattezza” della politica della tua epoca, soprattutto in relazione al linguaggio con cui si rivolge ai cittadini: ritieni che la lezione di Machiavelli sulla “concretezza” sia valida anche oggi?

402

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Analisi interattiva

T7

In che modo i principi debbano mantenere la parola data

Temi chiave

• la necessità di non mantenere la parola data

• il ricorso sia alla legalità sia alla forza • il sapersi adattare ad ogni situazione • la capacità di simulare

dal Principe, cap. XVIII

Quomodo fides a principibus sit servanda Laboratorio interattivo

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Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede1 e vivere con integrità2 e non con astuzia, ciascuno lo intende: nondimanco si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto3, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli4 delli uomini; e alla fine hanno superato5 quelli che si sono fondati in su la lealtà. Dovete adunque sapere come sono dua generazioni6 di combattere: l’uno con le leggi7, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché il primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo8. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori9: li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone10 centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile11. Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione12: perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire13 e lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano14. Non può pertanto uno signore prudente15 né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere16. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi17 e non la osservarebbono18 a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime

1. mantenere la fede: mantenere la parola data, esser leale. 2. integrità: onestà. 3. nondimanco … conto: tuttavia si vede per esperienza che, nei nostri tempi, hanno fatto grandi cose quei principi che hanno te­ nuto poco conto della parola data. 4. aggirare e cervelli: raggirare le menti. 5. superato: vinto. 6. generazioni: generi, modi. 7. con le leggi: osservando le leggi, sia quelle civili sia quelle morali. Qui Machiavelli riprende un concetto espresso da Cicerone nel De officiis (Sui doveri), I, 11, 34. 8. usare … uomo: usare la forza, o i metodi conformi alle leggi morali e civili.

9. Questa … scrittori: questo modo di com­ portarsi è stato insegnato ai principi dagli an­ tichi scrittori in modo allusivo e metaforico (copertamente), attraverso immagini mitiche, come quella del centauro Chirone di cui parla subito dopo. 10. Chirone: secondo il mito antico era stato maestro dell’eroe Achille. I centauri erano creature per metà uomini e per metà cavalli; per questo Machiavelli li prende come emblema del principe, che deve saper essere uomo e bestia insieme. 11. durabile: durevole; cioè il principe non può essere solo e sempre uomo o bestia. 12. sendo … lione: poiché un principe ha la necessità di saper usare bene la natura bestia­

le, tra le bestie deve scegliere la volpe e il leone (che sono emblemi rispettivamente dell’astuzia e della forza). 13. sbigottire: spaventare. 14. Coloro … intendano: coloro che si com­ portano semplicemente come il leone (ricorrendo solo e sempre alla forza bruta) non capiscono la politica. 15. prudente: avveduto. 16. quando … promettere: quando il mantenere la parola si ritorca contro di lui, lo danneggi, e quando non sussistono più i moti­ vi che gli fecero fare certe promesse. 17. tristi: malvagi. 18. osservarebbono: sottinteso la fede.

Pesare le parole Tristi (riga 22)

> È il plurale di tristo, “malvagio”; da non confondere con triste, “afflitto, mesto, malinconico”: l’origine di entrambi

i termini è il latino trìstem, ma tristo proviene più esattamente da una variante tarda, tristum.

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di colorire la inosservanzia19. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni, e mostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite20 e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato21. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire22, ed essere gran simulatore e dissimulatore23: e sono tanto semplici24 gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. Io non voglio delli esempli freschi25 tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto26 da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare27, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno; nondimeno sempre li succederono li inganni ad votum28, perché conosceva bene questa parte29 del mondo. A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità30, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che avendole e osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero31, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario32. E hassi ad intendere33 questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però34 bisogna che egli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano e, come di sopra dissi, non partirsi35 dal bene potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità36. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani37; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono38 quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli defenda: e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine39. Facci40 dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare e con lo evento della cosa41, e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi42. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare43, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.

19. colorire la inosservanzia: giustificare l’inosservanza della parola data. Ma la metafora colorire implica anche l’ammantare di belle motivazioni, che mascherano la realtà vera. 20. fatte irrite: vanificate (latinismo). 21. è meglio capitato: ha avuto risultati mi­ gliori. 22. questa … colorire: è necessario dissi­ mulare abilmente l’astuzia volpina. 23. simulatore e dissimulatore: fingere e saper mascherare la finzione. 24. semplici: ingenui, sciocchi. 25. freschi: recenti. 26. subietto: occasione, materia. 27. asseverare: affermare. 28. ad votum: secondo il suo desiderio.

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29. parte: aspetto. 30. avere … qualità: avere effettivamente tutte le qualità positive di cui ha parlato nel capitolo XV e nei seguenti. 31. intero: integro, schietto, onesto. 32. ma stare … contrario: ma stare pronto nell’animo in modo che, quando occorra non essere virtuoso, sia capace di comportarsi nel modo opposto. 33. hassi ad intendere: bisogna capire. 34. però: perciò. 35. partirsi: allontanarsi. 36. E non è cosa … qualità: e non c’è cosa che sia più necessario sembrare di avere che questa qualità (cioè la religiosità). 37. iudicano … mani: giudicano più dal­ l’apparenza che dalla realtà (anche noi usia-

mo l’espressione “toccare con mano” per indicare una verifica sicura). 38. sentono: si accorgono. 39. dove … fine: dove non c’è una giustizia superiore a cui fare appello, si guarda al suc­ cesso finale delle imprese. 40. Facci: procuri. 41. perché … cosa: perché il volgo deve sempre essere catturato con le apparenze, e con la buona riuscita delle imprese. 42. li pochi … appoggiarsi: il giudizio con­ trario di pochi non conta nulla quando il giu­ dizio dei molti può contare su solide argomen­ tazioni (il successo). 43. Alcuno principe … nominare: allude al re di Spagna, Ferdinando il Cattolico.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Competenze attivate

Analisi attiva CoMPRendeRe

> Il principe e la lealtà

• Leggere, comprendere ed interpretare

testi letterari: prosa • Dimostrare consapevolezza della

storicità della letteratura

Il problema preso in esame in queste pagine è se al principe convenga agire con lealtà, rispettando le promesse fatte. Applicando con rigore e coraggio il suo metodo, senza arretrare dinanzi alle estreme conseguenze, anche quelle che appaiono ripugnanti alla coscienza comune, Machiavelli sostiene che chi voglia operare nel mondo duro, senza pietà, della politica deve prescindere dalle leggi della morale comune sapendo impiegare, all’occorrenza, l’astuzia e la forza, e non esitando, per necessità, ad agire in malafede. Il fine è «vincere e mantenere lo stato». È questo il capitolo del Principe che ha suscitato il maggiore scandalo e le reazioni più sdegnate.

> 1. Riassumi in non più di 20 righe (1000 caratteri) il contenuto del capitolo, evidenziando i concetti fondamentali. > 2. Svolgi la parafrasi del brano «E hassi […] necessitato» (rr. 39-45).

AnALIzzARe

> Politica e morale

Subito in apertura del capitolo si presenta lo schema logico e discorsivo fissato nel capitolo XV: «Quanto sia laudabile [...] nondimanco [...]» (si ricordi: «sarebbe laudabilissima cosa [...] ma [...]», T6, p. 399); si ripropongono cioè i due poli del dilemma, la sfera del dover essere e la «verità effettuale della cosa». Machiavelli, facendo appello ad un principio universalmente accettato («ciascuno lo intende»), riconosce quanto sarebbe lodevole per un principe l’osservanza delle leggi morali, però si rende anche conto del fatto che, nella realtà effettiva della politica, il non mantenere la parola ed usare astuzie e raggiri ha consentito di compiere grandi cose, mentre coloro che hanno osservato la lealtà sono stati sconfitti. L’affermazione, che scaturisce dall’esperienza e dall’osservazione diretta della realtà concreta («per esperienzia, ne’ nostri tempi»), dimostra come Machiavelli distingua con rigore il giudizio politico da quello morale.

> 3. In quali circostanze specifiche il principe non è tenuto a mantenere la parola data? > 4. A quale proposito è citato nel testo l’esempio di Alessandro VI?

> Il travaglio morale e l’aderenza alla realtà

> 5. Machiavelli, a tuo parere, giustifica moralmente le astuzie e gli inganni o giudica tali comportamenti comunque riprovevoli? Argomenta la tua risposta con opportuni riferimenti al testo.

> Il politico e il centauro

> 6. Chi era il centauro Chirone e a quale proposito viene citato nel testo?

Le affermazioni di Machiavelli non sono fatte con cinica disinvoltura: esse presuppongono un’autentica, profonda lacerazione interiore. Come ha osservato Gennaro Sasso, uno dei più autorevoli studiosi di Machiavelli: «Tutto il primo capoverso del capitolo […] ha un tono amaro, e quasi, direi, dolorosamente risentito, come se Machiavelli si dolesse che il dovere scientifico di seguire la “verità effettuale” lo conducesse inesorabilmente lontano da quell’universo etico che aveva apertamente lodato all’inizio». Machiavelli non è certo indifferente alle norme morali (né si propone di sovvertirle, come sosterranno tanti suoi avversari), ma l’onestà intellettuale e l’aderenza coraggiosa alla realtà lo inducono a registrare un dato di fatto incontrovertibile, e cioè che mentire e ingannare è risultato spesso politicamente produttivo, addirittura indispensabile. Sulla durezza della realtà, che esige da chi vi voglia operare un adeguamento alle sue leggi, insiste anche il secondo paragrafo. La legalità non basta nell’agire politico, spesso è indispensabile usare la forza.

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L’età del Rinascimento

Il concetto si incarna in un’immagine potente, come spesso avviene nel discorso di Machiavelli, che rifugge dall’astrazione ed ama il linguaggio immaginoso e concreto, anche per raggiungere una maggiore forza persuasiva (non si dimentichi che l’opera vuole essere immediatamente «utile a chi la intende»): è l’immagine del centauro, mezzo uomo e mezzo bestia, che agli occhi dello scrittore compendia l’essenza del politico, che deve saper usare sia la legalità sia la forza se vuole dare solidi fondamenti allo Stato. Attraverso l’immagine, il concetto astratto assume una veste plastica, corposa, destinata ad incidersi fortemente nella memoria. Anche lo stile, in questo passaggio cruciale del pensiero, assume grande potenza, grazie all’estrema concisione, alle frasi brevi e secche.

> 7. Individua alcuni esempi di frasi brevi e pregnanti che concorrono a dare risalto ai concetti.

> Astuzia e violenza: la volpe e il leone

> 8. Qual è il significato della metafora della volpe e del leone? Che cosa rappresentano rispettivamente i «lacci» e i «lupi» (rr. 17-18)?

La metafora animalesca prosegue poi con un’altra celebre immagine, quella della volpe e del leone. Il pensiero di Machiavelli, come si era osservato sin dal primo capitolo, procede sempre in forma dilemmatica, per forti disgiunzioni: uomo-bestia, volpe-leone, astuzia-violenza. A questo punto si inserisce un concetto nuovo, di grandissima rilevanza. Il principe deve saper essere volpe o leone a seconda delle situazioni: chi ha un comportamento rigido, cioè è sempre volpe o sempre leone in ogni circostanza, non può avere successo.

> La duttilità

> 10. Machiavelli anticipa qui i concetti che saranno sviluppati nel capitolo XXV ( T8, p. 409), dove si insiste sulla necessità di «riscontrare» l’azione con i tempi. Confronta i due testi.

> Il pessimismo sull’uomo

> 11. Il testo permette di cogliere il pessimismo con cui lo scrittore osserva e giudica la natura degli uomini comuni. Rintraccia le affermazioni che fanno emergere questa concezione. Quale influenza essa esercita sul pensiero politico dell’autore?

> Simulare la virtù e dissimulare la malvagità

> 12. Quali qualità positive il principe deve simulare? Quale, tra tutte, è più importante mostrare di avere?

La principale virtù del politico è quindi la duttilità, il sapersi adattare ad ogni situazione, il saper conformare l’azione al contesto concreto che si ha di fronte, e che può variare molto di volta in volta. Il principe, si legge nel capitolo, deve avere «uno animo disposto a volgersi secondo ch’e venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano». Il pensiero di Machiavelli torna poi a ribadire i suoi fondamenti pessimistici. Se gli uomini fossero tutti buoni, i precetti su esposti non avrebbero valore; ma la realtà è ben diversa: gli uomini sono «tristi». La necessità di dover usare la «bestia» deriva dal fatto che il politico opera tra gli uomini reali, e deve commisurare l’azione a questa realtà. Nell’ultima parte del capitolo compare un altro elemento nuovo: il principe non solo deve essere capace di compiere il male, se ciò è necessario per raggiungere i suoi fini, ma deve anche saper dissimulare la malvagità e simulare la virtù. Nel mondo politico non è necessario avere certe qualità, basta parere di averle; anzi, avere le qualità buone ed osservarle sempre può risultare dannoso, mentre sembrare solo di averle può essere utile, perché all’occorrenza si può anche non osservare la virtù, e operare in senso contrario. Ciò è possibile perché gli uomini sono anche sciocchi e creduli, e giudicano più dall’apparenza che dalla realtà.

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> 9. Rintraccia i punti del capitolo in cui è presente il tipico ragionamento dilemmatico di Machiavelli.

> 13. Per Machiavelli, però, slealtà o crudeltà non devono mai essere fini a se stesse, e tanto meno rispondere all’interesse egoistico del principe. Sono “vizi” che devono mirare a un fine più alto. Quale?

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe > La ripresa di Cicerone

La fonte dell’esordio di questo capitolo è un passo del De officiis (I doveri, I, 11, 34) di Cicerone, di cui diamo direttamente la traduzione italiana: Essendovi infatti due generi di contesa, l’una per mezzo della discussione, l’altra con la forza, ed essendo la prima specifica dell’uomo, la seconda dei bruti, si dovrà ricorrere a questa nel caso non sia possibile valersi della prima.

> 14. Confronta il testo dell’autore latino con il capitolo del Principe in esame. Machiavelli arriva alle stesse conclusioni di Cicerone o se ne discosta ribaltandone completamente l’insegnamento? Argomenta la tua risposta inserendo opportune citazioni testuali.

E poco più avanti (I, 13, 41) l’autore latino aggiunge:

Essendo l’offesa di due specie, per violenza o per frode, la frode appare essere quasi propria di una volpaccia, la violenza di un leone; e pur essendo ambedue le cose del tutto estranee all’uomo, la frode è tuttavia meritevole di maggior odio. Fra tutte le ingiustizie, nessuna è peggiore di quella di coloro che, quando sono maggiormente in colpa, si comportano in modo da apparire degli onest’uomini. (trad. it. di N. Marinone)

LeTTeRATuRA e CIneMA Video

La crisi degli Stati italiani nel Mestiere delle armi di Ermanno Olmi Il contesto storico Il mestiere delle armi (2001) è un film di Ermanno Olmi. La vicenda

narra gli ultimi giorni di vita di Giovanni de’ Medici, morto a seguito di una ferita riportata sul campo di battaglia. Il condottiero era impegnato in una lotta contro i lanzichenecchi (mercenari di cui si parla nello Scenario relativo a questo capitolo) guidati dal comandante Georg von Frundsberg. Quest’ultimo cercava di attraversare la valle del Po per unirsi all’esercito di Carlo III di Borbone, deciso a conquistare Roma secondo gli ordini dell’imperatore Carlo V. L’obiettivo dell’operazione militare era quello di costringere il papa Clemente VII a revocare il suo sostegno al re di Francia Francesco I, acerrimo nemico del Sacro Romano Impero. Gli intrighi delle corti Il film mostra la vita dei soldati del capitano de’ Medici, fatta di

fame, freddo e interminabili marce notturne, all’inseguimento dei lanzichenecchi. Ma si concentra anche sulle strategie politiche messe in atto dal marchese di Mantova Federico Gonzaga e dal duca di Ferrara Alfonso d’Este per guadagnare il favore di Carlo V. Il primo, nonostante abbia giurato fedeltà al papa, concede ai tedeschi di attraversare le sue terre, ostacolando invece il passaggio di Giovanni. Il secondo volta le spalle alle richieste d’aiuto del condottiero italiano ma vende a von Frundsberg i falconetti. Questi temibili cannoni saranno usati contro le truppe papali nella battaglia di Governolo, combattuta il 25 novembre 1526. È in questa occasione che Giovanni verrà ferito, per poi morire cinque giorni dopo. olmi e Machiavelli Ermanno Olmi decide di mettere in scena un momento della storia italiana caratterizzato da una crisi morale e politica molto forte. Di questo discutono anche il capitano de’ Medici e l’intellettuale Pietro Aretino, suo amico e compagno di tenda. I due citano l’Arte della guerra, opera di Niccolò Machiavelli (per una sua analisi p. 431). Quest’ultima, pubblicata nel 1521, ha al centro la polemica contro le truppe mercenarie. Per l’autore infatti la crisi degli Stati italiani è causata proprio dal non avere «armi proprie» e cioè delle milizie popolari disciplinate e non comprabili da chiunque.

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L’età del Rinascimento

Il finale Il film ha un finale amaro. Da una parte infatti il confronto tra Federico Gonzaga e Giovanni de’ Medici conferma l’analisi di Machiavelli sulla situazione degli Stati italiani agli inizi del ’500: i principi che tradiscono la parola data ottengono risultati migliori di quelli che vi restano fedeli (si veda il brano In che modo i principi debbano mantenere la parola data, tratto dal Principe, T7, p. 403). Dall’altra il regista, per esprimere il suo sentimento pacifista, affida al palafreniere di Giovanni una dichiarazione tratta, si dice, da una cronaca del tempo e tristemente smentita dalla storia: «A motivo della sinistra sorte capitata al Signor Joanni de’ Medici i più illustri Capitani e Comandanti di tutti gli eserciti fecero auspicanza [auspicarono e cioè “si augurarono”] affinché mai più venisse usata contro l’uomo la potente arma da fuoco». I soldati di Giovanni de’ Medici, infreddoliti, decidono di alimentare un falò con il legname proveniente da una chiesa abbandonata, incluso quello del crocefisso. Solo Giovanni impedirà che questo avvenga. Per Olmi, regista profondamente religioso, Giovanni è una figura positiva anche perché si oppone alla decadenza morale e religiosa della propria epoca, che ha portato appunto gli uomini a non rispettare nemmeno il simbolo per eccellenza della cristianità.

Olmi si sofferma sul saluto cavalleresco che si scambiano Giovanni de’ Medici e il comandante von Frundsberg prima della battaglia di Governolo. La ragione è che nel Cinquecento quel gesto ha ormai perso ogni significato cavalleresco e rimanda quindi a una situazione di decadenza morale. Non annuncia infatti un combattimento leale tra gentiluomini, come vorrebbe la tradizione cavalleresca, ma il tranello teso dal tedesco al fiorentino grazie ai falconetti del duca Alfonso d’Este.

Esercitare le competenze STABILIRe neSSI TRA LeTTeRATuRA e CIneMA

> Rispondi alle seguenti domande.

a) Qual è la vicenda narrata nel film? Dove è ambientata? In quale periodo? b) Chi è Giovanni dalle bande Nere? Perché gli viene attribuito tale nome? Come muore e quali sono le sue parole in punto di morte? c) Esperto nell’arte della guerra, Giovanni è considerato da molti coraggioso, ma feroce e crudele. Quale immagine ne dà Olmi? d) Perché il film è anche un film sulle armi? In che modo è armato l’esercito di Giovanni rispetto ai lanzichenecchi? e) Che cosa legge Aretino, nella tenda, all’uomo morente? f) Qual è la dichiarazione di un cronista del tempo, dopo la morte del condottiero?

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

T8

Quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo occorra resisterle

Temi chiave

• il rapporto tra virtù e fortuna • la duttilità di fronte alla fortuna • l’ammirazione per l’attivismo energico • la personificazione fortuna-donna

dal Principe, cap. XXV

Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum

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E’ non mi è incognito1 come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate2 dalla fortuna e da Dio che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno3; e per questo potrebbano iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte4. Questa opinione è suta5 più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura6. A che pensando7, io qualche volta mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Nondimanco perché il nostro libero arbitrio non sia spento8, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam9 lei ne lasci governare l’altra metà, o presso10, a noi. E assomiglio quella11 a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e12 piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra13: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare14. E benché sieno così fatti, non resta15 però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso16 né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna17: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata18 virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla19. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia20 di queste variazioni e

1. incognito: ignoto. 2. governate: regolate. 3. li uomini … alcuno: che gli uomini con la loro accortezza non siano in grado di cambiar­ ne il corso, e non possano porvi alcun riparo. 4. non fussi … sorte: non bisognasse affati­ carsi molto nell’azione, ma farsi dirigere dal caso. 5. suta: stata. 6. fuora … coniettura: al di fuori di ogni pre­ visione umana.

7. A che pensando: pensando a questo. 8. perché … spento: affinché il nostro libero arbitrio non sia del tutto annullato. 9. etiam: anche. 10. presso: all’incirca. 11. assomiglio quella: paragono la fortuna. 12. e: è l’articolo maschile plurale, come sempre in Machiavelli. 13. lievano … altra: scavano il terreno da una parte e lo ammassano da un’altra.

14. obstare: opporsi (latinismo). 15. non resta: nulla impedisce. 16. licenzioso: sfrenato. 17. Similmente … fortuna: in modo simile accade per la fortuna. 18. ordinata: preparata, disposta. 19. volta … tenerla: la fortuna rivolge il suo impeto dove sa che non sono stati costruiti argini e ripari per contrastarla. 20. sedia: sede.

Pesare le parole Arbitrio (riga 9)

> Deriva dal latino àrbiter, termine giuridico, “giudice con- > L’arbitro è per noi comunemente la persona che in una ciliatore che conduce un arbitrato”. Il libero arbitrio, nel linguaggio filosofico, è la possibilità di scegliere liberamente senza essere determinato da alcuna necessità. Ma arbitrio può assumere un’accezione negativa, “atto abusivo, illegale” (es. il preside sospendendolo ha commesso un arbitrio), o “prepotenza, capriccio” (es. si è preso l’arbitrio di nasconderti quella lettera), donde l’aggettivo arbitrario; anche “autorità, potere assoluto” (es. tutto dipende dal suo arbitrio).

competizione sportiva ha il compito ufficiale di far rispettare il regolamento di gara e di giudicare e sanzionare le infrazioni; in senso giuridico può essere il privato cittadino investito dalle parti di una controversia del compito di decidere su di essa, e tale azione viene detta arbitrato. In senso figurato, arbitro è “chi può disporre a suo piacere di qualcosa” (es. essere arbitro della propria sorte, dei destini della nazione).

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quella che ha dato loro il moto21, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come la Magna22, la Spagna e la Francia, o questa piena23 non arebbe fatte le variazioni grande che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo opporsi alla fortuna, in universali24. Ma restringendomi più al particulare dico come si vede oggi questo principe felicitare25 e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto26 discorse, cioè che quel principe che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia. Credo ancora che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi27, e similmente sia infelice28 quello che con il procedere suo si discordono e tempi. Perché si vede li uomini, nelle cose che li conducono al fine quale ciascuno ha innanzi29, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con respetto30 l’altro con impeto, l’uno per violenzia l’altro con arte31, l’uno per pazienzia l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi32, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no, e similmente dua equalmente felicitare con dua diversi studii33, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro se non dalla qualità de’ tempi che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto34, che dua diversamente operando sortiscono el medesimo effetto, e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine35 e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene36, perché, se uno che si governa con respetti37 e pazienzia, e tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando38; ma se li tempi e le cose si mutano, e’ rovina perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare39 a questo; sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina40, si etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella41. E però42 l’uomo respettivo, quando egli è tempo di venire allo impeto43, non lo sa fare; donde e’ rovina: ché se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna44. Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente, e trovò tanto e tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli45. E Viniziani non se ne contentavano46: el re di Spagna quel medesimo47; con Francia aveva ragionamenti48 di tale impresa; e nondimanco con la sua ferocia49 e impeto si mosse personalmente a quella espedizione. La quale mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani, quelli per paura, e quell’altro per il desiderio aveva50 di recuperare tutto el

21. quella … moto: (l’Italia) ha dato l’av­ vio a questi continui rivolgimenti politici. Essi erano infatti cominciati con la calata in Italia di Carlo VIII che mirava alla successione del Regno di Napoli. 22. la Magna: la Germania. 23. questa piena: continua la metafora del fiume in piena ad indicare gli avvenimenti rovinosi degli ultimi anni. 24. in universali: in generale. 25. felicitare: avere buon esito. 26. per lo adrieto: in precedenza. 27. Credo … tempi: credo che abbia suc­ cesso il principe che accorda il suo modo di procedere con le caratteristiche della situa­ zione politica. 28. sia infelice: vada incontro all’insuccesso. 29. quale … innanzi: che ciascuno si prefigge. 30. respetto: prudenza (si tenga presente che nella lingua di Machiavelli «pruden-

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zia» ha invece un altro significato, più vicino a quello latino, cioè “accortezza”). 31. arte: astuzia. 32. respettivi: prudenti, cauti. 33. studii: modi di comportarsi. 34. quello ho detto: sottinteso “che”. 35. si conduce … fine: raggiunge il suo fine. 36. la variazione del bene: il variare di ciò che è bene, di ciò che è opportuno nell’agire politico. 37. con respetti: con cautela. 38. perché … felicitando: perché se un principe agisce con cautela e pazienza, e la situazione è tale che la sua condotta è adat­ ta, egli ottiene successo. 39. accomodare: adattare. 40. non si può … inclina: non è possibile deviare dalle proprie inclinazioni naturali; cioè chi è per natura prudente non può divenire impetuoso.

41. partirsi da quella: ad allontanarsi da quella via che ha sempre seguito. 42. però: perciò. 43. quando … impeto: quando è il mo­ mento di passare a un comportamento im­ petuoso. 44. se si mutassi … fortuna: se l’uomo sapesse mutare natura secondo le circo­ stanze, non varierebbe la sua fortuna, cioè non andrebbe incontro a fallimenti. 45. Considerate … Bentivogli: Giulio II conquistò Bologna nel novembre 1506, dopo averne cacciato il signore, Giovanni Bentivoglio. 46. non … contentavano: si opponevano. 47. quel medesimo: faceva la stessa cosa. 48. ragionamenti: trattative. 49. ferocia: audacia impetuosa. 50. desiderio aveva: desiderio che aveva (il “che” è sottinteso).

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regno di Napoli51; e dall’altro canto si tirò drieto el re di Francia, perché vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare e Viniziani52, iudicò non poterli negare le sua gente sanza iniuriarlo manifestamente53. Condusse54 adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice con tutta la umana prudenzia arebbe condotto; perché, se elli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme55 e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai li riusciva; perché el re di Francia arebbe avuto mille scuse, e li altri messo mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue azioni, che tutte sono state simile, e tutte li sono successe bene: e la brevità della vita non li ha lasciato sentire el contrario56; perché, se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina, né mai arebbe deviato da quelli modi a’ quali la natura lo inclinava. Concludo adunque che variando la fortuna e stando li uomini ne’ loro modi ostinati57, sono felici mentre concordano insieme, e come discordano infelici58. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto59, batterla e urtarla60. E si vede che la si lascia più vincere da questi61 che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci62, e con più audacia la comandano.

51. quelli … Napoli: i veneziani non si muovono per paura di perdere i porti della Puglia che avevano occupato dal 1494; il re di Spagna (quell’altro) per il desiderio di recuperare tali territori. 52. abbassare e Viniziani: diminuire la potenza dei Veneziani. 53. iniuriarlo manifestamente: fargli of­ fesa aperta.

54. Condusse: portò a compimento. 55. con le conclusione ferme: avendo concluse le trattative. 56. sentire el contrario: fare esperienza del contrario, cioè dell’insuccesso. 57. stando … ostinati: continuando osti­ natamente gli uomini a comportarsi secon­ do le loro inclinazioni naturali. 58. sono felici … infelici: hanno successo

sinché le inclinazioni naturali e la fortuna concordano, non appena esse discordano vanno incontro al fallimento. 59. tenere sotto: sottometterla. 60. batterla e urtarla: aggredirla e pic­ chiarla. 61. da questi: gli impetuosi e aggressivi. 62. feroci: arditi.

Analisi del testo

> onnipotenza della fortuna e fatalismo

Il fatalismo dei contemporanei

I rivolgimenti politici contemporanei e la fortuna

In questo capitolo Machiavelli affronta direttamente il problema che è a fondamento di tutta l’opera, il rapporto tra la virtù e la fortuna. Anche questo, come l’altro grande capitolo metodologico, il XV ( T6, p. 399), prende avvio da una contrapposizione polemica nei confronti di concezioni largamente dominanti: in Machiavelli c’è sempre un’estrema consapevolezza della propria originalità e una vigorosa affermazione di essa. Egli fa riferimento alla convinzione comune che le cose del mondo siano regolate dalla fortuna e da Dio in modo tale che gli uomini non hanno modo di intervenire e constata che da tale convinzione deriva un atteggiamento fatalistico, rassegnato e passivo, poiché, ritenendo che non vi sia alcun margine per la loro azione, gli uomini rinunciano a lottare contro la fortuna, vedendola come una forza invincibile, e si lasciano governare completamente da essa. Machiavelli osserva che questo atteggiamento è divenuto molto diffuso nei suoi anni, e lo collega acutamente alla crisi italiana, che, producendo grandiose e rapidissime mutazioni, che sono totalmente sfuggite al controllo umano, ha radicato nelle menti la convinzione che è impossibile contrastare il gioco della fortuna. Così la crisi, frutto già dell’«ignavia» dei politici, ha generato ulteriormente negli italiani scetticismo e passività.

> Il libero arbitrio

Machiavelli ha una concezione eroica e combattiva della vita, perciò questo atteggiamento dei suoi contemporanei suscita in lui sdegno, disprezzo, insofferenza. Egli ritiene che l’uomo non debba mai rinunciare a lottare contro la forza avversa della fortuna, ad affermare con ogni 411

L’età del Rinascimento L’affermazione del «libero arbitrio» e i margini dell’azione umana

La tradizione umanistica e la virtù umana

La concezione laica della fortuna

mezzo la propria iniziativa. Confessa bensì che egli stesso, dinanzi ai grandi sconvolgimenti contemporanei, ha avuto momenti di cedimento al fatalismo, ma a questo stato d’animo reagisce con generoso slancio volontaristico: si rifiuta di credere che il «libero arbitrio» dell’uomo sia «spento», che l’uomo sia solo una pedina inerte mossa dal capriccio della fortuna. Afferma quindi con vigore che l’uomo conserva un margine di iniziativa nel confronto con la fortuna, che ha comunque uno spazio per agire e per imporre la propria volontà. Il margine consentito all’uomo consiste nel porre ripari preventivi all’azione della fortuna quando i tempi sono quieti. Lo statista che sa che la fortuna è capricciosa e può sconvolgere tutto improvvisamente deve dare fondamenti molto solidi allo Stato, in modo che esso possa reggere ad ogni urto imprevisto. È proprio quanto non hanno fatto i principi italiani del Quattrocento, sostiene lo scrittore al termine del primo paragrafo, e le conseguenze sono quelle che tutti hanno sotto gli occhi.

> La visione laica e antropocentrica

In questo capitolo Machiavelli riprende un filone tematico largamente presente nella letteratura umanistica, a partire sin da Boccaccio, l’esaltazione della virtù umana contro la fortuna. Le sue pagine ne sono la formulazione più compiuta e definitiva e costituiscono il vero e proprio suggello della concezione rinascimentale, che ha fiducia nell’uomo “artefice della propria fortuna” ( faber suae fortunae). Con le affermazioni machiavelliane si ha il trionfo di una visione laica ed antropocentrica ( L’età umanistica, Il contesto, p. 16), che era in gestazione sin dall’affermarsi della nuova visione del mondo della civiltà comunale: di questa tradizione Machiavelli, formatosi nella rinata Repubblica fiorentina, è l’erede. Anche l’idea che egli propone della fortuna riprende tale tradizione. Si sarà notato che inizialmente parla di due grandi forze, che secondo l’opinione comune regolano le cose umane, la «fortuna» e «Dio»; ma nel resto del capitolo di Dio non parla più e si concentra esclusivamente sulla fortuna. Una fortuna che appare come forza del tutto immanente: se nel Medioevo essa era vista come strumento della provvidenza divina, ora si presenta come complesso puramente casuale di accidenti, non diretti da alcuna volontà superiore e non indirizzati verso alcuna finalità.

> La duttilità del politico di fronte alla fortuna

«Rispetto» e «impeto»

La reintroduzione della casualità

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Nella seconda parte del capitolo Machiavelli affronta problemi più specifici, «particolari», come egli dice: le ragioni per cui un principe ora abbia successo, ora vada in rovina, senza che lo si veda cambiare il suo comportamento. La causa del fallimento è proprio qui, in questa incapacità di mutare la direzione del proprio operato: siccome la fortuna è varia e mutevole, il politico deve essere duttile, flessibile, deve essere capace di adattarsi a tutte le situazioni nuove che si presentano. È un concetto già apparso nel capitolo XVIII ( T7, p. 403), dove Machiavelli parlava della necessità di usare ora la «golpe» ora il «lione», a seconda di come le circostanze lo richiedono. Per avere successo nell’agire politico bisogna «riscontrare» (cioè accordare) il proprio procedere con le qualità dei tempi. Si riapre qui l’impostazione dilemmatica che è caratteristica del pensiero machiavelliano. Sono due i comportamenti fondamentali dell’uomo, «rispetto» e «impeto», prudenza e ardimento. Entrambi possono essere validi, a patto che siano usati in modo congruente con le circostanze, con i contesti in cui si deve operare. Però, se Machiavelli afferma in linea di principio la necessità della duttilità del comportamento, è pessimista sull’effettiva possibilità di praticarla. Egli osserva che la natura umana è incline alla rigidezza: chi ha sempre prosperato seguendo una via, non saprà persuadersi ad abbandonarla, quando la situazione muti. È evidente come in questa seconda parte del capitolo la fiducia nella «virtù» umana subisca una sensibile attenuazione. Poiché gli uomini sono rigidi nel loro comportamento e non sanno adattarsi alle circostanze, la loro azione ha successo solo se il loro temperamento si incontra con una situazione ad esso conforme, cioè, ad esempio, se un «impetuoso» si trova di fronte ad un contesto politico che esiga «impeto»: di nuovo quindi il buon esito delle azioni viene fatto dipendere da un elemento casuale, non dall’iniziativa dell’uomo e dal suo «libero arbitrio».

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

> L’ammirazione per l’attivismo energico

La personificazione fortuna-donna

Ma a questo punto, se la ragione induce Machiavelli al pessimismo sull’effettiva vittoria della «virtù» umana, egli si salva con un ultimo slancio del suo volontarismo eroico. Se l’uomo è così poco duttile, allora è preferibile che egli sia «impetuoso» anziché «respettivo»: infatti in tal caso le possibilità di «riscontrarsi» con la fortuna sono ben maggiori, in quanto sono più frequenti le situazioni in cui occorre l’impeto che quelle in cui occorre cautela. Machiavelli ammira sempre l’azione generosa ed eroica, l’attivismo energico. Anche qui i concetti si concretano in immagini plastiche e vigorose: la fortuna che è donna, e come tale deve essere battuta per venire sottomessa, la fortuna che ama i giovani perché sono meno «respettivi», più audaci. Nella personificazione fortuna-donna, che può apparire scontata, si cela in realtà un concetto importante. La donna, da tutta una tradizione misogina, era ritenuta l’incarnazione per eccellenza dell’irrazionale; quindi dire che la fortuna è donna equivale ad identificarla con la componente irrazionale della realtà: di qui deriva che, per contrastarla, è più adatto l’impeto ardimentoso che non il freddo calcolo razionale. Lo slancio attivo diviene così la componente principale della «virtù» del principe, più che il ponderare accorto e lungimirante.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Dividi il testo in sequenze e assegna loro un titolo, secondo l’esempio proposto. Sequenza

Titolo

Righe

I

La fortuna… ...........................................................................................................................................................................................................................................................................

1-24 ................................................................

II

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

................................................................

III

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

................................................................

IV

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

................................................................

> 2. Al tempo di Machiavelli, qual è l’opinione di molti riguardo «le cose del mondo»? Da chi sono regolate e che cosa può fare il singolo, a loro avviso, per modificarne il corso?

> 3. Quale peso ha la fortuna, secondo l’autore, nelle cose umane? > 4. A che cosa è paragonata l’Italia? AnALIzzARe

> 5. Che funzione ha l’esempio di Giulio II? A sostegno di quale tesi è portato? La figura del pontefice è connotata in modo positivo o negativo?

> 6. Spiega il senso delle due immagini riguardanti la fortuna.

a) La prima in cui viene assimilata ad un fiume rovinoso. b) La seconda, alla fine del capitolo, in cui viene personificata in una donna. > 7. Stile Analizza la struttura argomentativa del capitolo. In quali parti si articola? Quali espressioni fungono da raccordo tra di esse? > 8. Stile Quale figura retorica rintracci nelle espressioni «hanno avuto e hanno» (r. 2) e «si sono viste e veggonsi» (r. 7)? APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 9. esporre oralmente Esponi oralmente le conclusioni di Machiavelli presenti a fine brano (max 3 minuti). > 10. Contesto: storia Machiavelli distingue nettamente la situazione politica dell’Italia, «che è la sedia di queste

variazioni e quella che ha dato loro il moto» (rr. 20-21) da quella di altre nazioni europee, quali la Francia, la Spagna, la Germania. Illustra lo scenario storico che giustifica tale contrapposizione.

413

L’ARTe InConTRA LA LeTTeRATuRA

La Fortuna col ciuffo nell’arte del Cinquecento

Immagine interattiva L’allegoria della Fortuna

Nelle arti figurative del Cinquecento si alternano tre diverse rappresentazioni della dea Fortuna: con la ruota, con il ciuffo e con la vela. Se la Fortuna con la ruota rimanda a un atteggiamento passivo dell’uomo nei confronti del proprio destino, quella col ciuffo è personificazione dell’antica Occasio, l’occasione propizia e fuggente nata in ambito greco con sembianze maschili (Kairós), e riflette il pensiero di Machiavelli, secondo il quale la fortuna deve essere acciuffata e domata con ferocia e audacia. La Fortuna con la vela è una sorta di via di mezzo fra le altre due: l’uomo, non potendo controllare la sua vita in ogni aspetto, deve fare tesoro delle occasioni propizie e decidere con saggezza quali direzioni seguire. Un’interessante e insolita versione della Fortuna con il ciuffo si trova nell’Allegoria della Felicità pubblica del pittore e poeta fiorentino Agnolo di Cosimo di Mariano, detto il Bronzino (150371). La sua raffinata pittura, basata su un disegno sicuro, sul levigato splendore del colore e sulla cura dei dettagli, diede vita all’immagine ufficiale della famiglia Medici nel Cinquecento. Bronzino, Allegoria della Felicità pubblica, 1567-68 ca., olio su stagno, Firenze, Galleria degli Uffizi.

La complessa allegoria del Bronzino, che allude al matrimonio tra Francesco I de’ Medici e Giovanna d’Austria, avvenuto nel 1565, si riferisce alla felicità pubblica della città di Firenze. Questa (la figura femminile al centro dell’immagine, con il caduceo e la cornucopia), raggiunta con l’esercizio della Prudenza (alla sua destra, con il volto bifronte) e della Giustizia (alla sua sinistra, con la bilancia e la spada), dura grazie al Tempo (il personaggio anziano di schiena, in basso a sinistra) che ha saputo cogliere l’occasione propizia offerta dalla Fortuna (in basso a destra). Nella personificazione della Fortuna, insieme al ciuffo compare anche la ruota. I due attributi concorrono a dare un valore positivo all’opportunità momentanea: la figura femminile poggia infatti le mani sulla ruota come a fermare la buona occasione “da acciuffare”.

Esercitare le competenze STABILIRe neSSI TRA LeTTeRATuRA e ARTI VISIVe

> 1. Perché a tuo parere la Prudenza e la Giustizia affiancano la donna che rappresenta la città di Firenze? > 2. Osserva con attenzione le figure allegoriche del Tempo e della Fortuna: perché la prima è rappre-

sentata da un uomo anziano e la seconda da una giovane donna? La giovinezza è una caratteristica della Fortuna evidenziata anche da Machiavelli nel Principe? Motiva la tua risposta.

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

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esortazione a pigliare l’Italia e a liberarla dalle mani dei barbari

Temi chiave

• il tono appassionato e vibrante • la personificazione dell’Italia devastata da eserciti stranieri

• la necessità di arruolare milizie cittadine

dal Principe, cap. XXVI

Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam

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Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvono tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente1 e virtuoso2 di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella3, mi pare concorrino tante cose in benefizio4 di uno principe nuovo che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo5. E se, come io dissi, era necessario volendo vedere6 la virtù di Moisé che il populo d’Isdrael fussi stiavo7 in Egitto, e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro ch’e Persi fussino oppressati8 da’ Medi, e la eccellenzia di Teseo che li Ateniesi fussino dispersi9; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ella è di presente10, e che la fussi più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e Persi, più dispersa che gli Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa11, e avesse sopportato d’ogni sorte ruina12. E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto dapoi come nel più alto corso delle azioni sue è stato dalla fortuna reprobato13. In modo che rimasa come sanza vita espetta14 qual possa esser quello che sani le sue ferite e ponga fine a’ sacchi di Lombardia15, alle taglie del Reame e di Toscana16, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite17. Vedesi come la prega18 Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci si vede al presente in quale19 lei possa più sperare che nella illustre Casa Vostra20, quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla Chiesa della quale è ora principe21, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopranominati22. E benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimanco furono uomini, ed ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente: perché la impresa loro non fu più iusta di questa né più facile, né fu a loro Dio più amico che a voi. Qui è iustizia grande23: «iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia

1. prudente: accorto. 2. virtuoso: intelligente, abile ed energico nell’azione. 3. bene … quella: vantaggio all’intero po­ polo dell’Italia. 4. in benefizio: in vantaggio. 5. non so … questo: non so quale mai altra circostanza sia stata più adatta a questo, cioè a onorare un principe nuovo. 6. volendo vedere: perché apparisse. 7. stiavo: schiavo. 8. oppressati: oppressi. 9. dispersi: i popoli dell’Attica erano divisi in varie tribù. 10. nel termine … presente: nella condi­ zione in cui è attualmente. 11. corsa: devastata da scorrerie (di eserciti

invasori). 12. d’ogni sorte ruina: sventure di ogni tipo. 13. E benché … reprobato: e benché si sia mostrato qualche spiraglio di virtù in qualcu­ no, tale che si potesse pensare che costui fosse stato mandato da Dio per salvare l’Italia, tut­ tavia si è visto poi come, nel momento culmi­ nante (alto corso) della sua impresa, sia stato abbandonato dalla Fortuna. Allude evidentemente a Cesare Borgia, che nel capitolo VII aveva presentato come modello del «principe nuovo». 14. espetta: aspetta (soggetto sottinteso l’Italia). 15. a’ sacchi di Lombardia: ai saccheggi perpetrati dagli eserciti francesi e spagnoli in Lombardia, mentre si contendevano il

Ducato di Milano. 16. taglie … Toscana: ai pesanti tributi imposti al Regno di Napoli e alla Toscana. 17. infistolite: incancrenite. 18. la prega: soggetto è sempre l’Italia personificata. 19. in quale: in chi. 20. illustre Casa Vostra: la casa dei Medici; si ricordi che l’opera è dedicata a Lorenzo de’ Medici. 21. è ora principe: era allora papa Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici, zio di Lorenzo. 22. vi recherete … sopranominati: se ter­ rete presenti gli esempi dei personaggi prima menzionati (Mosè, Ciro ecc.). 23. Qui … grande: la causa della redenzio­ ne dell’Italia è quanto mai giusta.

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L’età del Rinascimento

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arma ubi nulla nisi in armis spes est»24. Qui è disposizione grandissima; né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pur che quella pigli delli ordini di coloro che io ho proposti per mira25. Oltre di questo, qui si veggano estraordinarii sanza esemplo, condotti da Dio26: el mare si è aperto, una nube vi ha scòrto el cammino, la pietra ha versato acqua, qui è piovuto la manna27, ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza28. El rimanente dovete fare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre29 el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati Italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre Casa Vostra, e se in tante revoluzioni di Italia e in tanti maneggi di guerra e’ pare sempre che in quella la virtù militare sia spenta30. Questo nasce che gli ordini antiqui di essa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de’ nuovi31: e veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge e li nuovi ordini trovati da lui32. Queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile33: e in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma34. Qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi35. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi36, quanto gli Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono37. E tutto procede38 dalla debolezza de’ capi; perché quelli che sanno non sono obediti, e a ciascuno pare di sapere, non ci sendo infino a qui alcuno che si sia saputo rilevare e per virtù e per fortuna, che gli altri cedino39. Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti anni, quando egli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova. Di che è testimone prima el Taro, dipoi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri40. Volendo dunque la illustre Casa Vostra seguitare quelli eccellenti uomini che redimerno le provincie loro41, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provvedersi d’arme proprie42; perché non si può avere né più fidi né più veri né migliori soldati. E benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedranno comandare dal loro principe e da quello onorare ed intratenere. È necessario pertanto prepararsi a queste arme, per potere con la virtù italica defendersi dalli esterni43.

24. «iustum … est»: «giusta è infatti la guerra per coloro ai quali è necessaria, e pie le armi quando nessuna speranza vi è se non nelle armi». È una citazione da Tito Livio, IX, 1. In realtà il testo liviano è leggermente differente, in quanto Machiavelli, come era per lui abituale, cita a memoria. 25. pur che … mira: purché quella disposi­ zione tragga insegnamenti da coloro che ho proposti come esempi. 26. si veggano … Dio: si vedono prodigi straordinari, compiuti da Dio. 27. el mare … manna: sono i prodigi che accompagnarono la liberazione degli Ebrei dall’Egitto e la loro ricerca della terra promessa. Machiavelli usa qui un linguaggio biblico. Manna: nella Bibbia cibo miracolosamente fornito da Dio agli Ebrei durante le loro peregrinazioni nel deserto. 28. ogni cosa … grandezza: ogni cosa ha contribuito a creare le condizioni della vostra grandezza. 29. ci tòrre: toglierci. 30. e se … spenta: e se in tanti rivolgimenti in Italia e in tante operazioni di guerra sembra

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sempre che il valore militare italiano sia scom­ parso. 31. Questo … nuovi: questo nasce dal fatto che gli ordinamenti militari antichi non erano validi e non ci è stato nessuno che abbia sapu­ to trovarne dei nuovi. 32. e veruna … lui: e nessuna cosa fa tanto onore ad un principe nuovo che si affermi, quanto le nuove leggi e i nuovi ordinamenti da lui creati. 33. reverendo e mirabile: degno di riveren­ za e ammirazione. 34. materia … forma: l’occasione è come una materia bruta, su cui il principe può imporre la forma da lui voluta, che cioè può plasmare secondo la sua volontà. 35. Qui … capi: qui vi è grande virtù nel popo­ lo, se non mancasse nei governanti. Il popolo, nella metafora, costituisce come le membra di un organismo, di cui i principi sono la testa. 36. Specchiatevi … pochi: guardate i duel­ li e gli scontri fra pochi. Allude alla famosa disfida di Barletta, in cui un drappello di italiani aveva sconfitto un drappello di francesi (1503).

37. Ma … compariscono: ma, come si giun­ ge a scontri fra eserciti, gli italiani fanno me­ schina figura. 38. procede: deriva. 39. perché … cedino: perché quelli che san­ no comandare eserciti non sono obbediti, e a ciascuno sembra di sapere, mentre fino ad ora nessuno si è segnalato per virtù e per fortuna, in modo tale che gli altri si piegassero ad ob­ bedirgli (cedino). 40. el Taro … Mestri: elenca una serie di battaglie recenti, in cui gli eserciti italiani hanno dato cattiva prova: a Fornovo di Taro nel 1495 Carlo VIII sconfisse una lega di Stati italiani; Alessandria fu presa dai francesi nel 1499, così come Capua e Genova; a Vailà furono sconfitti i veneziani nel 1509; Bologna cedette ai francesi nel 1511; Mestre fu presa nel 1513 dalla lega antiveneziana, e data alle fiamme. 41. redimerno … loro: riscattarono i loro popoli. 42. arme proprie: eserciti propri, non mercenari. 43. esterni: stranieri.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

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E benché la fanteria svizzera e spagnola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto, per il quale uno ordine terzo44 potrebbe non solamente opporsi loro ma confidare di superarli45. Perché li Spagnoli non possono sostenere e cavalli46, e li Svizzeri hanno ad avere paura de’ fanti, quando li riscontrino47 nel combattere ostinati come loro. Donde si è veduto e vedrassi per esperienzia li Spagnoli non potere sostenere una cavalleria franzese e li Svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola. E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienzia, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna48, quando le fanterie spagnole si affrontorono con le battaglie todesche49, le quali servono el medesimo ordine50 che le svizzere; dove li Spagnoli, con l’agilità del corpo e aiuti de’ loro brocchieri51, erono intrati tra le picche loro sotto, e stavano securi a offenderli52 sanza che li Todeschi vi avessino remedio; e se non fussi la cavalleria che li urtò, gli arebbano consumati53 tutti. Puossi adunque, conosciuto el difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti; il che farà la generazione delle armi e la variazione delli ordini54. E queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, dànno reputazione e grandezza a uno principe nuovo. Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia dopo tanto tempo vegga uno suo redentore55. Né posso esprimere con quale amore e’ fussi56 ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne57: con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano58? quali populi li negherebbano la obedienzia? quale invidia se li opporrebbe?59 quale Italiano li negherebbe l’ossequio? A ognuno puzza60 questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa Vostra questo assunto61 con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste62; acciò che sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e sotto li sua auspizii si verifichi quel detto del Petrarca:

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44. ordine terzo: un terzo tipo di ordinamento militare, diverso sia da quello svizzero sia da quello spagnolo. 45. superarli: batterli. 46. sostenere e cavalli: sostenere le cariche della cavalleria. 47. li riscontrino: li trovino. 48. Ravenna: la battaglia in cui i francesi furono sconfitti dagli spagnoli (1512). 49. battaglie todesche: battaglioni tede­ schi. 50. servono … ordine: osservano la stessa tattica di battaglia. 51. brocchieri: scudi rotondi, armati di

Virtù contro a furore prenderà l’arme; e fia el combatter corto, ché l’antico valore nell’italici cor non è ancor morto63. punte. 52. offenderli: ferirli. 53. consumati: sterminati. 54. il che … ordini: questo effetto sarà otte­ nuto dal tipo (generazione) delle armi e dalle diverse tattiche militari. 55. redentore: qualcuno che la redima dalla sua condizione (ma è un vocabolo forte, che rimandando alla figura di Cristo conferisce al discorso una solennità biblica). 56. e’ fussi: egli sarebbe (soggetto il redentore). 57. illuvioni esterne: invasioni straniere (propriamente “alluvioni”).

58. se li serrerebbano: gli sarebbero chiuse. 59. quale … opporrebbe?: quale odio gli si contrapporrebbe? 60. puzza: ripugna. 61. assunto: compito. 62. che … iuste: con cui si intraprendono le imprese giuste. 63. Virtù … morto: la citazione è tratta dalla canzone All’Italia di Petrarca (vv. 93-96): il valore italico prenderà le armi contro la sel­ vaggia furia degli stranieri; ed il combattimen­ to sarà breve, perché l’antico valore (degli antenati romani) non è ancora spento nei cuori degli Italiani.

Pesare le parole Generazione (riga 72) > Proviene

dal latino generatiònem, dal verbo gìgnere, “generare”, che ha stessa radice di gènus, “genere”; qui infatti significa “genere, tipo”. La parola non è più usata in questa accezione: nella lingua attuale il senso più comune è “l’insieme di coloro che hanno all’incirca la stessa

età” (es. la nuova generazione ha un futuro incerto), o più genericamente “tutti coloro che vivono in un dato tempo, anche di età diverse” (es. la presente generazione ha conosciuto eventi terribili come l’attentato alle Torri Gemelle).

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L’età del Rinascimento

Analisi del testo Il mutamento di tono e il pathos oratorio

Il linguaggio immaginoso

> L’esortazione conclusiva

Nell’ultimo capitolo il tono del discorso muta: se fin qui l’andamento della trattazione era stato “scientifico”, rigorosamente e lucidamente razionale nell’analizzare la realtà effettiva, nel ricavarne le leggi della politica e nel fissare le norme di comportamento di un «principe virtuoso», ora il tono si fa vibrante, concitato, e si innalza ad un intenso pathos oratorio. Si pensi solo alla descrizione delle «piaghe» d’Italia, costruita con il martellare degli asindeti, con effetti di grande intensità emotiva: «più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e Persi, più dispersa che gli Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa»; «con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime»; e si veda ancora la perorazione rivolta al «redentore» dell’Italia, che si fonda sull’incalzare delle interrogative retoriche: «Quali porte se li serrerebbano? quali populi li negherebbano la obedienzia? quale invidia se li opporrebbe?». Il linguaggio si fa immaginoso, tutto concentrato intorno alla personificazione dell’Italia devastata, ripresa da altre immagini metaforiche, «rimasa come sanza vita», «sani le sue ferite», «la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite». Le metafore, ad esprimere lo sdegno per la condizione italiana, possono raggiungere uno straordinario vigore plebeo: «A ognuno puzza questo barbaro dominio». In certi punti lo “scienziato” della politica assume quasi le vesti del profeta, facendo uso di immagini bibliche: «el mare si è aperto, una nube vi ha scòrto el cammino, la pietra ha versato acqua, qui è piovuto la manna». Non meraviglia che questo discorso così vibrante e altamente intonato si chiuda con una citazione poetica, tra l’altro da un testo di appassionata impostazione oratoria come la canzone All’Italia di Petrarca.

> una generosa utopia?

Lo slancio eroico

Si apre a questo punto un problema, come è facile intuire: il rigoroso esaminatore della «verità effettuale della cosa», che disprezza chi va dietro all’«immaginazione di essa», si abbandona anch’egli qui all’immaginazione, costruendo, invece di una teoria scientifica, una generosa utopia? Certo in questo capitolo il fervore fa passare in secondo piano il calcolo preciso delle reali possibilità di una rinascita politica italiana, e soprattutto fa dimenticare a Machiavelli il giudizio estremamente duro e sprezzante che egli dà sull’ignavia dei principi italiani, inducendolo a vagheggiare un impossibile «principe nuovo» che liberi l’Italia dai «barbari» e a trasformare il mediocre Lorenzo di Piero in una sorta di messia e «redentore». Ma non bisogna mai dimenticare il carattere eroico della visione di Machiavelli. Dinanzi ad una situazione di estrema decadenza e corruttela egli si abbandona allo slancio volontaristico, proprio per reagire al clima di fatalismo rinunciatario e di scetticismo inerte che domina nei suoi tempi. Ciò testimonia ancora una volta che il libretto non è una fredda analisi teorica, ma un’opera che vuole incidere direttamente sulla realtà.

> La funzione essenziale del capitolo

I fondamenti teoretici della passione politica

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Quindi il capitolo finale non è un membro staccato dal corpo del trattato, ma una parte integrante, essenziale e indispensabile. Tutta la rigorosa analisi scientifica della «verità effettuale» era finalizzata a mutare la situazione esistente: è naturale perciò che sfoci in questa perorazione appassionata e vibrante. Sono due momenti diversi del discorso, ma entrambi funzionali allo stesso fine e complementari. L’analisi della realtà effettuale deve necessariamente finire in questa esortazione, perché sin dall’inizio mirava a smuovere gli animi e a contrastare l’inerzia contemporanea. D’altronde anche qui Machiavelli, al di là del linguaggio emotivo, immaginoso e profetico, non trascura di cercare fondamenti teoretici alla sua passione politica. Egli non dimentica affatto le reali condizioni dell’Italia. Riprendendo le idee già esposte nel capi-

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

tolo VI e applicandole al caso italiano, sostiene una particolare teoria dell’«occasione», che rivolge il negativo in positivo: secondo lui proprio la condizione disperata dell’Italia, resa schiava e devastata da eserciti stranieri, è l’occasione migliore perché un «principe nuovo» prenda l’iniziativa del riscatto. Così è proprio del Machiavelli “scienziato” della politica il discorso, già toccato nei capitoli XII-XIV, sulle milizie cittadine, che per lui sono il fondamento di ogni Stato nuovo. Anche qui, a suo avviso, c’è materia su cui un principe «virtuoso» può introdurre la sua «forma». C’è in Italia «virtù grande nelle membra». Machiavelli non vede un popolo interamente infiacchito e corrotto, anzi, proietta sui suoi contemporanei le virtù civili e militari degli antichi Romani. Il presupposto del nuovo principato dovrà dunque essere per lui la base popolare, il consenso del popolo, che si esprime essenzialmente nell’arruolamento delle milizie cittadine.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Lo scrittore indica una precisa circostanza storica che dovrebbe favorire in quel momento l’impresa di un esponente della casata de’ Medici per riscattare l’Italia dalla servitù. Di quale circostanza si tratta?

> 2. Quali sono i grandi uomini del passato portati come esempio di virtù? In che senso la loro vicenda è esemplare per l’Italia e gli italiani?

> 3. Che cosa afferma l’autore a proposito del libero arbitrio (rr. 34-35)? AnALIzzARe

> 4.

Stile Ad inizio e fine capitolo il discorso assume toni particolarmente appassionati, evidenti dall’uso di fig ure quali l’anafora e la climax. Individuale nel testo, alle righe 19-20 e 28-29 l’anafora, alle righe 10-13 e 75-78 la climax, distinguendo se si tratta di una gradazione ascendente o discendente. > 5. Stile Come è raffigurata l’Italia personificata? Riproponi alla lettera la descrizione di Machiavelli.

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Scrivere Alla fine del capitolo Machiavelli torna a parlare dell’importanza delle milizie all’interno di uno Stato, argomento già affrontato in altri luoghi dell’opera ed in altri suoi scritti. Riassumi in un testo di circa 18 righe (900 caratteri) la sua posizione al riguardo. > 7. Testi a confronto: esporre oralmente Confronta, in un’esposizione orale (max 8 minuti), l’epilogo del Principe con l’invettiva all’Italia di Dante (Divina Commedia, Purgatorio, VI, vv. 76-78 e vv. 85-90):

78

Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! […]

87

Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode.

90

Che val perché ti racconciasse il freno Iustinïano, se la sella è vòta? Sanz’esso fora la vergogna meno.

Ahi serva Italia, sede di dolore, nave senza timoniere in una grande tempesta, non dominatrice di province, ma bordello! […] Considera, o infelice, lungo i tuoi litorali le tue regioni costiere, e poi esamina le tue regioni interne, se qualche parte in te gode della pace. A che cosa serve che Giustiniano ti abbia dato le leggi, visto che manca l’autorità che le fa rispettare? Se le leggi non ci fossero la vergogna sarebbe minore.

Con quali diverse immagini Dante e Machiavelli rappresentano l’Italia? Si possono notare procedimenti formali simili? In che cosa si differenzia la figura di guida politica vagheggiata dai due autori?

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L’età del Rinascimento

E c h i n e l Te m p o

Gramsci e il «moderno Principe» La militanza politica e la prigionia

Testo critico A. Gramsci

I Quaderni del carcere Il pensiero di Machiavelli è stato ripreso nel Novecento da un grande pensatore, Antonio Gramsci (1891-1937), in una chiave molto particolare. Gramsci infatti non è un semplice studioso, come i tanti che hanno scritto libri e saggi su Machiavelli, è anche e soprattutto un militante e un dirigente politico, impegnato nella lotta politica col Partito Comunista d’Italia nel primo dopoguerra, e per questo incarcerato dal regime dittatoriale fascista nel 1926 e tenuto in prigione quasi sino alla morte. Durante la lunga prigionia, forzatamente escluso dalla militanza attiva, Gramsci si dedica agli studi, accumulando una mole imponente di riflessioni di filosofia, politica, storia, letteratura nei suoi Quaderni del carcere, pubblicati postumi nel secondo dopoguerra tra il 1948 e il 1951. Ma sono studi non astrattamente teorici, bensì sempre finalizzati ad uno sbocco nella prassi politica. La fondazione di un nuovo Stato Tra i temi su cui si esercita il pensiero gramsciano occupa un posto preminente quello della fondazione di un nuovo Stato, dopo che sarà stato abbattuto quello fascista, uno stato socialista creato dalla classe operaia. Tra queste note spiccano quelle dedicate al Principe di Machiavelli, e si può facilmente capirne il motivo: il principe machiavelliano aveva il compito di fondare in Italia lo Stato moderno, unificando le forze disperse del popolo italiano, suscitando e organizzando la volontà collettiva; un compito analogo si prospetta alle forze politiche antifasciste nel presente.

La «volontà collettiva»

Il partito

Il «moderno principe» Il nodo centrale, per Gramsci, è come organizzare e indirizzare la «volontà collettiva» verso il fine della creazione di questo nuovo Stato. Quale può essere il «moderno Principe» che assumerà le funzioni esercitate dal principe nel pensiero di Machiavelli? La risposta è:

Il moderno principe, il mito-principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 1558

Le condizioni di una volontà collettiva

Gramsci si pone poi la domanda: «Quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare?» (p. 1559). Per trovare una risposta, egli traccia un programma di lavoro da affrontare, un’analisi storica della struttura sociale italiana, dei tentativi fatti durante i secoli per suscitare quella volontà e le ragioni dei fallimenti, che vanno viste soprattutto nell’esistenza di gruppi sociali formatisi dalla dissoluzione della borghesia comunale, una società di tipo feudale nella sua forma meno progressiva, più stagnante. Forze negative e positive Ma esistono le condizioni per creare una volontà collettiva nel popolo italiano? Le forze che si oppongono, per Gramsci, sono l’aristocrazia terriera e la borghesia rurale; le forze positive sono invece da cercare «nell’esistenza di gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico-politica». Ma «ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile, se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica» (p. 1560).

La riforma intellettuale e morale La riforma economica

420

Le riforme del «moderno principe» Compito del «moderno Principe», cioè del partito, deve essere «una riforma intellettuale e morale», di cui esso deve porsi come banditore e organizzatore: solo una simile riforma può preparare il terreno «per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna» (p. 1560). Ma non ci può essere «riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico»; «anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Il laicismo moderno

L’identificazione del partito con lo Stato

T10

quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume» (p. 1561). una nuova morale In questo modo, riferita al partito, al «moderno Principe», viene ripresa la rivoluzionaria distinzione tra politica e morale proposta dal pensiero di Machiavelli. Si vengono a creare, secondo Gramsci, una nuova morale e un nuovo costume, che non poggiano più sui fondamenti tradizionali della religione, come era sempre avvenuto in Italia. E questa è la condizione per la formazione di una civiltà integralmente moderna. Sono visibili però i pericoli di un’impostazione del genere: essenzialmente, l’identificazione del partito con lo Stato, cioè l’affermarsi dello Stato totalitario; pericolo che si concretava, proprio in quegli anni (queste note gramsciane su Machiavelli risalgono al 1932-34), nel regime stalinista instauratosi nell’Unione Sovietica (fenomeno però a cui Gramsci guardava criticamente, al punto di arrivare a una rottura con la direzione del Partito Comunista Italiano, ligia allo stalinismo).

L’imitazione degli antichi dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, Proemio

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Temi chiave

• il pessimismo sulla natura umana • il valore dell’esperienza • la lezione degli antichi

Ancora che1 per la invida natura degli uomini sia sempre suto2 non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi3 che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri4, nondimanco5, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare sanza alcuno respetto6 quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita7, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino8. E se lo ingegno povero, la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia delle antique9 faranno questo mio conato difettivo10 e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno che con più virtù, più discorso e iudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare11: il che, se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo. Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono12, e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo13; e veggiendo da l’altro canto le virtuosissime

1. Ancora che: benché. 2. suto: stato. 3. trovare … nuovi: trovare nuovi ordina­ menti politici. 4. per essere … altri: poiché gli uomini sono più pronti a biasimare che a lodare le azioni degli altri. 5. nondimanco: tuttavia. 6. respetto: timore, cautela. 7. non essendo … trita: non essendo anco­

ra stata percorsa da nessuno (propriamente trita vale “calpestata”). 8. mediante … considerassino: grazie a coloro che considerassero senza malevolenza (umanamente) queste mie fatiche. 9. notizia delle antique: conoscenza della storia antica. 10. faranno … difettivo: renderanno man­ chevole questo mio tentativo. 11. daranno … satisfare: apriranno la stra­

da a qualcuno che con maggiori capacità, migliore eloquenza e maggior acutezza di giudizio potrà portare a compimento questo mio disegno. 12. coloro … dilettono: a coloro che prati­ cano l’arte della scultura. 13. e come … rappresentarlo: e come poi gli scultori si sforzano con tutto il loro impe­ gno e la loro abilità (industria) di riprodurre quel modello in tutte le loro opere.

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L’età del Rinascimento

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operazioni che le istorie ci mostrono, che sono state operate da regni e da republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi14 ed altri che si sono per la loro patria affaticati15, essere16 più presto ammirate che imitate, anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno17: non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga18. E tanto più quanto io veggo nelle differenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati19: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine20, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienzia fatta dagli antiqui medici, sopra la quale fondano e medici presenti e loro iudizii21. Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto dalla debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo22, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio23, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne leggendole quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé24. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti25 che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erono antiquamente26. Volendo pertanto trarre li uomini di questo errore, ho iudicato necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti27, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi28, a ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente trarne quella uti-

14. latori di leggi: legislatori. 15. affaticati: hanno speso le loro energie. 16. veggiendo … essere: vedendo che le virtuosissime operazioni … sono … Il costrutto con l’infinito imita l’oggettiva latina. 17. segno: traccia. 18. non posso … dolga: non posso fare a meno di dolermene e meravigliarmene al tempo stesso. È questa la proposizione principale del lungo periodo che comincia con Considerando. 19. E tanto … ordinati: e tanto più quanto vedo che, nelle controversie civili che nascono tra i cittadini o nelle malattie in cui gli uomini incorrono, si è sempre fatto ricorso a quelle norme giuridiche (iudizii) o a quelle cure che sono state introdotte dagli antichi. Vale a dire che la giurisprudenza e la medicina moderne si rifanno rispettivamente alle sentenze

degli antichi giureconsulti e alla scienza medica antica. 20. ridutte in ordine: raccolte e ordinate (da Giustiniano nel Corpus iuris civilis: il diritto moderno infatti prende le mosse dal diritto romano). 21. sopra … iudizii: sulla quale i medici di oggi fondano le loro diagnosi. 22. debolezza … mondo: secondo Machiavelli la religione cristiana ha infiacchito gli animi. 23. ambizioso ozio: l’inerzia, la mancanza di un senso attivo della vita, unito però all’ambizione di potere e di ricchezze. 24. dal non avere … in sé: la mancata imitazione degli antichi nel campo politico nasce dal fatto che non si conosce nel modo giusto la storia antica, perché leggendola non si è capaci di trarne il senso che essa

contiene, vale a dire dalla storia non si ricavano gli esempi da imitare oggi. 25. accidenti: avvenimenti. 26. come se … antiquamente: è cioè possibile imitare gli antichi, perché la natura umana non è mutata, come non sono mutati il movimento, l’ordine, la forza del cielo, del sole, degli elementi (aria, acqua, terra e fuoco). L’uomo è quindi un elemento di natura al pari di tutti gli altri, e come tale è immutabile. 27. intercetti: sottratti; la Storia di Roma (Ab urbe condita libri) di Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) comprendeva 142 libri; di essi ce ne sono pervenuti solo 35, più i riassunti di quelli perduti. 28. quello che … di essi: ciò che io, sulla ba­ se della conoscenza delle cose antiche e mo­ derne, giudicherò necessario per meglio com­ prendere la storia liviana.

Pesare le parole Intelligenzia (riga 42)

> Qui significa “comprensione”, l’atto di comprendere,

dal latino intellìgere, “capire”; è un’accezione rimasta nel linguaggio colto (es. è un testo di facile intelligenza, cioè facile a capirsi). Nel linguaggio attuale

422

indica comunemente il livello mentale, la capacità di capire, pensare, giudicare, apprendere propria di una persona (es. è uno studente di eccezionale intelligenza).

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

45

lità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie29. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato30, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato31.

29. a ciò che … istorie: affinché coloro che leggeranno questi miei commenti (declarazioni) possano più facilmente ricavarne quell’utili­ tà, per la quale si deve cercare la conoscenza della storia. L’utilità della storia è la lezione

che da essa gli uomini devono trarre per il loro operare presente. 30. aiutato … confortato: aiutato da colo­ ro che mi hanno confortato ad intraprendere questa fatica; si riferisce agli amici del grup-

po degli Orti Oricellari, a due dei quali l’opera è dedicata. 31. a condurlo … destinato: a condurre la fatica all’obiettivo prefissato.

Analisi del testo

> La polemica contro i contemporanei

La consapevolezza polemica della propria originalità

La destinazione pratica

Il Proemio al primo libro dei Discorsi è un testo di straordinaria importanza, perché tocca molti dei punti vitali del pensiero machiavelliano. Innanzitutto lo scrittore vi esprime quella consapevolezza della propria originalità che lo caratterizza, e che abbiamo già riscontrato nel capitolo XV del Principe ( T6, p. 399). Affiora poi il suo ben noto pessimismo sulla natura umana in generale («la invida natura degli uomini»), ma vi si può cogliere una polemica più specifica contro l’atteggiamento dei contemporanei, in particolare dei suoi concittadini, apatici, scettici, incapaci di ammirare le azioni generose. È uno spunto che richiama la polemica contro i fiorentini che «tralignano» dall’antica virtù contenuta nel Prologo della Mandragola ( T12, p. 435). Il coraggio di sfidare l’opinione corrente con le sue idee nuove gli viene dalla convinzione di poter recare «comune benefizio a ciascuno». Di nuovo, come nel Principe (fare «cosa utile a chi la intende», capitolo XV, T6, p. 399), viene ribadito il fatto che l’opera ha una destinazione pratica, mira ad incidere sulla realtà, non vuol essere una pura speculazione teorica.

> Il valore dell’esperienza

L’esperienza delle cose moderne e la lezione delle antiche

L’efficacia pratica dello scritto nasce dal fatto che esso si nutre dell’esperienza concreta. Machiavelli attenua qui il valore di questa esperienza per pura convenzione letteraria, per un’obbligata professione di modestia («E se [...] la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia delle antique faranno questo mio conato difettivo...»); in realtà egli è ben conscio del valore dell’esperienza da lui accumulata sia riflettendo sulla storia antica sia in tanti anni di vita politica al contatto diretto coi grandi eventi contemporanei (come possiamo desumere da altri testi, quale la famosa lettera al Vettori: «quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti, né giuocati»). Vediamo così tornare in questo passo del Proemio un binomio fondamentale nel pensiero machiavelliano, che abbiamo già trovato nella Dedica al Principe, la «lunga esperienzia delle cose moderne» e la «continua lezione delle antique».

> La «lezione» degli antichi L’imitazione nel campo politico

Machiavelli e gli umanisti

Il nucleo centrale del Proemio è proprio la «lezione» degli antichi, e il modo in cui essa deve essere fatta propria dai moderni. Machiavelli osserva come l’imitazione dei modelli classici sia alla base di tutte le arti e le professioni moderne, la giurisprudenza, la medicina, la scultura. Depreca invece che l’imitazione non si verifichi per quanto concerne le azioni politiche: l’operato dei grandi antichi viene ammirato, ma non imitato. È questa una chiarissima enunciazione del principio di imitazione, che è costitutivo della visione rinascimentale della realtà. Il segretario della Repubblica fiorentina sembra qui ricollegarsi agli esponenti dell’Umanesimo “civile”, i Salutati, i Bruni, i Bracciolini, che vedevano nel mondo classico un 423

L’età del Rinascimento

modello da applicare al vivere civile presente. Ma si avverte la distanza che separa ormai Machiavelli da quel patrimonio culturale, a cui pure lo uniscono profondi legami. Per gli umanisti fiorentini la virtù antica era ancora viva, e Firenze era considerata con orgoglio la legittima erede di Atene e di Roma; Machiavelli invece è ben più pessimistico: secondo lui «di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno», la decadenza del presente è profonda. Si capisce come tra Salutati e Machiavelli si siano frapposte tante vicende, l’avvento della Signoria, la crisi italiana.

> La passività dei moderni

La visione naturalistica

Ma Machiavelli non si rassegna mai dinanzi alla decadenza presente, poiché, nonostante il pessimismo, sempre vive in lui lo spirito eroico e agonistico. Si interroga infatti sulle cause della mancata imitazione, che tiene lontani i moderni dalla «virtù» antica. Lascia in secondo piano l’influenza per lui nefasta della religione cristiana (su cui ritornerà in pagine famose dei Discorsi), e ravvisa il vero motivo nella passività rinunciataria dei moderni, che si limitano a trarre piacere dalla lettura delle storie, ma ritengono l’imitazione delle gesta antiche «non solo difficile ma impossibile». Egli invece considera l’imitazione ancora perfettamente possibile. Alla base di questa convinzione si colloca la sua visione naturalistica: l’uomo è un fenomeno di natura come il sole, le stelle, gli elementi, i suoi comportamenti basilari si ripetono sempre identici al di là del trascorrere del tempo; per cui l’uomo moderno può benissimo riprodurre le azioni di quello antico, dalle storie si possono ricavare regole precise per l’agire e l’uomo di oggi è in grado di applicarle al suo operare politico. Proprio per questo l’autore si propone di ricavare dai libri di Livio una serie di esempi da proporre all’imitazione dei moderni, per scuoterli dalla loro apatia.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Che cosa afferma l’autore, da subito, a proposito della natura umana (rr. 1-3)? > 2. In quali campi gli uomini ricorrono all’esempio e all’imitazione degli antichi? In quale disciplina invece non seguono tale pratica?

> 3. A coloro che ritengono l’imitazione impossibile, per le mutate condizioni, Machiavelli risponde con un esempio tratto dalla natura. Quale?

AnALIzzARe

> 4.

Stile Quale similitudine è presente nelle righe iniziali? A che cosa è riferita? E la metafora presente alle righe 5-6? > 5. Lessico Rintraccia nel testo le ricorrenze del termine «antico» e dei suoi derivati.

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

esporre oralmente A partire dalle affermazioni contenute nelle righe 31-33 del presente brano, esponi la concezione di Machiavelli riguardo il rapporto tra religione e Stato (max 3 minuti).

PeR IL PoTenzIAMenTo

> 7.

Scrivere Riassumi in circa 12 righe (600 caratteri) ciò che Machiavelli afferma qui, a proposito della lezione degli antichi, con quanto scritto nella Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 ( T1, p. 362, rr. 49-63) e nella Dedica del Principe ( T2, p. 382, rr. 5-11). PASSATo e PReSenTe La storia (ancora) maestra di vita?

> 8. Quanto conta, oggi, ricordare e ripensare il passato, in un’epoca in cui si vive in un eterno presente, in cui

tutto si consuma velocemente? La storia può essere ancora maestra di vita? Rispondi (max 3 minuti) confrontandoti con il docente e i compagni in una discussione in classe.

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

L e t t e r a t u r a e Politica

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Quali scandoli1 partorì in Roma la legge agraria dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, cap. XXXVII La legge agraria nella Roma del periodo repubblicano regolava la distribuzione al popolo delle terre pubbliche. Machiavelli ne esamina le conseguenze su un ampio arco temporale.

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Testo e realtà Il testo dimostra come le leggi agrarie a Roma abbiano innescato, fra nobiltà e plebe, una conflittualità destinata a compromettere la libertas repubblicana con l’avvento delle guerre civili.

Aveva questa legge due capi2 principali. Per l’uno si disponeva che non si potesse possedere per alcuno cittadino più che tanti iugeri di terra3; per l’altro che i campi di che si privavano i nimici si dividessono intra il popolo romano. Veniva pertanto a fare di dua sorte offese4 ai nobili: perché quegli che possedevano più beni non permetteva la legge (quali erano la maggiore parte de’ nobili) ne avevano a essere privi5; e dividendosi intra la plebe i beni de’ nimici, si toglieva a quegli la via dello arricchire6. Sicché, venendo a essere queste offese contro a uomini potenti e che pareva loro contrastandola difendere il publico7; qualunque volta, come è detto, si ricordava, andava sottosopra tutta quella città, e i nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano8, […] Andò questo omore di questa legge così travagliandosi un tempo9, tanto che10 gli Romani cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme parti di Italia o fuori di Italia, dopo al quale tempo parve che la cessassi11. Il che nacque, perché i campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti agli occhi della Plebe, ed in luogo dove non gli era facile il cultivargli, veniva a essere meno desiderosa di quegli12; e ancora i Romani erano meno punitori13 de’ loro nimici in simil modo, e quando pure spogliavano alcuna terra del suo contado14, vi distribuivano colonie. Tanto che per tali cagioni questa legge stette come addormentata infino ai Gracchi15; da’ quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana: perché la trovò raddoppiata la potenza de’ suoi

1. scandoli: disordini, conflitti. 2. capi: disposizioni. 3. che non si potesse … terra: che ciascun cittadino non potesse possedere più di un cer­ to numero di iugeri di terra (più esattamente 500 iugeri). Lo iugero era la superficie di terra che poteva essere lavorata in un giorno da una coppia di buoi al giogo (iugum): corrisponde a circa un quarto di ettaro. Il si ha valore passivante e per introduce il complemento d’agente. 4. di dua … offese: danni di due tipi. 5. quegli … privi: quelli che possedevano più terre di quante la legge non permettesse (che erano in maggioranza nobili) ne doveva­ no essere privi. 6. si toglieva … arricchire: si sottraeva ai nobili la possibilità di arricchire. 7. e che … publico: contrastando l’applica­

zione della legge, ai nobili pareva di difendere l’interesse generale. Si noti la variazione di costrutto rispetto alla prima parte del periodo. 8. qualunque … temporeggiavano: ogni volta che, come si è detto, la legge veniva ri­ chiamata, tutta la città era messa in subbu­ glio, e i nobili con pazienza e abilità ne riman­ davano l’applicazione. Temporeggiavano è usato qui in senso attivo. 9. Andò … tempo: l’atteggiamento (omore) nei confronti di questa legge durò così con­ flittuale per un certo periodo di tempo. 10. tanto che: finché. 11. parve … cessassi: parve che i contrasti per la legge agraria cessassero. La concorda a senso con legge anziché con omore. 12. perché … quegli: perché essendo i cam­ pi posseduti dai nemici di Roma lontani dalla vista della plebe e in luoghi dove non era facile

coltivarli, [la plebe] giunse a desiderarli meno. 13. meno punitori: colpivano meno pesan­ temente i popoli vinti. 14. spogliavano … contado: spogliavano qualche città (terra) del suo territorio circo­ stante. 15. ai Gracchi: Tiberio Gracco, tribuno della plebe, nel 133 a.C. propose una legge secondo cui le porzioni di terra pubblica in usufrutto ai nobili oltre ai 500 iugeri, su cui secondo l’antica legge agraria essi non avevano diritti legali, fossero distribuite al popolo nullatenente. Ma la legge incontrò la dura opposizione della nobiltà e Tiberio Gracco fu ucciso. Il fratello Caio, anch’egli tribuno, nel 123 riprese la riforma, ma incontrò a sua volta un’accanita opposizione. Si venne alle armi e Caio, sconfitto, vedendo che tutto era perduto, si fece uccidere da un servo.

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avversari, e si accese per questo tanto odio intra la Plebe ed il Senato16 che si venne nelle armi ed al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile. Talché non potendo i publici magistrati rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in quegli, si ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che la difendesse17. Pervenne in questo scandolo e disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario18, tanto che la lo fece quattro volte consule, ed in tanto continovò19 con pochi intervalli il suo consolato, che si potette per se stesso far consulo20 tre altre volte. Contro alla quale peste non avendo la Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire Silla; e fatto quello capo della parte sua, vennero alle guerre civili, e dopo molto sangue e variare di fortuna rimase superiore21 la Nobilità. Risuscitarono poi questi omori22 a tempo di Cesare e di Pompeio23; perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma, talché mai fu poi libera quella città. […] Se la contenzione24 della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta per avventura molto più tosto in servitù, quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l’ambizione de’ nobili25. Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori26. Perché la Nobilità romana sempre negli onori cedé sanza scandoli27 straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba28, fu tanta la ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse per isfogare l’appetito suo a quegli straordinari29 che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori30 i Gracchi, de’ quali si debbe laudare più la intenzione che la prudenzia31.

16. tra la Plebe … Senato: il senato rappresentava gli interessi della nobiltà, cioè dei grandi proprietari terrieri. 17. non potendo … difendesse: i pubblici magistrati non avevano più la forza per porre rimedio alle lotte civili; le due fazioni in contrasto, plebe e nobiltà, non contavano più su di essi e ricorsero a rimedi privati: perciò ciascuna delle parti pensò di appoggiarsi a un capo che la difendesse; cioè dai contrasti sociali si passò a una vera guerra civile. 18. Pervenne … Mario: la plebe giunse a questo punto di sovversione delle istituzioni tradizionali (scandolo e disordine) e affidò la difesa dei propri interessi a Mario. Caio Mario (155-86 a.C.), generale di famiglia non nobile, vincitore del re di Numidia Giugurta e delle popolazioni germaniche dei Cimbri

e dei Teutoni, combatté contro Lucio Silla (138-58 a.C.), che era il capo del partito senatoriale, e alla fine fu da lui sconfitto. Silla impose a Roma una dittatura personale e scatenò pesanti persecuzioni contro i seguaci di Mario. 19. continovò: continuò. 20. consulo: console. 21. superiore: vincitrice. 22. omori: odi, conflitti. 23. Cesare … Pompeio: la guerra civile tra Cesare e Pompeo scoppiò nel 49 a.C., e nel 48 Pompeo fu sconfitto a Farsalo. Fattosi nominare dittatore, Cesare divenne padrone assoluto di Roma. La carica gli fu poi rinnovata a vita. Fu assassinato nel 44 a.C. in seguito a una congiura di seguaci della tradizione repubblicana di Roma, ma aveva già posto le basi del futuro Impero.

24. contenzione: contesa, conflitto. 25. si sarebbe … nobili: Roma si sarebbe forse ridotta più rapidamente in schiavitù se la plebe, con la legge agraria e mirando ad altri obiettivi di potere (altri appetiti), non avesse sempre frenato l’ambizione degli ari­ stocratici. 26. onori: cariche politiche (è un latinismo). 27. scandoli: conflitti. 28. si venne … roba: fu toccata la proprietà. 29. straordinari: sottinteso scandoli. 30. motori: iniziatori. 31. laudare … prudenzia: i Gracchi avevano buone intenzioni, cioè migliorare le condizioni della plebe nullatenente, e con questo porre rimedio alla degenerazione dei costumi, ma le loro iniziative per Machiavelli furono deleterie perché scatenarono conflitti ancora più aspri.

Analisi del testo I conflitti fra patrizi e plebei e la fine della libertà Le guerre civili e la tirannide di Cesare

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> La legge agraria all’origine della conflittualità sociale

La tesi di Machiavelli è che la legge agraria, provocando conflitti continui fra la nobiltà e la plebe, finì per mandare in rovina la libertà a Roma. Infatti l’odio fra patrizi e plebei si acuì al punto che si venne alla guerra civile: ognuna delle due fazioni si appoggiò a un capo, la plebe a Mario, la nobiltà a Silla, poi, riaccesasi la contesa fra Cesare e Pompeo, rimase vincitore Cesare, che fu il primo tiranno di Roma; sicché la città non fu mai più libera.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

La celebrazione della libertà repubblicana

La conservazione dello Stato e gli ordinamenti repubblicani

«Tirannide» e «servitù» a Roma

Come si vede, Machiavelli non si occupa dei problemi economici e sociali connessi con quelli della terra, né delle condizioni della plebe: il suo interesse è squisitamente politico, per la fine della libertà a Roma, che nella sua prospettiva fu la conseguenza delle guerre civili innescate dalla legge agraria. Machiavelli, il grande teorico del principato nel Principe, appare qui appassionato fautore della libertà repubblicana e avverso al predominio di un solo individuo sulla scena politica. Ma non c’è da meravigliarsi: per Machiavelli, come si è notato, il potere di uno solo è necessario in una precisa fase, per creare lo Stato là dove non c’è; e questa è la situazione dell’Italia, dove uno Stato forte è indispensabile per evitare che il paese sia preda delle potenze straniere, che se lo contendono trasformandolo in un campo di battaglia e seminando lutti e rovine (si ricordi l’ultimo capitolo del trattato). Ma, una volta creato lo Stato, per conservarlo integro e solido valgono meglio i «buoni ordini» di una repubblica: i convincimenti profondi e autentici di Machiavelli sono infatti repubblicani, la forma di governo a cui va tutto il suo favore personale è quella dove regna la libertà dei cittadini, ai quali tocca reggere la cosa pubblica, come nell’antica Roma. È evidente il senso spregiativo con cui lo scrittore usa il termine «tiranno» a proposito di Cesare, che spense quella libertà imponendo il suo potere personale e dando origine all’Impero; sempre in senso spregiativo adopera le parole «serva» e «servitù» per la Roma imperiale. Per questo Machiavelli è così ostile alle discordie e ai conflitti civili, che minano l’unità dello Stato conducendolo fatalmente a regimi autoritari.

> dalla riflessione sulla proprietà la visione realistica dell’uomo Gli interessi economici

La condanna dell’avidità di «roba»

Nelle ultime righe riportate del capitolo emerge poi il disincantato e amaro realismo di Machiavelli sugli uomini, in quella massima tagliente, tipica del suo modo di affrontare le questioni politiche, «gli uomini stimano più la roba che gli onori». Al fondo di tutti i comportamenti umani lo scrittore non vede motivazioni ideali, ma solo interessi economici. La prova, per lui, è che la nobiltà a Roma accondiscese sempre quando si trattava di concedere alla plebe cariche politiche ma, come fu toccata nella proprietà, la difese con feroce ostinazione. Il risultato fu che la plebe, per saziare i propri appetiti, dovette ricorrere alle iniziative dei Gracchi sulla distribuzione della terra, con quanto ne seguì. Come si vede, Machiavelli dà un giudizio severo su questa avidità di «roba», si riscontri nei patrizi come nei plebei: il motivo è che comunque essa ha effetti funesti sul bene comune.

Andrea Mantegna, I Trionfi di Cesare: 9. Cesare sul carro trionfale, 1484-92, tempera su tela, Hampton Court Palace, Royal Collection.

427

L’età del Rinascimento

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Quali affermazioni presenti nel testo fanno riferimento all’espansione territoriale della res publica? > 2. Quali affermazioni sono riferite alla nobiltà? AnALIzzARe

> 3.

Stile «Tanto che per tali cagioni questa legge stette come addormentata infino ai Gracchi; da’ quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana»: quali artifici retorici individui nel passo? > 4. Stile Individua nel testo affermazioni che possano costituire massime o sentenze che hanno la funzione di “condensare” riflessioni e/o pensieri, e analizzane la sintassi. > 5. Lessico Individua nel testo vocaboli e/o espressioni che rimandano all’ostilità di Machiavelli per le discordie e i conflitti civili.

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Testi a confronto: scrivere Dopo aver attentamente analizzato il testo, individua in esso eventuali elementi di continuità con il Principe in circa 10 righe (500 caratteri).

PeR IL PoTenzIAMenTo

> 7. In una recensione al volume Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Bulzoni, Roma 2011) di Gabriele Pedullà si legge:

La tesi centrale è quella enunciata dal titolo: nel cuore della modernità di Machiavelli sta il ruolo da lui riconosciuto al conflitto fra i diversi ceti sociali, un conflitto incanalato e controllato, quale quello realizzato nell’antica Roma, poiché, scrive Machiavelli, «la disunione della plebe e del senato fece libera e potente quella repubblica». […] Così la centralità del conflitto si contrappone alla tradizionale esaltazione della concordia, che si fondava, oltre che su richiami classici, sul senso fortissimo di disgregazione e di sofferenza che le città e le campagne italiane sperimentavano come conseguenza delle lotte interne. […] «Li buoni esempli – scrive Machiavelli – nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano». Si tratta dunque per lui di innestare un circuito virtuoso, in cui i comportamenti virtuosi possono nascere in un contesto che non dimentica, non sottovaluta la dimensione bestiale che è presente nell’uomo, per cui ogni forma di governo è imperfetta, ogni equilibrio trovato può essere reversibile. L. Bolzoni, Una politica molto classica, in “Il Sole 24 Ore”, 24 febbraio 2013

Dopo aver letto attentamente il passo, discuti in classe, insieme all’insegnante e ai compagni, il tema della conflittualità fra classi sociali: esiste nella società odierna? Da quali situazioni è originata? Quali rimedi potrebbero attenuare il clima di discordia che talvolta si manifesta con disordini e azioni illegali?

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Interpretazioni critiche

Corrado Vivanti Machiavelli repubblicano? Il critico discute la tesi di chi asserisce la preferenza di Machiavelli per l’ordinamento repubblicano. Riconosce che in lui i sentimenti repubblicani sono vivi, ma osserva che Machiavelli non afferma mai che la repubblica sia il governo da preferire in assoluto: proporre l’idea di uno Stato perfetto sarebbe in contrasto con il mutare continuo di tutte le cose e con la necessità, da parte della politica, di adattarsi al variare dei tempi. Per cui in certi casi è preferibile, il principato, in altri la repubblica.

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bassa

Corrado Vivanti nella sua monografia

ricostruisce tutto il percorso dell’attività intellettuale di Machiavelli, in relazione con il suo percorso politico. La prospettiva adottata è quella dello storico, attento a collocare la figura di Machiavelli entro le precise coordinate della situazione politica del suo tempo e del dibattito delle idee che vi si svolgeva, in rapporto al quale spicca la portata rivoluzionaria del suo pensiero.

L’idea repubblicana è spesso divenuta una chiave interpretativa per l’opera di Machiavelli. Ora, che assai vivi in lui fossero i sentimenti repubblicani è indubbio, e risulta chiaramente da vari passi dei suoi scritti. Basti ricordare l’asserzione che «una republica ha maggiore vita ed ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali1» (Discorsi, III. 9). Forzandone in qualche misura il significato, si può interpretare con repubblica il termine «vivere libero», e vederla quindi esaltata con toni appassionati quando afferma che «tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte [...] fanno profitti grandissimi2» (ibid., II. 2). Tuttavia, la sua preferenza si esprime in termini empirici, senza proporre mai in asserzioni assolute che la repubblica è il governo da preferire. Il suo spirito realistico, la sua avversione per i modelli astratti, il suo senso della differenza «da come si vive a come si doverebbe vivere» (Principe, cap. XV) lo portano a guardare con distacco il mondo in cui opera e a capire la varietà delle esigenze degli uomini e delle diverse società. Sa bene che «uno populo uso a vivere sotto uno principe, se per qualche accidente diventa libero, con difficultà mantiene la libertà», come pure che «uno populo corrotto, venuto in libertà, si può con difficultà grandissima mantenere libero» (Discorsi, I. 16 e 17). Sarebbe errato, perciò, proporre un solo tipo di governo per tutte le occasioni. Per tale ragione spiega (ibid., 55) come in quelle province dove sono «gentiluomini3» che «comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro» sia necessaria per ordinarle «una mano regia». Insomma, chi asseriva che in politica è «più convenite andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa», e scherniva chi aveva pensato «republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere» (Principe, cap. XV), non era certo propenso a stabilire astrattamente la preferibilità di un regime politico rispetto agli altri. Anche perché questo Stato «perfetto» sarebbe stato naturalmente in contraddizione con il continuo mutare delle cose e con la necessità politica di modificarsi e adattarsi al variare dei tempi e delle circostanze. Sono principi illustrativi nel Principe e nei Discorsi, tanto che si è voluto spiegare la composizione del Principe con la maturazione del convincimento che in una «società corrotta», qual’era l’Italia del suo tempo, fosse indispensabile un potere forte per sanarla. Ma fin dal 1506, nei Ghiribizzi al Solderino4, aveva osservato come si vedesse «con varii governi conseguire una

1. de’ temporali: dei tempi, dei momenti sto­ rici. 2. fanno … grandissimi: ne traggono gran­

dissimi giovamenti. 3. gentiluomini: nobili. Cioè è necessario un governo monarchico forte per tenere a

freno i particolarismi della nobiltà che generano anarchia. 4. Ghiribizzi al Soderino: L’epistolario, p. 362.

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L’età del Rinascimento

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medesima cosa e diversamente operando avere un medesimo fine», così da concludere: «e tempi sono varii e li ordini delle cose sono diversi»: perciò «a colui succedono ad votum5 e i suoi desiderii, e quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo6». È questa un’idea-madre della sua riflessione, che viene ripetuta e svolta nelle grandi opere della maturità. Così nel Principe (cap. XXV) leggiamo che si notano risultati diversi della stessa azione, «il che non nasce da altro se non da la qualità de’ tempi che si conformano o no col procedere loro», e nei Discorsi (III: 8) si ammonisce che «gli uomini nel procedere loro, e tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi e accomodarsi a quegli». [...] Nell’una e nell’altra opera gli elementi da cui sono composti «tutti gli Stati, tutti e’ dominii», vengono attentamente ponderati, ma, come possiamo notare soprattutto nei Discorsi (I. 18), le indicazioni fornite s’impongono proprio per il loro relativismo: nella vita politica non può vigere una norma assoluta a causa del continuo mutarsi delle condizioni, che è necessario arrivare a valutare per stabilire un governo capace di mantenere saldi gli ordinamenti dello Stato. Proprio questa assenza di richiami a valori superiori e intangibili ferì profondamente gli spiriti dogmatici, pronti a condannare la sua opera. D’altra parte, la tenacia con cui perseguire l’idea deve prevalere su tutto, disposto a tutto sacrificarle – sanare la corruzione italiana con un’opera profondamente riformatrice, capace di assicurare il bene della patria – ci appare come l’aspetto più drammatico della sua personalità. La sua intelligenza gli faceva capire quanto disperato fosse l’obiettivo che si proponeva; il suo spirito ironico lo portava a ridere del materiale a sua disposizione, e tuttavia l’empito appassionato che lo portava a implorare Guicciardini fino all’ultimo: «Liberate diuturna cura Italiam7», continuava ad arrovellarlo nella speranza di trovare uno «spiraculo8... per sua redenzione», fino a configurarsi coi tratti di una religione civile. C. Vivanti, Niccolò Machiavelli. I tempi della politica, Donzelli, Roma 2008

5. ad votum: secondo i suoi desideri. 6. riscontra … tempo: accorda il suo modo

di agire con la particolarità del momento. 7. «Liberate … Italiam»: «Liberate l’Italia

dal suo lungo tormento». 8. spiraculo: spiraglio.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Da quali premesse prende avvio il ragionamento (rr. 1-19)? > 2. Perché Machiavelli non può esprimere la preferenza per un regime politico rispetto ad altri (rr. 19-49)? > 3. Che cosa si intende per «aspetto … drammatico» della personalità di Machiavelli (rr. 50-58)? AnALIzzARe

> 4.

Lessico Spiega l’esatto significato, in riferimento al contesto del discorso, dei seguenti vocaboli: «empirici» (r. 12), «idea-madre» (r. 37) e «relativismo» (r. 45).

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 5.

esporre oralmente Che cosa intende il critico per «corruzione italiana» (r. 51) in riferimento all’azione riformatrice proposta da Machiavelli? Nel rispondere (max 3 minuti), delinea sinteticamente il contesto storico-politico di riferimento. PASSATo e PReSenTe «Redenzione» e «religione civile» (oggi)

> 6. Prendendo spunto dalle riflessioni poste in conclusione (rr. 50-58), e considerando l’attuale stato di crisi in cui versano tanti paesi occidentali, discuti con l’insegnante e con la classe sulla speranza in una «redenzione» e sulla necessità di una rinnovata «religione civile» nell’Italia di oggi (max 8 minuti).

430

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

5 La composizione

La forma dialogica

L’argomento

L’Arte della guerra e le opere storiche L’Arte della guerra Nell’Arte della guerra Machiavelli riprende i temi militari che gli stanno a cuore e che erano già stati trattati nei capitoli XII-XIV del Principe. L’opera, in sette libri, fu scritta tra il 1519 e il 1520 e fu pubblicata a Firenze nel 1521. Si tenga presente che è la prima opera politica importante dell’autore che venga pubblicata, in quanto il Principe e i Discorsi circolavano ancora manoscritti. Assume la forma tipica della trattatistica rinascimentale, quella del dialogo, ed è ambientata nei giardini di palazzo Rucellai, gli Orti Oricellari; interlocutori sono appunto gli esponenti di quel cenacolo intellettuale che ivi si riuniva ed a cui Machiavelli era strettamente legato, Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonti (ai quali erano stati dedicati i Discorsi), Battista della Palla e Luigi Alamanni; ma il personaggio centrale è Fabrizio Colonna, vecchio condottiero dell’esercito spagnolo in Italia, che è il portavoce delle idee di Machiavelli stesso. Argomento centrale del dialogo è la polemica contro le armi mercenarie, viste come fattore di debolezza di uno Stato, in cui è da ravvisare per l’autore una delle cause principali della crisi italiana; da questa diagnosi negativa scaturisce la necessità, per lo Stato, di valersi di «armi proprie», cioè di arruolare milizie popolari (come Machiavelli stesso aveva tentato nel 1506, con l’esperimento dell’«ordinanza», che peraltro non aveva dato buona prova sul campo di battaglia). Ai temi politici si intrecciano poi quelli militari intesi in senso strettamente tecnico, come la paga dei soldati, la disciplina, la disposizione degli eserciti in battaglia, gli alloggiamenti, le fortificazioni. Anche qui Machiavelli ricorre continuamente al modello degli antichi Romani e propone ad esempio le loro istituzioni militari e la loro «virtù». Egli ritiene che quel modello, se venisse applicato, potrebbe riscattare l’Italia dalla sua presente abiezione; ma in lui vi è anche l’amara consapevolezza della difficoltà estrema che presenta l’attuazione concreta degli esempi antichi, a causa delle mutate condizioni politiche.

Le Istorie fiorentine La composizione

La materia

Testi Il realismo politico di un ciompo dalle Istorie fiorentine

L’interesse politico

Nel 1519, riavvicinatosi ai Medici, Machiavelli riceve dallo Studio fiorentino l’incarico di scrivere una storia di Firenze. Egli vi lavora negli anni successivi e nel maggio 1525 l’opera viene consegnata manoscritta al cardinale Giulio de’ Medici, ormai divenuto papa Clemente VII. Reca il titolo di Istorie fiorentine, è redatta in lingua volgare ed è divisa in otto libri. Verrà stampata postuma, come avverrà anche per il Principe e per i Discorsi, nel 1532. Il primo libro traccia una sintesi della storia d’Italia dalla caduta dell’Impero romano sino al 1434; i libri II-IV narrano la storia di Firenze sino allo stesso 1434, l’anno in cui Cosimo de’ Medici instaura in città la propria signoria; i libri V-VIII si concentrano più minutamente sulla storia di Firenze e dell’Italia dal 1434 alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492. Machiavelli si stacca programmaticamente dagli schemi della storiografia umanistica, di Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, a cui rimprovera di occuparsi solo dei fatti di politica estera: egli intende invece soffermarsi soprattutto sulla storia interna di Firenze e sulle «civili discordie», per individuare le cause della decadenza della città e fornire così un insegnamento ai contemporanei. Già di qui si può capire come a Machiavelli non interessi una semplice ricostruzione cronachistica dei fatti, ma la sua narrazione storica sia tutta impregnata dei suoi interessi politici. Egli risale al passato, ma guarda al presente, ai suoi problemi e ai suoi conflitti. Vi è quindi uno stretto legame tra l’opera storiografica di Machiavelli e la sua trattatistica propriamente politica: vi ricompare infatti la polemica contro i principi italiani, i loro errori e le loro colpe, che hanno portato alla tragica situazione presente. Si può allora capire come l’opera, nonostante sia commissionata dai Medici, non sia affatto una celebrazione cortigiana: Machiavelli sa mantenere una sua indipendenza, 431

L’età del Rinascimento

L’indipendenza di giudizio

Il metodo storiografico

La storiografia come opera oratoria

anche se non calca la mano nelle critiche ai Medici. Anzi, proprio per evitare di dover dare un giudizio sul loro comportamento durante la calata dei francesi nel 1494, ferma il suo racconto due anni prima e lo fa finire con la morte di Lorenzo. Per conservare l’indipendenza di giudizio ricorre anche a un espediente diffuso nella storiografia classica e in quella umanistica, l’inserzione di discorsi fittizi, attribuiti ai personaggi storici del passato: in tal modo può dare la parola anche agli avversari dei Medici e lasciare campo libero a posizioni contrastanti rispetto a quelle ufficiali. Se il giudizio sulla politica fiorentina del passato è duro, l’amarezza dell’autore testimonia quanto egli sia attaccato a quel mondo comunale cittadino; e, come rimedio alla situazione presente, egli prospetta proprio un ritorno a quelle illustri tradizioni. Il carattere eminentemente politico della trattazione delle Istorie ci avverte che in esse sarebbe vano cercare lo scrupolo di esattezza nella ricostruzione storica che è proprio dei moderni metodi storiografici. Machiavelli infatti, per tracciare la sua narrazione, si vale delle compilazioni storiche precedenti, senza fare ricerche d’archivio per trovare nuovi documenti, a riprova o a confutazione di quanto in esse tramandato; non sottopone le fonti ad un rigoroso vaglio critico, per verificare la loro attendibilità; spesso dà interpretazioni tendenziose e arriva a deformare i fatti per farli collimare con le sue tesi. Sono limiti non solo propri di Machiavelli, ma di tutta la storiografia antica e rinascimentale, che è qualcosa di profondamente diverso dalla storiografia moderna, non è ricostruzione scientifica della fisionomia di epoche passate, ma opera politica o moralistica. Inoltre, sulla scorta dei classici, anche Machiavelli ritiene la storiografia opera essenzialmente oratoria, un componimento letterario che deve obbedire alle precise leggi retoriche di un genere. Per questo, oltre ad essere dibattito di tesi politiche, la trattazione delle Istorie ha anche grande vigore narrativo e drammatico, e vi spicca a grande rilievo una serie di ritratti di personalità storiche concepite come veri e propri personaggi letterari. Però, nonostante questo carattere eminentemente politico e letterario, la trattazione riesce a inserire i fatti in una visione d’insieme, in un disegno generale organico e coerente, e ciò costituisce già un passo importante verso un’idea di storiografia moderna.

La Vita di Castruccio Castracani Carattere fortemente letterario ha un’altra opera storica di Machiavelli, la Vita di Castruccio Castracani, un condottiero lucchese del Trecento, composta nel 1520 e dedicata ancora a due amici del gruppo degli Orti Oricellari, Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni. Machiavelli vi riprende il modello delle biografie classiche e umanistiche degli “uomini illustri”: descrizione del carattere e del fisico, aneddoti e sentenze esemplari, discorsi. Il personaggio vi assume grande rilievo narrativo e drammatico, però anche quest’opera mantiene un forte carattere politico: nel condottiero del Trecento Machiavelli proietta la figura ideale del principe «virtuoso», da proporre come esempio di comportamento nello scenario politico attuale.

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Le opere letterarie La produzione in poesia Pur non coincidendo con la figura del “letterato” rinascimentale, Machiavelli possedeva una buona cultura letteraria, da cui scaturì una copiosa produzione, sia in versi sia in prosa. Egli stesso teneva molto ad essere considerato poeta, tanto da risentirsi per non essere stato menzionato da Ariosto nel Furioso, in una rassegna dei poeti contemporanei. La sua produzione poetica si colloca tutta all’interno di una tradizione fiorentina: rime burlesche, canti carnascialeschi, componimenti di contenuto morale o riferiti a problemi e avvenimenti della realtà politica e sociale.

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli I Canti carnascialeschi Il Decennale

I Capitoli

L’Asino

I Canti carnascialeschi testimoniano il profondo legame di Machiavelli con il clima del comico carnevalesco, beffardo e irriverente, ma contengono anche spunti politici. Radicato nella tradizione fiorentina è il Decennale, un poemetto in terzine scritto nel 1504 e pubblicato nel 1506, in cui viene ripercorsa la storia fiorentina e italiana tra il 1494 e il 1504, un decennio ricco di sconvolgimenti e trasformazioni, che vede la caduta della Signoria dei Medici, l’instaurarsi e poi il crollo della repubblica di Savonarola, l’avvento della repubblica di Soderini. Negli scatti di umore polemico, nelle sentenze taglienti, oltre che nella terza rima, è evidente come il poeta intenda rifarsi al modello della Commedia dantesca. Dieci anni dopo, nel 1514, Machiavelli intraprese un Decennale secondo, che doveva raccontare la storia del decennio successivo, ma lo lasciò interrotto al 1509. Lo scrittore affrontò anche il genere del capitolo, caro alla tradizione fiorentina come strumento di riflessione morale. I suoi quattro Capitoli, sempre in terzine, scritti fra il 1506 e il 1512, trattano dell’ingratitudine, dell’ambizione, dell’occasione e della fortuna; soprattutto quest’ultimo è interessante perché vi è affrontato un tema centrale del pensiero machiavelliano e vi confluiscono riflessioni già consegnate all’abbozzo dei Ghiribizzi al Soderini, che torneranno poi nel capitolo XXV del Principe. Interessante è anche un poemetto in terzine, l’Asino, che risale probabilmente al 1516 ed è rimasto incompiuto al capitolo VIII. Machiavelli vi riprende il mito omerico di Circe, la maga che trasformava gli uomini in animali, e si rifà al romanzo l’Asino d’oro di Apuleio (scrittore latino del II secolo d.C.), in cui si narra la trasformazione del protagonista in asino in conseguenza di un incantesimo e il suo percorso di iniziazione che lo porta a riassumere le sembianze umane; per certi aspetti, infine, il poema risente dell’impostazione allegorica della Commedia. Il poeta in prima persona narra un processo di iniziazione, che lo porta tra gli animali di Circe, rappresentanti vari tipi umani. Anch’egli dovrebbe trasformarsi in asino, ma il poema si interrompe prima di giungere al momento saliente. L’opera si collega anch’essa ad una certa tradizione carnevalesca, nel rovesciamento paradossale degli schemi abituali di osservazione del mondo, attraverso la regressione nella dimensione “bassa” dell’animalità (un porco, ad esempio, celebra la superiorità degli animali sull’uomo, con un rovesciamento sconcertante del mito umanistico della «dignità dell’uomo»).

La novella Belfagòr arcidiavolo

I motivi tradizionali della perfidia delle donne e dell’astuzia dei contadini

Le doti di narratore di Machiavelli sono testimoniate dalle numerose novellette inserite all’interno delle sue lettere familiari; ma l’unico testo propriamente narrativo che ci è giunto è quello che nel manoscritto reca il titolo di Favola, e che è comunemente noto come Belfagòr arcidiavolo (risalente forse al 1518). Attraverso lo spunto narrativo del diavolo che prende moglie vengono toccati alcuni motivi tradizionali, come quello misogino della perfidia e della malizia delle donne e quello dell’astuzia dei contadini. Belfagòr arcidiavolo è inviato sulla terra per verificare se sia vero che le mogli siano un supplizio più atroce di quelli dell’inferno; si sposa e viene mandato in rovina dalla moglie, che dilapida tutte le sue ricchezze. Perseguitato dai creditori, è salvato da un contadino, che egli inganna; ma il contadino ha infine la meglio sul diavolo, minacciando di farlo tornare nelle mani della moglie.

(Attrib.) Maestro della Natività Johnson, Il diavolo, 1475-85, tempera su tavola, part. da Santa Maria del Soccorso, Firenze, Chiesa di Santo Spirito.

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L’età del Rinascimento

La Mandragola Videolezione

Video La Mandragola tra teatro e cinema

La vicenda

La problematicità del comico machiavelliano



Testi critici G. Bàrberi Squarotti • L. Russo

Il testo letterario più importante di Machiavelli è però una commedia, la Mandragola, che è un autentico capolavoro, senz’altro il testo più vivo di tutta la produzione comica cinquecentesca. Fu scritta presumibilmente nel 1518, a poca distanza cronologica dai primi esemplari della commedia classicheggiante, La Cassaria e I Suppositi di Ariosto (1508 e 1509) e La Calandria del Bibbiena (1513); risale quindi al periodo in cui Machiavelli era forzatamente escluso dall’attività politica e riflette lo stato d’animo risentito e amaro di quegli anni. Fu forse rappresentata nel settembre del medesimo anno per le nozze di Lorenzo de’ Medici e pubblicata nello stesso 1518, ed ebbe un notevole successo, venendo più volte rappresentata e ristampata in seguito. L’intreccio, che si svolge a Firenze in anni contemporanei, ricalca gli schemi propri del teatro comico del tempo: una vicenda d’amore contrastato, che si risolve felicemente grazie all’intervento di uno scaltro parassita, sul modello della commedia latina, e, intrecciata ad essa, la vicenda di uno sciocco beffato, che risale alla novellistica toscana, in particolare a Boccaccio. La comicità di Machiavelli non è serena e distesa, ma cupa, amara, quasi sinistra. La commedia rappresenta un mondo senza luce, dove domina solo la legge dell’interesse economico, dell’astuzia e dell’inganno, ed in cui ogni principio morale, ogni sentimento nobile e disinteressato appare assente. “In scala”, cioè nell’ambito ristretto della vita privata della classe media cittadina, vi si proietta la visione che Machiavelli ha dei rapporti umani in campo politico: lo stesso pessimismo acre pervade la Mandragola e il Principe. Anche qui l’impostazione del testo è quindi fortemente problematica: da un lato, dipingendo i suoi personaggi, Machiavelli scaglia i suoi corrosivi umori satirici e polemici contro la corruzione e l’amoralità della società contemporanea, dall’altro lato però, con disincantato realismo, ammira la “virtù” di quei personaggi che, come Ligurio, con astuzia ed energica decisione, sanno commisurare perfettamente le azioni ai fini (per una più dettagliata lettura della commedia si rimanda all’analisi del testo).

La Clizia

Elementi autobiografici

Nel 1525 Machiavelli compose una seconda commedia, la Clizia, che fu rappresentata in occasione di una festa in casa dell’amico Iacopo Falconetti, con buon successo. Il testo, ispirato alla Càsina di Plauto, è più vicino ai modelli classici, lontano dalla comicità corrosiva e cupa della Mandragola, e, per altri versi, ripiegato su toni più patetici e quasi dolenti. Protagonista è un vecchio, Nicomaco, vittima di una passione senile per una serva, che viene beffato e ridicolizzato dalla moglie e dai famigliari e costretto a ritornare entro i limiti dei consueti valori borghesi. Vi è un’evidente proiezione autobiografica dell’autore (a cui allude anche il nome del protagonista, Nicomaco, Niccolò Machiavelli), che ironizza sul suo amore per la giovane cantante Barbara Raffacani Salutati. Il topos comico classico del conflitto fra vecchi e giovani si risolve in una dolente riflessione sulla vecchiaia e sull’impossibilità di realizzare i desideri.

Il Discorso intorno alla nostra lingua A conclusione si può ancora ricordare il Discorso intorno alla nostra lingua, la cui datazione è incerta (ma la stessa attribuzione a Machiavelli non è del tutto sicura). L’opera si inserisce nel dibattito sul problema della lingua, molto vivo all’inizio del Cinquecento ( Il contesto, p. 139). Nell’opera si sostiene che il modello linguistico deve essere la lingua viva dell’uso fiorentino, in polemica con le teorie sostenute da Trissino, che si rifaceva al De vulgari eloquentia di Dante e alla sua tesi di una lingua «curiale» che non doveva identificarsi con nessun idioma particolare parlato in Italia. 434

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

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«Per tutto traligna da l’antica virtù el secol presente» dalla Mandragola, Prologo Secondo la consuetudine del teatro comico latino, alla commedia è premesso un Prologo, in cui viene illustrata la vicenda e vengono presentati i personaggi che dovranno agire sulla scena. Machiavelli vi inserisce però anche spunti autobiografici e notazioni polemiche sulla realtà contemporanea.

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Temi chiave

• l’amarezza per l’esclusione dalla politica attiva

• il valore del comico • la polemica contro la decadenza di Firenze

• un atteggiamento disilluso ma combattivo

Iddio vi salvi, benigni uditori1, quando e’ par che dependa questa benignità da lo esser grato2. Se voi seguite di non far romori3, noi vogliàn che s’intenda un nuovo caso in questa terra nato4. Vedete l’apparato5, quale or vi si dimostra: questa è Firenze vostra; un’altra volta sarà Roma o Pisa: cosa da smascellarsi per le risa6. Quello uscio che mi è qui in su la man ritta7, la casa è d’un dottore che ’mparò in sul Buezio8 legge assai. Quella via che è colà in quel canto fitta9, è la Via dello Amore, dove chi casca non si rizza mai10.

1. benigni uditori: benevoli ascoltatori (cioè spettatori). 2. quando … grato: poiché il vostro benevo­ lo atteggiamento sembra rivelare che questo spettacolo incontra il vostro favore. 3. Se voi seguite … romori: se ascoltate in silenzio.

4. in … nato: successo proprio in questa città. 5. l’apparato: la scenografia. 6. cosa … risa: questa scenografia (cosa) provoca il riso. 7. in su la man ritta: sulla destra. È l’attore che recita il prologo che a questo punto indica agli spettatori, seguendo il modello

della commedia plautina, i particolari della scenografia. 8. Buezio: si allude a Severino Boezio (480 ca.-524), qui citato come «maestro di diritto […] ma, in sostanza, per l’evidente associazione fonica con bue secondo la più schietta tradizione burchiellesca» (Davico Bonino): il doppio senso vuole alludere alla profonda ignoranza di messer Nicia. 9. che … fitta: che è rappresentata in quell’an­ golo della scena. 10. dove … mai: dove chi cade, non si alza più, cioè non riesce più a liberarsi dalla passione (ma vi è anche qui un doppio senso).

L’opera

La Mandragola di Niccolò Machiavelli Callimaco è innamorato di Lucrezia, moglie del dottore in legge Nicia, uomo di mezz’età, sciocco e limitato. Poiché la castità della donna è inespugnabile, con l’aiuto del parassita Ligurio e del corrotto e ipocrita frate Timoteo il giovane ricorre ad uno stratagemma: siccome messer Nicia è angustiato dal non avere figli, gli viene fatto credere che la moglie sicuramente ingraviderà se berrà una magica pozione di mandragola (da cui deriva il titolo della commedia), ma che il primo che avrà rapporti con lei morrà. Si propone quindi di sostituire a Nicia un «garzonaccio» preso dalla strada. Costui è in realtà Callimaco travestito, che così

può godere delle grazie di Lucrezia con il benevolo compiacimento del marito stesso. La virtuosa Lucrezia è indotta a giacere con uno sconosciuto dalle arti persuasive di fra Timoteo, suo confessore, che le dimostra con dotte argomentazioni teologiche come in tal caso l’adulterio non sia un atto riprovevole, ma meritorio, perché indirizzato a fin di bene, il concepimento della prole. Lucrezia, conosciuta la vera identità di Callimaco, acconsente a divenire la sua amante abituale. Messer Nicia, soddisfatto della futura paternità, accoglie in casa il giovane come amico fraterno, ignaro del legame di questi con la moglie.

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Conoscer poi potrai a l’abito d’un frate, qual priore o abate abiti el tempio ch’all’incontro è posto11, se di qui non ti parti troppo tosto12. Un giovane, Callimaco Guadagni, venuto or da Parigi, abita là in quella sinistra porta13. Costui, fra tutti gli altri buon compagno14, a’ segni ed a’ vestigi15 l’onor di gentilezza e pregio porta16. Una giovane accorta fu da lui molto amata, e per questo ingannata fu come intenderete, ed io vorrei che voi fussi ingannate come lei17. La favola Mandragola18 si chiama. La cagion voi vedrete nel recitarla, come io m’indovino19. Non è el componitor20 di molta fama: pur se voi non ridete, egli è contento di pagarvi el vino21. Uno amante meschino22, un dottor poco astuto, un frate mal vissuto23, un parassito24 di malizia el cucco25, fien26 questo giorno el vostro badalucco27. E se questa materia non è degna, per esser pur leggieri28, d’un uom che voglia parer saggio e grave, scusatelo con questo, che s’ingegna con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più suave29, perch’altrove non have dove voltare el viso30: ché gli è stato interciso31 monstrar con altre imprese altra virtue, non sendo premio alle fatiche sue32. El premio che si spera33 è che ciascuno si sta da canto e ghigna, dicendo mal di ciò che vede o sente34.

11. el tempio … posto: la chiesa rappre­ sentata nell’angolo opposto. 12. ti parti … tosto: ti allontani troppo pre­ sto. 13. sinistra porta: della casa rappresenta­ ta a sinistra. 14. buon compagno: giovane generoso, cordiale e socievole.

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15. a’ segni ed a’ vestigi: dal suo compor­ tamento e dal suo aspetto. 16. l’onor … porta: manifesta il pregio e l’onore di una condizione nobiliare. 17. voi … lei: rivolgendosi direttamente alle spettatrici, l’autore augura loro ironicamente di subire lo stesso inganno di natura erotica che subirà Lucrezia.

18. Mandragola: la mandragola è un’erba delle solanacee, a cui si attribuivano poteri afrodisiaci. 19. come io m’indovino: come io immagino. 20. el componitor: l’autore. 21. egli … vino: egli vi pagherà volentieri il vino (per compensarvi del mancato piacere). 22. meschino: infelice. 23. mal vissuto: disonesto. 24. un parassito: che vive alle spalle degli altri. 25. di malizia el cucco: il “cocco”, il prediletto della malizia, quindi molto esperto di malizia. 26. fien: saranno. 27. el vostro badalucco: il vostro passatempo. 28. pur leggieri: troppo frivola. 29. fare … suave: addolcire la sua triste at­ tuale condizione. Machiavelli allude alla sua dolorosa esperienza dell’esilio (1512) coincidente con il ritorno dei Medici a Firenze e la conseguente caduta della Repubblica fiorentina. 30. non have … viso: non ha dove rivolgersi. 31. interciso: vietato (latinismo). 32. non … sue: non essendoci un premio per il suo impegno. Machiavelli con amarezza nota come tutta la sua precedente attività di segretario della Repubblica fiorentina non gli abbia procurato alcun vantaggio. 33. si spera: l’autore si attende. 34. si sta … sente: si pone in un angolo per ridere, parlando male di ciò che vede o sente.

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Di qui depende sanza dubio alcuno che per tutto traligna da l’antica virtù el secol presente35; imperò che36 la gente, vedendo ch’ognun biasma37, non s’affatica e spasma38 per far con mille suoi disagi un’opra39 che ’l vento guasti o la nebbia ricuopra40. Pur se credessi alcun, dicendo male, tenerlo pe’ capegli e sbigottirlo o ritirarlo in parte41, io lo ammunisco e dico a questo tale che sa dir male anch’egli, e come questa fu la sua prim’arte42: e come, in ogni parte del mondo ove el sì suona43, non istima persona, ancor che facci el sergieri a colui che può portar miglior mantel di lui44. Ma lasciàn pur dir male a chiunche vuole45. Torniamo al caso nostro, acciò che non trapassi troppo l’ora. Far conto non si de’46 delle parole, né stimar qualche mostro47 che non sa forse s’ e’ si è vivo ancora48. Callimaco esce fuora e Siro con seco ha suo famiglio49, e dirà l’ordin di tutto50. Stia ciascuno attento, né per ora aspettate altro argumento51.

Machiavelli qui esprime l’amara convinzione di ricevere solo critiche. 35. per tutto … secol presente: l’età con­ temporanea si è del tutto allontanata (traligna) dagli antichi virtuosi comportamenti.

36. imperò che: dal momento che. 37. biasma: biasima, critica. 38. spasma: s’impegna al massimo, sino allo spasimo. 39. un’opra: un’opera.

40. che … ricuopra: che il vento della maldi­ cenza distrugga e la nebbia dell’oblio avvolga. Si esprime qui un altro sconsolato giudizio di Machiavelli sulla sua epoca, dominata dalle critiche malevole e gratuite. 41. Pur … parte: pur se qualcuno credesse, parlando male dell’autore, di trattenerlo per i capelli e di spaventarlo o di costringerlo al si­ lenzio. 42. come … arte: si allude forse alla sua prima commedia, composta ancora negli anni della cancelleria, le Maschere, oggi perduta; si trattava di una commedia satirica, sul modello di quelle di Aristofane, ed aveva intenti di polemica politica. 43. ove el sì suona: dove il sì suona, ovvero in Italia (vedi Dante, Inferno, XXXIII, v. 81). 44. ancor … lui: anche se deve inchinarsi (sergieri, servo) a chi è più ricco di lui. 45. Ma … vuole: ma lasciamo pure dir male a chiunque (chiunche) voglia. 46. si de’: si deve. 47. mostro: stupido. 48. forse … ancora: se è vivo o morto. 49. famiglio: servitore. 50. l’ordin di tutto: l’antefatto dell’azione. 51. argumento: informazione (sulla vicenda della commedia).

Analisi del testo Le informazioni sullo spettacolo

L’amarezza per l’esclusione dalla politica

> La parte informativa

Il Prologo, come è proprio della commedia del Cinquecento, risponde in primo luogo all’esigenza pratica di fornire agli spettatori le necessarie informazioni sullo spettacolo a cui si accingono ad assistere. A tal fine sono indirizzate le prime quattro strofe. Hanno poi inizio le note più personali e risentite.

> La letteratura come ripiego

Emerge in primo luogo l’amarezza di Machiavelli per l’esclusione dalla politica attiva e per il non vedere riconosciuti i suoi meriti: l’autore si è volto a scrivere la commedia perché gli è impedito di mostrare il suo valore con più alte imprese. Il genere comico è quindi pre437

L’età del Rinascimento

Il valore del comico

La polemica contro la decadenza di Firenze

L’atteggiamento combattivo

sentato come un semplice ripiego, a cui lo scrittore ricorre per rendere più sopportabile il suo «tristo tempo». È uno stato d’animo molto simile a quello testimoniato dalla lettera al Vettori del 10 dicembre 1513 ( T1, p. 362). Questo atteggiamento di sufficienza verso il genere «leggero» della commedia, verso questi «van pensieri», non va però preso del tutto alla lettera. Certo per Machiavelli la scrittura letteraria, ove divenga la sua unica occupazione, può essere solo un riempitivo insoddisfacente, in quanto la sua vera attività, quella in cui egli si realizza pienamente, è la politica; però in lui non vi è affatto disprezzo per il comico in quanto tale, come genere: anzi, come scrittore di opere letterarie, Machiavelli si muove proprio nel solco di una tradizione tipicamente cittadina e fiorentina, quella comica e burlesca, e ne trae ispirazione e fervidi umori. La scrittura della commedia è sì, pertanto, un sostitutivo forzato di un’attività più alta, ma ha pur sempre una sua funzione e una sua dignità.

> Il giudizio su Firenze

La sesta strofa contiene un corrosivo giudizio sulla Firenze del tempo: una città che «traligna da l’antica virtù», non presenta più quell’energia attiva che l’aveva fatta grande in passato, nel periodo della sua espansione e del suo splendore, ma è spiritualmente immiserita, divenuta angusta, gretta, provinciale. Ne è segno l’atteggiamento abituale dei suoi concittadini che, ormai incapaci di alti disegni e azioni generose, deridono malignamente e disprezzano tutto ciò che li circonda. Il risultato è che più nessuno osa lanciarsi in un’impresa, sapendo che non ne ricaverà gloria, ma solo biasimo e derisione, o peggio ancora oblio. La scettica e fatalistica disposizione dei fiorentini contemporanei spegne così ogni residuo barlume di «virtù». In questo, Machiavelli coglie acutamente la crisi attraversata dalla città che, da centro della politica italiana, quale era stata nei secoli passati, e da potenza economica di livello europeo, si era ridotta ad un livello provinciale e non contava quasi più nulla nel gioco politico del tempo. Questa polemica contro lo spirito dominante nella Firenze contemporanea si concreta, all’interno della commedia, nel personaggio di messer Nicia, che, come vedremo, è caratterizzato proprio da un’angustia provinciale di orizzonti, da grettezza e pavidità. Ma come sempre Machiavelli, dinanzi al negativo, non assume atteggiamenti rassegnati e rinunciatari: al contrario, si erge a sfidare e a combattere il clima asfittico in cui si trova a vivere e a operare. Nella settima strofa afferma di non essere affatto spaventato da questo atteggiamento pregiudizialmente malevolo dei suoi concittadini, anzi, di esser pronto a ribattere colpo su colpo e di non aver riguardo per nessuno. Questa strofa è illuminante per capire la disposizione di fondo da cui nasce la Mandragola: non si tratta affatto di una comicità distesa e bonaria, ma di un atteggiamento disilluso, amaro, pessimistico, e al tempo stesso combattivo, beffardo, pronto a mettere in luce crudamente le magagne del costume e della mentalità contemporanei. Nasce di qui quell’atmosfera cupa, livida, senza una luce di riscatto, che domina nella commedia.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Riassumi le notazioni biografiche e gli accenti polemici riguardanti l’autore, presenti nel prologo. AnALIzzARe

> 2.

narratologia Rifletti sulle caratteristiche generali della commedia messa in scena, che si possono dedurre in gran parte dal suo Prologo. La commedia si basa su un canovaccio o su un testo scritto? Quali tipi di personaggi mette in scena? La scenografia varia o è fissa, rappresenta spazi interni o esterni? Che tipo di pubblico vi assiste (considera il tipo di lessico impiegato)? > 3. Stile Svolgi l’analisi metrica della prima strofa. Da quanti versi è composta? Qual è lo schema delle rime? Lo stesso schema si ripete nelle altre strofe? > 4. Lingua Qual è la scelta linguistica adottata da Machiavelli nella Mandragola?

