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Italian Pages [842] Year 2021
Nicola Abbagnano Giovanni Fornero con la collaborazione di GIANCARLO BURGHI
vivere la filosofia
2
Dall’Umanesimo a Hegel
INSIEME VERSO IL
SOSTENIBILITÀ COMPETENZE INCLUSIONE
Nicola Abbagnano Giovanni Fornero con la collaborazione di GIANCARLO BURGHI
vivere la filosofia
2
Dall’Umanesimo a Hegel
CONFIGURAZIONE COMPLETA DEL CORSO VIVERE LA FILOSOFIA 978 88 395 38802
Volume 1 Dalle origini alla scolastica + L’officina della cittadinanza + Libro liquido + KmZero
978 88 395 38819
Volume 2 Dall’Umanesimo a Hegel + Libro liquido + KmZero
978 88 395 38826
Volume 3 Da Schopenhauer alle nuove frontiere del pensiero + Libro liquido + KmZero
978 88 395 38833
Volume 1 Dalle origini alla scolastica + L’officina della cittadinanza + CLIL Philosophy in English 1 + Libro liquido + KmZero
978 88 395 38840
Volume 2 Dall’Umanesimo a Hegel + CLIL Philosophy in English 2 + Libro liquido + KmZero
978 88 395 38857
Volume 3 Da Schopenhauer alle nuove frontiere del pensiero + CLIL Philosophy in English 3 + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37584
Volume 1 Dalle origini alla scolastica + ITE + KmZero
978 88 395 37591
Volume 2 Dall’Umanesimo a Hegel + ITE + KmZero
978 88 395 37607
Volume 3 Da Schopenhauer alle nuove frontiere del pensiero + ITE + KmZero
VIVERE LA FILOSOFIA - EDIZIONE CON CLIL
LE BASI DELLA FILOSOFIA
RISORSE PER IL DOCENTE
• Proposte di programmazione con spunti di connessioni pluridisciplinari e con l’educazione civica • Test d’ingresso • Prove di verifica aggiuntive e relative verifiche equipollenti per la didattica inclusiva • Prove di valutazione delle competenze • Materiali aggiuntivi per la preparazione all’esame di Stato • Verifiche di educazione civica
Consulenza editoriale: Alfredo Guaraldo Redazione e revisione del testo: Elisa Bruno Redazione e revisione delle zone antologiche e di L’officina dell’esame: Chiara Fenoglio Progetto grafico: Elena Marengo Copertina: Alessandro Damin Coordinamento grafico: Cinzia Marchetti Rights & Permissions: Beatrice Valli Ricerca iconografica: Ilaria Lazzeri Impaginazione elettronica: Essegi, Torino Controllo qualità: Silvia Manetta, Andrea Mensio Coordinamento multimediale: Stefano Rosselli Segreteria di redazione: Enza Menel, Silvia Quartieri, Elisabetta Taldone Sono in tutto o in buona parte di Giovanni Fornero il cap. 1 dell’unità 1; i capp. 1 e 3 dell’unità 2; i capp. 2 e 3 dell’unità 3; i capp. 2 e 4 dell’unità 5; l’unità 6; l’unità 7; l’unità 8. Sono in tutto o in buona parte di Nicola Abbagnano, con revisione di Giovanni Fornero, i capp. 2, 3, 4 e 5 dell’unità 1; il cap. 2 dell’unità 2; il par. 7 del cap. 1 dell’unità 3; il cap. 4 dell’unità 3; l’unità 4; il cap. 3 dell’unità 5. Sono di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero il cap. 1 dell’unità 3 e il cap. 1 dell’unità 5. Per i capp. 1, 3 e 4 dell’unità 3, i capp. 1, 2 e 4 dell’unità 4, il cap. 3 dell’unità 6 e i capp. 2 e 3 dell’unità 8 ha collaborato Giancarlo Burghi. Per il par. 5 del cap. 1 dell’unità 3 ha collaborato Carlo Barghini. Per il par. 1 del cap. 1 dell’unità 8 hanno collaborato Giancarlo Burghi e Mario Trombino. Sono di Giancarlo Burghi: - le pagine di apertura delle sezioni; - le pagine di “Il racconto di una vita”; - le rubriche “La filosofia che vive”; - la scheda Da Spinoza alle neuroscienze: l’illusione della libertà e Spazio e tempo fra scienza e filosofia (“Filosofia e scienza”); - le schede Spinoza e la pittura fiamminga del Seicento e L’infinito e il sublime tra arte e filosofia (“Filosofia e arte”); - la scheda La sfida del male da Voltaire a oggi (“Filosofia e letteratura”); - le Questioni. Sono di Gaetano Chiurazzi le schede Dal libro della natura al dna: Galilei e la scienza come decodifica; Dal reale al virtuale: Cartesio e la matematizzazione del mondo (“Filosofia e scienza”). Elisa Bruno ha realizzato le attività di “Classe capovolta”, “Educazione civica”, “Per l’esposizione orale”, “Snodi pluridisciplinari”, “Compito di realtà” (in “Filosofia e arte” e nei “Nodi del pensiero”); le rubriche “L’eredità di...”; gli apparati “Sintesi e glossario” e “Mappe”; le schede Newton e la nascita della fisica classica (“Filosofia e scienza”) e Napoleone per Hegel e per Manzoni (“Filosofia e letteratura”); i percorsi “I nodi del pensiero” (sulla base di materiali preesistenti di Giancarlo Burghi). Chiara Fenoglio ha realizzato le attività di “Guida alla riflessione e alla produzione di un testo” e le Verifiche di unità. Matteo Bergamaschi e Tommaso Lanosa sono autori di “L’officina dell’esame”; da loro è inoltre derivata l’idea della “Riflessione critica” nelle zone “Per l’esposizione orale”. Per gli elementi grafici ricorrenti nelle schede di “Filosofia e scienza” e nei percorsi “I nodi del pensiero”: isoga/Shutterstock, Zoonar GmbH/Alamy Stock Photo. In copertina: Cartesio, illustrazione di Túlio Fagim.
Tutti i diritti riservati © 2021, Pearson Italia, Milano - Torino
978 88 395 38819 A - 978 88 395 38840 A Il presente testo è di proprietà di Pearson Italia la quale non è associata, né direttamente né indirettamente, a eventuali marchi di terzi che venissero richiamati per gli scopi illustrativi ed educativi che ha la pubblicazione. Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org
Stampato per conto della casa editrice presso L.E.G.O. S.p.A., Lavis (TN), Italia Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8
Anno 21 22 23 24 25 26 27 28
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indice generale IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO Dall’Umanesimo alla rivoluzione scientifica IL FRANTUMARSI DEL “VECCHIO MONDO” L’UOMO ARTEFICE DEL SUO DESTINO La crisi dell’universalismo medievale La nascita di una cultura laica La fiducia in una ragione libera e critica Nuove terre e nuovi cieli L’uomo «faber fortunae suae» La rivalutazione dell’indagine naturale
1 2 2 2 3 3 4 4
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA UNO SGUARDO ALLA SEZIONE
4 5
UNITÀ 1 L’UMANESIMO E IL RINASCIMENTO
6
CAPITOLO 1
LA CULTURA UMANISTICO-RINASCIMENTALE 1. Il contesto storico-sociale 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
per saperne di più Il rapporto del Rinascimento con il Medioevo
Le nuove figure e i nuovi luoghi della cultura I destinatari della nuova cultura Il Rinascimento come “ritorno al principio” L’Umanesimo tra filologia e filosofia La concezione dell’essere umano La concezione della storia La concezione della natura La nuova concezione del sapere L’Umanesimo tra Italia ed Europa
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
7 7 8 9 9 10 11 12 14 15 15 16 19
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO Video: La filosofia tra Quattrocento e Cinquecento • Carta interattiva • Linea del tempo interattiva Filmato didattico: Il Rinascimento • Test di logica • Esercizi interattivi: Medioevo, Rinascimento e civiltà moderna • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
III
CAPITOLO 2
IL RITORNO A PLATONE E AD ARISTOTELE
21
1. 2. 3.
21 22 23
Il platonismo rinascimentale L’aristotelismo rinascimentale La disputa fra i platonici e gli aristotelici
27
SINTESI • MAPPE CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: La disputa fra i platonici e gli aristotelici • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 3
RINASCIMENTO E RELIGIONE
29
1. 2.
29 30
Il ritorno alle origini del cristianesimo L’umanismo e il pacifismo di Erasmo da Rotterdam LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
L’attualità della lezione di Erasmo sulla pace
3. 4.
La Riforma protestante e i suoi maggiori esponenti La reazione della Chiesa cattolica
SINTESI • MAPPE
32 33 35 36
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: L’età della Riforma • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 4
RINASCIMENTO E POLITICA
38
1. 2. 3.
38 38 40
L’ideale di un rinnovamento politico Il ritorno alle origini storiche: Machiavelli Il ritorno al diritto naturale
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
43
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: Machiavelli • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 5
IV
RINASCIMENTO E NATURA
45
1. 2. 3. 4.
45 46 47 53
L’interesse per il mondo naturale Telesio Bruno Campanella
indice generale
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
57
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Test di logica • Esercizi interattivi: Il naturalismo di Bruno; Il pensiero di Campanella • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ
60
UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI
62
CAPITOLO 1
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
63
1. 2. 3.
63 66 69 76
Lo schema concettuale sotteso alla nuova scienza Il contesto storico, sociale e culturale della rivoluzione scientifica La rivoluzione astronomica per saperne di più Le tesi cosmologiche di Bruno e la scienza contemporanea
SINTESI • MAPPE
77
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Videolezione: Galileo Galilei - La fondazione della scienza moderna • Esercizi interattivi: La nascita della scienza moderna; Il sistema copernicano • Audiosintesi
CAPITOLO 2
BACONE
79
1. 2. 3.
79 81 84
I caratteri generali dell’opera di Bacone La scienza come «interpretazione» della natura Il metodo scientifico
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
87
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: La critica di Bacone ai pregiudizi della mente • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 3
GALILEI IL RACCONTO DI UNA VITA Una vita consacrata alla scienza La frattura con la Chiesa e l’isolamento 1. 2.
L’autonomia della ricerca scientifica Le scoperte fisiche e astronomiche per saperne di più Il valore del cannocchiale per la storia della scienza
89 90 90 92 93 96 98
V
3. 4. 5. 6.
Il metodo della nuova scienza La struttura concettuale della nuova scienza Il processo La riabilitazione di Galilei e l’attuale posizione della Chiesa
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
102 106 108 110 112
TESTI
115 T1 Il modo corretto di intendere la Bibbia e di fare ricerca (Lettera a Cristina di Lorena) 115 117 T2 Le qualità oggettive e le qualità soggettive (Il saggiatore)
FILOSOFIA E SCIENZA DAL LIBRO DELLA NATURA AL DNA: SNODI PLURIDISCIPLINARI GALILEI E LA SCIENZA COME DECODIFICA
120
FILOSOFIA E SCIENZA NEWTON E LA NASCITA DELLA FISICA CLASSICA
122
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audio - Il filosofo si racconta • Laboratorio sul testo: Galilei, L’esperimento del «gran navilio» (da Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) • Audiolettura: Galilei, Il modo corretto di intendere la Bibbia e di fare ricerca (da Lettera a Cristina di Lorena) • Questione: La natura è un organismo o un meccanismo? (Bruno, Bacone) • Test di logica • Esercizi interattivi: L’autonomia del sapere in Galilei; Le scoperte e il metodo di Galilei • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ
124
L’OFFICINA DELL’ESAME
128
TRA SEICENTO E SETTECENTO Il razionalismo e l’empirismo L’INGRESSO NELLA MODERNITÀ LA CENTRALITÀ DEL SOGGETTO PENSANTE Un secolo oscuro e insieme luminoso Una rinnovata fiducia nella ragione Dall’ontologia alla gnoseologia Dal realismo al soggettivismo Tra ragione ed esperienza Dal soggettivismo allo scetticismo LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA UNO SGUARDO ALLA SEZIONE
VI
indice generale
131 132 132 132 132 132 134 134 134 135
UNITÀ 3 IL RAZIONALISMO E I SUOI INTERPRETI
136
CAPITOLO 1
CARTESIO IL RACCONTO DI UNA VITA La ricerca di una «scienza meravigliosa» La stesura dei trattati scientifici 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Il metodo Dal dubbio al cogito Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane Il dualismo Il mondo fisico Il mondo umano Il razionalismo francese dopo Cartesio
137 138 138 143 145 147 151 155 156 159 161
FILOSOFIA E SCIENZA DAL REALE AL VIRTUALE: SNODI PLURIDISCIPLINARI CARTESIO E LA MATEMATIZZAZIONE DEL MONDO
162
L’EREDITÀ DI CARTESIO
164
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
165
TESTI
169 169 171 173 175
T1 T2 T3 T4
Le regole del nuovo metodo (Discorso sul metodo) Un principio indubitabile (Meditazioni metafisiche) La natura del soggetto pensante (Meditazioni metafisiche) L’esistenza di Dio, l’errore, la verità (Discorso sul metodo)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI TRA SEICENTO E SETTECENTO Video: Razionalismo ed empirismo tra Seicento e Settecento • Carte interattive • Linee del tempo interattive Videolezione: Cartesio - L’io quale fondamento del conoscere • Audio - Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Cartesio • Linea del tempo interattiva: La vita di Cartesio • Schemi audiovisivi: Le regole del metodo; La discussione intorno al cogito; Le prove dell’esistenza di Dio • Testi con analisi attiva: Cartesio, La prima prova dell’esistenza di Dio (da Meditazioni metafisiche); Cartesio, La concezione meccanicistica della natura (da I principi della filosofia); Cartesio, Le passioni e la ragione (da Le passioni dell’anima) • Laboratorio sul testo: Cartesio, Il buon senso e il ritorno a sé (da Discorso sul metodo) • Audiolettura: Cartesio, Un principio indubitabile (da Meditazioni metafisiche) • Questione: Gli uomini sono esseri animati o semplici macchine? (Cartesio, La Mettrie) • Test di logica • Esercizi interattivi: Il dubbio e il cogito; Il mondo fisico e il mondo umano • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 2
PASCAL
177
1. 2. 3. 4. 5. 6.
177 178 179 180 181 184
La vita e le opere Il problema del senso della vita I limiti della mentalità comune I limiti della scienza I limiti della filosofia La ragionevolezza del cristianesimo
VII
7. 8.
185 186
La scommessa su Dio Il fideismo di Pascal
187
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Questione: Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede? (Cartesio, Pascal) • Esercizi interattivi: La concezione pascaliana dell’uomo • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 3
SPINOZA IL RACCONTO DI UNA VITA
189 190 190 193 196 197 207 212 214
Un martire della libertà di pensiero Una filosofia che si fa vita 1. 2. 3. 4. 5.
La concezione della filosofia La metafisica L’etica La gnoseologia La politica
L’EREDITÀ DI SPINOZA
217
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
218
TESTI
222 222 224 226
T1 Le definizioni fondamentali (Etica) T2 La concezione di Dio (Etica) T3 Il metodo geometrico applicato alle passioni
(Etica)
FILOSOFIA E SCIENZA DA SPINOZA ALLE NEUROSCIENZE: SNODI PLURIDISCIPLINARI L’ILLUSIONE DELLA LIBERTÀ
228
FILOSOFIA E ARTE SPINOZA E LA PITTURA FIAMMINGA DEL SEICENTO
232
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audio - Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Spinoza • Linea del tempo interattiva: La vita di Spinoza • Esercizi interattivi: La sostanza; Etica e conoscenza • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 4
LEIBNIZ
VIII
1. 2.
La vita e le opere L’idea di fondo del pensiero leibniziano
3. 4. 5. 6.
La distinzione tra verità di ragione e di fatto La concezione della sostanza Il fondamento metafisico della fisica La concezione dell’universo
per saperne di più Leibniz e il calcolo infinitesimale
indice generale
234 234 235 236 237 239 239 241
7. 8.
La teoria della conoscenza La concezione di Dio e i problemi della «teodicea»
245 246
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
249
TESTI
254 254 255 257
T1 Le monadi e le loro caratteristiche (Monadologia) T2 L’armonia prestabilita (Monadologia) T3 Il problema del male (Saggi di teodicea)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Questione: Il linguaggio significa idee o comunica sentimenti? (Leibniz, Rousseau) • I nodi del pensiero: Dio è oggetto di conoscenza o di fede? • Test di logica • Esercizi interattivi: La sostanza individuale; Le monadi • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ
259
QUESTIONE
Cartesio • Spinoza La ragione può vincere le passioni?
UNITÀ 4 IL PENSIERO INGLESE TRA RAGIONE ED ESPERIENZA: DA HOBBES A HUME
262
268
CAPITOLO 1
HOBBES IL RACCONTO DI UNA VITA 1. 2. 3. 4.
269
Un’esistenza condizionata dalla paura L’impegno per una scienza della politica
270 270 272
La concezione della ragione e della conoscenza La prospettiva materialistica L’etica La politica
276 277 278 279
LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Dal giuspositivismo di Hobbes allo statuto dei diritti umani
287
L’EREDITÀ DI HOBBES
288
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
289
TESTI
292 292 295 297
T1 La guerra di tutti contro tutti (Leviatano) T2 Le tre leggi di natura (Leviatano) T3 Lo Stato come «dio mortale» (Leviatano)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Filmato didattico: Locke e l’empirismo • Audio - Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Hobbes • Linea del tempo interattiva: La vita di Hobbes • Audiolettura: Hobbes, Lo Stato come «dio mortale» (da Leviatano) • Esercizi interattivi: Il materialismo; Il pensiero politico • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
IX
CAPITOLO 2
LOCKE IL RACCONTO DI UNA VITA
299 300
Un’esistenza tra filosofia e militanza politica 300 La “scoperta” della politica e la costruzione della dottrina liberale 301 1. 2. 3. 4. 5.
I tratti generali dell’empirismo L’analisi critica della ragione La gnoseologia La politica La difesa della tolleranza LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Locke e il principio della laicità dello Stato
307 307 308 314 318 320
L’EREDITÀ DI LOCKE
321
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
322
TESTI
326 326 328 330
T1 L’origine delle idee (Saggio sull’intelletto umano) T2 L’inconoscibilità della sostanza (Saggio sull’intelletto umano) T3 La tolleranza come segno del cristianesimo autentico (Lettera sulla tolleranza)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audio – Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Locke • Linea del tempo interattiva: La vita di Locke • Test di logica • Esercizi interattivi: Le idee e l’attività della mente; Il pensiero politico • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 3
BERKELEY
333
1. 2. 3.
Un pensatore eclettico Il nominalismo L’immaterialismo
333 333 334
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
339
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: Berkeley • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 4
HUME
341
1. 2. 3.
341 342 349
La vita e le opere La teoria della conoscenza La teoria morale
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
X
indice generale
352
TESTI
T1 Il nesso causale, un principio irrinunciabile (Trattato sulla natura umana) T2 La credenza nell’esistenza del mondo esterno (Trattato sulla natura umana)
355 355 357
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Carta interattiva: I luoghi di Hume • Esercizi interattivi: Hume • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ
359
QUESTIONE
Cartesio • Locke La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?
L’OFFICINA DELL’ESAME I NODI DEL PENSIERO I NODI DEL PENSIERO
QUAL È L’ORIGINE DEL POTERE? CHE COS’È LA SOSTANZA?
362
368
370 374
IL SETTECENTO L’Illuminismo UNA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE LA LUCE DELLA RAGIONE Tra assolutismo illuminato e rivoluzione La battaglia dei Lumi contro le tenebre L’uomo “maggiorenne” Dalla critica del passato all’impegno per il futuro Il nuovo ruolo del filosofo Le nuove modalità comunicative Un nuovo Umanesimo Le radici della filosofia dei Lumi Un «immenso laboratorio» di nuovi valori LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA UNO SGUARDO ALLA SEZIONE
377 378 378 378 379 380 380 380 381 381 382 382 383
XI
UNITÀ 5 VICO, GLI ILLUMINISTI E ROUSSEAU
384
CAPITOLO 1
VICO
385
1. 2. 3. 4.
385 386 387 391
La vita e le opere La concezione del sapere La storia come oggetto di una «scienza nuova» La concezione della poesia
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
393
TESTI
396 396 396
Il metodo e l’oggetto propri della conoscenza umana T1 Le legge della storia ideale (Scienza nuova) CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI IL SETTECENTO Video: Una rivoluzione del pensiero • Carta interattiva • Linea del tempo interattiva
Filmato didattico: Il progetto dell’Enciclopedia • Esercizi interattivi: Vico • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 2
I CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO
398
1. 2. 3. 4. 5. 6.
398 399 401 402 404 406
Il programma illuministico Le matrici sociali e culturali del movimento Illuminismo e metafisica Illuminismo e religione Illuminismo e storia Illuminismo e politica
SINTESI • MAPPE
410
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: Illuminismo e religione; Illuminismo e politica • Audiosintesi
CAPITOLO 3
L’ILLUMINISMO FRANCESE
412
1. 2. 3.
412 413 415
Bayle Montesquieu Voltaire
FILOSOFIA E LETTERATURA LA SFIDA DEL MALE DA VOLTAIRE A OGGI
417
4. 5. 6. 7. 8.
420 421 423 424 425
SNODI PLURIDISCIPLINARI
L’Enciclopedia Diderot D’Alembert Condillac I materialisti
SINTESI • MAPPE
XII
indice generale
427
TESTI
Montesquieu T1 La tripartizione delle funzioni fondamentali dello Stato (Lo spirito delle leggi) Voltaire T2 La tolleranza come esigenza della ragione (Trattato sulla tolleranza)
429 429 429 431 431
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Questione: Gli uomini sono esseri animati o semplici macchine? (Cartesio, La Mettrie) • Audiolettura: Voltaire, La tolleranza come esigenza della ragione (da Trattato sulla tolleranza) • Esercizi interattivi: Montesquieu; Voltaire; Diderot; Condillac • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 4
ROUSSEAU IL RACCONTO DI UNA VITA
433
1. 2. 3. 4.
442 444 449 450
434 Dal “paradiso” infantile all’impatto con la società 434 DALLA VITA AL PENSIERO La ricerca di una “patria”: i luoghi-simbolo della vita di Rousseau 437 Dal successo alla persecuzione e all’isolamento 438 DALLA VITA AL PENSIERO La ricerca della “marginalità” tra natura e società 440
Il Discorso sulle scienze e le arti Il Discorso sull’origine della disuguaglianza Il pensiero della maturità e la Nuova Eloisa Il Contratto sociale LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
L’éthos democratico da Rousseau alla Costituzione italiana
5.
452 455
L’Emilio
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
458
TESTI
461 461
La teoria della società T1 La perdita dell’originario stato di felicità (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini)
T2 La clausola alla base del patto sociale (Il contratto sociale)
461 463
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audio – Il filosofo si racconta • Questioni: Il linguaggio significa idee o comunica sentimenti? (Leibniz, Rousseau); La natura umana è malvagia o buona? (Hobbes, Rousseau) • Esercizi interattivi: Lo stato di natura; Il contratto sociale • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ
UNITÀ 6 KANT
IL RACCONTO DI UNA VITA Una vita nell’“ordine” della ragione DALLA VITA AL PENSIERO Una ragione che richiede disciplina
Gli scritti di Kant DALLA VITA AL PENSIERO La libertà umana: da ideale della ragione a realtà storica
465
468 470 470 472 475 475
XIII
CAPITOLO 1
IL PROGETTO FILOSOFICO
479
1. 2. 3. 4.
479 479 480 481
Il percorso filosofico di Kant Le basi del criticismo nella dissertazione del 1770 Il criticismo come “filosofia del limite” L’orizzonte storico del criticismo
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
482
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Videolezione: Kant – La “rivoluzione copernicana” nella filosofia • Audio – Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Kant • Linea del tempo interattiva: La vita di Kant • Esercizi interattivi: La dissertazione del 1770 • Audiosintesi
CAPITOLO 2
LA CRITICA DELLA RAGION PURA
484
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
484 485 488 490 491 492 494 504
Il problema generale I giudizi sintetici a priori La “rivoluzione copernicana” di Kant Le facoltà conoscitive e la partizione della Critica della ragion pura Il concetto kantiano di “trascendentale” e il senso complessivo dell’opera L’estetica trascendentale L’analitica trascendentale La dialettica trascendentale
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
511
TESTI
I princìpi fondamentali del criticismo T1 Il «tribunale» della ragione (Critica della ragion pura) T2 La “rivoluzione copernicana” (Critica della ragion pura) L’analitica trascendentale T3 I concetti puri dell’intelletto (Critica della ragion pura) T4 La deduzione trascendentale dei concetti puri (Critica della ragion pura) T5 L’io penso (Critica della ragion pura) La dialettica trascendentale T6 Le idee di anima, di mondo e di Dio (Critica della ragion pura)
516 516 516 518 520 520 522 524 526 526
FILOSOFIA E SCIENZA SPAZIO E TEMPO FRA SCIENZA E FILOSOFIA
528
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: Le idee della ragione; Le prove dell’esistenza di Dio • Testi con analisi attiva: Kant, Un’inversione di prospettiva (da Critica della ragion pura); Kant, Gli schemi trascendentali (da Critica della ragion pura); Kant, La critica della psicologia razionale (da Critica della ragion pura); Kant, La critica della cosmologia razionale (da Critica della ragion pura); Kant, La critica della prova cosmologica (da Critica della ragion pura) • Laboratorio sul testo: Kant, Le due fonti della conoscenza (da Critica della ragion pura) • Test di logica • Esercizi interattivi: I giudizi e la “rivoluzione copernicana”; L’estetica trascendentale; L’analitica trascendentale; La dialettica trascendentale • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
XIV
indice generale
CAPITOLO 3
LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
532
1. 2. 3. 4. 5. 6.
532 533 534 535 542 544
Gli obiettivi della seconda Critica I caratteri generali dell’etica kantiana L’articolazione dell’opera I princìpi della ragion pura in ambito pratico I postulati della ragion pratica Il primato della ragion pratica
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
546
TESTI
551 551 551 554 554 555
La genesi della dottrina morale T1 La prima formula dell’imperativo categorico (Fondazione della metafisica dei costumi) I postulati della ragion pratica T2 L’esistenza di Dio (Critica della ragion pratica) T3 La libertà dell’essere umano (Critica della ragion pratica)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schema audiovisivo: Le tre formule dell’imperativo categorico • Testi con analisi attiva: Kant, La seconda formula dell’imperativo categorico (da Fondazione della metafisica dei costumi); Kant, La terza formula dell’imperativo categorico (da Fondazione della metafisica dei costumi) • Laboratorio sul testo: Kant, Il regno dei fini (da Fondazione della metafisica dei costumi) • Audiolettura: Kant, La libertà dell’essere umano (da Critica della ragion pratica) • Esercizi interattivi: L’etica kantiana • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 4
LA CRITICA DEL GIUDIZIO
557
1. 2. 3. 4. 5. 6.
557 560 561 564 565 567
L’argomento e la struttura dell’opera Le definizioni della bellezza L’universalità del giudizio estetico L’analisi della bellezza artistica L’analisi del sublime I giudizi sulla finalità della natura
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
569
TESTI
Il giudizio estetico T1 Alcune caratteristiche del giudizio di gusto (Critica del Giudizio) T2 Il bello e il sublime (Critica del Giudizio)
573 573 573 576
FILOSOFIA E ARTE L’INFINITO E IL SUBLIME TRA ARTE E FILOSOFIA
578
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: Le definizioni del bello; Le due tipologie di sublime • Testo con analisi attiva: Kant, L’arte bella (da Critica del giudizio) • Esercizi interattivi: La Critica del giudizio; Il giudizio teleologico • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
XV
CAPITOLO 5
LE RIFLESSIONI SULLA RELIGIONE, SUL DIRITTO E SULLA STORIA
580
1. 2. 3.
580 583 587
La religione Il diritto e lo Stato La costruzione della pace LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
L’attualità del progetto cosmopolitico di Kant
4.
589 591
La storia
L’EREDITÀ DI KANT
594
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
596
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Testo con analisi attiva: Kant, Ragione e religione (da La religione entro i limiti della semplice ragione) • Questione: La storia ha un andamento ciclico o lineare? (Vico, Kant); Il bello è soggettivo o universale? (Voltaire, Hume, Kant) • Esercizi interattivi: La religione nei limiti della ragione; I fondamenti del diritto • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ QUESTIONE EDUCAZIONE CIVICA
Hume • Kant Il bene consiste nell’utile o nel dovere?
L’OFFICINA DELL’ESAME
599
603
609
L’OTTOCENTO Il Romanticismo LA “RIVOLUZIONE” ROMANTICA LA LOTTA CONTRO LA RAGIONE ILLUMINISTIC A Un’epoca di rivoluzioni Dal tribunale della ragione al tribunale della storia La nuova concezione della storia Dalla ragione al sentimento Il senso dell’infinito La celebrazione degli individui e delle nazioni LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA UNO SGUARDO ALLA SEZIONE
XVI
indice generale
613 614 614 614 615 615 615 616 616 617
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO
618
CAPITOLO 1
IL ROMANTICISMO TRA FILOSOFIA E LETTERATURA
619
1. 2. 3.
619 620 621
Una definizione preliminare del Romanticismo Gli albori del Romanticismo: il circolo di Jena Gli atteggiamenti caratteristici del Romanticismo tedesco
635
SINTESI • MAPPE CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI L’OTTOCENTO Video: La filosofia dell’epoca romantica • Carta interattiva • Linea del tempo interattiva Filmato didattico: La nascita dell’idealismo • Esercizi interattivi: I temi del Romanticismo • Audiosintesi
CAPITOLO 2
FICHTE IL RACCONTO DI UNA VITA La missione di una vita: costruire la libertà DALLA VITA AL PENSIERO Fichte “contro” Spinoza L’INCONTRO
Fichte e Kant
Il superamento del kantismo 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
L’origine dell’idealismo nel dibattito sulla «cosa in sé» La nascita dell’idealismo tedesco La dottrina della scienza e i suoi princìpi La teoria della conoscenza La morale Il pensiero politico La concezione della storia
637 638 638 639 640 641 644 644 647 653 654 657 660
L’EREDITÀ DI FICHTE
662
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
663
TESTI
668 668 668 671 672 672
La dottrina della scienza e i suoi princìpi T1 L’auto-posizione dell’Io (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza) T2 L’opposizione del non-io (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza) Il primato della morale T3 Il dotto e il progresso dell’umanità (La missione del dotto)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audio – Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Fichte • Audiolettura: Fichte, Il dotto e il progresso dell’umanità (da La missione del dotto) • Test di logica • Esercizi interattivi: La «dottrina della scienza» ; Il pensiero politico • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
XVII
CAPITOLO 3
SCHELLING
675
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
675 676 677 678 682 687 688 690
La vita e le opere I caratteri generali del pensiero di Schelling Oltre Fichte: una nuova concezione dell’Assoluto La filosofia della natura Il sistema dell’idealismo trascendentale La filosofia dell’identità La filosofia della libertà La filosofia positiva
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
692
TESTI
696 696 696 698 698
La filosofia della natura T1 L’identità di spirito e natura (Idee per una filosofia della natura) L’idealismo trascendentale T2 L’arte come «organo» della filosofia (Sistema dell’idealismo trascendentale) CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Carta interattiva: I luoghi di Schelling • Esercizi interattivi: L’idealismo trascendentale; La filosofia dell’identità • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
VERIFICA DI UNITÀ
UNITÀ 8 HEGEL IL RACCONTO DI UNA VITA La costruzione del «regno del pensiero» DALLA VITA AL PENSIERO Il primato dello spirito sulla natura DALLA VITA AL PENSIERO Hegel, la Rivoluzione francese e Napoleone
Le opere
700
702 704 704 706 708 710
CAPITOLO 1
LE OPERE GIOVANILI E I FONDAMENTI DEL SISTEMA
712
1. 2. 3. 4.
712 715 718 719
I temi delle opere giovanili I fondamenti del sistema hegeliano I momenti dell’Assoluto e la divisione del sapere La legge del pensiero e della realtà: la dialettica
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
725
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Videolezione: Hegel – Lo spirito come storia • Audio – Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Hegel • Linea del tempo interattiva: La vita di Hegel • Schema audiovisivo: Le diverse forme dell’idealismo • Testi con analisi attiva: Hegel, All’origine della dialettica (da Frammento di sistema, Scritti teologici giovanili); Hegel, Dialettica kantiana e dialettica hegeliana (da Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio); Hegel, Il ruolo del negativo (da Scienze della logica) • Laboratorio sul testo: Hegel, La dialettica (da Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) • Esercizi interattivi: I tre momenti del sistema hegeliano • Audiosintesi
XVIII
indice generale
CAPITOLO 2
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
728
1. 2. 3. 4.
728 729 731 735
I caratteri generali della fenomenologia hegeliana La coscienza L’autocoscienza La ragione
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
739
TESTI
741 741 741 743
Le «figure» dello spirito T1 Servitù e signoria (Fenomenologia dello spirito) T2 La coscienza infelice (Fenomenologia dello spirito)
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: Le figure dell’autocoscienza; Lo spirito • Testo con analisi attiva: Hegel, Il cammino dello spirito (da Fenomenologia dello spirito) • Audiolettura: Hegel, La coscienza infelice (da Fenomenologia dello spirito) • Esercizi interattivi: La fenomenologia dello spirito • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
CAPITOLO 3
L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO
745
1. 2. 3. 4. 5.
745 752 754 755 756
La logica La filosofia della natura La filosofia dello spirito Il primo grado dello spirito: lo spirito soggettivo Il secondo grado dello spirito: lo spirito oggettivo LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Dall’«eticità» di Hegel al valore delle istituzioni nelle odierne democrazie
6.
La «storia del mondo» e la sua razionalità
761 765
FILOSOFIA E LETTERATURA NAPOLEONE PER HEGEL E PER MANZONI
767
7.
768
SNODI PLURIDISCIPLINARI
Il terzo e ultimo momento dello spirito: lo spirito assoluto
L’EREDITÀ DI HEGEL
772
SINTESI E GLOSSARIO • MAPPE
774
TESTI
778 La logica 778 778 T1 La logica come scienza del «pensare oggettivo» (Scienza della logica) La filosofia dello spirito 780 780 T2 I tre momenti dell’eticità (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) T3 La filosofia come sintesi di arte e religione (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) 782 CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: L’idea e le sue articolazioni; I momenti dell’eticità; I momenti della storia dell’arte • Testi con analisi attiva: Hegel, La circolarità del sistema (da Introduzione alla storia della filosofia); Hegel, La natura e lo spirito (da Lezioni sulla filosofia della storia); Hegel, Lo spirito oggettivo (da Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio); Hegel, La religione (da Lezioni sulla filosofia della religione) • Laboratorio sul testo: Hegel, La storia della filosofia (da Lezioni sulla storia della filosofia) • I nodi del pensiero: Dio è oggetto di conoscenza o di fede? • Test di logica • Esercizi interattivi: La filosofia della natura; Lo spirito oggettivo; Lo spirito assoluto • Audiosintesi • Testi aggiuntivi in piattaforma KmZero
XIX
VERIFICA DI UNITÀ QUESTIONE EDUCAZIONE CIVICA
784
Kant • Hegel La guerra: follia da evitare o tragica necessità?
L’OFFICINA DELL’ESAME I NODI DEL PENSIERO I NODI DEL PENSIERO I NODI DEL PENSIERO
CHE COS’È LA SOSTANZA? QUAL È L’ORIGINE DEL POTERE? CHE COS’È IL BELLO?
Indice dei NOMI
Indice delle voci di GLOSSARIO Indice delle voci di ENCICLOSOFIA Indice delle SCHEDE e delle RUBRICHE Indice delle ILLUSTRAZIONI
788
794
798 802 806
810 814 816 817 819
L’AGENDA 2030 Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che ha posto a tutti gli Stati aderenti 17 obiettivi, ognuno dei quali articolato in specifici traguardi. Forniamo di seguito il prospetto completo degli obiettivi.
VIDEO
Nelle pagine di questo libro si trovano le icone di alcuni di tali obiettivi, laddove i contenuti presentati siano connessi alle linee guida dell’obiettivo riportato o le richiamino espressamente: obiettivo 16 Pace, giustizia e istituzioni solide pp. 32, 287, 589, 761, 788
XX
indice generale
IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO Dall’Umanesimo alla rivoluzione scientifica
D
opo la terribile epidemia di peste che aveva funestato il Trecento, nel XV secolo comincia per l’Europa una lenta ripresa demografica ed economica, che segna la nascita del mondo moderno. Mentre le istituzioni universalistiche medievali (Chiesa e Impero) entrano in crisi, si assiste alle grandi scoperte geografiche e al consolidarsi degli Stati nazionali. Nonostante l’ampliarsi del mondo conosciuto, in questo periodo i maggiori centri di studio si trovano ancora in Francia, in Inghilterra, nella Germania meridionale e, soprattutto, in Italia, dove prende avvio una grande “rinascita” della cultura e dell’arte a cui gli storici hanno dato il nome “Rinascimento”. I filosofi rinascimentali riscoprono un nuovo interesse, da una parte, per l’essere umano e, dall’altra, per il mondo naturale, avviando un processo di riflessione e di riforma del metodo della conoscenza che culminerà nella rivoluzione scientifica.
L’OGGETTO il cannocchiale
Riproduzione di uno dei due cannocchiali realizzati da Galilei tra il 1609 e il 1610 (oggi conservati presso il Museo Galileo di Firenze).
Progettato e costruito da Galilei, il cannocchiale può essere considerato un simbolo del passaggio culturale dal Medioevo all’età moderna. Esso, infatti, è innanzitutto il prodotto di un sapere pratico, “artigianale”, che, portando la conoscenza a convergere con la tecnica, anticipa nel suo carattere fondamentale la scienza moderna. Questo strumento sottende inoltre una concezione della natura non più come teatro di essenze metafisiche o forze trascendenti, ma come dominio retto da regole proprie, che la mente umana può individuare. Infine, il cannocchiale è il simbolo di un sapere che mette in secondo piano i libri quali custodi della tradizione e dell’autorità, per studiare il mondo naturale direttamente, misurandone le proprietà con strumenti progettati dalla ragione umana.
1
IL FRANTUMARSI DEL “VECCHIO MONDO” L’UOMO ARTEFICE DEL SUO DESTINO
O suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole.
La crisi dell’universalismo medievale Se il tratto saliente dell’età medievale era l’universalismo, il passaggio all’epoca rinascimentale coincide con la fine della “Christianitas”, ovvero dell’Europa medievale quale organismo unito da una lingua sovranazionale (il latino) e da una visione del mondo dominante (quella cristiana). La nascita delle lingue volgari porta infatti al superamento dell’unità linguistica, mentre la Riforma protestante e il rafforzarsi degli Stati nazionali infrangono, rispettivamente, l’unità religiosa e quella politica. Il tramonto delle istituzioni universalistiche della Chiesa e dell’Impero è ormai irreversibile, e il cosiddetto “vecchio continente” perde la sua omogeneità, configurandosi sempre più come un variegato mosaico linguistico, religioso e geopolitico. Alla frantumazione dell’Europa nei regni nazionali, e a quella dell’Italia in numerosi piccoli Stati regionali, corrispondono sul piano sociale ed economico l’affermarsi della civiltà urbana e l’espansione di un’economia mercantile e monetaria. Il nuovo ceto emergente è la borghesia, una classe attiva e industriosa, impegnata nei traffici e tesa al guadagno.
La nascita di una cultura laica
La nuova realtà economico-sociale si riflette a livello culturale: l’atteggiamento contemplativo e il disinteresse per la dimensione materiale tipici del Medioevo lasciano il posto a una concezione dell’essere umano che si pone di fronte alla vita e al mondo in modo più dinamico e in(Giovanni Pico della Mirandola, traprendente. Discorso sulla dignità dell’uomo) A loro volta, le trasformazioni della cultura si accompagnano all’evoluzione dei centri della sua elaborazione. Se nel Medioevo questi erano costituiti sostanzialmente dalle università, monopoaccademia Nato nell’Atene del IV secolo a.C. per lio quasi esclusivo della Chiesa e degli ordini religiosi, indicare la scuola filosofica di Platone (Akadémeia), nei nel Rinascimento il sapere passa gradualmente in masecoli successivi il termine “accademia” aveva designato no a studiosi e intellettuali laici, espressione della non soltanto la scuola ateniese (nelle sue diverse fasi), borghesia cittadina: accanto alle università medievali ma anche altri centri di studio, che si rifacevano più – e anzi contrapponendosi a queste quali roccaforti o meno fedelmente alla dottrina platonica. Dopo la della filosofia scolastica – sorgono così le accademie, chiusura dell’Accademia di Atene (imposta nel 529 d.C. associazioni letterarie e filosofiche laiche e libere, che dall’imperatore bizantino Giustiniano), il nome venne faranno da modello per le accademie scientifiche del riutilizzato soltanto a partire dal 1462, quando Marsilio Seicento. Ficino ( p. 25) lo scelse per la nuova istituzione La laicizzazione della cultura va di pari passo con una culturale (di indirizzo neoplatonico) da lui fondata a reimpostazione della gerarchia dei saperi: alla strutFirenze su incarico di Cosimo de’ Medici. tura piramidale medievale – che vedeva la teologia al vertice, con le altre discipline come sue “ancelle” (ancillae theologiae) – si La villa medicea di sostituisce una visione più flessibile e trasversale, in cui ciascuno dei Careggi (Firenze), sede dell’Accademia vari ambiti culturali (filosofia, politica, letteratura, matematica, fisica neoplatonica ecc.) comincia a rivendicare la propria autonomia e la propria libertà fondata da Ficino nel XV secolo. operativa.
2
IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO Dall’Umanesimo alla rivolUzione scientifica
La fiducia in una ragione libera e critica Al di là degli elementi di fondo appena evidenziati, la cultura del Quattrocento e del Cinquecento si presenta assai variegata, come vedremo meglio nelle prossime pagine. In ognuna delle sue multiformi espressioni, è tuttavia rintracciabile la nuova forma mentis dell’uomo moderno, i cui tratti più caratteristici sono elencati da uno dei massimi studiosi di quest’epoca, Eugenio Garin (1909-2004):
‘
indipendenza da ogni autorità; fiducia nella ragione; fiducia nell’esperienza come contatto diretto con la natura; fiducia nella macchina che l’uomo costruisce; fiducia nella scienza non disgiunta dalla tecnica, anzi integrata da una concezione generale della realtà intesa come “natura” legata da necessarie “ragioni”. (E. Garin, La cultura del Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 135)
La modernità nasce dunque nel segno di un’ottimistica fiducia nell’autonomia, nell’audacia e nell’operosità della ragione umana. Questo aspetto è particolarmente evidente nella riflessione di alcuni studiosi – da Niccolò Machiavelli a Martin Lutero, da Giordano Bruno a Niccolò Copernico, per arrivare fino a Galileo Galilei – che, pur operando in ambiti diversi, trovano un comune principio ispiratore nell’esercizio di una ragione che si affranca dall’obbedienza all’auctoritas: Machiavelli rivendica l’autonomia della politica dai condizionamenti religiosi; Lutero rivendica la libertà del cristiano nell’interpretazione delle Scritture e nell’istituzione di un rapporto diretto con Dio; Bruno, Copernico e Galilei rivendicano l’autonomia dell’indagine scientifica dai condizionamenti della tradizione e dell’autorità religiosa. Grazie a questi pensatori, nel giro di poco più di un secolo si infrange l’antica visione del mondo e si aprono nuove strade del sapere, che porteranno alla riforma della religione, al rinnovamento della politica e a un modo diverso di intendere l’indagine sulla natura.
Nuove terre e nuovi cieli La critica della cultura medievale e dei suoi princìpi si affianca ad alcuni eventi e trasformazioni epocali, che sanciscono l’ingresso nella modernità diventandone quasi dei simboli. Da una parte, l’impresa di Cristoforo Colombo allarga i confini geografici noti, svelando l’esistenza di un nuovo mondo abitato da civiltà edificate su conoscenze e princìpi religiosi e morali diversi da quelli occidentali; dall’altra, la rivoluzione astronomica sovverte la cosmologia geocentrica e abbatte le anguste “mura” dell’universo aristotelico. Gradualmente entra in crisi l’idea di un cosmo finito e unico, creato da un Dio che lo avrebbe progettato con la Terra al centro, a fare da palcoscenico privilegiato per la vita umana. La nozione di “infinito” fa irruzione nel pensiero scientifico e filosofico, e davanti all’essere umano si spalancano nuove terre e nuovi cieli: l’universo dei moderni non somiglia più a una cittadella medievale, fortificata e chiusa in sé stessa, ma allo spazio infinito della geometria, su cui può esercitarsi la ragione con i suoi calcoli matematici.
Cristoforo Colombo
(1451-1506)
Nato a Genova in una famiglia di commercianti, Colombo è il più celebre dei grandi navigatori che tra il XV e il XVI secolo ampliarono i confini del mondo conosciuto. Convinto di poter raggiungere le “Indie” (la parte sud-orientale del continente asiatico) attraverso l’Atlantico, il 3 agosto 1492 salpò da Palos con tre caravelle e un equipaggio di circa 120 uomini. Dopo 79 giorni di navigazione, il 12 ottobre approdò sull’isola di Guanahani (da lui ribattezzata “San Salvador”), nell’arcipelago delle Bahamas, lungo le coste orientali delle Americhe.
Sebastiano del Piombo, Ritratto di Cristoforo Colombo, 1519 (New York, Metropolitan Museum of Art).
3
L’uomo «faber fortunae suae» La nuova concezione dell’universo implica il superamento di altri due “dogmi” della tradizione aristotelica: da una parte, l’opposizione tra mondo celeste (o sopra-lunare), considerato perfetto e incorruttibile, e mondo terrestre (o sub-lunare), considerato imperfetto e corruttibile; dall’altra la mentalità teocentrica, che poneva Dio e la salvezza dell’anima al centro dell’attività umana, svalutando la vita terrena. Se l’uomo medievale si considerava parte di un ordine cosmico già dato, che si doveva soltanto riconoscere intellettualmente, l’uomo moderno si trova a dover conquistare da sé il proprio posto nel mondo. Nel Discorso sulla dignità dell’uomo (1486) – che può essere considerato il manifesto della filosofia umanistico-rinascimentale – Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) presenta l’essere umano come il libero artefice di sé stesso, cioè come un essere che, diversamente dagli altri creati da Dio, ha una natura indeterminata e può scegliere chi diventare. Ma, se l’uomo è «artefice del proprio destino» (faber fortunae suae), allora la vita deve essere concepita come impegno nell’aldiquà, e non come fuga nell’aldilà. L’uomo moderno non è un “ospite” che si trova nel mondo di passaggio, né un pellegrino in attesa della vita celeste, ma un essere profondamente terreno, tenuto a “giocarsi” la propria sorte in primo luogo in questa vita. Non è più il peccatore o l’asceta, ma piuttosto il mercante o l’uomo d’affari, che trova la propria dignità nel lavoro, e non nell’otium celebrato dall’ascetismo medievale.
La rivalutazione dell’indagine naturale In questo nuovo contesto, lo studio del mondo naturale diventa uno strumento indispensabile per la realizzazione dei fini umani. La natura, infatti, è il luogo in cui la creatività e l’ingegno umani possono esprimersi. Rotti i legami con l’aristotelismo e con l’autorità religiosa, il naturalismo rinascimentale si propone di “spiegare la natura con la natura”, cioè cercando le leggi che le sono proprie, prescindendo da ipotesi religiose o da princìpi trascendenti. I presupposti e le condizioni per la genesi della scienza moderna sono ormai posti.
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA Londra
Moro Bacone
Lutero
Kues (Cusa) Parigi
Bordeaux
Montaigne
Berlino
Rotterdam
Erasmo
Eisleben
Cusano
Ginevra Milano Padova
Venezia
Pomponazzi Madrid
GALILEI Firenze Pisa
Machiavelli Ficino Pico
Roma BRUNO Napoli
Nola
Telesio
Cosenza
Stilo
4
IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO Dall’Umanesimo alla rivolUzione scientifica
Campanella
UNO SGUARDO ALLA SEZIONE IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO – DALL’UMANESIMO ALLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA UNITÀ 1
L’UMANESIMO E IL RINASCIMENTO Fra Quattrocento e Cinquecento tramontano la cultura e la mentalità medievali, in favore di un pensiero laico e libero, che segna l’ingresso nella modernità. Gradualmente si giunge a una rivalutazione dell’essere umano come artefice di sé stesso e del proprio destino, e della natura come ambiente in cui l’uomo può realizzarsi, a condizione di scoprirne le leggi. Sono i tratti fondamentali dell’Umanesimo e, più in generale, del Rinascimento, che nascono in Italia per diffondersi in tutta Europa.
Il rinnovamento tocca tutti gli ambiti: in filosofia l’aristotelismo di ascendenza medievale si oppone a un rinato platonismo; in ambito religioso la Riforma protestante induce la Chiesa cattolica a un’auto-revisione; in politica si pongono le basi per un ripensamento del modello assolutistico; in campo scientifico la natura comincia a essere indagata e spiegata mediante princìpi propri.
UNITÀ 2
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI Se il naturalismo rinascimentale crea i presupposti per la nascita della scienza moderna, l’elemento decisivo è la rivoluzione astronomica, che impone l’abbandono non soltanto della cosmologia di Aristotele, ma anche dei princìpi della sua filosofia naturale. Le grandi conquiste in ambito astronomico contribuiscono alla riflessione metodologica di Bacone e, soprattutto, di Galilei, che codifica il metodo sperimentale moderno.
VIDEO La filosofia tra Quattrocento e Cinquecento
Cusano
(1401-1464) Ficino
(1433-1499) Pomponazzi
(1462-1525)
Pico della Mirandola
(1463-1494)
Erasmo
(1466-1536)
Machiavelli
(1469-1527)
Copernico
(1473-1543)
Moro
(1478-1535)
Lutero
(1483-1546) Calvino
(1509-1564)
Telesio
(1509-1588) Montaigne
(1533-1592)
BRUNO
(1548-1600)
Bacone
(1561-1626)
GALILEI
(1564-1642)
Campanella
(1568-1639)
Keplero
(1571-1630)
Grozio
1400
1450
1500
1550
(1583-1645)
1600
1650
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UNITÀ
1
L’UMANESIMO E IL RINASCIMENTO
Nell’unità sono presentati i temi fondamentali del pensiero umanistico-rinascimentale, che si configura come un’indagine sull’essere umano e sul mondo condotta con i mezzi della ragione. CAPITOLO 1 La cultura umanisticorinascimentale
L’ingresso nell’età moderna vede la borghesia e la nuova aristocrazia cittadina promuovere una cultura tendenzialmente laica e critica nei confronti della tradizione, elaborata soprattutto all’interno delle accademie. La parola d’ordine di questa nuova atmosfera culturale è “ritorno al principio”, cioè alle radici della civiltà occidentale, al fine di trovarvi lo slancio necessario per un nuovo, originale, inizio.
CAPITOLO 2 Il ritorno a Platone e ad Aristotele
La riscoperta dei due maggiori filosofi dell’antichità, Platone e Aristotele, è alla base di due movimenti culturali distinti e spesso in conflitto. Mentre i pensatori platonici vedono nel “ritorno a Platone” la condizione di una rinascita di tipo religioso, gli aristotelici considerano il “ritorno ad Aristotele” come il presupposto di una ricerca razionale libera da ogni autorità.
CAPITOLO 3 Rinascimento e religione
Nel quadro della cultura rinascimentale si collocano anche le riflessioni di Lutero e Calvino, decisi a far riemergere l’originaria forza trasformatrice della parola di Dio. Sollecitata dalle spinte riformistiche protestanti, anche la Chiesa cattolica risponde cercando di ritornare alle proprie origini storiche e dottrinali.
CAPITOLO 4 Rinascimento e politica
La cultura del Rinascimento è percorsa anche da un’esigenza di rinnovamento della vita associata. I due temi fondamentali in questo ambito di riflessione sono il ritorno alle origini storiche della società e il riferimento alla legge naturale quale fondamento razionale ed eterno di ogni Stato.
CAPITOLO 5 Rinascimento e natura
L’interesse per il mondo naturale si declina in due diverse direzioni: da una parte quella della magia, che pretende di dominare la natura con formule e incantesimi; dall’altra quella della filosofia naturale, che porterà alla nascita della scienza moderna.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda il video a cui rimandiamo, in cui vengono spiegate le principali caratteristiche del Rinascimento, che studierai in questa unità. Ricordati di prendere appunti e di registrare eventuali passaggi oscuri, che sottoporrai al confronto in classe. Leggi nel manuale il secondo paragrafo della “Sintesi e Glossario” del cap. 1, relativo alla cultura rinascimentale ( p. 19); quindi confrontane il contenuto con quello del video, e annota le nozioni fondamentali e gli eventuali dubbi o spunti di riflessione che i due strumenti ti suggeriscono.
VIDEO Il Rinascimento
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IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante suddividetevi in gruppi di 4 o 5 studenti, quindi verificate quanto avete appreso a casa confrontandovi tra voi e facendo emergere dubbi o perplessità. Elaborate quindi insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - quali sono alcuni dei protagonisti del Rinascimento e quale ideale esprimono attraverso la loro opera? - quali sono le coordinate storiche del Rinascimento e come influiscono sulle caratteristiche del movimento? - quali elementi connotano il Rinascimento come un’età nuova rispetto al Medioevo?
CAPITOLO 1 LA CULTURA UMANISTICO-RINASCIMENTALE
1. Il contesto storico-sociale Con il termine Rinascimento si è soliti indicare il periodo compreso tra il Quattrocento e il Cinquecento, con cui si chiude definitivamente l’età medievale e si apre quella moderna. Il termine allude a una “rinascita” o ad un “rinnovamento” della cultura, che in questo periodo, soprattutto in Italia, è interessata da un potente rifiorire della letteratura, dell’arte e della scienza. glossario p. 19 Sul piano storico, la nascita e lo sviluppo della civiltà rinascimentale coincidono con alcuni eventi di grande portata: il rafforzarsi delle monarchie europee, le grandi scoperte geografiche, le invenzioni della stampa e della polvere da sparo, la Riforma protestante. Tutti questi fenomeni, insieme con quelli che ne derivano, trovano le loro maggiori espressioni nella formazione degli Stati nazionali sul piano politico, e nell’ascesa della borghesia mercantile sul piano economico-sociale. Con il tramonto delle istituzioni medievali dell’impero e del papato, si configura un nuovo Il nuovo assetto geopolitico, rappresentato dai regni nazionali in Europa e da quelli regionali in Italia. assetto politico Nei Paesi d’Oltralpe il processo di gestazione delle nuove monarchie centralizzate e burocratizzate, già avviato nel Trecento, continua lungo tutto il Quattrocento e produce i suoi risultati più vistosi nel Cinquecento, quando Francia e Spagna, divenute ormai grandi potenze, danno inizio a un duello epocale. In Italia, invece, le varie Signorie sorte dalla crisi dei Comuni assumono la forma di principati regionali che, combattendosi aspramente tra loro, impediscono il processo di unificazione della penisola, lasciandola in una condizione di totale frammentazione politica. Dopo la pace di Lodi (firmata nel 1454 tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia), il nostro Paese conosce un periodo di relativa stabilità, basata su un fragile sistema di equilibri tra gli Stati più importanti: Milano, Venezia, Firenze, Stato della Chiesa, Regno di Napoli. La debolezza politica di un simile bilanciamento di forze fa sì che l’Italia diventi facile preda delle mire espansionistiche della monarchia francese e di quella spagnola. Costretta a subire per decenni invasioni ed egemonie straniere, dopo la pace di CateauCambrésis (che nel 1559 mette fine al lungo conflitto tra Francia e Spagna) la penisola italiana diviene in gran parte possesso spagnolo e conosce un lungo periodo di decadenza. enciclosofia borghesia Nato nelle Fiandre dell’XI secolo per designare gli abitanti dei “borghi” (burgenses), a partire dal XIII secolo l’aggettivo “borghese” passa a indicare il ceto imprenditoriale delle città, che nel corso del tempo acquisirà sempre più potere, a scapito del clero e della nobiltà. Nella Francia del XVIII secolo sarà proprio la borghesia ad animare la rivoluzione (1789); nel XIX secolo il filosofo ed economista Karl Marx (1818-1883) assimilerà i borghesi ai “capitalisti” (cioè ai proprietari dei mezzi di produzione), contrapponendoli ai lavoratori salariati.
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Il nuovo assetto Sul piano sociale ed economico, gli elementi principali del nuovo assetto storico sono cosocio-economico stituiti dal fenomeno dell’urbanizzazione e dall’affermarsi di un’economia aperta, di tipo
mercantile e monetario, basata sugli scambi commerciali tra gli Stati, in contrapposizione all’economia tendenzialmente chiusa del Medioevo basata su scambi che avvengono soprattutto all’interno del Paese. La nuova economia rappresenta il punto di arrivo di un processo iniziato con la nascita dei Comuni (tra l’XI e il XIII secolo), ed è incarnata da una borghesia attiva e industriosa, che gradualmente va sostituendosi per ricchezza e peso politico alle classi nobiliari ( “Per saperne di più”). Questa nuova aristocrazia cittadina, assai diversa da quella militare e guerriera del Medioevo, nella prima metà del Quattrocento è particolarmente forte soprattutto in Italia, dove Genova, Venezia e Firenze si affermano come grandi poli di egemonia commerciale e finanziaria, sovvenzionando prìncipi in tutta Europa. A partire dalla seconda metà del secolo, tuttavia, la caduta di Costantinopoli (prima) e le scoperte geografiche (poi) danno inizio a un progressivo spostamento dell’asse commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico: in Europa si formano così nuovi potenti centri economici, mentre l’Italia finisce per restare ai margini dei traffici internazionali. enciclosofia caduta di Costantinopoli La città di Costantinopoli (antica Bisanzio, oggi Istanbul), capitale dell’Impero romano d’Oriente, cadde nelle mani dei Turchi ottomani guidati dal sultano Maometto II il 29 maggio 1453, dopo due mesi di assedio. La caduta della città decretò la fine del millenario Impero bizantino.
per saperne di più Il rapporto del Rinascimento con il Medioevo Le condizioni sociali e culturali favorevoli alla nascita della civiltà rinascimentale si verificano nell’Italia del Quattrocento, nell’ambito del nuovo assetto urbano-borghese, e dall’Italia si diffondono poi nel resto d’Europa. Alcuni studiosi ritengono tuttavia che il processo di formazione della nuova cultura sia cominciato assai prima del Quattrocento, e precisamente con l’avvento dei Comuni. Tra il Medioevo e il Rinascimento vi sarebbe dunque non una cesura netta, ma un rapporto di continuità. A ben riflettere, però, se si accetta questa interpretazione si rischia di smarrire completamente la specificità filosofica e storica della cultura rinascimentale nei confronti di quella medievale. Vediamo perché.
Una mentalità ancora prigioniera del passato Sebbene nei Comuni si fossero ben presto affermati nuovi modi di pensare e nuove scale di valori, che riflettevano il dinamismo dei ceti urbani e il loro diverso modo di rapportarsi alla realtà, questa nuova mentalità rimaneva comunque subordinata a quella religiosofeudale, ed era pertanto incapace di promuovere una visione del mondo esplicitamente antitetica rispetto a quella ufficiale (scolastica). Anzi, nella civiltà dei Comuni si poteva spesso riscontrare una sfasatura tra il piano pratico della vita vissuta, ben radicato nel presente
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImento CapITolo 1 la cultura umanistico-rinascimentale
e (nel caso delle élite borghesi) teso alla ricerca del profitto, e il piano ideale dei convincimenti teorici ed etici, che guardava invece al passato e ai precetti religiosi. In generale, si può quindi dire che gli intellettuali del tempo vivessero una lotta interiore tra ideali diversi, rimanendo imbrigliati a metà strada fra le credenze medievali e la nuova fede mondana nell’essere umano.
Una mentalità autenticamente rinnovata Il Rinascimento rappresenta invece l’esplicita elaborazione di una cultura nuova, che spezza ogni compromesso con i vecchi schemi mentali e rispecchia le mutate esigenze di una civiltà urbana e mercantile giunta alla sua piena maturità. Figlia di una società radicalmente trasformata nelle tecniche industriali, finanziarie, agricole, urbanistiche, nautiche, idrauliche, militari, politiche ecc., la cultura del Quattrocento cerca per la prima volta di interpretare filosoficamente i propri mutamenti di struttura mediante una nuova immagine dell’essere umano, più consona alla vita reale. Il sapere delle scholae medievali, con i suoi interessi prevalentemente metafisico-religiosi, la sua visione statica dell’umanità, il suo atteggiamento contemplativo, si rivela ormai obsoleta, incapace di esprimere la nuova coscienza sociale e il suo realistico attaccamento ai problemi dell’aldiquà.
2. Le nuove figure e i nuovi luoghi della cultura Venuta meno la potenza politica della Chiesa all’interno degli Stati, anche la cultura cessa di essere un monopolio pressoché esclusivo delle istituzioni religiose e passa in mano ai “laici”, ovvero alla borghesia cittadina. Quest’ultima apprezza l’arte, il bel parlare, l’eloquenza nello scrivere, le conoscenze storiche, tanto che l’intellettuale rinascimentale, se in un primo momento appartiene perlopiù alla classe dirigente della città e proviene dalle file dei mercanti, dei finanzieri dei giuristi, in un secondo momento si presenta invece come un “professionista della penna”, di varia estrazione sociale e al servizio di un signore.
Dai borghesi letterati ai professionisti della cultura
I prìncipi e i ricchi mercanti di questo periodo fanno a gara nel proporsi come mecenati Il mecenatismo del sapere, concedendo protezione e stipendi a letterati, artisti, filosofi e scienziati, spinti in quest’opera non soltanto dall’amore per la cultura, ma anche dal desiderio di dare lustro e fama al proprio casato, oppure da ragioni pratiche, come la necessità di disporre di persone in grado di redigere i documenti ufficiali. Questo fa sì che la Firenze dei Medici (epicentro geografico e capitale ideale della rinascita), la Napoli degli Aragonesi, la Roma dei papi, la Urbino dei Montefeltro, la Ferrara degli Este, la Mantova dei Gonzaga, la Rimini dei Malatesta ecc. si trasformino in vivacissimi centri intellettuali e artistici, nei quali si forgia la nuova cultura e nascono monumenti e opere di grande pregio. Quali sedi di studio, alle grandi università medievali si affiancano le scuole private di for- La nascita delle mazione nelle arti liberali e, soprattutto, le accademie ( p. 2), che sorgono nelle città più accademie importanti sul modello dell’Accademia ateniese fondata da Platone. Per citare soltanto le maggiori, nel Quattrocento nascono l’Accademia fiorentina, diretta da Marsilio Ficino (1433-1499) e di tendenza platonica; l’Accademia romana, fondata da Giulio Pomponio Leto (1428-1498) e di carattere archeologico-erudito; e l’Accademia napoletana, voluta da Giovanni Pontano (1429-1503) e di tendenza letteraria. Nel Cinquecento si svilupperanno altre accademie letterarie (come quella degli Infiammati a Padova e quella degli Umidi a Firenze, poi detta “Fiorentina”) e filosofiche (come quella fondata da Bernardino Telesio a Cosenza), mentre nel Seicento sorgeranno le prime accademie scientifiche. Pur non essendo istituti educativi in senso proprio, ma piuttosto poli di incontro tra quanti coltivano discipline affini, e pur non sostituendo i centri universitari come sedi ufficiali dell’istruzione superiore, le accademie diventano ben presto centri di elaborazione di alta cultura e si contrappongono alle università, che restano roccaforti della filosofia scolastica.
3. I destinatari della nuova cultura Passando a considerare i destinatari della nuova cultura rinascimentale, molti studiosi ne hanno sottolineato il carattere elitario, osservando come questo sia accentuato dall’uso del latino come lingua del sapere, e dal corrispondente rifiuto delle lingue parlate, le cosiddette lingue “volgari”. Questa tesi è senz’altro vera, anche se deve essere opportunamente circoscritta e integrata da alcune osservazioni. enciclosofia mecenate Protettore e finanziatore di figure e opere culturali. Il termine deriva da Caius Maecenas, influente ministro romano vissuto nel I secolo a.C., consigliere dell’imperatore Augusto e benefattore di molti uomini di cultura.
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La scelta Innanzitutto, per quanto riguarda la scelta del latino, è bene osservare che essa rappresendel latino ta storicamente un fattore progressista e non conservatore. Infatti, quella stessa evoluta
borghesia comunale, che nel Duecento e nel Trecento, nel tentativo di darsi una propria letteratura, aveva contrapposto il volgare al latino del Medioevo, avverte ora la necessità di distaccarsi anche dal volgare, ma non per tornare al latino medievale, bensì per far rivivere l’elegante latino classico in cui si era espressa la civiltà di Roma e in cui erano state tradotte le grandi opere della cultura greca. A questo si aggiunga che la scelta del latino come idioma internazionale, usato dalle persone istruite in un’Europa ormai ridotta a un mosaico di nazioni, favoriva oggettivamente lo scambio intellettuale.
La maggiore Inoltre, spostandosi su un piano più generale, si deve notare che, se è vero che la cultura diffusione del rinascimentale appare ristretta, come quella del passato, ai rappresentanti delle élite ecosapere
nomiche e politiche (che ne sono allo stesso tempo i produttori e i fruitori), è anche vero che la nuova civiltà “borghese” è ben diversa da quella medievale (in cui soltanto il clero aveva i mezzi e l’opportunità di accedere alla conoscenza), perché facilita la diffusione del sapere presso una cerchia più ampia di persone. Inoltre l’invenzione della stampa permette una circolazione di idee più veloce e più vasta di quanto non fosse mai avvenuto prima. Di conseguenza la cultura rinascimentale, pur continuando a essere un privilegio dei soli ceti benestanti, coinvolge un numero maggiore di persone, permettendo che la nuova visione del mondo metta profonde radici nella società e negli intelletti.
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Per l’esposizione orale
1. Illustra le condizioni politiche e socio-economiche che caratterizzano il periodo rinascimentale. 2. Quali tratti di novità presenta la cultura rinascimentale? 3. Che cosa sono le accademie e in che rapporto si collocano con le università medievali? 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’uso del latino in epoca rinascimentale e l’uso dell’inglese oggi: quali analogie e quali differenze riscontri nelle due situazioni? Pensi che l’inglese attuale possa essere considerato la lingua sovra-nazionale della cultura? Perché?
4. Il Rinascimento come “ritorno al principio” Il concetto di Gli studi filologici del Novecento hanno accertato l’origine religiosa del concetto di “rinasci“rinascita” nel mento”. La “rinascita” a cui la parola allude è infatti la seconda nascita, quella dell’uomo medioevo e nel Rinascimento “nuovo” o “spirituale” di cui parlano il Vangelo di Giovanni e le Lettere di Paolo. Se questo
significato si conserva per tutto il Medioevo (a indicare il ritorno a Dio, cioè la restituzione dell’essere umano a quella vita beata che egli ha perduto con il peccato di Adamo), nel Quattrocento il concetto di “rinascita” assume un’accezione più vasta, che include anche la realizzazione terrena, poiché viene a denotare il rinnovamento globale dell’essere umano nei suoi rapporti non soltanto con Dio, ma anche con sé stesso, con gli altri e con il mondo.
Il senso religioso e storico del ritorno al principio
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Il motivo o la nozione di fondo di un tale rinnovamento esistenziale è individuato nel “ritorno al principio”. Nel neoplatonismo plotiniano il ritorno al principio era un concetto schiettamente religioso: il principio, infatti, veniva identificato con Dio (l’Uno) e il ritorno a Dio con il compimento del vero destino umano, consistente nel ripercorrere a ritroso il processo emanativo con cui gli esseri si erano allontanati dall’unità originaria. Questo significato religioso è ben presente agli scrittori del Rinascimento, in particolare nei pensatori neoplatonici ( cap. 2) e in Lutero ( cap. 3). UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImento CapITolo 1 la cultura umanistico-rinascimentale
Come la nozione di “rinascimento”, così quella di “ritorno al principio” assume tuttavia un significato anche umano e storico, secondo il quale il principio a cui si deve ritornare è uno specifico momento della civiltà del passato. Questo è senza dubbio il riferimento che hanno in mente gli autori rinascimentali quando parlano di un ritorno ai classici, così come quello di Machiavelli ( cap. 4) quando parla di un ritorno alle comunità antiche. Un altro aspetto del ritorno al principio è il ritorno alla natura, vista come forza che produce e vivifica le cose. Da una parte, il ritorno alla natura costituisce l’insegna della grande arte rinascimentale, che intende rappresentare ed esprimere il mondo naturale nella sua forma autentica, al di là delle immagini astratte e convenzionali tipiche dell’arte medievale; dall’altra assume un significato centrale nei filosofi naturalisti del Cinquecento (Telesio, Bruno e Campanella cap. 5), che fanno della natura un oggetto di indagine privilegiato, secondo un metodo nuovo.
Il ritorno alla natura nell’arte e nella scienza
A prescindere dall’ambito di riferimento (religioso, storico, artistico o naturalistico), il “prin- Il ritorno cipio” degli autori rinascimentali è quella realtà che consente all’essere umano si trovare all’autentica essenza umana sé stesso, realizzandosi nella sua essenza più vera e profonda. Esso è dunque ciò che garantisce la riforma dell’uomo e del suo mondo, restituendoli alla loro dimensione ottimale.
5. L’Umanesimo tra filologia e filosofia Per lungo tempo il termine “Rinascimento” è stato usato pressoché come sinonimo di “Umanesimo”, per indicare il movimento culturale fiorito in Italia nel Quattrocento e diffusosi in Europa durante il Cinquecento, nel segno di un rinnovamento radicale della letteratura, dell’arte, della filosofia e della scienza. Nella seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, lo storico tedesco Georg Voigt (1827-1891) e lo storico svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897) li distinsero nettamente, vedendo nell’ Umanesimo un momento essenzialmente filologico-letterario incentrato sugli studi dei testi classici ( p. 14), e nel Rinascimento un momento filosofico-scientifico basato su un nuovo modo di considerare l’essere umano, la natura e Dio. glossario p. 19
La distinzione tra i concetti di “Umanesimo” e “Rinascimento”
La distinzione storiografica di Voigt e Buckhardt non è stata unanimemente accolta dagli studiosi e nel Novecento ha innescato un vivace dibattito. Dopo la distinzione concettuale operata da Voigt e da Burckhardt, nel Novecento i concet- Lo schema ti storiografici di “Umanesimo” e “Rinascimento” tornarono ad essere avvicinati. Ciò av- unitario di Burdach venne a partire dal filologo tedesco Konrad Burdach (1859-1936), che individuò nell’Umanesimo la prima parte del programma del Rinascimento. Secondo questa linea interpretativa l’Umanesimo, con il rifiorire degli studi classici, sarebbe già uno degli effetti dello spirito rinascimentale. In quest’ultima prospettiva il concetto storiografico di Rinascimento implica un’estensione di significato, poiché cessa di coincidere con il Cinquecento in senso stretto e finisce per denotare l’intera fase culturale del Quattrocento e del Cinquecento. Sempre nel XX secolo, riprendendo il punto di vista di Voigt e Burckhardt, lo studioso tede- Il dibattito sco-statunitense Paul Oskar Kristeller (1905-1999) elaborò la tesi secondo cui gli umanisti tra Kristeller e Garin sarebbero filologi ma non filosofi, poiché nella loro mania letteraria, sfociante talora in un vero e proprio fanatismo antiquario ed estetizzante, avrebbero trascurato il pensiero speculativo, saltando a piè pari le complesse elaborazioni dottrinali del Medioevo.
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Questa valutazione riduttiva dell’Umanesimo venne respinta da altri studiosi, in particolare da Eugenio Garin (1909-2004), secondo il quale gli umanisti, pur non avendo elaborato quel tipo di pensiero che era proprio delle grandi “cattedrali” teoriche della filosofia scolastica, avrebbero comunque filosofato su temi antropologici, etici, politici, economici, estetici ecc. Anzi, secondo Garin la stessa filologia umanistica porterebbe già in sé una nuova filosofia, poiché quell’appassionata ricerca di manoscritti nelle biblioteche polverose di chiostri e abbazie – che costituisce uno dei tratti più appariscenti di quest’età – manifesterebbe di per sé un nuovo modo di rapportarsi al mondo antico e di concepire l’essere umano. “Lettere Tuttavia, indipendentemente dalle diverse posizioni, si può affermare che negli autori umane” e umanisti sono presenti alcuni aspetti fondamentali della filosofia rinascimentale. Insof“arti liberali”
ferenti alle “tenebre” medievali, gli umanisti si sentono infatti irresistibilmente attratti dalla “luce” della classicità latina e greca, e vedono in essa un esempio di vita. Nel loro umanesimo letterario, pertanto, è già implicito un umanesimo filosofico, fondato sulla duplice convinzione che gli antichi abbiano incarnato al massimo grado i valori dell’esistenza, e che gli studi classici rappresentino uno strumento indispensabile per ingentilire i costumi e per educare l’uomo, conferendogli il possesso delle sue capacità più tipiche. Per questo gli intellettuali quattrocenteschi parlano di humanae litterae: un’espressione che allude alla capacità delle lingue e delle letterature classiche (le litterae) di forgiare individui autenticamente umani, esattamente come l’espressione “arti liberali” (artes liberales) allude alla capacità delle discipline del trivio e del quadrivio di forgiare individui autenticamente liberi.
Il significato Può sembrare paradossale che, proprio mentre stavano gettando le premesse del mondo del ritorno moderno, i pensatori umanisti abbiano sentito la necessità di richiamarsi agli antichi. In alla classicità
realtà, per loro si trattava piuttosto di riappropriarsi di quelle possibilità che il mondo classico aveva dischiuso agli esseri umani e che, disconosciute o ignorate dai secoli bui del Medioevo, dovevano ritornare a essere patrimonio della civiltà. Occorreva dunque riprendere il lavoro degli antichi laddove era stato interrotto e continuarlo nello stesso spirito, per riportare l’uomo all’altezza della sua vera natura. Tale fu l’intento comune degli intellettuali dell’Umanesimo e del Rinascimento, per i quali l’antichità giocò il ruolo di una “norma”, ovvero di un ideale da rinverdire nella sua purezza.
6. La concezione dell’essere umano Le dottrine filosofiche più tipiche del Rinascimento – le stesse che fondano la sua originalità nei confronti del Medioevo – sono quelle relative all’essere umano, alla storia e alla natura. Ovviamente esse non si trovano tutte e contemporaneamente in tutti gli autori, ma sono variamente condivise da un gran numero di scrittori dell’epoca, e pertanto la loro analisi può aiutare a delineare la peculiare atmosfera filosofica rinascimentale. L’uomo Il nucleo dell’intera cultura rinascimentale risiede nella celebre affermazione, attinta dal come artefice mondo classico, secondo cui «l’uomo è il fabbro della propria sorte» (homo faber fortunae di sé stesso
suae, o homo faber ipsius fortunae). Con questa formula si intende dire che la prerogativa specifica dell’essere umano – cioè la sua “dignità” particolare, che lo distingue da tutti gli altri esseri – risiede nella possibilità di forgiare sé stesso e il proprio destino nel mondo. Questo aspetto emerge con particolare forza nell’orazione De hominis dignitate (Sulla dignità dell’uomo) di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), che può essere considera-
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ta come una sorta di manifesto dell’antropologia rinascimentale. In tale orazione, l’uomo è descritto come un essere dotato di una natura indeterminata, il quale pertanto ha la possibilità di plasmare sé stesso assumendo “forme” diverse e decidendo da sé il proprio ruolo e la propria collocazione nel mondo. Per essere intesa pienamente e correttamente, l’antropologia del Rinascimento necessita tuttavia di alcune chiarificazioni.
Il rapporto con Dio e con la libertà La concezione dell’essere umano come artefice del proprio destino assumerà spesso, nei secoli successivi, un significato anti-religioso e prometeico1 , ma nel Rinascimento essa coesiste con la concezione religiosa di un Dio-persona che ha creato gli uomini a propria immagine. Di conseguenza, per i rinascimentali non si pone l’alternativa “l’uomo o Dio”, poiché essi pensano all’interno di una struttura concettuale che riconosce “l’uomo e Dio”. Tuttavia, il riconoscimento di un Dio creatore dell’uomo a propria immagine non esclude, anzi implica, che la visione rinascimentale sia prevalentemente antropocentrica. Essa si differenzia pertanto da quella prevalentemente teocentrica del Medioevo: mentre nel Medioevo Dio appariva al centro o al vertice del sistema ontologico e l’uomo alla periferia, adesso l’uomo tende ad apparire al centro della creazione, mentre Dio risulta più marginale, confinato alla periferia.
Un essere creato a immagine di Dio
Analogamente, la celebrazione umanistica della libertà umana non esclude una complementare consapevolezza dei suoi limiti. Infatti i rinascimentali, pur ritenendo che l’uomo possa forgiare sé stesso, appaiono tutti consapevoli, chi più chi meno, del fatto che gli individui sono condizionati da forze naturali e soprannaturali che, pur non annullando la libertà, la circoscrivono. Tuttavia, finché il rapporto tra ciò che è in potere dell’essere umano e ciò che non lo è verrà concepito come favorevole all’uomo, significherà che si è ancora nel Rinascimento, mentre quando l’uomo comincerà ad apparire più dominato che dominante rispetto all’insieme delle forze che premono su di lui, significherà che è iniziato il declino di questa età.
La libertà umana tra possibilità e limiti
L’esaltazione della vita terrena La celebrazione del valore dell’essere umano e della sua specifica «dignità» si concretizza an- L’essere umano che nell’idea dell’uomo come «microcosmo», «copula dell’universo», «nodo della creazione», come «microcosmo» «anello di congiunzione dell’essere»: tutte formule abbastanza equivalenti, con cui si intende dire che l’uomo è la sintesi vivente del Tutto e il centro del mondo. Gli uomini, cioè, sono le creature in cui si concentrano le caratteristiche dei diversi enti creati: egli ha infatti qualcosa sia dell’angelo sia della bestia, sia di Dio sia del demonio, sia dello spirito sia della materia. Ma la difesa della dignità umana e la visione dell’esistenza come auto-progetto si accom- L’elogio della pagnano soprattutto al rifiuto dell’ascetismo medievale e alla concezione della vita come vita attiva impegno concreto nel mondo, e non come fuga da esso. Per i pensatori rinascimentali, infatti, l’uomo non è un viandante (viator) che si trova di passaggio sulla terra, in attesa della vita ultraterrena, ma un essere profondamente radicato in questo mondo, e che in questo mondo deve costruire il proprio destino. Pur non rinnegando l’idea cristiana dell’aldilà, i dotti del Rinascimento, coerentemente con la nuova ottica antropocentrica, sottolineano soprattutto l’aldiquà, elogiando ciò che è utile ed esaltando la vita attiva più di quella speculativa, e la filosofia morale più della metafisica. 1. Prometeo è l’eroe mitologico che ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini.
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L’elogio Connessa all’elogio della vita attiva è la celebrazione della gioia e del piacere, che sono del piacere individuati come la caratteristica specifica dell’età giovanile. Si tratta di un ritorno all’ideae del denaro
le classico ed ellenistico dell’eudaimonía, cioè della felicità intesa come realizzazione armonica e completa delle possibilità umane. Infine, si riconosce il valore del denaro, visto come elemento indispensabile alla vita dell’individuo e della società.
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Per l’esposizione orale
1. Che cosa indicano le espressioni “rinascita” e “ritorno al principio”, e in quali modi questi concetti sono declinati nella cultura umanistico-rinascimentale? 2. In che cosa consiste la distinzione di Voigt e Burckhardt tra “Umanesimo” e “Rinascimento”? 3. Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per presentare sinteticamente la concezione rinascimentale dell’uomo: dignità, Dio, forze soprannaturali, vita attiva. SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura italiana
L’esaltazione rinascimentale della gioia e del piacere di cui gli esseri umani possono fare esperienza in questo mondo è stata immortalata da alcuni celeberrimi versi di Lorenzo il Magnifico (Lorenzo de’ Medici, 1449-1492): «Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza». Analizza il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico: in che senso il componimento incarna la concezione umanistico-rinascimentale della vita?
7. La concezione della storia La cultura umanistico-rinascimentale è importante anche perché comincia a riconoscere la dimensione storica degli eventi, che era stata quasi totalmente ignorata nel Medioevo. L’assenza Anche il Medioevo aveva guardato al passato, ovvero alla cultura classica, ma lo aveva fatto di distanza assimilandolo a sé e interpretandolo alla luce dei propri paradigmi concettuali. Fatti, figure e storica nel medioevo dottrine non si presentavano con un volto preciso, individuato e irripetibile, ma avevano quel-
la sola validità che poteva esser loro riconosciuta nell’universo di discorso in cui si muovevano gli scrittori medievali. Da questo punto di vista, la geografia e la cronologia quali strumenti dell’accertamento storiografico erano del tutto inutili, perché gli eventi, i personaggi e le teorie venivano strappati al loro contesto spazio-temporale e trasferiti, per così dire, in una sfera senza tempo, finendo per risultare “contemporanei” all’epoca dalla quale erano guardati.
La nascita Con il suo interesse per l’antico “autentico”, liberato dalle deformazioni trasmesse dalla tradella filologia dizione, l’Umanesimo rinascimentale concretizza per la prima volta il concetto di “prospet-
tiva storica”, assumendo cioè un atteggiamento di distacco e di alterità nei confronti dell’oggetto storico. Questa esigenza filologica (da philía, “amore”, “amicizia”, e lógos, “discorso”) non è un aspetto accidentale o formale dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma una caratteristica costitutiva di tale cultura. Il bisogno di riscoprire i testi e di ripristinarli nella loro forma autentica, studiando e collezionando i codici, è accompagnato dalla volontà di rintracciarne l’originario e specifico significato poetico, filosofico o religioso. In questo compito di “restaurazione” storica si intrecciano diverse istanze: glossario p. 19 1. la volontà di difendere la vera eloquenza classica, riportando le lingue antiche alla loro forma genuina e originaria; 2. l’intento di scoprire falsificazioni documentarie o errate attribuzioni di opere scritte; 3. il tentativo di comprendere le figure dei letterati e dei filosofi in riferimento al loro mondo di appartenenza, nella loro lontananza cronologica.
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImento CapITolo 1 la cultura umanistico-rinascimentale
La scoperta della prospettiva storica rappresenta, rispetto al tempo, ciò che la scoperta L’individualità della prospettiva ottica (che caratterizza proprio la pittura rinascimentale) rappresenta ri- degli oggetti spetto allo spazio, cioè la capacità di cogliere la distanza degli oggetti l’uno dall’altro e da colui che li considera, collocandoli così nel loro effettivo “luogo” (temporale e spaziale) e nella loro autentica individualità. L’affinamento del senso storico contribuisce tra l’altro a far maturare l’idea di una continui- La storia tà dello sviluppo umano, ovvero l’idea della storia come linea che dal passato, attraverso come linea il presente, muove verso il futuro, congiungendo gli sforzi delle generazioni. Da quest’ultima intuizione ne germoglia un’altra, ovvero la convinzione che gli uomini del presente siano “superiori”, per esperienza e capacità, agli uomini del passato. Partito dalla tesi dell’eccellenza degli antichi sui moderni, il Rinascimento perviene così all’opinione opposta di una supremazia dei moderni sugli antichi: simili a «nani sulle spalle di giganti» (secondo una celebre immagine attribuita a Bernardo di Chartres), gli uomini moderni possono infatti scorgere più lontano. Da ciò segue anche l’idea del continuo progresso della specie umana e della verità come «figlia del tempo» (veritas filia temporis), secondo un’espressione di Francesco Bacone ( unità 2, cap. 2).
8. La concezione della natura Quando si parla del “naturalismo” come di un carattere specifico del pensiero rinascimen- I tratti specifici tale rispetto a quello medievale, non si intende dire che per i filosofi di questa età non vi sia del naturalismo rinascimentale nulla al di là della natura, poiché una tesi del genere, come vedremo, si presenterà in forma esplicita soltanto nel Seicento, e precisamente con il panteismo di Baruch Spinoza ( unità 3, cap. 3). Il naturalismo rinascimentale si caratterizza piuttosto per due aspetti principali: 1. l’essere umano non è inteso come un “ospite” che abita la natura soltanto provvisoriamente, ma come un ente naturale egli stesso; 2. la natura non è concepita come l’ombra sbiadita di un mondo ideale, ma come una realtà piena, costituita da un immenso serbatoio di forze vitali, di cui l’uomo è partecipe e in cui si incarna la potenza di Dio, che in essa trova una sua manifestazione; 3. in quanto ente naturale, l’essere umano ha sia l’interesse sia la capacità di studiare la natura. Come vedremo nel capitolo dedicato a questo argomento ( cap. 5), il naturalismo del Rina- Le due correnti scimento si concretizzerà in due principali filoni di indagine: quello della magia e quello del naturalismo rinascimentale della grande filosofia della natura di Telesio, Bruno e Campanella. Ma, soprattutto, esso rappresenterà uno dei presupposti teorici generali della nascita della scienza moderna.
9. La nuova concezione del sapere In generale, al di là dei vari temi aspecifici a cui abbiamo accennato, uno dei risultati storicamente più importanti raggiunti dalla cultura del Rinascimento è la nuova concezione del sapere e delle varie discipline che lo compongono. Il tratto saliente della cultura medievale in Europa era stato l’universalismo: unitaria e so- Le tendenze vranazionale era la lingua (il latino), unitario e sovranazionale l’Impero, unitarie la Chiesa universalistiche del medioevo e la visione cristiana del mondo. Ovviamente, tale universalità era stata un’esigenza, piuttosto che un dato di fatto: uno specchio ideale in cui l’età di mezzo (come viene anche
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chiamato il Medioevo) aveva amato contemplarsi, un’illusione di cui si era nutrita e che si era continuamente scontrata con i particolarismi della vita feudale e con le lotte tra le diverse correnti della filosofia cristiana. Il primato Nonostante questa asimmetria fra gli ideali universalistici e i particolarismi di fatto, il Medella teologia dioevo aveva pur sempre realizzato una certa unità dello scibile intorno alla teologia, nel medioevo
concependo le varie discipline come «ancelle della teologia» (ancillae theologiae), ovvero come discipline il cui compito era quello di dimostrare la verità della fede nei diversi campi di studio. Su questi presupposti, il Medioevo aveva realizzato un’enciclopedia del sapere di tipo piramidale, con la teologia al vertice, nella veste di regina delle scienze.
L’organizzazione Nel Rinascimento, invece, alla frantumazione dell’unità politica medievale segue la franrinascimentale tumazione di quell’unità culturale che derivava dalla prospettiva teologica. Parallelamendel sapere
te al rifiuto critico della filosofia scolastica e della mentalità sistematica, metafisica e logicista che vi era connessa, in epoca rinascimentale si assiste infatti a una tendenziale laicizzazione del sapere, in virtù della quale le varie attività e discipline umane cominciano a rivendicare ciascuna la propria autonomia e libertà operativa.
Il nuovo senso Questo non significa che la cultura rinascimentale abbia un carattere a-cristiano o antireligioso cristiano. Gli uomini del Quattrocento e del Cinquecento non potevano certo rinnegare rinascimentale
tredici o quattordici secoli di civiltà e di cultura cristiana: essi continuarono dunque a essere, perlopiù, religiosi e cristiani, ma in un senso ben diverso da quello in cui lo erano stati i pensatori medievali, in quanto più inclini a sottolineare il divino presente nell’essere umano e nel mondo.
ESERCIZI
)
Per l’esposizione orale
1. 2. 3. 4.
Illustra brevemente il rapporto dei pensatori rinascimentali con il passato. Che cos’è la filologia e perché è importante nella cultura umanistica? Elenca e spiega gli aspetti specifici del naturalismo rinascimentale. Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per presentare in modo sintetico la nuova concezione rinascimentale del sapere: primato della teologia, laicizzazione, visione del cristianesimo.
10. L’Umanesimo tra Italia ed europa L’Umanesimo Come si è già detto, l’Umanesimo nasce come fenomeno culturale italiano, sotto la spinta, in Italia in particolare, del richiamo del poeta aretino Francesco Petrarca (1304-1374) alla sapienza
classica e cristiana, rappresentata principalmente da Cicerone e da Agostino. Oltre a Petrarca, tra i maggiori esponenti dell’Umanesimo italiano ricordiamo Coluccio Salutati (1331-1406), Leonardo Bruni (1370 ca.-1444) e Lorenzo Valla (1407-1457), quest’ultimo noto per lo scritto Sul piacere (1431), che difendeva la tesi secondo cui il piacere è l’unico fine delle attività umane e l’unico bene per l’uomo.
L’Umanesimo L’influsso dell’Umanesimo non tarda a farsi sentire nel resto d’Europa, in particolare nei nel resto Paesi economicamente più progrediti, come la Francia, l’Inghilterra, alcune zone della d’europa
Germania e soprattutto i Paesi Bassi, dove le autonomie cittadine si erano affermate non meno che in Italia. Non si tratta però di un semplice “trapianto” di motivi culturali: i temi dell’Umanesimo italiano, infatti, trovano profonda rispondenza in esigenze maturate sul posto, sia pure con ritardo rispetto al più rapido processo di trasformazione della cultura e del costume
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verificatosi in Italia. La più lenta fioritura dell’Umanesimo extra-italiano sarà d’altro canto compensata da una sua maggior persistenza, al punto che nei Paesi citati la mentalità rinascimentale si evolverà, quasi senza soluzione di continuità, nella grande cultura scientifica del Seicento e nel movimento illuministico del Settecento. I principali rappresentanti dell’Umanesimo europeo sono Erasmo da Rotterdam (di cui parleremo nel capitolo 3) e Michel Eyquem de Montaigne.
Montaigne Nato nel 1533 a Bordeaux (nella Francia sud-occidentale), Michel Eyquem, signore di La vita e Montaigne, venne educato secondo i princìpi umanistici, prima privatamente e poi pres- le opere so il collegio della sua città. Completò la sua formazione studiando diritto, probabilmente a Parigi. Per diversi anni ricoprì una carica pubblica a Bordeaux, fino a quando, nel 1570, decise di ritirarsi nel castello di famiglia per concentrarsi sugli studi. A questo periodo risale la stesura dei primi due libri dei Saggi (Essais); la morte lo colse nel 1592 mentre stava lavorando alla stesura del terzo libro dell’opera. I Saggi di Montaigne sono tra gli scritti che più compiutamente esprimono quell’idea del Il carattere ritorno dell’essere umano a sé stesso che costituisce l’essenza del rinnovamento rinasci- autobiografico dei Saggi mentale. Il titolo Essais (che in francese significa “prove”, “cimenti”) va inteso nel significato di “esperienze”, non di “tentativi”: in quest’opera, infatti, Montaigne cerca di individuare le esperienze degli autori antichi, rintracciabili nei loro testi, per confrontarle con le proprie esperienze. Il procedimento è dunque autobiografico: Montaigne vuol raggiungere la conoscenza della natura umana attraverso il confronto della propria esperienza con quella altrui. Questo tipo di filosofare – che, rivolgendosi al proprio io, comprende e afferra nello stesso tempo la propria singolarità individuale e la condizione umana nella sua universalità – può essere considerato come il frutto più maturo dell’Umanesimo. In realtà, quello di conoscere la natura umana è un compito destinato a non concludersi I limiti della mai. La vita umana, infatti, per Montaigne è un esperimento continuo e inesauribile, natura umana un problema sempre aperto, un’esperienza che non può mai definitivamente compiersi. L’ottimismo degli umanisti sulla capacità dell’uomo di dominare completamente il proprio destino lascia dunque il posto, in Montaigne, a una valutazione più prudente, che riconosce l’incertezza e l’instabilità dell’esistenza umana:
‘
Noi non abbiamo comunicazione con l’essere perché l’intera natura umana è sempre in mezzo tra la nascita e la morte, e non attinge in sé che un’apparenza oscura e ombratile, un’incerta e debole opinione. E se per caso il vostro pensiero si ostina ad afferrare il suo essere, sarà come voler stringere l’acqua nel pugno: più serrerà e stringerà ciò che di sua natura sfugge da tutte le parti, più perderà quel che voleva stringere e tenere.
D’altronde, Montaigne condanna qualsiasi tentativo dell’essere umano di evadere dai propri limiti, così come qualsiasi lamento sulla propria sorte e condizione. È inutile immaginare una natura più perfetta di quella che ci caratterizza e lamentarsi di non possederla. Bisogna che l’uomo accetti in modo lucido e sereno la propria «miserabile condizione», poiché non può né deve cercare di essere «più che uomo». Elemento costitutivo della condizione umana è la morte: «Tu non muori perché sei malato; Il pensiero tu muori perché sei vivo», dice Montaigne. La morte, infatti, «si mescola e confonde dap- della morte pertutto con la nostra vita», non tanto perché consuma il nostro organismo, ma perché la sua necessità ineluttabile si impone al nostro spirito.
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Perciò colui che insegna agli uomini a morire, in realtà insegna loro a vivere. Ma questo insegnamento esclude la paura della morte: l’essere umano sa che la sua vita è destinata a terminare, e quindi non può che disporsi a perderla senza rimpianto. Lo stoicismo e Guardando ai filosofi dell’antichità, Montaigne osserva che lo stoicismo e lo scetticismo lo scetticismo consentono all’uomo di realizzare la propria libertà spirituale. Dallo stoicismo egli attin-
ge infatti il riconoscimento della condizione di dipendenza in cui l’essere umano si trova rispetto alle cose; dallo scetticismo ricava invece il mezzo per liberarsi, per quanto possibile, dalla presunzione di sapere e per disporsi alla ricerca.
I limiti della Lo studio dello scetticismo antico, in particolare, conduce Montaigne a soppesare tutto conoscenza ciò che può essere considerato come un autentico possesso dell’uomo, a cominciare dalla umana
conoscenza sensibile, che costituisce la base di ogni nostro sapere:
‘
La scienza comincia dai sensi e si risolve nei sensi. Noi non saremmo più che una pietra se non sapessimo che c’è il suono, l’odore, la luce, il sapore, la misura, il peso, la mollezza, la durezza, l’asprezza, il colore, la levigatezza, la larghezza, la profondità. Ecco le radici e i princìpi (Saggi, I, 12) di tutto l’edificio della nostra scienza.
TEST DI LOGICA
La conoscenza sensibile manca però di ogni sicuro criterio per discernere le apparenze vere da quelle false. Non esiste alcun modo per “confrontare” le nostre percezioni sensibili con la realtà delle cose che le producono, e quindi non esiste alcun modo di controllare la loro verità. E poiché la conoscenza sensibile è alla base di ogni altra conoscenza, tutto l’«edificio» del nostro sapere è condannato all’inconcludenza. Al filosofare di Montaigne si collegheranno René Descartes (Cartesio) e Blaise Pascal ( unità 3), i quali avranno anch’essi lo sguardo rivolto all’essere umano e si preoccuperanno di chiarire non soltanto la fondatezza del suo sapere, ma anche la sua condizione nel mondo.
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Per l’esposizione orale
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1. Illustra le caratteristiche della diffusione dell’Umanesimo dall’Italia al resto d’Europa. 2. Illustra lo scopo filosofico e il procedimento che caratterizzano i Saggi di Montaigne. 3. Quale visione dell’esistenza umana emerge dall’opera di Montaigne?
UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImento CapITolo 1 la cultura umanistico-rinascimentale
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 1 LA CULTURA UMANISTICO-RINASCIMENTALE
Gli autori umanisti danno dunque un fortissimo impulso alla
• filologia
(dal greco philía, “amore”, e lógos, “discorso”, dottrina”) la disciplina che reperisce e ricostruisce i testi (letterari, ma anche storici e scientifici) nella loro versione originaria, cercando di comprenderne il corretto significato in relazione all’epoca in cui furono scritti.
La “rinascita” come ritorno al principio In gene-
Il contesto storico-sociale Nel corso del XV secolo, mentre in Europa vanno affermandosi i nuovi regni nazionali, l’Italia si presenta frammentata in Stati e principati nei quali emerge una nuova civiltà urbano-borghese. In questo contesto socio-politico va affermandosi una cultura sempre più “laica” (ovvero affrancata dal primato della teologia), più libera dal controllo della Chiesa e diffusa presso fasce di popolazione più ampie. Accanto alle università, roccaforti della filosofia scolastica, sorgono in questo periodo le accademie, sia letterarie e filosofiche, sia scientifiche.
rale, la cultura umanistico-rinascimentale interpreta la “rinascita” dell’essere umano come un “ritorno al principio”, che può trovare espressione in diversi ambiti: in quello religioso come ritorno a Dio, ovvero a una forma genuina di cristianità; in ambito letterario e storico come ritorno alla classicità greca e latina (dopo i secoli “bui” del Medioevo); in ambito scientifico come ritorno alla natura, di cui l’essere umano si riconosce parte inscindibile, e dunque legittimo indagatore. L’essere umano celebrato nel Rinascimento è l’individuo che si impegna con convinzione nella propria vita concreta, per migliorarla e darle un “senso”, e che ha acquisito la prospettiva storica, ovvero la consapevolezza della distanza e peculiarità del proprio tempo e delle proprie idee rispetto al passato.
Il rapporto del Rinascimento con il Medioevo
La cultura rinascimentale La distinzione tra Rinascimento e Umanesimo La fase storico-culturale che caratterizza l’Italia del Quattrocento e che nel secolo successivo si diffonde nel resto d’Europa è stata chiamata
• Rinascimento
termine che allude sia alla “rinascita” della letteratura, delle arti e delle scienze (che in questo periodo riacquistano nuovo vigore, dopo la battuta d’arresto subita nel Medioevo) sia alla “rinascita” dell’essere umano, che diventa protagonista di un rinnovamento globale, nei suoi rapporti con sé stesso e con il mondo.
Dal Rinascimento gli storici Voigt e Burckhardt distinguono
• l’Umanesimo
fase storico-culturale che nasce in Italia nel XV secolo, caratterizzata dal fiorire degli studi delle lingue e delle letterature classiche (le humanae litterae), le quali vengono concepite come lo strumento privilegiato mediante il quale l’essere umano può riappropriarsi della propria autentica natura.
Per quanto riguarda il rapporto tra Rinascimento e Medioevo, la storiografia ha elaborato tre posizioni principali: la teoria della frattura, sostenuta soprattutto da Georg Voigt e da Jacob Burckhardt; la teoria della continuità, rappresentata in particolare da Konrad Burdach; la teoria dell’originalità nella continuità, dovuta a Eugenio Garin.
Montaigne Nel Rinascimento europeo, una delle figure di maggiore spicco è quella di Michel Eyquem de Montaigne, il quale nei suoi Saggi riflette sulla natura umana, riconoscendone la condizione di incertezza e instabilità. La vita umana, per Montaigne, è un’«esperienza», un esperimento (essais) continuo, un problema sempre aperto che si può affrontare soltanto riconoscendo la «miserabile condizione» dell’uomo, che inutilmente aspira a una perfezione che non gli è concessa e il cui sapere è destinato a non raggiungere alcun punto autenticamente fermo.
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MAPPE
CAPITOLO 1 LA CULTURA UMANISTICO-RINASCIMENTALE L’ETÀ RINASCIMENTALE coincide con
il passaggio all’età moderna che è caratterizzata da
un nuovo assetto politico (regni nazionali in Europa, Stati regionali in Italia)
un nuovo assetto sociale (avvento della nuova civiltà urbanoborghese)
laicizzazione della cultura
scoperte geografiche
invenzione della stampa
avvento della Riforma protestante
LA “RINASCITA” DELL’UOMO
alla cristianità primitiva
è intesa come
pone
ritorno al principio
l’essere umano al centro
ai classici
allo studio della natura
del suo destino
del rapporto con Dio
del cosmo
IL RAPPORTO TRA RINASCIMENTO E MEDIOEVO è stato spiegato come
frattura ed emancipazione (Voigt e Burckhardt)
continuità (Burdach)
originalità nella continuità (Garin)
MONTAIGNE sottolinea
i limiti e la fragilità dell’uomo e afferma che
la vita umana è un esperimento continuo, un problema sempre aperto
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bisogna accettare la condizione umana e la propria sorte
UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImento CapITolo 1 la cultura umanistico-rinascimentale
il sapere umano è destinato a non avere certezze
CAPITOLO 2 IL RITORNO A PLATONE E AD ARISTOTELE 1. Il platonismo rinascimentale La riscoperta di Platone da parte degli umanisti porta alla nascita del cosiddetto “platonismo rinascimentale”, che si sviluppa soprattutto nell’ambito delle accademie, e in particolare dell’Accademia fiorentina, fondata da Marsilio Ficino ( p. 25) per volere di Cosimo de’ Medici. In Platone, gli umanisti vedono la figura più affascinante della classicità, nonché l’antago- I motivi nista ideale di Aristotele e dell’aborrita filosofia scolastica, capace – grazie al suo filosofa- del ritorno a Platone re aperto e problematico, antitetico al filosofare “chiuso” dello Stagirita e di Tommaso – di esprimere nel modo più adeguato l’inquietudine umana e la complessità del reale. Ma, soprattutto, gli umanisti considerano Platone (non ancora distinto da Plotino) come il pensatore più vicino allo spirito religioso del cristianesimo e alla concezione del rapporto tra Dio e il mondo in termini di circolarità e di amore. A favorire questo riavvicinamento a Platone sono anche alcune circostanze storiche, qua- La diffusione li il Concilio episcopale indetto a Ferrara nel 1438 e trasferito l’anno successivo a Firenze, degli scritti platonici che nel 1439 proclamò l’unione della Chiesa greca e latina, e la caduta di Costantinopoli (1453 p. 8), che facilitarono l’afflusso in Italia di una moltitudine di dotti orientali, esperti di lingua e cultura greca. Così, mentre il Medioevo aveva conosciuto pochissimo delle opere platoniche, il Rinascimento poté disporre di tutti i Dialoghi e della possibilità di leggerli direttamente in lingua originale. Le prime traduzioni degli scritti di Platone si devono all’aretino Leonardo Bruni (1370-1444) e, in seguito, allo stesso Marsilio Ficino. In epoca rinascimentale, tuttavia, Platone continua a essere interpretato in chiave sostan- L’interpretazione zialmente neoplatonica (soltanto nell’Ottocento si comincerà a distinguere nettamente tra neoplatonica Platone e Plotino). Anzi, il platonismo rinascimentale è un insieme complesso e multiforme di elementi disparati: platonici e neoplatonici, ma anche orfici, pitagorici, ermetici e cristiani. Pertanto anche il Rinascimento, nonostante la disponibilità dei testi platonici originali, fu ben lontano dal conoscere l’autentico volto del filosofo, e il suo platonismo fu sostanzialmente una forma di neoplatonismo rielaborato e cristianeggiante. enciclosofia Cosimo de’ Medici Figlio di Giovanni de’ Medici, Cosimo detto “il Vecchio” (1389-1464) governò, di fatto, Firenze dal 1434 fino alla morte, pur non ricoprendo ufficialmente alcuna carica pubblica. Uomo colto e mecenate generoso, si circondò di letterati, collezionò libri rari e fu tra i primi signori a promuovere l’architettura e le arti figurative a beneficio della propria città. Sostenne inoltre Marsilio Ficino nella fondazione dell’Accademia platonica fiorentina, che diventò un centro propulsore della cultura umanistica.
Jacopo Pontormo, Cosimo I de’ Medici, 1518-1519, Firenze, Galleria degli Uffizi.
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2. L’aristotelismo rinascimentale: le due correnti Lo sviluppo delle accademie non determina la fine delle università, che continuano la loro opera di ricerca e di insegnamento, sia pure con minor capacità di incidenza culturale rispetto al passato. Nel loro ambito fiorisce il cosiddetto “aristotelismo rinascimentale”, che si caratterizza per una marcata e originale tendenza anti-scolastica. L’aristotelismo Se Firenze è la sede principale del platonismo, il centro geografico dell’aristotelismo è inpadovano vece Padova, nella cui rinomata università si era cominciato a studiare il pensiero di Ari-
stotele fin dal XIII secolo, interpretato secondo le opposte correnti (tra loro in conflitto) del tomismo e dell’averroismo. Nel Quattrocento, sulla base delle nuove tendenze filologiche e dei nuovi indirizzi speculativi, si avverte l’esigenza di scoprire il “vero” Aristotele: un’esigenza che spinge a elaborare una traduzione filologicamente più corretta dei testi sia dello Stagirita sia dei suoi commentatori ritenuti più fedeli, come Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.) e Simplicio (VI secolo d.C.).
Alessandristi Scartata l’interpretazione “ortodossa” di Tommaso d’Aquino, che rimane patrimonio dei e averroisti domenicani e della Chiesa ufficiale, gli aristotelici del Rinascimento si dividono sostan-
zialmente tra alessandristi e averroisti. Gli alessandristi, rifacendosi ad Alessandro di Afrodisia, collocano l’intelletto passivo teorizzato da Aristotele nel singolo individuo, mentre identificano l’intelletto attivo con Dio: essi considerano dunque l’intelletto attivo immortale, ma giudicano mortale quello passivo (individuale), ritenendo che niente sopravvive al corpo, essendo l’anima una funzione dell’organismo, indissolubilmente legata a esso. Gli averroisti, rifacendosi ad Averroè, sostengono invece l’esistenza di un unico intelletto (sia attivo sia passivo), separato dai singoli individui e immortale. A differenza di Tommaso (che poneva sia l’intelletto passivo sia quello attivo nell’anima individuale, concependoli pertanto immortali come l’anima stessa), tanto gli alessandristi quanto gli averroisti finiscono dunque per mettere in discussione, seppure per motivi diversi, l’immortalità dell’anima individuale.
Gli atteggiamenti Più che sulle differenze tra alessandristi e averroisti, gli studi più recenti tendono però a insie i temi comuni stere sulla loro sostanziale comunanza di interessi e di tendenze. Entrambe le correnti, infatti,
presentano una medesima mentalità naturalistico-razionalistica, portata a vedere nella natura il campo privilegiato della filosofia e nella ragione l’unico metodo della ricerca. Entrambi gli indirizzi, inoltre, si occupano di gnoseologia e del problema dell’anima, e si mostrano aperti alle suggestioni del tema rinascimentale e platonico della dignità dell’essere umano.
La teoria della Un’altra affinità tra averroisti e alessandristi è la radicale separazione tra il campo della “doppia verità” fede e quello della ragione, secondo la teoria detta della “doppia verità”.
enciclosofia Alessandro di Afrodisia Filosofo greco vissuto tra il II e il III secolo d.C., Alessandro di Afrodisia è considerato il maggiore commentatore antico di Aristotele. Insegnò la dottrina aristotelica ad Atene tra il 198 e il 211 e identificò l’intelletto attivo teorizzato da Aristotele con l’intelletto divino, unico, universale, immortale e separato dall’uomo. A quest’ultimo Alessandro di Afrodisia attribuì il solo intelletto passivo, considerandolo mortale come il corpo.
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UNITÀ 1 L’UmAnesImo e IL RInAscImento CapITolo 2 Il ritorno a platone e ad aristotele
Questa dottrina è stata inizialmente considerata dalla critica come una libera interpretazione del pensiero di Averroè, finalizzata a sostenere che una medesima tesi può essere simultaneamente vera in filosofia e falsa in teologia, per cui uno stesso individuo, pur ritenendo vere determinate dottrine come filosofo, potrebbe nel contempo giudicarle errate come credente. In realtà, come è stato puntualizzato in seguito, la teoria della doppia verità possiede forse un significato più sottile, in quanto suggerisce che un’idea – ad esempio che l’anima non possa sopravvivere senza il corpo – può essere più probabile (ma non assolutamente certa) secondo la ragione e secondo Aristotele, per quanto l’idea opposta debba essere accettata per fede. Comunque si interpreti e si giudichi la teoria della doppia verità (come sincero convincimento o come tattico stratagemma), è però certo che, grazie ad essa, molti studiosi rinascimentali poterono difendersi, almeno in parte, dagli inquisitori ecclesiastici e professare con una certa libertà nuove dottrine, facilitando in questo modo il processo di laicizzazione della cultura.
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Per l’esposizione orale
1. Indica le principali ragioni della riscoperta del pensiero di Platone nella cultura rinascimentale. 2. Qual è l’interpretazione del pensiero platonico prevalente nel Rinascimento? 3. Indica i due diversi filoni dell’aristotelismo rinascimentale e illustrane gli aspetti che li differenziano e che li accomunano. 4. Che cosa si intende con l’espressione “doppia verità”?
3. La disputa fra i platonici e gli aristotelici Considerando da un lato la riscoperta di Platone e dall’altro il rinnovato interesse per Aristotele, si comprende come nel Rinascimento sia potuta sorgere la famosa “disputa” riguardo alla presunta superiorità dell’uno o dell’altro dei due pilastri del pensiero greco. Tale polemica vide contrapposti due diversi interessi culturali: platonici erano coloro che ponevano in primo piano l’esigenza della rinascita religiosa, e che pertanto vedevano nel ritorno al platonismo, considerato come la sintesi di tutto il pensiero religioso dell’antichità, la condizione di questa rinascita; aristotelici erano coloro che tendevano soprattutto alla rinascita della ricerca razionale, e specialmente della filosofia naturale, vedendo nel ritorno ad Aristotele la condizione della ripresa di una libera ricerca naturalistica.
Il platonismo di Niccolò Cusano Sebbene il platonismo rinascimentale trovi espressione, come abbiamo detto, soprattutto nell’Accademia fiorentina, già in precedenza aveva risuonato una voce platonica, o platonizzante, di prim’ordine: quella di Niccolò Cusano. Nikolaus Chrypffs, o Krebs, detto “Cusano” dal paese di origine (Cusa, presso Treviri, in Ger- La vita mania), nacque nel 1401 e studiò in Germania e a Padova. Fu cardinale e vescovo di Bressano- e gli scritti ne, e morì a Todi nel 1464. Durante un viaggio in Grecia familiarizzò con i pensatori e i teologi greci più significativi del tempo, entrando in un rapporto più diretto con la filosofia antica. La sua opera principale è La dotta ignoranza (1440), a cui seguirono numerosi altri scritti, tra i quali Le congetture, L’idiota, La visione di Dio, Il gioco della palla. Il tema centrale affrontato nella Dotta ignoranza è la conoscenza, che è possibile, secondo Cu- La «proporzione» sano, soltanto quando c’è «proporzione», cioè omogeneità o vicinanza concettuale, tra ciò come fondamento della conoscenza che già si conosce e ciò che si vuole conoscere. In matematica, ad esempio, le proposizioni
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che derivano più direttamente dai princìpi generali sono le più note e facili da comprendere, mentre le meno note e le più difficili sono quelle che derivano dai princìpi generali mediante catene di ragionamenti più lunghe e articolate. Da questa convinzione segue che, quando ciò che si cerca di conoscere non ha alcuna proporzione con ciò che già si conosce, è bene proclamare la propria ignoranza, la quale in questo caso sarà un’ignoranza «dotta», cioè consapevole e fondata su buoni motivi. La conoscenza Esempio emblematico di dotta ignoranza è la conoscenza di Dio: questi, infatti, è infinito, di Dio e tra l’infinito e il finito che gli esseri umani possono conoscere non c’è alcuna propor-
zione; l’uomo potrà avvicinarsi indefinitamente alla verità e all’essere infinito di Dio, ma non potrà mai raggiungerli del tutto. Così come moltiplicando i lati di un poligono inscritto in una circonferenza, questo si avvicinerà indefinitamente alla circonferenza ma non coinciderà mai con essa, nello stesso modo la conoscenza umana non coinciderà mai con la verità assoluta, cioè con Dio. Se non si fonda su questa dotta ignoranza, cioè sulla consapevolezza dei propri limiti, la conoscenza umana non potrà mai essere valida.
Dio come Dal principio della dotta ignoranza Cusano deriva, da un lato, una sorta di visione mistica «coincidenza di Dio, che egli concepisce come «coincidentia oppositorum», cioè come unità e concidegli opposti»
liazione di tutte le determinazioni opposte della realtà: del massimo e del minimo, della creazione e del mondo creato, dell’unità e della molteplicità, e via dicendo.
La concezione Dall’altro lato, dalla dottrina della dotta ignoranza Cusano deriva anche una nuova condel cosmo cezione del mondo fisico, che prelude a quella di Keplero, Copernico e Galilei di cui par-
leremo nell’unità 2. Egli nega che una parte del mondo – quella celeste – sia assolutamente perfetta, e quindi ingenerabile e incorruttibile, poiché rifiuta l’idea aristotelica (che aveva dominato la fisica medievale ed era stata messa in dubbio soltanto da Roberto Grossatesta e da Guglielmo di Ockham) della distinzione tra una sostanza celeste (l’etere) e una sostanza terrestre composta dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco). Tutte le parti del mondo, secondo Cusano, hanno lo stesso valore, e nessuna raggiunge la perfezione, che è propria soltanto di Dio. Inoltre il mondo non ha un centro e una circonferenza che ne costituisce i confini, come Aristotele aveva supposto, perché, se così fosse, al di là di tale circonferenza esisterebbe uno spazio vuoto, cioè un “luogo” totalmente privo di realtà, mentre il mondo comprende tutto lo spazio e tutta la realtà. Di conseguenza, per Cusano il mondo ha il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, poiché la sua circonferenza e il suo centro sono Dio stesso, che è dappertutto e in nessun luogo. Il mondo, dunque, è privo di confini, anche se non possiede l’infinità che è propria di Dio. Non essendovi alcun centro, la Terra non è al centro del mondo: essa si muove di un movimento circolare ed è una «nobile stella» che ha luce e calore come le altre stelle. Un’altra stella è il Sole, che ha la stessa composizione della Terra, per quanto sia formato di elementi più puri. E nelle altre stelle possono esservi abitanti più o meno simili a quelli della Terra.
L’impetus Cusano riprende anche la teoria dell’impetus, che era stata formulata dai filosofi della
scuola occamista per spiegare il movimento dei cieli e dei «proiettili» (corpi che si muovono di moto violento, o non naturale). La teoria dell’impetus (cioè dell’“impulso”) negava il principio aristotelico secondo il quale il motore deve accompagnare il corpo mosso (il «mobile») nella sua traiettoria, e riconosceva invece il principio di inerzia, che sarà uno dei fondamenti della meccanica moderna. Nello scritto intitolato Il gioco della palla, Cusano sostiene infatti che ogni corpo, come la palla lanciata dal giocatore, persevera indefinitamente nel suo movimento, finché il suo stesso peso o altri ostacoli non lo rallentino o lo fermino.
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UNITÀ 1 L’UmAnesImo e IL RInAscImento CapITolo 2 Il ritorno a platone e ad aristotele
Il platonismo di Marsilio Ficino Il maggior pensatore platonico del Rinascimento è però Marsilio Ficino (1433-1499), il La vita quale tradusse in latino e commentò ampiamente i Dialoghi di Platone, le Enneadi di Plotino e e gli scritti altre opere, oltre a scrivere dodici libri di Epistole, che sono in realtà saggi e opuscoli, e una Teologia platonica. Ficino fu anche il fondatore dell’Accademia platonica fiorentina, all’interno della quale si accentuò decisamente l’aspetto religioso e mistico del platonismo, a scapito dell’aspetto scientifico. I seguaci dell’Accademia ritenevano che la dottrina di Platone derivasse da quella di Mosè, e che anzi risalisse ancora più indietro nel tempo. Essi pertanto intesero il ritorno al platonismo come il ritorno alla più antica sapienza religiosa del genere umano.
L’indirizzo religioso del platonismo fiorentino
Nella sua concezione della realtà, Ficino distingue (neoplatonicamente) cinque gradi di perfezione (o di essere) decrescenti: Dio, gli angeli, le anime, le qualità (cioè i princìpi formali che sostanziano le realtà corporee, e che negli esseri umani coincidono con l’anima) e i corpi (ovvero la materia di cui tutti gli esseri corporei sono formati). In quanto essenza intermedia tra la parte spirituale e quella fisica dell’universo, l’anima si trova nel mezzo sia nel percorso di ascesa dal corpo a Dio, sia nel percorso che discende da Dio al corpo. Essa è dunque nodo vivente della creazione, «copula del mondo» che, incorporea, vivifica i corpi.
I gradi della realtà e la funzione mediatrice dell’anima
La funzione mediatrice dell’anima si esplica attraverso l’amore, che è la forza che unisce La funzione armonicamente le diverse parti della creazione. In virtù dell’amore l’universo tende a dell’amore Dio ed esce gradualmente dal caos, organizzandosi e raggiungendo l’ordine e la perfezione. In virtù dell’amore Dio si prende cura del mondo, lo ordina e gli dà vita.
L’aristotelismo di Pietro Pomponazzi Tra gli esponenti dell’aristotelismo che insegnarono a Padova e a Bologna (altra importan- La vita e te sede universitaria della corrente) si possono ricordare Nicoletto Vernia, Agostino Nifo, gli scritti Leonico Tolomeo e Alessandro Achillini. Il più famoso degli aristotelici del Rinascimento fu però Pietro Pomponazzi, fondatore della scuola alessandrista. Nato a Mantova il 16 settembre 1462, insegnò sia a Padova sia a Bologna, dove morì il 18 maggio 1525. Il suo scritto più notevole è Sull’immortalità dell’anima (1516). Furono pubblicati postumi Gli incantamenti, che tratta della magia, e Sul destino, il libero arbitrio e la predestinazione. L’intento fondamentale di Pomponazzi è quello di mostrare che il mondo è retto da un ordine razionale e necessario, e per farlo egli si volge al pensiero di Aristotele, vedendo in lui il filosofo che aveva saputo riconoscere nel mondo un puro sistema razionale di fatti, escludendo così l’intervento diretto di Dio o di altri poteri soprannaturali. Su questa base teorica, nell’opera Gli incantamenti Pomponazzi non nega l’esistenza di fatti eccezionali o “miracolosi”, né esclude la possibilità di incantesimi, magie, stregonerie, strabilianti effetti di piante o di pietre e via dicendo. Tuttavia precisa che si tratta di “miracoli” non nel senso di “eventi contrari alla natura” ed estranei all’ordine del mondo, bensì nel senso che accadono molto raramente. In realtà sono fatti naturali, che si spiegano anch’essi in base all’ordine necessario del creato, e precisamente facendo riferimento all’azione degli astri. I corpi celesti, infatti, sono il tramite necessario dell’azione di Dio sul mondo: Dio non agisce direttamente sulle cose naturali, perché tutte le azioni si trasmettono lungo i gradi gerarchici della realtà e ciò che è superiore può agire su ciò che è inferiore soltanto per il tramite di ciò che è in mezzo. Miracoli e incantesimi, dunque, sono dovuti all’influsso dei corpi celesti e rientrano nell’ordine naturale del mondo.
L’ordine del mondo e la natura dei “miracoli”
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L’inseparabilità Lo scritto Sull’immortalità dell’anima è diretto a includere nell’ordine naturale del mondell’anima do anche l’attività spirituale dell’uomo. Pomponazzi, infatti, afferma che l’anima umana dal corpo
non può esistere né operare senza il corpo: l’anima sensitiva ha bisogno del corpo sia come soggetto, perché ha bisogno di organi corporei come l’occhio, l’orecchio ecc., sia come oggetto, perché può percepire soltanto cose corporee; l’anima intellettiva non ha bisogno del corpo come soggetto perché non ha organi corporei, ma ha bisogno del corpo come oggetto, perché non può conoscere nulla se non partendo dalle cose corporee percepite attraverso i sensi. Soltanto le intelligenze angeliche non hanno bisogno del corpo né come soggetto né come oggetto; ma l’anima umana non è e non può diventare un’intelligenza angelica. E se l’anima umana è inseparabile dal corpo, la sua immortalità diventa dubbia e, in ogni caso, impossibile a dimostrarsi.
La concezione La messa in dubbio dell’immortalità dell’anima annulla la possibilità della vita morale? della virtù Secondo Pomponazzi no, perché il fatto che non ci sia un premio o un castigo nell’al-
dilà non significa che la virtù non abbia un premio e che il vizio non abbia un castigo. Il premio essenziale della virtù è la virtù stessa, che rende l’uomo felice; e la pena del vizio è il vizio stesso, che lo rende misero e infelice. Un premio o un castigo aggiunti ed estrinseci sembrano piuttosto diminuire il merito o il demerito di un’azione. In questo modo, anche la vita morale è riportata nell’ordine naturale delle cose, poiché per la sua giustificazione non è necessario il ricorso al soprannaturale.
Il rapporto tra verità di fede e verità di ragione
Queste conclusioni – nota Pomponazzi – sono filosofiche; accanto e al di là di esse, stanno però le proposizioni della religione, che affermano l’immortalità dell’anima. Questo ragionamento è stato tradizionalmente interpretato come un classico esempio di applicazione della teoria della doppia verità, poiché per la filosofia sarebbe certa la mortalità dell’anima, mentre per la teologia sarebbe certa la sua immortalità. Secondo interpretazioni più recenti, tuttavia, Pomponazzi intende semplicemente affermare che la mortalità è più probabile secondo la ragione (e secondo Aristotele), per quanto l’immortalità sia un dogma di fede, che ogni credente deve accettare. Sincera o meno che fosse la posizione di Pomponazzi, sta di fatto che grazie ad essa egli riuscì a difendersi dalla tempesta polemica che accompagnò la sua opera sull’anima.
Libertà umana Nell’opera Sul destino, il libero arbitrio e la predestinazione Pomponazzi esamina il e onnipotenza problema della conciliazione tra libertà umana da una parte, e prescienza e predeterminadivina
ESERCIZI
zione divine dall’altra. Pur affermando che la libertà dell’uomo, testimoniata dall’esperienza, è innegabile, egli la ritiene conciliabile con la prescienza, ma non con l’onnipotenza di Dio. Stando a considerazioni puramente naturali, infatti, l’opinione più fondata su questo tema sembra essere quella degli stoici, i quali ammisero l’esistenza di un ordine cosmico necessario stabilito da Dio. Questi sarebbe quindi causa non soltanto del bene, ma anche del male, che è innegabilmente presente nel mondo. Tale difficoltà, tuttavia, si può risolvere affermando che il bene concorre insieme con il male alla compiutezza dell’universo, e che in quest’ultimo, come in ogni organismo vivente, ci devono essere non soltanto parti pure e nobili, ma anche parti impure e ignobili. Pomponazzi afferma tuttavia che anche a queste conclusioni della ragione naturale siano da preferire le credenze della fede.
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Per l’esposizione orale
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1. Spiega i concetti cusaniani di «dotta ignoranza» e «coincidenza degli opposti». 2. Qual è secondo Marsilio Ficino la funzione dell’anima umana? 3. Perché secondo Pomponazzi l’immortalità dell’anima non è dimostrabile?
UNITÀ 1 L’UmAnesImo e IL RInAscImento CapITolo 2 Il ritorno a platone e ad aristotele
AUDIOSINTESI
SINTESI CAPITOLO 2 IL RITORNO A PLATONE E AD ARISTOTELE
La riscoperta di Platone e di Aristotele La cultura rinascimentale si caratterizza per la riscoperta dei due maggiori pensatori dell’antichità: Platone e Aristotele. Platone viene studiato soprattutto nelle accademie (in primo luogo a Firenze), dove si analizzano le sue opere anche grazie a nuove e più complete traduzioni. In questo periodo il pensiero platonico non viene distinto da quello di Plotino: nella prospettiva di una rinascita religiosa dell’essere umano, i filosofi rinascimentali di impostazione platonica elaborano infatti una sintesi fra il platonismo vero e proprio, il neoplatonismo (con la sua dottrina del ritorno a Dio) e il pensiero cristiano. Lo studio di Aristotele è invece centrale nelle università (in particolare a Padova) e viene privilegiato da studiosi interessati soprattutto alla rinascita della ricerca razionale. Due sono gli indirizzi di fondo dell’aristotelismo: l’averroismo, secondo cui la conoscenza umana si deve a un unico intelletto (attivo e passivo), separato dai singoli individui e immortale; l’alessandrismo, secondo cui l’intelletto attivo (unico, separato dai singoli individui e immortale) coincide con Dio, mentre nell’uomo esiste il solo intelletto passivo, che muore insieme con il corpo. Tanto gli averroisti quanto gli alessandristi abbracciano il principio della doppia verità, secondo il quale la ragione può riconoscere alcune tesi come più probabili rispetto alle tesi opposte, che tuttavia debbono essere accettate per fede.
I principali pensatori platonici Cusano Precursore del platonismo rinascimentale è Niccolò Cusano, per il quale è possibile conoscere soltanto ciò che è “proporzionato” e “omogeneo” alla propria natura e a ciò che già si conosce: in assenza di queste condizioni (come nel caso della conoscenza di Dio, essere infinito in cui tutti gli opposti coincidono), l’uomo può aspirare soltanto a una «dotta ignoranza», ossia alla consapevolezza dei limiti delle proprie finite capacità conoscitive. Per quanto riguarda il mondo fisico, Cusano è convinto che esso abbia «un centro dappertutto e una circonferenza in nessun luogo», ovvero che sia privo di confini e che tutte le sue parti abbiano lo stesso valore.
Ficino Marsilio Ficino, fondatore dell’Accademia platonica fiorentina e traduttore in latino dei Dialoghi di Platone e delle Enneadi di Plotino, è convinto che nella realtà si distinguano cinque «gradi»: Dio, gli angeli, le anime, le qualità e i corpi. In questa scala l’anima dell’uomo occupa la posizione centrale: essa è dunque la «copula del mondo», ovvero un’essenza intermedia capace di unire i gradi più bassi della realtà con quelli più alti attraverso l’amore, che è tensione verso Dio.
Il principale pensatore aristotelico: Pomponazzi Il più famoso tra gli aristotelici rinascimentali è Pietro Pomponazzi, insegnante all’Università di Padova e iniziatore della corrente degli alessandristi. Pomponazzi sostiene che il mondo è retto da un ordine naturale razionale e necessario, dal quale è escluso l’intervento diretto di Dio. Coerentemente con questa prospettiva razionalistica, egli afferma che l’anima è inseparabile dal corpo, e che pertanto la sua immortalità è indimostrabile, sebbene vada accettata come verità di fede. Analogamente, le scelte morali dell’uomo non si fondano sulla possibilità di un premio o di un castigo nell’aldilà, ma sulla natura stessa della virtù, che rende l’uomo felice.
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MAPPE
CAPITOLO 2 IL RITORNO A PLATONE E AD ARISTOTELE LA RISCOPERTA DI PLATONE E DI ARISTOTELE è all’origine di
platonismo rinascimentale
aristotelismo rinascimentale
che ha come fine
che si sviluppa
che ha come fine
che si sviluppa
un rinnovamento religioso
nell’Accademia di Firenze
la rinascita della ricerca naturalistica
presso l’Università di Padova
I PRINCIPALI PENSATORI PLATONICI sono
il principio della dotta ignoranza
Cusano
Ficino
che afferma
che distingue
l’unità di tutte le determinazioni della realtà in Dio
cinque gradi della realtà
il carattere interminato del mondo
e pone
l’anima al centro, come copula mundi
IL PRINCIPALE PENSATORE ARISTOTELICO è
Pomponazzi secondo il quale
il mondo ha un ordine razionale necessario
l’anima umana è inseparabile dal corpo
la vita morale rientra nell’ordine naturale
le credenze della fede non si possono dimostrare razionalmente
quindi
quindi
e
ma
non esistono fatti “miracolosi”
la sua immortalità non è dimostrabile
la virtù è premio a sé stessa
sono preferibili
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UNITÀ 1 L’UmAnesImo e IL RInAscImento CapITolo 2 Il ritorno a platone e ad aristotele
CAPITOLO 3 RINASCIMENTO E RELIGIONE
1. Il ritorno alle origini del cristianesimo In quanto ritorno dell’essere umano alle sue possibilità originarie, il Rinascimento è anche rinnovamento religioso. Di fronte alla decadenza che nel XV secolo caratterizza la vita della Chiesa, e di conseguenza la vita di fede di molti cristiani, alcuni pensatori propongono di ricollegarsi alla forza e alla vitalità tipiche delle fonti della religiosità cristiana, per riscoprirle nella loro purezza, intenderle nel loro significato genuino, farle rivivere nella loro fecondità spirituale. Si è già visto come il platonismo rinascimentale costituisse un tentativo per riconoscere e far rivivere l’originaria sapienza religiosa dell’umanità: sapienza che si vedeva sintetizzata in Platone e nella quale si riteneva confluissero tanto la speculazione orientale quanto quella greco-romana. Ma quella dei platonici rinascimentali è una religione per dotti, cioè una filosofia teologica, più che una religione in senso stretto. Ficino e Pico della Mirandola si accordano in questo atteggiamento con Cusano e perfino con Giordano Bruno (di cui parleremo nel capitolo 5): per questi filosofi il ritorno alla religiosità originaria è il ritorno ai “teologi” dell’antichità, cioè a coloro che avevano elaborato ed espresso la vita religiosa in pregnanti formule di pensiero. Ecco perché il platonismo rinascimentale non costituisce un’autentica riforma religiosa, essendo piuttosto un momento o un aspetto di quel rinnovamento filosofico che caratterizza l’epoca.
Il platonismo rinascimentale come filosofia teologica
La riforma della vita religiosa dell’Occidente cristiano doveva invece passare attraverso un ritorno alle fonti del cristianesimo in quanto tale, cioè non ai teologi o alla teologia grecoorientale, ma alla parola stessa di Cristo, alla verità rivelata della Bibbia. Quella rinascita spirituale, quella riforma totale dell’essere umano che la predicazione di Gesù di Nazareth aveva annunciato e promosso, poteva riacquistare il suo senso originario e divenire realtà soltanto con un ritorno alla parola divina espressa nei Vangeli e negli altri libri biblici. E la parola di Dio non si rivolge ai soli dotti, ma a tutti gli uomini come tali, e non è tesa a una riforma della dottrina, bensì della vita concreta degli individui. Un rinnovamento religioso, nello spirito del Rinascimento, doveva dunque tendere a far rivivere direttamente la parola di Dio nelle coscienze dei singoli uomini, liberandola dalle sovrastrutture tradizionali e ripristinandola nella sua forma genuina e nel suo valore salvifico. Questo fu il compito della riforma religiosa (sia quella protestante sia la conseguente riforma cattolica, di cui parleremo nei paragrafi 3 e 4), alla quale si legò l’esigenza filologica di ripristinare il testo biblico nella sua purezza e nella sua genuinità. Ma, proprio come nel caso dell’Umanesimo letterario e filosofico, il momento filologico fu lo strumento di una necessità più profonda: quella di ritornare al significato vero e originario della parola di Dio, per farla valere in tutta l’efficacia della sua potenza di rinnovamento.
La necessità di un autentico rinnovamento religioso
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2. L’umanismo e il pacifismo di Erasmo da Rotterdam L’aspetto filologico-umanistico della riforma religiosa è rappresentato in modo emblematico da Erasmo da Rotterdam, che fu il più famoso umanista della sua epoca. La vita Nato a Rotterdam nel 1466, Geert Geertz (cioè “Gherardo figlio di Gherardo”) assume in-
torno ai trent’anni il nome “Desiderio Erasmo”, con cui è tuttora noto. Rimasto presto orfano di entrambi i genitori, viene formato alla cultura classica in un convento agostiniano. A ventisei anni diventa sacerdote e comincia a viaggiare per l’Europa, soprattutto in Francia e in Italia, dove si laurea in teologia presso l’Università di Torino (1506). Nonostante la formazione teologica, il compito che Erasmo riconosce come proprio è soprattutto quello di scrittore e di filologo. A lui si devono l’edizione critica degli scritti di alcuni padri della Chiesa (tra i quali Agostino) e del Nuovo Testamento, che traduce dal greco in latino. Muore il 12 luglio 1536 a Basilea.
Gli scritti L’opera più famosa di Erasmo è l’Elogio della pazzia (scritto nel 1509), a cui sono affini
per contenuto i più tardi Colloqui familiari (1522). Il Manuale del milite cristiano (1503) e l’introduzione all’edizione critica del Nuovo Testamento contengono i princìpi ai quali si ispirerà Lutero nella sua battaglia riformatrice, mentre il De libero arbitrio (1524) è una presa di posizione contro la negazione luterana della libertà umana. Notevoli sono anche: gli Adagia, proverbi e motti pazientemente raccolti e pubblicati a più riprese tra il 1500 e il 1526; il Lamento della pace (1517); il dialogo satirico Iulius exclusus e coelis (che comincia a circolare manoscritto nel 1514), in cui Erasmo ritrae il defunto papa-soldato Giulio II che si scontra con san Pietro, il quale si rifiuta di aprirgli le porte del paradiso. Infine, le opere pedagogiche, tra cui il De ratione studii (1511).
Il rapporto di Erasmo con la Riforma L’Elogio Nella lotta religiosa provocata dalla Riforma luterana, Erasmo sceglie di rimanere neudella pazzia trale, attirandosi così l’ostilità sia dei protestanti sia dei cattolici. Tuttavia, nei suoi scritti
sono già presenti tutti i temi della polemica protestante contro la Chiesa e contro il papato. Nell’Elogio della pazzia, in particolare, con la satira e il sarcasmo egli mette a nudo la decadenza morale della società del suo tempo, specialmente della Chiesa. La pazzia, che egli ritrae personificata e alla quale affida il compito di tessere il proprio elogio, è l’illusione, l’incoscienza, l’ignoranza contenta di sé, in breve la menzogna o l’impostura di cui la vita umana, singola o associata, si ammanta per nascondere il proprio degrado. La parte centrale dell’opera è dedicata alla critica della religiosità dell’epoca.
Il «milite Nel Manuale del milite cristiano Erasmo contrappone alla cultura teologica, che forma il cristiano» e teologo o il letterato, la fede religiosa, che forma il soldato di Cristo. L’arma principale il ritorno alla parola di Dio del «milite cristiano» è dunque costituita non tanto dall’erudizione in materia filosofico-
teologico, quanto dalla lettura e dall’interpretazione della Bibbia, che custodisce il messaggio originario di Gesù. Ed è appunto allo studio della Bibbia che Erasmo dedica la maggior parte della propria attività di filologo. Affrontando la stesura del testo critico del Nuovo Testamento, nell’introduzione dichiara che le Scritture devono essere lette e intese da tutti. Da questo generale ritorno alla lettura dei testi sacri, e in particolare del Vangelo, Erasmo si attende quella riforma, o rinascita, dell’essere umano, coincidente con la restaurazione della sua autentica natura.
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UNITÀ 1 L’UmanEsImo E IL RInascImEnto CapITolo 3 Rinascimento e religione
Come abbiamo accennato, la rinascita umana che soltanto la parola di Cristo può determi- Il rapporto con patristica e nare è contrapposta da Erasmo alla sapienza teologica, che è necessaria per acquisire abi- la la scolastica lità nelle dispute, ma che non è sufficiente per una fede e una carità autentiche. Per questo Erasmo rivolge il proprio interesse, oltre che al Nuovo Testamento, anche agli scritti dei padri della Chiesa, la cui dottrina gli sembra ispirarsi direttamente alle fonti cristiane; egli però ripudia la speculazione scolastica, ritenendo che abbia smarrito, disputando su questioni oziose, il senso originario del cristianesimo. In modo analogo, all’esteriorità delle cerimonie ecclesiastiche, che nella loro varietà sono Il rapporto la lotta spesso oggetto di attrito tra le confessioni religiose, Erasmo contrappone il precetto origi- con luterana nario di Cristo, che invita a un atteggiamento di autentica carità: «Dalle cerimonie nascono i dissidi, dalla carità la pace». Erasmo chiarisce così quello che sarà il concetto fondamentale della Riforma protestante: il rinnovamento della coscienza cristiana mediante il ritorno alle fonti del cristianesimo. Ma il suo compito si ferma qui. In quanto umanista abituato a muoversi nel mondo dei dotti, egli avversa i tentativi di servirsi della religione per agitare forze politiche e sociali che gli appaiono estranee alla cultura. Quando nel 1519 Lutero gli indirizza una lettera chiedendogli di pronunciarsi pubblicamente in favore della Riforma, egli, pur approvando gran parte dei princìpi da cui Lutero muove, si rifiuta di seguirlo e di incoraggiarlo nella sua opera rivoluzionaria. Più tardi, nel 1524, nel saggio De libero arbitrio Erasmo attacca apertamente i pensatori ri- La difesa del formati sul problema, appunto, del libero arbitrio. Opponendosi a Lutero, egli rivendica la libero arbitrio libertà dell’essere umano di scegliere di salvarsi (o di dannarsi), e vede nella grazia divina soltanto la causa principale della salvezza e nella libertà dell’uomo la sua causa secondaria. La salvezza è quindi il frutto della collaborazione tra l’uomo e Dio. Così, mentre Lutero afferma che al cristiano è richiesto un abbandono totale e incondizionato all’onnipotenza divina, la quale sola può disporre della sorte di tutti gli uomini, Erasmo parla ancora come un umanista filosofo, difendendo quella libertà senza la quale la dignità umana non ha senso.
La difesa della pace Per comprendere meglio la figura di Erasmo, è fondamentale tenere conto della sua difesa appassionata della pace, che costituisce un aspetto imprescindibile del suo pensiero e che è rintracciabile già nelle sue prime opere. In un’esercitazione retorica scritta all’età di vent’anni – il Discorso sulla pace e sulla discordia La condanna (Oratio de pace et discordia) – il giovane Erasmo descrive la sciagura della guerra con accen- della guerra ti accorati, che anticipano le opere della maturità: «La guerra cambia gli uomini in bestie feroci. Io non esorto e non prego, imploro: cercate la pace». Più tardi, negli Adagia, il filosofo sostiene con forza che la guerra «è piacevole soltanto per chi non la sperimenta» e denuncia i disegni bellicisti del papato, mal celati sotto la veste di missioni cristiane. L’opera erasmiana più famosa in questo senso è però il Lamento della pace (Querela Pacis), in Il «lamento cui è la Pace stessa (personificata) a dolersi per essere stata «rigettata e annientata da tutte della pace» le nazioni» e a denunciare l’assurdità e gli orrori della guerra, la più tragica e insana tra le follie umane. Per Erasmo ogni guerra è sommamente ingiusta, a prescindere dal motivo che la scatena: quello del filosofo di Rotterdam è dunque un ripudio totale e incondizionato della guerra, anche di quella che Agostino, Tommaso e il pensiero ufficiale della Chiesa reputavano giusta, in quanto forma di difesa contro le aggressioni ( “La filosofia che vive”, p. 32).
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EDUCAZIONE CIVICA
SVILUPPO SOSTENIBILE
LA FILOSOFIA CHE VIVE L’attualità della lezione di Erasmo sulla pace
L’incondizionato rifiuto della guerra Erasmo fa dell’impegno intellettuale e diplomatico in favore della pace il perno di tutta la sua vita. Più che un’idea o un ideale da perseguire, la pace è per lui quasi un’ossessione che emerge in numerosi suoi scritti, primo fra tutti il celebre Lamento della pace (Querela Pacis, 1517). Secondo il doppio significato del vocabolo latino queréla, l’opera vuole essere sia un “lamento” sia una “denuncia”: un’amara espressione di dolore di fronte a tutti quei cristiani che ignorano, travisano o usano male il messaggio di Cristo, piegandolo alla volontà di dominio, agli egoismi e all’odio; e un atto d’accusa contro i potenti del mondo (vescovi e prìncipi, papi e re), che dovrebbero provvedere al bene dei popoli e che al contrario seminano violenza e distruzione. Erasmo si sforza anche di offrire una serie di consigli pratici per evitare le guerre: attenuare le passioni nazionalistiche in favore di un comune sentimento di umanità e di solidarietà; dare stabilità ai confini territoriali per evitare le controversie tra gli Stati; fissare rigide regole per la successione dei sovrani, al fine di prevenire contestazioni e aggressioni tra i candidati al trono; organizzare sistemi di arbitrato tra gli Stati, sottraendo ai singoli regnanti la facoltà di dichiarare guerra. Il «ripudio» della guerra nella nostra Costituzione La ferma condanna della guerra che anima l’opera di Erasmo è presente anche nell’articolo 11 della nostra Costituzione, che recita: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. (Costituzione della Repubblica italiana, art. 11)
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DIBATTITO CRITICO
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Pace, giustizia e istituzioni solide
VIDEO
Il verbo “ripudiare” (che va oltre il “rifiutare”) scelto dai costituenti italiani implica una totale presa di distanza da quello che nel secondo dopoguerra appariva come un flagello dell’umanità: esso dava voce a un intero popolo che, umiliando la dignità di altri popoli con le guerre di aggressione promosse dal fascismo, aveva umiliato prima di tutto sé stesso. L’articolo 11, inoltre (come Erasmo nella Querela Pacis), prova a individuare alcuni concreti strumenti per costruire la pace. Per i nostri costituenti, infatti, all’origine della guerra c’è la sovranità assoluta, chiusa ed egoistica dello Stato nazionale: la via della pace è dunque indicata nella possibilità che lo Stato rinunci a una parte della propria «sovranità» e la ceda a «organizzazioni internazionali» (come l’Organizzazione delle Nazioni Unite o l’Unione Europea) in grado di dirimere le controversie che possono sorgere tra i diversi Paesi. L’Italia si colloca così all’interno di un ordine politico e giuridico sovra-nazionale che ha il preciso obiettivo di assicurare «la pace e la giustizia tra le Nazioni». Il pacifismo radicale Pur rifiutando la guerra di offesa, il nostro Paese considera legittima la guerra difensiva e incoraggia la partecipazione del nostro esercito a operazioni militari volte a tutelare o ripristinare la pace e i diritti umani dove questi vengano calpestati. Da questo punto di vista, la posizione italiana si differenzia dalle attuali forme di pacifismo radicale, di cui Erasmo può essere considerato un precursore. L’espressione indica una concezione totalmente non violenta della vita, che rifiuta l’azione bellica anche quando essa appaia giustificata per il suo carattere difensivo o umanitario. I pacifisti radicali considerano la guerra proprio come Erasmo, ovvero come un’«aberrazione stupida, atroce e odiosa, del tutto incompatibile non solo con le massime evangeliche, ma con la razionalità stessa della stirpe umana» (Federico Cinti, “Introduzione” a Erasmo, Il lamento della pace, cit., p. 47).
Esiste una “guerra giusta”? In quali casi ed entro quali limiti un intervento bellico può essere considerato legittimo? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, documentatevi in Internet sui recenti conflitti internazionali e sulle operazioni afferenti a quello che viene chiamato “Peace-keeping” (letteralmente, “mantenimento della pace”) a cui hanno partecipato o partecipano le nostre forze militari. Cercate quindi di chiarire in quali casi si può parlare di guerra giusta, o comunque di azioni che godono di una legittimazione giuridica internazionale. In classe, sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in piccoli gruppi e avviate una discussione sulla base delle ricerche svolte individualmente. Elaborate quindi una risposta (se possibile, di gruppo) all’interrogativo proposto. QUESTIONE
Ma, prima ancora che offesa a Cristo e alla «vera religione», per Erasmo la guerra rappresenta un oltraggio alla ragione umana e alle virtù che, secondo l’insegnamento dei grandi maestri della classicità latina e greca, la ragione indica all’uomo. In questa prospettiva la pace non è semplicemente assenza di guerra, ma esercizio di virtù morale: «gran parte della pace sta nel volere la pace dal profondo dell’animo» (Il lamento della pace, cit., p. 157).
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Per l’esposizione orale
1. Spiega in che cosa consiste il rinnovamento religioso promosso dal Rinascimento e per quale motivo il platonismo rinascimentale non sfocia in un’autentica riforma religiosa. 2. Illustra i tratti della “pazzia” sulla quale Erasmo ironizza con amarezza. 3. Illustra il pensiero di Erasmo a proposito della guerra.
3. La Riforma protestante e i suoi maggiori esponenti Lutero Il tedesco Martin Lutero (Martin Luther, 1483-1546) è l’assertore più risoluto del ritorno alle fonti cristiane come via di rinnovamento della coscienza religiosa, oltre che l’iniziatore della cosiddetta “Riforma protestante”, ovvero di quel movimento di protesta religiosa e politica che nel XVI secolo condusse alla divisione della cristianità in diverse confessioni. Fondamentalmente, Lutero nega il valore della tradizione cristiana ufficiale e sottolinea la La giustificazione per mezzo necessità, per ciascun individuo, di rapportarsi direttamente al Vangelo. della fede Lutero considera quindi l’insegnamento diretto di Cristo e degli apostoli attraverso le Scritture come il solo valido, e la fede nella verità del messaggio cristiano come la base esclusiva per la salvezza umana. È questo il principio fondamentale della Riforma: la giustificazione per mezzo della fede. La frase di Paolo di Tarso «il giusto vivrà per la sua fede» significa, secondo Lutero, che Dio ci giustifica con la sua grazia. Per l’essere umano si tratta dunque di una giustizia passiva: l’uomo che ha fede è l’uomo che è stato giustificato, al quale i peccati sono stati rimessi e che è quindi sicuro della salvezza, e la fede è la fiducia nella giustificazione da parte di Dio. La giustificazione per mezzo della fede implica, da parte dell’essere umano, l’abbandono fidu- L’abbandono a cioso a Dio e la certezza interiore della salvezza. Da questo punto di vista, il tentativo della Dio e il rifiuto della scolastica scolastica di giustificare la fede con la ragione appare ripugnante e assurdo. La ragione è per Lutero «la più accanita e pestifera nemica di Dio». I filosofi sono tutti «sofisti»: Lutero salva soltanto Ockham, che aveva sostenuto la netta separazione tra l’ambito della ragione e quello della fede. Ricerca razionale significa infatti iniziativa e libertà da parte dell’uomo, mentre la fede è rinuncia a ogni iniziativa autonoma di salvezza e totale abbandono a Dio. Il ritorno al Vangelo implica inoltre la negazione della funzione mediatrice dei sacerdoti e La svalutazione dei sacramenti. Lutero riduce infatti i sacramenti prima a tre (battesimo, eucarestia, peni- del sacerdozio e dei sacramenti tenza), quindi a due: battesimo ed eucarestia (e quest’ultima con un significato soltanto simbolico), poiché questi soli, secondo i racconti evangelici, sono stati istituiti da Cristo. Il valore di tali sacramenti è comunque condizionato dalla fede, che, essendo un rapporto tra il singolo e Dio, esclude ogni intermediario. La giustificazione per fede, infine, toglie ogni valore alle cosiddette “buone opere”, cioè alle La svalutazione opere meritorie. Le opere buone, infatti, di per sé non bastano a salvare nessuno, e rappre- delle buone opere sentano piuttosto il frutto e il segno della salvezza, non la sua causa. Un albero buono dà frutti buoni, mentre un albero cattivo dà frutti cattivi: l’uomo che ha fede, l’uomo destinato
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alla salvezza, compie opere buone, mentre l’uomo che non ha fede, qualsiasi cosa faccia, compie opere cattive. In ogni caso, le opere buone che sono il segno della salvezza non consistono in riti e cerimonie, ma in opere utili alla vita civile. Ogni essere umano ha il suo lavoro, con il quale presta servizio agli altri: questo lavoro è l’unico autentico servizio reso a Dio, l’unica opera attraverso la quale il cristiano dà testimonianza della propria fede interiore. La vita sociale è il campo in cui la fede deve manifestarsi e divenire operante. La negazione del libero arbitrio e la teoria della grazia
Al De libero arbitrio di Erasmo, Lutero replica nel 1525 con il De servo arbitrio. Il libero arbitrio, secondo Lutero, è nulla, un nome vano: la prescienza e la predestinazione divine implicano che nulla accada che Dio non voglia, e ciò esclude che nell’essere umano o in qualsiasi altra creatura vi possa essere libero arbitrio. Bisogna quindi concludere che Dio opera ugualmente negli uomini il bene e il male (così come un artefice si serve talvolta anche di strumenti cattivi o deteriorati) e che la salvezza come la dannazione sono opera soltanto divina. In questo senso Lutero fa propria e porta alle estreme conseguenze la dottrina agostiniana della grazia. All’obiezione che Dio sarebbe allora l’autore del male, Lutero risponde (seguendo Ockham) che Dio non è tenuto ad alcuna regola o norma. Egli non deve volere una cosa perché è giusta, ma quello che vuole, per ciò stesso, è giusto. Lutero porta così la coscienza religiosa alla massima radicalità possibile: per l’uomo l’unica libertà è l’asservimento a Dio, e l’unica iniziativa, come l’unico merito, è la rinuncia a ogni iniziativa e ad ogni merito.
Calvino Il ritorno al Per il teologo francese Giovanni Calvino (Jean Cauvin, 1509-1564), seguace di Huldrych Vecchio Zwingli e promotore della Riforma protestante in Svizzera, il ritorno alle fonti del cristianesimo testamento
è essenzialmente il ritorno alla religiosità del Vecchio Testamento. Nella sua opera fondamentale, intitolata Istituzione della religione cristiana (1559), Calvino sottolinea infatti l’unità e la continuità tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, combattendo la tesi secondo cui il primo avrebbe additato agli ebrei una felicità puramente terrena. E proprio dal Vecchio Testamento Calvino desume il concetto di Dio come assoluta sovranità e potenza, di fronte a cui l’essere umano è nulla.
La Più che amore, per Calvino Dio è onnipotenza e imperscrutabilità. Dal suo decreto dipendono predestinazione il corso delle cose e il destino degli uomini. L’uomo si salva unicamente in virtù della predesti-
nazione divina, che lo rende partecipe dei meriti di Cristo. La volontà umana è quindi nulla di fronte alla predestinazione divina. Ed è soltanto dalla fede nei meriti di Cristo che gli esseri umani possono derivare una fiducia incrollabile nella propria salvezza, fiducia che sarebbe invece malsicura e incerta se si dovesse contare sui propri meriti, che sono inutili e insignificanti.
Il lavoro come Da una tale convinzione non deriva, come ci si potrebbe aspettare, una condanna della conmissione creta attività umana. Anzi, il lavoro è per Calvino un dovere sacro e la buona riuscita negli
affari può costituire una prova del favore di Dio. Egli, infatti, manifesta la sua predilezione per alcuni individui aiutandoli a raggiungere la prosperità e il benessere. Su questo aspetto dell’etica calvinista si modellò in qualche misura lo spirito attivo, aggressivo e alieno da ogni sentimentalismo della nascente borghesia capitalistica svizzera. enciclosofia Huldrych Zwingli Nato nel 1484 e morto nel 1531, Huldrych Zwingli è il pensatore a cui si deve l’inizio della riforma religiosa in Svizzera, proseguita e organizzata dopo di lui da Calvino. Di formazione umanistica e ammiratore di Erasmo, Zwingli cominciò presto a prendere posizione contro la corruzione dei costumi dei rappresentanti della Chiesa. Dal punto di vista teologico abbracciò anch’egli, come Lutero, la teoria agostiniana della grazia e della predestinazione, e anch’egli intese la fede come un rapporto diretto e individuale con Dio, tanto da respingere con forza la validità di ogni cerimonia, simbolo o sussidio esterno della religione.
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UNITÀ 1 L’UmanEsImo E IL RInascImEnto CapITolo 3 Rinascimento e religione
4. La reazione della chiesa cattolica Con l’espressione “Controriforma” si è soliti indicare la reazione della Chiesa cattolica La controriforma alla Riforma protestante. Tale reazione ebbe inizio con il Concilio di Trento (1545-1563), e il concilio di trento in cui si negò ufficialmente il principio luterano della libera e individuale interpretazione delle Scritture, e si riaffermò il diritto della Chiesa di dare, essa sola, l’interpretazione autentica dei testi biblici. Furono inoltre riconfermate la funzione mediatrice della Chiesa nel rapporto del singolo con Dio, la validità dei sacramenti e dei riti, e il valore delle opere meritorie compiute dagli individui nel corso della loro vita terrena. Il maggiore rappresentante di questa linea di pensiero fu il cardinale, nonché teologo gesuita, Roberto Bellarmino (1542-1621). Il Concilio di Trento rispose anche a un’esigenza di rinnovamento che i cattolici (o almeno alcune correnti di essi) sentivano già da tempo. In questo senso la Controriforma fu l’occasione per una profonda revisione che la Chiesa fece di sé stessa sotto l’impulso delle circostanze storiche che si trovava a vivere. Un tale processo di revisione – che alcuni storici preferiscono chiamare “Riforma cattolica” anziché “Controriforma” – aveva avuto inizio già nel basso Medioevo con la crisi del papato e delle sue pretese politiche, e in epoca rinascimentale si configurò anch’esso come un ritorno al principio, ovvero alla tradizione patristica. Era stato con l’opera dei padri della Chiesa, infatti, che la parola di Cristo aveva preso corpo nell’organizzazione ecclesiastica, erano state fissate le interpretazioni dogmatiche ed erano nati i riti e la gerarchia: la Chiesa rivendicava dunque il valore di tutta la sua tradizione, che la Riforma protestante intendeva invece superare con un ritorno diretto al Vangelo.