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Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 5.

esporre oralmente Individua nel brano e riassumi oralmente (max 3 minuti) il giudizio polemico dell’autore riguardo Firenze e gli uomini del suo tempo. Si tratta di un giudizio rivolto esclusivamente ai contemporanei o ricalca la concezione che Machiavelli ha degli uomini in generale?

PeR IL ReCuPeRo

> 6. Quali informazioni sulla commedia sono fornite nella prima parte del prologo (vv. 1-44)? Inserisci i dati della tua analisi nella seguente tabella, secondo l’esempio proposto. Ambientazione della commedia Scenografia Titolo Autore Personaggi

vv. 6e9 ...................................................................................................................................

Firenze ...................................................................................................................................

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PASSATo e PReSenTe L’utilità della letteratura

> 7. Nel Prologo l’autore presenta la sua scelta di dedicarsi alla commedia come un’attività di ripiego: la scrittura letteraria, infatti, rispetto all’azione politica, è ben poca cosa, buona a riempire i suoi momenti di ozio forzato e a produrre soltanto giocosi «badalucchi». Ti sei mai chiesto a che cosa serve la letteratura? Dopo aver letto quanto scrive un intellettuale contemporaneo come Italo Calvino, prova tu, in un’esposizione orale (max 5 minuti), ad indicare che cosa può insegnare la letteratura. Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura […] come educazione, di grado e di qualità insostituibile. Ed è proprio a quel tipo d’uomo o di donna che noi pensiamo, a quei protagonisti attivi della storia, alle nuove classi dirigenti che si formano nell’azione, a contatto con la pratica delle cose. La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini […]: aiutandoli a essere sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. Le cose che la letteratura può ricercare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o grandi, di conoscere i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo. I. Calvino, Il midollo del leone, in Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1995

Testi Atto I dalla Mandragola

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La Mandragola [Nel primo atto è esposto l’antefatto della vicenda. Callimaco, rimasto orfano da piccolo, racconta al suo servo Siro di essere stato mandato dai tutori a Parigi, e di avervi dimorato per vent’anni dedicandosi agli studi, ai piaceri, agli affari. Un giorno, mentre si trovava ancora a Parigi ed era a pranzo con altri Fiorentini, nacque una disputa a proposito di dove si trovassero le donne più belle, in Francia o in Italia. Camillo Calfucci, giunto da poco a Parigi, affermò che se anche tutte le donne italiane fossero state mostri, ne sarebbe bastata una sola per riscattare il loro onore: monna Lucrezia, moglie di messer Nicia Calfucci, suo parente. La descrizione suscitò in Callimaco un ardente desiderio di conoscere la donna, e per questa ragione il giovane si trasferì a Firenze. Qui, dopo averla vista, si accende di appassionato amore per lei. Allo scopo di conquistare la bella e onestissima Lucrezia, Callimaco chiede aiuto all’amico Ligurio, un ruffiano che conosce Nicia e che gli spilla denari di tanto in tanto approfittandosi della sua dabbenaggine. Ligurio escogita un piano: sapendo che Nicia vorrebbe un figlio ma che lui e la moglie non riescono ad averne, gli consiglia di mandare Lucrezia in qualche bagno termale allo scopo di favorire una gravidanza. Intanto Callimaco dovrà fingersi medico e nell’ambito di una visita indirizzare l’ingenuo Nicia verso una ben precisa località termale in modo da raggiungere più agevolmente il proprio obiettivo. Il secondo atto si apre con un dialogo tra Ligurio e Nicia in cui il primo parla al secondo di Callimaco come di un gran medico venuto or ora da Parigi. Arriva il falso medico che convince con facilità lo sciocco Nicia delle proprie conoscenze e capacità professionali e chiede a Nicia che gli faccia avere un campione delle urine della moglie per poter iniziare la sua diagnosi.]

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ATTO SECONDO SCENA VI Ligurio, Callimaco, messer Nicia El dottore fia facile a persuadere, la difficultà fia la donna1, ed a questo non ci mancherà modo. callimaco Avete voi el segno2? nicia È l’ha Siro, sotto3. callimaco Dàllo qua. Oh! questo segno mostra debilità di rene. nicia Ei mi par torbidiccio, e pur l’ha fatto or ora. callimaco Non ve ne maravigliate. Nam mulieris urinae sunt semper maioris grossitiei et albedinis et minoris pulchritudinis quam virorum. Huius autem, in caetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eorum quae ex matrice exeunt cum urina4. nicia Oh, uh, potta di san Puccio5! Costui mi raffinisce tra le mani6; guarda come ragiona bene di queste cose! callimaco Io ho paura che costei non sia, la notte, mal coperta7, e per questo fa l’orina cruda. nicia Ella tien pur addosso un buon coltrone8, ma la sta quattro ore ginocchioni a infilzar paternostri, innanzi che la se ne venghi al letto, ed è una bestia a patire freddo9. callimaco Infine, dottore, o voi avete fede in me o no, o io vi ho a insegnare un rimedio certo o no. Io, per me, el rimedio vi darò. Se voi arete fede in me voi lo piglierete, e se oggi a uno anno10 la vostra donna non ha un suo figliuolo in braccio, io voglio avervi a donare dumila ducati. nicia Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto e per credervi più che al mio confessoro. callimaco Voi avete a intendere questo, che non è cosa più certa11 a ingravidare una donna che darli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me dua paia di volte12 e trovata sempre vera, e se non era questo, la reina di Francia sarebbe sterile, e infinite altre principesse di quello Stato. nicia È egli possibile? callimaco Egli è come io vi dico. E la fortuna vi ha in tanto voluto bene che io ho condotto qui meco tutte quelle cose13 che in quella pozione si mettono, e potete averle a vostra posta14. nicia Quando l’arebb’ella a pigliare? callimaco Questa sera doppo cena, perché la luna è ben disposta e el tempo non può essere più appropriato. nicia Cotesta non fia molto gran cosa15. Ordinatela in ogni modo: io gliene farò pigliare. callimaco E’ bisogna ora pensare a questo: che quell’uomo che ha prima a fare seco16, presa che l’ha cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe17 el mondo. ligurio

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1. la difficultà … donna: sarà difficile con­ vincere Lucrezia. 2. el segno: il campione delle urine. 3. sotto: probabilmente nascosto sotto il mantello. 4. Nam … cum urina: infatti l’urina della donna è sempre di maggior densità e bian­ chezza e minor bellezza di quella degli uomini. Causa di questo fatto è, tra l’altro, l’ampiezza dei canali e la mescolanza con quello che esce dalla vagina con l’urina.

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5. potta … Puccio: volgare espressione popolare; la potta è la vagina. 6. mi raffinisce … mani: mi diventa sempre più raffinato, man mano che lo frequento. 7. mal coperta: doppio senso di Callimaco che allude alle scarse capacità amatorie di Nicia. 8. un buon coltrone: una spessa coperta. 9. una bestia … freddo: è sciocca a patire tanto freddo. 10. oggi a uno anno: se tra un anno a parti­ re da oggi.

11. più certa: più sicura. 12. dua paia di volte: moltissime volte. 13. quelle cose: quegli ingredienti. 14. a vostra posta: a vostra disposizione. 15. molto gran cosa: difficile. 16. a fare seco: a giacere con lei. Ecco lo stratagemma escogitato da Ligurio e da Callimaco: occorre convincere l’ingenuo messer Nicia a lasciare che sia un altro uomo a congiungersi con sua moglie e a rimetterci così la vita. 17. camperebbe: salverebbe.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Cacasangue!18 io non voglio cotesta suzzacchera19; a me non l’appiccherai tu! Voi mi avete concio bene20! callimaco State saldo, e’ ci è remedio. nicia Quale? callimaco Fare dormire subito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a sé, tutta quella infezione della mandragola. Dipoi vi iacerete voi sanza periculo. nicia Io non vo’ far cotesto. callimaco Perché? nicia Perché io non vo’ far la mia donna femmina e me becco21. callimaco Che dite voi, dottore? Oh, io non v’ho per savio come io credetti. Sì che voi dubitate22 di fare quello che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti sono là? nicia Chi volete voi che io truovi che facci cotesta pazzia23? Se io gliene dico, e’ non vorrà; se io non gliene dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto24: io non ci voglio capitare sotto male. callimaco Se non vi dà briga25 altro che cotesto, lasciatene la cura a me. nicia Come si farà? callimaco Dirovelo: io vi darò la pozione questa sera dopo cena; voi gliene darete bere, e subito la metterete nel letto, che fieno circa a quattro ore di notte. Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e andrencene cercando in Mercato Nuovo, in Mercato Vecchio, per questi canti26: e il primo garzonaccio che noi troviamo scioperato27, lo imbavaglieremo, e a suon di mazzate lo condurreno in casa e in camera vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli quello che abbia a fare, né ci fia difficultà veruna. Dipoi, la mattina, ne manderete colui28 innanzi dì, farete lavare la vostra donna, starete29 con lei a vostro piacere e sanza periculo. nicia Io son contento, poi che tu di’ che e re e principi e signori hanno tenuto questo modo; ma, sopra a tutto, che non si sappia, per amore degli Otto! callimaco Chi volete voi che ’l dica? nicia Una fatica ci resta, e d’importanza. callimaco Quale? nicia Farne contenta mogliama, a che io non credo che la si disponga mai30. callimaco Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere marito, se io non la disponessi a fare a mio modo. Mandragola, XV secolo, miniatura dall’Erbario di Trento, ligurio Io ho pensato el rimedio. codice 1591, Trento, Museo Provinciale d’Arte. nicia

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18. Cacasangue!: letteralmente dissenteria; corrisponde ad “accidenti!”. 19. suzzacchera: porcheria. 20. concio bene: sistemato bene; è detto ironicamente. 21. far … becco: rendere mia moglie una donna di facili costumi e me stesso cornuto. 22. dubitate: esitate.

23. cotesta pazzia: di congiungersi per primo con Lucrezia. 24. è … Otto: è un caso da tribunale degli Otto; gli Otto di giustizia presiedevano il tribunale penale. 25. vi dà briga: vi preoccupa. 26. Mercato … canti: zone popolari della città di Firenze.

27. il primo … scioperato: il primo giovina­ stro che noi troviamo sfaccendato. 28. ne manderete colui: lo manderete via. 29. starete: giacerete. 30. Farne … mai: persuadere mia moglie, cosa che non credo che lei possa accettare.

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Come? ligurio Per via del confessoro. callimaco Chi disporrà el confessoro31? ligurio Tu, io, e danari, la cattività32 nostra, loro. nicia Io dubito, non che altro, che per mio detto33 la non voglia ire34 a parlare al confessoro. ligurio E anche a cotesto è remedio. callimaco Dimmi! ligurio Farvela condurre alla madre. nicia La le presta fede35. ligurio E io so che la madre è della opinione nostra. Orsù, avanziamo tempo, ché si fa sera. Vatti, Callimaco, a spasso, e fa’ che alle dua ore noi ti troviamo in casa con la pozione ad ordine. Noi n’andreno a casa la madre36, el dottore e io, a disporla, perché è mia nota37. Poi n’andremo al frate, e vi ragguagliereno38 di quello che noi aren fatto. callimaco Deh! non mi lasciare solo. ligurio Tu mi pari cotto39. callimaco Dove vuoi tu che io vadia ora? ligurio Di là, di qua, per questa via, per quell’altra; egli è sì grande Firenze! callimaco Io son morto40.

31. Chi … el confessoro: chi istruirà il con­ fessore. Ecco la seconda parte dello stratagemma, quella necessaria a convincere la religiosa Lucrezia a giacere con uno sconosciuto. Occorre che sia un uomo di Chiesa di cui si fida a indurla, per una buona causa, a

commettere un peccato carnale. 32. la cattività: la malizia. 33. per mio detto: in seguito alle mie parole. 34. ire: andare. 35. La … fede: ha fiducia in lei. 36. a casa la madre: a casa della madre.

37. mia nota: mia conoscente. 38. vi ragguagliereno: vi informeremo. 39. Tu … cotto: sei tutto preso d’amore, non ragioni più. 40. morto: per l’angoscia dell’attesa.

[Nel terzo atto la madre di Lucrezia, Sostrata, si dichiara disposta ad assecondare l’espediente della mandragola: mentre Nicia e Ligurio si recano dal confessore di Lucrezia, fra Timoteo, Sostrata va dunque a convincere la figlia a parlare con il frate. Ligurio teme che lo sciocco Nicia, parlando con il frate astuto, guasti ogni cosa, perciò lo invita a tacere fingendo di essere sordo.]

ATTO TERZO SCENA IV Fra Timoteo, Ligurio, messer Nicia timoteo

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[...] Che andate voi faccendo, uomini da bene? Non riconosco io messer Nicia? ligurio Dite forte, ché egli è in modo assordato1 che non ode più nulla. timoteo Voi siate il ben venuto, messere! ligurio Più forte! timoteo El ben venuto! nicia El ben trovato, padre! timoteo Che andate voi faccendo? nicia Tutto bene. ligurio Volgete el parlare a me, padre, perché voi, a volere che vi intendessi, aresti a mettere a romore2 questa piazza. timoteo Che volete voi da me? ligurio Qui messere Nicia e un altro uom da bene che voi intenderete poi, hanno a fare distribuire in limosine3 parecchi centinaia di ducati.

1. assordato: sordo. 2. Volgete … romore: rivolgetevi a me, pa­

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dre, perché se veramente voleste farvi sentire, riempireste di rumore tutta la piazza.

3. hanno … limosine: hanno intenzione di distribuire in elemosine.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Cacasangue4! ligurio (Tacete in malora5, e’ non fien molti). Non vi maravigliate, padre, di cosa che dica6, ché non ode, e pargli qualche volta udire, e non risponde a proposito. timoteo Séguita pure, e lasciali dire ciò che vuole. ligurio De’ quali danari io ne ho una parte meco, ed hanno disegnato7 che voi siate quello che le distribuiate. timoteo Molto volentieri. ligurio Ma egli è necessario, prima che questa limosina si faccia, che voi ci aiutate d’un caso8 strano intervenuto a messere: e solo voi potete aiutare, dove ne va al tutto l’onore di casa sua9. timoteo Che cosa è? ligurio Io non so se voi conoscesti Cammillo Calfucci, nipote qui di messere. timoteo Sì, conosco. ligurio Costui n’andò per certe sua faccende uno anno fa in Francia, e non avendo donna10, ché era morta, lasciò una sua figliuola da marito in serbanza11 in uno munistero, del quale non accade dirvi ora el nome. timoteo Che è seguìto12? ligurio È seguìto che o per straccurataggine delle monache o per cervellinaggine13 della fanciulla, la si truova gravida di quattro mesi; di modo che, se non si ripara con prudenzia, el dottore, le monache, la fanciulla, Cammillo, la casa de’ Calfucci è vituperata14; e il dottore stima tanto questa vergogna che s’è botato, quando la non si palesi15, dare trecento ducati per l’amore di Dio. nicia Che chiacchiera!16 ligurio (State cheto). E daragli per le vostre mane: e voi solo e la badessa ci potete rimediare. timoteo Come? ligurio Persuadere alla badessa che dia una pozione alla fanciulla per farla sconciare17. timoteo Cotesta è cosa da pensarla18. ligurio Guardate, nel fare questo, quanti beni ne resulta: voi mantenete l’onore al monistero, alla fanciulla, a’ parenti, rendete al padre una figliuola, satisfate19 qui a messere, a tanti sua parenti, fate tante elemosine quante con questi trecento ducati potete fare; e dall’altro canto voi non offendete altro che un pezzo di carne non nata, sanza senso20, che in mille modi si può sperdere21; e io credo che quello sia bene che facci bene ai più e che e più se ne contentino22. timoteo Sia col nome di Dio. Faccisi23 ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatto ogni cosa. Ditemi el munistero24, datemi la pozione, e, se vi pare, cotesti danari, da potere cominciare a fare qualche bene. ligurio Or mi parete voi25 quello religioso che io credevo che voi fussi. Togliete questa parte de’ danari. El munistero è... Ma aspettate, egli è qua in chiesa una donna che m’accenna26: io torno ora ora, non vi partite da messer Nicia, io le vo’ dire dua parole. nicia

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4. Cacasangue: imprecazione popolare che, al sentire l’entità della somma, sfugge a Nicia, mentre dovrebbe fingersi sordo. 5. in malora: alla malora. 6. di cosa che dica: di qualunque cosa dica. 7. hanno disegnato: hanno deciso. 8. d’un caso: riguardo ad un fatto. 9. dove … sua: da cui dipende tutto l’onore della sua famiglia. 10. donna: moglie. 11. in serbanza: sotto tutela.

12. è seguìto: è successo. 13. cervellinaggine: sventatezza, leggerezza. 14. vituperata: disonorata. 15. quando … palesi: se si trova il modo di nasconderla. 16. Che chiacchiera!: che bella invenzione! Nuovamente Nicia mostra di non riuscire a fingersi sordo. 17. per … sconciare: per farla abortire. 18. Cotesta … pensarla: questa è una fac­ cenda su cui occorre riflettere molto.

19. satisfate: accontentate. 20. sanza senso: senza sensibilità. 21. sperdere: andare perduta (per un aborto spontaneo). 22. io credo … contentino: io penso che il ve­ ro bene sia quello che fa il bene del maggior nu­ mero possibile di persone e che accontenti i più. 23. Faccisi: si faccia. 24. el munistero: il monastero. 25. Or … voi: ora sì che vi mostrate. 26. m’accenna: mi fa un cenno.

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L’età del Rinascimento

[Dopo un breve e comicissimo dialogo tra Nicia, che si finge sordo, e fra Timoteo, quest’ultimo mostra, nella scena seguente, tutta la sua malvagità.]

SCENA VI Liguro, frate, messer Nicia State cheto, messere. Oh, io ho la gran nuova27, padre! timoteo Quale? ligurio Quella donna con chi io ho parlato, mi ha detto che quella fanciulla si è sconcia per sé stessa28. timoteo Bene, questa limosina andrà alla Grascia29. ligurio Che dite voi? timoteo Dico che voi tanto più doverrete fare questa limosina. ligurio La limosina si farà, quando voi vogliate, ma e’ bisogna che voi facciate un’altra cosa in benefizio qui del dottore. timoteo Che cosa è? ligurio Cosa di minore carico, di minore scandolo, più accetta a noi, più utile a voi. timoteo Che è? Io son in termine con voi30, e parmi avere contratta tale dimestichezza che non è cosa che io non facessi. ligurio Io ve lo vo’ dire in chiesa, da me e voi, e el dottore fia contento di aspettare qui. Noi torniamo ora. nicia Come disse la botta all’erpice31! timoteo Andiamo. [...] ligurio

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SCENA VIII Fra Timoteo, Ligurio, messer Nicia Fate che32 le donne venghino. Io so quello che io ho a fare, e se l’autorità mia varrà, noi concludereno questo parentado questa sera. ligurio Messer Nicia, fra’ Timoteo è per fare ogni cosa. Bisogna vedere che le donne venghino. nicia Tu mi ricrei33 tutto quanto. Fia egli maschio? ligurio Maschio. nicia Io lacrimo per la tenerezza. timoteo Andatevene in chiesa, io aspetterò qui le donne. State in lato34 che le non vi vegghino, e partite che le fieno, vi dirò quello che l’hanno detto. timoteo

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[Alla fine, il frate, che nel frattempo è stato messo al corrente da Ligurio del proprio disegno per coronare il sogno di Callimaco, incontra Lucrezia e Sostrata.]

SCENA XI Fra Timoteo, Lucrezia, Sostrata 80

timoteo

Voi siate le ben venute! Io so quello che voi volete intendere da me, perché messer Nicia mi ha parlato. Veramente io son stato in su’ libri più di dua ore a studiare questo caso, e dopo molte esamine35 io truovo di molte cose che e in particulare e in generale fanno per noi.

27. nuova: novità. 28. si … stessa: ha abortito da sola. 29. questa … Grascia: questa elemosina an­ drà al fisco (la Grascia era la magistratura delle tasse), ovvero questi soldi me li tengo io. 30. Io … voi: mi sono impegnato con voi.

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31. Come … erpice: come disse il rospo al ra­ strello. Machiavelli nella lettera al Guicciardini del 16-20 ottobre 1525 spiega che la frase si usa «quando si vuole che uno non torni». Infatti secondo un’antica tradizione toscana, un rospo, colpito sulla schiena dai denti dell’erpi-

ce (rastrello) aveva detto: «Senza tornata». 32. Fate che: fate in modo che. 33. Tu mi ricrei: tu mi sollevi, mi dai nuova vita. 34. State in lato: state nascosto. 35. molte esamine: molte verifiche.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Parlate voi da vero o motteggiate?36 timoteo Ah, madonna Lucrezia! son queste cose da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora? lucrezia Padre, no; ma questa mi pare la più strana cosa che mai si udissi. timoteo Madonna, io ve lo credo37, ma io non voglio che voi diciate più così. E’ sono molte cose che discosto38 paiano terribile, insopportabile, strane, e quando tu ti appressi39 loro, le riescono umane, sopportabile, dimestiche40; e però si dice che sono maggiori li spaventi ch’e mali: e questa è una di quelle. lucrezia Dio el voglia! timoteo Io voglio tornare a quello che io dicevo prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità41, che dove è un bene certo e un male incerto non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio: el male incerto è che colui che iacerà doppo la pozione con voi, si muoia: ma e’ si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto all’atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose42: el fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibbia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorno con el padre43; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorno. lucrezia Che cosa44 mi persuadete voi? sostrata Làsciati persuadere, figliuola mia. Non vedi tu che una donna che non ha figliuoli non ha casa? Muorsi el marito, resta com’una bestia, abandonata da ognuno. timoteo Io vi giuro, madonna, per questo petto sacrato45, che tanta conscienzia vi è ottemperare in questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare carne el mercoledì46, che è un peccato che se ne va con l’acqua benedetta. lucrezia A che mi conducete voi, padre? timoteo Conducovi a cose che47 voi sempre arete cagione di pregare Dio per me, e più vi satisferà questo altro anno48 che ora. sostrata Ella farà ciò che voi vorrete. Io la voglio mettere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moccicona49? E’ c’è cinquanta donne in questa terra, che ne alzerebbono le mani al cielo50. lucrezia Io son contenta, ma non credo mai essere viva domattina. timoteo Non dubitare, figliuola mia: io pregherrò Dio per te, io dirò l’orazione dell’agnol Raffaello51 che t’accompagni. Andate in buona ora, e preparatevi a questo misterio52, ché si fa sera. sostrata Rimanete in pace, padre. lucrezia Dio m’aiuti e la Nostra Donna53, che io non càpiti male! lucrezia

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36. motteggiate: prendete in giro. 37. io … credo: ve lo concedo. 38. discosto: da lontano. 39. ti appressi: ti avvicini. 40. dimestiche: quotidiane, normali. 41. a … generalità: a rispettare questa rego­ la generale. 42. el fine … le cose: lo scopo deve essere considerato in tutte le cose. Nel suo macchinoso ragionamento Timoteo fa capire che il fine, ovvero l’obiettivo di avere un figlio, giustifica i mezzi messi in atto per raggiungerlo. 43. le figliuole … el padre: le figlie di Lot si unirono (usorno) al padre, convinte che non

ci fosse nessun altro al mondo (Genesi, 19, 30-37). 44. Che cosa: a quale azione. 45. per … sacrato: per questo petto consa­ crato. 46. tanta … mercoledì: tanto carico di co­ scienza vi è nell’obbedire a questa richiesta di vostro marito, quanta ce n’è nel mangiare car­ ne al mercoledì, che è un peccato veniale. 47. che: compiute le quali. 48. altro anno: anno prossimo. 49. moccicona: mocciosa, bambinona. 50. ne … cielo: alzerebbero le mani al cielo in segno di ringraziamento.

51. l’orazione dell’agnol Raffaello: la pre­ ghiera dell’arcangelo Raffaele; nuova citazione biblica di fra Timoteo: allude a un passo in cui l’arcangelo Raffaele spiega a Tobia come saranno regolati i suoi rapporti con la casta Sara, i cui precedenti sette mariti sono morti per intervento del demonio Asmodeo, quando tentarono di congiungersi con lei. Tobia si accosterà a Sara nella terza notte di nozze «spinto dall’amore di avere dei figli più che dalla libidine» (Tobia, 6, 14-22). 52. misterio: l’intrigo erotico è cinicamente assimilato dal frate a una cerimonia religiosa. 53. la Nostra Donna: la Madonna.

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L’età del Rinascimento

Testi Atto IV, scene II, VI-X dalla Mandragola

[Il frate comunica a Ligurio e a Nicia che Lucrezia, grazie alle pressioni della madre, la spregiudicata Sostrata, è disposta a fare ogni cosa. Ligurio si reca da Callimaco, e fissa l’appuntamento con Timoteo.] [Nel quarto atto Ligurio informa Callimaco di aver ottenuto la complicità di fra Timoteo, il quale si travestirà e fingerà di essere Callimaco. Quest’ultimo dovrà invece travestirsi da vagabondo e farsi trovare dove Nicia, Ligurio stesso, il frate e Siro lo possano catturare per portarlo nel letto di Lucrezia. Durante la notte dei travestimenti il gruppetto formato da Nicia, Ligurio, Siro e il finto Callimaco (fra Timoteo) colpiscono, più o meno sul serio, e rapiscono il vero Callimaco, che finge di essere un «garzonaccio», ovvero un giovinastro che di notte bighellona per le strade. Il quinto atto, l’ultimo, si apre con un monologo di fra Timoteo con cui l’autore intende mostrare l’ipocrisia e l’immoralità dei frati. Nella seconda scena si vedono i compari che rilasciano Callimaco mentre Nicia racconta loro come, secondo lui, si è svolta la notte, mostrando ancora una volta la sua dabbenaggine.]

ATTO QUINTO SCENA IV Callimaco, Ligurio callimaco

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Come io t’ho detto. Ligurio mio, io stetti di mala voglia insino alle nove ore: e benché io avessi grande piacere1 e’ non mi parve buono. Ma poi che io me le fu’ dato a conoscere e che io l’ebbi dato ad intendere lo amore che io le portavo, e quanto facilmente per la semplicità2 del marito noi potavàno vivere felici sanza infamia alcuna3, promettendole che qualunque volta Dio facessi altro di lui4 di prenderla per donna5: ed avendo ella, oltre alle vere ragione, gustato che differenzia è dalla iacitura mia a quella di Nicia, e da e baci d’uno amante giovane a quelli d’uno marito vecchio, doppo qualche sospiro disse: – Poi che l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia6 del mio confessoro mi hanno condotta a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare7 che e’ venga da una celeste disposizione che abbi voluto così, e non sono sufficiente a recusare8 quello che ’l cielo vuole che io accetti. Però io ti prendo per signore, padrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene9; e quello che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre. Fara’ti adunque suo compare10, e verrai questa mattina alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l’andare e lo stare starà a te11, e potreno ad ogni ora e sanza sospetto convenire insieme12. – Io fui, udendo queste parole, per morirmi per la dolcezza. Non potetti respondere alla minima parte di quello che io arei desiderato. Tanto che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai nel mondo, e se questa felicità non mi mancassi13 o per morte o per tempo, io sarei più beato ch’e beati, più santo che e santi. ligurio Io ho gran piacere d’ogni tuo bene, e ètti intervenuto quello che io ti dissi appunto14. Ma che facciamo noi ora? callimaco Andiàno verso la chiesa, perché io le promissi d’essere là, dove la verrà lei, la madre e il dottore. ligurio Io sento toccare l’uscio suo: le sono esse ed escono fuora ed hanno el dottore drieto. callimaco Avvianci in chiesa, e là aspettereno. [Nella quinta scena Lucrezia, la mattina dopo la notte d’amore passata con Callimaco, tratta con durezza il marito mentre si recano in chiesa.]

1. grande piacere: derivante dall’incontro con Lucrezia. 2. semplicità: stupidità. 3. sanza infamia alcuna: senza alcun disonore. 4. Dio … lui: se Dio l’avesse chiamato a sé. 5. per donna: per moglie. 6. la tristizia: la malvagità, la corruzione.

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7. iudicare: pensare. 8. non … recusare: non sono in grado di rifiutare. 9. ogni mio bene: ogni mia felicità. 10. suo compare: il compare era più intimo di un amico, quasi come un parente. 11. e l’andare … a te: stare con noi o andar-

tene dipenderà da te. 12. convenire insieme: incontrarci. 13. non mi mancassi: non venisse mai meno. 14. ètti intervenuto … appunto: ti è successo proprio quello che io avevo previsto.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

SCENA VI Fra Timoteo, messer Nicia, Lucrezia, Callimaco, Ligurio, Sostrata timoteo

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Io vengo fuora perché Callimaco e Ligurio m’hanno detto che el dottore e le donne vengono alla chiesa. nicia Bona dies15, padre! timoteo Voi siate le benvenute, e buon pro vi faccia, madonna, che Dio vi dia a fare un bello figliuolo maschio! lucrezia Dio el voglia! timoteo E’ lo vorrà in ogni modo. nicia Veggh’io in chiesa Ligurio e maestro Callimaco? timoteo Messere sì. nicia Accennateli16. timoteo Venite! callimaco Dio vi salvi! nicia Maestro, toccate la mano qui alla donna mia. callimaco Volentieri. nicia Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi areno un bastone che sostenga la nostra vecchiezza17. lucrezia Io l’ho molto caro, e vuolsi che sia nostro compare. nicia Or benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio venghino stamani a desinare con esso noi. lucrezia In ogni modo. nicia E vo’ dare loro la chiave della camera terrena d’in sulla loggia, perché possino tornarsi quivi a lor commodità, ché non hanno donne in casa e stanno come bestie18. callimaco Io l’accetto, per usarla quando mi acaggia19. timoteo Io ho avere20 e danari per la limosina? nicia Ben sapete come, domine, oggi vi si manderanno. ligurio Di Siro non è uomo21 che si ricordi? nicia Chiegga22, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossi hai a dare al frate per entrare in santo?23 lucrezia Dategliene dieci. nicia Affogaggine!24 timoteo Voi, madonna Sostrata, avete, secondo mi pare, messo un tallo in sul vecchio25. sostrata Chi non sarebbe allegra? timoteo Andianne tutti in chiesa, e quivi direno l’orazione ordinaria26; dipoi doppo l’uficio ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciàno più fuora: l’uficio è lungo, e io mi rimarrò in chiesa, e loro per l’uscio del fianco se ne andranno a casa. Valète!27

15. Bona dies: buon giorno. 16. Accennateli: fategli cenno (che s’avvicinino). 17. un bastone … vecchiezza: grazie a Callimaco avranno un figlio, che potrà sostenerli nella vecchiaia. Ma naturalmente vi è un doppio senso osceno. 18. stanno … bestie: vivono trascurati, da

scapoli. 19. mi acaggia: mi capiti. 20. Io ho avere: io devo avere. 21. non è uomo: non c’è nessuno. 22. Chiegga: chieda. 23. quanti … santo?: quanti soldi hai da dare al frate per entrare in chiesa? 24. Affogaggine!: accipicchia! Nuovamen-

te Nicia ha un soprassalto sentendo quanto denaro deve sborsare. 25. avete … vecchio: letteralmente, avete innestato un pollone (= fuscello) nuovo sul vecchio, ovvero sembrate ringiovanita. 26. orazione ordinaria: orazione di rito. 27. Valète!: state bene, addio!

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L’età del Rinascimento

Analisi del testo

> un doppio ordine di strutture

La struttura amorosa e la beffa

In questa analisi utilizziamo largamente un’ottima lettura della commedia offerta da Guido Davico Bonino nell’introduzione all’edizione da lui commentata (Einaudi, Torino 1980). Il critico osserva che la Mandragola, nella sua architettura, è un organismo di straordinaria saldezza, chiuso da un doppio ordine di strutture: 1. la struttura prima è quella amorosa, costituita dalla passione di Callimaco per Lucrezia, dagli ostacoli che sembrano rendere impossibile la realizzazione del suo desiderio, dal loro superamento grazie agli intrighi del parassita Ligurio e dal lieto fine; 2. all’interno di questa struttura si inserisce quella della beffa a messer Nicia, che è funzionale alla prima, in quanto la beffa serve al superamento degli ostacoli.

> Il tema amoroso

L’energia attiva dell’innamorato

L’eros “basso”

La struttura amorosa era componente abituale della commedia latina, ed era stata ripresa dai primi traduttori del Quattro e Cinquecento e da Ariosto che, nella Cassaria (1508) e nei Suppositi (1509), aveva osato per primo produrre testi comici originali sull’esempio dei maestri classici. Ma in questa struttura convenzionale Machiavelli introduce forti elementi di originalità. Mentre nelle commedie antiche e in quelle di Ariosto gli innamorati sono connotati dalla passività, dall’impotenza, dalla frustrazione dinanzi alle difficoltà incontrate nella realizzazione del desiderio, Callimaco si presenta inizialmente con una ben diversa energia e determinazione, esprimendo sin dalla prima scena i suoi propositi attivi. In Callimaco vi è un «fremente desiderio di azione», una volontà di ricorrere a qualunque mezzo pur di raggiungere i suoi obiettivi; per questo sembra di poter ravvisare in lui, inizialmente, i tratti del tipico eroe machiavelliano, ricco di «virtù» attiva. Ben presto però l’azione è delegata ad altri, a Ligurio, ed il personaggio muta gradatamente registro: al vagheggiamento dell’azione subentra in lui l’esaltazione della passionalità, in termini nobili ed elevati, una passionalità che alterna lo slancio ottimistico e gioioso a ripiegamenti inquieti e pessimistici. Ma la novità più cospicua consiste nel fatto che, a questo eros nobile espresso da Callimaco in termini lirici e altamente intonati, si mescola costantemente una trama compatta di immagini, similitudini, metafore, punteggianti i discorsi di tutti i personaggi, che alludono invece a un eros “basso”, carnale e volgare. Si pensi solo alle allusioni alla scarsa virilità di Nicia, alle insidie subite da Lucrezia da parte di un «fratacchione» libidinoso, sino al racconto che Nicia fa dell’ingresso di Callimaco nella stanza di Lucrezia. In questo Machiavelli rivela le sue strette affinità con tutta una tradizione comica e burlesca tipicamente fiorentina, compiaciuta di tematiche salaci, contemplate con umore beffardo e irriverente.

> Messer nicia: uno sciocco borioso e amorale Lo sciocco beffato

La presunzione, la disonestà, l’avarizia

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Forti innovazioni rispetto al codice della commedia “classica” presenta anche la struttura della beffa. Il portatore di questa tematica è messer Nicia, che riproduce un tipo consacrato dalla tradizione comica, lo sciocco, il semplicione vittima dei raggiri dei furbi, un tipo che risale sino al Calandrino di Boccaccio. Ma, a ben vedere, Nicia non è solo il tipo dell’ingenuo credulone fissato da questa tradizione: il suo personaggio è infinitamente più ricco di sfumature e sfaccettature ed è portatore di una satira che va molto a fondo nel cogliere il male della società contemporanea. Innanzitutto Nicia è uno stolido borioso, infatuato del proprio prestigio di dottore in legge: ostenta gonfio di presunzione la propria cultura, ha un’attenzione puntigliosa per il rispetto dei titoli accademici. Poi è avaro e attaccato al denaro, come si può capire dalla reazione spaventata all’apprendere la cifra da versare a fra Timoteo.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli Il cinismo amorale

L’angustia degli orizzonti

Non è neppure il tipo dello sciocco bonaccione: non solo è brutale e autoritario nei confronti della moglie, ma emerge chiaramente in lui un fondo di cinismo amorale ed egoistico. L’unico vero scrupolo che nasce in lui non è di natura morale, ma è suggerito solo dalla paura del potere, dell’intervento punitivo della magistratura («che non si sappia, per amore degli Otto», atto II, scena VI); per cui, al di là della sua comicità, Nicia presenta qualcosa di laido, ripugnante, quasi sinistro nella sua disumanità e insensibilità. Ma il tratto più rilevante del personaggio è la sua grettezza, la sua inerzia, la sua provinciale angustia di orizzonti. Sono i vizi che Machiavelli, nel Prologo, attribuisce ai Fiorentini del suo tempo, che «tralignano dall’antica virtù», sono incapaci di alti disegni ed energiche azioni e si limitano solo a schernire e biasimare chiunque tenti qualche impresa.

> L’irrisione verso i Fiorentini Il linguaggio dialettale di Nicia

Nicia è il mezzo di una feroce irrisione che Machiavelli indirizza verso lo stesso pubblico, vittima inconsapevole; i vizi di Nicia sono gli stessi di chi sta ridendo di lui. In questa chiave acquista un preciso significato il registro linguistico di Nicia: egli usa infatti una lingua fortemente dialettale, fittissima di espressioni gergali, addirittura rionali. Proprio l’insistenza sul linguaggio vernacolare vuol mettere in rilievo la ristrettezza provinciale del personaggio, la sua chiusura asfittica in un ambito puramente municipale. Non si tratta quindi di un virtuosismo linguistico compiaciutamente esibito e fine a se stesso, o un semplice ingrediente buffonesco finalizzato al riso, ma una scelta stilistica molto avvertita e gravida di significato, perfettamente funzionale alla feroce irrisione di Machiavelli nei confronti dei suoi contemporanei, alla sua indignazione verso il proprio «tempo dispettoso e tristo».

> Ligurio stratega dell’azione

Ligurio come il «principe»

La problematicità di Ligurio

Se Callimaco e Nicia, l’innamorato ansioso e lo sciocco beffato, sono i due personaggi, pur nel loro carattere innovativo, più legati ai codici della commedia, i personaggi più originali e nuovi sono Ligurio, fra Timoteo e Lucrezia. Il più affascinante è senz’altro Ligurio. Egli è lo stratega dell’azione, l’intelligenza che mette insieme l’intrigo, lo dirige con sicurezza e lo conduce al fine sperato. È lui che architetta l’espediente della falsa pozione e che trova il modo di convincere la riluttante Lucrezia, donna di ferrei princìpi etici e religiosi, a giacere con lo sconosciuto «garzonaccio». Tali doti ne fanno un tipico eroe machiavelliano: è come una sorta di principe “in scala”, messo ad agire non sul vasto scenario della politica degli Stati, ma sullo sfondo più ristretto della vita privata, cittadina e borghese. Nel suo cinismo del tutto amorale Ligurio è certo una figura negativa e può rientrare a buon diritto in quel quadro di abiezione e corruzione della società contemporanea contro cui si appunta la corrosiva satira di Machiavelli. Nei confronti dell’agire di Ligurio si può tuttavia ravvisare un atteggiamento affine a quello che lo scrittore ha verso il suo «principe». Egli sa bene che le azioni del principe sono crudeli, efferate, riprovevoli moralmente; ma sa anche che, «in fra tanti che non sono buoni», quelli sono gli unici mezzi che consentono di raggiungere il fine prefissato: quindi, nel suo realismo di rigoroso “scienziato” della politica, non può che registrarne l’efficacia. In questo senso la riflessione politica di Machiavelli, che è il centro della sua vita, non si arresta neppure nella Mandragola e si cela anche sotto le spoglie del «badalucco» disimpegnato, con cui egli vuole rendere «il suo tristo tempo più suave» e compensare la sua forzata inerzia. Dalla negatività di Ligurio è però escluso un aspetto, l’avidità, l’interesse economico. Ligurio non è indotto ad aiutare Callimaco, ad architettare il suo complesso piano, dalla prospettiva di un guadagno; e difatti la ricompensa materiale che ne ricaverà sarà piccola cosa. 449

L’età del Rinascimento La febbre dell’azione

Ciò che lo muove, come ben mette in luce Davico Bonino, è la «smania dell’azione per l’azione», «quella febbre della prassi, con cui l’uomo non solo esprime il meglio di sé, ma costruisce con le proprie mani il suo destino, in tacito, accanito confronto con la Natura, la Fortuna, la Storia». In Ligurio si proietta dunque quell’attivismo energico, eroico, che è elemento centrale della visione machiavelliana, espresso nel Principe, nei Discorsi e nelle altre opere.

> Fra Timoteo: corruzione e intelligenza

Amoralità e corruzione

L’avidità e il carattere riflessivo

Un personaggio che ha molti punti di affinità con Ligurio è fra Timoteo: anch’egli è portatore di una lucida intelligenza, che lo induce a calcolare acutamente le mosse degli avversari, a vagliare le iniziative che gli conviene prendere; anch’egli non considera le regole morali ed è pronto ad ogni inganno pur di raggiungere il suo fine. Quindi anch’egli è un personaggio negativo, rappresentante della corruzione contemporanea (di un particolare aspetto di essa, l’avidità senza scrupoli e l’ipocrisia degli ecclesiastici), e in quanto tale viene a far parte dello squallido panorama di degradazione su cui si appunta la satira di Machiavelli; ma, al tempo stesso, messe tra parentesi le leggi morali, è ammirato per la sua qualità di portatore dell’intelligenza. Tuttavia differisce da Ligurio per alcuni aspetti essenziali. Mentre il parassita non è mosso da interesse, ciò che induce il frate a prestarsi al raggiro è esclusivamente l’utile economico, il denaro che riceverà (che, con fratesca ipocrisia, finge destinato ai poveri). In secondo luogo mentre Ligurio è un personaggio tutto animato dalla febbre dell’azione, che si concede poche pause riflessive, fra Timoteo è caratterizzato soprattutto dai continui indugi meditativi.

> Lucrezia: un personaggio problematico I tratti caratterizzanti

La trasformazione finale

Un “naturalismo” boccacciano

Lo smascheramento del personaggio

La duttilità di fronte alla fortuna

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Lucrezia è un personaggio che ha un ruolo di primaria importanza nel testo, ma compare pochissimo in scena di persona: la sua figura emerge soprattutto dalle parole degli altri personaggi. I tratti che la caratterizzano sono la superiorità morale, il rigore della devozione religiosa, la castità, l’onestà, la saggezza e la ponderatezza, la morigeratezza che la porta a rifuggire dagli svaghi mondani e a vivere chiusa in casa. Solo dinanzi al sottile, abilissimo, irresistibile argomentare teologico del frate resta senza mezzi di difesa, e deve cedere. Proprio in riferimento a questa sua assoluta dirittura morale spicca in modo sconcertante la trasformazione che si opera in lei nel finale, quando, scoperto l’inganno, accetta di divenire l’amante di Callimaco (come apprendiamo dal racconto di Callimaco stesso, atto V, scena IV). Dinanzi a questo voltafaccia improvviso molto vari sono stati i giudizi della critica, e varie le interpretazioni proposte. Vi si è individuata ad esempio la celebrazione del piacere carnale, nella prospettiva di un “naturalismo” boccacciano e laicamente rinascimentale: dopo lunghi anni di astinenza la scoperta del piacere sessuale determina nella donna un trionfo delle forze della natura, che la libera dagli impacci delle norme sociali e dalla tradizione; in tal caso la trasformazione di Lucrezia sarebbe vista da Machiavelli in luce positiva e caldamente approvata. Oppure si potrebbe pensare che anche Lucrezia partecipi della natura negativa di tutti gli altri personaggi, che in lei era velata dall’educazione e dalle pratiche devozionali, e che emerga infine il suo cinismo egoistico, pronto a perseguire il proprio utile ignorando ogni norma morale. In tal caso avverrebbe uno smascheramento del personaggio, improntato all’amaro pessimismo di Machiavelli sulla natura umana, che farebbe emergere il fondo vero della donna al di sotto della maschera virtuosa. Ma un’interpretazione suggestiva è quella proposta, insieme ad altri, da Davico Bonino: Lucrezia passa dal rifiuto «all’accettazione della fortuna, come di una forza troppo impetuosa perché ci si possa opporre. La duttilità di fronte al variare della fortuna, la capacità di adattarsi alle varie situazioni che si presentano, di “riscontrare” il proprio comportamento coi tempi, è una delle componenti fondamentali della “virtù” dell’uomo»

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

La scena finale

che Machiavelli elogia in molti punti della sua opera, in particolare nel famoso capitolo XXV del Principe ( T8, p. 409). L’interpretazione appare quindi probabile proprio perché risponde a uno dei grandi motivi del pensiero machiavelliano (comunque non escluderebbe la prima che abbiamo prospettato, il trionfo naturalistico della carne, che con essa può benissimo armonizzarsi). La commedia si chiude con la scena in chiesa in cui avviene come una sorta di consacrazione nuziale dei legami ormai instauratisi tra Callimaco e Lucrezia, ma beffardamente rovesciata: quelli che si danno la mano sono due adulteri, dinanzi ad un frate cinico, simulatore, ipocrita e avido, e sotto gli occhi benevoli di un marito ingannato e ignaro. La comicità di questa scena ha un fondo amaro, lucidamente e ferocemente desolato, impregnato di tutto il disincanto pessimistico di Machiavelli, e costituisce il degno suggello della commedia, presentandone in compendio il senso.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Con quale stratagemma Ligurio avvicina frate Timoteo? Come comprende che è un uomo privo di scrupoli, pronto a tutto per denaro?

> 2. Con quali argomenti fra Timoteo convince Lucrezia ad avere un rapporto sessuale con uno sconosciuto? > 3. Quali effetti, a detta di Ligurio, produce la mandragola? > 4. Come giustifica Lucrezia la scelta di diventare l’amante fissa di Callimaco? AnALIzzARe

> 5. Soffermati a riflettere sul personaggio di Nicia, sui suoi comportamenti, sul suo linguaggio: incarna semplicemente il tipo dello sciocco beffato, di consolidata tradizione, o è un personaggio più ricco di sfumature?

> 6. Perché Lucrezia è definita, nell’analisi del testo, un personaggio problematico? > 7. narratologia Analizza il tempo (la durata della vicenda) e i luoghi in cui si svolge l’azione (considerando anche

la scenografia presentata nel Prologo, T12, p. 435). Vengono rispettate le unità aristoteliche ( Il contesto, p. 128)?

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 8.

Testi a confronto: scrivere Dopo aver riflettuto sulla vicenda della commedia, una beffa a sfondo sessuale, istituisci un paragone tra i personaggi della Mandragola e quelli del Decameron di Boccaccio. Riscontri delle somiglianze? Rispondi in circa 24 righe (1200 caratteri).

PeR IL PoTenzIAMenTo

> 9.

esporre oralmente Nell’atto secondo scena VI, Callimaco sciorina il suo “latinorum” per impressionare Nicia, che non si mostra infastidito, anzi sembra apprezzare la perizia del dottore. Quale altro personaggio letterario, invece, a tua memoria, ha poca dimestichezza con il latino, la lingua dei dotti e dei dottori? Dopo aver individuato il personaggio, procedi oralmente ad un confronto (max 3 minuti). PASSATo e PReSenTe Cattivi maestri

> 10. Nella scena VI frate Timoteo si lascia andare ad un momento di riprovazione per il suo comportamento, attribuendone la colpa alle cattive compagnie. Afferma tra sé Timoteo:

E’ dicono el vero quelli che dicono che le cattive compagnie conducono gli uomini alle forche, e molte volte uno càpita male cosí per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa che io non pensavo ad iniurare persona, stavomi nella mia cella, dicevo el mio ufizio, intrattenevo e mia devoti: capitommi inanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere el dito in uno errore, donde io vi ho messo el braccio, e tutta la persona, e non so ancora dove io m’abbia a capitare.

Sei d’accordo con quanto dice Timoteo? Quanto le cattive compagnie possono influenzare il comportamento di un individuo? Esponi oralmente le tue considerazioni (max 5 minuti).

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L’età del Rinascimento

Interpretazioni critiche

Luigi Blasucci I personaggi di Ligurio e Lucrezia bassa

Il passo esamina due personaggi fondamentali della commedia, Ligurio e Lucrezia. Il critico respinge la tesi che Ligurio sia una versione del principe machiavelliano, perché la vicenda si svolge nella sfera privata, quindi manca la realtà superiore dello Stato che giustifichi il suo agire. Non è un puro artista del male, come il ser Ciappelletto di Boccaccio, perché ha un tornaconto personale, ma mostra una coerenza professionale così rigorosa nel perseguire il suo fine, favorire gli amori di Callimaco, che il tornaconto passa in secondo piano. Lucrezia è la forza antagonistica di Ligurio. Blasucci ritiene che la sua «conversione» finale non sia di natura erotica, non segni il trionfo della legge naturale dell’amore come in Boccaccio, ma sia di natura morale: sia cioè il risultato di una coscienza delusa, da cui deriva un nuovo e più spregiudicato modo di agire. L’amara decisione del suo comportamento l’accomuna agli eroi della «virtù» machiavelliana.

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Non diremo per questo, come pure è stato detto, che Ligurio rappresenti nella Mandragola, con la sua intelligenza direttrice1, una versione del principe machiavellico: se non altro per la constatazione ovvia che qui manca lo Stato, ossia una realtà superiore che giustifichi il suo operare. Solo che nel perseguimento del fine per cui egli è stato chiamato – l’appagamento della libidine di Callimaco – egli porta una tale coscienza di malizia professionale che lo stesso suo personale tornaconto («l’utile che io sento e che io spero»), il quale è pur necessario nell’economia morale del personaggio per tenerlo distinto da un puro artista della nequizia2 come ser Ciappelletto (questo cavaliere dell’ideale col segno rovesciato), passa di fatto in secondo piano di fronte a tanto rigorosa coerenza. […]. E se egli persegue la via della tristizia3 è perché si vive in un mondo di tristi4: ove egli porta, a ogni buon conto, la sua consapevolezza e la sua coerenza di uomo «onorevolmente cattivo». Si è accennato a Lucrezia. Essa rappresenta nella commedia, con la sua nativa dirittura5, la vera forza antagonistica di Ligurio. A differenza […] di tutte quelle creature femminili del Decameron, che con le loro finali acquiescenze rendono omaggio alle leggi naturali dell’amore, Lucrezia non è un personaggio amoroso. Ciò che la lega al marito non è tanto l’amore o la gelosia […], quanto un senso diritto e incrollabile della fede coniugale. Nel corso dell’azione questo personaggio, le cui apparizioni sono brevi ma intensamente significanti, si precisa nei suoi aspetti di apprensività e di tremore per il suo pudore oscuramente minacciato: «Da quel tempo in qua ella sta in orecchi come la lepre» (cfr. atto III, scena 2). Davanti alle incalzanti argomentazioni del suo confessore, rinforzate dalle compiacenti pressioni della madre, essa si difende disperatamente con l’incredulità che le detta il suo istinto: «Che cosa mi persuadete voi?»; «A che mi conducete voi, padre?»; finché, stordita più che persuasa, soccombe: ma l’ultimo grido è

1. direttrice: che sa dirigere le azioni degli altri, e dominare il corso degli eventi.

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Luigi Blasucci si concentra soprattutto sulla specifica fisionomia etica dei personaggi, partendo dall’assunto che questa si rivela in tutta la sua complessità nel divenire dell’azione. Si tratta di una lettura per molti versi divergente rispetto a quella proposta nell’analisi del testo, e ciò aiuta gli studenti a farsi un’idea del conflitto delle interpretazioni che sempre accompagna il lavoro critico sulla letteratura, e che è fecondo di stimoli alla riflessione.

2. nequizia: malvagità. 3. tristizia: malvagità.

4. tristi: malvagi. 5. nativa dirittura: rettitudine naturale, innata.

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del suo pudore indifeso: «Io son contenta! ma io non credo mai essere viva domattina» (cfr. atto III, scena 11). Quando essa ricompare nel quinto atto, prima nella descrizione che Callimaco fa della notte avventurosa e poi mentre si reca in chiesa col marito e con la madre, essa è divenuta un’altra: è avvenuta in lei una conversione. Ma occorre precisare che questa conversione non è di natura erotica, bensí etica. […] Non siamo propriamente davanti a una festosa celebrazione dell’omnia vincit Amor6, ma al risentimento di una coscienza delusa e contrariata, che da quella delusione ha tratto argomento per una nuova e più spregiudicata norma di azione. E ben si accorge, a suo modo, di questo mutamento il marito Nícia, allorché davanti alle impazienti battute di Lucrezia, mentre si recano in chiesa, ha modo di osservare: «Guarda come ella risponde! La pare un gallo!», e poi: «Tu se’ stamane molto ardita! Ella pareva íersera mezza morta» (cfr. atto V, scena 5). […] La rassegnazione di Lucrezia, s’è visto, non è passiva, ci par di notare ora sul volto di lei una ruga di amara decisione che l’accomuna agli altri eroi attivi della «virtú» machiavellica. Tra questi due estremi di coerenza, Ligurio e Lucrezia, si muove poi il vario «vulgo» degli altri personaggi, tutti più o meno irretiti in una loro egoistica passione che li accieca e li rende zimbelli della superiore volontà di Ligurio. L. Blasucci, Prefazione a Opere letterarie, Adelphi, Milano 1964

6. omnia … Amor: l’amore vince ogni cosa.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Se Ligurio, come afferma il critico, non è paragonabile al personaggio boccacciano di Ciappelletto, «puro

artista della nequizia», perché sceglie la malvagità (rr. 1-12)? > 2. Quale aspetto del carattere di Lucrezia rende il personaggio distante dalle figure femminili del Decameron (rr. 13-26)? > 3. Qual è, secondo il critico, in momento della commedia in cui si verifica un drastico cambiamento nel comportamento di Lucrezia (rr. 26-41)? AnALIzzARe

> 4.

Lessico Spiega il significato dell’espressione «finali acquiescenze» (r. 15) riferita all’agire delle figure femminili di Boccaccio, fornendo, se possibile, un esempio indicativo fra quelli da te studiati. > 5. Lessico Spiega il significato del termine «zimbelli» (r. 41) riferito agli altri personaggi della Mandragola.

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Scrivere Riepiloga sinteticamente in circa 10 righe (500 caratteri) le ragioni che fanno del personaggio di Ligurio «una versione del principe machiavellico» (rr. 1-12) illustrate nell’Analisi del testo della Mandragola.

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L’età del Rinascimento

La voce del Novecento

Machiavelli e Pirandello: la «tragedia annegata in una farsa» La produzione teatrale di Pirandello (1867-1936) è lontanissima, nei temi affrontati e nel linguaggio drammatico, dalla commedia del Cinquecento. Eppure vi è almeno un’opera che, a prima vista, può richiamare il clima “boccaccesco” di quel teatro comico, anzi, per certi aspetti rimanda proprio al testo più grande e più famoso di quel genere letterario, La Mandragola di Machiavelli, che Pirandello ammirava molto: quest’opera è L’uomo, la bestia e la virtù, rappresentata e pubblicata nel 1919. Il giovane professor Paolino («l’uomo» del titolo) ha una relazione con la signora Perella (la «virtù»), donna onesta e pudica ma che è stata costretta ad accettare l’amore di Paolino perché trascurata e disprezzata dal marito (la «bestia»), un capitano di vascello, uomo rozzo e brutale, che ha amanti e figli in vari porti lontani. La signora Perella scopre di attendere un figlio dal professore. Questi allora, per evitare la scoperta dell’adulterio e lo scandalo, e magari il delitto d’onore, perché il marito da tempo non ha più rapporti con la moglie, escogita un astuto piano: costringere il capitano, in uno dei suoi ritorni a casa, ad avere di nuovo un rapporto sessuale con la moglie, in modo da giustificarne la gravidanza. La cosa non è facile, dato il carattere dell’uomo e la sua noncuranza nei confronti della sposa. Ma, con l’aiuto dell’amico dottor Pulejo e del fratello di lui farmacista, Paolino ricorre a un potente afrodisiaco, celato in un dolce, da far ingerire al capitano. Riportiamo proprio la scena in cui viene concepito il piano.

Paolino […] Mi piace, intanto, codesta tua impassibilità, mentre io friggo. – Non vedi che friggo? Permetti? Gli afferra una mano e gliela stringe fino a farlo gridare. 5

Pulejo (ritirando la mano). Ahi! Oh, mi fai male! Sei matto? Paolino. Ma per farti sentire com’è quando si parla degli altri! Li guardi da fuori, tu, gli altri; e non te n’interessi! Che cosa sono per te? Niente! Immagini che ti passano davanti, e basta! Dentro, dentro bisogna sentirli; immedesimarsi; provarne... ecco, così... Indica la mano che il dottore si liscia ancora, movendo le dita.

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una sofferenza, facendola tua! Pulejo. Grazie tante, caro! Mi bastano le mie! Ognuno, le sue. Ma sai che sei buffo davvero? Ride guardandolo.

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Paolino. Esilarante, eh, lo so! Esilarantissimo. Lo so. La vista chiara, aperta, delle passioni – e siano anche le più tristi, le più angosciose – ha il potere, lo so, di promuovere le risa di tutti! Sfido! non le avete mai provate, o usi1 come siete a mascherarle (perché siete tutti foderati di menzogna!), non le riconoscete più in un pover’uomo come me, che

1. usi: abituati.

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ha la sciagura di non saperle nascondere e dominare! Sèntimi! Sèntimi, perdio! Dentro di te, sèntimi! Io soffro! Pulejo. Ma di che soffri? Eccomi! Sono qua! Se non mi dici di che soffri! Mi parli della signora Perella… Paolino. Ma appunto, sì, di lei! Pulejo. Soffri della signora Perella? Paolino. Sì, Nino mio! Perché tu non sai! tu non sai! Lasciami dire. Quel caro capitano Perella, quel carissimo capitano Perella, non si contenta, capisci? di tradire la moglie, d’avere un’altra casa, a Napoli, come ti dicevo, con un’altra donna. No! Ha tre o quattro figli là, con quella, e uno qua, con la moglie. Non vuole averne altri! Pulejo. Eh, cinque – mi pare che bastino! Paolino. Ah così tu la pensi? Con la moglie ne ha uno, uno solo! Quelli di là non sono legittimi; e se ne ha qualche altro là con quella, può buttarlo via come niente, in un ospizio di trovatelli, capisci? Invece, qua, con la moglie, no! D’un figlio legittimo non potrebbe disfarsi, è vero? Pulejo. Naturalmente… Paolino. E allora, brutto manigoldo, che ti combina? (Oh, dura da tre anni, sai, questa storia!) Ti combina che nei giorni che sbarca qui, piglia il più piccolo pretesto per attaccar lite con la moglie, e la notte si chiude a dormir solo. Le sbatte la porta in faccia, capisci? ci mette il paletto; il giorno appresso, se ne riparte, e chi s’è visto s’è visto! Da tre anni – così. Pulejo (con una commiserazione da cui non riesce a staccare un sorriso). Oh povera signora… – la porta in faccia? Paolino. In faccia… – e il paletto… – e il giorno dopo… Gesto della mano per significare che se la fila.

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Pulejo. Povera signora, ma guarda! Paolino. Ah, così… E non sai dirmi altro? Pulejo. Che vuoi che ti dica? Non capisco ancora, scusa, che cosa ci possa fare io… Mi dispiace… mi duole… Paolino. E basta? Se fosse tua sorella, se Perella fosse tuo cognato e tu sapessi che tratta la moglie così… Pulejo. Ah, perdio! Lo piglierei per il collo! Paolino. Lo vedi? Lo vedi? Per il collo lo piglieresti! Pulejo. Sfido! Da fratello! Paolino. E se questa povera signora, fratelli non ne ha? e non ha nessuno? nessuno, dico, che possa legittimamente prenderlo per il collo, questo signor capitano Perella, e richiamarlo ai suoi doveri di marito, si deve lasciar perire così una donna, senza darle ajuto? Ti pare giusto? ti pare onesto? Pulejo. Già… – ma tu?… Paolino. Io, che cosa? Pulejo. Scusa… – come le sai tu, prima di tutto, codeste cose? Paolino. Come le so!… Le so… le so… perché… sì, da… da un anno io… do lezione di… latino al ragazzo, al figlio di Perella, che ha undici anni. Pulejo (comprendendo). Ah… Era quella signora che è uscita di qua, poco fa, con un ragazzo? Paolino (subito, quasi saltandogli addosso). Tomba, oh! Segreto professionale! Pulejo. Ma sì, diavolo! Non dubitare. Paolino. Per carità! La virtù in persona! E tu non puoi sapere, Nino mio, non puoi sapere quanta pietà m’ha inspirato, per tutte le lagrime che ha pianto, quella povera signora! E che bontà! che nobiltà di sentimenti! che purezza! Ed è pure bella! L’hai vista? Pulejo. No… Col velo abbassato…

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Paolino. È bella! Fosse brutta, capirei. È bella! Ancora giovane! E vedersi trattata così, tradita, disprezzata e lasciata in un canto, là, come uno straccio inutile… Vorrei vedere chi avrebbe saputo resistere! chi non si sarebbe ribellata! E chi può condannarla? Quasi venendogli con le mani in faccia:

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Tu oseresti condannarla? Pulejo. Io no! Paolino. Vorrei veder questa, che tu la condannassi! Pulejo. Ma no! Se è vero che il marito la tratta così… Paolino. Così! Così! Non metterai in dubbio, spero, la mia parola! Pulejo. Ma nient’affatto! Paolino. E allora, amico mio, dammi súbito una mano per salvarla, perché questa donna si trova adesso come sospesa all’orlo d’un precipizio. Ajutami, ajutami, prima che precipiti giù! Bisogna salvarla! Pulejo. Già… ma come? Paolino. Come? E non intendi quale può essere il precipizio per lei, lasciata lì da tre anni dal marito? Si trova… si trova purtroppo… Pulejo (lo guarda, crede di capire e non vorrebbe). Che…? Paolino (esitante, ma in modo da non lasciar dubbio). Sì… in una… in una terribile situazione… disperata… Pulejo (irrigidendosi e guardandolo ora severamente e freddamente). Ah, no no, caro! Ah, non faccio di queste cose2, io, sai? Non voglio mica aver da fare col Codice Penale, io! Paolino (con uno scatto pieno di stupore e di sdegno). Pezzo d’imbecille! E che ti figuri adesso? che ti figuri che io voglia da te? Pulejo. Come, che mi figuro! Sono medico… e se mi dici che si trova… Paolino. Pezzo d’asino! E per chi m’hai preso? Ma quella è una donna onesta! Quella, ti dico, è la virtù fatta persona! Pulejo. E via… lasciamo andare! Paolino. No! Senza lasciare andare! È così come ti dico! Pulejo. Sarà! Ma scusa, non mi domandi…? Paolino (incalzando). Che ti domando? Vuoi che ti domandi un delitto? Una immoralità di questo genere, per lei e per me stesso? Mi credi un birbaccione capace di tanto? che chieda il tuo ajuto per… Oh! mi fa schifo, orrore, solo a pensarlo! Pulejo (perdendo del tutto la pazienza). Ma insomma: mi dici che corno vuoi, allora, da me? – Io non-ti – ca-pi-sco! Paolino (imperterrito). Quello che è giusto, voglio! Voglio quello che è onesto e morale! Pulejo. Che cosa? Paolino (a gran voce). Che Perella sia un buon marito – voglio! Che non sbatta più la porta in faccia alla moglie, quando sbarca qui! – Questo voglio! Pulejo. E lo vuoi da me, questo? Scoppia in una interminabile risata.

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Ah! ah! ah! ah! E che pre… e che pre… e che pretendi… ohi ohi ohi… ah… ah… ah… pre… pretendi che costringa l’asino a bere per forza? ah! ah! ah! Paolino (mentre il dottore seguita a ridere, guardandolo in bocca). Che ridi, che ridi, animalone? C’è in vista una tragedia, e tu ridi? una donna minacciata nell’onore, nella vita, e tu ridi? E non ti parlo di me!

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Risolutamente, stringendo le braccia al dottore:

2. non faccio … cose: il dottore ha capito che l’amico gli chieda di praticare un aborto.

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Oh! Sai che avverrà? Truce:

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Perella, imbarcato da tre mesi, arriva questa sera. Passerà qui soltanto una notte. Questa notte. Ripartirà domani per il Levante, e starà fuori, per lo meno, altri due mesi. Hai capito ora? Bisogna assolutamente approfittare di questo giorno ch’egli passa qui, o tutto è perduto! Pulejo (frenando a stento le risa). Va bene, va bene; ma… ma io… Paolino. Non ridere! non ridere, o ti strozzo! Pulejo. Non rido, no! Paolino. O anche ridi, ridi, se vuoi, della mia disperazione; ma dammi ajuto, per carità! Tu avrai un rimedio… – sei medico – tu avrai un mezzo… Pulejo. Per impedire che il capitano prenda un pretesto d’attaccar lite questa sera con la moglie? Paolino. Precisamente! Pulejo. Per la morale, è vero? Paolino. Per salvare quella povera martire e me! Seguiti a scherzare? Pulejo. No – mi interesso, vedi? – Ma se questo capitano… – Scusa: quant’anni ha? Paolino. Non so. Una quarantina. Pulejo. Ah, ancora in gamba? Paolino. Un bestione! Pulejo. M’hai detto che torna da un viaggio di tre mesi? Paolino. Già, sì; ma ha già toccato Napoli, capisci? Pulejo. Ah… dove ha l’altra casa? Paolino. Precisamente. – Manigoldo! – E fa sempre così! Pulejo. Tocca prima Napoli? Paolino. Napoli! Pulejo. Bisogna che pensi allora questa sera – assolutamente – che ha una casa anche qui? Paolino. Una moglie! Pulejo. Che lo aspetta… Paolino (avvertendo un sapor d’ironia nel tono del dottore e irritandosene). Ah, senti! Vorresti discutere? Pulejo. No! no! Dio me ne guardi! – Il torto è suo! – Ma ecco… c’è… c’è forse qualche… sì, dirò… qualche cosa di più… Paolino. No: nient’affatto! non c’è altro che il suo torto, e le conseguenze di esso! Pulejo. Già, ecco, sì… una conseguenza che forse avresti potuto… Paolino (subito, interrompendo). Ma chi l’ha voluto? – Né io, né lei! – Questo è positivo! – Ora, scusa: chi è imputabile? L’intenzione, è vero? Non il caso. – Se tu l’intenzione non l’hai avuta! – Resta il caso. – Una disgrazia! – Guarda: è come se tu avessi una terra, e la lasciassi abbandonata. – C’è un albero in questa terra, e tu non te ne curi. Come se fosse di nessuno! – Bene. Uno passa. – Coglie un frutto di quell’albero; se lo mangia; butta via il nocciolo. – Lo butti… così, per il solo fatto che hai colto quel frutto abbandonato. – Bene. Un bel giorno, da quel nocciolo là ti nasce un altro albero! – L’hai voluto? – No! – Né lo ha voluto la terra che ha ricevuto… così… quel nocciolo. – Scusa: l’albero che nasce a chi appartiene? – A te, che sei il proprietario della terra! Pulejo. A me? – Ah no, grazie! Paolino (lo investe subito, furibondo, afferrandolo per le braccia e scrollandolo). E allora guàrdati la terra, perdio! guàrdati la terra! impedisci che altri vi passi e colga un frutto dall’albero abbandonato! Pulejo. Sì, sì, d’accordo! – Ma tu dici a me, scusa! Io non c’entro! Questo lo farà il capitano!

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Paolino. E deve farlo! deve farlo! – Ma tu dici che lo farà? Pulejo. Dio mio, procureremo di farglielo fare… Paolino (baciandolo con veemente effusione di gratitudine e d’ammirazione). Nino, sei un dio! – Ma di’, di’: come? come? Pulejo. Come… Aspetta…

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Pausa. Sta a pensare.

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Dimmi un po’: mangia in casa il signor Capitano? Paolino. In casa, sì… verso le sei, appena sbarcato. Sono anch’io invitato a tavola. Pulejo. Ah, bene. – E allora… – sì, dico, tu non ci andrai così, suppongo, a mani vuote. Paolino. Perché? – Ah, ho promesso di portare al ragazzo un po’ di paste. Pulejo. Benissimo! Troncando:

175

Senti: va’ a comperare codeste paste. Paolino (non comprendendo ancora). Come? Perché? E tu? Pulejo. Le porti in farmacia, da mio fratello Totò. Paolino. Ma tu che vuoi fare? Pulejo. Aspettami là in farmacia. Il tempo almeno di lavarmi la faccia, santo Dio! M’hai fatto perdere il sonno! [In una cena tra marito, moglie e amante, dopo molti tentativi a vuoto il capitano finalmente si decide a mangiare il dolce. Tra i due amanti vi è un segnale convenuto: se durante la notte lo stratagemma dell’afrodisiaco andrà a buon fine, la mattina dopo la signora Perella esporrà alla finestra un vaso di fiori. All’alba Paolino è angosciato dal fatto di non scorgere alcun vaso, e in un concitato dialogo con il capitano arriva quasi a scoprirsi, ma poi la signora Perella allinea alla finestra ben cinque vasi.] L. Pirandello, L’uomo, la bestia e la virtù, in Maschere nude, a cura di A. D’Amico, Mondadori, Milano 1993, III edizione 1999, vol. II

Analisi del testo Le differenze fra i due testi

Le affinità

458

> differenze e affinità fra i due intrecci

L’intreccio comico pirandelliano è per vari aspetti diverso da quello della Mandragola: nel testo di Machiavelli un giovane innamorato riesce a possedere la donna che ama, sposata, virtuosissima e irraggiungibile, facendo leva sul desiderio di avere figli del marito sciocco, con l’inganno della pozione magica che fa ingravidare ma è anche micidiale per il primo uomo che si accosta alla donna che l’ha bevuta; nel testo di Pirandello invece la moglie virtuosa ha già una relazione adultera, di cui il frutto è in arrivo, il marito è tutt’altro che sciocco e non vuole assolutamente altri figli. È comune però a entrambi i testi un motivo tipico della commedia di ispirazione “boccacciana”, l’inganno ai danni di un marito ignaro per attribuire a lui una paternità non sua. Comune è anche l’espediente della pozione, fecondatrice della donna in Machiavelli, afrodisiaca in Pirandello (ma nella Mandragola la pozione è inesistente, è un puro pretesto, mentre in Pirandello è reale e operante). Un altro elemento comune può poi essere il fatto che la moglie, nonostante la sua costitutiva pudicizia, per colpa del marito arrivi a scoprire fuori del matrimonio le gioie del sesso. Ma al di là delle differenze e delle affinità nell’intreccio, ciò che accomuna nel profondo i due testi è la rappresentazione crudele, feroce, delle convenzioni formali, dei vizi, delle ipocrisie, delle bassezze nascoste di un ceto esteriormente rispettabile. In una lettera Pirandello afferma che nella sua commedia è contenuto un veleno «forte» e «amaro»: è una formula che si attaglia benissimo anche alla Mandragola.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

> Il «grottesco» pirandelliano Pessimismo e ammirazione per la «virtù» in Machiavelli La fusione di serio e di comico in Pirandello Ridicolo e sofferenza in Paolino

Il dramma della signora Perella

Il grottesco finale

Le differenze comunque vanno oltre il semplice congegno dell’intreccio, in quanto investono la visione del mondo dei due scrittori e i significati che ne scaturiscono. La Mandragola, benché intrisa di tutto il pessimismo di Machiavelli sulla natura umana e sulla società del suo tempo, è problematizzata dall’ammirazione per la «virtù» (nel tipico senso machiavelliano) di individui abili e spregiudicati nell’ottenere il loro fine. L’uomo, la bestia e la virtù, invece, sotto le apparenze di una commedia salace e boccaccesca, è un grande esempio del «grottesco» pirandelliano, è «una tragedia annegata in una farsa», come la definisce l’autore stesso, in cui il serio e il comico si fondono indissolubilmente, presentandosi l’uno come il riflesso dell’altro, specchio delle contraddizioni assurde della vita. Dietro le situazioni da farsa grassoccia si delinea l’infelicità di Paolino (come ben risalta dalla scena riportata), da un lato ridicolo nelle sue smanie e anche nel suo ipocrita moralismo, ma dall’altro straziato dalla sofferenza, innamorato di una donna che non può essere del tutto sua alla luce del sole, terrorizzato dalle conseguenze terribili dell’adulterio, costretto a offrire la donna amata alla «bestia» come una merce per scampare al pericolo. In parallelo vi è il dramma della signora Perella, vittima della prepotenza del marito bestiale e adultero, condannata a patire in silenzio ogni sorta di umiliazioni, obbligata a fare forza alla sua naturale onestà e a macchiarsi della colpa dell’adulterio per potersi sentire ancora considerata come donna. Il grottesco è estremo nel finale della commedia, quando la signora Perella è costretta a pararsi in modo ridicolo come una prostituta per sollecitare il desiderio del marito, ma al tempo stesso si presenta come una santa martire che va al sacrificio (che è poi una frenetica notte di sesso).

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Delinea, in base al testo, il personaggio di Paolino sottolineandone i tratti del carattere. > 2. Come interviene nel dialogo il dottor Pulejo? AnALIzzARe

> 3. > 4. > 5.

Quali espedienti stilistici rendono efficacemente le smanie e l’ansietà di Paolino? Quali elementi del testo forniscono indicazioni indispensabili per la messa in scena? Stile Analizza l’intervento di Paolino: «Ma chi l’ha voluto?… A te, che sei il proprietario della terra!» (rr. 146154): su quale figura retorica è impostato il suo ragionamento? > 6. Stile Spiega le ragioni della frammentazione o della mancata frammentazione della sintassi. > 7. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni presenti nel dialogo connotano la signora Perella e il capitano? > 8. Quali vocaboli e/o espressioni rimandano talvolta a un registro colloquiale e perfino basso? Stile Stile

APPRoFondIRe e InTeRPReTARe

> 9.

esporre oralmente Dopo aver letto attentamente il passo della Mandragola di Machiavelli riportato in antologia (p. 444), elabora una scaletta per un’esposizione orale (max 8 minuti), rispondendo alle seguenti domande. a) Come vengono presentati i personaggi di messer Nicia e di sua moglie Lucrezia rispetto ai coniugi dell’opera pirandelliana? b) L’atteggiamento mostrato da Ligurio presenta tratti comuni con quello di Pulejo? Perché? PASSATo e PReSenTe L’autenticità delle passioni e l’ipocrisia delle “maschere”

> 10. La vista chiara, aperta, delle passioni – e siano anche le più tristi, le più angosciose – ha il potere, lo so,

di promuovere le risa di tutti! Sfido! non le avete mai provate, o usi come siete a mascherarle (perché siete tutti foderati di menzogna!), non le riconoscete più in un pover’uomo come me, che ha la sciagura di non saperle nascondere e dominare!

Discuti con i compagni e con l’insegnante la validità dell’affermazione di Paolino riferita alla società odierna: è possibile vivere le passioni in modo autentico? È possibile relazionarsi con gli altri senza ipocrisie? Il tema della “maschera”, caro a Pirandello, ha ancora senso per l’uomo di oggi?

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Che CoSA CI dICono AnCoRA oGGI I CLASSICI Video Fortuna e attualità del Principe

Machiavelli LA «VeRITà eFFeTTuALe deLLA CoSA» Il dominio attuale delle scienze Oggi la scienza, nella ricerca pura e nelle applicazioni tecnologiche e pratiche, occupa un posto determinante nella vita collettiva come nella nostra vita individuale: è la medicina che tutela la nostra salute e che ha fatto progressi impensabili solo pochi decenni fa, la scienza farmacologica che ci fornisce le cure, la chimica che è alla base di infiniti prodotti di uso comune (e che purtroppo in larga parte contribuisce all’inquinamento), la biologia che può intervenire sulla vita, la ricerca di fonti energetiche alternative, la fisica nucleare che non produce solo bombe, l’informatica. Il metodo sperimentale Sono tutte scienze sperimentali, nate dalla rivoluzione scientifica moderna. Come allora non sentire vicino a noi il modo di ragionare di Machiavelli che, prima ancora di Galileo, è all’origine del metodo sperimentale (sia pure in un altro campo, quello delle scienze umane)? Ci affascinano sempre il suo ragionare rigoroso e la sua logica stringente e implacabile: che tuttavia non parte da princìpi universali, astratti e indimostrati, ma dall’osservazione della realtà concreta, empiricamente verficata, mettendo insieme tutti i dati offerti dall’esperienza, sia quella vissuta direttamente sia quella ricavata dalla storia. L’antidoto alle tendenze irrazionalistiche Ma poi c’è l’altra faccia della nostra età iperscientifica e ipertecnologica, quella oscura e irrazionalistica, che vede il dilagare di superstizioni, di suggestioni magiche, esoteriche, sataniche, paranormali, ufologiche, o l’affermarsi di credenze infondate e “leggende metropolitane” (tanto per dire le scie chimiche degli aerei che sarebbero frutto di un complotto per sterminare l’umanità, o la pericolosità dei vaccini, e simili), che trovano nella rete un canale di diffusione di massa, favorito dal basso livello comune di istruzione e dall’ottundimento del senso critico prodotto dai mass­me­ dia martellanti. Il Machiavelli lucido indagatore della «verità effettuale della cosa», che si basa sull’osser-

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vazione diretta e critica dei dati e non sull’«immaginazione», può essere un utile antidoto contro queste tendenze, inducendoci sempre a cercare la prova nei dati, prima di credere a qualche cosa.

LA PoLITICA Machiavelli è spesso oggi preso a modello da politici privi di scrupoli, da manager rampanti o finanzieri d’assalto: ma è un Machiavelli deformato e travisato. Certo a livello teorico, nel Principe, è anche lo spietato indagatore della politica com’è, non come dovrebbe essere, e dei suoi metodi contrari alla morale. Le buone leggi e il vivere civile Ma, se si tiene presente un testo complementare e indispensabile come i Discorsi, il messaggio che si può ricavare nel complesso dalle sue pagine è un altro, è quello che nasce dalle sue aspirazioni e convinzioni profonde: il forte senso del bene comune, il culto delle buone leggi, che assicurino un vivere civile ordinato, contenendo le spinte egoistiche che sono insite nella natura umana e cementando la solidarietà dei cittadini, l’avversione per la «tirannide» e l’amore per la libertà. Regimi autoritari e libertà oggi Sono tutte aspirazioni che ci parlano direttamente oggi, quando la politica è spesso, come si può constatare, pura ricerca del potere o del tornaconto personale, quando sono in piedi tanti regimi autoritari o oscurantisti, che soffocano le libertà dei cittadini (o meglio dei sudditi), oppure vi sono regimi formalmente democratici in cui la libertà è subdolamente limitata da occulti condizionamenti. L’unità nazionale Non solo, ma in un’epoca in cui spinte separatiste più o meno aperte tendono a mettere in questione l’unità nazionale, il pensiero di Machiavelli, teso a indicare i mezzi per costruire in Italia un forte Stato moderno contro la disgregazione in tanti staterelli impotenti, può aiutarci a ricordare il valore insostituibile di tale unità: che non solo è garanzia di stabilità e indipendenza, ma anche di omogeneità culturale e di sviluppo economico, e ci ammo-

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

nisce che una nuova frammentazione potrebbe solo portare debolezza e regresso in tutti i campi, nonché insignificanza sul piano internazionale. Il rifiuto del fatalismo Come già per Boccaccio, dalle pagine di Machiavelli ci parlano direttamente sia il rifiuto del fatalismo che induce all’accettazione passiva dell’esistente, sia la fiducia nell’iniziativa umana che può vincere le avversità: un monito ben vivo per noi, ancora immersi in una crisi che genera sconforto e rassegnazione. Come teorizza l’ultimo capitolo del Principe, è proprio l’aver toccato il fondo la condizione migliore per trovare la spinta a risalire.

LA CoRRuzIone deLLA SoCIeTà Questo è il Machiavelli teorico e pensatore. La Mandragola, corruzione e ipocrisia Ma c’è anche lo scrittore della Mandragola, che ci dà un ritratto critico di straordinaria acutezza e cattiveria di una società corrotta e ipocrita, mossa solo da bassi appetiti mascherati sotto apparenze rispettabili: un ritratto che sembra parlare di noi e del nostro tempo.

LA LInGuA Le pagine di Machiavelli possono essere per noi anche un modello di come usare la lingua: certo, la lingua del Principe e dei Discorsi è ormai diversa dalla nostra, a causa del tempo trascorso, e può apparire difficile specialmente agli studenti, ma la sua vivezza, la forza, la precisione, l’immediatezza incisiva, aliena da inutili ornamentazioni retoriche, possono indicarci come combattere gli attuali aspetti della lingua italiana, condizionati dai mass media e soprattutto dalla televisione: la povertà, l’improprietà e l’approssimazione, l’uso continuo di frasi fatte e luoghi comuni, oppure le pesanti e oscure circonlocuzioni del linguaggio politico e burocratico, che sembrano avere per fine principale l’esclusione dei cittadini dalla comprensione dei fatti dei problemi. Werner Horvath, Niccolo Machiavelli, color pencils on paper, part., 32 x 24 cm, Crete 1999.

461

L’età del Rinascimento

Facciamo il punto L’eSPeRIenzA dI VITA

1. Individua le esperienze della vita politica e diplomatica più significative della vita di Machiavelli. 2. Nella vita di Machiavelli che cosa rappresentò l’esilio? 3. Come si rapportò Machiavelli a Savonarola? E a Pier Soderini? LA FoRMAzIone

4. Quali legami ebbe Machiavelli con i gruppi di pensiero operanti nella Firenze del suo tempo, quali i

platonici e gli aristotelici? 5. Quale importanza ebbero gli studi filologici e la conoscenza dei classici per la sua cultura? IL ModeLLo deLL’InTeLLeTTuALe

6. Quale tipo d’intellettuale rappresenta Machiavelli? Quale fu il suo rapporto con la politica? Con lo Stato? Con la produzione letteraria? Con gli antichi? Le oPeRe

7. Compila la seguente tabella. opere

Genere

Temi trattati

Pubblico

Legazioni e commissarie

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.................................................................

Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati

.................................................................

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Ritratto delle cose della Magna

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Principe

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.................................................................

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

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.................................................................

.................................................................

Arte della guerra

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Istorie fiorentine

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Mandragola

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Clizia

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Belfagòr arcidiavolo

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.................................................................

.................................................................

8. In che cosa il Principe si differenzia dalla trattatistica politica precedente? 9. Rifletti sul rapporto tra virtù e fortuna delineato nel Principe. 10. Rifletti sulle eventuali affinità tra il Principe e la Mandragola.

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Ripasso visivo

nICCoLò MAChIAVeLLI (1469-1527) Ripasso interattivo

eLeMenTI BIoGRAFICI

• Nato a Firenze da un’agiata famiglia borghese, riceve una buona educazione umanistica fondata sui classici latini • Segretario della Repubblica fiorentina dal 1498 al 1512, è allontanato dalla politica attiva con il ritorno dei Medici (1512) e si dedica alla riflessione teorica e alla letteratura

• Dopo la morte di Lorenzo de’ Medici torna alla vita politica (1525-27), ma ristabilitasi la Repubblica è di nuovo escluso dai pubblici incarichi sino agli ultimi anni di vita

PoeTICA e PenSIeRo

• Ogni riflessione deve partire dalla “verità effettuale

della cosa” (fusione teoria/prassi): inaugura così il metodo della scienza moderna • Introduce la separazione tra politica e morale • Analizza il rapporto tra virtù e fortuna rifiutando l’atteggiamento fatalista • Ha una visione laica e pessimistica della realtà umana

• Propone una via d’uscita alla decadenza degli Stati italiani

• Introduce il principio dell’imitazione anche in campo politico

• Considera i classici come fonte insostituibile di testimonianze ed esempi

PRInCIPALI oPeRe oPeRe dI RIFLeSSIone PoLITICA

ePISToLARIo

• lettere private ad

amici e conoscenti, spunti autobiografici e riflessioni sulla politica



Principe



Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Arte della guerra •

I DISCORSI Struttura e temi

• Riflessioni politiche suggerite

dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Livio (gli inizi della Roma repubblicana) • In tre libri, analizza la politica interna ed estera di Roma, l’espansione dell’Impero, le azioni di singoli cittadini che hanno contribuito a rendere grande la città

Finalità dell’opera

• La storia romana è considerata un esempio valido per ogni tempo, da cui ricavare princìpi universali per l’azione politica

oPeRe SToRIChe

• Istorie fiorentine • Vita di Castruccio Castracani

IL PRINCIPE Struttura e temi

oPeRe LeTTeRARIe

• Belfagor arcidiavolo • Mandragola • Clizia

LA MANDRAGOLA Struttura e temi

• Trattato politico in ventisei capitoli strutturato

• Commedia in prosa divisa in

• Esamina i vari tipi di principato, i modi per

• Sul modello della commedia

sul modello degli specula principis

conquistarlo e mantenerlo, le virtù che un principe deve possedere, il problema delle milizie e il ruolo della fortuna nelle azioni umane

Finalità dell’opera

• Opera politica militante, vuole esortare un

principe nuovo ed energico a prendere in mano le sorti d’Italia e liberarla dagli eserciti stranieri

Lingua e stile

cinque atti

latina, mette in scena una storia d’amore contrastato, che si risolve felicemente grazie ad una beffa ordita ai danni di uno sciocco

Lingua e stile

• Scritta in fiorentino parlato, si

distingue anche per la caratterizzazione linguistica dei personaggi

• La lingua scelta è il fiorentino contemporaneo (teoria fiorentinista)

• Lontana dallo stile aulico, la prosa risulta chiara ed immediata

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L’età del Rinascimento

In sintesi

nICCoLò MAChIAVeLLI (1469-1527) Verifica interattiva

Niccolò Machiavelli rappresenta un punto di riferimento fondamentale per gli sviluppi successivi del pensiero politico europeo. Nonostante la sorprendente modernità della sua riflessione, egli incarna uno degli ultimi esempi di quel connubio tra cultura e impegno nell’ambito pubblico che affonda le proprie radici nella tradizione comunale medievale. In questo senso la sua figura si comprende solo alla luce dell’Umanesimo civile di Firenze, che nel Quattrocento aveva concepito la letteratura come difesa dei valori cittadini.

L’ePISToLARIo La personalità privata, il pensiero politico, gli interessi culturali di Machiavelli emergono con immediatezza dalla raccolta delle lettere, tutte reali e non scritte in vista della pubblicazione, che offrono inoltre preziose informazioni biografiche. Famosissima è quella indirizzata nel 1513 all’amico Francesco Vettori, nella quale si accenna alla composizione del Principe.

GLI SCRITTI PoLITICI deL PeRIodo deLLA SeGReTeRIA Al periodo in cui Machiavelli fu segretario della seconda cancelleria risalgono scritti connessi con quella funzione: le Legazioni e commissarie (relazioni e dispacci ufficiali relativi alle varie missioni diplomatiche); brevi interventi su questioni di attualità; opere di riflessione sull’organizzazione politica di paesi stranieri.

IL PRINCIPE La fama di Machiavelli è legata soprattutto al trattato politico il Principe, composto nel 1513 e successivamente dedicato a Lorenzo de’ Medici. L’opera si riallaccia alla tradizione degli specula principis, scritti diffusi sin dal Medioevo che delineano la figura del sovrano ideale; a differenza di questi, tuttavia, il Principe non intende proporre un modello di perfezione sotto il profilo morale, bensì fornire indicazioni ai politici contemporanei, perché adottino i mezzi più efficaci per conquistare e mantenere il potere. Tale finalità si spiega alla luce dell’esigenza, avvertita come inderogabile da Machiavelli, che si formi in Italia una compagine statale forte, in grado di contrastare le mire egemoniche degli Stati europei. L’attenzione alla realtà, alla «verità effettuale», caratterizza la trattazione, che muove sempre induttivamente dall’esperienza dei fatti, sia quelli contemporanei sia quelli passati, per ricavare da essi le “leggi” della politica. Tale attenzione si riflette anche a livello stilistico, nella scelta di una forma agile e concreta, di grande efficacia e modernità.

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L’uoMo, LA PoLITICA e LA MoRALe Il pensiero politico di Machiavelli si fonda su una concezione pessimistica degli uomini, considerati malvagi, naturalmente portati a soddisfare interessi egoistici e materiali. Per garantire il bene comune, il principe deve confrontarsi con questo dato di fatto e saper essere buono o «non buono» a seconda delle circostanze. La «virtù» politica infatti non ha nulla a che vedere con le qualità etiche, ma coincide piuttosto con la capacità di sfruttare le occasioni favorevoli a proprio vantaggio e di dominare la fortuna. Machiavelli distingue dunque chiaramente il giudizio politico da quello morale, ed è una distinzione che prelude alla nascita della politica come scienza autonoma.

I DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO È un’opera di difficile definizione dal punto di vista del genere letterario, composta probabilmente fra il 1517 e il 1518: si tratta di riflessioni politiche suggerite dalla lettura dei libri storici di Tito Livio (I secolo a.C.). Convinto che gli eventi passati possano costituire esempi validi per ogni tempo, poiché anche nelle vicende umane, come in tutti i fenomeni della natura, agiscono leggi universali, Machiavelli parte dalla storia romana per svolgere considerazioni sulla situazione presente. La finalità dell’opera, dunque, è analoga a quella del Principe.

L’ARTE DELLA GuERRA e Le oPeRe SToRIChe Tra i fattori di debolezza degli Stati italiani, Machiavelli indica già nel Principe il ricorso a truppe mercenarie, che egli ritiene meno affidabili di quelle formate da soldati-cittadini. Questo argomento è ripreso e sviluppato nell’Arte della guerra (1519-20), un trattato che affronta anche gli aspetti tecnici della gestione delle milizie. Al medesimo periodo risalgono due opere storiografiche: le Istorie fiorentine (1519-25), che ripercorrono la storia di Firenze ricercando nel passato le cause dell’attuale decadenza della città; la Vita di Castruccio Castracani (1520), che ricostruisce la vita del condottiero vissuto nel Trecento, proponendolo come esempio di capacità politica.

Le oPeRe LeTTeRARIe: LA MANDRAGOLA La produzione prettamente letteraria di Machiavelli, comprende poemetti in terzine, novelle (tra cui Belfagòr arcidiavolo) e due commedie. Particolare interesse riveste una di queste ultime, la Mandragola (1518). Pur rifacendosi agli schemi della commedia latina, Machiavelli ambienta la vicenda nella Firenze contemporanea, dando veste comica a quella stessa visione pessimistica dell’uomo che esprime anche nei trattati politici. Come nel Principe, la polemica contro l’immoralità e l’egoismo si accompagna a una certa ammirazione per l’astuzia dei personaggi che sanno controllare gli eventi e sfruttare le situazioni opportune.

Capitolo 6 · Niccolò Machiavelli

Bibliografia La critica

` EdIZIONI dELLE OPERE

Per la ricerca nel web

Si cita da Opere, a cura di S. Bertelli e F. Gaeta, introduzione di G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1960-65. Tra le numerose edizioni integrali della produzione machiavelliana si ricordano Opere, a cura di E. Raimondi, Mursia, Milano 1966 • Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971 • Opere, a cura di vari, utet, Torino 1971-89 • Opere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1997-2005.

` EdIZIONI dI sINGOLE

OPERE del Principe: a cura di G. Sasso, La Nuova Italia, Firenze 1963 • a cura di D. Cantimori e S. Andreatta, Garzanti, Milano 1977 • a cura di L. Firpo, con introduzione e note di F. Chabod, Einaudi, Torino 1984 • a cura di T. Albarani, Mondadori, Milano 1986 • a cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 1987 • edizione critica a cura di G. Inglese, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma 1994 (il testo è riprodotto in un’edizione più accessibile presso Einaudi, Torino 1995); tra le più recenti edizioni si segnala quella curata da Carmine Donzelli (Donzelli editore, Roma 2013); dei Discorsi: a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983 • a cura di G. Sasso, G. Inglese, Rizzoli, Milano 1984 • a cura di S. Bertelli, Feltrinelli, Milano 1987; del teatro: La mandragola, a cura di R. Ridolfi, Olschki, Firenze 1965 • Teatro. Andria, Mandragola, Clizia, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1979 • La mandragola, a cura di G. Sasso, G. Inglese, Rizzoli, Milano 1980 • La mandragola, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1980 • Il teatro e tutti gli scritti letterari, a cura di F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1981.

` BIBLIOGRAFIA Bibliografia machiavelliana, a cura di S. Bertelli, P. Innocenti, Valdonega, Verona 1979-82 (1969).

` sTORIA dELLA cRITIcA

F. Fido, Machiavelli, Palumbo, Palermo 1975 (1965) • C. F. GoFFis, Niccolò Machiavelli, in AA.VV., I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, La Nuova Italia, Firenze 1967.

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P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, Milano 1912 • r. ridolFi, Vita di Niccolò Machiavelli, Berladetti, Roma 1954 (ultima edizione, Sansoni, Firenze 1978).

` sTudI cRITIcI suL

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MAchIAvELLI scRITTORE G. BàrBeri squarotti, La forma tragica del «Principe» e altri saggi sul Machiavelli, Olschki, Firenze 1966 • G. Ferroni, “Mutazione” e “riscontro” nel teatro di Machiavelli, Bulzoni, Roma 1972 • n. Borsellino, Niccolò Machiavelli, Laterza, Roma-Bari 1973 • G. daViCo Bonino, Introduzione alla Mandragola, Einaudi, Torino 1980 • G. BàrBeri squarotti, Machiavelli o la scelta della letteratura, Bulzoni, Roma 1987 • G. inGlese, La «Mandragola» di N. Machiavelli, in Letteratura italiana. Le opere, op. cit., pp. 1009-1030 • e. raimondi, Il veleno della «Mandragola», in I sentieri del lettore. Da Dante a Tasso, Il Mulino, Bologna 1994 • r. alonGe, Quella diabolica coppia di Messer Nicia e madonna Lucrezia, in “Il castello di Elsinore”, X (1999), n. 34, pp. 5-24 • G. BarBarisi, a. m. CaBrini, Il Teatro di Machiavelli. Atti del convegno di Gargnano del Garda (30 settembre-2 ottobre 2004), Cisalpino, Milano 2005 • M. marietti, Machiavelli, l’eccezione fiorentina, Cadmo, Fiesole 2005 • M. C. FiGorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, Liguori, Napoli 2006 • s. larosa, Una metamorfosi ridicola. Studi e schede sulle lettere comiche di Niccolò Machiavelli, 2008.

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PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Ambito letterario e politico Gabriele Pedullà

Machiavelli, lo scienziato prestato alla politica Gabriele Pedullà (1972) è uno scrittore e critico letterario, professore di Letteratura italiana presso l’Università di Roma 3. Il testo seguente è tratto da un suo articolo pubblicato sulla “Domenica” de “Il Sole 24 Ore”.

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La prima cosa che Machiavelli ci ricorda è che le crisi giungono improvvise soltanto perché non sappiamo riconoscere gli infiniti segni che le preannunciano. Tutto il Principe è pieno di riferimenti alle illusioni ottiche della politica alla luce dell’amara considerazione che la maggior parte degli uomini riconosce i problemi quando questi sono cresciuti al punto che non è quasi più possibile risolverli. I grandi rivolgimenti non nascono dalla fortuna ma dalla mancanza di osservazione e dalla incapacità di costruire in anticipo argini abbastanza saldi da resistere allo straripare del fiume, quando la piena finalmente arriva. Ma la descrizione machiavelliana dell’Italia alla vigilia della discesa di Carlo VIII, con la sua amara ironia su «i grandi spaventi, le sùbite fughe e le miracolose perdite», potrebbe essere trasferita senza difficoltà all’euforia dei mercati finanziari prima che scoppiasse la bolla1. Nessuno ha visto niente. Eppure i segnali c’erano tutti: mentre la prudenza politica – lamenta Machiavelli – consiste precisamente nella capacità di leggere in anticipo gli indizi. È questo il passo preliminare per chiunque voglia uscire da una crisi: individuare i punti deboli e da lì muovere per rimediare al disastro presente. Nel caso di Machiavelli questa ricerca dell’origine del male si concretizzò in un processo di riforma militare, per dare a Firenze un’armata di soldati reclutati nel contado con cui sostituire le inaffidabili e poco combattive truppe mercenarie. Ma l’altra lezione di Machiavelli di fronte al tracollo italiano è che in casi come questi i palliativi2 e i piccoli correttivi non servono: proprio come non serve “temporeggiare” su un problema senza mai affrontarlo. A una crisi di sistema bisogna rispondere con una riforma di sistema: oggi come ieri.

1. bolla: aumento ingiustificato del prezzo di alcuni beni, servizi o prodotti finanziari associato a una domanda crescente, a cui segue una brusca riduzione del valore. Qui ci si

466

riferisce al fallimento, il 15 settembre del 2008, di una delle istituzioni finanziarie più importanti degli Stati Uniti, la banca d’affari Lehman Brothers. L’evento ha determinato una grave crisi

economica internazionale che ha colpito anche l’Italia. 2. palliativi: rimedi poco efficaci, che non eliminano le vere cause di un problema.

Nuovo esame di Stato

25

Rispetto a noi, Machiavelli aveva ben chiaro a chi i suoi contemporanei avrebbero dovuto guardare per uscire dall’impasse3. Il modello di riferimento da tenere costantemente sotto gli occhi erano i Romani: alla cui storia è dedicata infatti la più importante e ambiziosa delle sue opere, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. (G. Pedullà, Machiavelli, lo scienziato prestato alla politica, in “Domenica” de “Il Sole 24 Ore”, 8 agosto 2010)

3. impasse: situazione senza apparente via di uscita.

COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Riassumi il contenuto del testo in circa 70 parole.

> 2. Qual è la tesi di fondo sostenuta da Gabriele Pedullà? > 3. Quali sono le affermazioni di Machiavelli a cui Pedullà fa riferimento per sostenere la propria tesi?

> 4. Qual è il significato della metafora «incapacità di costruire in anticipo argini abbastanza saldi da resistere allo straripare del fiume, quando la piena finalmente arriva» (rr. 6-8)? Spiegala con le tue parole.

PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno all’articolo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri). Nel passo il critico Gabriele Pedullà confronta il momento storico descritto da Machiavelli con l’epoca contemporanea: emerge l’idea che nella storia si ripetano spesso, in epoche diverse, situazioni analoghe e che gli uomini non riescano a imparare dai propri errori. Se sei d’accordo con questa tesi, sostienila con ulteriori argomenti, anche toccando aspetti non ancora presi in considerazione. Se intendi sostenerne un’altra, porta elementi a favore della tua posizione. In entrambi i casi puoi riferirti ad esempi della storia e della realtà attuale, avvalendoti delle tue conoscenze ed esperienze. Argomenta in modo tale da organizzare il tuo elaborato in un testo coerente e coeso che potrai, se lo ritieni utile, suddividere in paragrafi.

467

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito storico e politico argomento

I mezzi dell’attività politica

Il fine giustifica i mezzi. Ma chi giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato? Ogni fine che si proponga l’uomo di Stato è un fine buono? Non deve esservi un criterio ulteriore che permetta di distinguere fini buoni da fini cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini buoni? (N. Bobbio, Etica e politica, in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1993)

Norberto Bobbio (1909-2004), filosofo della politica, nel saggio Etica e politica pone una serie di domande retoriche, derivate dall’espressione proverbiale “il fine giustifica i mezzi”, per affermare che gli scopi perseguiti da un uomo politico non sono tutti necessariamente “buoni” e che la scelta di “mezzi cattivi” rischia di corrompere il fine stesso. A tuo giudizio è accettabile l’idea che i politici, in nome di un bene superiore, si servano di qualsiasi mezzo? Oppure concordi con la riflessione di Bobbio? Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto.

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PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito letterario e sociale argomento

La lezione degli antichi

Machiavelli nella Lettera a Francesco Vettori ( T1, p. 362) descrive il dialogo immaginario che tiene ogni sera con gli scrittori antichi attraverso la lettura delle loro opere: da questi testi, infatti, egli può ricavare importanti lezioni che nutrono il suo animo e gli consentono di analizzare meglio il mondo in cui vive. Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto [melma], et mi metto panni reali et curiali [adatti alle corti]; et rivestito condecentemente [con decoro] entro nelle antique corti degli antiqui huomini [incontro gli antichi scrittori], dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo [lo studio], che solum è mio, et che io nacqui per lui. Conosci qualche situazione in cui la conoscenza del passato avrebbe potuto o potrebbe aiutare le persone a comprendere meglio se stesse e il mondo che le circonda? Sviluppa l’argomento basandoti sulle tue conoscenze ed esperienze e assegna un titolo generale al tuo elaborato. Se lo ritieni opportuno puoi organizzare il discorso in paragrafi, preceduti da titoli specifici.

469

Capitolo 7

Francesco Guicciardini Machiavelli e Guicciardini A lungo la figura di Guicciardini è stata subordinata a quella di Machiavelli, nel giudizio di una critica che guardava anche all’impegno dello scrittore nei confronti della realtà storica e politica del suo tempo: ad esempio il più grande saggista e storico ottocentesco della letteratura italiana, Francesco De Sanctis, valutava positivamente un’opera come quella di Machiavelli, volta a trovare i rimedi che risolvessero i mali dell’Italia, liberandola dallo straniero, mentre condannava l’atteggiamento all’apparenza scettico e disincantato di Guicciardini, giudicandolo privo di passione civile e di contenuti morali.

La crisi dell’Italia e il «particulare» Le cose non stanno propriamente così e, in realtà, il discorso è più complesso. La sfiducia di Guicciardini, di fronte alla gravissima crisi di quegli anni, nasce dalla consapevolezza profonda del fatto che l’Italia è ormai irrimediabilmente tagliata fuori dai giochi politici delle grandi nazioni europee e non è quindi possibile ricavare dal passato quegli insegnamenti che Machiavelli riteneva utili per risol-

È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze (Ricordi)

470

La precarietà della vita e la relatività delle vicende umane Ne risulta un senso della precarietà della vita che, non potendo più ispirarsi a dei modelli esemplari, deve fare i conti solo con se stessa, con l’azzardo delle proprie scelte ma anche delle responsabilità che di volta in volta occorre assumersi. Si tratta di prendere atto del carattere relativo delle vicende umane per saper orientare il proprio comportamento all’interno di una visione della storia sostanzialmente critica e pessimistica, dove l’uomo è chiamato ad affrontare in solitudine, privo delle certezze del passato, le difficoltà dell’esistenza. In questo senso la “classicità” di Guicciardini coincide con la sua “modernità”, anticipando i dubbi e le perplessità di chi – da Leopardi ad ampie fasce della letteratura novecentesca – insisterà sulla condizione negativa dell’esperienza umana.

vere i problemi del presente. Se Machiavelli crede ancora nei valori universali tramandati dal mondo classico, Guicciardini concentra la sua attenzione sul carattere contingente dei singoli fatti, su quel «particulare» che deve essere analizzato in sé, senza essere ricondotto a schemi prestabiliti. Di qui l’abile concretezza con cui seppe svolgere gli incarichi pubblici che gli vennero affidati; ma di qui anche l’importanza che assumono, nella sua visione della storia e dell’individuo, le combinazioni del caso e quegli imprevisti che rischiano, a ogni momento, di far fallire i progetti dell’uomo.

Con la lunghezza del tempo si spengono le città e si perdono le memorie delle cose (Ricordi) 471

L’età del Rinascimento

1 Gli studi

Ambasciatore in Spagna

Governatore e commissario dell’esercito pontificio

La vita La formazione e la carriera pubblica Francesco Guicciardini nacque, da una famiglia appartenente alla ricca oligarchia cittadina, nel 1483 a Firenze, dove seguì le lezioni di diritto civile del celebre maestro Francesco Pepi. Dal 1500 soggiornò a Ferrara per due anni per poi proseguire gli studi a Padova. Rientrato a Firenze nel 1505 vi esercitò, benché non ancora laureato, l’incarico di istituzioni di diritto civile, compiacendosi per il proprio successo accademico, che sarebbe culminato, nel novembre dello stesso anno, con il brillante esame di laurea in diritto civile e l’inizio della carriera dell’avvocatura. Nel 1506 Francesco si sposò, contro il volere paterno, con Maria Salviati, appartenente a una famiglia che si opponeva a Pier Soderini, gonfaloniere a vita della città. Ma Guicciardini, che aveva come obiettivo un futuro ruolo politico, considerava soprattutto il prestigio goduto a Firenze dai parenti della moglie, che avrebbero potuto avere nella sua vita un ruolo importante. Al matrimonio fece seguito l’inizio di una carriera pubblica rapida e brillante. Dopo alcuni incarichi ottenuti presso la Signoria, i progressi verso una posizione sempre più eminente hanno il loro coronamento nell’incarico di ambasciatore presso il re di Spagna Ferdinando il Cattolico, che portò Guicciardini ad uscire dalla ristretta cerchia dell’ambiente giuridico fiorentino per entrare, a pieno titolo, nell’ambito della grande diplomazia internazionale. Riflesso dell’allargamento dell’orizzonte politico in cui Guicciardini si muove sono le opere redatte in questo periodo. Dall’esperienza spagnola nacque la Relazione di Spagna (1514), un’analisi lucida e nitida delle condizioni sociali e politiche della penisola iberica. Nel 1513 tornò a Firenze, dove erano rientrati i Medici. Il suo appoggio a questa famiglia sfociò nell’elezione a governatore di Modena (1516) quando al soglio pontificio

Guicciardini e il suo tempo Storie fiorentine Discorsi politici Studia diritto civile a Ferrara, Padova e Firenze, dove si laurea

Nasce a Firenze

Matrimonio con Maria Salviati e inizio della carriera pubblica

È ambasciatore di Firenze presso il re di Spagna

Periodo giovanile

1483

1494 1498 1500-05

Carlo VIII scende in Italia, dove inizia un periodo di conflitti. A Firenze i Medici vengono cacciati: Savonarola istituisce una Repubblica teocratica

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Savonarola è condannato a morte per eresia: a Firenze si afferma una Repubblica oligarchica

È governatore di Modena

È governatore di Reggio e Parma

Esperienza politica

1506 1511-13 La Lega Santa sconfigge la Francia, alleata di Firenze: i Medici tornano al potere (1512)

1513 1516 Giovanni de’ Medici è eletto papa (Leone X)

1517 Lutero pubblica le sue Tesi: inizio della Riforma protestante

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

La Lega di Cognac

sale Giovanni de’ Medici, con il nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella politica romana si consolidò con l’elezione, nel 1517, a governatore di Reggio e di Parma. Nominato nel 1521 commissario generale dell’esercito pontificio alleato di Carlo V contro i Francesi, Guicciardini si trova ad agire in prima persona nel campo politico. In questi anni si andò accumulando quell’esperienza che arricchirà il suo patrimonio di scrittore durante la composizione dei Ricordi e della Storia d’Italia. Alla morte di Leone X (1522) era a Parma a fronteggiare l’assedio dei francesi, esperienza che si riflette nella Relazione della difesa di Parma. Nel 1523, inviato da Clemente VII (Giulio de’ Medici) a governare la Romagna, conferma le proprie doti diplomatiche e mostra uno spiccato senso di giustizia sociale. Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propugnò un’alleanza fra gli Stati italiani e la Francia, nella convinzione che questo fosse il solo modo per salvare almeno in parte l’indipendenza della penisola. L’accordo venne sottoscritto a Cognac (1526), ma la Lega fu ben presto sconfitta; nel 1527 le truppe imperiali saccheggiavano Roma, mentre a Firenze veniva instaurata la terza e ultima Repubblica.

L’allontanamento dalla politica e gli ultimi incarichi diplomatici L’isolamento

Coinvolto in queste vicende, e guardato con sospetto dai nuovi governanti per i suoi trascorsi medicei, preferì rifugiarsi nella sua villa di Finocchieto, nei dintorni di Firenze. Qui compose due orazioni (l’Oratio accusatoria e la Defensoria) e una lettera (Consolatoria), in cui, seguendo il modello classico dell’“orazione immaginaria”, espone le accuse che potevano essere mosse al suo operato e le confuta. Durante questo ozio forzato scrisse anche le Considerazioni intorno ai «Discorsi sulla prima deca di Tito Livio» del Machiavelli, in cui contestò le concezioni dell’illustre concittadino. Il suo pessimismo, che gli impedì di riconoscere nella storia le linee di un disegno razionale, aveva tratto decisive conferme dalle ultime e tragiche vicende.

Considerazioni intorno ai «Discorsi» del Machiavelli

Dialogo del reggimento di Firenze

È nominato commissario generale dell’esercito pontificio

A Parma fronteggia l’assedio francese

È governatore della Romagna

Stesura definitiva dei Ricordi

A causa dei suoi trascorsi medicei, è allontanato dalla vita pubblica

Subisce la confisca dei beni. Torna al servizio di Clemente VII

È scelto come consigliere del granduca Alessandro

Tra vita privata e pubblica

1520-21 Inizio del conflitto tra l’imperatore Carlo V e Francesco I di Francia

1522

1523

Clemente VII (Giulio de’ Medici) succede a Leone X

1526 Lega di Cognac: alleanza degli Stati italiani con la Francia

1527

1529

I mercenari di Carlo V saccheggiano Roma. A Firenze i Medici sono nuovamente scacciati e viene ristabilita la Repubblica

1531 I Medici rientrano a Firenze

È estromesso dall’incarico di consigliere: si ritira a vita privata

Storia d’Italia

Muore

Anni del ritiro

1537

1540

A Firenze Cosimo I succede ad Alessandro

473

L’età del Rinascimento

Il declino politico

2 La ricerca delle cause

Nel 1529, dopo la confisca dei beni, lasciò Firenze per mettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì un incarico diplomatico a Bologna. Con il ritorno dei Medici (1531), rientrò nella sua città, dove fu scelto come consigliere del granduca Alessandro; il successore di questi, Cosimo I (1537), non gli riconfermò invece la fiducia, lasciandolo in disparte. Guicciardini si ritirò allora nella villa di Arcetri, dove trascorse gli ultimi anni dedicandosi all’attività letteraria: riordinò i Ricordi politici e civili, raccolse i Discorsi politici e, soprattutto, attese alla stesura della Storia d’Italia. Morì nel 1540. La pubblicazione dei Carteggi (1938-72) ha offerto un decisivo contributo alla conoscenza della sua personalità.

Le opere minori Le Storie fiorentine e i Discorsi politici Le Storie fiorentine abbracciano il periodo compreso fra il tumulto dei Ciompi (1378) e la battaglia della Ghiara d’Adda (1509). L’autore si preoccupa di indagare le cause degli eventi, mettendo in risalto le figure dei protagonisti (Lorenzo de’ Medici e Girolamo Savonarola), con un interesse volto ad illustrare le contraddizioni del presente. Gli scritti successivi sono maggiormente collegati all’attività diplomatica e politica.

I luoghi e la vita di Guicciardini 1 FIRENZE

Nasce nel 1483 da una famiglia della ricca oligarchia. 2 PADOVA

Tra il 1502 e il 1505 è a Padova, dove studia Diritto.

PADOVA EMILIA

BOLOGNA ROMAGNA

FIRENZE

MADRID 6 FIRENZE Con il ritorno dei Medici, nel 1531, rientra nella sua città dove viene scelto come consigliere del granduca Alessandro, il cui successore, Cosimo I, non gli conferma però la fiducia. Guicciardini si ritira così nella sua villa di Arcetri dove vive i suoi ultimi anni attendendo alla sua attività letteraria. Muore nel 1540.

3 MADRID

Nel 1512 è nominato ambasciatore presso il re di Spagna Ferdinando il Cattolico.

4 EMILIA

Grazie al suo appoggio alla famiglia dei Medici, nel 1516 viene eletto governatore di Modena e l’anno successivo di Reggio Emilia e di Parma, dove nel 1522 fronteggia l’assedio dei francesi.

474

5 ROMAGNA

E BOLOGNA Clemente VII (Giulio de’ Medici) lo invia a governare la Romagna, nel 1523, e gli offre un incarico diplomatico a Bologna, nel 1529.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini Le diverse forme di governo a Firenze

Nei Discorsi politici Guicciardini valuta, con un realismo attento e disincantato, le forme istituzionali del governo cittadino: la soluzione repubblicana (nel Discorso di Logrogno, scritto in Spagna nel 1512), e il principato, ristabilitosi con il ritorno dei Medici (Del governo di Firenze dopo la restaurazione dei Medici e Del modo di assicurare lo stato ai Medici, entrambi del 1516). Questi scritti presentano un’impostazione pragmatica, che muove da quella che Machiavelli aveva definito la «realtà effettuale» delle cose.

Il Dialogo del reggimento di Firenze

L’illusione repubblicana

Un’altra opera programmatica, ma di maggiore impegno letterario, è il Dialogo del reggimento di Firenze, in due libri, ultimati nel 1526. Guicciardini immagina una discussione svoltasi a Firenze nel 1494, due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico. Gli interlocutori sono il padre dello scrittore, Piero Guicciardini, Paolantonio Soderini e Pier Capponi, ferventi repubblicani, a cui si contrappone il vecchio Bernardo del Nero, legato al partito mediceo. Quest’ultimo, partendo da un’impietosa analisi dei fatti, dimostra ai tre amici quanto illusoria sia la loro fede repubblicana, sostenendo che la democrazia presenta più numerosi e gravi difetti della monarchia. Emerge sin d’ora la convinzione che né in politica, né in morale si possono dare delle regole assolute, valide in ogni tempo ed in ogni luogo: di qui la necessità di un esame costante delle infinite e variabili circostanze, il crudo realismo psicologico e un generale pessimismo sull’uomo.

Le Considerazioni intorno ai «Discorsi» del Machiavelli

La critica a Machiavelli

Posteriori sono le Considerazioni intorno ai «Discorsi sulla prima deca di Tito Livio» del Machiavelli, scritte probabilmente nel 1528. Attraverso un’analisi rigorosa dell’opera del segretario fiorentino, Guicciardini cerca di dimostrare che i suoi ragionamenti, in apparenza serrati e convincenti, sono in realtà infondati e arbitrari. Il dissenso non si riferisce solo ai singoli momenti della trattazione, ma investe, più in generale, i fondamenti stessi della filosofia della storia, su cui Machiavelli basava il suo “classicismo”. La storia romana non conserva, per Guicciardini, alcun valore esemplare, dal momento che non ci sono, nella storia, leggi e modelli assoluti, che permettano di comprendere e di valutare la realtà. Il rifiuto della concezione classica e umanistica della storia, intesa come “maestra di vita”, costituisce il fulcro dell’ideologia guicciardiniana. La visione del mondo che ne deriva risulta così relativa e frammentaria, incapace di ricomporsi nella totalità di un sistema che possa offrire criteri certi ed indiscutibili. Questa posizione, moderna ed originale, viene elaborata, sul piano teorico, nella riflessione dei Ricordi, trovando alla fine la possibilità di una verifica concreta nel vasto scenario della Storia d’Italia.

L’esecuzione di Gerolamo Savonarola in piazza della Signoria a Firenze, XVI secolo, olio su tavola, Firenze, Museo di San Marco.

475

Incontro con l’Opera

3

La religione

La «discrezione»

I Ricordi La visione della realtà La concezione della realtà e della storia che già si intravedeva nelle Considerazioni trova la sua verifica più significativa e convincente nei Ricordi, in cui si osserva come Guicciardini respinga qualunque visione utopica, consolatrice o edulcorata della realtà. Non si fa storia con immagini ideali e sognanti di una patria libera e felice, popolata da un’umanità moralmente rinnovata e purificata. Guicciardini non disconosce la nobiltà di tali ideali; è la loro inattuabilità pratica che lo porta a considerarli «cose non ragionevoli». Guicciardini, ad esempio, è portato a giudicare positivamente la fede perché «la fede fa ostinazione» e spesso il tempo, nelle vicende storiche, determina la fortuna degli ostinati. Sotto gli altri aspetti la fede è considerata con tono freddo, distaccato, quasi ironico ( T3, p. 484). La religione «guasta el mondo, perché effemina gli animi, aviluppa gli uomini in mille errori e divertisceli [li distoglie] da molte imprese generose e virili». Parole molto dure sono rivolte anche all’istituzione ecclesiastica ed agli uomini di Chiesa; di contro si può trovare, in alcuni «ricordi», un richiamo all’essenza ed alla semplicità del messaggio evangelico, soprattutto per la sua portata concreta e pratica. In generale però l’atteggiamento è di sostanziale indifferenza o scetticismo nei confronti del trascendente. La mancanza di una visione provvidenziale della storia porta Guicciardini a sottolineare la varietà infinita di «casi ed accidenti», di fronte ai quali gli uomini sono impotenti e a nulla valgono le costruzioni astratte e teoriche, inadatte a penetrare e spiegare una realtà in perenne evoluzione ( T2, p. 482). Per riuscire a comprenderla e ad interpretarla non è dunque necessaria una dottrina sistematica ma piuttosto la «discrezione», ossia la capacità di distinguere e decidere volta per volta, caso per caso, senza appellarsi a princìpi immutabili che non hanno alcun valore, ma sfruttando la saggezza che viene dall’esperienza ( T1, p. 478).

La genesi e i caratteri dell’opera

Il problema della conoscenza

476

I Ricordi accompagnano vari periodi dell’attività di Guicciardini diplomatico e uomo politico, nutrendosi di questa lunga e complessa esperienza. Di qui il carattere dell’opera (il titolo significa propriamente “cose da ricordare” e quindi, per estensione, “pensieri”, “riflessioni”), che muove dalla realtà per affrontare problemi più generali, degni di nota e di attenzione. Si tratta di “esempi”, che possono offrire un utile insegnamento ma che non hanno, tuttavia, una validità assoluta, in quanto la realtà non obbedisce a leggi universali, conservando un andamento sempre contingente e imprevedibile. In questo senso, per le infinite possibilità offerte dal reale, la forma della conoscenza non può essere che limitata e relativa. Di qui deriva anche la struttura del libro, in cui i «ricordi» si susseguono indipendentemente l’uno dall’altro, senza fondersi in un quadro complessivo e unitario.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

La genesi del testo

La stesura definitiva

Così uno studioso contemporaneo, Matteo Palumbo, ne ha ripercorso la genesi e il lento percorso costitutivo, che corrisponde all’approfondirsi della concezione ideologica e ad un assiduo lavoro di revisione formale: «La composizione dell’opera ha il suo nucleo, o idea generativa, in due quaderni che appartengono al 1512. La dimensione fortemente municipale di questo primo gruppo di ricordi, attestata dall’interesse quasi esclusivo per la vicenda di Firenze, è già attutita e sublimata nella prima vera redazione dell’opera, anteriore al 1525. Questa fase di elaborazione segna un incremento notevole della mole dell’opera […]. Allo sviluppo quantitativo si accompagna anche un deciso mutamento di tono e di impostazione». Dopo una «successiva redazione, operata nel 1528», si giunge alla stesura definitiva del 1530: «I ricordi diventano ora 221» e «ciascun pensiero tende a imporsi nella sua autonomia assoluta, sciolto da ogni dipendenza, tanto logica quanto sintattica. La legittimità del ricordo dipende unicamente dalle ragioni che esso, nella sua finita unità, riesce a manifestare. Non ha bisogno di sostegni, di rinvii ad altri luoghi, di intrecci con precedenti o successivi ragionamenti. Fonda la sua forza sulla compattezza della propria regolata estensione».

I Ricordi come “anti-trattato” e l’elogio del «particulare»

Ideologia e struttura

L’impianto logico e lo stile asciutto ed essenziale

Il «particulare»

Testi I rapporti e le relazioni sociali dai Ricordi

Nascendo non da princìpi astrattamente teorici, ma dall’esperienza di vita dello scrittore, il libro finisce per offrirne un ritratto completo e fedele. L’affermazione non va intesa in un senso banalmente autobiografico; essa vuole cogliere, piuttosto, i segni di un dissidio profondo, insieme teorico ed esistenziale, fra la necessità dell’azione e i limiti di un pensiero che non riesce più a giustificarne interamente le ragioni. La frantumazione del reale determina una più difficile e sofferta tensione conoscitiva, alla quale corrisponde la struttura frammentaria dell’opera: i Ricordi sono una specie di “anti-trattato”, in quanto rinunciano a una compiutezza sistematica e totalizzante del discorso. Il pessimismo scettico che li pervade comporta un tono spesso amaro e disilluso, ora ironico ora sdegnoso. Non per questo Guicciardini rinuncia a confrontarsi con la storia e la politica, obbedendo a un imperativo morale che la precarietà degli eventi e il carattere tutto relativo della verità rendono più arduo e rischioso, senza alcuna speranza di future ricompense o consolazioni. Di qui, da questa drammatica scommessa sulle residue possibilità della ragione, deriva l’impianto fortemente logico dei singoli «ricordi», che si basano su definizioni rigorose e su stringenti rapporti deduttivi, resi essenziali da uno stile asciutto e privo di dispersioni. Questa visione disincantata della realtà, dell’inattuabilità ultima dei desideri e delle aspirazioni ( T4, p. 486), porta lo scrittore all’elogio del «particulare», dell’interesse personale, come scopo ragionevolmente perseguibile dal savio. La ricerca del bene individuale è, per Guicciardini, ben più che l’ansia di ottenere «qualche commodo pecuniario». Quelli che lo intendono così in realtà «non conoscono bene quale sia lo interesse suo». Le critiche che, ad esempio, gli vennero rivolte quando, nel 1536, difese Alessandro de’ Medici dinanzi a Carlo V e, l’anno seguente, dopo l’uccisione di Alessandro, favorì l’elezione di Cosimo, erano a suo parere totalmente ingiustificate. L’interesse, perseguito in tali occasioni, era quello di non rinunciare all’attività politica, essendo questo l’unico modo per poter giovare alla città. Il «particulare» sarà quindi da intendere come un elemento essenziale, una forma o categoria della conoscenza, necessaria per stabilire o meno l’opportunità dell’azione (inaccettabile risulta oramai il giudizio morale negativo espresso sullo scrittore dalla storiografia risorgimentale, nel celebre saggio del 1869 di Francesco De Sanctis).

477

L’età del Rinascimento

Abbiamo riunito i “ricordi” antologizzati in alcune sezioni che presentano affinità di tipo tematico e concettuale.

T1

L’individuo e la storia

Temi chiave

• la polemica contro Machiavelli e il

dai Ricordi, 6, 110, 114, 189, 220

classicismo

Nei testi seguenti si trovano i fondamenti del pensiero guicciardiniano: la storia non obbedisce a leggi o schemi di carattere generale e, di conseguenza, non presenta per l’individuo punti di riferimento stabili.

5

• una concezione pragmatica della storia • l’impossibilità di stabilire un paradigma negli eventi umani

• il ruolo dei cittadini onesti nella gestione dello Stato

6. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente1 e, per dire così, per regola2; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze3, le quali non si possono fermare con una medesima misura4: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione5. 110. Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano6 e’ romani! Bisognerebbe avere una città condizionata7 come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo8: el quale a chi ha le qualità disproporzionate9 è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo10.

1. È grande errore … assolutamente: è sbagliato giudicare i fatti e gli uomini senza fare le necessarie distinzioni, applicando dei criteri generali e universali, validi per tutte le circostanze. 2. per regola: secondo delle regole assolute. 3. quasi … circunstanze: (le azioni e i comportamenti degli uomini) hanno quasi tutti qualcosa che li distingue e li rende delle ecce­ zioni, ovvero dei casi particolari che sfuggono a ogni regola interpretativa, perché hanno origine e si sviluppano in circostanze

sempre diverse fra di loro (la varietà delle circunstanze). 4. le quali … misura: che non si possono sta­ bilire (fermare) seguendo un solo criterio di valutazione e di giudizio (misura), vale a dire non possono essere fissati in maniera costante e prestabilita. 5. discrezione: ciò che diversifica le cose del mondo non può essere rintracciato sui libri, ma si deve abitualmente ricavare dall’uso della discrezione, cioè dall’arte di valutare con precisione le peculiarità di un

avvenimento, di un problema. Questa è la virtù principale che deve conseguire l’uomo politico. 6. allegano: citano, portano come esempio. 7. condizionata: strutturata, organizzata co­ me la loro. 8. esemplo: esempio, modello. 9. le qualità disproporzionate: le forze e l’organizzazione sproporzionate (non paragonabili con quelle dell’antica Roma). 10. facessi … cavallo: facesse la corsa di, corresse veloce come un cavallo.

Pesare le parole Discrezione (riga 5)

> Il sostantivo discrezione (dal latino dis- e cèrnere, “di- > Discreto è propriamente il participio passato di discerstinguere”, quindi “vedere distintamente”) nell’uso letterario può voler dire, come qui nel passo di Guicciardini, “discernimento, capacità di giudicare rettamente”, ma il significato oggi più corrente è “senso della misura, moderazione, tatto” (es. è un problema delicato, su cui occorre intervenire con discrezione). L’aggettivo discrezionale, proprio del linguaggio giuridico, è ciò che è rimesso al giudizio di chi ha il potere di decidere (es. il magistrato ha usato il proprio potere discrezionale nel mettere in libertà l’accusato).

478

nere. Nella lingua più arcaica può valere “che sa discernere, giudicare rettamente”. Nella lingua attuale questo senso si è perso, tranne che nell’uso letterario. I sensi oggi più comuni sono: “non esigente, moderato” (es. è stato discreto nel chiedere il prezzo), o “non importuno” (es. è stato un ospite discreto, che non ha dato nessun fastidio), “riservato, fidato” (es. è un uomo discreto, a cui si possono confidare segreti), oppure ancora “abbastanza buono, che soddisfa moderatamente” (es. in matematica ha ottenuto risultati discreti).

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

15

114. Sono11 alcuni che sopra le cose che occorrono12 fanno in scriptis13 discorsi del futuro, e’ quali quando sono fatti da chi sa14, paiono a chi gli legge molto belli15; nondimeno sono fallacissimi16, perché, dependendo di mano in mano l’una conclusione dall’altra, una che ne manchi, riescono vane tutte quelle che se ne deducono17; e ogni minuto particulare che varii, è atto a fare variare18 una conclusione. Però19 non si possono giudicare le cose del mondo sì da discosto20, ma bisogna giudicarle e resolverle giornata per giornata21.

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189. Tutte le città, tutti gli stati, tutti e’ regni sono mortali; ogni cosa o per natura o per accidente22 termina e finisce qualche volta23. Però24 uno cittadino che si truova al fine della sua patria25, non può tanto dolersi della disgrazia di quella26 e chiamarla mal fortunata27, quanto della sua propria: perché alla patria è accaduto quello che a ogni modo aveva a28 accadere, ma disgrazia è stata di colui abattersi a nascere a quella età che aveva a essere tale infortunio29.

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25

220. Credo sia uficio30 di buoni cittadini, quando la patria viene in mano31 di tiranni, cercare d’avere luogo con loro32 per potere persuadere el33 bene e detestare el male34; e certo è interesse della città che in qualunque tempo35 gli uomini da bene abbino autorità. E ancora che gli ignoranti e passionati di Firenze l’abbino sempre intesa altrimenti36, si accorgerebbono37 quanto pestifero38 sarebbe el governo de’ Medici se non avessi intorno altri che pazzi e cattivi39.

11. Sono: vi sono. 12. che occorrono: che accadono nel pre­ sente. 13. in scriptis: nei loro scritti, per iscritto (latino). 14. da chi sa: da persone colte (ma soprattutto abili, che riescono facilmente a persuadere). 15. belli: nel senso di convincenti. 16. fallacissimi: completamente falsi e in­ gannevoli. 17. dependendo … deducono: dipenden­ do via via una conclusione dall’altra, se anche una sola ne manca, risultano vanificate, prive di fondamento tutte quelle che se ne ricavano. 18. ogni … variare: ogni pur minimo ele­ mento particolare che cambi è in grado di far modificare. 19. Però: perciò. 20. sì da discosto: così da lontano, ponen-

dosi cioè al di sopra della concreta realtà. 21. giornata per giornata: giorno per gior­ no, alla giornata. 22. o per natura o per accidente: o natu­ ralmente o per un caso, in una combinazione qualsiasi. 23. qualche volta: prima o poi. 24. Però: perciò. 25. che … patria: che si trova ad assistere (sottinteso) alla fine, alla rovina della sua pa­ tria. 26. di quella: della patria. 27. mal fortunata: sfortunata, sventurata. 28. aveva a: doveva. 29. ma … infortunio: ma la disgrazia del cittadino (di colui) è stata quella di trovarsi (abattersi) a vivere (nascere) nel periodo in cui doveva capitare tale sventura, avversità. 30. uficio: compito, dovere.

31. viene in mano: cade nelle mani, in potere. 32. d’avere … con loro: di entrare nelle loro grazie, di ottenere la loro fiducia. 33. persuadere el: indurli, convincerli a fare il. 34. detestare … male: far provare avversio­ ne nei confronti del male. 35. in qualunque tempo: in qualsiasi situa­ zione (sia sotto un governo oligarchico sia sotto un governo democratico). 36. E ancora … altrimenti: e sebbene i fio­ rentini incompetenti e quelli fanatici l’abbiano sempre pensata diversamente. La polemica è rivolta contro i repubblicani, i quali non avevano mai perdonato a Guicciardini il fatto di avere prestato servizio presso i Medici. 37. si accorgerebbono: si accorgerebbero. 38. pestifero: dannoso. 39. se non … cattivi: se avesse attorno sol­ tanto uomini folli e malvagi.

Analisi del testo

> La discrezione (6)

La «varietà delle circunstanze»

È uno dei pensieri fondamentali di Guicciardini, che, nella sua schematica essenzialità, illustra completamente i cardini della sua concezione. La realtà umana non obbedisce a regole assolute e generali; spiegarla in base a questi criteri significa travisarla, renderla indifferenziata e «indistinta», cioè astorica. La «varietà delle circunstanze», ossia dei casi fortuiti e degli accidenti imprevisti, fa della storia il vasto campo delle «distinzioni» e delle «eccezioni», che non si possono ridurre, se non falsificandola, a una comune e costante unità di “misura”. Guicciardini rifiuta ogni concezione retorico-moralistica della storia, intesa dagli antichi come “maestra di vita” (magistra vitae): i «libri» non insegnano nulla e, di fronte al carattere sempre mutevole degli eventi, conta unicamente la «discrezione», ossia la capacità, piena di rischi e di incertezze, di valutare i dati del reale e di scegliere, di volta in volta, le soluzioni più opportune. 479

L’età del Rinascimento

Contro Machiavelli e il classicismo

L’uomo non ha più alle spalle un patrimonio di garanzie e di certezze, ma deve continuamente confrontarsi, da solo, con la precarietà del proprio destino. È qui evidente la distanza da Machiavelli, che aveva cercato di interpretare la storia e la politica sulla base di categorie esemplari e di valori assoluti; ugualmente netta è la presa di distanza nei confronti del “classicismo”, inteso come riferimento ai modelli e agli schemi del passato.

> L’esempio dei Romani (110) La polemica contro l’esemplarità della storia romana

Una logica della casualità

La difficoltà di ogni previsione

La concezione pragmatica della storia

La decadenza degli Stati

La fatalità della storia

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Anche questo celebre «ricordo» è tra i più significativi di Guicciardini e del suo particolare atteggiamento nei confronti dell’ideologia rinascimentale. Il bersaglio della polemica è costituito, anche in questo caso, da Machiavelli, che aveva fatto di Roma un esempio assoluto e valido universalmente, al quale il presente poteva e doveva ispirarsi. Questa forma di “classicismo” storico-politico si basa secondo Guicciardini su un grossolano errore di valutazione: l’esempio dei Romani sarebbe valido ed efficace se la realtà contemporanea riproducesse, nell’esattezza delle medesime proporzioni, le condizioni del passato. La cosa è, ovviamente, impensabile, per le profonde differenze che intercorrono fra i due momenti.

> L’impossibilità di prevedere il futuro (114)

Gli avvenimenti storici, come si è appena visto, obbediscono non a una logica fissa e prestabilita, che consenta di trarre delle conclusioni sicure, ma a una logica discontinua, che il caso rende imprevedibile. Alla logica della causalità Guicciardini sostituisce una logica della casualità, che condiziona la prospettiva dell’osservatore; il suo punto di vista deve essere immanente, ossia interno allo svolgimento dei fatti e fedele al loro andamento fenomenico, e non allontanato, tale da confondere tra loro elementi di diversa natura e provenienza. Se nel «ricordo» precedente l’errore denunciato da Guicciardini riguardava il passato (i «romani»), adesso, a maggior ragione, viene esteso al futuro, intorno al quale non è possibile fare calcoli o previsioni. A garantire la continuità tematica fra questi due «ricordi» sta, nel primo, la presenza del verbo «si ingannono», ripresa e rafforzata, qui, dal predicato nominale, di grado superlativo, «sono fallacissimi». Questa espressione, a sua volta, vive in opposizione a un altro superlativo, «molto belli» (che dipende da un verbo indicante l’apparenza: «paiono»), posto in chiusura del periodo iniziale, in cui l’autore enuncia una tendenza e un errore diffusi. La confutazione dei pregiudizi, attraverso il collegamento stabilito dall’avversativa («nondimeno»), risulta così di una evidenza perentoria, netta e immediata; essa sottolinea una profonda frattura tra la letteratura e la realtà, o meglio tra una concezione retorica e una concezione pragmatica, sperimentale, della storia. Non sarà azzardato, allora, leggere anche tra queste righe una polemica che colpisce direttamente Machiavelli e, in particolare, il capitolo conclusivo del Principe: pieno sì di nobilissimi intenti, ma tutti proiettati in quel futuro che, come tempo della speranza, e a maggior ragione della profezia, ha ben poco valore ( cap. 6, T9, p. 415).

> Le sorti della storia (189)

Nella pessimistica concezione di Guicciardini rientra anche il problema della decadenza delle città e dei regni. Il motivo, di origine biblica, era già ampiamente diffuso nella letteratura medievale, nel più generale contesto del discorso sulla vanità delle cose umane (spesso introdotto dalla formula retorica dell’«ubi sunt?», “dove sono?”) e aveva avuto ampiamente corso fino a Petrarca. Nel riprendere lo spunto, Guicciardini lo rivisita però in un’ottica puramente storica, cercando le ragioni della crisi (evidente, sebbene implicito, il riferimento alla situazione italiana) nelle leggi di una fatalità naturale. Contro queste leggi non ci si può appellare; non resta, all’uomo, che lamentarsi contro il caso, o la sorte, che l’hanno fatto vivere in un momento infelice per la propria patria.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

> Il comportamento degli individui (220)

L’uomo virtuoso e il potere tirannico

L’opportunità pragmatica dell’azione

Il «ricordo» si può collegare con quello precedente, riguardando anch’esso il rapporto fra la «patria» e l’individuo. Ma prima Guicciardini aveva sottolineato, pessimisticamente, la condizione di chi è impotente a modificare il corso degli eventi; qui si pone il problema della condotta dell’uomo virtuoso, «da bene», nei confronti di un governo ingiusto e tirannico. La risposta non lascia adito a dubbi: la partecipazione degli onesti alla cosa pubblica rappresenta comunque un fatto positivo, quasi un dovere, proprio per correggere, per quanto è possibile, gli effetti negativi del sistema. Un segnale, questo, che allontana le accuse di cinismo o di insensibilità, ma riafferma i compiti di un impegno civile e morale. Guicciardini privilegia comunque l’efficacia pragmatica dell’azione rispetto all’affermazione di princìpi astratti e generali, come quelli che conducono alla pura opposizione o al semplice rifiuto. Il riferimento alla realtà di Firenze sottintende, anche in questo caso, le ragioni dirette di un’esperienza personale.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Quali, tra i «ricordi» antologizzati, pongono al centro della riflessione la scrittura e la letteratura? Motiva la tua risposta.

> 2. Quali «ricordi» privilegiano la riflessione sulla storia fra passato, presente e futuro? Motiva la tua risposta. AnALIzzARe

> 3. Quali, tra i «ricordi» antologizzati, pongono come premessa dell’argomentazione dati presentati come incon-

futabili e oggettivi, e quali invece come opinabili e soggettivi? Motiva la tua risposta. > 4. Stile In quale «ricordo» è proposta una concreta immagine di chiara ispirazione popolare? Come la classificheresti sul piano stilistico-retorico? > 5. Stile Quale figura retorica individui nel «ricordo» 189, riga 16 («Tutte le città… sono mortali»)? > 6. Lessico Individua nei testi proposti vocaboli e/o espressioni che rimandano al concetto di “casualità” e “mutevolezza” degli eventi umani. APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> 7.

Scrivere A quale evento della vita dell’autore fa riferimento il «ricordo» 220, righe 24-26 ( nota 36)? Quale altro personaggio aveva subito una sorte analoga, ma per diverse motivazioni politiche? Rispondi ad ambedue le domande in circa 10 righe (500 caratteri). > 8. Testi a confronto: esporre oralmente In un ideale colloquio con Guicciardini, Niccolò Machiavelli sembra confrontarsi con lui sul tema della validità della lezione dei classici nel passo di seguito riportato:

Non so, adunque, se io meriterò d’essere numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimerò i nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava, ed il vizio che ora regna, non fussino più chiari che il sole andrei col parlare più rattenuto [moderato], dubitando non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso indire manifestamente [dichiarare apertamente] quello che io intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è offizio [dovere] di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché [affinché], sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. N. Machiavelli, Discorsi intorno alla prima deca di Tito Livio, Libro II, Proemio, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971

Dopo un’attenta lettura, prova ad individuare gli elementi del discorso che si discostano radicalmente dal pensiero di Guicciardini (max 3 minuti).

481

L’età del Rinascimento

T2

Gli imprevisti del caso dai Ricordi, 30, 117, 161 Il gruppo di testi che segue è strettamente legato ai precedenti, dei quali costituisce una sorta di integrazione. L’intervento del caso, o della fortuna, rende rischiosa e problematica ogni scelta e decisione umana.

5

Temi chiave

• il grande potere della fortuna nelle cose umane

• l’errore metodologico di guardare agli “esempi”

30. Chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà1, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti2, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli3: e benché lo accorgimento e sollicitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna4. 117. È fallacissimo el giudicare per gli esempli5, perché, se non sono simili in tutto e per tutto, non servono, conciosia che6 ogni minima varietà nel caso7 può essere causa di grandissima variazione nello effetto: e el discernere queste varietà, quando sono piccole, vuole8 buono e perspicace occhio.

10

161. Quando io considero a quanti accidenti9 e pericoli di infirmità10, di caso11, di violenza e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona12, non è cosa di che13 io mi maravigli più che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile.

1. potestà: potere. 2. a ognora … fortuiti: in ogni momento le cose umane subiscono un grandissimo scompiglio, fortissimi mutamenti per il so­ praggiungere di avvenimenti del tutto acci­ dentali e casuali. 3. non è … schifargli: gli uomini non posso­ no né prevederli né evitarli. 4. lo accorgimento … fortuna: l’accortezza e la previdenza degli uomini possano alleviare

molte cose, tuttavia da sole non bastano, ma occorre anche che la fortuna sia favorevole. 5. fallacissimo … esempli: del tutto ingan­ nevole e fuorviante giudicare secondo gli esempi, sulla base di schemi e modelli astratti. 6. conciosia che: poiché. 7. nel caso: nella circostanza particolare, che diventa causa di ciò che segue (di qui l’imprevisto modificarsi dell’effetto).

8. vuole: richiede (il verbo discernere, saper distinguere, fa esplicito appello alla virtù della «discrezione»). 9. accidenti: eventi fortuiti, combinazioni. 10. infirmità: infermità, malattie. 11. caso: imprevisti sopraggiunti casualmente. 12. quante … buona: quanti fattori positivi devono concorrere in un anno per ottenere un buon raccolto. 13. di che: della quale.

Analisi del testo

> La fortuna (30)

Il prevalere della fortuna sulla virtù

482

Nel Principe Machiavelli aveva impostato il rapporto tra la fortuna e la virtù, risolvendolo nell’ipotesi di un possibile equilibrio fra queste due forze. Guicciardini sposta i termini del rapporto attribuendo alla fortuna una «grandissima potestà», ovvero il peso maggiore e decisivo nel determinare l’esito degli eventi. L’equilibrio cercato da Machiavelli, come possibilità di controllo dell’uomo sulle forze della natura, si spezza a favore di una concezione della realtà come campo degli «accidenti fortuiti», dell’imprevisto e del casuale, che l’uomo difficilmente riesce a fronteggiare («essendo le cose del mondo sottoposte a mille casi e accidenti», come si legge anche nel «ricordo» iniziale, T3, p. 484).

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

> La debolezza del rapporto causa-effetto (117)

La storia è variazione, non identità

La vita come dominio dell’imprevisto

Echi nel tempo Da Guicciardini a Pirandello: l’irruzione del “caso”

Sono riassunti, con perentoria chiarezza, i concetti sviluppati in due dei «ricordi» precedenti ( T1, p. 478, nn. 110 e 114), e qui portati a una sintesi di estrema concisione e rigore; di questi l’affermazione iniziale riprende due termini chiave sul piano lessicale-tematico («È fallacissimo el giudicare per gli esempli»). L’estrema fragilità del rapporto fra causa ed effetto fa sì che risulti molto difficile prevedere le conseguenze dei comportamenti e delle azioni umane. Guicciardini insiste sulla perturbazione recata da «ogni minima varietà» (l’espressione è analoga a quella che compare nel «ricordo» 114), escludendo la possibilità che si verifichi, nelle vicende storiche, il ripetersi di fatti identici, «simili in tutto e per tutto» (vedi il «ricordo» 110). Solo la «discrezione» (si noti l’uso del verbo «discernere») consente all’uomo di orientarsi nelle scelte rischiose della vita.

> La precarietà (161)

Insistendo sulle contraddizioni della realtà, Guicciardini sintetizza, in maniera estremamente chiara ed efficace, la sua concezione della vita, come campo della precarietà e dell’imprevisto. Il felice esito di un’impresa, in questo senso, può sembrare un evento quasi miracoloso, se si pensa agli «infiniti» «accidenti e pericoli» che avrebbero potuto alterarne il corso e rovesciarne i risultati. La «fortuna» gioca sempre un ruolo preponderante (vedi il «ricordo» 30), subordinando al «caso» e alle sue capricciose combinazioni la concreta efficacia della «virtù».

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Quale ruolo dell’uomo emerge dal quadro delineato dai tre «ricordi»? Motiva la tua risposta. > 2. Rintraccia nei testi il tema della mutevolezza degli eventi umani: come si configura soprattutto nel «ricordo» 161?

AnALIzzARe

> 3. > 4. > 5.

Quali figure retoriche individui nel «ricordo» 117, righe 7-8 («ogni minima varietà… queste varietà…»)? Individua nei testi proposti vocaboli e/o espressioni riconducibili all’area semantica della “discrezione”. Lingua Dopo aver individuato nei testi proposti le proposizioni causali, concessive e avversative, spiegane la funzione considerando le caratteristiche della prosa di Guicciardini. Stile

Lessico

APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Scrivere Spiega in circa 10 righe (500 caratteri) in che misura il pensiero di Guicciardini può essere considerato indicativo dell’“antirinascimento” ( Il contesto, p. 129). PASSATo e PReSenTe La responsabilità umana e la sorte nella cronaca odierna

> 7. Spesso la fortuna ha grande potere nelle cose umane, ma l’individuo non può non assumersi la responsa-

bilità di vivere il proprio presente con consapevolezza e determinazione: questa la lezione di Guicciardini anche per l’uomo di oggi. In riferimento al mondo attuale, prova ad effettuare una rassegna stampa (relativa all’arco dell’ultima settimana) che metta in luce fatti di cronaca scaturiti da eventi fortuiti o determinati da azioni umane, e ad esporre (max 8 minuti) gli esiti della ricerca.

483

L’età del Rinascimento

T3

Il problema della religione dai Ricordi, 1, 28, 125 Per il rifiuto di ogni forma di provvidenza, il problema religioso è visto in una chiave puramente terrena e pragmatica.

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• il carattere pragmatico della fede • la critica alla corruzione del clero • la polemica contro i filosofi e i teologi

1. Quello che dicono le persone spirituali1, che chi ha fede conduce2 cose grandi e, come dice lo Evangelio3, chi ha fede può comandare a’ monti ecc., procede perché la fede fa ostinazione4. Fede non è altro che credere con openione ferma5, e quasi certezza le cose che non sono ragionevole6, o, se sono ragionevole, crederle con più resoluzione che non persuadono le ragione7. Chi adunche8 ha fede diventa ostinato in quello che crede, e procede al9 cammino suo intrepido e resoluto, sprezzando le difficultà e pericoli, e mettendosi a soportare ogni estremità10: donde nasce11 che, essendo le cose del mondo sottoposte a mille casi e accidenti, può nascere per molti versi nella lunghezza del tempo12 aiuto insperato a chi ha perseverato nella ostinazione, la quale essendo causata dalla fede, si dice meritamente13: chi ha fede ecc. Esemplo a’ dì nostri ne è14 grandissimo questa ostinazione de’ fiorentini che, essendosi contro a ogni ragione del mondo15 messi a aspettare la guerra del papa e imperadore16 sanza speranza di alcuno soccorso di altri17, disuniti e con mille difficultà, hanno sostenuto18 in sulle mura già sette mesi gli eserciti, e’ quali19 non si sarebbe creduto che avessino20 sostenuti sette dì, e condotto le cose in luogo21 che, se vincessino22, nessuno più se ne maraviglierebbe, dove23 prima da tutti erano giudicati perduti: e questa ostinazione ha causata in gran parte la fede di non potere perire secondo le predizione di Fra Ieronimo da Ferrara24. 28. Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie25 de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio26, e ancora perché sono vizi sì contrari27 che non possono stare insieme se non in un subietto molto strano28. Nondimeno el grado29 che ho avuto con più pontefici30, m’ha necessitato31 a amare per el

1. le persone spirituali: l’indicazione è ambigua; si può riferire sia agli uomini di Chiesa, ai religiosi, sia, più in generale, a coloro che credono. 2. conduce: compie, realizza. 3. lo Evangelio: il Vangelo. Il riferimento che segue è a Matteo, 17, 20-21. 4. procede … ostinazione: deriva dal fatto che la fede produce una grande determinazio­ ne, cioè rende caparbi, decisi e risoluti nel cercare di ottenere i propri scopi. 5. con openione ferma: con molta convin­ zione. 6. ragionevole: sta per “ragionevoli”; è un femminile plurale, come più sotto le ragione, le predizione. 7. crederle … ragione: con una fermezza maggiore di quanto le ragioni, sottese agli av­ venimenti, consentono di credere (le ragione sono propriamente i ragionamenti, le considerazioni di tipo logico). 8. adunche: dunque. 9. procede al: va avanti nel. 10. mettendosi a … estremità: accingen­ dosi a sopportare anche gli ostacoli più gravi. 11. donde nasce: ne consegue. 12. per molti … tempo: per cause diverse con il passare del tempo.

484

Temi chiave

13. meritamente: giustamente. 14. Esemplo … ne è: ai nostri giorni ne è un esempio. 15. contro … mondo: contrariamente a ogni più plausibile previsione. 16. messi … imperadore: Guicciardini allude all’assedio di Firenze (ottobre 1529-agosto 1530) e alla strenua difesa della città da parte dei repubblicani contro le forze imperiali del principe di Orange, che doveva riportare al governo i Medici secondo gli accordi stipulati al Congresso di Bologna fra Carlo V e Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici. 17. soccorso di altri: aiuto da parte di altre forze militari. 18. sostenuto: fronteggiato con successo. 19. e’ quali: i quali. 20. avessino: avessero (forma del congiuntivo, come più avanti vincessino). 21. in luogo: al punto. 22. se vincessino: il ricordo è scritto durante l’assedio e Guicciardini può così ipotizzare, con una certa dose di ammirazione per gli assediati, un’improbabile vittoria dei fiorentini. 23. dove: mentre. 24. questa … Ferrara: questa ostinazione era stata causata dalla convinzione (fede) di

non poter essere sconfitti (perire), secondo quanto aveva profetizzato il frate Gerolamo Savonarola (Fra Ieronimo da Ferrara). Il celebre predicatore Gerolamo Savonarola, nato a Ferrara nel 1452, era stato protagonista nella cacciata di Pietro de’ Medici (1494) e aveva retto una repubblica a sfondo teocratico nella città di Firenze fino al 1498, anno in cui era stato impiccato e arso. La venerazione di cui godette presso i fiorentini sembra ritornare nel ricordo di questa profezia, secondo cui il governo popolare non poteva cadere perché voluto da Dio. 25. mollizie: fiacchezza, indolenza, ma anche lussuria. 26. dependente da Dio: consacrata a Dio, e quindi a maggior ragione tenuta a rispettare rigorosamente la legge divina. 27. sì contrari: così diversi e contrastanti fra di loro. Non si può ambire ad onori, lusso e piaceri, e, nello stesso tempo, aver timore di spendere. 28. subietto molto strano: un essere del tut­ to particolare, diverso dalle persone normali. 29. el grado: gli incarichi. 30. più pontefici: rispettivamente Leone X, Adriano VI e Clemente VII. 31. necessitato: costretto, indotto.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

25

particulare32 mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto33, arei amato Martino Luther34 quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte35 dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti36, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità. 125. E’ filosofi e e’ teologi e tutti gli altri che scrutano37 le cose sopra natura38 o che non si veggono, dicono mille pazzie39: perché in effetto40 gli uomini sono al buio delle cose41, e questa indagazione42 ha servito e serve più a esercitare gli ingegni43 che a trovare la verità.

32. el particulare: indica non tanto l’immediato interesse personale quanto, in senso più elevato, la necessità di raggiungere gli obiettivi prefissati. 33. questo rispetto: per questo motivo. 34. Martino Luther: Lutero, il promotore della Riforma protestante. 35. dalle legge indotte: dalle verità della fede, dai dogmi imposti.

36. ridurre … debiti: ridimensionare, riducen­ dola alle dovute proporzioni (a’ termini debiti), questa massa di uomini malvagi. A Guicciardini non interessa il significato religioso della Riforma, ma la sua intenzione di combattere la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche. 37. scrutano: si propongono di studiare, di indagare. 38. sopra natura: soprannaturali.

39. pazzie: sciocchezze. 40. in effetto: di fatto, in realtà. 41. sono … cose: sono all’oscuro delle cose, ne ignorano le ragioni profonde. 42. indagazione: indagine, ricerca. 43. serve … ingegni: ad allenare la mente, risolvendosi in un esercizio tanto ingegnoso quanto inutile e vuoto.

Analisi del testo

> «La fede fa ostinazione» (1)

Il problema della «fede» L’«ostinazione» L’esempio della difesa di Firenze

Il «ricordo» si può dividere in tre momenti, o nuclei di riflessione. 1. Il problema della «fede» viene sottoposto a una interpretazione di tipo per così dire laico e razionalistico, che la identifica con l’«ostinazione», ossia con la volontà ferma e costante di perseguire i propri scopi (la fede non ha un valore trascendente, ma psicologico). 2. L’«ostinazione» può diventare uno strumento efficace di intervento, dal momento che nel mondo le cose si trovano «sottoposte a mille casi e accidenti». 3. In questo senso l’esempio addotto da Guicciardini (la difesa di Firenze nel 1530 da parte dei cittadini, contro le forze dei principati italiani e della Spagna) non vuole avere un valore assoluto e generale. Il fatto non può essere ricondotto a delle leggi costanti e non presenta quindi un significato “esemplare”; esso è puramente “esemplificativo”, ossia relativo ad una situazione particolare, le cui norme derivano dall’osservazione di una condotta contingente e determinata. L’interesse per la “fede” non riguarda quindi in senso stretto il problema della religione, che Guicciardini, come del resto Machiavelli, considera esclusivamente in funzione della sua efficacia, sul piano dell’utilità pratica e politica.

> La corruzione del clero (28) L’“opportunismo” storico

La natura dei comportamenti umani

Il giudizio sulla Riforma

Guicciardini riprende qui la polemica contro la corruzione del clero, che costituisce un motivo “topico” della tradizione letteraria (si pensi a Dante, Petrarca e Boccaccio). Può stupire che, dati questi presupposti, l’autore dichiari di avere comunque amato la «grandezza» della Chiesa (si riferisce ai papi medicei, di cui fu al servizio) per amore del suo «particulare». Come si può capire dal «ricordo» precedente, Guicciardini subordina tuttavia il proprio comportamento e la propria azione alle oggettive condizioni e possibilità offertegli dalla congiuntura storica. La coerenza dello scrittore va quindi cercata a un livello diverso e superiore: quello di una spregiudicata opera di demistificazione, in cui attribuisce anche a se stesso i medesimi vizi e difetti che si possono attribuire alla maggior parte degli uomini. Assieme alle contraddizioni della storia, Guicciardini mette a nudo le contraddizioni dell’individuo. I due momenti interagiscono nel giudizio sulla Riforma protestante, di cui l’autore condivide le ragioni, non sul piano della fede e del dogma (nella Storia d’Italia parlerà di «pestifera dottrina»), ma su quello della lotta contro la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche. 485

L’età del Rinascimento

L’inutilità della speculazione metafisica

Il carattere empirico e relativo della verità

> Il pensiero metafisico (125)

Questo pensiero integra il «ricordo» 114 ( T1, p. 478), dedicato all’impossibilità di prevedere il futuro, ma soprattutto torna sul problema della religione, mettendo in discussione i suoi stessi fondamenti. Il discorso coinvolge infatti, in senso lato, la ricerca filosofica e religiosa, ossia quelle discipline che, interrogandosi sui problemi metafisici e sui destini dell’uomo, «scrutano le cose sopra natura o che non si veggono». Secondo Guicciardini «gli uomini sono al buio delle cose», ossia non possono conoscere né le loro cause profonde né i fini ultimi a cui sono destinate. Solo lo studio attento della «natura» può condurre alla «verità», intesa in un’accezione storica e relativa, che rifiuta ogni valore assoluto e trascendentale. Tutto ciò che non si fonda su una verifica concreta dei fatti non può che dar luogo a «mille pazzie», ossia a congetture assurde e arbitrarie, che non hanno alcun fondamento logico, ma servono solo «a esercitare gli ingegni», offrendo, tutt’al più, esempi di stile sofistico o retorico.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Perché l’autore afferma che se non fosse stato indotto dalle circostanze di vita, dal suo «particulare», avrebbe amato «Martino Luther»? Quali difetti del clero biasima aspramente?

AnALIzzARe

> 2. In quale punto del «ricordo» 1 l’autore fornisce una definizione di fede? Essa si applica solo alla fede religiosa,

oppure potrebbe adattarsi anche a una credenza politica, filosofica ecc.? Rispondi in max 3 minuti. > 3. Stile Rintraccia e sottolinea, nel «ricordo» 1, due massime proverbiali riguardanti la fede. > 4. Lessico Riscrivi il «ricordo» 125 sostituendo i termini non più in uso con un sinonimo senza modificare il significato originario delle frasi. > 5. Lessico Ricerca nel «ricordo» 1 i termini «ostinazione», «openione», «certezza» e «resoluzione», analizzali nel loro contesto e fornisci una definizione per ciascuno di essi. APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Contesto: storia Rifletti sul contesto storico che fa da sfondo alle affermazioni di Guicciardini sulla religione. Quale fisionomia aveva la Chiesa all’inizio del Cinquecento? In risposta a quali istanze era sorto il movimento della Riforma protestante?

PeR IL PoTenzIAMenTo

> 7.

esporre oralmente Confronta (max 5 minuti) le posizioni di Machiavelli e di Guicciardini a proposito della religione e della Chiesa di Roma.

T4

Le ambizioni umane dai Ricordi, 15, 16, 17, 32, 118

Temi chiave

• la spinta alla ricerca degli onori e dell’utile • le insidie nascoste di grandezze e onori • l’ambizione positiva e quella negativa (dei principi)

15. Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile1: e n’ho conseguito2 molte volte sopra3 quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho poi mai trovato drento quella satisfazione4 che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi5, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità6 degli uomini. 1. onore e utile: gloria (ma anche incarichi prestigiosi) e vantaggi materiali. 2. n’ho conseguito: ne ho ottenuti.

486

3. sopra: oltre, più di quanto. 4. satisfazione: soddisfazione, piacere. 5. chi … considerassi: per chi la conside­

rasse attentamente. 6. tagliare … cupidità: eliminare, ridurre molti degli inutili desideri.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

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16. Le grandezze e gli onori sono communemente7 desiderati, perché tutto quello che vi è di bello e di buono apparisce di fuora e è scolpito nella superficie8: ma le molestie, le fatiche, e’ fastidi e e’ pericoli sono nascosti e non si veggono; e’ quali se apparissino come apparisce el bene9, non ci sarebbe ragione nessuna da dovergli10 desiderare, eccetto una sola: che quanto più gli uomini sono onorati, reveriti e adorati, tanto più pare che si accostino e diventino quasi simili a Dio, al quale chi è quello che non volessi assomigliarsi11? 17. Non crediate a coloro che fanno professione12 d’avere lasciato le faccende e le grandezze13 volontariamente e per amore della quiete, perché quasi sempre ne è stata cagione14 o leggerezza15 o necessità: però16 si vede per esperienza che quasi tutti, come se gli offerisce uno spiraglio17 di potere tornare alla vita di prima, lasciata la tanto lodata quiete, vi si gettano con quella furia che fa el fuoco18 alle cose bene unte e secche. 32. La ambizione non è dannabile19, né da vituperare20 quello ambizioso che ha appetito21 d’avere gloria co’ mezzi onesti e onorevoli: anzi sono questi tali che operano22 cose grande e eccelse, e chi manca di questo desiderio, è spirito freddo23 e inclinato24 più allo ozio che alle faccende25. Quella è ambizione perniziosa26 e detestabile che ha per unico fine la grandezza, come hanno communemente e’ prìncipi, e’ quali, quando se la propongono per idolo27, per conseguire ciò che gli conduce a quella, fanno uno piano della conscienza28, dell’onore, della umanità e di ogni altra cosa. 118. A chi stima29 l’onore assai, succede30 ogni cosa, perché non cura31 fatiche, non pericoli, non danari. Io l’ho provato in me medesimo, però lo posso dire e scrivere: sono morte32 e vane le azione degli uomini che non hanno questo stimulo33 ardente.

7. communemente: generalmente, da tutti. 8. apparisce … superficie: si mostra al­ l’esterno ed è fatto risaltare in superficie, ossia nelle idee e nei giudizi superficiali della gente comune. 9. e’ quali … el bene: se questi apparissero, fossero evidenti come lo sono i vantaggi, i privilegi. 10. ragione … dovergli: nessun motivo per doverli. 11. assomigliarsi: essere simile. 12. fanno professione: dichiarano. 13. le faccende e le grandezze: le attività pubbliche e le cariche onorifiche. 14. cagione: causa.

15. leggerezza: condotta avventata, scon­ siderata. 16. però: perciò. 17. come … spiraglio: non appena si offre loro una possibilità. 18. che fa el fuoco: con cui il fuoco si appic­ ca. 19. dannabile: riprovevole, da condannare. 20. vituperare: è (sottinteso) da giudicare negativamente, disprezzare. 21. appetito: desiderio, brama. 22. operano: compiono, realizzano. 23. spirito freddo: individuo insensibile, apatico. 24. inclinato: portato, propenso.

25. faccende: si intendono soprattutto gli impegni politici. 26. perniziosa: perniciosa, dannosa (“è ambizione dannosa… quella che…”). 27. per idolo: come valore assoluto, come se fosse una divinità. 28. fanno … conscienza: spianano, fanno tacere ogni voce della coscienza. 29. stima: apprezza (e quindi desidera conseguirlo). 30. succede: riesce. 31. non cura: non si preoccupa di. 32. morte: prive di vita, improduttive. 33. stimulo: stimolo, incentivo, ma anche passione.

Pesare le parole Succede (riga 25)

> Viene dal latino succèdere, composto di sub- e cèdere, “venire al di sotto, subentrare”. Qui ha il senso di “riuscire, aver successo”, che oggi è in disuso; i sensi più comuni nella lingua attuale sono: “subentrare, prendere il posto di altri”, donde la successione, al trono, in un’eredità (es. a Giovanni Paolo II è successo Benedetto XVI); “venire dopo, nel tempo e nello

spazio” (es. l’effetto succede alla causa); ricorre anche nella forma riflessiva (es. gli avvenimenti si succedono con un ritmo incalzante); “accadere, avvenire” (es. il fatto è successo il mese scorso). Il successo è “esito favorevole, buona riuscita” (es. il film ha avuto uno strepitoso successo).

487

L’età del Rinascimento

Competenze attivate

Analisi attiva CoMPRendeRe

> La spinta determinante all’azione

Il gruppo di «ricordi» qui antologizzato individua nell’ambizione di onore e di gloria una delle molle più potenti e profonde dell’agire umano. Non per questo Guicciardini rinuncia a indagare le contraddizioni che muovono i comportamenti.

• Leggere, comprendere ed interpretare

testi letterari: prosa • Dimostrare consapevolezza della

storicità della letteratura

> 1. Sintetizza in due righe la tesi enunciata da Guicciardini in ciascun «ricordo». > 2. Aiutandoti con le note, svolgi oralmente la parafrasi dei «ricordi» 17 e 32.

AnALIzzARe

> Il desiderio di «onore e utile» (15)

La breve meditazione si sofferma sul significato delle conquiste e delle glorie umane, che risultano effimere e caduche. Anche in questo caso Guicciardini si stacca decisamente dalla tradizione umanistico-rinascimentale. Il nucleo dell’osservazione si può addirittura ricondurre al pensiero religioso del Medioevo e a Petrarca, che aveva ripreso il motivo delle «vane cupidità degli uomini». Nel ricollegarsi a questa tradizione, Guicciardini vi introduce un atteggiamento di impassibile distacco, un disincanto che sembra anticipare analoghi spunti reperibili nell’opera di Giacomo Leopardi. Il pensiero si basa sull’esperienza personale ed è presentato in maniera soggettiva, attraverso l’evidenza della prima persona (l’«Io» iniziale), ma si allarga poi ad una situazione più generale, che ne costituisce la conclusione (il paragone con «tutti gli uomini», già introdotto in apertura, è suggellato dalla ripresa del sostantivo nella frase finale). Si noti la struttura quadripartita della costruzione, divisa dall’avversativa («e nondimeno») in due parti, a loro volta collegate da evidenti parallelismi verbali.

> Gli inconvenienti che ne derivano (16)

Il «ricordo» sviluppa e corregge quello precedente. Anche in questo caso Guicciardini indaga le relazioni fra aspetti antitetici e contraddittori della realtà; emerge, in particolare, una distinzione fra la «superficie» e ciò che sta «nascosto», che introduce una visione prospettica delle cose. Gli uomini seguono le apparenze, perché su di esse si basa la pubblica opinione, rendendole allettanti e desiderabili. Proprio la dialettica fra ciò che si desidera («desiderati», «dovergli desiderare») e ciò che appare esteriormente («apparisce di fuora», con le riprese del medesimo verbo) costituisce la motivazione di un comportamento che risulta ingannevole e limitato, perché unilaterale, incapace di comprendere lo spessore ambivalente del reale (in questo caso, «le molestie, le fatiche, i fastidi e pericoli», che rappresentano l’altra faccia della medaglia).

488

> 3. Sulla base dell’esperienza personale dell’autore, in che cosa si esprime il carattere effimero della gloria a cui l’uomo aspira?

> 4. Rintraccia la trama di richiami e rinvii tra le due parti in cui è divisa la riflessione dell’autore.

> 5. Se l’uomo fosse consapevole dei sacrifici che comporta il raggiungimento della gloria, vi rinuncerebbe, oppure la ricercherebbe comunque, secondo Guicciardini? > 6. Quale particolare ambizione dell’uomo è individuata nell’interrogativa finale? Rintracci un’inflessione ironica in tale conclusione del discorso? > 7. Analizza la costruzione sintattica del «ricordo». Si può sostenere che sia anche questa quadripartita, pur presentando una struttura più articolata e circostanziata rispetto a quella del «ricordo» 15? Motiva la tua risposta.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

Guicciardini non giudica, lasciando che lo svolgimento del pensiero assecondi i fatti nella loro oggettiva nudità, attraverso il rigore della definizione dell’argomento e della costruzione formale.

> Su chi lascia «le faccende e le grandezze» (17)

> 8. Quale metafora e quale similitudine compaiono in questo «ricordo»? A quale idea esse danno risalto?

> differenti tipi di ambizione (32)

> 9. Individua il chiasmo presente nell’e-

Il passo conclude la sequenza (si potrebbe parlare di un “trittico”) avviata dai due precedenti, introducendo un nuovo scarto nella prospettiva della valutazione e del giudizio. Il pensiero si fonda sull’«esperienza», che permette sì di giungere alla formulazione di princìpi di carattere più generale, ma non in senso assoluto (si noti la correzione attenuativa contenuta nelle formule, simmetricamente disposte, «quasi sempre» e «quasi tutti»). Il contenuto dell’osservazione rivela il pessimismo disincantato di Guicciardini, che ammonisce a non prestare fede ciecamente ai proclami delle nobili intenzioni («Non crediate a coloro…»), mostrando il carattere per lo più interessato delle azioni e dei comportamenti umani. Tornando nuovamente sul problema, Guicciardini contrappone l’«ambizione», come molla delle azioni umane, all’«ozio», improduttivo, di chi è privo di slanci e desideri. In un secondo tempo (anche questo passo, come il precedente, è nettamente calibrato e suddiviso in due parti) distingue fra una «ambizione» positiva e una negativa.

spressione «La ambizione non è dannabile, né da vituperare quello ambizioso che ha appetito d’avere gloria co’ mezzi onesti e onorevoli».

> 10. Secondo Guicciardini, è più utile alla

società chi cerca l’«onore» o chi lo disdegna? Motiva la tua risposta.

> 11. In base a quale criterio Guicciardini in-

dividua due ambizioni di segno opposto? Come viene esplicitato nel testo ciò che le distingue?

> Lo «stimulo ardente» dell’onore (118)

Anche questo «ricordo» si basa sull’esperienza personale e pone in primo piano l’«io» autobiografico («Io l’ho provato in me medesimo»). L’argomento è sviluppato rapidamente, con la consueta capacità sintetica, nel primo e nell’ultimo periodo, che colgono due opposte possibilità: l’antitesi è fra «chi stima l’onore» e gli «uomini che non hanno questo stimulo ardente».

> 12. Da che cosa è giustificata l’espressione

«però lo posso dire e scrivere»? Quale valore enfatico assume? Nella tua risposta considera anche la connotazione che lo “scritto” ha nei «ricordi» 6 e 114 ( T1, p. 478).

APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> Il tema dell’ambizione in Machiavelli e Guicciardini

Nel «ricordo» 32, incentrato sull’opposizione tra l’ambizione priva di scrupoli dei potenti e quella positiva di chi persegue con onore i propri scopi e nel rispetto delle regole, il riferimento ai «prìncipi» sembra lasciare intravedere un’implicita contrapposizione al pensiero di Machiavelli, secondo il quale il fine può giustificare i mezzi.

> 13. Facendo riferimento alle tue esperienze

di studio, svolgi un confronto con Machiavelli, mettendo in luce le analogie e le differenze tra i due autori nella valutazione dell’ambizione politica.

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L’età del Rinascimento

T5

Le «varie nature degli uomini» dai Ricordi, 44, 60, 61, 134

Temi chiave

• la dissimulazione e la menzogna • il carattere della riflessione • la morale e la giustizia

Guicciardini, che concentra costantemente l’attenzione sul piano dell’esperienza umana, pone l’accento sulla sua varietà, che si manifesta nell’infinita diversità dei comportamenti, da valutare anch’essi caso per caso.

44. Fate ogni cosa per parere buoni, ché1 serve a infinite cose: ma, perché le opinione false non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni, se in verità2 non sarete. Così mi ricordò3 già mio padre.

Audio

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60. Lo ingegno più che mediocre4 è dato agli uomini per loro infelicità e tormento, perché non serve loro a altro che a tenergli5 con molte più fatiche e ansietà che non hanno quegli che sono più positivi6. 61. Sono varie le nature degli uomini: certi sperano tanto che mettono7 per certo quello che non hanno, altri temono tanto8, che mai sperano se non hanno in mano. Io mi accosto più a questi secondi che a’ primi: e chi è di questa natura si inganna manco9, ma vive con più tormento10. 134. Gli uomini tutti per natura sono inclinati11 più al bene che al male, né è alcuno el quale, dove altro rispetto non lo tiri in contrario, non facessi più volentieri bene che male12; ma è tanto fragile la natura degli uomini e sì spesse13 nel mondo le occasioni che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare14 dal bene. E però15 e’ savi16 legislatori trovorono17 e’ premi e le pene: che non fu altro che con la speranza e col timore volere tenere fermi gli uomini nella inclinazione loro naturale18.

1. ché: perché. 2. in verità: nella pratica quotidiana. 3. ricordò: avvertì. Emerge qui l’esigenza di una morale che trova le sue basi nell’educazione familiare, nei valori di una vita che si gioca anche fuori delle attività pubbliche, in una dimensione privata in cui la visione utilitaristica si stempera nella coda didascalica del consiglio paterno. 4. ingegno ... mediocre: intelligenza supe­ riore, in quanto va oltre la mediocrità della gente comune. 5. tenergli: tenerli, nel senso di “occupare la loro mente”.

6. positivi: legati alle cose materiali, prosaici; anche limitati, perché vivono una vita povera dal punto di vista intellettuale. 7. mettono: tengono. Sperano con tanta convinzione che sono sicuri (mettono per certo) di ottenere quello che ancora non possiedono. 8. temono tanto: sono così dubbiosi, ma anche cauti. 9. manco: di meno. 10. tormento: anche nel senso di preoccu­ pazioni. 11. inclinati: predisposti. 12. né è ... male: e non c’è nessuno che, qua­

lora un altro motivo (rispetto) non lo spinga nella direzione opposta, non preferisca fare il bene piuttosto che il male. 13. sì spesse: così frequenti. 14. deviare: allontanare, distogliere. 15. però: perciò. 16. e’ savi: i saggi. 17. trovorono: stabilirono. 18. che non fu ... naturale: e questo (ossia l’istituzione dei premi e delle pene) per man­ tenere gli uomini nella loro inclinazione naturale (l’inclinazione al bene) con la speranza (dei premi) e col timore (delle pene).

Analisi del testo

> L’essere e l’apparire (44)

Il «parere buoni», ossia la considerazione e la stima nel giudizio degli altri, è considerato, comunque si raggiunga lo scopo, un fatto positivo. L’avversativa opera tuttavia una sostanziale correzione della prospettiva, opponendo, alle «opinione false», il carattere autentico e non facilmente mistificabile della «verità». La responsabilità

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Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

etica dell’affermazione è rafforzata dall’autorità dell’insegnamento paterno. La conclusione, improvvisa e lapidaria, segna un ritorno al privato, ricollegando la notazione a una dimensione domestica e, più in particolare, alla tradizione dei «ricordi» familiari, caratteristica della cultura mercantile, a Firenze, fra Tre e Quattrocento. L’incertezza nelle decisioni

Le «nature degli uomini»

> La diversità dei comportamenti umani (60-61)

Questi due «ricordi» sono strettamente collegati fra di loro. Riguardano – con esplicito riferimento autobiografico – l’incertezza delle azioni umane e la difficoltà della decisione. Il carattere sofferto della riflessione è indicato dalla parola-chiave «tormento», che li accomuna e che coinvolge una più estesa gamma semantica («infelicità», «fatiche», «ansietà», «temono tanto», «mai sperano»). All’origine è la constatazione delle «varie le nature degli uomini». Nel primo l’uomo di «ingegno più che mediocre», considerato più infelice, è contrapposto a «quegli che sono più positivi» e che non si pongono problemi al di là di quelli immediati (si noti la collocazione di queste due citazioni all’inizio e alla fine del «ricordo»). Nel secondo l’antitesi, sottolineata dalla perfetta corrispondenza delle espressioni («certi sperano tanto [...], altri temono tanto [...]»), individua il dissidio fra la capacità di valutare realisticamente i fatti e la perdita delle illusioni, la rinuncia a ogni speranza consolatoria.

> Il bene e il male (134) Una visione disincantata della morale e della giustizia

Guicciardini, a differenza di Machiavelli, ritiene che gli uomini, per natura, siano tendenzialmente inclinati al bene. Ma la fragilità della condizione umana non consente loro di abbandonarsi a speranze o illusioni; pur muovendo da presupposti diversi, il suo pessimismo giunge così a conclusioni non lontane da quelle machiavelliane, considerando il problema della morale e della giustizia in una disincantata prospettiva di opportunità sociale, politica e giuridica.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Spiega il significato letterale dell’affermazione «perché le opinione false non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni» (rr. 1-2).

> 2. Sintetizza il contenuto del Ricordo 134. AnALIzzARe

> 3.

Stile Quale, fra i ricordi proposti, si configura sul piano espressivo come vero e proprio precetto per il lettore? Motiva la tua risposta. > 4. Stile Quale figura retorica individui nella frase «certi sperano tanto che mettono per certo quello che non hanno» (rr. 7-8)?

APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> 5. esporre oralmente «Io mi accosto più a questi secondi che a’ primi» (rr. 8-9): ritieni che la vita e la personalità

di Guicciardini rispecchino tale affermazione? Rispondi in max 3 minuti in base agli studi da te effettuati sull’argomento. PASSATo e PReSenTe Le «varie nature degli uomini» di oggi

> 6. Quale, fra i ricordi analizzati, ti sembra più adatto a rappresentare la natura degli uomini di oggi? Preparati a sostenere la tua tesi in classe.

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L’età del Rinascimento

Interpretazioni critiche

Alberto Asor Rosa Per una lettura “antropologica” dei Ricordi Esaminando i Ricordi in tutte le loro componenti tematicoideologiche e stilistico-strutturali, Alberto Asor Rosa realizza una efficace sintesi dei diversi livelli di lettura dell’opera sottolineando il modo nuovo di affrontare i rapporti della letteratura con la realtà.

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Alberto Asor Rosa, mettendo l’accento sulla mutevolezza del pensiero guicciardiniano, che spiega le contraddizioni presenti nei Ricordi, ne riconduce il problema conoscitivo sul piano concreto di un’esperienza che, proprio in quanto testimonianza di un periodo di crisi, consente di riconoscere la profonda unitarietà dell’opera.

Guicciardini elabora una nuova forma del pensiero, che s’affianca, più che contrapporsi, a quella maestra del trattato politico moderno. Io penso che abbiano molto a che fare con questa scelta da parte dell’autore sia la sua decisa opzione antilibresca sia la messa in evidenza del valore dell’esperienza come fondamento essenziale di ogni agire umano: sia l’una che l’altra, come si può capire, spingevano in direzione esattamente contraria ad ogni tentativo di “sistemazione” e “regolamentazione” del reale. Ha scritto Guicciardini: È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzioni e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.

Il “mondo” di Guicciardini è dunque un mondo in cui le “distinzioni” e le “eccezioni” prevalgono nettamente sugli elementi di continuità e di regolarità; nei libri, invece, per definizione, noi non possiamo non trovare soprattutto le regole e le costanti; ergo, il libro non insegna a leggere veramente il reale, ed occorre perciò fare ricorso ad un diverso tipo di conoscenza, che riproduca – per quanto è possibile – «la varietà delle circunstanze». Come potrebbe perciò Guicciardini scrivere un libro di forma tradizionale su questi fondamenti che ne negano l’utilità? Guicciardini deve letteralmente “scompaginare” la forma del vecchio libro per adattarla alla forma di questo nuovo pensiero. Per quanto, ovviamente, Guicciardini sia portato a dare grande importanza al fattore naturale nella formazione della conoscenza («Né si truova libro che lo insegni, ma è necessario che questo lume ti dia prima la natura e poi la esperienza»), tuttavia, in definitiva, dovendo scegliere, egli è portato a dare la palma al fattore esperienziale, in quanto l’esperienza “aggiunge” qualcosa d’indispensabile che neanche l’intelligenza può da sola conseguire: Non si confidi alcuno tanto nella prudenza naturale che si persuada quella bastare sanza l’accidentale della esperienza, perché ognuno che ha maneggiato faccende, benché prudentissimo, ha potuto conoscere che con la esperienza si aggiugne a molte cose, alle quali è impossibile che il naturale solo possa aggiugnere.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

Questo è tanto vero che solo l’esperienza può produrre esperienza: e questo ricordo lo gusterà meglio chi ha maneggiato faccende assai, perché con la esperienza medesima ha imparato quanto vaglia e sia buona la esperienza.

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È sempre stata per me di grande importanza per capire la forma mentale del Guicciardini l’affermazione che chiude quel pensiero […] sul modo migliore di leggere e considerare i Ricordi: per poterli padroneggiare e utilizzare fino in fondo bisogna «farsene tale abito che s’abbino freschi alla memoria». Guicciardini parla di «abito»: si tratta di quella forma di educazione alla conoscenza, che, pur non prescindendo ovviamente dai vari fattori razionali, li incorpora in una più profonda e organica costituzione mentale, che è il vero fondamento di ogni pratica conoscitiva. L’unico livello in cui pensiero ed esperienza s’incontrano e si sistemano è quello dell’«abito», dove ciò che ad altri livelli è scisso e incomunicabile diventa un tutto unico, capace di funzionare anche praticamente. Questo privilegiamento assoluto del fattore esperienziale porta da una parte alla frammentizzazione, non tanto voluta quanto organica e necessaria, della forma del pensiero, dall’altra ad una forma di pensiero in cui i vari livelli sono, nella grande maggioranza dei casi, tutti compresenti. È esperienza comune di ogni attento lettore dei Ricordi che è impossibile racchiudere uno qualsiasi di essi in una definizione univoca: quasi sempre confessione personale, riflessione esistenziale, valutazione politica, componente psicologica s’intrecciano e si confondono insieme a formare una nuova unità. La prova di questa complessità sta nel fatto, ad esempio, che Guicciardini si consente spesso il lusso di contraddizioni, che su di un diverso piano teorico sarebbero inammissibili. Questo si può vedere perfino in punti particolarmente decisivi del suo ragionamento: sappiamo, ad esempio, che per lui «gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male»; ma questa radicata persuasione non gli impedisce di dichiarare altrove che «sono più e cattivi uomini che e buoni, massime dove va interesse di roba o di stato». Tutto ruoterebbe, dunque, intorno al concetto di «fragilità» della natura, di per sé incline al bene, e tuttavia sottoposta a tal punto alla tentazione di ciò che Guicciardini chiama «le occasione», da riuscire in pratica il contrario di quanto in teoria ci si dovrebbe aspettare. La medesima considerazione si potrebbe fare a proposito del tasto or ora toccato dei rapporti fra natura ed esperienza. Abbiamo visto che per Guicciardini la «prudenza naturale» non basta «sanza l’accidentale della esperienza». Altrove, però, lo troviamo pronto ad affermare che la «discrezione», «se la natura non t’ha data, rade volte si impara tanto che basti con la esperienza; co’ libri non mai». In ambedue i casi, il ragionamento guicciardiniano non reggerebbe al vaglio di un’indagine, in un senso o nell’altro, rigorosamente teoretica. Se noi invece lo prendiamo come riflesso ed espressione di un pensiero in continuo movimento, che cerca di tradurre nella maniera più fedele possibile un livello esperienziale, le contraddizioni ci appariranno per quello che sono, e cioè il riflesso mutevole della immensa varietà delle «circunstanze» possibili. Ciò porta ad escludere che i Ricordi possano essere letti come un trattato politico e come un sistema filosofico – tentativi che pure sono stati, ambedue, alternativamente sperimentati –, sebbene elementi di riflessione politica e filosofica vi siano ovviamente contenuti. L’unico punto di vista in grado di tenere insieme i vari frammenti del quadro e di cogliere l’unità complessiva dell’insieme, che pure c’è, è antropologico: i Ricordi riflettono in tutta la sua complessità, e cioè su tutti i vari piani, un momento di passaggio e di crisi radicale nella storia della cultura italiana moderna, e, più ampiamente, nella storia italiana moderna. Se si tiene presente questa prospettiva, la loro ricchezza di riferimenti e di spunti può venire tutta alla luce. A. Asor Rosa, «Ricordi» di Francesco Guicciardini, in Letteratura italiana, Le opere, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Torino 1993

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L’età del Rinascimento

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. In che cosa consiste la «nuova forma del pensiero che s’affianca, più che contrapporsi, a quella maestra del trattato politico moderno» (rr. 1-3)?

> 2. Quali elementi il critico privilegia delle citazioni dai Ricordi (rr. 1-42)? > 3. Quale valore positivo assumono le «contraddizioni» di Guicciardini (rr. 43-76)? > 4. Perché quello «antropologico» è per il critico l’unico punto di vista attraverso cui interpretare la «complessità» dei Ricordi (rr. 43-76)?

AnALIzzARe

> 5.

Stile

Spiega le immagini metaforiche del «libro» e dell’«abito» (rr. 1-43).

APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> 6.

esporre oralmente Soffermati sulla genesi e sui caratteri dei Ricordi e spiega se riflettono l’interpretazione del critico in riferimento soprattutto al ruolo privilegiato che il «fattore esperienziale» assume nell’opera rispetto ad ogni componente teoretica (max 3 minuti).

visualizzare i concetti

Autori a confronto

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Machiavelli e Guicciardini

MAChIAveLLI

GuICCIARdInI

L’uomo

Secondo una visione crudamente pessimistica, l’uomo è considerato moralmente malvagio e naturalmente portato a soddisfare interessi egoistici e materiali

Gli uomini sono per natura «inclinati più al bene che al male», ma la loro fragilità li porta a lasciarsi «facilmente deviare dal bene»

«Virtù» vs «fortuna»

In piena coerenza con la visione umanistica, si esprime fiducia nella capacità dell’uomo di dominare la «fortuna» con la propria «virtù»

Alla «fortuna» è attribuita una «grandissima potestà», ovvero il peso maggiore e decisivo nel determinare l’esito degli eventi

La realtà e la storia

Gli eventi umani seguono delle logiche precise e conoscibili: studiandoli si possono formulare vere e proprie leggi di validità universale, applicabili ad ogni situazione (la storia è «maestra di vita»)

La realtà appare frammentata e irrazionale: in essa non si colgono leggi e modelli assoluti che permettano di comprendere e di controllare gli eventi

Il mondo classico

Gli esempi tratti dalla storia antica devono essere un punto di riferimento costante e un modello da imitare nel presente (“classicismo” storico-politico)

La storia romana non conserva alcun valore esemplare

L’ideale politico

La repubblica è la forma più alta e preferibile di organizzazione dello Stato, anche nel momento di particolare crisi che l’Italia sta vivendo sarebbe auspicabile la formazione di uno Stato forte

Le forme di governo democratiche sono considerate meno stabili e giuste di quelle di tipo oligarchico o monarchico

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

4 Le Cose fiorentine

La Storia d’Italia

L’impostazione Le fonti e la ricerca delle cause

Lo stile

I “ritratti” e le “orazioni”

La Storia d’Italia L’assidua riflessione condotta nei Ricordi non esclude, per Guicciardini, la necessità di cercare più ampie verifiche e conferme sul terreno della storia. Intorno al 1528 aveva iniziato la stesura delle Cose fiorentine (rimaste inedite fino al 1945), interrompendola nel 1531. La prospettiva municipale infatti, unicamente legata all’evoluzione di una storia cittadina, si stava oramai rivelando sempre più stretta, non più in grado di comprendere il presente. Anche da queste considerazioni doveva nascere l’impresa di maggior impegno di Guicciardini, la Storia d’Italia, in venti libri. Scritta fra il 1537 e il 1540, l’opera abbraccia gli avvenimenti compresi fra il 1492 (anno della morte del Magnifico) e il 1534 (anno della morte di Clemente VII), comprendendo i fatti più luttuosi della storia recente: dalla calata di Carlo VIII al sacco di Roma. Se la storia di Firenze non poteva non inserirsi in un contesto italiano, la storia dell’Italia si risolveva (e si dissolveva), di fatto, in quella della grande politica europea, in cui la nostra penisola svolgeva un ruolo secondario, e tuttavia tragicamente rilevante risultando ormai in balia delle grandi potenze straniere che se ne contenderanno d’ora innanzi il possesso. L’impostazione è annalistica, sull’esempio del grande storico romano Cornelio Tacito, ma l’opera non perde per questo la sua coesione e unitarietà, grazie alla penetrante esattezza con cui lo scrittore rappresenta gli avvenimenti ( T6, p. 496). La narrazione è intessuta principalmente di analisi politiche e psicologiche (Guicciardini non ha interesse per la storia sociale), che derivano da un attento esame delle testimonianze e delle fonti. Su questa base lo scrittore segue analiticamente lo svolgersi delle vicende e cerca di individuarne le cause, senza vincolare la loro spiegazione a schemi precostituiti. È questa la sostanziale novità e modernità dell’operazione da lui condotta, non solo rispetto alla storiografia medievale, ma anche nei confronti del pensiero di Machiavelli. All’atteggiamento di pessimistico disincanto corrisponde tuttavia, qui, uno stile ad arcate ampie e talora solenne, che si allontana sia dalla varietà e vivacità della prosa machiavelliana, sia dall’essenziale stringatezza dei Ricordi. La costruzione del periodare guicciardiniano è ampia e articolata, quasi tentacolare, nello sforzo di abbracciare i molteplici e complessi legami che intercorrono fra il comportamento degli uomini e la trama degli eventi. Ma la particolare cura formale (il testo venne accuratamente rivisto tenendo conto delle indicazioni fornite da Bembo nelle Prose della volgar lingua) rappresenta anche un’aspirazione classica, come superiore controllo esercitato dallo stile sull’andamento mutevole e imprevedibile degli eventi. La Storia guicciardiniana vive su questo doppio movimento: impostata metodologicamente su criteri moderni di estrema spregiudicatezza, vuole ugualmente ricollegarsi, sul piano stilistico, al passato della tradizione umanistica, quasi a proclamare – per una sorta di sofferta compensazione – l’ideale vittoria della cultura e della letteratura sulle forze ostili e negative della storia. In tale ambito vanno considerati i numerosi “ritratti” dei protagonisti, che non si limitano mai, però, all’esteriorità e alla superficie, ma cercano di sondarne l’intimo, l’indole e le motivazioni profonde che muovono e determinano l’agire dell’uomo. Ai ritratti si collegano le “orazioni”, spesso parallele, pronunciate dai personaggi, che difendono opposte scelte politiche. È anche questa una soluzione classicheggiante, che, privilegiando i grandi “attori” della storia, accentua l’evidenza drammatica del racconto, presentandolo come una «tragedia» che si viene via via svolgendo, fatalmente, davanti agli occhi dei lettori.

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L’età del Rinascimento

T6

L’Italia alla fine del Quattrocento

Temi chiave

• il peso dell’esperienza politica dell’autore

• il pessimismo sulla situazione politica

dalla Storia d’Italia, capp. I-II

dell’Italia

È il celebre proemio della Storia guicciardiniana, in cui vengono esposti gli intendimenti dell’opera e il quadro generale del periodo rappresentato, prima della trattazione analitica dei fatti. Riproduciamo, in particolare, il capitolo I e l’inizio del capitolo II.

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• il ruolo decisivo della fortuna

I Io ho deliberato1 di scrivere le cose accadute alla memoria nostra2 in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi3, chiamate da’ nostri prìncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla4: materia, per la varietà e grandezza loro5, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti6; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità7 con quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati8. Dalla cognizione9 de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio10 e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti11: onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti12, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi13, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati14 di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti15, non si ricordando delle spesse variazioni16 della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune17, si fanno, o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni18. Ma le calamità d’Italia (acciocché19 io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni20 dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali21 erano allora

1. deliberato: stabilito, deciso. 2. alla memoria nostra: nel nostro tempo (dal latino memoria nostra). 3. dappoi … franzesi: dopo che l’esercito francese, cioè dopo che, nel 1494, Carlo VIII, re di Francia, si impossessa del Regno di Napoli in quanto erede degli Angioini. 4. perturbarla: turbarne l’equilibrio, sconvol­ gerla. 5. loro: delle cose accadute. 6. accidenti: avvenimenti. 7. calamità: mali, sciagure.

8. vessati: oppressi, tormentati. 9. cognizione: conoscenza. 10. per sé proprio: per se stesso, per la pro­ pria utilità. 11. prendere … documenti: ricavare molti salutari insegnamenti. 12. né … venti: e non diversamente da un mare agitato dai venti. 13. perniciosi: dannosi, pericolosi. 14. consigli male misurati: le decisioni af­ frettate, di cui non si sono bene calcolate le conseguenze.

15. cupidità presenti: cupidigie, brame del momento. 16. si ricordando … variazioni: non ricordan­ dosi dei frequenti cambiamenti, capovolgimenti. 17. convertendo … comune: trasformando, rovesciando a danno degli altri il potere conces­ so loro per il bene pubblico. 18. turbazioni: perturbazioni, sconvolgimenti. 19. acciocché: affinché. 20. cagioni: cause. 21. cose universali: lo stato generale della salute politica ed economica del Paese.

Pesare le parole Documenti (riga 8)

> Deriva dal latino documèntum, dal verbo docère, “inse-

gnare”, quindi “tutto ciò che serve a insegnare”: qui conserva appunto il senso latino. I sensi più comuni oggi sono: “attestazione di una condizione giuridicamente rilevante” (es. documenti di identità); “testimonianza storica” (es. il palazzo è un documento insigne della civiltà rinascimentale); “qualsiasi cosa che costituisca materiale di informazione” (es. la tua ricerca deve basarsi su documenti attendibili). Documentare è provare con docu-

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menti (es. documentò la sua denuncia con fotografie e registrazioni). Documentarsi è procurarsi le informazioni necessarie a conoscere con precisione qualcosa (es. mi sono documentato sugli avvenimenti politici recenti). Documentario, come aggettivo, è ciò che ha forma di documento, ha funzioni informative (es. il romanzo naturalista aveva intenti prevalentemente documentari); come sostantivo, indica un film privo di trama narrativa, con finalità informative o didascaliche.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

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più liete e più felici. Perché manifesto è22 che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione23 degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni24, di quella grandezza a declinare25 alla quale con maravigliosa virtù26 e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanto prosperità27, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute28 cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti29. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi30, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata31 sommamente dalla magnificenza32 di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione33, fioriva d’uomini prestantissimi34 nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni35 molto nobili in tutte le dottrine36 e in qualunque arte preclara e industriosa37; né priva secondo l’uso38 di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso39 a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva40. Nella quale felicità, acquistata con varie occasioni41, la conservavano molte cagioni42: ma trall’altre, di consentimento comune43, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù44 di Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato45 nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella republica, potente più per l’opportunità del sito46, per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de’ danari47, che per grandezza di dominio48. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado49, e ridotto a prestare fede non mediocre50 a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità51. E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio52 sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati53 ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio54 che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che più in

22. manifesto è: è chiaro, evidente. 23. mutazione: cambiamento (nel senso di “decadenza”, “peggioramento”). 24. già sono … anni: più di mille anni fa (l’Impero Romano d’Occidente cadde nel 476). 25. declinare: decadere (propriamente ab­ bassarsi). 26. virtù: valore. La virtù e la fortuna sono concetti importanti, come si è visto, nel pensiero di Machiavelli, che stabilisce fra loro un preciso rapporto; Guicciardini, invece, li mette insieme indifferentemente, senza stabilire nessuna distinzione. 27. prosperità: benessere. 28. della salute: dell’era (in quanto la nascita di Cristo, da cui si contano gli anni, aveva rappresentato la salvezza dell’umanità). 29. furono congiunti: sono uniti, in quanto si trovano prima e poi (perifrasi per indicare gli anni intorno al 1490). 30. a altro … medesimi: ad altra autorità che quella degli stessi Italiani (suoi medesimi). Vuol dire che gli Stati della penisola erano allora indipendenti. 31. illustrata: resa illustre. 32. magnificenza: grandezza. 33. dalla sedia … religione: dal fatto di es­ sere sede della Chiesa (la sedia è il soglio pontificio) e dalla magnificenza (che ne derivava).

34. prestantissimi: molto valenti e zelanti, per quanto riguarda la conduzione dei pubblici affari. 35. ingegni: uomini d’ingegno, politici, artisti e intellettuali. 36. dottrine: discipline. 37. qualunque … industriosa: in tutte le arti più illustri (preclara è un latinismo, con valore di superlativo) e particolarmente im­ pegnative. 38. secondo l’uso: per quanto riguarda la consuetudine. 39. meritamente appresso: a pieno merito presso. 40. nome … riteneva: prestigio e celebrità straordinaria conservava. Il soggetto è l’Italia (si noti il verbo alla fine del periodo, secondo la costruzione latina, che dà all’espressione una particolare solennità). 41. occasioni: avvenimenti propizi, situazio­ ni favorevoli. 42. cagioni: ragioni, motivi. 43. di consentimento comune: per comu­ ne consenso, secondo l’opinione generale. 44. industria e virtù: consumata arte e sag­ gezza nel governare. 45. tanto … privato: talmente superiore al­ la sua condizione di privato cittadino, che Lorenzo de’ Medici, pur essendo di fatto principe della città, conservava formalmente (nei

suoi ordinamenti istituzionali Firenze continuava infatti a essere una republica). 46. l’opportunità del sito: il luogo, la posi­ zione favorevole. 47. la prontezza de’ danari: la possibilità di avere rapidamente a disposizione forti capita­ li (anche se, di fatto, l’economia fiorentina rivelava già allora segni di crisi). 48. dominio: territorio. 49. avendosi … parentado: essendosi re­ centemente (nuovamente) legato con rap­ porti di parentela. «Nel 1487 Maddalena, figlia di Lorenzo, aveva sposato Franceschetto Cibo, figlio di Giovan Battista Cibo, divenuto papa nel 1484 col nome di Innocenzo VIII» (Scarano). 50. ridotto … mediocre: avendo convinto ad accordare una grande (non mediocre) fi­ ducia. 51. grande nelle … autorità: aveva una grande autorità nelle decisioni (deliberazioni) che riguardavano i problemi comuni a tutti gli Stati italiani. 52. proprio: medesimo. 53. maggiori potentati: gli Stati più impor­ tanti, ossia quelli di Milano, Firenze, Venezia, Roma e Napoli. 54. procurava … studio: cercava in tutti i modi, con ogni cura (cioè con molta attenzione).

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una che in un’altra parte non pendessino55: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare56 con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva. Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune57 Ferdinando di Aragona58 re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione59 […]. Né a Lodovico Sforza60, benché di spirito inquieto e ambizioso, poteva piacere altra deliberazione61, soprastando non manco a quegli62 che dominavano a Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano63, e perché gli era più facile conservare nella tranquillità della pace che nelle molestie della guerra l’autorità usurpata. […] Essendo adunque64 in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti65, la medesima intenzione66 alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta67 in nome di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della republica fiorentina, per difensione68 de’ loro stati; la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati69 d’Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine principalmente di non lasciare diventare più potenti i viniziani; i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati70 ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati da’ consigli comuni71, e aspettando di crescere della altrui disunione e travagli72, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio73 di tutta Italia al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente74; e specialmente quando, presa occasione dalla morte di Filippo Maria Visconte75 duca di Milano, tentorono, sotto colore76 di difendere la libertà del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e più frescamente77 quando, con guerra manifesta78, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono. Raffrenava facilmente questa confederazione la cupidità del senato viniziano, ma non congiugneva già i collegati in amicizia sincera e fedele79: conciossiacosaché80, pieni tra se medesimi di emulazione e di gelosia, non cessavano di osservare assiduamente gli andamenti81 l’uno dell’altro, sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali a qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione82: il che non rendeva manco83 stabile la pace, anzi destava84 in tutti maggiore prontezza a procurare85 di spegnere sollecitamente86 tutte quelle faville87 che origine di nuovo incendio essere potessino88.

55. in modo … pendessino: si conservas­ sero (si mantenessino) equilibrate in modo tale da non propendere (non pendessino) più da una parte che dall’altra. Lorenzo cercava cioè di realizzare una politica di equilibrio, in modo tale che nessuno degli Stati italiani potesse avere il sopravvento sugli altri. 56. vegghiare: vegliare, vigilare su. 57. Concorreva … comune: partecipava alla stessa propensione, allo stesso desiderio della pacificazione di tutti. 58. Ferdinando di Aragona: Ferdinando I, salito al potere nel 1459 e morto nel 1494. 59. estimazione: stima, considerazione (è sottinteso “degno di”). 60. Lodovico Sforza: Ludovico Sforza, detto il Moro (1452-1508), signore di Milano. Salì al potere estromettendo di fatto il legittimo duca, il nipote Gian Galeazzo Maria. Nel 1480, dopo aver esautorato la madre Bona di Savoia, si proclamò suo tutore, relegandolo a Pavia e provocandone forse la morte. 61. altra deliberazione: una diversa deci­ sione, condotta politica.

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62. soprastando … quegli: dal momento che incombeva non meno su coloro. 63. viniziano: di Venezia, che aspirava a esercitare un ruolo egemone sulla penisola. 64. adunque: dunque. 65. rispetti: motivi, ragioni. 66. intenzione: propensione. 67. contratta: stabilita. 68. per difensione: per la difesa e la sicurez­ za. 69. i minori potentati: gli Stati più piccoli. 70. confederati: alleati. 71. procedevano … comuni: prendevano decisioni (consigli) diverse, ossia attuavano una politica autonoma rispetto alle decisioni prese di comune accordo da Napoli, Firenze e Milano. 72. della altrui … travagli: per il disaccordo, le liti e le difficoltà degli altri. 73. imperio: dominazione. 74. al quale … chiaramente: e che (i veneziani) desiderassero conquistare l’egemonia sulla penisola lo si era capito molto bene in diverse occasioni. 75. Filippo Maria Visconte: Filippo Maria

Visconti, morto nel 1447. Con lui si estinse il ramo ducale della famiglia, a cui succedettero gli Sforza. 76. sotto colore: con il pretesto. 77. frescamente: recentemente (nel 1482). 78. manifesta: apertamente dichiarata. 79. Raffrenava … fedele: questa lega (confederazione) teneva a freno, controllava con facilità l’avidità di dominio e di conquiste del senato veneziano, ma non riusciva a riunire con uno stretto e sincero legame di amicizia e di fedeltà gli alleati (collegati). 80. conciossiacosaché: poiché. 81. gli andamenti: i comportamenti. 82. sconciandosi … riputazione: guastan­ dosi vicendevolmente tutti i piani in virtù dei quali ciascuno di loro poteva accrescere il pro­ prio dominio o la propria fama. 83. manco: meno. 84. destava: sollecitava. 85. procurare: cercare. 86. sollecitamente: con sollecitudine, rapi­ damente. 87. faville: scintille. 88. potessino: potessero.

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II Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della tranquillità d’Italia, disposti e contrapesati89 in modo che non solo di alterazione presente non si temeva ma né90 si poteva facilmente congetturare91 da quali consigli92 o per quali casi o con quali armi s’avesse a muovere93 tanta quiete. Quando, nel mese di aprile dell’anno mille quattrocento novantadue, sopravenne la morte di Lorenzo de’ Medici; morte acerba94 a lui per l’età, perché morì non finiti ancora quarantaquattro anni; acerba alla patria, la quale, per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo95 a tutte le cose onorate e eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze e di tutti quegli beni e ornamenti da’ quali suole essere nelle cose umane la lunga pace accompagnata. Ma e fu96 morte incomodissima97 al resto d’Italia, così per l’altre operazioni98 le quali da lui, per la sicurtà99 comune, continuamente si facevano, come perché era mezzo100 a moderare e quasi uno freno ne’ dispareri101 e ne’ sospetti i quali, per diverse cagioni, tra Ferdinando e Lodovico Sforza, prìncipi di ambizione e di potenza quasi pari, spesse volte nascevano. La morte di Lorenzo, preparandosi già ogni dì più le cose alle future calamità, seguitò, pochi mesi poi, la morte del pontefice102; la vita del quale, inutile al publico bene per altro103, era almeno utile per questo, che avendo deposte presto l’armi mosse infelicemente104, per gli stimoli105 di molti baroni del regno di Napoli, nel principio del suo pontificato, contro a Ferdinando, e voltato poi totalmente l’animo a oziosi diletti, non aveva più, né per sé né per i suoi, pensieri accesi a cose che la felicità d’Italia turbare potessino. A Innocenzio succedette Roderigo Borgia, di patria valenziano106, una delle città regie107 di Spagna, antico cardinale108, e de’ maggiori della corte di Roma, ma assunto al pontificato per le discordie che erano tra i cardinali Ascanio Sforza109 e Giuliano di san Piero a Vincola110, ma molto più perché, con esempio nuovo in quella età, comperò palesemente111, parte con danari parte con promesse degli uffici112 e benefici suoi, che erano amplissimi113, molti voti di cardinali: i quali, disprezzatori dell’evangelico ammaestramento114, non si vergognorono di vendere la facoltà di trafficare col nome della autorità celeste i sacri tesori, nella più eccelsa parte del tempio115.

89. contrapesati: equilibrati, come se fossero bilanciati da dei “contrappesi”. 90. né: neppure. 91. congetturare: pensare, immaginare, facendo delle congetture. 92. consigli: decisioni, scelte politiche. 93. s’avesse a muovere: si potesse turbare. 94. acerba: immatura, crudele. 95. attissimo: particolarmente adatto e ca­ pace, acuto e versatile nei più diversi campi delle attività umane (compreso quello della letteratura). 96. e fu: fu anche. 97. incomodissima: molto dannosa (latinismo). 98. così … operazioni: sia per tutte le inizia­ tive diplomatiche. 99. sicurtà: sicurezza. 100. come … mezzo: sia perché era lo stru­ mento, il mediatore adatto. 101. dispareri: diversità nei giudizi, nelle va­ lutazioni. 102. La morte … pontefice: «la morte di

Lorenzo è oggetto di “seguitò”, il cui soggetto è la morte del pontefice. Innocenzo VIII morì il 25 giugno 1492» (Scarano; poi, do­ po); preparandosi … alle: mentre ormai ogni giorno di più le cose stavano volgendo, andando verso le. 103. per altro: per tutto il resto. 104. infelicemente: con esito infausto, sfor­ tunato. 105. gli stimoli: le pressioni, le sollecitazioni (il riferimento è all’aiuto prestato alla rivolta dei baroni contro Ferdinando d’Aragona). 106. di patria valenziano: nato a Valencia, in Spagna. Rodrigo Borgia prese il nome di Alessandro VI. Sul figlio Cesare Borgia, che si farà promotore di uno spregiudicato progetto politico, si veda Machiavelli ( cap. 6, T5, p. 392). 107. città regie: «l’apposizione si riferisce, secondo una costruzione ad sensum della frase, a Valencia, che entro l’organizzazione aragonese della Spagna era capitale di un regno parzialmente autonomo» (Scarano).

108. antico cardinale: cardinale da molto tempo (precisamente dal 1458). 109. Ascanio Sforza: il fratello maggiore di Ludovico il Moro. 110. Giuliano … Vincola: Giuliano della Rovere, che era cardinale di San Pietro in Vincoli. 111. palesemente: apertamente, senza nemmeno farsi scrupolo di tenere nascosti questi maneggi. 112. uffici: incarichi, cariche. 113. amplissimi: molto cospicui. 114. dell’evangelico ammaestramento: del­ l’insegnamento evangelico, su cui vedi Matteo, 21, 12-13; Luca, 19, 45-46; Marco, 11, 15-17. Si riferisce all’«elezione simoniaca di Alessandro VI» (Scarano), in cui non ci si vergognò di trafficare e vendere i beni spirituali della Chie­ sa (i sacri tesori) nel nome stesso di Dio (l’autorità celeste). 115. nella … tempio: presso la Curia pontifi­ cia, nella sede più alta della Chiesa.

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L’età del Rinascimento

Analisi del testo L’attualità del racconto

Gli aspetti negativi del presente

Esemplarità negativa Pessimismo e sfiducia

> La concezione della storia

L’autore esordisce in prima persona (l’«io» verrà ripreso nella parentesi del capoverso successivo), sottolineando la palpitante attualità del racconto: «le cose accadute alla memoria nostra». L’indicazione non ha un valore soggettivo, ma suggerisce l’impegno di una testimonianza diretta (anche di una presenza, data la partecipazione di Guicciardini ad alcuni degli avvenimenti narrati), che non è estranea, o indifferente, al processo della documentazione e della ricostruzione dei fatti. Il quadro è subito delineato in termini fortemente negativi, accentuati dall’uso dei superlativi e dall’impostazione retorica del discorso, che ricorre a un efficace topos della tradizione letteraria: quello delle «calamità» che affliggono i «miseri mortali», provocate «ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini». Ma Guicciardini non crede più in una concezione provvidenziale della storia, da lui ricondotta a una pura combinazione di cause naturali e di moventi umani. Occorre introdurre un’analoga distinzione per quanto riguarda il motivo, toccato subito dopo, secondo cui «potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti». L’affermazione, che riprende la definizione classica e umanistica della storia come “maestra di vita”, è accettabile solo se viene riportata a una dimensione pragmatica e relativa, propria della visione guicciardiniana; non c’è nulla, in essa, del valore esemplare, in senso assoluto, attribuito ad esempio da Machiavelli alla storia romana ( cap. 6, TT1-2, pp. 362 e ss.). La legge fondamentale della storia è data solo dalle «spesse variazioni della fortuna». L’esemplarità che ne deriva è di tipo negativo, e comunque limitata; nell’impossibilità di determinare il corso degli eventi, i governanti e i potenti hanno almeno il dovere di non peggiorare la situazione, subordinando l’utile personale a quello generale (si veda, in proposito, il «ricordo» 32, T4, p. 486). Emerge la preoccupazione per il benessere dello Stato e la tranquillità dei cittadini («la salute comune»), un senso vigile dei valori civili che si innesta, tuttavia, su una moralità pessimistica e sfiduciata. L’autore sembra quasi riprendere, in chiave politica, il motivo della decadenza degli Stati (si veda il «ricordo» 189, T1, p. 478), con un riferimento, nel sintagma «errori vani», alla tematica petrarchesca della vanità dei beni umani. Si affaccia inoltre il motivo della malvagità e della cupidigia degli uomini, che tanta parte avrà nel determinare il corso degli avvenimenti narrati.

> La “felicità” del passato Scarto di prospettive Le iperboli

La sintassi

L’analisi storica Il ruolo di Lorenzo il Magnifico

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L’avversativa con cui si apre il secondo capoverso introduce un complemento di paragone che determina la svolta successiva del discorso. Al quadro negativo appena tracciato, Guicciardini contrappone infatti la precedente situazione della penisola, che aveva goduto di un lungo periodo di felicità e di pace. Il mutamento delle prospettive è netto e radicale. Lo strumento retorico al quale ricorre è costituito dall’intensificarsi delle espressioni iperboliche e superlative («ridotta tutta in somma pace e tranquillità» ecc.), che accompagnano il crescendo della rappresentazione. Anche la sintassi del periodo subisce qualche variazione. Il periodare ampio e insieme logicamente concatenato, che rappresenta il carattere saliente dello stile guicciardiniano nella Storia d’Italia, risultava prima più nervoso e spezzato; adesso si distende in forme più piane e flessuose, con un ordine regolato da più calibrate e armoniche simmetrie. Segue la parte più propriamente analitica, in cui Guicciardini si propone di individuare le cause della «felicità» italiana. Se non manca qualche semplificazione, il discorso si fa particolarmente attento ai fatti e alle loro connessioni. Fin dall’inizio viene presentato positivamente il ruolo svolto da Lorenzo il Magnifico nel promuovere e garantire l’equilibrio della

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini I moventi della storia

La «fortuna»

Il rovesciamento della situazione Malvagità e corruzione

politica italiana. Comincia qui a delinearsi quell’attenzione per i fatti concreti, e per la precisa definizione dei loro rapporti, con l’intento di cogliere, al di sotto delle apparenze, le ragioni profonde che regolano l’agire degli uomini, nel rapporto con il corso degli eventi. Il capitolo successivo consente di verificare l’impostazione del discorso guicciardiniano, secondo la dialettica a cui sono soggette le forze della storia. I «fondamenti della tranquillità d’Italia» non lasciano presupporre nessun elemento di perturbazione. Ma ecco che, contro ogni previsione, congiura la «fortuna», in quello che è uno dei suoi strumenti più funesti e imprevedibili: la morte, che quasi contemporaneamente colpisce Lorenzo de’ Medici (il verbo «sopravenne» indica il suo carattere repentino, quasi un colpo improvviso inferto dall’alto) e Innocenzo VIII. Il rovesciamento della situazione si attua qui non attraverso la congiunzione avversativa, ma attraverso quella temporale («Quando»), che, pur rendendo più morbido il passaggio, non attenua il forte chiaroscuro che anima – drammaticamente – l’impostazione di queste pagine. Le tinte si incupiscono quando Guicciardini parla dell’elezione del nuovo pontefice, e dei maneggi da cui fu accompagnata, mostrando in atto la malvagità e la corruzione degli uomini, con i loro effetti dissolventi nei confronti della storia.

Esercitare le competenze CoMPRendeRe

> 1. Da quali avvenimenti inizia la narrazione della Storia d’Italia? > 2. Quando iniziano secondo Guicciardini «le calamità d’Italia»? L’azione di quale personaggio risultò, in questo periodo, determinante per il mantenimento della pace?

> 3. In che modo avviene l’elezione di Alessandro VI? AnALIzzARe

> 4.

Stile Qual è il fine per cui l’autore illustra la situazione dell’Italia alla fine del XV secolo? In quale punto del testo lo esplicita? > 5. Stile Spiega la similitudine che l’autore riferisce alle vicende umane (r. 9). > 6. Stile Il tono del brano, di per sé solenne, si innalza al ricordo del passato felice e prospero dell’Italia, sia a livello sintattico che lessicale: rintraccia, pertanto, i superlativi presenti nella descrizione alle righe 24-32. > 7. Lingua Esegui l’analisi del periodo della seguente proposizione: «Perché, ridotta… riteneva» (rr. 24-32).

APPRofondIRe e InTeRPReTARe

> 8.

esporre oralmente Nel brano emergono le posizioni di Guicciardini sia riguardo la storia, che riguardo la fortuna: esponi a scelta su uno dei due argomenti (max 3 minuti).

PeR IL ReCuPeRo

> 9. Guicciardini menziona alcuni soggetti politici e personaggi storici, chiarendone il ruolo negli equilibri politici italiani alla fine del Quattrocento. Inserisci i dati relativi a questa analisi nella tabella che segue, secondo l’esempio proposto. Personaggio

Soggetto politico

Ruolo negli equilibri politici italiani

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Lorenzo de’ Medici

Repubblica di Firenze .............................................................................................

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Regno di Napoli .............................................................................................

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Rinuncia ad una politica aggressiva e accetta l’alleanza con Firenze ..................................................................................................................................................................................................................................

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e.................................................................................................................................................................................................................................. Napoli per proteggersi dalle mire espansionistiche di Venezia

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Repubblica di Venezia .............................................................................................

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Innocenzo III

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Che CoSA CI dICono AnCoRA oGGI I CLASSICI

Guicciardini LA ReLATIvITà deLLA ConoSCenzA Con Francesco Guicciardini sembrano venire meno molte delle certezze della letteratura rinascimentale, così come entra in crisi il ruolo di quei modelli classici che Niccolò Machiavelli considerava ancora attuali, e applicabili al presente. L’originalità di Guicciardini Proprio il confronto con il grande teorico della politica consente di misurare l’originalità del pensiero di Guicciardini, la sua modernità, che tocca problemi ancora vivi e aperti. Alle visioni del mondo assolute, dogmatiche e intransigenti (che sono state spesso, e ancora sono, fonte di ingiustizie e anche di tragiche sopraffazioni), Guicciardini ha sostituito un’idea della relatività della conoscenza, che deve nascere da un’osservazione della realtà nei suoi anche minimi particolari. Il ruolo del caso Tenendo però conto, al tempo stesso, del «caso», di quegli imprevisti che possono alterare e sconvolgere ogni calcolo o previsione. In particolare, il pensiero che si riferisce «a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo» sembra anticipare una condizione esistenziale e conoscitiva che caratterizzerà, fino ai giorni nostri, la cultura e la visione della realtà dell’ultimo secolo, per il venir meno di punti di riferimento indiscutibili, come quelli garantiti dalle certezze dei modelli e delle regole del passato.

LA MAnCAnzA dI fIduCIA neLLA RAGIone Nonostante gli enormi progressi tecnologici degli ultimi decenni, la crisi dei valori avvertita in forme sempre più acute ha condotto a una progressiva mancanza di fiducia nella ragione, come criterio capace di regolare i rapporti fra gli uomini e la loro condotta. La convizione di una verità relativa All’indebolirsi delle grandi fedi religiose o politiche, capaci di dare un senso pieno a un’esperienza di vita, si è sostituita la convinzione di una verità relativa, che da qualcuno è stata interpretata come impossibilità di affermare princìpi stabili sul piano dei valori conoscitivi e morali.

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«Relativo» e «relatività» Bisogna però fare molta attenzione all’uso della parola «relativo», che può essere collegata a «relativismo», e in questo caso presuppone una assoluta (questa sì) indifferenza rispetto alle scelte che si possono compiere, perché ogni cosa vale di per sé, in un senso indifferente e indifferenziato; ma «relativo» dipende anche, e soprattutto, da «relatività», nel senso che ogni atteggiamento, pratico e di pensiero, è comprensibile e valutabile solo se ricondotto alla concreta dialettica delle condizioni storiche in cui è maturato, salvo restando il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana; in questo senso non può venire meno il giudizio morale sui comportamenti, individuali e politici.

LA ReLATIvITà SeCondo GuICCIARdInI È questa l’idea di relatività che si può ricavare dai Ri­ cordi. Il ruolo della «discrezione» Essa si basa, in senso positivo, sulla «discrezione», ossia su un’attenta analisi e valutazione delle diverse possibilità di intervento, che pongono continuamente gli individui, e la politica che dovrebbe rappresentarli, di fronte alla responsabilità delle loro scelte, sul piano etico e su quello della coscienza civile (senza impedire, è ovvio, la fede che ognuno di noi può avere in valori superiori o certezze trascendenti). Si rivela quindi privo di fondamento il giudizio moralistico su un Guicciardini scettico e indifferente, così come sottolineare l’elemento relativo (storicamente relativo) delle conoscenze umane non significa professare una sorta di agnosticismo, ma rifiutare quei valori assoluti e astratti che, calati dall’alto sulla “varietà” delle circostanze e dogmaticamente imposti, sono stati e ancora sono causa di tragiche atrocità.

IL dubbIo e LA RICeRCA dI GIuSTIzIA e veRITà Il dubbio come stimolo Il dubbio stesso deve diventare stimolo per portare avanti una ricerca della giustizia e della verità che saranno sempre relative, nei limiti

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

umani di una conoscenza attenta comunque al miglioramento dei diritti dei singoli e delle loro condizioni di vita. E questa ricerca è (o dovrebbe essere) compito non solo degli intellettuali e degli scrittori, ma di tutti noi, in quanto testimonianza di partecipazione e di impegno. Calvino e la ricerca della «città» ideale Se ne renderà conto ad esempio Italo Calvino, il quale, nel romanzo Le città invisibili (1972) ha scritto che, se anche la «città» ideale è difficile da raggiungere (è questa la metafora di un presente che ha perso in gran parte la fede nelle certezze assolute), «tu non devi credere che

si debba smettere di cercarla», così come non si può chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie del presente: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui. Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Heisig Bernhard (1925-2011), Problemi nella ricerca della verità, 1973, Germania, Lipsia, Museum der bildenden Kunste.

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3 - L’età comunale in Italia

dIALoGhI IMMAGInARI

Machiavelli e Guicciardini Moderatore Entrambi, sia pure in maniera diversa, vi siete occupati di storia e di politica. Che significato si può attribuire alle vostre opere?

Machiavelli Io ho preso atto della decadenza dell’Italia e ho scritto un trattato, il Principe, con l’intento di indicare i mezzi per porvi rimedio. Ho cercato soprattutto di analizzare la natura del potere politico in maniera spregiudicata, perché bisogna sempre partire dai fatti, da quella che io chiamo la “realtà effettuale”, per capire veramente i meccanismi del potere, senza falsi pudori o abbellimenti; solo così si può cercare una soluzione dei problemi. Io spero che qualcuno (il principe a cui rivolgo le mie proposte) prenda coraggiosamente in mano la situazione e si metta a capo di un movimento capace di unificare il nostro Paese, che adesso è diviso fra tanti piccoli Stati in lotta fra di loro e in balìa delle nazioni straniere. Questo principe dovrà sapersi avvalere della forza e dell’astuzia (le virtù del leone e della volpe!), senza troppo badare ai mezzi per raggiungere il suo scopo; né dovrà esitare di fronte ai nemici, che devono essere o blanditi, “vezzeggiati”, o eliminati, “spenti”. Ma soprattutto dobbiamo sbarazzarci delle truppe mercenarie, e creare un esercito di italiani interessati a difendere la propria terra e i propri cari. È l’augurio che ho affidato, con un tono volutamente profetico, all’ultimo capitolo della mia opera, che concludo citando la Canzone all’Italia di Petrarca, come richiamo all’«antico valore» degli «italici cor».

Guicciardini La decadenza italiana è ormai sotto gli occhi di tutti; non a caso io ho cominciato la mia Storia d’Italia con la calata di Carlo VIII, quando venne meno la politica di equilibrio assicurata da Lorenzo il Magnifico, 504

vero ago della bilancia fra gli staterelli italiani, e finì il lungo periodo di pace e di benessere che era stato raggiunto. L’Italia è divenuta allora terra di conquista per gli Stati europei, percorsa in lungo e in largo dai loro eserciti. Purtroppo non mi pare che ci siano le condizioni per un cambiamento della situazione; o per lo meno, a differenza di Machiavelli, io non riesco a individuare delle possibili soluzioni. Moderatore Non credo si tratti di semplice ottimismo o pessimismo. C’è qualcosa di più profondo, se non sbaglio, e riguarda la fiducia nelle capacità e nella forza delle azioni umane. Si è sempre parlato del rapporto fra la fortuna e la virtù…

Machiavelli La fortuna ha certo un ruolo importante per il successo delle iniziative e delle imprese degli uomini, ma non possiamo abbandonarci passivamente ad essa. Se è vero (lo dicevano coloro che già nel secolo scorso insistevano sulla “dignità dell’uomo”) che si può essere artefici del proprio destino, allora dobbiamo credere anche nella virtù, ossia nella capacità di ogni individuo di piegare a suo favore anche le situazioni avverse. Se dovessi tentare un bilancio, direi che approssimativamente queste due forze incidono entrambe al cinquanta per cento.

Guicciardini Anch’io ho studiato a lungo i

comportamenti degli uomini, esaminando, in particolare, gli ultimi quarant’anni della storia italiana. Ma ho visto che spesso l’andamento delle cose è soggetto al caso e all’imprevisto, senza che l’uomo, in balìa di se stesso, riesca a porvi rimedio. No, credo che la fortuna svolga un ruolo assolutamente determinante.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

Moderatore I vostri sono due modi opposti di concepire la storia. In uno ci sarebbero dei criteri a cui attenersi, nell’altro l’uomo dovrebbe confrontarsi unicamente con se stesso.

Machiavelli Il classicismo dei nostri tempi ha detto che gli scrittori devono imitare i grandi modelli del passato. Io penso che la stessa cosa valga anche per la politica. Roma ha offerto un modello di grandezza e di potenza ineguagliabile. Agli esempi della sua storia gli statisti ed i politici dovrebbero ispirarsi.

Guicciardini E proprio qui, per me, sta

l’errore. E come si sbagliano coloro che ad ogni passo tirano in ballo gli antichi romani. Bisognerebbe avere uno Stato esattamente come era il loro perché si potessero ricavare utili insegnamenti. Ma non è più così. Sarebbe come voler paragonare il trotterellare di un asino al galoppo di un cavallo! Chiedo perdono a Machiavelli, ma l’uomo deve fare i conti solo con se stesso e non può attenersi a regole prestabilite, che non esistono. Ogni situazione è diversa da ogni altra, e la natura umana è sottoposta a infiniti accidenti, che spesso non si possono prevedere. L’uomo non ha certezze alle spalle, che possano orientare il suo comportamento, ma è solo con se stesso, di fronte alle proprie responsabilità. La sola virtù in cui io credo è la “discrezione”, ossia la capacità di discernere, scegliendo di volta in volta, a proprio rischio e pericolo, la condotta che, in quel dato momento, sembra più opportuna.

Moderatore Si è parlato prima di classicismo, ma – se si guarda allo stile magniloquente – questa categoria sembra applicarsi più alla Storia d’Italia che al Principe.

Guicciardini Stilisticamente non ho mai rifiutato gli insegnamenti dei classici (anche i miei Ricordi sono stati più volte sottoposti a un’attenta cura formale), tanto più nel caso della

storiografia, che Cicerone definiva opus oratorium maxime, un’opera di grande efficacia retorica. La mia storia si occupa soprattutto dei grandi avvenimenti, le battaglie e i trattati diplomatici; ai protagonisti, secondo l’uso degli antichi, ho fatto pronunciare dei discorsi – vere e proprie orazioni – particolarmente elaborati e solenni. Il che non ha nulla a che vedere con la mia sfiducia nei destini della patria, ma rispetta le forme del genere letterario prescelto. Machiavelli Molto diverso è lo stile del mio Principe, che rifiuta le costruzioni complesse e ampollose, tipiche di una scrittura che vuole soprattutto narrare e rappresentare, in forme quasi plastiche. La mia scrittura è rapida, essenziale, quasi nervosa; procede per affermazioni perentorie ed esclusioni ugualmente drastiche, con argomentazioni stringate e deduzioni spesso costruite su secche alternative. È una scrittura dell’azione, che chiede cioè di essere tradotta in azione, non una scrittura che si limita a osservare e a descrivere. E questo proprio per la fiducia, che Guicciardini dice di non avere più, nella possibilità di cambiare le cose. Moderatore Il problema dei generi letterari, con il rapporto tre le forme e i contenuti, è interessante. Come vi siete posti nei confronti della tradizione classico-umanistica del trattato?

Machiavelli Proprio per le ragioni che ho appena esposto, ho scelto la forma monologica, non quella dialogica. Volevo che parlasse una sola “voce”, per sostenere in maniera decisa le mie convinzioni e le proposte di una loro applicazione. Non mi interessava ricavare una possibile verità da discussioni spesso troppo retoriche, dove la parola finisce per contare più dei contenuti. Diverso è il caso del dialogo sull’Arte della guerra, dove affrontavo problemi di tipo più teorico. 505

L’età del Rinascimento

Guicciardini Il mio rapporto con la

trattatistica, se proprio vogliamo stabilirlo, è più complesso. Io ho scritto dei Ricordi, il cui titolo, come sapete, non ha nulla di autobiografico, ma indica le cose che devono essere ricordate, gli insegnamenti che possono essere impartiti. Ma non ho certo la pretesa che questi insegnamenti, come ho detto prima, abbiano un valore assoluto o servano per tutti; sono semplicemente il frutto della mia individuale e personale esperienza, osservazioni e giudizi unicamente basati sulla mia “discrezione”. Per questo non avrei mai potuto scegliere il trattato, né quello dialogico né quello monologico, dal momento che entrambi si pongono l’obiettivo di dare delle regole per la condotta pratica, di far emergere una qualche verità. Io non avevo, e non ho, verità da proporre o da difendere, tutt’altro… Nei miei Ricordi ho posto l’accento, al contrario, sulla difficoltà delle scelte, sugli imprevisti del caso, sulla stessa precarietà dell’esistenza umana; mi sembra quasi un miracolo quando finisce la giornata senza che sia successo un qualche incidente! Rifiutando la forma organica del trattato, l’ho per così dire spezzata e frammentata in singoli momenti di riflessione, che si susseguono separati fra di loro e non possono più essere ricondotti a un progetto di costruzione unitaria. Moderatore Entrambi, se non ho capito male, vi considerate intellettuali “scomodi”. Non temete il giudizio che verrà dato su di voi?

Machiavelli Si dirà, è probabile, che sono un cinico, e qualcuno, forse, proibirà addirittura di leggere il mio libro, dicendo che è dannoso e immorale. Ma io ho semplicemente dovuto rappresentare, com’è nei fatti, la natura – il “volto demoniaco”, se così posso chiamarlo – di un potere in cui la politica ha spesso calpestato i princìpi della giustizia e i valori morali. Certo, sarebbe bello che non fosse così, ma sono convinto che le cose non cambieranno nemmeno a distanza di secoli. A trionfare sarà sempre la 506

più vigliacca ipocrisia, e diranno di fare, per il bene del “popolo”, leggi che difendono solo squallidi interessi personali. È così facile, per un politico, manipolare e falsificare il significato delle parole. Come ha scritto Tacito: «hanno fatto un deserto, e l’hanno chiamato pace!». Tacito si riferiva ai massacri della guerra; ma lo stesso varrà per il politico che vuole aumentare a dismisura il suo potere economico e si rifiuta di rispondere davanti ai magistrati dei reati che ha commesso. Povero Socrate, che sceglieva la morte piuttosto che disobbedire alle leggi dello Stato!

Guicciardini Mi accuseranno probabilmente di “relativismo”, perché ho sottolineato il carattere contingente e relativo dei comportamenti umani, senza ricondurli a un disegno provvidenziale (ma anche, aggiungo subito, senza condannarli nel nome di un dogmatismo fanatico e intollerante); diranno che il mio è semplicemente lo scetticismo di chi non crede in nulla e disprezza ogni ideale. Ma non è affatto così, e non mi riferisco solo alla condotta che ho tenuto in tutta la mia vita, compresi i compiti politici, a cui ho assolto con scrupolosa coscienza. Il tener conto degli imprevisti e del caso, oltre che della variabilità delle circostanze storiche, non esclude – anzi esalta – la responsabilità degli individui nei confronti dei valori civili e morali, rivendica la necessità degli impegni che ognuno è tenuto ad assumersi, al tempo stesso richiede – come ho fatto – la condanna della corruzione e dei vizi. La mia è semplicemente una nuova visione del reale, in cui l’uomo si sente privo di punti di riferimento e di certezze, ed è quindi costretto a cercare da solo, basandosi sulle sole sue forze, la strada da percorrere, per conservare la propria dignità umana e intellettuale. L’uomo non può e non deve rinunciare alla ricerca di una sua “verità”, nel più nobile e al tempo stesso concreto significato che si può attribuire a questo termine; una ricerca che può essere sofferta e problematica, ma che si impone come un dovere nei confronti della società e della storia.

Ripasso visivo

fRAnCeSCo GuICCIARdInI (1483-1540) eLeMenTI bIoGRAfICI

• Nasce a Firenze, città in cui consegue la laurea in diritto civile e inizia la sua carriera diplomatica • Ricopre importanti incarichi politici: governatore (Modena, Reggio e Parma, Romagna) e commissario generale dell’esercito pontificio

• A causa dei suoi trascorsi presso i Medici è allontanato dalla vita pubblica di Firenze quando viene ristabilita la Repubblica (1527)

• Con il ritorno dei Medici rientra nella sua città al servizio del granduca Alessandro il cui successore, Cosimo I, non gli conferma però la fiducia e lo lascia in disparte

• Trascorre gli ultimi anni in ritiro nella villa di Arcetri, ai margini della vita politica, dedicandosi all’attività letteraria PoeTICA e PenSIeRo

• La sua riflessione, di natura pragmatica, si concen-

tra sui rapporti di causa-effetto degli eventi storici • Estende l’analisi politica a una prospettiva europea • Mostra un atteggiamento scettico e distaccato nei confronti della religione e del trascendente • La realtà è sottoposta al dominio del caso • Le vicende del passato non hanno valore esemplare

• Per comprendere la realtà è necessaria la «discrezione» (capacità di distinguere e decidere caso per caso)

• Non è possibile individuare leggi e modelli assoluti • È importante indagare a fondo la psicologia dei personaggi

• Esalta il «particulare» (la ricerca dell’interesse individuale nel rispetto del bene comune)

PRInCIPALI oPeRe oPeRe dI RIfLeSSIone PoLITICA

eSeRCITAzIonI ReToRIChe

• Dialogo del reggimen-

• Oratio accusatoria • Oratio defensoria • Consolatoria

to di Firenze • Le considerazioni intorno ai “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” del Machiavelli

MeMoRIALISTICA

• Ricordi

oPeRe SToRIoGRAfIChe

• Storie fiorentine • Storia d’Italia:

impostazione annalistica (sul modello di Tacito); caratterizzazione psicologica dei personaggi; ricostruzioni di discorsi e orazioni politiche

I RICORDI

STRuTTuRA

• Raccolta di pensieri

caratterizzati da una struttura frammentaria

CARATTeRI deLL’oPeRA

• Nascono dall’esperienza di vita dell’autore e non propongono un sapere sistematico • Hanno un impianto fortemente logico e deduttivo • Mostrano il carattere relativo della verità

LInGuA e STILe

• Lo stile è asciutto e

privo di eccessive dispersioni: aderisce al principio del classicismo volgare

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L’età del Rinascimento

In sintesi

fRAnCeSCo GuICCIARdInI (1483-1540) Verifica interattiva

Francesco Guicciardini visse in uno dei periodi più tormentati della nostra storia, segnato dallo sconvolgimento degli equilibri politici tra gli Stati italiani, nelle cui vicende s’intrecciano i conflitti tra le grandi potenze europee. I continui mutamenti dell’assetto istituzionale di Firenze, che riflettono le variazioni della situazione italiana ed europea, si ripercuotono sulla vita di Guicciardini, fiorentino impegnato in campo diplomatico e politico, determinandone fortune e sfortune personali e condizionando la sua visione della realtà, improntata a un radicale pessimismo. Il senso dell’irrazionalità della storia pervade infatti tutta la sua produzione letteraria – storiografica e di riflessione politica –, che si colloca tra le massime espressioni della cultura rinascimentale.

Le oPeRe MInoRI Agli inizi della carriera pubblica di Guicciardini risale la sua prima opera storiografica, le Storie fiorentine (1509), che trattano il periodo compreso tra il 1378 e il 1509. Il carattere pragmatico della ricostruzione, che muove dai fatti concreti, il rilievo che vi assumono i grandi personaggi storici e l’attenzione per il presente anticipano l’impostazione dell’opera storiografica maggiore, la Storia d’Italia, nella quale tuttavia la prospettiva si amplierà da Firenze all’intera nazione. Il medesimo atteggiamento pragmatico impronta i Discorsi politici, riordinati tra il 1537 e il 1540 ma composti negli anni dell’attività politica, che trattano delle diverse forme di governo – repubblica e principato – con disincantato realismo. La critica alle istituzioni repubblicane è ripresa nel Dialogo del reggimento di Firenze (1526), nel quale emerge già la sfiducia dell’autore sulla possibilità di elaborare teorie politiche sistematiche, valide in ogni occasione. Quest’ultimo tema è al centro delle Considerazioni intorno ai «Discorsi» del Machiavelli (1528), che criticano l’impostazione di fondo del pensiero machiavelliano, ossia l’idea che il passato possa fornire dei paradigmi di comportamento validi anche per il presente: la storia, secondo Guicciardini, non è regolata da leggi o modelli che si ripetono identici e dunque non può insegnare nulla.

I RICORDI La visione della storia cui si è fatto cenno pervade i Ricordi, una raccolta di riflessioni basate sulla propria esperienza di diplomatico e di uomo politico, la cui composizione abbraccia un periodo molto ampio, dal 1512 al 1530. I Ricordi possono essere definiti un “antitrattato”, perché le diverse riflessioni sono giustapposte le une alle altre senza essere raccordate da una struttura complessiva e senza seguire un ordine preciso. L’asistematicità formale rispecchia pienamente l’ideologia che sostiene l’opera, ossia la

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percezione di una realtà frammentaria e irrazionale che è impossibile “sistemare” entro schemi teorici e assoluti.

IL PenSIeRo Il pensiero di Guicciardini presuppone l’inconoscibilità dei princìpi su cui si fonda la realtà. La religione stessa è considerata piuttosto nei suoi risvolti politici e pratici che in quelli teorici. In questo senso, lo scrittore non manca di valutare positivamente l’«ostinazione» prodotta dalla fede e di criticare invece la corruzione dell’istituzione ecclesiastica. Per Guicciardini, dunque, l’uomo non ha strumenti sicuri per dominare una realtà sottoposta alle mutevoli leggi della fortuna: può solo tentare, con la propria «discrezione» – che è capacità di valutare di volta in volta ciò che è opportuno – di perseguire il proprio «particulare», ossia il proprio interesse. Il «particulare» non è tuttavia inteso come vantaggio egoistico, bensì come criterio che deve orientare la scelta di ciò che è opportuno fare alla luce delle circostanze specifiche e nel rispetto del bene comune.

LA StORIa D’ItalIa Negli ultimi anni della sua vita (1537-40) Guicciardini ritorna alla storiografia, componendo un trattato in venti libri dal titolo Storia d’Italia. L’opera abbraccia il periodo più recente, dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) a quella di Clemente VII (1534). A differenza dei Ricordi, la Storia d’Italia presenta una struttura organica e coesa, nonostante l’impostazione annalistica desunta dai modelli latini. Alla storiografia classica rinviano anche il rilievo assunto dai personaggi, caratterizzati finemente nella loro psicologia, e l’inserimento di interi discorsi nel corso della narrazione. Guicciardini si dimostra uno storico scrupoloso nella selezione e nell’esame delle fonti e accurato sia nella ricostruzione dei fatti, secondo l’impostazione pragmatica che lo contraddistingue, sia nell’indagine delle cause. I fatti tuttavia non sono mai spiegati ricorrendo a schemi precostituiti, a modelli teorici, ma sempre illustrati a partire dalle circostanze specifiche che li hanno determinati.

Lo STILe e LA LInGuA Lo stile di Guicciardini varia sensibilmente dai Ricordi alla Storia d’Italia. Nella prima opera l’enunciato è essenziale e asciutto, privo di dispersioni, rigorosamente logico e deduttivo. Nella Storia d’Italia, invece, la prosa è più ampia e articolata, sintatticamente complessa, quasi a riflettere la molteplicità dei fattori in gioco in ogni evento. La lingua, inoltre, tende in quest’ultima opera ad adeguarsi al modello proposto da Bembo. Si assiste, insomma, a un recupero dell’ideale umanistico della cura formale, intesa come espressione del dominio della ragione e della cultura sull’irrazionalità del reale.

Capitolo 7 · Francesco Guicciardini

facciamo il punto L’eSPeRIenzA dI vITA

1. Quali luoghi ed eventi della storia sono stati significativi per la vita di Guicciardini? 2. Quali sono state le esperienze della vita politica e diplomatica più importanti per Guicciardini? LA foRMAzIone

3. Gli studi prevalentemente di carattere giuridico e l’attività politica direttamente vissuta hanno lasciato

una traccia nella produzione dell’autore? IL ModeLLo d’InTeLLeTTuALe

4. Rifletti su quale modello d’intellettuale incarnò Guicciardini, tenendo presente la situazione storica nella quale visse. Le oPeRe

5. Compila la seguente tabella. opere

Genere

Temi trattati

Pubblico

Storie fiorentine Discorsi politici Dialogo del reggimento di Firenze Considerazioni intorno ai «Discorsi» del Machiavelli Ricordi Cose fiorentine Storia d’Italia

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6. Quale concezione della storia è enunciata nei Ricordi? Guicciardini ritiene che sia possibile ricavare

dagli avvenimenti storici delle leggi valide universalmente, come credeva Machiavelli? 7. Quali elementi costituiscono la novità della storiografia di Guicciardini?

bibliografia La critica

Per la ricerca nel web

` EDIZIONI DELLE OPERE

Per la Storia d’Italia si cita da Opere, a cura di E. Scarano, 3 voll., utet, Torino 1970-81; si segnala ancora l’edizione a cura di S. Seidel Menchi, introd. di F. Gilbert, Einaudi, Torino 1971, recentemente ripubblicata nella collana Einaudi “I millenni”. I passi dei Ricordi sono tratti dall’edizione curata da e. Pasquini (Garzanti, Milano 1975); degne di nota le edizioni curate da R. Spongano (Sansoni, Firenze 1951), M. Fubini, (Rizzoli, Milano 1977), V. De Caprio (Salerno Editrice, Roma 1990), G. Masi (Mursia, Milano 1994) e C. Varotti (Carocci, Roma 2013).

` STORIA DELLA cRITIcA

S. Rotta, Francesco Guicciardini, in AA.VV., I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, La Nuova Italia, Firenze 1962.

` BIOGRAFIE

V. Vitale, Francesco Guicciardini, utet, Torino 1941 • R. RiDolfi, Vita di Francesco Guicciardini (1960), Rusconi, Milano 1982.

` STuDI cRITIcI

Tra i numerosi saggi e profili critici più rilevanti degli ultimi decenni si ricordano: e. ScaRano, La ragione e le cose. Tre saggi su Guicciardini, etS, Pisa 1980 • e. ScaRano, La ragione e le cose. Tre saggi su Guicciardini, etS, Pisa 1980 • R. eSpoSito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Liguori, Napoli 1984 • M. paluMbo, Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini, Liguori, Napoli 1984 • M. peRniola, Il pensiero della differenza di Francesco Guicciardini, in «Il Cannocchiale», n. 3, 1984 • G. SaSSo, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma 1984 • G. inGleSe, Appunti guicciardiniani, in «Nuova Antologia», 1986 • M. paluMbo, Francesco Guicciardini, Liguori, Napoli 1988 • a. Quatela, Invito alla lettura di Francesco Guicciardini, Mursia, Milano 1992 • a. aSoR RoSa, «Ricordi» di Francesco Guicciardini, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere,

vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Torino 1993 • M. t. SapeGno, «Storia d’Italia» di Francesco Guicciardini, ivi • AA.VV., La riscoperta di Guicciardini, a cura di A. E. Baldini e M. Guglielminetti, Casalini, Fiesole 2000 • G. M. baRbuto, La politica dopo la tempesta: ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini, Liguori, Napoli 2002 • Francesco Guicciardini tra ragione e inquietudine: Atti del Convegno Internazionale di Liege, 17-18 febbraio 2004, a cura di Paola Moreno e Giovanni Palumbo, Genève: Diffusion Librairie Droz, 2005 • P. caRta, Francesco Guicciardini tra diritto e politica, ceDaM, Padova 2008 • Francesco Guicciardini, a cura di e. Cutinelli Rendina, Salerno editrice, Roma 2009 • C. VaRotti, Francesco Guicciardini, Liguori, Napoli 2009 • P. MoReno, La fortuna editoriale del carteggio di Francesco Guicciardini dal Cinquecento ai giorni nostri, Istituto Storico Italiano per l’Età moderna e contemporanea, Roma 2010.

509

L’età della Controriforma 1560-1600

MADRID

VALENCIA

I luoghI della cultura OXFORD LONDRA UTRECHT WITTENBERG

CATEAU-CAMBRÉSIS

FRANCOFORTE

PARIGI

NORIMBERGA

NANTES AUGUSTA

FERRARA • La corte estense costituisce un polo di attrazione di grande pregio per letterati e musicisti anche nella seconda metà del Cinquecento: ospita Guarini, eletto a poeta di corte, e soprattutto si fa mecenate per promuovere l’opera del più grande poeta del secondo Cinquecento, Torquato Tasso.

VENEZIA • Venezia, che gode di una certa autonomia dal potere della curia, resta una delle principali sedi dell’editoria italiana. Continuano ad essere prestigiosi i modelli offerti dalla pittura veneta grazie anche alle opere di artisti quali Veronese e Tintoretto.

BASILEA ZURIGO

GINEVRA

TRENTO MILANO TORINO

VENEZIA MANTOVA

TOLOSA

AVIGNONE

FIRENZE • La Firenze dei Medici è ancora una città ricca e vivace, benché non possa più vantare quel ruolo di assoluta centralità culturale ricoperto durante la grande stagione rinascimentale. Vi operano importanti artisti e scrittori, come Giambologna, Vasari e Cellini.

NAPOLI • La città, sotto il controllo spagnolo, è il centro culturale più influente dell’Italia meridionale: presso l’importante Università e soprattutto le numerose accademie, si formano e convergono artisti, letterati e filosofi da ogni regione del Mezzogiorno (a cominciare da Bruno e Campanella). Vi soggiorna più volte Torquato Tasso.

GENOVA

PADOVA

FERRARA BOLOGNA PISA

RIMINI FIRENZE

ROMA

ROMA • Centro della cristianità riformata, la corte pontificia assume il controllo pieno della cultura in ogni sua espressione, soprattutto a seguito dell’istituzione del tribunale del Sant’Uffizio e all’impegno intellettuale della Compagnia di Gesù. La Chiesa diviene il maggiore committente di opere d’arte e di scritti teologici e filosofici.

NAPOLI

Il contesto

Società e cultura

1 Una situazione statica

Visione d’insieme

Lutero e la Riforma protestante

Con la pace di Cateau-Cambrésis (1559) l’Italia passa di fatto sotto il dominio spagnolo ( L’età del Rinascimento, Il contesto, p. 125), presentando una situazione che rimarrà a lungo statica e uniforme. Prosegue la crisi economica e si intensifica il processo di “rifeudalizzazione”, che comporta l’abbandono delle attività imprenditoriali e il ritorno alla campagna; la corte, come sistema di organizzazione sociale, conserva le sue caratteristiche essenziali, accentuandole in un senso autoritario e burocratico. Le trasformazioni che si avvertono nettamente negli ultimi decenni del Cinquecento sono però da imputare a un diverso fattore storico: la Riforma protestante, destinata a modificare radicalmente l’assetto politico e culturale dell’Europa. Il 13 ottobre 1517 Martin Lutero (1483-1546) affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg un elenco di 95 tesi, con le quali condannava la pratica, molto diffusa da parte del clero, di vendere ai fedeli le “indulgenze” (il perdono dei peccati e la riduzione delle pene ultraterrene). In seguito il suo gesto clamoroso di stracciare in pubblico la scomunica del papa Leone X (1520) rappresentò l’inizio simbolico di quella frattura che avrebbe diviso l’Europa cat-

Giorgio Vasari inizia la costruzione della Galleria degli Uffizi a Firenze (1560)

Pieter Bruegel dipinge il Trionfo della morte (1562)

Tintoretto dipinge il Trafugamento del corpo di san Marco (1562-66)

Bernardino Tiziano Telesio pubblica dipinge La natura la Deposizione secondo i propri nel sepolcro princìpi (1565) (1566)

Letteratura

Cultura

La Riforma di Lutero

Dalla Riforma alla Controriforma

Paolo Veronese dipinge Il convito in casa di Levi (1572)

Tasso scrive l’Aminta (1573) Tasso conclude la Gerusalemme liberata (1575)

Scienza e Tecnica

Storia e Società

1560-69

512

Jean Bodin scrive I sei libri dello Stato (1576)

Si costituisce la Chiesa anglicana (1562)

1570-79 A Lepanto i turchi sono sconfitti dall’alleanza tra Venezia e la Spagna (1571)

Si conclude il Concilio di Trento (1563)

Conrad Gesner inventa la matita, formata da un cilindro di legno con una mina di grafite all’interno (1565)

Gerardo Mercatore realizza la prima proiezione cartografica cilindrica (1569)

Abramo Ortelio realizza il primo atlante geografico mondiale (1570)

Nella “notte di san Bartolomeo” culmina in Francia la persecuzione degli ugonotti (1572) Tycho Brahe pubblica il trattato astronomico De nova stella (La stella nuova) (1573)

Il contesto · Società e cultura

I caratteri della Riforma

tolica (in particolare i paesi mediterranei) da quella protestante (per lo più le regioni del Nord). La Riforma di Lutero colpì proprio quei princìpi e quei dogmi di fede che servivano per giustificare e rafforzare il potere dell’organizzazione ecclesiastica. I punti fondamentali possono essere così sintetizzati: » » » » »

Motivi socio-politici

l’obbedienza assoluta al pontefice non è dovuta; il sacramento della confessione e della penitenza non è indispensabile per ottenere il perdono dei peccati; la salvezza eterna è assicurata dalla fede, non dalle opere; il rapporto tra il credente e Dio è diretto e non necessita della mediazione di un’autorità religiosa; la parola di Dio è interamente affidata alle Sacre Scritture e il fedele può accostarsi a queste attraverso una lettura personale.

Lutero stesso tradusse la Bibbia in tedesco e l’invenzione della stampa diede uno straordinario impulso alla sua iniziativa che, favorendo la lettura dei testi sacri e la libertà dell’interpretazione, finirà per modificare profondamente le stesse abitudini mentali e culturali. Ma le ragioni della Riforma non sono solo religiose e ideologico-culturali. Ad essa si accompagnano motivi di carattere politico e sociale, che esprimono anche l’esigenza dei signori locali di sottrarsi all’egemonia dei poteri assolutistici del tempo, rappresentati essenzialmente dall’imperatore Carlo V e dal papa. Nato come rivolta contro il dogmatismo e a favore dell’iniziativa individuale, il protestantesimo darà luogo a diversi orientamenti, caratterizzati in maniera autonoma. Tra questi è da ricordare soprattutto il calvinismo, fondato da Giovanni Calvino (150964), che da Ginevra si diffuse in Francia, Olanda, Polonia e Ungheria, ispirando anche, in Inghilterra, lo scisma della Chiesa anglicana, a capo della quale fu posto il sovrano.

A Firenze viene fondata l’Accademia della Crusca (1582) Gregorio XIII introduce la riforma gregoriana del calendario (1582)

Giordano A Roma è portata a Bruno pubblica termine la costruzione il De l’infinito della cupola di san universo e Pietro progettata da mondi (1584) Michelangelo (1589)

Revisione censoria del Decamerone per opera di Leonardo Salviati (1582)

Giovanni Keplero pubblica il trattato Mysterium Cosmographicum (1596)

Caravaggio dipinge la Vocazione di san Matteo (1599-1600)

Tasso pubblica la Gerusalemme conquistata (1593) Battista Guarini pubblica Il pastor fido (1589-90)

1580-89 In America settentrionale gli inglesi fondano la prima colonia, la Virginia (1584)

Francesco Bacone pubblica il Discorso in elogio alla conoscenza (1592)

In Inghilterra Shakespeare scrive la tragedia Giulietta e Romeo (1594-95)

1590-1600 Con Sisto V il tribunale del Sant’Uffizio diviene la più temuta autorità in materia religiosa e nella lotta alle eresie (1588)

William Lee inventa la prima macchina per maglieria (1589)

L’editto di Nantes pone fine alle persecuzioni religiose in Francia (1598) Galileo Galilei inventa il termometro ad acqua (1592)

Giordano Bruno viene bruciato sul rogo come eretico a Roma (1600) Viene fondata la Compagnia delle Indie (1600)

William Gilbert dimostra il magnetismo terrestre (1600)

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L’età della Controriforma

Il Concilio di Trento e la repressione degli eretici La reazione della Chiesa

Gli strumenti di controllo e repressione

I processi contro la stregoneria

Per trovare una soluzione alla crisi religiosa, la Chiesa convocò il Concilio di Trento, che durò ben diciotto anni (dal 1545 al 1563) e non riuscì a produrre quell’accordo che era stato auspicato. In conclusione, la Chiesa ribadì rigorosamente le sue posizioni: essa era la sola depositaria della verità in materia di fede e l’autorità del papa restava indiscutibile. Alleatasi con l’Impero, la Chiesa rafforzò i suoi poteri e riorganizzò le sue istituzioni, dando così inizio alla cosiddetta età della Riforma cattolica, o della Controriforma. Anche al suo interno intensificò l’opera di controllo, di prevenzione e di repressione, non di rado violenta, contro ogni forma di dissenso. L’Inquisizione diventò il principale strumento di lotta alle eresie, oltre che di controllo sulle stesse manifestazioni del pensiero cattolico, mentre il tribunale del Sant’Uffizio, al quale erano affidati i processi contro gli eretici e i giudizi in materia religiosa, ampliò e rafforzò le sue competenze. Molti scelsero di nascondere le proprie convinzioni eterodosse dietro il rispetto formale delle pratiche esteriori del culto cattolico, mentre chi voleva esprimere liberamente le proprie idee era costretto alla fuga e all’esilio: se scoperto, era posto di fronte all’alternativa di abiurare o di subire gravi condanne. Si intensificano inoltre, in questo periodo, le accuse di stregoneria, che portarono al rogo chi era accusato di avere rapporti con il diavolo. Ma anche nei rari casi in cui ciò non accadeva, venivano celebrati processi – come quello contro i benandanti ( La voce dei documenti) – che testimoniano la ventata di irrazionalità che sconvolse la mentalità del tempo.

Facciamo il punto 1. Che cosa si intende con il termine «Controriforma»? 2. Di quali istituzioni si serve la Chiesa per condurre la sua attività di controllo e repressione sulle eresie?

La voce dei documenti | Opera: atti dei processi ai benandanti

I processi dei benandanti I benandanti (il nome significa “buoni camminatori”) professavano un culto contadino di origine pagana, che, legato agli antichi riti della fertilità della terra, si proponeva di difendere il raccolto dei campi e di proteggere i villaggi dall’intervento delle streghe. contro di loro, e contro le altre forze diaboliche, ingaggiavano in determinati giorni dell’anno (in cui si riteneva che, dopo essere uscito dal corpo, lo spirito assumesse la forma di vari animali) violente battaglie a colpi di canne di finocchio, dal cui esito dipendeva la fortuna dei raccolti. Sempre secondo le credenze del tempo, i benandanti (ne facevano parte coloro che erano nati con il sacco amniotico, i cosiddetti “nati con la camicia”) possedevano anche il potere di curare le persone colpite dagli incantesimi e dal malocchio. gli atti dei processi a cui furono sottoposti sono stati pubblicati da carlo ginzburg.

Io Paulo Gasparutto de Iassicio della diocese d’Aquileggia1, posto qui presentialmente2 alla presenza di voi padre inquisitore della heretica pravità3 […], giuro di creder col core et confesso colla bocca quella santa fede catholica et apostolica4 la quale crede, confessa, predica et 1. aquileggia: Aquileia, ora in provincia di Udine. Fu in passato capitale del Friuli e sede della diocesi vescovile. 2. presentialmente: personalmente, di persona. 3. pravità: malvagità (heretica pravità era formula corrente).

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4. apostolica: appellativo della Chiesa (con gli altri qui indicati), con riferimento ai pontefici successori di Pietro, principe degli apostoli.

Il contesto · Società e cultura

5

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15

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osserva la Santa Romana Chiesa, et consequentemente abgiuro5, revoco, detesto et renego6 ogni heresia di qualunque sia condittione et setta elevata7 contra la Santa Romana et Apostolica Chiesa. Di più giuro di creder con il core et confesso con la bocca haver fatto male il continuar8 per anni diece fra li benandanti, di haver creduto et confessato quella9 esser opera di Dio et che quelli che ad essa havessero contradito10, contradicessero a Dio. Parimente confesso haver fatto male di ricercare11 che altri venissero a veder questi spettacoli. […] Confesso anco et credo che il spirito nostro et anima non possi12 andar et ritornar a sua volontà dentro del corpo. Confesso similmente che le anime (quantunque13 il corpo sia posto in sepulcro) non vadino né possino andar errando per il mondo. Confesso anco di haver fatto male di non essermi mai confessato di questi tali errori miei. Aggiuro et detesto qualunque sorte d’heresia dannata o da dannarsi14 dalla Santa Madre Chiesa Apostolica et Romana. Di più giuro et prometto che per l’avvenire non incorrerò nell’heresia predetta, né in altre, non crederò né me gli accostarò, né ad altri insegnerò; et se saperò15 che alcuno sia infetto16 d’heresia o sia de17 strigoni, o che sia strigone et benandante, da me sarà manifestato18 a voi padre inquisitore, overo ad altri successori vostri. Di più giuro et prometto che ogni penitenza datami da voi, o che mi si darà, adempirò con ogni mia forza. C. Ginzburg, I benandanti. Stregonerie e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966

5. abgiuro: abiuro (simile è il significato di revoco); più avanti, per assimilazione, aggiuro. 6. renego: rinnego. 7. elevata: nel senso di sostenuta. 8. il continuar: a stare continuamente. 9. quella: l’attività dei benandanti. 10. contradito: contraddetto, parlando e comportandosi contro. 11. ricercare: fare in modo, cercando di convincere.

12. possi: possa. 13. quantunque: anche quando. 14. dannata o da dannarsi: condannata o, per il futuro, da condannarsi. 15. saperò: saprò. 16. infetto: infettato, contagiato. 17. de: uno degli. 18. manifestato: rivelato, denunciato.