La Riforma cattolica e il ritorno alla patristica
ESERCIZI
enciclosofia gesuiti I religiosi appartenenti alla Compagnia di Gesù (Societas Jesu), fondata nella prima metà del XVI secolo da Ignazio di Loyola (1491-1556). Impegnati soprattutto nella predicazione, nella formazione del clero, nell’insegnamento nei collegi e nelle università, e nella direzione spirituale di sovrani e prìncipi, i gesuiti furono i paladini della Controriforma, e giocarono un ruolo importantissimo nel dibattito teologico con i protestanti. Dopo aver attraversato alterne fortune, la Compagnia di Gesù è attiva tuttora, presente pressoché in tutto il mondo.
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Per l’esposizione orale
1. Delinea i contenuti fondamentali del pensiero di Lutero, spiegando che cosa egli intenda per “giustificazione” e “predestinazione”, e presentando la sua riflessione sui sacramenti e sulle “buone opere”. 2. Confronta la posizione di Erasmo sul tema del libero arbitrio con quella di Lutero. 3. Esponi la prospettiva di Calvino sul tema della predestinazione e spiega in che modo si colleghi con la sua concezione del lavoro. 4. Quali furono i princìpi fondamentali riaffermati dalla Chiesa cattolica nel Concilio di Trento? SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
Gli aspetti teorici o teologici della Riforma protestante si innestano su una ben precisa situazione storica e geopolitica. Illustra i fattori storici, sociali, politici ed economici che nell’Europa del XVI secolo contribuirono al sorgere dei movimenti protestanti nelle loro principali manifestazioni (luterana, calvinista e anglicana).
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SINTESI AUDIOSINTESI
CAPITOLO 3 RINASCIMENTO E RELIGIONE Erasmo da Rotterdam In epoca rinascimentale si può parlare di “ritorno al principio” anche in ambito religioso, poiché si cerca di ripristinare il testo biblico nella sua purezza originaria, al di là delle manipolazioni medievali, per comprenderne meglio il messaggio e avviare una profonda rinascita spirituale. In tal senso l’umanista Erasmo da Rotterdam, autore di una traduzione critica del Nuovo Testamento, unisce la sua opera filologica all’ideale di una riforma della religione. Nell’Elogio della pazzia, pubblicato nel 1509, egli ironizza inoltre sulla decadenza morale del suo tempo; nel Manuale del milite cristiano critica la corruzione e la violenza della Chiesa; nel De libero arbitrio difende, contro Lutero, l’umana libertà di scelta; nel Lamento della pace si schiera in maniera decisa contro la guerra, che gli appare come la peggiore delle follie umane.
La Riforma protestante Per Martin Lutero, iniziatore della Riforma protestante, la fede consiste in un totale abbandono a Dio: negando la funzione mediatrice dei sacerdoti e della Chiesa, Lutero afferma la necessità di tornare a una lettura diretta, da parte di ciascun individuo, del Nuovo Testamento. Dal Vangelo, in particolare, egli desume la validità dei soli sacramenti del battesimo e dell’eucarestia, mentre nelle Lettere paoline trova le basi della dottrina della giustificazione per mezzo della fede, ovvero della sola grazia divina. Secondo questa dottrina, è
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UNITÀ 1 L’UmanEsImo E IL RInascImEnto CapITolo 3 Rinascimento e religione
Dio che ci rende giusti e ci salva, concedendoci il dono della fede; il libero arbitrio non esiste e le opere buone non sono sufficienti perché l’essere umano possa salvarsi da sé: al contrario, esse sono i segni della grazia concessa da Dio. Questi temi sono accolti da Giovanni Calvino, il quale, proseguendo il lavoro iniziato da Zwingli, dà vita in Svizzera a un progetto globale di ritorno alla comunità cristiana delle origini, rinnovando e riorganizzando profondamente la vita politica e sociale. Egli sottolinea inoltre la continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, e vede nel lavoro un dovere sacro, e nel successo negli affari una prova del favore di Dio e della salvezza a cui l’uomo viene predestinato dall’onnipotenza divina.
La risposta cattolica Al protestantesimo la Chiesa cattolica contrappone la Controriforma, che si concretizza soprattutto nel Concilio di Trento, nel quale si riafferma il valore della tradizione ecclesiastica, dei dogmi e dei sacramenti, la funzione mediatrice della Chiesa e il suo primato sullo Stato, e il libero arbitrio umano. Mentre reagisce alla Riforma protestante, la Chiesa cattolica porta avanti anche un processo (avviato già nel basso Medioevo) di revisione di sé stessa e dei propri princìpi. Tale processo è detto Riforma cattolica, e consiste nel riconoscere la necessità di un profondo rinnovamento spirituale di tutti i credenti mediante un ritorno alla tradizione patristica.
MAPPE
CAPITOLO 3 RINASCIMENTO E RELIGIONE ERASMO denuncia
il declino morale della società (Elogio della pazzia)
difende
la corruzione della Chiesa e del papato (Manuale del milite cristiano)
il libero arbitrio (De libero arbitrio)
le ragioni della pace (Lamento della pace)
LUTERO afferma
la giustificazione per mezzo della fede e quindi nega
la possibilità di giustificare la fede con la ragione
la funzione mediatrice del sacerdozio e dei sacramenti
il libero arbitrio
CALVINO conferma
rivaluta
propone
concepisce
il primato della predestinazione divina sulla volontà umana
la religiosità del Vecchio Testamento
un rinnovamento e una riorganizzazione concreta della vita politica e sociale
il lavoro come un dovere sacro e come segno della grazia divina
LA CHIESA CATTOLICA risponde alla Riforma protestante con
la Controriforma (Concilio di Trento)
la Riforma cattolica
che riafferma
che prevede un ritorno alla
il diritto della Chiesa di dare l’interpretazione autentica della Bibbia la funzione mediatrice della Chiesa e quindi il valore del sacerdozio la validità dei sacramenti e dei riti il valore delle opere meritorie
patristica, intesa come la più genuina trasposizione della parola di Cristo nella dottrina e nell’organizzazione della Chiesa
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CAPITOLO 4 RINASCIMENTO E POLITICA
1. L’ideale di un rinnovamento politico Il duplice senso L’Umanesimo si collega strettamente anche a un’esigenza di rinascita politica, intesa come del ritorno al rinnovamento dell’essere umano nella sua vita associata. Per soddisfare questa esigenprincipio
za ci si prefigge, ancora una volta, un ritorno al principio, inteso in un duplice senso: come ritorno alle origini di una determinata comunità, di un determinato popolo o di una determinata nazione, in modo da trarre da tali origini nuova forza e vigore; come il ritorno al fondamento stabile e universale di ogni comunità, e quindi come il riassestamento e la riorganizzazione della società sulla propria base naturale. I due aspetti o atteggiamenti fondamentali in cui si concretizza la volontà politica rinnovatrice del Rinascimento sono dunque il ritorno alle origini storiche e il ritorno al diritto naturale, che stanno alla base della riflessione di alcuni dei principali esponenti del pensiero politico rinascimentale.
2. Il ritorno alle origini storiche: Machiavelli Il progetto di un ritorno della società alle proprie origini storiche trova una concretizzazione emblematica nel pensiero del fiorentino Niccolò Machiavelli (1469-1527). La vita e Formatosi, secondo gli usi del tempo, nelle discipline umanistiche (grammatica, letteratugli scritti ra latina, filosofia e storia), Machiavelli giunge ben presto a ricoprire importanti cariche
pubbliche e diplomatiche nella Firenze dei Medici. Questa esperienza gli consente di avere una chiara immagine della frantumazione geopolitica dell’Italia, e di maturare la consapevolezza della necessità di una sua ricostruzione unitaria. A questo ideale Machiavelli dedicherà la vita intera, convinto della possibilità di rinnovare e riunire la società e il popolo italiani attraverso il ritorno alle loro origini. Nella sua opera, la speculazione teorica sui princìpi della vita politica si salda quindi strettamente all’indagine storiografica. Il Principe (composto nel 1513 ma pubblicato postumo nel 1532) e i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1513-1519) mostrano proprio quell’unità di giudizio storico e di giudizio politico che costituisce la caratteristica fondamentale del pensiero di Machiavelli e che fa di lui il primo scrittore politico dell’età moderna.
Il ritorno Nei Discorsi Machiavelli afferma che il solo modo in cui le comunità possono rinnovarsi, alle origini sfuggendo così alla decadenza, è quello di «ridursi verso i loro princìpi»: tutte le fasi origidel popolo italiano narie, infatti, presentano aspetti positivi, guardando ai quali le società possono recupe-
rare la loro vitalità primitiva.
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UNITÀ 1 L’UManesIMo e IL RInascIMento CapITolo 4 Rinascimento e politica
Nel caso dell’Italia, Machiavelli indica il momento di maggiore unità e libertà nella Roma repubblicana, alla quale occorre quindi volgersi per trovare ispirazione e modelli. Anche nell’antica Roma, del resto, spesso le sconfitte militari o le crisi interne offrirono l’occasione per un ritorno alle forme originarie della convivenza sociale: proprio a questo fine, ad esempio, furono istituiti i tribuni della plebe e i censori, che richiamavano governanti e cittadini alla virtù originaria. Il rinnovamento di una società mediante il ritorno alle sue origini richiede, in primo luogo, il riconoscimento dell’autentico significato del periodo storico a cui si sta guardando, per trarne correttamente tutto l’insegnamento che esso può dare; e, in secondo luogo, l’individuazione delle condizioni e degli strumenti attraverso i quali, di fatto, è possibile realizzare il ritorno a quel periodo originario. Di qui derivano i due caratteri principali che contraddistinguono la riflessione di Machiavelli: la ricerca dell’oggettività storica e il realismo politico, che gli impone di considerare la realtà politica e sociale del proprio tempo nella sua «verità effettuale» (e non per ciò che “dovrebbe essere”), al fine di comprenderne i reali meccanismi e riuscire a trasformarli.
L’oggettività storica e il realismo politico
Rinunciando dunque a vagheggiamenti di repubbliche e Stati ideali, Machiavelli analizza con disincanto e realismo la realtà storica e sociale in cui vive. Per uscire dal disordine e dalla servitù politica, a suo avviso l’Italia non ha altro modo che organizzarsi in un principato guidato da un uomo capace di unificare e riordinare l’intera nazione, affrontando a occhi aperti le dure esigenze del suo ruolo. Il compito di questo «principe» è tale da non poter essere limitato o impedito da altre preoccupazioni, comprese quelle di natura morale. Se vuole riuscire nei suoi disegni, il principe deve fare i suoi calcoli considerando sempre il caso peggiore possibile: deve perciò presupporre che tutti gli uomini siano malvagi e ingiusti. Deve imparare a «poter esser non buono», e ad usare questa capacità «secondo la necessità». In altri termini, il compito del politico ha una sua moralità immanente, che non sempre coincide con la moralità che deve guidare la vita del privato cittadino. Esiste quindi una «virtù politica» (intesa come virtù propria dell’uomo politico) che non ha nulla a che vedere con le virtù cristianamente intese, ma che riecheggia piuttosto l’antico concetto greco di areté. Questo non significa che il politico possa compiere il male in modo gratuito, indipendentemente dal bene che ne può derivare: Machiavelli è convinto che il male eventualmente commesso dal principe debba sempre e immediatamente tradursi nel bene collettivo, cioè nell’utile dei sudditi, altrimenti si ritorcerà contro colui che lo ha disposto, e ne provocherà la rovina.
Il principe e i suoi compiti
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 370
Pur constatando l’instabilità degli eventi storici, Machiavelli si rifiuta di ritenere che le co- La concezione se del mondo siano governate dalla fortuna (cioè, genericamente, dal “caso”) o da Dio in della fortuna modo tale che gli uomini non possano correggerle o portarvi rimedio: se così fosse, la libertà umana sarebbe nulla e l’unico atteggiamento possibile sarebbe quello di «lasciarsi governare dalla sorte». La fortuna, per Machiavelli, è arbitra soltanto della metà delle azioni umane e lascia governare agli uomini l’altra metà, o poco meno. È come un fiume che, quando straripa, travolge tutto, ma il cui impeto risulta meno rovinoso quando si sia provveduto per tempo a costruire argini e ripari. enciclosofia tribuni della plebe Nella Roma repubblicana, i magistrati incaricati di difendere i diritti dei cittadini plebei contro eventuali leggi o azioni dello Stato che potessero comprometterli.
censori Nella Roma repubblicana, i magistrati incaricati di censire la popolazione (census populi), di controllare le funzioni svolte dai cittadini e i beni da loro posseduti, e infine di vigilare sulla loro condotta morale (cura morum). Risalente al 443 a.C., l’istituzione della censura rimase attiva fino al tardo periodo repubblicano, per poi cadere in disuso ed essere ripristinata soltanto con l’imperatore Augusto (63 a.C. - 14 d.C.).
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La concezione Questo significa che la fortuna manifesta la sua potenza soprattutto dove manca una «ordidella virtù nata virtù» che possa resisterle. L’essere umano può opporsi alla fortuna prestando atten-
ESERCIZI
zione alla propria storia e saldando l’avvenire al passato: eviterà così i cambiamenti inconcludenti e bruschi. In sostanza, secondo Machiavelli l’azione umana si inserisce nel corso degli eventi e ne è condizionata, ma quanto più sarà storicamente fondata e consapevole, tanto meglio arriverà a dominarli, cosicché quella metà di essi che spetta alla libertà umana potrà diventare la metà decisiva. In altre parole, l’umanità può riuscire a dominare la fortuna soltanto se non si abbandona agli eventi, ma si impegna attivamente nella storia, traendo dal passato gli ammaestramenti per l’avvenire. Pur non eliminando tutti i rischi, questo atteggiamento è l’unico che possa risolvere a favore dell’uomo la tensione tra fortuna e libertà.
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Per l’esposizione orale
1. Spiega in quali modi principali il pensiero politico rinascimentale intende il “ritorno al principio”. 2. Illustra i tratti salienti del realismo politico di Machiavelli. SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura italiana
La produzione scritta di Machiavelli è celebre non soltanto per le sue sottili analisi storiche e politiche, ma anche per alcuni pregiati testi letterari, primo fra tutti La mandragola. Scritta probabilmente nel 1518 – ovvero in un periodo in cui, caduto in disgrazia presso i Medici, e dopo aver subìto il carcere e la tortura, Machiavelli era stato escluso da ogni carica pubblica e viveva in una sorta di esilio forzato – la commedia narra di un amore contrastato e di uno sciocco beffato. In che senso la comicità della Mandragola riflette, da una parte, l’amarezza del periodo vissuto da Machiavelli e, dall’altra, la sua disincantata visione politica?
3. Il ritorno al diritto naturale Abbiamo detto che i due principali atteggiamenti in cui si esprime lo sforzo di rinnovamento politico del Rinascimento sono il ritorno alle origini storiche (impersonato innanzitutto da Machiavelli) e il ritorno al diritto naturale, ovvero a una legge universale, superiore a qualunque legge positiva. Tale legge naturale, che le singole società sono tenute a rispettare, non coincide con l’ordine del mondo impresso al creato da Dio, ma con un ordine razionale che, in quanto tale, può essere riconosciuto e giustificato dalla sola ragione umana.
Grozio La corrente di pensiero che fa riferimento al diritto naturale (in latino ius naturale) è detta “giusnaturalismo”, e il suo fondatore è comunemente indicato nell’olandese Ugo Grozio (Huig van Groot, 1583-1645). Il diritto come L’opera fondamentale di Grozio è Il diritto della guerra e della pace (1625), in cui è accordo con esposta la premessa giusnaturalistica fondamentale, e cioè l’identificazione di ciò che è la ragione
naturale con ciò che è razionale. Poiché la natura umana consiste nella razionalità, allora il diritto naturale sarà un diritto fondato sulla natura razionale dell’uomo: è la ragione che rivela il valore morale (o il non-valore) di un’azione, mostrandone l’accordo o il disaccordo con i propri princìpi. Le azioni comandate dalla ragione sono quindi obbligatorie per sé stesse, e sarebbero “buone” anche nel caso in cui Dio non esistesse o non si preoccupasse delle faccende umane. Esse sono comandate (o vietate) da Dio appunto perché sono razionali (o irrazionali), e non viceversa.
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UNITÀ 1 L’UManesIMo e IL RInascIMento CapITolo 4 Rinascimento e politica
Diverso è il caso del diritto positivo vigente nei singoli Stati, per il quale le azioni sono lecite o illecite soltanto in virtù delle leggi promulgate. glossario p. 43 Strettamente legata al riconoscimento del carattere naturale e razionale del diritto (il quale pertanto risulta autonomo rispetto a qualunque altra norma, comprese quelle religiose) è la dottrina groziana dell’origine contrattualistica dello Stato. Non avendo un fondamento trascendente (cioè non derivando da Dio), il potere statale è legittimato da un patto stipulato tra i sudditi e il sovrano. Quest’ultimo, quindi, detiene il potere soltanto perché i suoi stessi sudditi glielo hanno conferito, e inoltre è tenuto a sua volta a rispettare il diritto naturale, ovvero quei princìpi razionali, universali e immutabili che non sono il frutto di una convenzione, ma si fondano sulla naturale socievolezza umana. glossario p. 43
Il contrattualismo
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 370
Come vi è un diritto naturale, così esiste per Grozio anche una religione naturale, fonda- La religione ta anch’essa sulla ragione. Questa è comune a tutte le epoche storiche e si riduce a quattro naturale princìpi di fondo: 1. Dio esiste ed è uno; 2. Dio non si identifica con le cose visibili, ma è superiore a esse; 3. Dio governa e giudica tutte le cose umane; 4. Dio è l’artefice di tutte le cose naturali. A questi princìpi fondamentali le singole religioni “positive” aggiungono altre nozioni, che tuttavia non hanno lo stesso fondamento razionale.
Tommaso Moro In virtù del suo richiamo alla razionalità della natura umana quale fondamento della vita politica, anche il pensiero dell’inglese Tommaso Moro (Thomas More, 1478-1535) può essere considerato un esempio di giusnaturalismo. Se Machiavelli aveva cercato di incidere sul corso concreto degli eventi storici con un’analisi realistica dello Stato, Moro persegue il medesimo obiettivo delineando uno Stato ideale, cioè lo Stato così come secondo la sua visione dovrebbe essere. Nato e vissuto a Londra, Moro fu un grande uomo di lettere (amico di Erasmo da Rotter- La vita dam) e un attivo statista. Fervente cattolico, si oppose all’atto con cui il parlamento inglese dichiarava nullo il matrimonio di Enrico VIII con Caterina d’Aragona, e riconosceva Anna Bolena come nuova moglie del re. Con la sua opposizione, Moro di fatto si rifiutava di riconoscere l’autonomia del sovrano inglese dal controllo del papa e dei vescovi cattolici: per questo fu imprigionato nella Torre di Londra (la fortezza edificata sulle rive del Tamigi nell’XI secolo e usata come prigione fin dal XII), condannato a morte e decapitato. Moro espone le proprie idee politiche soprattutto in Utopia (1516), una sorta di roman- La critica alla zo filosofico che contiene la proiezione fantastica di quello che egli considera uno Stato società inglese conforme a ragione, nel quale gli stessi princìpi religiosi di base sono quelli che la ragione può difendere e far valere. Il punto di partenza di Moro è la critica delle condizioni sociali dell’Inghilterra del suo tempo. L’aristocrazia terriera andava sostituendo alle colture dei cereali i pascoli per gli ovini, dalla cui lana ricavava un reddito maggiore. enciclosofia Enrico VIII Nato nel 1491 e morto nel 1547, Enrico VIII salì al trono d’Inghilterra nel 1509. Il suo nome è legato soprattutto allo scisma della Chiesa inglese (la Chiesa anglicana) dalla Chiesa cattolica di Roma, avvenuto in occasione del suo ripudio della moglie Caterina d’Aragona e del riconoscimento della sua nuova unione con Anna Bolena (che era stata damigella di Caterina), dalla quale il sovrano sperava di avere un erede maschio.
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I contadini venivano quindi cacciati dalle case e dai poderi, e non avevano altra scelta che l’accattonaggio (per il quale erano previste pene severe) e il furto. L’analisi lucida e disincantata di questa situazione induce Moro a vagheggiare una riforma radicale dell’ordinamento sociale, che assume tratti definiti nella società di Utopia (letteralmente “non luogo”, dal greco ou, “non”, e tópos, “luogo”), l’isola immaginaria descritta nell’opera omonima. glossario p. 43 L’organizzazione Nell’isola di Utopia è abolita la proprietà privata. La terra è coltivata a turno dagli abidella società tanti. L’oro e l’argento non hanno alcun pregio e servono per gli utensili più umili. Ognudi Utopia
no ha un proprio mestiere e ci sono appositi magistrati, detti «sifogranti», a vigilare affinché nessuno rimanga ozioso. Gli isolani lavorano soltanto sei ore al giorno e dedicano il resto del tempo alla formazione letteraria o allo svago. La cultura, come ogni altra attività, è rivolta all’utilità comune, a cui ogni interesse particolare viene subordinato. I cittadini coltivano le scienze e la filosofia, e integrano le conoscenze razionali con i princìpi della religione, poiché la ragione non è ritenuta capace, da sola, di condurre l’uomo alla felicità e alla virtù. Il comportamento umano, infatti, è guidato dalla ricerca del piacere, il quale fonda anche la solidarietà tra simili, tanto che gli esseri umani non sarebbero portati ad aiutare il loro prossimo, se ciò non costituisse un vantaggio anche per chi compie l’atto di generosità.
La tolleranza Un’altra caratteristica fondamentale di Utopia è la tolleranza religiosa: tutti riconoscono religiosa l’esistenza di un Dio creatore dell’universo e autore del suo ordine provvidenziale, ma
ognuno concepisce e venera un tale Dio a modo proprio. Si può cercare di persuadere gli altri della preferibilità della propria visione religiosa, purché non si ricorra alla violenza o all’ingiuria. Le sole dottrine vietate sono quelle che negano l’immortalità dell’anima e la provvidenza divina; chi la professa, tuttavia, non viene punito, ma soltanto impossibilitato a diffondere le proprie credenze.
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Per l’esposizione orale
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1. Utilizza le espressioni elencate di seguito per presentare i tratti principali del giusnaturalismo di Grozio: natura razionale, diritto naturale, diritto positivo, religione naturale. 2. Descrivi le principali riforme dell’ordinamento sociale immaginate da Tommaso Moro in Utopia. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera il realismo politico di Machiavelli e la visione utopica di Moro: pensi che si tratti di due atteggiamenti diversi, per certi versi opposti, oppure di momenti complementari, ugualmente necessari per provare a rinnovare la società? Motiva la tua risposta.
UNITÀ 1 L’UManesIMo e IL RInascIMento CapITolo 4 Rinascimento e politica
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 4 RINASCIMENTO E POLITICA
Il rinnovamento della vita associata Nel Rinascimento si diffonde l’esigenza di un rinnovamento politico che, coerentemente con l’ideale generale del ritorno al principio, si traduce in due principali atteggiamenti: la volontà di ritornare alle origini storiche di una certa società, e la volontà di ritornare al diritto naturale, cioè alla razionalità originaria delle regole della convivenza civile.
Il ritorno alle origini storiche Machiavelli L’esponente più noto del primo atteggiamento è Niccolò Machiavelli (1469-1527), il quale sostiene che l’Italia potrà riacquistare unità e libertà soltanto rifacendosi alle proprie origini, e più precisamente alla fase storica della Roma repubblicana. Passando a considerare le caratteristiche della «virtù politica» necessaria per ben governare, Machiavelli le riassume nella figura del «principe», il quale non si lascia frenare da preoccupazioni morali, ma grazie a un disincantato realismo vince la sorte (la «fortuna») e riesce nei suoi disegni, che coincidono con il bene collettivo.
Il ritorno al diritto naturale Grozio Quanto al secondo atteggiamento, esso è rintracciabile nel pensiero dell’olandese Ugo Grozio (15831645), il quale è considerato il fondatore del cosiddetto “giusnaturalismo”. Grozio ritiene infatti che esista un
• diritto naturale
(in latino ius naturale) l’insieme delle norme che “per natura” costituiscono la base di una convivenza civile pacifica e ordinata. Poiché la caratteristica fondamentale della natura umana è
la razionalità, tali norme sono naturali in quanto razionali, ovvero riconoscibili e giustificabili per mezzo della sola ragione.
Le norme o le leggi che costituiscono il diritto naturale rispecchiano non soltanto la razionalità degli esseri umani, ma anche le loro naturali inclinazioni, e vanno rispettate indipendentemente da quanto sancito dal
• diritto positivo
(in latino ius pósitum) l’insieme delle leggi “poste” o “imposte” (pósitae) dai governanti dei diversi Stati.
Se le leggi positive sono stabilite da chi detiene il potere, e possono quindi variare da un Paese all’altro, esse devono però rispettare il diritto naturale, che ad esse è superiore. Il giusnaturalismo si coniuga in Grozio con il
• contrattualismo
la concezione secondo cui lo Stato si fonda su un “contratto” o “patto” stipulato tra i sudditi e il sovrano. Quest’ultimo gode pertanto di un potere che non deriva da Dio, ma dai cittadini che glielo hanno conferito.
Moro Al giusnaturalismo può essere ricondotto, sotto certi aspetti, anche il pensiero politico dell’inglese Tommaso Moro (1478-1535), autore di un romanzo filosofico dal titolo emblematico:
• Utopia
(letteralmente “non luogo”, dal greco ou, “non”, e tópos, “luogo”) il nome attribuito da Moro alla società ideale da lui descritta nell’opera omonima. Il termine è passato a indicare, nel linguaggio comune, qualcosa che non trova risconto nella realtà.
In generale, le leggi e i criteri che regolano la vita nell’isola di Utopia sono improntati alla razionalità; più in particolare, è abolita la proprietà privata, le attività pratiche e la cultura sono indirizzate all’utilità comune e vige la tolleranza religiosa.
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MAPPE
CAPITOLO 4 RINASCIMENTO E POLITICA LA RIFLESSIONE POLITICA RINASCIMENTALE si concretizza in due atteggiamenti principali
la prospettiva storicistica
la prospettiva giusnaturalistica
che promuove un ritorno alle
che promuove un recupero delle
origini storiche di una determinata società
origini naturali e razionali della società
LA PROSPETTIVA STORICISTICA è rappresentata da
Machiavelli che promuove
il ritorno dell’Italia agli ideali dell’antica Roma repubblicana e descrive
la figura del principe, che sa valutare le situazioni con realismo e piegare la fortuna
LA PROSPETTIVA GIUSNATURALISTICA è rappresentata da
Grozio
Moro
che distingue
che descrive
il diritto naturale
il diritto positivo
l’isola immaginaria di Utopia
che è
che è
cioè
fondato sulla razionalità della natura umana
fondato su un contratto fra sudditi e sovrano
uno Stato ideale basato sulla razionalità
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UNITÀ 1 L’UManesIMo e IL RInascIMento CapITolo 4 Rinascimento e politica
CAPITOLO 5 RINASCIMENTO E NATURA
1. L’interesse per il mondo naturale Il tema dell’uomo come «natura media» – posta al centro dell’universo, a metà strada fra L’importanza le creature inferiori e quelle superiori – accomuna i letterati umanisti, i platonici e gli ari- dello studio della natura stotelici, i filosofi della natura e i maghi, ed esprime appunto la consapevolezza di essere inseriti nel mondo in modo essenziale, e di avere la possibilità di servirsi della propria posizione privilegiata, simile a quella di Dio, per fare del mondo il proprio regno. Si rivela quindi indispensabile un tipo di indagine che permetta di realizzare questo dominio. Così, nel Rinascimento lo studio del mondo naturale non appare più come una fuga dell’individuo di fronte alla propria interiorità (quale poteva apparire nel Medioevo), né come un’inutile distrazione dalla meditazione sul proprio destino morale o religioso. L’indagine naturale comincia a essere considerata uno strumento indispensabile per la realizzazione dei fini umani nel mondo, dal momento che soltanto attraverso la conoscenza della natura l’uomo può ricavare i mezzi utili per realizzare sé stesso e i propri obiettivi. Nell’indagine naturalistica dell’epoca rinascimentale si possono distinguere due aspetti o fasi principali: la magia e la filosofia della natura. La magia, in particolare, si fonda su due presupposti: la convinzione che la natura sia animata, cioè mossa da forze simili a quelle che agiscono negli esseri umani, coordinate e armonizzate da una «simpatia» universale; e la convinzione che l’uomo possa accedere di colpo, con rituali e incantesimi anche ambigui o violenti, ai più riposti recessi del mondo naturale, riuscendo così a dominarne le forze. In virtù di questi presupposti, la magia va in cerca di formule e procedimenti “miracolosi”, che consentano di giungere ai più oscuri misteri naturali e di acquisire un potere illimitato su tutte le forze vitali.
La magia e i suoi presupposti teorici
La filosofia naturale abbandona il secondo presupposto. La natura continua a essere vista La filosofia come una totalità vivente, ma si ritiene che sia retta da princìpi propri, né animistici naturale né metafisici, la cui scoperta diventa il compito della filosofia. Si rinuncia quindi alla chimerica pretesa di penetrare “d’assalto” nei misteri naturali, e anzi si nega l’esistenza di tali misteri, nella convinzione che le forze naturali si rivelino all’osservazione e all’esperienza, a patto di saperle riconoscere e assecondare. La filosofia della natura finisce così per rompere i ponti sia con la magia sia con l’aristotelismo, e si propone di interpretare la natura con la natura, prescindendo da ipotesi e dottrine fittizie o metafisiche: in questo modo essa apre la via alla vera e propria indagine scientifica.
)
Per l’esposizione orale
1. Per quali motivi, nel Rinascimento, si sviluppa un rinnovato interesse per il mondo naturale? 2. Illustra i presupposti della magia rinascimentale e spiega in quali termini la filosofia naturale se ne distacchi.
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2. Telesio La vita Bernardino Telesio nasce a Cosenza nel 1509. Dopo essersi formato agli studi umanistici e gli scritti in diverse città italiane, approfondisce le discipline scientifiche presso l’Università di
Padova, dove si addottora nel 1535. Nel 1565, a Napoli, pubblica i primi due libri (sui nove complessivi) della sua opera più importante: La natura secondo i propri princìpi (De rerum natura iuxta propria principia), che completerà e finirà di dare alle stampe soltanto tre anni prima della morte, avvenuta a Cosenza nel 1588.
La concezione della natura La rivelazione Come emerge dal titolo del suo capolavoro, Telesio considera la natura come un sistema della natura che si regge su princìpi propri, e che pertanto può essere spiegato in base a questi soli attraverso i sensi princìpi, senza bisogno di fare riferimento a forze misteriose o metafisiche. Per conoscere
la natura non si deve fare altro che lasciarla “parlare”, affidandosi alla testimonianza dei sensi. «Ciò che la natura stessa rivela» – afferma infatti Telesio – e «ciò che i sensi testimoniano» sono la medesima cosa. La sensibilità non è altro che la via dell’autorivelazione della natura a quella parte di sé che è l’essere umano.
I tre princìpi Telesio ritiene che la natura debba essere spiegata mediante le due forze principali che naturali agiscono in essa: il caldo e il freddo. Il caldo ha sede nel Sole, dilata le cose e le rende leg-
gere e adatte al movimento; il freddo ha sede nella Terra, condensa le cose e le rende pesanti e tendenti all’immobilità. Ma il caldo e il freddo sono forze incorporee, e quindi hanno bisogno di una massa corporea o materiale che possa subire la loro azione: questa massa è provvista di inerzia e, con il caldo e il freddo, costituisce il terzo principio naturale. Affinché il caldo e il freddo possano interagire tra loro, è necessario che ciascuno di essi possa percepire sia la propria azione, sia l’azione del principio opposto: è necessario, cioè, che siano dotati di sensibilità. L’intero mondo naturale è dunque vivo e senziente.
Tra qualità Sulla base di questi presupposti, Telesio ritiene che, tra i quattro elementi individuati dalla e quantità tradizione (terra, acqua, aria e fuoco), soltanto il fuoco e la terra siano originari, mentre
ritiene che l’acqua e l’aria derivino dalla composizione dei primi due. Pur riducendo il numero degli elementi, la fisica di Telesio si mantiene su un piano qualitativo. Tuttavia egli avverte l’esigenza anche di un’analisi quantitativa, per determinare la quantità di calore necessaria a produrre i singoli effetti naturali. Telesio afferma che soltanto questo tipo di analisi può consentire agli uomini di controllare le forze naturali.
La critica Nell’esporre le proprie riflessioni, Telesio svolge una critica minuta contro la fisica aristodella dottrina telica, investendone tutti i punti fondamentali. Egli polemizza soprattutto a proposito aristotelica
della funzione di primo motore immobile attribuita da Aristotele a Dio, osservando che l’azione divina non può essere ristretta a spiegare soltanto l’origine del movimento, o comunque qualche fenomeno naturale particolare. Dio è piuttosto il principio della conservazione di tutti gli esseri naturali e agisce mediante tutte le forze della natura, le quali senza l’ordine stabilito da Dio si distruggerebbero a vicenda. Per Telesio, come sarà per Cartesio ( unità 3, cap. 1), Dio è quindi il garante dell’ordine e dell’autonomia della natura.
Tra magia Nella sua spiegazione del mondo, Telesio conserva il primo dei presupposti della magia, cioè e scienza l’idea che la natura sia animata. Nello stesso tempo, però, egli afferma l’oggettività e l’autono-
mia della realtà naturale, aprendo la strada alla nascita della scienza moderna. Sotto questo aspetto il suo vero continuatore sarà Galilei ( unità 2, cap. 3), mentre Bruno e Campanella (dei quali parleremo tra poco) per certi aspetti ritorneranno proprio alla metafisica e alla magia.
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
La concezione della conoscenza e dell’essere umano Per Telesio l’intera conoscenza umana è riconducibile alla sensibilità. L’anima umana, in- Tra sensibilità fatti, non è che una facoltà naturale, come quella di tutti gli altri animali. Attraverso di es- e intelligenza sa l’uomo si riconnette a quella natura di cui egli stesso fa parte: sicché, come abbiamo già detto, la sensibilità non è che la rivelazione che la natura fa di sé stessa a sé stessa. Ogni sensazione è prodotta da un contatto tra l’anima e le cose esterne; ma la sensazione non si limita a un tale contatto, cioè a un fatto puramente materiale, perché consiste piuttosto nella percezione che se ne ha, cioè nella coscienza. Alla sensibilità si ricollega anche l’intelligenza, che consiste nell’estendere a cose non ancora percepite le qualità che l’anima ha già percepito nelle cose di cui ha già fatto esperienza. Gli stessi princìpi della matematica derivano dai sensi, i quali ci testimoniano, ad esempio, che il tutto è maggiore della parte, o che due cose uguali a una terza sono uguali anche tra loro. Anche la vita morale è ricondotta a princìpi naturali. Il bene supremo è infatti la conser- La vita morale vazione dello spirito vitale che anima il mondo, e secondo l’ordine del mondo, stabilito e garantito da Dio, ogni essere tende alla propria conservazione. Questo è dunque il fine morale supremo, nonché la misura del piacere e del dolore: si prova piacere per tutto ciò che aiuta a conservarci, mentre si prova dolore per tutto ciò che tende a danneggiarci o distruggerci. La virtù è la condizione necessaria per la conservazione degli esseri umani nel mondo, dal momento che impone alle passioni una misura che evita gli eccessi dannosi. Telesio spiega dunque l’intera vita intellettuale e morale dell’uomo in base a princìpi pura- La vita mente naturali. Un elemento solo gli appare irriducibile alla natura: la vita religiosa, in religiosa quanto è aspirazione a un bene che non è conosciuto dai sensi, e si rivolge a un mondo diverso da quello sensibile. Il soggetto della vita religiosa, pertanto, non può essere l’anima naturale, la quale non potrebbe tendere a ciò che è al di là della natura: deve piuttosto essere un’anima infusa direttamente da Dio, come forma «superàddita». Quest’anima divina non condiziona la vita intellettuale e morale dell’uomo, però condiziona la libertà che gli è propria: la scelta tra il bene naturale e il bene soprannaturale. Essa costituisce TEST DI LOGICA la caratteristica che distingue l’essere umano da tutti gli altri esseri.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa intende Telesio quando afferma che la natura deve essere studiata «secondo i propri princìpi» e chiarisci di quali princìpi si tratta. 2. Utilizza i termini elencati di seguito per presentare brevemente la riflessione di Telesio sulla conoscenza umana: sensibilità, rivelazione, coscienza, intelligenza. 3. In che cosa consiste per Telesio il bene supremo e in che modo condiziona la vita morale?
3. Bruno L’opera di Giordano Bruno mostra intenti molto diversi da quelli di Telesio ed è caratterizzata dal recupero di elementi neoplatonici e magici. Se il naturalismo di Telesio, tutto fondato sull’oggettività e sull’autonomia della natura, si propone come il momento di avvio di un’indagine ordinata e metodica del mondo naturale, il naturalismo di Bruno è invece una “religione” della natura, anzi dell’infinità della natura, e si avvale volentieri di suggestioni metafisiche e magiche.
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La vita e le opere Da napoli Bruno nasce nel 1548 a Nola, in Campania. A circa quindici anni entra nel convento doa Parigi menicano di Napoli, dove per le sue qualità eccezionali di memoria e di ingegno cresce
come un ragazzo prodigio, tra le attenzioni di tutti. A diciotto anni gli si presentano i primi dubbi sulla verità della religione cristiana, che contribuiscono a farlo urtare con l’ambiente ecclesiastico. Dieci anni dopo (nel 1576) viene processato e condannato per eresia, ed è costretto a riparare prima a Ginevra, poi a Tolosa, e infine a Parigi. Qui pubblica, nel 1582, la commedia Il candelaio e il suo primo scritto filosofico, Le ombre delle idee, dedicato al re Enrico III di Francia. E qui ottiene i primi successi, ma non come filosofo, bensì come maestro dell’arte lulliana della memoria, alla quale appunto si ispira il saggio Le ombre delle idee.
In Inghilterra Da Parigi, nel 1583 Bruno si trasferisce in Inghilterra, per insegnare a Oxford. A questo e in Germania periodo appartengono i cosiddetti “dialoghi italiani” (composti in italiano) e alcuni dei
poemi latini (che terminerà in seguito). Ritorna quindi a Parigi, ma ben presto è costretto ad abbandonarla di nuovo a causa dell’ostilità degli aristotelici, da lui aspramente attaccati nelle sue opere. Si trasferisce allora in Germania (1586) per insegnare a Marburgo, a Wittenberg e a Francoforte sul Meno, dove porta a termine e dà alle stampe i poemi latini.
Da Venezia Intorno al 1590 Bruno accoglie l’invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che gli a Roma chiede di istruirlo nell’arte magica: si reca quindi a Venezia, ritenendo che la protezione
della Repubblica gli consenta di vivere al sicuro. Ma il 23 maggio 1592, su denuncia dello stesso Mocenigo, viene arrestato dall’Inquisizione di Venezia per sospetto di eresia. Nel 1593 Bruno viene trasferito all’Inquisizione di Roma. Qui rimane in carcere sette anni, rifiutando i ripetuti inviti a ritrattare le sue dottrine, finché il 17 febbraio 1600, in Campo dei Fiori, viene arso vivo. Si narra che non abbia mai accettato di riconciliarsi con il crocifisso, dal quale, negli ultimi istanti di vita, distolse lo sguardo.
Le opere Gli scritti principali di Bruno sono i già citati dialoghi italiani e poemi latini. Dei dialoghi itaprincipali liani alcuni espongono la sua filosofia naturale (La cena delle ceneri; De la causa, principio et uno;
De l’infinito universo et mondi); altri sono di carattere morale (Lo spaccio della bestia trionfante; Cabala del cavallo pegaseo; L’asino cillenico; Degli eroici furori). I poemi latini sono: De minimo (Il minimo), De monade (La monade), De immenso et innumerabilibus (L’immenso e gli innumerevoli mondi).
L’amore per la vita e la religione della natura La passione Tutti gli scritti di Bruno presentano una nota comune: l’amore per la vita nelle sue infiniper la vita te possibilità di espansione. È appunto questo amore per la vita a rendergli insopportabi-
le il convento (che egli chiama in un sonetto «prigione angusta e nera») e a fargli nutrire un
enciclosofia arte lulliana della memoria In generale, l’arte della memoria è un insieme di tecniche volte ad aumentare le capacità mnemoniche. Nata in età classica, tale arte fu sviluppata soprattutto da Cicerone, che la considerava un requisito fondamentale per un buon oratore. In età tardo-medievale, il teologo e poeta catalano Raimondo Lullo (Ramón Llull, 1235-1315) associò le tecniche della memoria al tentativo di costruire una scienza universale basata su pochi e generalissimi princìpi, dalla cui combinazione si potevano ricavare i princìpi particolari di tutte le scienze. L’ideale lulliano di una scienza (o di un’arte) generale e la mnemotecnica ad esso collegata ebbero notevole fortuna nel Cinquecento e nel Seicento, perché vennero considerati strumenti capaci di condurre a una conoscenza completa della realtà.
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
Raimondo Lullo in un’incisione del XVI secolo.
odio inestinguibile per tutti coloro (pedanti, grammatici, accademici, aristotelici) che fanno della cultura una pura esercitazione libresca, distogliendo lo sguardo dalla natura e dalla sua potenza vitale. Ed è questo medesimo amore per la vita che lo spinge a rappresentare con realismo spregiudicato, nel Candelaio, l’ambiente napoletano in cui ha trascorso la giovinezza, e a fustigare i pedanti, i creduloni e gli imbroglioni che lo abitano senza umorismo né distacco, bensì con un tale esasperato compiacimento di fronte a quello spettacolo di trivialità e miseria morale, da poter essere spiegato soltanto con il suo attaccamento alla realtà viva, qualunque essa sia. Dall’amore per la vita nasce l’interesse per la natura, che in Bruno, tuttavia, non sfocia La passione (come in Telesio) in un pacato naturalismo, ma si esalta in un impeto lirico e religioso, per la natura che trova spesso espressione nella forma poetica. aBruno considera la natura viva e animata, e nell’intendere quest’universale animazione, nel proiettare la vita della natura nell’infinità dell’universo, egli pone il termine più alto del proprio filosofare. Di qui deriva la sua evidente predilezione per la magia, che egli fonda sul presupposto di un panpsichismo universale e che si propone di conquistare la natura “d’assalto”, così come si conquista un essere animato. E di qui deriva la rinuncia alla paziente e laboriosa indagine naturalistica prospettata da Telesio. Di qui, infine, deriva l’uso della mnemotecnica, ovvero dell’arte lulliana, nonché la pretesa di impadronirsi del sapere mediante artifici mnemonici e di fare progredire la scienza con una tecnica inventiva rapida e miracolosa, capace di superare a grandi passi la ricerca metodica e lenta. glossario p. 57 Il naturalismo di Bruno è in realtà una religione della natura, connotata da impeto lirico, esaltazione e furore. La sua opera segna pertanto una battuta d’arresto nello sviluppo del naturalismo scientifico, ma esprime, nella forma più appassionata e potente, quell’amore per la natura che fu indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del Rinascimento.
La critica della religione e la concezione della filosofia La passione di Bruno per la vita e per la natura permettono di comprendere anche il suo Il disprezzo atteggiamento nei confronti della religione, che egli considera come un sistema di cre- per le credenze religiose denze ripugnante e assurdo, utile soltanto «per l’istituzione di rozzi popoli che dènno [devono] esser governati» (De l’infinito universo et mondi). Per Bruno, infatti, la fede religiosa consiste in un insieme di superstizioni direttamente contrarie alla ragione e alla natura, secondo le quali è vile e scellerato ciò che alla ragione appare invece eccellente: per la religione, infatti, la legge naturale è una ribalderia; la natura e la divinità non hanno lo stesso fine; la giustizia naturale e quella divina sono contrarie; la filosofia e la magia sono pazzie; l’ignoranza è la più bella scienza del mondo. Lo spaccio della bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegasèo e L’asino cillenico sono tutti in- La condanna del tessuti di una feroce satira anti-cristiana, che non si arresta neppure di fronte al dogma cristianesimo dell’incarnazione di Dio in Gesù. Nemmeno il cristianesimo riformato – che Bruno può conoscere direttamente a Ginevra, in Inghilterra e in Germania – si salva dalla sua condanna: anzi, esso gli appare anche peggiore del cattolicesimo, perché nega la libertà dell’individuo e il valore delle opere buone, e favorisce la discordia tra i popoli. A questa forma di religiosità – che Bruno definisce sarcasticamente «santa asinità» – si La filosofia contrappone la religiosità dei «teologi», cioè dei dotti che in ogni tempo e in ogni luogo come vera religione hanno cercato la via per giungere a Dio con la forza della ragione. Tale forma di religiosità autentica coincide con la filosofia, cioè con quella libera e critica ricerca della verità che unisce i pensatori greci, quelli orientali e quelli cristiani.
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Bruno, insomma, accoglie l’idea tipicamente rinascimentale di una sapienza originaria che, tramandata da Mosè, è stata sviluppata, accresciuta e chiarita da filosofi, maghi e teologi del mondo orientale, del mondo classico e del mondo cristiano. Egli ammette la possibilità di rivedere, in alcuni punti, una tale sapienza originaria, dal momento che «noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri predecessori», e attraverso il tempo il giudizio si perfeziona (La cena delle ceneri); ma è convinto che questo sviluppo storico della verità sia in realtà un rinascere e un rigermogliare della verità antica: «sono amputate radici che germogliano, son cose antique che rivengono, sono veritadi [verità] occulte che si scuoprono» (De l’infinito universo et mondi). Per questo Bruno si rifà di preferenza ai presocratici, piuttosto che a Platone a ad Aristotele, affermando che nei primi filosofi si può ritrovare un più schietto e immediato interesse per la natura.
La concezione di Dio La duplice Bruno parla di Dio secondo due concezioni principali: come mente al di sopra di tutto natura di Dio (mens super omnia) e come mente presente in tutte le cose (mens insita omnibus).
Per il primo aspetto, Dio è fuori dal cosmo e dalla portata delle umane capacità razionali. Rifacendosi al principio neoplatonico della trascendenza, inconoscibilità e ineffabilità di Dio, Bruno ritiene vano il tentativo di risalire dalla natura a colui che l’ha creata, proprio come vano è pretendere di risalire da una statua all’artefice che l’ha scolpita. In questo senso Dio è oggetto di fede e di lui ci parla soltanto la rivelazione. Per il secondo aspetto, Dio è invece principio immanente del cosmo e risulta accessibile alla ragione umana, costituendosi come oggetto privilegiato del discorso filosofico.
Dio come In quanto mente presente in tutte le cose, Dio è definito da Bruno, neoplatonicamente, come anima Anima del mondo. Questa opera tramite l’intelletto universale, ovvero tramite l’indel mondo
sieme di tutte le idee, o forme, che plasmano dal di dentro quel grande ricettacolo universale che è la materia, specificandola negli infiniti esseri del mondo. L’intelletto – che Bruno definisce «motore de l’universo», «artefice interno», «fabbro del mondo», «fonte delle forme» ecc. – opera dunque come forza seminale intrinseca alla materia:
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
‘
Da noi si chiama artefice interno, perché forma la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il tronco; da dentro il tronco caccia i rami; da dentro i rami le brance [i rami principali]; da dentro questi spiega le gemme; da dentro forma, (De la causa, principio et uno, I) figura, intesse, come di nervi, le frondi, i fiori, i frutti.
Dio come causa In quanto spirito animatore delle cose, Dio è causa e principio dell’essere: causa in quanto e principio energia produttrice del cosmo, principio in quanto elemento costitutivo delle cose. L’udel mondo
niverso, infatti, è un immenso organismo dotato di un’unica forma e di un’unica materia: l’unica forma è appunto Dio come Anima del mondo datrice di forme specifiche (principio attivo); l’unica materia è la massa corporea del mondo, il sostrato (principio passivo) animato e plasmato dall’intelletto divino.
La concezione Si noti tuttavia che per Bruno la materia: della materia 1. non è pura potenza, o assoluta passività, in quanto non riceve passivamente le forme
dall’esterno, ma, avendole già in sé, per opera dell’intelletto «le manda e caccia fuori dal suo seno»; 2. non è qualcosa di separato dalla forma, ma costituisce un tutt’uno con essa, in quanto materia e forma, anima e corpo, non sono due sostanze, bensì due aspetti (che soltanto astrattamente possono essere distinti) di quell’unica sostanza universale e infinita che è la natura, concepita come l’uno-tutto degli eleatici e come realtà divina.
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
Lo schema riportato di seguito riassume quanto detto finora sulla concezione bruniana di Dio e della sua azione sulla materia. mens super omnia (mente al di sopra di tutto)
DIO
è
mens insita omnibus (mente presente in tutte le cose)
Anima del mondo
trascendente inconoscibile
immanente conoscibile
oggetto di fede
oggetto della filosofia
forma (principio attivo) che mediante l’intelletto universale plasma la materia (sostrato non del tutto passivo)
La concezione dell’universo Nella concezione bruniana di Dio come mens super omnia alcuni studiosi hanno visto un La visione residuo medievale, mentre nella teoria generale di un Dio simultaneamente dentro e fuo- panteistica ri l’universo hanno indicato una sorta di doppia verità che tradirebbe un opportunistico ossequio al passato e alla cultura dominante. Altri vi hanno invece registrato una convinzione sincera, esistenzialmente motivata da una mai soffocata nostalgia per la trascendenza, e intellettualmente derivante dallo schema neoplatonico secondo il quale l’Uno, pur essendo presente nel mondo, è nel contempo superiore a esso. Comunque sia, indipendentemente dal fatto che Bruno credesse o meno a un Dio trascendente, appare certo che l’ispirazione più profonda del suo sistema, e la vena più appassionata che lo anima, è la propensione tutta rinascimentale a vedere il divino nel mondo. E tale tendenza assume in Bruno caratteri così radicali da caricarsi di tinte panteistiche : «La natura – afferma il filosofo – o è Dio stesso, o è la virtù divina che si manifesta nelle cose» (Somma dei termini metafisici, IV). glossario p. 57 L’identità della natura con Dio, come abbiamo visto, è fondata e giustificata da Bruno sul- L’infinità la base dell’identità della materia (Dio quale principio passivo “animato”) con la forma dell’universo (Dio quale principio attivo che plasma e anima la materia). Riconosciuta questa identità, Bruno può rifarsi a Cusano ( cap. 2, p. 23) e affermare che la legge dell’universo è la coincidenza degli opposti, in quanto in esso (cioè in Dio) coincidono non soltanto la materia e la forma, ma anche il massimo e il minimo, nonché il centro e la circonferenza, tanto che si può dire che il centro del cosmo è dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo. Emerge così l’attributo fondamentale dell’universo, quello che accende ed esalta l’impeto lirico di Bruno e costituisce il tema preferito della sua speculazione: l’infinità, a cui sono dedicati soprattutto La cena delle ceneri, il De l’infinito universo et mondi e il poema latino De immenso et innumerabilibus. Proprio il tema dell’infinito rappresenta l’importante punto di incontro tra Bruno e la rivoluzione astronomica moderna, di cui egli è uno dei rappresentanti principali ( unità 2, cap. 1, p. 71).
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L’etica “eroica” Il mito di Nella sua essenza divina e infinita, la natura rappresenta al tempo stesso il movente, il teatteone ma e lo scopo ultimo della speculazione di Bruno, il quale infatti individua in essa il ter-
mine finale della conoscenza e della vita umane. Il simbolo di questa prospettiva è il mito di Atteone, narrato da Bruno nell’opera Degli eroici furori. Secondo la mitologia greca, durante una battuta di caccia Atteone sorprese Artemide (Diana per i Romani, dea cacciatrice simbolo della natura) nuda, mentre faceva il bagno. L’ira della dea lo trasformò in cervo, costringendolo a fuggire braccato dai suoi stessi cani, i quali, raggiuntolo, lo sbranarono. Nell’interpretazione di Bruno, Atteone è la metafora dell’anima umana, la quale, andando in cerca della natura e giunta finalmente a vederla, diventa essa stessa natura.
L’«eroico furore» Per Bruno il grado più alto della speculazione filosofica non è dunque l’estasi mistica di dei filosofi Plotino, cioè un congiungimento con Dio che coincide con l’oblio del mondo spazio-
temporale; esso è piuttosto la visione magica e religiosa insieme della natura come Dio, nella sua unitarietà e nella sua vita inesauribile. Per questo egli descrive i filosofi come «furiosi», assetati di infinito ed ebbri di Dio. Il filosofo è colui che, grazie ad uno sforzo «eroico» (nel senso etimologico di “amoroso”, “appassionato”, dal greco éros, “amore”), raggiunge una sorta di sovrumana immedesimazione con il processo cosmico attraverso il quale l’universo (o Dio) si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’universo. In altre parole, l’ eroico furore di cui parla Bruno è la traduzione naturalistica del concetto platonico di amore: l’essere umano, «arso d’amore», va in cerca dell’infinito, perché soltanto l’infinito può innalzarlo al di sopra dei «bassi furori» che lo incatenano alle cose materiali, e unirlo in una suprema unione d’amore con quella natura o quel Dio di cui egli stesso fa parte. glossario p. 57
La morale Per mezzo di questo identificarsi con la natura, di questo suo farsi natura, l’essere umano, attivistica pur non annullando il suo libero volere, sperimenta il grado più alto di libertà che gli sia
concesso, ovvero l’accettazione della necessità divina delle cose e del Tutto. Questo processo trova il proprio culmine, come abbiamo detto, nella contemplazione filosofica, ma riguarda anche il campo pratico e morale. Negli abbozzi di etica contenuti nelle sue opere, Bruno disdegna ogni morale ascetica e misticheggiante, e si dichiara a favore di una morale attivistica che esalta i valori della fatica, dell’ingegnosità e del lavoro.
Tra Alcuni studiosi hanno visto un contrasto e una reciproca esclusione fra l’ideale bruniano contemplazione della contemplazione filosofica e quello del lavoro e dell’impegno. In realtà, la reciproca e azione
implicazione di questi due ideali morali è fortissima, poiché Bruno auspica che l’essere umano «non contempli senza azione e non operi senza contemplazione», persuaso che l’individuo, proprio nel momento in cui giunge a identificarsi con la natura, debba sentirsi impegnato a continuarne l’opera creatrice e vitale. In altre parole, per Bruno la contemplazione di Dio non è fine a sé stessa, poiché rappresenta un incentivo a fare come Dio, ossia a realizzarsi come creatività ed energia produttrice.
L’impronta Nonostante questa valorizzazione del mondo del lavoro, il pensiero di Bruno svela un’imaristocratica pronta aristocratica, in quanto il filosofo è convinto che soltanto pochi riescano a condella filosofia di Bruno giungersi con la natura, attraversando i vari gradi dell’elevazione spirituale. L’aristocrati-
cismo bruniano sembra ribadito dalla convinzione della spaccatura dell’umanità in due schiere: i pochi ai quali è dato di accedere alla filosofia e di condursi secondo ragione e il gregge dei «rozzi popoli» che devono essere diretti dai sacerdoti delle varie Chiese.
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
Pur all’interno di questi limiti, l’etica di Bruno manifesta intuizioni geniali e “moderne”, debitamente sottolineate dalla critica.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra i tratti principali del naturalismo di Bruno e spiega in che senso esso si allontani da una prospettiva “scientifica”. 2. Partendo dalle due formule utilizzate da Bruno per definire Dio, spiega come quest’ultimo sia concepito dal filosofo nolano. 3. In che modo il mito di Atteone simboleggia la nozione bruniana di «eroico furore»?
ESERCIZI
SNODI PLURIDISCIPLINARI storia dell’arte
Nel loro volgersi alle origini del sapere, i pensatori rinascimentali fanno rivivere sia il pensiero filosofico sia la mitologia greca e romana, la quale, con i suoi suggestivi racconti, offre interessanti spunti anche all’arte. In particolare, il mito di Diana e Atteone (che Giordano Bruno richiama quale metafora del concetto di «eroico furore») è oggetto di numerose riproduzioni, sia pittoriche sia scultoree. Individua almeno due raffigurazioni rinascimentali del mito di Atteone (ad esempio quelle realizzate dal Parmigianino e da Tiziano), inquadrale nel contesto storico-artistico di riferimento e illustrane le principali caratteristiche stilistiche.
4. campanella Una terza “linea” della filosofia della natura del Rinascimento, distinta sia da quella sviluppata da Telesio sia da quella di Bruno, è il naturalismo di Tommaso Campanella, che, come vedremo, costituisce il fondamento di una grandiosa visione politico-teologica. Tommaso Campanella nasce a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568. Appena adolescente La vita entra nell’ordine domenicano, in cui si forma alla teologia e alla filosofia. Mente aperta e curiosa, Campanella si interessa anche di filosofia naturale (studiando soprattutto Telesio), magia e astrologia, arrivando ben presto a formulare tesi e affermazioni che lo pongono in contrasto con la dottrina cristiana ufficiale: per questo motivo egli subisce in varie parti d’Italia (Napoli, Padova e Roma) processi e condanne per eresia. Ritornato in Calabria nel 1596, ordisce contro il governo spagnolo (allora al potere nel Regno di Napoli) una congiura che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di una repubblica teocratica, di cui egli stesso sarebbe stato capo e legislatore. Nel 1599 la congiura viene scoperta e Campanella viene incarcerato e portato a Napoli per essere processato: riesce a sfuggire alla pena di morte soltanto fingendosi pazzo. Condannato al carcere a vita, vi rimane per ventisette anni, senza tuttavia interrompere l’attività intellettuale. Anzi, è proprio durante la reclusione che Campanella compone le sue opere maggiori. Nel 1626 viene liberato, quindi nuovamente rinchiuso nel carcere romano del Sant’Uffizio, e infine liberato ancora una volta per volere di papa Urbano VIII. Qualche anno dopo, non sentendosi sicuro, fugge a Parigi, dove viene accolto benevolmente da Luigi XIII: qui può trascorrere in tranquillità i suoi ultimi anni, attendendo alla pubblicazione delle sue opere. A Parigi muore il 21 maggio 1639. Dal punto di vista filosofico, le opere principali di Campanella sono: La filosofia dimostra- Le opere ta dai sensi (1591); Del senso delle cose e della magia (1620); L’ateismo sconfitto (1631); Filosofia reale (1637), che comprende Fisiologia, Etica, Politica ed Economia; Filosofia razionale (1638), che contiene Grammatica, Dialettica, Retorica, Poetica e Storiografia; Metafisica (1638).
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Gli scritti politici più notevoli sono: La monarchia di Spagna (1601), La città del Sole (1602) e La monarchia del Messia (1605). Nella giovinezza e nei primi anni della permanenza in carcere Campanella compone anche numerose Poesie, nelle quali le sue convinzioni filosofico-politiche assumono una veste artistica.
La concezione della natura e della conoscenza L’universale animazione delle cose e l’anima del mondo
Campanella accetta la fisica di Telesio, ma la correda di integrazioni magiche e metafisiche che erano parzialmente estranee allo spirito del suo fondatore. Egli insiste soprattutto sull’universale animazione delle cose, che è il presupposto della magia. Se gli animali e gli uomini (che sono dotati di sensibilità) sono formati (come affermava Telesio) dal caldo e dal freddo e dalla massa corporea, è necessario che anche il caldo, il freddo e la massa corporea siano dotati di sensibilità, perché ciò che è nell’effetto deve ritrovarsi nella causa. Tutte le cose del mondo sono dunque animate; e c’è anche un’anima che è propria del mondo nella sua totalità: l’Anima del mondo, la quale determina l’accordo che unisce le cose naturali, dirigendole tutte verso un unico fine e legandole tutte insieme nonostante le loro dissomiglianze. Di questo «consenso», cioè di questa armonia universale, si avvale la magia per effettuare le sue operazioni miracolose.
La riduzione Come Telesio, anche Campanella ritiene che tutta la conoscenza sia riconducibile alla sensidella bilità. La vera sapienza è quella fondata sui sensi, perché soltanto l’esperienza sensibile può conoscenza alla sensibilità verificare, correggere o confutare le conoscenze incerte. Così, ad esempio, l’esistenza degli an-
tipodi (ovvero la sfericità della Terra), che Agostino e altri antichi avevano negato, è stata dimostrata dall’esperienza concreta di Cristoforo Colombo. La conoscenza sensibile è dunque l’unica certa, mentre la conoscenza razionale (che deriva dalla conoscenza sensibile mediante ragionamenti) è più confusa e incerta.
conoscenza Ridotta ogni autentica conoscenza alla sensibilità, si presenta il problema di vedere in che moinnata e do l’anima possa conoscere (cioè “sentire”) sé stessa. Campanella risponde a questo interroconoscenza acquisita gativo nell’apertura della sua Metafisica, dove si rifà a una considerazione di Agostino: anche
lo scettico, che afferma di non poter conoscere nulla con certezza, conosce almeno questa verità, cioè “sa” di non sapere. Esiste dunque un sapere originario di cui non si può dubitare, e questo sapere è la conoscenza innata che l’anima ha di sé stessa (notitia sui ipsius innata). La conoscenza innata di sé è la condizione di ogni altra conoscenza:
‘
Lo spirito senziente non sente il calore, ma in primo luogo sé stesso: sente il calore attraverso sé stesso, in quanto è modificato dal calore.
Le cose esterne, quindi, producono nell’anima modificazioni che le rimarrebbero estranee e sconosciute, se essa non avesse coscienza delle proprie modificazioni. Sicché ogni cosa sente sé stessa di per sé ed essenzialmente, mentre sente le altre cose accidentalmente, cioè in quanto ha coscienza delle modificazioni che esse le procurano. In sostanza, l’auto-conoscenza originaria dell’anima è oscurata dalla conoscenza acquisita (illata), che è prodotta dalle cose esterne. Ed essa non è propria soltanto dell’anima umana, ma appartiene a tutti gli enti naturali, in quanto tutti sono dotati di sensibilità. Tuttavia è soltanto in Dio, che è privo di ogni conoscenza acquisita, che la conoscenza innata conserva tutta la sua potenza.
La metafisica I princìpi Così com’è concepita, la teoria dell’autocoscienza di Campanella costituisce comunque l’ultima dell’essere e più complessa formulazione del presupposto animistico del naturalismo rinascimentale.
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
È proprio l’autocoscienza, infatti, a rivelare i princìpi fondamentali di tutta la realtà naturale: poiché noi siamo consapevoli di potere, di sapere e di amare, e poiché la stessa autocoscienza originaria presente negli esseri umani è presente anche in tutti gli altri esseri, dobbiamo ammettere che l’essenza di tutte le cose è costituita appunto dalle tre primalità del potere (potentia), del sapere (sapientia) e dell’amore (amor). Ogni cosa è in quanto può essere, e il poter essere è la condizione dell’essere e dell’azione di ogni cosa. Inoltre ogni cosa è dotata della conoscenza di sé e delle altre cose, in quanto è provvista di sensibilità, sulla quale è fondato l’universale «consenso» delle cose, ovvero l’armonia che regge il mondo. Infine tutti gli enti amano il proprio essere e desiderano conservarlo. Potenza, sapienza e amore sono però limitati nelle cose finite, poiché queste sono carat- I princìpi del terizzate non soltanto dall’essere, ma anche dal non essere. Alle tre primalità dell’essere non essere corrispondono quindi tre primalità del non essere: l’impotenza, l’insipienza e l’odio. Soltanto in Dio, che non è finito ma infinito, le primalità dell’essere non sono limitate dal non essere: perciò in lui la potenza non implica alcuna impotenza, la sapienza alcuna insipienza e l’amore alcuna deviazione dal bene. I princìpi Attraverso le tre primalità, Dio crea il mondo e lo governa: dalla potenza divina deriva la necessità, per cui nessuna cosa può essere o agire diver- che reggono il mondo samente da come prescrive la sua natura; dalla sapienza divina deriva il fato, che è la catena delle cause naturali; dall’amore divino deriva l’armonia, che indirizza tutte le cose al fine supremo. Questi sono i tre grandi influssi attraverso i quali Dio crea e sorregge il mondo.
CONCETTI A CONFRONTO
LA NATURA in TELESIO
in BRUNO
in CAMPANELLA
è una realtà autonoma rispetto a ogni forza metafisica e si regge su princìpi propri (caldo, freddo, materia)
è un organismo vivente universalmente animato
è una totalità organica, strutturata finalisticamente, la cui essenza è costituita dalle tre primalità dell’essere
Dio ne garantisce l’ordine e l’autonomia, in quanto principio di conservazione di tutti gli esseri
Dio ne è principio immanente (Anima del mondo) ma anche principio trascendente e ineffabile
Dio ne è fondamento ultimo, in quanto ente in cui le primalità dell’essere sono illimitate e perfette
l’uomo può controllarla indagandone gli aspetti quantitativi
l’uomo può immedesimarsi in essa conseguendo la “visione” dell’unità della natura (eroico furore)
l’uomo può conoscerla attraverso la sensibilità
La visione politica Come abbiamo già accennato, la fisica e la metafisica di Campanella non sono fini a sé stesse, ma costituiscono il fondamento di una riforma che, secondo le speranze del filosofo, avrebbe dovuto riunire l’intero genere umano in una sola comunità politica. Campanella fu per temperamento e vocazione un profeta religioso, mosso dall’ideale di La Città uno Stato teologico universale che delineò nella sua opera più famosa: La città del Sole. del Sole
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Cercando di individuare l’autorità istituzionale che avrebbe dovuto trasformare il suo progetto in realtà, credette di riconoscerla prima nella monarchia spagnola, poi in quella francese. Pur essendo disposto ad accettare i compromessi che la realizzazione avrebbe richiesto rispetto alla purezza del suo ideale, Campanella vide le sue speranze andare deluse in entrambi i casi. La struttura Lo Stato perfetto descritto nella Città del Sole è governato da un principe sacerdote, detto dello stato Sole o Metafisico, assistito da tre prìncipi collaterali: Pon, Sin e Mor, cioè Potestà, perfetto
Sapienza e Amore, che corrispondono alle tre primalità della metafisica campanelliana. Le caratteristiche di questo Stato, nel quale tutto è ordinato e predisposto da uomini di scienza, sono la comunanza dei beni e delle donne (secondo il modello di Platone) e la religione naturale.
La religione La religione dei Solari (cioè degli abitanti della Città del Sole) è dettata dalla pura ragione dei solari e si identifica con la dottrina metafisica di Campanella. Egli osserva che il cristianesimo
«nulla cosa aggiunge alla legge naturale si non i sacramenti», e che perciò «la vera legge è la cristiana», la quale è destinata a diventare «signora del mondo». Questa religione naturale è innata (índita) in tutti gli uomini, è sempre vera ed è il fondamento di tutte le religioni positive, le quali sono acquisite o sopraggiunte (ádditae) e possono essere imperfette o anche false. Tuttavia la religione innata non può stare senza quella acquisita. La religione innata è propria di tutti gli esseri naturali, i quali, avendo origine da Dio, tendono per natura a ritornarvi; la religione acquisita, invece, è propria soltanto degli esseri umani, e perciò è la sola che implica merito e valore morale. La religione índita è la norma che misura il valore delle varie religioni positive.
La concezione Nell’Ateismo sconfitto Campanella si propone di dimostrare che il cattolicesimo è la sola del religione conforme a ragione, e quindi la sola destinata a diventare veramente universacattolicesimo
ESERCIZI
le; e in un’altra opera, intitolata Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae (dal salmo 21: «Si ricordino e si convertano al Signore tutti i paesi della terra»), il filosofo esorta tutti i popoli del mondo a ritornare al cattolicesimo. Ritenendo che la religione cattolica sia la più vicina alla religione índita, il filosofo si fa dunque partigiano di una riforma morale del cattolicesimo, che lasci immutati i dogmi e la gerarchia della Chiesa, ma restituisca quest’ultima all’ordine e alla semplicità delle sue origini, ovvero del periodo patristico, quando la sua capacità di proselitismo e di diffusione universale era massima. In questo modo Campanella si inserisce nei piani della Chiesa della Controriforma, anche se accetta il cattolicesimo soltanto perché lo ritiene identico alla religione naturale; quindi il suo atteggiamento non è, in ultima analisi, religioso, ma filosofico e naturalistico.
)
Per l’esposizione orale
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1. Quale concezione della natura emerge dalla filosofia di Campanella? 2. Spiega il significato delle espressioni «conoscenza innata» e «conoscenza acquisita» in Campanella. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera il “principio dell’autocoscienza” formulato da Campanella: pensi anche tu che ogni nostra conoscenza presupponga una conoscenza preliminare o originaria, ovvero la conoscenza di sé? Motiva la tua risposta. 4. Elenca e descrivi le tre «primalità» su cui si fonda la metafisica di Campanella. 5. Quali sono i caratteri principali dello Stato descritto da Campanella nella Città del Sole?
UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 5 RINASCIMENTO E NATURA
Il naturalismo rinascimentale Nel Rinascimento l’essere umano si comprende come parte del mondo naturale; l’indagine naturalistica diventa così uno strumento basilare sia per conoscere sia per dominare la natura. Emergono, in particolare, due prospettive: quella della magia, secondo cui la natura è animata e le sue forze si possono controllare con appositi incantesimi; quella della filosofia naturale, secondo cui la natura è retta da leggi autonome, indagabili a partire dall’esperienza sensibile.
Telesio Per Bernardino Telesio (1509-1588), l’essere umano è parte della natura e attraverso la sensibilità coglie ciò che la natura stessa rivela. Il mondo naturale si regge su princìpi propri, che possono essere ricondotti a due forze principali: il caldo e il freddo, i quali hanno sede rispettivamente nel fuoco e nella terra. Queste due forze agiscono su un terzo principio inerte, la massa corporea, o la materia, modellandola e dando origine a tutti gli enti. Dio garante dell’ordine del cosmo e della conservazione di ogni essere; e proprio la conservazione dello spirito vitale è il bene supremo a cui deve tendere anche la vita morale umana. Soltanto la vita religiosa non è riducibile alla natura, poiché consiste nell’aspirazione a un bene che non è conosciuto dai sensi. Tale aspirazione è resa possibile da un’anima infusa direttamente da Dio negli esseri umani come «forma superàddita». Sebbene in generale la fisica di Telesio si basi ancora, come quella aristotelica, su aspetti qualitativi, tuttavia il filosofo pensa che soltanto un’analisi quantitativa dei fenomeni naturali renderà gli uomini potenti, cioè capaci di esercitare il loro dominio sul mondo.
Bruno La concezione del mondo Giordano Bruno (15481600) può essere considerato il fondatore di una vera e propria religione della natura. Formatosi inizialmente come domenicano, presto si allontana dai precetti della dottrina ufficiale e si volge alla magia, attirando l’attenzione dell’Inquisizione. Arrestato e processato per eresia, nel 1600 viene condannato e arso vivo, essendosi rifiutato di abiurare. Bruno descrive la natura come animata da un principio divino immanente: Dio è forma insita in ogni cosa, e la materia è resa viva dal divino. L’universo è dunque un immenso organismo. In questa visione sono riconoscibili due aspetti:
• il panpsichismo
(dal greco pan, “tutto”, e psyché, “anima”) la prospettiva teorica che all’interno della realtà fisica riconosce l’azione di una forza di carattere spirituale, che anima il cosmo rendendolo vivo e vitale;
• il panteismo
(dal greco pan, “tutto”, e theós, “dio”) la prospettiva teorica secondo cui Dio è immanente in ogni cosa dell’universo, ovvero secondo cui Dio si identifica con il mondo.
Identificandosi con Dio, perfezione infinita, l’universo non può avere confini; come Cusano, anche Bruno afferma che esso ha il centro dovunque e la circonferenza in ogni luogo: l’universo, cioè, è infinito, e popolato da infiniti mondi.
La concezione del sapere Dio, per Bruno, non è soltanto «mente presente in tutte le cose» (mens insita omnibus), ma anche «mente al di sopra di tutto» (mens super omnia), ovvero principio trascendente e causa ineffabile della realtà. A lui tende tutto il creato, e a lui tende l’essere umano, nella sua sete di conoscenza. In generale, Bruno afferma che il filosofo (l’amante della sapienza), nella sua ricerca della verità, non deve attenersi all’interpretazione letterale delle sacre scritture – spesso contraria alla ragione e incompatibile con le leggi della natura – ma deve piuttosto cogliere l’infinita unità della natura vivente e immedesimarsi in essa. In ciò consiste quello che Bruno chiama
• eroico furore
l’amore (éros) infinito e appassionato (furor in latino significa “esaltazione”, “passione”) per la conoscenza che anima il filosofo, permettendogli di compiere un percorso eccezionale, che lo libera dalle catene della finitezza umana e lo rende partecipe dell’infinita unità del reale.
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A questa concezione del sapere corrisponde una morale che vede nell’elevazione spirituale e nella contemplazione di Dio lo scopo ultimo della vita umana. Ma tale scopo non è fine a sé stesso, poiché rappresenta lo stimolo per una vita attiva ed energica, in cui l’essere umano sperimenta nella propria esistenza finita la creatività produttrice propria di Dio.
Campanella Anche per Tommaso Campanella (1568-1639) il mondo è animato e strutturato finalisticamente: non soltanto ogni singola cosa è animata, ma esiste anche un’anima propria del mondo nella sua totalità, l’Anima del mondo, che determina l’accordo tra gli esseri naturali, dirigendoli verso un unico fine. L’essenza di ogni cosa è costituita dalle tre primalità dell’essere, ossia potenza, sapienza e amore. Dio è il
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UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo CapITolo 5 Rinascimento e natura
fondamento ultimo del Tutto, nel quale le primalità sono illimitate e perfette. Nelle cose finite, invece, le primalità dell’essere sono limitate dalle opposte primalità del non essere, cioè dall’impotenza, dall’insipienza e dall’odio. La natura è conosciuta attraverso la sensibilità, la quale a sua volta si radica nella conoscenza innata che ogni creatura ha di sé stessa, ovvero in una forma di autocoscienza. Questa è però oscurata dalla conoscenza acquisita prodotta dalle cose esterne. In Campanella lo studio della natura è finalizzato a una riforma radicale della comunità politica, che egli delinea nella Città del Sole. L’opera è la descrizione utopistica di uno Stato teocratico, organizzato gerarchicamente sulla base di una religione naturale dettata dalla pura ragione. Questa religione è innata in tutti gli uomini ed è il fondamento delle religioni positive; secondo Campanella, essa coincide con il cattolicesimo.
MAPPE
CAPITOLO 5 RINASCIMENTO E NATURA IL NATURALISMO RINASCIMENTALE segue due prospettive fondamentali
la magia
la filosofia naturale
che concepisce
che crede di
che abbandona
che si propone di
l’universo come un organismo animato
poter dominare le forze naturali con incantesimi
le ipotesi metafisiche
indagare i princìpi propri della natura
TELESIO sostiene che
il mondo naturale è
è riconducibile a
si conserva grazie a
conoscibile mediante la sensibilità
princìpi propri: il caldo, il freddo e la materia
Dio, il quale agisce mediante le forze naturali
BRUNO concepisce
Dio
l’universo
la filosofia
come
come
come
organismo vivente, immenso e infinito unione di forma (Dio come Anima del mondo) e materia
«eroico furore», cioè tensione a immedesimarsi nel processo cosmico fondamento di una morale attivistica
mente al di sopra di tutto
(principio trascendente, inconoscibile e ineffabile) mente presente in tutte le cose (principio immanente,
accessibile alla ragione) CAMPANELLA afferma che
progetta
tutte le cose sono animate
tutta la conoscenza è riconducibile alla sensibilità
e costituite da tre
e si divide in
primalità dell’essere (potenza, sapienza, amore)
conoscenza innata che l’anima ha di sé stessa
uno Stato teocratico, basato su una religione della ragione (Città del Sole)
conoscenza acquisita prodotta dalle cose esterne
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VERIFICA
UNITÀ 1 L’UMANESIMO E IL RINASCIMENTO
CAPITOLO 1 La cultura umanistico-rinascimentale 1 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.