Guida alla lettura L’esito del processo È questa, da parte di uno dei benandanti coinvolti nei processi dell’Inquisizione, la confessione, con relativi pentimento e abiura, delle colpe commesse. Nessuno dei benandanti venne condannato, anche perché – probabilmente – il loro comportamento non contrastava nella sostanza con i princìpi dell’azione religiosa, volta a combattere eresie e stregonerie. Al tempo stesso, tuttavia, la Chiesa non poteva permettere che altri, al posto suo, combattesse contro le forze diaboliche, utilizzando metodi non riconosciuti per praticare esorcismi e operare guarigioni ritenute miracolose. Intolleranza e repressione Pur se non si giunse qui alle soluzioni estreme di altri processi – condotti con i metodi disumani della tortura e conclusi con la condanna al rogo – il documento conferma il clima di soffocante intolleranza e repressione vissuto nell’età della Controriforma, non solo per la dura condanna di ogni forma di dissenso ma anche per la pretesa di controllare e dirigere ogni manifestazione del pensiero e della coscienza. Emerge inoltre chiaramente quell’atmosfera di fanatismi e di superstizioni in cui si presta ascolto anche alle più assurde e inverosimili supposizioni, attribuendo un fondamento di verità all’irrazionale, a quel “sonno della ragione” che – come dirà il grande pittore spagnolo Francisco Goya (1746-1828) – “genera mostri”.

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L’età della Controriforma

2

Evangelizzazione e insegnamento

Propaganda e repressione

Una rigida censura

Le istituzioni culturali La Compagnia di Gesù e l’Indice dei libri proibiti Venuta meno la possibilità di trovare un accordo, la Chiesa cattolica rafforzò la propria autorità, arroccandosi su posizioni di una chiusura sempre più sospettosa e attuando un sistematico e rigoroso controllo su tutte le manifestazioni della vita sociale e del pensiero. Il principale strumento della sua organizzazione politico-culturale fu l’Ordine dei gesuiti (o Compagnia di Gesù), fondato da sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) e caratterizzato dal voto di assoluta obbedienza al pontefice. La Compagnia si dedicò soprattutto all’attività missionaria di evangelizzazione in Europa e nel Nuovo Mondo e all’insegnamento. Fondò numerosi collegi, frequentati sia dai religiosi sia dai laici, mettendo a punto un programma di insegnamento omogeneo e compatto, volto a formare i quadri della futura classe dirigente. La Controriforma non si proponeva soltanto di diffondere i valori cattolici attraverso la predicazione e il sistema scolastico, ma al tempo stesso combatteva la libertà di pensiero e di espressione con interventi duramente coercitivi e di tipo censorio. Il tribunale ecclesiastico del Sant’Uffizio, ad esempio, cominciò a pubblicare l’Indice dei libri proibiti, un elenco ufficiale delle pubblicazioni ritenute contrarie ai rigidi princìpi della morale cattolica. Nata con lo scopo di contrastare la diffusione delle idee protestanti, l’iniziativa, che proibiva ai fedeli la lettura di opere «scandalose, pericolose o eretiche», vigilò con particolare rigore sulla stampa, bloccando la pubblicazione di scritti non conformi alle direttive della Chiesa. Il provvedimento si estese anche alle opere della tradizione letteraria: alcune vennero proibite (ad esempio il Principe di Machiavelli e La monarchia di Dante); di altre si permise la circolazione, a condizione che venissero corrette e ripulite di tutte quelle parti ritenute sconvenienti e dannose.

Visualizzare i concetti

Eventi storici e crisi delle istituzioni culturali nella seconda metà del Cinquecento Aggravarsi della crisi economica e del processo di “rifeudalizzazione” PaCe dI CaTeau-CambRéSIS (1559)

Egemonia spagnola in Italia

Controllo preventivo e repressione del dissenso religioso RIFoRma CaTToLICa (1545-63)

Accentuarsi delle caratteristiche autoritarie delle corti, che esercitano il proprio controllo anche sulle accademie Censura attraverso l’Indice dei libri proibiti (1559) e controllo dell’attività editoriale, esercitata sempre più da membri del clero Riorganizzazione dell’Inquisizione e del tribunale del Sant’Uffizio, preposti alla prevenzione e repressione dell’eresia Gestione ecclesiastica dell’istruzione

Promozione del cattolicesimo attraverso l’Ordine dei gesuiti

Promozione dell’attività culturale di tipo religioso Azione missionaria all’estero

516

Il contesto · Società e cultura

La censura e la decadenza della filologia L’esempio del Decameron

La repressione dello spirito critico

Per comprendere meglio come agiva la censura ecclesiastica sulla struttura di un’opera possiamo considerare l’esempio del Decameron: ormai diffusissimo e considerato un classico, il capolavoro del Boccaccio non poteva essere “cancellato”, ma non sembrava neppure lecito consentirne liberamente la circolazione, a causa dei suoi contenuti ritenuti immorali e contrari ai princìpi religiosi. L’opera viene perciò sottoposta a diverse revisioni (il termine tecnico è “rassettatura”) finché si afferma quella preparata dal filologo fiorentino Leonardo Salviati (1540-89). La sua edizione è corredata di frequenti annotazioni sul margine, che mettono in guardia il lettore e lo richiamano all’interpretazione voluta dal revisore. A volte Salviati non si fa scrupolo di modificare e di riscrivere la conclusione delle novelle, giungendo così a stravolgere e a rovesciare i significati originali dell’opera. Non si può non sottolineare, in proposito, la parabola involutiva percorsa dalla filologia, che, a partire dal primo Quattrocento, aveva profondamente rinnovato il metodo dello studio storico, risultando l’espressione dello spirito critico e dell’indipendenza di giudizio degli intellettuali umanisti (esemplare è l’intervento del Valla per dimostrare la falsità della presunta “donazione di Costantino”). Nella seconda metà del Cinquecento questo spirito di moderna e spregiudicata apertura nei confronti del reale risultava completamente tradito e la filologia – asservita alle esigenze della morale e dell’ideologia – si trasformava in “antifilologia”, negando i fondamenti stessi su cui si era affermata come scienza autonoma e indipendente.

Il rapporto tra intellettuali e potere: la corte, l’accademia, l’editoria

Ariosto e Tasso a confronto

Le accademie e l’editoria

Nuove tendenze della cultura italiana

Il problema della censura e della repressione della libertà di pensiero riguarda, più in generale, il rapporto degli intellettuali con il potere politico-religioso, che nel volgere di pochi decenni appare profondamente mutato, come risulta evidente confrontando le vicende biografiche di due grandi poeti attivi alla corte degli Estensi a circa sessant’anni di distanza. Ariosto riuscì a conservare un margine di indipendenza nei confronti del potere, salvaguardando, sia pure con difficoltà, una sua gelosa autonomia. Il medesimo legame di dipendenza verrà invece vissuto da Tasso in maniera assai più drammatica e conflittuale, con ripercussioni profonde sul piano psicologico e letterario. Crescenti sono le difficoltà di conciliare le esigenze individuali con le strutture chiuse e gerarchiche delle istituzioni culturali; il discorso si riferisce soprattutto alle accademie, che si trasformano in organismi sempre più burocratici e formali, rigorosamente ossequenti alle direttive del potere. Anche l’editoria risente in maniera assai netta dei nuovi orientamenti espressi dal Concilio di Trento. Il libro viene guardato dalle autorità con sempre maggior sospetto, in quanto possibile veicolo per la diffusione di idee non ortodosse o addirittura eretiche. Per questa ragione si riduce la stampa delle opere d’evasione, considerate non di rado spregiudicate e licenziose (dal Decameron all’Orlando furioso), per lasciare spazi sempre più ampi a opere edificanti e morali. Dopo il 1565 prevale nettamente la produzione di tipo religioso e anche i collaboratori editoriali (che prima erano stati in larga misura espressione della cultura “anticlassicistica”) vengono adesso reclutati soprattutto tra i “religiosi”. La tendenza riflette un movimento più generale della cultura italiana, dove si registra una spiccata supremazia degli intellettuali religiosi rispetto ai “laici”.

Facciamo il punto 1. Che cos’è l’Indice dei libri proibiti? 2. Che cosa si intende con il termine «rassettatura»?

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L’età della Controriforma

3

Le tendenze culturali e la visione del mondo Il manierismo: reazione al classicismo e ritorno dell’irrazionale

La reazione al classicismo rinascimentale

La fine del mito della perfezione

La poetica dominante nei primi decenni del Cinquecento è quella del “classicismo”, che si propone, attraverso la sua idea di ordine, misura, equilibrio psicologico e decoro formale, di respingere o contemperare gli elementi “dissonanti”, non assimilabili a una visione serena e armonica del reale. Nei confronti di questo modello si determina ben presto una reazione, che ne rifiuta i presupposti ideologici e critica i modi della letteratura ufficiale. Per indicare questa linea di tendenza oppositiva, che si richiama a una realtà di tipo “basso” e materiale o che recupera gli aspetti irrazionali dell’esistenza, la critica ha parlato di «controrinascimento» e di «antirinascimento» ( L’età del Rinascimento, Il contesto, p. 129). Intese in un senso sempre più dogmatico e restrittivo, le regole linguistiche e stilistiche finiscono per rivelarsi come un limite troppo vincolante, determinando lo sprigionarsi di forze opposte e contrastanti. Proprio in questa congiuntura si può cogliere la genesi del Manierismo, che, già delineatosi nella prima metà del secolo (si pensi a esperienze come quelle dell’Aretino e del Lasca), si manifesta più apertamente nell’ultimo Cinquecento. Con questo termine (inizialmente usato nell’ambito della critica pittorica) si intende una disposizione artistico-culturale (ma anche esistenziale e mentale) che si colloca tra Rinascimento e Barocco. Se il Rinascimento si può considerare l’età della ragione e dell’equilibrio formale, il Manierismo rappresenta un ritorno dell’irrazionale e la rottura degli equilibri precedenti, con l’alterazione delle proporzioni e una nuova

Il Manierismo nelle arti figurative Giambologna, ratto della Sabina, 1582, marmo, Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi.

L’arte manierista si sviluppò dopo il Sacco di Roma; essa non prese a modello la natura, ma elaborò motivi formali tratti dalle opere dei maestri del primo Cinquecento, in particolare Michelangelo e Raffaello. Cultori dello stile e dell’eleganza decorativa, i manieristi diedero vita a linguaggi accomunati dal virtuosismo (esibizione dell’abilità nel superare difficoltà tecniche sempre maggiori), dall’estrosità, dal fragile equilibrio tra citazione e invenzione, dalla cristallizzazione in formule ripetitive, anche se sofisticate. Tra la produzione artistica e quella letteraria ci furono quindi numerosi punti di contatto. Sia l’arte sia la letteratura del Manierismo mostrarono una predilezione per l’ossimoro: in ambito visivo esso assunse la forma della “figura serpentinata”, la torsione a spirale dei corpi volta a imprimere movimento alla materia inerte attraverso una sequenza di membra contrapposte. Tale forma toccò l’apice della complessità nel Ratto della Sabina di Giambologna (1529-1608), scultore fiammingo di nascita ma fiorentino di adozione: il gruppo marmoreo si compone di tre corpi, per giunta molto diversi tra loro, avvolti in una spirale perfettamente leggibile da tutti i punti di vista.

518

Il contesto · Società e cultura

attenzione per gli artifici stilistici, che, già percepibile in Tasso, giungerà nel Seicento alla stagione della poesia barocca ( Il Manierismo nelle arti figurative). Si avverte un nuovo senso di inquietudine esistenziale, che si riflette nella rinuncia all’armonia compositiva e nella ricerca di un’espressione più problematica, tesa a rivelare una visione ambigua e non pacificata del reale.

Le tematiche ricorrenti La follia e la malinconia

L’ignoto, la magia e il demoniaco

L’orrore

Sul piano propriamente letterario, i contenuti più tipicamente manieristici vanno ricercati nelle tematiche che si ricollegano alla crisi delle certezze razionali. Cercando di formularne un breve campionario, dovremmo ricordare in primo luogo il tema della follia, che già percorre la letteratura dell’età umanistico-rinascimentale (si pensi, come esempio, all’Orlando furioso di Ariosto e all’Elogio della follia dell’umanista olandese Erasmo da Rotterdam). La pazzia diviene oggetto di una diretta rappresentazione, come caso clinico e patologico strettamente legato al disordine del mondo, nell’Ospidale de’ pazzi incurabili (1586) di Tommaso Garzoni (1549-89). Accanto alla follia, si può ricordare il motivo della malinconia, che risulta una delle componenti essenziali della poesia tassiana e offre lo spunto al dialogo La civil conversazione di Stefano Guazzo (1530-93), in cui un medico propone al paziente, come cura, la pratica delle relazioni sociali. La paura della morte, dell’ignoto e del mistero è alla base tanto della follia quanto della malinconia ed è proprio questa paura a far sì che gli scrittori del tempo frequentino altre tematiche come quelle magico-demoniache, presenti ad esempio nella Vita di Benvenuto Cellini e nella Gerusalemme liberata di Tasso. Inoltre, di fronte alle sventure umane, che in questo momento storico non sembra facile superare grazie alla fede nei confronti di un riscatto ultraterreno, gli scrittori sono spinti a insistere sul tema dell’orrore, che interessa ampi settori della novellistica e della tragedia.

microsaggio

L’“alienazione” dell’artista Il problema delle forme artistiche e letterarie corrisponde ovviamente a una visione della realtà in via di trasformazione, o comunque alterata rispetto al passato. Per arnold hauser (Il Manierismo, einaudi, torino 1965) il Manierismo corrisponde a una condizione alienata dell’artista nel momento in cui la cultura comincia ad essere inserita in un processo di meccanismi produttivi già orientati verso un’organizzazione di tipo capitalistico. Il concetto di “alienazione” è ricavato da Karl Marx (1818-83), secondo cui il lavoratore, nel sistema socio-economico del capitalismo, viene separato dai risultati del proprio lavoro, che diventa per lui qualcosa di estraneo (di qui il termine “alienazione”, dal latino alienare, “rendere estraneo”): il lavoratore non produce per se stesso e per i suoi bisogni immediati, ma per altri; spesso l’attività riguarda solo una parte del prodotto, che altri hanno il compito di completare; la merce finita non è destinata all’uso di chi la produce (“valore d’uso”), ma è stata prodotta al fine di essere scambiata con denaro (“valore di scambio”), perdendo così ogni legame con il soggetto che l’ha prodotta.

Qualcosa del genere si verifica già nel cinquecento, quando anche l’arte e la letteratura cominciano a essere considerate una merce, un oggetto di scambio che, in quanto tale, può produrre guadagno e ricchezza. Nei secoli precedenti l’artista lavorava per lo più in una dimensione pubblica, in sintonia con le esigenze della comunità, di cui esprimeva i bisogni e le aspirazioni. Nel cinquecento si afferma invece la committenza di opere artistiche da parte dei nobili e delle famiglie più ricche, per adornare i saloni delle loro dimore e le opere commissionate hanno così una destinazione più propriamente privata. l’artista perde definitivamente i contatti con la propria opera, che cede (o, se si preferisce, “aliena”) in cambio di denaro al committente. Il nuovo tipo di rapporto che si instaura tra l’artista e il committente risulta inoltre molto più difficile e aleatorio, poiché in ogni momento può venire meno la protezione da parte del potere, provocando una sensazione di precarietà che si può ben cogliere, ad esempio, leggendo l’autobiografia di Benvenuto cellini ( cap. 1, A1, p. 529).

519

L’età della Controriforma L’utopia

Il difficile rapporto tra l’individuo e la realtà storico-sociale trova infine un’espressione emblematica nella ricerca di soluzioni utopiche, che caratterizza l’opera di Anton Francesco Doni (1513-74) e troverà una più compiuta formulazione nella Città del Sole del filosofo Tommaso Campanella (1568-1639). Questi scritti si possono ricondurre all’Utopia (1516) del grande umanista inglese Tommaso Moro (Thomas More, 1478-1535), nella quale viene descritta una repubblica ideale, regolata dalla perfezione delle sue istituzioni politico-sociali.

Le soluzioni formali Mescolanza e contaminazione

Tendenze sperimentali

Le tendenze manieristiche vanno comunque individuate soprattutto all’interno delle scelte strutturali e tecnico-formali delle opere. La misura del classicismo si trasforma nella ricerca di soluzioni esasperate ed estreme, che si propongono di toccare il limite delle possibilità rappresentative ed espressive. Alla distinzione rigorosa degli stili e dei generi tende a sostituirsi la loro mescolanza o contaminazione. La ricerca di effetti capricciosi e bizzarri si basa spesso su situazioni paradossali o grottesche, attraverso la mescolanza di tragico e comico, come succede nel Pastor fido di Battista Guarini (1538-1612). Lo stesso Tasso, pur accettando le norme del poema epico, finisce per contestarle dall’interno ( cap. 3, p. 578). Tra gli aspetti del Manierismo si può individuare, quindi, una forte tendenza sperimentale, che sottopone i materiali della tradizione letteraria alla ricerca di inedite combinazioni. A differenza della poetica classicistica, la ripresa di questi elementi non è più semplice imitazione, ma diventa combinazione, amplificazione, deformazione, variazione in chiave fortemente espressiva di modelli precedenti (la cosiddetta “maniera”).

La concezione del mondo e dell’individuo La teoria copernicana

L’universo infinito di Giordano Bruno

Il carattere innovativo del Manierismo

All’uomo medievale, appiattito sul piano della vita terrena dalle forze dell’assoluto, si era sostituito l’uomo rinascimentale, capace di controllare e dominare le forze della natura. Questo rapporto privilegiato uomo-mondo viene ben presto modificato dalla teoria dell’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543), il quale, rifiutando la vecchia concezione tolemaica, sostiene che la Terra ruota intorno al Sole, e non viceversa. Questa ipotesi “eliocentrica” (dimostrata in seguito da Galileo Galilei) considera il nostro pianeta non più al centro dell’universo, ma una semplice parte di esso. Da questa prospettiva cosmologica doveva necessariamente derivare l’idea di una nuova “relatività”, che trova le sue più ardite e significative espressioni nel pensiero e nell’opera di Giordano Bruno (1548-1600). Proiettato in un universo infinito, l’uomo non cessa per questo di essere al centro dell’universo, ma il centro può essere ormai dappertutto. Ne deriva una moltiplicazione infinita dei punti di vista, che acquistano tutti una loro particolare validità. In questo senso la posizione di Bruno si caratterizza anche per la sua inedita carica conoscitiva, poiché tenta di portare la rivoluzione copernicana sul piano della cultura e della coscienza. Se è vero che il Manierismo riflette, almeno in parte, la crisi di molte certezze (dalle regole della letteratura all’ordine immutabile dell’universo), è altrettanto vero che questo ripensamento presenta aspetti positivi e di sorprendente vitalità, nella misura in cui, rimettendo in discussione molte verità ritenute prima infallibili, si apre alla ricerca di nuove esperienze e soluzioni espressive.

Facciamo il punto 1. Come cambia il rapporto tra gli intellettuali e il potere nell’età della Controriforma? 2. In che cosa consiste il Manierismo? 3. Che cosa si intende con il termine «contaminazione»? 4. Quale trasformazione subisce la concezione del mondo nella seconda metà del Cinquecento?

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Il contesto

I fenomeni letterari

Generi e forme della letteratura Le forme della prosa Il trattato di argomento politico

Il dialogo mimetico

Testi Doni • La città utopica dai Mondi

L’autobiografia

Il progressivo restringimento degli orizzonti ideologici si avverte soprattutto nei generi che affrontano più direttamente argomenti politici, come la trattatistica e la storiografia. Il rifiuto di Machiavelli, accusato non solo di immoralità ma anche di irreligiosità, induce a cercare altri modelli. Nasce così il fenomeno del tacitismo, ispirato allo storico latino Tacito, che, pur avendo anch’egli raffigurato le efferatezze e la corruzione del potere, aveva espresso una condanna morale assente invece nello spregiudicato “realismo” machiavelliano. Il pensiero politico dell’età controriformistica si identifica soprattutto nell’opera del piemontese Giovanni Botero (1543-1617), che nel suo trattato Della ragion di Stato (1589) affronta la questione del conflitto tra la libertà dell’individuo e le scelte politiche, subordinando entrambe le esigenze ai princìpi proclamati dalla Chiesa controriformistica ( La voce dei testi, p. 522). Quando il discorso si allontana dalla dimensione politica, il genere più frequente è il dialogo. Nei grandi trattati rinascimentali (di Bembo, ad esempio, o di Castiglione) era prevalso il dialogo diegetico, in cui la voce narrante guida alla ricerca di una verità destinata a prevalere sulle ipotesi contrastanti, mentre ora il dialogo tende a essere soprattutto mimetico, ossia esclusivamente affidato alla voce dei diversi interlocutori, quasi a rappresentare una realtà frammentaria e relativa. È il caso dei dialoghi scritti da Sperone Speroni, che toccano i più svariati argomenti, morali, comportamentali, retorico-letterari e linguistici. Nel Dialogo delle lingue, ad esempio, vengono esposte le più diverse teorie sull’argomento, senza che l’autore intervenga a far capire il suo pensiero. Nei Mondi di Anton Francesco Doni la soluzione utopica, come fuga da una società ingiusta e opprimente, è ottenuta grazie all’uso del paradosso, che mette in discussione i confini tra la normalità e la follia. Questa visione critica e demistificante raggiunge la più intensa espressione nei dialoghi di Giordano Bruno ( cap. 1, A3, p. 537); nella nuova visione di una realtà policentrica e poliprospettica, ogni cosa diventa relativa e può trasformarsi nel suo opposto, sino a far coincidere gli estremi. Sebbene si presenti come un’opera isolata, la Vita del grande orafo e scultore Benvenuto Cellini ( cap. 1, A1, p. 529) inaugura un genere nuovo, quello dell’autobiografia, che avrà grande fortuna nell’età romantica. Condotta in prima persona, la narrazione mette in risalto la personalità dell’artista ed esprime una visione del reale minacciosa, sottoposta a trame oscure e irrazionali, tipiche della mentalità medievale e delle sue credenze superstiziose. Alla singolarità del racconto corrisponde una scrittura vivace e sbrigliata, del tutto personale e antiaccademica. 521

L’età della Controriforma

La voce dei testi | autOre: Giovanni Botero | Opera: Della ragion di Stato

La consacrazione religiosa del potere politico Il passo che segue, ricavato dal capitolo XV del libro II del trattato Della ragion di Stato, è fondamentale per intendere gli orientamenti politici, oltre che – in senso lato – ideologici e culturali, dell’età della controriforma.

Deve dunque il prencipe di tutto cuore umiliarsi innanzi la Divina Maestà1 e da lei riconoscere il regno2 e l’obedienza de’ popoli; e quanto egli è collocato in più sublime grado3 sopra gli altri, tanto deve abbassarsi maggiormente nel cospetto di4 Dio, non metter mano a negozio5, non tentar impresa, non cosa nissuna, ch’egli non sia sicuro esser conforme alla 5 legge di Dio. Il perché6 l’istesso Dio commanda7 al re, che abbia presso di sé copia della sua santa legge e che l’osservi sollecitamente […]. Per lo che8 sarebbe necessario che il prencipe non mettesse cosa nissuna in deliberazione nel conseglio di Stato9, che non fosse prima ventillata in un conseglio di conscienza, nel quale intervenissero dottori eccellenti in teologia et in ragione canonica10, perché altramente caricherà11 la conscienza sua e farà delle 10 cose che bisognerà poi disfare, se non vorrà dannare l’anima sua e dei successori […]. La grandezza de’ prencipi d’Austria non è nata altronde, che dalla loro eccellente pietà, conciosaché12 si legge che, essendo a caccia con una gran pioggia, Rodolfo conte d’Auspurg13 1. la Divina Maestà: Dio. 2. riconoscere il regno: riconoscere che il potere politico deriva da Dio. 3. in più sublime grado: più in alto, in una condizione più elevata. 4. nel cospetto di: di fronte a. 5. metter … negozio: intraprendere un’attività, un’iniziativa. 6. Il perché: infatti. 7. commanda: ordina. 8. per lo che: per questo. 9. conseglio di Stato: la riunione del principe con i suoi ministri e i più stretti collaboratori, per assumere importanti decisioni; prima di questo, secondo l’autore, ci dovrebbe

essere un conseglio di conscienza che, avvalendosi di esperti uomini di Chiesa, esaminasse e discutesse (fosse … ventilata) ogni questione con esplicito riferimento alla religione e alla morale. 10. ragione canonica: diritto canonico. 11. caricherà: nel senso di macchierà, caricandola di una grave colpa, assumendosi una pesante responsabilità. 12. conciosaché: in quanto, poiché. 13. rodolfo conte d’auspurg: il principe tedesco Rodolfo I (1218-91), creato Re dei Romani, che diede origine alla fortuna della casa degli Asburgo (Auspurg). È ricordato da Dante nel canto VII del Purgatorio, versi 91-96.

Pieter Paul Rubens e Jan Wildens, Atto di devozione di Rodolfo I di Asburgo, che cede il cavallo a un sacerdote che sta portando il Viatico, 1625 ca., olio su tela, Madrid, Museo Nacional del Prado.

522

Il contesto · I fenomeni letterari

s’incontrò in un sacerdote, che per colà solo caminava, ed avendo chiesto dove andasse e qual fosse la cagione di viaggio sì importuno14, rispose che se ne andava a portare il San15 tissimo Viatico15 ad un infermo. Smontò incontanente16 Rodolfo e, adorando umilmente Giesù Cristo nascosto sotto la spezie e la forma del pane17, mise il suo ferarolo18 su le spalle al sacerdote, acciocché la pioggia non lo gravasse19 tanto e con maggior decenza20 portasse l’Ostia Sacrosanta. Il buon sacerdote, ammirando e la cortesia e la pietà del conte, gli rese grazie immortali21 e supplicò Sua Divina Maestà, che ne ’l remeritasse22 con 20 l’abbondanza delle grazie sue. Cosa mirabile: fra poco tempo23 Rodolfo, di conte, divenne imperatore, i suoi successori arciduchi d’Austria, Prencipi de’ Paesi Bassi, regi24 di Spagna con la monarchia del Mondo Nuovo, signori d’infiniti Stati e di paesi immensi […]. La religione è fondamento d’ogni prencipato, perché, venendo da Dio ogni podestà25 e non si acquistando la grazia e ’l favor di Dio altramente che26 con la religione, ogni altro 25 fondamento sarà rovinoso. La religione rende il Prencipe caro a Dio: e di che cosa può temer chi ha Dio dalla sua? G. Botero, La ragion di Stato, a cura di C. Continisio, Donzelli, Roma 1997

14. sì importuno: così malagevole, pieno di disagi. 15. il Santissimo Viatico: la comunione, in quanto conforto (Viatico) per il moribondo. 16. incontanente: subito. 17. sotto … pane: nell’ostia consacrata. 18. ferarolo: mantello. 19. gravasse: opprimesse, molestasse. 20. con … decenza: in modo più decoroso, più conveniente al compito che svolgeva.

21. immortali: infinite, in quanto espressione della volontà di Dio. 22. che … remeritasse: che lo ricompensasse. 23. fra poco tempo: poco tempo dopo. 24. regi: re (la monarchia di Mondo Nuovo indica il possesso e lo sfruttamento delle terre d’oltremare conquistate a partire dalla scoperta dell’America di Cristoforo Colombo). 25. podestà: forma di potere. 26. altramente che: se non.

Guida alla lettura La polemica con il Principe La trattatistica sul principe era stata uno dei temi cari alla cultu-

ra umanistico-rinascimentale, dal De principe di Giovanni Pontano al Principe di Machiavelli. Il trattato di Botero sulla «ragion di Stato» nasce proprio in polemica con il capolavoro machiavelliano, opera considerata immorale e irreligiosa, e per questo messa subito all’indice, per la spregiudicatezza delle sue analisi. Il modo migliore per evitare le crudeltà e gli errori del potere politico sembra a Botero quello di subordinarlo al controllo della religione, a cui il principe deve sottoporre preliminarmente le sue scelte, creando un «conseglio di conscienza, nel quale intervenissero dottori eccellenti in teologia et in ragione canonica». La subordinazione alla politica controriformistica L’errore di calcolo – per noi tutto questo è ormai evidente – consiste nell’avere identificato la religione non con la purezza della morale ma con l’effettivo potere esercitato dalla Chiesa, Stato territoriale pienamente coinvolto nelle alleanze politiche del tempo, con i loro intrighi e le loro controversie. Un atteggiamento del genere, chiaramente strumentale, era subordinato agli interessi religiosi della politica controriformistica, e significava soprattutto un ritorno a secoli passati, se è vero che già Dante, nella Monarchia, aveva sottolineato la necessaria distinzione fra il potere temporale e il potere spirituale. Ma soprattutto la storia ci ha insegnato quanto pericolosa sia la convinzione, da parte di uno Stato, di avere “Dio dalla sua”; di qui sono nate le guerre di religione e le persecuzioni razziali. Non è un caso allora che il riferimento a Rodolfo d’Asburgo abbia tutto il sapore di un exemplum tipico della vecchia predicazione medievale, in cui l’elemento superstizioso e irrazionale sostituisce quella che, nelle intenzioni dell’autore, vorrebbe essere (ma non è) una dimostrazione documentata, suffragata da prove certe. 523

L’età della Controriforma

Le forme della poesia La poesia lirica

Il poema epico

Per quanto riguarda la lirica, restano immutate le caratteristiche registrate per il primo Cinquecento. Il petrarchismo meridionale registra un’inquietudine e un allentamento delle forme che raggiunge, ad esempio nei versi di Luigi Tansillo (151068), esiti visionari e immaginosi, che hanno fatto parlare di una sensibilità prebarocca; in tale ambito va inquadrata anche la sofferta esperienza lirica di Torquato Tasso. La narrativa in versi subisce invece una netta inversione di tendenza, se si pensa alle differenze che separano l’Orlando furioso dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso ( cap. 3, p. 552), in cui, alla libertà inventiva del romanzo ariostesco, viene contrapposta la gravità di intenti del poema epico, che trae nuovo slancio dalle condizioni storiche del tempo (il pericolo dei Turchi) ed esprime il bisogno di ordine attraverso il rispetto delle regole di unità aristoteliche. Uno scontro fra popoli e civiltà, riferito a un passato lontano nel tempo, è già al centro del primo poema epico cinquecentesco, L’Italia liberata dai Goti (concluso nel 1547) di Gian Giorgio Trissino, che ha come argomento la guerra combattuta negli anni dal 535 al 539 dai Bizantini contro gli Ostrogoti. Contenuti austeri e solenni caratterizzano anche l’opera più importante del secondo Cinquecento, la Gerusalemme liberata. Ma l’accettazione dei princìpi imposti dall’ortodossia dominante non cancella un più profondo conflitto intellettuale, lasciando emergere i contenuti rimossi di quella libertà che lo stesso Tasso si era sforzato di respingere e di occultare.

La letteratura drammatica La violenta polemica condotta da Bruno contro le istituzioni culturali riguarda anche l’esperienza teatrale, che il rigorismo teologico-morale della Controriforma e le rigide regole ricavate dalla Poetica aristotelica tendono a imbrigliare, limitando l’autonomia

Abraham Bloemaert, Amarilli e Mirtillo, 1635, olio su tela, Berlino, Stiftung Preubische Schlosser.

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Il contesto · I fenomeni letterari Il modello di Terenzio

Verso la Commedia dell’Arte

Impopolarità della tragedia

La novità della favola pastorale

inventiva degli scrittori. Nel campo della commedia si raggiunge una soluzione di compromesso tra il gusto del pubblico e le direttive degli intellettuali con la sostituzione del modello latino di Plauto, giudicato troppo grossolano, con quello di Terenzio, che rappresenta sentimenti più elevati e drammi psicologici. A lui guardano il perugino Sforza Oddi (1540-1611), il senese Scipione Bargagli (1537-86) e il fiorentino Giovanni Maria Cecchi (1518-87). Il testo comico più importante del secondo Cinquecento è Il candelaio di Giordano Bruno, in cui si esaltano le caratteristiche di questo scrittore: la vertiginosa mescolanza dei linguaggi e la feroce irrisione delle istituzioni culturali. Al Ruzante, attivo nel primo Cinquecento, si ispira invece il veneziano Andrea Calmo (1510 ca.-71), autore-attore che ricerca l’effetto comico anche grazie alla mescolanza di diversi dialetti settentrionali: la Pozione è un rifacimento della Mandragola di Machiavelli, mentre la Fiorina ricalca l’omonimo testo ruzantiano. Il filosofo napoletano Giambattista della Porta (1535-1615) costituisce una curiosa figura di scienziato, inventore, mago. Nelle quattordici commedie che ci sono pervenute (la più nota è l’Olimpia, 1586-89) prevale un sentimentalismo esasperato e i personaggi vengono raddoppiati in «uno spericolatissimo gioco di travestimenti» (Borsellino-Mercuri). Con questi ultimi due autori si apre la strada alla cosiddetta Commedia dell’Arte. Minore fortuna ebbe la tragedia (che si ispira come modello classico a Seneca), soprattutto perché «le rappresentazioni drammatiche erano quasi sempre allestite nell’ambito della corte» e il teatro tragico «non era facilmente inseribile nell’allegra atmosfera celebrativa» (Molinari). Oltre al Torrismondo di Tasso, le cinque tragedie mai rappresentate di Pomponio Torelli (1539-1602) affrontano il tema particolarmente sentito del conflitto tra gli affetti e la ragion di Stato; il soggetto mitologico, trattato in chiave moderna, del testo più riuscito, la Merope (1589), sarà ripreso da Voltaire e da Alfieri. Nell’ambiente festoso delle corti si afferma piuttosto un genere nuovo, il dramma o favola pastorale, o, ancora, tragicommedia, che si ispira alla ripresa dell’egloga dialogata (i modelli classici sono Teocrito e Virgilio) già verificatasi nel corso del Quattrocento ad opera di Poliziano, con la Favola di Orfeo, e di Sannazaro, con l’Arcadia. Le vicende, che ruotano attorno a un amore contrastato, hanno come protagonisti ninfe e pastori, immersi in una realtà, artificiale e idealizzata, di evasione e di sogno. Il genere ebbe la più ampia diffusione presso la corte degli Estensi a Ferrara; e all’ambiente ferrarese fanno capo anche le due opere più significative, l’Aminta di Tasso ( cap. 3, p. 552) e il Pastor fido di Battista Guarini ( cap. 2, A1, p. 543).

Facciamo il punto 1. Quali sono i generi letterari che meglio rappresentano il gusto manieristico? 2. Quale rapporto c’è fra politica e religione, secondo Giovanni Botero?

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L’età della Controriforma

Ripasso visivo

L’eTÀ deLLa CoNTRoRIFoRma (1560-1600)

PoLITICa, eCoNomIa e SoCIeTÀ

• l’Italia passa sotto il dominio spagnolo (1559: pace di cateau-cambrésis) • si diffonde in tutta europa la Riforma protestante: - contro il dogmatismo - contro la corruzione della chiesa - a favore della libertà e dell’iniziativa individuale • Ignazio di loyola fonda l’Ordine dei gesuiti (1540) per: - evangelizzazione (nel Nuovo Mondo) - insegnamento (in europa)

• la chiesa cattolica reagisce con l’apertura del Concilio di Trento (1545-63)

• la Chiesa cattolica afferma la sua superiorità in materia di fede

• vengono fondate nuove istituzioni per la difesa della

dottrina cattolica: - Santa Inquisizione - Tribunale del Sant’Uffizio • la vittoria della lega santa nella battaglia di lepanto (1571) riduce il controllo dei turchi sul Mediterraneo

CuLTuRa e meNTaLITÀ

• il potere ecclesiastico aumenta il controllo sulla

cultura: - repressione di ogni forma di dissenso - lotta contro le eresie - apertura di nuove scuole condotte dai gesuiti - censura sui testi destinati alla pubblicazione - revisione delle opere del passato • l’approccio filologico ai testi viene abbandonato per applicare i nuovi princìpi morali e religiosi • le Accademie si trasformano in organismi ufficiali • il mondo editoriale si adegua alle direttive imposte dal potere religioso

• la maggior parte degli intellettuali fa parte del clero • sopravvive il libero pensiero:

- la teoria eliocentrica di Copernico - la teoria dell’infinità degli universi di Giordano Bruno • si modifica la concezione del mondo e dell’individuo: - crisi delle certezze - relatività del mondo - moltiplicazione dei punti di vista

LINGua e LeTTeRaTuRa

• si afferma il Manierismo:

- rifiuto dell’ideale rinascimentale di equilibrio e perfezione - deformazione e capovolgimento dei modelli - mescolanza di registri linguistici e scelte stilistiche - contaminazione dei generi - predilezione per alcune tematiche (follia, mistero, orrore ecc.) • si riduce la varietà dei generi letterari:

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Prosa • dialogo • trattato di argomento politico • autobiografia (novità) Poesia • lirica petrarchista • poesia epico-eroica (di argomento storico) TeaTro • commedia • favola pastorale

In sintesi

L’eTÀ deLLa CoNTRoRIFoRma (1560-1600) Verifica interattiva

daLLa RIFoRma aLLa CoNTRoRIFoRma Il fatto culturale più rilevante del XVI secolo è rappresentato dalla riforma protestante, che ha origine nel 1517 dalla protesta di Martin lutero nei confronti della corruzione della curia romana e che ben presto si diffonde in tutto il Nord europa, provocando una profonda frattura nell’assetto politico e culturale. la reazione della chiesa cattolica di fronte al prosperare delle nuove dottrine eterodosse (grande diffusione ebbe, ad esempio, il calvinismo) e alla nascita di gerarchie autonome (si assiste allo scisma della chiesa anglicana) consiste nella convocazione di un concilio per il rinnovamento della chiesa. Il concilio di trento dura ben diciotto anni, dal 1545 al 1563, e si conclude con l’affermazione della supremazia della chiesa cattolica e dell’autorità papale in materia di fede. ha così inizio l’età della controriforma, durante la quale il potere ecclesiastico intensifica l’opera di controllo e repressione su ogni forma di dissenso per preservare l’integrità della dottrina. la lotta contro l’eresia e contro il libero pensiero è condotta soprattutto da due istituzioni competenti in materia religiosa: la Santa Inquisizione e il tribunale del Sant’uffizio.

Le ISTITuzIoNI CuLTuRaLI la politica culturale oscurantista della chiesa cattolica viene condotta dall’ordine dei gesuiti (o compagnia di gesù), che difende l’ortodossia attraverso l’attività di predicazione e di insegnamento. tra i compiti del Sant’uffizio si inserisce anche la compilazione dell’Indice dei libri proibiti, un elenco ufficiale delle opere ritenute contrarie ai princìpi della morale cattolica (e perciò vietate ai fedeli). la censura ecclesiastica viene applicata non soltanto agli scritti di nuova pubblicazione, ma anche alle opere della tradizione, che vengono corrette per eliminare i contenuti licenziosi e immorali (la cosiddetta “rassettatura”). Subisce pertanto una brusca battuta d’arresto la scienza filologica, che attraverso il suo metodo rigoroso e innovativo aveva determinato il trionfo dello spirito critico e dell’autonomia di giudizio in età umanistica. Il rapporto tra gli intellettuali e il potere politico-religioso si fa sempre più difficile: le accademie si trasformano in organismi ufficiali al servizio della chiesa e il mondo editoriale si adegua alle direttive imposte dal tribunale del Sant’uffizio. Nella seconda metà del XVI secolo la cultura italiana è saldamente nelle mani degli intellettuali che appartengono al clero.

Le TeNdeNze LeTTeRaRIe e La VISIoNe deL moNdo la tendenza ad esaltare gli aspetti irrazionali dell’esistenza, che caratterizza già in età rinascimentale la reazione

all’ideale di perfezione formale tipica della cultura ufficiale, si rafforza e diventa prevalente alla fine del cinquecento con il fenomeno del Manierismo. con questo termine si indica una disposizione artistico-culturale che stravolge l’equilibrio imposto dalle regole del classicismo e ricerca effetti di sorpresa attraverso la mescolanza di elementi eterogenei e la deformazione in chiave espressiva dei modelli precedenti. le tendenze manieristiche si manifestano soprattutto attraverso la contaminazione dei registri linguistici, delle scelte stilistiche e dei generi letterari, ma anche dal punto di vista tematico si possono individuare alcune caratteristiche ricorrenti (il tema della follia, del mistero, dell’orrore ecc.). Il Manierismo riflette la crisi delle certezze e la moltiplicazione dei punti di vista che deriva dalle nuove riflessioni in ambito scientifico e filosofico. Infatti l’ipotesi “eliocentrica” di copernico e l’idea di universi infiniti introdotta da giordano Bruno cambiano sostanzialmente la concezione del mondo e dell’individuo rispetto all’età rinascimentale.

GeNeRI e FoRme deLLa LeTTeRaTuRa Nella produzione in prosa il genere più frequentato è il dialogo mimetico, che consente di esporre una pluralità di pensieri senza la necessità di fissare regole o princìpi assoluti. I risultati più interessanti sono raggiunti in questo ambito da giordano Bruno. la trattatistica di argomento politico non risulta particolarmente significativa a causa della forte censura esercitata sulla libertà di pensiero. circola però con grande diffusione il trattato Della ragion di Stato di giovanni Botero, che riflette l’idea di potere assoluto tipica della cultura controriformistica. con la sua Vita, Benvenuto cellini inaugura invece il genere letterario dell’autobiografia, che avrà molto successo nei secoli successivi. In ambito poetico le prove più riuscite appartengono al genere della poesia epica. Si abbandona la materia cavalleresca e si rivolge l’attenzione alla narrazione di tipo eroico e storico, come dimostra l’opera di trissino, ma soprattutto la Gerusalemme liberata di tasso. Nella letteratura drammatica si assiste alla sperimentazione di nuove soluzioni: la commedia cerca di conciliare il gusto del pubblico con le esigenze degli scrittori e il risultato più importante resta limitato all’aspetto linguistico. anche in questo campo le prove migliori sono quelle di giordano Bruno. la vera novità è rappresentata però dall’introduzione di un genere inusuale, la favola pastorale, che ha origine dalla contaminazione di elementi provenienti dalla commedia, dalla tragedia e dalla poesia bucolica. le opere di maggior successo sono l’Aminta di tasso e il Pastor fido di guarini.

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Capitolo 1

La prosa

L’autobiografia e la letteratura dialogica: eccentrici e ribelli L’autobiografia: Cellini

Il dialogo: Bruno e Campanella

Il clima di repressione e la fine dei progetti riformatori

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A partire dalla seconda metà del XVI secolo, si avverte un’esigenza di cambiamento che dà origine a nuove opere e a nuove soluzioni letterarie. Tra queste andrà ricordata la Vita del grande orafo e scultore Benvenuto Cellini ( A1, p. 529), che rappresenta, nella storia della nostra letteratura, il primo esempio di autobiografia. Condotta in prima persona, l’opera mette in risalto i tratti di una fortissima personalità, caratterizzata da una straordinaria volontà ed energia, che permette di superare gli ostacoli posti dalla sorte nemica (l’influsso diabolico delle “stelle”) e dalla malvagità invidiosa degli uomini (l’arroganza e l’ingratitudine dei committenti, fra cui il pontefice). Ma lo sfrenato egocentrismo che ne deriva, anche attraverso il cedimento a impulsi e credenze irrazionali, rivela una forma infantile di narcisismo, che corrisponde alle insicurezze e alle difficoltà dell’artista rispetto alle richieste e alle imposizioni del potere. Ricca di avvenimenti e di colpi di scena, tra risse e agguati, fughe e processi, la Vita presenta anche una forte coloritura romanzesca, nel senso del romanzo d’avventure o del romanzo “picaresco”, che nasce in Spagna in questo stesso secolo (al 1554 risale l’anonimo Lazarillo de Tormes). Diverso, rispetto al passato, è anche l’adozione del dialogo, già ampiamente diffuso nella trattatistica umanistico-rinascimentale. Di qui ne derivano due fra le personalità più significative vissute tra Cinque e Seicento, gli scrittori-filosofi Giordano Bruno ( A3, p. 537) e Tommaso Campanella ( A2, p. 533). Tuttavia, se in precedenza il dialogo era servito soprattutto per definire in senso positivo questioni di tipo ideologico e culturale, legate anche al comportamento da tenere in società (si ricordino il Cortegiano di Castiglione e il Galateo di Della Casa), in Bruno e Campanella acquista un significato ben diverso, di opposizione e di rottura. In Bruno, ad esempio, serve per una critica irridente nei confronti di quell’aristotelismo che permeava il conformismo e la pedanteria della cultura del tempo, mentre in Campanella si fa portatore di una visione politica alternativa rispetto alla corruzione e alle ingiustizie della società del tempo. La loro tragica storia si inscrive nel clima di repressione e di condanne capitali che diventa sempre più soffocante al tempo della Controriforma. Mentre in precedenza era ancora possibile auspicare un rinnovamento, che condannasse la corruzione delle gerarchie ecclesistiche (si pensi agli stessi Dante, Petrarca e Boccaccio) e riconducesse la Chiesa alla purezza delle sue origini evangeliche (queste discussioni animavano ancora il cenacolo della poetessa Vittoria Colonna, la protettrice di Michelangelo), in seguito ogni margine di intervento si sarebbe rivelato impraticabile. Negli anni 1560-80 si assiste al declino e alla fine dei progetti riformatori in Italia, per le persecuzioni che colpivano ogni forma ritenuta pericolosa di dissenso. Non solo gli atteggiamenti religiosi ma, in senso lato, la libertà del pensiero e della ricerca scientifica

Capitolo 1· La prosa

Il dissenso degli intellettuali: invettiva e utopia

A1

Un’esistenza avventurosa

Il trasferimento a Parigi

Il ritorno a Firenze

potevano facilmente fornire il pretesto per formulare accuse di eresia, come quelle che colpirono Bruno e Campanella (e colpiranno, pochi decenni dopo, Galileo Galilei). Se in Bruno prevale l’aspetto polemico dell’invettiva anche violenta, nell’opera più nota di Campanella, La città del Sole, si affaccia una soluzione utopica, che è strettamente legata alla situazione sin qui delineata. L’utopia (così si intitolava l’opera più famosa – 1516 – del grande umanista inglese Tommaso Moro) testimonia in maniera sempre più acuta il bisogno di evadere da una società che nega la giustizia e l’uguaglianza, facendosi strumento di un’oppressione disumana.

Benvenuto Cellini Lo scultore e orafo fiorentino Benvenuto Cellini nacque nel 1500. Per papi e illustri personaggi eseguì molte opere di oreficeria, in gran parte perdute. Della sua vita e della sua attività artistica egli lascia una memoria incancellabile nella propria autobiografia, la cui stesura fu intrapresa a partire dal 1558. Quando fu stampata, nel 1728, il successo della Vita fu enorme, tanto che venne tradotta in numerose lingue e suscitò l’entusiasmo di non pochi scrittori, fra cui Goethe. Messo dal padre “a bottega d’orefice”, a sedici anni, in seguito a una rissa fu mandato al confino a Siena; era l’inizio di una vita sregolata e burrascosa, segnata da una lunga serie di risse e di condanne. Per il secondo dei tre omicidi commessi, l’artista scontò fra il 1538 ed il 1539 poco più di un anno di carcere presso Castel Sant’Angelo. Liberato per intercessione del re di Francia Francesco I, si trasferì a Parigi al servizio di quest’ultimo, ma neppure alla corte francese riuscì a rimanere a lungo: ancora litigi e risse lo costrinsero a un precipitoso ritorno in Italia. Approdato a Firenze (1548) presso la corte di Cosimo I, ebbe l’incarico più prestigioso che gli fosse mai stato affidato: l’esecuzione di una statua raffigurante Perseo, in bronzo, che fu poi collocata nella loggia dei Lanzi. Le vicende della fusione del Perseo occupano varie pagine della Vita, tra le più belle dell’intera biografia ( T1, p. 530). Gli ultimi anni della vita furono amareggiati dai contrasti con i rivali e resi difficili dalla disastrosa situazione economica, quando l’artista perse anche il favore del principe. Cellini compose anche delle Rime e alcuni scritti sull’arte. Morì nel 1571. La vita

Nella narrazione della propria vita Cellini riversa un’enorme tensione esistenziale, presentando ogni aspetto con caratteri iperbolici, sia nell’elogio sia nel biasimo. Lo scrittore raffigura se stesso come un grande artista e un grande uomo tutto teso a vincere le avversità della fortuna mediante la propria virtù, pur negli aspetti violentemente contraddittori del suo carattere (l’estrema passionalità e la sfrenata immoralità unite a una forma sincera seppur superstiziosa di religiosità). Cellini intende porre l’accento sul carattere esemplare della propria esistenza, che, pur attraverso la degradazione ed il male (testimoniati soprattutto dagli episodi di omicidio e dal processo per sodomia), sarà riscattata da Dio e tratta verso la luce. Questa sorta di catarsi viene rappresentata dalla travagliata vicenda della fusione del capolavoro celliniano, la statua di Perseo ( T1, p. 530), che per una serie di errori rischiava di andare perduta e invece è stata miracolosamente salvata con l’aiuto di Dio. Lo stile della Vita è caratterizzato da una colorita dialettalità fiorentina, rigurgitante di espressioni violente e sarcastiche, che lo collocano nel filone della lingua “popolare” e “realistica” toscana. La sintassi è mossa, varia e spesso addirittura contorta, per l’intersecarsi della narrazione col discorso diretto e per l’aprirsi continuo di parentesi che servono a dar spazio a ogni particolare. L’autobiografia

L’individualismo

Testi Cellini • L’uso delle armi da fuoco • Benvenuto e il “sacco di Roma” • L’evocazione dei demoni dalla Vita

Lo stile

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L’età della Controriforma

T1

Benvenuto Cellini

Temi chiave

La fusione del Perseo dalla Vita, II, capp. 76-77

• l’affermazione della volontà dell’individuo

• il valore dell’arte e della tecnica • la lotta tra il bene e il male

Dopo aver accuratamente predisposto ogni cosa per la fusione del Perseo (1553), Benvenuto è colpito da un violento attacco di febbre, che lo costringe a tornare a casa. Affida l’operazione ai suoi aiutanti, che non riescono però a realizzarla. Avvertito delle difficoltà e dei pericoli, abbandona il letto e, incurante della salute, si precipita a salvare la statua.

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Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo1 animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente2, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: – Orsù intendetemi, e dappoi che3 voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v’insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell’opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga4, perché questi cotai5 casi hanno bisogno di aiuto e non consiglio6 –. A queste mie parole e’ mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati7 e disse: – Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette8 l’arte, né si può fare in modo nissuno –. A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al male9, che ei e tutti gli altri, tutti a una voce dissono10: – Sù, comandate, che tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si potrà resistere con la vita11 –. E queste amorevol parole io mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a12 cascar morto. Subito andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda13 l’essersi fatto un migliaccio14. Io dissi a dua manovali, che andassino al dirimpetto, in casa ’l15 Capretta beccaio16, per una catasta17 di legne di quercioli18 giovani, che erano secchi di più di uno anno, le quali legne madonna19 Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva offerte; e venute che furno20 le prime bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola21. E perché la quercia di quella sorte fa ’l più vigoroso fuoco che tutte l’altre sorte di legne, avvenga che22 e’ si adopera legne di ontano o di pino per fondere per l’artiglierie23, perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava24. Dall’altra banda25 sollecitavo26 i canali, e altri avevo mandato sul tetto arriparare al fuoco27, il quale per la maggior forza di quel fuoco28 si era maggiormente appiccato; e di verso l’orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all’acqua29.

1. cattivo: incattivito, invelenito. 2. gente: gli aiutanti di bottega, coloro che erano impegnati nella realizzazione del Perseo. 3. dappoi che: poiché. 4. mi si contraponga: mi ostacoli, intenda contraddirmi. 5. cotai: tali, di questo genere. 6. non consiglio: non di consigli inutili. 7. Alessandro Lastricati: «era, come suo fratello Zanobi, fonditore, stipendiato dal duca Cosimo» (Davico Bonino). 8. mai nollo promette: assolutamente non lo permette. 9. resoluto al male: risoluto a fargli del male, ad avventarmi su di lui. 10. dissono: dissero. 11. in quanto … vita: al limite delle possibilità dell’umana resistenza.

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12. soprastare a: durare prima di. 13. si domanda: viene detta. 14. migliaccio: è propriamente il “castagnaccio”; qui indica, in senso tecnico, il metallo fuso che si rapprende nel crogiuolo per la diminuzione del calore. 15. andassino … in casa ’l: andassero di fronte, a casa del. 16. beccaio: macellaio. 17. per una catasta: a prendere una catasta. 18. quercioli: piccole querce, che forniscono un ottimo legno da ardere. 19. madonna: nel senso allora in uso di “signora”. 20. furno: furono (le bracciate di legna). 21. impiere la braciaiuola: riempire «il braciere: la fossa dove finisce la brace che cade dalla graticola del forno» (Davico Bonino).

22. avvenga che: sebbene, per quanto. 23. per l’artiglierie: le parti metalliche che servono per costruire le armi da fuoco. 24. ei si … lampeggiava: il metallo aumentò la sua intensità luminosa fino a risplendere, a mandare dei lampi. 25. banda: parte. 26. sollecitavo: apprestavo con prontezza. 27. arriparare al fuoco: a creare dei ripari, delle barriere per il fuoco, perché non provocasse un incendio. 28. la maggior … fuoco: «è l’ardore della fornace, che si è spinto troppo in alto» (Davico Bonino). 29. all’acqua: dall’acqua (pioveva infatti intensamente, come è detto in precedenza).

Capitolo 1· La prosa

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Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti30 questi gran furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: – Porta qua, leva là – di modo che, veduto che ’l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 60 libbre31, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone32 gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di33 tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto34, contro al credere35 di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo più36 febbre o più paura di morte. Innun tratto37 ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, e io più degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ’l coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che ’l bronzo si versava38, subito feci aprire le bocche39 della mia forma e nel medesimo tempo feci dare40 alle due spine41. E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare42, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega43 per virtù44 di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia45 piatti e scodelle e tondi46 di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente47 e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: – O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo48! – di modo che innun tratto e’ s’empié la mia forma; per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ’l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un banchettaccio49, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me m’andai nel letto sano ellieto50, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto51 un male al mondo, così dolcemente mi riposavo.

30. dato … attutti: posto rimedio a tutti (i furori sono la furia degli elementi). 31. libbre: la “libbra” è un’antica unità di misura di peso, corrispondente a un terzo circa di chilogrammo. 32. cone: con. 33. in poco spazio di: in breve. 34. un morto: il metallo rappreso che ora, liquido, riempirà la forma. L’immagine è efficace: la statua è come un essere vivente, al quale l’artista ha il compito di donare la vita. 35. contro al credere: contrariamente a quanto credevano.

36. più: ancora. 37. Innun tratto: a un tratto, all’improvviso. 38. si versava: usciva fuori e colava. 39. bocche: aperture, accessi. 40. feci dare: feci spingere. 41. spine: erano delle sorte di “tappi” che chiudevano i canali attraverso cui entrava il metallo liquefatto. 42. prestezza … fare: rapidità che era solito avere. 43. la lega: «era fatta di stagno» (Davico Bonino). 44. per virtù: per effetto.

45. mia: miei. 46. tondi: vassoi. 47. animosamente: coraggiosamente, baldanzosamente. 48. al cielo: «il periodo rimane interrotto nella tensione esaltante del racconto» (Davico Bonino). 49. in sur un banchettaccio: su un bancone. 50. sano ellieto: guarito e felice. 51. aùto: avuto.

Analisi del testo L’affermazione dell’individuo L’arte e la tecnica

È uno dei passi più famosi della Vita di Cellini, considerato esemplare non solo perché si riferisce all’attività principale dell’artista, ma perché si riflette, in esso, un tipico aspetto dell’autobiografia celliniana: la prepotente affermazione della volontà dell’individuo, la vittoria sugli elementi ostili della natura e della storia. Lo slancio vitale del protagonista, che va ben oltre l’ideale rinascimentale di un’equilibrata realizzazione di sé, non è separabile, in queste pagine, dall’interesse per i problemi della tecnica, che accompagnano l’esecuzione dell’opera. Ma a rendere possibile la vittoria è soprattutto il «furore» dal quale è trascinato, come da una virtù soprannaturale che fa 531

L’età della Controriforma

La vittoria sulle avversità

Il conflitto tra il bene e il male

di lui una specie di “superuomo”; Benvenuto riesce infatti a realizzare «una impresa, la quale mai nollo promette l’arte, né si può fare in modo nissuno». Questa prospettiva di giudizio deve tenere conto anche dell’aiuto divino. La sconfitta degli elementi avversi (l’acqua e il fuoco), che Benvenuto riesce a piegare alla propria volontà, è accompagnata dall’invocazione a Dio («O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo!»), che già in altre occasioni lo aveva soccorso, operando a suo favore e attraverso di lui. La febbre può essere considerata, allora, un motivo di origine diabolica, come in un episodio precedente (capitolo 85 del libro I), in cui Benvenuto, che sta per morire in carcere, guarisce dopo aver vomitato un «verme piloso», simbolo evidente della possessione demoniaca. In questo senso la febbre e la malattia rappresentano un momento di transizione e una vera e propria purificazione, che conduce alla libertà e alla salvezza. Anche in questo episodio opera quindi profondamente, a un livello più sottilmente simbolico, il conflitto tra le forze del male e quelle del bene, che si ripercuote sull’intera struttura dell’opera.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Quali sono le difficoltà incontrate per la realizzazione dell’opera e come vengono superate da Benvenuto Cellini?

AnALizzAre

> 2. Quali momenti dell’episodio attestano la dimensione pratica e tecnica del lavoro dell’artista? > 3. narratologia Quali elementi del testo evidenziano l’appartenenza al genere autobiografico? > 4. Stile Il brano è caratterizzato da un uso frequente della figura retorica dell’iperbole. Indica alcuni passi in cui

è presente e spiega quale effetto produce. Lessico Individua vocaboli e/o espressioni attraverso cui emerge il coinvolgimento emotivo della voce narrante: quali aspetti caratteriali delineano? > 6. Lingua Individua nel testo un periodo che funga da esempio di sintassi mossa e varia tipica della prosa dell’autore.

> 5.

Approfondire e inTerpreTAre

> 7.

esporre oralmente Quali elementi presenti nel testo analizzato caratterizzano la Vita di Cellini, primo esempio di autobiografia nella storia della nostra letteratura? Rispondi in max 3 minuti. > 8. Altri linguaggi: arte In riferimento all’immagine, spiega quali elementi dell’opera avvalorano la tesi espressa nel brano dal fonditore Alessandro Lastricati («…voi vi volete mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette l’arte, né si può fare in modo nissuno», rr. 7-8) riguardo la difficoltà della fusione, soffermandoti sulla ricchezza dei dettagli.

SCriTTurA CreATivA

Benvenuto Cellini, Perseo, 1545-54, bronzo, part., Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi.

> 9. Immagina una situazione del passato che ti ha visto particolarmente coinvolto, come protagonista, nel tenta-

tivo – felicemente riuscito – di portare a termine un compito o un progetto, in qualsiasi campo. Prendendo a modello lo stile appassionato di Benvenuto Cellini, realizza un breve resoconto autobiografico che riporti tale esperienza, adottando sul piano linguistico anche espressioni tipiche del tuo territorio e/o del linguaggio che caratterizza la comunicazione dei giovani. Non superare le 60 righe (3000 caratteri).

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Capitolo 1· La prosa

A2 La formazione

L’arresto e la difesa di Galileo

Gli arresti successivi e la congiura calabrese

La liberazione e gli ultimi anni a Parigi

Le opere filosofiche e politiche

Le opere di carattere letterario

Un dialogo poetico

Tommaso Campanella Nato a Stilo, in Calabria, nel 1568, da una famiglia di umili origini e poverissima, Tommaso Campanella entrò quattordicenne nell’ordine dei domenicani. Ben presto l’educazione ricevuta, che si fondava tradizionalmente sull’insegnamento di Aristotele, fu abbandonata per seguire il pensiero del conterraneo Bernardino Telesio, il filosofo cosentino esponente di una concezione filosofica basata sulla conoscenza della natura e sull’esperienza dei sensi. Nasce di qui la Philosophia sensibus demonstrata (La filosofia proposta dai sensi), pubblicata a Napoli nel 1588 da Campanella, che al tempo stesso approfondiva i suoi interessi per l’astrologia e la magia, confluiti poi nel Senso delle cose e della magia. Per questi studi lontani dall’ortodossia religiosa, e per il suo spirito insofferente, entrò in rotta di collisione con i superiori e con le gerarchie ecclesiastiche. Arrestato a Napoli con l’accusa di aver difeso la filosofia telesiana condannata dalla Chiesa, gli fu intimato di tornare in Calabria, ma non ubbidì, recandosi in diverse città italiane, tra cui Padova (1593-94). Qui entrò in relazione con Galileo, a cui dedicherà più tardi l’Apologia pro Galilaeo (Difesa di Galileo), scritta nel 1616 per difendere la libertà delle ricerche condotte dallo scienziato, che proprio in quell’anno subiva il primo processo. Nuovamente arrestato, fu condotto a Roma nelle carceri del Sant’Uffizio, dove era detenuto e processato Giordano Bruno. Dopo un altro periodo di carcerazione, in cui venne sottoposto a tortura, fu rilasciato alla fine del 1597 e costretto a rientrare in Calabria. Qui si trovò poi coinvolto in una vasta congiura contro lo sfruttamento a cui le plebi contadine erano sottoposte da parte del potere politico, rappresentato dalla Spagna, e di quello religioso. Scoperto e imprigionato, nel 1599, rimase per ben ventisette anni in carcere a Napoli, in condizioni di sopravvivenza disumane. Riuscì a salvarsi, dopo aver superato lunghi periodi di tortura, che lo lasciarono per alcuni mesi tra la vita e la morte, cercando di convincere i giudici della propria ortodossia e infine fingendosi pazzo, per evitare la condanna a morte (che non poteva essere comminata a chi, avendo perso l’uso della ragione, non sarebbe stato in grado consapevolmente di pentirsi). Quando la prigionia ebbe termine, nel 1626, Campanella fu a Roma, dove – dopo un nuovo arresto – riuscì a ottenere i favori del pontefice Urbano VIII. Per sfuggire alla persecuzione degli spagnoli, fu poi costretto a riparare in Francia, dove venne accolto negli ambienti politici e culturali, ottenendo, alla corte di Luigi XIII, la protezione del Cardinale Richelieu. Morì a Parigi nel 1639. Come accade per la vita, estremamente accidentato e complicato si presenta anche il quadro delle opere, molte delle quali sono andate perdute. Fondamentali per la comprensione del suo pensiero filosofico sono, in latino, la Philosophia naturalis, la Philosophia realis, la Metaphysica e la Theologia, rimasta inedita. Delle opere politiche si ricordino la Monarchia di Spagna e la Monarchia delle nazioni, in cui Campanella espone la sua idea di una monarchia universale fondata sui valori cristiani e volta a pacificare l’Europa, affidandone la realizzazione in un primo tempo alla Spagna e poi alla Francia. Legate a problemi letterari sono la Poetica e, in latino, la Rhetorica e l’Historiographia. Delle poesie, scritte in gran parte durante il periodo di detenzione, si è salvata una scelta pubblicata nel 1622 da un estimatore, Luigi Adami, che attribuì all’autore lo pseudonimo di Settimontano Squilla. Apparse in un periodo in cui dominavano i giochi verbali della lirica barocca, rivelano un’indubbia originalità, fondata sulla sostanza di un pensiero filosofico-religioso che diventa ardua ricerca di una verità più profonda, assumendo anche oscuri toni profetici.

La vita e le opere

La città del Sole Ma l’opera più importante di Campanella resta La città del Sole,

definita dall’autore un «dialogo poetico, cioè dialogo di repubblica, nel quale si disegna l’idea di riforma della repubblica cristiana». Gli interlocutori sono un «Ospitalario»

533

L’età della Controriforma

L’organizzazione della città ideale

La politica e l’educazione

La realizzazione dei princìpi naturali del cristianesimo

T2

(appartenente all’ordine dei Cavalieri di Malta) e un «Genovese nochiero di Colombo», il quale racconta di come, sbarcato nell’isola di Taprobana (Ceylon), venisse condotto alla «città del Sole». L’immagine che si presenta è quella di una città ideale, in cui il detentore del potere spirituale e temporale è un «principe sacerdote», chiamato Sole o Metafisico; suoi ministri sono Pon (Potestà), Sin (Sapienza) e Mor (Amore). A loro fanno capo l’esercito, le scienze e le arti, l’educazione, la salute e il sostentamento. Tutte le cose sono in comune, comprese le donne ( T2); il comunismo della costruzione garantisce l’assoluta uguaglianza dei cittadini, a cui sono offerte le stesse possibilità di imparare e di adoperarsi a favore degli altri, mentre i compiti e i gradi sociali sono assegnati a seconda delle disposizioni e dei meriti di ognuno. Da questa perfetta organizzazione statale conseguono le altre scelte politiche, l’alto grado di civiltà raggiunto e i successi ottenuti: la guerra è ammessa solo come mezzo per difendere gli oppressi; particolare impulso è dato alle arti della pace, quali la pastorizia, l’agricoltura e la navigazione; il commercio avviene prevalentemente per mezzo del baratto e l’uso del denaro è limitato ai contatti con l’estero; la giustizia si basa su poche leggi ed è eseguita pubblicamente (si ricordi che i processi e le torture avvenivano nel segreto delle carceri). Nella «città del Sole», inoltre, il metodo dell’apprendimento è particolarmente efficace, ma non avviene a scapito della formazione tecnica e manuale. L’educazione risulta così completa e solo chi possiede al più alto grado la padronanza delle varie discipline può aspirare alla dignità di Sole. Una decisiva importanza assume anche la preparazione filosofica e metafisica, ma non viene trascurata l’astrologia, che incide sui destini dell’uomo. Muovendo dal modello offerto dall’Utopia di Tommaso Moro, il collettivismo di Campanella finisce per coincidere con una sorta di cristianesimo naturale, tanto più significativo se lo si rapporta, storicamente, all’oppressione sociale e alle violenze di quel potere, politico e religioso, con cui anche Campanella fu costretto a fare i conti. Ma non si dimentichi che l’“universalismo” della sua concezione supera ogni gretta e meschina visione particolaristica. Tommaso Campanella

La comunione dei beni dalla Città del Sole

Temi chiave

• le regole di una nuova società • la condanna dell’avidità dell’uomo • l’educazione alla solidarietà

Dopo aver descritto l’organizzazione urbanistica e politica della «città del Sole», il narratore (il «Genovese, nochiero [nostromo] di Colombo») informa l’«Ospitalario» (membro dell’Ordine degli ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme, istituito per assistere i pellegrini che si fossero ammalati in Terra Santa) sulle caratteristiche salienti degli abitanti. Il dialogo, da cui è tratto il brano che segue, fu composto da Campanella durante la detenzione nel Castel Nuovo di Napoli.

Or dimmi degli offizi1 e dell’educazione e del modo come si vive; si2 è republica o monarchia o Stato di pochi3. genovese Questa è una gente4 ch’arrivò là dall’Indie5, ed erano molti filosofi, che fuggîro la rovina di Mogori6 e d’altri predoni e tiranni; onde si risolsero7 di vivere alla filosofica in commune8, si ben la communità delle donne9 non si usa tra le genti della ospitalario

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1. offizi: uffici, nel senso di cariche pubbliche, magistrature. 2. si: se. 3. Stato di pochi: oligarchia, governo nelle mani di poche persone. 4. gente: popolazione. 5. Indie: genericamente i Paesi orientali.

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6. la rovina di Mogori: la crudeltà sanguinosa dell’imperatore turco, di origine mongola, Babur, chiamato in occidente Gran Mogor, o Moghul, che conquistò gran parte dell’India nel 1526. 7. si risolsero: decisero, stabilirono. 8. alla filosofica in commune: secondi

princìpi filosofici (quelli desunti dalla filosofia di Platone, in particolare dalla Repubblica), mettendo in comune tutte le cose, comprese – come si legge subito dopo – le donne. 9. si ben … donne: sebbene il fatto che le donne siano in comune.

Capitolo 1·La prosa

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provinzia loro10; ma essi l’usano11, ed è questo il modo. Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali12 le dispense13, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare14 cosa alcuna. Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata15, e figli e moglie propria, onde nasce l’amor proprio16; ché, per sublimar a17 ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico18, se non ha timore, sendo potente; o avaro19 e insidioso e ippocrita, si è impotente20. Ma quando pèrdono l’amor proprio, resta il commune solo21. ospitalario Dunque nullo22 vorrà fatigare, mentre aspetta che l’altro fatichi, come Aristotile dice contra Platone23. genovese Io non so disputare, ma ti dico c’hanno tanto amore alla patria loro, che è una cosa stupenda24, più che si dice delli Romani, quanto son più spropriati25. E credo che li preti e monaci nostri, se non avessero26 li parenti e li amici, o l’ambizione di crescere più a dignità27, sariano28 più spropriati e santi e caritativi29 con tutti. ospitalario Dunque là non ci è amicizia, poiché non si fan piacere30 l’un l’altro. genovese Anzi grandissima: perché è bello a vedere, che tra loro non ponno31 donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune; e molto guardano32 gli offiziali, che nullo abbia più che merita. Però quanto è bisogno tutti l’hanno33. E l’amico si conosce tra loro nelle guerre, nell’infirmità34, nelle scienze, dove s’aiutano e s’insegnano l’un l’altro. E tutti li gioveni s’appellan frati35, e quei che son36 quindici anni più di loro, padri, e quindici meno, figli. E poi vi stanno l’offiziali a tutte cose attenti, che nullo possa all’altro far torto nella37 fratellanza. ospitalario E come? genovese Di quante virtù noi abbiamo, essi hanno l’offiziale38: ci è uno che si chiama Liberalità, uno Magnanimità, uno Castità, uno Fortezza, uno Giustizia criminale o civile, un Solerzia, un Verità, Beneficenza, Gratitudine, Misericordia, ecc.; e a ciascuno di questi si elegge39 quello, che da fanciullo nelle scole40 si conosce inchinato a41 tal virtù. E però, non sendo tra loro latrocinii, né assassinii, né stupri e incesti, adultèri, delli quali noi ci accusamo42, essi si accusano d’ingratitudine, di malignità, quando uno non vuol far piacere onesto, di bugia, che abborriscono più che la peste; e questi rei per pena43 son privati della mensa commune, o del commerzio44 delle donne, e d’alcuni onori, finché pare al giudice, per ammendarli45.

10. della provinzia loro: delle terre da cui provengono. 11. l’usano: hanno questa consuetudine. 12. offiziali: ufficiali, funzionari pubblici. 13. le dispense: non solo le vettovaglie, i viveri, ma tutto ciò che si può distribuire. 14. non si può appropriare: non ci si può appropriare, impadronire di (nel senso che non è consentita la proprietà privata). 15. appartata: privata, isolata dalle altre. 16. l’amor proprio: l’amore eccessivo di sé, che spinge all’egoismo e all’ingiustizia. 17. sublimar a: innalzare, elevare quanto a. 18. rapace publico: in quanto divora i beni comuni, pubblici. 19. avaro: avido. 20. impotente: debole, senza la forza di appropriarsi delle cose altrui. 21. il commune solo: solo ciò che appartie-

ne a tutti, e non desta invidie o rivalità. 22. nullo: nessuno. 23. Aristotile … Platone: è l’obiezione che, nella sua Politica, Aristotele (384-322 a.C.) muove alla concezione idealistica di Platone (448 o 447-328 o 327 a.C.). 24. stupenda: nel senso etimologico di ciò che desta stupore, meraviglia. 25. spropriati: privi di beni propri, personali, che vengono anteposti al bene della patria, per cui andavano famosi gli antichi Romani. 26. se non avessero: se non dovessero sistemare e favorire (è il fenomeno del “nepotismo”, fonte di ingiustizie e corruzione). 27. crescere … dignità: salire di grado. 28. sariano: sarebbero. 29. caritativi: caritatevoli. 30. non … piacere: non si fanno dei piaceri. 31. ponno: possono.

32. guardano: fanno attenzione. 33. quanto … l’hanno: tutti hanno il necessario, secondo i loro bisogni. 34. infirmità: infermità, malattie. 35. s’appellan frati: si chiamano fratelli. 36. quei che son: quelli che hanno. 37. nella: per quanto riguarda il dovere della. 38. Di quante … l’offiziale: di tutte le virtù che noi consideriamo tali, essi hanno il responsabile, la persona preposta a occuparsene. 39. si elegge: si sceglie (come responsabile). 40. scole: scuole. 41. inchinato a: incline a, predisposto all’esercizio di. 42. accusamo: accusiamo. 43. rei per pena: colpevoli per punizione. 44. commerzio: frequentazione (nel senso di avere rapporti sessuali). 45. ammendarli: emendarli, correggerli.

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L’età della Controriforma

Analisi del testo

> La città ideale

Sull’esempio della Repubblica di Platone, Campanella immagina una città-stato in cui coloro che hanno abbandonato il proprio paese decidono di vivere «alla filosofica», dando vita a una perfetta organizzazione politica e sociale. Proprio in questa immaginaria perfezione consiste l’utopia (dal greco ou topos, “non luogo”, ossia “luogo che non esiste”), cioè la proiezione fantastica dei desideri e delle speranze di un mondo migliore. La raffigurazione di una città utopica, a compensazione della negatività della storia, rappresenta un polemico rifiuto del presente e una fuga dalla realtà del proprio tempo, considerata negativamente come ingiusta e alienante (non mancano le suggestioni dei nuovi mondi scoperti dalle grandi esplorazioni geografiche a partire dal fatto che l’interlocutore principale, che ha visitato la città, è presentato come il «nochiero» di Cristoforo Colombo).

> un documento di denuncia

Ma lo Stato ideale delineato da Campanella nella Città del Sole non ha solo un significato utopico. Esso realizza, al più alto livello, l’ideale politico dell’autore, quello di una società in cui, sotto un’unica legge, regnino l’umanità, l’uguaglianza e la giustizia. Più direttamente l’opera campanelliana sembra nascere dalla condanna di quel sistema di soprusi e di sopraffazioni a cui erano sottoposte le plebi meridionali. In questo senso La città del Sole acquista il valore di un documento storico di denuncia e di protesta. Non è un caso, allora, che i «molti filosofi» siano sfuggiti a «predoni e tiranni», secondo una trasposizione allegorica legata alle condizioni del proprio tempo, che indussero Campanella a prendere parte alla congiura contro il potere politico degli spagnoli e quello religioso delle gerarchie ecclesiastiche (di qui l’esortazione ai membri del clero di essere “più spropriati e santi e caritativi con tutti”).

> i princìpi della società utopica

Il sistema ipotizzato dall’autore si basa infatti sul rovesciamento delle relazioni sociali esistenti, in cui l’«amor proprio», continuando ad alimentare l’interesse egoistico dei singoli, ha creato nel tempo le più gravi ingiustizie e sopraffazioni. Il «vivere alla filosofica in commune» presuppone l’abolizione della proprietà privata (in quanto “tutta la proprietà nasce da far casa appartata”), la comunanza dei beni (considerati come valori d’uso e non di scambio), la condanna del lusso e dei privilegi, l’efficacia della giustizia e la semplicità legislativa, l’idea di una società fondata sul lavoro agricolo e artigianale (con la conseguente negazione del valore della “mercatura”, che presuppone la circolazione del denaro e l’obiettivo del profitto). La felicità viene così a coincidere con l’eliminazione dei bisogni, il rifiuto del superfluo, la realizzazione, in breve, di una sostanziale uguaglianza. Ne deriva l’idea di una società comunistica, che porta Campanella a riscoprire anche i valori originari del cristianesimo primitivo.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Da che cosa nasce e quali vizi produce, secondo il Genovese, la proprietà privata? > 2. In riferimento a quale valore sono presi come modello i Romani? AnALizzAre

> 3. Che cosa intende l’autore con l’espressione «vivere alla filosofica» (rr. 4-5)? Approfondire e inTerpreTAre

> 4.

Scrivere Qual è il giudizio implicito che Campanella, stando a quanto scrive nel testo, mostra di avere riguardo il clero a lui contemporaneo? Rispondi in circa 10 righe (500 caratteri). pASSATo e preSenTe La Città del Sole oggi?

> 5. Alla base della convivenza civile tra gli abitanti della Città del Sole ci sono valori quali la pace, la giustizia, l’uguaglianza sociale, il rispetto dell’individuo, la meritocrazia, una perfetta corrispondenza di diritti e di doveri in grado di garantire lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e la coesione sociale. Ritieni che questi valori dovrebbero essere alla base di ogni democrazia? La nostra società mostra di averli ben presenti? Rispondi discutendone in classe con i compagni e l’insegnante.

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Capitolo 1· La prosa

A3

Giordano Bruno

Testi Bruno • Il processo

La vita Giordano Bruno nasce nel 1548 a Nola (Napoli). Nel 1563 veste l’abito domenicano, ma nel 1576 un’accusa di eresia lo costringe a fuggire dal convento e a rifugiarsi a Ginevra, dove abbraccia la fede calvinista per potersi iscrivere all’università. Ben presto lo scontro con i calvinisti lo induce a lasciare, nel 1579, Ginevra per Tolone, dove il suo insegnamento riscuoterà molto successo. Nel 1581, mentre la Francia è sconvolta dalla guerra civile tra cattolici e ugonotti, si reca a Parigi, dove si guadagna il favore di Enrico III. Nel 1583 si trasferisce a Londra, sotto la protezione dell’ambasciatore francese; accolto presso la corte della regina Elisabetta, intraprende anche l’insegnamento presso l’Università di Oxford. È questo il periodo più fecondo della produzione di Bruno, in cui viene pubblicata la maggior parte delle sue opere. Compone infatti le due serie dei Dialoghi italiani: una di argomento cosmologico e metafisico (La cena delle ceneri, De la causa, principio et uno, De l’infinito universo e mondi); l’altra di argomento etico (Lo spaccio della bestia trionfante, La cabala del cavallo Pegaseo, L’asino Cillenico, Degli eroici furori). La satirica rappresentazione della società inglese, contenuta nella Cena delle ceneri, determina la fine anche del soggiorno londinese. Nel 1585 torna a Parigi, da dove, per motivi politici, è costretto a fuggire prima a Wittemberg, poi a Praga e infine a Francoforte. Qui pubblica i tre grandi trattati latini, a cui affida l’elaborazione ultima del suo pensiero filosofico: De minimo (“Il minimo”), De monade (“La monade”), De immenso et innumerabilibus (“L’immenso e gli innumerabili”). Nel 1591 accetta l’invito del nobile veneziano Giovanni Mocenigo a stabilirsi a casa sua, in cambio di lezioni. Ma proprio l’ospite tradirà Bruno, denunciandolo all’Inquisizione, che lo arresta e lo sottopone a processo per eresia. Due anni dopo l’Inquisizione romana chiede la sua estradizione: una volta ottenutala, il processo continua a Roma, per ben sette anni. Il 21 dicembre del 1599, al termine dei quaranta giorni utili per la ritrattazione, Bruno dichiara definitivamente «di non volersi pentire, di non avere di che pentirsi e di non sapere di cosa pentirsi». L’8 febbraio viene dichiarato «eretico impenitente» e, come tale, affidato dall’Inquisizione alla magistratura secolare. Il 17 febbraio 1600 viene arso sul rogo nella piazza di Campo dei Fiori a Roma.

Il candelaio

il pensiero La prima opera italiana rimastaci di Bruno è la commedia Il candelaio,

L’irrequietezza della vita religiosa In Francia

A Londra

I Dialoghi italiani

Le opere latine

Il processo e la condanna

Testi Bruno Il «Proprologo» del Candelaio

Il rifiuto delle regole e l’idea di un universo infinito Il valore supremo della filosofia

Il rapporto conoscenzaletteratura

redatta probabilmente nel 1582, che ridicolizza, anche attraverso l’uso di un linguaggio dissacrante, le storture della mentalità e del costume del tempo. L’atteggiamento polemico e sarcastico nei confronti delle istituzioni culturali compare anche in numerosi luoghi dei dialoghi di Bruno, ponendosi alla base del suo impegno intellettuale e del suo pensiero. Il rifiuto delle regole e della letteratura pedantesca ( T3, p. 538) si accompagna a un’idea della poesia come «eroico furore», libera ispirazione di origine divina. Bruno non accetta più il sistema tolemaico o geocentrico, che presupponeva la Terra, immobile, al centro dell’universo; aderendo alle ipotesi avanzate da Copernico, secondo cui è la Terra a ruotare intorno al Sole, crede nell’esistenza di un universo infinito, in cui si trova una pluralità di mondi. Da questa sorta di esaltante prospettiva, Bruno celebra il valore supremo della filosofia, che, priva di ogni condizionamento, si propone come scopo la ricerca della verità; essa risulta superiore alla stessa religione, alla quale viene attribuito un valore soprattutto strumentale, come un mezzo per organizzare le masse e per frenarne gli istinti. Una inesausta sete di conoscenza spinse Bruno ad accostarsi alle più diverse forme del sapere, permeando anche le caratteristiche delle sue opere: «Se la natura non può essere scritta in termini matematici e geometrici, anche la letteratura non può avvalersi del linguaggio dei grammatici e delle regole normative dei pedanti» (Nuccio Ordine). 537

L’età della Controriforma La forma e lo stile

T3

Di qui non solo il rifiuto dei modelli, ma di tutte quelle regole su cui si era basato l’equilibrio della letteratura rinascimentale. L’uso di un linguaggio travolgente e incontenibile, che rifiuta le norme grammaticali e sintattiche manipolando a piacere gli elementi più eterogenei, riflette l’idea che l’uomo non è più al centro di un universo gerarchizzato, ma viene proiettato in un cosmo misterioso, il cui centro può essere dappertutto e nel quale non esistono punti di vista prestabiliti. Giordano Bruno

Temi chiave

Contro le regole e i pedanti dagli Eroici furori, dialogo I

• il valore autonomo della poesia • la polemica contro la letteratura priva di originalità di pensiero

I personaggi del dialogo, che contiene una violenta polemica contro la Poetica di Aristotele, sono il Cicada (un amico di Bruno non ben identificato) e il poeta Luigi Tansillo (1510-68), esponente della linea immaginosa e prebarocca del petrarchismo napoletano, di cui Bruno apprezzava in modo particolare le liriche.

Son certi regolisti de poesia1 che a gran pena passano per2 poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio ed altri molti in numero de versificatori3, examinandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie; perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura4 dell’omerica poesia o altra simile in particolare, e son per mostrar tal volta5 un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri6 che potrebbero essere, con altre vene7, arti e furori8, equali, simili e maggiori, de diversi geni9. cicada Sì che, come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse10 da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti11 ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui12 che non era poeta di sorte alcuna13, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una14 sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro15 poeta, ma un come16 Omero, non di propria musa, ma scimia17 de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente18, ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. cicada Or come dunque saranno conosciuti gli veramente19 poeti? tansillo Dal cantar de versi20; con questo che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare21 insieme. cicada

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1. regolisti de poesia: i fautori del rispetto delle regole in poesia. 2. a gran … per: a mala pena ammettono, accettano come. 3. in … versificatori: nel numero dei semplici facitori di versi (privi di una vera dignità poetica). 4. per pittura: descrivere le caratteristiche. 5. son … tal volta: possono servire per rivelare (perché si riesca a comprendere e a valutare meglio la natura della sua poesia). 6. instituir altri: insegnare, dare precetti ad altri. Si precisa, in questa distinzione, il rifiuto della precettistica aristotelica: le regole sono utili per giudicare la poesia, ma non sono assolutamente in grado di predeter-

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minarla e, tanto meno, favorirla. 7. vene: disposizioni naturali. 8. furori: è il termine con cui Bruno indica abitualmente l’esaltazione propria dell’ispirazione poetica. 9. geni: generi, forme poetiche. 10. pendesse: dipendesse. 11. atti: adatti, portati (non i veri poeti, che non “imitano” ma “inventano”). 12. colui: Aristotele, appunto nella Poetica. 13. di sorte alcuna: di nessun tipo, o genere (di poesia); Aristotele fu esclusivamente un filosofo. 14. una: unica, sola. 15. altro: diverso, in quanto originale. 16. un come: uno tale e quale, un puro e

semplice imitatore. 17. di propria … scimia: in virtù della propria personale poesia (musa), ma scimmia, ossia pedissequo imitatore. 18. per leggerissimo accidente: per puro caso, per una semplice combinazione. 19. gli veramente: quelli che sono realmente, i veri. 20. Dal … versi: dal suono dei versi, che comprende sia la forma sia la sostanza. 21. giovare e delettare: parafrasa i versi 333-334 dell’Arte poetica di Orazio. Il principio, elaborato dalla cultura classica, era stato ripreso dalla “poetica” cinquecentesca.

Capitolo 1· La prosa cicada

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A chi dunque servono le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse, come Omero, Exiodo, Orfeo22 ed altri, poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa23, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. cicada Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole24 e metafore conformi25, o perché non hanno principii26 de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno27 una istoria o favola con l’altra, o perché finiscono gli canti epilogando di28 quel ch’è detto, e proponendo per29 quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine30, per censure e regole in virtù31 di quel testo32. Onde par che vogliano conchiudere ch’essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia)33 sarrebono gli veri poeti, ed arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar34 gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio35 ed errore.

22. Orfeo: il mitico personaggio greco, che, con la dolcezza del suo canto, riuscì a strappare dall’oltretomba la compagna Euridice, anche se poi la perse per essersi voltato indietro a guardarla. 23. per non … musa: essendo privi di una originale ispirazione. 24. favole: miti (che, per Aristotele, erano essenziali alla poesia).

25. conformi: convenienti, rispondenti alle regole derivate dai modelli. 26. principii: gli inizi di un’opera. 27. intesseno: intrecciano. 28. epilogando di: riassumendo. 29. proponendo per: anticipando. 30. per mille … examine: con mille altri tipi di analisi, esami (dipende sempre da excludeno, li escludono).

31. in virtù: sulla base, seguendo l’autorità. 32. quel testo: la Poetica di Aristotele. 33. essi … fantasia): proprio essi all’occasione (se venisse loro la voglia). 34. insporcare e stercorar: insudiciare e coprire di sterco. 35. per altrui vizio: approfittando dei difetti degli altri.

Analisi del testo Il rifiuto delle regole e il valore autonomo della poesia

L’arbitrarietà del dibattito teorico cinquecentesco

L’esaurirsi di una stagione culturale

La poesia viene intesa, in senso platonico, come una forma di ispirazione divina, o di «eroico furore», intollerante di vincoli e di limitazioni. Per questo non può nascere dalle regole, come hanno dimostrato, storicamente, i grandi poeti dell’antichità. Si può ammettere soltanto la proposizione inversa: dalla poesia si possono ricavare alcune regole, che hanno tuttavia un’incidenza limitata; esse servono tutt’al più per descrivere e analizzare la poesia (come sussidio della critica), non per generarla o rigenerarla. In questo modo Bruno spiazzava decisamente gli avversari, liquidandone le premesse metodologiche; egli dimostrava l’arbitrarietà del dibattito teorico cinquecentesco, che si era in gran parte basato su un’unione troppo rigida e vincolante tra critica e poesia, confondendone le rispettive ragioni e competenze. Gli “anticlassicisti” e l’Aretino, avviando questa contestazione, avevano soprattutto puntato sul rovesciamento dei contenuti e delle forme della letteratura idealizzante e sublime, per contrapporre loro nuove soluzioni espressive, alla ricerca del successo. Bruno si propone invece di azzerare la situazione preesistente, senza compromessi, nei modi di una totale negazione. Un intero costume culturale viene colto nella fase irreversibile del suo esaurimento, sul punto di esser spazzato via. La polemica investe una letteratura senza valori propositivi e senza originalità di pensiero, ridotta a un ammasso di cognizioni erudite, di luoghi comuni, di formule stereotipe e ripetitive. Risolvendosi in puro esercizio o esibizione formale, questa letteratura appare, a Bruno, priva di ogni autentica funzione e tensione conoscitiva; una letteratura che è pervenuta al termine della sua parabola storica, fino al punto di negare se stessa. 539

L’età della Controriforma

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Chi sono i «regolisti de poesia» e che cosa affermano? > 2. Che cosa si dice di Omero? > 3. Che rapporto c’è, secondo Tansillo, tra le regole e la poesia? E chi sono i veri poeti? AnALizzAre

> 4. Quale opinione mostra l’autore (attraverso i personaggi di Tansillo e Cicada) nei confronti del principio di imitazione? > 5. Stile Spiega la metafora dei «vermi» (r. 33). > 6. Lessico Ricerca nel brano tutti i termini che appartengono al linguaggio specifico della letteratura. Approfondire e inTerpreTAre

> 7.

Scrivere Analizza l’importanza della Poetica di Aristotele nell’evoluzione del classicismo rinascimentale ( L’età del Rinascimento, Il contesto, p. 129) e confrontala in circa 20 righe (1000 caratteri) con le idee espresse da Cicada e Tansillo nel dialogo riportato.

LeTTerATurA e CinemA Video

Giordano Bruno di Giuliano Montaldo La trama Il film Giordano Bruno di Giuliano Montaldo (1973) narra gli ultimi anni di vita del

filosofo di Nola, ovvero quelli che vanno dal 1592 al 1600. Sono gli anni più cupi della vita di Giordano Bruno che, dopo aver girato le più importanti corti d’Europa, ha accettato l’invito del nobile Giovanni Mocenigo a stabilirsi nel suo palazzo veneziano. Lo scopo di quest’ultimo è quello di venire istruito da Bruno nell’arte della magia. Sarà proprio il nobile veneziano, deluso e geloso per il fatto che il filosofo intende trasferirsi a Francoforte, a denunciarlo al tribunale dell’Inquisizione, che lo farà arrestare sospettandolo di essere un eretico. Verrà in seguito trasferito a Roma e lì processato, interrogato e torturato per sette anni, per poi essere infine condannato al rogo.

La strategia di difesa Il film illustra con precisione la strategia di difesa messa in atto dal

filosofo, interpretato da Gian Maria Volonté, attore di grande valore che sa restituire sullo schermo il carattere ribelle del nolano. Nel corso di quei processi le accuse che gli sono mosse vengono da Bruno minimizzate attraverso un sottile uso dell’arte oratoria. Altrettanto sottile è la sua confutazione delle divergenze tra il suo pensiero e i dogmi della Chiesa. Eppure Bruno non rinuncia mai a difendere la sua filosofia, anche quando sceglie di nascondere certi particolari della sua vita che potrebbero gettare una cattiva luce su di lui di fronte ai suoi accusatori.

La filosofia di Bruno Il film si sofferma inoltre su quegli aspetti della filosofia di Bruno

propri della scuola naturalistica del Rinascimento e dell’epoca manieristica di cui il nolano è uno dei pilastri, ma anche sui suoi apporti originali. Per il filosofo tutto è divino, in quanto Dio coincide con la natura e con l’universo infinito. La natura è al tempo stesso il movente, il tema e lo scopo ultimo della riflessione filosofica di Bruno. Per lui l’uomo non può trovare un pieno appagamento né nel piacere carnale, né nella contemplazione della bellezza, ma soltanto nella presa di coscienza del suo essere parte della natura e nell’immedesimazione quasi mistica con l’universo e con Dio. Il filosofo tratta questi argomenti nel dialogo Degli eroici furori, pubblicato in Inghilterra nel 1585 e del quale viene riportato un brano, più strettamente letterario, a p. 538 ( T3) di questo libro in cui attacca le regole aristoteliche mostrando anche in questo caso la sua decisa opposizione al conformismo del suo tempo. 540

Capitolo 1· La prosa

La condanna Il film di Giuliano Montaldo si conclude con la condanna di Giordano Bruno a essere arso vivo a Campo dei Fiori a Roma all’alba del 17 febbraio del 1600. Nel 1889, diciannove anni dopo l’annessione dello Stato pontificio al Regno d’Italia, una statua al filosofo fu infine eretta a Campo dei Fiori, nel luogo in cui era stato bruciato. Il monumento fu realizzato grazie all’impegno di un comitato internazionale composto da diversi intellettuali europei, tra i quali anche lo scrittore e pittore francese Victor Hugo, ma contro la decisa opposizione del partito conservatore e di papa Leone XIII. Il grande attore Gian Maria Volonté riesce già nella prima scena del film, di cui il fotogramma qui riprodotto fa parte, a richiamare attraverso il suo volto il carattere e il pensiero di Giordano Bruno. Il sorriso appena accennato è un sorriso di scherno e allude al disprezzo di Bruno verso la religione intesa come gabbia di dogmi, mentre nel suo sguardo intenso e determinato l’attore mostra l’inappagabile curiosità e sete di conoscenza che caratterizzava filosofo.

Il regista Giuliano Montaldo, come si può osservare in questo fotogramma, sceglie spesso di inquadrare le alte gerarchie ecclesiastiche, in questo caso il papa Innocenzo VIII, mostrando lo sfarzo che le circonda. Montaldo vuole in questo modo mettere in scena polemicamente una contrapposizione tra la povertà della cella di Bruno e la ricchezza dei palazzi pontifici, ma anche una distanza tra due diverse visioni del mondo.

Esercitare le competenze STABiLire neSSi TrA LeTTerATurA e CinemA

> Rispondi alle seguenti domande.

a) Osserva le figure di Bruno e di papa Innocenzo VIII: rispetto all’atteggiamento greve e serioso del papa, come giudichi l’espressione ironica e di disprezzo dipinta sul volto del filosofo? b) Giuliano Montaldo è un regista noto per l’impegno civile, quale ritieni sia il messaggio che ha voluto rivolgere ai contemporanei, raccontando la vicenda di un libero pensatore?

facciamo il punto 1. Quali caratteristiche presenta l’autobiografia di Cellini? 2. Quale concezione della società e della politica viene proposta attraverso le opere di ispirazione utopistica? 3. Pur presentando molti elementi di differenziazione, Bruno e Campanella furono considerati dai con-

temporanei come intellettuali d’opposizione rispetto alla dominante cultura controriformistica. Quali motivi poterono generare questa convinzione? 4. Bruno e Campanella come si collocano rispetto alla cultura umanistico-rinascimentale?

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L’età della Controriforma

In sintesi

LA proSA Verifica interattiva

L’AuToBioGrAfiA e LA LeTTerATurA diALoGiCA: eCCenTriCi e riBeLLi A partire dalla seconda metà del XVI secolo, si avverte un’esigenza di cambiamento che dà origine a nuove opere e a nuove soluzioni letterarie. Tra queste andrà ricordata la Vita di Benvenuto Cellini, primo esempio di autobiografia nella nostra letteratura. Diverso, rispetto al passato, è anche l’uso del dialogo che in Giordano Bruno e Tommaso Campanella acquista un significato di opposizione e di rottura. La loro tragica storia (entrambi furono condannati per eresia) si inscrive nel clima di repressione e di condanne capitali sempre più soffocante al tempo della Controriforma: negli anni 1560-80 si assiste al declino dei progetti riformatori in Italia, a causa delle persecuzioni che colpivano ogni forma di dissenso.

BenvenuTo CeLLini Orafo e scultore, Benvenuto Cellini (1500-71) condusse una vita sregolata, macchiandosi anche di reati gravi come l’omicidio. La sua personalità passionale ed energica è al centro della Vita. Con un linguaggio espressionistico e popolare l’autore narra in prima persona la propria vita, proponendola come esempio di catarsi dalla degradazione morale per grazia di Dio. Lo slancio vitale del protagonista e il suo cedimento a credenze irrazionali rappresentano una rottura significativa rispetto all’ideale rinascimentale di equilibrio.

TommASo CAmpAneLLA Calabrese d’origine, il frate domenicano Tommaso Campanella (1568-1639) visse nel segno della ribellione

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all’autorità ecclesiastica e politica. Fu processato sia per eresia sia per aver partecipato a una congiura contro la prepotenza dei feudatari e del clero calabresi. Durante i ventisette anni di carcere scrisse quasi tutte le sue Poesie e opere di contenuto filosofico, teologico e politico. A quest’ultimo tema è dedicata La Città del Sole (1602), un dialogo che descrive una repubblica immaginaria in cui trovano soluzione gli squilibri e le ingiustizie della realtà storica: l’autore delinea una società utopica, basata sulla proprietà comune dei beni, sull’uguaglianza e sul rispetto dell’individuo, nella quale l’educazione e la pace sostituiscono la repressione e la violenza.

GiordAno Bruno Nato a Nola (Napoli) nel 1548, il frate domenicano Giordano Bruno fu costretto a lasciare l’Italia per l’accusa di eresia e trovò rifugio in varie città europee, tra cui Ginevra, Parigi e Londra. A Venezia fu arrestato e trasferito a Roma, dove subì un lunghissimo processo, al termine del quale, nel 1600, fu condannato al rogo essendosi rifiutato di ritrattare le sue tesi. Al centro della riflessione di Bruno è la celebrazione della filosofia, intesa come libera ricerca della verità e ritenuta pertanto superiore alla religione stessa. Nel dialogo Degli eroici furori, Bruno ridicolizza la cultura pedante del suo tempo, alla quale contrappone un’idea “anticlassica” della poesia come libera ispirazione di origine divina («eroico furore»); dal punto di vista filosofico-scientifico, aderisce alle ipotesi di Copernico, secondo cui è la Terra a ruotare intorno al Sole, e crede nell’esistenza di un universo infinito, in cui si trova una pluralità di mondi.

Capitolo 2

La letteratura drammatica La commedia e la favola pastorale

Il candelaio di Bruno

La favola pastorale: Il pastor fido

A1

La commedia più interessante del secondo Cinquecento è Il candelaio di Giordano Bruno ( T2, p. 548), composta tra il 1576 e il 1582, caratterizzata da un intreccio molto complicato, ricco di colpi di scena, e da personaggi tipici del genere, quali l’amante vecchio e sciocco, l’avaro “sordido” e il pedante. Facendo uso di un linguaggio deformato, bizzarro, caricaturale, l’autore esprime una forte carica polemica nei confronti della cultura e dell’ipocrita società del tempo. Se Bruno vede nella letteratura uno strumento di ribellione, ben diversa è la funzione che le attribuisce un intellettuale cortigiano come Battista Guarini ( A1), che, seguendo l’esempio dell’Aminta tassiana, contribuisce, con Il pastor fido, all’affermarsi del nuovo genere della favola pastorale (un genere che ebbe la più ampia diffusione presso la corte degli Estensi a Ferrara). In esso le vicende, che ruotano intorno a un amore contrastato, hanno come protagonisti ninfe e pastori, immersi in una realtà, artificiale e idealizzata, di evasione e di sogno.

Battista Guarini Nacque a Ferrara nel 1538 in una famiglia che annoverava tra i suoi membri l’umanista Guarino Veronese (1374-1460). Frequentò la facoltà di Legge a Padova, dove conobbe Tasso, con il quale ebbe un rapporto di amicizia e di rivalità. Fu al servizio di Alfonso II a Ferrara con gli incarichi di oratore, ambasciatore, segretario. Caduto in disgrazia per motivi a noi sconosciuti, nel 1588 lasciò la corte. Fu ospite a Torino di Carlo Emanuele I, della corte dei Gonzaga a Mantova, dei Montefeltro ad Urbino; visse anche nella Firenze di Ferdinando I e a Roma, ospite di illustri cardinali. Trasferitosi a Venezia, vi morì nel 1612. Pubblicò nel 1594 il dialogo Il segretario, nel qual si tratta dell’ufficio del segretario e del modo di compor lettere e il Trattato della pubblica libertà, inedito fino al 1818. Grandissima fama l’ottenne con Il pastor fido, favola pastorale scritta tra il 1580 e il 1583, pubblicata nel 1590. Scrisse anche una commedia in prosa sul modello ariostesco, L’Idropica (1584), delle rime ed un trattato, Compendio della poesia tragicomica (1601), in cui difende la sua opera dalle critiche degli aristotelici che l’accusavano di avere mescolato i generi della commedia e della tragedia. La vita e le opere

Il pastor fido L’intellettuale cortigiano Battista Guarini lavorò circa un decennio

Successo dell’opera L’intreccio

(1581-90) alla composizione del Pastor fido, seguendo la falsariga dell’Aminta di Tasso ( cap. 3, p. 565), alla cui rappresentazione aveva assistito a Ferrara nel 1573. L’opera ebbe subito un grande successo di pubblico, testimoniato anche dalle molte riedizioni, traduzioni straniere e allestimenti, a volte curati dallo stesso autore. L’intreccio, piuttosto complesso, deriva dal greco Pausania e riguarda le vicende sentimentali 543

L’età della Controriforma

Mescolanza di tre storie sentimentali

Tragicommedia

Personaggi

Linguaggio

T1

di tre coppie: quella di Silvio, a cui il padre Montano ha destinato in sposa la nobile ninfa Amarilli, mentre la fanciulla ama, riamata, il pastore Mirtillo, che a sua volta è amato dalla plebea Corisca, disposta a tutto pur di conquistare il giovane. La vicenda si svolge nei boschi dell’Arcadia. Il matrimonio tra Silvio e Amarilli serve per placare l’ira di Diana. La malvagia Corisca riesce a far accusare Amarilli d’infedeltà al suo promesso e a farla condannare a morte. Grazie ad un riconoscimento Mirtillo, che si era offerto di morire al posto di Amarilli, scopre di essere il figlio perduto di Montano. Possono così gli innamorati Mirtillo e Amarilli sposarsi, come anche Silvio e Dorinda, da sempre innamorata del giovane. L’intersecarsi di queste tre storie sentimentali costituisce un elemento di novità rispetto all’intreccio della favola pastorale tradizionale che si incentrava su un’unica vicenda sentimentale. Ma la novità più significativa è costituita dalla mescolanza effettuata dal Guarini tra elementi tipici della favola pastorale con altri appartenenti alla commedia e alla tragedia, tanto che egli poté coniare per la sua opera la definizione di “tragicommedia”. L’ambientazione nell’Arcadia e la presenza di ninfe e pastori appartiene infatti alla tradizione pastorale ( T1); la presenza del fato, il pericolo di morte che grava ad esempio su Amarilli, il senso di sacrificio di Mirtillo, la rappresentazione di alti ideali e sentimenti sono tipici temi della tragedia, mentre la spregiudicatezza plebea di Corisca e del Satiro che l’insidia, gli equivoci, gli spunti comici, la gioiosa rappresentazione del quotidiano, come il gioco della mosca cieca tra Amarilli, Mirtillo, alcune ninfe e Corisca, sono temi appartenenti alla commedia. Anche i personaggi presentano caratteri diversi: Silvio, sul modello dello Iulio di Poliziano e della Silvia dell’Aminta di Tasso, è il giovane inizialmente indifferente all’amore, solo interessato alla caccia; Amarilli e Mirtillo rappresentano i teneri innamorati, sofferenti per il destino crudele che sembra separarli; Corisca è la donna sicura di sé e della propria bellezza, spregiudicata, capace di tutto pur di ottenere il suo scopo. Il linguaggio poetico presenta tanto i toni lirici e sentimentali, quanto quelli comici e bassi.

Battista Guarini

Temi chiave

La bella età dell’oro

• l’età dell’oro • celebrazione dell’amore coniugale

dal Pastor fido Il coro dell’atto IV del Pastor fido ripropone il tema dell’età dell’oro, già trattato da Tasso nell’Aminta ( cap. 3, T3, p. 567), ma con esiti diversi. Canzone di 5 stanze e il congedo; in ogni stanza si alternano endecasillabi e settenari secondo lo schema abCabCcdeeDfF; il congedo segue lo schema xXyzZ.

CORO 1395

1. del pargoletto mondo: del mondo appena nato.

544

Oh bella età de l’oro, quand’era cibo il latte del pargoletto mondo1 e culla il bosco; e i cari parti loro godean le gregge intatte2, né temea il mondo ancor ferro né tòsco3!

2. i cari parti … intatte: le greggi si godevano i loro piccoli che non venivano uccisi.

3. tòsco: veleno.

Capitolo 2 · La letteratura drammatica

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4. Pensier … eterna: pensieri cupi allora non nascondevano il sole che risplende di luce eterna. 5. la ragion … cielo: ora la ragione, che si trova tra le nubi del senso, impedisce di vedere Dio (cielo), che è la verità. 6. ond’è: cosicché. 7. il peregrino … pino: il pellegrino turba le terre straniere e la nave (il pino) turba il mare. Si allude alle guerre condotte contro altri popoli. 8. fastoso e vano: apparentemente ricco di splendore, ma in realtà vuoto. 9. onor: «qui “onor” vale ambizione» (Fassò).

Pensier torbido e fosco allor non facea velo al sol di luce eterna4. Or la ragion, che verna tra le nubi del senso, ha chiuso il cielo5, ond’è6 che il peregrino va l’altrui terra, e ’l mar turbando il pino7. Quel suon fastoso e vano8, quell’inutil soggetto di lusinghe, di titoli e d’inganno, ch’«onor9» dal volgo insano indegnamente10 è detto, non era ancor degli animi tiranno. Ma sostener affanno per le vere dolcezze; tra i boschi e tra le gregge la fede aver per legge, fu di quell’alme11, al ben oprar avvezze12, cura13 d’onor felice, cui dettava Onestà: «Piaccia, se lice14». Allor tra prati e linfe15 gli scherzi e le carole16, di legittimo amor furon le faci17. Avean pastori e ninfe il cor ne le parole18; dava lor Imeneo19 le gioie e i baci più dolci e più tenaci. Un sol20 godeva ignude d’Amor le vive rose21; furtivo amante22 ascose23 le trovò sempre, ed aspre voglie e crude24, o in antro o in selva o in lago; ed era un nome sol marito e vago25. Secol rio26, che velasti co’ tuoi sozzi diletti27 il bel de l’alma, ed a nudrir la sete

10. indegnamente: poiché l’onore vero è quello prodotto dalla virtù. 11. alme: anime. 12. al … avvezze: abituate ad agire per il bene. 13. cura: preoccupazione. 14. se lice: se è permesso. 15. linfe: acque. 16. carole: danze in tondo. 17. di legittimo … faci: furono le fiamme (faci) dell’amore legittimo, ovvero quello co­ niugale. 18. il cor … parole: erano sinceri. 19. Imeneo: il dio pagano delle nozze.

20. Un sol: un solo innamorato, cioè il mari­ to. 21. ignude … rose: le vive nude rose d’amore; si allude al fatto che solo il marito poteva godere della bellezza della sua sposa nell’in­ timità. 22. furtivo amante: l’amante che deve agire di nascosto. 23. ascose: nascoste. 24. aspre … crude: rifiuti decisi e crudeli. 25. vago: amante. 26. Secol rio: secolo colpevole, il presente rispetto alla passata età dell’oro. 27. sozzi diletti: piaceri sporchi, illeciti.

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L’età della Controriforma

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28. sembianti ristretti: dall’aspetto apparentemente pudico. 29. sfrenando … segrete: dando libero sfogo in segreto ad ogni desiderio. 30. sparte: divise. 31. celi: nascondi. 32. né curi … amore: e non t’importa, anzi ti sembra onore, che l’amore sia un furto, purché

dei desiri insegnasti co’ sembianti ristretti28, sfrenando poi l’impurità segrete29! Così, qual tesa rete tra fiori e fronde sparte30, celi31 pensier lascivi con atti santi e schivi; bontà stimi il parer, la vita un’arte; né curi, e parti onore, che furto sia, pur che s’asconda, amore32. Ma tu, deh! spirti egregi forma ne’ petti nostri, verace Onor, de le grand’alme donno33. O regnator de’ regi34, deh! torna in questi chiostri35, che senza te beati esser non ponno36. Dèstin37 dal mortal sonno tuoi stimoli potenti chi, per indegna e bassa voglia38, seguir te lassa39, e lassa il pregio40 de l’antiche genti. Speriam, ché ’l mal fa tregua talor, se speme41 in noi non si dilegua. Speriam, ché ’l sol cadente anco rinasce, e ’l ciel, quando men luce42, l’aspettato seren spesso n’adduce43.

sia un peccato nascosto. 33. verace … donno: «il vero onore, quello che si accompagna alla virtù, è padrone (donno) delle anime grandi» (Fassò). 34. O … regi: o re dei re. 35. chiostri: luoghi. 36. ponno: possono. 37. Dèstin: destino, sveglino.

38. voglia: desiderio. 39. lassa: lascia. 40. il pregio: quello che era apprezzato. 41. speme: speranza. 42. luce: risplende. 43. n’adduce: porta.

Analisi del testo Analogie tecnicostrutturali con l’Aminta

Rovesciamento sul piano eticoideologico

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Un confronto tra questo coro e quello del I atto dell’Aminta ( cap. 3, T3, p. 567) rivela immediatamente il rapporto di emulazione che lega Guarini a Tasso. L’emulazione si realizza innanzi tutto sul piano tecnico e strutturale: Guarini ripropone il metro della canzone, le rime, addirittura le parole-rima del modello (valga per tutte il confronto tra le prime due stanze dei due cori che presentano le seguenti, identiche parole-rima: «oro, latte, bosco, loro, intatte, tòsco, fosco, velo, eterna, verna, cielo, peregrino, pino»; in certi casi si ripropongono anche coppie di parole come al verso 1410 «volgo insano» e al verso 1423 «pastori e ninfe». Ma il virtuosismo dell’autore è verificabile soprattutto per il fatto che alla maniacale imitazione sul piano formale corrisponde un perfetto rovesciamento su quello etico-ideologico. Infatti in Tasso l’età dell’oro rappresenta un passato mitico e felice, è l’età

Capitolo 2 · La letteratura drammatica

Celebrazione dell’amore coniugale

della libertà, del naturale dispiegarsi degli istinti, del pieno soddisfacimento dei propri bisogni sessuali in una natura amica e serena, in cui trionfa la naturale legge del piacere «S’ei piace, ei lice», mentre il presente è caratterizzato dalla presenza dell’«Onor», principio repressivo e autoritario, che alla spontaneità sostituisce il senso di vergogna e un atteggiamento di falsità. Guarini opera un perfetto rovesciamento di questa posizione, modificando la legge di Tasso nel suo corrispondente contrario «Piaccia, se lice», formula condizionata dalla convenienza, e presentando l’età dell’oro come quella dell’Onore, dell’onestà. L’amore che viene celebrato non è più quello libero dell’«amata» con «il vago», ma quello coniugale, essendo «di legittimo amor … le faci», «un nome sol marito e vago», dominando «Imeneo» che dà «le gioie e i baci». Gli ideali controriformistici condizionano la scrittura, imponendo la celebrazione dell’unico amore legittimo, quello coniugale, e presentando l’Onore come padrone «de le grand’alme». Analogamente l’età dell’oro è bella e felice, perché i suoi abitanti vivevano regolati dalla «fede». Si avverte cioè che i pastori del Guarini non vivono più liberi e spensierati in una mitica età dell’oro, ma sono uomini gravati da responsabilità e senso del dovere e della colpa.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Sintetizza il contenuto delle singole strofe nella seguente tabella, secondo l’esempio proposto. Versi/strofe

Sintesi contenuto

1394-1406 (I)

Il........................................................................................................................................................................................................................................................................... poeta confronta l’età dell’oro, spontanea e naturale, con il tempo presente, lontano da Dio a causa del predominio della ragione. ...........................................................................................................................................................................................................................................................................

1407-1419 (II)

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

1420-1432 (III)

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

1433-1445 (IV)

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

1446-1456 (V)

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

1457-1461 (VI)

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

AnALizzAre

> 2.

Stile Nei versi di Guarini è frequente la figura retorica della personificazione. Individua le sue occorrenze e spiega quale effetto produce sullo stile. > 3. Stile Ricerca nel testo le metafore e spiegane il significato. > 4. Stile Quale figura retorica rafforza l’esortazione finale alla speranza?

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente Dopo aver preso in considerazione i riferimenti alla sfera della sessualità presenti nel testo, spiega, facendo riferimento anche al contesto storico-letterario, come la tematica sia riconducibile agli ideali controriformistici (max 3 minuti). pASSATo e preSenTe Quali età dell’oro?

> 6. Proponi un’ulteriore rielaborazione, in chiave di attualizzazione e/o personalizzazione, del tema

dell’età dell’oro, producendo una pagina di circa 40 righe (2000 caratteri) da leggere e discutere in classe. Puoi fare riferimento, ad esempio, a tempi passati ritenuti migliori rispetto al presente e di cui hai sentito parlare i tuoi familiari, oppure a un’età della tua vita, come l’infanzia, che ricordi con piacere rispetto al momento in cui vivi.

547

L’età della Controriforma

Giordano Bruno

T2

cap. 1, a3, p. 537

Giordano Bruno

Temi chiave

L’intellettuale incompreso

• satira della cultura • l’incomprensione linguistica

da Il candelaio Riportiamo la prima parte della scena XVI, atto IV, in cui i «marioli» Sanguino, travestito da capitan Palma, Marca, Barra e Corcovizzo, nelle vesti di birri, aggrediscono Manfurio a bastonate.

ATTO QUARTO SCENA XVI Sanguino, stravestito da capitan Palma; Marca, Barra, Corcovizzo, da birri. sanguino

5

10

15

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Senza dubio, costui che fugge e si asconde, è qualche povera anima da menarla1 in purgatorio: per certo, è qualche lesa conscienzia2; prendetelo. barra Alto, la corte! Chi è llà? manfurio Mamphurius artium magister. Non sum malfactore, non fur, non moechus, non testis iniquus: alterius nuptam, nec rem cupiens alienam3. sanguino Che ore4 son queste che voi dite, compieta o matutino? marca Settenzalmo o officio defontoro5? sanguino Che ufficio è il vostro? Costui per certo vorrà far del clerico. manfurio Sum gymnasiarcha6. sanguino Che vuol dir asinarca? Legatelo presto, che si meni priggione. corcovizzo Toccatemi la mano. Messer pecora smarrita. Venete, che vi vogliamo donar allogiamento questa sera: dimorarrete in casa reggia7. manfurio Domini8, io sono un maestro di scola, a cui, in queste ore prossime, son stati da certi furbi rubbati i scudi9 ed involate10 le vesti. sanguino Perché dunque fuggi la corte11? Tu sei un ladro, nemico de la giustizia; zo, zo, zo. manfurio Quaeso12, non mi verberate13, perché io fuggiva di esser veduto in questo abito14, il quale non è mio proprio. sanguino Olà, famegli15, non vi accorgete di questo mariolo? non vedete questo mantello che porta, è stato rubbato a Tiburolo nella Dogana. corcovizzo Perdonatime, signor Capitano, Vostra Sign[oria] se inganna: perché quel mantello aveva passamani gialli nel collaio16. sanguino E non le vedi? sei cieco? Non son passamani questi? non son gialli? corcovizzo Po San Manganello17, che l’è vero.

1. da menarla: da condurla. 2. lesa conscienzia: una coscienza ferita. 3. Mamphurius … alienam: «Manfurio, pro­ fessore. Non sono un malfattore, non un la­ dro, non un adultero, non un falso testimo­ ne: non desidero la donna né la roba di altri» (Bàrberi Squarotti). 4. ore: le diverse parti che compongono l’uf­ ficio divino che devono recitare i sacerdoti: tra queste la compieta e il matutino citati.

548

5. Settenzalmo … defontoro: i sette salmi o l’ufficio dei defunti. 6. Sum gymnasiarcha: sono ginnasiarca; nell’antica Grecia, capo di una palestra. 7. casa reggia: nella casa del re, ovvero in prigione, edificio dello Stato. 8. Domini: signori, latinismo. 9. i scudi: gli scudi, il denaro. 10. involate: rubate. 11. corte: la polizia.

12. Quaeso: per favore, latinismo. 13. verberate: picchiate, latinismo. 14. io fuggiva … abito: non volevo farmi vedere con questo abito addosso. 15. famegli: sergenti, guardie. 16. collaio: collare. 17. San Manganello: si santifica scherzosa­ mente il bastone, il manganello.

Capitolo 2 · La letteratura drammatica

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marca

Al corpo della Nostra…, costui è un solenne mariolo; zo, zo, zo, zo. manfurio Oimè, voi perché mi bussate18 pure? Io vi ho detto che mi è stato elargito in vece della mia toga da alcuni scelesti furi19, e, ut more vestro loquar 20, marioli. sanguino Sin ora sappiamo che tu sei nostro fuggitivo; che questo mantello è stato rubbato. Va’ priggione, ché si vedrà chi è stato il mariolo. manfurio Menatemi in casa del mio ospite, presso gli Vergini21, ché vi provarrò ch’i’ non son malfattore. sanguino Non prendemo le persone per menarle in casa sua, noi, zo, zo. Andate in Vicaria, ché dirrete vostre raggioni ad altro che a’ birri. manfurio Oimè, cossì trattate gli eruditi maestri? dunque, di tanto improperio22 mi volete afficere23? marca Parla italiano, parla cristiano, in nome de lo tuo diavolo, ché t’intendiamo! barra Lui parla bon cristiano; perché parla, come si parla quando si dice la messa. marca Io dubito che costui non sia qualche monaco stravestito. corcovizzo Cossì credo io. Domine abbas, volimus comedere fabbas?24. barra Et si fabba non habbemo, quit comederemo? manfurio Non sum homo ecclesiasticus25. sanguino Vedete che porta chierica? porta la forma de l’ostia in testa? manfurio Hoc est calvitium26. barra Per questo vizio farrai la penitenza, scomunicato; zo, zo, zo, zo. manfurio Dixi calvitium, quasi calvae vitium27. E non mi bussate, quia conquerar 28. Cossì si trattano uomini di dottrina ed eruditi maestri? sanguino Tu hai mentito: non hai fortuna né similitudine di maestro; zo, zo. manfurio Vi recitarrò cento versi del poeta Virgilio, aut per capita29 tutta quanta la Eneide. Il primo libro, secondo alcuni, comincia: «Ille ego qui quondam»30; secondo altri che dicono quei versi di Varo31, comincia: «Arma virumque cano»32; il secondo: «Conticuere omnes»33; il terzo: «Postquam res Asiae»34; il quarto: «At regina gravi»35; il quinto: «Tu quoque littoribus nostris»36; il sesto: «Conticuere omnes»37. sanguino Non ci ingannarrai, poltrone, con queste parole latine imparate per il bisogno. Tu sei qualche ignorante: si fussi dotto, non sarreste mariolo.

18. mi bussate: mi picchiate. 19. scelesti furi: malvagi, ladri, latinismo. 20. ut … loquar: «per parlare secondo la vostra usanza». 21. Vergini: borgo di Napoli. 22. improperio: offesa. 23. afficere: colpire, latino. 24. Domine … fabbas?: frase scherzosa con senso osceno, come la seguente. 25. Non … ecclesiasticus: «non sono pre­ te». 26. Hoc est calvitium: «questa è la calvizie».

27. Dixi … vitium: «ho detto calvizie, quasi vizio del cranio»; l’etimologia proposta da Manfurio è del tutto assurda. 28. quia conquerar: «perché mi lamenterò». 29. aut per capita: «o per i versi iniziali» (Bàrbe­ ri Squarotti). 30. «Ille … quondam»: «Quello che un tem­ po»; versi che Vario, pubblicando l’Eneide postuma, eliminò. 31. Varo: l’amico di Virgilio, che curò la pri­ ma edizione dell’opera. 32. «Arma virumque cano»: «canto le armi

e l’eroe» (Virgilio, Eneide, I, v. 1). 33. «Conticuere omnes»: «tutti tacquero» (ibid., II, v. 1). 34. «Postquam res Asiae»: «dopoché la po­ tenza dell’Asia» (ibid., III, v. 1). 35. «At regina gravi»: «Ma la regina in una difficile (situazione)» (ibid., IV, v. 1). 36. «Tu … nostris»: letteralmente: «anche tu ai nostri littori». 37. «Conticuere omnes»: cfr. nota 33; le ulti­ me due citazioni sono errate, in quanto non corrispondono agli inizi dei libri V e VI.

Analisi del testo Gli elementi della comicità

La comicità della scena è tutta giocata su espedienti tipici della commedia cinquecentesca, quali i fraintendimenti linguistici, che originano situazioni da «comico del significato», il travestimento operato dalla banda diretta da Sanguino, qui nelle vesti di capitan Palma alla guida dei birri, la beffa ai danni del pedante Manfurio, che viene ingannato e bastonato. 549

L’età della Controriforma Il comico del significato

Il linguaggio

L’incomunicabilità tra i mondi rappresentati

La satira

Per quanto riguarda il comico del significato esso scaturisce dal fatto che tutte le affermazioni in latino di Manfurio non vengono comprese, ma volutamente distorte e storpiate da parte dei birri, che fingono di non capire. Esaminiamo, ad esempio, in quale modo viene recepita la presentazione di Manfurio che, parlando in latino in qualsiasi circostanza, diviene vittima della sua cultura. Manfurio al «Chi è llà», pronunciato da Barra, risponde: «Mamphurius artium magister. Non sum malfactore, non fur, non moechus, non testis iniquus: alterius nuptam, nec rem cupiens alienam» («Manfurio, professore. Non sono un malfattore, non un ladro, non un adultero, non un falso testimone: non desidero la donna né la roba di altri»; traduzione italiana di Giorgio Bàrberi Squarotti). Il maestro calca sul termine «malfactore», proprio per negare questo ruolo, ma Barra isola solo la parte finale della parola «ore» e chiede se queste siano «compieta o matutino», «Settenzalmo o officio defontoro» (i sette salmi o l’ufficio dei defunti), storpiando vistosamente il latino. Quando poi Manfurio si proclama «gymnasiarcha», Sanguino equivoca con «asinarca». La scena presenta molti altri esempi del genere che lasciamo da individuare al lettore. Il linguaggio di questa scena, ma si potrebbe dire di tutta la commedia, presenta una continua mescolanza di registri diversi: da quello alto di Manfurio, intellettuale “pedante” che si ostina ad usare anche nella vita quotidiana una lingua morta, il latino, e vuote formule a quello basso, volgare, in certi punti osceno, dei falsi birri. Tra i due mondi, quello intellettuale ed astratto di Manfurio e quello realista e plebeo di Sanguino e compagni non c’è comunicazione: la professione d’innocenza di Manfurio non è creduta, il poveraccio viene bastonato senza pietà, i birri si divertono, continuamente rilanciandosi le battute ed aggredendo il «magister» che fingono di non conoscere, mentre lo conoscono perfettamente (è questo un altro topos comico). Si fronteggiano qui due linguaggi, come s’è detto, e due categorie di personaggi, tipici della commedia cinquecentesca: il pedante, che non è più in grado di elaborare un prodotto culturale originale, ma ripropone solo vecchie formule, già presente nel Marescalco dell’Aretino ed il soldato spaccone e volgare di plautina memoria. Da tutta la commedia, che presenta proporzioni abnormi, «metafore di un mondo che non è più a proporzione d’uomo» (Davico Bonino), emerge «la satira grottesca di una falsa cultura (perché è solo ripetizione di dogmi astratti e libreschi), di una falsa moralità, di una falsa sicurezza, in particolare, con cui una certa società elabora i propri schemi intellettuali. È la cultura divenuta retorica, degradata nell’astratto dogmatismo» (Baratto).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Riassumi il contenuto del brano in circa 10 righe (500 caratteri). AnALizzAre

> 2.

Stile Individua e spiega le metafore riferite al purgatorio (rr. 1-2), alla figura di Cristo, alla «pecora smarrita» e alla «reggia» (rr. 11-12). > 3. Lessico Perché Manfurio nella situazione in cui si trova utilizza il latino? Qual è lo scopo del suo parlar difficile? Quale tipo di cultura rappresenta?

Approfondire e inTerpreTAre

> 4.

Scrivere Analizzando la storia del teatro comico, risulta evidente che attraverso la comicità il commediografo vuole proporre una riflessione sui valori della società e sui rapporti fra le persone. Ricerca i temi fondamentali e i bersagli polemici presenti nel brano letto e indicane in circa 20 righe (1000 caratteri) altri tipici della commedia del Cinquecento.

550

Capitolo 2 · La letteratura drammatica pASSATo e preSenTe L’oscurità del linguaggio settoriale

> 5. Alcuni linguaggi, settoriali, si rivolgono a degli esperti ed è per questo che risultano incomprensibili al let-

tore comune, ma spesso anche le comunicazioni al pubblico risultano cifrate: contratti, verbali, notifiche. Parliamo del cosiddetto “burocratese”, che ci fa sentire più che parte di uno Stato di diritto, all’interno di un labirinto senza ritorno. Ti è mai capitato di non comprendere ciò che leggi? Come ti comporti? Chiedi spiegazioni, ti documenti, cerchi di capire o ti assoggetti a una rassegnata incomprensibilità?

SCriTTurA CreATiVA

> 6. Scrivi il canovaccio di una piccola commedia con due protagonisti, al centro della quale ci sia un equivoco a livello linguistico.

In sintesi

LA LeTTerATurA drAmmATiCA Verifica interattiva

LA CommediA La commedia più interessante del secondo Cinquecento è Il candelaio (1576-82) di Giordano Bruno, caratterizzata da un intreccio molto complicato, ricco di colpi di scena, e da personaggi tipici. Attraverso un linguaggio deformato, bizzarro, caricaturale, l’autore esprime una forte carica polemica nei confronti della cultura e dell’ipocrita società del tempo.

LA fAVoLA pASTorALe Battista Guarini, nato a Ferrara nel 1538 e morto a Venezia nel 1612, seguendo l’esempio dell’Aminta

tassiana, contribuisce, con Il pastor fido, all’affermarsi del genere della favola pastorale. Il nuovo genere ebbe ampia diffusione presso la corte degli Estensi a Ferrara. Nel Pastor fido le vicende, che ruotano intorno a un amore contrastato, hanno come protagonisti ninfe e pastori, immersi in una realtà, artificiale e idealizzata, di evasione e di sogno, mescolando elementi della favola pastorale con altri appartenenti alla commedia e alla tragedia. L’opera ebbe uno straordinario successo di pubblico, testimoniato dalle numerose riedizioni e traduzioni, anche se la mescolanza di temi e di stili suscitò la reazione dei critici aristotelici.

facciamo il punto 1. Quali caratteristiche presenta a livello tematico e stilistico Il pastor fido di Guarini? 2. Nel brano di Guarini proposto in antologia, come viene presentata l’età dell’oro? In quale rapporto si

colloca rispetto al modello tassiano? 3. Quali caratteristiche presenta la commedia di Giordano Bruno? In che senso si può parlare di una funzione satirica nei confronti della cultura del tempo?