2 Collega le affermazioni (colonna di sinistra) con l’epoca a cui si riferiscono (colonna di destra).
a. I modelli culturali degli umanisti vanno V
F
V
F
umano, tipica del Rinascimento, assume V spesso un significato anti-religioso
F
ricercati nell’antichità classica
a. la libertà dell’essere umano è centrale b. l’atteggiamento nei confronti del mondo è contemplativo c. la verità è concepita come “figlia del tempo” d. la cultura è concentrata nelle università e. la visione dell’essere umano è statica f. le principali sedi di studio sono le accademie e le scuole private g. prevale l’attaccamento ai problemi dell’aldiquà h. prevalgono interessi metafisico-religiosi
b. Gli umanisti usano il volgare come lingua
del sapere, per garantire maggiore diffusione alla nuova cultura c. L’affermazione della dignità dell’essere
d. Il Rinascimento sostiene la supremazia
dei moderni sugli antichi
V
F
e. Nel pensiero rinascimentale la natura
è concepita come l’ombra sbiadita di un mondo ideale
FLASHCARD
V
F
1. Medioevo
2. Rinascimento
CAPITOLO 2 Il ritorno a Platone e ad Aristotele 3 Secondo Cusano la conoscenza:
B ha bisogno del corpo soltanto nell’attività
sensitiva
A è possibile in virtù dell’illuminazione divina B è possibile soltanto in riferimento ai primi princìpi
C è inseparabile dal corpo
C è valida a condizione che si rinunci alla verità
D non ha bisogno del corpo
D è valida se fondata sulla consapevolezza dei
propri limiti
4 Per Pomponazzi l’anima umana:
5 Quale funzione riveste l’amore nell’universo di Ficino? (max 6 righe)
6 Che cosa sostiene Pomponazzi in riferimento all’etica?
A ha bisogno del corpo soltanto nell’attività
(max 6 righe)
intellettiva
CAPITOLO 3 Rinascimento e religione 7 Per Lutero la libertà va intesa come:
C la revisione che la Chiesa cattolica fa di sé stessa
nel Concilio di Trento
A condizione necessaria ma non sufficiente della
D il movimento, interno alla Chiesa cattolica,
salvezza
che promuove un ritorno al tomismo
B condizione necessaria e sufficiente della salvezza C un privilegio legato alla natura divina dell’essere
umano D abbandono e asservimento a Dio
8 Con il termine “Controriforma” si designa:
9 Che cosa personifica la pazzia di cui Erasmo tesse l’elogio?
10 Per quale ragione l’etica calvinista contribuisce a modellare lo spirito della nascente borghesia capita(max 6 righe) listica?
A il movimento di protesta religiosa e politica
animato da Lutero B la reazione della Chiesa cattolica al
protestantesimo
60
UNITÀ 1 L’UmanesImo e IL RInascImenTo VERIFICa
(max 6 righe)
11
attività PLUS Metti a confronto le posizioni di Erasmo e di Lutero in merito alla necessità di una rinascita religiosa, facendo emergere affinità e differen(max 20 righe) ze tra i due pensatori.
CAPITOLO 4 Rinascimento e politica 12 Nel Principe Machiavelli:
13 In base al diritto naturale un’azione è “buona” perché:
A vagheggia una repubblica ideale, ispirata
A è in accordo con i princìpi della ragione
a quella romana B impartisce preziosi insegnamenti morali al capo dello Stato C analizza in modo realistico e disincantato la storia presente D ricostruisce, magnificandola, la storia del popolo italiano
B è in accordo con i comandi divini C è riconosciuta tale in ogni comunità civile D è prescritta dalla legge
14
attività PLUS Descrivi le caratteristiche del principe di Machiavelli e mettile a confronto con quelle che, per Erasmo, deve avere il «milite cristiano», facendo emergere la differente concezione che i due autori (max 20 righe) hanno dell’etica e della politica.
CAPITOLO 5 Rinascimento e natura 15 Nella filosofia di Bruno l’universo: A è tutt’uno con Dio B esiste separatamente da Dio C è creato da Dio D ha in Dio la sua causa finale
16 Per Campanella la Città del Sole è: A un’allegoria della monarchia spagnola B una mera finzione letteraria
AVANGUARDIE EDUCATIVE COMPITO DI REALTÀ
C uno Stato teologico universale D uno Stato aconfessionale universale
17 Quali sono alcune interessanti intuizioni pedagogiche contenute nella Città del Sole di Campanella? (max 10 righe)
18 Esponi il programma rinascimentale dello studio sulla natura e mettine in luce gli aspetti più innovativi. (max 15 righe)
COMPETENZE Progettare | Collaborare e partecipare | Acquisire e interpretare l’informazione | Competenza digitale
Creare una pagina Internet per il portale della scuola Alla vostra classe è stato chiesto di creare una pagina Internet dedicata alla filosofia rinascimentale, da inserire nel portale della scuola.
FASE 1 Sotto la guida dell’insegnante formate 3 gruppi, ognuno a sua volta suddiviso in 2 sottogruppi: uno è incaricato di elaborare i testi, l’altro di ideare il layout grafico della pagina. FASE 2 elaborare un testo Gli studenti che si occupano dei testi approfondiscono i temi, rispettivamente, della religione, della politica e della natura nell’ambito della filosofia rinascimentale. Selezionate le questioni e gli autori più rilevanti, ed elaborate un testo espositivo (max 5000 caratteri con spazi). Il vostro compito è quello di trasmettere informazioni, quindi dovete essere chiari, precisi e neutrali: evitate uno stile artificioso e non esprimete il vostro punto di vista. Non siate troppo specialistici, perché alla pagina possono accedere
anche i vostri compagni che ancora non hanno affrontato lo studio della filosofia. Ricordatevi di citare le fonti quando ritenete che le parole dirette degli autori possano contribuire a rendere più coinvolgente l’esposizione. Individuate alcuni collegamenti che si possano aprire cliccando su un nome o su una parola: è opportuno fare attenzione a non attivare link troppo generici o pretestuosi.
FASE 3 usare gli strumenti digitali Gli studenti che si occupano del layout, dopo avere scaricato uno dei programmi di grafica disponibili gratuitamente in Internet, impaginano il testo fornito dai compagni, lo corredano di immagini e creano i collegamenti ipertestuali. FASE 4 collaborare Mettete insieme i risultati del vostro lavoro, apportando i necessari aggiustamenti in modo da rendere la pagina finale uniforme, armonica e di facile consultazione.
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2 UNITÀ
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI
Nell’unità si affronta la nascita, avvenuta fra il XVI e il XVII secolo, della scienza moderna, la cosiddetta “scienza sperimentale”, nella quale confluiscono sia le ricerche naturalistiche degli ultimi scolastici, sia le nozioni magiche e la filosofia naturale dei pensatori rinascimentali.
CAPITOLO 2 Bacone
Al formarsi di una nuova concezione della scienza concorre la riflessione di Francesco Bacone, che prospetta un sapere scientifico al servizio dell’essere umano, finalizzato a garantirgli, attraverso lo sviluppo della tecnica, il dominio sul mondo naturale.
CAPITOLO 3 Galilei IL RACCONTO DI UNA VITA
CAPITOLO 1 La rivoluzione scientifica
La scienza moderna prende avvio da quel cruciale evento storico-culturale che va sotto il nome di “rivoluzione astronomica”. Questa consiste nell’abbandono della visione geocentrica del cosmo ereditata da Aristotele e da Tolomeo, in favore della nuova immagine eliocentrica delineata da Niccolò Copernico.
Figura fondamentale per la nascita della scienza moderna è però soprattutto Galileo Galilei, sia per le sue scoperte fisiche e astronomiche, che contribuiscono al superamento della vecchia immagine del cosmo, sia per la definizione e l’applicazione di un nuovo rigoroso metodo di indagine della natura. Di grande importanza è inoltre la battaglia di Galilei in difesa della libertà e dell’autonomia della scienza contro ogni tipo di dogmatismo.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi Galileo Galilei - La fondazione della scienza moderna e riassumine i passaggi fondamentali, annotando anche gli eventuali dubbi o spunti di riflessione che ti suggerisce.
IN CLASSE
VIDEOLEZIONE Galileo Galilei La fondazione della scienza moderna
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Sotto la guida dell’insegnante dividete la classe in piccoli gruppi, all’interno dei quali confronterete il lavoro svolto a casa, discutendo dei dubbi e degli spunti di riflessione individuati singolarmente. Sempre all’interno di ogni gruppo, elaborate insieme un testo scritto
rispondendo alle seguenti domande: - perché si può dire che la nascita della scienza moderna è dovuta a un atto di ribellione? - in che senso, rispetto agli studiosi antichi, gli scienziati moderni fanno un miglior uso sia della ragione sia dell’esperienza? metaforicamente parlando, a quali insetti sono simili, da questo punto di vista? - quali sono, a grandi linee, le fasi del metodo scientifico teorizzato da Galilei? Un portavoce per ogni gruppo legge l’elaborato ai compagni; infine realizzate tutti insieme una presentazione multimediale (max 10 slide) che organizzi e sintetizzi il contenuto di tutti gli elaborati.
CAPITOLO 1 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
1. Lo schema concettuale sotteso alla nuova scienza Sulla scia di studi anglosassoni – e soprattutto del saggio The Scientific Revolution, pubblicato nel 1954 dallo storico britannico Alfred Rupert Hall (1920-2009) – si è soliti fare riferimento alla nascita della scienza moderna con l’espressione “rivoluzione scientifica”, collocandola cronologicamente tra la data di pubblicazione del capolavoro di Copernico Le rivoluzioni dei corpi celesti (1543) e quella dei Princìpi matematici di filosofia naturale di Newton (1687). Nella storiografia filosofica, la nascita della scienza ha assunto una rilevanza via via Gli interrogativi maggiore, segno evidente del fatto che la civiltà del nostro tempo, annoverando la scienza storiografici e la tecnica tra le proprie caratteristiche di fondo, tende a riconoscerne sempre di più la centralità storica. Ma quali sono i fattori che hanno prodotto la nascita della scienza? Quali le circostanze, gli eventi o le figure che ne hanno favorito l’avvento? Come si rapporta il nuovo tipo di sapere scientifico alla cultura precedente? Perché la scienza, quale la intendiamo noi oggi, è sorta soltanto nell’età moderna? Quali sono i motivi che ne hanno ostacolato per tanto tempo la nascita? Quali le forze che all’inizio l’hanno combattuta? Quali le ragioni, infine, del suo trionfo? Queste e altre domande rappresentano anche i più ardui e complessi quesiti di storia e filosofia della scienza, tuttora al centro del dibattito storiografico. Prima di cimentarci con questi interrogativi e di abbozzare possibili risposte, è utile analizzare la struttura teorica o lo schema concettuale generale di ciò che da Galileo Galilei in poi verrà chiamato “pensiero scientifico”. Un tale schema si può ricavare guardando sia al nuovo modo di concepire la natura impostosi tra il XVI e il XVII secolo, sia al nuovo modo di intenderne lo studio. In particolare, dalla metodologia della ricerca galileiana (a cui è dedicato il capitolo 3), emergono i seguenti elementi: 1. la natura è vista come ordine oggettivo di relazioni causali governate da leggi; 2. lo studio della natura, ovvero la scienza, è inteso come un sapere sperimentale, matematico e intersoggettivamente valido, il cui scopo è la progressiva conoscenza del mondo e il suo dominio da parte dell’essere umano.
La nuova concezione della natura e del suo studio
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La nuova concezione della natura La natura A partire dalla seconda metà del XVI secolo, la natura è intesa come un ordine oggettivo come ordine nel senso che, scientificamente parlando, essa costituisce un oggetto i cui caratteri non oggettivo
hanno niente a che fare con la dimensione spirituale dell’essere umano, cioè con i suoi fini, bisogni e desideri. Mentre il mondo analizzato dalla magia appare come un organismo in cui ogni cosa possiede un’anima e risulta in rapporto di “simpatia” o di “antipatia” con gli altri enti, l’universo studiato dalla scienza si configura come un ordine disantropomorfizzato, o spersonalizzato, cioè programmaticamente spogliato di ogni attributo, valore o qualità (utilità, perfezione ecc.).
La natura La natura, inoltre, è intesa come un insieme di relazioni (e non come un sistema di “escome ordine senze”) poiché lo sguardo del ricercatore è fisso non su presunti princìpi sostanziali occulrelazionale
ti e inverificabili posti alla base della realtà, ma sulle relazioni riconoscibili che legano i fatti tra loro. Ad esempio, allo scienziato non importa mettere in luce la “sostanza” del fulmine, ma soltanto chiarire i rapporti che collegano tra loro i fenomeni del lampo, delle scariche elettriche e del tuono.
La natura Più precisamente, la natura è intesa come un ordine relazionale di tipo causale, perché, come ordine secondo la nuova concezione scientifica, nel mondo nulla avviene a caso, ma tutto è il causale
risultato di cause ben precise. Nella prospettiva galileiana, per “causalità” si intende un rapporto costante e univoco tra due fatti (o due insiemi di fatti), tale che, dato l’uno, è dato anche l’altro e, tolto l’uno, è tolto anche l’altro. Ad esempio, data una temperatura di cento gradi (causa), l’acqua bolle necessariamente (effetto); tolta la temperatura di cento gradi, l’acqua smette necessariamente di bollire. Delle quattro cause riconosciute da Aristotele (formale, materiale, efficiente, finale), l’unica scientificamente ammessa è dunque la causa efficiente. Alla scienza, infatti, non interessa (o non è dato di conoscere) il “perché” finale o lo scopo di un certo fenomeno, ma soltanto la sua causa efficiente, ossia l’insieme degli eventi o delle forze che lo producono. Ad esempio, al fisico non importa (o non è dato di sapere) per quale scopo, nell’organizzazione complessiva della natura o nei piani generali del suo creatore, esistano i pianeti di Giove o le maree, poiché egli ha come suo unico traguardo lo studio delle cause efficienti che ne regolano il comportamento.
La natura Infine, i fatti della natura sono concepiti come governati da leggi perché, essendo caucome ordine salmente legati tra loro, obbediscono a regole uniformi, che rappresentano i modi neretto da leggi
cessari o i princìpi invarianti (i codici) attraverso i quali la natura opera. Di conseguenza, dal punto di vista scientifico, la natura finisce per identificarsi con l’insieme delle leggi che regolano i fenomeni e li rendono prevedibili.
La nuova concezione della scienza La scienza La scienza è concepita come un sapere sperimentale perché si fonda sull’esperienza, cioè come sapere sull’osservazione dei fatti, e perché le sue ipotesi vengono giustificate su base empirica e sperimentale
non puramente razionale. È importante sottolineare, tuttavia, che l’esperienza a cui fa riferimento la scienza moderna (come vedremo più analiticamente affrontando il pensiero di Galilei) non è una semplice “registrazione” di fenomeni, i quali vengono immediatamente inquadrati in una teoria generale, bensì una costruzione complessa, che partendo da basi matematiche mette capo a un esperimento , cioè a una procedura appositamente costruita per la verifica di una certa ipotesi teorica. glossario p. 113
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In altri termini, la scienza moderna perviene all’equazione “esperienza = esperimento”, rielaborando in modo originale il concetto di esperienza ereditato dai pensatori antichi e medievali. La scienza, inoltre, è un sapere matematico, ossia una ricerca che si fonda sul calcolo e La scienza sulla misura, perché, nello sforzo di darsi una veste rigorosa, procede a una matematiz- come sapere matematico zazione dei propri dati, racchiudendoli in formule precise. La “quantificazione” si configura come una delle condizioni imprescindibili dello studio scientifico della natura, e come uno dei punti di forza del nuovo metodo inaugurato da Galilei, il quale (come vedremo) assegna alla deduzione matematica un ruolo basilare anche nella “scoperta” delle ipotesi teoriche. Ancora, la scienza è un sapere intersoggettivo perché i suoi procedimenti vogliono essere La scienza “pubblici”, cioè accessibili a tutti, e le sue scoperte pretendono di essere universalmente come sapere intersoggettivo valide, ossia “controllabili” in linea di principio da chiunque. In questo modo la scienza moderna si stacca nettamente dalla magia e dalle discipline occulte del Medioevo e del Rinascimento, per le quali, secondo una concezione sacerdotale o iniziatica del sapere, la conoscenza era patrimonio di una cerchia ristretta di individui che lavoravano in segreto, senza rendere noti né i metodi né i risultati delle loro ricerche. Lo scopo della scienza moderna è dunque la conoscenza oggettiva del mondo e delle sue La scienza leggi. Ma, quanto più essa riesce a essere “neutrale” e “disinteressata”, ossia libera da come sapere pratico schemi antropomorfici e da preoccupazioni estranee al suo campo conoscitivo, tanto più va incontro a quel fondamentale interesse umano che è il dominio sull’ambiente circostante. Conoscere le leggi della natura vuol dire essere in grado di controllarla e dirigerla a proprio vantaggio, secondo il significato del celebre motto di Francesco Bacone «sapere è potere» ( cap. 2). LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA implica
una nuova concezione della natura
una nuova concezione della scienza
come
come
• ordine oggettivo • ordine relazionale • ordine causale • ordine retto da leggi
)
Per l’esposizione orale
• sapere sperimentale • sapere matematico • sapere intersoggettivo • sapere volto a dominare il mondo naturale
1. Illustra la nuova concezione della natura che caratterizza la scienza moderna. 2. Presenta in modo sintetico la nuova visione della scienza, utilizzando le espressioni che seguono: esperimento, sapere quantitativo, sapere intersoggettivo, dominio della natura.
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2. Il contesto storico, sociale e culturale della rivoluzione scientifica Chiarito lo schema concettuale che sta alla base della rivoluzione scientifica, possiamo affrontare la domanda relativa ai fattori che contribuirono alla nascita della nuova scienza. A questa domanda non è possibile rispondere adducendo un insieme di cause che avrebbero “necessariamente” indotto lo sviluppo del sapere scientifico, ma nemmeno si può attribuire quest’ultimo esclusivamente al caso o alla genialità di alcuni pensatori. Ciò che si può fare è piuttosto mettere in luce alcune delle condizioni storiche, economiche, sociali e culturali che prepararono o favorirono l’avvento della rivoluzione scientifica.
Il nuovo rapporto fra scienza e tecnica Le nuove Il contesto storico in cui nasce la rivoluzione scientifica è determinato innanzitutto dai muesigenze tamenti dell’economia europea e, di conseguenza, dal nuovo tipo di società venutosi a detecniche
lineare all’inizio dell’età moderna. La costituzione degli Stati cittadini e nazionali, parallelamente al consolidarsi della civiltà urbano-borghese, produce infatti un sistema di vita più complesso e dinamico, in cui emergono nuovi bisogni. In particolare, l’imponente struttura organizzativa delle monarchie europee e lo spirito imprenditoriale e affaristico dei ceti mercantili si traducono in maggiori richieste tecniche. Ad esempio, allestire eserciti sempre più potenti, ampliare le città, migliorare le vie di comunicazione, solcare gli oceani con navi più resistenti e veloci, arginare, incanalare e bonificare le acque, estrarre metalli, lavorare i vetri e le stoffe, stampare libri ecc. richiedono cognizioni di balistica, metallurgia, architettura, carpenteria, cartografia, arte mineraria, idraulica e tipografica, che a loro volta implicano conoscenze più approfondite di matematica, fisica, astronomia, geografia ecc. Le nuove esigenze tecniche fungono quindi da stimolo per la creazione di un sapere che renda possibile agire nel mondo in modo più incisivo ed efficace.
La collaborazione Le maggiori esigenze tecniche fanno sì che gli artigiani tradizionali risultino spesso imfra tecnici e preparati a risolvere i nuovi problemi e siano perciò costretti a interpellare studiosi in posscienziati
sesso di più ampie nozioni matematico-fisiche. Così, ad esempio, i costruttori delle armi da fuoco chiedono informazioni ai matematici sulla traiettoria dei proiettili, mentre gli architetti interrogano i fisici sulle leggi statiche. Talvolta, reciprocamente, gli scienziati “ascoltano” le osservazioni di modesti orologiai, piloti nautici, orefici, artiglieri ecc., o acquisiscono preziose nozioni dai cosiddetti “artigiani superiori” (ingegneri, architetti, idraulici ecc.). In tal modo si profila quell’alleanza fra tecnici e scienziati che costituisce una delle caratteristiche salienti della rivoluzione scientifica e che porta al superamento del millenario abisso tra scienza pura e applicazioni pratiche. Anzi, la connessione tra scienza e tecnica diventa tanto stretta da produrre affascinanti figure di scienziati, tecnici e artisti al tempo stesso (si pensi, primo fra tutti, a Leonardo da Vinci).
Le radici culturali Se il progressivo affermarsi della civiltà urbano-borghese e il congiunto sviluppo delle tecniche rappresentano la molla storico-sociale della rivoluzione scientifica, la cultura tardo-scolastica e quella umanistico-rinascimentale ne rappresentano le basi ideali. L’eredità Quanto alla tarda scolastica, gli autori fondamentali per la nascita della nuova scienza dell’occamismo sono Guglielmo di Ockham e gli esponenti della sua scuola, i quali non soltanto avevano
crticato le teorie fisiche aristoteliche, ma avevano anche contribuito a diffondere una
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mentalità favorevole alle ricerche naturalistiche ed empiriche. I loro studi, a fronte del generale disinteresse dei letterati umanisti per le indagini sul mondo fisico, hanno talvolta indotto gli studiosi a legare la nascita della scienza più all’occamismo trecentesco che all’Umanesimo. In realtà questa è una prospettiva troppo esclusivista, poiché il Rinascimento rappresenta pur sempre il terreno storico-ideale in cui è germogliata la scienza. Quanto alla cultura umanistico-rinascimentale, essa contribuisce alla nascita della scien- L’eredità del Rinascimento za moderna per due aspetti principali. In primo luogo il Rinascimento, con la sua tendenziale laicizzazione del sapere e la sua rivendicazione della libertà della ricerca intellettuale nei confronti della tradizione ufficiale, aveva aperto la strada all’autonomia della scienza. In secondo luogo l’Umanesimo e il Rinascimento, attraverso il “ritorno al principio” e mediante la traduzione di molte opere filosofiche e scientifiche dell’antichità, avevano favorito la riscoperta di dottrine e figure che erano state trascurate per secoli, come le teorie eliocentriche dei pitagorici; l’atomismo di Democrito; gli studi e le macchine di Archimede e di Erone; le ricerche dei geografi, degli astronomi e dei medici ellenistici. Soprattutto, il Rinascimento aveva posto le condizioni culturali di fondo per uno sviluppo più ampio dell’indagine naturale. In particolare: l’aristotelismo rinascimentale aveva difeso i diritti della ragione indagatrice e aveva elaborato quella concezione di un ordine naturale immutabile, fondato sulla catena causale degli eventi, che, come si è visto, rappresenta uno dei presupposti-chiave della scienza; Telesio aveva chiarito che i princìpi del mondo fisico – i soli mediante i quali è possibile spiegare i fenomeni naturali – sono princìpi sensibili: in tal modo aveva stabilito un’equazione tra «ciò che la natura stessa manifesta» e «ciò che i sensi fanno percepire», pervenendo all’idea di una spiegazione della natura per mezzo della natura; la magia aveva contribuito a diffondere la concezione dell’uomo come signore delle forze naturali, anticipando la convinzione di un carattere attivo e operativo del sapere; infine, rinverdendo il platonismo e il pitagorismo, il Rinascimento aveva offerto alla scienza la convinzione che la natura è “scritta” in termini geometrici, e che pertanto l’unico linguaggio adatto a esprimerla è quello rigoroso della matematica.
Le conquiste rinascimentali in ambito naturalistico
La nuova figura dello scienziato Le condizioni socio-culturali che abbiamo evidenziato (e altre che si potrebbero aggiun- Il fattore gere) sono davvero sufficienti a spiegare la nascita della scienza? In realtà, senza menti “genio” geniali e creative, capaci di tradurre in atto le possibilità implicite nelle condizioni citate e di sintetizzarne e realizzarne gli spunti mediante una metodologia corretta, la scienza non sarebbe mai nata. Tuttavia, così come non sarebbe corretto affermare che la scienza è stata prodotta da determinate “circostanze” in generale, analogamente essa non può essere considerata il frutto dell’opera di qualche mente particolarmente dotata e geniale. Per essere davvero aderenti alla realtà storica, è dunque necessario riconoscere all’origine della scienza moderna il lavoro di geniali scienziati, ma operanti all’interno di precise circostanze storico-culturali.
enciclosofia Erone Studioso dell’età ellenistica collocabile tra il I e il III secolo d.C., Erone di Alessandria compose numerosi scritti di matematica, fisica e meccanica, ma si dedicò soprattutto alla geometria e alla progettazione di meccanismi ingegnosi e sofisticati.
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I protagonisti Ma allora chi furono questi protagonisti della rivoluzione scientifica? Fatta eccezione per e i luoghi della gli astronomi e i matematici di corte (che il più delle volte venivano ingaggiati dai signorivoluzione scientifica ri per gli oroscopi), essi non furono scienziati di mestiere, ma studiosi che coltivarono le
ricerche scientifiche accanto alle loro professioni di ingegneri, architetti, medici e professori delle università; oppure persone benestanti che poterono dedicarsi agli studi senza preoccupazioni economiche. E poiché le università non erano sempre favorevoli al nuovo sapere scientifico, essi si organizzarono poco per volta in quelle istituzioni culturali alternative che furono le accademie scientifiche.
Il contributo Le più recenti ricerche di storia e filosofia della scienza hanno focalizzato l’attenzione andelle idee che sull’apporto di alcune idee extra-scientifiche, che, soprattutto agli inizi, contribuirono extrascientifiche alla genesi delle maggiori teorie scientifiche. Si tratta di convinzioni metafisiche, cre-
denze religiose di vario tipo, persuasioni irrazionali e, talvolta, di autentici pregiudizi. La scienza, insomma, emerse anche da basi tutt’altro che scientifiche, le quali formarono il sostrato umano e lo stimolo esistenziale per la “scoperta” di alcune teorie. Ciò non deve sorprendere, perché, ancora oggi, le tesi scientifiche possono scaturire dalle fonti più disparate; l’importante è che trovino poi una conferma empirica alle loro pretese di verità. Ad esempio, il fatto che Newton abbia scoperto la legge di gravità in seguito alla caduta di una mela da un albero oppure in seguito a un sogno (secondo quanto affermato dagli aneddoti) è del tutto inessenziale: ciò che conta è il valore oggettivo e sperimentale della teoria che poi venne formulata. Pertanto non c’è da stupirsi se, come vedremo nelle prossime pagine, alla base della rivoluzione astronomica si trovano idee metafisiche e teologiche, più che scientifiche.
Le forze ostili al nuovo paradigma scientifico Per affermarsi, la scienza moderna ha dovuto combattere una dura battaglia, scontrandosi contro due forze principali: la tradizione culturale e le autorità ecclesiastiche, unite in un unico “fronte ostile” che coinvolse anche i sostenitori delle scienze occulte. L’ostilità La cultura tradizionale (soprattutto quella di matrice aristotelica) si sentiva gravemente della cultura minacciata dalla nuova scienza, poiché essa: tradizionale
metteva in discussione teorie cosmologiche e fisiche ritenute fino a quel momento certissime; proponeva uno schema teorico anti-finalistico e anti-essenzialistico che urtava contro i princìpi basilari della metafisica greca e cristiana; contrapponendo la forza dell’esperienza e della verifica empirica al ragionamento astratto e deduttivo, svuotava di senso numerosi “dogmi” intellettuali del passato.
L’ostilità Quanto ai teologi e ai prelati della Chiesa, essi vedevano la nuova scienza (e soprattutto della Chiesa la nuova immagine dell’universo che essa andava delineando) distruggere pezzo per pez-
ESERCIZI
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zo la visione cosmologica in cui avevano inquadrato la propria dottrina. E la ferita era ancora più profonda poiché risultava messa in discussione non soltanto l’autorità di Aristotele – su cui Tommaso aveva fondato il massimo sistema storico di filosofia cristiana – ma anche la parola divina espressa nella Bibbia. A inquietare la Chiesa, oltre ai contenuti della nuova scienza, era anche il suo metodo, che, fondandosi sul principio della libera ricerca (la quale non doveva accordarsi sempre e necessariamente con la Bibbia, come pretendeva invece il tomismo), poteva apparire “eretico” quanto il “libero esame” delle Scritture proposto dai protestanti. Per di più, i teologi della Chiesa intuivano che la scienza incarnava una mentalità razionalistica, che avrebbe potuto investire anche altri campi, come ad esempio l’etica e la politica, sovvertendo credenze e istituzioni secolari. UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 1 la rivoluzione scientifica
Accanto alla cultura tradizionale e alla Chiesa, tra le forze che si opposero alla scienza fi- L’ostilità dei gurano anche la magia e l’astrologia. Da un lato, i maghi si trovavano completamente maghi e degli astrologi “spiazzati” dagli scienziati, che, perseguendo l’ideale di un sapere pubblico e intersoggettivamente verificabile, distruggevano l’idea di un sapere occulto, concesso a pochi privilegiati; dall’altro, gli astrologi si vedevano contestare tutto un insieme di credenze cosmologiche, legate a un universo pre-copernicano, che costituiva la base teorica delle loro pratiche divinatorie. La scienza, inoltre, grazie alle sue applicazioni tecniche, appariva sempre più come la realizzazione di quella conoscenza veramente utile all’essere umano che maghi e astrologi avevano cercato invano per secoli. La vecchia cultura, la Chiesa e i fautori delle scienze occulte, trovandosi dunque “alleati” La difesa del contro la scienza, giocarono soprattutto la carta del principio d’autorità, cercando di sco- principio d’autorità raggiare intellettualmente e moralmente i seguaci delle nuove idee. Eppure gli attacchi e le polemiche, anziché bloccare gli scienziati, li spronarono ad approfondire le loro dottrine, stimolandoli a cercare prove sempre più solide per poterle sostenere. Così, sia pure lentamente e a prezzo di grandi sofferenze e battaglie, la nuova scienza finì per imporsi, dimostrando con i fatti la propria validità e la propria utilità sociale, e affermando perciò il proprio diritto all’esistenza.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra brevemente la relazione tra scienza e tecnica delineatasi nella società moderna. 2. Spiega per quali aspetti anche la cultura del Rinascimento può essere considerata tra le matrici della rivoluzione scientifica. 3. Quali furono i principali “nemici” della nuova scienza e quali i motivi della loro ostilità? 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’ostilità che la nuova scienza suscitò alla sua nascita: come pensi che verrebbe accolta oggi una teoria che sovvertisse le credenze o le conoscenze tradizionali? Con pregiudizi e ostilità, oppure con curiosità e avidità di sapere? Per quali motivi?
3. La rivoluzione astronomica La rivoluzione scientifica prende avvio, come abbiamo detto, con la rivoluzione astronomica, la quale si colloca nella storia dell’Occidente come uno degli avvenimenti culturali che maggiormente hanno contribuito al passaggio dall’età antico-medievale all’età moderna. Generalmente si crede che la rivoluzione dell’immagine del cosmo sia sostanzialmente da Una visione ascrivere all’opera dell’astronomo polacco Niccolò Copernico ( p. 71). In realtà ciò è vero dalle radici antiche soltanto in parte, poiché Copernico diede semplicemente inizio a un processo di pensiero che coinvolse, al tempo stesso, astronomia, filosofia e teologia. Anzi, quella che comunemente continua a essere chiamata “visione copernicana dell’universo”, più che essere il frutto degli studi del solo Copernico o di altri astronomi e fisici come Keplero e Galilei ( p. 72 e p. 98), fu il prodotto di intuizioni e deduzioni teoriche che risalivano perlopiù a Giordano Bruno, il quale può quindi essere considerato il vero filosofo della nuova visione del cosmo. In altre parole, l’intricato processo della rivoluzione astronomica deve essere considerato, da una parte, un fatto astronomico e scientifico, e dall’altra un appassionante avvenimento filosofico, che attraverso i suoi due principali fautori (Copernico e Bruno) finì per trasformare radicalmente la visione complessiva del mondo che per secoli era stata propria dell’Occidente.
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La vecchia concezione dell’universo Prima di analizzare i due principali aspetti (scientifico e filosofico) della rivoluzione scientifica, è utile richiamare alla mente i punti essenziali di quel millenario sistema del mondo che è noto come universo aristotelico-tolemaico. I caratteri La cosmologia greco-medievale si era configurata sullo sfondo della fisica e della metafisica dell’universo di Aristotele, e ciò era avvenuto soprattutto grazie agli studi del matematico, fisico e astroaristotelicotolemaico nomo Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria d’Egitto tra il 120 e il 161 d.C. circa. Secon-
do il modello elaborato da Tolomeo, che aveva finito per imporsi alla cultura ufficiale, l’universo era sostanzialmente unico, chiuso, finito, fatto di sfere concentriche, geocentrico e diviso in due parti qualitativamente distinte (sub-lunare e sopra-lunare). Vediamo allora nel dettaglio queste caratteristiche. L’universo degli antichi era: unico in quanto pensato come il solo universo esistente, in base alla teoria aristotelica dei luoghi naturali, secondo cui ogni elemento esistente in natura (terra, acqua, aria, fuoco ed etere) tende a concentrarsi in un determinato (e unico) luogo nel cosmo; chiuso perché immaginato come una sfera limitata dal cielo delle stelle fisse (alla quale in seguito furono aggiunti il nono cielo e il primo mobile), al di là del quale si riteneva che non ci fosse nulla, neanche il vuoto, poiché per Aristotele ogni cosa era nell’universo, mentre l’universo non era in alcun luogo, potendoci essere luogo e spazio soltanto in relazione ai corpi che li occupano. Al di fuori del cosmo si trovava soltanto, come affermavano i pensatori cristiani, «il regno dell’onnipossente Iddio»; finito in quanto chiuso, coerentemente con la convinzione aristotelica (e più in generale greca) secondo cui l’infinito era soltanto un’idea, e non una realtà attuale; fatto di sfere concentriche, intese non come puri tracciati matematici (in senso moderno), ma come qualcosa di solido e di reale, su cui erano incastonati i pianeti e le stelle. Al di sotto della sfera delle stelle fisse, avvicinandosi alla Terra, si incontravano i cieli di Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna; geocentrico perché, al di sotto del cielo della Luna, comprendeva la zona dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua e terra), con la Terra immobile al centro di tutto; qualitativamente differenziato in due zone cosmiche ben distinte, una perfetta e l’altra imperfetta. La prima era quella dei cieli, o del cosiddetto “mondo sopra-lunare”, costituito di un elemento divino (l’etere), incorruttibile e perenne, il cui unico movimento era di tipo circolare e uniforme, senza principio e senza fine, eternamente ritornante su sé stesso. La seconda era quella del cosiddetto “mondo sub-lunare”, formato dai quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), aventi ognuno un suo “luogo naturale” e dotati di un moto rettilineo (dal basso verso l’alto o viceversa) che, avendo un inizio e una fine, dava origine ai processi di generazione e di corruzione di tutte le cose.
La giustificazione metafisica e religiosa dell’universo aristotelico
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Questa visione astronomica appariva conforme non soltanto al senso comune e alla quotidiana constatazione dell’apparente moto degli astri intorno alla Terra, ma anche alla mentalità metafisica prevalente, portata a concepire il mondo come un organismo gerarchicamente e finalisticamente ordinato. La teologia patristica e scolastica aveva poi ulteriormente sacralizzato questa cosmologia, intrecciandola con le dottrine della creazione, dell’incarnazione e della redenzione, che, presupponendo la Terra come sede privilegiata della storia del mondo e l’essere umano come fine della creazione (antropocentrismo), ben si conciliavano con la centralità spaziale riconosciuta alla Terra (geocentrismo). La testimonianza immediata dei sensi, l’autorità di Aristotele, le convinzioni della metafisica e la parola divina riportata nella Bibbia avevano quindi finito per convergere in una comune attestazione della validità assoluta del sistema tolemaico. UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 1 la rivoluzione scientifica
filosofia e scienza
L’aspetto scientifico della rivoluzione astronomica: dal geocentrismo all’eliocentrismo In quanto evento scientifico, la rivoluzione astronomica fu il risultato di alcune tappe teoriche cruciali, che cercheremo ora di enumerare e analizzare. La prima scossa decisiva all’imperante sistema geocentrico tradizionale, che mise in moto tutto il processo della rivoluzione astronomica, venne dal polacco Niccolò Copernico (Mikołaj Kopernik, 1473-1543). La sua opera fondamentale, Le rivoluzioni dei corpi celesti (De revolutionibus orbium coelestium), vide la luce soltanto nel 1543, quando egli era ormai in fin di vita.
Copernico: la ricerca di un modello matematico più semplice
Nel XIII secolo il sistema tolemaico si presentava come un modello teorico complicatis- Il ritorno simo. Per far tornare i calcoli che lo sorreggevano, nel corso dei secoli si erano escogita- all’eliocentrismo degli antichi ti vari e complessi espedienti matematici, al punto che si narra che il dotto Alfonso X di Castiglia (detto “il Saggio”) abbia un giorno affermato che, se si fosse trovato al posto di Dio, avrebbe fatto girare i pianeti più semplicemente. Studioso di fisica celeste, Copernico era soprattutto un teorico e un matematico, e considerava la dottrina tolemaica “anti-economica”, e quindi errata per il fatto stesso di essere troppo complessa. Egli cercò dunque nei libri degli antichi una soluzione alternativa al complicatissimo sistema geocentrico e si imbatté nell’ipotesi eliocentrica abbozzata dai pitagorici, convincendosi che fosse in grado di semplificare il calcolo matematico dei movimenti celesti. Dopo tanti secoli, l’eliocentrismo ritornò dunque a imporsi all’attenzione degli studiosi, mettendo in crisi la secolare cosmologia aristotelica. Il nuovo modello astronomico elaborato da Copernico è riassunto nel decimo capitolo del- Il sistema la prima delle sei parti di cui si compone il De revolutionibus: al centro dell’universo si tro- copernicano va il Sole, che è immobile; attorno al Sole ruotano i pianeti; tra i pianeti si trova anche la Terra, la quale, oltre a ruotare intorno al Sole, ruota anche su sé stessa, originando così il moto apparente degli astri attorno ad essa; anche la Luna gira attorno alla Terra, mentre, lontane dal Sole e dai pianeti, si trovano le stelle fisse, immobili. Questa nuova visione prospettica del cosmo, pur essendo di per sé rivoluzionaria, non su- Gli aspetti perava del tutto la vecchia immagine dell’universo. Copernico, infatti, continuava a conce- conservatori del copernicanesimo pire l’universo come sferico, unico e chiuso dal cielo delle stelle fisse. Inoltre accettava il principio della perfezione dei moti circolari uniformi delle sfere cristalline, pensate ancora come entità reali e incorruttibili. Lo stesso motivo per cui, secondo Copernico, il Sole era al centro dell’universo ricorda le “spiegazioni” aprioristiche della scienza antica: dovendo illuminare il cosmo, è soltanto dal centro di questo che il Sole può svolgere nel miglior modo la sua funzione. Eppure, i vari elementi di conservazione ancora presenti in Copernico non eliminano la portata oggettivamente innovatrice della sua opera e il suo coraggio di uomo pronto a sfidare, in nome della scienza, dottrine e pregiudizi secolari. L’effetto dirompente della nuova teoria cosmologica fu tuttavia smorzato da alcuni fattori. L’operazione Innanzitutto, il teologo luterano Andrea Osiander (Andreas Hosemann, 1498-1552) pre- di Osiander mise al capolavoro di Copernico, senza il consenso dell’autore, una prefazione anonima in cui sosteneva la natura puramente “ipotetica” e “matematica” della nuova dottrina astronomica, dichiarando che essa costituiva un puro strumento di calcolo, atto a «salvare le apparenze o i fenomeni», senza alcuna pretesa di rispecchiare l’autentica realtà del mondo.
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Ovviamente questa posizione, che venne attribuita a Copernico, attenuava di parecchio la portata rivoluzionaria della nuova teoria, e tradiva il vero pensiero dell’astronomo polacco, il quale, per quel che ne sappiamo, era persuaso di avere elaborato non una mera (sia pur funzionale) ipotesi matematica, bensì la riproduzione fedele della struttura reale del cosmo, ossia non uno dei tanti modelli possibili dell’universo, ma il solo “vero”. Le asperità In secondo luogo, la teoria copernicana stentò ad affermarsi perché per molti aspetti teoriche del non appariva affatto più semplice della teoria tolemaica; anzi, in qualche caso essa rinuovo sistema
sultava perfino più complessa dal punto di vista matematico, e incapace di spiegare alcuni movimenti celesti. Inoltre si scontrava con ardue questioni di fisica che la scienza del tempo non era preparata a risolvere. Emblematici, in questo senso, alcuni quesiti anti-copernicani messi a punto dagli aristotelici: se la Terra si muove, perché essa non provoca lo spostamento di tutti i suoi oggetti mobili lontano dalla superficie terrestre? se la Terra si muove, perché non solleva un vento così forte da scuotere cose e persone? se la Terra si muove da ovest a est, un sasso lanciato dall’alto di una torre dovrebbe cadere a ovest di essa, poiché la torre durante la caduta dovrebbe essersi spostata a est. Ma perché ciò non si verifica e il sasso continua a cadere approssimativamente ai piedi della torre? Questi e altri problemi sarebbero stati risolti scientificamente soltanto da Galilei.
Brahe: il terzo sistema cosmologico Maggior successo di Copernico riscosse, per lo meno nell’immediato, l’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601). Questi – che tra l’altro ebbe il merito di negare l’esistenza delle sfere solide e reali dell’astronomia antica, sostituendo il concetto fisico di “orbe” con quello matematico di “orbita” – fu l’ideatore del cosiddetto “sistema ticonico”, ossia di un sistema cosmologico “misto”, a metà strada fra i due opposti di Tolomeo e di Copernico. Il sistema Il sistema ticonico è simile a quello che nell’antichità era stato formulato da Eraclide Ponticonico tico (vissuto tra il 390 e il 310 a.C. circa). Esso prevedeva che i pianeti girassero intorno al
Sole, e che il Sole girasse a sua volta intorno alla Terra, che rimaneva al centro dell’universo. Questo modello astronomico ebbe un’accoglienza migliore rispetto a quello copernicano perché, pur mantenendone molti vantaggi matematici, era sostanzialmente “conservatore”, almeno per quanto riguarda la posizione della Terra, e quindi sembrava scongiurare ogni possibilità di conflitto con le sacre scritture.
Keplero: lo studio delle orbite dei pianeti Un’altra tappa decisiva nel passaggio dal sistema geocentrico a quello eliocentrico è costituita dalle teorie di Giovanni Keplero (Johannes Kepler). Nato il 27 dicembre 1571 a Weil, presso Stoccarda, Keplero fu professore di matematica e assistente di Tycho Brahe. Costretto a lottare aspramente con protestanti e cattolici per le sue idee, riuscì a fatica a procacciarsi i mezzi per pubblicare le sue opere. Dovette anche adoperarsi per salvare dal rogo sua madre, accusata di stregoneria. Morì a Ratisbona (Regensburg) il 15 novembre 1630. Le leggi In una delle sue prime opere, Keplero esalta liricamente la bellezza e la perfezione dell’ugeometriche niverso, vedendo in esso l’immagine della Trinità divina. Al centro del mondo da lui delidel cosmo
neato si trova il Sole, immagine di Dio Padre da cui derivano la luce, il calore e la vita che animano il tutto. I pianeti sono sei (Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere e Terra) e la loro disposizione intorno al Sole obbedisce a precise leggi di armonia geometrica. Inizialmente Keplero fa derivare il movimento dei pianeti da una loro anima motrice, o dall’anima motrice del Sole, ma in seguito lo sforzo di trovare nell’osservazione dei cieli la conferma di questi “filosofemi” pitagorici e neoplatonici lo induce ad abbandonarli.
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Nei suoi successivi scritti astronomici e ottici, al posto delle intelligenze motrici Keplero ipotizza l’esistenza di forze puramente fisiche, e afferma che il mondo è regolato da leggi quantitative, e più precisamente geometriche. A questo principio egli rimarrà sempre fedele, convinto che l’oggettività del mondo risieda nella proporzione matematica implicita in tutte le cose. E proprio a tale principio si deve la scoperta maggiore di Keplero: le leggi del movimento dei pianeti. Le leggi del Nell’Astronomia nova (1609) Keplero pubblica le prime due leggi da lui formulate: le orbite descritte dai pianeti intorno al Sole sono ellissi, di cui il Sole occupa uno dei fuochi; movimento dei pianeti il raggio vettore dell’orbita di un pianeta (cioè il segmento di retta che unisce il pianeta al Sole) descrive aree uguali in tempi uguali (il che significa che i pianeti non si muovono con velocità costante, ma più velocemente quando sono più vicini al Sole e più lentamente quando ne sono più lontani). Circa dieci anni dopo, nello scritto Harmonices mundi (1618), Keplero formula la terza tesi: i quadrati dei tempi impiegati dai diversi pianeti a percorrere interamente la loro orbita attorno al Sole sono proporzionali al cubo delle loro distanze medie dal Sole (pertanto i pianeti più vicini al Sole hanno periodi di rivoluzione più brevi rispetto ai pianeti più lontani). Con queste leggi, Keplero corregge il sistema di Copernico, per il quale il movimento dei pianeti intorno al Sole era circolare.
L’aspetto filosofico della rivoluzione astronomica: dal mondo chiuso all’universo aperto Abbiamo detto che l’aspetto filosofico della rivoluzione astronomica fu opera di Giordano Bruno, il quale con la sua audacia intellettuale superò definitivamente l’antica immagine e concezione del mondo, prospettando le linee fondamentali dell’immagine e della concezione moderne. Se si esclude l’eliocentrismo, la visione cosmologica di Copernico era ancora una visione del passato, perché l’universo non soltanto continuava a coincidere con il sistema solare (pensato con un suo centro intorno al quale ruotavano sfere solide e reali), ma risultava anche limitato «dall’ultima e suprema sfera del mondo», «contenente sé stessa e tutte le cose» (Le rivoluzioni dei corpi celesti, 1, I, 10). Quindi – sebbene Copernico, in un passo del De revolutionibus, avesse dichiarato di lasciare «alle discussioni dei filosofi» il problema dell’infinità del cosmo – di fatto il suo universo era ancora finito, anche se egli aveva notevolmente ampliato il cielo delle stelle fisse, affermandone l’incommensurabilità e l’immensità. Senza un’ulteriore “apertura” del cosmo, la rivoluzione copernicana avrebbe quindi rischiato di fermarsi a metà. A compiere questo passo ulteriore fu il pensiero filosofico.
Il mondo ancora “chiuso” di Copernico
L’intuizione filosofico-teologica di Bruno Il filosofo statunitense (di origine tedesca) Arthur Lovejoy (1873-1962) ha osservato che, per quanto gli elementi della nuova cosmologia potessero aver già posto le loro radici in alcune menti filosofiche (prima fra tutte quella di Cusano), soltanto Giordano Bruno «deve considerarsi come il rappresentante principale della dottrina di un universo decentrato, infinito ed infinitamente popolato, poiché non soltanto egli predicò questa dottrina per l’Occidente d’Europa col fervore di un evangelista, ma diede anche per primo una compiuta enunciazione dei motivi grazie ai quali essa sarebbe stata poi accettata dal grosso pubblico» (Arthur Lovejoy, La grande catena dell’essere, trad. it. di L. Formigari, Feltrinelli, Milano 1966, p. 122). Giordano Bruno giunge a un’effettiva nuova visione dell’universo: una visione che – si L’intuizione badi bene – non deriva da osservazioni astronomiche o da calcoli matematici, bensì da dell’infinità dell’universo un’intuizione filosofica che il copernicanesimo si limita ad alimentare.
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ESERCIZI
La deduzione teologica dell’infinità dell’universo
L’idea che l’astronomo polacco fa balenare dinanzi alla fervida immaginazione di Bruno, dando corpo alla sua preesistente intuizione dell’infinito, è la seguente: se la Terra è un pianeta che gira attorno al Sole, allora le stelle che si vedono nelle notti serene e che gli antichi immaginarono attaccate all’ultima “parete” del mondo (il cielo delle stelle fisse), non potrebbero essere dei soli immobili, circondati dai rispettivi pianeti? Pertanto l’universo, anziché essere composto da un unico sistema solare (il nostro), non potrebbe ospitare un numero illimitato di soli, disseminati nei vasti spazi del firmamento e centri di altrettanti mondi? Di fronte a questi interrogativi, pur ammettendo che «non è chi l’abbia osservato», Bruno conclude razionalmente: «Sono dunque soli innumerabili, sono terre infinite, che similmente circuiscono [circondano] quei soli, come veggiamo questi sette [pianeti] circuire questo sole a noi vicino» (De l’infinito universo et mondi). Tuttavia questa convinzione, sebbene tragga la sua forza dal copernicanesimo, viene immediatamente traslata dal piano astronomico a quello metafisico. Nella mente vulcanica di Bruno, infatti, l’astronomia, la filosofia, la teologia e l’immaginazione formano un tutt’uno da cui scaturisce la medesima conclusione: l’infinità dell’universo. Questa viene pertanto dedotta dal principio teologico (già presente nell’ultima scolastica) secondo cui il mondo, avendo la sua causa in un essere infinito, deve per forza essere infinito. Si possono individuare le tesi cosmologiche più rivoluzionarie di Bruno nei seguenti punti: 1. l’abbattimento delle “mura” esterne del cosmo; 2. l’ammissione della pluralità dei mondi e della loro abitabilità; 3. l’identità di sostanza tra cielo e terra; 4. la geometrizzazione dello spazio cosmico; 5. l’idea dell’infinità dell’universo.
Le rivoluzionarie tesi bruniane
L’“apertura” La prima tesi implica la distruzione di quell’idea secolare dei “confini” del mondo a cui lo del cosmo stesso Copernico, come si è visto, era rimasto fedele. Secondo Bruno gli uomini, vivendo
in città circondate da mura, hanno immaginato cintato e chiuso anche il cosmo. In realtà – “grida” Bruno con l’entusiasmo del prigioniero che vede cadere le pareti del suo carcere – non esiste alcuna muraglia celeste, perché l’universo è aperto in ogni direzione e le supposte stelle fisse si trovano disperse in uno spazio senza limite.
La pluralità La seconda tesi, connessa alla prima, implica l’infinita moltiplicazione dei corpi che «core l’abitabilità rono» per il cielo, e quindi la potenziale esistenza di una pluralità illimitata di sistemi dei mondi
solari, che Bruno ritiene popolati da creature viventi, senzienti e razionali. Il presupposto teologico-filosofico di questa convinzione è sempre lo stesso:
‘
Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli: non in una terra, un mondo, ma in diecento mila, (De l’infinito universo et mondi, “Epistola dedicatoria”) dico in infiniti.
La riunificazione La terza tesi implica il superamento del dualismo tolemaico, ovvero della distinzione tra del cosmo mondo sopra-lunare e mondo sub-lunare, e la riunificazione del cosmo in un’unica im-
mensa regione. Si sbaglia – dice Bruno – a voler distinguere tra una parte più nobile e una meno nobile dell’universo, poiché procedendo tutto dall’unica mente e dall’unica volontà di Dio, resta preclusa ogni discriminazione gerarchica tra le varie zone del creato.
Il carattere La quarta tesi, strettamente intrecciata alla terza, implica una concezione dello spazio come omogeneo e qualcosa di unico e omogeneo. Per Bruno la sede più naturale dell’universo copernicano è a-centrico dello spazio infatti il «vuoto infinito» di Democrito e di Lucrezio: un immenso contenitore, ripieno sol-
tanto di etere, che «alloggia» tutte le cose.
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Da questa idea deriva la cosiddetta «geometrizzazione dello spazio», cioè la sostituzione dello spazio aristotelico – che era un insieme finito e gerarchicamente differenziato di luoghi naturali – con uno spazio di tipo euclideo, omogeneo e infinito. In quanto tale, lo spazio che ospita il mondo è a-centrico, poiché in esso, nota Bruno, non esistono punti di riferimento assoluti (sopra, sotto, destra, sinistra ecc.), essendo i riferimenti sempre relativi fra astro e astro. La quinta tesi è in realtà la prima, essendo l’idea-madre che sta alla base di tutte le altre (sebbene le prime quattro non implichino necessariamente questa). Come sappiamo, la concezione di un universo senza limiti e dai caratteri divini è anche l’idea prediletta di Bruno, quella che lo riempie di entusiasmo e di passione: infinito è per lui lo spazio, infiniti i mondi, infinite le creature, infinite la vita e le sue forme ( ”Per saperne di più”, p 76). A parte la cornice lirico-filosofica e le giustificazioni teologiche, è facile riconoscere nelle tesi di Bruno “l’universo dei moderni” e verificare come l’immagine di quest’ultimo, sebbene comunemente associata al nome di Copernico, sia anche (o forse soprattutto) opera del filosofo di Nola. Questo può sembrare un paradosso: Bruno usa un armamentario concettuale del passato e parte da intuizioni extra-scientifiche per approdare a risultati proiettati verso la scienza del futuro. Come scrive lo storico della scienza Alexandre Koyré (1892-1964), «Bruno non è affatto uno spirito moderno. Tuttavia, la sua concezione è tanto possente e profetica, tanto sensata e poetica, che non possiamo che ammirarla, insieme con il suo Autore. Ed essa ha influenzato così profondamente – almeno nei suoi tratti formali – la scienza e la filosofia moderne, che non possiamo non assegnare a Bruno un posto importantissimo nella storia dello spirito umano» (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, trad. it. di P. Zambelli, Einaudi, Torino 1967, p. 48).
L’infinità e il carattere divino dell’universo
La “modernità” delle tesi di Bruno
Nonostante la loro potenza, le tesi di Bruno apparvero perlopiù come il frutto di una mente esaltata. Anche i più grandi astronomi del L’ostilità degli tempo – Brahe, Keplero e Galilei – le accolsero freddamente o le rifiutarono in gran parte, astronomi del tempo respingendo soprattutto l’idea della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo. Ciò non avvenne soltanto per ragioni di “correttezza metodologica”, ossia perché queste tesi esulavano dall’ambito di quanto all’epoca si poteva affermare dal punto di vista strettamente astronomico, ma anche perché esse apparivano oggettivamente “troppo” rivoluzionarie anche per gli stessi padri dell’astronomia moderna.
L’accoglienza delle tesi bruniane
Ancora più negativa fu la reazione degli ambienti legati alla religione e alla cultura filosofica tradizionale, che fin dalla comparsa del capolavoro di Copernico si erano mostrati “preoccupati” per le nuove idee astronomiche. Tuttavia – per uno di quei paradossi di cui è ricca la storia – quella stessa visione che inizialmente aveva procurato a Bruno tanto odio e disprezzo presso gli ambienti religiosi e scolastici, fino a condurlo sul rogo, con il tempo riuscì ad affermarsi proprio in quegli ambienti, prima ancora che in quelli scientifici.
L’iniziale ostilità della cultura religiosa e filosofica
In effetti, se la nuova cosmologia – nonostante reazioni e scossoni vari – finì per avere la Dall’eresia meglio su quella antica, ciò non avvenne grazie alla scienza, che per lungo tempo non all’ortodossia dispose di adeguati strumenti con cui verificare il nuovo quadro cosmologico. Furono piuttosto gli argomenti teologici proposti da Bruno a determinare gradualmente il superamento sia dell’angoscia umana di fronte a un cosmo senza confini, sia le difficoltà religiose: l’idea di un universo infinito, infatti, finì per risultare la più “adatta” a rispecchiare l’infinita potenza di Dio. Se i cieli e la terra narrano la gloria del Creatore,
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che cosa meglio di un cosmo infinito si presta a celebrarla in tutta la sua grandezza? Tramite l’opera di filosofi, scrittori e poeti, questa convinzione finì per radicarsi nella mentalità comune e per costituire l’asso vincente dei fautori della nuova astronomia. L’“eresia” bruniana si capovolse così in una convincente “ortodossia”, aprendo la strada al suo completo assorbimento nella cultura ufficiale.
)
Per l’esposizione orale
1. 2. 3. 4. 5.
Elenca e illustra brevemente i principali caratteri dell’universo tolemaico. Presenta gli aspetti rivoluzionari e quelli conservatori del sistema copernicano. Che cosa si intende per “sistema ticonico”? In che senso Keplero “corregge” il sistema copernicano? Perché il pensiero di Bruno riguardo al cosmo può essere considerato un’astronomia filosofica? 6. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la tesi bruniana (tuttora non dimostrabile né confutabile scientificamente) della possibile esistenza, nell’universo, di altri mondi ed esseri viventi: qual è il tuo pensiero in proposito? Conosci le posizioni o le opere di qualche letterato o artista contemporaneo su questo argomento? Che cosa ne pensi? SNODI PLURIDISCIPLINARI matematica
L’idea bruniana che lo spazio dell’universo sia di tipo euclideo entra in crisi, come abbiamo detto, nel XIX secolo, quando le difficoltà incontrate nella dimostrazione del quinto postulato di Euclide inducono alcuni matematici a costruire modelli teorici alternativi a quello della geometria tradizionale. Il risultato di questi studi fu la costruzione di alcune geometrie nuove, in sé perfettamente coerenti e corrispondenti a modelli di spazio diversi da quello euclideo. Che cosa afferma il quinto postulato di Euclide e quali sono le principali “geometrie non euclidee” a cui la sua negazione mette capo? Quali sono, infine, i modelli di spazio che vi corrispondono?
per saperne di più Le tesi cosmologiche di Bruno filosofia e scienza e la scienza contemporanea Con il tempo, le cinque tesi cosmologiche di Giordano Bruno furono accolte sia dalla filosofia sia, più tardi, dalla scienza, che almeno in parte finì per convalidarle. Se si escludono l’affermazione dell’esistenza di altri esseri viventi oltre a quelli umani e quella dell’infinità spaziale dell’universo (per le quali manca tuttora una certificazione scientifica), le tesi dell’assenza di confini («muraglie») celesti, della possibile pluralità dei mondi, dell’identità di struttura e di sostanza fra cielo e terra, e dell’omogeneità dello spazio cosmico diventarono la “cornice” dell’astronomia scientifica moderna.
Il ritorno novecentesco all’idea di un universo finito Il quadro cosmologico delineato da Bruno è stato rimesso in discussione soltanto dalla fisica del Novecento, e più precisamente dallo scienziato tedesco Albert Einstein (1879-1955). Quest’ultimo, infatti, ha ipotizzato un modello teorico secondo il quale la materia si “incurverebbe” su sé stessa, dando origine a un universo illimitato ma finito, cioè simile a una sfera finita ma illimita-
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tamente percorribile. In altre parole, mentre nel modello di spazio definito dalla geometria euclidea è possibile immaginare una retta che si prolunga all’infinito, nel cosmo di Einstein una retta prolungata all’infinito tende a ripiegarsi su sé stessa, formando una sorta di circolo, tanto che un ipotetico viaggiatore dell’universo che non cambiasse mai direzione tornerebbe sempre al punto da cui è partito.
Alcune questioni aperte Sul problema dell’infinità del mondo la scienza contemporanea è dunque paradossalmente tornata ad ammettere un modello che appare più vicino a quello di Aristotele e Tolomeo che a quello di Bruno, anche se la questione deve tuttora ritenersi scientificamente aperta. La scoperta delle cosiddette “geometrie non euclidee” e la loro applicazione in ambito fisico hanno messo in crisi anche la “geometrizzazione” dello spazio cosmico (ossia l’idea bruniana che lo spazio dell’universo fosse di tipo euclideo), lasciando anche questo punto in sospeso.
SINTESI AUDIOSINTESI
CAPITOLO 1 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
La nascita della scienza moderna La rivoluzione scientifica, ossia lo straordinario e complesso insieme di eventi e di scoperte che portano alla nascita di un nuovo modo di intendere e praticare la scienza, si colloca nel periodo compreso tra il 1543, anno di pubblicazione dell’opera di Niccolò Copernico Le rivoluzioni dei corpi celesti, e il 1687, quando uscirono I princìpi matematici di filosofia naturale di Isaac Newton. In questo periodo: la natura viene a essere concepita come un ordine oggettivo, strutturato secondo cause efficienti e governato da un insieme di leggi stabili; la scienza è intesa come un sapere sperimentale, matematico, controllabile e valido intersoggettivamente, e che consente di conoscere e dominare la natura. Dal punto di vista storico-sociale, la rivoluzione scientifica si fonda sulla nuova società urbano-borghese e, soprattutto, sullo sviluppo della tecnica, che stimola le ricerche teoriche; sul piano culturale, invece, essa trae spunto dalle riflessioni della scuola occamista, dalla laicizzazione rinascimentale del sapere e, infine, dal naturalismo e dalla magia cinquecenteschi. Al suo affermarsi si oppongono invece la tradizione scolastica e le autorità ecclesiastiche, che vedono messi in discussione il principio di autorità e la vecchia concezione del mondo, la quale era funzionale alle credenze religiose e corrispondeva all’opinione comune.
La rivoluzione astronomica La rivoluzione scientifica prende avvio con la rivoluzione astronomica, ovvero con la progressiva sostituzione del modello cosmologico geocentrico (elaborato intorno al II secolo d.C., su matrice aristotelica, dall’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo) con un modello radicalmente diverso, che pone il Sole al centro dell’universo.
L’aspetto scientifico della rivoluzione astronomica L’universo aristotelico-tolemaico era concepito come unico, finito e delimitato dalle stelle fisse. Al centro era posta la Terra, immobile: il mondo terrestre o sub-lunare era formato dai quattro elementi, caratterizzati dal moto rettilineo e dal divenire. Intorno alla Terra giravano il Sole e i pianeti, posti su sfere concentriche: questo mondo sopra-lunare era composto di etere e caratterizzato dalla perfezione e dal moto circolare eterno. Nell’opera Le rivoluzioni dei corpi celesti (1543), rifacendosi soprattutto alle dottrine di Democrito e dei pitagorici, Niccolò Copernico propone una teoria eliocentrica, secondo la quale al centro dell’universo, sempre delimitato dalle stelle fisse, si trova il Sole, che è immobile, mentre la Terra gira sia su sé stessa sia attorno al Sole. All’opera di Copernico il teologo luterano Andrea Osiander aggiunge una premessa anonima, in cui afferma la natura puramente ipotetica di questa teoria. In seguito Tycho Brahe, pur riaffermando la centralità della Terra nell’universo, apporta un contributo significativo alla rivoluzione astronomica negando l’esistenza di sfere concentriche solide e introducendo il concetto di “orbita”. A Giovanni Keplero si devono invece le tre leggi relative al moto dei pianeti, l’idea della natura ellittica delle loro orbite e la riaffermazione dell’ordine matematico dell’universo.
L’aspetto filosofico della rivoluzione astronomica Dal punto di vista filosofico, il passaggio dal mondo “chiuso” degli antichi e dei medievali (e ancora presente nella teoria di Copernico) a un universo “aperto” e privo di confini si deve a Giordano Bruno. Basandosi sul ragionamento, e non sull’osservazione, Bruno intuisce che l’universo è infinito e non ha un centro. Così come la Terra gira intorno al Sole, allo stesso modo ogni stella potrebbe essere un sole circondato dai rispettivi pianeti: l’universo è perciò composto potenzialmente da un’infinità di sistemi solari, popolati da altri esseri viventi. Bruno afferma anche l’insensatezza del dualismo tra mondo sopra-lunare e sublunare, immaginando lo spazio dell’intero universo del tutto omogeneo, simile allo spazio geometrico di Euclide. Le intuizioni di Bruno, che pure offrirono un notevole contributo alla configurazione dell’universo “dei moderni”, vennero sviluppate scientificamente soltanto più tardi, quando la scienza dispose finalmente di strumenti adeguati per mettere alla prova il nuovo modello cosmologico attraverso l’osservazione.
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MAPPE
CAPITOLO 1 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA si basa su
un nuovo schema concettuale
premesse storico-sociali
premesse culturali
l’affermarsi della civiltà urbanoborghese il manifestarsi di nuove esigenze tecniche
il pensiero della scuola occamista la laicizzazione rinascimentale del sapere gli sviluppi rinascimentali dell’indagine naturale
che intende
la natura come un ordine oggettivo e strutturato causalmente, governato da leggi
la scienza come sapere sperimentale, matematico e valido intersoggettivamente
LA RIVOLUZIONE ASTRONOMICA consiste nel passaggio da
universo degli antichi
geocentrico, chiuso (dal cielo delle stelle fisse), finito, fatto di sfere “solide” concentriche, diviso in mondo sopra-lunare e mondo sub-lunare
a
universo dei moderni
eliocentrico, aperto, infinito, qualitativamente omogeneo
attraverso la riflessione di
Copernico
Brahe
Keplero
Bruno
che concepisce
che formula
che scopre
che afferma
il concetto di orbita
le leggi del movimento dei pianeti
l’apertura, l’infinità e l’omogeneità dell’universo
l’ipotesi eliocentrica per semplificare il calcolo dei movimenti celesti
l’universo ancora sferico e chiuso, diviso in due zone cosmologiche qualitativamente distinte
pur mantenendo
l’ipotesi geocentrica
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 1 la rivoluzione scientifica
CAPITOLO 2 BACONE
1. I caratteri generali dell’opera di Bacone Se Galilei (come vedremo nel prossimo capitolo) sarà il primo a definire chiaramente il metodo della scienza sperimentale, Bacone è il primo a intravedere il potere sul mondo che il sapere scientifico offre agli esseri umani. Egli, infatti, individua l’obiettivo della scienza essenzialmente nella realizzazione del dominio dell’uomo sulla natura, tanto che lo si può a ragione considerare il filosofo e il profeta della tecnica. Francesco Bacone (Francis Bacon) nasce a Londra il 22 gennaio 1561 da sir Nicholas Bacon, La vita lord guardasigilli della regina Elisabetta I. Studia a Cambridge e poi, al seguito dell’ambasciatore inglese in Francia, si trasferisce a Parigi, dove ha modo di arricchire la sua cultura. Una volta ritornato in patria intraprende la carriera politica, ma durante il regno di Elisabetta non riesce a ottenere alcun incarico importante; nel 1603, con l’ascesa al trono di Giacomo I Stuart, può finalmente accedere a cariche e onori. Nel 1621 è chiamato a rispondere di fronte al parlamento dell’accusa di corruzione per aver ricevuto doni in denaro nell’esercizio delle sue funzioni. Riconosciutosi colpevole, è condannato a pagare quarantamila sterline e ad essere rinchiuso nella Torre di Londra. Il re condona a Bacone sia l’ammenda economica sia la prigionia, ma la vita politica del filosofo è ormai finita. Ritiratosi a Gorhambury, vi trascorre negli studi i suoi ultimi anni. Muore il 9 aprile 1626. Bacone ebbe sempre un’idea altissima del valore della scienza e della sua utilità per gli esseri umani. Tutte le sue opere tendono a illustrare il progetto di una ricerca scientifica che applichi il metodo sperimentale a tutti gli ambiti del sapere e della realtà, e miri a sviluppare applicazioni tecniche capaci di garantire il dominio umano su ogni parte del mondo naturale.
L’idea di una scienza al servizio dell’umanità
Prova di tale concezione della scienza è la Nuova Atlantide, un’opera pubblicata postu- La Nuova ma (nel 1627) in cui Bacone ricorre allo stratagemma letterario (già utilizzato da Tomma- Atlantide so Moro nella sua Utopia) della descrizione di un’isola sconosciuta. L’isola di Bacone è un “paradiso” della tecnica, in cui i ritrovati e le invenzioni di tutto il mondo vengono realizzati e sfruttati a vantaggio della comunità. La società è descritta come un enorme laboratorio sperimentale, nel quale si cerca di scoprire le forze nascoste della natura «per estendere i confini dell’impero umano ad ogni cosa possibile». I numi tutelari di questa nuova Atlantide sono i grandi inventori di tutti i Paesi, e le sacre reliquie venerate dai suoi abitanti sono gli esemplari di tutte le invenzioni più rare e rilevanti. enciclosofia Atlantide Mitica isola di cui parla Platone in alcuni suoi dialoghi. Situata oltre le colonne d’Ercole (ovvero oltre i confini del mondo anticamente conosciuto), Atlantide era una grande potenza navale, governata per molte generazioni da sovrani saggi e virtuosi, finché la bramosia e la cupidigia dei suoi abitanti non la resero invisa a Zeus, che ordinò a Poseidone, dio del mare, di inabissarla nelle profondità oceaniche. Al mito di Atlantide si ispirarono, oltre a Bacone, numerosi letterati rinascimentali.
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I Saggi Bacone, tuttavia, non rivolge la propria attenzione soltanto al mondo della natura. La sua
prima opera sono infatti i Saggi, pubblicati nel 1597, che contengono sottili ed erudite analisi di vita morale e politica, in cui si fa ampio ricorso al patrimonio di sapienza degli antichi.
L’enciclopedia Ma il maggiore impegno di Bacone è rivolto al grandioso progetto di un’enciclopedia delle delle scienze scienze che avrebbe dovuto rinnovare completamente la ricerca scientifica, portandola fi-
nalmente a svilupparsi su base sperimentale. Il piano di questa enciclopedia è contenuto nello scritto Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze, pubblicato nel 1623, e comprende: le scienze che si fondano sulla memoria, quelle che si fondano sulla fantasia e quelle che si fondano sulla ragione. Di tutte queste scienze Bacone avrebbe dovuto definire le direttive in un’ampia opera (che rimase incompiuta) intitolata Instauratio magna. Ecco in proposito uno schema in cui sono evidenziate come “mancanti” (secondo quanto indicato dallo stesso Bacone nelle sue opere) le scienze che a giudizio del filosofo non erano ancora sviluppate in modo sufficiente o adeguato. delle creature
MEMORIA
storia
naturale
dei prodigi (mancante)
civile
delle arti (mancante)
ecclesiastica letteraria (mancante) narrativa
FANTASIA
poesia
drammatica parabolica (illustra le verità) prima (mancante): studia i princìpi o gli assiomi comuni alle varie scienze
RAGIONE
divina (teologia naturale)
filosofia
speculativa speciale
naturale
matematica pratica
umana
fisica metafisica (mancante)
magia naturale (mancante)
del corpo dell’anima
Il Novum Di questo vasto progetto Bacone realizza adeguatamente soltanto il Nuovo Organo (Novum Organum Organum), pubblicato nel 1620 e dedicato a illustrare la logica sottesa al procedimento e altri scritti
scientifico. Si possono invece considerare abbozzi delle altre parti: La sapienza degli antichi (1609), la Storia naturale (1622) e il già citato Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze (1623), che rappresenta la prima parte dell’Instauratio magna. Negli ultimi anni della sua vita Bacone si dedica anche a una Storia di Enrico VII, che pubblica nel 1622. Altri scritti, talvolta incompiuti, saranno pubblicati postumi. Tra questi anche i Cogitata et visa, contenenti una critica serrata alla tradizione scientifico-filosofica.
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 2 Bacone
2. La scienza come «interpretazione» della natura Il «nuovo organo» della scienza Il Nuovo Organo di Bacone (titolo che si ispira all’Órganon aristotelico) consiste nell’espo- L’obiettivo sizione di una logica del procedimento tecnico-scientifico, che viene polemicamente della nuova logica contrapposta alla logica di Aristotele, ritenuta adatta soltanto a prevalere nelle dispute verbali. Per Bacone, infatti, con la vecchia logica si vince l’interlocutore avversario, mentre con quella nuova si vince la natura, e proprio l’«espugnazione» della natura è il compito fondamentale della scienza: «il fine di questa nostra scienza – egli dice – è di trovare non argomenti ma arti, non princìpi approssimativi ma princìpi veri, non ragioni probabili ma progetti e indicazioni di opere» (Novum Organum, “Distribuzione dell’opera”). Bacone concepisce dunque la scienza come posta interamente al servizio dell’essere umano, e l’essere umano come ministro e interprete della natura. Un ministro che tanto opera quanto intende, nel senso che conosce e mette a frutto ciò che, o con l’esperienza o con la riflessione, ha potuto comprendere dell’ordine naturale; al di là di questo, l’uomo non sa né può nulla. «Sapere è potere» è pertanto la formula più nota e caratteristica di Bacone, nella quale si afferma che l’uomo, grazie alla conoscenza della natura e delle sue leggi, diventa capace di estendere indefinitamente il proprio potere sul mondo. La scienza e la potenza umana coincidono: non si vince la natura se non conoscendo le sue regole e obbedendo ad esse.
La conoscenza come strumento per dominare la natura
Ma l’intelligenza umana ha bisogno di strumenti efficaci per penetrare nei segreti della natura e dominarla, esattamente come la mano non può compiere alcun lavoro senza uno strumento adeguato. Gli strumenti dell’intelligenza sono gli esperimenti , che vanno escogitati e adattati tecnicamente allo scopo che si intende raggiungere. Da soli, infatti, gli organi di senso non bastano a fornire una guida sicura per l’agire: essi si limitano a registrare passivamente ciò che la natura, per così dire, comunica spontaneamente, mentre nell’esperimento è lo scienziato a “interrogare” la natura, predisponendo situazioni e strumenti in modo che essa gli riveli i suoi misteri. glossario p. 113 Gli esperimenti sono dunque i veri custodi e i veri interpreti di quanto testimoniato dai sensi. Con una suggestiva immagine, Bacone dice che l’esperimento è «il connubio della mente e dell’universo»: un connubio dal quale nascerà «una prole numerosa di invenzioni e gli strumenti atti a domare e a mitigare almeno in parte la necessità e le miserie degli uomini» (Novum Organum, I, 3).
L’utilità degli esperimenti
OFFICINA CITTADINANZA Libertà della scienza p. 66
Questo fecondo «connubio» tra la mente e l’universo non può però avere luogo finché la L’anticipazione e mente umana rimane irretita in errori e pregiudizi che le impediscano di interpretare l’interpretazione della natura correttamente la natura. In questo senso Bacone oppone l’«interpretazione» della natura all’«anticipazione» della natura. L’anticipazione della natura prescinde dall’esperimento e consiste in un passaggio teorico immediato dall’esperienza dei casi particolari alle regole generali. Questa è la via di cui si serve la logica tradizionale, che si limita a “sfiorare” l’esperienza, per approdare a verità generalissime la cui certezza è soltanto presunta. L’interpretazione della natura, invece, si addentra con metodo e con ordine nell’esperienza e ascende senza salti e per gradi dai casi particolari alle leggi via via più generali. La via dell’anticipazione è sterile, poiché gli assiomi che essa stabilisce non servono a inventare nulla. La via dell’interpretazione è invece feconda, perché dagli assiomi che vengono desunti dai casi particolari con metodo e con ordine scaturiscono facilmente nuove conoscenze particolari, che rendono la scienza attiva e produttiva.
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Il superamento dei pregiudizi della mente Per delineare la nuova logica della scienza, Bacone deve quindi procedere alla preliminare eliminazione delle «anticipazioni» della mente. A questo obiettivo è dedicato sostanzialmente il primo libro del Nuovo Organo. I diversi tipi Per indicare le anticipazioni della mente, Bacone usa il termine idoli (in latino idóla, in di «idoli» greco éidolon): nell’atomismo e nell’epicureismo dell’antichità, questa parola designava in-
fatti il “simulacro”, ovvero l’immagine che, staccatasi dagli oggetti sensibili, colpiva gli organi di senso e si andava a collocare nella mente umana, contribuendo a costituire un’«anticipazione» (prolessi) dell’esperienza. In questo senso le anticipazioni vanno intese come “pre-giudizi”, ovvero come giudizi che “anticipano” l’esperienza. glossario p. 87 Bacone ne distingue quattro tipi, a seconda che dipendano: 1. dalla natura dell’intelletto umano, 2. dalla mente e dalla personalità dei singoli individui, 3. dal linguaggio, 4. dalle dottrine filosofiche e dalle dimostrazioni.
Gli idóla tríbus Ai pregiudizi che dipendono dalla natura umana, o meglio dalla struttura dell’intelletto
umano, Bacone dà il nome di «idoli della tribù» (idóla tríbus). Egli osserva che l’intelletto umano è portato a vedere nel mondo naturale un’armonia molto maggiore rispetto a quella realmente esistente, a dare importanza più a certi concetti che ad altri, e più a ciò che colpisce da vicino la fantasia che a ciò che è nascosto e lontano. Inoltre la mente umana è impaziente: vuole procedere sempre al di là di ciò che le è concesso e pretende che il mondo naturale abbia una struttura che si confà alle sue esigenze; per questo motivo essa nega, del mondo, ciò che non riesce a spiegare. Tutte queste inclinazioni naturali dell’intelletto umano determinano appunto gli idóla tríbus , la cui fonte principale è l’insufficienza dei sensi, ai quali sfuggono tutte le forze nascoste della natura.
Gli idóla spécus I pregiudizi legati ai singoli individui sono invece chiamati «idoli della spelonca» (idóla
spécus) e dipendono «dalla natura specifica dell’anima e del corpo del singolo», dall’educazione ricevuta, dalle abitudini acquisite nel corso della vita e dai casi fortuiti in cui ciascuno viene a trovarsi. Ad esempio, se Aristotele, dopo aver inventato la logica, asservì completamente ad essa la sua fisica, rendendola sterile, ciò si dovette senza dubbio a una particolare disposizione del suo intelletto. E lo stesso può dirsi di William Gilbert, (1540/1544-1603), medico e scienziato inglese che sulle sue scoperte sui fenomeni magnetici eresse un’intera filosofia. E così può dirsi, in generale, per ogni essere umano, il quale ha le sue propensioni per gli antichi o per i moderni, per il vecchio o per il nuovo, per ciò che è semplice o per ciò che è complesso, per le somiglianze o per le differenze; e tutte queste propensioni sono fonti di idóla spécus, quasi che ogni uomo avesse dentro di sé una spelonca o una caverna che rifrange e distorce la luce proveniente dal mondo naturale esterno.