551

Capitolo 3

Torquato Tasso Le spinte contrastanti Come Petrarca, Tasso è il poeta di un’età di crisi e di transizione. Il Rinascimento era stato un’epoca di pienezza della civiltà: con la Controriforma, nel secondo Cinquecento, si ha il passaggio a un’età di inquietudini e insicurezze. Il clima del tempo si riflette nelle spinte contrastanti che si colgono nell’opera tassiana e particolarmente nel suo capolavoro, la Gerusalemme liberata. Tasso aspira ad essere il perfetto poeta cristiano, il cantore degli ideali religiosi della Controriforma e della maestà della Chiesa, il celebratore del potere assoluto e della corte, e insieme il perfetto poeta epico, ossequioso verso i precetti aristotelici che costituivano il codice letterario indiscusso del suo tempo. Nel concreto della sua opera si manifestano invece tendenze ben diverse: una religiosità sofferta, intima e 552

non formale, intrisa del senso della colpa e del peccato, della precarietà dell’esistenza e della vanità delle belle apparenze; nei confronti del potere regale e della corte, un’insofferenza per quanto essi recano di artificioso, per il peso dell’autorità, per gli intrighi ed i conflitti, tutti aspetti che lo inducono a rifugiarsi nel sogno idillico di un mondo pastorale semplice e autentico; parimenti, il poema che doveva rispettare rigorosamente i canoni classici aristotelici è percorso da forti spinte centrifughe, disgregatrici di ogni classica unità.

Sono frenetico e quasi sempre perturbato da vari fantasmi e pieno di malinconia infinita (Lettera a Maurizio Cataneo)

Videolezione d’autore

zionale del mondo, le ombre e le tenebre notturne insistentemente presenti nel poema sembrano alludere a una crisi della ragione tradizionale, che è insidiata da nuove perplessità e si affaccia su realtà ignote e inquietanti. Tutti questi aspetti sono ciò che rende ancora moderna e viva la poesia tassiana, vicina alla sensibilità nostra, di chi vive in un’età inquieta, irta di contraddizioni e di conflitti, quella della fine della modernità e del trapasso verso ciò che verrà dopo, di cui non riusciamo a percepire i lineamenti.

La musicalità e l’indefinito Le ambizioni epiche portano Tasso ad aspirare a uno stile elevatissimo, mediante il ricorso a citazioni dai classici, all’abbondanza di figure retoriche, a termini preziosi, a una sintassi complessa. Ma il «bifrontismo» si riscontra anche a questo livello, per cui spesso si nota una ricerca dell’indefinitezza e della musicalità, che rendono i versi tassiani suggestivi e affascinanti.

Una sensibilità inquieta e tormentata È quello che è stato chiamato il «bifrontismo spirituale» di Tasso. La Gerusalemme liberata non è il poema dell’armonia, ma della divisione e della lacerazione. Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che contraddizioni e ambivalenze siano un limite alla grandezza artistica del capolavoro: al contrario esse, rivelando una sensibilità sottile e tormentata, arricchiscono di prospettive l’opera e le conferiscono una straordinaria profondità.

La tenebra e l’ignoto Coerentemente con questa sensibilità, Tasso ama particolarmente l’ombra e le atmosfere notturne, al pari della pittura del suo tempo. Se la luce piena della pittura del Rinascimento traduceva simbolicamente la fiducia nel dominio ra553

L’età della Controriforma

1 Ad Urbino

A Venezia

Gli studi a Padova

La corte e l’accademia

A Ferrara

La vita Videolezione

Gli anni sereni

Torquato Tasso nacque a Sorrento l’11 marzo 1544. Il padre, Bernardo, di nobile famiglia bergamasca, era gentiluomo di corte e poeta, autore di un poema cavalleresco, l’Amadigi (1560), che contemperava la materia romanzesca con le esigenze di unità imposte dalla cultura dell’epoca. Il giovane Tasso nel 1557 si trasferì con lui alla corte dei della Rovere ad Urbino, dove venne a contatto con quell’ambiente cortigiano che era destinato a occupare un posto determinante nella sua esperienza successiva. Nel 1559 seguì il padre a Venezia e lì, per suggestione dell’ambiente della città, impegnata nel conflitto contro i Turchi, a soli quindici anni iniziò un poema epico sulla prima crociata, il Gierusalemme, lasciandolo però interrotto. Nel 1560 passò a Padova per frequentare quella prestigiosa università, dove studiò dapprima il diritto, per dedicarsi poi a discipline a lui più congeniali, la filosofia e la letteratura. A Padova, centro principale dell’aristotelismo in Italia, Tasso gettò le basi della sua cultura filosofica. Sull’esempio del padre nel 1562, a diciotto anni, scrisse un poema epico di argomento cavalleresco, il Rinaldo, e cominciò a comporre rime d’amore per Lucrezia Bendidio, una dama della duchessa Eleonora d’Este, e per Laura Peperara, conosciuta a Mantova. Giovanissimo, Tasso aveva già esperienza di varie corti italiane, Urbino, Mantova, Ferrara, e si era inserito in quel mondo di eleganza mondana e di raffinata cultura. Oltre alla corte l’altro ambiente destinato a segnare la sua formazione fu quello dell’accademia, che nel secondo Cinquecento divenne il centro per eccellenza dell’attività intellettuale: a Padova fu in rapporto con l’Accademia degli Infiammati, poi fu ammesso in quella degli Eterei. Nel 1565 fu assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este e si trasferì a Ferrara. La città, in festa per le nozze del duca Alfonso II, gli apparve «una meravigliosa e non più veduta scena dipinta e luminosa, piena di mille forme e di mille apparenze», e lo

Tasso e il suo tempo

Linea del tempo

Gierusalemme Nasce a Sorrento da una nobile famiglia bergamasca

Discorsi dell’arte poetica Rinaldo Aminta

Soggiorna a Urbino e a Venezia col padre, uomo di corte e letterato

Gerusalemme liberata Si trasferisce a Padova, dove studia filosofia e letteratura

Entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este

Periodo giovanile

1544 1545 Inizia il Concilio di Trento

554

1557-59

Passa al servizio del duca Alfonso II

Alla corte di Ferrara

1563

1565

Pace di Si conclude Cateau-Cambrésis: il Concilio di Trento l’Italia passa sotto la sfera d’influenza spagnola. Prima pubblicazione dell’Indice dei libri proibiti

1567

1571

Battaglia di Lepanto: è arrestata l’avanzata dei turchi verso Occidente

1572

“Notte di san Bartolomeo”: eccidio dei calvinisti francesi (ugonotti)

Capitolo 3 · Torquato Tasso

La composizione della Gerusalemme e dell’Aminta

lasciò affascinato. In questa città il giovane poeta trascorse gli anni più sereni e più fecondi dal punto di vista creativo. Quella di Ferrara era una delle corti più splendide d’Italia, per una lunga tradizione che risaliva sino al Quattrocento. Il poeta si inserì agevolmente nei rituali cortigiani e fu apprezzato da gentiluomini e dame per le sue doti poetiche e per l’eleganza mondana. Frequentò però anche gli ambienti culturali e strinse rapporti con i più prestigiosi intellettuali del luogo. Nel 1572 passò al servizio diretto del duca come gentiluomo stipendiato, senza incombenze precise: ebbe così l’agio di dedicarsi interamente alla poesia. La corte ferrarese, sin dai tempi di Boiardo e poi di Ariosto, era stata particolarmente amante della letteratura cavalleresca: per questo probabilmente Tasso fu stimolato a lavorare al poema epico sulla crociata, che già aveva ripreso nel 1565. Vi attese dal 1570 al 1575, e nell’estate di quell’anno poté leggere il poema completo al duca Alfonso. Nel frattempo, nel 1573, per gli ozi festosi della corte aveva composto un dramma pastorale, l’Aminta, e aveva anche tentata la tragedia con il Galealto re di Norvegia, lasciato però interrotto.

Gli anni tormentati: gli scrupoli letterari e religiosi Gli scrupoli letterari

Gli scrupoli religiosi

È assillato da scrupoli religiosi e letterari, primi segni di un profondo malessere psicologico

Con la conclusione della fatica del poema, si spezzò anche l’equilibrio felice della sua esistenza. Alla sua opera egli guardava con inquietudine e insoddisfazione, ed era tormentato dallo scrupolo di renderla perfettamente aderente ai canoni letterari e religiosi vigenti. Recatosi a Roma sul finire del 1575, sottopose il poema al giudizio di un gruppo di autorevoli letterati. Costoro mossero all’opera le critiche più meschinamente pedantesche e moralistiche: Tasso la difendeva appassionatamente, ma al tempo stesso quelle critiche lo rendevano sempre più incerto, perché egli stesso, formatosi nel medesimo clima culturale, condivideva quegli scrupoli e si sentiva impegnato a intervenire sul suo poema con tagli e modifiche per renderlo conforme alle regole. Agli scrupoli letterari concernenti il poema si collegavano strettamente quelli religiosi. Fu assalito da dubbi maniacali sulla propria ortodossia nella fede cattolica, e nel 1577 si sottopose spontaneamente all’Inquisizione di Ferrara per fugare i propri dubbi;

Soggiorna a Sorrento, a Mantova, a Urbino e a Torino Fa ritorno a Ferrara, ma la fredda accoglienza gli provoca una crisi nervosa

Aggredisce un servo: è relegato nel convento di San Francesco, da cui fugge

Revisione della Gerusalemme liberata

Dialoghi

È ricoverato all’ospedale di Sant’Anna per turbe nervose

È assunto al servizio di Vincenzo Gonzaga a Mantova

Lasciata Mantova, soggiorna a Roma e a Napoli

Pubblicazione della Gerusalemme conquistata

Muore a Roma

Il tormentato periodo della maturità

1575

1577

1577-78

1579

Guerre di religione imperversano nell’Europa centro-settentrionale

1579-86

1586

1588

1587-95

1593

1595

Papa Sisto V rafforza i poteri del Sant’Uffizio, l’organo preposto alla repressione del dissenso religioso

555

L’età della Controriforma I primi sintomi di squilibrio

naturalmente fu assolto, ma questo non valse a placare i suoi rovelli. A questi sintomi inquietanti si univano manie di persecuzione: un giorno, ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello. Il duca lo fece rinchiudere nel convento di San Francesco, ma egli ne fuggì. Giunto sino a Sorrento, si presentò alla sorella sotto mentite spoglie, annunciandole la propria morte per mettere alla prova il suo amore: anche questo è un comportamento indicativo di turbe psichiche, che rivela una profonda insicurezza ed un bisogno di essere amato. Dinanzi al dolore della sorella, il poeta svelò la propria identità e poté trascorrere con lei alcuni giorni sereni. Tornò poi brevemente a Ferrara, ma presto riprese le sue peregrinazioni per l’Italia: nel 1578 fu a Mantova, poi a Urbino, poi ancora a Torino presso Emanuele Filiberto di Savoia, sempre nella speranza di una sistemazione.

La reclusione a Sant’Anna e l’ultimo periodo

L’aggravamento dei disturbi psichici

Tornò a Ferrara nel 1579, proprio mentre si celebravano le terze nozze del duca Alfonso con Margherita Gonzaga. Non trovando l’accoglienza calorosa che si aspettava, diede in escandescenze, tanto che il duca lo fece rinchiudere come pazzo furioso nell’ospedale di Sant’Anna, dove rimase ben sette anni, sino al 1586. Dopo un periodo di totale segregazione gli fu concessa una relativa libertà, che gli consentiva di ricevere visite, di studiare e di scrivere. Poté così riprendere l’attività letteraria, e a Sant’Anna scrisse numerose rime, molte lettere e buona parte dei Dialoghi. Tuttavia dovette subire gravi sofferenze fisiche e psichiche: era turbato da incubi continui e da allucinazioni, era convinto che un folletto gli mettesse in disordine le carte e che un mago lo perseguitasse con maligni incantesimi. Il suo stato d’animo oscillava tra la mania di persecuzione, che gli faceva credere di essere vittima di una intollerabile ingiustizia, e le tendenze autopunitive, che lo inducevano a sentire terribili colpe nei

Carta interattiva

I luoghi e la vita di Tasso 1 SORRENTO Nasce nel 1544 a Sorrento. Il padre, gentiluomo di corte e poeta, appartiene a una nobile famiglia bergamasca.

6 NAPOLI

PADOVA MANTOVA

5

2

3

2 PADOVA Dopo aver soggiornato con il padre a Urbino e a Venezia, nel 1560 si trasferisce a Padova dove studia diritto, filosofia e letteratura. Frequenta l’Accademia degli Infiammati e quella degli Eterei.

FERRARA

4 3 FERRARA

Nel 1565 è assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este. Nel 1572 passa al servizio del duca e si dedica interamente alla poesia. Nel 1577, preda di manie di persecuzione, è rinchiuso nel convento di San Francesco. Tra il 1579 e il 1586 viene recluso nell’ospedale di Sant’Anna.

556

Nei suoi ultimi anni (1588-90) alterna soggiorni a Roma e a Napoli per cercare l’appoggio degli ambienti ecclesiastici.

ROMA NAPOLI

6

1

5 MANTOVA Intorno al 1578 riprende le sue peregrinazioni per l’Italia alla ricerca di una sistemazione: è dapprima a Mantova, poi Urbino, poi ancora Torino presso Emanuele Filiberto di Savoia. Nel 1586 è liberato dalla reclusione al Sant’Anna per intercessione di Guglielmo Gonzaga, che lo vuole alla sua corte di Mantova, dove però resta per breve tempo.

SORRENTO 4 ROMA A Roma, dove è già stato nel 1575 per sottoporre la Gerusalemme liberata al giudizio di un gruppo di autorevoli letterati, muore nel 1595 nel convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Perché la segregazione?

La pubblicazione del poema

La Gerusalemme conquistata

confronti dell’autorità principesca. In questo periodo, attraverso una copiosa serie di lettere, si rivolse ininterrottamente a principi, prelati, intellettuali per difendere la propria persona e per chiedere soccorso. Si è cercato di individuare il motivo che induceva il duca a tenere prigioniero un uomo di così grande fama, che altri signori si proclamavano disposti ad ospitare. Il motivo più plausibile può essere questo: Alfonso, in urto con la Curia pontificia, che pretendeva che alla sua morte Ferrara tornasse alla Chiesa, voleva evitare che si proiettasse sulla sua corte un qualunque sospetto di eresia, che poteva essere pericoloso in quegli anni di oppressione controriformistica. Gli scrupoli maniacali del poeta potevano offrire il pretesto per accuse del genere; tanto più che la madre del duca, Renata di Francia, era incline ai protestanti, e per questo era già stata allontanata dal Ducato. Negli anni in cui il poeta era rinchiuso a Sant’Anna la Gerusalemme fu pubblicata senza il suo assenso, in un’edizione incompleta e scorretta, e questo lo turbò profondamente. Non solo ma, nonostante il grande successo di pubblico, il poema scatenò una violenta polemica tra i suoi sostenitori e quelli che ritenevano superiore il Furioso. Il poeta ne fu amareggiato e scrisse un’Apologia della «Gerusalemme liberata», dedicandosi nel contempo ad una revisione radicale dell’opera, al fine di renderla più conforme ai precetti retorici e moralistici. La prigionia ebbe termine nel 1586, quando il duca Vincenzo Gonzaga di Mantova ottenne che il poeta fosse affidato alla sua custodia. Ma l’irrequietezza che ormai gli era propria non consentì a Tasso di restare a lungo a Mantova. Nei suoi ultimi anni alternò soggiorni a Roma e a Napoli, ricercando soprattutto l’appoggio degli ambienti ecclesiastici. In questo periodo compose molta poesia encomiastica, per celebrare i signori e i monaci che lo ospitavano, e molta poesia di ispirazione religiosa, che riflette il bisogno di cercare nella religione un conforto alle sue sofferenze. Si concentrò anche sul rifacimento del poema, che ripubblicò nel 1593 col titolo di Gerusalemme conquistata. Nel 1594 il papa Clemente VIII gli propose l’incoronazione poetica a Roma; ma Tasso, ammalatosi gravemente e ritiratosi nel convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo, vi morì nell’aprile del 1595.

Una figura esemplare di poeta cortigiano Vita e poesia cortigiana

Le ambivalenze verso la corte

Tasso incarna esemplarmente la figura del poeta cortigiano del Cinquecento. La sua vita si svolge interamente nell’ambito della corte, e ad essa è legata materialmente e intellettualmente: da un lato dal favore dei principi il poeta dipende totalmente per la sua esistenza materiale (le sue lettere ai signori sono colme di continue richieste di denaro, di privilegi, di oggetti, che gli possano consentire vita agiata e lussuosa); dall’altro lato egli ritiene che solo nella corte possa essere consacrata la fama del grande poeta e che solo in essa si trovi il pubblico capace di intendere ed apprezzare la sua poesia. Ariosto era stato anch’egli poeta cortigiano, ma conservava un bisogno di autonomia dalla corte ed era convinto che la sua autentica realizzazione umana dovesse avvenire al di fuori di essa, nella sfera del privato, della vita familiare ( L’età del Rinascimento, cap. 5, T1, p. 234); per Tasso invece non vi è altro luogo in cui il poeta si possa realizzare se non la corte. Tuttavia Tasso è poeta lacerato da profonde contraddizioni: se celebra la corte e si protende verso di essa come verso un polo luminoso d’attrazione, d’altro lato prova una segreta avversione, che si esprime nei suoi atteggiamenti di rivolta violenta (anche patologica), nelle sue fughe continue, nel suo irrequieto vagabondare da un centro all’altro, senza mai trovare un luogo in cui risiedere stabilmente. Sono contraddizioni emblematiche di un’età di grandi tensioni e di grandi conflitti, in cui comincia a entrare in crisi il ruolo intellettuale elaborato dalla cultura cortigiana del Rinascimento, senza che peraltro si intravedano ancora alternative. 557

L’età della Controriforma

2 I moduli letterari

La sofferenza umana

3 Il Gierusalemme e il Rinaldo

L’unità d’azione

Temi e toni che anticipano il capolavoro

558

L’epistolario Videolezione

Le lettere pervenuteci (ca. 1700, in parte già pubblicate quando l’autore era in vita, nel 1587 e nel 1588) riflettono da vicino la tormentata e conflittuale vicenda interiore di Tasso; tuttavia l’esperienza vissuta è sempre filtrata attraverso dignitosi moduli letterari e controllata mediante la sottile retorica che è propria del letterato del secondo Cinquecento. L’ambiente di risonanza del discorso che queste lettere compongono è la corte: che non è solo un luogo fisico, ma per il poeta è anche una realtà culturale, estetica, morale, il luogo della dignità, della magnificenza, dell’elezione intellettuale. In queste lettere si può cogliere lo sforzo a volte affannoso di tratteggiare la propria immagine secondo i canoni contemporanei dell’uomo di lettere, del filosofo e dell’umanista. Ma dietro il velo culturale si fa strada l’umana sofferenza del poeta: innanzitutto la sua condizione di perpetuo bisogno, che si manifesta in una supplica insistente e penosa a principi, signori, grandi prelati; affiorano poi sentimenti dolorosi di malinconia, di sconforto, di morte. Connesso con questa tematica è l’abbandono religioso, che appare indubbiamente sincero, anche se è privo di vera originalità come esperienza spirituale e risponde più che altro ad un bisogno individuale e privato di certezze, di conforto, di liberazione dai tormenti e dalle sofferenze interiori. Inquietanti sono le lettere scritte dall’ospedale di Sant’Anna, che testimoniano i malesseri fisici ma soprattutto i turbamenti di una coscienza malata, devastata da incubi, allucinazioni e ossessioni maniacali. Accanto ad esse, e in contrasto con esse, si collocano poi le lettere che riflettono la vigile coscienza critica del letterato, tutto immerso nel processo di revisione del poema, che porterà dalla Liberata alla Conquistata.

Il Rinaldo Lasciato interrotto all’ottava 116 il progetto di un poema epico-storico sulla prima crociata, il Gierusalemme, impresa che evidentemente sentiva ancora superiore alle proprie forze, il Tasso diciottenne riprese la materia più collaudata del romanzo cavalleresco, sull’esempio del padre, autore dell’Amadigi, e nel 1562 pubblicò il Rinaldo, che narra in dodici canti la giovinezza del famoso paladino della leggenda carolingia e le sue imprese d’armi e d’amori. La materia cavalleresca era ancora molto amata dal pubblico cortigiano. Tasso stesso dichiara nella prefazione al poema di voler imitare in parte gli «antichi» (Omero, Virgilio), in parte i «moderni» (cioè Ariosto). Tuttavia rifiuta la molteplicità di personaggi e di azioni che caratterizzava il Furioso e si concentra su un unico protagonista, in obbedienza a quelle esigenze di unità che erano proposte dal contemporaneo aristotelismo e che erano già state seguite dal padre nel suo poema. Manca anche, nel Rinaldo, il gioco ironico che era proprio del poema ariostesco, e tutto appare serio ed elevato. Si tratta di un’opera tipicamente giovanile, dai forti risvolti autobiografici. Nell’eroe il giovane Tasso rispecchia se stesso, il proprio sogno di gloria e d’amore, che si inscrive tutto nella cornice mondana della corte. È un’opera acerba, ancora priva di originalità, ma in essa compaiono già alcuni temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il poeta maturo. Come ha messo in rilievo un attento lettore quale Getto, il motivo delle armi dà origine ad un gusto grandiosamente spettacolare, che però trascolora nella contemplazione dolente della morte, come avverrà poi nella Gerusalemme. Così vi si ritrova già una rappresentazione ardente e insieme languida della passione amorosa, unitamente alla contemplazione di sereni paesaggi idillici o di scenari tempestosi e notturni, secondo un gusto che assumerà le sue forme compiute nel capolavoro.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

4 Le edizioni

Le rime amorose

Sensualità e atmosfere indefinite

Testi Donna, il bel vetro tondo dalle Rime

La lirica encomiastica

Il fascino del potere regale

La lirica

Le Rime Videolezione

L’esercizio della poesia lirica ha inizio per Tasso in una stagione assai precoce, e abbraccia poi l’intero arco della sua attività. Un primo gruppo di liriche fu pubblicato nel 1567 in una raccolta di Rime degli Accademici Eterei; altre comparvero sparse e furono riunite nelle Rime e prose del 1581. Negli anni della prigionia a Sant’Anna il poeta iniziò un riordino generale, che si concretò in un’edizione della Prima parte delle Rime, pubblicata a Mantova nel 1591, comprendente le liriche d’amore, e in una Seconda parte, uscita a Brescia nel 1593, contenente la produzione encomiastica. Il progetto di riunire una Terza parte destinata alle rime religiose e una Quarta parte di rime per musica non fu realizzato. Le rime amorose sono una ricapitolazione di tutta la tradizione che fa capo a Petrarca, e al tempo stesso aprono la strada a Marino e alla lirica barocca. Sono innanzitutto un esercizio di squisita letteratura, in cui il poeta via via raffina il proprio stile. Il fondo linguistico è petrarchesco, scelto e levigato, ma su di esso si innesta un gusto della complicazione metaforica che dà origine a lambiccate ingegnosità. Un’altra caratteristica saliente è l’intensa sensualità, che si traduce in immagini pittoriche ricche di colore e in un voluttuoso abbandono musicale. I temi sono convenzionali, in fondo puri pretesti per il dispiegarsi del virtuosismo delle immagini e della musica. Le più suggestive sono le liriche che evocano sentimenti delicati e impalpabili, atmosfere indefinite ( T1, p. 560), stati d’animo perplessi e fuggevoli, oppure paesaggi fantasticamente trasfigurati, notturni lunari, albe luminose, una natura fresca e ricca di profumi. Le immagini femminili che il poeta evoca tendono a confondersi con il profilo della natura, e la natura a sua volta assume una fisionomia femminile. Nella lirica encomiastica mutano i modelli: il poeta si rifà alla lirica classica del greco Pindaro, celebratore dei vincitori olimpici, e del latino Orazio, ed il tono si fa più elevato, sostenuto e maestoso. Come ha scritto Getto, «la poesia degli Encomi si compone in quadri solenni, decorati di nomi illustri, adorni di una suppellettile regale di scettri e corone, fregiati di motivi di una pomposa mitologia». Tasso, come è proprio della sua età, segnata dall’assolutismo e dalla Controriforma, sente fortemente il fascino del potere regale e principesco e ama rappresentarlo nelle sue forme più scenografiche. Tuttavia in questa poesia encomiastica compaiono accenti più sofferti, il motivo autobiografico del dolore e della vita errabonda, il senso della fugacità del tempo, il pensiero della morte. I potenti, come nella famosa Canzone al Metauro ( T2, p. 561), sono visti come coloro che possono offrire rifugio, sicurezza e consolazione al poeta errante e afflitto dalla sventura. La lirica sacra ha accenti meno profondi. Il sentimento oscilla tra un’ornamentazione lussuosa, che rispecchia il gusto della civiltà controriformistica, e la riflessione sulla precarietà e vanità delle cose, il senso della colpa e del peccato, il ripiegamento sulla propria inquietudine e la propria stanchezza, la ricerca di consolazione nella preghiera e nel rito esteriore, motivi che non appartengono ad un’ispirazione autenticamente religiosa, ma più che altro si collocano nella sfera etica e autobiografica.

Massimo D’Azeglio, Emanuele Filiberto riceve Torquato Tasso nei giardini del Parco, XIX secolo, olio su tela, Collezione privata.

559

L’età della Controriforma

T1

Qual rugiada o qual pianto dalle Rime > Metro: madrigale; schema delle rime abABCDdcEeFf.

5

10

1. notturno manto: il cielo notturno. 2. candido: luminoso.

Temi chiave

• lontananza della donna • il dolore della natura

Qual rugiada o qual pianto quai lagrime eran quelle che sparger vidi dal notturno manto1 e dal candido2 volto de le stelle? E perché seminò la bianca luna di cristalline stille3 un puro membo a l’erba fresca in grembo? Perché ne l’aria bruna s’udìan, quasi dolendo, intorno intorno gir l’aure4 insino al giorno? Fûr segni forse de la tua partita5, vita de la mia vita? 3. cristalline stille: la rugiada notturna; si credeva che fosse sparsa dalla luna.

4. gir l’aure: soffiare le brezze (gir: andare). 5. partita: partenza, allontanamento.

Analisi del testo Il linguaggio petrarchesco Il dolore della natura Una situazione perplessa

> Costruzioni metaforiche e atmosfera indefinita

Il linguaggio è petrarchesco, estremamente levigato e scelto, ma il poeta lo complica con raffinata ingegnosità e consumata perizia retorica, dando origine a complesse costruzioni metaforiche: il cadere della rugiada notturna diviene il pianto della notte, delle stelle e della luna, il soffio della brezza diviene un lamento dolente; entrambi sono interpretati come segno del dolore della natura per la lontananza della donna. Ma il cercare di precisare i concetti della poesia significa in realtà tradirla: l’atmosfera è sospesa, indefinita, i concetti non sono enunciati ma allusi, non sono affermate certezze ma si delinea una situazione perplessa, incerta, resa mediante il succedersi delle interrogazioni. Le forme non hanno confini netti e definiti, ma trapassano le une nelle altre: la figura femminile, fuggevolmente evocata, tende a risolversi nell’immagine della natura, e la natura a sua volta assume una fisionomia femminile.

> Gli aspetti formali Il gioco cromatico

La musicalità

560

Questa labile, evanescente esperienza del reale è resa con un linguaggio sensuale, pittorico e musicale, di una sensualità però non grevemente materiale, bensì delicata e come rarefatta. Si può notare il gioco cromatico tra «notturno manto», «candido volto de le stelle», «bianca luna», «cristalline stille», «aria bruna». La ricerca pittorica esprime una sensibilità raffinata, che si compone in una rete di associazioni tra sensazioni affini, come il biancore della luna, la trasparenza cristallina della rugiada e la freschezza dell’erba; si mescolano sensazioni visive e tattili, dando origine quasi ad un procedimento di sinestesia (confusione di sensazioni), che sembra precorrere moduli della poesia moderna. I fattori che contribuiscono a dare il senso di musicalità sono: il succedersi fluido e scorrevole degli accenti tonici, l’assenza di pause e fratture interne al verso e di enjambements tra un verso e l’altro, il gioco delle rime baciate e delle rime interne («partita» / «vita», vv. 11-12), delle assonanze («grembo» / «dolendo», vv. 7-9), delle allitterazioni («manto» / «candido», vv. 3-4); una funzione determinante ha la sostanza fonica delle parole: si

Capitolo 3 · Torquato Tasso

veda all’inizio l’insistenza degli accenti tonici sulle vocali aperte /a/, che danno l’impressione di vastità indefinita («rugiàda», «piànto», «làgrime», «mànto»); e si noti ancora il gioco dell’allitterazione tra «cristalline» e «stille», che mette in evidenza la vocale /i/ e la consonante liquida /l/, a rendere un’impressione di sottigliezza, purezza, liquida trasparenza. Nei due versi successivi invece, a dare il senso più cupo del dolore della natura e del lamento delle aure notturne, ricorrono prevalentemente vocali velari, cupe, /o/, /u/ («bruna», «dolendo», «intorno intorno», «aure», «giorno»). La fluidità musicale si iscrive però in una partitura sintattica rigorosamente strutturata in senso architettonico. Si hanno quattro proposizioni interrogative: la prima occupa quattro versi (1-4), le due successive tre versi (5-7 e 8-10), l’ultima due versi (11-12).

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Esegui la parafrasi del testo. AnALizzAre

> 2. > 3.

Rintraccia nel testo: le antitesi, le ripetizioni, il poliptoto. Individua e sottolinea la parola chiave del componimento e gli altri termini che rinviano al medesimo campo semantico. > 4. Lingua Nel sonetto, a livello sintattico, prevale la coordinazione o la subordinazione? Stile

Lessico

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

Testi a confronto: scrivere Istituisci un confronto in circa 10-12 righe (max 600 caratteri) tra il paesaggio presente nelle liriche di Petrarca e quello di Tasso: qual è il rapporto con l’io lirico?

per iL reCUpero

> 6. Qual è il tema del sonetto? > 7. Quale momento del giorno è descritto? > 8. Individua e sottolinea nel testo gli elementi naturali personificati. > 9. Quali sentimenti prevalgono nella lirica?

T2

La canzone al Metauro dalle Rime La canzone risale al 1578, quando il poeta sperava di trovare protezione presso Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, a cui lo legavano vincoli di antica amicizia. Il testo rimase però interrotto alla terza strofa.

Temi chiave

• il motivo encomiastico • il bisogno di protezione • la figura materna e quella paterna • l’ostilità della sorte

> Metro: canzone; schema delle rime: aBCaBCCDEeDFGGFHhFII (con un’irregolarità nella prima strofa ai vv. 5-6, in cui si ha CB).

O del grand’Apennino figlio picciolo sì, ma glorïoso e di nome più chiaro assai che d’onde1, fugace peregrino2 1. O … d’onde: il Tasso si rivolge al Metauro chiamandolo figlio dell’Appennino, perché da questa catena montuosa nasce il fiume,

picciolo per portata d’acque ma glorïoso e chiaro per fama storica, in quanto le sue sponde furono scenario di un’importante

battaglia combattuta dai Romani contro i Cartaginesi al tempo della seconda guerra punica: nel 207 a.C. qui sconfissero Asdrubale che conduceva un esercito in aiuto del fratello Annibale. 2. fugace peregrino: pellegrino costretto sempre a errare in fuga (è apposizione del soggetto di vengo, v. 6).

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L’età della Controriforma

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a queste tue cortesi amiche sponde3 per sicurezza vengo e per riposo. L’alta Quercia che tu bagni e feconde con dolcissimi umori, ond’ella spiega i rami sì ch’i monti e i mari ingombra, mi ricopra con l’ombra4. L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega al suo fresco gentil riposo e sede, entro al più denso mi raccoglia e chiuda5, sì ch’io celato sia da quella cruda e cieca dèa6, ch’è cieca e pur7 mi vede, ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle e per solingo calle8 notturno io mova e sconosciuto il piede; e mi saetta sì che ne’ miei mali mostra tanti occhi9 aver quanti ella ha strali. Ohimè! dal dì che pria trassi l’aure vitali e i lumi apersi10 in questa luce a me non mai serena, fui de l’ingiusta e ria trastullo e segno11, e di sua man soffersi piaghe che lunga età risalda a pena12. Sàssel la glorïosa alma sirena, appresso il cui sepolcro ebbi la cuna13: così avuto v’avessi o tomba o fossa a la prima percossa14! Me dal sen de la madre empia15 fortuna pargoletto divelse16. Ah! di quei baci, ch’ella bagnò di lagrime dolenti, con sospir mi rimembra e degli ardenti preghi che se ’n portâr l’aure fugaci17: ch’io non dovea giunger più volto a volto18 fra quelle braccia accolto con nodi così stretti e sì tenaci. Lasso! e seguii con mal sicure piante19, qual Ascanio o Camilla, il padre errante20.

3. cortesi amiche sponde: sono tali per la generosa ospitalità di Federigo di Bonaventura presso il quale nel 1578 Tasso, per la seconda volta in fuga da Ferrara, era ospite. La villa del Bonaventura sorgeva presso il fiume Metauro, che scorreva nel territorio dei della Rovere, alla cui corte Tasso sperava di essere accolto. 4. L’alta Quercia … ombra: lo stemma araldico dei della Rovere era una quercia, che qui inaugura un’ampia metafora, nel corso della quale l’autore rivolge il proprio encomio alla famiglia da cui spera di ottenere protezione e difesa: la quercia, fecondata dalle dolcissime acque del fiume, grazie alle quali stende i suoi rami rigogliosi, tanto da

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spiegarli dal monte al mare (i della Rovere erano signori di un territorio che si estendeva dall’Appennino al mare Adriatico), mi pro­ tegga con la sua ombra. 5. L’ombra … chiuda: l’ombra sacra, ospita­ le (ossia la corte, ispirata ad ideali di umanità e generosità), che non nega ad alcuno (altrui) un dolce riposo e una sosta nella sua fre­ scura, mi accolga dove la chioma è più fitta. 6. cruda … dèa: la Fortuna, qui intesa come sorte avversa. 7. pur: tuttavia. 8. per solingo calle: per strade solitarie. 9. tanti occhi: la sorte è personificata come un essere persecutore, che sempre vede chiunque tenti di sottrarsi a lei.

10. trassi … apersi: respirai l’aria che man­ tiene in vita e apersi gli occhi. 11. fui … segno: fui trastullo e bersaglio del­ la Fortuna ingiusta e crudele. 12. piaghe … pena: ferite che a malapena rimargina il passare degli anni. 13. Sàssel … cuna: lo sa (Sàssel, letteralmente se lo sa) la sirena glorïosa e alma, ali­ mentatrice (presso il sepolcro della sirena Partenope, infatti, secondo il mito, ebbe origine la città di Napoli), presso il cui sepolcro nacqui (ebbi la cuna: ebbi la culla; Sorrento infatti sorge non lontano da Napoli). 14. a … percossa: al primo colpo della sorte avversa. 15. empia: perché non manifestò mai pie­ tas, compassione verso la sorte dell’autore. 16. pargoletto divelse: riferimento biografico molto preciso: Tasso aveva dieci anni quando dovette seguire il padre e abbandonare a Sorrento la madre che non rivide più. Letteralmente: mi strappò bambino. 17. degli ardenti … fugaci: delle suppliche­ voli preghiere e delle promesse di ritorno che furono portate via dal vento fugace. 18. ch’io … volto: perché io ero destinato a non congiungere più il mio volto (non … giunger più … volto) al suo. Porzia de’ Rossi, madre del poeta, morì pochi anni dopo la partenza del figlio. 19. mal sicure piante: con passo esitante (e per la giovane età e perché non pienamente persuaso di seguire il padre). 20. qual … errante: l’autore paragona se stesso al giovane figlio di Enea, Ascanio, che seguì le peregrinazioni del padre da Troia al Lazio, e a Camilla, la vergine guerriera ricordata da Virgilio nell’Eneide, che seguì il padre Mètabo, re dei Volsci, esule da Priverno. Errante è definito il padre di Tasso perché girò di corte in corte.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

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In aspro essiglio e ’n dura povertà crebbi in quei sì mesti errori21; intempestivo senso ebbi a gli affanni22: ch’anzi stagion, matura l’acerbità de’ casi e de’ dolori in me rendé l’acerbità de gli anni23. L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni narrerò tutti24. Or che non sono io tanto ricco de’ propri guai che basti solo per materia di duolo?25 Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?26 Già scarsi al mio voler sono i sospiri, e queste due d’umor sì larghe vene27 non agguaglian le lagrime e le pene28. Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri, egro e morto ti piansi29, e ben tu il sai, e gemendo scaldai la tomba e il letto30: or che ne gli alti giri tu godi31, a te si deve onor, non lutto: a me versato il mio dolor sia tutto32... [non finita]

21. mesti errori: triste peregrinare. 22. intempestivo … affanni: ebbi una pre­ coce conoscenza del dolore. 23. ch’anzi … anni: prima del tempo, infatti, l’asprezza delle vicende e dei dolori mi rese

maturo. Acerbità ha il duplice significato di asprezza (al v. 45) e immaturità (v. 46). 24. L’egra … tutti: racconterò i torti subiti da mio padre e la sua vecchiaia malata (egra) e priva di conforto.

25. Or … duolo?: forse che io non sono ab­ bastanza ricco di guai da bastare da solo co­ me argomento di dolore? 26. Dunque … pianto?: dunque qualche altro deve essere oggetto di pianto oltre me? 27. queste … vene: sono gli occhi, definiti generose fonti (vene) di pianto (umor). 28. non … pene: non sono capaci di versare tante lacrime quante sono sufficienti a pareg­ giare le mie pene. 29. egro … piansi: ti piansi quando eri ma­ lato e poi dopo la morte. 30. gemendo … letto: con le mie lacrime scaldai prima il letto (dove giacque il padre malato) e poi la tomba. L’inversione logica dei due momenti si chiama hýsteron próteron. 31. alti … godi: sei beato nel più alto dei cieli. 32. a me … tutto: il mio dolore sia ora tutto rivolto a piangere la mia vita angosciosa.

pesare le parole Errori (v. 42) > Deriva

dal latino erròrem, dal verbo erràre, “vagare qua e là senza meta”, ma anche “sbagliare”. Qui il sostantivo conserva il senso latino di “peregrinazioni”; nella lingua attuale invece è più comune l’altro senso fondamentale, “sbaglio, allontanamento dal vero, dal giusto, dalle norme” (es. errore di latino, di ortografia,

di interpretazione, di distrazione). Errore può altresì essere sinonimo di “colpa, peccato” (es. sconta ora gli errori di gioventù). I sensi “sbaglio” e “colpa” sono in fondo figurati: l’immagine sottintesa è che commettere errori è allontanarsi dalla via giusta.

Analisi del testo

> La prima strofa

L’opposizione «fugace peregrino», «sicurezza» e «riposo»

La canzone si avvia secondo moduli encomiastici, con l’esaltazione della Quercia, stemma della casata dei della Rovere, ma prende subito una diversa direzione, spostandosi su temi più soggettivi e autobiografici, con accenti di estrema intensità patetica. Si delinea sin dall’inizio un’opposizione che percorrerà poi tutto il testo: si staglia innanzitutto la figura del poeta come «fugace peregrino» (v. 4), si propone cioè l’immagine dell’esule perseguitato dalla fortuna che Tasso ama offrire di sé (si veda il «peregrino errante» del Proemio alla Gerusalemme, T4, p. 587). Alla vita errabonda e precaria si contrappongono invece la «sicurezza» e il «riposo» che il poeta spera di ottenere grazie alla protezione del duca di Urbino (v. 6). 563

L’età della Controriforma

La quercia simbolo materno

La forza ostile della Fortuna

L’immagine araldica della Quercia sembrerebbe a tutta prima rispondere a una pura funzione encomiastica, ma in realtà si carica di sensi più profondi: essa diviene la trascrizione concreta ed emblematica della sicurezza e del riposo, del polo positivo dell’opposizione. L’albero, fecondato dall’acqua del fiume, che allarga i rami abbracciando mari e monti e ricopre il poeta con la sua ombra ospitale (v. 10), è un’immagine che evoca l’idea di un recesso amico, avvolgente, che chiude e protegge: si presenta insomma come chiaro simbolo materno, è il grembo in cui regredire per sfuggire ad una realtà minacciosa e aggressiva. La forza esterna negativa da cui l’ombra accogliente dell’albero materno deve proteggere è la Fortuna, che si delinea in immediata contrapposizione: «sì ch’io celato sia da quella cruda / e cieca dèa, ch’è cieca e pur mi vede» (vv. 14-15). La Fortuna evoca subito un’idea di instabilità, imprevedibilità, precarietà, quindi riprende l’immagine iniziale del «peregrino». L’opposizione si ripete ancora nella chiusura della strofa: si ha dapprima il motivo della cavità in cui “appiattarsi” (la «valle», v. 16), che richiama i rami della quercia, e quello della notte («notturno io mova», v. 18), che riprende l’ombra dell’albero, poi l’immagine della Fortuna ostile che «saetta» il poeta (vv. 19-20). L’insistenza sull’opposizione rivela come qui Tasso lavori su un nodo profondo e centrale della sua esperienza interiore.

> La seconda strofa L’uscita dolorosa dal grembo materno

La regressione alla condizione prenatale e il vagheggiamento della morte

L’insistenza sul tema della madre

Nella seconda strofa ritornano gli stessi termini in opposizione, ma si manifesta un movimento in senso contrario rispetto a quello che percorre la strofa precedente. Se nella strofa iniziale il poeta aspira a rifugiarsi nel chiuso protettivo dell’ombra per sfuggire alla forza crudele che lo spinge a errare, qui invece, a ritroso, depreca la nascita come un uscire dal grembo materno alla luce, un essere esposto senza protezione («in questa luce a me non mai serena», v. 23) all’aggressione della Fortuna, forza malvagia a capricciosa («fui de l’ingiusta e ria / trastullo e segno», vv. 24-25). L’affiorare del motivo della nascita, in posizione simmetrica rispetto ai rami della quercia e all’ombra, esplicita il significato profondo che quei due elementi possedevano, il loro carattere di rassicuranti immagini del grembo materno. L’immagine è subito ripresa da quella della «cuna», che ha un valore simbolico analogo (v. 28). Ma è significativo l’accostamento con la «tomba» e la «fossa» («così avuto v’avessi o tomba o fossa / a la prima percossa!», vv. 29-30): il tornare nell’utero materno è equiparato al morire, all’essere accolto nel grembo della terra. La ricerca dell’ombra, dello spazio chiuso e protettivo, non è solo volontà di regressione alla condizione prenatale, ma anche vagheggiamento della morte, vista come approdo consolante, liberazione dagli affanni dell’esistenza e dalle persecuzioni della Fortuna. Il motivo dell’essere strappato dolorosamente alla madre e dell’essere scagliato inerme e indifeso in un mondo ostile e aggressivo è ripreso subito dopo: l’«empia fortuna» «divelse» il poeta dal «sen de la madre» ancora in tenera età (vv. 31-32). Questa insistenza sul tema della madre conferma ancora una volta la qualità di simbolo materno che è proprio della quercia, l’immagine da cui prende le mosse la canzone, che nell’opposizione fondamentale occupa una posizione omologa. Ma diversa è la collocazione temporale: il grembo materno si situa in un passato nostalgicamente rimpianto, la quercia in un futuro sperato; la protezione del principe è quindi il vagheggiato risarcimento del grembo materno perduto. La strofa si chiude proponendo il polo negativo dell’opposizione, con l’immagine del «padre errante» (v. 40), che riprende nuovamente il «fugace peregrino» dell’inizio.

> La terza strofa

L’apertura dell’ultima strofa ribadisce immediatamente questo motivo («In aspro essiglio e ’n dura / povertà crebbi in quei sì mesti errori», vv. 41-42). L’opposizione di fondo si manifesta nel proporre il motivo della “durezza” («aspro», «dura», «acerbità»), che allude all’ostilità aggressiva della Fortuna, in contrasto con la “mollezza” che connota la figura materna, i suoi baci e i suoi abbracci.

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Capitolo 3 · Torquato Tasso La figura paterna

Si riaffaccia infine la figura paterna, che però ha una valenza diversa rispetto alla strofa precedente: non si tratta più del padre vivo, «errante» per colpa della Fortuna, ma del padre ormai in cielo, che offre quindi un’immagine di stabilità, rassicurante e protettiva. Ma il frammento si interrompe sull’immagine negativa del poeta che, in contrapposizione al padre, si presenta come perseguitato e afflitto dalla sofferenza («a me versato il mio dolor sia tutto», v. 60).

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Da chi o da che cosa intende fuggire il poeta? Come viene descritta questa forza ostile? > 2. Riassumi il contenuto della II e III stanza. AnALizzAre

> 3.

Stile La canzone è un esempio di lirica sublime, caratterizzata da uno stile grave, attraverso un uso insistito delle figure retoriche: rintracciale nei seguenti esempi tratti dalla I stanza, secondo l’esempio proposto.

figura retorica

descrizione

apostrofe ..........................................................................................

«O del grand’Apennino / figlio picciolo sì, ma glorïoso»

..........................................................................................

«cortesi amiche»

..........................................................................................

«L’alta Quercia»

..........................................................................................

«L’ombra sacra, ospital»

..........................................................................................

«quella cruda / e cieca dèa»

..........................................................................................

«ch’è cieca e pur mi vede»

..........................................................................................

«mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali»

Approfondire e inTerpreTAre

> 4.

Scrivere Rifletti in circa 10-12 righe (500-600 caratteri) sul quadro storico-sociale rispecchiato in questa canzone (sia nella vicenda del poeta sia in quella del padre), soffermandoti sul rapporto tra intellettuale e potere nella seconda metà del Cinquecento.

5 Il genere della favola pastorale

Testi Il paradiso degli amori infantili dall’Aminta

La produzione drammatica L’Aminta

Videolezione

L’Aminta è un testo drammatico che si colloca in un preciso genere, quello della favola pastorale, affermatosi particolarmente a Ferrara intorno alla metà del XVI secolo, che metteva in scena vicende ambientate nel mondo dei pastori (“favola” ha il senso del latino fabula, testo drammatico, cioè destinato alla rappresentazione scenica); d’altro lato però riprende una lunga tradizione di poesia pastorale, che ha alle origini i poeti classici, Teocrito e Virgilio, ed ha ampi sviluppi nella letteratura cortigiana del Quattro e Cinquecento, con Poliziano, Lorenzo de’ Medici, Sannazaro. Scritta nel 1573, la favola fu rappresentata nell’estate nei giardini dell’isola del Belvedere, sul Po, che era un luogo di delizie della corte estense, e fu pubblicata solo alquanto più tardi, nel 1580. Dal punto di vista formale il genere della favola pastorale è qualcosa di diverso dagli altri generi drammatici tradizionali, la commedia e la tragedia: dalla commedia differisce in quanto non presenta situazioni comiche collocate in un contesto cittadino contemporaneo realisticamente rappresentato, ma temi seri, patetici e sentimentali, ambientati in un mondo favoloso; differisce peraltro anche dalla tragedia in quanto non raggiunge il livello sublime nei personaggi e nello stile e si conclude col lieto fine anziché con la catastrofe. 565

L’età della Controriforma

L’ambivalenza verso la corte

La componente edonistica e voluttuosa

Lo stile

L’Aminta è un testo teatrale, fondato sul dialogo, però, in obbedienza ad una diffusa convenzione, nessuno degli episodi principali dell’azione si svolge direttamente sulla scena e tutto viene raccontato dai vari personaggi: si tratta quindi di una drammaticità affidata alla parola più che all’azione, sicché il testo assume più una dimensione narrativa e lirica. Si tratta di un’opera scritta per un divertimento di corte, e all’ambiente cortigiano ammicca continuamente, in quanto dietro ai pastori sono facilmente riconoscibili personaggi della corte ferrarese, ad esempio Tasso stesso nelle vesti di Tirsi, Giovan Battista Pigna sotto quelle di Elpino. Ne nasce una sottile ambiguità: da un lato l’opera si propone di idealizzare e celebrare la vita di corte, dall’altro rivela una profonda insofferenza per i suoi rituali, le sue ipocrisie e convenzioni, i suoi sordi conflitti interni, le gelosie, le invidie, i rancori, insofferenza che si traduce in un bisogno di vita semplice, di sentimenti e comportamenti spontanei a contatto e in armonia con la natura, in un bisogno di evasione in un mondo di favola, fuori della realtà e della storia. Vi si coglie cioè quell’atteggiamento ambivalente verso la corte che era proprio dell’anima tormentata e intimamente conflittuale del poeta. L’evasione fantastica si associa al vagheggiamento di una mitica stagione di libertà totale dei sensi, in cui l’amore è innocente e felice, sgombro di ogni senso di colpa e di peccato. Affiora in Tasso una componente edonistica, voluttuosa, naturalistica e paganeggiante, che collega ancora il poeta al clima del pieno Rinascimento, ma che si accompagna a un senso doloroso di impossibilità e di irraggiungibilità, alla consapevolezza di una perdita irreparabile del libero godimento, in un’età ormai dominata da un rigido senso dell’onore e dall’etichetta cortigiana, e si traduce in accenti di languido, struggente abbandono nostalgico, di mesta contemplazione della precarietà del piacere e della bellezza. Lo stile adottato dal poeta, in ossequio alle leggi del genere pastorale, è volutamente semplice, percorso da una vena melodica scorrevole e un po’ facile, che dissimula però un sapiente gioco letterario nella costruzione del verso, nel ritmo degli accenti, nell’uso delle immagini.

il Galealto e il Re Torrismondo Negli anni ferraresi, fecondi di esperienze, Tasso tenta vari generi letterari: oltre al poema epico e alla favola pastorale, si rivolge al genere drammatico per eccellenza, quello consacrato dalla riflessione aristotelica nella Poetica: la tragedia. Nel 1573-74 inizia una tragedia intitolata Galealto re di Norvegia, ma la lascia interrotta alla scena IV dell’atto II; dopo la liberazione da Sant’Anna la riprende e la conclude, cambiando

L’opera

L’Aminta di Torquato Tasso La vicenda, distribuita in cinque atti in versi endecasillabi alternati in vari modi con settenari, si incentra su un rapporto d’amore difficile, funestato da un doloroso equivoco, che però si risolve felicemente. Il pastore Aminta ama sin dalla fanciullezza la ninfa Silvia, ma questa, secondo uno schema abituale della poesia pastorale, è ritrosa all’amore e si dedica soltanto alla caccia. Dafne, amica di Silvia ed esperta conoscitrice della passione amorosa, consiglia al giovane di recarsi ad una fonte dove Silvia è solita bagnarsi e dove egli potrà tentare di vincerne le ripulse. Un satiro sorprende Silvia alla fonte e le userebbe violenza, se Aminta non sopraggiungesse in tempo a liberarla.

566

Silvia tuttavia, chiusa nel suo disdegno dell’amore, anziché essere grata al suo salvatore fugge nel bosco. Viene ritrovato un velo della fanciulla sporco di sangue, e ciò fa credere che sia stata sbranata dai lupi. Aminta, disperato, cerca la morte e si getta da un dirupo. Silvia in realtà è viva, e quando apprende che Aminta si è ucciso per il dolore della sua presunta morte è presa dal rimorso e non contrasta più l’amore che già era germogliato in lei: corre a cercare l’amato e si getta piangendo sul suo corpo. Però Aminta non è morto, perché la sua caduta era stata attutita da un cespuglio sporgente dalla rupe: al pianto di Silvia riprende i sensi, e la vicenda si conclude lietamente con il matrimonio dei due giovani.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

La vicenda

Il modello classico

Linguaggio spezzato e ruvido

T3

il nome dei personaggi e dandole un nuovo titolo, Re Torrismondo. L’opera viene stampata a Bergamo nel 1587. L’intricata vicenda si svolge in paesaggi nordici aspri e tempestosi e si incentra sul motivo classico dell’incesto. Re Torrismondo possiede l’amata Alvida senza sapere che è sua sorella. Quando viene ad apprendere la verità prega Alvida di accettare in sposo l’amico Germondo che la ama, ma la fanciulla, credendosi tradita, si uccide, e sul suo corpo si dà la morte anche Torrismondo. Il testo mira a riprodurre gli schemi della tragedia classica, specie dell’Edipo re di Sofocle, obbedendo puntualmente ai precetti di Aristotele, ma risente particolarmente del gusto diffuso nel secondo Cinquecento per una materia torbida e cupa, sconvolta da passioni di feroce e barbarica violenza. Se l’Aminta rappresentava il vagheggiamento dell’illusione giovanile d’amore, il Torrismondo segna il crollare di quella illusione, la vanità di ogni speranza di fronte alla morte e al nulla. E se nella favola pastorale il linguaggio fluiva con musicale scorrevolezza, qui prevale una lingua rotta e aspra, tutta punteggiata da esclamazioni e interrogazioni.

«S’ei piace, ei lice» dall’Aminta, coro dell’atto I

Temi chiave

• il rimpianto dell’età dell’oro • la polemica anticortigiana • l’invito a godere delle gioie presenti • il senso della precarietà dell’esistenza

Nell’Aminta ai personaggi della vicenda drammatica si affianca un coro, formato anch’esso da pastori, che interviene in più punti nel dialogo stesso e, al termine di ogni atto, introduce in forma lirica un commento sugli avvenimenti. La funzione del coro nella favola tassiana riprende per certi aspetti quella del coro nella tragedia greca, viene cioè a costituire una sorta di pubblico ideale, che interpreta e guida le reazioni del pubblico reale che assiste alla rappresentazione.

> Metro: cinque stanze di endecasillabi e settenari; schema delle rime: abCabCc deeDfF; congedo XyY (è lo schema metrico della canzone).

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O bella età de l’oro, non già perché di latte sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco; non perché i frutti loro dier da l’aratro intatte le terre, e gli angui errâr senz’ira o tosco; non perché nuvol fosco non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; né portò peregrino o guerra o merce a gli altrui lidi il pino1;

1. O bella … il pino: o bella età dell’oro, bella non tanto (già) perché scorrevano fiumi di lat­ te, dagli alberi trasudava il miele (stillò mele il bosco), le terre producevano spontaneamen­ te, senza bisogno di essere dissodate con l’ara­ tro (da l’aratro intatte), i serpenti (angui) strisciavano (errâr) senza aggressività e privi di veleno (senz’ira o tosco), non perché nuvo­ le nere non oscuravano il sole (nuvol … velo),

ma il cielo, che ora si scalda d’estate (s’accende) e gela d’inverno (verna), splendeva (rise) luminoso e sereno in un’eterna primavera, né, infine perché le navi (peregrino … pino: iperbato e sineddoche) portassero in lidi lon­ tani guerra o mercanzie. Nel citare i luoghi comuni della celebrazione dell’età dell’oro, Tasso rende omaggio alla tradizione autorevole dei classici, ma al tempo stesso se ne

discosta, negandola: il mito dell’età dell’oro viene così rinnovato. Ad una serie di causali negative, volte a confutare le ragioni in base alle quali tale età veniva esaltata (vv. 656668), segue, dal verso 669, una causale positiva che contiene l’innovazione tassiana del mito, ovvero l’esaltazione del piacere contrapposto all’onore, che esprime un valore in netta opposizione con quelli vigenti nella società cortigiana del tempo. Né portò … il pino: motivo comune della poesia bucolica fu l’attribuzione di connotati negativi (come l’aggressività, il desiderio di lucro, l’introduzione di bisogni superflui e del lusso che infiacchiva gli animi) alla navigazione.

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ma sol perché quel vano nome senza soggetto2, quell’idolo d’errori, idol d’inganno3, quel che dal volgo insano4 onor poscia fu detto, che di nostra natura ’l feo5 tiranno, non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze de l’amoroso gregge6; né fu sua dura legge nota a quell’alme in libertate avvezze7, ma legge aurea e felice che natura scolpì: S’ei piace, ei lice8. Allor tra fiori e linfe traen dolci carole9 gli Amoretti senz’archi e senza faci10; sedean pastori e ninfe meschiando a le parole vezzi e susurri, ed a i susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude scopria sue fresche rose, ch’or tien nel velo ascose11, e le poma del seno acerbe e crude12; e spesso in fonte o in lago scherzar si vide con l’amata il vago13. Tu prima, Onor, velasti la fonte de i diletti14, negando l’onde a l’amorosa sete15; tu a’ begli occhi insegnasti di starne in sé ristretti16, e tener lor bellezze altrui secrete17; tu raccogliesti in rete18 le chiome a l’aura sparte19; tu i dolci atti lascivi festi ritrosi e schivi20; a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte21; opra è tua sola, o Onore, che furto sia quel che fu don d’Amore22.

2. quel … soggetto: nome vano, senza con­ tenuto, convenzionale. È formula petrarchesca (Canzoniere, CXXVIII, vv. 76 e ss.). 3. idol d’inganno: «falsa divinità che conduce all’errore e all’inganno» (Guglielminetti). 4. volgo insano: popolo ignorante. 5. ’l feo: lo rese. 6. l’amoroso gregge: le schiere di amanti,

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definiti gregge per l’assenza di qualsiasi principio di organizzazione sociale. 7. avvezze: abituate. 8. S’ei … lice: se piace è lecito. 9. carole: danze. 10. senz’archi … faci: senza archi e senza fiaccole (i tradizionali strumenti del dio Amore); non c’era bisogno di questi strumenti perché l’amore nasceva spontaneo.

11. la verginella … ascose: le fanciulle esibi­ vano senza veli le loro bellezze che ora sono occultate dagli abiti. 12. acerbe e crude: con immagine consueta i piccoli seni sono paragonati a mele acerbe. 13. il vago: l’amante. 14. la fonte de i diletti: le bellezze del corpo, da cui derivano i piaceri amorosi. 15. l’onde … sete: la soddisfazione al desi­ derio d’amore (onde, acqua). 16. in sé ristretti: pudicamente abbassati. 17. altrui secrete: nascoste ad altri. 18. in rete: acconciature castigate. 19. le chiome … sparte: i capelli sciolti al vento. È espressione petrarchesca (Canzo­ niere, XC, v. 1). 20. i dolci … schivi: rendesti improntati al pudore i dolci atti amorosi. 21. a i detti … l’arte: sottoponesti la conver­ sazione e l’incedere ad un rigido codice, im­ prontato al ritegno e all’artificio. 22. opra … d’Amore: è solo colpa tua, o Onore, se i doni concessi da Amore sono di­ ventati furti, oggetti desiderati da rubare di nascosto.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

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E son tuoi fatti23 egregi le pene e i pianti nostri. Ma tu, d’Amore e di Natura donno24, tu domator de’ Regi25, che fai tra questi chiostri26 che la grandezza tua capir non ponno27? Vattene, e turba il sonno a gl’illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa viver ne l’uso de l’antiche genti28. Amiam, che non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua29. Amiam, che ’l Sol si muore e poi rinasce: a noi sua breve luce s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce30.

23. fatti: imprese. 24. donno: dal latino dominus, signore. Si rivolge sempre all’Onore personificato.

25. domator de’ Regi: che hai soggiogato i re. 26. chiostri: i boschi abitati dai pastori. 27. capir … ponno: non possono contenere.

28. noi … genti: i pastori, lontani dal lusso delle corti, chiedono di poter continuare ad osservare i loro antichi e semplici costumi. 29. Amiam … si dilegua: l’esortazione nasce dalla consapevolezza della fugacità e irripetibilità della vita. 30. Amiam … adduce: la chiusa ribadisce il concetto espresso precedentemente, modulandolo sui versi del carme V di Catullo, che viene quasi tradotto alla lettera: «I soli possono tramontare e risorgere: noi, quando sarà tramontata la nostra breve luce, dovremo dormire un’unica eterna notte» (carme V, vv. 4-6).

Analisi del testo L’età dell’oro

La libera affermazione del piacere

Dall’edonismo rinascimentale al moralismo della Controriforma Il divieto sociale: l’«onore»

> La nostalgia dell’edonismo rinascimentale

Il tema centrale del coro è il rimpianto per la scomparsa dell’età dell’oro, della quale resta ormai solo un ultimo, precario vestigio, rappresentato dal semplice ambiente dei pastori. La prima strofa richiama tutti gli elementi che costituiscono l’immagine dell’età dell’oro quale è stata fissata dai poeti classici, Virgilio, Orazio, Tibullo, ma il poeta mette in secondo piano questi aspetti: l’elemento per lui veramente caratterizzante l’età dell’oro è la libera affermazione dell’istinto erotico, il trionfo del piacere dei sensi senza divieti e costrizioni. È facile vedere come questa immagine che Tasso delinea della libertà amorosa primitiva coincida pienamente con la visione naturalistica ed edonistica del Rinascimento, quella che abbiamo imparato a conoscere sin dalle novelle di Boccaccio. In Tasso vi è una struggente nostalgia per quella pienezza vitale, il desiderio di potersi ancora collocare entro quel vagheggiato e idealizzato orizzonte di cultura, ma, accanto a tale atteggiamento, vi è anche la chiara e dolente consapevolezza della perdita definitiva di quella gioiosa libertà. È la consapevolezza del fatto che una stagione della civiltà è finita e che la realtà è ormai regolata da leggi diverse, più dure, che inibiscono la gioia e generano sofferenza e pena («le pene e i pianti nostri», v. 709). In effetti, storicamente, al libero edonismo della civiltà rinascimentale era subentrato il clima religiosamente austero della Controriforma, con il suo rigido moralismo. Ma, si noti bene, Tasso non fa alcun cenno a leggi etico-religiose che inibiscano la libertà dei sensi. Non è il peso dei divieti controriformistici che il poeta contrappone al gioioso edonismo rinascimentale. D’altronde ciò sarebbe stato impossibile nell’età dell’Inquisizione. Ma non dobbiamo neppure pensare che Tasso escluda questo aspetto per paura o per una deliberata scelta opportunistica, per non incorrere nei rigori dell’autorità ecclesiastica. Un atteggiamento di aperta critica o di ribellione è semplicemente inconcepibile per lui, del tutto ossequioso verso l’autorità, ispirato da una sincera volontà di assoluto conformismo. Perciò l’idea del divieto religioso è rimossa, non è neppure presa in considerazione tra le cause che hanno determinato la fine dell’età del libero godimento sensuale. La colpa è attribuita a fattori esclusivamente 569

L’età della Controriforma

sociali: all’«onore», quell’insieme di norme e convenzioni che presiedono alla vita associata degli uomini, vietando determinati comportamenti e imponendone altri. Per il poeta è il principio dell’onore che ha indotto gli uomini a perdere la primitiva innocenza e a vergognarsi del corpo, a nascondere le sue bellezze, impedendo così lo spontaneo soddisfacimento del desiderio e sostituendo alla spontaneità l’artificio. Ciò ha segnato la fine dell’innocenza gioiosa e il nascere della sofferenza e del dolore.

L’«onore» e la corte

La polemica anticortigiana

> il mondo pastorale e la corte

Questo «onore» non è però una norma generica: Tasso lo collega con un preciso ambiente sociale, quello della corte. Ed in effetti la civiltà cortigiana del secondo Cinquecento, assai meno libera nei costumi di quella del pieno Rinascimento, aveva sviluppato un senso fortissimo dell’onore, delle convenienze sociali, dell’etichetta e dei formalismi del comportamento, che inibivano ogni agire spontaneo, costringendo la società di corte entro un sistema di norme rigide e tassative. Nel coro, dopo il rimpianto del mitico Eden, di una vita spontaneamente dedita al piacere, compare quindi una nota di aspra polemica anticortigiana (vv. 710-718). Sappiamo come l’atteggiamento di Tasso nei confronti della corte fosse ambivalente, diviso fra idealizzazione e insofferenza. L’insofferenza dava origine ad un impulso di evasione verso un ideale di vita diversa, semplice e conforme a natura, che si proiettava nel vagheggiamento del mondo umile e innocente dei pastori.

> L’invito edonistico

La malinconia per la precarietà dell’esistenza

Non si dimentichi che il mondo pastorale, nella tradizione letteraria quattro-cinquecentesca, era il luogo per eccellenza in cui si collocava l’edonismo naturalistico rinascimentale. Questo edonismo è esplicitamente rievocato nella chiusa del coro, nell’invito ad amare e a godere prima che la breve vita si dilegui e sprofondi nel sonno della morte. Vi è qui l’evidente echeggiamento di Catullo ( nota 30, p. 569), ma poi è presente anche il ricordo del Poliziano di I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino ( L’età umanistica, cap. 2, T3, p. 56), dell’invito a cogliere la rosa come simbolo delle gioie della giovinezza e dell’amore («sicché, fanciulle, mentre è più fiorita, / cogliàn la bella rosa del giardino»), e dell’analogo invito proposto da Lorenzo il Magnifico nel Corinto («Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo»). Ma rispetto ai poeti quattrocenteschi l’insistenza sul rapido dileguarsi del piacere e della gioia è intonata ad una malinconia più profonda e struggente. È questo un tema centrale della poesia tassiana, come ha mostrato Getto: il senso della precarietà dell’esistenza, la disillusione che inesorabilmente spegne il breve fiorire di un’illusione di vita e di gioia. Ma non è solo una condizione spirituale propria di Tasso: vi si riflette il clima culturale di tutta un’età, pervaso da un senso di crisi che dà origine a stanchezza, frustrazione, ripiegamento, e suggerisce note più dolenti e pessimistiche sulla condizione umana. L’edonismo libero e innocente ormai può essere solo vagheggiato come qualcosa di splendido e allettante ma remoto, definitivamente perduto, irraggiungibile.

> il rimando alla tradizione letteraria

Le citazioni dei classici

Il nuovo senso dell’imitazione

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Oltre che per questi aspetti per così dire “ideologici” il coro è ricco di significato anche sul piano formale. Continuo è il ricalco di moduli, immagini, stilemi consacrati dalla tradizione letteraria. Oltre a rimandi generici a un formulario tradizionale (ad esempio i vari aspetti dell’età dell’oro), il testo presenta un tessuto fitto di vere e proprie citazioni, direttamente ricavate da passi famosi di poeti precedenti (specie da Petrarca; e si è già visto come i tre versi finali siano una parafrasi da Catullo). Il coro è quindi frutto di un’operazione squisitamente letteraria, quasi letteratura che nasce da altra letteratura. Siamo ancora nell’ambito del principio di imitazione rinascimentale, di quel principio che le poetiche del tardo Cinquecento tendono a esaltare e a irrigidire. Ma in Tasso c’è qualcosa di più: è come se il poeta si aggrappasse alle forme consacrate per combattere un intimo senso di insicurezza, lo smarrimento dinanzi a una realtà che non appare più salda nelle sue certezze, ma percorsa da inquietanti incrinature. Il riproporre le forme tradizionali con assoluto, ostinato rigore acquista il senso di un esorcismo nei confronti di un’insidia ignota e incombente, di un vuoto che si spalanca e minaccia di inghiottire tutto un mondo.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Come si ricollega alla vicenda della favola pastorale l’argomento del coro? > 2. Indica sinteticamente le caratteristiche attribuite da Tasso all’età dell’oro. > 3. Le affermazioni «a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte» (v. 705) e «E son tuoi fatti egregi / le pene e i pianti nostri» (vv. 708-709) si ricollegano all’aspra polemica anticortigiana di Tasso? Motiva la tua risposta.

AnALizzAre

> 4.

Stile In quali strofe si può osservare un ricorso insistente all’anafora? Quale effetto fonico produce (considera che il coro è una parte lirica)? > 5. Stile Individua nel testo esempi di enjambement riferiti a sostantivi e aggettivi. > 6. Lessico Con quali vocaboli e/o espressioni il coro apostrofa duramente l’Onore? A quale campo semantico appartengono? > 7. Lingua Quale variazione nella funzione sintattica e nel significato presenta la parola turba ai versi 714 e 717?

Approfondire e inTerpreTAre

> 8.

Scrivere Spiega in circa 5 righe (250 caratteri) le ragioni, relative al contesto storico-lettarario in cui opera Tasso, della insistita ripresa da Petrarca.

per iL poTenziAMenTo

> 9. Testi a confronto Effettua un confronto con il coro del Pastor fido di Battista Guarini ( cap. 2, T1, p. 544), favola pastorale che riprende il modello tassiano, rilevando i precisi richiami tematici. Chiarisci quindi come alla maniacale imitazione del modello sul piano formale corrisponda un netto rovesciamento del messaggio ideologico e come tale rovesciamento rispecchi il nuovo clima morale imposto dalla Controriforma. > 10. Altri linguaggi: arte Analizza il dipinto – riferito al mito dell’età dell’oro e alla rappresentazione di un giardino che sembra richiamarsi al coro dell’Aminta – rispondendo alle seguenti domande. a) Quali caratteristiche dell’età dell’oro cantata da Tasso individui nella rappresentazione del giardino? b) Prova ad individuare nell’immagine la trattazione del tema dell’invito a cogliere la rosa, cioè a vivere la giovinezza che sfiorisce rapidamente.

Lucas Cranach il Vecchio, L’età dell’oro, 1530 ca., olio e tempera su tavola, Monaco, Alte Pinakothek.

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Incontro con l’Opera

6 Il Gierusalemme

La composizione del poema Le edizioni

La Gerusalemme liberata Genesi, composizione e prime edizioni

Videolezione

Come si è già accennato, la prima idea di comporre un poema epico sulla liberazione del Santo Sepolcro era venuta a Tasso a Venezia nel 1559, quando aveva solo quindici anni: tra il 1559 e il 1561 aveva composto le 116 ottave del Gierusalemme, in cui era descritto con slancio baldanzoso l’arrivo dei crociati in vista della città. L’ispirazione era però venuta ben presto a mancare e il giovanissimo poeta aveva abbandonato l’impresa. Tasso tornò al progetto tra il 1565 e il 1566, dopo l’arrivo a Ferrara. Dopo un’interruzione il lavoro riprese nel 1570 e fu portato a termine nell’aprile del 1575. Il poema uscì a Ferrara nel 1581, col titolo di Gerusalemme liberata (che rimase poi il titolo corrente). Più tardi, nel 1584, Scipione Gonzaga, letterato amico del Tasso, approntò una nuova edizione, che appare diversa dalla precedente per alcuni interventi di censura, operati sia dal curatore sia dall’autore stesso. Il poema riscosse subito grande successo, testimoniato dalle numerose ristampe che si susseguirono negli anni successivi. Il testo su cui esse si fondavano era quello del 1584, mentre oggi le edizioni critiche riproducono il testo non censurato del 1581.

i Discorsi dell’arte poetica Le riflessioni sulla poetica

Formatosi in un’età in cui dominava una concezione normativa e precettistica della letteratura e si affermavano rigide codificazioni, Tasso accompagnò costantemente la creazione poetica con la riflessione teorica. Probabilmente fin dal 1565, poco dopo l’arrivo a Ferrara, in concomitanza con la ripresa del poema, aveva elaborato tre Discorsi dell’arte poetica e in particolare del poema eroico, e li aveva poi letti pubblicamente tra il 1567 e il 1570 nell’Accademia ferrarese. Una prima pubblicazione di questi Discorsi, non da lui curata, avvenne molto più tardi, nel 1587. Più tardi ancora Tasso riprese questi discorsi, rimaneggiandoli e ampliandoli con un maggior peso di dottrina aristotelica, e li pubblicò nel 1594 come Discorsi del poema eroico. A parte la maggiore ampiezza e differenze particolari, le tesi di fondo tuttavia non mutano sostanzialmente.

La poetica: il verisimile, il giovamento e il diletto Mappa interattiva

Vero e verisimile

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Nelle sue teorizzazioni Tasso si preoccupa di delineare l’immagine di un poema «eroico», che si uniformi ai canoni della precettistica contemporanea e diverga dal modello del poema cavalleresco di Ariosto, ritenuto troppo libero e irregolare. Partendo da Aristotele, come è d’obbligo, Tasso afferma che mentre la storiografia tratta del “vero”, di ciò che è realmente avvenuto, la poesia tratta del “verisimile”, di ciò che sarebbe potuto avvenire. Il poema epico, per ottenere l’effetto del verisimile, deve trarre materia dalla storia, la sola che può dare la necessaria autorità a ciò che viene narrato, ma, proprio per distinguersi dalla storiografia, deve riservarsi un margine di finzione. Perciò non deve assumere una materia troppo vicina, che impedirebbe l’in-

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Testi La storia, il verisimile, il meraviglioso dai Discorsi dell’arte poetica

La conciliazione dell’“utile” e del “dilettevole”

Il meraviglioso cristiano

tervento creativo del poeta, e neppure una materia troppo remota, che risulterebbe estranea al lettore. Le teorie contemporanee, pervase dallo spirito della Controriforma, assegnavano alla poesia compiti morali e pedagogici. Tasso però riconosce che la poesia non può essere separata dal diletto, come affermavano le poetiche edonistiche del pieno Rinascimento. Per conciliare l’antitesi, afferma che il diletto deve essere finalizzato al giovamento: le bellezze poetiche devono rendere gradevole al lettore l’astratta e arida materia morale e religiosa (in questo riprende, adattandolo alle esigenze moralistiche della Controriforma, l’antico precetto oraziano che invitava a mescolare l’«utile» con il «dolce»). Il diletto è assicurato dal “meraviglioso”. Tasso tuttavia respinge il meraviglioso fiabesco e fantastico del romanzo cavalleresco, poiché comprometterebbe irreparabilmente il verisimile, mentre il meraviglioso del poema eroico col verisimile deve potersi conciliare perfettamente. La soluzione proposta dal poeta è il meraviglioso cristiano: gli interventi soprannaturali di Dio, degli angeli, ma anche delle potenze infernali, che appaiono verisimili al lettore in quanto fanno parte delle verità della fede.

La poetica: unità e varietà, lo stile sublime Il rifiuto del modello ariostesco

La conciliazione tra varietà e unità

Testi Unità e varietà del poema «eroico» dai Discorsi dell’arte poetica

Lo stile sublime

Tasso affronta poi il problema della costruzione formale del poema eroico. Respinge anche per questo aspetto il modello ariostesco, caratterizzato dalla molteplicità delle azioni tra loro intrecciate, che comprometterebbero il principio irrinunciabile dell’unità dell’opera; d’altro lato però riconosce che la varietà è indispensabile al diletto. Anche in questo caso, dinanzi ad un’antitesi, arriva ad una conciliazione: il poema deve essere vario, deve contenere le realtà più diverse, battaglie, amori, tempeste, siccità ecc., ma il tutto deve essere legato in una struttura rigorosamente unitaria. In un passo famoso dei Discorsi, paragona il poema al mondo, che al suo interno presenta un’infinita e mirabile varietà di aspetti, ma reca l’impronta della mente ordinatrice e unificatrice di Dio. Infine Tasso tratta il problema dell’elocuzione, dello stile. Dei tre livelli indicati dalla tradizione retorica classica, sublime, mediocre e umile, quello che conviene al poema eroico è senza dubbio quello sublime. Lo stile deve avere «lo splendore di una meravigliosa maestà». I concetti devono riguardare le cose più grandi, Dio, gli eroi, le gesta straordinarie. Le parole devono essere «peregrine», lontane dall’uso comune, pur senza cadere nell’oscurità. La sintassi «avrà del magnifico se saranno lunghi i periodi e lunghi i membri de’ quali il periodo è composto». Fonte di magnificenza dello stile è anche l’«asprezza», ottenuta col «parlar disgiunto», spezzature e pause all’interno del verso, enjambements, scontri di consonanti e vocali.

L’argomento e il genere La materia storica

Il meraviglioso

L’attualità della crociata

La scelta dell’argomento del poema risponde puntualmente ai princìpi che Tasso enuncia nei Discorsi dell’arte poetica. Egli abbandona i temi cavallereschi e romanzeschi adottati da Ariosto, provenienti dal patrimonio delle leggende carolinge, e si rivolge ad una materia storica (la conquista del Santo Sepolcro ad opera dei crociati nel 1099), la sola che possa garantire la verosimiglianza richiesta dalle leggi del poema eroico. L’argomento della prima crociata consente anche di introdurre nel poema un meraviglioso che sia verisimile e credibile, a differenza di quello fiabesco dei romanzi, fatto di cavalli volanti e armi fatate: un meraviglioso che proviene dal soprannaturale cristiano, l’intervento del cielo in soccorso dei crociati e dell’inferno ad ostacolarli nella loro impresa. Inoltre è una materia storica abbastanza lontana nel tempo da consentire al poeta un margine di libertà nell’invenzione poetica, nel «fingere», ma anche abbastanza vicina da interessare il pubblico moderno. La necessità di una nuova crociata era un motivo che si era affacciato nella cultura occidentale sin dalla conquista turca di Costantinopoli (1453), ma era diventato di estrema 573

L’età della Controriforma

I modelli classici

Il fine didascalico e pedagogico

attualità con l’avanzata dei turchi nel Mediterraneo nel secondo Cinquecento, con le incursioni dei pirati barbareschi che mettevano in pericolo le coste dell’Italia e i commerci, e soprattutto con la battaglia di Lepanto (1571), in cui le potenze cristiane coalizzate avevano sconfitto la flotta turca. La materia trattata da Tasso non è quindi costituita da belle favole collocate in un tempo mitico, in cui il lettore si possa perdere in una deliziosa evasione, ma da una storia vera, seria, che deve stimolare la coscienza cristiana del pubblico dinanzi a problemi di grande urgenza, e, narrando lo scontro tra fedeli e infedeli con la vittoria della croce, spingere l’Occidente cristiano ad una riscossa. Da queste scelte deriva al poema una fisionomia ben diversa da quella del genere “romanzesco”, a cui appartenevano i capolavori di Boiardo e Ariosto. Anziché ai poemi moderni Tasso guarda al modello dei poemi epici classici, l’Iliade, l’Eneide. Come Tasso stesso lo definisce, il poema eroico è imitazione «d’azione illustre, grande e perfetta tutta; narrando con altissimo verso, a fine di muovere gli animi con la meraviglia, e di giovare in questa guisa». Il poema abbandona quindi il tono “medio” del Furioso e, in obbedienza alla poetica enunciata nei Discorsi prima esaminati, punta decisamente verso il sublime, nell’argomento come nello stile, che è lontano da ogni caduta verso il realistico quotidiano e verso il comico così come da ogni mossa colloquiale del linguaggio. Oltre all’intento celebrativo delle idealità religiose, della maestà della Chiesa e dell’eroismo guerriero, il poeta mira scopertamente ad un fine didascalico e pedagogico. Le bellezze poetiche servono solo ad allettare chi legge e a disporlo ad assimilare agevolmente la lezione morale di cui il testo è veicolo, come i «soavi licor» di cui si cospargono gli orli del vaso per indurre il fanciullo malato a bere l’amara medicina ( T4, p. 587).

L’organizzazione della materia

La struttura unitaria e chiusa

Questa tensione verso il sublime eroico e questa serietà di intenti moralistici danno luogo ad una struttura formale molto diversa da quella del “romanzo” cavalleresco. Questo era caratterizzato da una pluralità di eroi e di azioni, che si alternavano e si intrecciavano fra di loro dando origine ad una struttura narrativa aperta, che sembrava poter continuare all’infinito (benché già in Ariosto si potessero rilevare tendenze alla chiusura “epica” dell’intreccio, come a suo tempo abbiamo sottolineato). Tasso invece mira ad una rigorosa unità, secondo i precetti desunti da Aristotele e secondo quanto egli stesso teorizza nei Discorsi. Anche se la materia vuole essere varia, come si è visto, non vi è molteplicità di azioni ma un’azione unica, costituita dall’assedio di Gerusalemme e dalla conquista del Santo Sepolcro, e vi è un eroe centrale, Goffredo. È vero che a lui si affiancano molti altri eroi, spinti dall’amore o dal desiderio di gloria individuale ad allontanarsi dall’impresa, ma Goffredo riesce a contrastare queste tendenze disgregatrici, garantendo l’unità del campo cristiano e con essa l’unità della struttura del poema (su questo torneremo più ampiamente tra poco). Pertanto quella della Gerusalemme è una struttura chiusa, che ha un principio, un mezzo e una fine. L’azione del Furioso non ha inizio (tant’è vero che Ariosto riprende la narrazione interrotta da Boiardo) ed ha una fine solo parziale (la vittoria sui Mori, il matrimonio di Ruggiero), che non pregiudica la potenziale continuazione delle avventure dei cavalieri. La narrazione della Gerusalemme è invece tutta rigorosamente racchiusa entro i suoi termini estremi: tutto quanto precede l’arrivo dei crociati dinanzi a Gerusalemme non è rilevante per l’azione, e viene evocato solo di scorcio; dopo la conquista del Santo Sepolcro l’azione del poema non avrebbe più alcun motivo di continuare.

L’intreccio del poema La materia del poema è distribuita in venti canti, in ottave, il metro ormai tradizionale della poesia epico-narrativa italiana. Al sesto anno di guerra Dio, volgendo lo sguardo all’esercito crociato, vede i vari principi dimentichi del loro sacro obiettivo e 574

Capitolo 3 · Torquato Tasso

L’assedio a Gerusalemme e i primi scontri

Testi Satana: l’«orrida maestà» del grande ribelle dalla Gerusalemme liberata

Le insidie demoniache: Armida

La “pastorale” di Erminia

Tancredi prigioniero di Armida Solimano

L’assalto a Gerusalemme

Il duello tra Tancredi e Clorinda

impegnati solo a inseguire fini personali; manda quindi l’arcangelo Gabriele da Goffredo di Buglione, l’unico rimasto fedele alla sua missione, perché spinga i compagni al compimento dell’impresa. Goffredo viene eletto dai crociati capo supremo dell’esercito. I crociati muovono verso Gerusalemme e, giunti sotto le mura, dispongono l’assedio intorno alla città. Nascono i primi scontri, in cui si segnalano tra i cristiani Tancredi e Rinaldo, e tra i pagani la vergine guerriera Clorinda e il feroce Argante. Dall’alto delle mura la principessa Erminia, mostra ad Aladino, re di Gerusalemme, i più forti guerrieri cristiani. La fanciulla è segretamente innamorata di Tancredi, ma questi ignora il suo sentimento, ed ama a sua volta, non riamato, la pagana Clorinda. Satana vuole contrastare l’impresa dei crociati e manda in aiuto dei pagani le sue schiere di demoni. Strumento dei piani del demonio è anche la bellissima maga Armida, che, presentatasi nel campo cristiano, fa innamorare di sé i vari guerrieri, fingendosi un’infelice perseguitata. Dieci di essi sono estratti a sorte per riportarla sul trono di Damasco, da cui si dice scacciata, ma altri nottetempo lasciano il campo per seguirla. Armida li imprigiona tutti in un suo castello fatato sulle rive del Mar Morto. Nel frattempo anche Rinaldo deve lasciare l’esercito crociato perché in un diverbio ha ucciso Gernando, che lo aveva calunniato. Argante, impaziente degli indugi dell’assedio, vuol risolvere con un duello le sorti della guerra, e sfida i cristiani. Ad affrontarlo è prescelto Tancredi; il duello è accanito, ma viene sospeso e rinviato per lo scendere delle tenebre. Erminia vi ha assistito dall’alto delle mura e, angosciata per le ferite riportate dall’uomo amato, decide di portargli soccorso. Esce da Gerusalemme travestita con le armi di Clorinda ma, giunta già in vista delle tende cristiane, è sorpresa da una pattuglia di crociati ed è costretta alla fuga. All’alba seguente si risveglia in uno scenario idillico, e, incontrati alcuni pastori, decide di rifugiarsi tra di essi, fuggendo dalla guerra. Intanto Tancredi lascia il campo per inseguire quella che crede Clorinda, mentre è Erminia che ha indossato l’armatura della guerriera. Giunge anch’egli al castello di Armida e viene fatto prigioniero. In tal modo il campo cristiano si trova privato di tutti i suoi più validi guerrieri. Giunge al campo cristiano Carlo e narra che il re danese Sveno, che doveva giungere in soccorso con il suo esercito, è stato ucciso dal sultano dei turchi Solimano, che, cacciato dal suo regno dai cristiani, ha raccolto una schiera di predoni arabi. Si diffonde nel campo cristiano anche la notizia del ritrovamento del cadavere di Rinaldo. Solimano assalta nottetempo il campo cristiano; però le sorti della battaglia sono rovesciate dall’arrivo dei guerrieri cristiani prigionieri di Armida, tra cui Tancredi, che sono stati liberati da Rinaldo, erroneamente creduto morto per un inganno dei pagani. L’arcangelo Michele interviene a ricacciare i demoni nell’inferno. I cristiani scatenano l’assalto contro Gerusalemme, con l’aiuto di una grande torre mobile. La battaglia è interrotta dalle tenebre. Il vecchio tutore Arsete rivela a Clorinda le sue origini cristiane. L’eroina e Argante escono nottetempo dalle mura per incendiare la torre, che costituisce una seria minaccia per la città assediata. Compiuta l’impresa, Argante riesce a ricoverarsi entro le mura, mentre Clorinda ne rimane esclusa. Tancredi, senza riconoscerla perché non indossa la consueta armatura, la insegue e la sfida a duello. Clorinda, ferita a morte, chiede di essere battezzata. Tancredi, toltole l’elmo, scopre di avere ucciso la donna che ama. La disperazione lo conduce quasi alla morte, ma lo salva l’apparizione in sogno di Clorinda, ormai in cielo. Il mago Ismeno getta un incantesimo sulla selva di Saron, per impedire ai cristiani di fornirsi di legna e di costruire un’altra torre. I crociati che vi si avventurano sono fermati da terrificanti visioni. Anche Tancredi non riesce nell’impresa: colpito un albero con la spada, vede uscire da esso del sangue e ode la voce di Clorinda che lo rimprovera di straziarla ancora; come fuori di sé, fugge. Dio decide che è giunto il momento che le sorti della guerra debbano rovesciarsi in favore dei cristiani, e manda a Goffredo una visione, incitandolo a richiamare Rinaldo, l’unico guerriero che sia in grado di vincere l’incanto della selva, che è rimasto vittima delle arti della maga Armida ed è prigioniero del suo palazzo nelle isole Fortunate, nel mezzo dell’Oceano. 575

L’età della Controriforma

Rinaldo nel giardino di Armida

Testi La purificazione di Rinaldo • Rinaldo nella selva incantata dalla Gerusalemme liberata •

L’assalto finale a Gerusalemme

Vengono inviati alla sua ricerca Carlo e Ubaldo. Essi varcano il Mediterraneo e giungono alle isole Fortunate; qui, sulla cima di un impervio monte, sorge il palazzo incantato di Armida. Carlo e Ubaldo vi penetrano, dopo aver vinto mostri e insidie dei sensi, e scoprono Rinaldo ridotto a schiavo d’amore di Armida. Gli mostrano la sua immagine riflessa in un terso scudo e l’eroe, vergognoso della sua degradazione, si allontana dal giardino incantato. Armida, che si è innamorata di lui ed è disperata per essere stata abbandonata, per vendicarsi raggiunge l’esercito egiziano, che si è raccolto a Gaza preparandosi a sferrare l’attacco decisivo contro i crociati. Rinaldo sale all’alba sul monte Oliveto per purificarsi dalle sue colpe, poi rompe l’incantesimo della selva. Con l’aiuto di nuove macchine, comincia l’assalto finale a Gerusalemme. I crociati riescono a penetrare oltre le mura. Tancredi e Argante ingaggiano il loro duello decisivo in un luogo appartato, lontano dalla battaglia. La lotta è feroce: Argante è ucciso, ma anche Tancredi è quasi morente per le ferite. Viene trovato da Erminia, che lo cura e lo salva. L’esercito egiziano giunge sotto Gerusalemme, e ha inizio la battaglia finale. Solimano si getta nella battaglia, ma è ucciso da Rinaldo. Rinaldo ritrova Armida, che prima vuole ucciderlo, poi fugge e tenta il suicidio. L’eroe glielo impedisce. Goffredo uccide il capo dell’esercito egiziano, Emireno, e la battaglia ha termine. Goffredo può piantare il vessillo con la croce sulla città conquistata e sciogliere il voto adorando il Santo Sepolcro.

Gli intenti dell’opera La celebrazione della religione e del potere regale

L’adeguamento ai codici letterari

Con il suo poema, carico di intenti pedagogici, edificanti e morali, Tasso si presenta come il perfetto poeta cristiano, il cantore degli ideali della Controriforma che dominano la sua epoca. Vuol essere il celebratore della maestà della vera religione e delle istituzioni della Chiesa che ne è depositaria, del potere regale assoluto che riceve la sua investitura direttamente da Dio. Questa celebrazione dà vita ad una serie di scenografie fastose e magnifiche, permeate da «uno spiccato senso coreografico dello spettacolo e del decoro» (Getto), che è proprio del gusto dell’età controriformistica e che investe sia la sfera della politica e del principe sia quella della religione. A questo gusto rispondono gli episodi in cui il potere si mostra in tutta la sua magnificenza, come la scena sontuosa di sfarzo orientale del re d’Egitto in trono, le molte parate militari e i movimenti grandiosi degli eserciti, la solenne eloquenza di Goffredo in certi momenti ufficiali, la stessa immagine finale del vessillo crociato piantato sulle mura della città conquistata. Un’analoga scenografica maestosità presentano certe cerimonie liturgiche, come quella della processione propiziatrice al monte Oliveto. Nei termini della scenografia fastosa del potere si presentano anche Dio e Satana, visti come grandi sovrani contornati dalle loro corti. Vi è insomma in Tasso una volontà conformistica, di totale adeguamento ai codici dominanti nella sua epoca. E questo non solo al livello dei contenuti affrontati, ma anche a quello delle forme: Tasso con la Gerusalemme vuole dare non solo il perfetto poema cristiano secondo i canoni controriformistici, ossequioso verso la religione, il potere assoluto e la civiltà della corte, ma anche il perfetto poema epico in obbedienza all’autorità di Aristotele e alle leggi della sua Poetica, come si è visto esaminando i presupposti teorici dell’opera. Il progetto del poema è un insieme coerente, in cui ogni livello deve corrispondere esattamente a tutti gli altri.

La realtà effettiva del poema L’ambivalenza verso la corte

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Al di là del progetto, però, la realtà effettiva, quale si offre agli occhi del lettore (e quale ha suscitato l’entusiastico consenso del pubblico sin dalle prime edizioni) è qualcosa di ben diverso e di infinitamente più complesso. Si manifesta in primo luogo un’ambivalenza nei confronti della corte, che del discorso poetico della Gerusalemme è il riferimento ideale e il privilegiato ambiente di risonanza. Se da un lato Tasso contempla con ammirazione le scene in cui si manifesta la maestà del potere, dall’altro

Capitolo 3 · Torquato Tasso

nel poema si tradisce l’incontenibile insofferenza che si è già sottolineata verso quanto nella corte vi è di rigido e artificioso, il peso dell’autorità, gli intrighi, le finzioni, i Il sogno idillico conflitti. Per questo anche qui il poeta si rifugia nel vagheggiamento idillico di un mondo di pastori remoto dalla storia e conforme solo alla natura, libero, semplice e autentico. Il sogno affidato alla favola pastorale dell’Aminta ritorna all’interno di un’opera appartenente ad un genere così diverso come la Gerusalemme, nell’episodio del canto VII in cui Erminia, incontrato un vecchio pastore, ascolta da lui la condanna delle «inique corti» e l’elogio della vita naturale e schietta della campagna, e decide di cercare rifugio in quel mondo di pace ( T5, p. 592). È un episodio che, nello scenario tumultuoso di guerra, gesta eroiche e feroci stragi che occupa il poema, introduce una pausa totalmente estranea, una nota di quiete, mitezza, serenità. L’attrazione per il In secondo luogo all’intento di costruire un’opera tutta ispirata ad un rigoroso didascalismo voluttuoso moraleggiante, che esalti il sacrificio dei guerrieri tesi al loro santo fine, si contrappone l’attrazione per il voluttuoso, per un amore svincolato da ogni legge morale, rivolto solo ad una ricerca del piacere dei sensi. Questa tendenza è esemplarmente rappresentata dall’episodio del giardino di Armida ( T9, p. 626), dove si avverte una struggente nostalgia per l’edonismo naturalistico rinascimentale, ormai impossibile nel clima austero L’amore come della Controriforma. In altri casi invece l’amore si presenta come sofferenza: è il caso degli sofferenza amori impossibili e infelici che sono la regola nel poema, di Erminia per Tancredi, di Tancredi per Clorinda, di Armida per Rinaldo. La sofferenza d’amore non è raffigurata coi toni di una tragicità sublime, ma di un morbido patetismo, percorso dalla voluttà delle lacrime e reso dal poeta con musicale abbandono. In entrambi i casi l’amore, come voluttà Testi o come sofferenza, compromette il clima epico, in quanto impedisce ai guerrieri crociaTancredi e Clorinda ti di svolgere i loro compiti. Ne nasce in definitiva una poesia lontanissima da ogni ispiradalla Gerusalemme liberata zione moraleggiante ed eroica, una poesia fortemente soggettiva ed autobiografica, che vede l’immedesimazione emotiva del poeta nei suoi personaggi. La visione dolorosa La stessa ambivalenza investe il grande tema della guerra, che occupa tanta parte del della guerra poema: all’esaltazione della guerra come manifestazione di eroismo e di forza si contrappone una considerazione più grave e dolorosa, che vede nella lotta e nella strage una necessità inevitabile, ma anche qualcosa di atroce e disumano, che genera sofferenza e lutto. Anche i guerrieri più barbari e feroci hanno momenti di pensoso, dolente ripiegamento: Solimano, durante la battaglia finale per la conquista di Gerusalemme, dall’alto della torre di David contempla «l’aspra tragedia de lo stato umano, / i vari assalti e il fero orror di morte, / e i gran giochi del caso e della sorte»; Argante, prima di affrontare l’ultimo duello con Tancredi, in cui troverà la morte, si volge verso Gerusalemme e pensa che la città antichissima sta per cadere vinta e che egli invano ha cercato di difenderla. Proprio nell’assalto definitivo alla città, poi, si manifesta una commossa pietà del poeta per i vinti che vengono crudelmente trucidati. Si pensi invece all’ilare compiacimento con cui nel Furioso sono contemplate le stragi iperboliche compiute dagli eroi: c’è in Ariosto l’atteggiamento straniante di chi vuol far sentire al lettore che ciò che racconta è pura finzione e convenzione, da assaporare con avvertita delizia (e che solo attraverso tale straniamento può essere preso come spunto per riflessioni più Nicolas Poussin, Rinaldo e Armida, 1628-30, olio su tela, Londra, Dulwich Picture Gallery. serie e di più vasta portata). 577

L’età della Controriforma

religiosità esteriore e inquietudine intima Una religiosità più sofferta

L’attrazione per il magico e il demoniaco

Contraddizioni analoghe si rivelano sull’altro versante fondamentale del poema, quello religioso. Alla celebrazione scenografica della maestà della religione si contrappone una religiosità meno esplicita e più intima, autentica e sofferta, che si manifesta nell’avvertimento della precarietà dell’esistenza e della vanità delle belle apparenze, nel senso della colpa e del peccato, nel bisogno di purificazione interiore: è la religiosità che si coglie esemplarmente nell’alba di espiazione di Rinaldo sul monte Oliveto, collocata in ideale antitesi con la fastosa coreografia della processione che si svolge sugli stessi luoghi. Alla religione fondata su verità razionalmente definite dalla teologia e su riti consacrati si contrappone poi un’attrazione per un sovrannaturale magico e demoniaco, tenebroso e arcano, irrazionale e inquietante, come si coglie nei numerosi episodi in cui intervengono le potenze infernali, di regola in lugubri scenari notturni (si veda l’assalto di Solimano al campo crociato, in una notte funestata da demoniache presenze, e l’incantesimo della selva da parte del mago Ismeno, canto IX e canto XIII, T7, p. 613).

il «bifrontismo spirituale» di Tasso

Le spinte disgregatrici dell’unità strutturale

Tasso interprete di un’epoca

Queste ambivalenze di fondo si registrano anche a livello formale, e vengono ad incrinare lo stesso modello del perfetto poema epico conforme alle regole aristoteliche. Se Tasso aspira a un’opera classicamente composta e decorosa, tutta tesa verso un livello sublime dello stile, rigorosamente unitaria nella sua struttura, le spinte sotterranee che la percorrono ne fanno qualcosa di molto più complesso. La sublimità epica è continuamente negata dalle note idilliche, voluttuose e patetiche; la costruzione unitaria e centripeta è costantemente messa in pericolo da tendenze centrifughe, costituite dalle avventure individuali di eroi come Tancredi e Rinaldo, che si allontanano dal teatro della guerra per seguire i loro impulsi irrefrenabili, le loro aspirazioni individuali alla gloria e all’amore. La struttura unitaria, percorsa da queste spinte, sembra sempre sul punto di dissolversi e di disperdersi in vari filoni indipendenti, proprio secondo i moduli di quel “romanzo” cavalleresco che Tasso si proponeva di superare. Sono questi gli atteggiamenti che Lanfranco Caretti ha definito con la fortunata formula del «bifrontismo spirituale». Si tratta di contraddizioni non solo individuali del poeta, ma proprie di tutta un’epoca e di tutta una civiltà, che sta vivendo un tormentato processo di transizione: in questo Tasso si rivela un interprete sensibilissimo delle tendenze della sua età. Di conseguenza sarebbe sbagliato ritenere che le contraddizioni e le ambivalenze del poema costituiscano un limite alla sua validità artistica: al contrario quelle contraddizioni, così gravide di risonanze, arricchiscono i piani e le prospettive dell’opera e conferiscono alla poesia di Tasso tutta la sua straordinaria profondità e la sua forza di suggestione.

L’opposizione tra visione rinascimentale e visione controriformistica

I pagani e i valori rinascimentali

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Questo «bifrontismo» tassesco investe la struttura più profonda del poema, lo scontro stesso tra cristiani e pagani. Come ha osservato Sergio Zatti (ci riferiamo al volume L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, uno dei contributi più acuti e illuminanti che abbia dato in questi anni la critica tassesca), non si tratta in realtà di uno scontro tra due religioni e due culture diverse, come vorrebbe l’impianto intenzionale dell’opera, ma del conflitto tra due codici all’interno della stessa cultura, quella occidentale e cristiana. I pagani infatti sono i portatori di una visione laica, che si rifà ai valori rinascimentali: esaltazione dell’individualismo energico, della forza dell’uomo che è artefice del proprio destino («sovente adivien che ’l saggio e ’l forte / fabro è a se stesso di beata sorte», proclama il mago Ismeno), esclusione di ogni ottica trascendente dall’orizzonte umano, pluralismo delle concezioni e tolleranza, edonismo e ricerca del piacere.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Visualizzare i concetti

Il bifrontismo spirituale tassiano Visione controriformistica (dogmatismo e autoritarismo) Visione rinascimentale (laicismo ed edonismo) Cielo: rappresenta il bene e l’unità inferno: rappresenta il male e la dispersione STrUTTUrA ideoLoGiCA

Cristiani: sono i portatori dei valori della religiosità controriformistica pagani: sono i portatori dei valori rinascimentali Goffredo: rappresenta l’aspirazione all’eroismo e alla religiosità Cavalieri erranti: rappresentano un’interiorità inquieta e instabile

sofferenza e struggimento Amore trasporto sensuale svincolato da ogni legge morale STrUTTUrA TeMATiCA

manifestazione di forza, di valore e di eroismo Guerra atto di violenza atroce e disumano

STrUTTUrA nArrATiVA

pUnTo di ViSTA e foCALizzAzione

Linea centrale: il progetto narrativo unitario elaborato sulla base dei princìpi aristotelici (la storia della conquista del Santo Sepolcro) filoni secondari: le tendenze centrifughe imposte dalla necessità di offrire il diletto attraverso la varietà del racconto (le avventure dei vari personaggi)

personaggi cristiani: interpretano i fatti secondo il codice controriformistico personaggi pagani: interpretano i fatti secondo il codice laico-rinascimentale

Spazio orizzontale

accampamento dei Crociati (cristiani) Gerusalemme (pagani)

orGAnizzAzione SpAziALe

Spazio verticale

LiVeLLo STiLiSTiCo

cielo (regno di Dio) inferno (regno di Satana)

Tensione verso il grande, il magnifico, il sublime Ricerca di una suggestività indefinita e della musicalità

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L’età della Controriforma I cristiani e i valori controriformistici

I cristiani «erranti»

Al contrario i cristiani sono portatori del codice culturale tipico dell’età della Controriforma: rigida subordinazione di ogni fine individuale al fine religioso, istanza autoritaria che vuole imporre un’unica verità, non accetta il pluralismo, non tollera il diverso e vuole ricondurre tutto il mondo all’unità della fede, rigorosa repressione dell’eros in nome di un’austera moralità. L’antagonista della religione cristiana non è un’altra religione, quella musulmana (di cui nel poema non è presente alcun aspetto), ma una negazione ad essa interna, l’errore, il male, l’eresia. Contro Dio non si colloca Maometto, ma Satana. I valori rinascimentali e laici vengono visti come prodotti di forze demoniache, che minacciano di disgregare la salda unità dell’universo cristiano. Infatti tali valori, individualismo, pluralismo, edonismo, si delineano anche nel campo cristiano: alcuni eroi si sviano dal loro alto compito, e invece di subordinare ogni loro impulso al fine religioso perseguono fini di gloria mondana puramente individuale, o ricercano l’amore e il piacere dei sensi. Queste spinte dispersive sono sentite come errori, e sui traviamenti dei «compagni erranti» agisce la forza repressiva dei rappresentanti del codice cristiano, Goffredo e Pier l’Eremita, dell’autorità politica e religiosa che deve contenere ogni devianza: è Goffredo che scaccia Rinaldo macchiatosi d’omicidio per difendere il suo onore, ed è sempre lui che lo richiama e lo perdona perché possa consentire il successo della missione cristiana; è Pier l’Eremita che richiama ai suoi doveri di guerriero cristiano Tancredi prostrato dal dolore dopo aver ucciso la donna amata, Clorinda. Cedendo ai loro impulsi, i crociati «erranti» si collocano oggettivamente nel campo della paganità.

Uno e molteplice nella struttura ideologica della Gerusalemme

La riduzione dal molteplice all’uno

L’opposizione molteplice-uno La simpatia per i devianti

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Nel poema è in atto quindi un triplice scontro, che si svolge su tre piani diversi: 1. cielo contro inferno: Dio ha scacciato dal cielo gli angeli ribelli, che si sono trasformati in demoni; 2. cristiani contro pagani: storicamente, la cristianità infligge una sconfitta agli infedeli; 3. il «capitano» contro i «compagni erranti»: Goffredo riporta sotto il suo imperio coloro che hanno deviato. Il rapporto che si instaura tra i vari piani e le varie forze è un processo di riduzione dal molteplice all’uno, dal discorde al concorde. Il mondo pagano e quello dei cristiani «erranti» è il campo del vario, del diverso, del multiforme. Lo stesso mondo infernale, alleato dei pagani, presenta un’infinità di mostri e di demoni dagli aspetti più vari. Anche nel campo cristiano, quando scoppia la ribellione fomentata da Argillano, riemerge la specificità delle varie nazioni, che era stata cancellata dalla subordinazione al fine della crociata. A questa molteplicità si contrappone l’istanza unitaria rappresentata da Goffredo. Il suo compito è di ridurre il molteplice all’uno, il discorde al concorde: doma la rivolta di Argillano, placa i malcontenti scatenati dalla siccità, si impone alle ambizioni dei vari principi, richiama al suo dovere Rinaldo, sconfigge il «popol misto» d’Asia e d’Africa. È Goffredo il personaggio in cui si incarnano compiutamente le istanze del codice culturale controriformistico, che si basa sull’autorità e sull’unità e che non tollera il “diverso”. La contrapposizione molteplice-uno, che è alla base della struttura ideologica e narrativa della Gerusalemme, ha radici profonde nella coscienza del poeta. Tasso è in realtà attratto dalla devianza che, di contro all’unità, si manifesta nelle forme della molteplicità: sente il fascino dei valori rinascimentali, il pluralismo, la tolleranza del diverso, l’edonismo naturalistico che lascia libero corso ai più vari impulsi, l’individualismo teso all’affermazione di sé, alla gloria e all’amore. Si è sempre rilevato come nel poema vi sia un’evidente simpatia per i devianti, per i nemici, per gli sconfitti: Argante, Solimano, Clorinda, Armida appartengono al campo del negativo, quello

Capitolo 3 · Torquato Tasso

La negazione del “diverso” e la sua affermazione

pagano, ma sono estremamente ricchi di dignità e di valore; così è per gli eroi che «errano», Rinaldo e Tancredi. L’identificazione emotiva profonda del poeta è con loro, e ciò fa sì che i personaggi “devianti” siano anche quelli artisticamente più felici, mentre quelli che incarnano l’istanza dell’autorità unificatrice, politica e religiosa, sono più convenzionali e sbiaditi, meno vivi poeticamente. Tasso, insomma, vuole essere il poeta cristiano per eccellenza, ma sente l’attrazione per l’“altro”, per ciò che è fuori dell’universo totalizzante della Controriforma. Sui valori rinascimentali pronuncia un’inequivocabile condanna, ma essa diviene l’unico modo per ammettere quei contenuti nel poema. Prendendo le distanze rispetto a valori presentati come negativi e condannabili, il poeta può farli passare nel testo e proporli segretamente alla solidarietà del lettore. Nella Gerusalemme, tra fascino del molteplice e tensione all’unità, come avviene per tutte le altre contraddizioni che si sono viste, non vi è mai equilibrio, soluzione pacificante, ma conflitto sempre aperto.

La struttura narrativa La struttura unitaria e le tendenze disgregatrici

Il rapporto conflittuale tra molteplicità e unità strutturale

La struttura narrativa del poema è omologa a questa struttura ideologica: anche a livello formale vi è una perenne tensione tra molteplicità e unità, tra l’urgere di forze centrifughe e l’aspirazione all’unità. Come si è visto, Tasso, respingendo la struttura tipica del “romanzo” cavalleresco, che si disperde in mille fili narrativi tra loro intrecciati, aspira, in obbedienza alle regole della poetica aristotelica, a costruire un’azione rigorosamente unitaria; ma in realtà dalla linea centrale divergono molti altri fili narrativi, che fanno capo ai vari eroi sia cristiani sia pagani, protagonisti, sotto la spinta del desiderio di gloria o d’amore, di azioni fortemente individualizzate, che assumono una spiccata autonomia narrativa. Come il poeta, pur proponendosi di essere il cantore dei valori controriformistici, sente il fascino dei loro opposti, del pluralismo, dell’individualismo e dell’edonismo, così, pur vagheggiando una fedeltà assoluta ai canoni aristotelici e alla regola dell’unità del poema epico, sente il fascino della molteplicità e della dispersione romanzesche. Tuttavia la struttura unitaria, sempre messa in pericolo dalle spinte centrifughe, non è mai veramente disgregata: il poeta, al livello della costruzione narrativa, riesce a contenere le spinte disgregatrici entro la struttura unitaria. Il rapporto che si instaura tra molteplicità e unità nella Gerusalemme è però ben diverso da quello che caratterizza il Furioso. Nel poema ariostesco la molteplicità di azioni è prevista sin dall’inizio nel progetto narrativo, in quello tassesco invece si fa strada proprio contro i princìpi affermati dal poeta, in rispondenza a impulsi profondi; nel Furioso la molteplicità eterogenea di azioni, pur restando tale, in base a un calcolato disegno è ricondotta ad un superiore equilibrio armonico, attraverso un’accorta costruzione architettonica e un sapiente dosaggio di spinte e controspinte; nella Gerusalemme al contrario la struttura unitaria è imposta a forza sopra le multiformi componenti e mira a negarle, senza mai riuscirvi del tutto. Di conseguenza nel poema tassesco le componenti eterogenee non sono mai in equilibrio, ma in perenne tensione tra loro e con l’istanza unificatrice: non vi è in Tasso, come vi è in Ariosto, una visione aperta, che ammetta tutte le forme del reale con pari dignità in nome di un libero pluralismo prospettico, ma una visione totalizzante, che però si scontra perpetuamente con tendenze di segno opposto, generando una conflittualità sempre in atto, dolorosamente sperimentata dal poeta.

il punto di vista Il «bifrontismo» che è proprio della struttura ideologica del poema e della sua struttura narrativa si può cogliere anche nell’organizzazione del punto di vista da cui la narrazione è condotta. Poiché il poema vuole celebrare il trionfo della religione cristiana sul mondo pagano, concepito come emanazione delle potenze demoniache, ci si aspetterebbe un punto di vista unico, rigorosamente fisso sui crociati, in modo tale che gli “altri”, 581

L’età della Controriforma

Un punto di vista mobile

La focalizzazione interna ai pagani

La simpatia per gli sconfitti

i nemici, fossero colti solo dall’esterno, dalla prospettiva cristiana dominante; ci si aspetterebbe insomma che i pagani non fossero mai soggetti della visione, ma sempre e solo oggetti. Invece non è così: il punto di vista della narrazione è continuamente mobile e si colloca alternativamente nel campo cristiano e in quello pagano. Un esempio eloquente è l’episodio dell’arrivo dei crociati dinanzi a Gerusalemme: prima la città si offre attraverso la loro prospettiva e attraverso il filtro dei loro sentimenti, ma subito dopo la prospettiva si capovolge e l’arrivo dell’esercito cristiano è colto con gli occhi di chi si trova sulle mura di Gerusalemme. Questo scambio di prospettive, la città vista dal campo cristiano, il campo cristiano visto dalla città, si verifica costantemente nel poema. Inoltre ad essere presentati dall’interno non sono solo gli eroi cristiani, ma anche quelli pagani: il lettore è ammesso a conoscere pensieri e sentimenti non solo di Goffredo, di Tancredi, di Rinaldo, ma anche di Clorinda, di Solimano, di Armida. Se i pagani fossero presentati solo dall’esterno, dalla prospettiva dei cristiani, senza che il lettore potesse essere ammesso a scrutare la loro interiorità, la loro statura di personaggi risulterebbe oltremodo ridotta ed essi rimarrebbero nei limiti di figure del tutto secondarie e subordinate. Invece anche i pagani sono contrassegnati da una profondità psicologica, che conferisce loro alta dignità narrativa: si ha ad esempio il dramma di Solimano, re in esilio tormentato dal ricordo della sua grandezza e dall’ansia di vendetta, che combatte sino all’estremo, pur consapevole dell’inevitabilità della sua sconfitta; ed ancora quello di Clorinda, che si avvia all’ultima impresa, l’incendio della torre, turbata dalla rivelazione delle sue origini cristiane e da un’inquietante presentimento di sventura e di morte. L’alternanza dei punti di vista conferma, sul piano delle tecniche narrative, che il dominio del codice controriformistico nel poema non è assoluto e che trovano spazio istanze ad esso contrarie. Il privilegio della “focalizzazione interna” ai personaggi pagani traduce perfettamente, in termini di costruzione narrativa, quella “simpatia” per i nemici e gli sconfitti che la critica ha sempre riconosciuto nel poema: il fatto che l’“altro”, il nemico, possa affermare nella narrazione il suo punto di vista è il segno rivelatore della dignità che il poeta gli conferisce, anzi, della segreta attrazione che prova per lui e per ciò che significa. Anche la costruzione del “discorso” narrativo testimonia come il codice culturale rappresentato dai pagani, quello laico-rinascimentale, per quanto negato, in realtà si affermi prepotentemente nel poema, e, grazie alla segreta identificazione emotiva del poeta, assuma un ruolo paritetico rispetto al codice cristiano e controriformistico.

L’organizzazione dello spazio

Lo spazio verticale e la dimensione trascendente

Cielo e inferno, uno e molteplice

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Il «bifrontismo» si riflette ancora nella struttura spaziale del racconto. L’organizzazione dello spazio in un’opera letteraria è estremamente significativa poiché riflette la concezione del mondo del poeta, come abbiamo potuto verificare in vari casi, da Dante ad Ariosto. Si è visto infatti come lo spazio rigorosamente orizzontale del Furioso implicasse una visione tutta laica, rinascimentale, in contrapposizione allo spazio verticale e alla visione trascendente della Commedia. Nella Gerusalemme si intersecano uno spazio orizzontale, teatro dello scontro tra cristiani e pagani, e uno spazio verticale, a sua volta diviso in due piani contrapposti, il cielo e l’inferno. Si ripropone quindi nuovamente, nel poema tassesco, la dimensione del trascendente, e vi assume un ruolo determinante in coerenza con la religiosità controriformistica che lo pervade. Lo spazio verticale è fortemente polarizzato secondo un’opposizione di valore: cielo e inferno rappresentano il bene e il male, l’autorità di Dio ordinatrice dell’universo e la pluralità immonda delle forze demoniache. Si trasferisce nella verticalità spaziale l’opposizione su cui si regge la struttura del poema, tra uno e molteplice: il cielo è la manifestazione suprema dell’istanza unificatrice che è propria del codice cristiano nel

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Lo spazio orizzontale: Gerusalemme e il campo cristiano

Lo spazio ristretto dell’azione

Gli spazi eccentrici della devianza

poema, mentre l’inferno rappresenta la dispersione anarchica del multiforme, che come tale è connotata negativamente. Lo spazio orizzontale è ugualmente polarizzato, tra Gerusalemme, sede dei pagani, e il campo dei crociati che la fronteggia; ed anche qui, come si è visto, l’opposizione spaziale traduce in termini sensibili l’opposizione di valori, tra bene e male, molteplice e uno. Lo spazio terrestre è anche uno spazio limitato quantitativamente: la breve estensione in cui si collocano la città assediata e l’accampamento crociato è il centro dell’azione, in cui si svolge la parte preponderante degli avvenimenti narrati. Non si ha più, nel “poema eroico” di Tasso, lo spazio infinitamente vario e labirintico del Furioso, che abbraccia tutti i luoghi della terra, dall’Europa all’Asia all’Africa, e si compendia nell’immagine emblematica della “selva”, in cui si aggirano i cavalieri nella ricerca eternamente delusa dei loro oggetti del desiderio. Lo spazio ristretto è la proiezione delle aspirazioni del poeta alla rigorosa unità epica, secondo le norme dell’aristotelismo. Ma sappiamo che a tale tendenza si oppongono forze centrifughe: ed esse naturalmente vengono a collocarsi in spazi eccentrici rispetto al teatro principale dell’azione. I luoghi centrifughi sono quelli verso cui si dirigono i personaggi che, spinti dalla forza del desiderio individuale, si allontanano dal centro della guerra: in primo luogo la campagna pastorale che costituisce il rifugio di Erminia, poi il castello di Armida sul Mar Morto, in cui sono tenuti prigionieri i numerosi cavalieri cristiani da lei ammaliati e lo stesso Tancredi, sviatosi alla ricerca di Clorinda, e infine il giardino di Armida nelle isole Fortunate, dove Rinaldo è irretito dalle femminili seduzioni della maga. Lo spazio della devianza, oltre ad essere fisicamente lontano dal centro, è anche intrinsecamente diverso da quello epico-guerriero: è uno spazio idillico quello di Erminia, connotato secondo i moduli del locus amoenus classico della poesia pastorale; egualmente ameno è quello del castello e del giardino di Armida, ma con l’accentuazione degli aspetti edonistici e voluttuosi. Questi spazi eccentrici, a differenza che nel Furioso, non arrivano a disgregare l’unità spaziale, così come le azioni centrifughe non dissolvono interamente l’unità strutturale del poema: essi finiscono per essere neutralizzati, o addirittura cancellati (fuggito Rinaldo e svanito l’incanto, al posto del giardino di Armida resta la natura autentica, brulla e desolata).

il tempo La linearità temporale

Alla fondamentale unità spaziale si affianca la linearità temporale. Non si ha più nella Gerusalemme il tempo sinuoso del poema ariostesco, determinato dalla pluralità delle azioni che costringevano il narratore a continui salti nel tempo, per tornare indietro a riprendere vicende svolgentisi contemporaneamente. Anche lo sviluppo temporale nella Gerusalemme è unitario, teso tra l’inizio e la fine. Vi si inseriscono solo brevi flash-back, per informare sulle vicende degli eroi che si sono allontanati dal campo (come nel caso di Rinaldo). Si tratta anche di un arco temporale limitato entro ristretti confini: Tasso non narra tutta la prima crociata, a partire dal suo inizio,

(Attrib.) Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Erminia e alcuni pastori, 1648, olio su tela, Minneapolis (Minnesota, USA), Minneapolis Institute of Arts.

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L’età della Controriforma

ma si concentra solo sul breve periodo finale e risolutivo. In questo ha presente il modello classico dell’Iliade, in cui si narra solo una fase dell’assedio di Troia, quella culminante con la morte dell’eroe troiano Ettore.

La lingua e lo stile La tensione verso il sublime

Mappa interattiva

Il livello lessicale

Il livello sintattico

Testo critico M. Fubini

La suggestività indefinita

Il prevalere dell’emotività

Immagine interattiva Il paesaggio come stato d’animo

Un nuovo modello linguistico

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Nelle scelte stilistiche messe in atto nel poema Tasso applica fedelmente i princìpi da lui enunciati nei Discorsi del poema eroico: nel tessuto poetico si ravvisa quindi costantemente una tensione verso il grande, il magnifico, il sublime. L’effetto è ottenuto innanzitutto con i calchi classici: con gran frequenza ritornano nel discorso immagini, formule, stilemi, versi interi di altri poeti, in particolare di Virgilio, di Dante e di Petrarca, con il compito di conferire dignità al dettato e di innalzare il tono. Vi contribuisce poi il fitto uso di figure retoriche, in particolare iperboli, metafore, paragoni, similitudini, che mirano a intensificare e a ingrandire. Al livello del lessico, il poeta predilige parole «peregrine», inconsuete, lontane dall’uso comune, o impiegate in accezione particolare, oppure ancora usate in senso traslato, lontano dal significato proprio, in modo da provocare un effetto di nobilitazione e al tempo stesso di «meraviglia», come Tasso stesso indica nei Discorsi. A livello della sintassi la magnificenza è ottenuta mediante periodi lunghi e complessi, ardite inversioni che spezzano l’andamento usuale del discorso, pause all’interno del verso, frequenti enjambements tra un verso e l’altro, in genere con una ricerca di «asprezza», di un «parlar disgiunto». A ciò contribuisce anche il colorito fonico delle parole: l’uso della dieresi, che separa i dittonghi, di parole ricche di scontri consonantici, specie in rima, cioè in posizione di massima evidenza. Ma sappiamo che l’aspirazione all’eroico e al magnifico è solo una delle componenti dell’ispirazione tassiana, a cui si contrappongono tendenze di segno opposto, poiché la poesia di Tasso è caratterizzata da una perenne compresenza dei contrari. Il livello stilistico riflette direttamente questa onnipresente ambiguità, questo «bifrontismo». Al magnifico e al sublime si oppone la ricerca di una suggestività indefinita, che si avvolge in morbide cadenze musicali e si armonizza con le tendenze voluttuose e patetiche. È la disposizione che nel poema si traduce nella formula «un non so che...», formula che avremo modo di sottolineare più volte. Come ha osservato Mario Fubini, nel discorso tassiano ricorrono poi parole scelte dal poeta, più che per il loro significato, per il loro potere di suggestione. Sono tutte parole che corrispondono a motivi profondi della sua sensibilità: «ignoto», «infinito», «innumerabile», «immenso», «antico», che rendono il senso di indeterminata immensità; «ruina», che reca il senso della fragilità umana e della precarietà delle cose; «ermo», «solitario», «solingo», «deserto», che evocano l’idea della solitudine, fisica ed esistenziale insieme. Il prevalere del sentimento sulla chiara e distinta visione degli oggetti si esprime nell’uso sovrabbondante degli aggettivi, che quasi mettono in ombra i sostantivi a cui si accompagnano (i sostantivi infatti rappresentano l’oggettività del reale, mentre gli aggettivi rimandano alle sfumature soggettive ed emotive). Inoltre i frequenti enjambements non solo valgono a creare un effetto di magnificenza e sublimità, ma possono anche assumere un valore lirico, segnare una «pausa irrazionale» che «rallentando il ritmo costringe a soffermarsi sulle parole congiunte e divise», come nota sempre Fubini. La stessa funzione assumono i versi spezzati da pause forti, che esprimono il pathos, l’intensa partecipazione emotiva del poeta alle passioni e alle sofferenze dei suoi personaggi, e la sua visione tragica della condizione umana. Alla sensualità voluttuosa risponde invece la ricerca di estenuate cadenze musicali, o di intense notazioni coloristiche e visive, come nella descrizione del giardino di Armida. Il modello linguistico tassiano viene così a infrangere il modello petrarchesco, che il classicismo rinascimentale aveva profondamente assimilato. All’equilibrio armonico

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Il “concettismo”

di Petrarca, fondato su simmetriche architetture di parole e di immagini, e alla levigatezza quasi astratta dei suoi materiali verbali, Tasso contrappone un modello nuovo, uno stile percorso da tensioni interne, franto e tormentato oppure voluttuosamente abbandonato, ricco di colore e di musicalità, che rispecchia mirabilmente il suo complesso mondo interiore, il suo «bifrontismo spirituale», e d’altro lato risponde alle coordinate di una nuova civiltà letteraria. Secondo il gusto del tempo Tasso non evita però di impiegare artifici come il “concettismo”, che è un procedimento poetico consistente nell’istituire un contrasto forzato tra il livello metaforico e quello letterale, al fine di stupire il lettore. Persino nei punti di maggiore intensità emotiva non si esime dall’usare questi procedimenti, che appaiono decisamente artificiosi. Ad esempio quando Tancredi, che inconsapevolmente ha ferito a morte l’amata Clorinda, si appresta a darle il battesimo, cercando di vincere la disperata angoscia che lo prostra, il poeta commenta: «a dar si volse / vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise» ( T6, p. 605). Come si vede, l’artificio gioca su un contrasto tra vita e morte: ma mentre la morte appartiene al piano letterale, la vita è metaforica, è la vita eterna dell’anima assicurata dal battesimo. Nel corso del poema si possono trovare numerosi esempi di questo gusto, che sarà poi portato alle estreme conseguenze dalla poesia barocca.

La revisione del poema e la Gerusalemme conquistata Il giudizio dei revisori

La Gerusalemme conquistata

Il successo della Liberata

Appena terminata la stesura del poema, Tasso cominciò a preoccuparsi della sua revisione, al fine di renderlo perfettamente conforme ai princìpi di poetica e al clima religioso dominanti in quegli anni. Lo sottopose quindi al giudizio di quattro autorevoli revisori, Scipione Gonzaga, Flaminio de’ Nobili, Silvio Antoniano e Sperone Speroni. Le critiche che questi gli mossero suscitarono in lui conflitti e tormenti, ingigantiti dalle turbe nervose che già lo affliggevano. Ora accoglieva le ragioni dei suoi giudici, conformandosi alla loro angustia pedantesca e moralistica, ora le respingeva con scatti di insofferenza. Comunque egli stesso, intimamente insoddisfatto, continuava a lavorare all’opera, modificando, correggendo, tagliando, e tali interventi sono già visibili nell’edizione del 1584 curata da Scipione Gonzaga. Il lavoro di revisione proseguì accanitamente negli anni successivi ed approdò ad una stesura del poema completamente diversa, che fu intitolata Gerusalemme conquistata e apparve a Roma nel 1593, poi a Pavia nel 1594. Il numero dei canti fu portato da 20 a 24, in ossequio al modello dell’Iliade di Omero; ma soprattutto il poema venne totalmente uniformato ai princìpi aristotelici e al moralismo controriformistico. Furono soppressi episodi che sembravano poter attentare alla rigorosa unità, come quello di Olindo e Sofronia e la pastorale di Erminia; furono eliminati tutti gli spunti erotici e voluttuosi, specie quelli legati al personaggio della maga Armida; viceversa furono accentuati i toni eroici e sublimi e gli aspetti pomposi e celebrativi della materia religiosa. Anche il linguaggio fu orientato verso una maggiore aderenza alla poetica della «magnificenza» teorizzata nei Discorsi: vennero meno le sfumature, i toni smorzati, l’indefinito abbandono musicale. Dopo un lavoro tormentato e affannoso Tasso era convinto di aver finalmente raggiunto una perfetta coerenza tra teoria poetica e realizzazione pratica e sperava che la sua fama sarebbe stata consacrata senza più alcun contrasto dalla nuova stesura. In realtà la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere grande successo e ad essere costantemente ristampata, in Italia e nei Paesi stranieri, fu la Liberata, che riuscì a diffondersi anche al di fuori del ristretto ambito cortigiano e a conquistare strati di pubblico più popolari. In confronto con la Liberata, la Conquistata appare un testo inerte e arido; il che dimostra come fossero proprio le contraddizioni interne al poema, quelle che Tasso aveva voluto eliminare con la revisione, a garantire la sua vitalità. 585

L’età della Controriforma

Visualizzare i concetti

Le caratteristiche della Gerusalemme liberata Genere

Poema eroico, imitazione «d’azione illustre, grande e perfetta tutta»

MATeriA

L’argomento, tratto dalla storia, è la conquista del Santo Sepolcro durante la prima crociata in Terra Santa, guidata da Goffredo di Buglione; esso è arricchito da vicende e personaggi d’invenzione, ma verisimili, come richiede la precettistica aristotelica; l’elemento meraviglioso è rielaborato in chiave cristiana (interventi soprannaturali di origine divina o infernale)

ModeLLi

S’ispira essenzialmente ai poemi epici classici, l’Iliade e l’Eneide, mentre a quelli “moderni” di Boiardo e Ariosto è contestata la scarsa unità strutturale. Le premesse teoriche sono derivate dalla Poetica di Aristotele

orGAnizzAzione deLLA MATeriA

pUnTo di ViSTA

È mobile, con continui passaggi dal campo cristiano alla città pagana e viceversa, e per lo più interno ai personaggi

TeMpo/dUrATA

Le vicende si svolgono in un momento storico reale, il 1099, e hanno una durata circoscritta agli ultimi mesi di guerra, secondo la regola aristotelica dell’unità di tempo

SpAzio

586

Struttura unitaria di fondo, data dal tema della crociata, sulla quale si innestano situazioni narrative “divaganti”, strettamente legate alle scelte dei personaggi di sottrarsi al loro dovere seguendo impulsi demoniaci, irrazionali e/o egoistici

Lo scenario in cui si svolge la vicenda è reale (la Terra Santa) ed è uno spazio polarizzato e qualificato in senso morale: il campo cristiano da una parte e la città pagana dall’altra. A questo spazio ristretto si aggiungono i luoghi lontani dal campo nei quali gli eroi cristiani si recano nella loro “devianza”. La dimensione del soprannaturale apre inoltre uno spazio “verticale”, anch’esso polarizzato e qualificato in senso morale: l’alto-divino e il basso-infernale

STiLe

Il livello stilistico è alto, lontano da ogni caduta verso il realistico o il comico. Al sublime e alla magnificenza che caratterizzano il poema eroico, si contrappone la ricerca di una suggestività lirica indefinita e di morbide cadenze musicali

MeTriCA

Ottave di endecasillabi, con frequenti enjambements che spezzano la corrispondenza tra sintassi e metro («parlar disgiunto»), innalzando lo stile

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Analisi interattiva

T4

proemio

Temi chiave

dalla Gerusalemme liberata, I, 1-5 Il Proemio della Gerusalemme liberata ricalca puntualmente lo schema fissato dalla tradizione epica ed è ripartito in tre momenti: l’esposizione dell’argomento del poema (ottava 1), l’invocazione alla Musa (ottave 2-3), la dedica al signore, che introduce il motivo encomiastico (ottave 4-5). 1

Canto1 l’arme pietose2 e ’l capitano3 che ’l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co ’l senno e con la mano4, molto soffrì nel glorioso acquisto5; e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano s’armò d’Asia e di Libia il popol misto6. Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti7.