Gli idóla fóri Gli «idoli della piazza» (idóla fóri) sono quelli che derivano dal linguaggio, cioè dalle
convenzioni linguistiche che i rapporti tra gli esseri umani rendono necessarie per consentire la comunicazione. Gli uomini – osserva Bacone – credono di dominare il linguaggio, ossia di imporre la loro ragione alle parole, ma accade talvolta che siano le parole a dominarli, ritorcendo e riflettendo la loro forza sull’intelletto. Alcune parole, cioè, acquistano con il tempo un significato indipendente e slegato da quello originario, e tale significato scorretto o fittizio si impone nell’uso quotidiano, generando equivoci e incomprensioni. Nascono così le dispute verbali, le più lunghe e insolubili, che si possono troncare soltanto con un riferimento diretto alla realtà.
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 2 Bacone
I pregiudizi che derivano dalle parole sono di due specie: o dipendono dall’uso di termini che designano cose inesistenti, oppure dall’uso di termini che designano cose esistenti ma definite in modo confuso. Della prima specie sono ad esempio le parole “fortuna”, “primo mobile”, “orbite dei pianeti” e altre espressioni simili, che indicano cose non riscontrabili mediante i sensi, che hanno origine da false teorie. Alla seconda specie invece appartengono, ad esempio, la parola “umido”, che può indicare cose anche diversissime tra loro, le parole che indicano azioni come “generare”, “corrompere” ecc., e quelle che indicano qualità come “grave”, “leggero”, “poroso”, “denso” ecc. L’ultimo genere di pregiudizi è quello dei cosiddetti «idoli del teatro» (idóla theátri), che Gli idóla theátri derivano da dottrine filosofiche erronee o da dimostrazioni fallaci. Bacone li chiama così perché paragona tali sistemi filosofici (soprattutto del passato) a vere e proprie “favole”, che sono come mondi fittizi o come scene di teatro. Per quanto non si proponga di confutare le singole dottrine, Bacone classifica le false teorie a seconda dell’ambito di appartenenza: la filosofia sofistica, la filosofia empirica e la filosofia superstiziosa. Il maggiore esempio del primo tipo di filosofia è a suo avviso il pensiero di Aristotele, il quale cercò di adattare il mondo naturale a categorie logiche create aprioristicamente e si preoccupò di dare una definizione verbale delle cose, più che di cercarne la vera natura. Un esempio di filosofia empirica è invece il pensiero degli alchimisti e del già citato Gilbert, che pretendono di spiegare ogni cosa per mezzo di pochi e ristretti esperimenti. La filosofia superstiziosa, infine, è quella che si mescola alla teologia, come accade in Pitagora e, soprattutto, in Platone, che Bacone considera più sottile e pericoloso. Tra le cause che impediscono agli uomini di liberarsi da questi «idoli» e di progredire nella co- La verità noscenza effettiva della natura, Bacone pone in primo luogo l’atteggiamento tendenzialmente come «figlia del tempo» reverenziale nei confronti della sapienza antica. A questo proposito egli osserva che l’autentica “antichità” è data dalla vecchiaia del mondo, e quindi è più corretto farla coincidere con l’epoca attuale, anziché con l’epoca antica, in cui il mondo era più giovane. Come è lecito aspettarsi una maggiore conoscenza in un uomo anziano anziché in un uomo giovane, così dovremmo aspettarci dalla nostra epoca conoscenze più vaste e più certe rispetto a quelle del passato, perché esse sono state via via arricchite nel corso del tempo da molteplici esperimenti e osservazioni. ESERCIZI La verità, dice Bacone, è «figlia del tempo» (filia temporis), non dell’autorità.
)
Per l’esposizione orale
1. Qual è il fine che Bacone riconosce alla ricerca scientifica? 2. Esponi i tratti principali della società ideale descritta nella Nuova Atlantide. 3. Spiega in che senso la nuova logica proposta da Bacone mira a «espugnare» la natura. 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’idea baconiana della verità come «figlia del tempo»: pensi anche tu che l’umanità, man mano che si fa più “anziana”, abbia la possibilità di conoscere sempre meglio la realtà? Oppure ritieni che l’aumento delle conoscenze non coincida sempre con l’avvicinamento alla verità? Motiva le tue risposte. SNODI PLURIDISCIPLINARI scienze umane
Con la sua classificazione degli «idoli» della mente, Bacone richiama l’attenzione su alcuni processi fondamentali attraverso cui gli esseri umani sviluppano le loro conoscenze e affinano il loro comportamento: un tema che nella psicologia contemporanea ha assunto grande importanza. Illustra sinteticamente le grandi spiegazioni novecentesche dei processi di apprendimento e delle scelte comportamentali degli individui (prime fra tutte il comportamentismo e il cognitivismo) e spiega in che termini possono essere accostate all’analisi baconiana.
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3. Il metodo scientifico La collaborazione Per Bacone la ricerca scientifica non può fondarsi né soltanto sui sensi, né soltanto sull’intra sensi e telletto. Se per proprio conto l’intelletto non produce che nozioni arbitrarie e infeconde, e intelletto
se i sensi da soli non danno che indicazioni disordinate e inconcludenti, la scienza non potrà costituirsi come conoscenza vera e feconda se non imporrà all’esperienza sensibile la disciplina dell’intelletto, e all’intelletto la disciplina dell’esperienza sensibile. Il procedimento che meglio risponde a questa esigenza di collaborazione tra sensibilità e intelletto, secondo Bacone, è quello dell’induzione, che egli intende tuttavia in un senso diverso da quello aristotelico.
Dall’induzione L’induzione aristotelica, cioè l’induzione puramente logica che non ha presa sulla realtà, si aristotelica basa sulla semplice enumerazione di casi particolari: Bacone la giudica un’esperienza all’induzione scientifica puerile, che fornisce conclusioni precarie, continuamente esposte al pericolo di esempi
contrari che possano smentirle. Un’induzione che sia davvero utile alle scienze e alle arti si fonda invece sulla scelta e sulla progressiva eliminazione dei casi particolari. La scelta e l’eliminazione, ripetute più volte sotto il controllo dell’esperimento, permettono di giungere a determinare la vera natura di un fenomeno e la legge generale che lo governa. Questo nuovo tipo di induzione scientifica procede quindi senza salti e per gradi, cioè risale gradualmente dai fatti particolari a princìpi via via più generali, e soltanto alla fine giunge agli assiomi generalissimi. Vediamo allora più nel dettaglio che cosa intende Bacone.
Le diverse fasi del metodo La storia Innanzitutto lo studioso del mondo naturale deve procedere alla raccolta e alla descrizionaturale e ne dei fatti particolari. Questa fase è definita da Bacone «storia naturale e sperimentale», sperimentale
perché assomiglia alla raccolta di dati in cui sono impegnati gli storici: anziché agli eventi del passato, gli studiosi del mondo naturale guardano alla natura, osservandone i fenomeni e cogliendone le differenze e le affinità.
Le tavole Ma la storia naturale e sperimentale, ovvero una tale raccolta di dati fenomenici, potrebbe
essere così varia e vasta da confondere l’intelletto, anziché aiutarlo. Per questo i fenomeni osservati devono essere opportunamente ordinati e classificati. A questo fine servono le tavole , che sono elenchi o cataloghi di tutti i casi che sembrano riferirsi allo stesso fenomeno. glossario p. 87 le tavole della presenza raccolgono i casi in cui un determinato fenomeno (ad esempio il calore) si presenta, benché in circostanze diverse (ad esempio le fiamme, i raggi solari, i fulmini ecc.); le tavole dell’assenza raccolgono i casi in cui lo stesso fenomeno non si presenta, pur verificandosi condizioni e circostanze vicine o simili a quelle notate nelle tavole della presenza (ad esempio la luce della luna o delle stelle); le tavole dei gradi, o tavole comparative, raccolgono i casi in cui il fenomeno si presenta in gradi diversi, ovvero secondo differenti intensità.
La prima ipotesi Sulla scorta di queste tavole si avvia una prima fase “negativa”, consistente nell’escludere e le istanze quelle cause (o «nature», o «forme», per usare il linguaggio di Bacone) che risultano inprerogative
compatibili con il fenomeno studiato.
Dopo questa (lunga) fase di esclusione, si procede alla «prima vendemmia» (vindimiatio prima), ovvero alla formulazione di una prima ipotesi intorno alla natura del fenomeno. Si tratta di un’ipotesi di lavoro che guiderà l’ulteriore sviluppo della ricerca. Questa dovrà
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 2 Bacone
infatti procedere mettendo alla prova la prima ipotesi mediante successivi e ripetuti esperimenti, che Bacone chiama istanze prerogative (letteralmente “domande privilegiate”) e che consistono nell’“interrogare” la natura, controllando empiricamente se si verifichino davvero i fatti particolari che si possono dedurre dall’ipotesi. glossario p. 87 Nella “rete” delle istanze necessarie per vagliare un’ipotesi, ve n’è una particolarmente L’istanza importante: è l’ istanza cruciale , così chiamata da Bacone in riferimento alle croci che cruciale all’epoca si erigevano nei bivi per indicare la separazione delle vie. Quando, nella ricerca della causa di un certo fenomeno, si è in dubbio tra due o più possibilità che paiono ugualmente probabili, l’istanza cruciale (experimentum crucis) risolve questa situazione di “equilibrio” dimostrando definitivamente la connessione necessaria del fenomeno indagato con una delle due «nature» e la sua separabilità dall’altra. glossario p. 87 Possiamo seguire le tappe principali dell’iter metodologico proposto da Bacone ripren- Un esempio dendo l’esempio (baconiano) del calore: dopo aver escluso che la sua causa sia la luce (poiché la luce lunare, ad esempio, è fredda) o la “tenuità” dei corpi (poiché sono caldi non soltanto i corpi “tenui”, come l’aria, ma anche quelli densi, come l’oro), si può ipotizzare che tale causa risieda nel movimento espansivo e rapido degli elementi di un corpo (vindimiatio prima). Questo movimento si verificherebbe quando il caldo è presente, mentre mancherebbe quando è assente, aumentando o diminuendo la velocità in maniera proporzionale alla maggiore o minore intensità del calore. Se questa ipotesi supererà le diverse istanze prerogative e l’istanza cruciale, allora si potrà ritenere corretta. LA RICERCA SCIENTIFICA prevede
la raccolta dei dati
la catalogazione e l’organizzazione dei dati
la formulazione di una prima ipotesi
il controllo empirico dell’ipotesi
«storia naturale e sperimentale»
«tavole» della «presenza», dell’«assenza» e dei «gradi»
«prima vendemmia»
«istanze prerogative» e «istanza cruciale»
Il metodo di Bacone, globalmente considerato, non può essere visto né come una semplice Tra empirismo raccolta di dati empirici, né un astratto ragionamento: esso si presenta piuttosto come una e razionalismo selezione e interpretazione razionali di dati empirici. Questo inscindibile legame tra prospettiva empirica e prospettiva razionalistica è illustrato da Bacone mediante un’efficace metafora: egli paragona gli «empirici» alle formiche (perché si limitano ad «accumulare» dati, senza ordinarli e interpretarli adeguatamente) e i «razionalisti» ai ragni (che «ricavano da sé medesimi la loro tela», proprio come i razionalisti ricavano dal loro intelletto le loro dimostrazioni, senza preoccuparsi di quanto esse aderiscano alla realtà sensibile). Il metodo scientifico di Bacone, invece, è da lui stesso accostato al lavoro delle api, che succhiano il nettare dei fiori (raccolgono dati sensibili dal mondo esterno), ma poi lo lavorano trasformandolo in miele (ordinano i dati in modo da formulare ipotesi sulle loro cause e controllarle sperimentalmente). In altre parole, secondo Bacone la scienza non si basa soltanto sul lavoro della ragione, ma trae dall’esperienza il materiale che poi elabora razionalmente.
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L’induzione come ricerca delle forme L’esclusione L’intero processo induttivo delineato da Bacone tende a stabilire le cause dei fenomeni nadelle cause turali. E queste cause coincidono per lui con le «forme». Bacone accetta la distinzione arifinali
stotelica delle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Tuttavia egli elimina subito la causa finale dagli oggetti che la scienza deve ricercare, affermando che tale ricerca nuoce alla scienza, più che giovarle. Bacone non nega che si possano legittimamente contemplare i fini degli oggetti naturali e l’armonia generale dell’universo per rendersi conto della potenza e della saggezza di colui che li ha creati. Ma in questo caso si tratta soprattutto di trovare i motivi della glorificazione di Dio, e non di individuare nozioni che possano essere trasferite sul piano della scienza naturale. Quest’ultima, infatti, non è contemplativa, bensì attiva, nel senso che mira a scoprire le cause dei fenomeni per consentire agli uomini di dominare la natura.
La causa Analogamente, quanto alle altre cause individuate da Aristotele, Bacone ritiene che sia formale la ricerca di quelle materiali sia la ricerca di quelle efficienti sia superficiale e inutile per la
scienza vera. Rimane dunque la sola causa formale. Bacone osserva infatti che soltanto la conoscenza delle forme rivela l’unità e l’armonia del mondo naturale, rendendo possibile agli esseri umani la scoperta e la produzione di quello che non c’è mai stato prima, che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno e che né le vicende della natura, né le accortezze sperimentali, né il caso avrebbero mai prodotto. Lo schematismo Tuttavia Bacone concepisce la causa formale in modo diverso da Aristotele: essa è per enlatente e il trambi l’essenza immanente delle cose, ma la forma aristotelica era soprattutto un principrocesso latente pio logico-ontologico, mentre la forma baconiana è soprattutto un principio geometricomeccanico. Vero è che stabilire che cosa Bacone intendesse veramente per “forma” costituisce uno dei problemi più complessi tra quelli affrontati dagli studiosi del suo pensiero. Per intendere il significato di questa nozione è necessaria un’osservazione preliminare. Bacone distingue in ogni fenomeno naturale due aspetti: lo schematismo latente, cioè la struttura o l’ordine intrinseco e nascosto dei corpi considerati staticamente; il processo latente, cioè il “movimento” o la trasformazione che appartiene intrinsecamente ai corpi e che li porta alla realizzazione della loro forma. La forma come Ora, per Bacone la forma è nello stesso tempo il principio dello schematismo latente e struttura e il principio del processo latente; essa è dunque, nello stesso tempo: glossario p. 87 legge di un la struttura o lo schema che costituisce essenzialmente un certo fenomeno naturale, infenomeno
dividuandolo e definendolo; la legge che presiede al fenomeno, facendo sì che esso si generi o si produca.
)
Per l’esposizione orale
1. 2. 3. 4.
Quale rapporto c’è, secondo Bacone, tra i sensi e l’intelletto nella ricerca scientifica? Spiega in quali termini il metodo induttivo baconiano si distingue da quello aristotelico. Elenca e illustra le tre tipologie di «tavole» elaborate da Bacone. Servendoti dei concetti di “schematismo latente” e “processo latente”, spiega che cos’è la forma per Bacone.
SNODI PLURIDISCIPLINARI lingua e letteratura italiana
Per caratterizzare il proprio metodo scientifico, distinguendolo sia da quello degli «empirici» sia da quello dei «razionalisti», Bacone ricorre all’efficace metafora delle formiche, dei ragni e delle api. In che cosa consiste la figura retorica della metafora? Arricchisci la tua risposta con almeno tre esempi tratti dalla storia della letteratura.
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 2 Bacone
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 BACONE
Nato a Londra nel 1561, Bacone ricopre importanti cariche politiche e contemporaneamente si dedica alla ricerca scientifica, pubblicando nel 1620 la sua opera più importante, il Novum Organum. Accusato di corruzione, si ritira dalla politica e si applica al progetto di una riorganizzazione del sapere su base sperimentale, secondo il piano grandioso di un’articolata enciclopedia delle scienze. Bacone delinea anche l’ideale di una società fondata sulla scienza e sulla tecnica, che egli descrive nella Nuova Atlantide, pubblicata postuma nel 1627.
La concezione della scienza Muovendo da una critica alla logica di Aristotele esposta nell’Órganon, Bacone propone un «nuovo organo», ovvero una nuova logica quale strumento per lo sviluppo della ricerca scientifica e per l’espugnazione della natura. Egli, infatti, pensa che la scienza, grazie alla conoscenza delle leggi dei fenomeni, debba consentire agli esseri umani di estendere il proprio potere sul mondo naturale, secondo il motto «sapere è potere». Strumenti efficaci per dominare la natura sono gli esperimenti, che non sono assimilabili all’esperienza immediata e casuale. La raccolta dei dati esperienziali deve infatti seguire un metodo ordinato, che permetta di passare in modo graduale dai casi particolari a enunciazioni via via più generali. Soltanto così si può giungere a un’«interpretazione» della natura, che Bacone contrappone alla semplice «anticipazione» della natura, ossia al passaggio immediato da pochi dati sensibili a una generalizzazione di cui non si può avere certezza. Per una retta comprensione della natura, è quindi necessario eliminare preliminarmente le cause di tutte le possibili anticipazioni, ovvero eliminare quelli che Bacone chiama
• idoli
(in latino idóla, che a sua volta deriva dal greco éidola, “simulacri”) contenuti mentali che “anticipano” l’esperienza; si tratta di “pre-giudizi” che impediscono di cogliere la realtà sensibile così come realmente è.
Bacone individua diversi tipi di «idoli» o pregiudizi: gli «idoli della tribù» (idóla tríbus) sono dovuti alla natura umana, che tende inevitabilmente a deformare le percezioni della realtà; gli «idoli della spelonca» (idóla spécus) sono propri di ciascun individuo, nelle circostanze specifiche della sua vita; gli «idoli della piazza» (idóla fóri) derivano dal linguaggio e dai suoi equivoci; gli «idoli del teatro» (idóla theátri) dipendono da dottrine filosofiche erronee o da dimostrazioni fallaci).
Il metodo scientifico La scienza, secondo Bacone, richiede la collaborazione tra sensi e intelletto e il procedimento che meglio realizza questa collaborazione è l’induzione. Con questo termine Bacone si riferisce alla raccolta e selezione dei dati e, quindi, alla loro interpretazione razionale, nonché al controllo sperimentale di tale interpretazione. La prima fase del metodo induttivo è quella della «storia naturale e sperimentale», cioè della raccolta di una serie di dati empirici che vengono ordinati in apposite
• tavole
elenchi dei casi in cui un certo fenomeno si manifesta (tavole della presenza), non si manifesta (tavole dell’assenza) e si manifesta con diverse intensità (tavole dei gradi).
La compilazione delle tavole consente di escludere fin dall’inizio le cause che risultano incompatibili con il fenomeno studiato. Grazie a questa esclusione si giunge a una prima ipotesi (vindimiatio prima), che viene messa alla prova mediante una serie di esperimenti: le cosiddette
• istanze prerogative
le prove empiriche con cui si testa la validità della prima ipotesi, formulata sulla base dell’analisi delle tavole (v.).
Attraverso le varie istanze prerogative è possibile escludere, di volta in volta, diverse ipotesi teoriche, finché si giunge a un ultimo e definitivo esperimento che consente di scegliere tra due possibili interpretazioni che si escludono reciprocamente: si tratta della
• istanza cruciale
(experiméntum crúcis) l’esperimento decisivo per attribuire a un certo fenomeno una determinata «natura», cioè la sua causa vera o
• forma
la causa formale (in senso aristotelico) di un fenomeno naturale, ovvero sia la struttura o lo schema che lo costituisce in modo essenziale, sia la legge che governa il suo generarsi o prodursi.
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MAPPE
CAPITOLO 2 BACONE
LA SCIENZA è lo
si serve di una
richiede di
strumento che consente il dominio umano sulla natura
nuova logica (novum organum) che sostituisce la logica aristotelica
eliminare le «anticipazioni» (gli «idoli») che la ostacolano
«sapere è potere»
idóla tríbus idóla spécus
idóla fóri idóla theátri
IL METODO SCIENTIFICO procede per
induzione e prevede
la raccolta dei dati («storia naturale e sperimentale»)
l’elaborazione delle tavole (della presenza, dell’assenza e dei gradi)
la formulazione di una prima ipotesi (vindimiatio prima) coerente con i risultati delle tavole
la messa alla prova dell’ipotesi attraverso successivi esperimenti («istanze prerogative»)
per trovare
la causa formale dei fenomeni cioè
la struttura che costituisce un fenomeno
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CapITolo 2 Bacone
la legge secondo cui un fenomeno si produce
la messa a punto di un esperimento decisivo («istanza cruciale»)
CAPITOLO 3 GALILEI
La filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. (G. Galilei, Il saggiatore, cap. VI)
Figura-ponte tra quella del filosofo e dello scienziato, Galilei è il pensatore che dimostra empiricamente la sostenibilità del modello cosmologico eliocentrico. In tal modo chiude ufficialmente l’età della rivoluzione astronomica, e traghetta la fisica antica (la “filosofia naturale”) nell’ambito della scienza moderna. Puntando verso il cielo un «cannocchiale» (cioè un telescopio) da lui stesso progettato e costruito, e delineando un rigoroso metodo di ricerca scientifica, Galilei apre al pensiero occidentale un mondo dagli orizzonti più ampi e nello stesso tempo più vicini alla portata conoscitiva umana.
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IL RACCONTO DI UNA VITA AUDIO Il filosofo si racconta
Una vita consacrata alla scienza
‘
Una mente curiosa ed entusiasta Nel 1610, all’età di quarantasei anni, Galileo Galilei pubblica un’opera dal titolo Sidereus nuncius (letteralmente, “Annuncio” o “Ragguaglio astronomico”), con la quale intende comunicare agli studiosi del mondo naturale ciò che ha potuto scoprire grazie all’uso di un nuovo «cannocchiale» da lui stesso costruito. Le parole riportate nel riquadro a sinistra sono appunto tratte da tale opera, e introducono l’«annuncio» di alcune rivoluzionarie scoperte sul mondo degli astri. Ma, soprattutto, esse richiamano l’attenzione su un gesto apparentemente semplicissimo, come quello di orientare il cannocchiale – che all’epoca già esisteva, sebbene fosse meno potente di quello costruito da Galilei – non più sulla terra bensì verso il cielo, per cercare di carpire i segreti di un ambito ancora inesplorato. La curiosità che muove Galilei a compiere tale gesto, e l’entusiasmo con cui nel Sidereus nuncius egli presenta le sue scoperte («Grandi invero sono le cose che in questo breve trattato io propongo alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura») sono due tratti che lo accompagneranno in tutta la sua vita, sostenendolo anche quando la sua attività di ricerca e di divulgazione verrà ostacolata dalle autorità ecclesiastiche.
Sono giunto a costruirmi uno strumento così eccellente, che le cose vedute per mezzo di esso appariscano quasi mille volte più grandi. […] lasciando le cose terrene, mi rivolsi alla speculazione delle celesti. (G. Galilei, Sidereus nuncius)
La formazione Galilei nasce a Pisa il 15 febbraio 1564, in una famiglia della media borghesia che nel 1574 si trasferisce a Firenze. Qui il giovane Galileo compie i primi studi di letteratura e di logica. Nel 1581, per volere del padre, si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università di Pisa, ma ben presto si accorge di non nutrire un vero interesse per questo tipo di formazione e fa ritorno a Firenze senza aver conseguito alcun titolo accademico. 1560
EVENTI STORICI
1570
1563
FILOSOFIA E SCIENZA
I musulmani vengono sconfitti a Lepanto
Le truppe inglesi sconfiggono l’Invincibile Armata spagnola
1564
1574
Nasce a Pisa
Si trasferisce Scopre con la famiglia l’isocronismo a Firenze delle oscillazioni del pendolo
1583 1586
1565
1580
Telesio: La natura secondo i propri princìpi (primi due libri)
Montaigne: Saggi
La torre di Babele Shakespeare
UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI IL RACCONTO DI UNA VITA
1600
1588
Strage degli Ugonotti a Parigi (notte di san Bartolomeo)
1563 1564 ARTE E LETTERATURA Bruegel il Vecchio: Nasce
90
1590
1571 1572
Si chiude il Concilio di Trento
VITA DI GALILEI
1580
1592
Costruisce la Ottiene la cattedra di bilancetta per matematica a Padova il peso specifico 1589 Ottiene la cattedra di matematica a Pisa
1581 Tasso: Gerusalemme liberata
1600 Bruno viene messo al rogo
1601-1602 Caravaggio: Cena in Emmaus (prima versione)
A Firenze trova finalmente la sua strada studiando matematica sotto la guida di Ostilio Ricci (1540-1603), discepolo del celebre Niccolò Tartaglia. Comincia così le sue prime osservazioni fisiche, e nel 1583 scopre l’isocronismo delle oscillazioni pendolari. In questi anni studia anche l’opera di Archimede, che lo induce a progettare e a realizzare, nel 1586, una bilancetta per determinare il peso specifico dei corpi.
L’insegnamento accademico a Pisa e a Padova La grande cultura matematica non tarda a procurare a Galilei stima e simpatia, e nel 1589 gli viene assegnata la cattedra di matematica all’Università di Pisa. Galilei rimane a insegnare in questa città per tre anni, durante i quali, tra l’altro, formula la legge di caduta dei gravi. Nel 1592 ottiene la cattedra di matematica presso l’Università di Padova, dove trascorrerà diciotto anni che saranno i più fecondi e felici della sua vita.
Le scoperte astronomiche e l’ammonizione ecclesiastica Nel 1609, con la costruzione del «cannocchiale», si apre la serie delle grandi scoperte astronomiche di Galilei, da lui stesso annunciate con entusiasmo l’anno seguente nel Sidereus nuncius. Keplero riconosce subito l’esattezza e l’importanza di queste scoperte, che contribuiscono ad accrescere enormemente la fama di Galilei, tanto da convincere il granduca di Toscana Cosimo II a nominarlo “matematico primario” dell’Università di Pisa, e ad assumerlo come matematico e filosofo di corte: nel settembre del 1610 Galilei si trasferisce pertanto a Firenze. enciclosofia Niccolò Tartaglia Niccolò Fontana (1499-1557), detto “Tartaglia” per via della sua balbuzie, fu uno dei più importanti matematici dell’età rinascimentale. Il suo nome è legato soprattutto alle formule (di cui contese la paternità con Girolamo Cardano) per la soluzione delle equazioni di terzo grado. Inoltre curò la prima traduzione italiana commentata degli Elementi di Euclide.
isocronismo delle oscillazioni pendolari Galilei scopre che pendoli semplici (cioè costituiti da una massa appesa a un filo fissato a un supporto) di uguale lunghezza producono oscillazioni “isocrone”, ovvero di durata costante, indipendentemente dalla massa oscillante e dall’ampiezza dell’oscillazione, a condizione che le oscillazioni siano di piccola ampiezza. 1600
1610
1620
1650
1618
1642
Espulsione dei moriscos dalla Spagna
Inizia la Guerra dei trent’anni
In Inghilterra inizia la guerra civile
1616
Costruisce il «cannocchiale»
1623
Viene ammonito dal cardinale Bellarmino 1610 Sidereus nuncius
Campanella: La città del sole
1640
1610
1609
1602
1630
1609
1632 1633
Il saggiatore
1616
1637
Il De revolutionibus di Copernico è messo Keplero: Astronomia all’indice nova (prime due leggi 1620 del moto dei pianeti) Bacone: Novum Organum
1605 Cervantes: Don Chisciotte (primo libro)
1642
Dialogo sopra Processato, i due massimi è costretto sistemi del ad abiurare mondo
1623-1624 Bernini: David
Cartesio: Discorso sul metodo
Muore ad Arcetri
1641 Torricelli: De motu gravium
1628-1629 1632 Velázquez: Rembrandt: Lezione di Trionfo di Bacco anatomia del dottor Tulp
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Quelle stesse scoperte astronomiche, però, unitamente alle idee copernicane professate da Galilei, non tardano a porre lo scienziato in conflitto con gli aristotelici e con le gerarchie ecclesiastiche. Nel febbraio del 1616 un’ammonizione del cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), gesuita, filosofo e consultore del Sant’Uffizio, lo diffida dal professare le nuove teorie astronomiche. Pochi giorni dopo, il 3 marzo, il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico viene messo all’indice.
La frattura con la Chiesa e l’isolamento Il Saggiatore Nonostante l’ammonizione, Galilei continua i suoi studi e alcuni anni dopo inizia una lunga disputa con il padre gesuita Orazio Grassi (1583-1654). Matematico e astronomo, padre Grassi nel 1619 aveva pubblicato uno scritto dedicato all’apparizione di tre comete, fornendo di questo fenomeno un’interpretazione che Galilei non condivideva. La polemica tra i due studiosi porta lo scienziato pisano, nel 1623, a dare alle stampe Il saggiatore, opera che contiene anche alcune importanti considerazioni di argomento metodologico.
Il Dialogo e il processo Nel frattempo Galilei lavora al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano, incoraggiato dall’ascesa al soglio pontificio del cardinale Maffeo Barberini (Urbano VIII), che gli aveva sempre mostrato benevolenza. Il Dialogo viene pubblicato nel febbraio del 1632, ma già a settembre Galilei riceve una citazione del papa ed è costretto a presentarsi al tribunale romano del Sant’Uffizio. Inizia così un lungo processo, che si protrae fino al 22 giugno 1633 e si conclude con l’abiura di Galilei, ovvero con la ritrattazione ufficiale, pronunciata dallo scienziato sotto giuramento, dei contenuti del Dialogo ( p. 108). In virtù dell’abiura, il carcere a vita (a cui Galilei era stato condannato) viene tramutato in confino, che Galilei trascorre dapprima nel palazzo dell’arcivescovo di Siena, suo amico, e poi presso la sua villa di Arcetri, amorosamente assistito dalla figlia, suor Maria Celeste.
I Discorsi e la morte Nella solitudine di Arcetri, Galilei scrive quello che è forse il suo capolavoro scientifico: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (che sono la teoria della resistenza dei materiali e la dinamica), che viene pubblicato in Olanda nel 1638. L’8 gennaio 1642 lo scienziato chiude per sempre i suoi occhi ormai ciechi: quegli occhi che per primi, nella storia dell’umanità, avevano contemplato realtà celesti fino ad allora sconosciute. enciclosofia Sant’Uffizio Con il nome abbreviato di “Sant’Uffizio” o di “Inquisizione romana” era comunemente chiamato il tribunale della “Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione”, istituita nel 1542 da papa Paolo III per difendere l’integrità della fede cattolica di fronte allo scisma causato dalla riforma protestante. Il compito principale degli inquisitori era l’esame e l’eventuale condanna delle false dottrine, ma alla Congregazione spettava anche la redazione dell’Indice dei libri proibiti, il catalogo delle pubblicazioni che la Chiesa Cristiano Banti, Galileo di fronte all’Inquisizione cattolica condannava considerandole contrarie alla fede o alla morale. romana, 1857, collezione privata.
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI IL RACCONTO DI UNA VITA
1. L’autonomia della ricerca scientifica Nell’opera di Galilei, un primo aspetto di grande importanza teorica è la difesa dell’autonomia della scienza, cioè il tentativo, da lui condotto con passione per tutta la vita, di salvaguardare l’indipendenza del nuovo sapere da ogni ingerenza esterna. A differenza di altri dotti del tempo, che avevano scelto di non sfidare le autorità e che pertanto tenevano nascoste le loro scoperte o ne rendevano partecipi solamente i colleghi, Galilei intuisce che la battaglia per la libertà della scienza è una necessità storica di primaria importanza, poiché è destinata a influenzare il futuro dell’umanità. Da questa consapevolezza deriva la sua lotta, che egli combatte sostanzialmente su due fronti: contro l’autorità religiosa rappresentata dalla Chiesa, e contro l’autorità culturale rappresentata dagli aristotelici.
La polemica contro la Chiesa La Chiesa della Controriforma aveva stabilito che ogni sapere dovesse essere in armonia con le sacre scritture, ovvero con l’interpretazione ufficiale offertane dagli stessi organi ecclesiastici. Questa decisione aveva aperto un ampio dibattito: tra i contenuti scritturali, il credente doveva accettare soltanto quelli il cui messaggio era di tipo religioso e morale, oppure doveva accoglierli tutti indiscriminatamente, compresi quelli di carattere scientifico? Il cardinale Bellarmino (come la quasi totalità dei teologi cattolici) sosteneva la seconda po- La posizione sizione, convinto che il negare anche soltanto qualcuna delle affermazioni scritturali, pur della Chiesa non intaccando i fondamenti della fede, avrebbe compromesso l’intera verità della Bibbia. Questa, infatti, essendo stata scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo, non poteva che essere vera in tutte le sue parti: «sarebbe heretico chi dicesse che Abramo non abbia havuti due figlioli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato di vergine, perché l’un e l’altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de’ Profeti ed Apostoli» (Lettera al M.R.P. Paolo Antonio Foscarini). Dal canto suo Galilei, che era al tempo stesso scienziato e uomo di fede, pensava invece La posizione che una posizione del genere ostacolasse il libero sviluppo del sapere e danneggiasse la di Galilei stessa religione, perché, tenendola ancorata a tesi che il progresso scientifico dimostrava false, avrebbe inevitabilmente finito per farle perdere credibilità agli occhi dei fedeli. Il problema dei rapporti tra la scienza e la fede viene affrontato da Galilei nelle cosiddette “lettere copernicane”: una inviata nel 1613 al padre benedettino Benedetto Castelli (15781643), suo discepolo; altre due inviate nel 1615 all’amico Piero Dini, monsignore della curia romana; e un’altra ancora inviata, sempre nel 1615, a madama Cristina di Lorena (15651636), granduchessa di Toscana e madre di Cosimo II. La soluzione delineata da Galilei in tali lettere è la seguente: la natura (oggetto della scienza) e la Bibbia (base della religione) derivano entrambe da Dio, la prima come «osservatissima esecutrice degli ordini di Dio», e la seconda come «dettatura dello Spirito Santo», (Lettera a Benedetto Castelli). Pertanto esse non possono contraddirsi tra loro. Eventuali contrasti tra verità scientifica e verità religiosa sono soltanto apparenti (Galilei rifiuta esplicitamente la teoria della doppia verità) e vanno risolti rivedendo l’interpretazione della Bibbia. Galilei ritiene che la revisione dell’interpretazione della Bibbia sia un’operazione del tutto L’interpretazione legittima per due motivi. In primo luogo, egli è convinto che le Scritture abbiano dovuto delle Scritture «accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati» (Lettera a Benedetto Castelli) e
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usare quindi un linguaggio antropomorfico e adatto alle conoscenze del «vulgo», mentre la natura e le sue leggi seguono un corso inesorabile e immutabile, che non si piega alle esigenze umane e che è scritto (come vedremo meglio più avanti) in un linguaggio matematico. In secondo luogo, egli osserva che la Bibbia non contiene princìpi che illustrano le leggi della natura, ma verità che riguardano il destino ultimo dell’essere umano, poiché il suo compito è d’insegnarci «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (Lettera a Cristina di Lorena). ( T1 p. 115) La conciliabilità In conclusione, se la Bibbia è arbitra nel campo etico-religioso, la scienza è arbitra nel della Bibbia con campo delle verità naturali, in relazione alle quali non è la scienza che deve adattarsi alla scienza
OFFICINA CITTADINANZA Libertà della scienza p. 67
la Bibbia, ma l’interpretazione della Bibbia che deve adattarsi alla scienza. L’errore dei teologi consiste dunque nella pretesa che la Scrittura faccia testo anche riguardo alle conoscenze naturali, dimenticando che in questo campo «ella dovrebbe esser riserbata nell’ultimo luogo» (Lettera a Benedetto Castelli). Quando la Bibbia appare in contrasto con la scienza, essa va quindi adeguatamente reinterpretata, andando al di là del «nudo senso delle parole». Questa convinzione galileiana – che inizialmente non poteva non apparire eretica e convergente con la tesi protestante del “libero esame” – finirà per imporsi non soltanto alla cultura laica, ma anche alla Chiesa, la quale con il tempo giungerà a riconoscere l’autonomia operativa della scienza nel campo delle conoscenze naturali, dimostrandosi eventualmente disposta a reinterpretare la lettera dei testi biblici in modo conforme alle scoperte scientifiche.
DIO
la Bibbia = libro scritto in lingua popolare
che è
finalizzata alla salvezza e arbitra in campo etico-religioso
la natura = libro scritto in lingua matematica
che è
finalizzata alla conoscenza e arbitra in campo naturale
parla tramite
I possibili contrasti tra le affermazioni scientifiche e quelle bibliche vanno risolti rivedendo l’interpretazione delle Scritture
La polemica contro gli aristotelici Oltre che dalle autorità ecclesiastiche e dalla loro rigida interpretazione dei testi biblici, per Galilei la scienza deve essere indipendente anche dall’influenza culturale di Aristotele e dei sapienti del passato. La distinzione A onor del vero, Galilei mostra grande stima per Aristotele e per gli altri scienziati antichi, tra Aristotele e ritenendoli uomini amanti della verità e della ricerca. Il suo disprezzo colpisce piuttosto i gli aristotelici
loro infedeli discepoli, soprattutto gli aristotelici del suo tempo, che, invece di osservare direttamente la natura e di conformare a essa le loro opinioni, si limitano a consultare i testi delle biblioteche, vivendo in un astratto «mondo di carta», con la convinzione che «il mondo sta come scrisse Aristotile e non come vuole la natura» (Dialogo).
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CApITOLO 3 Galilei
Se Aristotele potesse oggi ritornare in vita – osserva Galilei – riconoscerebbe lui (e non loro) Il dogmatismo come suo genuino discepolo, e sarebbe sicuramente disposto a cambiare le proprie idee degli aristotelici per farle risultare armoniche e coerenti con le nuove scoperte della scienza. Invece gli aristotelici continuano a offrire il triste spettacolo di un dogmatismo anti-scientifico che ostacola l’avanzamento del sapere e inebetisce gli intelletti. Emblematico, a questo proposito, è il racconto di uno dei personaggi del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il quale – avendo potuto osservare, insieme con altri, un cadavere umano in casa di un medico, constatando che i nervi partono dal cervello e non, come sosteneva Aristotele, dal cuore – sente comunque affermare da «un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico»: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotele non fusse in contrario, che apertamente dice i nerESERCIZI vi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera».
)
Per l’esposizione orale
1. Quali devono essere, secondo Galilei, i rapporti tra scienza e fede? e in che senso non esiste un reale contrasto tra la natura e la Bibbia? 2. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’idea di Galilei secondo cui il linguaggio delle sacre scritture non sarebbe sempre scientificamente corretto al fine di poter essere compreso da chiunque. A tuo avviso, la scienza deve “parlare” soltanto agli scienziati, oppure a tutti? Ritieni che le sue teorie, per poter essere in qualche misura comprese dal maggior numero possibile di persone, debbano essere esposte in termini semplici, anche a costo di non essere formulate in modo perfettamente corretto? Motiva le tue risposte. 3. Spiega perché Galilei polemizza con gli aristotelici.
L’autonomia della scienza
EDUCAZIONE CIVICA
Il principio (difeso da Galilei) dell’autonomia della scienza è presente nell’articolo 33 della Costituzione italiana, dove si stabilisce che «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Nell’articolo 9, inoltre, lo Stato si impegna a favorire la libertà della scienza e i suoi progressi: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Bisogna tuttavia ricordare che la nostra Costituzione entrò in vigore nel 1948, quando la consapevolezza dei rischi di un uso spregiudicato delle applicazioni della scienza era ancora limitata. Anche la sensibilità ecologica era agli albori: il già citato articolo 9 della Costituzione si limita pertanto a sottolineare che la Repubblica «tutela il paesaggio»; e soltanto nel 2001 la modifica del Titolo V della Costituzione ha attribuito alla competenza delle Regioni la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» (articolo 117). • Rifletti sul significato che il principio dell’autonomia della scienza riveste oggi: esistono “forze” o “poteri” (eventualmente diversi da quelli contro cui combatté Galilei) che ne minacciano la libertà? • È possibile, oggi, conciliare la libertà della ricerca scientifica con la responsabilità morale e politica che le sue scoperte chiamano in causa?
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filosofia e scienza
2. Le scoperte fisiche e astronomiche L’altra grande conquista teorica di Galilei è la formulazione di un rigoroso metodo scientifico. Per comprendere tale metodo in modo adeguato, è però utile analizzare preliminarmente le scoperte fisiche e astronomiche attraverso le quali esso si è concretizzato.
Gli studi sul moto dei corpi La demolizione del modello tradizionale del cosmo, alla quale Galilei dà un contributo basilare, è strettamente connessa ai suoi studi di meccanica, e in particolare a quelli riguardanti il moto dei corpi (che sono l’oggetto della dinamica). Galilei si occupò di questo problema per tutta la vita, dagli anni del De motu (1590) a quelli dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), e pervenne a risultati così notevoli da poter essere considerato il fondatore della dinamica scientifica moderna.
Il principio d’inerzia
Per la fisica aristotelica la quiete era lo stato naturale dei corpi
Le leggi sub-lunari, essendo il moto, per questo tipo di corpi, qualcosa di temporaneo, che viene aristoteliche meno non appena cessa l’applicazione della forza che lo produce. I moti venivano pertanto del movimento
divisi in due tipi: naturali e violenti. Naturale era per Aristotele il moto con cui un corpo si dirige verso il suo “luogo naturale” (che per i corpi pesanti è il basso e per quelli leggeri l’alto), mentre violento era il moto che lo allontana dal suo luogo naturale. E per spiegare come i corpi che si muovono di moto violento (come nel caso di una freccia o di un qualunque “proiettile”) potessero continuare a muoversi per un certo tempo in una direzione diversa da quella naturale, si ricorreva all’azione motrice dell’aria.
L’intuizione Secondo il principio d’inerzia, un corpo tende a conservare indefinitamente il proprio del principio stato, che sia di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché non intervengano forze d’inerzia
esterne a modificarlo. Con l’intuizione teorica di questo principio, Galilei supera dunque due pregiudizi (di derivazione aristotelica), ovvero l’idea che soltanto la quiete sia “naturale”, e l’idea che il movimento si mantenga soltanto finché permane la forza che lo provoca.
La discussione Di questo principio – che a partire dalla formulazione datane da Isaac Newton (1642sulla paternità 1727) diventerà noto come primo principio della dinamica – Galilei non diede mai del principio
un’enunciazione generale e precisa. Per questa ragione alcuni critici hanno negato che
enciclosofia princìpi della dinamica La “dinamica” (dal greco dýnamis, “forza”) è la parte della meccanica che studia gli effetti delle forze applicate ai corpi. I “princìpi della dinamica” sono le tre leggi fondamentali di questa disciplina, enunciate ufficialmente nel 1687 da Isaac Newton nel trattato Philosophiae naturalis principia mathematica (“Princìpi matematici di filosofia naturale”). Il primo, noto anche come “principio di inerzia”, stabilisce che, se su un corpo non agisce alcuna forza, esso persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Il secondo, noto anche come “principio di proporzionalità”, stabilisce che, se su un corpo agisce una forza o un sistema di forze, ne risulta un’“accelerazione” che è direttamente proporzionale (e va nella stessa direzione) alla forza agente sul corpo e inversamente proporzionale alla massa del corpo stesso. Il terzo, noto anche come “principio di azione e reazione”, stabilisce che, se un corpo A esercita una forza su un corpo B, esiste una forza uguale e contraria esercitata da B su A.
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CApITOLO 3 Galilei
Frontespizione della prima edizione dei Philosophiae naturalis principia mathematica di Newton.
egli fosse veramente giunto a concepirlo. Il filosofo della scienza Ludovico Geymonat (1908-1991) ha invece osservato che «Galilei non aveva bisogno, nei problemi particolari da lui presi in esame, di enunciare il principio in tutta la sua generalità»; ma questo non significa che egli non l’avesse intuito, poiché, se così fosse, risulterebbe incomprensibile il fatto che egli «abbia applicato benissimo, e senza alcuna esitazione, il principio in esame in tutte le argomentazioni […] nelle quali aveva bisogno di usarlo». Un’altra interessante tesi a questo riguardo è quella di Alexandre Koyré (1892-1964), che nei suoi Studi galileiani afferma che Galilei, non accettando esplicitamente la tesi bruniana dell’infinità dell’universo, e mostrando di fatto di attenersi al modello di un cosmo finito, non poteva giustificare pienamente il principio d’inerzia, poiché questo implica uno spazio infinito (o almeno illimitatamente percorribile, come nella fisica di Einstein). Valido per la dinamica terrestre, in ambito astronomico il principio di inerzia spiegava perché il movimento dei pianeti e della Terra potesse continuare indefinitamente. È bene ricordare, tuttavia, che la spiegazione scientifica completa dei moti degli astri richiedeva ancora il riconoscimento dell’azione di due forze – una centrifuga e una centripeta – che sarebbero state individuate soltanto più tardi, rispettivamente dall’astronomo olandese Christiaan Huygens (1629-1695) e da Newton.
L’applicazione astronomica del principio d’inerzia
Secondo la fisica aristotelica, la velocità di caduta dei corpi era direttamente proporzionale al peso dei corpi stessi, e veniva accelerata da una “spinta” comunicata al movimento dall’aria.
Le leggi sulla caduta dei gravi
Galilei perviene a risultati diversi e, per certi aspetti, opposti. Con un cosiddetto “esperi- L’esperimento mento mentale” (cioè eseguito soltanto in teoria), egli osserva che, se due corpi dello stes- mentale so peso cadono insieme, e se durante la caduta fortuitamente si uniscono, essi andranno a costituire un corpo unico che avrà un peso doppio, ma che si muoverà con la medesima velocità dei corpi singoli, in quanto nessuno dei due corpi varierà la propria velocità per il fatto di essere unito all’altro o staccato da esso (Discorsi). Questo significa che tutti i corpi, qualunque sia il loro peso, cadono con la stessa velocità. E se l’esperienza immediata sembra confutare tale legge (tipico l’esempio della pietra e della piuma, che cadono con velocità diverse), ciò è dovuto alla resistenza opposta dal mezzo in cui i corpi si muovono (ossia, nel caso della pietra e della piuma, dall’aria). Nel vuoto questa legge si realizza nella sua purezza. Ma Galilei non disponeva ancora del- Gli esperimenti la pompa ad aria, che sarebbe stata inventata da Evangelista Torricelli nel 1643 e che reali avrebbe consentito di osservare i corpi cadere nel vuoto. Secondo la tradizione, egli eseguì quindi una serie di esperimenti reali, lasciando cadere dall’alto della torre di Pisa una sfera del peso di una libbra (cioè circa 330 grammi) e una del peso di cento libbre, constatando come la seconda arrivasse a terra soltanto con brevissimo anticipo rispetto alla prima. enciclosofia Indipendentemente dal fatto che questo esperimento sia stato davvero esepompa ad aria guito o no (la cosa non è affatto sicura, anzi alcuni la considerano leggenIl meccanismo pneumatico costruito daria), esso conferma la teoria di Galilei e smentisce Aristotele, poiché seda Torricelli nel 1643 condo quest’ultimo, nell’istante in cui la seconda sfera avesse toccato terra, per aspirare l’aria da la prima avrebbe dovuto aver compiuto soltanto la centesima parte del perun contenitore cilindrico, corso, essendo il loro peso in un rapporto di 100 a 1. La piccola diversità rie ottenere così il vuoto scontrata nella velocità di caduta dei corpi rientrava invece pienamente nelal suo interno. la teoria di Galilei.
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Gli esperimenti Studiando la caduta dei gravi Galileo arriva anche al concetto di “accelerazione”. Egli, insul piano fatti, comprende che un corpo in caduta libera non scende con velocità costante, ma con inclinato
FILOSOFIA E SCIENZA Newton e la nascita della fisica classica p. 122
moto rettilineo “uniformemente accelerato”, cioè con una velocità che subisce incrementi regolari e costanti, direttamente proporzionali agli intervalli di tempo che via via vengono impiegati nella caduta. A questo risultato lo scienziato perviene grazie a una serie di celebri esperimenti realizzati facendo rotolare una sfera lungo un piano inclinato opportunamente costruito: ciò gli consente di osservare e di misurare più agevolmente (rispetto a una caduta verticale nell’aria, che sarebbe stata troppo rapida) le variazioni di velocità. Secondo un rilevante filone interpretativo, grazie a questi studi sul moto accelerato, uniti a quelli sul principio di inerzia, Galilei sarebbe arrivato a intuire anche quello che Newton avrebbe formulato come il secondo principio della dinamica.
Gli studi sui corpi celesti Galilei intuisce la verità del copernicanesimo fin dall’inizio dei suoi studi, ma soltanto in seguito (e cioè nel 1609, grazie all’uso del cannocchiale da lui stesso costruito) perviene ad alcune importanti scoperte, che nel 1610 divulga nel Sidereus nuncius, ben consapevole di come esse rappresentino al tempo stesso la verifica empirica del copernicanesimo e il colpo decisivo alla vecchia cosmologia ( “Per saperne di più”).
Le scoperte annunciate nel Sidereus nuncius Secondo la tradizione aristotelico-
Le macchie tolemaica, la Luna, analogamente agli altri corpi celesti e a differenza della Terra, presenlunari tava una superficie liscia e levigata. Invece le osservazioni compiute da Galilei mediante il
cannocchiale mostrarono come molte delle macchie scure che si distinguono (già ad occhio nudo) sulla superficie lunare non siano altro che le ombre proiettate dalle montagne lunari sotto l’effetto della luce del Sole. Galilei poté così affermare che la superficie della Luna è “rugosa”, nel senso che, proprio come quella della Terra, presenta prominenze, valli e anfratti.
per saperne di più Il valore del cannocchiale per la storia della scienza Senza il cannocchiale, Galilei non avrebbe potuto rivoluzionare l’astronomia: questa constatazione costituisce già di per sé una prova dell’importanza assunta dagli strumenti d’osservazione nel corso della rivoluzione scientifica, nonché un’ulteriore conferma di quella convergenza tra sapere e tecnica che rappresenta uno dei tratti più caratteristici della scienza moderna. Se oggi può apparire ovvio che la tecnologia costituisca un aiuto per la scienza, all’epoca di Galilei, a causa di pregiudizi secolari, non era così, come dimostra emblematicamente la vicenda del cannocchiale.
La costruzione del «cannocchiale» Nel Saggiatore Galilei scrive che, venuto a conoscenza di come un olandese avesse costruito un «occhiale» mediante cui «le cose lontane si vedevano così perfettamente come se
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fossero state molto vicine», aveva proceduto, grazie a deduzioni teoriche, a costruirne uno per proprio conto. All’inizio riuscì a ottenere uno strumento poco efficace, ma in seguito lo rese così potente, rispetto alla vista naturale, da riuscire a ottenere più di trenta ingrandimenti lineari (cioè che forniscono immagini mille volte più grandi).
L’uso scientifico del nuovo strumento
Al di là della discussione sulla paternità storica del cannocchiale ( p. 90), lo scienziato italiano Vasco Ronchi (18971988), in un’apposita ricerca pubblicata nel 1942 (Galileo e il cannocchiale), ha osservato che la grandezza di Galilei non consiste tanto nell’aver costruito il cannocchiale, ma nell’averlo usato scientificamente. In effetti, le lenti erano conosciute fin dal XIII secolo, o forse già
Alla luce di queste scoperte, l’ipotesi che era stata escogitata dal tedesco Cristoforo Clavio (1538-1612) – matematico e astronomo gesuita che per “salvare” la presunta perfezione dei corpi celesti aveva supposto che la Luna, pur con la sua superficie irregolare, fosse tuttavia rivestita di una materia cristallina trasparente e sferoidale – fu criticata da Galilei come una mera finzione, scorrettamente sostenuta soltanto per difendere le vecchie teorie. Aristotele credeva che intorno a un corpo in movimento nello spazio non potessero ruota- I satelliti re altri corpi, e che quindi soltanto la Terra, essendo immobile, fosse il centro del movi- di Giove mento di tutti gli altri astri. Grazie al suo cannocchiale, Galilei scoprì invece che intorno a Giove ruotano ben quattro satelliti (che egli battezzò «astri medìcei» in onore di Cosimo II de’ Medici), i quali compiono attorno a Giove movimenti analoghi a quelli che la Luna compie attorno alla Terra. Ma se Giove, insieme con i propri satelliti, ruotava intorno al Sole (come supponeva Copernico), allora nulla vietava di pensare che anche la Terra, con il suo satellite, ruotasse intorno al Sole. Secondo la cosmologia tolemaica, i corpi celesti, essendo perfetti, erano anche incorrutti- Le macchie bili, ovvero non soggetti al divenire. Sebbene questo pregiudizio fosse già stato messo in solari dubbio da Guglielmo di Ockham e dalla sua scuola, e poi esplicitamente negato (su base teorica) da Niccolò Cusano, Leonardo da Vinci e Giordano Bruno, con Galilei ricevette il colpo di grazia su base osservativa. Grazie all’uso del cannocchiale, infatti, lo scienziato toscano scoprì la presenza sulla superficie del Sole di macchie oscure che compaiono e scompaiono continuamente, attestando così l’esistenza di un processo di trasformazione e dimostrando clamorosamente che anche i corpi celesti sono soggetti a fenomeni di alterazione e mutamento. Per ricondurre anche il fenomeno delle macchie lunari entro l’alveo della vecchia visione cosmologica, il gesuita tedesco Cristoph Scheiner (1573-1650) formulò l’ingegnosa ipotesi secondo cui le macchie non erano dovute al trasformarsi del Sole, bensì alle ombre dovute al passaggio di altri corpi celesti davanti a esso.
dal XII. Ma, esattamente come l’«occhiale» olandese di cui parla Galilei, esse erano state considerate meri oggetti di divertimento, che i nobili di corte potevano usare per piacevoli giochi di società. Perfino i navigatori e i militari ne avevano fatto un uso limitato, mentre la cultura ufficiale le guardava con distacco per via dell’inveterato pregiudizio contro gli “ordigni meccanici”, oppure le condannava esplicitamente, ritenendole fonti di illusioni ottiche. Molti teologi, infine, le consideravano oggetti diabolici, che pretendevano illegittimamente di sostituire gli occhi naturali donati da Dio agli esseri umani. Galilei ha invece la genialità e il coraggio di puntare il cannocchiale verso il cielo, trasformandolo così in un vero e proprio “telescopio”, ossia in uno strumento primario dell’osservazione astronomica.
Galilei al lavoro con uno dei suoi cannocchiali in un’incisione ottocentesca.
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Galilei, tuttavia, fece notare che le macchie, nel loro apparire e scomparire, erano intermittenti e difformi tra loro, e pertanto non potevano essere collegate ai movimenti di altri astri, che al contrario avrebbero dovuto presentarsi secondo intervalli regolari. Le fasi di Nell’antichità e nel Medioevo si era sempre creduto che soltanto la Terra fosse un corpo opaVenere co, illuminato dal Sole e privo di luce propria. Con il suo cannocchiale, Galilei scoprì invece
che Venere attraversava una serie di fasi di illuminazione molto simili a quelle lunari, e ciò lo indusse a pensare che questo corpo celeste non percorresse un epiciclo collocabile tra la Terra e il Sole (secondo quanto teorizzato nel sistema tolemaico), ma un’orbita centrata sul Sole, e che proprio da quest’ultimo (come la Luna) ricevesse la sua luce. La scoperta offrì lo spunto per ritenere che tale spiegazione potesse essere valida anche per gli altri pianeti, che sarebbero dunque stati “tenebrosi” per natura e illuminati esclusivamente dal Sole.
Le stelle Sempre grazie al cannocchiale, Galilei poté scoprire che, oltre a quelle che erano note co-
me stelle fisse, e che erano visibili a occhio nudo, ne esistevano innumerevoli altre, le quali prima di allora non avevano mai potuto essere viste. Tutte queste stelle si “affollavano” davanti al mezzo d’osservazione, disseminate nello spazio come immense «greggi» di piccoli punti luminosi, formando quelle che oggi sono note come “galassie”.
La difesa del copernicanesimo nel Dialogo Con l’avvento del pontificato di Urbano
VIII, a Galilei parve che l’atmosfera culturale fosse cambiata. Fiducioso in un nuovo corso della Chiesa, nel 1632 lo scienziato diede alle stampe quel capolavoro scientifico-letterario che è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano, in cui, con il pretesto di presentare imparzialmente i due maggiori modelli cosmologici della storia, espose in realtà alcuni argomenti decisivi in favore del copernicanesimo. I personaggi Per rappresentare la teoria geocentrica, Galilei delinea il personaggio di Simplicio, un pedel dialogo dante dalla mentalità conservatrice e tradizionalista, attaccato al senso comune e all’auto-
rità di Aristotele. A difendere la teoria copernicana è invece Salviati, un nobile fiorentino storicamente esistito, amico di Galilei, che impersona l’intelligenza chiara, rigorosa e anticonformista dello scienziato moderno. Il ruolo di moderatore tra le due posizioni viene attribuito a Sagredo, un nobile veneziano anch’egli storicamente esistito, e anch’egli amico di Galilei, che incarna una personalità non oppressa dai pregiudizi, e quindi tendenzialmente portata a simpatizzare con le nuove dottrine.
La prima Il Dialogo è diviso in quattro giornate, nella prima delle quali Galilei pone sotto accusa la giornata distinzione aristotelica tra il mondo celeste e quello terrestre, con argomenti tratti dalle
osservazioni astronomiche divulgate nel Sidereus nuncius e dai suoi studi di meccanica.
La seconda La seconda giornata, la più vivace, è dedicata alla confutazione degli argomenti tipici, giornata antichi e moderni, contro il moto della Terra. A chi sostiene, ad esempio, che la Terra, se
ruotasse davvero su sé stessa, solleverebbe un vento tale da spostare tutti gli oggetti, Galilei, per bocca di Salviati, risponde che l’aria partecipa dello stesso movimento della Terra, e quindi in rapporto a essa è ferma, come risulta fermo un individuo su una nave in movimento. Contro chi obietta che, se la Terra si muovesse davvero da ovest a est, le nuvole dovrebbero apparirci continuamente in moto da est a ovest, e il volo degli uccelli non potrebbe tener dietro al velocissimo spostamento del nostro pianeta, Salviati risponde:
‘
[la Terra] sì come conduce seco le nuvole, così porta gli uccelli ed ogn’altra cosa che in essa si ritrovasse pendente: talché, quanto al seguir la Terra, gli uccelli non v’hanno a pensare, e per questo servizio potrebbero dormir sempre. (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere, a cura di F. Brunetti, utet, Torino 1980, VII, p. 209)
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Analoga è la risposta al noto argomento, uno dei prediletti dagli aristotelici, secondo cui, se la Terra si muovesse davvero da ovest a est, i gravi dovrebbero cadere obliquamente, cioè spostandosi verso ovest (essendosi la Terra nel frattempo spostata verso est): Salviati (cioè Galilei) ribatte affermando che il grave partecipa del moto terrestre da ovest verso est e quindi, muovendosi con la Terra, cade perpendicolarmente1. Così come un sasso lasciato cadere dalla cima dell’albero di una nave in movimento si ferma ai piedi dell’albero, proprio come se la nave stesse ferma, lo stesso avviene all’interno di quel “sistema” più vasto (rispetto alla nave) che è la Terra. Queste geniali contro-argomentazioni di Galilei – che oppongono il pensiero scientifico Il principio al senso comune e ai pregiudizi culturali del passato – si ispirano tutte al cosiddetto “prin- di relatività galileiana cipio di relatività galileiana”, secondo cui risulta impossibile decidere, sulla base delle esperienze compiute all’interno di un sistema “chiuso” (cioè senza possibilità di riferirsi a qualcosa di esterno al sistema stesso), se tale sistema sia in quiete o si muova di moto rettilineo uniforme. Questa legge, che per certi versi anticipa la teoria della relatività ristretta elaborata da Albert Einstein nel 1905, è presentata da Galilei in un brano famoso:
‘
Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran naviglio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso; [...] osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, [...] fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave (Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, cit., VII, p. 212) cammina o pure sta ferma [...].
In base a questo principio di relatività si può affermare che, in quel sistema “quasi inerziale” ( nota 1 qui sotto) che è la Terra, l’aria circostante si muove insieme con la Terra stessa e i gravi cadono comportandosi, approssimativamente, come se essa fosse immobile. Nella terza giornata del Dialogo Galilei dimostra il moto di rotazione della Terra ed esal- La terza ta la concezione copernicana, riconoscendole la capacità di spiegare fenomeni altrimenti e la quarta giornata inspiegabili, e di chiarire con rigore e “semplicità” matematica alcuni problemi che il sistema tolemaico aveva inutilmente complicato. Nella quarta giornata, infine, Galilei espone la propria dottrina delle maree, attribuendo anche lo spostamento delle masse d’acqua all’effetto della rotazione della Terra su sé stessa.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta brevemente le principali scoperte di Galilei nel campo della dinamica. 2. Elenca le più importanti scoperte astronomiche di Galilei, spiegando in che senso esse permisero di superare il dualismo tra fisica celeste e terrestre. SNODI PLURIDISCIPLINARI fisica
Il principio di relatività galileiana, illustrato dallo scienziato pisano mediante l’esperimento mentale del «gran naviglio», può essere accostato per certi aspetti al principio di relatività enunciato da Einstein nel 1905. In che cosa consiste la teoria della relatività ristretta di Einstein? In che senso la relatività galileiana ne può essere considerato un significativo antecedente? 1. In realtà oggi sappiamo che la traiettoria di caduta del grave risulta lievemente deviata verso est (e non verso ovest, come argomentavano gli aristotelici). L’inesattezza in cui incorre Galilei (di lieve entità, se la caduta avviene da un’altezza di poche decine di metri) deriva dal non aver riconosciuto che il moto circolare terrestre non è “inerziale” (ossia non è il moto descritto nel principio d’inerzia, che si svolge in assenza di forze o sottoposto a un sistema di forze in equilibrio), sebbene per gran parte delle nostre esperienze quotidiane la Terra possa essere considerata, con buona approssimazione, un sistema in cui vale il principio di inerzia.
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3. Il metodo della nuova scienza Un altro importantissimo risultato dell’opera di Galilei – che fa di lui il padre della scienza moderna – è l’individuazione di un metodo di ricerca che spalancherà le porte ai maggiori progressi scientifici dell’umanità. Galilei non formula una teoria organica del metodo scientifico, analoga ad esempio a quella proposta da Francesco Bacone nel Nuovo Organo ( cap. 2). Tutto preso dalle sue ricerche, egli applica il metodo, più che teorizzarlo filosoficamente, ma, ciò nonostante, nelle sue opere si trovano, disseminate qua e là, alcune preziose indicazioni al riguardo. I due momenti Sia nel Saggiatore (1623), sia nei successivi Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo del metodo (1632) e Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), emerge come
Galilei tenda ad applicare un metodo che si articola in due momenti fondamentali: il momento risolutivo o analitico, e il momento compositivo o sintetico. 1. Il primo consiste nel “risolvere” (cioè nello scomporre) un fenomeno complesso nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili. 2. Il secondo consiste nel formulare un’ipotesi teorica, ovvero una possibile legge generale che spieghi il fenomeno studiato, e nel controllarla empiricamente.
Il controllo Il controllo empirico avviene mediante l’allestimento di un esperimento (un «cimento») sperimentale che riproduce artificialmente il fenomeno secondo i criteri evidenziati dall’ipotesi teorica,
in modo che quest’ultima possa essere smentita oppure verificata (cioè, letteralmente, “resa vera”) dai fatti. Se l’ipotesi supera la prova, allora viene accettata e formulata in termini di legge matematica; se invece non la supera, risultando smentita o falsificata, allora verrà sostituita da un’altra ipotesi. glossario p. 113 osservazione del fenomeno un momento risolutivo o analitico
scomposizione del fenomeno nei suoi elementi semplici misurazione matematica dei dati
IL METODO GALILEIANO
consiste in formulazione di un’ipotesi teorica che possa spiegare il fenomeno un momento compositivo o sintetico
controllo dell’ipotesi mediante un esperimento formulazione della legge matematica (se l’ipotesi è risultata vera)
Tra «sensata esperienza» e «necessarie dimostrazioni» In una lettera alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena (1565-1636, moglie di Ferdinando I de’ Medici), Galilei scrive: «Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio». In questo breve passo è racchiuso il cuore del metodo dello scienziato pisano, nonché la strada da lui effettivamente seguita nelle sue ricerche.
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Con l’espressione sensata esperienza – che alla lettera significa “esperienza condotta con i sensi” (con primario riferimento alla vista) – Galilei evidenzia il carattere osservativoinduttivo della scienza, nonché il momento preponderante in alcune sue scoperte (come quelle relative al movimento dei corpi celesti). In molti casi, infatti, la ricerca galileiana procede attraverso un’attenta ricognizione di fatti e casi particolari, per indurre, sulla base di tali osservazioni sensibili, una possibile legge generale (ad esempio quella relativa alle fasi di Venere). È questo il momento più comunemente noto del metodo scientifico applicato da Galilei. glossario p. 112
Il carattere osservativoinduttivo della scienza
Con l’espressione necessarie dimostrazioni Galilei evidenzia invece il carattere ipoteticodeduttivo della scienza, preponderante in altre sue scoperte (ad esempio quella del principio d’inerzia). Questa è la parte meno nota – ma anche la più affascinante e, in alcuni casi, decisiva – del metodo galileiano. Le «necessarie dimostrazioni», o «matematiche dimostrazioni», sono i ragionamenti logici, condotti su base matematica, attraverso i quali il ricercatore, partendo da un’intuizione di base e procedendo con una supposizione, formula un’ipotesi teorica, riservandosi di controllarla empiricamente. In altre parole, lo scienziato procede “intuendo” e “ragionando”: egli, cioè, anche sulla scorta di pochi dati sensibili, formula un’ipotesi generale a partire dalla quale deduce i fenomeni particolari, ovvero i fatti, proponendosi di verificare in seguito, empiricamente, la correttezza della sua ipotesi. glossario p. 112
Il carattere ipoteticodeduttivo della scienza
Un tipico esempio del metodo ipotetico-deduttivo seguito da Galilei è costituito dall’intuizione teorica del principio d’inerzia, da lui stesso riportata in modo minuzioso e convincente in un passo del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Immaginiamo – scrive Galilei – una superficie «piana, pulitissima come uno specchio e di materia dura come l’acciaio, e che fusse non parallela all’orizzonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente sferica e di materia grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo». Come si comporterà la sfera di bronzo? Starà ferma o si muoverà? Anche senza fare l’esperimento concreto, argomenta Galilei, sappiamo che si muoverà lungo il piano inclinato. E se ipotizziamo mentalmente di eliminare anche l’azione frenante dell’aria e di altri possibili «impedimenti esterni ed accidentarii», come si comporterà? Ovviamente «ella continuerebbe a muoversi all’infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano e con movimento accelerato continuamente; ché tale è la natura dei mobili gravi, che vires acquirant eundo [acquistino forza muovendosi]: che quanto maggior fusse la declività, maggior sarebbe la velocità». Sostituendo poi la superficie inclinata con una orizzontale, si potrà dedurre che la medesima palla «perfettissimamente rotonda», se fosse spinta sul medesimo piano «esquisitamente pulito», continuerebbe indefinitamente il suo movimento, ammesso che lo spazio «fosse interminato» e che non intervenisse una forza esterna a variarne o arrestarne lo spostamento. Procedendo teoricamente e giustificando tramite un esperimento “ideale” una propria intuizione, Galilei perviene così a una basilare scoperta fisica.
L’esempio dell’intuizione del principio d’inerzia
Tra induzione e deduzione La compresenza, nel metodo di Galilei, delle «sensate esperienze» e delle «necessarie dimostrazioni» ha fatto sì che nella storiografia del passato lo scienziato pisano sia stato talvolta presentato come un sostanziale “induttivista”, cioè come un ricercatore che dall’osservazione instancabile dei fenomeni (particolari) perviene a scoprire le leggi (generali) che li regolano; oppure, al contrario, come un convinto “deduttivista”, più fiducioso nelle capacità dimostrative della ragione che in quelle osservative.
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Galilei In realtà Galilei non è soltanto o prevalentemente induttivista, né soltanto o prevalenteinduttivista e mente deduttivista, ma tutte e due le cose insieme. Nel suo modo di procedere (sia nella deduttivista
prassi concreta sia nella consapevolezza metodologica di essa) si rileva talvolta un’innegabile prevalenza del momento sperimentale (cioè osservativo-induttivo) e talvolta un’innegabile prevalenza di quello teorico (cioè ipotetico-deduttivo). In un punto del Dialogo, ad esempio, si legge: «quello che l’esperienza e il senso ci dimostra si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai bene fondato»; ma in un altro passo Salviati afferma: «[anche] senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua». Questo alterno prevalere, di volta in volta, dell’induzione o della deduzione non esclude, anzi per certi aspetti dimostra, la loro reciproca e indissolubile implicanza di fatto.
L’esperienza Le «sensate esperienze» presuppongono sempre un riferimento alle «necessarie dimopresuppone strazioni». Esse, infatti, in primo luogo vengono assunte e rielaborate in un contesto mala ragione
tematico-razionale, e quindi spogliate dei loro caratteri qualitativi e ridotte alla loro struttura puramente quantitativa. La ragione, in tal senso, svolge la funzione di una sorta di setaccio, che separa o discrimina gli elementi rilevanti (quantitativi) dagli altri. In secondo luogo, le «sensate esperienze» sono fin dall’inizio “cariche di teoria”, in quanto illuminate da un’ipotesi che le guida, fungendo, nei confronti dell’osservazione empirica, da freccia indicatrice. È vero che Galilei scoprì ignoti fenomeni astronomici basandosi sul senso della vista (potenziato dal cannocchiale), ma la decisione di puntare il cannocchiale, ad esempio, verso la Luna derivò dalla preliminare accettazione (teorica) di un’innovativa ipotesi anti-aristotelica: quella per cui non si doveva distinguere tra una fisica celeste (che aveva per oggetto una materia pura e incorruttibile) e una fisica terrestre (che aveva per oggetto una materia corruttibile). In questo caso l’ipotesi teorica orientò l’osservazione empirica, facendo sì che Galilei puntasse il cannocchiale sulla superficie della Luna.
La ragione D’altro canto, anche le «necessarie dimostrazioni» presuppongono sempre un loro impresuppone plicito o esplicito richiamo alle «sensate esperienze». In primo luogo, l’esperienza fornisce l’esperienza
la base e lo spunto per le ipotesi, poiché le stesse intuizioni “geniali” non nascono nel vuoto, ma a contatto con l’osservazione e lo studio dei fenomeni concreti. In secondo luogo, intuizioni e ipotesi – che costituiscono il momento teorico delle scienze – acquistano validità soltanto per mezzo della conferma sperimentale. Anche se quest’ultima sembra talora degradata a semplice verifica semi-superflua di una deduzione che ha già in sé le ragioni della propria verità, la sua importanza è fuori di dubbio, poiché per Galilei un’asserzione teorica risulta scientifica soltanto se verificata sperimentalmente. SECONDO GALILEI LA RICERCA SCIENTIFICA si basa su
«sensata esperienza» = momento osservativo-induttivo
«necessarie dimostrazioni» = momento ipotetico-deduttivo
Induzione e deduzione sono indissolubilmente congiunte e si presuppongono reciprocamente
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La considerazione della reciproca implicazione di induzione e deduzione, o di osservazione e ragionamento, permette di comprendere meglio anche i rapporti e le differenze tra matematica e fisica. Come si è visto, infatti, per Galilei la matematica costituisce la nuova “logica” della fisica. Mentre la logica tradizionale, di tipo sillogistico, pur essendo utile allo scopo di stabilire se i discorsi procedevano concludentemente, non serviva a intuire nulla di nuovo, con Galilei la matematica si pone come un autentico strumento di scoperta scientifica, poiché con i suoi calcoli e le sue deduzioni permette di avanzare nuove ipotesi per la spiegazione dei fenomeni. E questo giustifica l’enorme importanza che la matematica riveste ancora oggi per la fisica. Grazie alla rivoluzione scientifica, la più astratta delle scienze cominciò a trovare applicazioni sorprendenti, diventando il linguaggio e il metodo di lavoro della scienza1 .
La matematica come “logica” della fisica
TEST DI LOGICA
FILOSOFIA E SCIENZA Newton e la nascita della fisica classica p. 122
Le complesse e inscindibili relazioni fra teoria ed esperienza, o fra matematica e fisica La lettera – che abbiamo cercato fin qui di illustrare e che costituiscono il nodo centrale del metodo a Carcavy galileiano – trovano espressione chiara e sintetica in una lettera scritta da Galilei nel 1637 al matematico francese Pierre de Carcavy (1600-1684). In questo documento, che è forse il più prezioso che possediamo sul metodo galileiano, si legge infatti:
‘
Io argomento ex suppositione, figurandomi un moto verso un punto, il quale partendosi dalla quiete vada accelerandosi, crescendo la sua velocità con la medesima proportione con la quale cresce il tempo; e di questo tal moto io dimostro concludentemente molti accidenti; soggiungo [aggiungo] poi che, se l’esperienza mostrasse che tali accidenti si ritrovassero verificarsi nel moto dei gravi naturalmente descendenti, potremmo senza errore affermare questo essere il moto medesimo che da me fu definito e supposto; quando che no, le mie dimostrazioni fabbricate sopra la mia supposizione niente perdevano della sua forza e concludenza [...]. Ma nel moto figurato da me è accaduto che tutte le passioni [proprietà, caratteristiche] che io ne dimostro si verificano nel moto dei gravi naturalmente descendenti.
Le nozioni galileiane di “esperienza” e “verifica” Da quanto esposto fin qui emerge chiaramente come in Galilei i concetti di “esperienza” e “verifica” assumano, rispetto al passato, un significato inconfondibile e originale. L’ esperienza di cui parla lo scienziato pisano, infatti, non è l’esperienza immediata, ma il L’esperienza frutto di un’elaborazione teorico-matematica dei dati, che si conclude con la verifica scientifica empirica. L’esperienza ordinaria è dunque qualcosa di molto lontano da quella presa in considerazione da Galilei nelle sue ricerche, e questo per due motivi: glossario p. 113 in primo luogo, l’esperienza quotidiana può essere ingannevole, tant’è vero che Galilei dovette combattere tutta la vita contro le «apparenze» sensibili (cioè contro i fenomeni così come appaiono immediatamente ai nostri sensi), le quali sembravano attestare tesi opposte a quelle della scienza (ad esempio che la Terra stesse ferma e che i corpi cadessero con velocità differenti); in secondo luogo, l’esperienza non ha valore scientifico se non viene legittimata dall’esperimento, al punto che si può dire che l’esperienza, scientificamente intesa, è l’esperimento (come vedremo meglio nelle prossime righe). 1. Si ricordi, tuttavia, che le affermazioni della matematica pura non hanno bisogno, per essere vere, di essere “controllate” mediante l’esperienza, mentre in fisica la deduzione matematica ha valore scientifico soltanto se trova riscontro nella realtà.
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La verifica La nuova nozione di “esperienza” implica una nuova nozione di “verifica”, che viene appunscientifica to concepita come esperimento . Questo non è l’osservazione del mondo tout court, cioè una
raccolta di testimonianze immediate dei sensi (le quali infatti possono confermare teorie erronee), ma è una procedura complessa, intenzionalmente volta a creare le condizioni necessarie affinché un certo evento possa prodursi. In altre parole, poiché ogni fenomeno è una realtà complessa, soggetta all’influenza di molte variabili, lo scienziato deve cercare di riprodurlo in modo semplificato, attenuando il più possibile i fattori di disturbo (ad esempio cercando di ridurre al minimo l’attrito). Detto in termini galileiani: glossario p. 113
‘
quando il filosofo geometra [il fisico matematico] vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi [elimini] gli impedimenti della materia; che, se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) computi aritmetici.
Lo scienziato è dunque costretto a creare condizioni “su misura”, che spesso non esistono nella realtà ma soltanto in laboratorio, e talvolta neanche in un laboratorio reale, ma soltanto in un laboratorio mentale o ideale (come succede ad esempio per il principio d’inerzia). Gli esperimenti Per questo motivo Galilei ricorre talvolta ai celebri (e tanto discussi) “esperimenti mentali”: mentali trovandosi a non poter verificare concretamente le proprie teorie – soprattutto per man-
canza di strumenti tecnici adeguati –, è costretto a ricorrere a una sorta di fisica ideale, non soltanto per formulare le ipotesi, ma anche per verificarle. Egli suppone così l’assenza di forze, immagina piani perfettamente levigati, si raffigura il movimento nel vuoto ecc. Ad esempio, per confutare la teoria aristotelica della caduta dei gravi escogita, come si è visto, uno dei più famosi esperimenti teorici della storia della scienza: quello dei due corpi che, pur unendosi nella caduta, continuano ad avere la medesima velocità.
4. La struttura concettuale della nuova scienza Con il suo metodo Galilei perviene a quella struttura concettuale che costituisce lo schema teorico della scienza moderna, secondo il quale la natura è regolata da un ordine oggettivo e causalmente organizzato di relazioni governate da leggi, e la scienza è un sapere matematico-sperimentale intersoggettivamente valido ( cap. 1). Il rifiuto Contro ogni considerazione finalistica e antropocentrica del mondo, Galilei afferma che le del finalismo opere della natura non possono essere giudicate con un metro puramente umano, cioè sulla
base di ciò che l’uomo può intendere o di ciò che a lui torna utile: pretendere di farlo è arroganza e pazzia. Noi non sappiamo a che cosa servano Giove o Saturno, così come non sappiamo a che cosa servano alcune parti del nostro stesso corpo, che ignoreremmo perfino di avere se non ci fossero mostrate dagli anatomisti. I nostri pareri e le nostre ragioni non hanno alcun valore per la natura, la quale continua a operare secondo le proprie leggi, indipendentemente dalla comprensione che noi riteniamo di averne. Di conseguenza, non dobbiamo cercare perché la natura opera in un certo modo (causa finale), ma soltanto come opera (causa efficiente).
Il rifiuto Analogamente, contro ogni fisica essenzialistica, che pretenda di spiegare i fatti in base aldell’essenzialismo le “essenze” o alle “virtù” delle cose (l’essenza del moto, la virtù del calore ecc.), Galilei ri-
batte che lo scienziato deve occuparsi esclusivamente delle leggi che regolano i fatti, ossia delle verificabili costanti di comportamento attraverso cui la natura agisce. Con ciò Galilei non intende negare, in assoluto, l’esistenza di finalità e di essenze, ma semplicemente accantonarle, ritenendone metodologicamente non-scientifica la ricerca, non essendo dato alla mente umana di conoscerle.
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La struttura concettuale del metodo galileiano si presenta come una costruzione autonoma, che vale di per sé, indipendentemente da possibili giustificazioni filosofiche. Tuttavia, nella mente di Galilei essa si accompagna di fatto ad alcuni schemi di natura teoricofilosofica, che ne fungono, al tempo stesso, da motivi ispiratori e da giustificazioni speculative. In altre parole, pur non essendo un filosofo, Galilei si ispira ad alcune idee generali di tipo “filosofico”, attinte perlopiù dalla tradizione o da dottrine a lui contemporanee, ma rielaborate in modo originale.
Le idee filosofiche sottese al metodo di Galilei
FILOSOFIA E SCIENZA Dal libro della natura al DNA p. 120
La fiducia galileiana nella matematica, ad esempio, è incentivata e insieme convalidata dal- La struttura la dottrina platonico-pitagorica della struttura matematica del cosmo, ossia dalla convin- matematica del cosmo zione che la «fattura» reale del mondo sia di tipo geometrico. Pertanto, soltanto chi conosce il linguaggio matematico è in grado di decifrare le leggi che regolano il mondo naturale. Il primato accordato agli aspetti quantitativi del reale e la riduzione dell’oggetto scientifico a una struttura trattabile matematicamente vengono corroborati dal ricorso alla distinzione atomistico-democritea fra proprietà oggettive e proprietà soggettive dei corpi. Le proprietà oggettive caratterizzano i corpi in quanto tali, mentre le proprietà soggettive esistono soltanto in relazione ai nostri sensi: quantità, figura, grandezza, luogo, tempo, movimento, quiete, contatto, distanza sono proprietà inseparabili dai corpi materiali; al contrario, sapori, odori, colori e suoni sussistono soltanto in quanto percepiti dai nostri organi di senso, cioè non sono caratteri dei corpi, per quanto siano prodotti da essi. ( T2 p. 117) glossario p. 113
La distinzione tra proprietà oggettive e soggettive
Il metodo sperimentale inaugurato da Galilei esige, come suo fondamento, una “credenza” L’uniformità non dimostrabile, una sorta di fiducia originaria nell’uniformità dell’ordine naturale. Esso, della natura cioè, presuppone la convinzione che il comportamento della natura segua leggi necessarie e immutabili, perché proprio sulla necessità e immutabilità del corso della natura si fonda il procedimento induttivo di cui la scienza si serve. Facciamo un esempio: se in n casi constatiamo che la temperatura di 100 gradi determina l’ebollizione dell’acqua, a rigore queste osservazioni empiriche non sono sufficienti per derivarne (per “indurne”) la legge generale “l’acqua bolle sempre a 100 gradi”, poiché noi non abbiamo modo di constatare tutti i casi possibili di ebollizione dell’acqua. Perché il nesso causale che lega la temperatura di 100 gradi e l’ebollizione dell’acqua possa essere considerato una “legge” (cioè una regola universalmente valida), occorre “credere” che la natura segua un corso sempre identico e necessario, tale per cui, a cause simili, corrisponderanno sempre e ovunque effetti simili. Quanto alla fiducia nella verità assoluta della scienza, essa viene confortata mediante la teoria secondo cui conoscenza umana e conoscenza divina, pur differenziandosi tra loro per la modalità dell’apprendimento e per la quantità delle nozioni possedute, risultano simili per il grado di certezza. Per Galilei, infatti, Dio conosce la verità intuitivamente, cioè in modo immediato, mentre l’essere umano la conquista progressivamente attraverso il ragionamento. Inoltre Dio conosce tutte le infinite verità, mentre l’uomo soltanto alcune di esse. Ma per quanto riguarda le verità matematiche, la certezza è identica, poiché, ad esempio, che 2 + 2 faccia 4 è vero tanto per noi quanto per Dio.
)
Per l’esposizione orale
L’assoluta certezza delle verità matematiche
1. In che cosa consistono il momento risolutivo e quello compositivo del metodo scientifico di Galilei? 2. Spiega il metodo galileiano utilizzando le espressioni seguenti: sensata esperienza, necessarie dimostrazioni, induzione, deduzione. 3. Qual è il significato delle nozioni galileiane di “esperienza” e “verifica”? 4. Illustra la distinzione tra proprietà oggettive e soggettive dei corpi.
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5. Il processo Per lungo tempo, e in particolare nel XIX secolo, la condanna di Galilei è stata al centro di vivaci dibattiti tra filo-clericali e anti-clericali, tesi gli uni a giustificare il comportamento della Chiesa cattolica minimizzando la vicenda, gli altri a screditare la Chiesa utilizzando il caso di Galilei come atto d’accusa nei confronti dell’oscurantismo religioso. Nel XX secolo, e soprattutto dopo la riabilitazione di Galilei voluta da papa Giovanni Paolo II ( p. 110), la polemica ha ceduto il passo all’atteggiamento più equilibrato e scientifico di una ricostruzione storica dei fatti.
Le prime accuse e l’ammonizione L’attacco dei Sebbene gli aristotelici pisani e padovani avessero cominciato a guardare con crescente domenicani irritazione il copernicanesimo galileiano, le prime consistenti reazioni contro Galilei arri-
varono dal clero. Mentre i gesuiti – che all’inizio avevano sostanzialmente confermato, tramite i loro astronomi, le scoperte divulgate nel Sidereus nuncius – mantenevano un atteggiamento globalmente prudente, i domenicani cominciarono ad attaccarlo apertamente. Uno di loro, Niccolò Lorini (1544-1617?), nel corso di una disputa tenutasi a Firenze all’inizio del novembre 1612, accusò i copernicani di eresia. E lo stesso fece nel 1615 un altro domenicano, Tommaso Caccini (1574-1648). Nel febbraio del 1616 fu Lorini, prendendo spunto dalla lettera inviata da Galilei a padre Benedetto Castelli, a citare lo scienziato presso il Sant’Uffizio, denunciandone sia il copernicanesimo sia il modo di intendere il rapporto tra la scienza e le sacre scritture.
La condanna Il preoccupante estendersi delle polemiche dal piano astronomico-matematico a quello fiteologica sico e, infine, a quello religioso, indusse il Sant’Uffizio a passare la questione copernicana delle teorie copernicane ai teologi. Questi, il 24 febbraio 1616, dichiararono all’unanimità:
«assurda e falsa in filosofia» e «formalmente eretica» la tesi eliocentrica; «assurda e falsa in filosofia» e «per lo meno erronea nella Fede» la tesi della mobilità della Terra. In seguito, il 3 marzo 1616, vennero poste all’indice le opere di Copernico e di altri copernicani, ma non si fece cenno a Galilei, dato che le sue “lettere copernicane”, pur essendo abbastanza note, costituivano un fatto di natura privata.
L’ammonizione Nel frattempo, il 26 febbraio, per ordine di Paolo V Galilei veniva convocato dal cardinale del 1616 Bellarmino e formalmente “ammonito”. Il verbale della seduta – che sarebbe stato di
grande rilievo per il processo del 1633 – verso la fine, in traduzione italiana, suonava così:
‘
[il Commissario] fece precetto ed ingiunzione a detto Galilei ancor presente e costituito, in nome del Papa e di tutta la Congregazione del Santo Uffizio, di abbandonare detta opinione [quella copernicana], né altrimenti in qualsiasi modo di tenerla, insegnarla o difenderla a voce o per iscritto; che altrimenti si procederebbe contro di lui da parte del Sant’Uffizio. Al quale precetto Galilei acconsentì e promise di obbedire.
Il “giallo” Questo verbale, come del resto tutta la cornice legale della seduta, costituisce ancora oggi un del verbale vero e proprio “giallo storico”. Infatti il foglio su cui è scritto ha l’aspetto di una minuta e di
una trascrizione, e non riporta le firme né del notaio, né dei testimoni, né di Galilei. Anzi, poiché nel fascicolo dell’Inquisizione, numerato ininterrottamente pagina per pagina, non si trova in proposito un documento “originale” e legalmente autenticato, e poiché i termini del verbale saranno definiti da Galilei, nel processo del 1633, «novissimi et come inauditi», parecchi storici sono giunti a negare l’esistenza di un vero e proprio precetto del 1616, e a considerare il verbale un falso “fabbricato” più tardi, allo scopo di avere prove scritte contro Galilei.
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CApITOLO 3 Galilei
A parte la controversia sulla seduta e sul verbale, sappiamo che Galilei, dopo essere stato richia- Il «certificato» mato dal cardinale Bellarmino riguardo alle teorie copernicane, richiese e ottenne da quest’ulti- di Bellarmino mo un «certificato» da opporre alle calunnie che già circolavano sul suo conto. Da questo documento si apprende che lo scienziato «non ha abiurato [...] né manco ha ricevuto penitenzie salutari [...], ma solo gli è stata denunciata la dichiarazione [...] nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico [...] sia contraria alle Sacre Scritture, e però [perciò] non si possa né difendere né tenere». In altre parole, stando a questo scritto risulta che nel 1616 Galilei venne “ammonito” a non sostenere la teoria copernicana, ma non fu punito né costretto ad abiurare.
La condanna e l’abiura Dopo anni di silenzio pubblico sul copernicanesimo, nel 1632 Galilei, confidando nelle possi- Il Dialogo bili aperture favorite dall’elezione di papa Urbano VIII, pubblicò il Dialogo, con l’intento uffi- e i guai con l’Inquisizione ciale di presentare in maniera “obiettiva” i due più grandi sistemi astronomici della storia. Ma la stizza di Urbano VIII (che gli avversari di Galilei convinsero di essere stato ridicolizzato dallo scienziato attraverso la figura di Simplicio) fece sì che la situazione precipitasse e che l’inquisitore di Firenze desse ordine di sospendere immediatamente la diffusione dell’opera. Nell’ottobre del 1632 a Galilei venne intimato di trasferirsi a Roma e di mettersi a disposizione del commissario generale del Sant’Uffizio. Dopo aver cercato di prender tempo adducendo motivi di salute, lo scienziato, ormai vecchio e malaticcio, di fronte alla ferma determinazione dell’Inquisizione, fu costretto a obbedire. Giunto a Roma il 3 febbraio 1633, Galilei soggiornò per qualche tempo, in uno stato di quasi segregazione, presso l’ambasciatore del Granducato di Toscana. Il 12 aprile dovette trasferirsi «come prigioniero» presso il Sant’Uffizio, anche se, considerati l’età e gli acciacchi, non venne rinchiuso nelle carceri in cui avevano sofferto Bruno e Campanella, ma in stanze più confortevoli. L’accusa più forte contro lo scienziato era di aver trasgredito il precetto del 1616 – che gli vietava d’insegnare o difendere in alcun modo la dottrina di Copernico – e di non averne fatto cenno a padre Niccolò Riccardi (1585-1639), il censore pontificio che aveva concesso l’imprimatur al Dialogo. Durante gli interrogatori, Galilei affermò più volte di non rammentare di aver subìto alcuna intimazione alla presenza di testimoni e si appellò alla notifica di Bellarmino e al suo successivo attestato, nel quale non compariva alcun divieto di “insegnare” la teoria copernicana, ma si parlava soltanto della proibizione di «difendere e tenere» tale dottrina. Trovandosi a malpartito e senza testimoni (Bellarmino era morto nel 1621), invece di negare il valore giuridico del documento del 1616, lo scienziato pensò di aggirare le manovre degli inquisitori sostenendo, con un’ingenua quanto plateale bugia, che nel Dialogo non soltanto non aveva voluto insegnare il copernicanesimo, ma aveva inteso mostrarne l’erroneità. Dopo questa dichiarazione, i giudici di Galilei ebbero buon gioco nel dimostrargli, Dialogo alla mano, la sua menzogna. Lo scienziato modificò allora la propria posizione e ammise di essere andato contro l’ammonizione e di aver preso le difese del sistema copernicano (anche se continuò sempre a ribadire che i termini del verbale del 1616 gli suonavano «novissimi et come inauditi»).
La prigionia presso il Sant’Uffizio romano Gli interrogatori
Dopo un po’ di tempo e dopo un altro interrogatorio, il 22 giugno 1633 gli inquisitori emi- La sentenza sero la loro sentenza definitiva, che nella parte finale suona in questi termini:
‘
Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, Galilei sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Offizio veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole sia centro della Terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata
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dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data. L’abiura Nello stesso giorno Galilei, in ginocchio davanti ai cardinali della Congregazione, pro-
nunciò la sua abiura del copernicanesimo. Ecco una parte del testo:
‘
Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione [sospetto], giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero [oppure] all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
)
Per l’esposizione orale
1. Riordina cronologicamente gli eventi della vita di Galilei elencati di seguito, indicando l’anno in cui si sono verificati: - processo di fronte al tribunale del Sant’Uffizio - scoperte astronomiche annunciate nel Sidereus nuncius - ammonizione da parte del cardinale Bellarmino - abiura del copernicanesimo - pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2. Esponi brevemente le ragioni sia della prima ammonizione a Galilei, sia della sua definitiva condanna da parte del Sant’Uffizio.
6. La riabilitazione di Galilei e l’attuale posizione della Chiesa Giovanni Paolo II e le ragioni di Galilei Verso un «leale Il 10 novembre 1979, in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, papa Giovanni riconoscimento Paolo II (Karol Wojtyła) ammise l’importanza di fare chiarezza sul «caso Galileo», con dei torti»
l’obiettivo di ripristinare una «fruttuosa concordia tra scienza e fede»:
‘
La grandezza di Galileo è a tutti nota, come quella di Einstein; ma a differenza di questi, che oggi onoriamo di fronte al Collegio cardinalizio nel nostro palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi di Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto e deplorato certi indebiti interventi […]. A ulteriore sviluppo di quella presa di posizione del Concilio, io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. A questo compito, che potrà onorare la verità della fede e della scienza, e dischiudere la porta a future collaborazioni, io assicuro tutto il mio appoggio.
La Commissione Nel 1981 Giovanni Paolo II istituì una Commissione pontificia per lo studio della contropontificia e le sue versia tolemaico-copernicana e del processo a Galileo, la quale documentò, in primo luoconsiderazioni
go, come già ai tempi di Galilei vi fossero, all’interno della Chiesa, posizioni diversificate, e non una massiccia e indiscutibile condanna del copernicanesimo. Ad esempio, in una lettera del 12 aprile 1615 indirizzata al padre carmelitano, teologo e scienziato Paolo Antonio Foscarini (1565-1616), lo stesso cardinale Bellarmino si era chiesto se l’astronomia
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copernicana fosse vera, ossia fondata su prove verificabili, o se invece si basasse soltanto su congetture, e se le tesi copernicane fossero compatibili con le affermazioni della Bibbia. In secondo luogo, la Commissione affermò che Galileo non era riuscito a provare in maniera inconfutabile il doppio moto della Terra (la sua orbita annuale intorno al Sole e la sua rotazione giornaliera intorno al proprio asse), sebbene fosse convinto di averne trovata la prova nelle maree oceaniche, delle quali soltanto Newton avrebbe dimostrato la vera origine. Nello stesso tempo, però, la Commissione ammise che anche gli avversari di Galilei non avevano, né prima né dopo di lui, scoperto nulla che potesse costituire una confutazione convincente dell’astronomia copernicana, tanto che in seguito, con una serie di piccoli ma continui passi in avanti, la Chiesa aveva ammorbidito la propria posizione contraria al copernicanesimo, fino alla pubblicazione, nel 1846, di un nuovo Indice dei libri proibiti, dal quale erano state eliminate le opere che esponevano tale dottrina. Al termine della sua analisi, nella sintesi del coordinatore cardinale Paul Poupard, la Com- Le conclusioni della missione dichiarò: Commissione
‘
i giudici di Galileo, incapaci di dissociare la fede da una cosmologia millenaria, credettero a torto che l’adozione della rivoluzione copernicana, peraltro non ancora definitivamente provata, fosse tale da far vacillare la tradizione cattolica e che fosse loro dovere il proibirne l’insegnamento. Questo errore soggettivo di giudizio, così chiaro per noi oggi, li condusse ad adottare un provvedimento disciplinare di cui Galileo «ebbe molto a soffrire». Bisogna riconoscere questi torti con lealtà.
Alla luce del lavoro della Commissione, in un nuovo discorso pronunciato il 31 ottobre Le conclusioni 1992 alla Pontificia Accademia delle Scienze, Giovanni Paolo II concluse a sua volta che la di Giovanni Paolo II Chiesa – per insormontabili limiti dovuti all’«orizzonte culturale dell’epoca di Galileo» – aveva sbagliato nei confronti dello scienziato pisano, ed era stata indotta a «trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica»; ma che i «recenti studi storici» avrebbero finalmente permesso di superare quello che era stato un «doloroso malinteso».
Il «caso Galileo» oggi Attualmente la Chiesa cattolica considera sostanzialmente chiuso il «caso Galileo». In Un caso coerenza con gli intendimenti di Giovanni Paolo II, il riconoscimento degli errori com- ormai chiuso messi dai teologi del XVII secolo si è accompagnato alla volontà di depurare il panorama culturale da quelle strumentalizzazioni che avevano trasformato il processo a Galilei in un’arma contro la Chiesa e contro la fede. Ne è derivata una nuova valutazione complessiva dell’immagine dello scienziato pisano, che, proprio per essere stato egli stesso una vittima, è proposto come simbolo della ricerca di un fecondo dialogo tra scienza e fede. In realtà l’attenzione della Chiesa cattolica alla figura e agli studi di Galilei non è venuta Un caso meno, come testimonia la pubblicazione, nel 2009, di una nuova edizione degli atti del sempre aperto processo che integra la precedente risalente al 1984. Questa nuova edizione si caratterizza per una maggiore fedeltà agli atti processuali originali, per un’ampia introduzione e un’accreditata bibliografia, per numerose annotazioni storiche e biografiche, e per il fatto di contenere venti documenti inediti, ritrovati dopo il 1984.
)
Per l’esposizione orale
1. In che modo è cambiata la posizione della Chiesa cattolica sul «caso Galileo» sotto il pontificato di Giovanni Paolo II? 2. Perché la Chiesa ha ammesso l’importanza di fare chiarezza sulla vicenda storica di Galilei?
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 GALILEI
La fama di Galileo Galilei, nato a Pisa nel 1564, si sviluppa a partire dal 1610, con l’annuncio delle sue scoperte astronomiche nel Sidereus nuncius. Le osservazioni di Galilei, che avvalorano la teoria copernicana, nel 1616 procurano allo scienziato un’ammonizione da parte del cardinale Bellarmino. Nel 1632, in seguito alla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Galilei viene chiamato a comparire di fronte al tribunale romano del Sant’Uffizio: il processo si conclude nel 1633 con l’abiura, da parte dello scienziato, delle tesi copernicane. Galilei muore nel 1642, al confino nella sua villa di Arcetri.
I principali bersagli polemici Con la sua opera di scienziato, Galilei si scontra innanzitutto con la Chiesa, contro la quale rivendica l’autonomia della ricerca scientifica: egli afferma che la natura e la Bibbia derivano entrambe da Dio, e pertanto non possono contraddirsi. Tuttavia, la Bibbia è arbitra nel campo etico-religioso, mentre la scienza in quello delle verità naturali: pertanto, se le due “autorità” si contraddicono riguardo alle spiegazioni della natura, allora bisogna rivedere l’interpretazione del testo sacro. Un altro bersaglio polemico dello scienziato è rappresentato dagli aristotelici a lui contemporanei, che egli accusa di seguire dogmaticamente il principio di autorità, ostacolando in tal modo il progresso del sapere.
I maggiori risultati scientifici Galilei ha un ruolo fondamentale nella fisica moderna, poiché intuisce il principio d’inerzia e formula le leggi sulla caduta dei gravi.
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La sua fama, però, deriva soprattutto dalle scoperte astronomiche da lui annunciate nel Sidereuus nuncius: grazie al cannocchiale, che egli usa per la prima volta per scopi scientifici, egli può infatti osservare la natura irregolare della superficie lunare, i satelliti di Giove, le fasi di Venere e innumerevoli astri (riuniti in quelle che saranno chiamate “galassie”) oltre a quelle che erano note come “stelle fisse”. I suoi argomenti decisivi in favore del copernicanesimo sono contenuti nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), capolavoro scientifico e filosofico che descrive una discussione, suddivisa in quattro giornate, tra l’aristotelico Simplicio, il copernicano Salviati e il moderatore Sagredo. In quest’opera Galilei afferma implicitamente l’assurdità della distinzione aristotelica tra mondo celeste e mondo terrestre, e la plausibilità dell’idea che la Terra ruoti intorno al Sole.
Il metodo della scienza Nelle sue numerose osservazioni metodologiche (disseminate qua e là nelle sue opere), ma soprattutto nel suo concreto modo di procedere, Galilei distingue nel metodo scientifico due momenti fondamentali: il momento risolutivo, o analitico; il momento compositivo, o sintetico. Il primo comprende l’osservazione del fenomeno, la sua scomposizione («risoluzione») negli elementi che lo costituiscono e la misurazione matematica dei dati. Il secondo consiste nella formulazione di un’ipotesi teorica (una legge generale) capace di spiegare il fenomeno e nel controllo empirico della validità dell’ipotesi. Per Galilei, dunque, il punto di partenza della ricerca scientifica è sempre la
• sensata esperienza
(letteralmente, “esperienza condotta con i sensi”) l’osservazione dei fenomeni condotta attraverso gli organi di senso.
Complementari e inscindibili rispetto alla «sensata esperienza» sono le
• necessarie dimostrazioni,
dette anche «matematiche dimostrazioni», sono i ragionamenti logici, formulati su base matematica, attraverso i quali lo scienziato, partendo da un’intuizione di fondo e facendo riferimento anche soltanto a pochi dati empirici, formula un’ipotesi teorica, dalla quale poi deduce o “prevede” il probabile comportamento dei fenomeni.
Parlando di «sensata esperienza», Galilei sottolinea il carattere osservativo-induttivo della ricerca scientifica (consistente nel ricavare un’ipotesi generale a partire dall’osservazione di molteplici casi sensibili); citando le «necessarie dimostrazioni» egli ne evidenzia invece il carattere ipotetico-deduttivo (consistente nella formulazione di un principio generale, dal quale dovranno essere dedotti i fenomeni particolari). In ogni caso, l’ipotesi teorica formulata non potrà essere considerata vera fino a quando non sarà stata controllata empiricamente, ovvero sottoposta a un
• esperimento
(«cimento», nel linguaggio galileiano) operazione o sequenza di operazioni (spesso eseguite in laboratorio) con cui si riproduce un fenomeno, in modo da eliminare i fattori o le variabili di disturbo e verificare se esso segua una determinata legge (che proprio mediante l’esperimento si intende controllare). Per Galilei un esperimento può essere anche soltanto mentale, nel senso che lo scienziato può immaginare, con il ragionamento, una determinata situazione e la sua evoluzione.
Su queste basi si comprende in che senso si possa affermare che, rispetto alla tradizione precedente, Galilei sviluppa una nuova nozione di
• esperienza
l’elaborazione teorico-matematica dei dati ricavati mediante l’osservazione. Non si tratta, dunque, dell’esperienza immediata, quotidiana, ma di un processo guidato da un’ipotesi teorica, il quale si conclude con l’esperimento (v.).
Le idee filosofiche sottese al metodo galileiano Galilei rifiuta ogni forma di finalismo e di essenzialismo, ritenendo che si debbano indagare le sole cause efficienti, o meccaniche, dei fenomeni, ovvero le leggi che regolano i fatti, e non le presunte essenze da cui si immagina che questi derivino. Al di là di questa impostazione di fondo, le principali concezioni filosofiche che supportano la metodologia galileiana sono: l’idea della struttura matematica del cosmo, la convinzione dell’immutabilità dell’ordine naturale, la teoria dell’uguale certezza della conoscenza umana e della conoscenza divina e la distinzione fra
• proprietà oggettive e soggettive
rispettivamente, le qualità o caratteristiche che qualificano i corpi in quanto tali (figura, grandezza, luogo, tempo ecc.) e quelle che qualificano i corpi soltanto in relazione alla nostra percezione (colori, odori, sapori ecc.).
Tutte queste idee confluiscono nello schema concettuale della scienza moderna, che con Galilei giunge alla sua definizione compiuta e che vede la natura come un ordine oggettivo e uniforme, strutturato secondo leggi causali e necessarie; la scienza come un tipo di sapere matematico-sperimentale e valido intersoggettivamente.
Galilei non espone in modo sistematico la propria concezione del metodo scientifico, ma la applica nella sua attività di ricerca, nella quale si riscontra un’alterna prevalenza del momento empirico o sperimentale (osservativo-induttivo) e di quello teorico o razionale (ipotetico-deduttivo). Questi due momenti sono dunque indissolubili e si richiamano sempre a vicenda: da una parte le osservazioni empiriche vengono sempre elaborate in un contesto matematico-razionale e sono fin dall’inizio “cariche di teoria”; dall’altra i ragionamenti traggono sempre spunto dall’esperienza e acquistano validità soltanto per mezzo della conferma sperimentale.
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MAPPE
CAPITOLO 3 GALILEI I BERSAGLI POLEMICI sono
la Chiesa e i teologi
gli aristotelici
ai quali Galilei obietta che
che Galilei accusa di
tra Bibbia e scienza non c’è contrasto perché la Bibbia si occupa della religione, la scienza della natura
atteggiamento dogmatico, che ostacola lo sviluppo del sapere
I RISULTATI SCIENTIFICI sono
il principio d’inerzia
le leggi sulla caduta dei gravi
il principio della relatività del moto
le scoperte astronomiche (macchie lunari e solari, satelliti di Giove, fasi di Venere)
la conferma dell’ipotesi eliocentrica
IL METODO DELLA NUOVA SCIENZA intreccia
induzione («sensata esperienza»)
deduzione («necessarie dimostrazioni») infatti prevede
una fase risolutiva o analitica
una fase compositiva o sintetica
con
con
osservazione dei fenomeni
misurazione matematica dei dati
formulazione di un’ipotesi generale
esperimenti per verificare o smentire l’ipotesi
formulazione rigorosa della legge
LE IDEE FILOSOFICHE SOTTESE AL METODO sono
il rifiuto del finalismo e dell’essenzialismo
l’idea della struttura matematica del cosmo
la distinzione fra proprietà oggettive e soggettive
il principio dell’uniformità della natura
la teoria della certezza del sapere matematico
in favore della
che giustifica
che implica
che fonda
che supporta
ricerca delle cause meccaniche e delle leggi dei fenomeni
il valore attribuito alla matematica
l’attenzione per gli aspetti quantitativi
la ricerca dei rapporti causali tra i fenomeni
la fiducia nella veridicità della scienza
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CApITOLO 3 Galilei
CAPITOLO 3 GALILEI La conciliazione di fede e scienza
Nel 1613 un allievo di Galilei, Benedetto Castelli, durante un pranzo presso Cosimo II de’ Medici e Cristina di Lorena, si trova coinvolto in un dibattito che oppone i princìpi della teologia alle conclusioni della scienza. In questo evento Galilei trova un appiglio per esporre le proprie ragioni in difesa dell’autonomia della ricerca scientifica, e lo fa indirizzando alcune lettere a personalità coinvolte a vario titolo nella disputa. Tra queste lettere – dette “copernicane” perché in esse Galilei cerca di far concordare la teoria copernicana con le Scritture – la più celebre è quella inviata nel 1615 alla granduchessa di Toscana, madama Cristina di Lorena. TESTO
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Il modo corretto di intendere la Bibbia e di fare ricerca (Lettera a Cristina di Lorena)
IL TESTO NELL’OPERA La Lettera a Cristina di Lorena con ogni probabilità viene completata nel giugno del 1615. Poiché nel marzo dello stesso anno il predicatore domenicano Tommaso Caccini, artefice di una violenta campagna delatoria ai danni di Galilei, si era presentato spontaneamente presso il Sant’Uffizio per testimoniare contro lo scienziato, questi si convince dell’opportunità di non pubblicare la letAUDIOLETTURA tera, affidandosi a un’accorta diffusione di copie manoscritte. Il testo, di fatto, è un vero e proprio trattato in stile epistolare, in cui l’autore si appella addirittura alle autorità teologiche (in primo luogo Agostino) per difendere e sostenere la congruenza della cosmologia copernicana con il dettato biblico. Galilei rivendica inoltre la libertà dell’indagine naturale, la quale a suo avviso non può essere racchiusa all’interno di limiti definiti, come vorrebbe la Chiesa, perché progredisce costantemente. Nel passo che segue Galilei afferma che non è corretto prendere alla lettera le parole della Bibbia riguardanti i fenomeni naturali, perché la spiegazione di questi ultimi spetta alla scienza, il cui ruolo consiste nell’interpretare la natura, mentre alla Bibbia spetta il compito di guidare l’essere umano nelle questioni della religione e della fede. Gli argomenti Il motivo, dunque, che loro [gli avversari della tesi copernicana] producono per condennar l’odegli pinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre Lettere, in 2 anticopernicani
molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda [da condannare] sia 4 la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra.
Un messaggio Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente det- 6 comprensibile to e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che da tutti
si sia penetrato il suo vero sentimento [il suo vero significato], il qual non credo che si possa 8
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negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani ed occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future, le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato, così per quelli che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che e’ siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna. Di qui mi par di poter assai ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più recondite e difficili ad essere capite, ella non abbia pretermesso [omesso, tralasciato] questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo popolo e renderlo più contumace [ostinato] contro a i dogmi di più alto misterio. Perché se, come si è detto e chiaramente si scorge, per il solo rispetto d’accomodarsi alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati [enunciati fondamentali], attribuendo sino all’istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che l’istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra, d’acqua, di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle parole? e massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla salute dell’anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo. Il valore di esperienza e ragione in ambito scientifico
Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accommodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro [per contro], essendo la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli […]; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante […]. (Lettera a Cristina di Lorena, in Le opere, a cura di A. Savaro, Barbera, Firenze 1968, vol. 5, pp. 315-317)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Gli argomenti degli anticopernicani (rr. 1-5) Nelle prime righe del testo Galilei richiama l’argomento principale addotto dagli avversari delle tesi copernicane: nella Bibbia si fa più volte riferimento al movimento del Sole, ed è chiaro che le parole bibliche, in quanto det-
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CApITOLO 3 Galilei
tate dallo Spirito Santo, ovvero dettate direttamente da Dio all’essere umano, non possono mentire. Un messaggio comprensibile da tutti (rr. 6-34) Dopo avere chiarito di essere egli per primo convinto che le Sacre Scritture non mentono, quando se ne sia
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decifrato correttamente il significato, Galilei osserva tuttavia come quest’ultimo risulti spesso nascosto al lettore. Per sostenere questa sua affermazione, lo scienziato nota che, se si interpretassero alla lettera le parole bibliche, si dovrebbero attribuire a Dio forme umane, nonché gli umani pregi e difetti, cosa evidentemente falsa. Il motivo per cui gli scrittori biblici si sono espressi in questo modo è la necessità di far intendere a tutti, colti e ignoranti, i precetti divini. Ma questo non significa che le affermazioni bibliche vadano prese tutte alla lettera. E se questo vale per questioni importanti come quella riguardante l’essenza divina, tanto più dovrà valere per quei passi in cui la Bibbia descrive i fenomeni naturali, che non sono il suo campo di pertinenza, e che quindi possono essere stati esposti dagli scrittori biblici con rigore e precisione ancora minori.
Il valore di esperienza e ragione in ambito scientifico (rr. 35-45) La conclusione di Galilei è netta: nelle questioni riguardanti la spiegazione della natura, le uniche “autorità” da rispettare dovranno essere le «sensate esperienze» (cioè l’osservazione empirica, metodicamente realizzata, r. 36) e le «necessarie dimostrazioni» (cioè i ragionamenti matematici, rr. 43-44). Tanto la Bibbia quanto la natura, infatti, provengono da Dio, la prima in quanto parola divina, la seconda in quanto divina creazione. Ma, se le parole della Bibbia possono in qualche caso discostarsi dall’assoluta verità (per poter essere, come si è visto, comprese da tutti), al contrario la natura non può mai mentire, essendo regolata da leggi necessarie ed eterne: osservarla con attenzione e con metodo, e ragionare con precisione matematica su quanto si è osservato sono dunque le uniche vie attraverso le quali è possibile scoprire le sue leggi.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO La battaglia condotta da Galilei trova un’eco nella Costituzione del nostro paese e precisamente nell’articolo 33, in cui si afferma che «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Metti a confronto l’epoca di Galilei con quella contemporanea: da chi e da che cosa Galilei rivendicava la libertà della scienza? da chi e da che cosa la scienza di oggi deve mantenersi libera? Sintetizza le tue riflessioni in un testo scritto (max 40 righe), in cui riporti argomenti ed esempi concreti a sostegno della tua posizione.
Una visione innovativa dell’universo
Galilei ha contribuito a rivoluzionare la scienza grazie all’introduzione di un nuovo metodo, basato non più sull’autorità degli antichi e sull’astrazione, ma sull’osservazione e sull’esperienza. In questo modo egli ha potuto sostenere che la natura è un ordine oggettivo e causalmente strutturato di relazioni governate da leggi, e che la scienza è un sapere sperimentale e matematico, valido intersoggettivamente.
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Le qualità oggettive e le qualità soggettive (Il saggiatore) IL TESTO NELL’OPERA Nell’autunno del 1618 appaiono nei cieli tre misteriose comete, che suscitano un grande interesse sia fra gli studiosi di astronomia, sia tra i profani. Nel marzo del 1619 il padre gesuita Orazio Grassi pubblica un opuscolo intitolato De tribus cometis, in cui sostiene (peraltro a ragione) che le comete sono corpi celesti orbitanti oltre la Luna. Galilei, che dal 1616 (dopo la condanna della teoria copernicana e dopo essere stato “ammonito” dal cardinale Bellarmino) si era chiuso in uno sdegnoso silenzio, risponde a questo scritto con un Discorso delle comete (pubblicato sotto il nome di Mario Guiducci, suo assistente e portavoce) in cui dichiara falsa la spiegazione di padre Grassi e suggerisce l’ipotesi che le comete siano qualcosa di apparente, come l’arcobaleno, e precisamente addensamenti di vapore terrestre depositato nell’atmosfera.
TESTI GALILEI
TESTO
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Seguendo Copernico, lo scienziato pisano è infatti riluttante a riconoscere l’esistenza di moti irregolari tra quelli circolari e uniformi dei corpi celesti. Nello stesso anno padre Grassi risponde all’opuscolo di Galilei con un altro scritto: Libra astronomica ac philosophica, nascondendosi sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi. Facendo riferimento alla costellazione della Bilancia (la “Libra” citata nel titolo dell’opera), al cui interno era stata avvistata una delle comete, padre Grassi allude alla necessità di “pesare” con giusta bilancia il contenuto del Discorso delle comete di Galilei. Quest’ultimo, accogliendo la metafora di padre Grassi, risponde a sua volta con Il Saggiatore, in cui afferma di voler utilizzare la bilancia dei saggiatori d’oro, ben più sofisticata di quella usata dal Sarsi. Questa è l’origine del Saggiatore, pubblicato nel 1623 e dedicato a Urbano VIII (Maffeo Barberini), eletto papa nello stesso anno. La dottrina galileiana dell’universo come libro scritto in lingua matematica è strettamente connessa con un’altra, altrettanto famosa e anch’essa esposta nel Saggiatore: la distinzione tra le qualità oggettive e soggettive dei corpi. Alle essenze, che secondo Aristotele si rivelavano attraverso le qualità sensibili e soggettive (colori, sapori, odori, suoni), Galilei contrappone le qualità oggettive (figura, dimensioni, luogo, tempo, numero, moto), che possono essere quantificate e quindi espresse in linguaggio matematico. Le qualità che […] io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanineriscono za corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, 2 ai corpi
ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna [alcuna] imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo [nell’organo senziente], sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità […].
4 6 8 10 12
L’esempio Io credo che con qualche essempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo del solletico una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azzione che 14
vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezzioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei. Un poco di carta o una penna, leggermente fregata sopra qualsivoglia parte del corpo nostro, fa, quanto a sé, per tutto la medesima operazione, ch’è muoversi e toccare; ma in noi, toccando tra gli occhi, il naso e sotto le narici, eccita una titillazione quasi intollerabile, ed in altra parte a pena si fa sentire. Or quella titillazione è tutta di noi, e non della penna, e rimosso il corpo animato e sensitivo, ella non è più altro che un puro nome. Ora, di simile e non maggiore essistenza credo io che possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre. […]
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UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI CApITOLO 3 Galilei
16 18 20 22 24 26 28
Il calore come E tornando al primo mio proposito in questo luogo, avendo già veduto come molte affez- 30 impressione zioni, che sono reputate qualità risedenti ne’ soggetti esterni, non ànno veramente altra soggettiva
essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi, dico che inclino assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per la nostra sostanza e sentito da noi, sia l’affezzione che noi chiamiamo caldo, grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d’essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando, sì che grata sia quella penetrazione per la quale si agevola la nostra necessaria insensibil traspirazione, molesta quella per la quale si fa troppo gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza: sì che in somma l’operazion del fuoco per la parte sua non sia altro che, movendosi, penetrare colla sua massima sottilità tutti i corpi, dissolvendogli più presto o più tardi secondo la moltitudine e velocità degl’ignicoli [atomi ignei] e la densità o rarità della materia d’essi corpi; de’ quali corpi molti ve ne sono de’ quali, nel lor disfacimento, la maggior parte trapassa in altri minimi ignei [atomi ignei], e va seguitando la risoluzione fin che incontra materie risolubili. Ma che oltre alla figura, moltitudine, moto, penetrazione e toccamento, sia nel fuoco altra qualità, e che questa sia caldo, io non lo credo altrimenti; e stimo che questo sia talmente nostro, che, rimosso il corpo animato e sensitivo, il calore non resti altro che un semplice vocabolo.
32
34 36 38 40 42 44 46 48
(Il saggiatore, a cura di F. Flora, Einaudi, Torino 1977, pp. 223-227)
Le qualità che ineriscono alle sostanze (rr. 1-12) Galilei nota che non è possibile immaginare un corpo (una sostanza corporea) separato da un certo tipo di qualità: figura, dimensioni, collocazione spazio-temporale, stato di quiete o di moto ecc. Non c’è invece alcun motivo per ritenere che a un corpo appartengano necessariamente anche un colore, un sapore, un odore ecc. Lo scienziato pisano introduce in questi termini la distinzione tra qualità oggettive e qualità soggettive: le prime sono proprietà degli oggetti, mentre le seconde sono caratteristiche accidentali, che esistono soltanto nel soggetto senziente e scompaiono in sua assenza. L’esempio del solletico (rr. 13-29) Attraverso l’esempio del solletico (che non può essere considerato una “proprietà” della mano che lo produce, più che non possa esserlo di un foglio o di una penna usata a questo
scopo) Galilei illustra in modo efficace la natura delle qualità soggettive, che non sono ascrivibili agli oggetti, ma soltanto ai soggetti che ne fanno esperienza. Il calore come impressione soggettiva (rr. 30-49) Anche il calore (il «caldo», r. 34) è una qualità soggettiva, che, una volta eliminato il soggetto senziente, si riduce a un puro nome. Galilei spiega il fenomeno del calore rifacendosi a Democrito, ovvero come il risultato del movimento di particelle piccolissime e sottilissime (atomi ignei, qui chiamati «ignicoli», o «minimi ignei», rr. 44 e 45) che, muovendosi ad altissima velocità, “pungono” e “penetrano” il nostro corpo, provocando in noi la sensazione del caldo. Questa può essere più o meno piacevole, a riprova del fatto che si tratta di un’«affezzione» (r. 36), ovvero di qualcosa che non appartiene, ad esempio, al fuoco, ma è indissolubilmente legata al soggetto e ai suoi sensi.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Democrito affermava che «opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto». Questa teoria riecheggia nel Saggiatore di Galilei. Tra il filosofo di Abdera e lo scienziato pisano si frappongono molti secoli di studi, ricerche, dottrine. Quale indirizzo ha seguito l’indagine sulla natura dopo Democrito? Perché si è interrotto il percorso iniziato da Democrito e ripreso da Galilei? Rispondi a queste domande in un testo scritto (max 35 righe).
TESTI GALILEI
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
DAL LIBRO DELLA NATURA AL DNA: GALILEI E LA SCIENZA COME DECODIFICA
Il metodo sperimentale di Galileo Galilei introduce in quella che all’epoca era chiamata “filosofia naturale” un grande cambiamento: per conoscere il mondo non è più necessario rivolgersi ai libri di Aristotele o alla Bibbia, ma si può interrogare direttamente la natura.
I due libri scritti da Dio
Da Galilei alla psicoanalisi
Nella sua polemica con l’autorità ecclesiastica, Galilei contesta l’idea che il sapere scientifico possa essere contenuto in un libro. Ciò nonostante, egli ricorre proprio alla metafora del libro per evidenziare la peculiarità della conoscenza del mondo naturale rispetto alla conoscenza delle cose sacre: se quest’ultima si acquisisce consultando il libro della Bibbia, quella si ottiene leggendo direttamente il libro della natura. Il libro della natura, però, non è facilmente comprensibile, perché è scritto da Dio in caratteri matematici:
La metafora del libro della natura ha riscosso nella storia del pensiero un grande successo. Essa è portatrice dell’idea che ci siano ambiti dell’esperienza umana che richiedono un’opera di decifrazione, o traduzione, quasi si avesse a che fare con una lingua straniera di cui è necessario imparare il lessico e la grammatica. Il libro è in questo senso immagine della decifrabilità di qualcosa, della sua intelligibilità attraverso un’operazione molto simile a quella della lettura. Nel fortunato saggio La leggibilità del mondo (1981), il filosofo tedesco Hans Blumenberg (1920-1996) ha tracciato la storia della metafora del libro nella civiltà occidentale: dall’originaria diffidenza manifestata dalla filosofia nei confronti della scrittura (condannata da Platone nel Fedro) fino alle frontiere della fisica e della chimica contemporanee. Su due dei momenti evidenziati da Blumenberg vale la pena di soffermare la nostra attenzione. Il primo di questi momenti è la psicoanalisi, la cui nascita coincide con la scoperta di un metodo per decifrare i sogni, considerati dal medico viennese Sigmund Freud (1856-1939) come «la via regia verso l’inconscio». Secondo Freud, in precedenza si era commesso l’errore di considerare i sogni come formazioni psichiche del tutto insignificanti, come stranezze incomprensibili. Egli pensava invece che fossero espressione di pensieri o contenuti psichici latenti, che, non potendo essere espressi direttamente perché socialmente o moralmente inaccettabili, venivano “mascherati”, anzi “tradotti” nella lingua figurativa del sogno.
‘
[la scienza] è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche. (G. Galilei, Il saggiatore, p. 33)
Dio ha quindi scritto due libri, ai quali corrispondono due linguaggi differenti: da una parte la Bibbia, che parla della salvezza dell’uomo («come si vadia al cielo») e che perciò usa un linguaggio umano, flessibile e mutevole, adatto alla «capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati»; dall’altra parte la natura, che ci dice com’è fatto il mondo («come vadia il cielo») e il cui linguaggio è necessariamente immutabile (perché immutabili sono le leggi naturali) e non a tutti accessibile, dal momento che richiede la preliminare conoscenza della matematica.
120
Questo rapporto diretto e immediato tra l’essere umano e il mondo fisico non tarda però a mostrarsi allo stesso Galilei come qualcosa di complesso, dal momento che richiede la capacità di decifrare i “segni” mediante i quali la natura ci “parla” e ci rivela le sue leggi.
Per meglio chiarire questa idea, Freud paragona il linguaggio onirico alla scrittura geroglifica usata nell’antico Egitto, in quanto fatta non di lettere, ma di immagini:
‘
Pensieri onirici [il significato dei sogni] e contenuto onirico manifesto [le immagini dei sogni] stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse [...]. Il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno. (S. Freud, L’interpretazione dei sogni, p. 261)
La metafora freudiana della scrittura indica quindi l’esistenza di qualcosa che non può essere assunto e compreso nella sua immediatezza, ma deve essere considerato un “segno” che rinvia a qualcos’altro.
Da Galilei alla genetica L’altro grande momento nella storia della metafora del libro ricostruita da Blumenberg è la scoperta del DNA, che oggi è stato ormai completamente “decifrato”. Fin dalle prime ricerche in questo ambito (condotte negli anni Quaranta del secolo scorso dal medico canadese Oswald Theodore Avery, 1877-1955), la funzione del DNA è stata paragonata a un’operazione di trascrizione o di copiatura di informazioni genetiche.
Gli studi successivi hanno poi continuato ad avvalorare l’idea che il DNA sia una specie di testo, scritto utilizzando pochi simboli che danno luogo a un numero altissimo di combinazioni, proprio come con le poche lettere dell’alfabeto si possono comporre innumerevoli parole, a loro volta combinate nelle frasi secondo le regole della grammatica:
‘
[con la scoperta del DNA] il procedimento dello scrivere trovò nella natura una corrispondenza precisa: rappresentare una molteplicità pressoché illimitata di variazioni di significato con un piccolo corredo di elementi. (H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, p. 378)
In questo modo l’operazione fondamentale della vita, che permette di trasferire certi caratteri dai genitori ai figli, viene intesa come un’operazione di codificazione e di decodificazione, di scrittura e di lettura di messaggi: una concezione in cui si avverte l’eco non soltanto di Galilei, ma anche degli antichi atomisti, che proprio utilizzando le lettere avevano esemplificato le combinazioni degli atomi che danno origine al mondo visibile.
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
Distinguendo il libro sacro dal libro della natura, Galilei ha creato una sorta di cesura tra due mondi, scritti non soltanto in modo diverso, ma contenenti due tipi diversi di verità. È possibile secondo te che queste due “verità” convivano senza entrare in conflitto? Come pensi che si debba procedere se invece questo conflitto si manifesta? • Discutine con i compagni e con l’insegnante, argomentando la tua posizione.
PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA in libreria • Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, a cura di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 2009 • Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it. di E. Fachinelli e H. Trettl, Bollati Boringhieri, Torino 1973 • Galileo Galilei, Il saggiatore, Feltrinelli, Milano 2008 in rete • Giuseppe Tanzella-Nitti, La metafora del libro della natura negli scritti di Galilei, http://disf.org/galileo-libro-natura
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
NEWTON E LA NASCITA DELLA FISICA CLASSICA
L’8 gennaio 1642 moriva Galileo Galilei e in quello stesso anno, la notte di Natale, nasceva Isaac Newton (1642-1727). Una coincidenza carica di significato, se si considera che sarebbe stato proprio Newton a portare a compimento la
La fisica classica
Le leggi del moto
Con l’espressione “fisica classica” si indica lo studio dei fenomeni della natura, che ai tempi di Newton – e almeno fino a metà del XVIII secolo – erano oggetto della “filosofia naturale”. La fisica classica si è sviluppata a partire dal Seicento (grazie alla messa a punto di quel metodo sperimentale che la rese di fatto una scienza autonoma rispetto alla filosofia) fino al Novecento, quando lo scienziato tedesco Albert Einstein (1879-1955) ne scardinò i princìpi fondamentali con la sua teoria della relatività. La fisica comprende diversi settori di studio, che si sono andati via via approfondendo e differenziando l’uno dall’altro; tra questi l’ottica (studio della luce), la dinamica (studio del movimento dei corpi) e l’astronomia (studio dei corpi celesti e dei loro moti) sono gli ambiti in cui Newton ha raggiunto i risultati teorici più importanti.
La fama di Newton è legata soprattutto alle leggi del moto e, ancor più, alle leggi della gravitazione, risultati che egli diffonde in quella che può essere annoverata tra le opere più grandi della scienza di tutti i tempi: i Princìpi matematici della filosofia naturale, pubblicati nel 1687. Per comprendere le leggi fondamentali del moto enunciate da Newton, note anche come “princìpi della dinamica” (dal greco dýnamis, “forza”), è bene osservare preliminarmente che Newton è il primo a introdurre il concetto di “massa” di un corpo – ossia, potremmo dire, della sua “quantità di materia”, che rimane costante – e a distinguerlo da quello di “peso”, che dipende invece da una “forza” e che varia a seconda della regione del globo terrestre in cui il corpo si trova. Chiarito ciò, possiamo enunciare le tre leggi newtoniane del moto: 1. il principio d’inerzia (noto anche come “principio di Galileo”, poiché era già stato formulato dallo scienziato pisano): un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che su di esso non si eserciti una forza che lo costringe a mutare quello stato; 2. il principio di proporzionalità (o “principio di Newton”): l’accelerazione di un corpo è direttamente proporzionale alla forza impressa su di esso, mentre è inversamente proporzionale alla sua massa (dove il termine “accelerazione” indica la variazione di velocità di un corpo in movimento). Questo principio era stato riconosciuto da Galilei, ma limitatamente alla caduta dei gravi; 3. il principio di azione e reazione: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, cioè a ogni forza esercitata da un corpo A su un corpo B corrisponde una forza esercitata da B su A di uguale intensità ma di verso opposto.
Gli studi giovanili All’ottica Newton si dedica fin dagli anni giovanili, non appena terminata la formazione universitaria. La giovane età non gli impedisce di raggiungere traguardi importanti, come la realizzazione, nel 1672, di un telescopio a riflessione che ancora oggi porta il suo nome. Egli elabora inoltre una famosa teoria corpuscolare, secondo la quale la luce è composta da piccolissimi “corpuscoli” che si propagano in linea retta e ad altissima velocità. In base a questa teoria era facile spiegare i fenomeni di riflessione (dovuta all’urto dei corpuscoli luminosi contro una superficie che li respinge) e di rifrazione (consistente invece nel passaggio dei corpuscoli attraverso una superficie che ne modifica la traiettoria). Proprio gli studi sulla rifrazione portano Newton, nel 1676, a comunicare alla Royal Society (di cui è membro) la scoperta dei diversi gradi di rifrazione dei colori (cioè di quei raggi luminosi che noi percepiamo come colorati) che compongono la luce bianca.
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rivoluzione scientifica avviata da Copernico e da Galilei, e a delineare quell’immagine dell’universo e delle sue leggi che all’uomo moderno è ormai divenuta familiare, e che costituisce il perno della cosiddetta “fisica classica”.
La legge della gravitazione universale Una leggenda diffusa dal filosofo francese Voltaire ( unità 5) vuole che Newton, osservando la caduta di una mela da un albero, si sia domandato che cosa sarebbe successo se la mela fosse caduta da un albero alto quanto la distanza della Luna dalla Terra. In realtà la scoperta di Newton nasce dal paziente perfezionamento, su base matematica, di ipotesi teoriche precedenti. Già Copernico, infatti, aveva indicato nella gravità la forza di attrazione esercitata dai corpi celesti tra loro. Ma il “colpo d’ala” dello scienziato inglese consiste nell’aver abbracciato in una sola formula sia la forza che mantiene i pianeti e i satelliti nelle loro orbite, sia quella che fa cadere una mela o una pietra sulla Terra, affermando in generale che due corpi esercitano l’uno sull’altro una forza di attrazione direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Grazie a questa legge – comunemente detta di “gravitazione universale” – Newton poté offrire una spiegazione matematica unitaria del moto dei gravi, del sistema eliocentrico delineato da Copernico e delle orbite dei pianeti descritte da Keplero ( cap. 1, p. 71), di cui anzi perfezionò le regole. Egli, infatti, chiarì che esiste attrazione non soltanto tra Sole e pianeti e tra pianeti e satelliti, ma anche tra i pianeti stessi, tanto che, ad esempio, la Terra non descrive intorno al Sole un’ellisse, ma una curva più complicata, cioè un’ellisse “perturbata” dall’azione degli altri pianeti.
Il metodo della scienza L’ideale di scienza che Newton ha in mente, e che cerca di concretizzare nelle sue ricerche, è quello di una rigorosa descrizione dei fatti naturali e delle leggi che li regolano, cioè di una scienza che non ricorra a ipotesi metafisiche, o comunque non confrontabili in qualche modo con i fatti. Questo è il significato della sua famosa affermazione: «Hypotheses non fingo», cioè, letteralmente, “non fingo ipotesi”. Su questi presupposti si può comprendere meglio il senso delle quattro regole del metodo scientifico enunciate da Newton nei Princìpi matematici:
‘
1. Bisogna ammettere solo quelle cause che sono necessarie per spiegare i fenomeni, giacché la natura non fa niente invano e farebbe cosa inutile se si servisse di un numero maggiore di cause per fare ciò che si può fare con un numero minore di cause. 2. Effetti dello stesso genere devono sempre essere attribuiti, finché è possibile, alla stessa causa.
3. Le qualità che non sono suscettibili di aumento e di diminuzione e che appartengono a tutti i corpi dei quali si può fare esperienza, devono essere considerate come appartenenti a tutti i corpi in generale. 4. Nella filosofia sperimentale, le proposizioni raggiunte mediante induzioni dai fenomeni devono essere considerate, nonostante le ipotesi contrarie, esattamente o approssimativamente vere fino al momento in cui altri fenomeni le confermino interamente o facciano vedere che sono soggette a eccezioni.
Se nella terza regola del metodo di Newton si può scorgere la base dell’induzione, cioè dell’estensione a tutti i casi possibili di una legge che è stata verificata solamente per un numero ristretto di casi, l’ultima regola rivela invece, soprattutto, lo spirito della metodologia scientifica newtoniana, in base alle quale le verità sperimentali devono essere considerate valide soltanto finché rispondono, con una certa approssimazione, ai fatti.
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
Nell’opera di Newton si scorgono i due princìpi fondamentali che stanno alla base della scienza sperimentale nata con Galileo Galilei: l’applicazione della matematica allo studio della natura e il ricorso alla sperimentazione (ovvero ai fatti) come “fonte” e “metro” delle ipotesi teoriche. In una simile prospettiva – in cui nell’universo “tutto si tiene” secondo leggi numeriche e in cui la verità delle conoscenze è misurata sulla base della realtà concreta – può sembrare difficile pensare che Newton credesse in Dio. Eppure lo scienziato inglese era convinto che proprio l’ordine perfetto del cosmo fosse una prova “tangibile” dell’esistenza di «un ente intelligente e potente» che ne è il progettista e il creatore. • Rifletti su questo aspetto del pensiero di Newton, esprimendo e argomentando la tua opinione: è possibile/coerente per uno scienziato credere in Dio? Perché?
PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA in libreria • Isaac Newton, Princìpi matematici della filosofia naturale, a cura di F. Giudice, Einaudi, Milano 2018
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VERIFICA
UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI FLASHCARD
CAPITOLO 1 La rivoluzione scientifica 1 Il pensiero scientifico considera la conoscenza come:
4 Utilizza le espressioni elencate di seguito per com-
A un sapere di tipo qualitativo
pletare la mappa riportata sotto.
B un sapere utile all’essere umano
alleanza • antiche dottrine • bisogni • civiltà moderna • indagine naturale • laicizzazione • sistema di vita
C un sapere che poggia su basi puramente razionali D un patrimonio riservato a pochi individui
5 Collega i pensatori (colonna di sinistra) con le loro
privilegiati
2 Non rientrano nelle forze ostili alla scienza moderna: A gli ingegneri, gli architetti e i medici
convinzioni sull’universo (colonna di destra). a. Tolomeo
1. l’universo è unico, chiuso, finito, fatto di sfere concentriche, geocentrico
b. Copernico
2. i pianeti girano intorno al Sole, il quale gira intorno alla Terra, che rimane al centro dell’universo
B i seguaci dell’aristotelismo C i teologi cattolici D i maghi e gli astrologi
3 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla natura per com’è intesa dalla nuova scienza, sono vere o false.
3. l’universo ospita in sé un numero illimitato di stelle-soli, centri di rispettivi mondi
c. Brahe
a. È simile a un organismo in cui ogni cosa
possiede un’anima
V
F
V
F
b. Ha un rapporto di “simpatia” o di
“antipatia” con gli esseri viventi
V
F
V
F
V
F
e. È un sistema di “essenze” che poggia su
princìpi occulti e inverificabili che regolano i fenomeni e li rendono prevedibili
(max 6 righe)
8 Esponi le premesse storiche, sociali e culturali della rivoluzione scientifica.
f. Si identifica con l’insieme delle leggi V
F
(max 6 righe)
7 Quali sono le rivoluzionarie tesi formulate da Bruno sull’universo?
d. È un ordine causale, perché in essa
nulla avviene in modo fortuito
6 Quali sono le ragioni alla base dell’ostilità della Chiesa cattolica per la scienza moderna?
c. Non possiede qualità, attributi o valori
umani
4. l’universo è sferico, unico e chiuso dal cielo delle stelle fisse, eliocentrico
d. Bruno
(max 15 righe)
9 Spiega in che cosa consiste la rivoluzione astronomica, con cui prende avvio la rivoluzione scientifica, evidenziando le teorie degli studiosi che ad essa han(max 20 righe) no maggiormente contribuito.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA
[mappa esercizio 4] risponde
si deve
ha radici
a nuovi . . . . . . . . . . . . . . . . . . sociali
all’. . . . . . . . . . . . . . . . . . fra tecnici e scienziati
nel Rinascimento
derivanti da
che costituisce
un . . . . . . . . . . . . . . . . . . più complesso e dinamico
uno dei tratti più vistosi della
che contribuisce
124
..................
alla . . . . . . . . . . . . . . . . . . del sapere
UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI VERIFICA
alla riscoperta di ..................
scientifiche
al rinnovato interesse per l’. . . . . . . . . . . . . . . . . .
CAPITOLO 2 Bacone 10 La nuova logica di Bacone:
14 Metti in ordine i vari momenti dell’iter metodologico baconiano, scrivendo il numero corrispondente nell’apposito spazio.
A si addentra senza salti e per gradi
nell’esperienza B rende possibile l’anticipazione della natura C passa in modo immediato dai casi particolari alle leggi generali D prescinde dall’esperienza perché va alla ricerca di verità universali
a. Controllo empirico dei fatti particolari
che si possono dedurre dall’ipotesi b. Catalogazione di tutti i casi che sembrano
manifestazioni dello stesso fenomeno c. Esperimento decisivo per attribuire a
un fenomeno una determinata causa
11 Gli idóla théatri individuati da Bacone dipendono:
d. Formulazione di una prima ipotesi
A dal linguaggio
intorno alla natura del fenomeno
B dalla mente dei singoli individui
e. Esclusione delle cause incompatibili
C dalle dottrine filosofiche erronee
con il fenomeno studiato
D dalla natura dell’intelletto umano
15 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
12 L’unica causa che Bacone ritiene utile per la scienza è: A quella materiale
C quella efficiente
B quella formale
D quella finale
la mappa riportata sotto. assenza • comparative • diverse • gradi • ordinata • presenza • simili • sperimentale • storia
13 Indica se le affermazioni seguenti, riferite a Bacone e al suo pensiero, sono vere o false.
16 Come viene descritta da Bacone l’isola di Bensalem, oggetto del racconto intitolato Nuova Atlantide?
a. La storia naturale rientra nelle scienze
(max 6 righe) V
F
imponendole le regole della logica umana V
F
che si fondano sulla memoria b. Si può vincere la natura soltanto
V
F
V
F
V
F
d. Per intraprendere la nuova via della
ricerca tecnico-scientifica bisogna affidarsi all’esperimento
[mappa esercizio 15]
attività PLUS «Sapere è potere»: analizza l’aforisma di Bacone alla luce del suo ambizioso progetto filo(max 20 righe) sofico e del suo nuovo metodo.
LE TAVOLE DI BACONE
servono alla
sistemazione
(max 6 righe)
smo latente e il processo latente che Bacone distin(max 6 righe) gue in ogni fenomeno naturale?
19
e. La matematica non ha alcuna funzione
efficace nella ricerca scientifica
della mente per Bacone?
18 In che cosa consistono, rispettivamente, lo schemati-
c. La fonte principale degli idóla fóri è
l’insufficienza dei sensi
17 Quali sono e da che cosa sono causati i pregiudizi
possono essere
della . . . . . . . . . . . . . . . . . .
dell’ . . . . . . . . . . . . . . . . . .
..................
raccolgono i casi in cui un fenomeno si presenta, benché in circostanze . . . . . . . . . . . . . . . . . .
raccolgono i casi in cui un fenomeno non si presenta, pur in circostanze . . . . . . . . . . . . . . . . . . a quelle in cui si presenta
raccolgono i casi in cui il fenomeno si presenta in . . . . . . . . . . . . . . . . . . diversi
. . . . . . . . . . . . . . . . . . della . . . . . . . . . . . . . . . . . . naturale
e ..................
125
CAPITOLO 3 Galilei 20 Per Galilei:
23 Completa la mappa riportata sotto, scrivendo le espressioni mancanti.
A la Bibbia deriva da Dio, mentre la natura ha
origine da sé stessa
24 Collega le giornate in cui si articola il Dialogo sopra i
B il credente deve accettare ogni affermazione
due massimi sistemi del mondo (colonna di sinistra) con gli argomenti in esse trattati (colonna di destra).
scritturale C verità scientifica e verità religiosa sono inconciliabili D l’interpretazione della Bibbia deve adattarsi alla scienza
21 Il nodo centrale del metodo galileiano è: A la verifica diretta dei princìpi scientifici
1. sono confutati gli argomenti antichi e moderni contro il moto della Terra
b. seconda
giornata
2. è esposta l’innovativa dottrina delle maree
c. terza
3. è dimostrato il moto di rotazione della Terra
giornata
B l’intreccio di matematica e fisica
d. quarta
C la deduzione teorica
giornata
D l’induzione sperimentale
22 Indica se le affermazioni seguenti, riferite a Galilei e al suo pensiero, sono vere o false. a. La verifica di una teoria può avvenire
anche tramite esperimenti mentali
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. Nella ricerca scientifica viene presa in
considerazione l’esperienza ordinaria c. Tra ciò che la scienza conosce e il mondo
fattuale esiste conformità d. L’esperienza in ambito scientifico è
sempre “carica di teoria” e. L’ordine naturale è necessario e immutabile,
come una verità geometrica f. Scopo della scienza è comprendere perché
la natura opera in un certo modo
[mappa esercizio 23]
a. prima giornata
4. è posta sotto accusa la distinzione aristotelica tra il mondo celeste e quello terrestre
25 Utilizza le espressioni elencate di seguito per completare il testo riportato sotto. comportamento probabile • con i sensi • correttezza • ipotesi • ipotetico-deduttivo • osservativo-induttivo • osservazione • ricognizione • su base matematica Per giungere alle sue scoperte Galilei ha seguito la strada della «sensata esperienza» e delle «necessarie dimostrazioni». La prima è l’esperienza condotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . e rappresenta il momento . . . . . . . . . . . . . . . . . . della scienza; le seconde sono i ragionamenti logici, condotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . , e rappresentano il momento . . . . . . . . . . . . . . . . . . della scienza. In certi casi, quindi, lo scienziato, attraverso un’attenta . . . . . . . . . . . . . . . . . . dei fatti e dei casi particolari, induce, sulla base dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . sensibile, una legge generale. In altri casi, invece, anche sulla base di
GLI STUDI SUL …………………. DEI CORPI permettono a Galilei di superare
la fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . dimostrando che
126
un corpo tende a . . . . . . . . . . . . . . . . . . il proprio stato di quiete o di moto, finché non intervengano . . . . . . . . . . . . . . . . . . a modificare tale stato
tutti i corpi, qualunque sia il loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . cadono con la stessa . . . . . . . . . . . . . . . . . .
principio d’ . . . . . . . . . . . . . . . . . .
leggi sulla caduta dei . . . . . . . . . . . . . . . . . .
UNITÀ 2 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: BACONE E GALILEI VERIFICA
pochi dati empirici, lo scienziato, semplicemente ragionando, perviene a un’. . . . . . . . . . . . . . . . . . dalla quale deduce il . . . . . . . . . . . . . . . . . . dei fatti, per verificare in seguito, empiricamente, la . . . . . . . . . . . . . . . . . . di tale ipotesi.
29 Esponi le scoperte che hanno permesso a Galilei di
26 Quali sono i due momenti fondamentali che costitui-
stotelici condotta da Galilei, facendo emergere l’i(max 20 righe) stanza di libertà in essa racchiusa.
scono il metodo galileiano?
(max 6 righe)
28 Quali sono i presupposti e le giustificazioni filosofiche del metodo galileiano?
30 Delinea la polemica contro la Chiesa e contro gli ari-
(max 6 righe)
27 Come viene concepita da Galilei la verifica in ambito scientifico?
procedere alla demolizione della cosmologia tole(max 15 righe) maica.
(max 10 righe)
VERSO LE OLIMPIADI DI FILOSOFIA A critical point of view on the power over nature attività PLUS
‘
The science we take with us will still be that which Bacon, unsuspecting of the darker consequences, was the first to conceive of as a utilitarian tool of civilization, a collective enterprise of society, institutionalized, organized, split up into subcontracted tasks, its results fit for the production of wealth and the destruction thereof, for the furtherance of life and the annihilation thereof. Bacon, and the still naiver innocents after him, failed to remember the simple Aristotelian insight […] that any science is of contraries – of the object and its opposite: if of good, then also of evil, if of building, then also of destroying, if of health, then also of disease, if of life, then also of death: from which alone it would seem to follow that only in the hands of angels would the power of science be sure to be for the good only. Even there, Lucifer comes to mind. (Hans Jonas, Philosophical Essays: from ancient creed to technological man, 1974)
Write a philosophical essay (max 15,000 characters including spaces), giving a specific title and paying attention to the following aspects: discussion, argumentation, contextualisation, actualisation.
PHASE 1 organise your thoughts Create an outline summarising your response to the topic, starting from your reaction to the quotation. Do you agree or disagree with Hans Jonas? Why? No matter what type of response you choose, you should demonstrate that you understand the topic statement thoroughly and that you can elaborate it logically, clearly, and critically.
31
attività PLUS Dopo avere ricostruito i momenti essenziali del processo a Galilei, spiega in che senso si tratti ancora oggi di un “caso” chiuso e aperto nello (max 20 righe) stesso tempo.
COMPETENZE Utilizzare la lingua inglese in modo appropriato ed efficace allo scopo di comunicare | Elaborare le informazioni | Sviluppare la riflessione personale e il giudizio critico | Argomentare una tesi
PHASE 2 structure your essay Sketch out your position, your analysis of the topic statement, arguments for and against, and your conclusion. Here is an example of an essay structure: 1. introduction (draft your position in response to the topic); 2. analysis (summarise your assessment of the main points of the topic); 3. arguments (explain the main arguments in support of your position); 4. counter-arguments (note briefly at least one possible major response to your argument); 5. summary (outline your position in response to the topic). PHASE 3 write your essay Your introduction should contain your analysis of the topic and indicate the basic structure of your essay. In this paragraph you do not need to clarify your position (you will do it later) but, rather, the essence of your thesis that you will defend throughout your essay. Your argument is the most critical part. It is not sufficient to state your opinion: you must provide your reasons for agreeing or disagreeing. Answer questions such as: “What assumptions is the author making?”, “What is the intent of the author?”, “What implications does the statement have?”, “Is the topic statement based on unjustified or weak assumptions?”… Remember to anticipate possible objections to your arguments. Finally, restate your thesis in the conclusion and summarise your arguments in concise terms, emphasising the ones you feel support your thesis most strongly.
127
L’OFFICINA DELL’ESAME VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA B
ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO 1 La scienza e le sue “rivoluzioni” Thomas S. Kuhn (1922-1996), storico della scienza statunitense, nell’opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) ha studiato il processo di formazione delle nuove teorie scientifiche. Esse rappresentano una soluzione delle proble-
matiche che la comunità scientifica non è in grado di spiegare attraverso i modelli teorici e le pratiche sperimentali usualmente adottati. È così che il sistema copernicano ha potuto sostituirsi al modello aristotelico-tolemaico.
‘
Si è spesso ripetuto che se la scienza greca fosse stata meno deduttiva e meno dominata da dogmi, l’astronomia eliocentrica avrebbe potuto cominciare a svilupparsi diciotto secoli prima. Ma un’affermazione del genere trascura tutto il contesto storico. Quando Aristarco [matematico, fisico e astronomo greco (310 a.C. ca. - 250 a.C.), che sostenne per primo la tesi eliocentrica] propose la sua ipotesi il sistema geocentrico, molto più ragionevole, non presentava nessuna difficoltà che potesse venire eliminata da un sistema eliocentrico e una cosa del genere non poteva nemmeno venire in mente. L’intero sviluppo dell’astronomia tolemaica, dai suoi successi fino al suo fallimento, si estende per numerosi secoli che hanno seguito la proposta di Aristarco. Del resto, non v’erano ragioni evidenti per prendere Aristarco sul serio. Persino il modello più elaborato, proposto da Copernico, non era né più semplice né più accurato del sistema di Tolomeo. I dati ricavati dalle osservazioni […] non fornivano nessuna base per scegliere una delle due soluzioni. In tali circostanze, uno dei fattori che indusse gli astronomi ad accettare la teoria di Copernico (e che non poté invece agire in favore di Aristarco) fu l’esistenza di una crisi riconosciuta, la quale aveva svolto una funzione di primo piano nel determinare l’innovazione. L’astronomia tolemaica non era riuscita a risolvere i suoi problemi; era venuto il tempo di offrire ad un competitore l’opportunità di affermarsi. […] I filosofi della scienza hanno ripetutamente dimostrato che, ad un insieme di dati, è sempre possibile sovrapporre più di un’osservazione teorica. La storia della scienza mostra che, particolarmente nelle prime fasi di sviluppo di un nuovo paradigma1 , non è neppure molto difficile inventare alternative del genere. […] Fin tanto che gli strumenti forniti dal paradigma continuano a dimostrarsi capaci di risolvere i problemi che questo definisce, la scienza si muove molto velocemente e penetra assai profondamente usando con fiducia quegli strumenti. La ragione è evidente. Come nel processo di fabbricazione così anche nella scienza il cambiamento di strumenti è una stravaganza che va riservata per l’occasione che lo richiede. Il significato delle crisi sta nell’indicazione, da esse fornita, che l’occasione per cambiare strumenti è arrivata. (T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. di A. Carugo, Einaudi, Torino 2009, pp. 100-102)
1. “Paradigma” indica per Kuhn l’insieme delle teorie, dei modelli di ricerca e delle procedure sperimentali adottate dalla comunità scientifica in un certo periodo storico.
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SEZIONE 1 IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
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COMPRENSIONE E ANALISI
SUGGERIMENTI OPER ATIVI
1. Perché il sistema geocentrico è definito «molto più ragionevole» (rr. 5-6)?
Rifletti a proposito della corrispondenza tra il sistema aristotelico e l’esperienza quotidiana, ovvero l’osservazione immediata.
2. Spiega in che cosa consiste il vantaggio che «indusse gli astronomi ad accettare la teoria di Copernico» (r. 13) a differenza di quella di Aristarco.
Sia Aristarco sia Copernico hanno elaborato una teoria di tipo eliocentrico; rifletti sul contesto in cui è vissuto Copernico e chiediti perché era disposto a individuare un’alternativa al sistema geocentrico.
3. Che cosa significa che «ad un insieme di dati, è L’autore del brano vuole fare riflettere sulla possibilità che sempre possibile sovrapporre più di un’osserva- diverse descrizioni teoriche siano compatibili con gli stessi zione teorica» (rr. 18-19)? dati osservativi. 4. Che cosa suggerisce l’impiego del termine «strumenti» (rr. 21 e ss.) a proposito del modo di procedere della scienza?
L’autore usa questo termine per descrivere il ruolo delle teorie scientifiche nell’ambito dell’indagine scientifica.
PRODUZIONE
SUGGERIMENTI OPER ATIVI
A uno sguardo ingenuo, la scienza appare come un insieme di dottrine certe, incontrovertibili e immutabili, capaci di fornire una volta per tutte la descrizione accurata dell’universo. Che cosa può provocare nelle persone e nel loro modo di intendere il mondo una “rivoluzione” come quella dell’eliocentrismo? Quali conseguenze comporta, a tuo avviso, la scoperta che anche il sapere scientifico è soggetto al divenire storico, e che quindi le sue acquisizioni possono essere superate?
Rifletti sullo straordinario cambiamento avvenuto con l’introduzione del paradigma copernicano: la scienza aristotelica, considerata da secoli un sistema immutabile, è stata sostituita da una nuova visione del mondo. Chiediti come possiamo considerare il sapere scientifico: può la scienza raggiungere una volta per tutte la comprensione autentica della realtà o siamo condannati a una sorta di relativismo? Interrogati dunque sulle ripercussioni per le persone: può essere un evento liberante, stimolante, oppure un fattore di angoscia e di smarrimento?
SNODI PLURIDISCIPLINARI
VERSO IL COLLOQUIO 2 La matematica come linguaggio nel quale è scritto l’universo Leggi il percorso delineato di seguito, che attraversa e mette in connessione alcune discipline, e prova a svilupparlo rispondendo in forma orale agli spunti ed ai quesiti proposti. Cerca di evitare collegamenti deboli o discutibili. Individua – se possibile – una questione specifica a partire dalla quale mettere a confronto le diverse discipline: ti sarà più facile elaborare un itinerario coerente.