2

O Musa8, tu che di caduchi allori non circondi la fronte in Elicona9, ma su nel cielo infra i beati cori hai di stelle immortali aurea corona, tu spira10 al petto mio celesti ardori11, tu rischiara il mio canto, e tu perdona s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte12.

3

Sai che là corre il mondo ove più versi di sue dolcezze il lusinghier Parnaso13, e che ’l vero, condito in molli versi, i più schivi allettando ha persuaso. Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l’inganno suo vita riceve14.

Audio

1. Canto: Tasso rispetta il topos degli esordi dell’epica e nella prima ottava espone l’argomento. 2. pietose: pie, perché poste al servizio della fede. 3. capitano: Goffredo di Buglione. 4. Molto … mano: egli operò molto sia con la sua saggezza sia con la sua forza di guerrie­ ro (la mano). 5. acquisto: la conquista di Gerusalemme. 6. e in van … misto: (alla conquista) inutil­ mente si opposero le forze infernali e quelle, ad esse alleate, dei musulmani di Asia e Africa. Con l’espressione di Libia il popol l’autore intende riferirsi alle truppe egiziane (“Libia” per “Africa” è una sineddoche, la parte per il tutto).

7. e sotto … erranti: e ricondusse i compa­ gni erranti (di Goffredo) sotto l’insegna della croce (erranti per aver conosciuto momenti di perdizione morale che li hanno allontanati dagli obiettivi primari del loro impegno religioso e militare; specchio di questo “errore” è l’errare fisico, binomio topico dei romanzi cavallereschi). 8. O Musa: alla proposizione segue l’invocazione alla Musa. Lo scrupoloso rispetto dell’ortodossia fa sì che Tasso, a differenza di Dante, senta il bisogno di distinguere la musa pagana (che circonda la fronte di allori caduchi, destinati a perire) da quella cristiana, presentata come ispirazione celeste. 9. Elicona: il monte sacro alle Muse. 10. spira: ispira.

• la materia guerresca • la conciliazione tra classicismo e religiosità

• il rapporto tra diletto e vero • il motivo encomiastico

11. celesti ardori: un’ispirazione poetica e religiosa. 12. e tu perdona … le carte: e tu perdona se aggiungo fregi ornamentali al vero, se adorno in parte lo scritto di altri motivi di piacere (diletti), diversi dai tuoi (cioè diversi dai piaceri che derivano dal vero religioso, morale e storico). L’autore invoca il perdono della Musa in quanto, in conformità con le tesi espresse a proposito del poema eroico, intreccerà alla verità storica episodi di invenzione non rigidamente vincolati al piano storico e religioso. 13. là corre … Parnaso: i lettori (il mondo) sono attratti dagli allettamenti seducenti (lusinghier) della poesia (Parnaso, monte legato al culto di Apollo, il dio della poesia). 14. Così … riceve: la conclusione ripropone una celebre similitudine di origine lucreziana (De rerum natura, I, vv. 936-942), che è anche, come nel caso del poeta latino, una dichiarazione di poetica: l’inganno (in molli versi) non è fine a se stesso: serve a inculcare i valori positivi della fede, al pari dei soavi licor (di un liquido dolce) asperso sul bordo della tazza (vaso) porto al fanciullo malato (egro): egli beve l’amara medicina (succhi amari) che lo guarirà grazie all’ingannevole dolcezza cosparsa sull’orlo, e proprio in virtù di questo inganno resterà in vita.

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L’età della Controriforma

4

Tu, magnanimo Alfonso15, il qual ritogli al furor di fortuna e guidi in porto me peregrino errante, e fra gli scogli e fra l’onde agitato e quasi absorto16, queste mie carte in lieta fronte accogli, che quasi in voto a te sacrate i’ porto17. Forse un dì fia che la presaga penna osi scriver di te quel ch’or n’accenna18.

5

È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace il buon popol di Cristo unqua si veda, e con navi e cavalli al fero Trace cerchi ritòr la grande ingiusta preda, ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace, l’alto imperio de’ mari a te conceda19. Emulo di Goffredo, i nostri carmi intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.

15. magnanimo Alfonso: Alfonso II d’Este, duca di Ferrara dal 1559 al 1597. 16. il qual … absorto: tu che sottrai all’im­ perversare della sorte e conduci in porto me, pellegrino errante sballottato e quasi som­

merso (absorto) fra scogli e onde. Il motivo autobiografico della vita errante bersagliata dalla sorte avversa è presentato nei modi che caratterizzano l’incompiuta Canzone al Metauro ( T2, p. 561).

17. queste … porto: accogli con benevolen­ za questo poema che io presento a te come se fosse consacrato in voto. 18. Forse … n’accenna: verrà forse un gior­ no in cui la mia penna, presaga della tua glo­ ria, avrà l’ardire di scrivere di te quello che ora accenna a malapena, vale a dire che Alfonso II sarà a capo di una nuova crociata. 19. È ben … conceda: a ragione, se mai (unqua) accadrà che i cristiani (il buon popol di Cristo) vivranno in pace e con una flotta e con la cavalleria cerchino di sottrarre ai turchi il Santo Sepolcro di Cristo ingiustamente occu­ pato, daranno a te il comando supremo delle truppe di terra o della flotta. I turchi sono definiti fero Trace perché avevano occupato Costantinopoli, situata nell’antica Tracia.

Analisi del testo

> La prima ottava: i temi del poema

L’adeguazione al modello epico classico

La materia guerresca in primo piano

Il fine collettivo dell’eroismo

Il conflitto di fondo

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Il Proemio costituisce un’insostituibile chiave di lettura del poema, poiché fornisce tutta una serie di preziose indicazioni sulle sue tematiche, sulla sua organizzazione interna e sui princìpi di poetica che lo ispirano. Il verso iniziale, «Canto l’arme pietose e ’l capitano», è la ripresa esatta dell’inizio dell’Eneide virgiliana, «Canto le armi e l’eroe»: già questo solo fatto ci fa capire come Tasso voglia adeguarsi puntigliosamente al modello del poema epico classico che, nelle discussioni contemporanee, veniva contrapposto al modello del “romanzo” cavalleresco di Ariosto. Una conferma viene dalla formula «arme pietose». Nel verso d’esordio del Furioso compariva la coppia «l’arme, gli amori», caratteristica della tradizione cavalleresca; Tasso invece si concentra solo sul tema più alto e sublime, la materia guerresca, e non menziona più gli «amori». L’amore è ancora largamente presente nella Gerusalemme, ma non è più il motore principale dell’azione, come era nei poemi di Boiardo e Ariosto, anzi è declassato a ostacolo, è la principale di quelle forze disgregatrici che si oppongono all’impresa dei crociati e li sviano dal loro compito (questo nel progetto strutturale del poema: in realtà l’amore è uno dei temi fondamentali). Denso di significato è poi l’epiteto «pietose»: mentre le imprese guerriere degli eroi ariosteschi erano indirizzate essenzialmente a un fine individualistico e mondano, la conquista della donna, o di un’arma, o della gloria personale (solo nella seconda parte, più epica, venivano rivolte al fine collettivo della vittoria sui Mori), le armi degli eroi tassiani sono del tutto subordinate a un fine collettivo e di alto valore religioso, che supera quelli individuali, la liberazione del Santo Sepolcro. In questa prima ottava, in cui è sintetizzato l’argomento del poema, si può vedere inscritta tutta la sua tematica e la sua stessa struttura ideologica portante. Vi si delinea infatti il conflitto che lo informa, articolato su tre livelli, come ha ben indicato Zatti:

Capitolo 3 · Torquato Tasso

1. il cielo contro l’inferno, l’autorità di Dio che doma le forze di Satana; 2. le «arme pietose» dei crociati contro il «popol misto» dei pagani; 3. il «capitano», depositario del codice cristiano dell’unità, contro i «compagni erranti», che sono dispersi dalle forze centrifughe dell’amore, dell’onore, della gloria, e che si collocano anch’essi nel campo negativo del molteplice, come i pagani.

> La poetica La conciliazione tra classicismo e religiosità controriformistica

La subordinazione del diletto al vero

Le due ottave seguenti, dedicate all’invocazione alla Musa, contengono fondamentali indicazioni di poetica. Si nota innanzitutto la volontà di conciliare il classicismo con la religiosità controriformistica. Il poeta invoca sì la Musa, come esigono le regole del classicismo e l’ossequio ai modelli antichi, ma si affretta a precisare che non è la Musa pagana, bensì una pura allegoria dell’ispirazione che viene dal cielo al poeta cristiano. Il riferimento a questa ispirazione religiosa («celesti ardori») fa emergere in primo piano un conflitto, quello tra il «vero» e i «fregi» con cui il poeta lo adorna, tra il diletto e il fine morale della poesia. Secondo l’austera concezione controriformistica dell’arte, che le assegna finalità pedagogiche ed edificanti, compito del poeta sarebbe diffondere esclusivamente il «vero», cioè la verità della religione ed i precetti della morale, guardando con diffidenza le finzioni e le bellezze estetiche della poesia, che sono destinate a provocare piacere e perciò possono indurre al peccato. Ma il poeta deve fare i conti con i lettori e i loro gusti: il pubblico legge i poemi per ricavarne piacere e vi ricerca argomenti e forme gradevoli, allettanti, perciò chi scrive poesia non può non porsi come fine anche il diletto (il problema era già stato affrontato teoricamente nei Discorsi dell’arte poetica). Tasso supera la contraddizione subordinando il diletto al vero: l’austera materia morale, che respingerebbe i lettori, diviene accettabile se «condito in molli versi», rivestita cioè delle forme allettanti della poesia. Questa con la sua dolcezza e gradevolezza diviene veicolo di precetti ed edificanti insegnamenti. In questa luce il meraviglioso, l’amore, l’avventura, l’idillio, a livello dei contenuti, le belle immagini e la musicalità del verso, a livello formale, diventano strumenti per la diffusione di messaggi morali e religiosi.

> il poeta «peregrino errante» e la corte

Conformismo e irregolarità

Nella terza sezione del Proemio, quella encomiastica (ottave 4-5), emerge in primo piano un’immagine che il poeta ama spesso dare di sé, quella del «peregrino errante», perseguitato dalla fortuna e dalla sventura. Si delinea così un’opposizione tra la sua esistenza errabonda e instabile e la corte, vista come rifugio sicuro, garanzia di stabilità. Sono i due poli costitutivi di tutta l’esperienza tassiana, il conformismo e l’irregolarità, tra cui si muovono due forze contrarie, quella centripeta che porta il poeta a inseguire la gloria e il successo, a inserirsi nelle strutture della corte, a ossequiare le norme della Chiesa controriformistica, e quella centrifuga che lo induce all’inquietudine perenne, alla malinconia, alla fuga, sino al limite estremo della follia. In questa luce la figura del signore, che benevolo accoglie il «peregrino errante», assume il valore di un’immagine paterna e rassicurante, evocata dagli stessi conflitti profondi del poeta (come avviene anche nella Canzone al Metauro, T2, p. 561).

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

CoMprendere

> 1. Dopo aver valutato attentamente il contenuto delle singole ottave, indica gli argomenti sui quali il poeta sembra tornare più volte.

> 2. Dove si concentrano i riferimenti ad argomenti quali il canto poetico, le armi e la figura del «capitano»? AnALizzAre

> 3.

Stile

Individua gli enjambements presenti nel testo.

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L’età della Controriforma

> 4.

Stile Svolgi l’analisi sintattica della quarta strofa: quali caratteristiche sono riconducibili allo stile sublime che, secondo Tasso, si addice al poema eroico (essa «avrà del magnifico se saranno lunghi i periodi e lunghi i membri de’ quali il periodo è composto», La poetica: unità e varietà, lo stile sublime, p. 573)? > 5. Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli e/o le espressioni che appartengono all’area semantica del sacro e del divino.

Approfondire e inTerpreTAre

> 6.

Scrivere Dopo aver focalizzato l’attenzione sul modo in cui Tasso rappresenta la propria condizione esistenziale (anche in relazione alla Canzone al Metauro, cfr. nota 16), individua nella sua vita gli eventi riconducibili ai motivi autobiografici dell’erranza e della sorte avversa ed esponi le tue riflessioni in un testo di circa 10 righe (500 caratteri). > 7. Testi a confronto: esporre oralmente Confronta (max 8 minuti) il proemio della Gerusalemme liberata con quello dell’Orlando furioso di Ariosto ( L’età del Rinascimento, cap. 5, T3, p. 259): quali analogie e/o differenze si possono cogliere nell’ambientazione storica della vicenda, nell’indicazione dei personaggi e dei temi principali, nella ripresa del topos dell’invocazione alla Musa e nell’atteggiamento con cui i poeti si rivolgono ai committenti dell’opera?

per iL reCUpero

> 8. Proponi una breve sintesi del contenuto per ogni ottava.

Interpretazioni critiche

emilio russo Epica e romanzo nella Gerusalemme liberata Il critico esamina il rapporto fra il poema epico e la tradizione “romanzesca” del poema cavalleresco nella poetica tassiana e nella realizzazione della Gerusalemme liberata. Secondo Tasso anche i poemi cavallereschi devono sottostare alle regole del poema epico, ricavate da Aristotele. La statura epica deriva dalla materia storica, che garantisce l’unità contro la molteplicità labirintica del poema cavalleresco e fornisce un argomento di interesse vivo per il pubblico di fine Cinquecento. Su questo impianto si inseriscono i motivi romanzeschi, amori, avventure, incanti, evitando la dispersione cavalleresca ma anche la compressione in una rigida unità epica.

5

bassa

Emilio Russo nel suo discorso critico, che fa parte di una guida alla lettura della Gerusalemme liberata, inserisce il poema nel sistema dei generi letterari vigente al suo tempo e ricostruisce gli intenti che guidano il poeta nella composizione dell’opera, nonché il quadro teorico entro cui essi si iscrivono, quello dei princìpi aristotelici, dominanti all’epoca.

[…] sul rapporto tra epica e romanzo Tasso si era pronunciato in una pagina dei Discorsi dell’arte poetica, all’inizio degli anni ’60. A fronte di quanti tentavano di accreditare il romanzo come un genere nuovo, non previsto nella Poetica di Aristotele, e dunque di fatto sottratto alle sue prescrizioni, Tasso replicava non soltanto che il modello della Poetica era da considerarsi universalmente valido, ma anche che il romanzo non poteva essere distinto dall’epica: Se dunque il romanzo e l’epopeia1 sono d’una medesima spezie2, a gli oblighi delle stesse regole devono essere ristretti3, massimamente di quelle regole parlando che non solo in ogni poema eroico, ma in ogni poema assolutamente sono necessarie. Tale è l’unità della favola4, la quale Aristotele in ogni spezie di poema ricerca... (Discorsi dell’arte poetica, pp. 27-28).

1. epopeia: epica. 2. spezie: specie.

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3. ristretti: costretti. 4. favola: azione, intreccio narrativo.

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L’effetto di queste affermazioni era quello di ricondurre anche l’esperienza moderna dei poemi cavallereschi, e anzi tutto l’Orlando furioso dell’Ariosto, entro uno dei generi classici, e di sottrarre dunque al romanzo ogni autonomia rispetto alle regole aristoteliche. Le opere di Boiardo e Ariosto erano prove, splendide ma irregolari, di quella stessa epica della quale Tasso ambiva a fornire un capolavoro insieme regolare e moderno […]. Una posizione certo all’insegna del classicismo e che insieme tuttavia finiva per mantenere su un unico asse di svolgimento i capolavori della tradizione narrativa italiana. Proprio mentre negava una diversità e una specificità dei romanzi, Tasso all’interno del suo poema avviava un recupero di quella tradizione tanto profondo quanto assai attento, in un certo senso condizionato. Preliminari e strutturanti erano, come si è visto, le scelte che dovevano garantire la tenuta epica, almeno su due piani essenziali, quello della materia trattata e quello dello stile […]. La scelta di una materia storica e a forte caratura ideale comportava l’abbandono del mondo cavalleresco e dell’immaginario ad esso relativo, tanto labirintico ed errante5 quanto confinato in un regime fantastico privo di riscontri storici. Adottando la prima Crociata e la conquista della Terra Santa, Tasso selezionava un soggetto storico ancora vivo nella cultura dell’Europa cinquecentesca. Attorno a Gerusalemme si imperniava una guerra di religione contro gli infedeli che aveva evidente valore simbolico nella stagione successiva alla Riforma, con una divisione ideologica tra crociati e pagani solo in parte attenuata dalle dinamiche tra i personaggi. Una impostazione che, anche per alcune delle scelte tassiane attuate nel corso della revisione del poema, ha spesso portato alla definizione della Liberata quale poema simbolo della Controriforma: un poema che sarebbe cioè ispirato a una rigidità e a una ortodossia di posizioni convenienti a un’epoca di ripiegamento e di chiusura. […] La Crociata, con il suo valore storico puntuale e insieme di lunga durata6, rispettava in pieno le condizioni di un argomento illustre, tale da destare nell’animo del lettore “espettazione7 e diletto incredibile”, e da poter produrvi ogni effetto, ove accompagnato da adeguata abilità poetica. Apparentemente vincolante, dunque, la scelta di un soggetto storico si rivelava fertile di risultati, soprattutto sul piano di quella meraviglia che era principale obiettivo del poeta epico. Su questo impianto l’inserto di materiali romanzeschi era abbondante e insieme sorvegliato: se gli amori erano stati affiancati alle armi già nell’epica classica, la declinazione degli episodi (dalla sortita di Erminia alla parabola di Sveno, fino alla lunga parentesi dei canti XIV-XVI8) riprendeva in più passaggi la tradizione cavalleresca, a partire dall’Ariosto. La ripresa comportava però sempre un’attenta funzionalizzazione sul piano narrativo, con estrema cura per il congegno del racconto, […]. Era un’assunzione controllata del mondo cavalleresco, e del suo stesso impianto ideologico, molteplice ed erratico; una ripresa sempre accostata a sezioni schiettamente epiche, come le scene corali di guerra e la macelleria della battaglia conclusiva, impregnata delle memorie della Tebaide di Stazio9 oltre che dell’Eneide virgiliana. Il progetto di una nuova epica moderna passava dunque per il recupero di tutte le risorse della tradizione narrativa, classica e romanza: ciò però non comportava un’assolutizzazione dell’epos del romanzo, lo schiacciarsi della molteplicità nella prospettiva monologica10 dell’epica, incarnata da Goffredo, ma piuttosto l’impiego consapevole – sul piano della struttura generale e sul piano degli episodi particolari – di tutte le risorse del romanzo, dagli amori alle avventure, agli incanti. E. Russo, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, Laterza, Roma-Bari 2014

5. labirintico ed errante: allude alla struttura labirintica del poema cavalleresco, data dall’intrecciarsi delle varie avventure di numerosi personaggi. 6. di lunga durata: perché agiva ancora sulle coscienze a fine Cinquecento, dopo la Riforma protestante e nel clima di scontro

con gli Ottomani. 7. espettazione: aspettazione. 8. canti XIV-XVI: contengono le vicende di Rinaldo rapito da Armida. 9. Stazio: poeta latino (45 ca. - 96 d.C.), autore della Tebaide, un poema epico ispirato al mito della guerra dei sette contro Tebe.

10. monologica: nel senso che l’epica esige unità di azione, contro la molteplicità di fili narrativi del poema cavalleresco. Il termine proviene da Michail Bachtin, ed è il contrario di «polifonico».

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L’età della Controriforma

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Secondo Aristotele, che Tasso cita nel passo tratto dai Discorsi dell’arte poetica, un elemento in particolare accomuna il romanzo e l’epica classica: quale (rr. 1-19)?

> 2. Nelle righe 1-19 il critico sembra alludere ad un atteggiamento apparentemente contraddittorio di Tasso: quale?

> 3. Quale collegamento con il contesto storico del tempo di Tasso si può individuare nella scelta dell’argomento della Gerusalemme liberata (rr. 20-54)?

> 4. Quali caratteristiche il critico attribuisce al «progetto di una nuova epica moderna» di Tasso (r. 49)? AnALizzAre

> 5.

Lessico Dopo aver definito il significato del termine ortodossia, spiega se nel testo assume soltanto una valenza religiosa (rr. 20-54).

Approfondire e inTerpreTAre

> 6.

Scrivere Spiega in circa 10 righe (500 caratteri), in base al Proemio e all’illustrazione dell’intreccio del poema ( p. 574), la definizione di personaggio che incarna la «prospettiva monologica dell’epica» attribuita dal critico a Goffredo (rr. 20-54).

T5

La parentesi idillica di erminia dalla Gerusalemme liberata, VII, 1-22

Temi chiave

• la vita felice dei pastori • la polemica anticortigiana • l’interiorizzazione del racconto

Erminia, principessa pagana segretamente innamorata di Tancredi, ha assistito dall’alto delle mura di Gerusalemme al duello dell’amato con Argante ed è angosciata nel saperlo gravemente ferito. Vestita delle armi di Clorinda, esce nottetempo dalla città per raggiungerlo e curarlo. Ma, quando è già in vista del campo cristiano, viene sorpresa da una pattuglia di crociati, che hanno scorto il riflesso della luna sulla sua armatura. Erminia si dà perciò precipitosamente alla fuga nella foresta. 1

Intanto Erminia infra l’ombrose piante d’antica selva dal cavallo è scòrta1, né più governa il fren2 la man tremante, e mezza quasi par tra viva e morta. Per tante strade si raggira e tante il corridor ch’in sua balia la porta3, ch’al fin da gli occhi altrui pur4 si dilegua, ed è soverchio ormai ch’altri la segua5.

2

Qual dopo lunga e faticosa caccia tornansi mesti ed anelanti i cani che la fèra perduta abbian di traccia, nascosa in selva da gli aperti piani6,

1. scòrta: guidata. 2. il fren: le briglie. 3. il corridor … la porta: il cavallo al galop­ po che la conduce a suo piacere.

592

4. pur: anche. 5. ed è … segua: rendendo ormai superfluo ogni tentativo d’inseguimento. 6. che la fèra … piani: che abbiano smarrito

le orme (traccia) della fiera, che dai luoghi aperti e pianeggianti si è ritratta in un bosco.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

tal pieni d’ira e di vergogna in faccia riedono7 stanchi i cavalier cristiani. Ella pur fugge, e timida8 e smarrita non si volge a mirar s’anco è seguita9. 3

Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno errò senza consiglio10 e senza guida, non udendo o vedendo altro d’intorno, che le lagrime sue, che le sue strida. Ma ne l’ora che ’l sol dal carro adorno scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida11, giunse del bel Giordano a le chiare acque e scese in riva al fiume, e qui si giacque.

4

Cibo non prende già, ché de’ suoi mali solo si pasce12 e sol di pianto ha sete; ma ’l sonno, che de’ miseri mortali è co ’l suo dolce oblio posa e quiete, sopì co’ sensi i suoi dolori, e l’ali dispiegò sovra lei placide e chete13; né però cessa Amor con varie forme la sua pace turbar mentre ella dorme.

5

Non si destò fin che garrir gli augelli non sentì lieti e salutar gli albori, e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori14. Apre i languidi lumi15 e guarda quelli alberghi solitari de’ pastori16, e parle voce udir tra l’acqua e i rami ch’a i sospiri ed al pianto la richiami17.

6

Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti rotti18 da un chiaro suon ch’a lei ne viene, che sembra ed è di pastorali accenti misto e di boscareccie inculte avene19. Risorge20, e là s’indrizza a passi lenti, e vede un uom canuto a l’ombre amene tesser fiscelle21 a la sua greggia a canto ed ascoltan di tre fanciulli il canto.

7

Vedendo quivi comparir repente22 l’insolite23 arme, sbigottìr costoro;

7. riedono: ritornano. 8. timida: timorosa. 9. a mirar … seguita: a guardare se è ancora seguita. 10. senza consiglio: senza chiara intenzione. 11. Ma ne l’ora … s’annida: ma quando il sole, al tramonto, scioglie i cavalli dal suo bel (adorno) carro e si immerge in mare. 12. si pasce: si nutre. 13. ma ’l sonno … chete: ma il sonno, che con il dolce oblio che infonde, è riposo e quiete per gli infelici mortali, placò i suoi dolori facen­

do addormentare i sensi, e aprì sopra di lei le sue ali placide e tranquille. Il sonno è raffigurato come una divinità alata. 14. Non si destò … co i fiori: non si svegliò finché non udì gli uccelli salutare gli alberi con il loro gioioso garrire e (finché non udì) mor­ morare il fiume e gli alberelli, e (finché non udì) la brezza (aura) passare sulle onde (del fiume) e tra i fiori. È un locus amoenus. 15. lumi: occhi. 16. quelli … pastori: quei luoghi solitari che ospitano i pastori.

17. e parle … richiami: e le pare di udire una voce tra l’acqua del fiume e i rami, che la ri­ chiami al suo dolore. 18. rotti: interrotti. 19. di pastorali … avene: misto di canti dei pastori e di zampogne boscherecce. 20. Risorge: si alza. 21. tesser fiscelle: intrecciare ceste di vimini. 22. repente: improvvisamente. 23. insolite: le armi sono estranee ed in contrasto con il mondo pastorale.

593

L’età della Controriforma

ma li saluta Erminia e dolcemente gli affida24, e gli occhi scopre e i bei crin25 d’oro: – Seguite, – dice – aventurosa gente al Ciel diletta26, il bel vostro lavoro, ché non portano già guerra quest’armi a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi27 –. 8

Soggiunse poscia: – O padre28, or che d’intorno d’alto incendio di guerra arde il paese29, come qui state in placido soggiorno senza temer le militari offese30? – Figlio31, – ei rispose – d’ogni oltraggio e scorno la mia famiglia e la mia greggia illese sempre qui fur, né strepito di Marte ancor turbò questa remota parte32.

9

O sia grazia del Ciel che l’umiltade d’innocente pastor salvi e sublime33, o che, sì come il folgore non cade in basso pian ma su l’eccelse cime, così il furor di peregrine34 spade sol di gran re l’altere teste opprime35, né gli avidi soldati a preda alletta la nostra povertà vile e negletta36.

10

Altrui vile e negletta, a me sì cara che non bramo tesor né regal verga37, né cura o voglia ambiziosa o avara mai nel tranquillo del mio petto alberga38. Spengo la sete mia ne l’acqua chiara, che non tem’io che di venen s’asperga39, e questa greggia e l’orticel dispensa cibi non compri a la mia parca mensa40.

11

Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro bisogno onde la vita si conservi41. Son figli miei questi ch’addito e mostro, custodi de la mandra, e non ho servi. Così me ’n vivo in solitario chiostro42, saltar veggendo i capri43 snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume e spiegar gli augelletti al ciel le piume44.

24. gli affida: li rassicura. 25. crin: capelli. 26. Seguite … diletta: continuate, gente for­ tunata cara al Cielo. 27. carmi: canti. 28. O padre: l’appellativo rivela il rispetto e il bisogno di protezione di Erminia. 29. il paese: la regione. 30. le militari offese: le violenze dei soldati. 31. Figlio: il pastore non è ancora consapevole di parlare con una fanciulla, perché Erminia indossa un’armatura da guerriero. 32. d’ogni … parte: la mia famiglia e il mio

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gregge qui rimasero sempre illesi da ogni offesa e violenza, né lo strepito della guerra (di Marte) ha ancora turbato questi luoghi appartati. 33. O sia … sublime: o sia una grazia del Cielo che preservi e onori (terza persona del verbo) l’umiltà dell’innocente pastore. 34. peregrine: straniere. 35. opprime: colpisce. 36. né gli avidi … negletta: né la nostra po­ vertà modesta e spregiata alletta gli avidi sol­ dati a cercare preda. 37. regal verga: scettro regale. 38. né cura … alberga: né preoccupazioni

ambiziose o desideri avidi risiedono nella tran­ quillità del mio petto. 39. che … s’asperga: che sia avvelenata (come può avvenire nelle corti). 40. e questa … mensa: e questo gregge e l’orticello forniscono alla mia sobria mensa cibi non comprati. La comunità dei pastori, morigerata e parsimoniosa, è autosufficiente. 41. onde … conservi: per vivere. 42. chiostro: luogo chiuso e separato dal mondo. 43. i capri: i caprioli. 44. le piume: le ali.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

12

Tempo già fu, quando più l’uom vaneggia ne l’età prima, ch’ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia45; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi46 un tempo, e ne la reggia fra i ministri47 del re fui posto anch’io, e benché fossi guardian de gli orti48 vidi e conobbi pur l’inique corti.

13

Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion ciò che più spiace49; ma poi ch’insieme con l’età fiorita mancò la speme e la baldanza audace, piansi i riposi di quest’umil vita50 e sospirai la mia perduta pace, e dissi: «O corte, a Dio». Così, a gli amici boschi tornando, ho tratto51 i dì felici –.

14

Mentre ei così ragiona52, Erminia pende da la soave bocca intenta e cheta; e quel saggio parlar, ch’al cor le scende, de’ sensi in parte le procelle53 acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno ch’agevoli fortuna il suo ritorno54.

15

Onde al buon vecchio dice: – O fortunato55, ch’un tempo conoscesti il male a prova56, se non t’invidii il Ciel sì dolce stato, de le miserie mie pietà ti mova; e me teco raccogli in così grato albergo ch’abitar teco mi giova57. Forse fia58 che ’l mio core infra quest’ombre del suo peso mortal parte disgombre59.

16

Ché se di gemme e d’or, che ’l vulgo adora sì come idoli suoi, tu fossi vago60, potresti ben, tante n’ho meco ancora61, renderne il tuo desio contento e pago62 –.

45. quando … greggia: quando l’uomo nel­ la prima giovinezza più si perde dietro vanità, ebbi altri desideri e disdegnai di pascolare il gregge. 46. Menfi: in Egitto. 47. ministri: servi. 48. orti: giardini. 49. Pur … spiace: ciononostante, allettato dalla speranza di buone ricompense, tollerai a lungo una realtà molto spiacevole: la perdita della libertà. 50. ma poi … vita: ma dopo che insieme con la giovinezza vennero meno la speranza e l’audace baldanza, rimpiansi la quiete di que­

sta umile vita. 51. tratto: trascorso. 52. ragiona: parla. 53. procelle: tempeste. 54. consiglio … ritorno: prende la decisione di restare in quel luogo solitario e appartato (secreta) almeno fin tanto che il caso agevoli il suo ritorno. 55. O fortunato: riecheggia la lode della vita agreste cantata da Virgilio nelle Georgiche: «O veramente fortunati, i contadini, se conoscessero i pregi della loro vita!» (libro II, vv. 468 e ss.). 56. a prova: per esperienza.

57. se … giova: possa il Cielo non privarti del tuo felice stato, abbi compassione delle mie misere condizioni e accoglimi con te in questa sede così piacevole (grato), che mi è gradito (giova) abitare insieme con te. Il se introduce una formula augurale, che ha il compito di procurare benevolenza nell’ascoltatore. 58. fia: avverrà. 59. del suo … disgombre: si liberi dal suo affanno mortale. 60. vago: desideroso. 61. tante … ancora: (dato che) ne ho con me (n’ho meco) ancora tante. 62. contento e pago: soddisfatto e appagato.

595

L’età della Controriforma

Quinci, versando da’ begli occhi fora umor di doglia cristallino e vago63, parte narrò di sue fortune64, e intanto il pietoso pastor pianse al suo pianto. 17

Poi dolce la consola e sì l’accoglie come tutt’arda di paterno zelo, e la conduce ov’è l’antica65 moglie che di conforme cor66 gli ha data il Cielo. La fanciulla regal di rozze spoglie s’ammanta67 e cinge al crin ruvido velo; ma nel moto de gli occhi e de le membra non già di boschi abitatrice sembra.

18

Non copre abito vil la nobil luce68 e quanto è in lei d’altero e di gentile, e fuor la maestà regia traluce per gli atti ancor de l’essercizio umile69. Guida la greggia a i paschi70 e la riduce71 con la povera verga al chiuso ovile, e da l’irsute mamme il latte preme e ’n giro accolto poi lo stringe insieme72.

19

Sovente, allor che su gli estivi ardori73 giacean le pecorelle a l’ombra assise74, ne la scorza de’ faggi e de gli allori segnò l’amato nome75 in mille guise76, e de’ suoi strani ed infelici amori gli aspri successi77 in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note rigò di belle lagrime le gote.

20

Indi dicea piangendo: – In voi serbate questa dolente istoria, amiche piante; perché se fia78 ch’a le vostr’ombre grate79 giamai soggiorni alcun fedele amante, senta svegliarsi al cor dolce pietate de le sventure mie sì varie e tante, e dica: «Ah troppo ingiusta empia mercede diè Fortuna ed Amore a sì gran fede80!».

21

Forse averrà81, se ’l Ciel benigno ascolta affettuoso alcun prego mortale82,

63. umor … vago: lacrime di dolore, limpide e belle. 64. di sue fortune: delle sue vicende. 65. antica: anziana. 66. di conforme cor: di sentimenti conformi ai suoi (cioè pietosi e generosi). 67. di rozze spoglie s’ammanta: indossa semplici abiti. 68. la nobil luce: la luminosa nobiltà del suo aspetto. 69. fuor … umile: la nobiltà che si manifesta attraverso la sua bellezza traspare anche dalle

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umili occupazioni pastorali. 70. paschi: pascoli. 71. riduce: riconduce. 72. da l’irsute … insieme: munge il latte dalle irsute mammelle (delle capre) e poi lo comprime in forme rotonde (di formaggio). 73. su gli estivi ardori: durante la calura estiva. 74. assise: adagiate. 75. l’amato nome: è il nome di Tancredi. 76. in mille guise: in mille forme. 77. aspri successi: tristi casi.

78. se fia: se accadrà. 79. grate: gradevoli. 80. Ah troppo … fede: la Fortuna o Amore diedero una ricompensa troppo ingiusta a così grande fedeltà. 81. Forse averrà: i versi riportano alla memoria un passo (vv. 27-39) della canzone petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque. 82. se ’l Ciel … mortale: se il Cielo ascolta benevolmente qualche fervida (affettuoso) preghiera umana.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

che venga in queste selve anco tal volta83 quegli a cui di me forse or nulla cale84; e rivolgendo gli occhi ove sepolta giacerà questa spoglia inferma e frale85, tardo premio conceda a i miei martìri di poche lagrimette e di sospiri86; 22

83. tal volta: un giorno. 84. cale: importa. 85. inferma e frale: debole e fragile. 86. tardo … sospiri: conceda alle mie soffe­

onde se in vita il cor misero fue, sia lo spirito in morte almen felice, e ’l cener freddo de le fiamme sue goda quel ch’or godere a me non lice87 –. Così ragiona a i sordi tronchi, e due fonti di pianto da’ begli occhi elice88. renze una tarda ricompensa di poche lacri­ mette e di sospiri. 87. cener … lice: la mia fredda cenere possa godere di quella fiamma d’amore dalla quale

ora non mi è concesso trarre alcuna gioia. 88. elice: fa sgorgare.

Competenze attivate

Analisi attiva CoMprendere

> erminia tra i pastori

• Leggere, comprendere ed interpretare testi letterari: poesia • Dimostrare consapevolezza della storicità della letteratura • Produrre testi scritti di vario tipo in relazione ai differenti

scopi comunicativi

Il canto VII si apre sulla fuga a cavallo di Erminia, che dopo aver corso al galoppo, disperata e senza meta, per una notte e un’intera giornata giunge al tramonto sulle rive del fiume Giordano, dove si abbandona a terra sfinita e cade addormentata. Il mattino seguente, al risveglio, si ritrova in un paesaggio agreste, popolato da pastori che conducono una vita semplice, presso i quali trova rifugio. Nella dolce pace della natura, lontano dagli orrori della guerra, la fanciulla riprende a sognare d’amore.

> 1. Riassumi il contenuto del brano in 20-25 righe (1000-1250 caratteri).

AnALizzAre

> erminia e Angelica

L’episodio si articola in tre sequenze: la fuga di Erminia (ottave 1-4), il suo incontro con i pastori (ottave 5-16) e la descrizione della sua vita nell’ambiente pastorale (ottave 17-22). La prima sequenza rivela in modo evidente la presenza del modello ariostesco, la fuga di Angelica nel canto I del Furioso ( L’età del Rinascimento, cap. 5, T4, p. 263). Il clima è però del tutto diverso, e differenti sono le due figure femminili e la rispettiva funzione degli episodi nei due poemi: Angelica passava con disinvoltura dal ruolo di vittima fragile e indifesa a quello di scaltra e cinica opportunista, Erminia invece resta la fanciulla timida e smarrita, e incarna un’immagine femminile di inerme debolezza e dolcezza. Angelica offriva quindi ad Ariosto l’occasione per la sua riflessione lucida e ironicamente distaccata sulla mobilità del reale, in cui tutto muta incessantemente e non è mai identico a se stesso; la fuga di Erminia ha invece la funzione di introdurre una nota patetica, che suscita l’identificazione emotiva e soggettiva del poeta.

> 2. Confronta le ottave 1-4 di questo canto con le ottave 13 e 33-38 del canto I dell’Orlando furioso di Ariosto. Quali analogie e differenze rintracci nei due ambienti naturali e nelle modalità di fuga rispettivamente di Erminia e di Angelica? > 3. Estendi il confronto anche al movente che caratterizza le due rispettive fughe.

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L’età della Controriforma

> La contrapposizione tra idillio e guerra

> 4. In rapporto a che cosa si può

> L’episodio nella struttura del poema e le forze centrifughe

> 5. Che cosa s’intende per forze

L’episodio idillico dei pastori introduce una forte variazione tonale rispetto alla materia guerresca ed eroica, e in particolare rispetto all’episodio che immediatamente precede, quello del duello di Tancredi con Argante. Diversamente che nel Furioso, dove la grande varietà di toni tende a comporsi in un superiore, armonico equilibrio, nella Gerusalemme tra i toni diversi s’instaura una tensione, e alla base delle variazioni vi è sempre una segreta conflittualità nel poeta. L’avventura di Erminia si contrappone al clima guerresco, non si colloca in studiato equilibrio con esso. In Tasso c’è la volontà di celebrare magnanime imprese e azioni gloriose, ma si direbbe che la tensione eroica non riesca a reggere, che subentri nel poeta una stanchezza per gli scontri, il sangue e le morti. L’episodio di Erminia introduce una frattura nell’unità spaziale e determina un movimento centrifugo che allontana l’azione dallo scenario centrale dell’assedio. Altri movimenti centrifughi, come quello di Tancredi verso il castello di Armida sul Mar Morto e quello di Rinaldo verso le isole Fortunate, sono funzionali alla struttura narrativa, per lo meno in misura negativa, in quanto costituiscono l’indispensabile ostacolo, il momento della dispersione che deve essere superato, e quindi fanno avanzare l’intreccio; la “pastorale” di Erminia è invece una pura digressione del tutto ininfluente allo sviluppo dell’azione. Questa estraneità dell’episodio alla struttura narrativa generale ne sottolinea il valore di fuga fantastica da parte del poeta, che cede all’impulso, anch’esso centrifugo, di lasciare la materia epica e guerresca per abbandonarsi a più miti fantasie.

centrifughe?

> 6. Che cosa distingue il movimen-

to centrifugo di Erminia da quelli di Tancredi e Rinaldo?

> La proiezione autobiografica

> 7. Perché si può sostenere che la figura di Erminia è emblema di Tasso?

> il sogno idillico e la polemica anticortigiana

> 8. Illustra l’ideale di vita delineato dal vecchio pastore e confrontalo con la rappresentazione dell’età dell’oro presente nell’Aminta ( T3, p. 567): quali analogie e quali differenze si possono cogliere?

Si può intendere di qui anche il valore di proiezione autobiografica che possiede il personaggio di Erminia: nell’anima tormentata che trova la pace nell’idillio pastorale il poeta proietta se stesso, le proprie inquietudini e le proprie aspirazioni ad un rifugio di serenità e di quiete. L’episodio di Erminia, insomma, è un sogno evasivo. Tasso si compiace di indugiare su un mondo di tranquilla pace, dai costumi schietti e semplici, vicini allo stato di natura. Il tema idillico-pastorale aveva avuto lunga fortuna nella civiltà rinascimentale, ed era stato toccato da Tasso stesso nell’Aminta. Storicamente esso si caricava del bisogno di evasione a contatto con la natura che era proprio degli ambienti cortigiani. Tale bisogno diviene più intenso e struggente nel tardo Cinquecento, quando la vita delle corti si irrigidisce nei formalismi esteriori dell’assolutismo principesco. Non meraviglia quindi veder comparire nel poema una nota di polemica anticortigiana, affidata al racconto del vecchio pastore.

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parlare di una variazione tonale? Che valore assume tale variazione?

Capitolo 3 · Torquato Tasso

> La vita pastorale e il ritmo narrativo

Nella terza sequenza cambia il ritmo narrativo. La fuga e l’incontro con i pastori sono delle scene; la rappresentazione della vita pastorale di Erminia è invece impostata nei termini del sommario riassuntivo: il tempo del discorso è più breve di quello della storia, ed è un tempo non scandito sulla misura precisa delle ore e dei giorni. La narrazione si fa iterativa, narra cioè una volta ciò che avviene un numero indefinito di volte, a dare il senso del ritmo sempre eguale di una vita quieta, del ripetersi riposato di gesti umili e quotidiani. Quel tempo indeterminato è il più adatto a rendere l’interiorizzazione del racconto. Non contano più le azioni esteriori di Erminia, ma ciò che si svolge nella sua anima.

> il personaggio di erminia

Erminia è un personaggio che vive quasi esclusivamente nella propria interiorità, non agisce nella realtà esterna. Costantemente, per tutto il poema, compare in scena nell’atto di abbandonarsi a sogni e fantasticherie. L’unica eccezione è stata la sua audace sortita da Gerusalemme, ma lo slancio attivo si è subito esaurito nello smarrimento della fuga. Ora l’ozio pastorale favorisce il richiudersi di Erminia nella solitudine della sua anima. Le sue fantasticherie patetiche e struggenti ricalcano un antico motivo della poesia amorosa, già presente negli elegiaci latini e in Petrarca (nella canzone Chiare, fresche e dolci acque, vv. 27-37).

> Un clima di effusione patetica

Coerente con questo raccoglimento nell’intimità è il motivo delle lacrime, che, come ha notato Getto, compare continuamente nell’arco dell’episodio. È un tema caro a Tasso, che ama spesso insistere, con una sorta di sensuale voluttà e di molle abbandono, sulle lacrime dei suoi personaggi, creando un clima di effusione patetica.

> 9. Spiega la varietà di ritmo dei tre segmenti narrativi individuati.

> 10. Illustra le azioni e i gesti quotidiani dell’umile vita pastorale di Erminia.

> 11. Rintraccia tutte le espressioni che caratterizzano Erminia prima in fuga (ad esempio «la man tremante», ottava I) poi ospite dei pastori («intenta e cheta», ottava 14). Ti sembra che nel personaggio avvengano delle trasformazioni? Motiva la tua risposta.

> 12. Ricostruisci le fantasticherie di Erminia e fai un confronto con la canzone petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque (vv. 27-37), che ne è il modello. > 13. Individua tutti i termini riconducibili all’area semantica del pianto.

Approfondire e inTerpreTAre

> il motivo del travestimento

Per due volte nell’episodio Erminia assume spoglie non sue, prima celandosi nell’armatura di Clorinda per uscire indisturbata da Gerusalemme, poi indossando le umili vesti della pastorella. Il travestimento non è solo un espediente romanzesco, ma sembra acquistare per Erminia una motivazione più profonda.

> 14. Che significato assume il trave-

stimento, in rapporto alla particolare psicologia del personaggio? A quali bisogni sembra rispondere? Esponi le tue riflessioni in un breve testo.

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L’età della Controriforma

La voce del Novecento

Paesi tuoi: il mondo rurale senza idillio di Cesare pavese Nel romanzo di Pavese (1908-50), scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, il protagonista Berto è un meccanico torinese che, uscito di prigione, lascia la città dove non ha né casa né lavoro e segue il compagno di cella Talino nelle Langhe, una zona rurale del Piemonte, per lavorare nella cascina del padre del giovane contadino. Talino era stato incarcerato perché sospettato di aver dato fuoco a una cascina nelle vicinanze.

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Poi prendiamo una strada più stretta, senza paracarri, che traversava un prato in salita, e arriviamo alla cascina. Era grossa, e prima cosa vedo un’ala di portici sotto il fienile, e i buoi fermi davanti a un carro, e delle donne intorno. Talino leva il fagotto e si mette a gridare. Allora grido anch’io. Una donna comincia a correre e un can barbone ci salta addosso, ma non sembra neanche che arriviamo da Torino. Una giovane pianta il tridente nel fieno, un ragazzotto corre in casa; da dietro il carro esce un vecchio storto, in maniche di camicia, e ci guarda, la mano sugli occhi1. Io mi fermo; Talino saluta: «In gamba, Pa’!» e niente succede. Il vecchio grida verso la casa: «Donne, è arrivato» e si volta a guardarmi. Poi dà una voce alle donne del carro, e ci viene incontro. Mentre parlano insieme, ci guardiamo. Il vecchio aveva in testa una cappellinaccia sfondata e parlando con Talino sembrava che ascoltasse me. «Ti ho capito», dico io, «questo è più furbo del figlio». Sembrava che perdesse i calzoni, per via che stava storto, con la mano sul fianco più basso […]. [Il padre rimprovera Talino perché la sera dell’incendio si era nascosto in un pozzo, facendo nascere subito i sospetti su di lui.]

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Le donne ferme intorno al carro mi guardavano, e sulla porta di casa uscì una vecchia. Intanto il cane mi fiutava. Fiuto anch’io l’odore del fieno e vengo avanti e dico ridendo che a buon conto era inutile pigliarsela adesso, visto ch’era tornato. Talino dice allora chi ero, e il vecchio mi guarda le scarpe e si gratta dentro i calzoni, e si volta a quelle del carro gridando di finire prima di notte. Poi dice a Talino: «Va’ dalla vecchia; poi da’ una mano a scaricare» e Talino s’incammina, col suo fagotto. Dalla porta si volta e ci grida: «Fategli vedere la macchina, Pa’!». [Il vecchio mostra a Berto la trebbiatrice.]

Fuori accendo, e troviamo le donne che portavano l’acqua alle bestie con un mastello. Una sembrava giovane e andava scalza, ma era più nera e più spessa2 di Talino. Tenevano il mastello, una mano per una, e correvano piegate per non sentire il peso e ridevano

1. la mano sugli occhi: per ripararsi dal sole. 2. spessa: tozza, tarchiata.

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Capitolo 3 · Torquato Tasso

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come fanno le donne. La più grande si ferma e fa fermare l’altra e dice a Talino: «Da’ una mano a tua sorella». Allora vengo avanti e faccio per prendere io il manico che aveva lasciato. Talino fa un salto e dice: «Tu sei il macchinista» e mi scarta abbrancando il mastello. Se ne vanno Talino e la più giovane, ridendomi dietro, e noi restiamo davanti alla stalla. «Se la bevono tutta?» dico all’altra sorella. «Salute! Non ne avete un bicchiere per me?» Allora il vecchio fece segno alla donna, che se ne andò di mala grazia per la stalla e ritornò con la bottiglia del vino dentro un secchio. Mentre aspettavo, i ragazzi mi guardavano la sigaretta, e uno mi faceva il verso con la mano. Il vecchio dice: «Mi chiamo Vinverra» e riempì tre bicchieri. Prima di riempirli li tuffava nel secchio e buttava via l’acqua sull’aia. I ragazzi guardavano. «Talino, vieni a bere» grida il vecchio. Talino correva dietro a quella diavola nella stalla. Sento che si abbrancano e ridono. La sorella va sulla porta e li chiama. Quando ci siamo tutti e tre, il vecchio mi dice: «Al piacere» e tracanna e poi butta la goccia per terra. Io e Talino beviamo più adagio, e Talino rideva; era fresco e un po’ brusco3, un’acquetta, e mi fece ballare negli occhi tutta la collina e mi viene in mente che l’incendio di Talino era stato lassù. «Vi siete messi d’accordo?» dice Talino col bicchiere in mano. «Non c’era bisogno di tante parole» fa il vecchio, «tu sei sempre il più intero4». Poi mi portano a cena, e mi dànno il minestrone in una stanza che sembrava in cantina. Mangiavamo ch’era quasi scuro, e tra donne e bambini si masticava anche le mosche. I bambini facevano mucchio per terra con la scodella sulle ginocchia. La pietanza di noialtri era il vino. Le ragazze bevevano meglio di me. Ce n’era quattro. Sento che chiamano Miliota quella che aveva portato da bere alle bestie. Con vent’anni aveva la pelle di un uomo a quaranta, e faceva venire in mente il piatto spesso dove mangiavo. Erano quasi tutte scalze, e sotto la tavola pestavo dei piedi, ma loro non sentivano il male. Da mangiare ce ne dava una nonna ch’era la madre di tutte e di Talino e girava a riempire le scodelle dei nipoti, e le dicevano: «Sedetevi, Ma’» perché chinandosi gemeva e aveva sempre qualcuno nelle gambe. Pareva impossibile, a vedere le figlie, che le fosse uscita di dosso tanta roba5. Faceva spavento pensare che schiena e che gambe doveva aver avuto da sposa, e adesso com’era ammuffita. Il vecchio Vinverra, cappellina in testa, ci guardava tutti sopra il cucchiaio, e sorbiva. Si alza un’altra ragazza dal fondo e dice: «Accendiamo il petrolio». La vecchia borbotta di no perché tira le mosche. «Tanto ci sono» gridano le altre, e portano la lampada e io metto il cerino. Alla luce quelle facce diventano come ai bagni di mare, più cotte e più larghe. Quella che aveva acceso si toglie il fazzoletto e si tocca i capelli; non l’avevo guardata prima, somigliava a Talino ma solo un’idea6: era la meno manza7 e la meno nera, e si aggiustava i capelli di nascosto. […] Un bel momento Talino si drizza e viene dietro alla ragazza che mi guardava, e le ficca una mano nel collo e lei fa un salto e tutti ridevano. Talino le aveva cacciato qualcosa sulla faccia e fregava, e la ragazza sputava, e Talino diceva: «Col peperone sul bocchino... come si fa a Torino»; finché la ragazza non si fu liberata e scappò per la scala. «Ben fatto», dice il vecchio Vinverra. Le altre ridevano: «Gisella, Gisella» e la vecchia malediva dal buio.

3. brusco: acidulo (voce del dialetto piemontese). 4. intero: tardo, tonto (altra espressione

dialettale). 5. le fosse … roba: che fossero uscite da lei tutte quelle figlie così tarchiate.

6. un’idea: un poco. 7. meno manza: meno tozza.

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Stiamo attenti, non siamo più a Torino, dico tra me in quel caldo. Questo qui con la scusa che è stupido, mi fa incornare da un bue alla prima occasione, se non gli lascio le sorelle per lui. Ma a buon conto si chiama Gisella. Le altre due si chiamavano Pina e l’Adele, ma l’Adele era quella che ci aveva portato da bere col secchio, e aveva già fatto i suoi bambini e sembrava la madre di tutta la casa. Dava l’aria8 a Talino anche come guardava; e io, che avevo visto Talino là dentro fare il bagno, mi figuravo che pelle e che sudore dovevano averci tutte sotto la camicia. Poi l’Adele, mangiato e bevuto, va per la strada di Gisella, e ritorna con uno appena nato attaccato alla poppa e si siede sullo scalino della porta. Dopo un po’, vedo che anche Gisella era seduta sullo scalino. La vecchia porta sulla tavola un catino d’insalata, e Talino la mescola in piedi, prende degli altri peperoni, la vecchia taglia le cipolle, e ci buttano tutto e ci versano dentro l’aceto. Poi mi dicono di pulire il piatto col pane, e me lo riempiono. Faceva ridere la vecchia che, sdentata com’era, si succhiava i pomodori come fossero uova. «Gisella li ha già mangiati i peperoni» dice Talino, a bocca piena. Vinverra, che aveva finito, si alza borbottando. Talino si mette a ridere. Allora Gisella dalla porta dice senza voltarsi: «Vatti a sotterrare.» Talino dice: «Erano buoni i peperoni?» «Vatti a sotterrare.» «Te lo sei fatto il bocchino?» «Vatti a sotterrare!» «Tu piantala lì» dice il vecchio sulla porta. Le altre ridevano. «Vatti a sotterrare!» grida Gisella voltandosi come una matta. «Torna in prigione dov’eri! Sei soltanto un vigliacco. Ti sei fatto accompagnare perché avevi paura…» «Erano buoni i peperoni?» «…Hai paura di tutti, perché c’è Rico9 che ti cerca. Hai paura di quelli del Prato. Sei soltanto capace a scappare di notte e ti sei fatto accompagnare perché avevi paura. Vigliac-

8. Dava l’aria: somigliava. 9. Rico: il padrone della cascina incendiata da Talino. Federico Patellani, Contadine e bambini, 1947, fotografia.

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co e bastardo, sei soltanto capace a scappare di notte…» Qui si misero tutti a gridare perché il vecchio s’era tolta la cinghia e picchiava Gisella come fosse una scarpa. Ma Gisella non scappava; ficcava la testa contro il fianco d’Adele e mugolava e sembrava un serpente10 e l’Adele riparava il suo bambino col braccio. Il vecchio non diceva niente: s’era tolta la cappellina e batteva. Io, a vent’anni, al posto di Gisella, l’avrei fatta vedere a quel vecchio. Poi Vinverra, finita la donna, fa un mezzo giro e salta addosso all’uomo, che stava già tra il lusco e il brusco11, e gliene molla una cinghiata che si sentì in tutta la stanza. Ma Talino scappò subito. Fecero tutti silenzio, anche la vecchia: solo si sentiva Gisella sbavare sullo scalino e l’Adele coccolare il piccolo che non si era neanche staccato. Fermo in mezzo alla stanza, il vecchio dice: «Fuori tutti!». Usciamo nel cortile scavalcando le due donne e ci sediamo sul trave, e Vinverra si porta la sedia. Una volta passati tutti, Gisella salta in piedi e va a nascondersi in casa. «Non sembra neanche suo fratello» dice Vinverra accendendo il toscano. Un’occasione così doverla perdere, e una ragazza che si sta rivoltando non poterla portare in un prato. Perché il bello in campagna è che tutto ha il suo odore, e quello del fieno mi dava alla testa: un profumo che le donne, solo che abbiano un sangue un po’ sveglio, dovrebbero stendersi. Guardo in su i pipistrelli che volano e mi vedo davanti, bella rosa, la collina del treno12, col suo capezzolo sulla punta13, e dei lumi sul fianco, e mi volto, ma la casa nasconde quell’altra che si vedeva dall’aia. Siamo in mezzo a due mammelle, dico; qui nessuno ci pensa, ma siamo in mezzo a due mammelle. Cesare Pavese, Paesi tuoi, Einaudi, Torino 2006

10. sembrava un serpente: perché si contorceva. 11. tra … brusco: incerto tra restare o

scappare. 12. del treno: vista dal treno, arrivando. 13. suo capezzolo … punta: un ciuffo

di alberi, che in cima alla collina tonda come una mammella sembra un capezzolo.

Analisi del testo L’incontro con la realtà rurale

Una rappresentazione apparentemente realistica

> idealizzazione della campagna e “realismo” moderno

Anche Berto, in fuga dalla città dove è a disagio, incontra come l’Erminia tassesca la realtà rurale, un mondo tutto diverso dal proprio. Ma è interessante vedere quali significati assuma nello scrittore novecentesco un tema così ampiamente diffuso nella letteratura, sin dalla classicità greca e romana, come l’evasione verso la campagna, l’ambiente agricolo-pastorale. Nell’impostazione idillica di Tasso i pastori, anche se depositari del valore della semplicità di vita, sono altamente idealizzati, secondo la tradizione bucolica antica, rinverdita nel Quattro-Cinquecento classicheggiante (si ricordi l’Arcadia di Sannazaro). Anche nella letteratura novecentesca spesso l’ambiente rurale viene idealizzato, come sede di tutto ciò che è naturale, spontaneo, autentico, in contrapposizione alla città: ma non è il caso di Pavese. In Pavese troviamo una campagna rappresentata nei suoi aspetti più crudi e realistici, come testimoniano le figure di Vinverra, di Talino e delle sorelle e i loro rapporti brutali. O almeno così sembra se ci si ferma ad un primo e più superficiale livello del testo (come al suo apparire avvenne al romanzo, che fu subito accostato al verismo). In realtà dietro a quel livello si cela tutta una dimensione simbolica sotterranea. 603

L’età della Controriforma

> il «selvaggio», la donna e la terra Una regressione nel ferino

La sessualizzazione della campagna

Il tema dell’incesto Il sacrificio umano Il fuoco e i riti di fecondazione

Paesi tuoi e il clima decadente

Per Pavese la campagna è il «selvaggio», il primitivo, rimasto intatto a sedimentare nell’età presente, con i suoi impulsi animaleschi e i suoi riti primordiali. Il viaggio da Torino alle Langhe, che è al centro del libro, non è tanto un viaggio nello spazio, quanto nel tempo. Il contatto con la campagna e i suoi abitanti è per il protagonista una regressione nel ferino: lo sguardo di Berto è attratto ossessivamente dalla fisicità greve, dai tratti rozzi e bestiali delle sorelle di Talino, il corpo massiccio che ricorda i bovini, la voce grossa, la pelle spessa e annerita dal sole, i piedi scalzi e terrosi, la sporcizia, l’odore. Vi è un’identificazione della donna con la terra, e viceversa la terra è femminilizzata: torna in modo egualmente ossessivo in queste pagine il paragone delle colline con le mammelle.

> il sesso, il sangue, il fuoco

Il carattere ossessivo di questa sessualizzazione è complicato e reso più torbido dal rapporto ambiguo di Talino con le sorelle, che allude in modo sottile all’incesto: che in effetti c’è stato, con Gisella, tempo prima, e in forma brutale e cruenta. Al sesso si accompagnano, nel testo, la violenza e il sangue. Al momento culminante del racconto Talino ucciderà poi Gisella sull’aia mentre si trebbia il grano: un atto sanguinario che, al di là dell’apparenza di un fatto di cronaca nera, allude segretamente ai sacrifici umani primitivi, compiuti per dar forza feconda alla natura col sangue. Si aggiunge poi il motivo del fuoco, rappresentato dal piromane Talino: e anche l’accensione di falò nei campi era un arcaico rito di fecondazione della terra. Insomma, nella campagna pavesiana del pieno Novecento vivono ancora i riti ancestrali del sesso, del sangue e del fuoco, propri delle antiche civiltà agricole, sia pur dissimulati dietro le apparenze della quotidianità rurale e delle sue abituali operazioni. Il mondo della campagna in Pavese, quindi, solo a livello superficiale può risultare una rappresentazione realistica: in realtà si collega più al clima decadente, che ama appunto vagheggiare il selvaggio, il primitivo, il ferino, connessi spesso con una sessualità torbida e crudele. Non a caso il paragone tra la collina e la mammella proviene da un romanzo di d’Annunzio, il Trionfo della morte (1894): «Il sole s’inchinava sulla montagna, aspergendola d’oro, come su un’amante supina che l’aspettasse. La Maiella, imbevuta di quel liquido oro, s’arrotondava nel cielo come l’arco d’un seno gonfio».

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Sintetizza la descrizione delle figure femminili presentate nel brano. > 2. Quali riferimenti al duro lavoro della campagna sono presenti nel testo? AnALizzAre

> 3.

narratologia Qual è il punto di vista adottato per la narrazione? E quale giudizio positivo sulla vita di campagna viene espresso attraverso la sua prospettiva? > 4. Stile Individua nel brano altre similitudini o metafore oltre a quelle illustrate nell’Analisi del testo. > 5. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni (oltre a quelli presenti in nota) sembrano ispirati a un registro colloquiale prossimo alla comunicazione orale e popolare?

Approfondire e inTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente Quali elementi della vicenda narrata concorrono a determinare la visione anti-idillica del mondo rurale da parte di Pavese? Prima di rispondere, rileggi l’episodio tassiano di Erminia fra i pastori (max 8 minuti).

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Capitolo 3 · Torquato Tasso

Analisi interattiva

T6

La morte di Clorinda dalla Gerusalemme liberata, XII, 50-71

Temi chiave

• l’ambiguità tra amore e morte • gli interventi della voce narrante • ispirazione religiosa e sensualità

Clorinda e Argante sono usciti nottetempo da Gerusalemme intensa per incendiare la torre mobile con cui i crociati hanno dato l’assalto alle mura. Riuscita l’impresa tentano di ricoverarsi nuovamente in città, ma Clorinda, mentre sta per rientrare, è ferita dal guerriero cristiano Arimone e si volge per punirlo. Le porte intanto vengono serrate e Clorinda resta esclusa. 50

Ma poi che intepidì la mente irata nel sangue del nemico e in sé rivenne1, vide chiuse le porte e intorniata sé da’ nemici, e morta allor si tenne2. Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata, nov’arte di salvarsi le sovenne3. Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti cheta s’avolge; e non è chi la noti4.

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Poi, come lupo tacito s’imbosca5 dopo occulto misfatto, e si desvia6, da la confusion, da l’aura fosca favorita e nascosa, ella se ’n gìa7. Solo Tancredi avien che lei conosca8; egli quivi è sorgiunto9 alquanto pria; vi giunse allor ch’essa Arimon uccise: vide e segnolla10, e dietro a lei si mise.

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Vuol ne l’armi provarla11: un uom la stima degno a cui sua virtù si paragone12. Va girando colei l’alpestre cima13 verso altra porta, ove d’entrar dispone14. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d’armi suone, ch’ella si volge15 e grida: – O tu, che porte16, che corri sì? – Risponde: – E guerra e morte.

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– Guerra e morte avrai; – disse – io non rifiuto darlati17, se la cerchi –, e ferma attende. Non vuol Tancredi, che pedon18 veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l’uno e l’altro il ferro19 acuto, ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende; e vansi a ritrovar20 non altrimenti che duo21 tori gelosi e d’ira ardenti.

Audio

1. Ma poi … rivenne: ma dopo che Clorinda ebbe calmato l’animo adirato con l’uccisione del nemico e ritornò in sé. 2. morta … si tenne: si ritenne morta. 3. Pur … sovenne: tuttavia, poiché vede che nessuno guarda verso di lei, le viene in mente uno stratagemma per salvarsi.

4.Di lor … noti: si finge cristiana e si mescola fur­ tivamente tra i guerrieri ignoti, e nessuno la nota. 5. s’imbosca: entra nel bosco. 6. si desvia: si allontana dalle vie battute. 7. da la confusion … se ’n gìa: se ne andava favorita e nascosta dalla confusione e dall’aria tenebrosa.

8. lei conosca: si accorga di lei. 9. sorgiunto: sopraggiunto. 10. segnolla: la tenne d’occhio. 11. Vuol … provarla: vuole sfidarla a duello. 12. degno … paragone: con cui misurarsi, da pari a pari, in valore. 13. l’alpestre cima: uno dei colli su cui sorge Gerusalemme. 14. dispone: pensa. 15. onde … si volge: per cui molto prima di raggiungerla succede che faccia risuonare le armi, cosicché ella si volta. 16. che porte: che cosa porti. 17. darlati: dartela (la morte). 18. pedon: a piedi, e quindi in condizioni di svantaggio. 19. il ferro: la spada. 20. vansi a ritrovar: si assaltano. 21. duo: due.

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Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno teatro, opre sarian sì memorande22. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l’oblio fatto sì grande23, piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno a le future età lo spieghi e mande24. Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria25.

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Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte26. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi27: toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte28. Odi le spade orribilmente urtarsi a mezzo il ferro29, il piè d’orma non parte30; sempre è il piè fermo e la man sempre in moto, né scende taglio in van, né punta a vòto.

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L’onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l’onta rinova31; onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s’aggiunge e cagion nova32.

22. Degne … memorande: costruire: im­ prese così memorabili sarebbero degne della chiara luce del giorno, di un pieno teatro. 23. che … grande: è invocata la notte, che ha nascosto nella sua oscurità o nell’oblio un evento tanto nobile. 24. piacciati … mande: consenti che io lo tol­ ga dall’oblio e nella chiara luce della poesia (bel sereno) lo esponga e lo tramandi alle età future. 25. tra lor gloria … memoria: le gesta glo­ riose dei duellanti renderanno illustre anche il ricordo di quella notte. 26. ha parte: trova posto. 27. or finti … scarsi: finte, affondi, colpi leg­ geri. 28. toglie … l’arte: l’oscurità e il cieco furore dei duellanti impediscono il rispetto delle nor­ me della scherma. 29. a mezzo il ferro: a metà della lama. 30. il piè … parte: i piedi (dei duellanti) non si spostano dal luogo dove sono piantati. 31. L’onta … rinova: la vergogna di una feri­ ta ricevuta sprona il duellante adirato a vendi­ carsi, e il colpo del guerriero che vendica la fe­ rita ricevuta suscita a sua volta nel nemico nuovo sdegno. 32. onde … nova: per cui si aggiungono sempre un nuovo stimolo e una causa nuova al ferire e alla fretta (di finire l’avversario).

Domenico Tintoretto, Tancredi battezza Clorinda, 1586-1600, olio su tela, Houston (Texas, USA), The Museum of Fine Arts.

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Capitolo 3 · Torquato Tasso

D’or in or più si mesce e più ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova33: dansi co’ pomi34, e infelloniti e crudi35 cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. 57

Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que’ nodi tenaci ella si scinge36, nodi di fer nemico37 e non d’amante. Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge con molte piaghe38; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira.

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L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue39 su ’l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in oriente acceso40. Vede Tancredi in maggior copia41 il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso42. Ne gode e superbisce. Oh nostra folle mente ch’ogn’aura di fortuna estolle43!

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Misero, di che godi? oh quanto mesti fiano44 i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Così tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro45 alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l’altro scoprisse46:

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– Nostra sventura è ben che qui s’impieghi tanto valor, dove silenzio il copra47. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l’opra, pregoti (se fra l’arme han loco i preghi) che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore48.

33. D’or ... giova: la battaglia diviene sempre più confusa e ravvicinata ed è impossibile adoperare la spada. 34. dansi co’ pomi: si colpiscono con le else delle spade. 35. infelloniti e crudi: (divenuti ormai) irri­ spettosi delle regole cavalleresche e quindi crudeli e spietati. 36. si scinge: si scioglie. 37. fer nemico: feroce nemico. 38. Tornano … piaghe: tornano a usare la spada e l’uno e l’altra la bagna di sangue con molte ferite.

39. essangue: dissanguato. 40. Già … acceso: già il raggio dell’ultima stella impallidisce (langue) alle prime luci dell’alba che appaiono ad oriente. 41. copia: quantità. 42. offeso: ferito. 43. Oh … estolle: la follia degli uomini si manifesta nel loro insuperbire per ogni minimo soffio di buona fortuna (che è oggetto, aura soggetto). Estolle alla lettera significa innalza, spinge verso l’alto. 44. fiano: saranno. 45. cessaro: smisero di combattere.

46. scoprisse: rivelasse. 47. Nostra … copra: siamo proprio sfortuna­ ti a dar prova di tanto valore in un luogo dove il silenzio lo cancellerà (perché non ci sono testimoni). 48. Ma poi … onore: ma poiché ci capita una sorte avversa, che ci nega sia la gloria (lode) sia testimoni degni della nostra impresa, ti prego (se le preghiere possono trovar posto fra i combattimenti) di rivelarmi il tuo nome e la tua condizione, affinché io sappia, o vinto o vincitore, chi renda onorata la mia morte o la mia vittoria.

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Risponde la feroce: – Indarno chiedi quel c’ho per uso di non far palese49. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese. – Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: – In mal punto50 il dicesti; – indi riprese – il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta, barbaro discortese, a la vendetta51. –

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Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta, benché debili in guerra52. Oh fera pugna, u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta, ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!53 Oh che sanguigna e spaziosa porta fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna54, ne l’arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita.

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Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto ritien de l’onde anco agitate e grosse55, tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto56 quel vigor che le braccia e i colpi mosse, serbano ancor l’impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger57 danno a danno.

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Ma ecco omai l’ora fatale è giunta che ’l viver di Clorinda al suo fin deve58. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ’l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve59, l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e ’l piè le manca egro e languente60.

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Segue egli la vittoria61, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme62. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme;

49. Indarno … palese: inutilmente chiedi ciò che ho l’abitudine di non rendere noto. 50. In mal punto: in un momento inoppor­ tuno. 51. il tuo … vendetta: quanto hai detto (di essere responsabile dell’incendio della torre) e quanto hai taciuto (la tua identità) mi spingono in egual misura alla vendetta, bar­ baro scortese. 52. li trasporta … guerra: li trascina a ri­ prendere il combattimento, benché deboli. 53. Oh fera pugna … pugna!: o feroce scon­ tro in cui (u’, dove, latino ubi) le regole della

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scherma non sono osservate, in cui ormai la forza è spenta e, al suo posto, combatte solo il furore d’entrambi! 54. Oh che ... giugna: oh che squarcio largo e sanguinoso fa l’una e l’altra spada, ovunque giunga a colpire. 55. Qual … grosse: come il profondo mare Egeo, benché cessino di spirare Aquilone (vento del Nord) o Noto (vento del Sud), che pri­ ma tutto lo sconvolgevano e lo agitavano, non per questo si calma, ma conserva il frago­ re e il movimento delle onde ancora agitate e grosse.

56. co ’l sangue vòto: per il sangue versato. 57. giunger: aggiungere. 58. deve: si può intendere nel senso di “è debitore” oppure di “deve” (sottinteso “giungere”). 59. e la veste … leve: e la veste che, ricama­ ta leggiadramente d’oro, stringeva morbida e leggera le mammelle (tenera e leve vanno riferiti a veste). 60. egro e languente: vacillante e indebolito. 61. Segue egli la vittoria: persegue la vitto­ ria con impeto incalzante e vittorioso. 62. preme: insegue.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

parole ch’a lei novo un spirto ditta63, spirto di fé, di carità, di speme64: virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella65. 66

– Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave66, a l’alma67 sì; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave68. – In queste voci69 languide risuona un non so che di flebile e soave ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza70.

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Poco quindi lontan nel sen del monte71 scaturia mormorando un picciol rio. Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio72. Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio73. La vide, la conobbe74, e restò senza e voce e moto75. Ahi vista! ahi conoscenza!

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Non morì già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise76, e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise77. Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise78; e in atto di morir lieto e vivace79, dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace».

63. novo … ditta: un nuovo sentimento ispira. 64. speme: speranza (vengono enumerate le tre virtù teologali, fede, speranza e carità). 65. e se … ancella: e se in vita fu ribelle (a Dio, cioè infedele), in morte (Dio) la vuole fe­ dele a sé (ancella). 66. pave: teme (perché ormai è prossimo alla morte). 67. l’alma: l’anima. 68. lave: lavi, purifichi. 69. voci: parole.

70. ogni sdegno … sforza: spegne ogni ran­ core e invoglia e costringe gli occhi a piangere. 71. Poco … monte: poco lontano di lì (quindi) nel fianco (sen) della montagna. 72. grande … pio: al grande e pio compito (di battezzarla). 73. la fronte … scoprio: liberò dall’elmo e scoprì il volto ancora sconosciuto. 74. conobbe: riconobbe. 75. restò … moto: restò incapace di parlare e di muoversi. 76. sue virtuti … mise: raccolse tutte le sue

forze vitali in quell’istante e le pose a sostegno del suo cuore. 77. e premendo … uccise: e reprimendo il suo affanno si volse a dare la vita spirituale con l’acqua (del battesimo) a colei a cui aveva tolto la vita terrena con la spada. 78. Mentre … rise: mentre egli pronunciò la formula rituale del battesimo, Clorinda si tra­ sfigurò per la gioia e sorrise. 79. in atto … vivace: Clorinda muore con un atteggiamento lieto e vivo (della nuova vita spirituale datale dal battesimo).

pesare le parole Pave (ottava 66, v. 2)

> Viene dal latino pavère, “aver paura”: è un latinismo che

si trova solo nella lingua letteraria, ma dalla stessa radice deriva una parola in uso tutt’oggi, seppure nella lingua colta, paventare, “temere” (es. pavento un esito negativo della ricerca). Di uso comune è invece spaventare, composto con il prefisso rafforzativo s-, “incutere paura”, con il sostantivo spavento e l’aggettivo spaventoso. Dalla me-

desima radice viene la stessa parola paura, dal latino volgare pavùram, affine al termine classico pavòrem. E probabilmente da quella radice deriva spavaldo, “temerario, troppo sicuro di sé”, da pàvidum, “pauroso”, con il prefisso s- questa volta negativo e il suffisso -aldo peggiorativo (es. il ragazzo ostenta un atteggiamento spavaldo che nasconde una segreta insicurezza).

609

L’età della Controriforma

69

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso80, come a’ gigli sarian miste viole81, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ’l sole82; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa forma passa83 la bella donna, e par che dorma.

70

Come l’alma gentile uscita ei vede, rallenta quel vigor ch’avea raccolto84; e l’imperio di sé libero cede al duol già fatto impetuoso e stolto85, ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede la vita, empie di morte i sensi e ’l volto86. Già simile a l’estinto il vivo langue al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue87.

71

E ben la vita sua sdegnosa e schiva, spezzando a forza il suo ritegno frale, la bella anima sciolta al fin seguiva, che poco inanzi a lei spiegava l’ale88; ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva, cui trae bisogno d’acqua o d’altro tale89, e con la donna il cavalier ne porta, in sé mal vivo e morto in lei ch’è morta90.

80. asperso: cosparso. 81. come … viole: i gigli corrispondono al candore del volto, le viole al pallore diffuso dalla morte. 82. e gli occhi … sole: rivolge fissamente gli occhi al cielo, e il cielo e il sole sembrano rivolti verso di lei per la pietà. 83. passa: trapassa. 84. Come … raccolto: appena vede uscita dal corpo quell’anima nobile, lascia affievolire quelle forze che aveva raccolto (a sostegno

del suo cuore). 85. e l’imperio … stolto: cede il completo dominio del suo animo al dolore, divenuto già impetuoso e forsennato. 86. chiusa … ’l volto: confinata la vita in una sede ristretta (il cor), fa sì che il corpo e il volto assumano le sembianze della morte. 87. Già simile … sangue: il vivo giace privo di sensi, già simile alla morta nel pallore, nel silenzio, nell’atteggiamento, nel sangue (che esce dalle ferite).

88. E ben … l’ale: e certamente la sua anima, avendo ormai a sdegno la vita e volendo fug­ girla, spezzando con la violenza il debole vin­ colo che la legava al corpo avrebbe seguito alla fine la bella anima di Clorinda, sciolta dal cor­ po, che volava verso il cielo poco davanti a lei. 89. ma quivi … tale: ma qui arriva per caso una schiera di crociati, condotti lì dal bisogno di acqua o di altra simile cosa (approvvigionamenti). 90. in sé … morta: di per sé moribondo, ma già morto nell’anima per la morte di Clorinda.

Analisi del testo

> il gusto dell’ambiguità e l’identificazione emotiva

L’ambiguità tra desiderio e violenza

Gli interventi del narratore

610

Nell’impostazione dell’episodio è insita una fondamentale ambiguità, tra desiderio e crudele violenza, tra amore e morte. I due protagonisti dovrebbero amarsi, mentre inconsapevolmente si odiano e si causano sofferenza, e addirittura la morte. Emerge qui il gusto compiaciuto di Tasso per l’ambiguità, per le situazioni duplici e ambivalenti, intimamente conflittuali. L’ambiguità della situazione è vagheggiata con segreto compiacimento. Il segno rivelatore della partecipazione soggettiva dell’autore sono gli interventi della voce narrante, soprattutto l’apostrofe rivolta a Tancredi in uno dei momenti culminanti, quando l’eroe gode al vedere il sangue dell’avversario che sgorga più copiosamente: «Misero, di che godi? [...] / Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) / di quel sangue ogni stilla un mar di pianto». Queste intrusioni del narratore hanno nella Gerusalemme

Capitolo 3 · Torquato Tasso

L’atmosfera notturna

una funzione diametralmente opposta a quella che avevano nel Furioso: per Ariosto erano strumenti dello straniamento, segnavano il distacco dell’autore dalla materia, che era presa come punto d’avvio della riflessione lucida e disincantata sul reale; in Tasso invece testimoniano l’impostazione tutta soggettiva del racconto, il fatto che l’autore nei suoi personaggi proietta se stesso. Questo gusto per l’ambiguità e questa immedesimazione emotiva rivelano una sensibilità nuova, più sottile e tormentata di quella della letteratura del primo Rinascimento, un affiorare di brividi e inquietudini, che sono il riflesso di un momento di crisi della civiltà. L’atmosfera notturna in cui si svolge il duello è lo scenario più coerente con questa inquieta sensibilità. Mentre la letteratura e la pittura del primo Cinquecento amavano le scene collocate in una luce piena e meridiana, che scandiva con nettezza linee, volumi e colori, Tasso, come anche la pittura manierista del suo tempo, ama l’ombra, che è misteriosa, avvolgente, indistinta, e vela di ambiguità il reale. Se la luce piena può tradurre simbolicamente la fiducia nel dominio razionale sul mondo, le tenebre notturne amate da Tasso sembrano simboleggiare una crisi della ragione, che è insidiata da nuove perplessità e si affaccia su realtà ignote e inquietanti.

> il «bifrontismo» di Clorinda La trasformazione di Clorinda La negazione della femminilità

L’emergere della femminilità negata

L’ispirazione religiosa e la sensualità

L’episodio è nettamente bipartito in due sequenze: la prima è costituita dal duello, la seconda dalla morte dell’eroina. In questa seconda sequenza la figura di Clorinda subisce una radicale trasformazione: la feroce guerriera, che affrontava impavidamente l’avversario e si rivelava dura e barbarica nel respingere ogni attenuazione cavalleresca della crudeltà della lotta, si trasforma in una delicata fanciulla. Ciò che sin qui ha caratterizzato Clorinda è il rifiuto della propria autentica identità, la negazione della femminilità: l’eroina era chiusa nell’armatura, che, con la sua durezza, sembrava l’emblema concreto di una repressione di ogni istinto naturale, di ogni desiderio, di ogni abbandono alla dolcezza (come ha opportunamente notato Zatti). Ora Clorinda depone il duro guscio che la isolava dalla realtà e mascherava la sua autentica essenza, riacquista la sua identità e viene a coincidere con la sua vera immagine femminile. Ciò è contrassegnato da un ricupero del corpo, della fisicità, che prima era ignorata e negata: per questo ora la voce narrante insiste sul «bel sen», sulle «mammelle», sulla «tenera e leve» veste che le stringe, sul «bianco volto». Ma anche qui si fa strada quell’ambiguità che è costitutiva dell’ispirazione tassesca, il suo fondamentale «bifrontismo». La trasformazione dell’eroina è duplice: non solo essa riacquista la sua femminilità, ma scopre la verità della religione cristiana ed è intimamente rinnovata dalla Grazia; Clorinda ritrova il corpo e la dimensione della fisicità proprio nel momento in cui la morte la libera dalla fisicità per innalzarla in un’altra dimensione, quella puramente spirituale. Tutta la scena della morte dell’eroina appare così percorsa dall’ambiguità tra l’ispirazione religiosa, sorretta da intenti edificanti, ed una segreta sensualità. Da un lato Clorinda morente è trasfigurata da una gioia sovrumana che la rapisce in paradiso ed appare quasi nelle sembianze della martire cristiana effigiata in tanta pittura controriformistica, che muore con gli occhi levati verso il cielo, in una estatica contemplazione del sovrannaturale; dall’altro lato però il poeta insiste non solo sul rapimento spirituale della morente, ma soprattutto sulla sua bellezza («bel pallore», «passa la bella donna»); e della bellezza si coglie una visione particolare, il gusto di una bellezza martoriata e languente, un vagheggiamento voluttuoso, che ha qualcosa di sottilmente perverso e torbido, del morire che accresce il fascino della bella donna. Emozione religiosa e sensualità intensa, vagamente morbosa, si mescolano indissolubilmente, in un tutto indistinguibile. Non bisogna però commettere l’errore di credere che questa mistione ambigua sminuisca la forza poetica dell’episodio: al contrario è proprio l’ambiguità che gli conferisce suggestive profondità di piani. 611

L’età della Controriforma

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Il testo è stato diviso in sequenze; assegna a ciascuna un titolo, secondo l’esempio proposto. ottave

Titolo

50-54

Guerra e morte… ...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

55-58

...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

59-61

...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

62-65

...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

66-69

...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

70-71

...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

> 2. I duellanti rispettano le leggi cavalleresche? > 3. A che cosa si riferisce il poeta con l’espressione «nodi di fer nemico e non d’amante» (ottava 57, v. 4)? > 4. Quando ha luogo la morte della guerriera? In quale ora del giorno? Quale significato simbolico si può attribuire a tale ambientazione?

AnALizzAre

> 5. > 6.

Stile Stile

Individua alle ottave 65 e 68 la figura dell’antitesi associata a quella del chiasmo. Rintraccia e sottolinea le similitudini presenti nel componimento.

Approfondire e inTerpreTAre

> 7. Il duello fra Tancredi e Clorinda e la morte di quest’ultima rappresentano il compimento tragico di una vicen-

da amorosa e del destino dei due personaggi: se Clorinda riacquista la sua femminilità e scopre la verità della fede, che cosa accade a Tancredi? > 8. Competenze digitali Realizza una presentazione multimediale, presentando e mettendo a confronto le seguenti eroine dell’epica: Camilla, vergine guerriera dell’Eneide di Virgilio, Bradamante, eroina del Furioso di Ariosto, e Clorinda, guerriera della Liberata di Tasso. per iL poTenziAMenTo

Audio

> 9. Altri linguaggi: musica Nell’ottava 54 è lo stesso Tasso a sottolineare la teatralità della scena: «degne d’un pieno / teatro, opre sarian sì memorande». Claudio Monteverdi (1576-1643), tra i Madrigali guerrieri et amorosi, include il Combattimento di Tancredi e Clorinda, mettendo in musica le ottave della Liberata. Cerca in rete e ascolta il brano: in che modo, secondo te, il musicista interpreta e rende con le note le delicate e drammatiche sfumature del testo di Tasso? Come è resa la drammaticità del duello? E la scena finale? Copertina dell’album Monteverdi: Combattimento di Tancredi & Clorinda, Lamento della Ninfa ed altri madrigali, Françoise Lasserre, Guillemette Laurens, 2004.

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Capitolo 3 · Torquato Tasso

T7

La selva incantata

Temi chiave

• la dimensione simbolica • il tema della selva

dalla Gerusalemme liberata, XIII, 17-46

Dopo che Clorinda e Argante hanno incendiato la grande torre con cui i cristiani avevano dato l’assalto alle mura, il mago Ismeno vuole impedire che i nemici ne costruiscano un’altra, perciò getta l’incantesimo sulla selva di Saron, in modo che da essa non possa essere più ricavato legname. 17

Ma in questo mezzo il pio Buglion non vòle che la forte cittade in van si batta, se non è prima la maggior sua mole ed alcuna altra machina rifatta1. E i fabri al bosco invia che porger sòle ad uso tal pronta materia ed atta2. Vanno costor su l’alba a la foresta, ma timor novo al suo apparir gli arresta3.

18

Qual semplice bambin mirar non osa dove insolite larve abbia presenti, o come pave ne la notte ombrosa, imaginando pur mostri e portenti4, così temean, senza saper qual cosa siasi quella però che gli sgomenti, se non che ’l timor forse a i sensi finge maggior prodigi di Chimera o Sfinge5.

19

Torna la turba, e misera e smarrita varia e confonde sì le cose e i detti ch’ella nel riferir n’è poi schernita, né son creduti i mostruosi effetti6. Allor vi manda il capitano ardita e forte squadra di guerrieri eletti7, perché sia scorta a l’altra e ’n esseguire i magisteri suoi le porga ardire8.

1. Ma … rifatta: ma nel frattempo il pio Bu­ glione non vuole che la città fortificata (forte) venga percossa inutilmente (con macchine minori), se non vengono prima rifatte la gran­ de torre e qualche altra macchina bellica.

2. porger … atta: è solito offrire legname pronto e adatto a tale uso (cioè costruire le macchine). 3. timor … arresta: un timore inconsueto, strano, all’apparire della foresta li ferma.

4. Qual … portenti: come l’ingenuo bambi­ no non osa guardare dove gli sembra siano presenti fantasmi inquietanti, o come prova paura nella notte tenebrosa, immaginando solo mostri o fatti portentosi. 5. così … Sfinge: così temevano, senza però sapere che cosa fosse ciò che li sgomentava, se non che forse la loro paura rappresentava ai loro sensi prodigi più spaventosi che la Chime­ ra o la Sfinge (figure mitologiche mostruose dell’antichità). 6. Torna … effetti: torna il gruppo (dei fabbri) ed espone i fatti in modi diversi e confonde talmente le varie versioni che mentre racconta viene schernito, né i fatti prodigiosi vengono creduti. 7. eletti: scelti. 8. perché … ardire: perché faccia da scorta all’altra (dei fabbri) e le infonda coraggio nel compiere il suo lavoro (magisteri).

pesare le parole Larve (ottava 18, v. 2 e ottava 36, v. 3)

> Deriva dal latino làrvam, “fantasma”. Questo senso è rimasto nell’uso letterario (Ungaretti, L’isola, vv. 7-8: «e una larva (languiva / e rifioriva) vide»). Nella lingua attuale la parola è usata nel registro colto col senso di “apparenza vana” (es. insegue una larva di gloria) e in senso figurato col senso di “persona emaciata, sparuta, smunta” (es. è ridotto alla larva di se stesso); emaciato viene dal latino ex- rafforzativo più màciem, “magrezza”, sparuto da ex- negativo e parère, quindi “sparire”,

smunto da ex- rafforzativo più mungere, “esaurire, togliere floridezza”. In zoologia la larva è la prima forma, transitoria, di animali soggetti a metamorfosi, come ad esempio le farfalle (es. ho trovato delle larve nel pacchetto della pasta). L’aggettivo larvato indica ciò che non è completamente manifesto (es. è una forma larvata di influenza): il senso viene da uno dei significati di larva, “maschera”, per cui larvato vale propriamente “mascherato”.

613

L’età della Controriforma

20

Questi, appressando ove lor seggio han posto gli empi demoni in quel selvaggio orrore, non rimiràr le nere ombre sì tosto, che lor si scosse e tornò ghiaccio il core9. Pur oltra ancor se ’n gian, tenendo ascosto sotto audaci sembianti il vil timore10; e tanto s’avanzàr che lunge poco11 erano omai da l’incantato loco.

21

Esce allor de la selva un suon repente12 che par rimbombo di terren che treme13, e ’l mormorar de gli Austri14 in lui si sente e ’l pianto d’onda che fra scogli geme. Come rugge il leon, fischia il serpente, come urla il lupo e come l’orso freme v’odi, e v’odi le trombe, e v’odi il tuono: tanti e sì fatti suoni esprime un suono15.

22

In tutti allor s’impallidìr le gote e la temenza a mille segni apparse16, né disciplina tanto o ragion pote ch’osin di gire inanzi o di fermarse, ch’a l’occulta virtù che gli percote son le difese loro anguste e scarse17. Fuggono al fine; e un d’essi, in cotal guisa scusando il fatto, il pio Buglion n’avisa18:

23

– Signor, non è di noi chi più si vante troncar la selva, ch’ella è sì guardata ch’io credo (e ’l giurerei) che in quelle piante abbia la reggia sua Pluton traslata19. Ben ha tre volte e più d’aspro diamante ricinto il cor chi intrepido la guata20; né senso v’ha colui ch’udir s’arrischia21 come tonando insieme rugge e fischia. –

24

Così costui parlava. Alcasto v’era fra molti che l’udian presente a sorte22: l’uom di temerità stupida e fera23, sprezzator de’ mortali e de la morte;

9. Questi … core: non appena questi (i guerrieri scelti), avvicinandosi al luogo dove si era­ no insediati gli empi demoni nell’orrida selva, guardarono le nere ombre, il loro cuore tremò e si agghiacciò. 10. Pur … timore: (nonostante la sensazione raggelante) procedono oltre, occultando il vile timore con l’ostentazione della padronan­ za di sé. 11. lunge poco: poco lontano. 12. repente: improvvisamente.

614

13. che treme: che tremi (a causa di un terremoto). 14. Austri: i venti del sud. 15. tanti … suono: il suono prodotto dalla selva è dunque il risultato dei più inquietanti rumori conosciuti. 16. la temenza … apparse: la paura appar­ ve da mille segni. 17. né disciplina … scarse: né la disciplina militare o la ragione possono far sì che osino andare avanti o fermarsi, perché contro la mi­

steriosa potenza che li colpisce le loro possibili­ tà di difesa sono deboli e insufficienti. 18. in cotal … n’avisa: ne informa il pio Bu­ glione in questo modo, giustificando l’accaduto. 19. non è … traslata: non vi è più nessuno fra noi che si vanti di tagliare gli alberi, perché la selva è così custodita che io credo (e sarei disposto a giurarlo) che in quelle piante abbia trasferito la sua reggia Plutone (il dio degli inferi, vale a dire Satana, perché, come avviene spesso nel poema, la mitologia pagana si sovrappone a quella cristiana). 20. Ben … guata: certo colui che riesce a guardare intrepidamente la selva ha il cuore protetto da una triplice o ancora più spessa corazza di duro diamante. 21. né … s’arrischia: né ha sentimento in cuore colui che si arrischia a udire. 22. a sorte: per caso. 23. l’uom … fera: l’uomo di temerarietà stu­ pida e feroce.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

che non avria temuto orribil fèra24, né mostro formidabile25 ad uom forte, né tremoto26, né folgore, né vento, né s’altro ha il mondo più di violento. 25

Crollava il capo e sorridea dicendo27: – Dove costui non osa, io gir confido28; io sol quel bosco di troncar intendo che di torbidi sogni è fatto nido29. Già no ’l mi vieterà fantasma orrendo né di selva o d’augei30 fremito o grido, o pur tra quei sì spaventosi chiostri d’ir ne l’inferno il varco a me si mostri31. –

26

Cotal si vanta al capitano, e tolta da lui licenza il cavalier s’invia32; e rimira la selva, e poscia ascolta quel che da lei novo rimbombo uscia33, né però il piede audace indietro volta ma securo e sprezzante è come pria34; e già calcato avrebbe il suol difeso, ma gli s’oppone (o pargli) un foco acceso35.

27

Cresce il gran foco, e ’n forma d’alte mura stende le fiamme torbide36 e fumanti; e ne cinge quel bosco, e l’assecura ch’altri gli arbori suoi non tronchi e schianti37. Le maggiori sue fiamme hanno figura38 di castelli superbi e torreggianti, e di tormenti bellici ha munite le rocche sue questa novella Dite39.

28

Oh quanti appaion mostri armati in guarda40 de gli alti merli e in che terribil faccia!

24. fèra: fiera, belva feroce. 25. formidabile: temibile. 26. tremoto: terremoto. 27. Crollava … dicendo: il suo atteggiamento segnala il totale disprezzo del pericolo.

28. gir confido: ho il coraggio di andare. 29. io sol ... nido: io solo ho intenzione di ta­ gliare gli alberi di quel bosco, che è divenuto sede di oscuri fantasmi. 30. augei: uccelli.

31. o pur … mostri: neppure se tra quei luo­ ghi spaventosi mi si mostri il varco per entrare nell’inferno. 32. Cotal … s’invia: in tal modo si vanta da­ vanti a Goffredo e, ricevuto il permesso, il cava­ liere si avvia (verso la foresta). 33. quel … uscia: quello strano rimbombo che usciva da essa. 34. pria: prima. 35. e già … acceso: e già avrebbe calpestato il suolo custodito (dai diavoli), ma si oppone (o così gli pare) un fuoco acceso. 36. torbide: turbinanti. 37. l’assecura … schianti: lo rende sicuro dal fatto che altri non tronchi e schianti i suoi alberi. 38. figura: l’aspetto. 39. e di tormenti … Dite: e questa nuova città infernale (Dite) ha le sue mura difese da macchine da guerra (tormenti bellici). 40. in guarda: a guardia.

pesare le parole Formidabile (ottava 24, v. 6) > Deriva

dal latino formidàbilem, dal verbo formidàre, “temere” (formìdinem, “timore”). Qui conserva il senso originario, “che incute paura, spaventoso”. Nella lingua attuale si è attenuata sino quasi a sparire l’idea di timore e il senso corrente della parola è “che eccede la normalità in senso positivo o negativo”, “straordinario, eccezionale” (il passaggio tra i due sensi è che

ciò che è straordinario incute sempre anche un poco di paura; es. ho un appetito formidabile, ha avuto un’idea formidabile, è un tipo formidabile). Straordinario viene da extra- e ordinàrium, da òrdinem, “ordine”, quindi ciò che è fuori dell’ordine normale; eccezionale da exceptiònem, da ex- e càpere, “trarre fuori da”, cioè fuori dalla norma.

615

L’età della Controriforma

De’ quai con occhi biechi altri il riguarda, e dibattendo l’arme altri il minaccia41. Fugge egli al fine, e ben la fuga è tarda, qual di leon che si ritiri in caccia42, ma pure è fuga; e pur gli scote il petto timor, sin a quel punto ignoto affetto43. 29

Non s’avide esso allor d’aver temuto, ma fatto poi lontan44 ben se n’accorse; e stupor n’ebbe e sdegno, e dente acuto d’amaro pentimento il cor gli morse. E, di trista vergogna acceso e muto45, attonito in disparte i passi torse46, ché quella faccia alzar, già sì orgogliosa, ne la luce47 de gli uomini non osa.

30

Chiamato da Goffredo, indugia e scuse trova a l’indugio, e di restarsi agogna48. Pur va, ma lento; e tien le labra chiuse o gli ragiona in guisa d’uom che sogna49. Diffetto e fuga il capitan concluse in lui50 da quella insolita vergogna, poi disse: – Or ciò che fia? forse prestigi son questi o di natura alti prodigi?51

31

Ma s’alcun v’è cui nobil voglia accenda di cercar que’ salvatichi soggiorni, vadane pure, e la ventura imprenda e nunzio almen più certo a noi ritorni52. – Così disse egli, e la gran selva orrenda tentata53 fu ne’ tre seguenti giorni da i più famosi; e pur alcun non fue54 che non fuggisse a le minaccie sue.

32

Era il prence Tancredi intanto sorto55 a sepellir la sua diletta amica, e benché in volto sia languido e smorto e mal atto a portar elmo o lorica56, nulla di men, poi che ’l bisogno ha scorto, ei non ricusa57 il rischio o la fatica, ché ’l cor vivace il suo vigor trasfonde al corpo58 sì che par ch’esso n’abbonde59.

41. De’ quai … minaccia: dai quali qualcu­ no lo guarda con occhi biechi, qualcun altro lo minaccia agitando le armi. 42. in caccia: quando è cacciato. 43. ignoto affetto: sentimento a lui scono­ sciuto. 44. fatto … lontan: dopo essersi allontanato. 45. acceso e muto: infiammato e reso muto.

616

46. i passi torse: rivolse i passi. 47. ne la luce: al cospetto. 48. di restarsi agogna: desidera di restare in disparte. 49. ragiona … sogna: gli parla con l’aria tra­ sognata. 50. Diffetto … in lui: Goffredo deduce che egli abbia avuto paura e sia fuggito.

51. Or ciò … prodigi?: ciò che sarà mai? For­ se questi sono incantesimi o straordinari feno­ meni naturali? 52. Ma … ritorni: ma se vi è qualcuno che un nobile desiderio sproni ad esplorare quelle zo­ ne selvagge, vada pure e tenti la sorte, e torni almeno portando notizie più certe. 53. tentata: affrontata. 54. alcun non fue: non ci fu nessuno. 55. sorto: alzato (dal letto dove giaceva ferito). 56. mal atto … lorica: non ancora in grado di portare elmo e corazza. 57. ricusa: rifiuta. 58. ’l cor … corpo: il suo animo pieno di co­ raggio trasfonde il suo vigore al corpo. 59. n’abbonde: ne abbondi (di vigore).

Capitolo 3 · Torquato Tasso

33

Vassene il valoroso in sé ristretto, e tacito e guardingo, al rischio ignoto, e sostien de la selva il fero aspetto e ’l gran romor del tuono e del tremoto60; e nulla sbigottisce61, e sol nel petto sente, ma tosto il seda62, un picciol moto. Trapassa63, ed ecco in quel silvestre loco sorge improvisa la città del foco.

34

Allor s’arretra, e dubbio64 alquanto resta fra sé dicendo: «Or qui che vaglion65 l’armi? Ne le fauci de’ mostri, e ’n gola a questa devoratrice fiamma andrò a gettarmi? Non mai la vita, ove cagione onesta del comun pro la chieda, altri risparmi66, ma né prodigo sia d’anima grande uom degno; e tale è ben chi qui la spande67.

35

Pur l’oste che dirà, s’indarno i’ riedo?68 qual altra selva ha di troncar speranza?69 Né intentato lasciar vorrà Goffredo mai questo varco70. Or s’oltre alcun s’avanza, forse l’incendio che qui sorto i’ vedo fia d’effetto minor che di sembianza71; ma seguane che pote72». E in questo dire, dentro saltovvi. Oh memorando ardire!

36

Né sotto l’arme già sentir gli parve caldo o fervor come di foco intenso; ma pur, se fosser vere fiamme o larve, mal poté giudicar sì tosto il senso, perché repente a pena tocco sparve quel simulacro, e giunse un nuvol denso che portò notte e verno; e ’l verno ancora e l’ombra dileguossi in picciol ora73.

60. Vassene … tremoto: il valoroso se ne va verso il rischio ignoto raccolto in sé, silenzioso e guardingo, e riesce a sopportare la terribile vista della selva e il gran rumore del tuono e del terremoto.

61. nulla sbigottisce: non si spaventa per nulla. 62. il seda: lo frena. 63. Trapassa: prosegue. 64. dubbio: dubbioso.

65. che vaglion: a che servono. 66. Non mai … risparmi: nessuno risparmi la vita, quando una causa giusta (onesta) lo richieda per il vantaggio comune. 67. né prodigo … spande: né un uomo de­ gno sia prodigo della sua grande anima (cioè non la getti via troppo facilmente); e tale (prodigo) sarebbe certamente chi qui la spreca. 68. Pur l’oste … riedo?: tuttavia l’esercito dei crociati che cosa dirà se io torno senza aver ottenuto nulla? 69. qual … speranza?: quale speranza ha di tagliare un’altra selva? (Infatti vicino a Gerusalemme non vi è altra selva che possa fornire legname). 70. questo varco: l’accesso alla selva di Saron. 71. fia … sembianza: sarà negli effetti mi­ nore di quanto appaia. 72. seguane … pote: accada ciò che deve accadere. 73. ma pur … ora: ma i suoi sensi in così breve tempo non poterono giudicare se fossero fiam­ me vere o vane apparenze (larve), perché im­ provvisamente la falsa immagine appena toc­ cata sparì e sopraggiunse una densa nuvola che portò buio e gelo; e il gelo e la tenebra si di­ leguarono parimenti in un attimo (picciol ora).

pesare le parole Oste (ottava 35, v. 1)

> Proviene dal latino hòstem, “nemico”; qui ha il senso di > Da hòstem derivano ostile, “nemico, avverso, contrario” “esercito”, che è rimasto nell’uso letterario (Leopardi, La ginestra, vv. 138-139: «in campo / cinto d’oste contraria»). Non è da confondere con oste nel senso di “gestore di un’osteria”, che deriva da tutt’altra radice, hòspitem, “ospite, colui che ospita”.

(es. l’opinione pubblica è ostile al provvedimento), e ostico, “difficile, sgradevole”, quindi qualche cosa che noi sentiamo come nemica (es. la matematica per me è una materia ostica).

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L’età della Controriforma

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Stupido74 sì, ma intrepido rimane Tancredi; e poi che vede il tutto cheto, mette securo il piè ne le profane soglie75 e spia de la selva ogni secreto76. Né più apparenze inusitate e strane, né trova alcun fra via scontro o divieto, se non quanto per sé ritarda il bosco la vista e i passi inviluppato e fosco77.

38

Al fine un largo spazio in forma scorge d’anfiteatro, e non è pianta in esso, salvo che nel suo mezzo altero78 sorge, quasi eccelsa piramide, un cipresso. Colà si drizza79, e nel mirar s’accorge ch’era di vari segni il tronco impresso80, simili a quei che in vece usò di scritto l’antico già misterioso Egitto81.

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Fra i segni ignoti alcune note ha scorte del sermon di Soria82 ch’ei ben possede: «O tu che dentro a i chiostri83 de la morte osasti por, guerriero audace, il piede, deh! se non sei crudel quanto sei forte, deh! non turbar questa secreta84 sede. Perdona a l’alme omai di luce prive85: non dée86 guerra co’ morti aver chi vive».

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Così dicea quel motto87. Egli era intento de le brevi parole a i sensi occulti88: fremere intanto udia continuo il vento tra le frondi del bosco e tra i virgulti, e trarne un suon che flebile concento89 par d’umani sospiri e di singulti, e un non so che confuso instilla al core di pietà, di spavento e di dolore.

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Pur tragge90 al fin la spada, e con gran forza percote l’alta pianta. Oh meraviglia! manda fuor sangue la recisa scorza, e fa la terra intorno a sé vermiglia. Tutto si raccapriccia, e pur rinforza il colpo e ’l fin vederne ei si consiglia91. Allor, quasi di tomba, uscir ne sente un indistinto gemito dolente,

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che poi distinto in voci92: – Ahi! troppo – disse – m’hai tu, Tancredi, offeso93; or tanto basti.

74. Stupido: stupefatto. 75. profane soglie: il varco della foresta abitata dai diavoli.

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76. secreto: angolo remoto. 77. né trova … fosco: né trova sul suo cam­ mino ostacolo o impedimento, se non in

quanto il bosco, essendo intricato e buio, di per sé impedisce la vista e ritarda il cammino. 78. altero: alto. 79. Colà si drizza: Tancredi si dirige verso il cipresso. 80. impresso: inciso. 81. a quei … Egitto: i geroglifici, che l’antico e misterioso Egitto usò come scrittura. 82. sermon di Soria: lingua della Siria. 83. chiostri: spazi, regioni. 84. secreta: appartata. 85. Perdona … prive: risparmia le anime dei morti, ormai prive della luce del mondo dei vivi. 86. dée: deve. 87. quel motto: quell’iscrizione. 88. i sensi occulti: il misterioso significato. 89. concento: armonia. 90. tragge: sfodera. 91. Tutto … consiglia: è invaso dal racca­ priccio e tuttavia rinnova con maggior forza il colpo e decide (si consiglia) di vedere quale sarà il risultato. 92. distinto in voci: risolvendosi in parole distinte. 93. Ahi! troppo … offeso: ahimè, mi hai fat­ to troppo male, Tancredi.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Tu dal corpo che meco e per me visse, felice albergo già, mi discacciasti94: perché il misero tronco, a cui m’affisse95 il mio duro destino, anco mi guasti? Dopo la morte gli aversari tuoi, crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi? 43

Clorinda fui, né sol qui spirto umano albergo in questa pianta rozza e dura96, ma ciascun altro ancor, franco o pagano, che lassi i membri a piè de l’alte mura, astretto è qui da novo incanto e strano, non so s’io dica in corpo o in sepoltura97. Son di sensi animati98 i rami e i tronchi, e micidial99 sei tu, se legno tronchi. –

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Qual l’infermo talor ch’in sogno scorge drago o cinta di fiamme alta Chimera, se ben sospetta o in parte anco s’accorge che ’l simulacro sia non forma vera, pur desia di fuggir, tanto gli porge spavento la sembianza orrida e fera, tal il timido amante a pien non crede a i falsi inganni, e pur ne teme e cede100.

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E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso da vari affetti101 che s’agghiaccia e trema, e nel moto102 potente ed improviso gli cade il ferro103, e ’l manco è in lui la tema104. Va fuor di sé: presente aver gli è aviso l’offesa donna sua che plori e gema105, né può soffrir106 di rimirar quel sangue, né quei gemiti udir d’egro107 che langue.

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Così quel contra morte audace core nulla forma turbò d’alto spavento108, ma lui che solo è fievole in amore falsa imago deluse e van lamento109. Il suo caduto ferro intanto fore110 portò del bosco impetuoso vento, sì che vinto partissi111; e in su la strada ritrovò poscia112 e ripigliò la spada.

94. dal corpo … discacciasti: (uccidendomi) mi scacciasti dal corpo, che visse con me e grazie a me, un tempo felice dimora dell’anima. 95. m’affisse: mi legò. 96. né sol … dura: e non sono il solo spirito umano che risieda in una pianta dalla scorza ruvida e dura. 97. ma ciascun … sepoltura: ma anche cia­

scun altro, cristiano o pagano, che lasci il suo corpo (morendo) ai piedi delle alte mura, è costretto da un incantesimo insolito e strano qui, in questa pianta, che non so se devo chia­ mare il nostro corpo o la nostra tomba. 98. di sensi animati: forniti di sensibilità. 99. micidial: omicida. 100. Qual … cede: come talora il malato che

in sogno vede un drago o una Chimera enor­ me cinta di fiamme, sebbene sospetti o in par­ te anche si accorga che l’immagine non è una forma vera, tuttavia desidera fuggire, tanto l’apparenza orrida e spaventosa gli incute spavento, così il timoroso amante non crede pienamente ai falsi inganni, tuttavia ne ha paura e si ritrae. 101. conquiso … affetti: dominato da vari sentimenti. 102. moto: emozione. 103. il ferro: la spada. 104. ’l manco … tema: il timore è il sentimento meno forte; cioè più forti sono l’orrore provato al sentire la voce di Clorinda morta e il rimorso di averla ancora straziata con le sue mani. 105. presente … gema: gli sembra di avere dinanzi a sé la sua donna da lui uccisa che pianga e gema. 106. soffrir: sopportare. 107. egro: malato, ferito. 108. Così … spavento: così nessuna vana immagine turbò con profondo spavento quel cuore audace di fronte alla morte. 109. ma lui … lamento: ma una falsa im­ magine e finti lamenti ingannarono lui, che è solo debole, vulnerabile in amore. 110. fore: fuori. 111. partissi: si allontanò. 112. poscia: poi.

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L’età della Controriforma

Analisi del testo Il modulo fiabesco La tecnica narrativa: focalizzazione interna e suspense

> La tecnica narrativa

Nella ripetizione in parallelo delle varie prove dei fabbri e dei guerrieri l’episodio rivela una costruzione di tipo fiabesco (propria della fiaba è infatti la ripetizione indefinita delle azioni), ma si tratta di un fiabesco sinistro, allucinato e terrificante. A creare l’atmosfera d’incubo contribuisce la tecnica narrativa, che punta a determinare una continua tensione, una suspense. L’effetto è ottenuto mediante la focalizzazione interna ai personaggi: la voce narrante non anticipa nulla di ciò che sta per avvenire, sicché il lettore scopre le cose man mano che le scoprono i personaggi, in particolare il principale di essi, Tancredi: le loro scoperte diventano quelle del lettore, ed egli può immedesimarsi con le successive sorprese.

> L’eroe inadeguato

Tancredi eroe inadeguato al compito

Tancredi supera via via i diversi gradi di paura, ma non è l’eroe eletto a portare a compimento l’impresa e a vincere le forze demoniache che si oppongono all’alta missione dei crociati: tale compito è assegnato a Rinaldo (XVIII, ottave 17-38). Tancredi infatti è ancora legato all’amore, che è una delle principali forze contrarie all’eroismo guerriero indirizzato al trionfo della fede, e a questo vincolo in lui viene ad aggiungersi per di più il rimorso per avere ucciso di sua propria mano la donna amata. Amore e rimorso uniti, pertanto, bloccano irrimediabilmente la sua impresa eroica. Come spesso avviene, Tancredi appare eroe velleitario, inadeguato dinanzi al suo alto compito, sconfitto per una sorta di tara psicologica che mina la sua volontà e le sue forze. Alla debolezza psicologica si aggiunge quella fisica: Tancredi è ancora «languido e smorto» per le ferite ricevute nel duello con Clorinda, e «mal atto a portar elmo o lorica». È questa una situazione che si ripete spesso nel poema: quando Tancredi è chiamato ad un compito importante è sempre inadeguato per la debolezza fisica. Così avviene quando, ancora debole per le ferite riportate nel duello con Argante, si pone all’inseguimento di quella che crede Clorinda; così avverrà ancora durante la presa di Gerusalemme, quando soffrirà delle ferite del secondo duello con l’eroe pagano. Evidentemente la debolezza fisica, esteriore, è cifra di una debolezza interiore. Tasso vagheggia un eroe gagliardo e impavido, ma di fatto lo presenta sempre perplesso, irresoluto, paralizzato nell’azione, ferito, languente.

> La dimensione simbolica

La falsa discesa agli inferi La discesa nelle profondità della psiche

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L’albero fatato, che ai sensi di Tancredi appare come animato dallo spirito di Clorinda, è un cipresso: non a caso una pianta mortuaria. E la scritta che esso reca avverte l’eroe che ha osato porre piede «dentro a i chiostri de la morte». L’impresa di Tancredi sembra configurarsi come una discesa agli inferi, nel regno dei morti, un elemento ricorrente nell’epica antica: agli inferi scendono sia Ulisse nell’Odissea omerica sia Enea nell’Eneide virgiliana. La discesa è un momento essenziale nella vicenda degli antichi eroi epici: lo scendere nelle profondità della terra e l’incontro con i morti valgono ad accrescere le loro conoscenze e a rinsaldare le loro forze per la missione che devono compiere. Ma quella di Tancredi è una falsa discesa agli inferi, prodotto di inganni malefici. L’eroe non scende veramente nel regno dei morti per ricavare una maggior forza per la sua missione, ma, tutto al contrario, resta vittima di un inganno che lo distoglie dai suoi compiti. Tancredi non scende nell’Ade, scende nelle profondità della propria psiche, scopre i mostri che la popolano (l’amore funesto, il rimorso atroce), ne resta sconvolto e impedito nell’azione. Tutto ciò che lo ostacola, la voce di Clorinda, il sangue, in realtà non è fuori di lui, ma è proiezione di ciò che è dentro di lui, materializzazione di ciò che tormenta il fondo della sua anima. Tasso, poeta inquieto e turbato di un’età di crisi, ha intuizioni straordinarie per ciò che concerne le profondità della psiche, dense di anticipazioni del futuro. La similitudine che illustra la reazione di Tancredi alla voce di Clorinda è estremamente significativa: l’eroe è paragonato ad un «infermo» che in sogno scorge mostri terrificanti,

Capitolo 3 · Torquato Tasso I “mostri”

Le fonti letterarie

«drago o cinta di fiamme alta Chimera». Il termine «infermo» è allusivo alla condizione di malato che è propria di Tancredi, malato nello spirito ancor più che nel fisico, mentre la citazione dei mostri richiama l’atmosfera allucinata, d’incubo, che avvolge l’episodio e i “mostri” che affiorano dal profondo dell’anima dell’eroe, venendo a popolare la realtà intorno a lui. La sua coscienza non è spenta («il timido amante a pien non crede / a i falsi inganni»), e tuttavia egli non ha la forza di vincere i “mostri”, ne è sconfitto ed è costretto a cedere («e pur ne teme e cede»).

> L’imitazione

L’episodio è modellato chiaramente su fonti letterarie, sempre in obbedienza al principio di imitazione dominante nel classicismo rinascimentale: il Polidoro del libro III dell’Eneide, la cui voce esce di sotterra attraverso un cespuglio, ma soprattutto il dantesco Pier della Vigna (Inferno, XIII), trasformato in un albero che, spezzato da Dante, emette sangue e parole di rimprovero (si può poi aggiungere l’esempio più prossimo di Astolfo, trasformato in mirto parlante da Alcina, nel Furioso). Ma in realtà i modelli sono assunti in una prospettiva del tutto originale e piegati in tutt’altra direzione. In primo luogo qui il prodigio dell’albero sanguinante e parlante non è un fatto reale, effetto della giustizia divina, come in Dante, ma è il prodotto di un’allucinazione demoniaca, di una funesta illusione dei sensi; in secondo luogo chi parla dall’albero è stato ucciso dall’eroe stesso, quindi la situazione è più orrida e straziante. Non c’è bisogno di dire, poi, che i tormenti interiori di Tancredi sono lontanissimi dalla levità fiabesca dell’episodio di Ariosto.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Dividi il brano in sequenze e assegna loro un titolo, secondo l’esempio proposto. ottave

Titolo

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Goffredo invita i carpentieri a tagliare il legname nella selva ......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

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> 2. Quali trasformazioni subisce la selva e quali prodigi si svolgono in essa? Chiarisci. a) Di cosa hanno terrore i «fabri». b) Che cosa spaventa i «guerrieri eletti». c) Che cosa vede Alcasto in essa.

AnALizzAre

> 3. > 4.

Stile Stile

Individua le similitudini e le metafore presenti nelle ottave 20-23. Rifletti e spiega il significato metaforico che assume «la selva».

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

Testi a confronto: scrivere Svolgi un confronto in circa 10-12 righe (500-600 caratteri) tra la selva di questo episodio e quelle che compaiono all’inizio della Commedia dantesca e dell’Orlando furioso di Ariosto. In che cosa si rassomigliano? Quali significati assumono nelle diverse opere?

SCriTTUrA CreATiVA

> 6. Scrivi un testo espositivo di circa 20 righe (1000 caratteri) immaginando di entrare anche tu nella selva di Saron: quali paure si materializzano davanti ai tuoi occhi, quali immagini angosciose, quali demoni nascosti?

621

L’età della Controriforma

L e t t e r a t u r a e Scienza

T8

Scienza e religione dalla Gerusalemme liberata, XIV, 37-47 Rinaldo, irretito dalle seduzioni della maga Armida, è da lei tenuto prigioniero in un giardino incantato nelle isole Fortunate, che sorgono in mezzo all’oceano. Due crociati, Carlo e Ubaldo, sono inviati da Goffredo di Buglione alla sua ricerca. Dal mago cristiano che incontrano ad Ascalona apprendono dove si trova l’eroe.

37

Ei, presili per man, ne le più interne profondità sotto del rio1 lor mena. Debile e incerta luce ivi si scerne, qual tra boschi di Cinzia ancor non piena2; ma pur gravide d’acqua ampie caverne veggiono, onde tra noi sorge ogni vena la qual rampilli in fonte, o in fiume vago discorra, o stagni o si dilati in lago3.

38

E veder ponno onde il Po nasca ed onde Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi, ond’esca pria la Tana, e non asconde gli occulti suoi princìpi il Nilo quivi4. Trovano un rio più sotto, il qual diffonde vivaci zolfi e vaghi argenti e vivi; questi il sol poi raffina, e ’l licor molle stringe in candide masse e in auree zolle5.

39

E miran d’ogni intorno il ricco fiume di care pietre il margine dipinto; onde, come a più fiaccole s’allume, splende quel loco, e ’l fosco orror n’è vinto6. Quivi scintilla con ceruleo lume il celeste zafiro ed il giacinto; vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo diamante, e lieto ride il bel smeraldo7.

40

Stupidi i guerrier vanno e ne le nove cose sì tutto il lor pensier s’impiega

1. sotto … rio: il mago ha imposto alle acque del fiume (rio), sulle cui rive ha incontrato i due crociati, di dividersi. Nel letto del fiume è l’ingresso del suo regno sotterraneo. 2. Debile … piena: lì si discerne una luce de­ bole e incerta, come la luce della luna non an­ cora piena tra i boschi. Diana, la dea della luna, era nata nell’isola di Delo, dominata dal monte Cinto: di qui l’appellativo di Cinzia. 3. ma pur … lago: nonostante la luce debole (ma pur) vedono ampie caverne piene d’ac­

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qua, da cui (onde) sorge tra noi sulla terra ogni vena d’acqua che zampilli in una fonte, o scor­ ra in un fiume tortuoso (vago), o ristagni o si allarghi in un lago. Tasso riprende dalle Geor­ giche di Virgilio (IV, v. 363) l’idea che tutti i fiumi derivino da un ampio serbatoio d’acqua centrale situato nelle viscere della terra. 4. E veder … quivi: e possono vedere da do­ ve nasca il Po e da dove derivino il Gelam (Idaspe, affluente dell’Indo), il Gange, l’Eufrate, il Danubio (Istro), da dove scaturisca prima il

Testo e realtà Il passo, incentrato sulla figura ante litteram dello scienziato, rivela l’adozione della prospettiva religiosa controriformistica, ma, se messo a confronto con le concezioni moderne, offre notevoli spunti di riflessione sulla possibile autonomia e laicità della conoscenza.

Don (Tana); e qui non nasconde le sue ignote origini il Nilo (le fonti del Nilo erano allora sconosciute). 5. Trovano … zolle: più sotto trovano un fiu­ me, che spande zolfo liquido (vivaci zolfi) e lucido mercurio (vaghi argenti e vivi); il sole poi li raffina, e solidifica il liquido (licor molle) in blocchi d’argento (candide masse) e in pe­ pite d’oro (auree zolle). Tasso segue l’opinione degli alchimisti, i quali ritenevano che l’oro e l’argento di formassero dallo zolfo liquido e dal mercurio, a seconda delle quantità che entrano nella mescolanza. 6. E miran … vinto: e guardano tutto intor­ no il ricco fiume con le rive intarsiate di pietre preziose dai vari colori; per cui quel luogo splende come se si illuminasse per più fiaccole, e il buio pieno di orrore ne è vinto. Il margine è complemento di relazione. 7. Quivi … smeraldo: qui scintillano con lu­ ce cerulea l’azzurro zaffiro e il giacinto; fiam­ meggia rosso il rubino, splende il duro dia­ mante, e sfavilla il bello smeraldo con la sua luce viva (ride).

Capitolo 3 · Torquato Tasso

che non fanno alcun motto8. Al fin pur move la voce Ubaldo e la sua scorta9 prega: – Deh, padre, dinne10 ove noi siamo ed ove ci guidi, e tua condizion ne spiega, ch’io non so se ’l ver miri o sogno od ombra11, così alto stupore il cor m’ingombra. – 41

Risponde: – Sète12 voi nel grembo immenso de la terra, che tutto in sé produce; né già potreste penetrar nel denso de le viscere sue senza me duce13. Vi scòrgo14 al mio palagio, il qual accenso15 tosto vedrete di mirabil luce. Nacqui io pagan, ma poi ne le sant’acque rigenerarmi a Dio per grazia piacque16.

42

Né in virtù fatte son d’angioli stigi l’opere mie meravigliose e conte (tolga Dio ch’usi note o suffumigi per isforzar Cocito e Flegetonte), ma spiando me ’n vo’ da’ lor vestigi qual in sé virtú celi o l’erba o ’l fonte, e gli altri arcani di natura ignoti contemplo, e de le stelle i vari moti17.

43

Però che non ognor lunge dal cielo tra sotterranei chiostri è la mia stanza, ma su ’l Libano spesso e su ’l Carmelo in aerea magion fo dimoranza; ivi spiegansi a me senza alcun velo Venere e Marte in ogni lor sembianza, e veggio come ogn’altra o presto o tardi roti, o benigna o minaccievol guardi18.

44

E sotto i piè mi veggio or folte or rade le nubi, or negre ed or pinte da Iri; e generar le pioggie e le rugiade risguardo, e come il vento obliquo spiri, come in giù rispinto ei si raggiri;

8. Stupidi … motto: i guerrieri procedono stupiti, e il loro pensiero si concentra tutto nelle cose mai viste (nove), così che non pronuncia­ no alcuna parola. 9. scorta: guida, il mago. 10. dinne: dicci. Anche sotto al verso 6 ne significa ci. 11. ch’io non so … ombra: perché non so se vedo la realtà o un sogno o una parvenza in­ gannevole. 12. Sète: siete. 13. senza … duce: senza la mia guida; cioè non si possono intendere i segreti della natura senza la guida della scienza. 14. scòrgo: scorto, guido.

15. accenso: acceso, illuminato. 16. Nacqui … piacque: io nacqui pagano, ma poi a Dio piacque per grazia sua farmi ri­ nascere nelle sante acque battesimali. 17. Né … moti: le mie opere meravigliose e sapienti (conte) non sono fatte grazie al potere di diavoli (Dio non voglia che io usi formule ma­ giche o fumi per costringere le forze dell’inferno [Cocito e Flegetonte] ad aiutarmi), ma vado ricercando quali proprietà celino in sé l’erba o l’acqua in base ai loro effetti, e studio gli altri mi­ steri non ancora svelati della natura, e i vari mo­ ti delle stelle. I diavoli sono detti angioli stigi perché originariamente, prima della loro ribellione a Dio, erano angeli. Lo Stige è uno

dei fiumi infernali, nella mitologia classica, ripresa da Dante nella Commedia, come pure Cocito e Flegetonte. Suffumigi: per evocare le potenze infernali si ricorreva a rituali basati su formule magiche e fumi di incenso o di bitume. Il mago di Ascalona usa mezzi naturali, ricavati dall’osservazione della natura, non arti magiche e diaboliche, come il mago pagano Ismeno, che ha gettato il malefico incantesimo sulla selva. 18. Però che … guardi: perché la mia dimora (stanza) non è sempre lontano dal cielo in grotte (chiostri) sotterranee, ma spesso abito un’elevata casa sul Libano e sul Carmelo; colà si mostrano a me senza alcun velo di nube i pianeti Venere e Marte in ogni loro aspetto, e vedo come ogni altro astro ruoti rapidamente o lentamente, e agisca sulla terra con influssi benefici o malefici. Il Libano è una catena montuosa, che oggi dà il nome a quel Paese; il Carmelo è un monte della Palestina. Sugli alti monti, al di sopra della coltre delle nubi, il mago può osservare gli astri e i loro moti, che secondo le credenze astrologiche del tempo esercitano un influsso sulle vicende terrene. Ogn’altra ha sottinteso sembianza, quindi alla lettera ogni altro aspetto [degli astri].

623

L’età della Controriforma

scorgo comete e fochi altri sì presso che soleva invaghir già di me stesso19. 45

Di me medesmo fui pago cotanto ch’io stimai già che ’l mio saper misura certa fosse e infallibile di quanto può far l’alto Fattor de la natura; ma quando il vostro Piero al fiume santo m’asperse il crine e lavò l’alma impura, drizzò più su il mio guardo, e ’l fece accorto ch’ei per se stesso è tenebroso e corto20.

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Conobbi allor ch’augel notturno al sole è nostra mente a i rai del primo Vero, e di me stesso risi e de le fole che già cotanto insuperbir mi fèro; ma pur seguito ancor, come egli vòle, le solite arti e l’uso mio primiero21. Ben son in parte altr’uom da quel ch’io fui, ch’or da lui pendo e mi rivolgo a lui,

47

e in lui m’acqueto. Egli comanda e insegna, mastro insieme e signor sommo e sovrano, né già per nostro mezzo oprar disdegna cose degne talor de la sua mano22. […]

19. E sotto … stesso: e sotto i piedi mi vedo ora spesse ora rade le nuvole, ora scure e ora dipinte dai colori dell’arcobaleno (Iri: Iride); e guardo formarsi le piogge e le rugiade, e come il vento soffi di traverso, come il fulmine si ac­ cenda e per quali percorsi tortuosi si aggiri spinto in giù; scorgo comete e altre stelle (fochi) così da vicino, che [un tempo] ero solito insuperbirmi della mia sapienza (invaghir già di me stesso).

20. Di me … corto: fui tanto soddisfatto di me stesso che io allora ritenni che il mio sapere fosse la misura certa e infallibile di quanto può fare l’alto Creatore della natura; ma quando il vostro Pier l’Eremita mi battezzò (asperse il crine, bagnò i capelli con l’acqua battesimale) nel sacro fiume Giordano e purificò la mia anima impura, indirizzò più in alto il mio sguardo e lo rese cosciente del fatto che affida­ to solo a se stesso è velato di tenebra e limitato.