PARTIAMO DA UNA CITAZIONE
‘
La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. (Galileo Galilei, Il Saggiatore, cap. 6)
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FILOSOFIA Nel 1618 gli astronomi osservarono l’apparizione e la successiva scomparsa di tre comete. Il fenomeno era noto fin dall’antichità, ma la sua natura era oggetto di accese controversie. Galilei, vivace polemista, si inserì nella disputa e nel 1623 pubblicò Il Saggiatore. La spiegazione galileiana si è rivelata errata, ma l’opera esprime la rivoluzionaria consapevolezza metodologica dell’astronomo pisano. • Anche l’aristotelismo padovano tentò di indagare la natura in modo razionale e sistematico, ma elaborò una fisica ancora caratterizzata da una visione qualitativa della realtà, in cui il ricorso al linguaggio matematico trovava poco spazio. Viceversa, il neoplatonismo rinascimentale, spesso contaminato con elementi pitagorici, assegnò ai numeri e alle figure geometriche una funzione decisiva nella spiegazione del cosmo. Sviluppa il confronto tra il metodo di Galileo e le diverse prospettive sulla natura elaborate tra XV e XVII secolo, mettendo in luce analogie e differenze. STORIA DELL’ARTE Il pittore toscano Piero della Francesca (1415/14201492) indagò la struttura armonica e razionale del cosmo, nel quale, come scrisse il suo conterraneo fra Luca Pacioli, «tutto ciò che per lo universo inferiore e superiore si squaterna, quello de necessità al numero, peso e mensura fia soctoposto» (De divina proportione). A Firenze Piero assimilò il nuovo metodo prospettico, grazie al quale poté restituire uno spazio dipinto rigorosamente ordinato; a Urbino entrò in contatto con Federico da Montefeltro, particolarmente attento agli studi matematici e all’armonia numerico-geometrica che governa il cosmo visibile. • Osserva il Battesimo di Cristo (1440-1445) soffermandoti sullo schema della composizione, sulla rappresentazione del corpo umano, sul paesaggio (colline, alberi, fiume). Quali elementi suggeriscono l’interpretazione della realtà visibile come un cosmo razionale e geometricamente ordinato? Metti a confronto Galilei e Piero della Francesca, tenendo presente che vissero in epoche e contesti culturali differenti e che si dedicarono ad attività diverse: quali punti di contatto è possibile individuare? FISIC A Galilei si occupò prevalentemente di studiare il moto dei gravi e dei corpi celesti. La fisica classica applicò via via a tutti i campi d’indagine il metodo dello scienziato pisano e condivise la sua fiducia nella possibilità di esprimere matematicamente le leggi della natura. • Pensa ad esempio allo studio dei fenomeni termici: sulla scorta della distinzione galileiana tra qua-
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SEZIONE 1 IL QUATTROCENTO E IL CINQUECENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
lità primarie e secondarie, la temperatura e il calore vengono definiti prescindendo dalla percezione soggettiva corrispondente. Nel Sistema Internazionale quali sono le unità di misura della temperatura e del calore, e su che cosa si basano? Rispondi provando a mettere in luce la correttezza dell’affermazione del Saggiatore circa la «lingua matematica» dell’universo.
MATEMATIC A La matematica, a differenza della fisica che si occupa della realtà empirica, ha per oggetto entità astratte. Storicamente lo studio di questa disciplina è avvenuto anche indipendentemente dalle sue eventuali applicazioni pratiche, salvo scoprire – talvolta a secoli di distanza – una sorprendente convergenza con i fenomeni fisici. • Rifletti sulle funzioni goniometriche. A prima vista, la nostra esperienza quotidiana non ha nulla a che vedere con calcoli che presuppongono un grado di astrazione così elevato, tuttavia molti fenomeni ondulatori sono descritti da funzioni sinusoidali. Aiutandoti con il manuale di Fisica e con Internet, trova qualche esempio di applicazione fisica delle formule goniometriche (puoi cercare informazioni sulle interferenze). Prova poi a collocare le affermazioni di Galilei nel loro contesto storico: quando venne dato alle stampe il Saggiatore, la comunità scientifica aveva una conoscenza esauriente della «lingua» e dei «caratteri» nei quali è «scritto» l’universo? A tuo avviso, a che punto siamo giunti oggi? SCIENZE NATUR ALI Grazie all’applicazione del metodo scientifico, la chimica cominciò a emanciparsi dal suo passato alchemico a partire dal XVII secolo. Si tratta di un campo d’indagine estraneo agli interessi di Galilei, eppure anche in questo caso può trovare riscontro la sua affermazione circa la «lingua matematica» nella quale è «scritto» l’universo. Un esempio particolarmente significativo è la geometria molecolare. • Sviluppa l’intuizione galileiana ricostruendo il modo in cui si è giunti alla teoria vsepr (acronimo dall’inglese Valence Shell Electron Pair Repulsion, cioè “repulsione delle coppie elettroniche nel guscio di valenza”). • Rifletti sull’intero percorso svolto. Sebbene in modo differente, il platonismo rinascimentale, Piero della Francesca e Galilei aprono uno spiraglio sulle cause prime della struttura geometrica del cosmo: ritieni che una prospettiva filosofica che si interroga sul fondamento dell’ordine matematico della realtà empirica sia compatibile con la scienza moderna?
TRA SEICENTO E SETTECENTO Il razionalismo e l’empirismo
T
ra la Guerra dei trent’anni (1618-1648) e la Guerra dei sette anni (1756-1763) l’assetto geopolitico europeo cambia radicalmente. Colpita nel Seicento da una grave crisi demografica, l’area del Mediterraneo assiste al graduale tramonto della potenza spagnola e allo spostamento del baricentro economico verso l’Atlantico, dove prosperano i commerci inter-continentali francesi, olandesi e, soprattutto, inglesi. Dal punto di vista politico si afferma lo Stato moderno, incarnato in Francia dalla monarchia assoluta di Luigi XVI e in Inghilterra dalla monarchia costituzionale e parlamentare conquistata con le rivoluzioni liberali del 1642 e del 1688. Il differente contesto geopolitico sembra riflettersi nel pensiero filosofico: mentre nel continente, con Cartesio, prende avvio un filone razionalistico, in Inghilterra si afferma un orientamento empiristico inaugurato da Locke.
L’OGGETTO la calcolatrice di Leibniz
La macchina calcolatrice inventata da Leibniz fra il 1672 e il 1673, conservata a Dresda nel Technische Sammlungen Museum.
Quali simboli del nuovo spirito razionalistico del XVII secolo possono essere indicate due macchine calcolatrici: quella inventata da Pascal intorno al 1642 (la cosiddetta “pascalina”), che poteva addizionare e sottrarre numeri fino a dodici cifre, e quella presentata da Leibniz alla Royal Society di Londra nel 1673 (lo Stepped Reckoner, o “calcolatore a scatti”), che poteva effettuare le quattro operazioni e l’estrazione di radice. Se prima di Galilei gli strumenti del sapere erano i libri, “scrigni” della tradizione e dell’autorità, ora ci si affida alla ragione umana e ai meccanismi che essa è in grado di costruire per indagare la natura e misurarne proprietà e fenomeni. Le invenzioni di Pascal e di Leibniz simboleggiano anche la fiducia dei moderni nel metodo matematico, nonché la convinzione che ragionare e calcolare siano atti equivalenti, perché il ragionamento combina concetti come il calcolo combina numeri.
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L’INGRESSO NELLA MODERNITÀ LA CENTRALITÀ DEL SOGGETTO PENSANTE
Io sono, io esisto: questo è certo. (Cartesio, Meditazioni metafisiche, II, 2)
Un secolo oscuro e insieme luminoso Rispetto al Cinquecento – contraddistinto da una florida situazione economica e da una crescita demografica – il Seicento si presenta come un secolo attraversato da una profonda crisi produttiva, da epidemie e da guerre, che determinano una diminuzione e un impoverimento della popolazione. La Guerra dei trent’anni (1618-1648) acuisce la divisione del continente europeo in aree cattoliche e protestanti, generando un clima di tensione. La cupa atmosfera di intolleranza religiosa e di oscurantismo che si respira in Europa in questo periodo dà luogo a violente forme di repressione: migliaia di persone vengono accusate di eresia e stregoneria, e condannate a morte. Sebbene, in riferimento alle guerre e alla violenza che lo caratterizzano, il Seicento sia stato definito il «secolo di ferro» (Henry Kamen), esso rimane pur sempre il secolo della rivoluzione scientifica e della faticosa conquista della libertà religiosa. Per alcuni studiosi è addirittura il «secolo d’oro» della cultura, durante il quale si assiste a un eccezionale sviluppo della scienza e della filosofia, ma anche della letteratura e dell’arte. Per ricordare soltanto alcuni esempi: a Roma nel 1610 scompare il grande pittore Michelangelo Merisi, detto “Caravaggio”, e di lì a poco sorgeranno straordinari monumenti in stile barocco grazie all’opera di architetti come Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini; in Inghilterra vive il genio del teatro William Shakespeare (attivo già da fine Cinquecento); in Olanda nascono importanti artisti, tra cui i pittori Rembrandt e Jan Vermeer; quanto alla Spagna, nonostante la sua profonda crisi politica, nei primi decenni del Seicento vi operano grandi pittori, come “El Greco” (Domínikos Theotokópulos), Francisco de Zurbarán e Diego Velázquez, e lo scrittore Miguel de Cervantes.
Una rinnovata fiducia nella ragione Certamente il Seicento, e poi il Settecento, sono secoli “d’oro” per la filosofia, sulla cui scena compaiono veri e propri giganti del pensiero: da Cartesio a Spinoza e a Leibniz, da Hobbes a Locke e a Hume. Pur appartenendo a scuole e orientamenti diversi, questi pensatori sviluppano le intuizioni fondamentali dell’Umanesimo – la centralità dell’uomo e l’autonomia della ragione – e giungono a consolidare una convinzione che si rivelerà decisiva nella storia del pensiero, cioè l’idea che il soggetto umano sia l’unico fondamento del sapere e, di conseguenza, che la ragione sia l’unica autorità su cui è possibile costruire una conoscenza salda. Il rapporto della modernità con l’Umanesimo, tuttavia, è duplice. Gli umanisti, infatti, avevano attinto al mondo antico come a un modello esemplare; la cultura seicentesca, al contrario, si proclama “moderna” proprio per un senso di superiorità nei confronti dell’“antico” e degli “antichi”.
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TRA SEICENTO E SETTECENTO Il razIonalIsmo e l’empIrIsmo
Molti filosofi dell’epoca ricercano la forza sovversiva del novum: un nuovo metodo, un nuovo sapere fondato non sulla sterile logica aristotelica o sull’esperienza sensibile immediata, ma sul rigore della matematica e sulla costruzione di esperimenti capaci di “interrogare” la natura in maniera efficace. L’opposizione tra antichi e moderni finisce così per coincidere con l’antitesi fra autorità e ragione. Il primo ad affrancare la ragione dall’autorità – sia quella aristotelica sia quella religiosa della Chiesa cattolica – è Galileo Galilei, il quale (come abbiamo visto nell’unità 2) riconduce la conoscenza umana a due sole fonti: la ragione che osserva (le «sensate esperienze») e la ragione che dimostra (le «necessarie dimostrazioni»). Questa rivoluzione intellettuale sancisce l’ingresso nella “modernità”, ed è punto di partenza e base imprescindibile per l’intera riflessione seicentesca, in entrambe le direzioni in cui essa si svilupperà: il razionalismo fondato da Cartesio e l’empirismo fondato da Locke.
Dall’ontologia alla gnoseologia Oltre al richiamo a Galilei e alla forza della ragione, c’è un altro elemento che accomuna tutti i protagonisti di questa stagione filosofica: il posto centrale attribuito all’indagine sull’origine, sulla natura e sui limiti della conoscenza. Cartesio è impegnato nella fondazione di un nuovo metodo del sapere; Locke si propone di studiare l’intelletto umano, cioè gli strumenti mediante i quali l’uomo conosce il mondo esterno. In entrambi i casi si tratta di un passaggio dalla prospettiva prevalentemente ontologica del pensiero antico e medievale a una prospettiva prevalentemente gnoseologica: l’interesse centrale dei filosofi che operano tra il XVII e il XVIII secolo non è la realtà in sé, ma il modo di percepirla e organizzarla da parte della mente umana.
Dal realismo al soggettivismo Il primato della gnoseologia sull’ontologia si accompagna necessariamente a un’altra presa di distanza rispetto al pensiero antico e medievale. Quest’ultimo, infatti, considerava l’oggetto da conoscere come qualcosa di “dato”, come un presupposto indipendente dal soggetto conoscente. L’oggetto era, in senso letterale, ob-iectum, “ciò che sta di fronte” alla coscienza, la quale, per conseguire la verità, doveva semplicemente conformarsi a esso. Emblema di tale concezione è Tommaso d’Aquino (1225-1274), per il quale la verità era «adeguamento di cosa e intelletto» (adequatio rei et intellectus), e il principio indiscutibile da cui prende avvio il processo conoscitivo poteva essere formulato così: «c’è qualcosa» (aliquid est), cioè il mondo è lì, si offre ai nostri sensi e alle nostre menti. Questa prospettiva realistica – secondo cui il mondo è un insieme di oggetti che esistono indipendentemente dal fatto che qualcuno li percepisca – per il pensiero moderno non è così scontata. A partire da Cartesio, i filosofi moderni considerano problematico l’incontro conoscitivo tra l’uomo e le cose, e per nulla evidente l’esistenza della realtà esterna. Il principio della conoscenza si sposta dunque da fuori a dentro la coscienza: il mondo non è semplicemente “dato”, ma sussiste in quanto è “pensato”, incluso nell’attività della mente, e il principio indiscutibile da cui prendere le mosse non è più «c’è qualcosa», ma (secondo la celebre formula cartesiana) «io penso» (cogito). Al centro della riflessione moderna si colloca così il soggetto quale fondamento ultimo del sapere: non “poiché il mondo esiste, allora io posso pensarlo e conoscerlo”, ma “poiché io posso pensare e conoscere il mondo, allora esso esiste”.
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Tra ragione ed esperienza Dopo aver richiamato l’attenzione sul soggetto quale “centro” della conoscenza, il pensiero moderno si divide riguardo al modo di intendere il processo conoscitivo. I razionalisti (Cartesio, Spinoza e Leibniz) pongono l’accento sull’attività della ragione, che, a partire da un proprio patrimonio di idee innate, costruisce deduttivamente un sapere universale e necessario. Gli empiristi (Locke, Berkeley e Hume) affermano invece il primato dell’esperienza, quale mezzo attraverso cui la ragione riceve dall’esterno le “impressioni” sensibili delle cose, formandosi così un bagaglio di idee che può combinare tra loro per costruirsi un’immagine della natura. Le due correnti del pensiero moderno ereditano insomma le due possibili soluzioni al problema dell’origine della conoscenza dalla tradizione classica: l’innatismo platonico e l’empirismo aristotelico.
Dal soggettivismo allo scetticismo Ma se tutto ciò di cui possiamo essere certi sono le nostre idee (come ritengono sia Cartesio sia Locke), allora il mondo reale risulta inconoscibile, o conoscibile soltanto attraverso il medium dell’idea. Il soggettivismo moderno contiene quindi in sé il rischio di un esito scettico. Il razionalista Cartesio è il primo a mettere in dubbio la corrispondenza tra le nostre rappresentazioni mentali e una presunta realtà esterna; ma anche l’empirista Locke spezza il legame tra il piano del conoscere e quello dell’essere, affermando che l’esperienza fornisce il “materiale” della conoscenza ma non è in sé stessa conoscenza (la quale infatti concerne «la percezione della concordanza o della discordanza tra le idee»). Sviluppando la prospettiva di Locke Hume perverrà infine a uno scetticismo gnoseologico radicale, negando ogni possibilità di mettere in relazione le nostre rappresentazioni mentali con un presunto mondo reale e oggettivo. Dopo aver richiamato l’attenzione sul soggetto e aver messo in secondo piano la realtà dell’oggetto, la filosofia moderna si ritroverà così a cercare con fatica di uscire dall’orizzonte chiuso della coscienza soggettiva.
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA Stoccolma
Hume
Edimburgo
Dysert
Berkeley
Oxford HOBBES
Londra
LOCKE
SPINOZA Amsterdam
Hannover
Berlino
Lipsia
Leibniz Parigi La Flèche Vienna
La Haye CARTESIO Clermont
Pascal
134
TRA SEICENTO E SETTECENTO Il razIonalIsmo e l’empIrIsmo
Ginevra
UNO SGUARDO ALLA SEZIONE TRA SEICENTO E SETTECENTO – Il RAzIONAlISmO E l’EmpIRISmO UNITÀ 3
IL RAZIONALISMO E I SUOI INTERPRETI Con la sua ricerca di un metodo razionale per giungere a un sapere certo, Cartesio segna ufficialmente il passaggio dalla filosofia medievale a quella moderna, e sancisce la nuova centralità del soggetto quale fondamento della conoscenza. I limiti della ragione cartesiana vengono invece messi in luce da Pascal, il quale osserva come essa non sia sufficiente per svelare il senso profondo della vita umana. Sulla scia di Cartesio si pongono gli autori di due grandi sistemi metafisici, entrambi ottenuti rielaborando la nozione cartesiana di “sostanza”: Spinoza, che ammette un’unica Sostanza e
la identifica con Dio e con la Natura; e Leibniz, per il quale invece le sostanze sono infinite.
mente umana a partire dall’esperienza. Locke prende le distanze da Hobbes anche in ambito politico, concependo lo Stato non come l’incarnazione di un potere assoluto e insindacabile, ma come l’organismo preposto alla difesa delle libertà fondamentali dell’individuo.
UNITÀ 4
IL PENSIERO INGLESE TRA RAGIONE ED ESPERIENZA: DA HOBBES A HUME In Inghilterra, l’importanza e l’autonomia attribuite da Cartesio alla ragione portano Hobbes a ricondurre l’intera realtà a materia in movimento, secondo una prospettiva deterministica e meccanicistica che impronta anche la sua riflessione politica.
L’empirismo di Locke giunge a un esito scettico e relativistico con Berkeley (per il quale non si può affermare con certezza l’esistenza di un mondo al di fuori della mente che lo pensa) e soprattutto con Hume, che mette in dubbio non soltanto l’esistenza di una realtà esterna, ma anche la nozione di “soggetto”, inteso come entità sostanziale capace di fondare la conoscenza in modo stabile.
Dall’indagine hobbesiana si discosta parzialmente Locke, impegnato a descrivere non tanto la realtà, quanto il modo in cui essa è conosciuta dalla
VIDEO Razionalismo ed empirismo tra Seicento e Settecento
HOBBES
(1588-1679)
Gassendi
(1592-1655)
CARTESIO
(1596-1650)
Arnauld
(1612-1694)
Pascal
(1623-1662)
Geulincx
(1624-1669)
SPINOZA
(1632-1677)
LOCKE
(1632-1704)
Malebranche
(1638-1715)
Newton
(1642-1727)
Leibniz
(1646-1716) Berkeley
(1685-1753) Hume
1550
1600
1650
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(1711-1776)
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3 UNITÀ
IL RAZIONALISMO E I SUOI INTERPRETI
L’unità presenta, da una parte, il pensiero di Cartesio, Spinoza e Leibniz, ovvero dei principali protagonisti del razionalismo moderno, e, dall’altra, la riflessione di Pascal, che, accanto alle possibilità conoscitive della ragione, ne evidenzia i limiti.
CAPITOLO 1 Cartesio IL RACCONTO DI UNA VITA
Muovendo dall’idea che alla conoscenza filosofica spetti il compito di orientare l’azione umana, Cartesio cerca un metodo capace di garantire il raggiungimento di un sapere certo, e lo individua nel rigore della ragione matematica. Quanto alla visione del mondo, egli concepisce la realtà secondo uno schema dualistico, ovvero costituita, da un lato, dalla «sostanza pensante», incorporea, consapevole e libera, e, dall’altro, dalla «sostanza estesa», corporea, inconsapevole e meccanicamente determinata.
CAPITOLO 2 Pascal
Pur ammettendo la validità del razionalismo e del rigore matematico in ambito scientifico, Pascal osserva come la ragione sia incapace di comprendere il senso profondo della vita umana, che soltanto il «cuore» e la fede possono svelare.
CAPITOLO 3 Spinoza IL RACCONTO DI UNA VITA
Sulla ragione cartesiana l’olandese Spinoza edifica un vero e proprio sistema metafisico, basato sull’idea che esista un’unica sostanza infinita, da intendere panteisticamente come Dio, ovvero come la natura stessa.
CAPITOLO 4 Leibniz
Per Leibniz esiste un numero infinito di sostanze individuali, le «monadi», che il filosofo pone a fondamento di un complesso sistema metafisico e di una teoria secondo cui la materia è infinitamente divisibile.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi Cartesio - L’io quale fondamento del conoscere e sintetizzane il contenuto in una scaletta di punti chiave, annotando eventuali dubbi e spunti di riflessione.
IN CLASSE VIDEOLEZIONE Cartesio L’io quale fondamento del conoscere
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Sotto la guida dell’insegnante dividete la classe in piccoli gruppi e, all’interno di ciascuno di essi, confrontate il lavoro svolto a casa, discutendo dei temi di riflessione individuati singolarmente.
Rispondete quindi per scritto alle seguenti domande: - in che senso i filosofi del Seicento cercano un nuovo “principio” rispetto ai pensatori precedenti? - quali erano le verità indiscutibili della filosofia scolastica e rinascimentale? e con quali argomenti vengono confutate da Cartesio? - a quale nuovo e saldissimo principio perviene Cartesio?
CAPITOLO 1 CARTESIO
Dopo aver passato alcuni anni a studiare nel libro del mondo e a cercare di acquistare qualche esperienza, decisi un giorno di studiare anche in me stesso. (R. Descartes, Discorso sul metodo, parte I)
La personalità filosofica di René Descartes, comunemente noto come Cartesio, segna un momento decisivo nel passaggio dal pensiero rinascimentale a quello moderno. I temi fondamentali della filosofia del Rinascimento – cioè la soggettività umana e il suo rapporto con la realtà – diventano nella riflessione cartesiana i termini di un nuovo problema, in cui sono coinvolti da una parte l’essere umano come soggetto, e dall’altra il mondo come oggetto di conoscenza e di azione. Ma Cartesio è soprattutto il fondatore del razionalismo, ossia di una corrente teorica che vede nella ragione il principale organo di verità, nonché lo strumento per elaborare una nuova visione complessiva del mondo.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
La ricerca di una «scienza meravigliosa»
‘
[Con Cartesio] possiamo dire d’essere a casa e, come il marinaio dopo un lungo errare, possiamo infine gridare «Terra!». (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia)
Il padre del pensiero moderno
Con le parole riportate nel riquadro a fianco, nella prima metà dell’Ottocento il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) celebra in Cartesio il pensatore con cui la filosofia occidentale, «dopo un lungo errare», può gridare «Terra!». L’immagine hegeliana del marinaio che finalmente rientra «a casa» ne richiama un’altra: quella della vedetta sulla caravella di Cristoforo Colombo, che nel 1492 aveva salutato con il medesimo grido – «Terra!» – le coste del Nuovo mondo. Come lo sbarco di Colombo in America scandisce l’inizio dell’epoca storica della modernità, così la riflessione cartesiana scandisce l’ingresso nel pensiero moderno: «Cartesio – dice Hegel – segna un nuovo inizio in tutti i campi. Il pensare, il filosofare, il pensiero e la cultura moderna della ragione cominciano con lui» (Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 468). Più precisamente, la filosofia moderna si può convenzionalmente far iniziare l’8 giugno 1637, data della pubblicazione del Discorso sul metodo. In quest’opera, infatti, Cartesio annuncia la scoperta di un nuovo “continente” del sapere, raggiunto grazie alla scelta di mettere l’essere umano al centro del mondo. Quella di Cartesio è quindi una rivoluzione del pensiero che segue di circa un secolo la rivoluzione astronomica di Copernico, e che non è possibile comprendere fino in fondo senza conoscere la vicenda biografica del suo artefice. Del resto il Discorso sul metodo ha la forma di un racconto autobiografico, che non contiene l’esposizione sistematica di una verità ritenuta oggettiva, ma la storia dei pensieri dell’autore. Attraverso il ricordo della propria vicenda personale, Cartesio svela al lettore in che modo, dopo aver demolito il sapere acquisito negli anni della sua formazione, intuisce il possibile fondamento di una nuova scienza, e ne costruisce pazientemente l’edificio. È dunque al Discorso sul metodo – autentico “manifesto” della modernità – che occorre guardare, non soltanto per ripercorrere una parte fondamentale della vita di Cartesio, ma anche per cogliere il senso profondo della sua filosofia.
I primi studi e la delusione per la cultura del tempo
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di CARTESIO
René Descartes (il nome italiano “Cartesio” è la traduzione di Cartesius, con cui il filosofo firmerà le opere che pubblicherà in latino) nasce il 31 marzo 1596 a La Haye, nell’antica provincia francese della Touraine. Figlio di un consigliere del Parlamento di Bretagna, appartenente alla piccola nobiltà locale, viene educato nel collegio dei gesuiti di La Flèche – «una delle più celebri scuole d’Europa», come ricorda enciclosofia La Flèche Comune francese situato nell’odierna regione dei Paesi della Loira, nella Francia nord-occidentale. Qui nel XVI secolo fu costruito un castello che il re Enrico IV donò ai gesuiti, perché vi istituissero una scuola (il “Collegio Reale Enrico il Grande”) dove selezionare e formare le migliori menti del tempo.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI iL RACCOntO Di UnA VitA
L’ingresso del collegio di La Flèche, dall’epoca napoleonica Prytanée national militaire.
egli stesso –, dove studia per circa nove anni. Il curriculum scolastico gesuitico prevedeva sei anni di «umanità» (greco, latino, grammatica e retorica), quindi tre anni di filosofia (che includeva logica, matematica, filosofia naturale, metafisica e morale), terminati i quali Cartesio si iscrive all’Università di Poitiers, dove nel 1616 consegue la licenza in diritto. Terminati gli studi, Cartesio riconosce la serietà delle scuole frequentate e il valore degli insegnanti incontrati, ma nello stesso tempo prova una forte delusione per la formazione ricevuta, tanto da maturare il desiderio di un nuovo sapere, radicalmente diverso da quello tradizionale ( “Dalla vita al pensiero”). Pur avendo imparato a orientarsi nella lettura dei libri della tradizione, gli pare infatti di non avere acquisito gli strumenti necessari per orientarsi nel ben più complicato «libro del mondo». Dopo tanto studio, ha socraticamente attinto una sola certezza, quella di non sapere:
‘
Mi trovai intricato in tanti dubbi ed errori, che mi sembrava di avere tratto nel tentativo di istruirmi un unico utile: la crescente scoperta della mia ignoranza. (R. Descartes, Discorso sul metodo, a cura di I. Cubeddu, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 9)
DALLA VITA AL PENSIERO
Il desiderio di una nuova scienza
Del collegio di La Flèche e dei suoi docenti Cartesio parlerà sempre con tono di affetto nostalgico e gratitudine, sentendosi in obbligo di «rendere questo onore ai miei maestri: dire che non c’è luogo al mondo in cui io giudichi che la filosofia s’insegni meglio che a La Flèche» (Lettera a De Beaune, 12 settembre 1638, in R. Descartes, Tutte le lettere. 1619-1650, a cura di G. Belgioso, Bompiani, Milano 2009, p. 190). Ciò che lo lascia perplesso non è dunque la scuola frequentata, ma la natura del sapere e le modalità di insegnamento dell’epoca, entrambi incentrati su un’improduttiva acquisizione di nozioni e sull’ossequio all’autorità e alla tradizione.
I limiti dello studio tradizionale Parlando dei suoi primi sei anni di studio, dedicati sostanzialmente alla grammatica e alla retorica, Cartesio li ridurrà sarcasticamente a tre parole: «lingue», «favole» e «storia», tutte cose utili per conoscere il passato e maturare ammirazione per i classici, ma poco efficaci per vivere nel presente, discernendo il vero dal falso o il bene dal male. E anche i successivi tre anni di formazione propriamente filosofica – divisa tra logica, matematica, filosofia naturale (cioè l’odierna fisica), metafisica e morale, secondo la Ratio studiorum dei gesuiti – gli appaiono deludenti, in quanto impiegati ad approfondire discipline libresche e vuote, apprese sì in modo serio e rigoroso, ma soltanto sui testi, e per di più non su testi di Aristotele o di altri grandi autori, ma su manuali redatti alla fine del XVI secolo dai gesuiti dell’Università di Coimbra.
L’esigenza di un nuovo sapere La critica alla pedagogia gesuitica nasce anche dalla personalità di Cartesio, il quale fin da giovanissimo amava “fare da sé”: Io confesso di essere nato con tale indole, che sempre ho posto il più grande piacere dello studio non nell’udire le dimostrazioni altrui, ma nel trovarle con i miei mezzi; […] tutte le volte che qualche libro prometteva nel titolo un nuovo ritrovato, io, prima di leggere oltre, facevo la prova, se per avventura non riuscissi ad arrivare, mediante una congenita perspicacia, a qualcosa di simile, e stavo bene attento a che una lettura fatta troppo presto non mi togliesse questo innocente diletto. (R. Descartes, Regole per guidare l’intelligenza, 47, a cura di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2001)
Una tale «indole» non poteva certo sentirsi valorizzata dal nozionismo e dalla tendenza all’erudizione tipici della cultura scolastica, che, orientata a uno sterile culto degli antichi, secondo Cartesio frenava l’autonomia del pensiero, l’ingegnosità e la creatività. Ad apparirgli infeconde sono soprattutto le discipline letterarie, mentre lo attraggono il rigore della matematica e la concretezza delle scienze empiriche, che egli individua come i requisiti fondamentali dell’autentico sapere. E sarà proprio questo l’obiettivo di tutta la ricerca di Cartesio: l’edificazione di una scienza formalmente rigorosa, ma anche concreta e utile nella vita.
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I viaggi e l’incontro con Beeckman L’insoddisfazione per la cultura del tempo e un’indomabile inquietudine mista a curiosità spingono Cartesio ad abbandonare le anguste biblioteche per viaggiare e vivere nuove esperienze:
‘
non appena l’età mi liberò dalla tutela dei precettori, abbandonai del tutto lo studio delle lettere. E avendo deciso di non cercare altra scienza se non quella che potevo trovare in me stesso oppure nel grande libro del mondo, impiegai il resto della giovinezza a viaggiare, a visitare corti ed eserciti, a frequentare uomini di indole e condizioni diverse, a raccogliere (R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 14) varie esperienze.
La prima mèta è l’Olanda, e più precisamente Breda, dove allo scoppio della Guerra dei trent’anni Cartesio si arruola come “gentiluomo volontario” in uno dei due reggimenti francesi che sostengono l’esercito di Maurizio di Nassau, principe d’Orange. A Breda Cartesio conosce il medico e scienziato olandese Isaac Beeckman (1588-1637), grazie al quale approfondisce i princìpi delle scienze naturali e del copernicanesimo, e con cui stringe una profonda amicizia basata su interessi comuni. Secondo una tradizione forse fantasiosa, i due si sarebbero incontrati in occasione di una disputa pubblica sulla soluzione di un problema matematico, durante la quale il giovane Cartesio avrebbe mostrato la sua genialità. Di Beeckman, il filosofo francese parla in modo entusiastico:
‘
Voi siete davvero il solo ad aver spronato un uomo pigro a richiamare un sapere già quasi del tutto svanito nella memoria e a volgerne l’intelligenza, che si era allontanata dalle occupazioni serie, verso cose più grandi. Per questo, se dovesse venir fuori da me qualcosa di non disprezzabile, potrete a buon diritto rivendicarlo come interamente vostro. (R. Descartes, Lettera a Beeckman, 23 aprile 1619, in Tutte le lettere. 1619-1650, cit., 4)
L’incontro con Beeckman e il servizio nell’esercito costituiscono per Cartesio una spinta e un’occasione per proseguire la ricerca scientifica e conoscere il mondo. All’epoca, infatti, la vita militare lasciava ai nobili ufficiali ampia libertà; così, sfruttando le numerose pause tra un’operazione bellica e l’altra, Cartesio può viaggiare a suo piacimento per tutta l’Europa, dedicandosi agli studi che ormai lo affascinano maggiormente: quelli di matematica e di fisica.
L’intuizione dei fondamenti della nuova scienza La svolta decisiva nella riflessione di Cartesio si colloca nella notte del 10 novembre 1619 (esattamente un anno dopo l’incontro con Beeckman), mentre il filosofo si trova nei pressi di Ulm, nella Germania meridionale. Secondo quanto egli stesso racconta, a quella notte risalgono tre sogni rivelatori, che in modo quasi miracoloso gli svelano i «fondamenti di una scienza meravigliosa» (mirabilis scientiae fundamenta), suscitando in lui il senso di una missione di rinnovamento del sapere a cui si dedicherà per tutta la vita.
enciclosofia Guerra dei trent’anni La lunga e sanguinosa serie di conflitti che scosse l’Europa tra il 1618 e il 1648. Scoppiata fra gli Stati cattolici e quelli protestanti all’interno del Sacro romano impero, si trasformò ben presto in una guerra più ampia, alla quale parteciparono pressoché tutti i Paesi europei. Si concluse con il fallimento delle pretese asburgiche di imporre il cattolicesimo, la fine del predominio spagnolo e l’indebolimento del potere imperiale.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI iL RACCOntO Di UnA VitA
Sebastian Vrancx, Soldati saccheggiano una fattoria durante la Guerra dei trent’anni, 1620 ca., Berlino, Deutsches Historisches Museum.
Al di là del racconto dei sogni (sulla cui veridicità i critici si sono variamente interrogati, e che molti ritengono una finzione letteraria), certo è che, indagando le corrispondenze tra algebra e geometria, Cartesio aveva ormai raggiunto la convinzione che il sapere umano, con tutte le discipline in cui si articola, potesse e dovesse essere unificato in una sola scienza universale fondata sul metodo matematico (máthesis universalis). Ed è appunto all’approfondimento di questa intuizione che egli si dedica negli anni successivi, mentre continua a viaggiare per l’Europa, e particolarmente in Francia (soggiornando più volte e per più anni a Parigi), in Germania e in Italia. Questo periodo si conclude con le Regole per guidare l’intelligenza (Regulae ad directionem ingenii), un’opera composta in latino fra il 1627 e il 1628, nella quale Cartesio enuncia ventuno «regole» per la costruzione di un sapere universale, sulla base di questa considerazione di fondo:
‘
Tutte le scienze sono tra loro così connesse, che è molto più semplice apprenderle tutte insieme, che separarne una sola dalle altre. (R. Descartes, Regole per guidare l’intelligenza, 360-361, cit.)
Il trasferimento in Olanda e il Discorso sul metodo Nel 1629 Cartesio si stabilisce in Olanda, nota all’epoca come patria della tolleranza, per godere della libertà culturale e religiosa che caratterizza il Paese. Qui si iscrive nuovamente all’università come studente di filosofia (a Franeker) e di matematica (a Leida), e inizia a comporre un trattato di metafisica, senza tuttavia prevederne una pubblicazione immediata. Nel frattempo riprende anche lo studio della fisica e scrive un trattato intitolato Il mondo o Trattato della luce (dal tema centrale della sua teoria cosmologica). L’opera contiene però alcuni cenni, pur prudenti, alla dottrina copernicana: la condanna di Galilei, formulata il 22 giugno 1633, lo induce quindi ad abbandonare il proposito di darla alle stampe. Soltanto in seguito Cartesio sceglierà di divulgare alcuni dei risultati teorici che ha raggiunto, articolandoli in tre brevi saggi (La diottrica, Le meteore e La geometria) preceduti da una prefazione intitolata Discorso sul metodo. L’opera così composta viene pubblicata a Leida nel 1637, in forma anonima e in francese, lingua più conosciuta e fruibile rispetto al latino dei dotti. Nel 1635, appena due anni prima della pubblicazione del Discorso, era nata Francine, l’unica figlia di Cartesio, avuta dalla domestica Helena van der Strom. La piccola muore a soli cinque anni, nel 1640, e soltanto qualche giorno più tardi muore anche il padre del filosofo. In questa dolorosa circostanza Cartesio, celebratore della ragione, si mostra tutt’altro che freddo e distaccato, svelando una disarmata fragilità:
‘
Io non sono di quelli che pensano che le lacrime e la tristezza appartengano solo alle donne, e che, per apparire uomini coraggiosi, ci si debba costringere a mostrare sempre un volto sereno. […] Mi sono accorto che quelli che mi volevano proteggere dalla tristezza la aggravavano, mentre trovavo conforto nella comprensione di quelli che vedevo toccati dal mio dispiacere. (R. Descartes, Lettera a Pollot, gennaio 1641, in Tutte le lettere. 1619-1650, cit., 298)
Le Meditazioni metafisiche e l’isolamento intellettuale Dopo aver pubblicato il Discorso sul metodo in francese a fini divulgativi, Cartesio avverte l’esigenza di presentare in modo “ufficiale” la propria teoria filosofica alla comunità degli studiosi. Con questo intento riprende e conclude la stesura, questa volta in latino, del trattato di metafisica.
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Nel 1640, grazie all’amico padre Mersenne, l’opera viene inviata in lettura a un gruppo di filosofi e teologi, affinché espongano le loro osservazioni al riguardo; nel 1641 è pubblicata con il titolo Meditazioni sulla filosofia prima (o Meditazioni metafisiche), completa delle Obiezioni sollevate e delle Risposte di Cartesio. Una seconda edizione delle Meditazioni esce nel maggio 1642, nonostante il trattato fosse stato aspramente criticato dal senato accademico di Utrecht, che appena due mesi prima (marzo 1642) aveva accusato il pensatore francese di ateismo e proibito l’insegnamento della sua «nova philosophia». A polemizzare con Cartesio non è soltanto l’Università di Utrecht: durante l’intero soggiorno in Olanda il filosofo vive «solitario e ritirato come nei deserti più remoti», cercando così di sottrarsi agli attacchi violenti non soltanto degli aristotelici e dei gesuiti francesi, ma anche dei pastori protestanti olandesi ( “Dalla vita al pensiero”). Il prudente isolamento in cui si rifugia non gli impedisce però di rimanere in contatto epistolare con i principali studiosi francesi ed europei, cercando così di far conoscere comunque le sue idee. enciclosofia padre Mersenne Appartenente all’ordine religioso dei Minimi, o dei “Paolotti” (fondato da Francesco da Paola), Marin Mersenne (1588-1648) fu teologo, filosofo e scienziato, e incontrò frequentemente i più noti studiosi del suo tempo, con molti dei quali mantenne fitti scambi epistolari. Con ogni probabilità, conobbe Cartesio nel 1623, a Parigi, e divenne presto per lui un sincero amico, oltre che un pensatore con cui confrontarsi. Autore anch’egli di numerosi trattati scientifici, fu uno stimolo prezioso per le ricerche cartesiane e curò la prima edizione francese delle Meditazioni metafisiche.
Un filosofo «mascherato» DALLA VITA AL PENSIERO
Il 1° gennaio 1619, in una sorta di diario giovanile redatto in latino, Cartesio scrive: «Come gli attori, accorti a non fare apparire l’imbarazzo sul volto, vestono la maschera, così io, sul punto di calcare la scena del mondo, dove sinora sono stato spettatore, avanzo mascherato» (Cogitationes privatae, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. 1, Frammenti giovanili, p. 8). Al motto «avanzo mascherato» (larvatus prodeo) – che riecheggia quello del poeta latino Ovidio «ha vissuto bene chi si è nascosto bene» (bene vixit, bene qui latuit) – Cartesio si mantiene fedele per tutta la vita, indossando sempre una “maschera” di prudenza e astuzia, nel timore di essere criticato o, peggio, perseguitato. Con questa scelta il filosofo dimostra di essere figlio del suo tempo; la sua vicenda biografica, infatti, è uno dei capitoli del drammatico scontro culturale che caratterizza il XVII secolo: quello tra l’oscurantismo del potere religioso e la libera ragione.
La “dissimulazione” della verità Nel 1633 l’Inquisizione romana condanna Galilei e la notizia induce Cartesio a rinunciare alla pubblicazione del suo trattato sul mondo. Ma, come molti altri filosofi e scienziati del tempo, Cartesio non si arrende del tutto all’intimidazione del potere ecclesiastico e, pubblicando poco più tardi il Discorso sul metodo, ricorre a una raffinata
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forma di “dissimulazione”, cioè di “mascheramento” delle dottrine additate dalla Chiesa come pericolose. La dissimulazione non è né menzogna, né autocensura totale; è piuttosto un dire allusivo, che vela la verità con artificiose cautele, e insieme la svela: coprendo ciò che non può essere detto apertamente, si suscita interesse per ciò che si lascia soltanto intravedere.
Tra scienza e metafisica Se teniamo presente questo aspetto, possiamo capire perché alcune opere di Cartesio, e la sua stessa biografia, suscitino talvolta un’«impressione di ambiguità» – come ha osservato Eugenio Garin (1909-2004), uno dei massimi studiosi del pensatore francese –, quasi che il «filosofo della chiarezza» intendesse nascondere «una contraddizione segreta o un conflitto non placato» (Vita e opere di Cartesio, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 5). In effetti, quella di Cartesio non è soltanto un’ambivalenza usata per nascondere o attenuare posizioni invise al potere: a essere duplice e ambivalente è, in un certo senso, il pensiero cartesiano in sé stesso, poiché, come vedremo nel corso del capitolo, da un lato guarda alla scienza, ovvero a un’indagine di tipo empirico, concretamente verificabile, e dall’altro si volge alla metafisica, cioè ai problemi di Dio e dell’anima, la cui conoscenza certa è preclusa alla ragione umana.
La stesura dei trattati scientifici I primi trattati e l’incontro con la principessa Elisabetta Con le Meditazioni metafisiche si chiude il primo periodo della produzione cartesiana: quello dei “saggi”, vale a dire dei racconti, in forma autobiografica, della ricerca di un nuovo sapere e dei suoi fondamenti. Messi a punto questi aspetti preliminari, Cartesio si sente pronto per passare a un nuovo stile espositivo e impegnarsi nella stesura di trattati sistematici destinati all’insegnamento: egli ha in animo di scrivere un’autentica Summa philosophiae, nella speranza che possa sostituire i vecchi manuali in uso nelle università. Il primo risultato di questo progetto (che non sarà mai portato a compimento) è la rielaborazione del trattato sul mondo, a cui Cartesio dà la forma di un manuale scolastico. L’opera – pubblicata ad Amsterdam nel 1644, con il titolo Princìpi di filosofia – è divisa in quattro sezioni: la prima parte è dedicata alla filosofia, mentre le tre successive alla fisica, alla biologia e alla fisiologia. Quest’ultima disciplina troverà poi un ulteriore approfondimento nel 1649 nel trattato Le passioni dell’anima, frutto di un intenso scambio epistolare tra Cartesio e la principessa Elisabetta del Palatinato, alla quale è rivolta la Lettera dedicatoria che precede l’esposizione. Conosciuta nell’inverno 1642-1643, la principessa era nota per il suo amore per gli studi. In Cartesio trova un interlocutore attento e stimolante, da interrogare su vari aspetti del suo pensiero. Nella fitta e prolungata corrispondenza tra i due (dal maggio 1643 fino al 1649) è toccato anche il tema della relazione tra la mente e il corpo, su cui Le passioni dell’anima è incentrato.
Gli interessi morali e psicologici L’incontro con Elisabetta segna un mutamento di interessi in Cartesio, che proprio in questi anni comincia a volgersi con maggiore attenzione ai problemi morali e psicologici. Nel novembre 1647 il filosofo aveva iniziato un altro importante rapporto epistolare con la regina Cristina di Svezia, che lo aveva interpellato per lettera sulla natura dell’amore. Per densità e lunghezza, la risposta di Cartesio ha la forma di un piccolo trattato, in cui sono presenti molti temi che di lì a poco compariranno anche nel testo sulle passioni. È dunque nello scambio epistolare e nell’amicizia con due sovrane europee che Cartesio trova l’occasione per esplorare l’universo delle emozioni umane.
Alla corte di Svezia Nell’ottobre 1649, amareggiato per le critiche e le accuse di ateismo che soprattutto l’Università di Utrecht continua a rivolgere alle sue ricerche, Cartesio cede ai ripetuti inviti di Cristina e accetta di stabilirsi a Stoccolma. Qui la regina, grande protettrice di scienziati e enciclosofia Elisabetta del Palatinato Più conosciuta come Elisabetta di Boemia (1618-1680), era figlia dell’elettore palatino Federico V e della principessa Elisabetta d’Inghilterra (a sua volta figlia del re inglese Giacomo I Stuart). Trascorse l’infanzia a Berlino, dove la nonna paterna la educò in spirito religioso; quindi completò la propria formazione a Leida, imparando le lingue classiche e moderne, la letteratura e le arti. Mostrò presto una certa inclinazione per la filosofia, che coltivò soprattutto grazie allo scambio epistolare con Cartesio, ma si dedicò anche allo studio della Bibbia sotto la guida del teologo tedesco Johannes Cocceius (1603-1669).
Cristina di Svezia Figlia del re svedese Gustavo Adolfo II, salì al trono alla morte del padre, all’età di soli sei anni, ma ottenne pieni poteri soltanto a partire dal 1650. Accanita studiosa soprattutto di filosofia e di letteratura, richiamò a Stoccolma alcuni dei più celebri rappresentanti della cultura del tempo.
Gerard van Honthorst, Ritratto di Elisabetta del Palatinato, 1636, Amsterdam, Koninklijk Paleis.
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artisti, ha trasformato la corte in un centro culturale vivacissimo, tanto da far meritare alla città l’appellativo di “Atene del Nord”. In una bellissima e amara lettera al segretario dell’ambasciata francese all’Aia, il filosofo annuncia la propria partenza per la Svezia:
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Non si è trovato strano che Ulisse abbia lasciato le isole incantate di Calipso e di Circe, in cui avrebbe potuto godere di tutti i piaceri immaginabili, e che abbia disprezzato il canto delle Sirene per andare ad abitare in un paese pietroso e sterile, dato che era il paese in cui era nato. Confesso, però, che un uomo nato nei giardini della Turenna […] non possa risolversi così facilmente a lasciarla per andare a vivere nel paese degli orsi, tra rocce e ghiacci. Tuttavia, poiché questo stesso paese è abitato anche da uomini, e la Regina che li governa ha, da sola, più sapere, più intelligenza, più ragione di tutti i dotti dei chiostri e dei collegi che la fertilità dei paesi dove ho vissuto ha prodotto, mi persuado che la bellezza del luogo non è necessaria per la saggezza, e che gli uomini non sono come gli alberi, che crescono meno bene se la terra in cui vengono trapiantati è più arida di quella in cui erano stati seminati. (R. Descartes, Lettera a Brasser, 23 aprile 1649, in Tutte le lettere. 1619-1650, cit., 695)
La morte Il soggiorno svedese di Cartesio dura poco. Egli si intrattiene spesso e a lungo con la regina, che però predilige tenere le sue conversazioni filosofiche al mattino, prima dell’alba. A questi faticosi impegni antelucani si uniscono i rigori dell’inverno nordico, e il filosofo si sente stanco e scoraggiato. In una lettera del 15 gennaio 1650 scrive:
‘
Mi sembra che qui, durante l’inverno, i pensieri degli uomini si gelino come le acque […]. Il desiderio che ho di tornare nel mio “deserto” aumenta ogni giorno di più […]. Qui non sono nel mio elemento; e non desidero altro che tranquillità e riposo, beni che i più potenti Re della Terra non possono dare a coloro che non sanno prenderseli da soli. (R. Descartes, Lettera a Brégy, 15 gennaio 1650, in op. cit., 726)
Poco meno di un mese più tardi, Cartesio si ammala di polmonite, e l’11 febbraio 1650 muore.
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EVENTI STORICI
VITA DI DESCARTES
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Bruno viene messo al rogo
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Entra nel collegio gesuitico di La Flèche
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1601-1602
Si arruola come volontario in un reggimento francese in Olanda
1609
Campanella: La città del sole
Caravaggio: Cena in Emmaus (prima versione)
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI iL RACCOntO Di UnA VitA
Inizia la Guerra dei trent’anni
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Nasce a LaHaye
1594-1596
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Espulsione dei moriscos dalla Spagna
1596
Shakespeare: Romeo e Giulietta
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Pace di Vervins tra Francia e Spagna; Editto di Nantes: fine delle guerre di religione in Francia
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
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Keplero: Astronomia nova (prime due leggi del moto dei pianeti)
1605
Cervantes: Don Chisciotte (primo libro)
1616
Il De revolutionibus di Copernico è messo all’indice
1. Il metodo I termini del problema Le prime opere di Cartesio (cioè le Regole per guidare l’intelligenza e il Discorso sul metodo) sono essenzialmente autobiografiche. In esse il filosofo non vuole tanto trasmettere al lettore una serie di conoscenze, quanto descrivere sé stesso e l’evoluzione dei propri pensieri. Parlando in prima persona, egli richiama il senso di disorientamento che ha avvertito al termine degli studi presso il collegio gesuitico di La Flèche: pur essendo consapevole di avere assimilato con successo il sapere del tempo, gli pare di avere appreso soltanto nozioni che poco o nulla servono alla vita, e di non avere acquisito alcun metodo (dal greco metá, “attraverso”, “per mezzo”, e hodós, “via”, “strada”), cioè di non avere individuato un criterio sicuro per distinguere il vero dal falso. glossario p. 165 Il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico: esso, infatti, deve Il fine pratico condurre a saper distinguere il vero dal falso anche e soprattutto in vista dell’utilità e dei del metodo vantaggi che possono derivarne alla vita umana. La filosofia che ne risulterà sarà quindi una filosofia «non puramente speculativa, ma anche pratica, per mezzo della quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della natura». In altre parole, il sapere che Cartesio intende edificare grazie al nuovo metodo dovrà consentire agli esseri umani l’ideazione di congegni che permettano loro di godere senza fatica dei frutti della terra e di altre comodità. Cartesio è ottimista sulla possibilità di acquisire un tale sapere, che – egli pensa – potrebbe liberare gli uomini «da un’infinità di malattie, tanto del corpo quanto dello spirito, e forse anche dall’indebolimento della vecchiaia» (Discorso sul metodo, VI, 1). Per poter servire in campo sia teoretico sia pratico, e mirare al vantaggio degli esseri l’unicità umani nel mondo come al proprio fine ultimo e comune, il metodo dovrà essere un cri- del metodo terio di orientamento semplice e unico. Questa unicità, pur nella diversità delle applicazioni, viene riconosciuta da Cartesio già nelle Regole per guidare l’intelligenza, in cui egli
1620
1630
1640
1650
1642
In Inghilterra inizia la guerra civile
1619
1627
Comincia a viaggiare per l’Europa
Regole per guidare l’intelligenza
1620
Bacone: Novum Organum
1623-1624
Bernini: David
1629
1637
Ricomincia a studiare filosofia e matematica in Olanda
1628
Harvey scopre la circolazione sanguigna
1628-1629
Velázquez: Trionfo di Bacco
Discorso sul metodo
1644
Galilei è processato e condannato
1632
Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni
Princìpi di filosofia
1641
1650
Muore a Stoccolma
1649
Meditazioni sulla filosofia prima
1633
1648
Le passioni dell’anima; si trasferisce alla corte di Cristina di Svezia
1641 1642
Torricelli: Hobbes: De motu gravium De cive
Rembrandt: Lezione di anatomia del dottor Tulp
1644
Milton: Areopagitica
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afferma che la saggezza umana è una sola, quali che siano gli oggetti a cui si applica; ed è una sola perché uno è l’essere umano, pur nelle diverse attività alle quali può attendere. Il modello Durante i suoi studi, Cartesio si era imbattuto nelle dimostrazioni della geometria, che matematico lo avevano colpito per il rigore e l’evidenza dei passaggi:
‘
Quelle lunghe catene di ragionamenti, semplici e facili, di cui i geometri si servono per giungere alle loro più difficili dimostrazioni, mi dettero motivo di supporre che tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscenza si seguano [conseguano] nello stesso modo. (Regole per guidare l’intelligenza, III, 5)
Le scienze matematiche, per Cartesio, sono dunque già in possesso di un metodo sicuro ed efficace, che applicano normalmente. Pertanto si dovrà prendere coscienza delle regole metodiche della matematica, astrarle da tale disciplina e formularle in generale per poterle applicare a tutte le altre branche del sapere. la necessità di Ma tutto ciò, per Cartesio, non è ancora sufficiente, perché è necessario anche giustificare una fondazione il metodo e la possibilità della sua applicazione universale. In altri termini, il compito del del metodo
filosofo consiste non soltanto nell’individuare alcune regole metodiche che, se applicate, garantiranno un avanzamento della conoscenza, ma anche nel rendere conto della loro validità esplicitando i princìpi su cui si fondano. Il compito filosofico a cui Cartesio sente di dover rispondere si articola dunque in tre momenti principali: 1. formulare le regole del metodo, tenendo soprattutto presente il procedimento matematico, nel quale esse sono già applicate; 2. fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo individuato; 3. dimostrare la fecondità del metodo nei vari ambiti del sapere.
Le regole Per quanto riguarda il primo punto, la formulazione più matura e più semplice delle regole del metodo cartesiano è rintracciabile nella seconda parte del Discorso sul metodo. Tali regole sono quattro: la regola dell’evidenza
‘ ‘ ‘
1) Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza; cioè evitare diligentemente la preoccupazione e la prevenzione [cioè eventuali dubbi e pregiudizi]; e non comprendere nei miei giudizi niente di più di ciò che si presentasse così chiaramente e così distintamente al mio spirito che io non avessi alcuna occasione di metterlo in dubbio.
Questa è per Cartesio la regola fondamentale, che impone di accettare come vero soltanto ciò che si presenta alla mente in modo chiaro e distinto, escludendo ogni elemento sul quale invece sia possibile nutrire una qualche forma di dubbio. la regola dell’analisi
2) Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla.
Con questa seconda regola Cartesio prescrive di suddividere ogni problema in sottoproblemi più semplici, da considerarsi e risolversi separatamente. la regola della sintesi
3) Condurre i miei pensieri ordinatamente, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle conoscenze più complesse; supponendo che vi sia un ordine anche tra gli oggetti tra cui non vige alcuna precedenza naturale.
Secondo la terza regola, si deve passare dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.
146
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
‘
4) Fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla.
La quarta regola prescrive, sostanzialmente, di controllare l’applicazione delle due regole precedenti, in quanto mediante l’enumerazione si controlla che l’analisi sia stata condotta correttamente, mentre mediante la revisione si fa altrettanto per la sintesi. ( T1 p. 169)
la regola dell’enumerazione e della revisione
IL METODO CARTESIANO prevede quattro momenti
VIDEO Le regole del metodo
evidenza = accettare per vero soltanto solo ciò che risulta evidente, ossia chiaro e distinto
)
Per l’esposizione orale
analisi = suddividere ogni problema complesso nei suoi elementi più semplici
sintesi = risalire dal semplice al complesso
enumerazione e revisione = enumerare tutti gli elementi individuati mediante l’analisi e rivedere tutti i passaggi della sintesi
1. Quale scopo si prefigge Cartesio accingendosi a elaborare un nuovo metodo? Quali sono le caratteristiche che esso dovrà avere? 2. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’esigenza di un «metodo» avvertita da Cartesio al termine dei suoi studi: pensi anche tu che il progresso della conoscenza non consista tanto nell’assimilare sempre più nozioni, quanto nel possedere uno o più criteri validi ed efficaci per raggiungerle? Perché? 3. Enuncia e spiega brevemente le regole del metodo cartesiano utilizzando i termini e le espressioni seguenti: evidenza, chiarezza e distinzione, analisi, sintesi, enumerazione e revisione.
2. Dal dubbio al cogito Come abbiamo anticipato, le regole metodiche individuate da Cartesio non hanno in sé stesse la propria giustificazione. Neppure il fatto che la matematica se ne serva con successo le giustifica, perché esse potrebbero avere utilità pratica ai fini delle sole discipline matematiche, ma non essere applicabili in altri campi, e ciò le destituirebbe della necessaria validità assoluta. Cartesio deve quindi tentare di giustificarle risalendo alla loro radice, che egli individua nell’essere umano, inteso come soggettività, o come ragione.
Il dubbio metodico e il dubbio iperbolico Trovare il fondamento di un metodo che possa servire da guida sicura per la ricerca in la funzione tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, soltanto sottoponendo tutto il sapere già del dubbio dato a una critica radicale. Si tratta insomma di sospendere l’assenso a ogni conoscenza comunemente accettata e di applicare un dubbio metodico (così chiamato perché serve a giustificare il metodo), dubitando di tutto e considerando almeno provvisoriamente come falso tutto ciò di cui è possibile dubitare.
147
Se, persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungerà a un principio che resiste al dubbio, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo, e tale da poter servire da fondamento per tutte le altre conoscenze. glossario p. 165 Il primo grado del dubbio: l’inaffidabilità delle conoscenze sensibili
Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio: anzitutto si può (e quindi si deve) dubitare delle conoscenze sensibili, perché i sensi qualche volta ci ingannano (si pensi al remo che in acqua ci sembra spezzato, o al moto apparente del Sole) ed «è regola di prudenza non fidarsi interamente di chi ci ha una volta ingannati». Il dubbio sulla testimonianza dei sensi si rafforza, inoltre, osservando l’impossibilità di distinguere il sogno dalla veglia. Nei sogni si hanno impressioni o sensazioni simili a quelle che si hanno da svegli, e dal momento che non si può trovare un criterio sicuro per distinguere tra le une e le altre, nulla ci vieta di pensare che stiamo sempre dormendo. Ciò significa che tutta l’esperienza sensibile potrebbe essere una mera rappresentazione mentale, e che fuori dal pensiero potrebbe non esistere alcunché, dal momento che non esiste un criterio sicuro per distinguere le rappresentazioni che sono soltanto interne alla nostra mente da quelle che corrispondono a qualcosa di esterno.
Il secondo grado del dubbio: il genio maligno e il dubbio iperbolico
Il secondo grado del dubbio si rivolge agli oggetti dell’intelletto, ovvero a quelle “verità” che non trovano la loro origine nei sensi ma si fondano sull’evidenza della ragione, e che quindi sono vere sia nel sogno sia nella veglia: è il caso delle conoscenze matematiche (2 + 3 fa sempre 5, sia quando si dorme sia quando si è svegli). Ma per Cartesio neppure questo tipo di conoscenze si sottrae al dubbio, dato che esse sono state stabilite da Dio, il quale, nella sua infinita libertà e onnipotenza, avrebbe potuto anche far sì che 2 + 3 non facesse 5. L’idea che anche le certezze matematiche possano essere illusorie viene confermata da Cartesio mediante una suggestiva considerazione: finché non si sappia qualcosa di sicuro intorno alla nostra origine, si potrà sempre supporre che siamo stati creati da un «genio maligno», cioè da una potenza malvagia che ci inganna facendoci apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. Basta ipotizzare l’esistenza di una tale divinità malvagia o beffarda (e lo si può fare, dato che al riguardo non si sa alcunché di certo) perché anche le cosiddette “verità eterne”, cioè le verità logico-matematiche, si rivelino dubbie e potenzialmente ingannevoli. In tal modo il dubbio metodico si estende a ogni conoscenza e diventa universale, trasformandosi in quello che è noto come dubbio iperbolico . glossario p. 165
Il cogito e la sua natura «penso, Portando all’estremo l’esercizio del dubbio, Cartesio mette in conto anche la possibilità che dunque sono» il punto di approdo sia una conclusione scettica, ovvero la convinzione che «al mondo non
v’è nulla di certo». Ma proprio nel carattere radicale del dubbio iperbolico si intravede una prima certezza. Infatti io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili, ma per ingannarmi o per essere ingannato devo pensare, e quindi esistere. La proposizione “io esisto” è dunque la sola assolutamente vera, perché è confermata dalla stessa possibilità di dubitare e di essere ingannati. Poiché può dubitare (ovvero pensare) e può essere ingannato da altri soltanto chi esiste, Cartesio può affermare con assoluta certezza «penso, dunque sono» (cogito ergo sum)1 .
1. Cartesio propone due formulazioni di questo principio: una nella seconda delle Meditazioni metafisiche, nella forma «ego cogito, ego existo» (io penso, io esisto); un’altra nel Discorso sul metodo, dove lo presenta, almeno apparentemente, come un’inferenza, cioè come un ragionamento: «cogito ergo sum» (penso, dunque sono).
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
Il cogito (forma abbreviata dell’espressione latina) si impone dunque come un “principio”, nel senso che la sua negazione implica in realtà la sua conferma: se qualcuno afferma di non esistere deve comunque ammettere di esistere in quanto pensa (di non esistere). In conclusione, tutto ciò che penso potrebbe essere falso o ingannevole, ma che penso è necessariamente vero. glossario p. 165 ( T2 p. 171) investe inizialmente le conoscenze sensibili IL DUBBIO METODICO
con l’ipotesi del «genio maligno» si estende alle conoscenze matematiche
e diventa
dubbio iperbolico o universale
L’unica verità che si sottrae al dubbio (in quanto il dubbio stesso la conferma) è la seguente:
cogito ergo sum
Oltre a costituire una certezza originaria indubitabile, il cogito contiene anche una prima l’io come indicazione su ciò che sono io che esisto. Infatti, se non posso dire di esistere come corpo «cosa che pensa» (dal momento che non so ancora nulla di certo sull’esistenza dei corpi, poiché questi sono oggetto di conoscenza sensibile, su cui il mio dubbio permane), posso però dire che esisto come cosa che dubita, cioè come cosa che pensa ( res cogitans ). Queste sono le parole di Cartesio: glossario p. 166 ( T3 p. 173)
‘
Io trovo qui che il pensiero è attributo che mi appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo […] io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa che pensa [res cogitans], e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione. (Meditazioni metafisiche, II, 2, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. 1, p. 208)
ESERCIZI
La certezza del mio esistere concerne tutte e sole le determinazioni del mio pensiero: il dubitare, l’assoluta l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’immaginare, il sentire… Le cose pensate, imma- necessità del cogito ginate, sentite ecc. possono non essere reali; ma sono certamente reali il mio pensare, immaginare, sentire ecc. La proposizione “io esisto” equivale dunque alla proposizione “io sono un soggetto pensante”, cioè io sono spirito, intelletto o ragione. E la mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è l’esistenza di nessuna delle cose che penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco (ad esempio, un pezzo di cera) non esista; ma è impossibile che non esista io, che penso di percepire quell’oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza. Nel formulare il principio del cogito, Cartesio riprende un ragionamento che già era stato oltre agostino sviluppato da Agostino e da Campanella, ma si sposta nell’orizzonte di un altro problema. e Campanella Non si tratta, come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell’interiorità dell’essere umano; e neppure, come in Campanella, di stabilire la natura dell’anima senziente in quanto coscienza delle proprie modificazioni. Si tratta invece di trovare nell’esistenza del soggetto pensante, il cui essere è evidente a sé stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l’efficacia dell’azione umana nel mondo.
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Le discussioni sul cogito Colpiti dalla formulazione del principio del cogito (o per lo meno dalla sua originale ripresa da parte di Cartesio), gli studiosi dell’epoca vi dedicano ampie discussioni, mettendone in luce alcuni possibili limiti teorici. la critica Tra le critiche più note mosse al cogito cartesiano vi è quella elaborata (tra gli altri) dal di arnauld giansenista Antoine Arnauld ( p. 161). Pur accogliendo, in generale, le tesi di Cartesio,
Arnauld osserva che il ragionamento “cogito ergo sum” è di tipo circolare, un cosiddetto “circolo vizioso”, poiché, se viene accettato in quanto evidente, allora la regola dell’evidenza risulta anteriore allo stesso cogito (di cui appunto fonderebbe l’evidenza) e la pretesa di giustificarla “in virtù” del cogito diventa illusoria. A questa obiezione Cartesio risponde ribadendo che è piuttosto l’evidenza quale criterio di verità a fondarsi, in ultima istanza, sulla certezza del cogito, poiché questa va intesa come autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di sé stesso. L’io, infatti, è assolutamente certo di essere «una cosa che pensa», perché sarebbe impossibile, cioè contraddittorio, pensare di non essere una cosa che pensa (la negazione del cogito implicherebbe in questo senso la sua riaffermazione). Di conseguenza, ogni proposizione che si presenti altrettanto evidente quanto questa autoevidenza originaria (non posso pensare di non pensare) risulterà assolutamente vera e indubitabile:
‘
in quanto io sono certo di essere una cosa che pensa […], so già che cosa è richiesto perché io sia certo di qualcosa. Di sicuro in quella conoscenza, che ho per prima, non c’è altro che una percezione chiara e distinta di quel che affermo, e cioè appunto che io sono una cosa che pensa; ma di sicuro essa non basterebbe a rendermi certo che quel che affermo è vero anche di fatto, se potesse mai accadere che fosse falso qualcosa che io percepissi con altrettanta chiarezza e distinzione; e quindi mi sembra di poter già stabilire come regola generale che è vero tutto quel (Meditazioni metafisiche, III) che io percepisco molto chiaramente e distintamente.
la critica Il filosofo, teologo, matematico e astronomo Pierre Gassendi (1592-1655), osserva invece di Gassendi che il presunto principio di Cartesio («Io esisto come pensiero») è in realtà la conclusione di un
sillogismo abbreviato: “Tutto ciò che pensa esiste. Io penso. Dunque esisto”. Derivando da qualcosa di più originario, esso non può quindi essere considerato un principio assoluto. Inoltre, con l’ipotesi del genio maligno anche la premessa “Tutto ciò che pensa esiste”, come ogni altra presunta verità, potrebbe venire a cadere. E, poiché da qualcosa che non è assolutamente certo non si può ricavare alcuna certezza, l’affermazione della mia esistenza come cosa pensante (conclusione del sillogismo) risulta infondata. Analogamente a come aveva fatto per l’accusa di circolo vizioso, a questa obiezione Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, cioè l’esito di una deduzione, bensì una intuizione immediata della mente.
la critica Più insidiosa è l’osservazione di Thomas Hobbes ( unità 4, cap. 1), secondo il quale Cardi Hobbes tesio ha senz’altro ragione nel dire che l’io, in quanto pensa, esiste, ma ha torto nel preten-
dere di pronunciarsi su come l’io esiste, ovvero nel definirlo «uno spirito, un’anima». In ciò Cartesio è simile, secondo Hobbes, a chi dice: «Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata». Infatti il quid, o la x, che pensa, la sostanza di quell’atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando: 1. che l’uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre, per cui il pensiero gli è essenziale, diversamente dal passeggiare; 2. che il pensiero, in quanto atto del pensare o facoltà di pensare, esige un sub-iectum, un sostegno: se c’è il
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
pensiero, deve esserci una «cosa» (res) o sostanza che “sta sotto” questa attività e che da essa è definita in modo essenziale. Tale è la res cogitans, la «sostanza o anima pensante», che è immateriale come il pensiero di cui è soggetto e di cui costituisce l’essenza.
)
Per l’esposizione orale
1. Che cosa sono il dubbio metodico e il dubbio iperbolico, e in che cosa si differenziano? 2. A quale certezza approda Cartesio mediante il dubbio e che cosa intende parlando dell’io come “soggetto pensante”? 3. Ricostruisci la riflessione che conduce Cartesio dal dubbio al cogito. 4. Presenta in modo sintetico le principali obiezioni che vengono mosse al cogito cartesiano.
VIDEO La discussione intorno al cogito
3. Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane Per Cartesio l’autoevidenza del cogito ci rende sicuri della nostra esistenza in quanto soggetti pensanti, ma lascia aperta la questione di ciò che esiste fuori di noi. Infatti io sono certo di esistere come un essere pensante che ha idee (dove per “idea” si intende ogni oggetto o contenuto del pensiero), e sono certo che tali idee esistano nel mio spirito (perché esse, come atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto pensante), ma non posso essere altrettanto certo del fatto che a queste idee corrispondano delle realtà effettive fuori di me. In altre parole: «il cielo, la terra, la luce, il calore» e tutte le cose che percepisco attraverso i sensi sono per me delle idee. E queste idee esistono nel mio spirito. Ma, fuori di me, esistono anche le cose che vi corrispondono?
Il problema dell’esistenza della realtà esterna
L’ipotesi del «genio maligno» non è riuscita a scalfire l’evidenza dell’esistenza dell’io come sostanza che pensa, ma continua a gravare sull’evidenza dell’esistenza del mondo esterno, perché il fatto che io lo percepisca con evidenza come esistente potrebbe essere il frutto dell’inganno di una tale malevola divinità. Per superare anche questo ostacolo, Cartesio deve dimostrare l’esistenza di Dio, e di un Dio buono, che, in quanto tale, non inganna l’uomo. La dimostrazione dell’esistenza di un Dio perfetto e buono ha dunque in Cartesio un valore non tanto teologico, quanto gnoseologico, poiché Dio costituisce il fondamento e la garanzia sia della verità di ciò che l’essere umano conosce come evidente, sia dell’esistenza del mondo esterno.
la necessità di dimostrare l’esistenza di Dio
Le prove dell’esistenza di Dio Cartesio elabora le sue prove dell’esistenza di Dio con un procedimento a priori, cioè partendo dal cogito, e precisamente dall’analisi dei contenuti del pensiero1 . Per costruire la prima prova, egli esamina le idee , o «rappresentazioni», ovvero quei con- I tipi di idee tenuti mentali che “rappresentano” o “stanno per” un determinato oggetto. A seconda della loro origine, le idee vengono distinte da Cartesio in tre categorie: glossario p. 165 1. le idee che percepisco come presenti in me da sempre, cioè non derivate dall’esterno (innate); 2. le idee che percepisco come estranee a me, cioè derivatemi dall’esterno (avventizie); 3. le idee che percepisco come formate o trovate da me (fattizie). 1. Già presenti nel Discorso sul metodo (1637), le dimostrazioni dell’esistenza di Dio vengono riprese da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche, dove sono esposte in maniera più dettagliata e rigorosa.
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QUESTIONE Alla prima classe appartiene, ad esempio, l’idea di “cosa” o “sostanza”: che esisto e che sono La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza? (Cartesio, Locke) p. 362
una “cosa” (e non un niente), e precisamente una “cosa pensante”, lo so infatti da me, senza bisogno di altro che non sia la mia capacità di pensare. Alla seconda classe appartengono invece le idee delle cose naturali (ad esempio l’idea di “albero” o di “pietra”). Alla terza classe appartengono infine le idee delle cose chimeriche o inventate (ad esempio l’idea di “ippogrifo”).
la prima Per scoprire se a qualcuna delle idee così classificate corrisponda una realtà esterna, non prova c’è altro da fare che interrogarsi sulla loro causa: è possibile – si chiede Cartesio – trovare
TEST DI LOGICA
un’idea che sia causata non da me in quanto soggetto pensante, ma da una realtà extramentale? Tutte le idee che io possiedo non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me: questo vale sia per le idee «fattizie» (di cui io sono la causa), sia per quelle «avventizie» (delle cose inanimate, degli animali e degli altri uomini). Ma non vale per l’idea di infinito (che, non a caso, Cartesio considera innata): è difficile, infatti, supporre che io, creatura finita e imperfetta, abbia potuto produrre l’idea di una «sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente», tale cioè da avere tutte le possibili perfezioni. La causa dell’idea di infinito (ovvero di ciò che non ha limiti) dovrà dunque essere esterna a me. Ora, per Cartesio la causa di un’idea deve sempre avere almeno tanta realtà quanta ne possiede l’idea stessa e, quindi, quanta ne possiede l’oggetto che essa rappresenta. Perciò la causa dell’idea di una sostanza infinita e perfetta dovrà essere una sostanza infinita e perfetta effettivamente esistente, cioè Dio. Detto in altri termini: una realtà finita come la mente umana non può produrre la rappresentazione dell’infinito. Questa idea dovrà dunque essere causata da una realtà infinita, cioè da un ente infinito effettivamente esistente. Questa è la prima prova cartesiana dell’esistenza di Dio.
la seconda La seconda prova parte anch’essa dal cogito, ovvero dalla constatazione del fatto che dubito, prova ossia che compio un atto meno perfetto rispetto al conoscere in modo certo. Ma se sono in
grado di riconoscermi come un essere finito e imperfetto, è perché esiste «un essere più perfetto del mio», dal quale io dipendo e da cui ho acquisito le mie (im-)perfezioni. Infatti, se io fossi la causa di me stesso, mi sarei dato (o comunque potrei darmi) tutte le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell’idea di Dio. È dunque evidente che il creatore di me stesso non sono io, ma quel Dio come ente perfettissimo di cui possiedo l’idea.
la prova A queste due prove Cartesio ne aggiunge una terza, che è la riproposizione della prova onontologica tologica enunciata per la prima volta da Anselmo d’Aosta (1033-1109): non è possibile con-
VIDEO Le prove dell’esistenza di Dio
cepire Dio come essere sommamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perché l’esistenza è una delle perfezioni necessarie di un tale essere. Per fare un esempio: come non si può concepire un triangolo che non abbia tre lati, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. Pensare un triangolo significa pensarlo di tre lati, altrimenti si cade in una contraddizione; analogamente pensare Dio (in quanto ente perfettissimo) significa pensarlo come dotato di alcune proprietà positive (infinita bontà, onnipotenza, onniscienza ecc.) di cui fa parte anche l’esistenza, senza la quale non penseremmo l’ente perfettissimo.
Le critiche alle prove dell’esistenza di Dio Le prove cartesiane dell’esistenza di Dio non sembrarono a tutti così persuasive e stringenti, e pertanto suscitarono molte critiche.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
Riproponendo l’obiezione già mossa al cogito, Arnauld osserva che anche le prove cartesia- la critica ne dell’esistenza di Dio finiscono per ridursi a “circoli viziosi”, poiché si basano sul cri- di arnauld terio dell’evidenza, ma al tempo stesso garantiscono la validità del criterio dell’evidenza ricorrendo all’esistenza di un Dio che non inganna gli esseri umani. Gassendi rivolge invece la sua critica in particolare all’argomento ontologico, anticipando per certi aspetti quelle che saranno le obiezioni di Immanuel Kant ( unità 6). Per Gassendi l’esistenza non è un concetto presente nella definizione di qualcosa. Infatti, quando si dice che una cosa “esiste” non si sta indicando una sua proprietà che si aggiunge alle altre, ma si sta affermando che essa “è” anche fuori della mente che la pensa; anzi, proprio questa esistenza extra-mentale è la condizione perché quella cosa possa avere delle proprietà:
la critica di Gassendi alla prova ontologica
‘
se una cosa manca d’esistenza, non si dice tanto che è imperfetta, o priva di qualche perfezione, ma piuttosto che è nulla, o che non esiste affatto. (Meditazioni metafisiche, “Quinte Obiezioni”)
la critica di Ma Gassendi contesta anche i due capisaldi della prima prova, ovvero: alla 1. la convinzione che l’idea di Dio quale ente infinito sia innata, cioè da sempre inscritta Gassendi prima prova nella mente umana «allo stesso modo in cui lo è l’idea di me stesso» (Meditazioni metafisiche, III); 2. la convinzione che tale idea sia positiva o originaria, cioè non derivi né da altre idee, né dall’esperienza. Al contrario, per Gassendi l’idea di Dio come ente infinito è frutto dell’educazione, della trasmissione di una certa cultura e della comunicazione tra gli uomini. Essa, inoltre, può essere costruita dalla mente umana per mezzo della negazione di quella finitezza e di quell’imperfezione di cui facciamo esperienza osservando noi stessi e le cose naturali.
A quest’ultima obiezione Cartesio rispose “ribaltando” l’argomentazione di Gassendi, cioè la risposta ricordando che pensare significa dubitare e, dunque, essere coscienti della propria imper- di Cartesio a Gassendi fezione. Tuttavia il pensiero non si saprebbe imperfetto e finito, se non avesse in sé l’idea di un ente perfetto e infinito. Questo significa che l’uomo ricava l’idea dell’imperfezione e della finitezza dalla negazione dell’idea di perfezione e di infinito, e non viceversa:
‘
in me la percezione dell’infinito precede in qualche modo quella del finito, vale a dire la (Meditazioni metafisiche, III) percezione di Dio quella di me stesso.
In altri termini, per Cartesio la certezza di sé (come essere imperfetto) esige la certezza di Dio (come essere perfetto). Questo non significa che percepiamo immediatamente che Dio esiste: possiamo infatti supporre che non esista, ma certo non possiamo supporre che non sia infinito. L’idea di infinito, quindi, si intuisce come nozione innata e originaria, mentre va dimostrato il fatto che a questa idea corrisponda un ente infinito effettivamente esistente.
Dio come garante del principio dell’evidenza Con la dimostrazione dell’esistenza di Dio, il percorso preannunciato da Cartesio giunge al suo compimento: una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza ha finalmente trovato la sua garanzia. Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà del giudizio, che ho ricevuto da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente.
153
Questo significa che tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché, in ultima analisi, Dio lo garantisce come tale. Possiamo dunque affermare che, in Cartesio, Dio è una sorta di “termine medio” che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze. ( T4 p. 175) LA RIFLESSIONE DI CARTESIO va dall’IO
a DIO
al MONDO
cioè dalla
quale
cioè alla
certezza della mia esistenza come sostanza pensante
ente buono e necessariamente esistente, che garantisce la validità del principio dell’evidenza
certezza dell’esistenza della realtà esterna
La possibilità dell’errore In un sistema come quello cartesiano, in cui la verità della conoscenza trova la propria garanzia e il proprio fondamento in un Dio buono e perfetto, com’è possibile l’errore? Il rapporto Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause: l’intelletto e la volontà. L’inteltra intelletto letto umano è limitato, tanto che, come si è visto, noi possiamo pensare un intelletto ase volontà
sai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell’intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, di ricercare o fuggire, e può scegliere tra queste diverse opzioni sia rispetto alle cose che l’intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione sufficienti.
la natura In questa possibilità di giudicare e scegliere anche su ciò che l’intelletto non riesce a dell’errore percepire chiaramente risiede la possibilità dell’errore. In altre parole, l’errore non po-
trebbe avere luogo se io formulassi il mio giudizio soltanto su ciò che il mio intelletto concepisce con sufficiente chiarezza, e se mi astenessi dal giudicare su ciò che non è abbastanza chiaro. Ma poiché la mia volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi su tutto, indipendentemente dalla sua evidenza, ecco che nasce la possibilità dell’errore. In questa seconda situazione è certamente possibile “indovinare” la verità ma, se e quando ciò accade, è per puro caso (e anche così avrò usato male della mia libertà). È più probabile, tuttavia, che ciò che si afferma senza averne una certezza assoluta non sia vero, e che quindi si cada in errore. In ultima analisi, l’errore dipende dunque unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all’essere umano, e si può evitare soltanto attenendosi scrupolosamente alle regole del metodo, in primo luogo a quella dell’evidenza.