21. Conobbi … primiero: compresi allora che la nostra mente di fronte allo splendore del primo Vero [Dio] resta abbagliata come un uccello notturno ai raggi del sole, e risi di me stesso e dell’ingannevole orgoglio scientifico (fole) che mi fece già tanto insuperbire; tutta­ via continuo ancora, come egli vuole, a prati­ care le consuete attività di ricerca e le mie pre­ cedenti abitudini di studio. Egli si riferisce probabilmente a Pier l’Eremita; altri intende Dio, ma il senso sostanzialmente non cambia, perché Piero è l’interprete della volontà divina. 22. Ben … mano: sono in parte un uomo di­ verso da quello che ero, perché dipendo da Dio, mi rivolgo a lui, e uniformandomi alla vo­ lontà divina trovo la mia pace. Egli comanda e insegna, maestro e insieme signore sommo e sovrano, e non disdegna operare per mezzo nostro [di noi scienziati] cose talora degne della sua mano. Si può intendere forse che Dio parli al mago attraverso la voce autorevole di Pier l’Eremita, sua guida spirituale. Al verso 7 dell’ottava 46 si riconosce un rimando petrarchesco: «quand’era in parte altr’uom da quel ch’ i’ sono» (Rime I, v. 4).

Analisi del testo

> La superbia dello scienziato “laico”

La ricerca scientifica prima della conversione

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Nella struttura del poema il mago di Ascalona si pone in antitesi al mago musulmano Ismeno: costui si vale contro i crociati dell’opera dei demoni, evocati mediante le sue malvage arti magiche, l’altro invece pratica una magia buona, che viene in aiuto ai cristiani. Il mago studia e penetra i segreti della natura, i fenomeni terrestri e celesti, quindi rappresenta la figura dello scienziato. La «mirabil luce» che avvolge il suo palazzo sotterraneo è la luce della conoscenza. Ma la scienza di cui è il depositario non è autonoma, non ha la sua legittimazione in se stessa, nelle leggi che le sono immanenti. Un tempo, quando era pagano, il mago obbediva effettivamente a una simile logica, credeva unicamente nella scienza in sé, convinto di potere con le sole forze umane di arrivare a comprendere tutti i segreti del creato, era fiducioso che la conoscenza scientifica fosse infallibile, potesse dare la misura certa di tutte le cose, e se ne insuperbiva.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

I limiti della conoscenza umana

I dettami della Controriforma

> La scienza soggetta al magistero della religione

Ma, convertitosi al cristianesimo per opera di Pier l’Eremita e ricevuto da lui il battesimo, ha avuto la rivelazione che lo sguardo umano è corto e coperto di tenebra, cioè che la ricerca scientifica, affidata solo alle forze dell’uomo, non è in grado di attingere ad una conoscenza totale, profonda e autentica della realtà. Quindi ora ride della fallace presunzione che lo aveva reso superbo di se stesso e dei propri risultati. Continua la sua ricerca, ma sottoponendola alla guida e all’insegnamento della religione cristiana. Il senso attribuito alla figura del mago e la funzione che essa assume nel poema consistono nell’ammonire che la scienza non è autonoma, non può semplicemente procedere secondo i propri princìpi, ma deve essere soggetta alla religione, che ha una visione ben superiore, derivata dalla rivelazione divina. Questo assunto è perfettamente aderente ai dettami della Controriforma, di cui Tasso vuole essere il fedele e devoto interprete. Pochi anni più tardi Galileo si batterà invece per affermare l’autonomia della ricerca scientifica dalla religione, aprendo la strada alla scienza moderna (e per questo correrà gravi rischi, sarà processato e costretto ad abiurare alle sue tesi). Ma ancora oggi vi sono posizioni che tendono a sottoporre la scienza alle norme etiche della religione: vedi ad esempio il caso della ricerca sulle cellule staminali tratte dagli embrioni. Joseph Nicolas Robert Fleury, Galileo Galilei davanti al Sant’Ufficio, 1847, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. In quale luogo sono condotti dal mago Carlo e Ubaldo? Dove si trova tale luogo? Descrivi il percorso e ciò che vedono i guerrieri. > 2. Che cosa racconta il mago di se stesso? AnALizzAre

> 3.

Stile Rintraccia le seguenti figure retoriche: a) nell’ottava 37: una dittologia, una similitudine, una metafora, un doppio chiasmo, il polisindeto, gli enjambements; b) nell’ottava 38: la figura dell’enumerazione, del chiasmo, della ripetizione, le allitterazioni e gli enjambements; c) nell’ottava 39: la similitudine, l’assonanza, l’allitterazione, l’ipallage, la personificazione. > 4. Lessico Quali espressioni fanno pensare ad una discesa agli Inferi e perché? > 5. Lessico Individua, a livello lessicale, i riferimenti alla metafora della madre-terra.

Approfondire e inTerpreTAre

> 6. Nel pieno rispetto dell’ortodossia controriformistica, Tasso attraverso la figura del mago di Ascalona ribadisce l’im-

possibilità di una scienza senza Dio. Nel testo sono rintracciabili, oltre ai riferimenti scientifici, allusioni e riferimenti a Dante e a Petrarca e ai loro percorsi letterari ed umani, che finiscono con il dar forza all’idea che erra chi si allontana da Dio. Rintraccia tali riferimenti e spiegane il senso. > 7. Competenze digitali Dove si trova Ascalona? Ricostruisci e realizza una mappa al computer in cui sia evidenziata la posizione della città stessa, quella di Gerusalemme, della foresta di Saron, delle isole Fortunate, del castello di Armida.

625

L’età della Controriforma

Analisi interattiva

T9

il giardino di Armida dalla Gerusalemme liberata, XVI, 1-2; 8-35

• il conflitto tra il codice culturale pagano e quello cristiano

• la descrizione del giardino ameno Rinaldo, irretito dalle seduzioni della maga Armida, è da lei • l’invito a godere del presente tenuto prigioniero in un giardino incantato nelle isole Fortunate, che sorgono nel mezzo dell’oceano. Due crociati, Carlo e Ubaldo, sono inviati da Goffredo alla sua ricerca. Apprendono dal mago cristiano di Ascalona dove si trovi l’eroe, e partono su una navicella guidata dalla Fortuna. Attraversano il Mediterraneo, si spingono oltre le colonne d’Ercole e giungono all’isola di Armida. Sconfiggono mostri che sbarrano loro il cammino, resistono alle seduzioni insidiose di due fanciulle; infine penetrano nel palazzo della maga e, grazie a un libro dato loro dal mago di Ascalona, superano il labirinto che racchiude il giardino dove è segregato Rinaldo. 1

Tondo è il ricco edificio, e nel più chiuso grembo di lui, ch’è quasi centro al giro, un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso di quanti più famosi unqua fioriro1. D’intorno inosservabile e confuso ordin di loggie i demon fabri ordiro2, e tra le oblique vie di quel fallace ravolgimento3 impenetrabil giace.

2

Per l’entrata maggior (però che cento l’ampio albergo4 n’avea) passàr costoro5. [...]

8

Qual Meandro fra rive oblique e incerte scherza e con dubbio corso or cala or monta, queste acque a i fonti e quelle al mar converte, e mentre ei vien, sé che ritorna affronta6, tali e più inestricabili conserte son queste vie7, ma il libro in sé le impronta (il libro, don del mago) e d’esse in modo parla che le risolve, e spiega il nodo8.

9

Poi che lasciàr gli aviluppati calli9, in lieto aspetto il bel giardin s’aperse: acque stagnanti10, mobili cristalli11, fior vari e varie piante, erbe diverse12, apriche13 collinette, ombrose valli, selve e spelonche in una vista offerse; e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre, l’arte, che tutto fa, nulla si scopre14.

1. un giardin … fioriro: vi è un giardino che è adorno oltre quanto sono soliti esserlo i più famosi che mai (unqua, latinismo) fiorirono. 2. inosservabile … ordiro: i demoni, tra­ sformati in artefici (grazie agli incantesimi della maga Armida), disposero intorno al giardino una serie di logge così intricata che l’occhio non riesce a seguirla (inosservabile).

626

Temi chiave

3. fallace ravolgimento: ingannevole labi­ rinto. 4. albergo: dimora. 5. costoro: Carlo e Ubaldo. 6. Qual Meandro … affronta: come il fiume Meandro tra rive tortuose e di incerta direzio­ ne sembra divertirsi, col suo corso capriccioso, ora a scendere verso la foce ora a risalire, e ri­

volge le sue acque ora verso la fonte ora verso il mare, e mentre le acque avanzano incontra­ no quelle che sembrano tornare indietro a causa di un avvolgimento sinuoso. Il Meandro è un fiume dell’Asia Minore famoso per il suo corso tortuoso, da cui è poi derivato il nome comune “meandro”. 7. tali … vie: intrecciate (conserte) in tal mo­ do, e ancora più inestricabilmente, sono queste vie (del labirinto che circonda il giardino). 8. il libro … nodo: il libro che il mago di Ascalona ha dato ai due crociati contiene il disegno del labirinto (in sé le impronta) e parla delle sue vie contorte, spiegandole e risolvendo ogni loro difficoltà. 9. aviluppati calli: le vie intricate (del labirinto). 10. acque stagnanti: stagni. 11. mobili cristalli: corsi d’acqua corrente limpida come cristallo. Associare l’aggettivo mobili con cristalli dà origine ad una figura artificiosa, un “concetto”. 12. diverse: strane, mai viste. 13. apriche: soleggiate. 14. e quel … scopre: e, cosa che accresce la bellezza e il pregio (al giardino), non si scopre per nulla l’artificio magico che crea tutto que­ sto (opre appunto perché tutto ciò che si vede nel giardino non è naturale, ma frutto di operazioni magiche).

Capitolo 3 · Torquato Tasso

10

Stimi (sì misto il culto è co ’l negletto15) sol naturali e gli ornamenti e i siti. Di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imiti16. L’aura, non ch’altro17, è de la maga effetto, l’aura che rende gli alberi fioriti: co’ fiori eterni eterno il frutto dura, e mentre spunta l’un, l’altro matura.

11

Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia18 sovra il nascente fico invecchia il fico; pendono a un ramo, un con dorata spoglia, l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico19; lussureggiante serpe alto e germoglia la torta vite ov’è più l’orto aprico20: qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have e di piropo e già di nèttar grave21.

12

Vezzosi augelli infra le verdi fronde temprano a prova lascivette note22; mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde garrir23 che variamente ella percote. Quando taccion gli augelli alto risponde24, quando cantan gli augei più lieve scote25; sia caso od arte, or accompagna, ed ora alterna i versi lor la musica òra26.

13

Vola fra gli altri un che le piume ha sparte di color vari27 ed ha purpureo il rostro28, e lingua snoda in guisa larga, e parte la voce sì ch’assembra il sermon nostro29. Questi ivi allor continovò30 con arte tanta il parlar che fu mirabil mostro31.

15. Stimi … negletto: sei indotto a credere, tanto le parti coltivate sono mescolate con quelle lasciate incolte e selvagge (ad arte). 16. Di natura … imiti: altra acutezza concettosa: sembra un artificio della natura, che per diletto imiti scherzando l’arte, sua imitatri­ ce. In altre parole è rovesciato il rapporto tra arte e natura: la natura sembra imitare l’arte, che è solita invece imitare la natura. Qui il

poeta si rifà alla concezione aristotelica dominante nella cultura del suo tempo, secondo cui l’arte è imitazione della natura. 17. L’aura, non ch’altro: persino il vento stesso. 18. tra … foglia: tra le stesse foglie. 19. pendono … antico: il frutto nascente e quello già maturo pendono dallo stesso ramo, il secondo con la buccia già dorata, l’altro inve­ ce con la buccia ancora verde.

20. lussureggiante … aprico: lussureggian­ te serpeggia in alto e germoglia la contorta vi­ te dove il giardino è più soleggiato. 21. qui l’uva … grave: qui (la vite) ha l’uva ancora acerba in fiore, qui ce l’ha dorata e ros­ seggiante e già gonfia di succo; il piropo è una pietra preziosa di color rosso. 22. temprano … note: accordano a gara canti amorosi. 23. e fa … garrir: fa stormire le foglie e mor­ morare le acque dei ruscelli. 24. alto risponde: (l’aura) risponde con un mormorio più profondo. 25. più lieve scote: scuote più leggermente (le foglie e le acque). 26. or … òra: l’aura melodiosa ora accompa­ gna i canti degli uccelli ora si alterna ad essi. 27. un … vari: un uccello che ha le piume sparse di vari colori, un pappagallo. 28. rostro: becco. 29. e lingua … nostro: e snoda la lingua in modo sciolto, e articola la voce in modo tale, che assomiglia al linguaggio umano. 30. continovò: continuò. 31. mostro: prodigio.

pesare le parole Assembra (ottava 13, v. 4)

> Deriva dal latino tardo ad- più similàre, “somigliare”,

da sìmilis, “simile”: qui vuole appunto dire “assomiglia”. Nell’italiano moderno il verbo ha assunto la forma sembrare, che significa “aver l’apparenza di” (es. sembra onesto) o “dare l’impressione di” (es. sembra

che vada tutto bene). Sembianza (dalla stessa radice latina ma attraverso il provenzale semblanza) è “ciò che appare esteriormente, l’aspetto” (es. ha una sembianza sciupata), a volte “falsa immagine” (es. la truffa si è presentata nelle sembianze di un buon affare).

627

L’età della Controriforma

Tacquero gli altri32 ad ascoltarlo intenti, e fermaro i susurri in aria i venti. 14

– Deh mira33 – egli cantò – spuntar la rosa dal verde suo modesta e verginella34, che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa, quanto si mostra men, tanto è più bella35. Ecco poi nudo il sen già baldanzosa dispiega36; ecco poi langue e non par quella, quella non par che desiata inanti fu37 da mille donzelle e mille amanti.

15

Così trapassa al trapassar d’un giorno de la vita mortale il fiore e ’l verde38; né perché faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, né si rinverde39. Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno di questo dì, che tosto il seren perde40; cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando41. –

16

Tacque, e concorde de gli augelli il coro, quasi approvando, il canto indi ripiglia. Raddoppian le colombe i baci loro42, ogni animal d’amar si riconsiglia43; par che la dura quercia e ’l casto alloro44 e tutta la frondosa ampia famiglia45, par che la terra e l’acqua e formi e spiri dolcissimi d’amor sensi46 e sospiri.

17

Fra melodia sì tenera, fra tante vaghezze47 allettatrici e lusinghiere, va quella coppia48, e rigida e costante se stessa indura a i vezzi del piacere49. Ecco tra fronde e fronde il guardo50 inante penetra e vede, o pargli di vedere,

32. gli altri: gli altri uccelli. 33. mira: guarda. 34. modesta e verginella: la rosa appena in boccio è personificata nelle sembianze di una fanciulla. 35. mezzo aperta … bella: ancora mezzo aperta e mezzo nascosta nel boccio, quanto meno si mostra, tanto più è bella. 36. nudo … dispiega: continua la personificazione della rosa. In questi versi Tasso riecheggia la ballata I’ mi trovai, fanciulle di Poliziano ( L’età umanistica, cap. 2, T3, p. 56). 37. desiata inanti fu: fu prima desiderata. Qui sono riecheggiati i versi di Ariosto: «gioveni vaghi e donne innamorate / amano averne e seni e tempie ornate» ( L’età del Ri­

628

nascimento, cap. 5, T4, ottava 42, p. 272). 38. trapassa … verde: la giovinezza, che è il fiore e il verde della vita mortale, passa rapi­ damente come una giornata che subito volge al tramonto. 39. né perché … rinverde: per quanto apri­ le faccia ritorno, essa mai rifiorisce, né torna verde; cioè una volta trascorsa, la giovinezza non ritorna più. 40. Cogliam … perde: cogliamo la rosa nel mattino ridente di questo giorno, che ben pre­ sto perde la sua luminosità; cioè: “godiamo le gioie dell’amore finché c’è la giovinezza, che ben presto si dileguerà”. L’invito a cogliere la rosa riprende il motivo edonistico della ballata di Poliziano sopra citata, nonché i versi

analoghi del Corinto, egloga pastorale di Lorenzo il Magnifico. Il motivo edonistico e la malinconia per la fugacità della giovinezza e della gioia sono presenti anche nel coro dell’atto I dell’Aminta ( T3, p. 567). 41. or quando … amando: ora che si può amare essendo riamati; nella vecchiaia l’amore non potrà più essere ricambiato. 42. Raddoppian … i baci loro: secondo la tradizione le colombe erano animali lussuriosi. 43. ogni animal … riconsiglia: ogni essere vivente si dispone ad amare; riprende testualmente un verso di Petrarca, Canzoniere, CCCX, v. 8. 44. casto alloro: perché in alloro fu mutata la casta Dafne, per sfuggire Apollo che la inseguiva. 45. la frondosa … famiglia: le diverse spe­ cie di piante (del giardino). 46. d’amor sensi: sentimenti amorosi. 47. vaghezze: dolcezze. 48. quella coppia: Carlo e Ubaldo. 49. se stessa … piacere: si irrigidisce a re­ spingere gli allettamenti del piacere. 50. il guardo: lo sguardo (dei due guerrieri).

Capitolo 3 · Torquato Tasso

vede pur certo il vago e la diletta51, ch’egli è in grembo a la donna, essa è l’erbetta52. 18

Ella dinanzi al petto ha il vel diviso, e ’l crin sparge incomposto al vento estivo53; langue per vezzo, e ’l suo infiammato viso fan biancheggiando i bei sudor più vivo54: qual raggio in onda55, le scintilla un riso ne gli umidi occhi tremulo e lascivo56. Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle le posa il capo, e ’l volto al volto attolle57,

19

e i famelici sguardi avidamente in lei pascendo58 si consuma e strugge. S’inchina, e i dolci baci ella sovente liba59 or da gli occhi e da le labra or sugge, ed in quel punto ei sospirar si sente profondo sì che pensi: «Or l’alma fugge e ’n lei trapassa peregrina60». Ascosi mirano i duo guerrier gli atti amorosi61.

20

Dal fianco de l’amante (estranio62 arnese) un cristallo63 pendea lucido e netto. Sorse, e quel fra le mani a lui sospese a i misteri d’Amor ministro eletto64. Con luci ella ridenti, ei con accese, mirano in vari oggetti un solo oggetto65: ella del vetro a sé fa specchio, ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli66.

21

L’uno di servitù, l’altra d’impero si gloria, ella in se stessa ed egli in lei67. – Volgi, – dicea – deh volgi – il cavaliero – a me quegli occhi onde beata bèi68, ché son, se tu no ’l sai, ritratto vero de le bellezze tue gli incendi miei69; la forma lor, la meraviglia a pieno più che il cristallo tuo mostra il mio seno70.

51. il vago … diletta: l’innamorato e la don­ na da lui amata, Rinaldo e Armida. 52. ch’egli … erbetta: Armida è seduta sull’erba, e Rinaldo posa il capo nel suo grembo. 53. ’l crin … estivo: lascia che i capelli si spar­ gano sciolti al vento estivo. 54. ’l suo … vivo: le stille di sudore rendono più luminoso il volto di Armida, soffuso di rossore per la passione amorosa. 55. qual … onda: come un raggio di luce scintilla sulle onde. 56. tremulo e lascivo: da unire a riso del verso precedente.

57. attolle: solleva. 58. pascendo: saziando. 59. liba: assapora. 60. peregrina: fuggitiva. 61. Ascosi … amorosi: nascosti, i due guer­ rieri guardano gli atti amorosi. 62. estranio: inconsueto per un guerriero. 63. cristallo: specchio. 64. Sorse … eletto: (Armida) si alzò e fece tenere da Rinaldo lo specchio, strumento elet­ to per i misteri d’amore; lo specchio è ministro d’amore perché suggerisce alla donna ornamenti e atteggiamenti che suscitano il

desiderio in Rinaldo. 65. Con luci … oggetto: lei con occhi riden­ ti, lui con occhi ardenti di desiderio (Armida nello specchio, Rinaldo negli occhi di Armida) contemplano un solo oggetto (la donna). 66. spegli: specchi. 67. L’uno … in lei: Rinaldo è lieto di essere schiavo d’amore della donna, Armida del dominio esercitato sull’eroe, lei si gloria di se stessa, perché suo è l’impero, lui si gloria in lei che lo domina. 68. onde beata bèi: con i quali tu, felice, dai la felicità (a chi ti guarda). 69. ritratto … miei: l’ardore appassionato di Rinaldo è il miglior ritratto delle bellezze di Armida, perché è stato provocato da essa: dall’effetto si può cogliere la qualità della causa. 70. la forma … seno: il mio cuore riflette ap­ pieno le tue meravigliose bellezze più che il tuo specchio. Il discorso amoroso di Rinaldo ha le movenze tipiche della poesia madrigalesca e ricorre agli artifici lambiccati e concettosi che sono propri della poesia galante dell’epoca.

629

L’età della Controriforma

22

Deh! poi che sdegni me, com’egli è vago mirar tu almen potessi il proprio volto71; ché il guardo tuo, ch’altrove non è pago, gioirebbe felice in sé rivolto72. Non può specchio ritrar sì dolce imago73, né in picciol vetro è un paradiso accolto74: specchio t’è degno il cielo75, e ne le stelle puoi riguardar le tue sembianze belle. –

23

Ride Armida a quel dir, ma non che cesse dal vagheggiarsi e da’ suoi bei lavori76. Poi che intrecciò le chiome e che ripresse con ordin vago i lor lascivi errori, torse in anella i crin minuti77 e in esse, quasi smalto su l’or, cosparse i fiori; e nel bel sen le peregrine rose giunse a i nativi gigli78, e ’l vel compose.

24

Né ’l superbo pavon sì vago in mostra spiega la pompa de l’occhiute piume79, né l’iride sì bella indora e inostra il curvo grembo e rugiadoso al lume80. Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra che né pur nuda ha di lasciar costume81. Diè corpo a chi non l’ebbe; e quando il fece, tempre mischiò ch’altrui mescer non lece82.

25

Teneri sdegni, e placide e tranquille repulse, e cari vezzi, e liete paci, sorrise parolette, e dolci stille di pianto, e sospir tronchi, e molli baci83;

71. com’egli … volto: potessi tu almeno con­ templare come è bello il tuo volto. 72. ché … rivolto: perché il tuo sguardo, che non si appaga nel contemplare alcuna altra bellezza, gioirebbe felice se si rivolgesse a con­ templare se stesso. 73. imago: immagine. 74. né … accolto: la tua bellezza paradisia­ ca, sovrumana, non può essere contenuta nel

piccolo specchio. 75. specchio … cielo: lo specchio degno di te è il cielo. 76. ma non … lavori: ma non per questo smette di rimirarsi nello specchio e di farsi bella. 77. ripresse … minuti: dopo che ricompose in bell’ordine il loro disordine capriccioso (prima infatti li aveva lasciati svolazzare liberi: vedi ottava 18, v. 2), inanellò i capelli fini.

78. nel bel … gigli: congiunse al naturale candore della pelle (nativi gigli) le rose estra­ nee (peregrine), cioè aggiunte dall’esterno. 79. spiega … piume: spiega il fasto delle piume, che sembrano recare ciascuna l’imma­ gine di un occhio. 80. l’iride … lume: l’arcobaleno colora d’oro e di rosso l’arco rugiadoso alla luce del sole; l’ostro è la porpora. 81. Ma bel … costume: ma più bella di ogni altro ornamento mostra la cintura, che non è solita lasciare neppure quando è nuda. 82. Diè … lece: (nel costruire la cintura) si valse di entità immateriali, a cui diede magica­ mente consistenza concreta; e quando la creò, mescolò materie che a nessun altro è lecito mescolare. 83. Teneri … baci: teneri sdegni, rifiuti placidi e tranquilli, adorabili moine (cari vezzi), e felici rappacificazioni, parolette accompagnate da sorrisi, dolci lacrime, e sospiri troncati, e volut­ tuosi baci. Sono tutte formule tratte dal Can­ zoniere di Petrarca, tranne sorrise parolette che è espressione dantesca, Paradiso, I, v. 95.

pesare le parole Peregrine (ottava 23, v. 7) > Viene

dal latino peregrìnum, “straniero”, dall’avverbio perègre, “fuori della città”, composto di per- e àgrum, “campo”: qui ha un senso vicino a quello originario, “estraneo, che viene dal di fuori”. Il senso di “straniero” è rimasto nella lingua letteraria. Nella lingua attuale il termine è usato in senso figurato, “strano, singolare, raro” (es. gli passano per la testa idee peregrine). Il verbo peregrinare significa “vagare” (es. ho peregrinato senza meta per la città, ho peregrinato da un ufficio all’altro).

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Nella forma pellegrinare vuol dire “compiere un viaggio di devozione (pellegrinaggio) a luoghi santi” (es. ho compiuto un pellegrinaggio a Lourdes), e chi lo compie è un pellegrino; pellegrinaggio può anche avere un valore figurato, di visita a luoghi consacrati dalla fama, o da qualche evento storico (es. andare in pellegrinaggio alla tomba di Dante, sui luoghi delle battaglie del Risorgimento): l’idea sottintesa all’uso metaforico è la sacralità di quei luoghi.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

fuse tai cose tutte, e poscia unille ed al foco temprò di lente faci84, e ne formò quel sì mirabil cinto di ch’ella aveva il bel fianco succinto85. 26

Fine alfin posto al vagheggiar86, richiede a lui commiato, e ’l bacia e si diparte87. Ella per uso il dì n’esce88 e rivede gli affari suoi, le sue magiche carte. Egli riman, ch’a lui non si concede por orma o trar momento89 in altra parte, e tra le fère spazia e tra le piante, se non quanto è con lei, romito amante90.

27

Ma quando l’ombra co i silenzi amici rappella a i furti lor gli amanti accorti traggono le notturne ore felici sotto un tetto medesmo entro a quegli orti91. Ma poi che vòlta a più severi uffici92 lasciò Armida il giardino e i suoi diporti, i duo, che tra i cespugli eran celati, scoprìrsi93 a lui pomposamente armati.

28

Qual feroce destrier ch’al faticoso onor de l’arme vincitor sia tolto, e lascivo marito in vil riposo fra gli armenti e ne’ paschi erri disciolto, se ’l desta o suon di tromba o luminoso acciar, colà tosto annitrendo è vòlto, già già brama l’arringo e, l’uom su ’l dorso portando, urtato riurtar nel corso94;

29

tal si fece il garzon95, quando repente96 de l’arme il lampo gli occhi suoi percosse.

84. poscia … faci: poi le unì e le temprò a fuo­ co lento. Faci letteralmente significa “fiaccole”. 85. succinto: cinto. 86. vagheggiar: specchiarsi. 87. si diparte: si allontana. 88. per uso … esce: è solita uscire durante il giorno (dal giardino). 89. por … momento: porre il piede o tra­ scorrere un solo momento.

90. e tra … amante: si aggira tra gli animali e le piante, amante solitario tranne quando è con Armida. 91. Ma quando … orti: ma quando la notte coi suoi silenzi favorevoli richiama gli amanti prudenti ai loro incontri segreti, trascorrono felici le ore notturne sotto lo stesso tetto nel giardino. 92. più severi uffici: le sue operazioni magiche.

93. scoprìrsi: si scoprirono, si rivelarono. 94. Qual … corso: come un fiero cavallo da guerra, che dopo la vittoria sia tolto alla gloria ma anche alla fatica delle battaglie, e sia la­ sciato in riposo meno glorioso tra gli armenti delle cavalle come stallone (lascivo marito) e vaghi libero per i pascoli, se lo desta un suono di tromba o il lampeggiare di una spada subito si volge nitrendo colà: già brama il campo di battaglia (arringo) e, portando l’uomo sul dor­ so, urtato dai cavalli avversari, urtarli a sua volta nella corsa. 95. garzon: giovane (Rinaldo). 96. repente: all’improvviso.

pesare le parole Garzon(e) (ottava 29, v. 1; ottava 34, v. 1)

> Proviene dal francone warkjo, “mercenario” (è quindi

di origine germanica). Nella lingua letteraria indica, come qui, il giovane adolescente. Nell’uso comune della lingua attuale designa il lavorante subordinato, in genere giovane, che compie mansioni poco qualificate,

ausiliarie (es. il garzone del macellaio, del lattaio, del supermercato). In francese garçon vuole ancora dire “ragazzo”, “giovane”, ma ha altresì il senso di “scapolo”, o “cameriere” (di un caffè, di un ristorante), o anche “garzone” nel senso nostro, “fattorino”, “inserviente”.

631

L’età della Controriforma

Quel sì guerrier97, quel sì feroce ardente suo spirto a quel fulgor tutto si scosse, benché tra gli agi morbidi languente, e tra i piaceri ebro e sopito ei fosse98. Intanto Ubaldo oltra ne viene, e ’l terso adamantino scudo ha in lui converso99. 30

Egli al lucido scudo il guardo gira, onde si specchia in lui qual siasi e quanto con delicato culto adorno100; spira tutto odori e lascivie il crine e ’l manto, e ’l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira dal troppo lusso effeminato a canto101: guernito è sì ch’inutile ornamento sembra, non militar fero instrumento102.

31

Qual uom da cupo e grave sonno oppresso dopo vaneggiar lungo in sé riviene, tal ei tornò nel rimirar se stesso, ma se stesso mirar già non sostiene103; giù cade il guardo, e timido e dimesso, guardando a terra, la vergogna il tiene104. Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro il foco per celarsi, e giù nel centro105.

32

Ubaldo incominciò parlando allora: – Va l’Asia tutta e va l’Europa in guerra: chiunque e pregio106 brama e Cristo adora travaglia in arme107 or ne la siria terra. Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora del mondo, in ozio, un breve angolo serra108; te sol de l’universo il moto nulla move, egregio campion d’una fanciulla109.

33

Qual sonno o qual letargo ha sì sopita la tua virtute110? o qual viltà l’alletta111? Su su; te il campo112 e te Goffredo invita, te la fortuna e la vittoria aspetta.

97. guerrier: è aggettivo, da unire a spirto del verso seguente. 98. benché … fosse: benché lo spirito (guerriero) fosse languente tra gli agi e le comodi­ tà, e fosse come inebriato e sopito tra i piace­ ri. 99. e ’l terso ... converso: e ha rivolto verso di lui lo scudo lucido come diamante. 100. si specchia … adorno: si vede rispec­ chiato in esso com’è, e quanto è ornato con delicata, femminea ricercatezza. 101. spira … a canto: i capelli e il manto emanano profumi voluttuosi e vede che persi­

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no la spada, per non dire del resto, gli pende dal fianco effeminata dal troppo lusso. 102. guernito … instrumento: è così guar­ nito di fregi che sembra un inutile ornamento, non un feroce strumento di guerra. 103. Qual uom … sostiene: come un uo­ mo oppresso da un sonno profondo e pesan­ te ritorna in sé dopo un lungo vaneggiare, così egli ritorna nel veder specchiato se stesso, ma non sopporta di vedere se stesso in quelle condizioni. 104. giù cade … tiene: lo sguardo si abbas­ sa e la vergogna invade lui che guarda a terra

timido e umiliato. 105. nel centro: nel centro della terra. 106. pregio: gloria. 107. travaglia in arme: si affatica portando le armi. 108. fuora … serra: un piccolo angolo di terra chiude lontano dal mondo esterno, in ozio. 109. te sol … fanciulla: te solo questa guer­ ra che sconvolge il mondo non smuove per nulla, insigne campione di una fanciulla. È detto con sarcasmo: invece di essere campione della fede cristiana Rinaldo è campione di una donna, Armida. 110. virtute: valore guerriero. 111. alletta: attrae. 112. campo: l’esercito dei crociati.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Vieni, o fatal113 guerriero, e sia fornita114 la ben comincia impresa; e l’empia setta, che già crollasti115, a terra estinta cada sotto l’inevitabile tua spada. – 34

Tacque, e ’l nobil garzon restò per poco spazio confuso e senza moto e voce. Ma poi che diè vergogna a sdegno loco, sdegno guerrier de la ragion feroce, e ch’al rossor del volto un novo foco successe, che più avampa e che più coce, squarciossi i vani fregi e quelle indegne pompe, di servitù misera insegne116;

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ed affrettò il partire, e de la torta confusione uscì del labirinto117.

113. fatal: Rinaldo è chiamato dal destino a decidere le sorti della guerra: solo lui può vincere l’incantesimo della selva, da cui i crociati possono trarre i materiali per le macchine da guerra.

114. fornita: finita, condotta a termine. 115. l’empia setta … crollasti: e l’empia setta (gli infedeli), che già facesti vacillare con le tue precedenti imprese. 116. Ma poi … insegne: ma dopo che la

vergogna lasciò il posto allo sdegno, lo sde­ gno fiero campione (guerrier) della ragione, e dopo che al rossore del volto un diverso ros­ sore successe (suscitato dallo sdegno), che più avvampa e più brucia, si squarciò quei fri­ voli ornamenti e quelle eleganze indegne (di un guerriero), segni di una misera schiavitù. 117. de la torta … labirinto: dall’intricato groviglio del labirinto che circonda il giardino.

Analisi del testo

> il traviamento di rinaldo

La funzione di Rinaldo nel poema

La vittoria del codice cristiano

Ricaviamo per questa analisi alcuni spunti essenziali dal bel saggio di Sergio Zatti, Geografia fisica e geografia morale nel canto XVI, in L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, più volte citato. L’episodio del giardino di Armida segna una svolta determinante nella costruzione del poema. Rinaldo è un personaggio che ha una funzione centrale all’interno di essa: è l’eroe sin dall’inizio predestinato a vincere il male, gli incantesimi dei pagani, e ad assicurare la vittoria della causa cristiana, ma è anche destinato al traviamento, ad allontanarsi dal modello unitario del codice cristiano e a sperimentare l’universo pagano ad esso opposto, caratterizzato dalla trasgressione e dalla devianza: in nome del suo onore personale cede agli impulsi dell’ira, che lo portano ad uccidere un compagno e a fuggire dal campo, disgregando l’unità delle forze crociate, ma, più ancora, subisce le seduzioni di Armida e si fa avvolgere dalle insidie della sensualità. Il conflitto tra i due codici culturali, che si proietta nello scontro tra le due schiere avverse, diviene un conflitto interno alla personalità di Rinaldo: si urtano in lui la forza centripeta della missione militare-religiosa e quella centrifuga degli impulsi edonistici privati. Con il prevalere del secondo codice Rinaldo perde la sua identità di forte guerriero e viene assorbito dall’universo pagano, subisce una forma di alienazione e finisce per identificarsi con l’“altro”: profumato, effeminato, diventa in tutto simile ad Armida. Ma l’episodio del giardino è l’ultima vittoria del codice pagano nel poema, l’ultima affermazione dei valori da esso rappresentati, che sono destinati ad essere sopraffatti dal trionfo del codice cristiano. Con la liberazione di Rinaldo il conflitto di codici viene a cessare e comincia il processo di affermazione di quello cristiano, destinato ad avere la meglio e a cancellare quello antagonistico. La fase immediatamente successiva sarà la purificazione di Rinaldo sul monte Oliveto, grazie alla quale l’eroe diverrà pronto a vincere gli incantesimi demoniaci della selva e a consentire la vittoria dei crociati. 633

L’età della Controriforma

> il giardino e l’edonismo rinascimentale

L’intensa suggestione simbolica Il giardino e la visione edonisticorinascimentale

L’invito a cogliere la rosa

L’ambiguità tra condanna moralistica e identificazione

Analogie e differenze rispetto all’Aminta

Lo spazio circolare L’inazione di Rinaldo

Carlo e Ubaldo

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L’episodio qui riportato si può dividere in tre sequenze: 1. la descrizione del labirinto e del giardino incantato; 2. la scena degli amori di Rinaldo e Armida; 3. la scena in cui Carlo e Ubaldo riportano Rinaldo al suo dovere. Subito in apertura della prima sequenza, un’intensa suggestione simbolica possiede l’immagine del giardino. Con il suo proliferare lussureggiante di vegetazione rappresenta gli istinti pagani, edonistici e peccaminosi, che si sottraggono al controllo della ragione cristiana. La descrizione riprende un motivo caro alla letteratura rinascimentale, che ama proiettare nell’immagine del giardino ameno una visione edonistica della vita: si possono ricordare il giardino di Venere nelle Stanze di Poliziano, i tanti giardini incantati di Boiardo, il giardino di Alcina in Ariosto. Ricorrono nella descrizione del giardino di Armida i motivi obbligati del locus amoenus, ricca vegetazione, acque limpide, canto di uccelli, ma il giardino tassesco si caratterizza per una più accentuata sensualità, proprio perché si carica di una serie di significati simbolici e moralistici e diviene il luogo per eccellenza dello sviamento dell’eroe. Il canto del pappagallo esplicita il significato pagano del giardino: l’invito a cogliere la rosa prima che sfiorisca riprende una tematica tipica dell’edonismo e del naturalismo rinascimentali, già toccata esemplarmente da Poliziano nella ballata I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino ( L’età umanistica, cap. 2, T3, p. 56) e da Lorenzo de’ Medici nel Corinto. Ma proprio questo squarcio lirico rivela le profonde ambiguità che sono alla base dell’episodio. L’intento del poeta è evidentemente presentare in una luce radicalmente negativa, in obbedienza al rigido moralismo controriformistico, l’edonismo paganeggiante di cui il giardino è concreta trascrizione. Il contesto in cui il canto dell’uccello esotico è inserito, l’inganno della maga che travia l’eroe cristiano, è come un segno “meno” premesso all’intero messaggio, che ne rovescia il significato. O, per meglio dire, che dovrebbe rovesciarlo: in realtà proprio la musicalissima sensualità dei versi rivela l’identificazione profonda del poeta, la segreta complicità con i valori pagani del canto del pappagallo, la struggente nostalgia per un mitico mondo in cui il godimento è libero e sgombro dal senso del peccato. Secondo un meccanismo abituale, il linguaggio poetico di Tasso nega per affermare: la negazione moralistica è ciò che legittima l’emergere nel racconto di tematiche inquietanti e respinte dalla coscienza. La tematica del giardino ameno e voluttuoso, e il motivo del “cogliere la rosa” in particolare, sono molto vicini al clima dell’Aminta ( T3, p. 567); ma nella favola l’adesione all’edonismo rinascimentale era più scoperta e diretta, sgombra delle complicazioni che si trovano in questo episodio del poema.

> La liberazione di rinaldo

Ciò che caratterizza il palazzo fatato e il giardino in esso contenuto è la circolarità e la chiusura alla realtà esterna: lo spazio chiuso e circolare allude alla segregazione dell’eroe fuori del mondo, lontano dalla storia dove dovrebbe svolgere il suo compito di crociato («fuora / del mondo, in ozio, un breve angolo serra»). Lo spazio circolare che esclude Rinaldo dall’azione lo obbliga all’eterna ripetizione degli stessi gesti (la contemplazione estatica della donna amata, la lode iperbolica delle sue bellezze), in sintonia con la qualità del giardino, in cui tutto si riproduce sempre identico, fissato dall’incantesimo in forme immutabili, fuori dello scorrere del tempo. Questa ripetizione sempre identica della vita di Rinaldo è interrotta, nella terza sequenza dell’episodio, dall’ingresso in scena di Carlo e Ubaldo, che sono la negazione in atto del giardino e di ciò che esso rappresenta. Innanzitutto alla mollezza dell’abbandono sensuale oppongono la rigidezza della razionalità, repressiva nei confronti di ogni impulso incontrollato («va quella coppia, e rigida e costante / se stessa indura a i vezzi del piacere»); inoltre i due crociati vengono dallo spazio esterno, dalla realtà che è fuori dallo spazio chiuso del giardino, e rappresentano la storia e i suoi obblighi.

Capitolo 3 · Torquato Tasso Immobilità vs movimento Circolare vs rettilineo

A partire da questo punto l’immobilità entro lo spazio circolare è rotta da un rapido movimento rettilineo: Rinaldo esce dal perimetro del palazzo, raggiunge la riva, solca a volo le acque dell’oceano e del Mediterraneo sulla nave della Fortuna, sino a giungere a Gerusalemme. Si ha quindi una significativa opposizione spaziale, circolare vs rettilineo, che simboleggiano da un lato l’inattività che sprofonda nel pagano edonismo dei sensi ripiegato su se stesso, dall’altro l’azione indirizzata ad un obiettivo sacro e collettivo.

> il ritmo narrativo Sequenze statiche e dinamiche

Le differenze tematiche fra le tre sequenze successive si traducono anche in differenze di ritmo narrativo. Le prime due, coerentemente col carattere dello spazio chiuso del giardino e col ripetersi speculare e sempre identico dei gesti, sono statiche: puramente descrittiva la sequenza del giardino, pressoché priva di azioni e di movimenti quella in cui Rinaldo e Armida si contemplano estatici. L’ingresso in scena di Carlo e Ubaldo dà origine invece ad un intenso dinamismo, ad una veloce successione di gesti e movimenti, nonché di trapassi psicologici (la sorpresa e la subitanea presa di coscienza di Rinaldo, la sua rapida fuga dal giardino e dal labirinto).

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Quali affermazioni presenti nel testo rivelano l’origine del palazzo della maga? > 2. Quali affermazioni del poeta e quali aspetti della descrizione del giardino ne rivelano la sua natura artificiale? > 3. Su quali argomenti fa leva il discorso di Ubaldo rivolto a Rinaldo? AnALizzAre

> 4. In riferimento alle ottave 17-19 e 23-26, delinea il profilo fisico e comportamentale di Armida. > 5. Stile Rintraccia e spiega la similitudine con il mondo animale che rivela la condizione di Rinaldo e il risvegliarsi della sua coscienza. > 6. Stile Quale significato simbolico ha lo specchio in cui Rinaldo contempla Armida? A quale altro strumento di rispecchiamento si contrappone? > 7. Lessico Individua, nell’ottava 12, elementi lessicali di chiara ispirazione petrarchesca, tipici della descrizione del locus amoenus. > 8. Alle ottave 30 e 31 si concentrano vocaboli collegati al significato simbolico dello specchio, ora sostituito dal «lucido scudo» mostrato a Rinaldo da Carlo e Ubaldo: quali? > 9. Lingua Analizza l’espressione – ripresa da Dante ( nota 83) – «sorrise parolette» (ottava 25, v. 3): che cosa osservi? Approfondire e inTerpreTAre

> 10. Testi a confronto: scrivere Effettua in circa 10 righe (500 caratteri) un confronto fra il traviamento di Rinaldo e la follia di Orlando nel poema di Ariosto: quali elementi comuni presentano? > 11. Testi a confronto: esporre oralmente Confronta (max 5 minuti) la descrizione di Armida con quella di Alcina nell’Orlando furioso di Ariosto ( L’età del Rinascimento, cap. 5, T10, p. 351, ottave 9-16): il ritratto delle due maghe presenta delle analogie? Le modalità con cui i due poeti le descrivono sono le stesse? Motiva la tua risposta. per iL reCUpero

> 12. Ricerca nella prima parte del brano (ottave 1-13) gli aggettivi qualificativi e indica se prevalgono quelli di valore positivo o negativo. > 13. Individua nelle ottave 14-20 tutti i verbi e indica quali sono i campi semantici più frequenti.

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L’ArTe inConTrA LA LeTTerATUrA

rinaldo e Armida nel giardino incantato

Galleria di immagini La Gerusalemme liberata nella pittura

Nel Sei e Settecento la fortuna figurativa della Gerusalemme liberata fu talmente ampia da risultare inferiore soltanto a quella della Bibbia. Gli episodi più amati dagli artisti, e da questi variamente interpretati, furono quattro: Olindo e Sofronia, Erminia tra i pastori, la morte di Clorinda, Armida e Rinaldo nel giardino incantato. Le prime raffigurazioni di Rinaldo e Armida, realizzate a partire dal 1590, si devono ai pittori bolognesi della famiglia dei Carracci, Ludovico e i fratelli Agostino e Annibale, che

Annibale Carracci, Rinaldo e Armida, 1600-01, olio su tela, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

Annibale Carracci (1560-1609), che le fonti ci descrivono come un grande conoscitore del poema di Tasso, conferì dignità classica all’idillio dei due amanti, interpretandolo però in modo trasgressivo. Egli pose l’accento sulla perdita di sé dell’eroe innamorato, soggiogato con fredda determinazione dalla maga. Nell’immagine creata da Carracci, l’eroe della Gerusalemme liberata è mollemente abbandonato tra le braccia di Armida, alla quale tende lo specchio affinché possa contemplarsi. Le figure dei due amanti hanno dimensioni monumentali: il pittore ci offre un punto di vista molto ravvicinato di quanto sta accadendo. La nostra distanza corrisponde a quella di Carlo e Ubaldo che, nascosti tra le piante, osservano Rinaldo e la maga, facendo pesare sul loro idillio la minaccia della sua fine imminente. L’aspetto virile dei due guerrieri, accentuato dalla brillantezza degli elmi e dalle folte barbe, esalta per contrasto quanto sia avanzato il processo di femminilizzazione del glabro Rinaldo. Di quest’ultimo Carracci mette in risalto anche la somiglianza con la maga, che si riflette tanto nelle sue fattezze, quanto nella sua gestualità. Nel dipinto, che riproduce fedelmente l’episodio descritto da Tasso, compaiono tutti gli oggetti presenti nel testo del poema, dallo specchio al pappagallo, dalla spada ai fiori

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Capitolo 3 · Torquato Tasso

elaborarono un nuovo classicismo, rivitalizzato dal confronto con la natura. Essi fondarono l’Accademia degli Incamminàti, una scuola privata di pittura dove, oltre allo studio dell’arte classica e rinascimentale, ampio spazio veniva dato al disegno, inteso come strumento per indagare la realtà, e a discipline come la geometria, le lettere e la filosofia. Qui si formarono i protagonisti del classicismo secentesco italiano, tra cui Domenico Zampieri detto il Domenichino. Al 1600 circa risale il dipinto di Rinaldo e Armida eseguito da Annibale Carracci per il cardinale Odoardo Farnese e destinato al suo Palazzo romano, dove l’artista era già impegnato nella straordinaria decorazione ad affresco della Galleria.

Domenichino, Rinaldo e Armida, 1620-21, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre.

Domenichino (1581-1641), che collaborò con Annibale Carracci fino alla sua morte, vent’anni dopo il maestro si cimentò nell’impresa di dipingere una propria versione di Rinaldo e Armida nel giardino incantato. Il suo dipinto, pur riproponendo l’impostazione generale di quello di Carracci, grazie a lievi modifiche e ad alcuni inserimenti, offre un’interpretazione considerevolmente diversa dell’episodio. Domenichino aumenta la distanza tra noi e i due amanti e quella tra loro e i due guerrieri che li spiano, annulla ogni forma di somiglianza tra Rinaldo e Armida, inserisce colombi e amorini che ripetono le diverse fasi dell’idillio amoroso e, elemento fondamentale, dipinge Cupido in procinto di colpire Armida con la freccia. Mentre nel dipinto di Carracci tutto concorre a evidenziare il dominio della maga sull’eroe, in questo viene offerta una visione pacificata della relazione tra i due amanti, dato che la stessa Armida è sottomessa al potere dell’amore.

Esercitare le competenze STABiLire neSSi TrA LeTTerATUrA e ArTi ViSiVe

> 1. Perché il pappagallo è posto in evidenza nei due dipinti? Rispondi considerando le ottave del poema in cui se ne parla.

> 2. Che cosa rappresentano le architetture che si intravvedono sullo sfondo nei due dipinti?

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L’età della Controriforma

Interpretazioni critiche

Giovanni Getto Illusione e delusione nella poesia della Gerusalemme I contenuti tematici del poema sono ispirati al gusto della regola e della tecnica, che è tipico della cultura del tardo Cinquecento, un gusto che dà origine ad un senso scenografico dello spettacolo e del decoro. La poesia autentica scaturisce invece dalla musica elegiaca che commenta un sogno di vita sul punto di dileguarsi. Non vi è nella poesia tassesca un sentimento dominante, ma un ritmo sentimentale di perenne illusione e delusione, «l’atmosfera di inquieta solitudine dell’anima assorta in un sogno e subito delusa dal suo svanire». Il critico saggia poi la validità di questa interpretazione sulle storie d’amore, che sono i più notevoli nuclei poetici della Gerusalemme, sull’epos di Goffredo e sugli eroi pagani sconfitti, e conclude ravvisando nel ritmo di illusione e delusione un vago suggerimento religioso.

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Giovanni Getto ha condensato il suo intenso lavoro critico su Tasso in due volumi fondamentali, la monografia complessiva Interpretazione del Tasso del 1951 (ristampata in seguito con aggiornamenti) e Nel mondo della «Gerusalemme», del 1968. Il passo che presentiamo, tratto da un saggio più divulgativo, compendia sinteticamente l’interpretazione del critico. Secondo i princìpi del metodo crociano, la preoccupazione di Getto è di individuare e definire la «poesia» della Gerusalemme, distinguendola dalla non-poesia, la semplice «struttura», che della poesia è l’antefatto e il supporto.

La Liberata è in effetti, prima che una testimonianza di autentica poesia, un eloquente documento di una diffusa affabilità di cortigiano e di accademico. Dalla volontà di celebrazione del mondo della corte e dell’accademia nasce l’intera struttura su cui poggia il poema. Questa vasta zona strutturale si organizza inizialmente proprio nella semplice azione di scelta di precisi contenuti figurativi e ideali, che rimangono talora ad uno stato incondito1 di superficiale versificazione e che si determinano altre volte (ed è un secondo ideale momento espressivo) in base a quel gusto della regola e della tecnica che è tra le caratteristiche maggiori di questa civiltà e che conferisce al linguaggio tassiano un ritmo ordinato di chiarificatrice intelligenza. La tecnica del governo e della ragion di stato di Aladino e dello stesso Goffredo; l’arte calcolatissima della seduzione di Armida; la casistica2 risolutiva delle azioni moralmente dubbie di diversi personaggi (da Idraote a Goffredo a Erminia); i duelli costruiti con aperto ossequio alle leggi della scherma e preparati secondo il codice della cavalleria; le battaglie studiate e condotte con la precisione di trattati di tattica e di strategia, di balistica3 e di topografia; gli stessi discorsi (esemplare quello di Alete) ordinati secondo i rigidi canoni e le ben dosate norme della retorica costituiscono gli esiti evidenti di questo proposito costruttivo sorretto dall’ideale della tecnica e della regola, che è poi quello stesso ideale che, riprendendo quell’imprecisato gusto di letteratura che presiede alla nascita del poema eroico, lo disciplina secondo tutto un complesso sistema di leggi, secondo quella ragion poetica che rappresenterà la passione e il tormento dell’intera vita del poeta. Ma la struttura raggiunge il suo massimo grado di elaborazione là dove la corte e l’accademia agiscono sviluppando uno spiccato senso coreografico dello spettacolo e del decoro. È questo piacere estetico di scene fastose e di magnifiche prospettive che, applicandosi al tema della politica e del principe, della milizia e dell’amore, della religione e della magia, suscita talune fiammanti pagine del poema: la scena sontuosa di sfarzo orientale del Califfo in trono; le molteplici parate militari e certe irruzioni di guerrieri con le bandiere al vento, e

1. incondito: non elaborato. 2. casistica: nel linguaggio della teologia cat­ tolica è l’esame metodico dei comportamenti

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bassa

umani, al fine di definire la norma morale da applicare a ciascuno di essi; tale esame nella cultura controriformistica era divenuto parti­

colarmente minuzioso e cavilloso. 3. balistica: scienza che studia il lancio dei proiettili.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

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la stessa scena grandiosa del vessillo crociato piantato sulle mura di Gerusalemme; e poi certe pose eroiche ed emblematiche dell’eloquenza di Goffredo; e la pompa liturgica di alcune pagine (come quella della processione al Monte Oliveto); fino alla coreografia da trionfo d’amore di alcuni luoghi della storia di Armida. A questa sensibilità decorativa e coreografica, a questo edonismo estetico4, mette capo nel suo grado massimo di elaborazione, sotto lo stimolo di una vivace operazione della fantasia, la struttura della Gerusalemme. E qui si fa sentire, nel suo primo albeggiare, la poesia del Tasso. La struttura del poema si salda con la lirica proprio su questa linea di emozioni estetiche, di celebrazioni di belle parvenze e di spettacolari realtà, di eleganti profili e di prospettive sontuose, dove da un lato si riassume il senso di una civiltà e dove dall’altro pallidamente affiora un’illusione di vita e un’aspirazione umana, quella intimissima sognatrice ed evasiva del Tasso. Ed è l’intervento di una nota flebile e dolente, che, improvvisa e inattesa, si diffonde su queste immagini di vita, quel che concede la possibilità di un approdo poetico all’espressione del Tasso. Nella elegiaca musica che commenta un fuggevole sogno di vita sul punto che dilegua si realizza la poesia tassiana. La poesia del Tasso, in realtà, non deve essere cercata in un determinato sentimento dominante, o in un elenco di sentimenti fondamentali, ma piuttosto in un ritmo sentimentale e in un’atmosfera interiore: il ritmo della perenne illusione e delusione della vita, l’atmosfera della inquieta solitudine dell’anima assorta in un sogno e subito delusa dal suo svanire. Tutti i personaggi e paesi e situazioni della Gerusalemme trovano nella condizione sentimentale suggerita da questa proposta critica, l’unitario e propizio angolo visuale per l’intelligenza della poesia che li tocca e li esalta. La validità di questa interpretazione appare facilmente per le grandi storie d’amore che rappresentano i più notevoli nuclei poetici della Liberata, quella di Tancredi e Clorinda, di Erminia e Tancredi, di Armida e Rinaldo, di Olindo e Sofronia: tutte impostate su di un senso di fatali incomunicabilità, di dolorose separazioni e di nostalgiche lontananze, tutte risolte in un patetico chiaroscuro di luminosi desideri e di mesti disinganni. […] E come le creature della Gerusalemme e le sue situazioni così anche i suoi sfondi e i suoi cieli poetici si riportano sempre a quel motivo fondamentale, a quell’eterno fluire di illusioni e delusioni, a quel perenne fluttuare di belle forme che albeggiano e subito tramontano in cui consiste il nucleo essenziale della gnoseologia lirica5 di Torquato Tasso. Sono paesaggi solinghi6, di ombre notturne, di deserte rovine, di sabbie sconfinate, di ignote immensità oceaniche, di desolata e stagnante siccità, di tempestosa pioggia; sono aspetti sempre inquietanti del paesaggio che immergono l’uomo in una muta angoscia, lo lasciano solo, senza possibilità di rifugio nella natura, e lo richiamano a pensieri di tristezza e a simboli di caducità. G. Getto, Torquato Tasso, in Letteratura italiana. I maggiori, Marzorati, Milano 1967

4. edonismo estetico: assaporamento del piacere estetico. 5. gnoseologia lirica: la gnoseologia è la branca della filosofia che si occupa del pro­ blema della conoscenza; l’espressione nel suo

complesso indica quindi il modo in cui il poe­ ta conosce la realtà, che è un modo lirico, intuitivo, non razionale come è proprio del pensiero filosofico. È un concetto che deriva dall’estetica di Croce, secovando cui la poe­

sia è appunto una forma di conoscenza, ma diversa da quella filosofica, in quanto fonda­ ta su un’intuizione del sentimento. 6. soligni: solitari.

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Quali aspetti del poema il critico include nella definizione di «struttura della Gerusalemme» (rr. 1-33)? > 2. Perché il critico usa le espressioni «ritmo sentimentale» e «atmosfera interiore» (rr. 41-43)? > 3. Quali nuclei poetici della Gerusalemme si ricollegano a un senso di “unità” (rr. 34-60)? AnALizzAre

> 4.

Lessico

Ricostruisci l’etimologia dei termini illusione e delusione (rr. 43-44).

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente Contestualizza (max 3 minuti) l’affermazione «secondo quella ragion poetica che rappresenterà la passione e il tormento dell’intera vita del poeta» presente nella prima parte del brano (rr. 1-33).

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L’età della Controriforma

7 Gli argomenti

L’elaborazione retorica

Descrizioni, ricordi, confidenze

Il messaggero

Il padre di famiglia

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I Dialoghi Soprattutto negli anni della prigionia in Sant’Anna Tasso si dedicò alla stesura di dialoghi in prosa, un tipo di componimento che egli stesso definiva intermedio tra poesia e filosofia, che si rifaceva a un genere molto praticato tra Quattro e Cinquecento e risaliva al modello dei dialoghi di Platone. I Dialoghi tasseschi sono 28, scritti tra il 1578 e il 1594 e pubblicati sparsamente, spesso poco dopo la composizione. Gli argomenti trattati oscillano tra il carattere moralistico e quello mondano: il gioco, il piacere onesto, le maschere, la precedenza, la nobiltà, la corte, l’amore, la bellezza, la virtù... Numerosi spunti sono strettamente in rapporto con motivi culturali della Controriforma e dell’imminente Barocco: la sottomissione dell’intellettuale alle verità della religione, l’esaltazione magniloquente di Roma come sede della grandezza del papato, l’investitura divina ricevuta dai principi, da cui deriva l’autorità che essi esercitano, la riverenza per la monarchia spagnola, la celebrazione della vittoria della cristianità a Lepanto. Nella cornice, nello svolgimento, nel ritmo del dialogo si coglie l’impronta evidente della conversazione cortigiana: si tratta quindi di un’opera che si colloca in pieno nella civiltà delle corti e nella cultura da esse espressa. Tasso non mostra doti di vera speculazione filosofica: si rivela ragionatore ordinato, sottile, a volte cavilloso e arido. Lo spunto filosofico subisce una complessa elaborazione retorica, sorretta da una fitta rete di riferimenti culturali e di citazioni letterarie, che spesso danno origine ad un’espressione artificiosa e sovraccarica. Si capisce come l’intento dello scrittore fosse quello di offrire un’immagine nobile di sé, delle proprie doti intellettuali e della propria cultura, in un momento per lui così difficile come la reclusione in Sant’Anna. Accanto al gusto dell’esplorazione di rare e preziose materie e della sottile disquisizione retoricamente elaborata compaiono però spunti più vivi: colorite soste descrittive, l’abbandono a ricordi autobiografici e a confidenze personali (il poeta stesso è spesso presente nei dialoghi come interlocutore, sotto il nome di Forestiero Napoletano). I più famosi tra i dialoghi sono Il messaggero e Il padre di famiglia. Il primo svolge lo spunto platonico degli spiriti che popolano il mondo, facendo da intermediari tra la divinità e l’uomo, e lo scrittore vi riferisce il colloquio con uno spirito apparsogli nella prima luce mattutina nel carcere di Sant’Anna. Il dialogo, sospeso tra il sogno, la visione e la realtà, è affascinante per la trama aerea e fantasiosa di immagini che lo percorrono, ma è anche turbato da toni più cupi e sofferti. Nel secondo dialogo l’autore si descrive come un viandante che, durante un viaggio nella campagna vercellese, in una notte di tempesta trova rifugio in una dimora di campagna. Suggestiva è l’apertura, con la descrizione dell’incombere della notte tempestosa nella campagna deserta, a cui poi si contrappone l’interno accogliente della casa patrizia. Si proietta qui un motivo caro a Tasso, l’angoscia di una vita errabonda e precaria, che anela a trovare un rifugio sicuro e protettivo, di pace e di serenità (motivo poeticamente trattato nella Canzone al Metauro, T2, p. 561). Nel corso del dialogo, poi, il capofamiglia parla dell’amministrazione della casa, delineando un’immagine della famiglia come sede dell’equilibrio e della saggezza, in cui è possibile vivere serenamente, lontano dalla vita affannosa delle corti.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

L e t t e r a t u r a e Società

T10

La condizione della donna nella società cinquecentesca da Il padre di famiglia

Testo e realtà Il testo dimostra quanto fosse radicata nell’opinione comune l’idea di una donna inferiore alla figura maschile e rispettabile sul piano sociale soltanto nel ruolo, già suggerito dalla natura, di moglie e madre.

Nell’avvio narrativo del dialogo lo scrittore, ospitato in un’agiata tenuta di campagna all’imbrunire di un giorno tempestoso, ascolta dal suo ospite una serie di discorsi sul modo di governare la famiglia, che riprendono gli insegnamenti impartiti a lui stesso dal padre. Riportiamo le pagine dedicate alla scelta della moglie.

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Or passando a l’età1, dico, che il marito dee procurar d’averla anzi giovinetta che attempata, non solo perché in quell’età giovenile la donna è più atta a generare, ma anco perché, secondo il testimonio d’Esiodo2, può meglio ricevere e ritener tutte le forme de’ costumi ch’al marito piacerà d’imprimerle. E percioché la vita de la donna è circonscritta ordinariamente entro più breve spazio che non è la vita de l’uomo3, e più tosto invecchia la donna che l’uomo, come quella in cui il calor naturale non è proporzionato a la soverchia umidità4; dovrebbe sempre l’uomo ecceder la donna di tant’anni, che ’l principio de la vecchiaia de l’uno con quel de l’altro venisse insieme ad accozzarsi5, e che non prima l’uno che l’altro divenisse inabile a la generazione. Or s’avverrà che ’l marito con le condizioni già dette tolga la moglie, molto più agevolmente potrà in lei esercitar quella superiorità che da la natura a l’uomo è stata concessa6; senza la quale a le volte aviene che egli così ritrosa e inobediente7 la ritrovi, che ove credeva d’aver tolta8 compagna che l’aiutasse a far più leggiero quel che di grave porta seco la nostra umanità, si trova d’essersi avvenuto9 ad una perpetua nimica, la qual non altramente sempre a lui ripugna, di quel che faccia ne gli animi nostri la cupidità smoderata a la ragione10; percioché tale è la donna in rispetto de l’uomo, qual è la cupidità in rispetto de l’intelletto. E sì come la cupidità, che è per sé irragionevole, prestando ubidienza a l’intelletto, s’informa11 di molte belle e leggiadre virtù; così la donna, che a l’uomo ubbidisca, di quelle virtù s’adorna de le quali, s’ella ribella12 si dimostrasse, non sarebbe adornata. Virtù, dunque, de la donna è il saper ubbidir a l’uomo, non in quel modo che ’l servo al signore, e ’l corpo a l’animo ubbidisce; ma civilmente in quel modo, che ne le città ben ordinate i cittadini ubbidiscono a le leggi ed a’ magistrati, o ne l’anima nostra, ne la quale, così ordinate le potenze come ne le città gli ordini de’ cittadini, la parte affettuosa suole a la ragionevole ubbidire13. Ed in ciò convenevolmente da la natura è stato

1. l’età: della donna da sposare. 2. testimonio d’Esiodo: testimonianza di Esiodo (poeta greco dell’VIII-VII secolo a.C.). 3. percioché … uomo: poiché la vita della donna è più breve di quella dell’uomo. 4. come … umidità: fa riferimento alle teorie mediche del tempo, secondo cui nel corpo femminile c’è più umidità che in quello maschile. 5. dovrebbe … accozzarsi: il marito do­ vrebbe essere più vecchio della moglie di tanti anni, che l’inizio della vecchiaia dell’uno coin­ cida con quello dell’altra (ha detto sopra che

la donna invecchia prima). 6. s’avverrà … concessa: se avverrà che il marito prenda moglie alle condizioni dette, potrà più facilmente esercitare su di lei quella superiorità che è stata concessa dalla natura all’uomo. 7. inobediente: disobbediente. 8. tolta: presa. 9. essersi avvenuto: aver incontrato. 10. la qual … ragione: la moglie nemica è sempre in conflitto (ripugna) con il marito, non diversamente da come nei nostri animi il desiderio smoderato entra in conflitto con la

ragione. Si noti il parallelismo donna-cupidità, uomo-ragione, come Tasso ribadisce subito dopo. 11. s’informa: assume la forma. 12. ribella: ribelle. 13. ne la quale … ubbidire: nella quale, es­ sendo le facoltà ordinate come nella città le classi dei cittadini, la parte dei sentimenti è solita obbedire a quella della ragione. Cioè come tra le classi sociali vi è una gerarchia, così fra le facoltà dell’animo, fra sentimenti e ragione.

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L’età della Controriforma

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adoperato, percioché dovendo ne la compagnia che è fra l’uomo e la donna esser diversi gli uffici e le operazioni de l’uno da quelli de l’altro, diverse conveniva che fosser le virtù14. Virtù propria de l’uomo è la prudenza e la fortezza, e la liberalità15; de la donna la modestia16 e la pudicizia17, con le quali l’una e l’altro molto ben può far quelle operazioni che sono convenienti. Ma benché la pudicizia non sia virtù propria de l’uomo, dee il buon marito offender men che può le leggi maritali18, né essere sì incontinente, che lontano da la moglie non possa astenersi da’ piaceri de la carne; percioché, se non violerà egli le leggi maritali, molto confermarà la castità de la donna, la qual per natura libidinosa ed inclinata19 a’ piaceri di Venere non men de l’uomo, solo da vergogna e da amore e da timore suol essere ritenuta a non romper fede al marito; fra’ quali tre affetti, anzi di lode che di biasmo è degno il timore, ove gli altri dui son lodevolissimi molto20.

14. in ciò … virtù: in questo la natura ha operato in modo opportuno, perché nell’unio­ ne fra l’uomo e la donna dovendo essere diver­ si i compiti (uffici) e le attività (operazioni) dell’uno da quelli dell’altro, conveniva che fos­ sero diverse anche le virtù. 15. prudenza … fortezza … liberalità: la prudenza è saggezza, accortezza; fortezza è

coraggio, fermezza, forza d’animo, capacità di affrontare le avversità; liberalità è generosità, magnanimità. 16. modestia: moderazione, ritegno, pudore nel comportamento. 17. pudicizia: castità. 18. offender … maritali: violare le leggi che regolano il comportamento del buon marito,

pesare le parole Fortezza (riga 28)

Modestia

cioè commettere adulterio. 19. libidinosa … inclinata: sottinteso es­ sendo. 20. fra’ quali … molto: fra i quali tre senti­ menti (vergogna, amore, timore) il timore [del marito] è degno più di lode che di biasimo, mentre gli altri due sono molto lodevoli.

(riga 29)

> Dal latino fortem, “forte”. È la qualità di chi è forte, robu- > Dal latino modestiam, da modus, “misura”. Il senso corsto, resistente, nel fisico o nell’animo. Dalla stessa radice oggi è più in uso il termine forza. Nella teologia cattolica è una della quattro virtù cardinali (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza), nel senso di fermezza nei propri buoni propositi, nel resistere alle tentazioni. Può anche indicare un luogo fortificato (es. il confine era difeso da una fortezza imprendibile).

rente attuale è “virtù che fa rifuggire dal vanto e dall’ostentazione dei propri meriti”, cioè la virtù di chi non è vanitoso, non si mette in mostra, non presume troppo di sé (es. data la sua modestia, non ostenta mai le sue doti eccezionali e i suoi grandi meriti di scienziato). Sinonimo può essere umiltà. Usato in senso negativo il termine può anche indicare l’essere scarso (es. la modestia dei suoi mezzi gli impedisce di far studiare i suoi figli), o significare “essere mediocre, limitato” (es. la modestia della sua intelligenza non gli consente grandi risultati). Qui invece Tasso usa il termine più nel senso latino di “moderazione spontanea, senso della misura, ritegno, riservatezza, pudore nel modo di comportarsi, parlare, vestire”.

Analisi del testo

> Una visione tipicamente patriarcale

La donna inferiore e soggetta all’uomo

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Queste pagine sono interessanti perché documentano quale fosse la concezione della donna nell’età del Tasso, concezione di cui lo scrittore è fedele interprete. Quelle da lui espresse sono idee tipiche di una società patriarcale, in cui il maschio ha una posizione predominante. La donna è ritenuta un essere inferiore e deve essere completamente soggetta all’uomo: è considerata come una materia malleabile, su cui il marito può imporre la forma che vuole, plasmandone il carattere e i comportamenti a suo piacere. Quindi la donna dovrà adeguarsi alla volontà del marito, non dovrà essere «ritrosa e inobediente» nei suoi confronti. La superiorità dell’uomo sulla donna è ritenuta un dato di natura, non il frutto di costumi storicamente determinati.

Capitolo 3 · Torquato Tasso La donna priva del freno razionale

Le diverse virtù dell’uomo e della donna

La morale sessuale della donna e dell’uomo

Mentre poi l’uomo è considerato depositario delle qualità spirituali superiori, cioè dell’«intelletto», la donna è vista come pura «cupidità», cioè soggetta agli impulsi passionali e fisici, incapace di controllare con la ragione. Solo se si sottomette al volere dell’uomo tali impulsi pericolosi possono essere regolati, e solo allora la donna può adornarsi delle virtù femminili. L’obbligo della sottomissione è attenuato dallo scrittore col precisare che l’obbedienza non deve essere quella dello schiavo al padrone, ma quella del cittadino alle leggi in una città bene ordinata. Si esclude quindi, in una prospettiva moderata, l’arbitrio tirannico del marito sulla moglie e si introduce l’idea di una serie di sagge regole che devono governare la famiglia. Per Tasso, essendo diversi i doveri e i compiti fra uomini e donne, la natura oculatamente ha fornito ad essi virtù diverse: per il marito, che ha compiti di guida, la prudenza, la forza, la generosità, per la donna la modestia e la pudicizia. La sua funzione è essenzialmente quella di generare, e per questo la pudicizia è necessaria, per motivi che è facile intuire, cioè al fine di evitare la nascita di figli illegittimi che usurpino i beni di chi non è il loro padre e provochino il disonore della famiglia. Non essendo la pudicizia virtù maschile, ne potrebbe derivare per l’uomo una diversa morale, nel senso che il marito potrebbe essere più libero nella sua attività sessuale, anche fuori del matrimonio. Ma in obbedienza al moralismo controriformistico Tasso nega al maschio tale libertà: egli deve indulgere «men che può» a rapporti extraconiugali, deve cercare di contenersi (anche se, sembra di leggere fra le righe, si dà per scontato che qualche scappatella è difficile da evitare). In tal modo la castità maschile rafforzerà con l’esempio la castità della donna, la quale per natura è inclinata ai piaceri sessuali non meno dell’uomo.

> i mutamenti attuali nel costume La modernità e le lotte delle donne

pASSATo e preSenTe

Le idee qui enunciate, più o meno nella stessa forma, in Italia perdureranno a lungo nei secoli successivi, sino al pieno Novecento, specie nelle zone più arretrate. Solo l’affermarsi della modernità, con la nuova posizione delle donne nel mondo produttivo e le stesse lotte da esse condotte sin dalla fine dell’Ottocento, hanno introdotto profondi mutamenti nella mentalità e nel costume, che hanno trovato rispondenza in una nuova legislazione sul diritto di famiglia. Lo studente potrà però chiedersi se certe posizioni qui espresse da Tasso siano del tutto scomparse, o siano ancora in qualche misura rinvenibili oggi.

Lorenzo Lotto, Ritratto di Giovanni della Volta con la moglie e i figli, terminato nel 1547, olio su tela, Londra, The National Gallery.

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L’età della Controriforma

Esercitare le competenze CoMprendere

> 1. Quali ragioni, in base al testo, dovrebbero indurre un uomo a scegliere una moglie «anzi giovinetta che attempata»? > 2. Quale ruolo assume la natura nelle argomentazioni proposte? > 3. Individua il passo in cui l’autore sembra prevedere la possibilità, da parte di un uomo, di non scegliere la moglie ideale. AnALizzAre

> 4. Lessico Fra le virtù dell’uomo l’autore indica, oltre alla fortezza, la prudenza e la liberalità, fra quelle della donna, oltre alla modestia, la pudicizia: avvalendoti del dizionario, spiega l’esatto significato dei vocaboli attraverso la loro etimologia, e valuta se le definizioni di per sé evidenziano una differenza di genere. > 5. Lessico Rintraccia nel testo l’occorrenza del vocabolo leggi, spiegando, di volta in volta, a quale ambito si riferisce. Approfondire e inTerpreTAre

> 6. Scrivere Considerando il contesto socio-culturale dell’età delle corti, ritieni davvero che la donna fosse sempre total-

mente asservita all’autorità del marito – o dell’uomo in genere – e lontana dalla vita pubblica? Rispondi in circa 5 righe (250 caratteri) facendo riferimento agli studi da te effettuati. pASSATo e preSenTe emancipazione e pari opportunità

> 7. Dopo aver discusso in classe con l’insegnante e i compagni alcuni punti (ricavati dall’Analisi del testo) riferiti a una possibile attualizzazione delle questioni poste dal brano di Tasso, schematizza per ogni punto le posizioni più interessanti emerse dal confronto, e prova a redigere una relazione complessiva del dibattito (ca. 100 righe o 5000 caratteri). Nella famiglia e nella società di oggi: a) la donna è realmente inferiore e soggetta all’uomo soprattutto perché priva del freno razionale? b) esistono davvero virtù tipiche dell’uomo e virtù tipiche della donna? c) la morale sessuale della donna è effettivamente differente da quella dell’uomo? d) su quale fronte devono attestarsi, per il presente e il futuro, le lotte per l’emancipazione delle donne?

8 Monte Oliveto

Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Le sette giornate del mondo creato

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Le ultime opere Le ultime opere di Tasso sono per lo più ispirate alla devozione religiosa o a motivi encomiastici occasionali (anche molte delle rime religiose ed encomiastiche appartengono d’altronde a questo periodo). Il Monte Oliveto, poemetto in ottave scritto nel 1588 come tributo al monastero napoletano in cui il poeta era ospitato, e rimasto incompiuto, vuole svolgere il tema ascetico della fuga dal mondo e della solitudine claustrale, ma in realtà la solitudine appare come il rifugio a cui il poeta stanco anela per trovare riposo; ed è un rifugio edonisticamente accarezzato, con un abbandono dei sensi alla bella natura, sicché, come osserva acutamente Getto, «il suo idillico chiostro sembra piuttosto un giardino di Armida riconsacrato e benedetto». Altri due poemetti in ottave, Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo, pubblicati nel 1593, rientrano in un genere tipico della Controriforma, legato alla pratica devota dell’identificazione di colui che prega con le sofferenze dei personaggi della storia sacra. Un’opera religiosa più complessa, rispondente ad un più approfondito impegno letterario e teologico, è Le sette giornate del mondo creato, poema in endecasillabi sciolti scritto tra il 1592 e il 1594, in cui, prendendo spunto dal libro biblico della Genesi, viene descritta la creazione del mondo. Il poema ambisce ad essere una sorta di sterminata enciclopedia che raccolga tutti i multiformi aspetti dell’universo, pervasi dalla presenza creatrice di Dio. In realtà, più che un’autentica ispirazione religiosa, spicca lo spettacolo fisico delle cose create, contemplato nelle varietà infinite dei colori e delle forme eternamente mutevoli. La «profusione di cose godute nelle loro innumerevoli qualità e nella loro estesa quantità», osserva Getto, sembra preannunciare l’imminente civiltà barocca. L’unico spunto autenticamente religioso è il senso della morte, del nulla che minaccia tutte le apparenze fastose ma effimere del mondo.

CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

Tasso LONTANANZA E VICINANZA DI TASSO La Gerusalemme liberata, per le sue tematiche epico-guerresche, la sua celebrazione del potere regale assoluto e della Chiesa controriformistica, ma soprattutto per la sua forma poetica aulica, costellata di citazioni dai classici, può apparire lontana dalla sensibilità attuale, specie delle giovani generazioni. In realtà è necessario superare queste barriere, saper leggere in profondità il poema e cercare di scoprire quanto esso può ancora parlarci direttamente e suscitare il nostro interesse autentico.

DUE ETÀ DI CRISI Quella di Tasso, come era già stata quella di Petrarca tra Medioevo e Umanesimo, è un’epoca di crisi e di transizione, collocata tra la pienezza del Rinascimento e un periodo più torbido e inquieto, quale sarà l’età del Barocco. Noi siamo figli di un’analoga età di transizione, che vede esaurirsi la grande stagione della modernità e aprirsi un altro periodo, dalla fisionomia ancora incerta e nebulosa, in cui il vecchio e il nuovo

si urtano in conflitti insanabili: perciò le oscillazioni tra poli opposti che lacerano la coscienza del poeta appaiono vicine alle nostre. Anche noi come Tasso sentiamo la nostalgia di una pienezza perduta, e dobbiamo misurarci con contraddizioni di cui è problematico intravedere la soluzione.

UN’IDEA DI UOMO Un sintomo evidente della crisi di fine Cinquecento è la crisi dell’eroico, cioè della concezione umanistica dell’uomo, visto come sicuro dominatore di sé e del proprio mondo. La malattia psicologica di Tancredi Lo si è potuto verificare nel personaggio di Tancredi, che non riesce mai a dimostrarsi all’altezza dei suoi compiti di guerriero crociato e appare sempre perplesso, irresoluto, velleitario, paralizzato nell’azione, sconfitto per una sorta di malattia psicologica che mina la sua volontà e le sue forze, originata dalla passione irrealizzabile che lo consuma e poi dal senso distruttivo di colpa per aver ucciso l’amata Clorinda.

Louise Poole in Rinaldo di Georg Friedrich Haendel, in scena al Glyndebourne Festival Opera nel 2011, regia di Robert Carsen.

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L’età della Controriforma

La nostra idea di uomo Anche nella nostra età, a partire già dal primo Novecento, si è dissolta una nozione tradizionale di uomo forte, sicuro, dominatore, l’idea cioè di “individuo” creata dalla società borghese nel momento eroico della sua ascesa, che proponeva il mito di chi è capace, con la sua intelligenza e la sua energia attiva, di crearsi il proprio mondo e di signoreggiarlo con salda volontà: domina nel nostro tempo, ed è verificabile in infiniti documenti, dalla letteratura al cinema ai mass­media anche più popolari, un’idea del tutto diversa di uomo, debole, insicuro, tormentato, immaturo, incapace di affrontare la vita e di contrastare le difficoltà esterne e soprattutto interiori, di proporsi obiettivi e di raggiungerli. Per questo possiamo sentire il personaggio di Tancredi molto attuale, molto vicino all’idea di uomo che è ancora nostra.

L’AMore Un eros turbato Parimenti interessante per noi è la particolare visione dell’eros che è propria di Tasso, una visione non più serenamente edonistica come quella rinascimentale ma che presenta qualcosa di inquieto, turbato, vicino alla nostra complessa sensibilità moderna. In primo luogo gli amori nel poema sono di regola infelici e tormentati: Erminia ama segretamente Tancredi, Tancredi a sua volta ama Clorinda, la guerriera pagana sua nemica e oggetto irraggiungibile del suo desiderio, Armida finisce per innamorarsi di Rinaldo, che però teso al suo fine eroico la respinge. Gli amori impossibili È una fenomenologia dell’amore impossibile e non ricambiato che può trovare corrispondenze nell’esperienza di ciascuno di noi, e che può suscitare interesse soprattutto nei lettori adolescenti. Una sottile morbosità Al sentimento amoroso talora si mescola poi qualcosa di crudele, magari involontariamente, come nel caso di Tancredi che senza saperlo infligge tante ferite al corpo amato di Clorinda e ne causa la morte. La morte della donna è vagheggiata con un gusto della bellezza martoriata e languente, che possiede qualcosa di ambiguo e sottilmente morboso, denso di echi nella letteratura, nell’arte, nel teatro, nel cinema di oggi.

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Le profondiTà deLLA pSiChe Su questa linea ricco di suggestioni per noi è l’episodio della selva incantata, che in realtà è una discesa del personaggio nelle profondità della propria psiche, a scoprire i mostri che la popolano. Le apparizioni spaventose che lo ostacolano nell’impresa non sono che la proiezione di ciò che è dentro di lui e che tormenta il fondo della sua anima. Tasso, proprio perché poeta inquieto di un’età di crisi, ha intuizioni di straordinaria attualità sulle profondità della psiche, ricche di anticipazioni del futuro. Il ritorno del rimosso L’albero sanguinante, che geme e rimprovera Tancredi per lo strazio dei suoi colpi, è la proiezione esterna e la materializzazione del suo rimorso e del suo senso di colpa, è quello che Freud chiamerebbe «ritorno del rimosso», il riaffiorare alla coscienza in forma simbolica dei contenuti rifiutati che essa aveva respinto nell’inconscio.

«S’ei piACe, ei LiCe» Questa coscienza così tormentata del poeta è complicata ancora dalla disperata nostalgia di un ritorno alla serenità e alla pienezza rinascimentali. Oltre che nell’episodio del giardino di Armida, essa si manifesta esemplarmente nella favola pastorale dell’Amin­ ta, nel coro dell’atto I, col rimpianto dell’età dell’oro e il precetto «s’ei piace, ei lice», è lecito tutto ciò che piace. Questo sogno di un abbandono al desiderio privo del peso di divieti, sgombro da ogni senso di colpa, desta molti echi nella nostra coscienza. La ribellione giovanile del Sessantotto originariamente si era rivolta proprio contro l’autoritarismo di una società repressiva, che, secondo la prospettiva dei “contestatori”, negava il soddisfacimento dei desideri e delle pulsioni in nome di princìpi arcaici e ormai svuotati, solo al fine di assoggettare gli individui a un ferreo controllo, che garantisse sottomissione e conformismo. Uno degli slogan allora più significativi era «vietato vietare». Quei conflitti hanno poi effettivamente cambiato il costume: oggi tante cose che qualche decennio fa erano ritenute assolutamente proibite sono accettate comunemente. I giovani oggi,

Capitolo 3 · Torquato Tasso

per gran parte, sanno poco o nulla di quella stagione, ma proprio nel loro vissuto quotidiano, nei loro rapporti con i coetanei, con la famiglia, con la scuola, ne vivono gli effetti. Leggere quell’inno tassiano alla libertà del godimento dovrebbe suscitare interesse e curiosità.

VerSo LA nATUrA Il sogno idillico Tasso è anche il poeta che esprime un’insofferenza profonda per le convenzioni artificiose della vita associata (per lui rappresentata dalla corte), che mortificano la spontaneità del vivere, e nell’episodio di Ermina fra i pastori si rifugia nel sogno idillico di un ritorno a una vita semplice e autentica a contatto con la natura. È un sogno puramente letterario, che si arresta alle pagine del poema. Quella di fuggire dalle costrizioni della civiltà verso la libertà garantita dalla natura è stata poi un’aspirazione riflessa costantemente dalla lettera-

tura nei secoli successivi. Negli anni Sessanta gruppi di giovani, gli hippies, hanno tradotto in atto quel sogno, rifiutando la civiltà industriale con quanto essa comporta, la vita cittadina, i suoi meccanismi, il consumismo, e si sono riuniti a vivere in comunità fuori di essa, regredendo verso forme di una civiltà agricola pre-moderna. Il ritorno alla terra Oggi sono in atto in Italia tendenze a lasciare le città, ma in forme diverse: molti giovani, magari con titoli di studio elevati, tornano alla terra, per dedicarsi all’agricoltura o alla pastorizia, ripopolando campagne o valli alpine che erano state spopolate dal fenomeno dell’urbanizzazione, indotto dallo sviluppo industriale. È una tendenza che non obbedisce solo a spinte psicologiche, a un bisogno di evasione e a una ricerca di autenticità, o a motivazioni ideologiche, in nome di princìpi ecologici, ma in certi casi risponde anche a esigenze molto concrete e materiali: dinanzi alla difficoltà per i giovani di inserirsi nel mondo del lavoro, la riscoperta di attività agricole può essere un modo per trovare mezzi di sostentamento; quindi non si tratta di comunità autosufficienti, come nel caso degli hippies, che producevano solo per il loro consumo, ma vere e proprie imprese che hanno per finalità il profitto. Riflessi nei romanzi di oggi È un fenomeno che si è riflesso nella letteratura, sin dal fortunato best­seller di Andrea De Carlo, Due di due (1989), dove un giovane, dopo le esperienze tumultuose della contestazione sessantottesca, si ritira in una fattoria sulle colline umbre per dedicarsi all’agricoltura biologica; un tema ripreso dallo scrittore anche nel romanzo Durante, del 2008. Più recentemente, la tematica si ritrova in romanzi come Non so niente di te di Paola Mastrocola (2013), in cui un ricercatore scientifico lascia il mondo accademico e una brillante carriera per divenire pastore, o come Marina Bellezza di Silvia Avallone (2013), dove un giovane laureato abbandona la vita solita e il lavoro precario in una biblioteca comunale per trasformarsi in produttore di latte e di formaggi in un casolare isolato sui monti, seguendo l’esempio del nonno margaro.

Ennio Morlotti, Paesaggio con figure, 1956, olio su tela, Collezione privata.

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3 - L’età comunale in italia

diALoGhi iMMAGinAri

Tasso e Ariosto Moderatore Come potete caratterizzare i vostri due poemi, l’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata, che vi hanno subito resi famosi?

Ariosto Per il Furioso mi sono ispirato alla lunga tradizione dei racconti cavallereschi, che hanno le loro radici nei cicli romanzi delle leggende carolinge e arturiane. Avevo in mente l’Orlando innamorato del mio illustre predecessore Boiardo e in certo qual modo ho voluto portare avanti il suo discorso, trasformando l’amore in follia. Ho scelto una materia avventurosa, e per questo il mio poema potrebbe anche essere definito, quanto al genere letterario di appartenenza, un “romanzo”.

Tasso A me non interessava una materia

avventurosa fine a se stessa, e ho piuttosto cercato nella storia la fonte della mia ispirazione. Ma ci voleva la storia dei grandi avvenimenti, la storia che mette in moto interi popoli e ne esalta i sentimenti religiosi. Ho scelto quindi, come argomento, la prima Crociata, dove i cristiani, guidati da Goffredo di Buglione, muovono alla conquista del Santo Sepolcro: una materia lontana, ma resa attuale dalla vittoria di Lepanto; un argomento solenne, il solo che si conviene a un poema epico (non cavalleresco, si badi) come il mio. Non so se ve ne siete accorti, ma l’incipit «Canto l’armi pietose e ’l capitano» ricalca fedelmente quello dell’Eneide virgiliana, «Arma virumque cano». È nel solco di quella tradizione illustre che ho voluto collocarmi.

Moderatore Qualcuno, non addetto ai lavori, potrebbe dire che i vostri poemi si assomigliano. In realtà ci sono molte e profonde differenze, già evidenti nei due proemi.

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Ariosto Diversamente da Tasso, che raccoglie la vicenda attorno ad un unico condottiero, io ho insistito sulla varietà delle storie narrate, nel gioco molteplice delle esperienze umane. Se la guerra è al centro del poema epico, io ho privilegiato l’elemento romanzesco per eccellenza, l’amore; o meglio le «donne» e gli «amori», come dico nell’incipit (anche se poi, da ultimo, mi riavvicino a una forma epica). L’amore, da cui nasce anche l’elemento avventuroso (i miei cavalieri si battono spesso per conquistare la donna amata!), mi è servito per esaltare la libertà dei comportamenti umani, che non devono essere repressi o sottoposti a condizionamenti.

Tasso Io credo invece che le azioni dell’uomo

debbano sottostare a rigorosi princìpi morali e religiosi. Anche la letteratura deve rispettare queste regole, oltre a quelle che riguardano il genere letterario prescelto; le due cose, anzi, finiscono per coincidere. Il poema epico deve difendere la fede e anteporla a ogni altro interesse. I suoi valori rappresentano quelli di un’intera collettività e non possono essere messi in discussione. Il poeta deve farsi portavoce di valori assoluti; per questo il racconto inizia con un “prologo in cielo”, a conferma del fatto che la voce del poeta interpreta la volontà di Dio, che non può essere messa in discussione. Non a caso ho chiesto ispirazione non a Musa pagana ma alla Musa cristiana.

Moderatore Più che di differenze, mi pare che si tratti di distinzioni molto forti e nette, che fanno capo a opposti modelli letterari: da un lato l’esaltazione della varietà e della molteplicità, dall’altro la scelta dell’uniformità e dell’unitarietà.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

Ariosto Per me la bellezza del mondo è nella varietà delle sue manifestazioni, nel loro proporsi come poliedriche e multiformi, nell’aprirsi di infinite combinazioni, nell’inesauribile fluire dei tanti cambiamenti e dei possibili incontri. Le regole ci vogliono, ma non possono soffocare la libera espressione delle capacità umane. Dobbiamo accettare anche le diversità, che arricchiscono le nostre conoscenze.

Tasso Non sono d’accordo. La legge divina è

una sola e a questa dobbiamo cercare di ricondurre i comportamenti degli individui e dei popoli. È pericoloso lasciare libero sfogo alle passioni, che rischiano di trasformare la libertà in anarchia. Per questo ho scritto che Goffredo «sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti», riportando l’ordine e l’unità là dove regnavano la confusione e la dispersione. «Erranti» si richiama a «errore» (in questo senso la parola è già nel sonetto proemiale delle Rime di Petrarca), indicando sia il peccato che l’andare vagando qua e là senza scopo e senza meta.

Moderatore Sono, le vostre, posizioni molto lontane fra di loro. In che misura hanno condizionato la struttura delle opere?

Ariosto Io ho costruito l’Orlando furioso attraverso una libera e straordinariamente varia combinazione di eventi, di situazioni, di casi spesso fortuiti, che proliferano intrecciandosi fra di loro in un continuo mutare e avvicendarsi degli episodi e delle scene. Non per questo ho rinunciato al controllo dell’intelligenza su una materia così complessa e, oserei dire, labirintica; così mi sono servito dell’ironia, come segno di una consapevolezza critica che può anche fornire degli spunti per più serie riflessioni sulla natura degli uomini.

Tasso Proprio perché nel mio poema c’è un

obiettivo dominante, ho cercato di imprimere a tutta la vicenda un andamento il più possibile unitario; certo, non mancano le tentazioni capaci di distogliere i cristiani dal compito stabilito (pensate soprattutto al traviamento di Rinaldo), ma questi pericoli io li ho subordinati al dovere da compiere, che alla fine deve comunque trionfare. Non dell’ironia, quindi, mi sono servito, che mi pare uno strumento di dubbia efficacia, se non pericoloso; io ho sempre voluto affermare una assoluta serietà di intenti, nel nome di un indiscutibile dovere religioso e morale.

Moderatore Quali sono allora i rapporti fra la letteratura e la realtà rappresentata?

Ariosto Per quanto mi riguarda, mi sono interamente abbandonato all’estro dell’immaginazione (senza dimenticare, naturalmente, la cura formale!), lasciandola vagare in tutti gli spazi praticabili, compresi quelli del fantastico puro. Ricorderete tutti il viaggio di Astolfo, prima sull’Ippogrifo poi sul carro del profeta Elia, condotto da san Giovanni sulla luna (ma, dietro l’abbandono fantastico, non manca un atteggiamento critico nei confronti della realtà).

Tasso No, in un’opera seria i personaggi non

possono infrangere le leggi che Dio ha dato alla natura. Ma mi rendevo anche conto che un poema, se vuole interessare oltre che ammaestrare (come ho detto nel proemio), non può fare a meno del meraviglioso. Il solo modo per introdurlo era quello di cercarlo nella fede cristiana: il trionfo della volontà di Dio e delle forze celesti, contro cui si possono scatenare le forze infernali.

Moderatore Tra le forze operanti nella realtà c’è anche quella dell’amore. Ce l’hanno insegnato tutti gli scrittori, anche se ognuno – pensate solo a Petrarca e Boccaccio – ha avuto un’idea diversa.

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L’età della Controriforma

Ariosto L’amore è stato per me il motore della narrazione, a partire dalla fuga di Angelica e da tutti coloro che, affascinati dalla sua bellezza sensuale, si sono mossi a inseguirla, fino alla pazzia di Orlando. Così come l’ho concepito (e qui mi sento vicino soprattutto a Boccaccio), l’amore è una forza della natura e rappresenta una libera espressione di energie vitali, da vivere gioiosamente, senza freni o inibizioni.

Tasso Io ho condannato l’amore sensuale,

quello che – basato esclusivamente sul piacere e sulla bellezza fisica – allontana l’uomo dai suoi doveri e può portarlo alla perdizione, se non si pente o qualcuno non giunge in tempo a salvarlo; è quanto ho voluto esemplificare, come ho già detto, nella vicenda di Rinaldo e Armida. L’amore più vero e puro è quello che, non consumato su questa terra, si esalta nel volere di Dio, come si vede nella morte di Clorinda, uccisa in duello dall’innamorato Tancredi. Non nego di aver subìto anch’io il fascino della sensualità e della bellezza femminile, così come l’ho fatto subire a Rinaldo; e forse qualcuno dirà che questa era la mia esigenza più profonda, come potrà dire che io, nel mio intimo, ero affascinato da tutta quella varietà e libertà di comportamenti che poi mi sentivo in dovere di condannare.

Moderatore Mi pare di capire, tra le righe di quello che avete detto, che si ponga in maniera decisiva il problema del rapporto fra lo scrittore e il potere, politico e religioso.

650

Ariosto Io ho vissuto nella corte e ho conosciuto bene i condizionamenti che può subire l’intellettuale nei palazzi del potere. Per quanto mi riguarda, pur essendomi messo al servizio del signore, ho cercato almeno di conservare la mia dignità e la mia indipendenza di uomo di cultura, scendendo il meno possibile a compromessi. Ve ne renderete conto se leggete la Satira I, in cui mi rifiuto di seguire il cardinale Ippolito d’Este in Ungheria, o meglio ancora la III, in cui ho inteso rivendicare la mia autonomia.

Tasso Io ho vissuto invece in maniera

traumatica i rapporti con la corte, dove ho sempre visto dei nemici, pronti a congiurare contro di me. Così è diventata una vera e propria ossessione il bisogno di rispettare le regole e le direttive imposte dall’ortodossia religiosa, in anni in cui la Chiesa, per combattere la Riforma luterana, si era arroccata sulle sue posizioni, diventando sempre più rigida e sospettosa. Nonostante gli sforzi che ho fatto per adeguarmi (penso che l’abbiate capito da quanto ho detto sinora) mi sono sempre sentito in colpa, tanto che ho deciso di riscrivere, in obbedienza a princìpi più rigorosi, il mio poema. Non posso dire di esserne rimasto soddisfatto, perché non sono mai riuscito a risolvere il conflitto fra il dovere che mi si imponeva e la libertà a cui aspiravo. È una ambivalenza che mi ha profondamente segnato e fatto soffrire, fino a farmi ammalare e sentirmi quasi pazzo. Io invece cercavo solo sicurezza e protezione, come in un grembo materno capace di accogliermi. Ma sono terribilmente confuso e non riesco a capire; speriamo, per chi soffre come me, che un giorno possa venire qualcuno in grado di spiegarci tutte queste miserie e contraddizioni, aiutandoci a guarire dai nostri dolori e dai nostri mali.

Capitolo 3 · Torquato Tasso

facciamo il punto L’eSperienzA di ViTA

1. Rifletti sui seguenti dati della biografia di Tasso: le varie peregrinazioni per l’Italia, l’esperienza della

corte e dell’accademia, il suo rapporto con la Chiesa della Controriforma, la pazzia. Valuta come ciascuno di essi abbia influito sulla sua produzione e contribuito a creare il “mito biografico” di Tasso. LA forMAzione

2. Quali esperienze letterarie e filosofiche concorrono alla formazione culturale di Tasso? 3. Quale posizione assume Tasso all’interno del dibattito accademico sul poema eroico? iL ModeLLo d’inTeLLeTTUALe

4. Individua le caratteristiche di Tasso come intellettuale anche definendo come si rapportò rispetto alla

corte, all’Accademia, alla Chiesa. Le opere

5. Compila la seguente tabella. opere

Genere

forma (prosa o versi)

Temi trattati

Epistolario

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Rinaldo

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Rime

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Aminta

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Galealto

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Torrismondo

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Gerusalemme liberata

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Gerusalemme conquistata

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Dialoghi

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Monte Oliveto

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Le lacrime di Maria Vergine

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Le lacrime di Gesù Cristo

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Le sette giornate del mondo

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creato

6. In quale modo Tasso nelle sue opere risolse il problema del rapporto tra l’utile ed il dilettevole? Rifletti

anche sul valore attribuito dall’autore al «verisimile» ed al «meraviglioso». 7. I mondi alternativi proposti da Tasso (vedi, ad esempio, il coro dell’atto I dell’Aminta, T3, p. 567, e l’episodio di Rinaldo e Armida, T9, p. 626) sono un progetto di società ideale, quindi con un legame con il mondo della storia, o sono puro sogno, evasione? 8. Quale guerra viene rappresentata nella Gerusalemme liberata? Si rappresenta il conflitto tra cristiani e pagani solo dal punto di vista storico oppure esso assume un’altra connotazione? Fai un confronto con la rappresentazione della guerra data da Ariosto nel suo poema. 9. C’è spazio nella Gerusalemme liberata per la componente erotica? Quale rappresentazione dell’amore offre Tasso nei diversi episodi sentimentali del poema?

651

L’età della Controriforma

Ripasso visivo

TorQUATo TASSo (1544-95) Mappe interattive

Ripasso interattivo

eLeMenTi BioGrAfiCi

• Nato a Sorrento da una nobile famiglia bergamasca, studia filosofia e letteratura a Padova • Entra al servizio degli Este, lavorando dapprima per il cardinale Ippolito, poi al seguito del duca Alfonso I come gentiluomo stipendiato

• Assillato da scrupoli religiosi, accusa presto i primi segni di un profondo malessere psicologico • Il suo stato di salute mentale peggiora sino a condurlo alla reclusione all’ospedale di Sant’Anna • Negli ultimi anni soggiorna a Mantova, presso i Gonzaga, poi a Napoli e Roma, dove muore poeTiCA e penSiero

• Aderisce ai canoni classicisti: petrarchismo lirico,

unità aristoteliche e principio della divisione degli stili • La sua coscienza è lacerata da un profondo turbamento spirituale: attratto dai valori rinascimentali (individualismo, tolleranza, edonismo), fatica a

conciliarli con la dottrina cattolica

• Abbraccia i precetti controriformistici: la poesia epica deve avere un intento morale e pedagogico

• Sottopone la sua opera maggiore a una continua

revisione per adeguarla ai canoni letterari e religiosi

prinCipALi opere opere giovanili, poesia lirica e drammatica

• Rinaldo (poema

riflessione poetica

poesia epica

• Gerusalemme liberata

cavalleresco)

• Rime (amorose,

• Discorsi

dell’arte poetica • Discorsi del poema eroico

prosa autobiografica

Ultime opere

• Dialoghi • Lettere

• Gerusalemme

conquistata (revisione della Gerusalemme liberata)

encomiastiche e sacre) • Aminta (favola pastorale) • Re Torrismondo (tragedia)

GERUSALEMME LIBERATA

STrUTTUrA

• Poema epico-storico in

ottave, suddiviso in venti canti • Per Tasso il poema deve essere vario e perciò dilettevole, all’interno di una rigorosa unità, attingere al vero ma trattare il verosimile

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TeCniChe nArrATiVe

TeMi

• La guerra (sullo sfondo

della conquista del Santo Sepolcro da parte dei Crociati) • L’amore • Il mistero divino e il “meraviglioso cristiano”

• Il punto di vista della



narrazione è continuamente mobile (focalizzazione interna ai pagani e ai cristiani) I personaggi emergono nella loro fine caratterizzazione psicologica

LinGUA e STiLe

• Stile alto e sublime • Predilezione per le



complicanze metaforiche, la resa di atmosfere e sentimenti indefiniti, la musicalità del verso Il “bifrontismo spirituale” si riflette anche sullo stile: all’imitazione dei modelli classici e dei precetti petrarchisti si oppone la spinta verso il rinnovamento della tradizione

In sintesi

TorQUATo TASSo (1544-95) Verifica interattiva

Personalità inquieta, Torquato Tasso incarna le contraddizioni di un’epoca di passaggio dalla cultura del Rinascimento, edonistica e aperta al confronto, all’angusto moralismo della Controriforma. Egli rappresenta il tipico intellettuale cortigiano, che concepisce la propria realizzazione umana e artistica solo nell’ambito della corte, ma nello stesso tempo prova nei confronti di quell’ambiente una segreta avversione, che lo spinge a fughe continue. La sua figura rispecchia dunque emblematicamente la crisi nel rapporto tra artisti e committenza che si manifesta nella seconda metà del Cinquecento.

L’epiSToLArio La tormentata vicenda umana e poetica dello scrittore è documentata dal copioso epistolario, nel quale l’esperienza autobiografica è tuttavia sempre filtrata attraverso moduli letterari. Di particolare interesse sono le lettere risalenti al periodo della prigionia nell’ospedale di Sant’Anna, che testimoniano i malesseri e le ossessioni di una coscienza malata.

iL GIERUSALEMME e iL RInALDo Tra le prime prove poetiche di Tasso si annovera il Gierusalemme (1559), un poema epico sulla prima crociata rimasto interrotto. Segue di pochi anni il Rinaldo (1562), un poema cavalleresco d’argomento carolingio.

RIME Tasso si dedicò alla poesia lirica lungo l’intero arco della propria vita e pubblicò a più riprese raccolte parziali di Rime. La produzione d’argomento amoroso riflette il momento di transizione dal petrarchismo dominante al nuovo gusto barocco che si affermerà nel Seicento. Su una base linguistica ancora petrarchesca, infatti, si innesta il gusto per la complicazione metaforica, per le atmosfere e i sentimenti indefiniti, per la musicalità dell’espressione. Di tono più solenne e maestoso sono le Rime d’argomento encomiastico e religioso.

LA prodUzione drAMMATiCA Al 1573 risale la composizione della favola pastorale Aminta, che porta in scena la passione del pastore Aminta per la ninfa Silvia, inizialmente riottosa all’amore; la vicenda si conclude lietamente con il matrimonio dei due giovani. Scritta per il pubblico cortigiano ferrarese, l’opera si propone la celebrazione della corte, ma nello stesso tempo rivela una profonda insofferenza per i suoi rituali e le sue costrizioni. Nell’Aminta affiora infatti un edonismo tipicamente rinascimentale, unito però alla coscienza della sua impossibilità di esprimersi in un ambiente oppresso dal rigido senso dell’onore. Al periodo ferrarese risale anche la tragedia Galealto re di Norvegia, rimaneggiata successivamente e pubblicata nel 1587 con il titolo di Re Torrismondo.

LA GERUSALEMME LIBERATA Negli anni compresi tra il 1565 e il 1575 Tasso si dedica alla sua opera maggiore, la Gerusalemme liberata, sviluppando il progetto giovanile del Gierusalemme. La vicenda si svolge negli ultimi mesi della prima crociata in Terra Santa: i cristiani, guidati da Goffredo di Buglione, hanno posto l’assedio a Gerusalemme, ma sono indeboliti dall’assenza di molti combattenti, spinti da pulsioni egoistiche o irrazionali ad abbandonare il campo; il loro ritorno garantirà la vittoria sugli avversari pagani. La composizione della Gerusalemme liberata è accompagnata da un’attenta riflessione teorica, che confluisce nei Discorsi dell’arte poetica e in particolare del poema eroico (1567-70). Tasso concepisce l’idea di un poema eroico conforme ai canoni aristotelici, caratterizzato da una struttura unitaria, da una materia verisimile e da una finalità di «giovamento» morale: di qui la scelta di un argomento storico-religioso, integrato da elementi d’invenzione. Per garantire il «diletto», inteso come mezzo e non come fine, il poema deve presentare una varietà di situazioni narrative, che siano comunque strettamente legate al tema principale per non compromettere l’unità complessiva. Al diletto concorre anche l’elemento meraviglioso, reinterpretato in chiave cristiana come intervento soprannaturale di segno divino o demoniaco. Tali presupposti dimostrano la volontà di conformarsi ai valori dominanti dell’epoca, ma il poema rivela a questo riguardo un atteggiamento ambivalente da parte del poeta: al moralismo della Controriforma si contrappone un compiacimento voluttuoso nella rappresentazione dell’amore, alla celebrazione del potere il vagheggiamento del mondo pastorale, all’eroismo cavalleresco il senso dell’atrocità della guerra. La stessa unità strutturale di fondo del poema è costantemente minacciata da spinte disgregatrici, date dalle vicende dei combattenti cristiani che si allontanano dal campo: emblematicamente, tali movimenti divergenti rappresentano quelle pulsioni edonistiche, laiche e pluraliste che solo in parte Tasso riesce a soffocare dentro di sé. Proprio la preoccupazione che l’opera non fosse conforme ai princìpi di poetica e ai valori religiosi dell’epoca spinse Tasso a sottoporla al giudizio di altri letterati e a rivederla interamente negli anni successivi. Il frutto di tale lavoro è un poema molto diverso, pubblicato nel 1593 con il titolo di Gerusalemme conquistata.

i DIALoGhI e Le ULTiMe opere Nel periodo della reclusione a Sant’Anna Tasso scrisse la maggior parte dei suoi Dialoghi, rifacendosi a un genere affine alla prosa filosofica molto praticato nel Quattrocento e Cinquecento. Essi trattano d’argomenti morali, mondani, letterari, religiosi, politici, dando spazio talvolta a ricordi autobiografici e confidenze personali. Negli ultimi anni della sua vita Tasso si dedicò essenzialmente alla produzione di opere poetiche d’argomento religioso ed encomiastico.

653

L’età della Controriforma

Bibliografia La critica

` EDIzIONI DELLE OPERE Per la ricerca nel web

654

Per i passi antologici tratti dalla Gerusalemme liberata si cita dall’edizione curata da Lanfranco Caretti (Einaudi, Torino 1979); l’edizione critica delle Rime, adottata come testo nella presente edizione, resta quella allestita da Angelo Solerti (Bologna, RomagnoliDall’acqua, 1898-1902); le pagine in prosa sono tratte da Prose, a cura di E. Mazzali (Ricciardi, MilanoNapoli 1957-59); l’edizione dell’Aminta è quella a cura di B. T. Sozzi, Liviana, Padova 1952. Per le altre opere di Tasso si segnalano: Lettere, a cura di C. Guasti, Le Monnier, Firenze 1852-55, in 5 volumi • Prose diverse, a cura di C. Guasti, Le Monnier, Firenze 1875 • Opere minori in versi, a cura di A. Solerti, Bologna 1891-95, con un’Appendice alle opere in prosa, Firenze 1892. Aminta, a cura di B. T. Sozzi, Liviana, Padova 1952 • a cura di G. Bàrberi Squarotti, Radar, Padova 1968 • a cura di B. Maier, con introduzione di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1976 • a cura di C. Varese, Mursia, Milano 1985. Teatro, a cura di M. Guglielminetti, Garzanti, Milano 1983. Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Mondadori, Milano 1957; ora Einaudi, Torino 1980 • a cura di G. Getto - E. Sanguineti, La Scuola, Brescia 1960 • a cura di C. Varese - G. Arbizzoni, Mursia, Milano 1972 • a cura di F. Chiappelli, Rusconi, Milano 1982 • a cura di B. Maier, con introduzione di E. Raimondi, Rizzoli, Milano 1982. Gerusalemme conquistata, a cura di L. Bonfigli, Laterza, Bari 1934 e 1936 • a cura di C. Gigante, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010. Rinaldo, a cura di L. Bonfigli, Laterza, Bari 1934 e 1936. Mondo creato, a cura di G. Petrocchi, Le Monnier, Firenze 1951 • a cura di P. Luparia, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006. Dialoghi, a cura di E. Raimondi, Sansoni, Firenze 1958. Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma,

Laterza, Bari 1964. Rime (parte prima), a cura di F. Gavazzeni e V. Martignone, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2004 • (parte terza), a cura di F. Gavazzeni e V. Martignone, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006.

` BIOgRAFIE

A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Loescher, Torino 1895 • F. Pittorru, Torquato Tasso: l’uomo, il poeta, il cortigiano, Bompiani, Milano 1982.

` STuDI cRITIcI

e. DonADoni, Torquato Tasso, La Nuova Italia, Firenze 1967 (1a ed. 1920-21) • M. Fubini, La poesia del Tasso, in Studi sulla letteratura del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1971 (1a ed. 1947) • G. Getto, Malinconia di Torquato Tasso, Liguori, Napoli 1986 (1a ed. col titolo Interpretazione del Tasso, eSi, Napoli 1951) • F. ChiAPPelli, Studi sul linguaggio del Tasso epico, Le Monnier, Firenze 1957 • l. FirPo, Tasso e la politica nell’età sua, in Torquato Tasso, Marzorati, Milano 1957 • r. SCrivAno, Il Manierismo nella letteratura del Cinquecento, Liviana, Padova 1959 • l. CAretti, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 1961 • Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini, Atti del Convegno, Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1962 • C. DioniSotti, La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, in Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967 • G. Getto, Nel mondo della «Gerusalemme», Vallecchi, Firenze 1968 (2a ed. Bonacci, Roma 1977) • C. vAreSe, Torquato Tasso, epos, parola, scena, D’Anna, Messina-Firenze 1976 • G. bAlDASSArri, «Inferno» e «Cielo». Tipologia e funzione del meraviglioso nella «Liberata», Bulzoni, Roma 1977 • e. rAiMonDi, Poesia come retorica, Olschki, Firenze 1980 • r. bruSCAGli, Stagioni delle civiltà estense, Nistri-Lischi, Pisa 1983 • S. ZAtti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Il Saggiatore, Milano 1983 • b. bASile, Poeta melancholicus. Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pacini, Lucca

1984 • G. SCiAnAtiCo, L’arme pietose. Studio sulla «Gerusalemme liberata», Marsilio, Padova 1990 • G. M. AnSelMi, «Gerusalemme liberata» di T. Tasso, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Torino 1993, pp. 627-662 • F. Fortini, Tasso epico, in Manuale di letteratura italiana diretto da F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 382 • E. ArDiSSino, L’aspra tragedia. Poesia e sacro in T. Tasso, Olschki, Firenze 1996 • A. Di beneDetto, Tra Rinascimento e barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Società editrice fiorentina, Firenze 2007 • C. GiGAnte, Tasso, Salerno, Roma 2007 • C. MolinAri, Studi su Tasso, Società editrice fiorentina, Firenze 2007 • M. vitAle, L’officina linguistica del Tasso epico. La Gerusalemme liberata, leD, Milano 2007 • M. reSiDori, Tasso, Il Mulino, Bologna 2009 • G. AlFAno, Torquato Tasso, Le Monnier, Firenze 2011.

` STuDI cRITIcI SuLL’AmintA

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` STuDI cRITIcI SuLLE Rime

l. CAretti, Studi sulle rime del Tasso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973 • D. iSellA, F. GAvAZZeni, Proposte per un’edizione delle «Rime amorose» del Tasso, in Av.Vv., Studi di filologia e di letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Ricciardi, Milano-Napoli 1973 • D. ColuSSi, Costanti e varianti del Tasso lirico. Il manoscritto Chigiano L VIII 302, Aracne, Roma 2009.

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Competenze Analisi interattiva

T11

Goffredo chiamato all’«alta impresa» dalla Gerusalemme liberata, I, 11-18 Nel canto I della Gerusalemme liberata, poco dopo il Proemio, la narrazione ha inizio con la presentazione di Goffredo, scelto da Dio stesso tra i vari principi cristiani come capitano della crociata. Per affidare a Goffredo «l’alta impresa», Dio convoca l’arcangelo Gabriele e lo invia sulla terra perché riferisca al cavaliere crociato tale scelta e lo esorti a radunare i compagni per il compimento della missione.

11

Ma poi ch’ebbe di questi e d’altri cori scòrti gl’intimi sensi il Re del mondo1, chiama a sé da gli angelici splendori Gabriel, che ne’ primi era secondo2. È tra Dio questi e l’anime migliori interprete fedel, nunzio giocondo: giú i decreti del Ciel porta, ed al Cielo riporta de’ mortali i preghi e ’l zelo.

12

Disse al suo nunzio Dio: «Goffredo trova, e in mio nome di’ lui: perché si cessa? perché la guerra omai non si rinova a liberar Gierusalemme oppressa? Chiami i duci a consiglio, e i tardi3 mova a l’alta impresa: ei capitan fia d’essa. Io qui l’eleggo; e ’l faran gli altri in terra, già suoi compagni, or suoi ministri in guerra.»

13

Cosí parlogli, e Gabriel s’accinse veloce ad esseguir l’imposte cose: la sua forma invisibil d’aria cinse ed al senso mortal la sottopose. Umane membra, aspetto uman si finse, ma di celeste maestà il compose; tra giovene e fanciullo età confine prese4, ed ornò di raggi il biondo crine.

1. Ma poi … Re del mondo: Ma Dio, dopo che ebbe intravisto i più profondi sentimenti di questi e di altri cuori. Nelle ottave precedenti Dio scruta negli animi di altri paladini, ma vi vede soltanto passioni terrene, cupidigia, brama di onore e di gloria, eccetto in Goffredo, desideroso unicamente di liberare Gerusalemme. 2. ne’ primi era secondo: nelle gerarchie angeliche, l’arcangelo Gabriele è il secondo (dopo Michele) dei Serafini, la schiera più vicina a Dio. 3. tardi: lenti, esitanti. 4. tra giovene … prese: prese l’aspetto di un adolescente.

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L’età della Controriforma

14

Ali bianche vestí, c’han d’or le cime, infaticabilmente agili e preste. Fende i venti e le nubi, e va sublime sovra la terra e sovra il mar con queste. Cosí vestito, indirizzossi a l’ime parti5 del mondo il messaggier celeste: pria sul Libano monte ei si ritenne, e si librò su l’adeguate penne;

15

e vèr le piagge di Tortosa6 poi drizzò precipitando il volo in giuso. Sorgeva il novo sol da i lidi eoi7, parte già fuor, ma ’l piú ne l’onde chiuso; e porgea matutini i preghi suoi Goffredo a Dio, come egli avea per uso; quando a paro co ’l sol, ma piú lucente, l’angelo gli apparí da l’oriente;

16

e gli disse: «Goffredo, ecco opportuna già la stagion ch’al guerreggiar s’aspetta; perché dunque trapor dimora8 alcuna a liberar Gierusalem soggetta? Tu i principi a consiglio omai raguna9, tu al fin de l’opra i neghittosi10 affretta. Dio per lor duce già t’elegge, ed essi sopporran volontari a te se stessi11.

17

Dio messaggier mi manda: io ti rivelo la sua mente in suo nome. Oh quanta spene12 aver d’alta vittoria, oh quanto zelo de l’oste a te commessa13 or ti conviene!» Tacque; e, sparito, rivolò del cielo a le parti piú eccelse e piú serene. Resta Goffredo a i detti, a lo splendore, d’occhi abbagliato, attonito di core.

18

Ma poi che si riscote, e che discorre14 chi venne, chi mandò, che gli fu detto, se già bramava, or tutto arde d’imporre fine a la guerra ond’egli è duce eletto. Non che ’l vedersi a gli altri in Ciel preporre d’aura d’ambizion gli gonfi il petto, ma il suo voler piú nel voler s’infiamma del suo Signor, come favilla in fiamma.

5. l’ime parti: le zone più in basso. 6. Tortosa: città della Siria (oggi Tartus). 7. lidi eoi: terre orientali. 8. trapor dimora: frapporre indugio, aspettare.

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9. raguna: raduna. 10. neghittosi: negligenti, oziosi. 11. sopporran volontari a te se stessi: si sottometteranno volontariamente a te, ti ubbidiranno.

12. spene: speranza. 13. quanto zelo ... commessa: quanta cura dell’esercito a te affidato. 14. discorre: riconsidera.

Nuovo esame di Stato

COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Quali sono le funzioni dell’arcangelo Gabriele, secondo quanto viene detto nell’ottava 11?

> 2. Quale missione viene affidata da Dio a Goffredo di Buglione? > 3. Aiutandoti con le note fornite, svolgi la parafrasi delle ottave 16-18. > 4. In quali punti del testo e per quali aspetti Goffredo si discosta dagli eroi epici e cavallereschi? Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti. GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dalle ottave tratte dal primo canto della Gerusalemme liberata di Tasso, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: – le simmetrie presenti tra il discorso di Dio all’angelo e quello dell’angelo a Goffredo; – le caratteristiche del lessico (piano, aulico…), della sintassi (lineare, complessa…), dello stile (figure retoriche di posizione, di significato…) e gli effetti che ne derivano; – i particolari che caratterizzano la descrizione dell’angelo, in un più ampio riferimento al “meraviglioso cristiano” teorizzato da Tasso. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo. Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: – le contrapposizioni ideologiche e i dissidi culturali dell’età controriformistica presenti nell’opera di Tasso; – “messaggeri celesti” nella letteratura e nell’arte; – le guerre di religione non si sono certamente esaurite con le Crociate o con quelle che interessarono l’Europa nel XVI secolo. Anche il Novecento ha conosciuto guerre sanguinose e drammatiche generate da contrapposizioni religiose, e conflitti con la medesima matrice sconvolgono ancora oggi numerosi Paesi nella quasi totale indifferenza da parte del resto del mondo. Approfondisci il tema facendo eventualmente riferimento ad alcuni esempi.

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Ambito storico e sociale Scipione Guarracino

Islam e Cristianità in dialogo Scipione Guarracino ha insegnato metodologia della storia presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze. In questo brano analizza i rapporti e le influenze reciproci tra l’Islam e la Cristianità, che sono stati particolarmente incisivi in età medievale.

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L’età della Controriforma

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È sui rapporti fra Islam e Cristianità che soprattutto si misura la capacità di osmosi attribuita al mondo mediterraneo. […] Al primo spetta l’indubbio merito di aver conservato e trasmesso alla seconda una larga parte del sapere greco, attraverso le traduzioni in arabo e le successive ritraduzioni in latino compiute nella Spagna cristiana nel XII e XIII secolo, durante e dopo la Riconquista1, con l’indispensabile consulenza di dotti ebrei e anche arabi. La mediazione e la rielaborazione araba furono decisive per la crescita del sapere filosofico, medico, scientifico, matematico e tecnico. Per contro fu scarso o nullo l’interesse degli arabi per altri aspetti dell’eredità culturale greca. […] Assai più profonda fu invece l’influenza degli arabi sul mondo mediterraneo, nel quale (cosa che va costantemente tenuta presente) avevano acquisito una cittadinanza a pieno titolo. Gli arabi hanno contribuito a definire il paesaggio mediterraneo, introducendo o estendendo piante come gli agrumi, la fragola, il mandorlo, il pistacchio; facendo conoscere strumenti nautici come la bussola e l’astrolabio hanno inoltre reso più efficiente il dominio del mare e favorito indirettamente le esplorazioni genovesi e portoghesi dell’Atlantico. […] L’Islam non ammetteva pagani e idolatri, e li costringeva alla conversione; poneva invece i monoteisti cristiani ed ebrei nella condizione di protetti, che, in cambio del pagamento di una tassa loro riservata, comportava la possibilità di conservare chiese e sinagoghe e di praticare il proprio culto. Tutto ciò non ha niente a che fare con la libertà di religione o con la tolleranza nel senso di Voltaire. […] Con tutte le cautele necessarie, si può azzardare l’ipotesi che, prima della comparsa del nazionalismo e di altre forme del tutto moderne di esclusivismo, la convivenza fra diversi era più facile quanto più numerose erano le diversità, religiose, etniche, linguistiche; in parte perché il gruppo dominante non era abbastanza forte per ghettizzare tutti gli altri, in parte perché il diverso era la regola e non l’eccezione e non generava paura e ostilità. (S. Guarracino, Mediterraneo: immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Mondadori, Milano 2007)

1. Rinconquista: l’insieme delle guerre combattute dai regni cristiani della penisola iberica contro il mondo arabo, terminate nel 1492 con la presa di Granada.

COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Riassumi il testo in circa 110 parole.

> 2. > 3. > 4. > 5.

Qual è la tesi sostenuta dall’autore nel brano? Qual è il significato dell’espressione «capacità di osmosi attribuita al mondo mediterraneo» (rr. 1-2)? In quale modo, secondo Scipione Guarracino, il mondo arabo ha influenzato quello europeo? Quali sono i motivi che hanno fatto sì che nel mondo islamico la convivenza tra “diversi” fosse più facile?

PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno al passo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le quattro colonne di metà di foglio protocollo (circa 3000 caratteri). Se sei d’accordo con l’idea espressa dall’autore che la nascita dei nazionalismi moderni abbia portato a nuove forme di esclusivismo, sostienila con ulteriori argomenti, anche toccando aspetti non ancora presi in considerazione. Se intendi sostenere un’altra tesi, porta elementi a favore della tua posizione. In entrambi i casi puoi riferirti ad esempi della storia e della realtà attuale, avvalendoti delle tue conoscenze ed esperienze.

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Competenze attivate

Prova di competenza

• Imparare a imparare attraverso metodi

SiMULAzione di eSperienzA reALe

• Collaborare e partecipare per un

e strategie riferiti a contesti nuovi e reali progetto comune e un risultato finale • Consolidare le competenze digitali per

l’apprendimento e la comunicazione di saperi

Area tematica > donne e cultura fra sacro e profano: vecchi e nuovi ruoli per

l’emancipazione nel Cinquecento.

Risultato atteso > Conferenza/dibattito (con eventuale ripresa video) Fasi di lavoro Prima fase Introduzione – propedeutica alla lettura – all’autrice (M. G. Mazzucco) e all’opera (La lunga attesa dell’angelo) a cura del docente, con l’ausilio delle risorse della rete, attraverso: • un sintetico profilo biografico e letterario della scrittrice, Premio Strega nel 2003 con il romanzo Vita (https://www.youtube.com/watch?v=-XzE9EnUeFY); • la presentazione del romanzo anche attraverso interviste all’autrice presenti in rete (ad es. https://www.youtube.com/watch?v=VGYBILSD1aI). Seconda fase Lettura in classe, da parte del docente, dei passi proposti ( documenti). Una delle finalità del compito è anche quella di ricostruire il contesto sotteso ai personaggi presentati nel romanzo, ricostruendo così l’ambito storico, sociale e culturale cui la scrittrice ha fatto riferimento, delineando una sorta di “officina della scrittura”. Terza fase In un dibattito in classe, guidato dal docente, gli studenti sono chiamati a focalizzare l’attenzione e a confrontarsi sul tema fondamentale scaturito dalla lettura dei passi, ovvero: • è possibile definire con il termine «emancipazione», in senso culturale, la condizione delle giovani donne di cui si parla nel romanzo? • il contesto del tardo Rinascimento delineato attraverso i passi proposti consente di ritenere privilegiati in tal senso l’ambito laico o l’ambito religioso? Quarta fase In seguito al dibattito, il docente chiederà agli studenti di suddividersi in piccoli gruppi di opinione e di lavoro (3-4 persone al massimo) facenti parte di due schieramenti, liberamente scelti con ampie motivazioni dagli stessi: quello “sacro” e quello “profano”, ovvero quello interessato ad approfondire il tema proposto in un ambito di cultura religiosa e quello interessato ad approfondirlo in un ambito culturale laico. Tutti i gruppi, e quindi i due schieramenti, sono informati del fatto che uno degli obiettivi del lavoro è quello di effettuare un confronto alla fine del percorso, preferibilmente attraverso una modalità “collettiva” e partecipata di esposizione orale (la conferenza/dibattito, appunto).

consegne per i lavori di gruppo: Focus sui testi: • analisi dei passi proposti e individuazione sia degli elementi testuali riferiti direttamente alla tematica sia degli elementi testuali riferiti al contesto storico, sociale e culturale che ancora attestano un rigido rispetto delle differenze di genere; • analisi dei passi proposti e individuazione degli elementi testuali riferiti agli eventi epocali o agli ambienti o centri di diffusione culturale che fanno da sfondo alla situazione delineata dal contesto. Focus sul contesto: • Quali figure storiche di donna intellettuale possono essere chiamate in causa nell’età del Rinascimento? In quali condizioni vivono e operano? Quali sono le discipline cui fa riferimento la loro formazione? • Dalla lettura integrale del romanzo della Mazzucco emergono due ruoli in opposizione fra loro, quello di Faustina, docile consorte di Tintoretto, appagata dalla propria condizione dettata dalle convenzioni e dalla tradizione, e quello di Cornelia, la disinibita prostituta di origine tedesca, libera e autonoma, con cui l’artista concepisce la figlia illegittima. Quali figure sociali di moglie sottomessa alla volontà maschile o di donna “emancipata” emergono dalle opere degli scrittori del secondo Cinquecento? • Il retroterra culturale (background): delineare il passato rispetto al contesto rinascimentale. Quali figure di donna intellettuale in ambito religioso possono essere delineate nell’età medievale? E quali figure di donna “emancipata” ha proposto la letteratura del Duecento e del Trecento in ambito laico e in ambito religioso? • Le immagini: selezionare dipinti dell’epoca per la realizzazione di una galleria di ritratti femminili che attestino un ruolo sociale e pubblico della donna nel Cinquecento.

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L’età della Controriforma

Guida alla lettura dell’immagine Sofonisba Anguissola (Cremona, 1532 circa - Palermo, 1625), di nobile famiglia di origine piacentina, fu una delle prime pittrici europee, anche se la sua fama durante il Rinascimento non è paragonabile a quella conseguita, in epoche successive, da altre artiste. In questo autoritratto, in cui rivolge lo sguardo sereno ma fermo, allo spettatore, la giovane appare vestita in modo sobrio e di scuro all’infuori del merletto che le illumina il collo, con i capelli raccolti in una treccia che le incornicia il volto, senza ornamenti o gioielli. Tuttavia, la posizione particolarmente aggraziata delle mani, intente ad ultimare un dipinto dal soggetto sacro, rivela un tratto di raffinata, autentica femminilità.

Sofonisba Anguissola, Autoritratto al cavalletto, 1556, olio su tela, Łańcut (Polonia), Muzeum Zamek.

Guida alla lettura dell’immagine La sorella di Sofonisba, Elena, prese i voti: in questo dipinto (un tempo erroneamente attribuito a Tiziano) la pittrice la ritrae vestita da monaca. L’espressione dolce e distesa, ma pudica e vagamente malinconica, il chiarore dell’incarnato su cui spicca l’intensa tonalità degli occhi, rivolti anche in questo caso allo spettatore, corrispondono – e non solo su un piano simbolico – al candore del velo e dell’abito, su cui il colore del libro che reca in mano, di pregiata ed elegante fattura, risalta in modo evidente. La purezza dell’animo della giovane è così rappresentata unitamente alla consapevolezza, anche culturale, della sua condizione.

Sofonisba Anguissola, Ritratto della sorella dell’artista in abito da suora, 1551, olio su tela, Southampton (UK), Southampton City Art Gallery.

Guida alla lettura dell’immagine È uno dei ritratti femminili più celebri del Rinascimento: si tratta, con ogni probabilità, della popolana Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, ritenuta l’amante, ma anche – secondo le Vite di Vasari – concubina e modella di Raffaello. Al di là dei riferimenti alla classicità (Venere, dea della bellezza e dell’amore), la carnale nudità della donna e l’atteggiamento inequivocabilmente sensuale rendono con efficacia il potere dell’attrazione erotica, sebbene il bracciale sul suo braccio sinistro, recante la firma del pittore (Raphael Urbinas), lasci intendere il legame tutt’altro che occasionale che la unì a lui.

Raffaello Sanzio, La Fornarina, 1518-19, olio su tavola, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.

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Capitolo 3 · Torquato Tasso

Dal laboratorio al risultato atteso: • predisposizione di “scalette” per gli interventi orali redatte in base al lavoro svolto e alle sue finalità; • montaggio delle immagini selezionate in PowerPoint e visualizzazione su LIM o altro supporto (potranno fungere da sfondo, ad esempio, per l’esposizione orale); • esposizione orale – organizzata secondo la modalità della conferenza/dibattito – ed eventuale ripresa video (documentazione e archiviazione di materiali didattici da collocare anche su piattaforma e/o ambiente digitale gestito dal docente e dalla classe). Quinta fase (facoltativa) Al di là del testo e del contesto Uno dei grandi temi emergenti dai passi è quello del “travestimento” (o del “travestitismo”), ovvero l’azione di indossare abiti diversi dall’usuale sia per sembrare un individuo di sesso opposto (come nel caso di Marietta che si traveste da garzone di bottega per essere più libera nei movimenti ma anche per sembrare un maschio) sia per assumere, anche esteriormente, sembianze che attestino un radicale mutamento di scelte di vita e di condizione sociale (come nel caso del velo indossato da Perina e Lucrezia, e “ufficializzato” attraverso un preciso rituale vissuto come fastosa cerimonia) in contrasto con il consolidamento di inveterati clichés femminili (ad es. la figura della maga e/o della seduttrice).

Documenti > Testo di riferimento > Melania G. Mazzucco, La lunga attesa dell’angelo, Rizzoli, Milano 2008 Guida alla lettura Nel romanzo, scaturito dal lavoro di ricerca e documentazione confluito nel saggio Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana (Rizzoli, Milano 2009), la scrittrice contemporanea racconta la vita e la carriera del celebre artista, geniale, sanguigno e anticonformista, nella Venezia della fine del Cinquecento: il quadro dei rapporti familiari e delle relazioni sociali da lei ricostruito in chiave narrativa presenta interessanti figure femminili, da Faustina, pragmatica moglie-bambina del pittore, alle seducenti prostitute la cui fama oltrepassava i confini della Repubblica. Fra queste, due esempi di “emancipazione” costituiti ri-

spettivamente dalla figlia illegittima Marietta, educata fin dalla prima infanzia come un maschio e poi iniziata alla pittura e alla musica, e dalle figlie legittime Perina e Lucrezia, destinate per volontà del padre alla monacazione e tuttavia appagate da una vita claustrale che si rivela più ricca di privilegi e di opportunità per una crescita culturale di quanto non si pensi, come dimostrano i passi di seguito riportati, tratti da intense pagine del romanzo in cui la voce narrante è proprio quella di Tintoretto, che, sul letto di morte, rievoca la propria esistenza e i rapporti con figlie così diverse tra loro.

> 1. Marietta La Tintoretta1 è la prova che se un padre allevasse una femmina come un maschio, se le offrisse la stessa educazione, le stesse possibilità, in niente le donne sarebbero inferiori agli uomini. L’imperatore Rodolfo2 non è d’accordo! È un incredulo di natura e non ha simpatia per le donne (p. 67). […] Ti ho assunto, le dissi, da oggi sei il mio garzone. Ti insegnerò quello che so e in cambio mi aspetto che mi tieni in ordine la bottega, che mi pulisci i pennelli, che scrosti le tavolozze e fai bollire i residui di colore con l’olio, che spazzi il pavimento, mi temperi le penne e le matite, mi prepari l’inchiostro, mi porti i carboncini e i gessetti quando usciamo. Se ti pesco a frignare che il puzzo dei colori ti fa girare la testa, a lamentarti che sei stanca, o ti annoi, ti licenzio. Sono stato chiaro? Sì, Maestro, mi sorrise lei. Coi capelli tagliati rozzamente sembrava un pulcino. Mi si avvicinò e fece per darmi un bacio. Le diedi uno schiaffo. Il mio garzone non mi bacia, dissi. Marietta rispose, svelta: peccato (p. 73). […] Non l’ho mai mandata a scuola, Marietta non ha avuto altro maestro che me. Le insegnai a scrivere il suo nome col pennello, e non con la matita. Le insegnai a contare non a passo né a piede né a braccio né a spanna, ma usando una misura che valeva solo nel nostro paese: il Tintoretto. […] Trovano che sia stato un modo stravagante di insegnare la matematica a una bambina. Ma io non ho fiducia nella scuola. Mi sono annoiato troppo, ascoltando un maestro che da insegnarmi aveva solo la sua disperata voglia di non essere dov’era. Marietta con me non si è annoiata mai. E nemmeno io con lei (p. 79). […] Aveva talento, Marietta? È una domanda che non mi sono mai posto. E non me la pongo neanche adesso. Disegnava con facilità, copiava rapidamente, sapeva combinare i colori. E da me, il merito ha contato più del sesso. Non m’importa se gli altri giudicano diversamente. Io non sono 1. La Tintoretta: è il soprannome con cui è nota la figlia illegittima del pittore. 2. L’imperatore Rodolfo: si tratta di Rodolfo II d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero dal 1576 al 1612.

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L’età della Controriforma

come gli altri, e nemmeno lei lo era. I miei figli hanno dovuto adeguarsi. Eppure, anche se Marietta continuava a portare i capelli a spazzola e a vestire come un ragazzo, non lo era e non voleva esserlo. Non l’ho mai pensato, né lo hanno pensato gli altri. Ho sempre creduto che non lo avesse pensato nemmeno lei. Le ragazzine della sua età si inguainavano nei corsetti e nelle gabbie di osso di balena, che schiacciavano lo stomaco ed evidenziavano il petto; si infilavano gli altissimi zoccoli dipinti e ancheggiavano su quelli come ballerine. Marietta usava le mie scarpe vecchie e le mie camicie (p. 86). […] Il Maestro3 non aveva mai avuto un’allieva femmina né ne voleva una, perché le femmine creano disordine e sono poco portate per la musica e sono solo una gran perdita di tempo. Ma io gli dissi che la mia Marietta non era come le altre femmine, era speciale, vestiva come un ragazzo, aveva tutte le virtù di un ragazzo senza averne i difetti, e alla fine, quando mi dimostrai disposto a pagarlo quanto lo pagavano i procuratori e i membri del governo per insegnare ai loro figli, la accettò. Di solito dava lezioni private a casa sua, a tre ponti dalla mia, oppure in casa dei genitori degli allievi: ma in casa mia non c’era un organo e al momento non potevo permettermi di comprarne uno – del resto non avrei neanche saputo dove metterlo perché mancava lo spazio. Sicché, per rispetto delle convenienze e della reputazione di entrambi, parve più decoroso che le lezioni all’allieva femmina per quanto travestita da maschio si svolgessero in chiesa (p. 122). […] 3. Il Maestro: si tratta di un maestro di musica, piuttosto famoso in città, a cui Tintoretto si è rivolto per far impartire lezioni private a Marietta.

> 2. Perina e Lucrezia Le monache ricevevano a colloquio amici e parenti. Alcuni facevano colazione con le prelibatezze portate da casa. Fra dolcetti e bicchieri di vino, l’atmosfera era alquanto sguaiata. Ma solo gli ipocriti si scandalizzano. Le monache sono donne come tutte le altre, non migliori né peggiori di quelle che non ti hanno incontrato, Signore. C’è chi crede e chi dubita, chi si lascia travolgere dalle passioni e dalla sete di potere, chi pratica la carità e si spoglia di ogni vanità terrena e chi è furiosamente geloso del suo rango. Certe monache si trovano persino un amante, o si vendono a chi le paga. Ma le benedettine di Sant’Anna sono le più virtuose di Venezia. Non ci avrei mandato le mie figlie, altrimenti. Io per loro ho voluto la purezza. Padre! Mi sono sentito chiamare. Le mie monache esitavano nella penombra. Ci divideva una grata di ferro, dorata e traforata come un merletto. A malapena scorgevo i loro visi, e faticavo a distinguerle. Indossano la stessa tonaca nera, i loro gesti sono identici, anche il tono della voce è diventato uniforme. La loro pelle ha il colore dei muri – e della polvere. Devo confessare che le ho riconosciute solo perché la maggiore porta il velo nero e la più giovane il velo bianco da novizia. Così la più paffuta è suor Perina e quella secca tutta ossi è Lucrezia (p. 113). […] Io volevo parlare con suor Perina e suor Lucrezia dell’anima, della morte, dell’eternità. Perché loro sanno. Le mie figlie studiano. Leggono libri che io ignoro, conoscono verità che io nemmeno intuisco. Se io ogni giorno mi perdo, loro camminano sulla via diritta verso l’unica meta – verso di te. Mi ero trascinato con tanta pena dall’altra parte di Venezia per questo. Perché io volevo che mi aiutassero a ritrovare la strada che conduce a te. Volevo che mi accompagnassero – perché il mio corpo stava cedendo, mi abbandonava e io avevo paura, Signore. Volevo che Perina, con la sua voce pacata e affettuosa, mi parlasse ancora della resurrezione e del risveglio dell’infinito, perché quando lei mi dice queste cose, io le credo, le credo – e non ho più paura (p. 132). […] Che roba è? Si è allarmata Faustina1. Una lista di libri, ha spiegato Lucrezia alla madre, con condiscendenza. Questo monastero trascura le nostre facoltà intellettuali e non possiede una biblioteca. Le mie compagne o sono frivole civette troppo stupide per capire il valore di un libro o sono troppo smaniose di far carriera per rischiare di leggere un libro che non sia stato autorizzato dal vicario del Patriarca. Avevo pregato il mio signor padre di procurarmi certi libri. Quando glieli ho chiesti erano freschi di stampa, e tutti gli scienziati di Venezia ne discutevano. Cerco di tenermi aggiornata come posso, ma il sapere progredisce veloce, e la mia ignoranza è deplorevole: le notizie impiegano mesi a valicare i muri di Sant’Anna (p. 138). Quando ha preso i voti c’eravamo tutti. È stata l’ultima volta che ho indossato la toga da nobile. Ho speso un mucchio di soldi per fare bella figura con le superbe famiglie delle sue compagne. […]. Me ne stavo impettito nel banco della chiesa, tutto fiero e tronfio nella mia toga nera bordata di pelliccia bianca, accanto a mia moglie che pregava a mezza bocca e per far stare zitta Laura le dava da succhiare un dito. Le quaranta benedettine – ammassate nel coro dietro la finestra che le separava da noi – formavano una macchia nera. La Repubblica delle donne, mi sussurrò Marietta. Questo minuscolo convento è uno stato indipendente in cui le donne votano, pensano, studiano, lavorano e diventano pure capo di stato. Venezia non ce lo concederà mai. Perina e Lucrezia sono molto più fortunate di me (p. 312).

1. Faustina: si tratta della giovane moglie dell’artista.

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Il teatro per immagini

Il “dramma liturgico” La locuzione “dramma liturgico” è scritta tra virgolette perché risulta una dizione impropria, utile soltanto a designare le rappresentazioni medievali di soggetto sacro composte in versi latini. La liturgia cristiana non è “teatro” dal momento che non prevede la finzione – base di ogni tipo di rappresentazione teatrale – ma la partecipazione da parte degli spettatori e degli officianti a un rito che viene vissuto come vero e autentico. La possibilità del teatro, e quindi della finzione se pure a uno stato larvale, nasce dai tropi. Questi sono costituiti da versetti cantati che vengono interpolati al testo di una funzione liturgica, e quindi non sono all’interno della liturgia, e servono ad abbellire o commentare un determinato momento di questa. Si tratta di un genere essenzialmente musicale: i tropi, infatti, venivano cantati solitamente da due cori.

Lo spazIo scenIco 1. Il luogo dove si svolge il dramma liturgico è la chiesa. Questa collocazione – quando la rappresentazione uscirà dal­ la chiesa sul sagrato e poi nelle piazze avremo la sacra rappre­ sentazione che è altra cosa – de­ nuncia immediatamente il fatto che di rappresentazione si trat­ ta, ma solo fino a un certo punto, come abbiamo appena scritto. Infatti benché questa rappre­ sentazione non faccia parte strettamente della liturgia svol­ ge in ogni caso una funzione re­ ligiosa: ecco dunque che gli “at­ tori” – usiamo qui il termine nel senso etimologico di “coloro che agiscono” – agivano, appunto, con intenti diversi: facenti parte di un rito se coloro che avevano di fronte erano solo monaci, con l’intenzione di catechizzare se chi assisteva formava un pub­ blico vero e proprio.

1 Santa Maria Maggiore a Lomello (Pavia), XI secolo.

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Il teatro per immagini

2. Il Santo Sepolcro è quello che potremmo definire l’elemento scenico fondamentale del dramma liturgico. Infatti i testi di drammi litur­ gici che abbiamo – ne vedremo subito uno – sono tutti incentrati sulla resurrezione di Cristo e sul­ la visita delle Marie al Sepolcro.

2

Il Santo Sepolcro, Basilica di Aquileia (Udine), XII secolo.

Quem QuaerItIs 3

3/4. Nelle due figure – la prima è una miniatura e la seconda un par­ ticolare della decorazione scultorea del Santo Sepolcro della cattedrale di Costanza – vediamo rappresentate le Marie e cioè le pie donne che, il giorno dopo la crocefissione, vanno al sepolcro di Cristo e lo trovano vuoto perché Cristo è risorto.

Miniatura dal Liber Responsalis di San Gallo, XII secolo.

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Ecco il breve dialogo (Quem quaeritis, Chi cercate?) che rappresenta il primo testo della letteratura drammatica italiana (sono gli an­ geli che interrogano e le Marie rispondono): – Chi cercate nel sepolcro, o fedeli di Cristo? – Gesù di Nazareth crocifisso, o abitatori del cielo. – Non è qui; risorse, come aveva predetto. Andate ad annunziare che è risorto dal sepolcro.

Cattedrale di Costanza, particolare del Santo Sepolcro, XIII secolo.

paroLe e musIca 5. Il dramma liturgico, come abbiamo già detto, fu un’azione di cui la musica rappresentava la parte so­ stanziale. Ecco qui una raf­ figurazione, probabilmente ascrivibile a questo tipo di rappresentazione, in cui vediamo, all’interno di una chiesa, un’orchestra vera e propria e dei cantori; qual­ cosa, in fondo, di molto vi­ cino al nostro melodramma.

Miniatura dal Livre des propriétés des choses, Parigi, Biblioteca Nazionale.

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Il teatro per immagini

La “sacra rappresentazione” “Sacra rappresentazione” è una locuzione con cui si designa un determinato tipo di spettacolo di soggetto religioso ed è utile a circoscrivere un fenomeno con caratteristiche sue proprie che lo distinguono dal “dramma liturgico” e dalle “laude”. Il primo si svolgeva nelle chiese, le seconde, costituite da componimenti poetici e musicali, invece, venivano cantate durante le processioni religiose e conobbero la loro massima diffusione soprattutto col movimento dei Flagellanti. Coloro che partecipavano a questa pratica davano luogo a processioni, che passavano da una città a un’altra, flagellandosi pubblicamente: intendevano con queste dimostrazioni manifestare il proprio disprezzo per i beni del mondo e la loro tensione verso la spiritualità e il bene dell’anima. Un elemento fondamentale per comprendere che cosa sia stata la sacra rappresentazione è dato dal fatto che queste si svolgevano all’interno di una festa che di solito era quella del giorno in cui ricorreva la celebrazione di un santo cui era dedicata una chiesa o quello in cui si commemorava un avvenimento sacro. Si tratta di uno spettacolo che, pur rimanendo nell’ambito del teatro religioso, contiene forti elementi teatrali anche di carattere profano. Al fervore mistico del dramma liturgico e della lauda si sostituisce ora la trattazione dilettevole e inizia a istituirsi la distinzione tra attori e spettatori che non si fondono più nel corpo mistico dei partecipanti al rito e che quindi conosce la distinzione tra “intrattenitore” e “intrattenuto”, fra attori e pubblico. Inoltre l’attore è ora cosciente di fingere e non di celebrare un rito: nasce a questo punto, se pure ancora in forma embrionale, il concetto di “personaggio”. 667

IL Luogo scenIco

1 Jan Memling, Passione di Cristo, XV secolo, Torino, Galleria Sabauda.

2. Famosissima è la miniatura del Mistero della Passione di Va­ lenciennes (“mistero” è il nome che assume in Francia la sacra rappresentazione). Qui si vedono, in prospettiva senza dubbio rac­ corciata e compressa, i vari luoghi deputati (“destinati a una determi­ nata funzione”) posti su una scena larga almeno 50 metri a partire da un chiosco con al di sopra il para­ diso cui seguiva un muro con una porta, quella di Nazareth. Subito dopo, da sinistra a destra, un chio­ sco più grande che rappresenta il Tempio cui segue un altro muro di cinta di città con in mezzo la porta di Gerusalemme. Ancora un chio­ sco più piccolo che, questa volta, rappresenta il Palazzo sempre se­ guito da un muro con due porte, di fronte alle quali c’è una piscina con una navicella che sta a indicare il mare. All’estrema destra l’inferno e il limbo rappresentati da due torri e dalle fauci di un grosso dragone.

1. Il dipinto di Memling riproduce, in modo fanta­ stico, la Passione di Cristo e la sua crocefissione. I vari momenti della Passione sono qui rappresentati contemporaneamente mentre, nella realtà, si saranno svolti secondo l’ordine cronologico degli eventi. È interessante notare come tutta la città è utilizzata come luogo scenico in cui si svolge la rappresenta­ zione. La ricostruzione fantastica del pittore non tiene conto degli spettatori, che dovevano pur esserci, ma solamente degli “attori” della sacra rappresentazione.

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Miniatura del manoscritto Mistère de la Passion, di Valenciennes (1547), Parigi, Biblioteca Nazionale: la scena.

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Il teatro per immagini

Lo spettacoLo

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3/4/5. Quelle qui riprodotte sono tre miniature che documentano ciò che venne rappresentato nel 1547 sul palco raffigurato nella figura 2. Si trat­ ta di tre momenti della natività, della passione e della resurrezione di Cristo, rappresentazione che si svolse in 25 giorni. Il primo giorno (fig. 3) mostra la Verità che, staccatasi da Dio, scende sulla terra; il quinto giorno (fig. 4) i re magi che offrono doni a Gesù bambino e la strage degli innocenti; il ventitre­ esimo giorno (fig. 5) la resurrezione di Cristo e varie sue apparizioni dopo la morte. È il momento culminante del­ lo spettacolo che durerà ancora due giorni durante i quali verranno insce­ nati episodi che seguirono la morte di Cristo: il tutto si concluderà, l’ultimo giorno, con l’inizio della predicazione di san Pietro, momento simbolico della diffusione del cristianesimo.

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Miniatura del manoscritto Mistère de la Passion, di Valenciennes (1547), Parigi, Biblioteca Nazionale: la scena.

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6. La miniatura mostra il marti­ rio di santa Apollonia, avvenuto nel 249, cui, mentre venne sottoposta a tortura, furono rotti tutti i denti: le lunghe tenaglie del torturatore rap­ presentano un attributo classico del suo martirio. La rappresentazione si svolge in un luogo circondato da palchi, in cui probabilmente venivano messi in scena i vari momenti della vita del­ la santa, dove sono presenti attori e spettatori. Sulla destra, con in mano un libro e una bacchetta, il direttore di scena che dirigeva lo spettacolo in modo non diverso da come fa oggi un direttore d’orchestra.

6 Jean Fouquet, Martirio di sant’Apollonia, Cluny, Musée Condé.

7. In questa miniatura, nella parte sinistra, un attore, già vestito da diavolo, si prepara a indossare la masche­ ra. Nella parte di destra vediamo l’attore, travestito completamente, in un momento della rappresentazione. Si tratta di un documento importate perché ci mostra, con deciso realismo, il grado di raffinatezza cui erano arrivate le sacre rappresentazioni sia per ciò che riguarda i costumi che per le scenografie. 7

Miniatura da Renaud de Montauban, Parigi, Biblioteca Nazionale.

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Il teatro del rinascimento Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento giungono a maturazione nel teatro italiano alcuni processi che datano a partire dal XIII secolo, ma che in questo torno di tempo confluiscono in un’idea in parte nuova e “moderna” di rappresentazione teatrale. Cambia innanzi tutto il modo di recitare, con il passaggio dalla recitazione “in canto” a quella “a parole”, che segna un ulteriore scatto nella direzione della crescente importanza attribuita alla psicologia in scena. Nasce poi, anche sulla scorta di questo mutamento cruciale, la scrittura drammatica in volgare con i testi fra gli altri di Ariosto, Machiavelli, Trissino, Giraldi Cinzio. Si configura infine nei primi anni del Cinquecento l’esordio di un vero e proprio mercato teatrale, che però solo con la metà del secolo e la nascita della Commedia dell’Arte giungerà a una sua vera forma compiuta. Il teatro nella prima metà del Cinquecento non è infatti ancora un fenomeno autonomo e a sé stante; al contrario si colloca quasi sempre all’interno di momenti festivi dettati prevalentemente da celebrazioni politiche o religiose.

Lo spazIo scenIco 1

1. Nel corso del Ri­ nascimento gli spet­ tacoli teatrali non si svolgevano in edifici in muratura costruiti allo scopo. Gli attori re­ citano perciò in luoghi diversi, a seconda del­ le occasioni: all’aperto, dentro le corti, in spa­ zi normalmente adibiti ad altri usi, eccetera. L’immagine mostra il particolare di una pian­ ta di Venezia del pri­ mo Cinquecento che evidenzia la Loggia di Rialto, dove nel 1508 un importante attore, Francesco de’ Nobili detto Cherea, chiede alle autorità cittadine il permesso di esibir­ si di fronte a un pub­ blico pagante.

Pianta di Venezia, XVI secolo, particolare.

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2/3. Nel Cinquecento le rappresentazioni teatra­ li avvenivano non di rado durante banchetti organiz­ zati a corte o in edifici pri­ vati. L’immagine, riferita al contesto fiammingo del­ la prima metà del secolo, mostra una danza delle fiaccole realizzata duran­ te una di queste occasioni. Alle danze seguivano in questi casi esibizioni di buffoni o vere e proprie rappresentazioni teatrali. Nel particolare (fig. 3) un buffone e alcuni musici ac­ compagnano il ballo.

2 3

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Danza delle fiaccole durante un banchetto, XVI secolo, Londra, British Library.

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4. Il teatro nel Ri­ nascimento è colloca­ to quasi sempre in una dimensione festi­ va. Le feste prevedono diversi momenti spet­ tacolari alternati fra loro, come nel caso del carnevale romano del 1541, quando do­ po una caccia ai tori realizzata davanti a palazzo Farnese (simi­ le a quella ritratta in quest’immagine degli stessi anni), gli spet­ tatori entrano nell’edi­ ficio per assistere alla recita della Clizia di Machiavelli, cui seguo­ no danze e banchetti.

Hendrick Van Cleef, Caccia di tori in piazza Farnese, XVI secolo.

5. Sin dai primi anni del Cinquecento vengo­ no progettati spazi tea­ trali provvisori, spesso in legno, realizzati in parti­ colari occasioni festive. L’immagine mostra una ricostruzione moderna del teatro del Campidoglio, eret­ to a Roma nel 1513 per i festeggiamenti in onore del conferimento della cit­ tadinanza romana a Giu­ liano e Lorenzo de’ Medici. In questa circostanza il celebre Tommaso Inghira­ mi, detto Fedra, organizza una rappresentazione in latino di una commedia di Plauto, Poenulus.

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Ricostruzione moderna del teatro del Campidoglio.

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6/7. Soltanto con la fine del Cinquecento sorgono i primi edifici teatrali in muratura. Uno dei più celebri di essi è il Teatro Olimpico di Vi­ cenza, costruito fra il 1580 e il 1585 su progetto di un importante architetto del tempo, Andrea Palladio. L’edificio si configura come una sintesi tra le nuove esigenze che si affermano nella pratica scenica del Rinascimento e il vagheggiamento di un teatro fedele agli insegnamenti tratti dal libro di Vitruvio, architetto e teorico romano vis­ suto nel I secolo a.C. Quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente nella scenafronte, e cioè in quella parte della costruzione che nei teatri romani fungeva da sfondo per la recitazione degli attori. La prospettiva che si apre dietro la scenafron­ te – opera dello scenografo Vincenzo Scamozzi, subentrato al Palladio alla morte di questi – te­ stimonia invece dei nuovi interessi spettacolari maturati nel Cinquecento, incentrati appunto sulla “scoperta” della prospettiva. La cavea, il luogo dove sedevano gli spettato­ ri, è a forma ellittica, dovuta a ragioni di spazio dal momento che questo teatro venne costruito all’interno della sala di un palazzo.

Il Teatro Olimpico di Vicenza, XVI secolo.

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Il teatro per immagini

Le recIte In voLgare deI testI LatInI 8

Scena dell’Andria di Terenzio (miniatura del XVI secolo).

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8/9. L’attenzione per l’an­ tichità, propria dell’Umane­ simo, favorisce la scoperta, o più spesso la riscoperta, di testi classici, soprattutto lati­ ni. È il caso fra l’altro delle commmedie di Plauto e di Te­ renzio, oppure delle tragedie di Seneca. Uno dei centri propulsori di questa riscoperta è natural­ mente Roma, dove quei testi vengono recitati in latino pre­ valentemente come esercita­ zione accademica. A Mantova e a Ferrara invece – due altri importanti centri del Rinascimento italiano – i testi sono recitati in volgare e le rappresentazioni hanno un più marcato carattere spetta­ colare. Qui si ritrovano infatti scenografie sfarzose e la pre­ senza degli “intermedi”, ossia di momenti di spettacolo con­ cepiti come intervallo fra un atto e l’altro. Le immagini mostrano due il­ lustrazioni quattrocentesche relative all’Andria (fig. 8) e agli Adelphi (fig. 9) di Teren­ zio. Pur non essendoci alcuna certezza sul fatto che si riferi­ scano a vere e proprie rappre­ sentazioni, le figure sembrano comunque indicare una netta percezione teatrale, e non solo letteraria, di quelle commedie.

Xilografia dall’edizione delle commedie di Terenzio, Lione 1493.

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gLI attorI dI mestIere e La nascIta deLLa scrIttura drammatIca 10. All’inizio del Cinquecento gli attori si dividono in due cate­ gorie principali: “dilettanti” e “di mestiere”. I primi sono per lo più giovani nobili che si dilettano con le arti oratorie. I secondi sono veri e propri attori che, pur non vivendo necessariamente della profes­ sione scenica (il fenomeno del professionismo nascerà verso la metà del secolo, con la Commedia dell’Arte), fanno del teatro un effettivo mestiere. Questo è il caso fra gli altri del fiorentino Domenico Bar­ lacchi, detto il Barlacchia, di professione “banditore”. L’importanza di Barlacchi fu rilevantissima nelle vicende teatrali di quegli anni. Proprio a lui si deve il cambiamento che si registra a Firenze con il passaggio dalla recitazione “cantata” a quella “parlata” in occasio­ ne della rappresentazione della Frottola d’un padre che haveva due figliuoli (1504­05) di cui l’immagine riporta il frontespizio.

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11/12. Uno dei più importanti attori e autori del pri­ mo Cinquecento è Angelo Beolco, detto Ruzante dal nome del personaggio più famoso del suo repertorio. Come scrittore di teatro Ruzante si concentra su testi comici scritti in dialetto padovano. In quanto attore si esibisce anche come buffone – per esempio a Ferrara nel 1529 – e come attore tragico. Fra i testi più celebri scritti e recitati da Ruzante figura Betìa (di cui nella figura 12 si vede uno schizzo della scena), esempio ni­ tido di quel particolare intreccio di comicità parodica, carnevalesca e popolare tipico di Ruzante. 12

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Il teatro per immagini 13

13. Ludovico Ariosto è uno dei primi letterati ita­ liani a scrivere commmedie in volgare e a pensare al teatro a partire da un vero e proprio progetto lettera­ rio. Non solo egli torna continuamente sull’impianto stilistico­formale dei testi che scrive, ma sviluppa an­ che un’importante attività pratica nel teatro, soprattu­ to come “apparatore”, con funzioni di sovrintendenza e di direzione degli spettacoli. In questo modo Ariosto cerca di proporsi come effettivo “autore” dell’evento scenico.

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14. Niccolò Machiavelli è autore di una delle più belle commedie del teatro del Cinquecento e proba­ bilmente dell’intera letteratura italiana, la Mandragola. Il testo, che conobbe subito una notevole fortu­ na scenica, venne recitato per la prima volta a Firenze nel 1518. Machiavelli scrive questa commedia influenzato dalla recitazione e dal tipo di comicità di Domenico Barlac­ chi che ne è anche protagonista sulla scena recitando, in quel 1518, probabilmente la parte di Messer Nicia. 15

15. La Calandria è una delle più fortunate comme­ die del Cinquecento italiano. Ne è autore Bernardo Dovizi da Bibbiena. L’immagine mostra un momen­ to particolare della complicatissima vicenda, tratta dal celebre testo di Plauto Menaechmi: Calandro, il protagonista della commedia, porta sulle spalle il for­ ziere che gli servirà da nascondiglio per tentare di raggiungere l’amata. La prima rappresentazione avviene a Urbino nel 1513 ed è Baldesar Castiglione che si incarica di se­ guirne la resa scenica preparando anche una sorta di copione con le indicazioni per gli attori.

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L’aFFermazIone deLLa commedIa regoLare 16/17/18. Al fervore dei primi anni del Cinque­ cento subentra con gli anni Trenta una fase diversa, caratterizzata da due elementi principali. Dal punto di vista letterario si assiste alla progressiva messa a punto di una struttura drammaturgica piuttosto rigi­ da e ripetitiva, modellata sulla Poetica di Aristotele. Dal punto di vista scenico si osserva una sempre più accentuata importanza attribuita agli elementi sce­ nografici e spettacolari. Grande rilievo ebbe da questo punto di vista il fiori­ re degli studi sulla prospettiva. Le immagini mostra­ no tre celebri modelli di prospettiva, preparati da un importante architetto e apparatore cinquecentesco, Sebastiano Serlio. Esse indicano le tre tipologie del­ la scena teatrale: comica, tragica e pastorale (riferita cioè alle rappresentazioni di favole pastorali).

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Sebastiano Serio, Prospettiva comica. Prospettiva tragica. Prospettiva pastorale, XVI secolo.

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La tragedIa

Scena dell’Edipo tiranno, XVI secolo, affresco attribuito ad Alessandro Maganza, vestibolo del Teatro Olimpico di Vicenza.

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19/20. Il genere tragico si sviluppa sin dalla fine del Quattrocento a par­ tire dal richiamo ai modelli classici e allo stesso tempo grazie al crescente interesse per la favola mitologica. Come nel caso della commedia, anche la tragedia subisce, durante il Cinque­ cento, una progressiva regolarizzazio­ ne entro canoni classicisti molto rigi­ di, pur mantenendo in alcuni momenti un più fertile e articolato rapporto con la scena. Le immagini si riferiscono alla famosa rappresentazione dell’Edipo tiranno che inaugura nel 1585 il Teatro Olim­ pico di Vicenza. Il testo recitato è un volgarizzamento dell’Edipo re di Sofocle, modello ide­ ale di tragedia secondo Aristotele. Alla rappresentazione prendono parte due fra i più grandi attori del tempo, Lui­ gi Groto, che recita la parte di Edipo e Giambattista Verato, che recita Tiresia. Nelle immagini si può vedere una scena della rappresentazione, con al centro i due protagonisti (probabil­ mente Luigi Groto a sinistra e Verato a destra); quindi un bozzetto di costumi per lo spettacolo che raffigura forse Tiresia accompagnato da un fanciullo.

Bozzetto di costume per l’Edipo tiranno.

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Glossario N.B. Il presente glossario si riferisce esclusivamente a termini che compaiono nel volume; non pretende in nessun modo di essere un dizionario di retorica, metrica, linguistica, narratologia ecc.

a Accumulazione Figura retorica che consiste nell’allineamento di termini sia in forma ordinata sia accostando in modo disordinato oggetti, sentimenti, concetti ecc. (in tal caso si parla di “accumulazione caotica”). Adýnaton (termine greco, che significa “impossibile”). È una figura retorica, che consiste nel sottolineare con enfasi un fatto impossibile. Ad esempio: «Quando avrò queto il core, asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve» (Petrarca, Giovane donna sotto verde lauro, Canzoniere, XXX, vv. 9-10). Agnizione (dal latino agnitio, riconoscimento). Procedimento proprio delle opere narrative o drammatiche. Consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda. Es.: nel Filostrato di Boccaccio, la scoperta che Biancofiore è la figlia di un nobile romano. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi (v.) in due o più parole vicine. Es.: «Leone, lasso, or no è» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è stagion, v. 31); «come da corda cocca», (Dante, Inferno, XVII, v. 136). Anacoluto (dal greco anakólouthos, che non segue). Costrutto in cui avviene una rottura della regolarità sintattica. Es. «Quel hom ke se caza in boca le die impastruliae, / le die non èn plu nete» (Bonvesin de la Riva, Le cinquanta cortesie da desco vv. 143-44: Quell’uomo che si caccia in bocca le dita impiastricciate, le dita non sono piò pulite): come si vede, la frase inizia come se «Quel hom» dovesse essere il soggetto, poi invece soggetto diviene «le die». Anacronia (dal greco aná indietro e chrónos, tempo, cioè “sovvertimento temporale”). Nel racconto, la rottura della successione cronologica dei fatti, per cui vengono raccontati dopo fatti avvenuti prima di altri. Ad esempio nel II canto dell’Inferno si racconta la discesa di Beatrice nel Limbo, per sollecitare l’intervento di Virgilio in aiuto di Dante nella selva del peccato: questo evento è anteriore a quelli narrati nel canto I. Anacrusi Fenomeno consistente nell’aggiunta, all’inizio del verso, di una o più sillabe atone, che precedono quella accentata. Lo si riscontra, ad esempio, in numerose laude di Iacopone da Todi.

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Anafora (dal greco aná, di nuovo, e phéro, porto). Ripresa della stessa parola, o di un gruppo di parole, all’inizio di più versi o membri del periodo consecutivi. Es.: «S’i’ fosse fuoco, arderei ’l mondo; / s’i’ fosse vento, lo tempesterei; / s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei» (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse fuoco, vv. 1-3). Anagramma (dal greco aná e grámma, inversione delle parole). Inversione delle lettere che compongono una parola, per formarne un’altra di diverso significato. Es. «... Quel ch’i’ più bramo. / L’ombra che cade...» (Petrarca, sonetto CLXXXVIII del Canzoniere, vv. 8-9): come si vede, «ombra» contiene, in ordine diverso, le stesse lettere di «bramo». Analessi (dal greco análepsis, ripresa). In narratologia indica l’inserimento nel racconto di avvenimenti del passato, che dà origine ad un’anacronia (v., con il relativo esempio). Antifrasi (dal greco antíphrasis, locuzione contraria). Figura retorica che consiste nel fare un’affermazione, intendendo il contrario di quello che si dice. Es. «Onore e segnoria / adunque par e che ben tutto abbiate» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è stagion, vv. 87-88): in realtà l’affermazione è fatta in tono sarcastico, perché i Fiorentini, con la sconfitta di Montaperti, hanno perso tutta la loro potenza. Antitesi (dal greco antíthesis, contrapposizione). Figura retorica che consiste nella contrapposizione di due idee, ottenuta accostando termini di significato contrario. Es.: «Pace non trovo, e non ho da far guerra; / e temo, e spero, et ardo, e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere, CXXXIV, vv. 1-2). Antonimo (dal greco antí e ónoma, nome). Parola che ha significato opposto ad un’altra. Sugli antonimi è fondata l’antitesi (v.). Apodittico (dal greco apodeiktikós, dal verbo apodéiknymi, mostrare). Si dice di asserzione che è evidente di per sé e non ha bisogno di dimostrazione. Apostrofe (dal greco apostrophé, mutamento [di tono]). Figura retorica che consiste nel rivolgere la parola, in tono vibrante e concitato, ad una persona o a una cosa personificata. Es.: «Italia, mia, ben che ’l parlar sia indarno» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 1). Archètipo (dal greco arché, origine, e týpos, modello). 1) In senso generico, il

modello originario da cui derivano molteplici manifestazioni della realtà. 2) Nella psicologia analitica di Karl Gustav Jung “archetipi” sono le forme originarie dell’esperienza psicologica depositate nell’inconscio collettivo. Es., le figure del Padre e della Madre. 3) In filologia indica il manoscritto da cui derivano, direttamente o indirettamente, le copie di un testo. Spesso non è conservato e lo si ricostruisce confrontando le copie. Asindeto (dal greco asýndeton, senza legami). Coordinazione dei membri della proposizione o del periodo senza l’uso di congiunzioni. Es.: «Di qua, di là, di giù, di su li mena» (Dante, Inferno, V, v. 40). Asse sintagmatico - Asse paradigmatico Concetti fondamentali della linguistica, che hanno trovato applicazione anche nell’analisi dei testi letterari. I rapporti tra le unità costitutive della lingua, fonemi (v.), lessemi (v.), sintagmi (v.) ecc., sono di due tipi. Nel discorso le unità si dispongono insieme con le altre in una successione lineare, in cui ciascuna di esse entra in un rapporto di contiguità con quella che precede e con quella che segue: è questo l’asse sintagmatico del linguaggio (o asse della combinazione). Ad esempio nella frase: «Oggi è una bella giornata» l’asse sintagmatico è costituito dalla serie delle varie parole collocate una dopo l’altra, con implicazioni sintattiche tra di loro (soggetto, predicato ecc.). Ma ognuna di queste parole, al di fuori di quella singola frase, ha rapporti con gli altri elementi del sistema linguistico generale. Ad esempio «oggi» con «ieri» o «domani», «bella» con «bellezza», o «brutta», o «bruttezza». Questi non sono rapporti in atto, come quelli sintagmatici, ma virtuali; possono essere istituiti solo dalla memoria del parlante, che richiama per similarità od opposizione altri elementi del sistema linguistico. È questo l’asse paradigmatico (o della sostituzione). Ognuno di noi, parlando o scrivendo, seleziona termini e costrutti nel sistema globale della lingua (secondo l’asse paradigmatico), poi li combina nel discorso a formare frasi e periodi (lungo l’asse sintagmatico). Comporre un testo verbale insomma implica sia un’attività di selezione sia un’attività di combinazione degli elementi selezionati. Le stesse operazioni possono valere per la costruzione o per la lettura di un testo letterario. Ad esempio un testo narrativo si può esaminare nella successione lineare dei vari elementi che costituiscono l’intreccio (v.), la fabula (v.) o il modello narrativo (v.), rilevando i rapporti di contiguità che li unisco-

Glossario no; oppure ogni elemento può essere visto in relazione con altri elementi non contigui, a cui rimanda nel sistema globale del testo, oppure con il sistema dell’opera generale dell’autore, o addirittura con il sistema letterario del momento storico in cui si colloca il testo (motivi, procedimenti narrativi, retorici, stilistici ecc.). Assonanza Si ha quando due o più parole al termine del verso presentano le stesse vocali a partire da quella tonica. Es.: «podagra» / «m’agrava» / «piaga» (Iacopone da Todi, O Segnor per cortesia, vv. 23-25). Attante Secondo il semiologo Algirdas Greimas i ruoli diversi, che possono essere ricoperti da un’infinita serie di personaggi in miti, favole, testi narrativi letterari di tutte le culture e di tutti i tempi, possono essere ridotti a sei ruoli fondamentali: Soggetto, Oggetto, Destinatore, Destinatario, Aiutante, Oppositore. Questi ruoli generali sono chiamati attanti. Il sistema che li collega è il sistema attanziale: DESTINATORE AIUTANTE

OGGETTO SOGGETTO

DESTINATARIO OPPOSITORE

Si tratta di un modello valido per qualunque testo narrativo, esistente o possibile. Esso è il prodotto di un processo di estrema astrazione delle caratteristiche particolari dei vari personaggi di tali testi. La costruzione di tale modello è l’estensione del metodo applicato da Propp allo studio della fiaba di magia russa. Però mentre il modello attanziale di Greimas si colloca sull’asse paradigmatico (v.), il modello narrativo (v.) di tipo proppiano si colloca su quello sintagmatico (v.). Non bisogna confondere attante con personaggio: l’attante è un ruolo, e come tale può essere ricoperto da più personaggi diversi. Ad esempio nella novella boccacciana di Lisabetta da Messina l’attante Oppositore è rappresentato da tre personaggi, i tre fratelli della fanciulla. Viceversa un singolo personaggio può rispondere a diversi ruoli attanziali. Nella novella di Landolfo Rufolo, il mare ha il ruolo di Oppositore dell’eroe, ma anche quello di Destinatore dell’oggetto (la cassa di pietre preziose). Autodiegetico Narratore (dal greco autós, medesimo, diégesis, narrazione). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette. È il Narratore che è protagonista della storia da lui stesso raccontata. Esempio la Divina Commedia, in cui a raccontare è Dante stesso.

b Ballata o canzone a ballo. È un componimento legato in origine alla danza, quindi accompagnato dalla musica. È costituita da versi endecasillabi, spesso misti a settenari, ed è divisa in un numero variabile di strofe, ciascuna delle quali è preceduta da uno stesso ritornello o ripresa. Ogni strofa è divi-

sa in tre parti: le prime due, eguali tra loro, sono dette piedi; la terza, che di norma è uguale alla ripresa, è detta volta. L’ultimo verso della volta rima sempre con l’ultimo verso della ripresa. A seconda del numero dei versi della ripresa la ballata è detta grande (4 versi), mezzana (3 versi), minore (2 versi), piccola (1 verso). Alla forma della ballata sono riconducibili anche la lauda (ad esempio quelle di Iacopone) e il Canto carnascialesco (ad esempio il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici). Bucolico Ciò che è pertinente alla poesia bucolica, di argomento pastorale, cioè che rappresenta stilizzati pastori in un’idealizzata Arcadia. Il modello della poesia pastorale sono le Bucoliche di Virgilio (70-19 a.C.), scritte fra il 42 e il 39. Il nome deriva dal greco boukólos, pastore, mandriano.

c Cantari Poemi cavallereschi, di argomento carolingio o arturiano, che venivano cantati nelle piazze o per le strade da cantori girovaghi. Da essi hanno tratto i materiali ed anche certi aspetti narrativi i grandi poemi cavallereschi rinascimentali, il Morgante di Pulci, l’Orlando innamorato di Boiardo, l’Orlando furioso di Ariosto. Capitolo Componimento poetico in terzine dantesche (a rime incatenate, ABA, BCB, CDC ecc.), di una certa ampiezza. Nel Trecento fu usato per trattare argomenti dottrinali e allegorici; nel Quattrocento assume prevalentemente la forma di riflessione su vari argomenti, morali, politici, di costume, e può anche assumere la forma di epistola poetica rivolta a un destinatario. Al genere del capitolo morale e politico si collegano i Capitoli di Machiavelli, ma sussiste anche una stretta affinità con la satira (ad esempio le Satire di Ariosto). Nella letteratura rinascimentale il capitolo diviene lo strumento espressivo per eccellenza della poesia burlesca, che tratta argomenti comici e spesso osceni (Berni e seguaci). Captàtio benevolèntiae (locuzione latina che significa tentativo o ricerca di ottenere benevolenza). In letteratura è un procedimento retorico con cui l’autore, spesso nell’esordio di una composizione (per esempio nel poema epico), cerca di suscitare un atteggiamento benevolo da parte del lettore. Un esempio di captatio benevolentiae è la terza ottava dell’Orlando furioso in cui Ariosto si rivolge al cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I: «Piacciavi, generosa Erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro, / Ippolito, aggradir questo che vuole / e darvi sol può l’umil servo vostro [...]”. (Ariosto, Orlando furioso, I, 3). Catarsi (dal greco kátharsis, purificazione). Nella Poetica di Aristotele, l’effetto di purificazione che la tragedia produce sugli spettatori, inducendo in essi «pietà» e «terrore». In senso generico vale “purificazione”.

Chiasmo Disposizione incrociata dei membri di una proposizione o di un periodo. Es.: «... la mia donna laudare / ed asembrarli la rosa» (Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare, v. 1). Il nome proviene dalla lettera greca X, che si legge “chi”. Infatti, indicando i quattro membri dell’esempio con a (complemento oggetto), b (verbo), b (verbo), a (complemento oggetto), e unendo mediante due lineette quelli tra loro corrispondenti, si ha appunto il segno X: a b b a Climax (dal greco klímax, gradazione). Una serie di parole disposte secondo un ordine di intensità crescente, o per quanto riguarda il significato o per quanto riguarda aspetti formali. Es.: «in lui non restò dramma / che non fosse odio, rabbia, ira e furore» (Ariosto, Orlando furioso, canto XXIII, 129, v. 7). Codice 1) Termine della linguistica e della semiologia: l’insieme di norme che rendono possibile la comunicazione di un messaggio. Per esempio nella comunicazione verbale il codice è la lingua a cui facciamo riferimento: se scriviamo “sole” ci comprendiamo se facciamo tutti riferimento al codice “lingua italiana”, ed intendiamo che si parla dell’astro che ci illumina; chi farà invece riferimento al codice “lingua francese” non comprenderà, o meglio, intenderà tutt’altra cosa, in quanto in francese sole vuol dire “sogliola”. Da questo si può capire come il significante (v.) sia arbitrario: non c’è nessun rapporto necessario tra quella serie di lettere che compongono la parola italiana “sole” e l’oggetto designato (referente, v.); tant’è vero che le stesse lettere in un’altra lingua vogliono dire tutt’altra cosa. Anche per la letteratura esistono codici che rendono possibile la comprensione dei messaggi (i testi): certe convenzioni formali, certi motivi ricorrenti in un dato momento culturale. Ad esempio per noi moderni, che non possediamo più il codice dell’allegoria, risulta difficile comprendere le allegorie di Dante, mentre per i contemporanei, che possedevano quel codice, era del tutto agevole. 2) Libro manoscritto, composto di fogli rilegati insieme. Concettismo Procedimento che consiste nell’esasperazione della metafora (v.), cioè, nella contrapposizione tra senso letterale e senso metaforico. Es.: «Ne l’interno lume, / quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi» (Petrarca, Canzoniere, CCLXXIX, vv. 13-14), dove vi è contrapposizione tra chiudere gli occhi nella morte (piano letterale) ed aprirli nella verità di Dio (piano metaforico). Questi espedienti, usati da Petrarca con sobrietà, saranno poi esasperati dai suoi imitatori quattrocenteschi. Il concettismo caratterizzerà infine la poesia marinista durante il periodo barocco. Congedo È l’ultima strofa di una canzone (v.), in cui il poeta si “congeda” dal componimento rivolgendosi direttamente ad esso.

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Connotazione Concetto della linguistica: indica un valore supplementare che un segno assume, oltre a quello di designare un determinato oggetto, o referente (v.), che è invece il compito della denotazione (v.). Ad esempio il termine “lumi”, in senso denotativo, si riferisce a quegli oggetti che fanno luce; nella poesia amorosa invece designa abitualmente gli occhi della donna amata, con tutte le implicazioni che essi portano con sé nel codice cortesestilnovistico (la donna portatrice di illuminazione e salvezza, in quanto creatura sovrannaturale e miracolosa ecc.). In termini linguistici, nel processo di connotazione un segno, che è l’unione di un significante e di un significato (v.), viene preso globalmente come significante di un significato più vasto e complesso. Nello schema a piede pagina la linea continua e le minuscole indicano il processo di denotazione, la linea tratteggiata e le maiuscole indicano quello di connotazione. Su questa base torniamo all’esempio citato: i fonemi (v.) /l/, /u/, /m/, /i/ compongono il significante della parola “lumi”, che rimanda al significato “oggetto che fa luce”: questo è il processo di denotazione; ma a sua volta il segno “lumi”, unione di quel significante e di quel significato, diviene il significante di un nuovo significato di livello superiore, più ampio e comprensivo, che indica appunto, come si diceva, l’illuminazione beatificante che proviene da quell’essere sovrumano che è la donna amata: questa è la connotazione. Contingente Termine proveniente dall’aristotelismo, usato dalla filosofia scolastica medievale. Indica le cose finite del mondo, che non sono necessarie in sé, cioè possono essere ma anche non essere; si contrappongono quindi alle cose celesti ed eterne, che sono invece necessarie in sé, cioè sono e non possono non essere.

d Demiurgo (dal greco demiurgós, artefice). Termine usato da Platone ad indicare l’artefice divino che, plasmando una materia caotica preesistente, dà forma al mondo, prendendo a modello le idee, che sono le forme assolute ed eterne degli oggetti della realtà sensibile. In senso metaforico, designa chi ha eccezionali doti di creatore, e sa dar forma alla realtà che lo circonda imprimendovi il sigillo della sua volontà.

1. significante

Denotazione Processo di comunicazione che ha la semplice funzione di designare un oggetto (referente, v.), senza altri sensi supplementari (connotazione, v.). Dentali Fonemi appartenenti alla serie delle consonanti occlusive (v.), cioè quelle che si pronunciano occludendo interamente, per un attimo, il canale della fonazione. Nel caso delle dentali, la chiusura del canale avviene appoggiando la punta della lingua alla base dei denti incisivi superiori. La dentale sorda è la /t/, la sonora è la /d/. Non esistono in italiano dentali fricative (a differenza dell’inglese; cfr, i suoni iniziali delle parole three e the, che sono fricativi interdentali, rispettivamente sordo e sonoro). Esistono però le affricate, che si pronunciano chiudendo e aprendo il canale: la /z/ sorda e sonora (“azione”, “zona”). Determinismo Concezione presente nella filosofia e nella scienza sin dall’antichità, e tornata in auge nell’età moderna. Consiste nel vedere la realtà regolata da rapporti di causa ed effetto necessari e inevitabili, senza possibilità di scarto o libertà di scelta: data una certa causa, non può che scaturire un certo effetto. Ad esempio, lasciato libero un grave, esso non può che cadere verso il basso. Tale concezione va spesso unita con il materialismo (v.). Diacronia (dal greco diá, attraverso, e chrónos, tempo). Termine della linguistica: indica le trasformazioni che i fatti linguistici subiscono nel corso del tempo: ad esempio, il mutamento della pronuncia o del senso di certe parole, la caduta in disuso di certi termini e l’ingresso di nuovi. In senso più largo, può indicare lo svolgersi di qualunque altro fenomeno nel corso del tempo (v. sincronia). Dialefe, v. iato. Dialettica Procedimento logico proposto dalla filosofia idealistica tedesca ai primi dell’Ottocento, in particolare da Hegel. Essa consiste in un superamento della contraddizione tra opposti distribuito in tre momenti, tesi, antitesi e sintesi: la tesi è la proposizione di un concetto astratto; l’antitesi rappresenta la negazione, l’opposto della tesi, e la sintesi costituisce l’unità e l’inveramento dell’una e dell’altra. Poiché per Hegel razionale e reale si identificano, cioè tutta la realtà è pensiero, la dialettica non è solo la legge del pensiero, ma la legge della realtà intera. Tutta la realtà si muove dialetticamente, e perciò la filosofia hegeliana ravvisa dovunque tesi, antitesi e sintesi. Un esem-

2. significato

3. segno I. SIGNIFICANTE

II. SIGNIFICATO

III. SEGNO

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pio di dialettica hegeliana è il disegno della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870-71): il Medioevo è l’età dell’ideale, del puro trascendente (tesi); il Rinascimento è l’età del reale, che esclude la trascendenza (antitesi); l’età romantica è l’età dell’ideale calato nel reale, di cui I promessi sposi sono l’esempio più significativo (sintesi). La nozione di dialettica è stata ripresa da Marx e dai suoi seguaci, ma senza il significato idealistico che essa aveva nel sistema hegeliano. Marx critica Hegel perché la sua dialettica rimane chiusa nella sfera della coscienza, non riuscendo mai ad attingere la realtà. Marx, materialisticamente, nega l’identificazione della realtà con il pensiero, e afferma la presenza di una realtà oggettiva al di fuori di esso e non riducibile ad esso; sostiene pertanto che, siccome «in Hegel la dialettica poggia sulla testa, bisogna capovolgerla»: il processo dialettico si svolge non solo tra idee astratte, ma tra realtà concrete. Nel linguaggio corrente il termine designa semplicemente il confronto di posizioni diverse nella discussione (dal greco dialektikè téchne, arte della discussione). Dieresi (dal greco diáiresis, divisione): in metrica è la pronuncia distinta delle due vocali di un dittongo, le quali pertanto contano come due sillabe. Il segno grafico è costituito da due punti sopra la prima vocale. Es. «Date udïenza insieme / a le dolenti mie parole estreme» (Petrarca, Chiare e fresche e dolci acque, CXXVI, vv. 12-13). Dittologia Coppia di termini (sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi) collegati dalla congiunzione e. Es.: «Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, vv. 1-2).

e Ecloga (dal greco ekloghé, scelta). In origine il termine indicava il singolo componimento della raccolta delle Bucoliche di Virgilio, opera di argomento pastorale (42-39 a.C.), che rappresenta idealizzati pastori in una stilizzata Arcadia, ma poi, data la fama raggiunta dall’opera, “ecloga” venne a significare per antonomasia “componimento pastorale”. Edonismo (dal greco edoné, piacere). È la dottrina filosofica che considera il piacere come l’unico bene possibile e come fine della vita. Principale sostenitore fu Epicuro (III secolo a.C.). In senso generico indica la ricerca indiscriminata del piacere, senza sensi di colpa o divieti morali. Elegia Genere poetico delle letterature greca e latina, composto di versi esametri e pentametri. Originariamente fu usato per trattare vari argomenti, guerreschi, mitici, amorosi ecc. Nella letteratura latina del I secolo, con Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio, trattò invece esclusivamente una materia amorosa e soggettiva, prediligendo i

Glossario sentimenti dolorosi e malinconici. Perciò, nell’uso corrente, l’aggettivo elegiaco è venuto ad indicare uno stato d’animo o una tonalità poetica di malinconia e di tristezza, di nostalgia e di rimpianto. Nella retorica medievale invece elegiaco indicava lo stile più umile, dopo il tragico e il comico. Ellissi (dal greco élleipsis, omissione). In retorica, indica l’eliminazione di qualche elemento della proposizione, che viene sottinteso; es.: «Io leggo libri, tu fumetti (sottinteso leggi)». In narratologia (v.) indica l’omissione dal discorso narrativo di un qualche segmento della storia (v.). Ad esempio, nel III canto dell’Inferno, non viene raccontato come Dante passa l’Acheronte, il fiume che segna il confine della regione infernale. Empirico (metodo). Metodo conoscitivo che parte dai dati dell’esperienza (in greco empeiría). Enjambement (dal francese enjamber, scavalcare). Si ha quando la fine del verso non coincide con la fine del membro sintattico, per cui l’enunciato “scavalca” il verso e continua in quello seguente. Si ha una forte inarcatura quando vengono divise parole che compongono un sintagma (v.) unitario, come sostantivo-aggettivo, soggetto-predicato, sostantivo-complemento di specificazione, predicato verbale-complemento oggetto ecc. Es.: «... come fa l’aigua il foco / caldo» (Guinizzelli, Al cor gentil, vv. 26-27). L’enjambement può avere varie funzioni stilistiche, a seconda dei casi; in genere determina un ritmo spezzato. Entrelacement Procedimento costruttivo proprio dei poemi cavallereschi, in particolare dell’Orlando innamorato e poi dell’Orlando furioso, che consiste nell’intrecciare nel racconto numerosi fili narrativi che fanno capo a diversi personaggi, di continuo interrompendo l’uno per riprenderne un altro. Ve ne è già qualche embrione nei romanzi di Chrétien de Troyes. Enumerazione Procedimento retorico che consiste nell’elencazione di parole o sintagmi mediante congiunzioni coordinanti o per asindeto. Es.: «[...] onde nel cerchio secondo s’annida / ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura» (Dante, Inferno, XI, vv. 57-61); «[...] in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra» (Manzoni, I promessi sposi, cap. XVI). Epidittico (dal greco epidéiknymi, dimostro). Genere dell’eloquenza antica che serviva a dimostrare. Ermetismo Il termine indica la dottrina filosofica contenuta in alcuni scritti greci comparsi nel I secolo d.C. e tramandati sotto il nome di Ermete Trismegisto. Si tratta di scritti mistici ed oscuri, che tendono a riportare la filosofia greca alla religione egiziana. Nel Quattrocento furono tradotti in latino dal filosofo “platonico” Marsilio Ficino, che si interessava di dottrine occulte. In senso generico l’aggettivo “ermetico” è passato poi a

designare ciò che è astruso, oscuro ed accessibile solo agli iniziati che posseggono la chiave per decifrare il mistero. Di qui è derivato il nome della tendenza poetica dominante in Italia negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Esoterico (dal greco esoterikós, interno). Termine usato dai Greci per indicare dottrine riservate ai seguaci di una scuola, che non potevano essere comunicate ad estranei. Nel linguaggio comune è venuto ad indicare dottrine occulte, come la magia, l’astrologia, la cui conoscenza è riservata solo agli iniziati. Eterodiegetico (dal greco héteros, diverso, e diéghesis, narrazione). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette: indica il Narratore che non è presente come personaggio nel racconto. Esempio il narratore del Lancillotto di Chrétien de Troyes, delle novelle del Decameron ecc. È l’opposto di omodiegetico (v.). Eufemismo (dal greco eu, bene, e phemí, parlo): figura retorica con cui si attenua un’espressione troppo cruda, o sconveniente. Es.: «Passare a miglior vita» per “morire”.

f Fabula Termine della narratologia (v.): indica gli avvenimenti dell’intreccio (v.) ricostruiti nella loro successione cronologica e causale, che nell’intreccio può essere sovvertita. Fenomeno (dal greco pháinomai, apparire). È l’apparenza sensibile, che si contrappone all’essenza della realtà, della quale non è che una manifestazione. Figura etimologica, o paregménon. Figura retorica che consiste nell’accostamento di termini derivanti dalla stessa radice. Es.: «esta selva selvaggia e aspra e forte», (Dante, Inferno, I, v. 5); «D’indegno far così di mercé degno» (Petrarca, Canzoniere, XXIII, v. 102). Finalismo Dottrina per la quale il mondo è organizzato in vista di un fine; di conseguenza ogni oggetto ed ogni evento si può spiegare in relazione al fine a cui è indirizzato. La visione provvidenziale del cristianesimo è ad esempio una concezione finalistica: ogni evento della storia umana ha un preciso fine nel disegno divino. Focalizzazione Termine della narratologia (v.). È il procedimento per cui i fatti di un racconto sono presentati da un particolare punto di vista, in modo che l’informazione sugli eventi narrati rechi l’impronta della soggettività di chi “vede”. Vi può essere focalizzazione sul Narratore (v.), quando il racconto è presentato attraverso l’ottica del Narratore, focalizzazione sul personaggio quando i fatti della storia sono visti attraverso la prospettiva del personaggio. Gérard Genette dà una sistemazione diversa dalla nostra: parla di focalizzazione zero quando vi è un narratore onnisciente e il canale dell’in-

formazione non subisce restrizioni soggettive, di focalizzazione interna quando il punto di vista coincide con quello del personaggio, di focalizzazione esterna quando la narrazione presenta il personaggio solo dall’esterno, attraverso i suoi comportamenti, senza aver accesso alla sua psicologia e senza indicare le motivazioni psicologiche dei suoi atti. Fonema (dal greco phonè, suono). È la più piccola unità del linguaggio. In linguistica si indica con le lettere dell’alfabeto tra due barrette, /a/, /p/, /t/, /r/ ecc. Mentre i suoni che l’apparato fonatorio dell’uomo può emettere sono infiniti, i fonemi, le unità dotate di senso, sono in numero limitato: questo perché il fonema è un’astrazione da una molteplicità di suoni concreti, un modello ideale. Ad esempio i vari parlanti A, B, C... Z emettono ciascuno un suono a diverso; ma tutti questi suoni si possono riferire al modello astratto /a/, e ciò permette la comprensione reciproca. I fonemi, combinandosi fra loro, danno origine ai monemi, unità fornite di senso grammaticale e morfologico (in termini semplici, le parole). Fonosimbolismo In poesia (ma anche nella prosa, artistica e non), i suoni che compongono le parole possono assumere significati autonomi, cioè possono significare di per sé, non solo in quanto si combinano a formare la parola. Il caso più comune di fonosimbolismo è l’onomatopea, in cui il suono della parola imita il suono dell’oggetto designato. Es.: «non avria pur da l’orlo fatto cricchi» (Dante, Inferno, XXXII, v. 30), dove il termine «cricchi» col suo suono imita lo scricchiolio della lastra di ghiaccio del Cocito. Ma talora i suoni hanno un potere evocativo più vasto, meno determinato, non sono suoni che imitano altri suoni. Ad esempio nel canto XIII dell’Inferno, cioè nell’episodio della selva dei suicidi, Spitzer ha notato come l’insistenza del poeta su suoni aspri, con scontri duri di consonanti, voglia evocare l’idea dello storpiare, mutilare, smembrare, che è appunto la sorte delle anime punite in quel girone. Fricativa In linguistica, indica una consonante pronunciata senza chiudere totalmente il canale della fonazione, lasciando cioè filtrare dell’aria. Sono consonanti fricative ad esempio /f/, /v/. Mentre le occlusive (v.) danno un suono momentaneo, le fricative danno un suono che può essere prolungato. Frottola Così si chiamava anticamente una ballata (v.) composta di versetti brevi. Ha la forma della frottola il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici, in versi ottonari, con schema: xyyx (ripresa), ab ab b yy. Funzione Termine proposto da Vladimir Ja. Propp, studioso russo della fiaba popolare, nella Morfologia della fiaba (1928). Indica le unità minime che compongono il racconto della fiaba, costituite dalle azioni, depurate delle determinazioni particolari ad ogni testo, cioè degli attributi specifici dei personaggi che le compiono. Le stesse funzioni ricorrono in tutto il corpo della “fiabe di magia” studiate da Propp, (un centinaio), ed in successione costante, individuando così un modello narrativo (v.) comune a tutte le fiabe.

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Funzioni del linguaggio Secondo il linguista russo Roman Jakobson, perché vi sia comunicazione linguistica occorre: (1) un emittente, che invia (2) un messaggio a (3) un destinatario. Per essere compreso il messaggio richiede (4) il riferimento ad un referente, (5) un codice comune all’emittente e al destinatario, che permetta la decodificazione del messaggio, e infine un contatto, (6) un canale di comunicazione. Questi sei fattori indispensabili possono essere rappresentati secondo questo schema: REFERENTE (o contesto) EMITTENTE MESSAGGIO DESTINATARIO CANALE (o contatto) CODICE A questi fattori rispondono sei funzioni del linguaggio: REFERENZIALE EMOTIVA POETICA CONATIVA FÀTICA METALINGUISTICA Funzione referenziale: si ha quando la comunicazione si incentra sul referente, cioè quando si limita a fornire informazioni sull’oggetto di cui si parla. Funzione emotiva: si ha quando la comunicazione è incentrata sull’emittente, cioè mette il rilievo lo stato d’animo del soggetto nell’emettere il messaggio. Funzione conativa: si ha quando la comunicazione è incentrata sul destinatario, cioè quando col messaggio si cerca di ottenere su di esso un certo effetto, per indurlo a reagire in un certo modo, a compiere certe azioni. Tipiche forme di linguaggio conativo sono il comando, la preghiera, l’esortazione. La funzione conativa ha grande parte, ad esempio, nella predica religiosa, nella lezione dell’insegnante, nel discorso dell’oratore politico che vuol convincere il parlamento o gli elettori, nella pubblicità che deve indurre a comprare un prodotto. Funzione poetica: si ha quando la comunicazione è incentrata prevalentemente sul messaggio in se stesso, quando cioè il messaggio ha una sua autonomia formale: è il caso del testo letterario (o artistico in genere). L’opera letteraria parla di qualcosa (funzione referenziale), esprime i sentimenti dell’autore (funzione emotiva), vuole spesso ottenere certi effetti sul pubblico, diffondere idee, valori (funzione conativa): però ciò che fa di essa un’opera letteraria è la volontà dell’autore di conferire autonomia alla forma in quanto tale. Funzione fàtica: si ha quando la comunicazione si incentra sul canale della comunicazione, per verificare se c’è il contatto col destinatario. Classico esempio è il «Pronto?» della comunicazione telefonica, o il «mi ascolti?» che usiamo parlando con qualcuno, o anche il diffuso intercalare «no?», che serve appunte per saggiare se il destinatario sta seguendo il nostro discorso. Funzione metalinguistica: si ha quando la comunicazione è incentrata sul codice, cioè quando il linguaggio parla del linguaggio stesso (è questo il significato del prefisso meta-). Un esempio è quando l’insegnante,

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nel fare lezione, spiega certi termini tecnici. Questa stessa voce del Glossario è un esempio di funzione metalinguistica del linguaggio. Naturalmente queste sei funzioni possono anche essere compresenti contemporaneamente in un unico messaggio (o una parte di esse). Tuttavia vi sarà sempre una funzione predominante a caratterizzarlo.

h Hýsteron próteron (dal greco, rispettivamente “posteriore” e “anteriore”). È un’inversione dei concetti rispetto all’ordine logico, e consiste nel collocare prima il concetto che dovrebbe venire dopo. Es.: «Qual grazia, qual amore, o qual destino / mi darà penne in guisa di colomba, / ch’i’ mi riposi, e levimi da terra?» (Petrarca, Canzoniere, LXXXI, vv. 12-14): come si vede, il “levarsi da terra” precede logicamente il “riposare” nella beatitudine eterna, anche se è posto dopo.

i Iato (dal latino hiatus, apertura di bocca). In metrica, si ha quando la vocale finale di una parola e quella iniziale di quella successiva fanno due sillabe distinte, senza dar luogo alla sinalefe (v.). Es.: «O animal grazioso e benigno» (Dante, Inferno, V, v. 88). Idealismo In generale, concezione secondo cui la realtà è costituita da idee, pensiero. Idealistica è ad esempio la filosofia di Platone, per il quale la vera realtà è costituita dalle idee, modelli perfetti ed eterni delle cose, che trascendono la realtà sensibile. Pertanto gli oggetti che percepiamo coi sensi sono solo la copia imperfetta di questi modelli, quindi non hanno vera realtà. Nell’età moderna l’idealismo si è affermato soprattutto in Germania ai primi dell’Ottocento, con pensatori come Fichte, Schelling, Hegel. All’idealismo si oppongono il realismo, secondo cui le cose hanno un’esistenza autonoma rispetto al pensiero (la cosa “albero” esiste indipendentemente dall’idea di “albero”), ed il materialismo (v.), che ritiene che tutta la realtà sia costituita da materia. Immanente (dal latino in-maneo, resto in). Ciò che resta nei limiti dell’esperienza sensibile; è il contrario di trascendente (v.). Incipit (3a persona singolare del verbo latino incipio, comincio). Termine tecnico ad indicare l’inizio di un testo letterario. Induzione Procedimento logico che parte dai dati particolari per risalire ai princìpi generali. È il contrario della deduzione. Interrogativa retorica Interrogativa che contiene già implicitamente la risposta, e quindi equivale ad un’affermazione. Es.:

«Non è questo il terren ch’io toccai pria?» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 81). Intertestualità Procedimento letterario in cui si può osservare la ripresa, a vari livelli (strutturale, tipologico, tematico, stilistico), di elementi derivati da altre opere. Tale procedimento è assai diffuso nei diversi generi della letteratura medievale, dove conta, più che la ricerca dell’originalità, il rispetto della tradizione, secondo forme e canoni prestabiliti. Intreccio In narratologia (v.) indica la successione degli elementi costitutivi della storia (v.), nella forma in cui si presentano concretamente nel discorso: i rapporti temporali possono essere rovesciati da anacronie (v.), personaggi ed azioni conservano i loro attributi individuali e specifici, a differenza che nel modello narrativo (v.), che si colloca invece ad un livello massima astrazione rispetto al testo concreto. Iperbato (dal greco hypérbaton, inversione). È un’inversione dell’ordine naturale delle parole. Es.: «Quel che ’n altrui pena / tempo si spende» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 106-7), dove l’aggettivo «quel» è separato dal suo sostantivo «tempo» da un’intera proposizione relativa. È un procedimento stilistico caro in particolare alla poesia classicheggiante, che cerca con esso di riprodurre le inversioni tipiche della lingua latina. Iperbole (dal greco hyperbolé, lancio oltre il limite). È l’esagerazione di un concetto o di un’immagine. Sono tutte iperboliche le immagini della donna nella poesia cortese e stilnovistica: «Tenne d’angel sembianza / che fosse del Tuo regno» (Guinizzelli, Al cor gentil, vv. 58-59), «fa tremar di chiaritate l’âre» (Cavalcanti, Chi è questa che vèn, v. 2), «e par cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare» (Dante, Tanto gentile, vv. 7-8). Ipotassi (dal greco hypótaxis, subordinazione). Rapporto di subordinazione di una o più proposizioni rispetto alla principale del periodo. Si contrappone alla paratassi (v.), che consiste nell’allineare le proposizioni sullo stesso piano, mediante la coordinazione. Ironia (dal greco eironéia, dissimulazione). Procedimento che consiste nell’intendere il contrario di ciò che si sta dicendo esplicitamente; viene spesso usato con intenti parodici o sarcastici. Iterativa (narrazione). Nella terminologia narratologica introdotta da Genette consiste nel raccontare una sola volta ciò che accade n volte.

l Labiale Consonante che si articola chiudendo le labbra. La labiale occlusiva (v.) sorda è /p/, la sonora /b/. Vi sono poi le fricative (v.) labiali, sorda /f/ e sonora /v/, e la nasale /m/.

Glossario Laico (dal greco laikós, popolare, derivato da laós, popolo). Originariamente, chi non fa parte del clero. Il termine è poi venuto ad indicare ciò che si riferisce ad una visione del mondo indipendente dalla religione (anche se non necessariamente il conflitto con essa). Laica ad esempio è la concezione dell’Umanesimo, perché rivendica l’autonomia della vita terrena, anche se è rispettosa della realtà trascendente. Lessema Unità del linguaggio composta dalla combinazione dei fonemi (v.). È il minimo elemento linguistico provvisto di significato. Praticamente consiste nella parola. Linguaggio referenziale, v. referente. Liquida Consonante che si pronuncia con una vibrazione della lingua: /l/, /r/. È durativa, cioè il suono può essere prolungato, a differenza delle occlusive (v.) che sono momentanee. Litote (dal greco litós, semplice). Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario, al fine di attenuare l’espressione. Es.: «non molto» per «poco», «non bello» per «brutto».

m Macrocosmo, v. microcosmo. Madrigale Breve componimento lirico, destinato ad essere musicato. L’origine del termine non è sicura: può forse essere il latino matricalis, “legato alla madre”, quindi “elementare, primitivo”, oppure matrix, chiesa madre, cattedrale, dove veniva cantata la musica polifonica. Il soggetto è generalmente amoroso, dedicato a cantare le lodi di una donna. La forma metrica originariamente era varia; nel Cinquecento assunse poi un modulo fisso, una strofa unica di endecasillabi o settenari, o di entrambi i versi alternati. Materialismo La concezione che sostiene che tutta la realtà è materia, negando l’esistenza di sostanze spirituali. Si contrappone a idealismo (v.). Metafisica Parte della filosofia che, andando al di là dei dati immediati offerti dall’esperienza, intende spiegare i princìpi ultimi della realtà, l’essenza che si colloca al di là delle apparenze sensibili (fenomeni, v.). Il nome deriva dal greco, metà tà physiká (dopo le cose fisiche, naturali), ed ha origine in Aristotele: nella prima edizione delle opere del filosofo i libri che trattavano dell’essere erano collocati dopo i trattati sul mondo fisico. Metafora (dal greco metaphérein, trasferire). Figura retorica che consiste nel sostituire un termine proprio con un altro, il cui significato ha con il primo un rapporto di somiglianza. Es.: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?» (Dante, Inferno, I, v. 79 ss.). Metateatrale È la parte di un testo teatrale in cui si parla del teatro stesso, delle

sue convenzioni, delle sue regole. Tale carattere metateatrale possiedono in genere i prologhi delle commedie cinquecentesche, come ad esempio quello della Mandragola. Metonìmia (dal greco metonymía, scambio di nome). Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine proprio con un altro, che ha con il primo un rapporto di contiguità, logica o materiale. Es.: lo scambio di causa ed effetto: «di trista vergogna si dipinse» (Dante, Inferno, XXIV, v. 64), cioè di rossore, effetto della vergogna; la materia per l’oggetto: “legno” per “nave”, “ferro” per “spada”; il contenente per il contenuto o viceversa: “bere un bicchiere”; l’astratto per il concreto: «bavarico inganno» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 66), per “Tedeschi ingannatori”; l’autore per l’opera: “leggere Dante”; il simbolo per la cosa simboleggiata: «L’uno il pubblico segno ai gigli gialli / oppone» (Dante, Paradiso, VI, v. 100 s.), cioè i Guelfi oppongono all’aquila, simbolo imperiale, i gigli d’oro, simbolo della monarchia francese. Microcosmo (dal greco mikrós, piccolo e kósmos, mondo). È il singolo uomo, o il singolo essere animato in genere, in rapporto con l’universo intero, o macrocosmo. Già nel pensiero antico si postulava una corrispondenza tra micro e macrocosmo: ciò presupponeva la concezione di un universo come organismo, simile all’uomo, e fornito di anima. Tale corrispondenza fu poi uno dei temi preferiti dalla letteratura magica. La magia infatti intende dominare il mondo naturale sul presupposto che il mondo sia un organismo, e che tutti i suoi aspetti siano controllabili come quelli di un essere vivente. Erano idee molto diffuse in epoca rinascimentale, a partire dal Quattrocento. Su questa base si fondava anche la medicina. Modello narrativo Concetto della narratologia (v.): il modello si ricava attraverso la comparazione di più testi narrativi, individuandone le azioni fondamentali (v. funzione), prescindendo dai soggetti che le compiono e dai loro attributi individuali e specifici in ognuno dei testi particolari. Si colloca sull’asse sintagmatico (v.) del testo. Monolinguismo Forma della scrittura letteraria caratterizzata da uno stile omogeneo e uniforme (la radice deriva dal greco mónos, unico). Secondo i princìpi della poetica e della retorica medievali, lo stile può essere umile, medio o elevato, a seconda della realtà rappresentata e del genere letterario in cui viene trattata. Ogni contenuto presuppone, quindi, uno stile ad esso conveniente e il “monolinguismo” consiste appunto nel rispetto di queste rigide distinzioni. Un esempio significativo di “monolinguismo” è costituito dalla lirica amorosa del Petrarca, in cui sentimenti tutti ideali e spirituali trovano espressione in uno stile particolarmente raffinato e levigato, che si basa sulla musicalità del verso e sulla scelta di parole attentamente selezionate, riferite alle qualità più nobili e preziose dell’esistenza. Ne risulta un sistema linguistico profondamente unitario, dal quale viene respinto ogni elemento contrastante o dissonante. Al “mo-

nolinguismo” si contrappone il “plurilinguismo” (o “mistilinguismo”), ossia un tipo di scrittura che utilizza diversi registri stilistici, relativi a realtà anche molto lontane fra di loro. Un esempio di opera plurilinguistica è costituito dalla Divina commedia, in cui vengono utilizzate le forme di linguaggio più diverse ed eterogenee: tra queste il linguaggio stilnovistico della passione amorosa, nel canto di Paolo e Francesca (Inferno, V); il linguaggio plebeo e scurrile dell’incontro con i diavoli (Inferno, XII); l’arduo e sublime linguaggio filosofico e mistico-religioso di numerosi luoghi del Paradiso. Queste due tendenze, che si possono idealmente ricondurre ai nomi di Dante e Petrarca, caratterizzano l’intero sviluppo della letteratura italiana e sono state indagate, con grande intelligenza, da Gianfranco Contini. Il “monolinguismo” rispetta perlopiù le norme linguistiche stabilite dalla cultura ufficiale; il “plurilinguismo” tende invece a violare queste norme e cerca effetti di più intensa forza espressiva, che, mescolando fra loro gli stili e insistendo sulla loro dissonanza, possono giungere sino alla deformazione parodica, caricaturale e grottesca.

n Narratario Nella terminologia narratologica è il destinatario del racconto del Narratore (v.). Ad esempio, nel Decameron, narratari sono gli altri nove giovani della brigata che ascoltano il narratore di turno. Il narratario è una funzione del testo, cioè fa parte della finzione narrativa, quindi non è da confondere con il destinatario reale, in carne ed ossa. Il “lettore” a cui si rivolgono spesso i Narratori, tra cui Dante, è un’entità fittizia, postulata dal testo. Tali sono anche i «signori et cavallier» a cui si rivolge il Boiardo. Spesso il narratario è un entità solo virtuale, non menzionata nel testo, ma l’atto stesso del raccontare presuppone un destinatario a cui si rivolge il racconto. Narratologia Disciplina che studia il testo narrativo, sia sul versante della storia (v.) sia su quello del discorso. Narratore Nella terminologia narratologica indica la “voce” che racconta. Può essere un personaggio della storia stessa, come nella Commedia di Dante, o come in tanti romanzi moderni (Il fu Mattia Pascal di Pirandello, per esempio): è allora omodiegetico (v.); oppure può essere una voce fuori campo, che non fa parte del mondo della storia narrata, come i Narratori dei romanzi di Chrétien de Troyes o dei poemi di Pulci o Boiardo (Narratore eterodiegetico, v.). Nel primo caso è ovvio che il Narratore è distinto dall’autore reale; ma la distinzione vale anche nel secondo caso: il Narratore è una funzione del testo, e fa parte dell’universo della finzione. Nasale Consonante che si pronuncia con una risonanza nelle fosse nasali: si distingue una nasale dentale, /n/, una palatale, /ñ/ (il suono gn di “gnocco”), una labiale, /m/.

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Naturalismo Termine dai molti sensi. In questo volume si parla di naturalismo rinascimentale, cioè di quella concezione che vede la natura in se stessa con valore autonomo, non più come simbolo di una realtà sovrannaturale, come nel Medioevo. In base a questa concezione, tutto ciò che fa parte della natura è positivo e degno di considerazione, mentre nel Medioevo le cose della natura erano considerate imperfette in sé, quindi da vedere con distacco. Ne deriva anche la rivalutazione degli istinti, in particolare dell’amore, che viene inteso come forza sana e positiva, innocente, che è colpa contrastare: è la concezione che domina il Decameron di Boccaccio, e viene teorizzata nell’Introduzione alla IV giornata. Nuclei Nella terminologia narratologica sono i nodi essenziali dell’intreccio (v.), che non si possono eliminare senza cambiare la logica dell’intreccio stesso.

o Occlusiva Consonante che si pronuncia chiudendo per intero, momentaneamente, il canale della fonazione. A seconda del punto in cui avviene la chiusura, si hanno le velari (/k/, /g/), le palatali (/cˇ /, /gˇ /, i suoni di “cena” e “giorno”), dentali (/t/, /d/), labiali (/p/, /b/). Omodiegetico, Narratore (dal greco homós, uguale, e diéghesis, narrazione). È il Narratore (v.) presente tra i personaggi stessi della storia raccontata. Ad esempio Adso di Melk, il monaco che racconta la vicenda nel Nome della rosa di Eco. Se il Narratore è il protagonista stesso, si parla di Narratore autodiegetico (v.). Omofonia (dal greco homós, uguale e phoné, suono). Identità di suoni tra parole diverse. Ad esempio volto, che può avere il senso di “viso” (sostantivo), oppure può essere il participio passato di “volgere”. Omoteleuto (dal greco homós, uguale e teleuté, fine). Figura retorica che consiste nel far terminare due o più parole, successive o in posizioni simmetriche, allo stesso modo. Nella poesia in volgare la rima è una forma di omoteleuto. Onomatopea Figura retorica che consiste nel riprodurre, mediante i suoni di una parola, un suono naturale (v. fonosimbolismo). Opposizione Termine della linguistica. In un sistema linguistico, ogni elemento si definisce ed acquista significato in quanto si oppone ad altri facenti parte dello stesso sistema. Es.: “cane” e “pane” si distinguono perché il fonema /k/ si oppone al fonema /p/. Il meccanismo per cui il significato di un elemento si definisce in modo differenziale per opposizione ad altri elementi vale per ogni tipo di sistema, anche per il testo letterario. Ad esempio in un sistema di personaggi (v.), il significato di un personaggio si definisce per opposizione rispetto a quello degli altri: come nel caso di Tancredi e

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Ghismunda nella novella boccacciana, in cui la forza eroica della fanciulla si definisce in opposizione alla debolezza del padre. L’opposizione si indica convenzionalmente con il segno vs, che è l’abbreviazione dell’inglese versus, contro (v.). Ossimòro (dal greco oxýs, acuto, e morós, insensato: acuta insensatezza). È un’apparente insensatezza, che in realtà è acuta; consiste nella combinazione di due termini tra loro in contraddizione, che sembrano escludersi l’un l’altro. Es.: «Fera bella e mansueta» (Petrarca, Canzoniere, CXXVI, v. 29); «Le die [...] brutamente furbie» (le dita sporcamente pulite, Bonvesin de la Riva, Le cinquanta cortesie da desco, v. 142). Ottava Strofa composta in genere di otto ondecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata: ABABABCC. Usata da Boccaccio per il Filostrato, il Teseida, il Ninfale fiesolano, è poi divenuta la strofa per eccellenza della poesia epico-narrativa nei poemi cavallereschi rinascimentali, il Morgante di Pulci, l’Orlando innamorato di Boiardo, l’Orlando furioso di Ariosto, ma anche nel poema eroico di Tasso, la Gerusalemme liberata. Ottonario Verso di otto sillabe. Come è proprio dei versi con numero pari di sillabe, gli accenti ricorrono di regola sempre nelle stesse sedi, creando un ritmo cadenzato e un po’ monotono. Gli accenti principali cadono sulla 3a e sulla 7a sillaba, con altri due accenti secondari sulla 1a e sulla 5a. Es.: «O Segnòr per cortesìa / mànname la malsanìa» (Iacopone).

p Palatale Consonante che si pronuncia con la lingua contro il palato. Vi sono palatali occlusive, /cˇ /, /gˇ / (cena, giorno) sibilanti, /sˇ / (la sc di scena), liquide, / ˜l / (la gl di aglio), nasali, /ñ/ (la gn di gnocco). Tutta la serie palatale mancava nel latino antico ed è comparsa solo nelle lingue romanze. Pertanto l’alfabeto latino non possedeva segni alfabetici per designarle e da ciò deriva il fatto che nelle lingue moderne questi fonemi devono essere indicati con gruppi di consonanti, come gl, gn, sc, oppure da lettere dell’alfabeto (grafemi) che hanno una doppia valenza: c e g infatti in italiano indicano sia il suono palatale sia il suono velare, a seconda della vocale che segue: cenacane, giorno-guerra. In altre lingue europee l’occlusiva palatale /cˇ / si indica invece con un gruppo di grafemi, in francese tch, in inglese ch, in tedesco tsch. Paradigmatico, v. asse paradigmatico. Paradosso (dal greco pará, contro, e dóxa, opinione). Figura logica che consiste in un’affermazione apparentemente assurda, ma in realtà valida. Ad esempio l’evangelico «gli ultimi saranno i primi». Paratassi (dal greco pará, vicino, e táxis, disposizione). Rapporto di coordinazione tra

varie proposizioni di un periodo. Si contrappone ad ipotassi (v.). Paregménon, v. figura etimologica. Paronomásia (dal greco pará, presso, onomasía, denominazione). Accostamento di parole simili nel suono, ma diverse nel significato. Es.: «Miei dì fersi / morendo eterni, e ne l’interno lume» (Petrarca, Canzoniere, CCLXXIX, v. 12-13): le due parole «eterni»/«interno» hanno un gruppo di ben quattro fonemi in comune. Rientrano in questa categoria anche l’anagramma (v.) e il paragramma, che è l’accostamento di due parole che si distinguono solo per un fonema, esempio viso-riso, cane-pane. Pausa Si ha quando, in un racconto, il tempo della storia è = O: il racconto non procede, ed in luogo della narrazione di eventi vi sono descrizioni, divagazioni, spiegazioni, ecc. Poliptòto (dal greco polýptotos, dai molti casi). Figura retorica per la quale una stessa parola è usata a breve distanza con funzioni sintattiche diverse. Es.: «Ei già scendendo a me, giudice fea / me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio» (Parini, Alla Musa, vv. 38-39). Pleonasmo (dal greco pleonasmós, sovrabbondanza). Si ha quando si usa un numero di parole superiore a quello necessario logicamente. Sono frequenti nella lingua parlata: «A me mi piace», «ma però». Plurilinguismo, v. monolinguismo. Poetica 1) Nella tradizione classica indica i trattati che fissano le norme dello scrivere poetico (la Poetica di Aristotele, l’Arte poetica di Orazio). 2) Oggi il termine è comunemente usato ad indicare il complesso delle concezioni di un autore, o di un movimento, intorno all’arte, ed anche il programma artistico che essi si prefiggono. Personificazione Figura retorica che consiste nel conferire esistenza concreta a un’entità astratta, attribuendole comportamenti e/o discorsi. Es.: «Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso» (Dante, Paradiso, XI, vv. 7475). Polisemia (dal greco polýs, molto, e sèma, significato). Indica il carattere proprio della poesia e del testo letterario e artistico in genere, che esprime più significati, interpretabili in più modi. Polisindeto (dal greco polýs, molto, e syndéo, lego insieme). Coordinazione tra più membri sintattici all’interno di una proposizione, o di più proposizioni fra loro, mediante ripetute congiunzioni. Es.: «e ’l riso e ’l pianto e la paura e l’ira» (Petrarca, Canzoniere, XXXII, v. 11). Pragmatico (dal greco prágma, fatto, azione). Si dice del comportamento di chi si adatta alla realtà di fatto, in vista di un obiettivo di utilità o di efficacia nell’azione. Preterizione Si ha quando si dichiara di voler tacere una cosa, ma proprio attraverso tale dichiarazione la cosa viene enunciata e

Glossario messa in evidenza. Es.: «Cesare taccio che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne / di lor vene» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 49-51). Prosopopea (dal greco prosopopoiía, personificazione). Figura retorica che consiste nel rappresentare come persone reali cose inanimate o astratte. Ad esempio nel Dialogo delle corti di Pietro Aretino, la corte è personificata.

r Referente Termine della linguistica: è l’oggetto designato dal segno (v.) linguistico. Ad esempio il referente della parola “albero” è l’albero concreto di cui noi parliamo, che si può vedere fuori della finestra, oppure il concetto generale di “albero”. Referente può anche essere un concetto astratto, la virtù, la felicità. Referenziale è il linguaggio che intende semplicemente designare dei referenti, senza sovrasensi ulteriori; si svolge quindi al livello della semplice denotazione (v.), escludendo ogni forma di connotazione (v.), nonché le altre funzioni del linguaggio, emotiva, poetica, fàtica, conativa, metalinguistica (v. funzioni del linguaggio).

s Satelliti Nella terminologia narratologica di Seymour Chatman sono gli elementi dell’intreccio (v.) che completano, sviluppano, spiegano i nuclei (v.), le componenti essenziali. Eliminando i satelliti la logica dell’intreccio non ne risulterebbe sconvolta. Scena Nella terminologia narratologica, si ha quando tempo della storia (v.) e tempo del discorso (v.) coincidono. Segno Nella terminologia linguistica, ciò che vale a designare un certo concetto (significato, v.) attraverso un’espressione fonica (significante, v.): il segno è dato quindi dall’unione di un significante ed il significato. Vi sono però anche segni non linguistici (una vignetta disegnata, un cartello stradale, un modo di vestire, un gesto o una mimica). Semantica (dal greco semáino, significo). La parte della linguistica che studia i significati. Semiologia (dal greco sèma, segno e lógos, scienza). È la scienza che studia i segni (v.) linguistici e non linguistici. Fu postulata dal fondatore della linguistica strutturale, Ferdinand de Saussure (1857-1913), ed ha recentemente avuto grandi sviluppi (oggi si preferisce usare il termine semiotica). In particolare la semiotica letteraria studia, con i metodi semiotici, quel particolare segno che è il testo letterario. Significante In linguistica, è l’espressione fonica che rimanda ad un concetto (significato, v.). Ad esempio nella parola “sole”

il significante è la serie dei fonemi /s/, /o/, /l/, /e/, combinati in quella successione. Significante e significato danno origine al segno (v.). Vi possono anche essere segni non linguistici, come i cartelli stradali, l’abbigliamento ecc. In un cartello stradale il significante è costituito dalla forma (rotonda, triangolare), dai colori e dalla loro disposizione; ad esempio un triangolo col vertice in basso, bianco orlato di rosso, è un significante che rimanda al significato “dare la precedenza”. I significanti sono arbitrari, cioè non hanno nessun rapporto naturale, intrinseco e necessario con i significati e i referenti: nel senso che nascono da convenzioni tra i parlanti, e tra coloro che comunicano con segni non linguistici. Ad esempio non vi è nessun rapporto necessario tra i fonemi che compongono la parola “sole” e l’oggetto sole; tant’è vero che in altre lingue il significato si esprime con significanti del tutto diversi, francese soleil, inglese sun, tedesco Sonne. Così non vi è nessun rapporto necessario tra il cartello “precedenza” e il concetto di precedenza. Possono però darsi, sempre per convenzione, segni iconici, in cui il significante ha relazione con il significato: ad esempio il cartello «strada sdrucciolevole» che rappresenta un’auto che sta sbandando (ma comunque l’associazione forma triangolare del cartello = “pericolo” è sempre convenzionale e arbitraria). In altre epoche, come ad esempio nel Medioevo, si credeva invece che vi fosse un rapporto necessario tra i significanti e i significati («Nomina sunt consequentia rerum»: i nomi sono conseguenza delle cose). Per Dante ad esempio Beatrice è colei che dà la beatitudine. Significato In linguistica, il concetto a cui rimanda l’espressione fonica, il significante (v.). Sillaba aperta-chiusa La sillaba è aperta quando finisce in vocale, chiusa quando finisce in consonante. Esempio, in “pa-ne” pa è sillaba aperta, in “pan-na” pan è sillaba chiusa. Sillogismo (dal greco sylloghismós, coordinazione di concetti). È una forma di ragionamento definita da Aristotele, che ebbe poi grande fortuna nel pensiero medievale, dominato dall’aristotelismo della Scolastica. Ve ne sono varie forme, ma quella fondamentale è composta da una premessa universale, evidente di per sé, da una premessa minore e da una conclusione che scaturisce dalla combinazione delle due precedenti. Esempio classico: «Tutti gli uomini sono mortali» (premessa generale); «Socrate è uomo» (premessa minore); «Socrate è mortale» (conclusione). Sinalefe (dal greco sýn, insieme e aleípho, unisco). In metrica è la fusione della vocale finale di una parola con quella iniziale della parola successiva nel verso. Le due vocali si pronunciano distinte, ma metricamente contano come una sillaba sola. Es.: «Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, vv. 1-2).

Sincronia (dal greco sýn, insieme, e chrónos, tempo). Termine della linguistica. Una descrizione sincronica di una lingua esamina i rapporti funzionali che si istituiscono fra i vari elementi del sistema linguistico (fonemi, lessemi...) in un dato momento del suo sviluppo, prescindendo dagli stati precedenti e successivi. Si oppone all’analisi diacronica (v. diacronia), che studia invece le trasformazioni del sistema linguistico nel corso del tempo. Oltre ai sistemi linguistici anche altri sistemi si possono studiare sincronicamente o diacronicamente: ad esempio il sistema letterario. Si può studiare la letteratura vedendo lo sviluppo di temi, generi, forme, stili ecc. in senso diacronico; ma si può operare una sezione trasversale della letteratura, studiando i rapporti tra tutti questi elementi in un dato momento della storia, in contemporanea. Ad esempio: i rapporti tra il linguaggio aulico della poesia amorosa (siciliani, stilnovisti) e quello delle forme più popolari (rime giullaresche, comico-parodiche) a metà del Duecento (studio sincronico del sistema letterario); oppure l’evoluzione del tema della “satira del villano” dal Medioevo al Rinascimento, sino ai nostri giorni, o ancora le trasformazioni dei rapporti con i classici antichi fra Medioevo e Rinascimento (studio diacronico). Sineddoche (dal greco synekdoché, l’accogliere in sé). È la figura retorica che si ha indicando la parte per il tutto (o viceversa). Es.: «Piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali / spera ’l Tevero e l’Arno, / e ’l Po, dove doglioso e grave or seggio» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 4-6), dove con i tre più importanti fiumi della penisola si indica l’Italia intera. Sinèresi o sinizèsi (dal greco synáiresis, contrazione, e synízesis, condensazione). In metrica si ha quando due o più vocali, che appartengono a sillabe diverse, si considerano una sillaba sola. È il contrario della dieresi (v.). Es.: «Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni» (Dante, Inferno, VI, v. 79). Sinestesia (dal greco sýn, insieme e áisthesis, sensazione). Fusione delle sensazioni. Consiste nello scambiare tra loro sensazioni diverse, di carattere visivo, fonico, tattile e olfattivo; ad esempio un suono può evocare immagini visive. Un caso famoso è il sonetto Corrispondenze di Baudelaire: «Vi sono profumi freschi come carni di bimbo / dolci come oboi, verdi come praterie» (vv. 9-10); una sinestesia è il dantesco «d’ogni luce muto» (Inferno, canto V, v. 28). Singolativa (narrazione). Nella terminologia narratologica di Genette consiste nel raccontare una volta ciò che è avvenuto una volta sola. Sintagma (dal greco sýn, insieme e tásso, ordino, dispongo). Gruppo di parole collegate fra loro da legami sintattici. Può anche essere un’unità inferiore alla proposizione, ad esempio il gruppo sostantivo-aggettivo, sostantivo-complemento di specificazione. Es.: «i più deserti campi» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, v. 1) «una piggia di fior» (Petrarca,

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Glossario Canzoniere, CXXVI, v. 42). Gli elementi di un sintagma si combinano lungo l’asse sintagmatico (v.) del discorso, cioè in sequenza lineare, uno dopo l’altro. Sintagmatico (asse), v. asse sintagmatico. Sistema È un insieme di elementi, ciascuno dei quali ha una funzione precisa in rapporto a tutti gli altri, di modo che, se viene modificato, si determina una modificazione di tutto l’insieme. Secondo la linguistica strutturale la lingua è un sistema; anzi, ognuno dei suoi livelli (fonologico, morfologico, lessicale, sintattico, semantico) costituisce un sistema. Diamo un esempio a livello lessicale-semantico. Si prenda questa serie di verbi latini: pono (pongo), mitto (mando), mando (affido), fido (ho fiducia). Nel passaggio all’italiano si sono verificati spostamenti di significato, che sono avvenuti appunto all’interno di un sistema, nel senso che la “casella“ lasciata libera da uno dei verbi è stata occupata da un altro, a catena: PONO MITTO MANDO FIDO metto

mando

affido

Anche il testo letterario è un sistema. Ad esempio in un testo narrativo i personaggi compongono un sistema di personaggi, in cui ognuno di essi ha significato non in sé, ma in relazione funzionale a tutti gli altri. Ad esempio nei Promessi sposi: Renzo (Eroe)

Gertrude innominato I Don Abbondio (Oppositori)

I Lucia (Eroina)

I

Fra Cristoforo Federigo innominato II (Aiutanti)

Don Rodrigo (Avversario) Sommario Nella terminologia narratologica, la narrazione in cui il tempo del discorso (v.) è minore del tempo della storia (v.): TD < TS, in cui cioè un lungo arco temporale, con molti eventi, è scorciato in una narrazione molto riassuntiva. Stilizzazione Termine della storia dell’arte. Indica un modo di rappresentare non realistico, che riduce le figure ad essenziali linee geometriche, per cui esse risultano solo suggerite. Per estensione il termine viene applicato anche alle rappresentazioni letterarie. Stilizzata è ad esempio la raffigurazione dell’immagine femminile o del paesaggio nella poesia di Petrarca.

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Storia Nella terminologia narratologica è il “che cosa” viene raccontato dal discorso (v.) narrativo. Non esiste in sé, separata dal discorso che la veicola, ma solo in quanto prende forma in tale discorso. Perciò si può ricavare dalle forme concrete del discorso di un testo narrativo, che abbiamo sotto gli occhi, solo mediante un processo di astrazione. Si può articolare, a livelli crescenti di astrazione, in intreccio (v.), fabula (v.), modello narrativo (v.). Strambotto Forma di poesia per musica che fa parte della poesia “cortigiana”; metricamente si divide in ottave di endecasillabi ed è possibile anche che sia strutturata in forma abbreviata. Straniamento Procedimento che consiste nel presentare un oggetto familiare, consueto, da una prospettiva estranea, diversa, in modo da farlo apparire strano, inconsueto o addirittura irriconoscibile. L’oggetto, in altre parole, viene distanziato, guardato da una prospettiva lontana. Lo straniamento pertanto è il contrario dell’immedesimazione. Ad esempio Ariosto guarda Orlando innamorato e pazzo da una distanza ironica, mentre Tasso si immedesima nei suoi eroi, come in Tancredi che uccide l’amata Clorinda dando origine alla propria sventura. Strofa (o stanza) Unità metrica composta di più versi. A seconda del numero di essi si ha il distico, la terzina, la quartina, la sestina, l’ottava (v.).

t Tempo della storia / tempo del discorso Il tempo della storia è il tempo occupato dai fatti narrati nella storia. Ad esempio l’avventura di Andreuccio da Perugia si svolge nell’arco di una notte, dalla sera all’alba successiva. Tempo del discorso è il tempo impiegato dal discorso per narrare la storia. Mentre il tempo della storia è precisamente misurabile in ore, giorni, mesi, anni (se il testo fornisce le necessarie indicazioni), il tempo del discorso è un’entità convenzionale, non quantificabile in misura precisa. Terzina Strofa formata di tre versi. È stata consacrata da Dante nella Commedia, nella forma delle rime incatenate, ABA, BCB, CDC ecc. Tópos (in greco luogo, luogo comune). Tema o immagine letteraria ricorrente, ste-

reotipata. Ad esempio il tópos del giardino, che percorre la letteratura nelle varie epoche, dall’antichità classica al Novecento. Trascendente (dal latino transcendere, salire al di sopra). È ciò che si colloca al di là del mondo sensibile, in una sfera superiore ed assoluta. È l’opposto di immanente (v.). Traslato o tropo (dal latino translatus, trasportato, e dal greco trópos, trasformazione). Si ha quando si conferisce alla parola un significato che non è quello proprio (ma che comunque mantiene con esso relazioni di vario genere, di somiglianza o contiguità). Sono traslati la metafora (v.) la metonimia (v.), la sineddoche (v.), l’iperbole (v.).

v Valori d’uso / valori di scambio Termini dell’economia politica marxista. Nella produzione capitalistica ogni merce ha un duplice carattere: è un valore d’uso in quanto possiede certe qualità materiali che soddisfano determinati bisogni umani (ad esempio un cappotto di lana serve a difendersi dal freddo); è un valore di scambio in quanto può essere scambiata sul mercato, assumendo un certo prezzo (il cappotto di cui sopra viene venduto, poniamo, al prezzo di un milione). Questo valore di scambio deriva dal lavoro sociale che è stato necessario per produrre la merce. Velare Consonante che si pronuncia appoggiando la lingua al velo pendolo. In italiano abbiamo la velare occlusiva sorda /k/ (“cane”) e quella sonora /g/ (“gatto”). Vs È l’abbreviazione del termine inglese (di origine latina) versus, che significa “contro”. È il segno convenzionale ad indicare l’opposizione (v.).

z Zéugma (dal greco zéugma, giogo). È la dipendenza da un solo verbo di più termini, che esigerebbero ciascuno un proprio verbo. Es.: «Parlare e lagrimar vedrai insieme» (Dante, Inferno, XXXIII, v. 9), dove «parlare» richiederebbe un «udrai», non «vedrai».

Indice dei nomi A

Ageno, E., 74, 75, 77 Alamanni L., 131, 431, 432 Alberti, L. B., 3, 4, 5, 20, 26, 27, 102-108, 120, 121 Alfieri, V., 525 Andrea da Barberino, 68 Andrea del Verrocchio, 108, 109, 121 Angiolieri, C., 69, 75, 77, 78, 194 Anguissola, S., 660 Antoniano, S., 585 Apuleio, 433 Archadelt, J., 181 Aretino, P., 131, 137, 138, 142, 145, 193, 194, 198-204, 225, 407, 518 Ariosto, L., 21, 30, 68, 69, 80, 81, 87, 89, 90, 98, 101, 124, 128, 132, 143, 144, 145, 148, 198, 212, 218, 226-355, 434, 448, 517, 519, 555, 557, 558, 572, 573, 574, 577, 581, 582, 586, 588, 590, 591, 597, 611, 612, 621, 628, 634, 635, 648, 649, 650 Aristotele, 128, 129, 195, 538, 539, 540, 541, 567, 572, 574, 576, 590, 654, 657 Aristofane, 437 Asconio Pediano, 25 Asor Rosa, A., 492-493, 509, 654, 657 Aurispa, G., 34 Avallone, S., 647

B

Bachtin, M., 206, 221, 224, 258, 591 Baldacci, L., 167, 168, 171, 172, 175 Bandello, M., 143, 148, 179, 184-191, 192 Baratto, M., 550 Bàrberi Squarotti, G., 548, 549, 550 Bargagli, S., 525 Bartlett, G., 334 Beccadelli, A., 21, 34 Belcari, F., 30 Bellini, G., 20, 319 Bembo, P., 82, 118, 124, 125, 128, 131, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 148, 149, 151-155, 156, 164, 165, 166, 177, 195, 196, 197, 198, 212, 219, 234, 243, 244, 348, 349, 495, 508

Berni, F., 131, 145, 194-197, 180, 198, 225 Bibbiena, pseudonimo di Bernardo Dovizi, 145, 156, 434 Bigi, E., 81 Blasucci, L., 452-453, 465 Boccaccio, G., 17, 22, 27, 28, 39, 81, 128, 130, 139, 140, 141, 142, 143, 145, 147, 148, 151, 152, 155, 162, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 192, 232, 234, 261, 265, 269, 273, 342, 346, 379, 412, 461, 517, 655 Boiardo, M. M., 3, 4, 21, 28, 30, 46, 47-49, 66, 67, 68, 69, 80-99, 100, 101, 132, 143, 148, 243, 244, 250, 251, 253, 257, 259, 260, 263, 280, 318, 319, 320, 321, 322, 344, 345, 346, 348, 349, 350, 555, 574, 586 Bolzoni, L., 428 Bonciani, F., 178 Borsellino, N., 525 Botero, G., 521, 522, 523, 525, 527 Botticelli, S., 41 Bracciolini, P., 3, 11, 14, 18, 19, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 34 Bramante, 21 Branca, V., 62 Branduardi, A., 58 Brecht, B., 240 Brizio, A. M., 109, 114 Bronzino (Agnolo di Cosimo di Mariano, detto il), 414 Bruni, L., 11, 14, 18, 19, 25, 26, 27, 39, 423 Bruno, G., 511, 513, 520, 521, 524, 525, 526, 527, 528, 529, 537-541, 542, 543, 548, 551 Buonarroti, M., vedi Michelangelo Burchiello (Giovanni di Domenico, detto il), 4, 29, 47, 64-66, 67, 69, 180, 194

C

Caio Valerio Flacco, 25 Calmo, A., 525 Calvino, G., 513 Calvino, I., 285, 288, 289, 309 Campanella, T., 511, 520, 528, 529, 533536, 537, 541, 542 Carafa, D., 371

Caretti, L., 231, 254, 350, 578, 654 Carne-Ross, D., 249, 301 Caro, A., 145 Carpaccio, V., 20 Carracci, Agostino, 636 Carracci, Annibale, 636, 637 Carracci, L., 636, 637 Castiglione, B., 98, 125, 131, 133, 134, 135, 136, 138, 140, 141, 142, 146, 148, 149, 156-161, 162, 174, 198, 199, 203, 521, 528 Catone, M. P.,107 Catullo, G. V., 28, 59, 231, 569, 570 Cavalcanti, G., 59 Cecchi, G. M., 525 Cellini, B., 511, 519, 521, 527, 528, 529532, 541, 542 Cervantes, M. de, 255 Ceserani, R., 297, 350 Cicerone, M. T., 16, 18, 24, 25, 26, 28, 34, 36, 103, 139, 159, 407 Ciminelli, S. (detto Aquilano), 28, 46 Collodi, C., 224 Colombo, C., 5, 7, 9, 10, 142, 536 Colonna, F., 28 Colonna, V., 170, 171, 177, 528 Contini, G., 60, 71, 72, 73, 74, 75, 77, 106, 119 Copernico, N., 21, 520, 526, 527, 537, 542 Cordié, C., 208, 209 Cornaro, A., 211, 212 Cortese, P., 23, 63 Croce, B., 254, 255, 350

D

D’Annunzio, G., 604 Da Porto, L., 179, 185, 192 Dante, 22, 27, 32, 38, 39, 42, 46, 50, 59, 62, 64, 102, 118, 140, 151, 152, 163, 171, 250, 257, 321, 338, 342, 346, 350, 364, 365, 368, 369, 385, 387, 419, 434, 437, 465, 516, 523, 528, 582, 584, 587, 621, 623, 625, 635 Davico Bonino, G., 435, 448, 450, 465, 530, 531, 550 De Carlo, A., 647 De Sanctis, F., 470, 477

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De’ Segni, L., 33 Del Piombo, S., 198 Del Piombo, T., 198 Della Casa, G., 125, 142, 148, 164, 174-176, 177, 198, 203, 528 Della Porta, G., 525 Dionisotti, C., 165 Doglio, M. L., 62 Domenichino (Domenico Zampieri, detto il), 637 Donatello, 41 Doni, F., 198, 520, 521 Dostoievskij, F., 258 Dovizi, B. da Bibbiena, vedi Bibbiena Durling, R., 251

E Erasmo da Rotterdam, 26, 34, 124, 129, 519

F Fanfani, P., 180 Fassò, L., 545, 546 Ferrero, G. G., 185, 186, 187, 189 Ficino, M., 3, 5, 20, 26, 33, 42, 44, 50, 69, 154, 345 Firenzuola, A., 143, 178, 191, 192 Firpo, L., 7, 8, 9 Folengo, T., 70, 144, 204, 205-211, 225 Foscolo, U., 176, 281 Francesco d’Assisi (san), 656, 658 Freud, S., 646 Franco, N., 193, 198 Fubini, M., 584, 654

G Galilei, G., 18, 94, 111, 356, 376, 460, 513, 520, 529, 533 Gambara, V., 164 Gareth, B. (detto il Cariteo), 46 Garin, E., 41, 44 Garzoni, T., 519 Gentile, E., 468 Getto, G., 558, 559, 570, 576, 599, 638-640, 644, 654 Gherardi, G., 27 Ghiretti, M., 657 Ginzburg, C., 515 Giorgione (Giorgio da Castelfranco detto), 197 Giovanni da Verazzano, 142 Giraldi Cinzio, G., 143, 145, 179, 191, 192 Gonzaga, S., 555, 556, 557, 572, 585, 652 Goya, F., 515 Gramsci, A., 420, 421, 465, 467, 468, 469

690

Grazzini, A. F., 179, 180, 181, 182, 192 Guarini Guarino (detto Guarino Veronese), 23, 113 Guarini, B., 513, 518, 520, 525, 527, 543547, 551 Guarracino, S., 655 Guazzo, S., 519 Guglielminetti, M., 568, 654 Guicciardini, F., 50, 125, 128, 142, 147, 148, 160, 254, 361, 364, 380, 430, 444, 465, 470-509 Guinizzelli, G., 59

Ignazio di Loyola (sant’), 516, 526

Manzoni, A., 211, 258, 331 Marino, G.,176, 559, 654 Martelli, M., 62 Marx, K., 519 Mastrocola, P., 647 Masuccio Salernitano, 27, 181, 185, 192 Mazzucco, M. G., 659 Medici, Lorenzo de’ (detto il Magnifico), 3, 5, 6, 12, 14, 20, 28, 29, 33, 42, 46, 50-54, 55, 58, 67, 69, 101, 124, 151, 170, 180, 358, 365, 431, 474, 495, 497, 499, 500, 501, 504, 508, 565, 634 Mercuri, R., 525 Michelangelo Buonarroti, 124, 125, 131, 132, 144, 148, 170-173, 177, 528 Molinari, C., 525 Momigliano, A., 253, 350 Montaldo, G., 540, 541 Monteverdi, C., 612 Moro, T. (Thomas More), 27, 520, 529, 534 Mussolini, B., 466

J

N

H Hauser, A., 519 Hugo, V., 541

I Jay, A., 467, 468, 469

L Landino, C., 69 Lasca (Grazzini, A. F. detto il), 131, 137, 143, 148, 178, 179, 180-184, 191, 192, 518 Lascaris, C., 151 Ledeen, M., 468, 469 Leonardo da Vinci, 5, 18, 20, 21, 102, 105, 108-117, 120, 121 Leopardi, G., 617 Livio, T., 27, 145, 359, 361, 365, 371, 373, 416, 421, 422, 424, 425, 428, 462, 463, 464, 465 Loschi, A., 26 Lucci, D., 657 Lucrezio Caro, T., 118 Lutero, M., 512, 513, 527

M Machiavelli, N., 50, 124, 125, 128, 131, 137, 140, 141, 142, 145, 146, 147, 148, 179, 191, 192, 233, 250, 254, 256, 346, 356-469, 470, 471, 475, 478, 480, 481, 482, 485, 486, 489, 491, 494, 495, 497, 499, 500, 504, 505, 506, 508, 509, 516, 521, 523, 525 Magellano, F., 124, 142 Maier, B., 58, 60 Manetti, G., 4, 18, 19, 26, 28, 33, 39-42, 44 Mantegna, A., 5, 20, 21 Manuzio, Aldo, 3, 14, 20, 124, 131, 136, 147

Navagero, A., 142 Newton, I., 94 Niccoli, N., 25 Niccolò da Correggio, 30 Nobili, F. de’, 585

O Odasi, T., 205 Oddi, S., 525 Olmi, E., 407 Omero, 206, 278, 318, 558, 585, 655 Orazio, Flacco Q., 59, 118, 231, 233, 348, 349, 538, 559, 569 Ordine, N., 534, 537 Ovidio Nasone, P., 28, 47, 55, 118, 231, 244, 245, 278, 354

P Palumbo, M., 477, 509 Parker, P., 252 Pavese, C., 285, 600, 603, 604 Pedullà, G., 428 Petrarca, F., 14, 17, 22, 23, 27, 28, 32, 38, 39, 42, 46, 47, 50, 57, 59, 61, 62, 64, 66, 128, 130, 139, 140, 141, 142, 144, 145, 147, 148, 152, 155, 157, 162, 163, 165, 166, 168, 169, 172, 175, 177, 194, 195, 196, 197, 204, 252, 256, 346, 348, 350, 352, 362, 364, 368, 417, 418, 480, 485, 488, 504, 528, 552, 559 Picchio, F., 344-345, 350 Piccolomini, E. S., 27, 28, 30

Indice dei nomi

Pico della Mirandola, G., 20, 23, 26, 33, 42-45, 69 Piero della Francesca, 3, 4, 24, 26 Pietro Martire d’Anghiera, 142 Pigafetta, A., 142 Pindaro, 559 Pirandello, L., 454, 458, 459 Platina, B., 26, 371 Platone, 12, 16, 19, 20, 26, 109, 111, 385, 399, 400 Plauto, T. M., 30, 145, 213, 345, 349, 434, 525 Poliziano (Angelo Ambrogini, detto il), 5, 21, 23, 28, 29, 30, 42, 46, 49, 54-64, 66, 67, 70, 79, 170, 525, 544, 565, 570, 628, 634 Ponchiroli, D.,167 Pontano, G., 21, 26, 28, 371, 523 Properzio, S., 231 Pulci, L., 3, 5, 30, 50, 68, 69-79, 81, 100, 101, 144, 257, 263, 320, 322, 352

Q Quintiliano, M. F., 23, 24, 25

R Rabelais, F., 70, 144, 178, 206, 220-224, 225 Raffaello Sanzio, 131, 134, 660 Ramusio, G., 142 Rinuccini, A., 26 Ronconi, L., 302, 303 Ronsard, P. de, 144 Rucellai, C., 361, 373, 431 Rucellai G., 131 Russo, E., 590-591, 655

Ruzante (Angelo Beolco detto il), 145, 211-219, 225, 525

S Sabellico, M., 151 Saffo, 167 Sallustio Crispo, G., 27 Salutati, C., 3, 11, 14, 18, 19, 25, 26, 423, 424, 434 Salviati, L., 180, 513, 517 Sanguineti, E., 302, 303 Sannazaro, I., 3, 5, 9, 21, 28, 30, 102, 118120, 121, 212, 525, 565, 603 Sanzio, R., vedi Raffaello Savonarola, G., 124, 125, 358, 389, 392, 433, 462 Segre, C., 233, 241, 337, 342, 350 Seneca, L. A., 145, 525 Shakespeare, W., 145, 179, 185 Socrate, 506, 567 Speroni, S., 145, 521, 585 Stampa, G., 148, 164, 167-169, 177 Stazio, P. P., 310, 318, 591 Stefani, P., 656 Straparola, G. F., 143, 179, 192

T Tacito, P. C., 27, 495, 506, 507, 521 Tansillo, L., 524, 538, 540 Tasso, T., 135, 164, 176, 204, 511, 512, 513, 517, 519, 520, 524, 525, 527, 543, 544, 546, 552-662 Tebaldi, A. (detto il Tebaldeo), 28, 46 Telesio, B., 533 Teocrito, 102, 525, 565 Terenzio Afro, P., 24, 30, 145, 525

Tibullo, A., 28, 231, 569 Tiziano Vecellio, 198, 660 Tolstoj, L., 240 Torelli, P., 525 Trissino, G. G., 140, 141, 145, 146, 148, 434, 524, 527

U Ungaretti, G., 613

V Valla, G., 129 Valla, L., 3, 4, 17, 19, 21, 27, 33, 34-39, 45, 517 Varrone, 107 Vasari, G., 660 Vecellio, T., vedi Tiziano Verdelot, P., 181 Verga, G., 211, 657 Veronese, G., 13, 20, 21, 543 Vespucci, A., 142, 143 Virgilio Marone, P., 24, 29, 55, 61, 102, 118, 119, 121, 139, 240, 244, 245, 310, 318, 321, 322, 326, 524, 525, 549, 558, 562, 565, 569, 584 Vittorino da Feltre, 13, 113 Vivanti, C., 429-430, 465 Volonté, G. M., 540, 541 Voltaire, 525

Z Zatti, S., 251, 252, 256, 301, 320-322, 350, 578, 588, 611, 633, 654

691

Indice delle rubriche e delle schede ChE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI Ariosto, 346 Machiavelli, 460 Guicciardini, 502 Tasso, 645

LETTERATuRA E... Economia, 106 Politica, 425 Scienza, 112, 622 Società, 641 Tecnica, 114, 304

LA VOCE DEL NOVECENTO Dall’Orlando furioso al Cavaliere inesistente di Calvino: modernità e perdita di sé, 285 Machiavelli e Pirandello: la «tragedia annegata in una farsa», 454 Paesi tuoi: il mondo rurale senza idillio di Cesare Pavese, 600

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATuRA Astolfo sulla luna in un affresco del Cinquecento, 343 La Fortuna col ciuffo nell’arte del Cinquecento, 414 Rinaldo e Armida nel giardino incantato, 636

LETTERATuRA E CINEMA La crisi degli Stati italiani nel Mestiere delle armi di Ermanno Olmi, 407 Giordano Bruno di Giuliano Montaldo, 540

LETTERATuRA E TEATRO L’Orlando furioso secondo Ronconi e Sanguineti, 302

MICROSAGGI La Poetica di Aristotele,129 Il canone bembiano, 140 Rabelais e le origini del romanzo moderno, 144 Bachtin e la «narrazione polifonica», 258 L’ “alienazione” dell’artista, 519

692

Indice delle rubriche e delle schede

EChI NEL TEMPO Gramsci e il «moderno Principe», 420

DIALOGhI IMMAGINARI Machiavelli e Guicciardini, 504 Tasso e Ariosto, 648

PESARE LE PAROLE Accozarli (Machiavelli), 363 Arbitrio (Machiavelli), 409 Assembra (Tasso), 627 Calli (Ariosto), 267 Chiari (Ariosto), 260 Copia (Ariosto), 273 Crudo (Ariosto), 264 Cura (Ariosto), 281 Discrezione (Guicciardini), 478 Disgrazia (Castiglione), 158 Documenti (Guicciardini), 496 Errori (Tasso), 563 Escogitate (Machiavelli), 383 Fallo (Ariosto), 331 Fede (Machiavelli), 366 Felici (Machiavelli), 388 Feroce (Machiavelli), 400 Formidabile (Tasso), 615 Fortezza (Tasso), 642

Franco (Ariosto), 340 Garzon(e) (Tasso), 631 Generazione (Machiavelli), 417 Industrie (Castiglione), 159 Ingrate (Lorenzo de’ Medici), 52 Intelligenzia (Machiavelli), 422 Invidia (Machiavelli), 389 L’annoi (Ariosto), 278 Larve (Tasso), 613 Lasso (Ariosto), 271 Lezione (Machiavelli), 383 Liberale (Machiavelli), 399 Modestia (Tasso), 642 Novella (Ariosto), 265 Offeso (Ariosto), 266 Oste (Tasso), 617 Partita (Ariosto), 299 Pave (Tasso), 609 Peregrine (Tasso), 630

Prudente (Machiavelli), 387 Querele (Ariosto), 326 Ristorar (Ariosto), 274 Rubella (Ariosto), 264 Sbigottito (Boiardo), 88 Scïenzia (Boiardo), 94 Sentenzia (Ariosto), 325 Sermone (Ariosto), 298 Soffrire (Boiardo), 91 Sprezzatura (Castiglione), 158 Strani (Ariosto), 240 Succede (Guicciardini), 487 Tema (Ariosto), 271 Tenta (Ariosto), 268 Tristi (Machiavelli), 403 Ufizio (Machiavelli), 363 Voti (Ariosto), 264

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Indice delle illustrazioni » pp. 2-3 Benozzo Gozzoli, Il viaggio dei Magi, 1459-60, affresco, part., Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. » p. 33 Domenico Ghirlandaio, L’apparizione dell’angelo a Zaccaria, 1485-90, affresco, part., Firenze, Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni. » p. 46 Francesco del Cossa, Mese di Aprile: Trionfo di Venere, 1468-70, affresco, part., Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi.

» p. 243 Giandomenico Tiepolo, Angelica e Medoro, XVIII secolo, disegno a penna e inchiostro. » p. 243 Giovanni Boulanger, Orlando impazzito per amore, 1650-52, affresco, part., Sassuolo, Palazzo Ducale. » p. 243 Dosso Dossi, La maga Melissa, 1516 circa, olio su tela, Roma, Galleria Borghese.

» p. 68 Paolo Uccello, San Giorgio e il drago, 1470 circa, olio su tela, part., Londra, The National Gallery.

» p. 285

» p. 102 Leonardo da Vinci, Bacco, 1510-15, tempera e olio su tavola trasportato su tela, part., Parigi, Musée du Louvre.

» pp. 356-357 Federico Faruffini, Legazione di Niccolò Machiavelli, cittadino e segretario fiorentino, a Imola per incontrare Cesare Borgia, Duca di Valentino, 1864, olio su tela, part., Pavia, Musei Civici, Quadreria dell’Ottocento.

» pp. 122-123 Paolo Caliari detto il Veronese, Le nozze di Cana, 1563, olio su tela, part., Parigi, Musée du Louvre. » p. 149 Raffaello Sanzio, Ritratto di Fedra Inghirami, 1516, olio su tavola, part., Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina. » p. 163 Vittore Carpaccio, La Vergine che legge, 1505 circa, olio su tavola trasferito su tela, part., Washington, National Gallery of Art. » p. 178 Scuola italiana, Concerto bucolico, XVI secolo, dipinto, Bourges (Francia), Hotel Lallemant. » p. 193 Jan Massys o Metsys, Compagnia gioviale, 1564, olio su tavola, part., Vienna, Kunsthistorisches Museum. » pp. 226-227 Eugène Delacroix, Ruggiero porta via Angelica sull’ippogrifo, 1860 circa, olio su tela, Collezione privata. » p. 227 Arnold Böcklin, Ruggiero e Angelica, 1871-74, olio su tavola, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie. » pp. 228 e 648 Tiziano Vecellio, Ritratto di Ariosto (?), 1509 circa, olio su tela, Londra, The National Gallery. » p. 230 Alzato della città di Ferrara, 1499, Modena, Archivio di Stato. » p. 243 Jacopo Bertoja e Girolamo Mirola, Fiordelisa,

694

Orlando, Ruggiero, Brandimarte nella foresta incantata, 1569-70, affresco, part., Parma, Palazzo del Giardino.

Italo Calvino, XIX secolo, fotografia.

» p. 357 (Attrib.) Girolamo Romanino, Alcuni mercanti presentano a Bartolomeo Colleoni vestiti e tappeti, 1520-30, affresco dalla Visita di Cristiano I di Danimarca, part., Cavernago (Bergamo), Castello di Malpaga, Salone d’Onore. » pp. 358 e 504 Santi di Tito, Ritratto di Niccolò Machiavelli, 1540 circa, part., Firenze, Palazzo Vecchio. » p. 360 Francesco di Lorenzo Rosselli, Pianta della catena (fac-simile dall’originale), 1471-82, part., Firenze, Museo Storico Topografico “Firenze com’era”. » p. 371 Ritratto del cardinale Pedro Loys Borgia e del segretario don Micheletto Corella accanto a Cesare Borgia in conversazione con Niccolò Machiavelli, XVI secolo, olio su tela, part., Collezione privata. » p. 371 Altobello Melone, Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia, 1513 circa, olio su tavola, part., Bergamo, Accademia Carrara. » p. 371 L’imperatore Giulio Cesare, replica del XX secolo di un originale di età romana in bronzo, part., Torino, Porta Palatina. » p. 454 Luigi Pirandello in nave, da New York all’Italia, 1935, part., fotografia. » pp. 470-471 Giorgio Vasari e Jan Stradano, Leone X visita Firenze, 1555 circa, affresco, part., Firenze, Palazzo Vecchio, Quartiere di Leone X, Sala di Leone X.

Indice delle illustrazioni

» p. 471 Raffaello Sanzio, Ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, in possesso di un contenitore d’oro, 1518 circa, olio su tela, part., Collezione privata.

» p. 543 Scuola di Fontainebleau, Scena di una commedia italiana, XVI secolo, dipinto, part., Bayonne (Francia), Bonnat Museum.

» p. 472 e 504 Ritratto di Francesco Guicciardini, olio su tela, fine XVI-XVII secolo, part., Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca Ambrosiana.

» pp. 552-553 Giambattista Tiepolo, Rinaldo abbandona Armida, 1750-55, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi.

» p. 474 Francesco di Lorenzo Rosselli, Pianta della catena (fac-simile dall’originale), 1471-82, part., Firenze, Museo Storico Topografico “Firenze com’era”. » p. 476 Giorgio Vasari, La città di Firenze, dal Ritratto del duca Alessandro de’ Medici, 1535, olio su tela, part., Firenze, Galleria degli Uffizi. » p. 476 Giorgio Vasari, La sconfitta dei Pisani alla torre di San Vincenzo (Battaglia di San Vincenzo, 1505), 1569, affresco, part., Firenze, Palazzo della Signoria, Salone dei Cinquecento. » p. 476 (Copia dopo) Raffaello Sanzio, Ritratto di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, XVI secolo, tempera e olio su tela, part., New York, The Metropolitan Museum of Art. » pp. 510-511 Giovan Battista Crespi detto il Cerano, Scene della vita di San Carlo Borromeo: San Carlo visita gli appestati, 1602-03, tempera su tela, part., Milano, Duomo. » p. 528 Antoine Le Nain, La messa pontificale, olio su rame, XVII secolo, Parigi, Musée du Louvre.

» p. 553 Eugène Delacroix, Clorinda salva Olinda e Sofronia sulla pira, XIX secolo, olio su tela, Monaco, Neue Pinakothek. » pp. 554 e 648 Jacopo Bassano, Ritratto di Torquato Tasso, 1560-70, olio su tela, part., Kreuzlingen (Svizzera), Collezione Heinz Kisters. » p. 556 La flotta aragonese ritorna dalla battaglia di Ischia il 6 luglio 1465 (Tavola Strozzi), XV secolo, part., Napoli, Certosa e Museo di San Martino. » p. 572 Ambroise Dubois, Il battesimo di Clorinda, 1601-06, olio su tela, part., Fontainebleau, Musée National du Chateau. » p. 572 Paolo de Matteis, Erminia e Tancredi, 1719-20, olio su tela, part., Bari, Collezione Banca Carime. » p. 572 François Boucher, Rinaldo e Armida, 1734, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre. » p. 600 Cesare Pavese nel Monferrato, 1930-40, part., fotografia. » p. 663

Teatro visto attraverso il sipario, fotografia.

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