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Per l’esposizione orale
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1. 2. 3. 4. 5.
Per quale ragione è così importante, per Cartesio, dimostrare l’esistenza di Dio? Che cosa sono le idee «innate», «fattizie» e «avventizie»? Presenta in modo sintetico le prove con cui Cartesio dimostra l’esistenza di Dio. Qual è l’origine dell’errore secondo Cartesio? RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione cartesiana dell’errore: condividi l’idea che, in assenza di una conoscenza sufficientemente chiara e completa di un problema o di una situazione, si rischi di formulare giudizi erronei, o di compiere scelte sbagliate? Motiva la tua risposta, eventualmente facendo riferimento alla tua esperienza.
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
4. Il dualismo Fondato sulla bontà e sulla veridicità di Dio, il principio dell’evidenza consente a Cartesio l’esistenza dei di eliminare il dubbio che egli stesso, all’inizio del suo ragionamento, aveva avanzato sul- corpi e le loro proprietà la realtà delle cose corporee. Ogni essere umano ha l’idea evidente dell’esistenza, fuori di sé, di cose corporee che agiscono sui suoi sensi, e quest’idea, essendo appunto evidente, non può essere ingannevole: devono dunque esistere delle cose corporee corrispondenti alle idee che ne abbiamo. Questo non significa che i corpi possiedano realmente tutte le qualità che noi percepiamo come ad essi inerenti. Da questo punto di vista Cartesio fa sua la distinzione già stabilita da Galilei (ma in realtà risalente a Democrito) tra proprietà oggettive e soggettive dei corpi. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, il numero (cioè tutte le determinazioni quantitative) sono qualità “reali” (oggettive) dei corpi; ma il colore, il sapore, l’odore, il suono ecc. dipendono dalla percezione che ne ha il soggetto (perciò sono dette “soggettive”) e non esistono come tali nella realtà corporea; in quest’ultima corrisponderanno pertanto a qualcosa che noi non conosciamo. Ammettendo l’esistenza dei corpi, Cartesio ammette dunque che, accanto alla res cogitans, cioè accanto alla sostanza pensante che costituisce l’io, esista una res extensa , ovvero una sostanza corporea che consiste nella materia. Egli divide così la realtà in due zone distinte ed eterogenee, rispettivamente composte da: glossario p. 166 molteplici sostanze pensanti (i singoli io), che sono incorporee, inestese, consapevoli e libere; una sostanza estesa (la materia) che è corporea, spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata. Nel quadro di questo rigoroso dualismo ontologico trovano posto tutte le espressioni della realtà: così come il pensare, il desiderare, il volere ecc. sono «modi» (o atti) della sostanza pensante (la quale ne costituisce il sostegno o il substrato), analogamente i corpi, nelle loro diverse configurazioni geometriche o quantitative, sono «modificazioni accidentali» della sostanza estesa. glossario p. 166 incorporea e inestesa LA RES COGITANS
è
consapevole libera
le due sostanze che costituiscono la realtà
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
corporea e spaziale LA RES EXTENSA
è
inconsapevole determinata
Dopo aver tracciato questa divisione, Cartesio si trova di fronte al problema di riunire le due Il problema sostanze, ovvero di spiegarne il rapporto scambievole, rendendo intelligibile, ad esempio, la del rapporto mente-corpo relazione tra anima e corpo in ogni singolo essere umano. Egli cerca di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (nota oggi come epìfisi). Questa è la sola parte del cervello che non si presenta doppia, e Cartesio ipotizza che proprio tale ghiandola svolga la funzione di unificare le sensazioni provenienti dagli organi di senso (che invece sono pressoché tutti doppi) e “trasferirle” nell’anima, ovvero in qualcosa di incorporeo ( p. 160). enciclosofia epìfisi Ghiandola endocrina appartenente all’encefalo dei vertebrati, responsabile della produzione della melatonina, un ormone che tra le altre cose regola il ciclico alternarsi del sonno e della veglia. Nota fin dai tempi di Galeno, venne chiamata “ghiandola pineale” per la sua forma, simile a quella di una piccola pigna.
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filosofia e scienza
5. Il mondo fisico Sulla base della rigorosa separazione tra sostanza pensante e sostanza estesa, Cartesio può eliminare radicalmente i residui finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici che agli inizi del Seicento ancora appesantivano la conoscenza del mondo naturale. Per questa ragione, il filosofo francese riuscirà a incidere profondamente sulla formazione della mentalità scientifica dell’epoca.
La geometria Abbiamo già visto che Cartesio condivide la distinzione fra proprietà oggettive e soggettive dei corpi, considerando “reali” soltanto le prime. E poiché le proprietà oggettive (o quantitative) sono quelle suscettibili di una trattazione geometrica, la geometria è la scienza su cui si fonda l’intero edificio della sua teoria fisica. Non a caso, la Geometria è il più importante dei tre saggi introdotti dal Discorso sul metodo e costituisce in qualche modo l’atto di nascita della geometria analitica, cioè della disciplina che studia le figure geometriche “traducendole” in formule algebriche. l’unità e i limiti Cartesio ha chiara consapevolezza dell’unità delle diverse discipline afferenti alla matedi geometria matica, le quali, «sebbene i loro oggetti siano differenti, tuttavia si accordano tutte, perché e algebra
negli oggetti esse considerano soltanto i diversi rapporti o proporzioni». Perciò egli ritiene possibile unificare la geometria degli antichi con l’algebra dei moderni, pur nella consapevolezza di come tale operazione necessiti di una preliminare revisione di entrambe queste scienze. La geometria degli antichi, malgrado i suoi incontestabili successi, secondo Cartesio è inficiata dal suo procedere episodico, che costringe per ogni costruzione o teorema a ricercare una dimostrazione ad hoc; essa, in tal modo, non riesce a sollevarsi al livello di generalità necessario per un’impostazione sistematica della disciplina. D’altro canto, anche la nuova scienza algebrica appare a Cartesio «un’arte confusa e oscura», sia per l’uso di simboli inadeguati, dei quali talvolta non si intende del tutto il significato, sia per il rapporto di sudditanza che la lega alla geometria.
Il riordino Cartesio procede quindi a riordinare sistematicamente la simbologia algebrica, trasformandell’algebra e dola in un linguaggio autonomo (che risponde quasi puntualmente a quello usato ancora gli assi cartesiani
FILOSOFIA E SCIENZA Dal reale al virtuale p. 162
oggi), adatto a riprodurre gli oggetti e le regole geometriche in termini puramente formali. Grazie a questa operazione, a sua volta la geometria si offre come strumento di chiarificazione intuitiva dei procedimenti dell’algebra, cioè come una sorta di algebra “applicata” e “figurata”. Il numero e la forma geometrica diventano così traducibili l’uno nell’altra. Tutto ciò richiedeva di interpretare i numeri come distanze, e questo fu possibile grazie all’introduzione di una coppia di linee fondamentali, che oggi chiamiamo appunto “assi cartesiani”, quale sistema di riferimento. In relazione agli assi cartesiani fu possibile collocare su un piano, in maniera univoca, punti, rette e curve, costruendo una perfetta corrispondenza tra figure geometriche e procedimenti algebrici.
enciclosofia algebra Il ramo della matematica che, grazie all’uso di simboli (lettere) al posto dei numeri, studia le regole aritmetiche nella loro generalità, indipendentemente dal singolo caso analizzato. La parola deriva dall’arabo al-giabr, con cui il matematico al-Khuwarizmi (IX secolo) aveva indicato l’equazione tra la formula “A - B = C” e la formula “A = B + C”.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
La fisica Alla geometria, per Cartesio, è integralmente riconducibile la fisica (o filosofia naturale), poiché il mondo, come si è detto, si identifica con l’insieme dei corpi, ovvero con l’estensione. Neppure l’esistenza del movimento può ostacolare questa riduzione, dal momento che anche il tempo (quantità necessaria per misurare il movimento) può assumere agevolmente i connotati di una dimensione geometrica. Fatta questa premessa, è opportuno ricordare che nella fisica cartesiana è quasi totalmente assente la matematica. Sebbene ciò possa sconcertare, a ben vedere non si tratta di una contraddizione, poiché a Cartesio interessa fornire un’interpretazione della realtà naturale che ne renda possibile la spiegazione matematica, senza che con questo egli si senta obbligato a svolgere esplicitamente una tale spiegazione. Di fatto la fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l’infinita varietà dei fenomeni na- Il rapporto turali ai due soli “ingredienti” dell’estensione e del movimento. L’una e l’altro hanno ori- tra il mondo fisico e Dio gine da Dio, che non soltanto ha creato la res extensa, ma l’ha anche dotata di una certa quantità di movimento, il quale è indistruttibile non meno della materia. Dall’immutabilità di Dio deriva dunque l’immutabilità della sua opera, nonché i due fondamentali princìpi di conservazione del moto e della materia. L’identificazione della materia con l’estensione comporta alcune conseguenze di grande rilievo: lo spazio 1. poiché lo spazio geometrico (euclideo) è infinito, è infinita anche la sostanza estesa; e la materia 2. poiché lo spazio geometrico è infinitamente divisibile, tale è anche la materia, la quale pertanto non può essere costituita di atomi; 3. poiché lo spazio geometrico è continuo, cioè non ammette interruzioni, “buchi” o fenditure, il vuoto è inconcepibile (l’estensione, d’altronde, per Cartesio è l’attributo di una sostanza, e pertanto non può sussistere senza una sostanza alla quale inerire); 4. poiché lo spazio geometrico è qualitativamente indifferenziato, le qualità che attribuiamo alla materia in addizione all’estensione sono puramente soggettive. Date queste premesse, si comprende meglio in che senso la fisica cartesiana sia rigorosamente meccanicistica e deterministica. In Cartesio, una spontaneità o casualità della natura, o una sua intrinseca libertà, non sono ammissibili, poiché i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale che è uno dei temi qualificanti della rivoluzione scientifica. L’unico motore della grande macchina del mondo è costituito dalla quantità di movimento impressa originariamente da Dio: movimento che si distribuisce in modi differenti tra i corpi attraverso il loro urtarsi. Il che significa che Cartesio esclude dalla spiegazione del mondo qualsiasi “forza”, sia attrattiva sia repulsiva, e in particolare rifiuta tutte quelle forze che dovrebbero manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali o di qualsivoglia altra natura. glossario p. 166 Due sole leggi dominano l’universo fisico cartesiano: il principio d’inerzia (che in Carte- le due leggi sio, pur frammentato in due leggi distinte, trova finalmente una formulazione adeguata) e dell’universo il principio della conservazione della quantità di moto.
Il meccanicismo
La riduzione della fisica alla geometria si scontra, a dire il vero, con alcune difficoltà che risul- I limiti del tano insormontabili, soprattutto potendo contare sui soli strumenti matematici di cui dispo- modello cartesiano neva Cartesio. In uno spazio euclideo perfettamente omogeneo non si riesce, infatti, a immaginare qualcosa che possa corrispondere a ciò che chiamiamo movimento. Secondo Cartesio, invece, si può ipotizzare che alcuni “frammenti” di spazio si muovano rispetto ad altri, sebbene non si comprenda come sia possibile, in uno spazio uniforme, rilevare tali spostamenti.
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Ma l’aspetto meno convincente della teoria cartesiana risiede nel fatto che proprio quel moto, già poco chiaro a causa dell’assoluta uniformità del tutto, costituisca l’origine delle disomogeneità presenti nella res extensa, la quale alla nostra percezione si manifesta sotto forma di entità solide, liquide o aeriformi, nonché come ciò che noi chiamiamo “spazio vuoto”. Ebbene, per Cartesio i differenti aspetti sotto cui la res extensa si presenta ai nostri sensi dipendono esclusivamente dalle diverse condizioni inerziali dei vari frammenti di estensione in movimento. La compattezza e la durezza di un corpo solido, ad esempio, sarebbero l’effetto di una comune condizione inerziale delle parti che lo compongono, nel senso che all’interno di quel corpo non si verificherebbe alcun movimento relativo (cioè di qualche parte di estensione rispetto ad altre).
Le teorie dei corpuscoli e dei vortici Poiché per Cartesio tutto è materia in movi-
mento, ciò che impropriamente chiamiamo “vuoto” non è che una materia sottile (etere) che riempie ogni spazio tra i corpi solidi. Essa è costituita di «corpuscoli», cioè di frammenti minutissimi di estensione, privi di coesione perché soggetti ciascuno a una differente condizione inerziale. la funzione L’assenza del vuoto finisce inoltre per produrre un inevitabile chiudersi di ogni movimendei vortici to in un circolo. Infatti, quando un corpo si muove attraverso la materia sottile, la quantità
di materia sottile che esso sposta davanti a sé si richiude sulla sua scia. Il che produce un complesso sistema di vortici. Da un vortice è avvolta la Terra, e lo stesso vale per ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la Terra e i singoli pianeti ruotano a loro volta all’interno di un vortice più ampio, da cui è avvolto il Sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio ritiene di poter spiegare la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti senza far ricorso alle aborrite forze a distanza studiate da Newton ( p. 122). Sarebbe infatti il moto vorticoso della materia sottile a spingere verso il suolo terrestre i gravi, e a mantenere la Terra e i pianeti in orbita intorno al Sole. La teoria dei vortici, ovviamente non suffragata da alcuna prova sperimentale, e priva di ogni elaborazione matematica, ebbe un certo successo e fronteggiò per qualche tempo la teoria newtoniana della gravitazione.
la spiegazione L’implacabile riduzionismo meccanicistico cartesiano non risparmia neppure il mondo meccanicistica della vita. Secondo il filosofo francese, infatti, le funzioni vitali non possiedono alcunché della vita
di specifico che le differenzi dai fenomeni di natura puramente meccanica: un essere vivente è soltanto una macchina, un automa funzionante anch’esso in virtù dei princìpi di inerzia e di conservazione del moto. Per Cartesio, anche il corpo umano è dunque una macchina, di cui la res cogitans si serve come di un proprio strumento. E, sebbene il filosofo si affanni a dichiarare che tra anima e corpo esiste un’intima connessione, talvolta si ha invece l’impressione che si tratti di un legame tale che con la morte l’anima debba abbandonare il corpo, non più funzionante, proprio come un automobilista abbandona la propria macchina in panne. La presenza di una res cogitans capace di agire sulla res extensa costituisce pertanto un ulteriore motivo di debolezza del sistema cartesiano.
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Per l’esposizione orale
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1. Che cosa sono la sostanza estesa e la sostanza pensante di cui parla Cartesio, e in che modo si collegano nell’essere umano? 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la soluzione cartesiana al problema mente-corpo: ritieni anche tu, come molti pensatori a lui successivi, che si tratti di una soluzione pseudo-filosofica e pseudo-scientifica? Perché? 3. Spiega in che cosa consista la prospettiva meccanicistica di Cartesio.
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
6. Il mondo umano La morale provvisoria Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare ad applicare il dubbio a ogni conoscenza, Cartesio stabilisce alcune regole di «morale provvisoria», che devono consentire all’essere umano di condursi nella vita anche in una momentanea assenza di certezze:
‘
per non rimanere indeciso nelle mie azioni per tutto il tempo in cui la ragione mi imponeva di esserlo nei miei giudizi e per non rinunziare sin da allora a vivere il più serenamente (Discorso sul metodo, III) possibile, mi formai una morale provvisoria.
La prima regola della «morale provvisoria» cartesiana prescrive di obbedire alle leggi e ai la prima costumi del proprio Paese, osservando la religione tradizionale e comportandosi secondo regola le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi. Con questa regola Cartesio rinuncia di fatto a estendere la propria critica dal dominio della conoscenza a quello della morale, della religione e della politica, manifestando un aspetto della propria personalità che non è affatto provvisorio. Egli, infatti, fu sempre animato da un profondo rispetto per le tradizioni religiose e politiche, tanto che, al ministro protestante Revius, che lo interrogava al riguardo, sembra abbia risposto: «Ho la religione del mio re», «Ho la religione della mia nutrice». In effetti Cartesio distingue nettamente l’ambito della vita pratica da quello della contemplazione della verità. Nel primo, la volontà ha l’obbligo di decidersi senza attendere princìpi certi ed evidenti; nel secondo è invece tenuta a non decidere alcunché, fino a quando l’evidenza non sia stata raggiunta. In altre parole, nel dominio della conoscenza l’uomo non può accontentarsi che della verità evidente, mentre nel dominio dell’azione può accontentarsi anche di una verità soltanto probabile. La prima regola della morale provvisoria ha dunque per Cartesio, entro certi limiti, un valore permanente e definitivo. La seconda regola prescrive di essere il più fermi e risoluti possibile nell’azione e di se- la seconda guire con costanza anche l’opinione più dubbiosa, una volta che si sia deciso di accettarla. regola Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita, che spesso obbligano ad agire anche in mancanza di elementi sicuri e definitivi per scegliere l’azione migliore. Essa, tuttavia, perde il suo carattere provvisorio quando la ragione applichi con rigore il proprio metodo. In tal caso, infatti, è necessario che «vi sia una ferma e costante risoluzione di seguire tutto ciò che la ragione consiglia, senza che ci si lasci deviare dalle passioni o dagli appetiti» (Lettera a Elisabetta, 4 agosto 1645). La terza regola prescrive di cercare di vincere piuttosto sé stessi che la fortuna, e di la terza cambiare i propri desideri più che l’ordine del mondo. Cartesio sostenne sempre che regola nulla è del tutto in nostro potere tranne i nostri pensieri, i quali dipendono soltanto dal nostro libero arbitrio; e individuò sempre il merito e la dignità degli esseri umani nell’uso che sanno fare delle loro facoltà, le quali, se usate correttamente, li rendono simili al loro creatore. In questa prospettiva, la terza regola costituisce il caposaldo della sua morale, ed esprime lo spirito più profondo del cartesianesimo: il monito a lasciarsi condurre unicamente dalla propria ragione, secondo l’ideale (già stoico) della saggezza.
Lo studio delle passioni Tutto preso da interessi prevalentemente metafisici e scientifici, alla sua morale “provvisoria” Cartesio non fece mai seguire una morale “definitiva”. Nello scritto Le passioni dell’anima (1649), tuttavia, sono contenuti anche alcuni spunti di etica.
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le «azioni» e Tra i moti dell’anima umana Cartesio distingue le «azioni» dalle «passioni» (o «affeziole «passioni» ni»): le prime sono “attive”, nel senso che dipendono dalla volontà e attraverso la ghiandell’anima
dola pineale ( p. 155) fanno sì che il nostro corpo si muova come desideriamo (come nel caso in cui facciamo muovere le gambe per camminare); le seconde invece sono “passive”, cioè involontarie, e hanno origine nella stimolazione nervosa da parte degli organi e nella risposta del cervello. Più nello specifico, le passioni sono costituite sia dalle sensazioni (cioè dalla percezione degli oggetti corporei attraverso i sensi), sia da emozioni o sentimenti. Le sensazioni sono causate dal movimento dei cosiddetti «spiriti animali», i quali sono particelle corporee piccolissime che si spostano lungo i nervi (che Cartesio immagina come tubicini sottilissimi), mettendo in collegamento gli organi di senso con il cervello e (attraverso la ghiandola pineale) con l’anima. Ma per Cartesio anche le emozioni sono causate dagli spiriti animali, poiché sono reazioni emotive a determinate condizioni biologiche o meccaniche.
la forza Ora, la «virtù» o la forza dell’anima consiste per Cartesio nel vincere le emozioni e dell’anima nell’arrestare (o almeno arginare) i movimenti degli spiriti animali che le accompagnano, sulle emozioni
mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro, la sollecitano di qua e di là, portandola, per così dire, a combattere contro sé stessa.
le due Ciò non vuol dire che per Cartesio le emozioni siano tutte nocive. In generale, infatti, esse emozioni sono collegate alle esigenze del corpo e svolgono un’importante funzione naturale: quelfondamentali e la loro utilità la di incitare l’anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a mantenere
il corpo efficiente e in salute. In questo senso il dolore e il piacere, ovvero la tristezza e la gioia, sono le emozioni fondamentali, necessarie a conservare il corpo in vita: provando odio o repulsione per ciò che provoca dolore o tristezza, e provando amore o attrazione per ciò che provoca piacere o gioia, l’anima ci guida a evitare ciò che è nocivo per il nostro corpo, e a cercare di conseguire ciò che invece gli è utile.
la saggezza Al di là di questa funzione naturale e “positiva”, alle emozioni Cartesio collega il rischio di come dominio una condizione di «schiavitù» dell’anima da cui l’essere umano deve cercare di liberarsi. sulle emozioni
ESERCIZI
QUESTIONE La ragione può vincere le passioni? (Cartesio, Spinoza) p. 262
Esse, infatti, spesso fanno sembrare il bene e il male assai più grandi e importanti di quanto non lo siano in realtà, inducendo a cercare l’uno e a fuggire l’altro con più impegno di quanto non sia necessario. L’uomo deve quindi farsi guidare non tanto dalle emozioni, quanto dall’esperienza e dalla ragione, perché soltanto così potrà distinguere correttamente il bene e il male, evitando dannosi eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza , la quale si ottiene estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto, e sottraendolo il più possibile all’influenza degli spiriti animali. glossario p. 166 Soltanto la progressiva conquista di un sempre più ampio dominio della ragione sugli aspetti istintivi e irrazionali restituirà agli esseri umani la possibilità di fruire pienamente del loro libero arbitrio, rendendoli realmente padroni della loro volontà.
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Per l’esposizione orale
1. Che cos’è la «morale provvisoria» di Cartesio e su quali regole si basa? 2. Spiega che cosa consiste per Cartesio la saggezza. SNODI PLURIDISCIPLINARI scienze umane
Il tema del rapporto tra ragione e passioni, che occupa una posizione centrale nella concezione cartesiana dell’ideale morale della saggezza, è stato trattato variamente nella psicologia moderna. Qual è la definizione odierna di “passione”, o “emozione”, e quali le teorie più note sul suo rapporto con la “ragione”? In che cosa consiste, ad esempio, l’“intelligenza emotiva”?
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
7. Il razionalismo francese dopo Cartesio Diffusasi prima in Olanda e poi negli altri Paesi d’Europa, la filosofia razionalistica di Cartesio suscitò una larga messe di reazioni, anche di segno opposto, che testimoniano di come il cartesianesimo fosse destinato a diventare un punto di riferimento imprescindibile per la cultura del tempo. Una delle principali manifestazioni seicentesche del razionalismo cartesiano può essere l’occasionalismo individuata nell’occasionalismo. Questa corrente di pensiero, sviluppatasi in Francia, può essere descritta come una specie di scolastica cartesiana, in quanto utilizza la filosofia e il linguaggio di Cartesio per la difesa della fede religiosa, così come la scolastica medievale aveva utilizzato la filosofia e il linguaggio di Aristotele per la difesa del cristianesimo. Tra i principali esponenti dell’occasionalismo ricordiamo Arnold Geulincx (1624-1669) e Il problema Nicolas de Malebranche (1638-1715), la cui riflessione prende spunto dalla separazione del rapporto anima-corpo stabilita da Cartesio tra l’anima come sostanza pensante e il corpo come sostanza estesa, e dal problema del loro rapporto. Affermando che due sostanze separate e di natura diversa non possono agire l’una sull’altra, gli occasionalisti ritengono necessario riconoscere che sia Dio la causa diretta e immediata delle modificazioni che si verificano corrispondentemente nell’anima e nel corpo: non è il corpo la causa delle sensazioni e non è la volontà la causa dei movimenti corporei, ma è Dio che direttamente produce nell’anima la sensazione in occasione di una modificazione corporea e che produce nel corpo il movimento in occasione di una volizione dell’anima. L’unica vera causa è dunque Dio: ciò che accade nel corpo o nell’anima è soltanto un’occasione per l’intervento della causalità divina. La scolastica occasionalistica non fu la sola utilizzazione in chiave religiosa del cartesiane- arnauld e simo. Il pensiero di Cartesio trovò infatti un’applicazione analoga nell’ambito del gianse- la logica di port-royal nismo ( p. 177), il cui maggiore rappresentante è Antoine Arnauld (1612-1694), autore della cosiddetta “Logica di Port-Royal”. Contrario all’idea di far intervenire Dio a ogni passo nel corso delle operazioni conoscitive la concezione dell’uomo, Arnauld formula la sua teoria della conoscenza in netta antitesi rispetto a quel- della conoscenza la di Malebranche, contro il quale è rivolto polemicamente il Trattato delle idee vere e false (1683). Se la conoscenza è per Malebranche una visione “in Dio”, per Arnauld è la percezione immediata di un oggetto. L’idea, secondo Arnauld, è proprio questa percezione. Essa non è un’immagine nel senso in cui un quadro rappresenta l’originale o una parola parlata o scritta rappresenta un pensiero, ma è un’immagine nel senso che è la cosa stessa rappresentativamente o oggettivamente presente nello spirito. A sua volta lo spirito, nel percepire l’oggetto, percepisce anche sé stesso, ovvero è “coscienza”. Questo punto di vista, che sarà ripreso dal filosofo inglese John Locke ( unità 4, cap. 2), la logica è il fondamento della già citata “Logica di Port-Royal”. Con questa espressione si indica mentalistica di port-royal comunemente il trattato intitolato La logica, o arte del pensare (La logique ou l’art de penser), che Arnauld scrive in collaborazione con un altro teologo giansenista, Pierre Nicole (1625-1695), e che viene pubblicata anonima nel 1662. enciclosofia Port-Royal Nome di un’abbazia cistercense fondata nel XIII secolo nella valle di Chevreuse, pochi chilometri a sud-ovest di Parigi. Per oltre quattro secoli l’abbazia ospitò una comunità di monache; poi, a partire dal 1636, venne riorganizzata per accogliere una comunità di laici, priva di regole rigide, i cui membri potessero dedicarsi alla meditazione e allo studio. Furono questi i cosiddetti “solitari di Port-Royal”, tra i quali vissero per periodi più o meno lunghi molti uomini di cultura, compresi Arnauld e Pascal ( cap. 2).
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
DAL REALE AL VIRTUALE: CARTESIO E LA MATEMATIZZAZIONE DEL MONDO La geometria analitica Il nome di Cartesio è comunemente associato ai cosiddetti “assi cartesiani”: si tratta, come ogni studente sa, di un sistema di due rette ortogonali, l’una orizzontale (detta “asse delle ascisse” o “asse x”) e l’altra verticale (detta “asse delle ordinate” o “asse y”) che si intersecano in un punto detto “origine del sistema”. Qualunque punto p del piano su cui tali rette giacciono è univocamente definito da una coppia di numeri (a, b) detti “coordinate cartesiane”, il primo dei quali indica l’ascissa, cioè la distanza del punto p dall’asse y, e il secondo l’ordinata, cioè la distanza del punto p dall’asse x. Questo sistema, che a ogni punto del piano associa una coppia di numeri, è la base della geometria analitica, ovvero di quello studio che permette di trattare gli elementi geometrici (linee e figure) tramite funzioni algebriche. In altre parole, l’intuizione di Cartesio ha consentito di unificare geometria e aritmetica – ovvero due discipline che fino a quel momento erano state considerate come distinte e separate – e di studiare le proprietà di una figura geometrica attraverso lo studio delle proprietà di una funzione algebrica. Secondo una tradizione forse un po’ fantasiosa, l’idea di questo sistema derivò a Cartesio dall’osservazione del volo di una mosca in una stanza: egli si sarebbe infatti reso conto della possibilità di individuare ogni punto della traiettoria di questo volo misurandone la distanza dalle pareti. A dire il vero, l’esposizione di questo sistema fatta da Cartesio nella Geometria (uno dei tre saggi introdotti
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La più grande rivoluzione introdotta da Cartesio nella filosofia è il tentativo di sostituire al modo di procedere speculativo della vecchia metafisica un nuovo metodo: quello della matematica. Le conseguenze di questa rivoluzione sono state enormi, tanto che ancora oggi il mondo in cui noi viviamo può essere considerato un mondo “cartesiano”.
dal Discorso sul metodo) è piuttosto diversa dalle basi dell’odierna geometria analitica, ma l’intuizione di fondo è la stessa, ed è innegabilmente cartesiana: è possibile esprimere gli elementi dello spazio in termini numerici e, quindi, fare della matematica la scienzaregina dello studio del mondo.
La digitalizzazione La matematizzazione del mondo fisico – che non a caso Cartesio chiamava res extensa – è oggi un fatto scontato. Quello che però non era scontato, e che pure si è realizzato a partire proprio da Cartesio, è l’applicazione della matematica a pressoché tutti gli aspetti della vita: all’economia, alla sociologia, alla psicologia, e perfino alla linguistica, alla letteratura e all’arte. Studiando queste discipline, infatti, non è raro imbattersi in grafici (disegnati su assi cartesiani) che rappresentano fenomeni di vario tipo: dall’andamento del prezzo della benzina a quello del livello di istruzione, dalla crescita o decrescita demografica all’incremento o decremento dei disturbi alimentari. L’applicabilità della matematica agli ambiti più disparati ha poi subìto un’espansione esponenziale con l’avvento dei computer. La digitalizzazione (cioè la “traduzione” di un “dato” in una sequenza di numeri che possa essere archiviata o elaborata da un calcolatore elettronico) è diventata una pratica normale: si possono digitalizzare messaggi, immagini, suoni, operazioni bancarie... in pratica tutto ciò con cui abbiamo abitualmente a che fare nella nostra vita.
La grafica computerizzata Ma uno dei campi in cui la digitalizzazione ha avuto gli effetti più sorprendenti è la computer graphic (letteralmente “grafica computerizzata”), un insieme di tecniche grafiche basate sull’elaborazione di informazioni numeriche, cioè su funzioni o algoritmi. Come nella geometria analitica una formula matematica corrisponde a una retta, a una curva o ad una figura geometrica, così nella grafica computerizzata i dati numerici vengono trasformati dal computer e restituiti sullo schermo in forme grafiche. Questo è possibile perché il monitor è suddiviso in elementi puntiformi, detti “pixel” (ad esempio 1024 x 768), che vengono illuminati in un certo modo in base a un’informazione espressa da una formula matematica. I lati del monitor, in un certo senso, sono quindi come gli assi delle ascisse e delle ordinate nel sistema cartesiano. Le applicazioni di questa tecnica sono innumerevoli. Inizialmente essa era destinata a un utilizzo di tipo scientifico-industriale (si pensi alla progettazione di macchinari o di edifici), oppure medico (sul principio della computer graphic si basa ad esempio la TAC, che consente di visualizzare parti interne del nostro corpo). Ma oggi la grafica computerizzata si è trasformata in una vera e propria tecnica artistica, dal momento che ormai è possibile agire direttamente sullo schermo come se si stesse disegnando a mano libera (sarà poi il computer a “tradurre” le nostre operazioni in formule e informazioni digitali che possono essere memorizzate e ulteriormente elaborate).
Reale o virtuale? Le raffigurazioni rese possibili dalla computer graphic hanno raggiunto un livello di realismo veramente eccezionale, dal momento che ai sorprendenti risultati ottenuti dalla grande pittura realistica della tradizione occidentale aggiungono la possibilità di riprodurre “eventi”, cioè immagini in movimento. Cosicché, se Cartesio si proponeva di indagare con la matematica la “vera” realtà – perché, come aveva già detto Galilei, il libro del mondo è scritto in lingua matematica –, oggi il mondo reale
rischia di essere offuscato da un mondo virtuale creato proprio grazie alla matematica:
‘
Gli artifici per dare l’illusione della realtà sono esistiti nell’arte per secoli. Le tecnologie avanzate ci forniscono oggi l’abilità di simulare o forgiare il reale a un livello di fedeltà visiva incredibile. L’arte è sempre illusione, e quando l’illusione è accettata come realtà, questo ci costringe a riprendere in considerazione la domanda filosofica fondamentale: come sappiamo che cosa esiste? (P.J. Davis e R. Hersch, Il sogno di Cartesio, p. 55)
Pur derivando dalle conquiste di Galilei e di Cartesio, gli sviluppi tecnologici odierni sembrano quindi porre in questione le intuizioni stesse dalle quali discendono: la realtà e la matematica sono davvero corrispondenti o sovrapponibili?
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
1. La digitalizzazione del mondo è un fenomeno sempre più pervasivo, che riguarda moltissimi aspetti della vita contemporanea. Essa ovviamente si basa sul principio che tutto sia quantificabile, ovvero che tutto si possa “misurare” ed esprimere in numeri. Rifletti su questo aspetto e rispondi per scritto alla seguente domanda: condividi l’idea che tutto si possa quantificare? e se non la condividi, quali sono gli aspetti non quantificabili, e perché? 2. L’ultima citazione dal libro di Davis e Hersch ripropone in fondo il tema metafisico centrale della riflessione di Cartesio: che cosa esiste? Sulla base di quanto hai letto in questa rubrica a proposito del mondo virtuale creato grazie alla digitalizzazione e alle nuove tecnologie informatiche, rifletti sulle possibilità aperte dalla matematizzazione del mondo, ma anche sui limiti che essa incontra proprio nel principio cartesiano del cogito.
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l’eredità di CARTESIO DA CHI E CHE COSA EREDITA da Montaigne il tratto soggettivistico delle opere
da Agostino il dubbio come punto di partenza della riflessione filosofica
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CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ quella che in Montaigne è più che altro una modalità espositiva diventa in Cartesio una vera e propria linea di ricerca, che fa del soggetto il nuovo centro della riflessione filosofica Cartesio trasforma il dubbio sui dati sensibili in dubbio metodico, applicato sistematicamente a ogni tipo di conoscenza, e quindi in dubbio iperbolico, che grazie all’ipotesi del «genio maligno» investe anche le verità matematiche
da Agostino il passaggio dal dubbio alla certezza di esistere: «se mi inganno, vuol dire che sono»
l’argomento agostiniano viene riproposto da Cartesio nella formula «cogito ergo sum», che il filosofo intende come certezza originaria, autoevidente e necessaria su cui si può edificare l’intero sapere
da Agostino l’idea di Dio come fonte della verità, in quanto luce che illumina i princìpi primi innati nell’anima umana
per Cartesio Dio è garanzia metafisica della verità: l’uomo sa che tutto ciò che si presenta alla sua mente in modo chiaro e distinto (in primo luogo le idee innate) è anche vero, dal momento che egli è stato creato da un Dio buono, che non lo inganna
da Galilei la riflessione sul metodo della scienza
estendendo la riflessione galileiana dall’ambito scientifico a quello della conoscenza in generale, Cartesio delinea un metodo articolato in quattro regole e fondato sul principio generale dell’evidenza
da Platone la concezione dualistica della realtà
il dualismo platonico assume in Cartesio i tratti della distinzione della realtà in due parti, o sostanze, eterogenee: il pensiero (la res cogitans, incorporea, consapevole e libera) e l’estensione (la res extensa, corporea, inconsapevole e meccanicamente determinata)
da Galilei la distinzione tra proprietà soggettive e oggettive dei corpi e la centralità della matematica per la conoscenza del mondo
coerentemente con lo spirito scientifico seicentesco, Cartesio considera “reali” le sole proprietà oggettive dei corpi, vale a dire le proprietà geometriche, misurabili e indagabili matematicamente
da Democrito la concezione meccanicistica del mondo
radicalizzando il meccanicismo democriteo, Cartesio considera il mondo come una grande macchina, regolata dalle sole leggi deterministiche del movimento della materia
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 1 CARTESIO
Il metodo Il punto di partenza della filosofia cartesiana è la ricerca di un nuovo
• metodo
(dal greco méthodos, a sua volta composto da metá, “attraverso”, “per mezzo”, e hodós, “via”, “strada”) procedimento di indagine razionale ordinato e semplice, che permetta di distinguere il vero dal falso e procedere con certezza nello sviluppo del sapere.
Più precisamente, Cartesio pensa a un metodo che possa essere utile sia in ambito conoscitivo sia in ambito pratico: per ottenere uno strumento dotato di una tale generalità egli si ispira al procedimento dimostrativo già applicato dalle discipline matematiche, giungendo a individuare quattro precetti metodologici: la regola dell’evidenza prescrive di attenersi soltanto a ciò che appare chiaro e distinto; la regola dell’analisi prescrive di scomporre i problemi complessi negli elementi semplici che li costituiscono; la regola della sintesi prescrive di passare gradualmente dalle conoscenze più semplici a quelle più complesse; la regola dell’enumerazione e revisione prescrive di controllare la completezza dell’analisi e della sintesi, in modo da non omettere nulla. Tra queste regole, quella fondamentale è la regola dell’evidenza, poiché proprio l’evidenza è per Cartesio il principale contrassegno della verità: «tutte le cose che percepiamo con assoluta chiarezza e distinzione sono vere» (Meditazioni metafisiche, III, 1).
Il passaggio dal dubbio al cogito Prima di applicare il nuovo metodo, al fine di ricostruire su basi certe l’intero edificio delle scienze Cartesio rileva la necessità di sottoporre a critica radicale tutto il sapere del passato. A questo scopo egli applica il cosiddetto
• dubbio metodico
fase della riflessione cartesiana consistente nel considerare provvisoriamente falso tutto
ciò di cui si può dubitare. Il dubbio investe in primo luogo i gradi inferiori del sapere, ovvero le conoscenze sensibili, quindi si estende gradualmente a ogni conoscenza, comprese le conoscenze matematiche.
Nel momento in cui investe anche le verità matematiche (come “2 + 3 = 5”), il dubbio metodico si trasforma in
• dubbio iperbolico
il momento culminante del dubbio metodico cartesiano, consistente nel considerare provvisoriamente falsa ogni conoscenza, comprese quelle da sempre ritenute certe e necessariamente vere. Il dubbio iperbolico è sorretto dall’ipotesi di un «genio maligno, potentissimo, astuto, ingannatore, che abbia posto ogni sua industria nell’ingannarmi», e che faccia apparire vero e certo anche ciò che non lo è.
Tuttavia, proprio nel dubbio più radicale si intravede un elemento di certezza, poiché, in quanto dubita, e quindi pensa, il soggetto deve necessariamente esistere. È questo, in sintesi, il contenuto del principio cartesiano fondamentale, cioè di quello che è comunemente noto come
• cogito
(in latino “penso”, dal verbo cogitare, “pensare”) formula abbreviata del ragionamento «cogito ergo sum», cioè «penso, dunque sono».
Per Cartesio la certezza che l’io ha di esistere in quanto soggetto pensante costituisce la verità originaria che permette di sconfiggere il dubbio.
Le prove dell’esistenza di Dio L’autoevidenza del cogito mi rende certo della mia esistenza in quanto soggetto pensante, ma non garantisce che all’evidenza delle mie idee corrisponda l’effettiva esistenza di una realtà esterna. Per ottenere questa garanzia, Cartesio deve dimostrare l’esistenza di Dio, e di un Dio buono, cioè che non inganni gli esseri umani facendo apparire vero e indubitabile ciò che non lo è. Le prove cartesiane dell’esistenza di Dio partono dalla considerazione delle
• idee
i contenuti del pensiero, che si differenziano a seconda della loro presunta origine. Cartesio distingue infatti tra: idee innate, congenite alla nostra mente; idee avventizie, derivanti dall’esterno; idee fattizie, formate da noi stessi.
La classificazione delle idee in queste tre tipologie è funzionale soprattutto alla prima prova dell’esistenza di Dio, la quale parte appunto dall’idea di una «sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente» (Meditazioni metafisiche, III, 7). Per Carte-
165
sio questa idea (che innegabilmente l’essere umano possiede) non può derivare all’uomo (che è finito) se non appunto da una tale sostanza infinita, ovvero da Dio, che l’ha posta da sempre nell’intelletto umano. Analoga alla prima è la seconda prova, secondo la quale, poiché l’uomo, che è imperfetto, possiede l’idea della perfezione, tale idea deve essere stata posta in lui da un essere perfetto quale è Dio. La terza e ultima prova dell’esistenza di Dio è la ripresa dell’argomento ontologico di Anselmo: in quanto essere assolutamente perfetto, Dio deve esistere necessariamente, perché l’assoluta perfezione implica, tra le sue qualità, anche l’esistenza.
Il dualismo L’esistenza di Dio (che fonda la veridicità delle nostre sensazioni e di tutto ciò che ci appare come assolutamente evidente) garantisce dunque l’esistenza dei corpi: accanto ai soggetti pensanti, esistono anche gli oggetti corporei. Cartesio distingue così, nella realtà, due «cose» o «sostanze» tra loro eterogenee:
La fisica La sostanza estesa, ovvero il mondo naturale nella sua complessità fenomenica, è studiata dalla fisica, che in Cartesio si fonda sulla geometria e procede in modo deduttivo. Più precisamente, il mondo per Cartesio è riconducibile a due soli “ingredienti”: la materia e il movimento, che nel loro comportamento seguono due princìpi di fondo, ovvero quello di inerzia e quello della conservazione del movimento. Sulla base di questi princìpi fondamentali è possibile ricostruire l’intero sistema della natura, secondo un rigoroso
• meccanicismo
prospettiva che, coerentemente con l’atomismo democriteo, riduce la realtà a due soli princìpi esplicativi: la materia e il movimento, escludendo l’esistenza del vuoto.
In Cartesio il meccanicismo si identifica con la propensione a considerare il mondo alla stregua di una grande macchina, indagabile secondo le leggi della meccanica e spiegabile in termini di materia in movimento, ossia secondo criteri non più finalistici e qualitativi, bensì quantitativi e matematici. Cartesio estende la prospettiva meccanicistica a tutti i viventi.
• la res cogitans
(in latino “cosa pensante”) la sostanza pensante, incorporea e inestesa, consapevole e libera, che costituisce la parte spirituale dell’essere umano;
• la
res extensa (in latino “cosa estesa”) la sostanza estesa, corporea e spaziale, inconsapevole e determinata, che costituisce tutti gli oggetti corporei, compreso il corpo umano.
Questa idea è riconducibile a una visione detta
• dualismo ontologico
la concezione secondo cui la realtà è suddivisa in due zone eterogenee e nettamente distinte l’una dall’altra, quali sono la res cogitans e la res extensa cartesiane.
In questo rigido dualismo tutte le attività spirituali (come il pensare, il volere, il desiderare) sono «modi» d’essere della sostanza pensante, che Cartesio tende a identificare con l’«anima» individuale, mentre i corpi sono «modificazioni accidentali» dell’estensione, cioè di un’unica sostanza estesa. La visione dualistica pone il problema del rapporto tra la “dimensione” del pensiero e quella della materia. Cartesio ipotizza che nell’essere umano la comunicazione tra l’anima e il corpo avvenga nella ghiandola pineale, o epìfisi, situata alla base del cervello.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
La filosofia pratica Consapevole del fatto che tutto il suo pensiero si fonda sull’esercizio del dubbio, e che in campo pratico questo causerebbe un’assoluta anarchia, Cartesio delinea una «morale provvisoria», che possa orientare l’azione umana anche prima che siano stati individuati valori certi. Una tale morale si fonda su tre regole: rispettare le leggi e i costumi del proprio Paese; essere fermi e risoluti nelle proprie azioni; cercare di vincere piuttosto sé stessi che la fortuna. Cartesio non elaborerà mai una morale definitiva e si orienterà invece all’analisi delle emozioni, o passioni, ossia di quelle modificazioni involontarie e passive che vengono prodotte nell’anima da forze meccaniche (gli «spiriti animali») che agiscono nel corpo. Secondo Cartesio le emozioni possono spingere l’anima a compiere azioni che servono a conservare il corpo; esse, tuttavia, vanno controllate, perché non prendano il sopravvento sulla ragione. Appunto in ciò consiste la
• saggezza
la capacità di dominare o controllare le proprie emozioni o passioni. Vi si perviene estendendo progressivamente il potere del pensiero chiaro e distinto sulla dimensione emotiva o istintiva di sé.
MAPPE
CAPITOLO 1 CARTESIO LE REGOLE DEL METODO sono
evidenza
analisi
sintesi
enumerazione e revisione
IL CAMMINO DAL DUBBIO AL COGITO parte dal
dubbio metodico
che diventa
che conferma il
dubbio iperbolico
cogito
che riguarda le
che è fondato sulla
che riguarda le
perché
conoscenze sensibili
ipotesi del genio maligno
conoscenze matematiche
si può dubitare di tutto, ma non del fatto di dubitare e, quindi, di esistere come soggetto pensante
L’ESISTENZA DI DIO è dimostrata mediante
la prova che parte dall’idea di una sostanza infinita
la prova che parte dall’idea della perfezione
la prova ontologica
e permette di affermare che
tutto ciò che mi appare come evidente è anche vero, perché Dio è un essere perfetto, che nella sua bontà non mi inganna
l’errore umano deriva da giudizi umani su cose che non appaiono chiaramente
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LA PROSPETTIVA DUALISTICA implica la distinzione tra
sostanza pensante (res cogitans)
sostanza estesa (res extensa)
che è
che è
incorporea e inestesa, consapevole, libera
corporea e spaziale, inconsapevole, determinata
LA FISICA è
si fonda sui
esclude il
rigorosamente deterministica e meccanicistica
princìpi di inerzia e di conservazione della quantità di moto
vuoto = materia sottilissima tra un corpo e l’altro
LA FILOSOFIA PRATICA comprende
l’elaborazione di una morale provvisoria
lo studio delle passioni
che prescrive di
che sono
obbedire alle leggi e ai costumi del proprio Paese
essere il più possibile fermi e risoluti nell’azione
vincere piuttosto sé stessi che la fortuna
modificazioni dell’anima causate da forze meccaniche (gli «spiriti animali») e che devono essere
dominate mediante la ragione
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
CAPITOLO 1 CARTESIO
la ricostruzione del sapere
Con il Discorso sul metodo Cartesio si inserisce in quel fecondo dibattito filosofico che nel corso del XVII secolo si pone alle origini della rivoluzione scientifica moderna. Condividendo tutta l’insoddisfazione di Bacone e di Galilei per la tradizione scolastica e per la vecchia logica di derivazione aristotelica, anche Cartesio aspira alla costruzione di un nuovo sapere, che si dimostri veridico e fecondo anche in virtù della sua applicabilità pratica. TESTO
1
Le regole del nuovo metodo
(Discorso sul metodo)
IL TESTO NELL’OPERA Il Discorso sul metodo, la prima opera a stampa di Cartesio, esce anonimo a Leida nel 1637 e si compone di sei parti, ciascuna delle quali ha una propria autoconsistenza tematica. La prima parte ripercorre il percorso intellettuale di Cartesio, dagli anni della formazione nel collegio gesuitico di La Flèche, fino alla decisione di abbandonare il modello di sapere che lì gli era stato trasmesso; la seconda parte introduce il nuovo metodo; la terza parte espone i princìpi della morale «provvisoria», che si può adottare mentre si mette tutto criticamente in dubbio, nell’attesa di ricostruire una conoscenza valida e di stabilire una morale definitiva; la quarta parte contiene una succinta enunciazione della metafisica cartesiana; la quinta parte presenta alcuni aspetti della fisica cartesiana e si focalizza sul movimento del cuore e sulla circolazione del sangue; la sesta parte, infine, riflette su come possano progredire le scienze grazie al nuovo metodo. Nel passo seguente, tratto dalla seconda parte del Discorso, Cartesio enuncia, in maniera sintetica, le quattro regole del suo metodo. I limiti Quando ero più giovane avevo un po’ studiato, tra le parti della Filosofia, la Logica e, tra di logica, le Scienze Matematiche, l’Algebra e l’Analisi dei Geometri: tre arti o scienze che mi pareva 2 geometria e algebra dovessero contribuire in qualche modo al mio progetto. Quando però le esaminai, mi av-
vidi che, quanto alla Logica, i suoi sillogismi e la maggior parte dei suoi precetti servono più a spiegare agli altri quanto già si conosce o, addirittura, […] a parlare senza discernimento delle cose che si ignorano, anziché insegnarle. Per quanto questa scienza contenga realmente molti precetti ottimi e verissimi, tuttavia ve ne sono mescolati insieme tanti altri dannosi e superflui, che separarli sarebbe quasi tanto arduo quanto trarre una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato. Quanto poi all’Analisi degli antichi [la geometria] e all’Algebra dei moderni, oltre a riferirsi esclusivamente a materie astrattissime e che sembrano inutili, la prima è sempre talmente vincolata alla
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considerazione delle figure, da non poter esercitare l’intelletto senza affaticare molto l’im- 12 maginazione, e la seconda è talmente assoggettata a certe regole e a certe cifre, da diveni14 re un’arte confusa e oscura, che confonde la mente invece di coltivarla. Il proposito di Per tutto questo stimai necessario cercare qualche altro Metodo che, comprendendo i vandelineare un taggi di queste tre scienze, fosse esente dai loro difetti. E poiché il gran numero delle leggi 16 nuovo metodo
fornisce spesso scuse per i vizi, tanto che uno Stato è assai meglio ordinato quando, avendone solo pochissime, vi vengono strettamente osservate, così, in luogo di quel gran nu- 18 mero di precetti che conta la Logica, pensai che mi sarebbero stati sufficienti questi quattro che sto per enumerare, purché decidessi fermamente di non cessare mai, neppure una 20 sola volta, di osservarli.
le quattro Il primo prescriveva di non accettare mai per vera nessuna cosa che non conoscessi con 22 regole del evidenza esser tale: evitare cioè accuratamente la precipitazione e la prevenzione e non nuovo metodo
comprendere nei miei giudizi se non ciò che si fosse presentato alla mia mente con tale chiarezza e distinzione da non aver nessun motivo di metterlo in dubbio. Il secondo consisteva nel dividere ciascuna difficoltà che stessi esaminando in tante piccole parti quante fosse possibile e necessario per giungere alla miglior soluzione di essa. Il terzo nel condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi, e supponendo poi un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri. L’ultimo, infine, era di procedere in ogni caso ad enumerazioni così complete e a rassegne tanto generali da esser certo di non aver omesso assolutamente nulla.
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26 28 30 32
Il fine del Erano state quelle lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili, di cui di solito si 34 nuovo metodo servono i Geometri nelle loro più difficili dimostrazioni, che mi avevan dato motivo di
pensare che tutte le cose conoscibili dall’uomo si susseguissero nello stesso modo, e che 36 alla sola condizione di non accettare per vere quelle che non lo sono e di osservare sempre l’ordine necessario per dedurre le une dalle altre, non potessero darsi conoscenze così re- 38 mote da non poter infine esser raggiunte, né così nascoste che non potessero scoprirsi. (Discorso sul metodo, in Opere scientifiche, a cura di E. Lojacono, utet, Torino 1983, vol. 2, pp. 133-135)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE I limiti di logica, geometria e algebra (rr. 1-14) Nell’intento di evidenziare i difetti delle tre scienze (logica, geometria e algebra) che più lo hanno interessato nei suoi studi giovanili, Cartesio in primo luogo osserva che i sillogismi e la maggior parte dei princìpi della logica tradizionale sono utili non tanto a scoprire qualcosa di nuovo, quanto a spiegare ciò che già si conosce, oppure a parlare di argomenti che in realtà non si conoscono. Il difetto maggiore della geometria euclidea, invece, consiste, oltre che nella sua astrattezza, nel suo stretto legame con le figure, che ne limita il campo di applicazione. Il problema dell’algebra moderna risiede infine nell’eccessiva complessità del suo sistema notazionale, che la rende «confusa e oscura» (r. 14), oltre che astratta.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
Il proposito di delineare un nuovo metodo (rr. 1521) Cartesio intende dunque mettere a punto un metodo che sappia compendiare in sé gli aspetti positivi della logica, della geometria e dell’algebra, superandone però i limiti. E, poiché un gran numero di norme (anche nella vita di una società) genera spesso una mancanza di chiarezza e quindi induce alla trasgressione, il metodo elaborato da Cartesio dovrà essere composto da poche ed essenziali regole. Le quattro regole del nuovo metodo (rr. 22-33) La regola dell’evidenza prescrive di accettare come vere soltanto quelle idee che si presentino alla mente in modo chiaro e distinto. Come Cartesio spiega nei Princìpi della filosofia, «idea chiara» è quella presente e manifesta a uno spirito attento, e «idea distinta»
è quella che, essendo chiara, è separata da tutte le altre e così precisa da non contenere nient’altro all’infuori di ciò che è chiaro. La regola dell’analisi prescrive di semplificare ciò che è complesso scomponendolo nel maggior numero possibile di elementi semplici. La regola della sintesi prescrive, in sostanza, di procedere in modo opposto rispetto a quanto si fa nell’analisi, ricomponendo ordinatamente (dal semplice al complesso) ciò che prima si era scomposto. La quarta e ultima regola prescrive l’enumerazione e la revisione, cioè di passare prudentemente in rassegna tutte le operazioni compiute nell’analisi e nella sintesi, per accertarsi di non aver omesso nulla.
Il fine del nuovo metodo (rr. 34-39) A conferma dell’ispirazione matematico-geometrica del suo metodo, Cartesio ricorda le «lunghe catene di ragionamenti» (r. 34) della geometria euclidea, la cui chiarezza e il cui rigore egli ritiene di poter applicare a qualunque ambito dello scibile umano, costruendo così una sorta di máthesis universalis capace di spiegare in maniera chiara e sistematica ogni aspetto della realtà. Si tratterebbe di una scienza matematica universale, distinta dalle altre discipline matematiche (aritmetica, geometria ecc.) e a esse superiore, in quanto avrebbe per oggetto i loro princìpi comuni.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Cartesio è convinto che, se si riuscisse a sviluppare ogni ambito del sapere mediante le medesime «lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili» (r. 34) che costituiscono le dimostrazioni geometriche, si potrebbe essere certi di sviluppare la conoscenza senza incorrere in errori. Rifletti su questa idea di “esportare” il modello matematico in ogni ambito del sapere: ritieni che sia possibile? Argomenta adeguatamente la tua risposta in un testo scritto (max 35 righe).
Il passaggio dal dubbio alla certezza
Secondo Cartesio, per individuare un fondamento solido della scienza è necessario mettere in dubbio ogni conoscenza e cercare un nucleo di proposizioni indubitabili su cui ricostruire l’intero edificio del sapere. Il filosofo decide quindi di diffidare non soltanto della testimonianza dei sensi, ma anche delle verità logico-matematiche, basate sul principio di non-contraddizione. È proprio superando i vari gradi del dubbio che Cartesio può giungere ad affermare incontestabilmente di esistere.
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Un principio indubitabile
(Meditazioni metafisiche)
IL TESTO NELL’OPERA Le Meditazioni metafisiche sono un percorso in sei tappe in cui vengono trattate le maggiori questioni di “filosofia prima”. Nella prima meditazione, dopo avere sottolineato l’inaffidabilità dei sensi, Cartesio estende il dubbio alle stesse verità di ragione. Nella seconda meditazione Cartesio espone la famosa argomentazione che porta il soggetto che dubita alla certezza della propria esistenza, e stabilisce la distinzione tra la «sostanza pensante» (res cogitans) e la AUDIOLETTURA «sostanza estesa» (res extensa). Nella terza meditazione è proposta la suddivisione delle idee in innate (presenti in noi da sempre), avventizie (provenienti dall’esperienza) e fittizie (frutto di una combinazione tra idee operata dalla mente in maniera libera). Inoltre, a partire dalla constatazione della presenza nella mente umana dell’idea innata di “infinito”, Cartesio dimostra l’esistenza di Dio quale «essere sommamente perfetto». Nella quarta meditazione il filosofo affronta il problema dell’errore e nella quinta pone Dio come garante della verità. Nella sesta meditazione Cartesio analizza la questione dell’esistenza delle cose materiali e dei rapporti tra mente e corpo.
TESTI CARTESIO
TESTO
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Nel passo che segue, tratto dalla seconda meditazione, viene presentato il cosiddetto “cogito”, abbreviazione con cui si indica la proposizione cogito ergo sum, “io penso, io esisto”. Questo è per Cartesio un principio assolutamente certo, perché il dubbio non soltanto non lo scalfisce, ma anzi lo riconferma e lo avvalora, dal momento che per poter dubitare occorre pensare, ovvero esistere come pensiero. la ricerca Dopo la meditazione di ieri sono in preda a tanti dubbi, di cui non posso più scordarmi, e di un «punto non ho idea se ci sia mai modo di risolverli. Ne sono sconcertato, come se, caduto all’im- 2 d’appoggio» per il sapere provviso in un gorgo profondo, non mi riuscisse né di poggiare il piede sul fondo né di ri-
salire alla superficie. Però, continuando a battere la strada imboccata ieri, farò tutto il possibile per mettere da parte quanto si presti anche al minimo dubbio, non diversamente che se avessi accertato che è completamente falso; andrò avanti così finché non conoscerò qualcosa di certo (e, come Archimede non chiedeva che un punto d’appoggio, purché saldo e immobile, per spostare la terra intera, anch’io potrò avere grandi speranze, se mai scoprirò anche soltanto pochissimo di certo, appunto, e fermo), o, se non altro, finché non saprò almeno per certo che certo non c’è niente.
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la certezza Suppongo dunque che tutto quel che vedo ora sia falso, e anche la memoria mi inganni, della propria ossia che non sia mai esistito niente di quel che essa mi rappresenta; e cioè suppongo di 12 esistenza
non avere affatto i sensi, e che siano chimere il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo. Allora, che cosa sarà vero? Forse – dicevo – soltanto che non c’è niente di certo. Ma, intanto, come faccio a sapere se non ci sia pur qualcosa, diverso da quanto ho appena menzionato, di cui non si abbia il benché minimo motivo di dubitare? Esisterà forse un Dio (o con qualsiasi altro nome lo si chiami) che mi infonda i pensieri di tali cose? Non vedo proprio perché mai dovrei crederlo, dal momento che potrebbe pur darsi che a produrli sia io stesso. Ma, allora, non sarò qualcosa almeno io? È a questo punto che rimango incerto, perché è vero che ho supposto di non avere affatto sensi né corpo, e tuttavia – mi chiedo – sono forse io così legato al corpo e ai sensi da non poter esistere senza di essi? Mi sono bensì persuaso che non esiste proprio nulla al mondo, né cielo né terra né menti né corpi; ma per ciò anche che non esisto neppure io? No di certo! Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa!
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l’assoluta verità Ma se ci fosse un non so quale ingannatore, quanto mai potente ed astuto, che si dia da dell’affermazione fare ad ingannarmi sempre? Ebbene, nel caso che lui mi inganni, allora non c’è dubbio che 26 “io esisto”
esisto anch’io; e, mi inganni pure quanto ne è capace, non potrà però mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa. Così, una volta ben bene ponderato tut- 28 to quanto, alla fine si ha da stabilire che l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero, ogniqualvolta io lo pronunci o lo concepisca mentalmente. 30 (Meditazioni metafisiche, Seconda meditazione, trad. it. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 16-18)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La ricerca di un «punto d’appoggio» per il sapere (rr. 1-10) Come ha già ammesso al termine della prima meditazione, Cartesio, approdando al dubbio iperbolico che ha cancellato ogni punto fermo del sapere, si sente come un “naufrago” caduto in un «gorgo profondo» (r. 3) dal quale non si riesce a risalire in superficie. Mettendo in forse le vecchie certezze, il dubbio
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ha prodotto una sorta di “vertigine” in cui ci si sente inquieti e impotenti. Nonostante ciò, il filosofo intende proseguire nella sua spregiudicata e coraggiosa operazione di mettere tutto in forse, sapendo che perverrà comunque a una certezza: o ad una nuova e solida base per la conoscenza umana (un «punto d’appoggio», r. 7, simile alla leva con cui, secondo la tradizione,
Archimede diceva di poter sollevare il mondo), o alla consapevolezza che non vi è nulla di certo. La certezza della propria esistenza (rr. 11-24) Cartesio ripercorre brevemente tutti i passaggi con cui, nella prima meditazione, ha sottoposto al dubbio ogni tipo di conoscenza. Con sapienza quasi drammaturgica, enfatizza la radicalità del dubbio per preparare il lettore alla conquista del principio indubitabile. Per questo si spinge a mettere in discussione perfino la propria esistenza (oltre che l’esistenza delle cose esterne, di sé stesso come corpo e delle stesse essenze matematiche): «non esisto neppure io?» (r. 23). Si tratta di una movenza argomentativa particolarmente efficace, con cui l’autore vuole mostrare che proprio nell’abisso senza fondo del dubbio più radicale si rintraccia il punto saldo di una certezza. Proprio nella sconsolante consapevolezza di non potere che dubitare di tutto, si intravede quel saldo punto archimedeo dal quale sarà possibile partire per risalire verso la luce della verità: la certezza di esistere in quanto soggetto «persuaso di qualcosa» (rr. 22-23). L’assoluta verità dell’affermazione “io esisto” (rr. 2530) La ragione per cui la proposizione «io esisto» (r. 30) è capace di resistere a tutti i gradi del dubbio, compresa l’ipotesi che esista un essere «quanto mai
potente ed astuto» (r. 25) che mi inganna, risiede nel fatto che l’esistenza dell’io pensante è la condizione stessa del dubbio («Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa!», rr. 23-24) e dell’inganno («nel caso che lui mi inganni, allora non c’è dubbio che esisto anch’io», rr. 26-27). La fondazione della verità del cogito non può essere affidata a una dimostrazione logica: in quanto principio, il cogito non può essere dedotto da altro. Si tratta piuttosto di mostrare che la sua presunta negazione implica in realtà la sua conferma: se qualcuno afferma di non esistere, deve comunque ammettere di esistere in quanto pensa (di non esistere). L’esistenza dell’io è poi riconfermata dalla considerazione che tutto ciò che penso potrebbe essere falso, mentre che penso è necessariamente vero. Rispetto alla formulazione presente nel Discorso sul metodo (il celebre «cogito ergo sum»), qui Cartesio utilizza una proposizione («io esisto») che, lungi dall’alludere a un qualunque tipo di deduzione, evidenzia il carattere intuitivo di questa evidenza prima. La certezza della propria esistenza deriva da un’intuizione originaria. Non c’è alcun “passaggio” dal pensiero all’esistenza, ma soltanto la consapevolezza immediata della propria esistenza come pensiero.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Il filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900), nell’opera intitolata La volontà di potenza, afferma: «Dire che, se si pensa, deve esserci qualcosa “che pensi” è semplicemente una formula della nostra abitudine grammaticale, che assegna a un’azione un autore. In breve, qui si enuncia già un postulato logico-metafisico, non si fa una semplice constatazione… Sulla via di Cartesio non si giunge a una certezza assoluta, ma solamente al fatto di una credenza molto forte. Se si riduce quella proposizione a quest’altra: “si pensa, di conseguenza ci sono pensieri”, si ha una semplice tautologia […]» (aforisma 370). Immagina la risposta che potrebbe dare Cartesio a questa critica mossa al suo cogito (max 35 righe).
Dopo avere scoperto di poter credere con assoluta sicurezza alla propria esistenza, Cartesio deve definire gli attributi costitutivi dell’io. Continuando a utilizzare il metodo del dubbio, procede scartando varie ipotesi e giunge alla conclusione di essere una res cogitans, cioè una sostanza pensante. Da tale sostanza si distingue la res extensa, che Cartesio concepisce come estensione geometrica e non come materia contrassegnata da qualità (ad esempio, la figura, l’odore, la consistenza fisica ecc.). TESTO
3
La natura del soggetto pensante (Meditazioni metafisiche) Il brano che segue, tratto dalla seconda meditazione, propone i passaggi compiuti da Cartesio per giungere alla certezza della propria esistenza come soggetto pensante.
TESTI CARTESIO
la res cogitans e la res extensa
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l’oggetto Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere; e la via di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere impru- 2 dell’indagine
dentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto per lo innanzi. 4 Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere 6 combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è intieramente indubitabile. 8
l’esclusione Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essedell’ipotesi re un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: per- 10 “classica”
ché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da una sola questione, cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed avvi- 12 luppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che 14 nascevan prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. […] 16
l’esclusione Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se dell’ipotesi oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingan- 18 “corporea”
narmi? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte 20 queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v’è bisogno che mi fermi ad enumerarle. 22
l’ipotesi Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono alcuni che siano in “spirituale” me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero an- 24
che che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o d’esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. […]
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l’io come «cosa Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una 36 che pensa» cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che im-
magina anche, e che sente.
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(Meditazioni metafisiche, II, in Opere, cit., vol. 2, pp. 207-209)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’oggetto e la via dell’indagine (rr. 1-8) Guadagnata la certezza della propria esistenza, con altrettanta certezza Cartesio vuole ora capire quale sia la natura fondamentale che costituisce il soggetto. Per
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questo si accinge a riesaminare le sue opinioni del passato, sottoponendole allo strumento critico del dubbio, in modo da poter eliminare quelle non certissime.
L’esclusione dell’ipotesi “classica” (rr. 9-16) La definizione dell’uomo come animale ragionevole, di origine aristotelica, è scartata subito, sia per la sua complessità, sia per l’incertezza che caratterizza, a ben guardare, il significato di entrambi i termini che la compongono. Evitando di soffermarsi sulle definizioni filosofiche dell’io, Cartesio preferisce volgersi a quelle idee che in passato gli si erano spontaneamente presentate alla mente nella riflessione sulla natura del proprio essere. Il filosofo allude all’idea del corpo come macchina e a quella dell’anima come vento, o fiamma, o aria sottilissima che vivifica il corpo. L’esclusione dell’ipotesi “corporea” (rr. 17-22) Per quanto riguarda il corpo, poiché qualunque idea sull’esistenza di corpi esterni e sulla natura corporea del proprio io potrebbe essere il frutto di un inganno del “genio maligno”, Cartesio è costretto a sospendere il giudizio su tale ambito.
L’ipotesi “spirituale” (rr. 23-35) Per quanto concerne l’anima, il filosofo deve ovviamente scartare l’idea che essa abbia una qualche facoltà (come la capacità di nutrirsi, la mobilità e la sensibilità) di tipo corporeo. Ma vi è un attributo che è indubitabilmente legato alla natura dell’io: il pensiero. L’io è senz’altro pensiero; non può essere certo di esistere se non perché e fin tanto che pensa. Nessun dubbio può insidiare la certezza che l’essere e il pensiero siano inscindibili. L’io è una sostanza pensante (res cogitans) o, se si preferisce, «uno spirito, un intelletto o una ragione» (r. 34). L’io come «cosa che pensa» (rr. 36-38) Nel ribadire la scoperta di essere «una cosa che pensa» (r. 36), Cartesio specifica che quest’ultima si manifesta attraverso il suo dubitare, concepire, affermare ecc. In questo modo egli chiarisce che il fondamento della conoscenza è il soggetto, inteso come qualcosa che si può definire attraverso i propri atti e non attraverso l’oggetto di tali atti.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Antonio Damasio, neuroscienziato portoghese nato nel 1944, nella sua opera L’errore di Cartesio afferma: «Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, infinitamente divisibile, da un lato, e la stoffa della mente, non misurabile, priva di dimensioni, non attivabile con un comando meccanico, non divisibile; ecco il suggerimento che il giudizio morale e il ragionamento e la sofferenza che viene dal dolore fisico o da turbamento emotivo possono esistere separati dal corpo». Anche secondo te la separazione tra mente e corpo che Damasio attribuisce a Cartesio è un «errore»? Rispondi alla domanda in un testo scritto (max 35 righe), argomentando il tuo punto di vista.
Dio è concepito da Cartesio come una sorta di anello di congiunzione che ci consente di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze (cioè quelle concernenti il mondo). Una volta dimostrata l’esistenza di Dio, infatti, il criterio cartesiano dell’evidenza assume validità assoluta. Essendo perfetto e sommamente buono, Dio non può ingannarci (né permettere ad altri di ingannarci) e dunque noi possiamo senz’altro fidarci di quell’inclinazione a credere nelle idee chiare e distinte di cui egli stesso ci ha dotato. TESTO
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L’esistenza di Dio, l’errore, la verità
(Discorso sul metodo)
Il brano proposto di seguito, tratto dalla quarta parte del Discorso sul metodo, offre la soluzione cartesiana al problema del rapporto tra pensiero e realtà. la necessità Che cosa ci induce […] a credere che i pensieri che ci vengono in sogno siano più falsi deche Dio esista gli altri, visto che spesso non sono né meno vivi, né meno chiari? Che i migliori ingegni vi 2
riflettano pure quanto vogliono: quanto a me non credo che possan mai trovare ragione
TESTI CARTESIO
Dio come garante del nostro sapere
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sufficiente per eliminare tale dubbio, se non presuppongono l’esistenza di Dio. In primo 4 luogo infatti, quella stessa affermazione che poc’anzi ho assunto come regola, cioè che son vere tutte le cose che concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto, è certa solo in quan- 6 to Dio è o esiste ed è un essere perfetto e tutto quanto è in noi viene da lui. Ne consegue che le nostre idee o nozioni, essendo cose reali e provenienti da Dio, in tutto quello che 8 hanno di chiaro e distinto non possono essere che vere. l’origine Di modo che, se abbastanza spesso ne professiamo alcune che contengono il falso, deve 10 dell’errore trattarsi solo di quelle che presentano aspetti confusi ed oscuri, giacché in ciò partecipano
del nulla, cioè tali idee sono in noi così confuse solo perché non siamo del tutto perfetti. 12 D’altronde è evidente che come è inaccettabile che la falsità o l’imperfezione, in quanto tale, proceda da Dio, così è altrettanto inaccettabile che la verità o la perfezione venga dal 14 nulla. Se non fossimo però a conoscenza che tutto ciò che è in noi di reale e di vero viene da un essere perfetto ed infinito, per quanto chiare e distinte fossero le nostre idee, non avrem- 16 mo ragione alcuna che ci facesse certi che esse posseggono la perfezione di essere vere.
l’evidenza […] Infine, sia nella veglia che nel sonno, dobbiamo lasciarci persuader soltanto dall’evi- 18 della ragione denza della nostra ragione. E bisogna notare che dico della ragione, e non dell’immagina-
zione né dei sensi. Infatti, ad esempio, pur vedendo il sole molto chiaramente, non dobbiamo per questo giudicare che sia tanto grande quanto ci appare e, pur immaginando una testa di leone congiunta ad un corpo di capra, non dobbiamo da ciò concludere che vi sia nel mondo una chimera: la ragione, infatti, non ci dice che è vero quel che così vediamo o immaginiamo, ma ci suggerisce che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità, poiché non potrebbe essere che Dio, che è assolutamente perfetto e veridico, le abbia poste nella nostra mente senza che fossero vere. (Discorso sul metodo, in Opere scientifiche, cit., vol. 2, pp. 147-148)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La necessità che Dio esista (rr. 1-9) A causa della fragilità delle nostre certezze sulla realtà esterna, Cartesio osserva che è impossibile distinguere le impressioni che abbiamo in sogno da quelle che abbiamo durante la veglia, a meno di non presupporre l’esistenza di Dio. La regola che prescrive di accogliere come vere soltanto quelle idee che ci appaiano chiare e distinte ha infatti valore assoluto soltanto perché Dio esiste, è perfetto e non ci inganna. L’origine dell’errore (rr. 10-17) Il fatto che si possa cadere in errore non dipende da Dio, ma dalla superficialità dell’uomo, che, ignorando le regole del metodo (in particolare la prima), segue talvolta anche quelle idee che non gli appaiono in modo chiaro e distinto. Infatti l’essere umano, se da un lato partecipa
della perfezione divina, dall’altro, essendo finito, partecipa dell’imperfezione del nulla: per questo è soggetto all’errore, che non può in alcun modo derivare da Dio. E in ogni caso, ribadisce Cartesio, anche di quelle idee che ci appaiono come chiare e distinte noi non potremmo avere alcuna certezza, se non sapessimo che tutto quello che è in noi di reale e di vero ci proviene da Dio. L’evidenza della ragione (rr. 18-26) Cartesio sottolinea infine che, nella veglia come nel sonno, l’evidenza da assumere come criterio gnoseologico fondamentale è quella razionale, e non quella dell’immaginazione o dei sensi. Le costruzioni dell’immaginazione e le impressioni sensoriali, infatti, devono essere giudicate per mezzo della ragione.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Cartesio stabilisce il suo criterio di verità in un essere «assolutamente perfetto e veridico» (rr. 25-26). Ti sei mai interrogato sull’attendibilità delle tue conoscenze? Qual è il fondamento della loro verità, secondo te? Rispondi a queste domande in un testo scritto (max 35 righe), riportando il tuo punto di vista e spiegando perché è in affinità/discontinuità con quello di Cartesio.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 1 Cartesio
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CAPITOLO 2 PASCAL
1. La vita e le opere Il pensiero di Cartesio costituisce la più importante esperienza filosofica del Seicento: ad esso si rifà una fitta schiera di filosofi, sia per svilupparne l’opera sia per criticarla. Se tra coloro che riprendono il progetto cartesiano emerge Spinoza (che tratteremo nel prossimo capitolo), tra coloro che invece lo pongono in discussione – almeno per certi aspetti – spicca Pascal. Blaise Pascal nasce a Clermont (nella Francia centro-meridionale) il 19 giugno 1623. I suoi Gli iniziali primi interessi sono diretti alla matematica e alla fisica. A sedici anni compone il Trattato interessi scientifici delle sezioni coniche; a diciotto inventa una macchina calcolatrice; in seguito compie numerosi esperimenti sul vuoto (descritti nel Trattato sulla pesantezza della massa d’aria e in quello Sull’equilibrio dei liquidi), rimasti classici. Nel 1654 diventa chiara in Pascal la vocazione alla fede cristiana: egli entra allora a far parte dei solitari di Port-Royal ( cap. 1, p. 161). Presso l’abbazia vive già una sua sorella carissima, Jacqueline, che qualche anno prima ha scelto l’abito monacale. Qui Pascal vive meditando e studiando, e continua a coltivare i suoi interessi matematici e scientifici, che lo portano a sviluppare una propria teoria sul comportamento dei numeri nel gioco della roulette (il cosiddetto “triangolo di Pascal”) e alcune leggi del calcolo probabilistico.
La vocazione religiosa e l’ingresso a Port-Royal
In questi anni, a Port-Royal, con Antoine Arnauld ( cap. 1, p. 161) si stanno affermando La dottrina le idee del teologo olandese Cornelio Giansenio (Cornelis Jansen, 1585-1638), il cui giansenista della grazia Augustinus (pubblicato postumo nel 1640) era un tentativo di riformare il cattolicesimo mediante il ritorno alle tesi fondamentali di Agostino, e in particolare a quella della grazia e della predestinazione. Giansenio, infatti, abbracciava la dottrina agostiniana secondo cui il peccato originale ha tolto agli esseri umani la libertà del volere, rendendoli incapaci di scegliere il bene e inclinandoli necessariamente al male: quindi la salvezza dell’anima non è qualcosa che gli uomini possano conquistarsi da sé, bensì il frutto della grazia divina, la quale viene concessa a pochi eletti in virtù dei meriti di Cristo. Giansenio contrapponeva questa prospettiva all’impostazione dottrinale dei gesuiti: questi sostenevano che la salvezza è sempre alla portata dell’uomo, poiché questi possiede una «grazia sufficiente», la quale, se è suffragata dalla buona volontà e da una vita condotta nel rispetto dei precetti della Chiesa, è in grado di salvarlo. Il giansenismo suscitò una vivace reazione negli ambienti ecclesiastici, finché il 31 maggio La difesa del 1653 una bolla di papa Innocenzo X condannò le cinque proposizioni nelle quali la giansenismo Facoltà teologica di Parigi aveva condensato la dottrina dell’Augustinus di Giansenio. Arnauld e i seguaci di Giansenio accettarono la condanna delle cinque proposizioni, ma negarono che esse appartenessero davvero al teologo olandese e si ritrovassero nella sua opera; perciò ritennero che la condanna non riguardasse la dottrina giansenista.
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Dopo qualche anno, la disputa fu ripresa proprio davanti alla Facoltà teologica di Parigi, e Pascal vi intervenne. Il 23 gennaio 1656 egli pubblicò con lo pseudonimo di Luigi di Montalto la prima Lettera scritta a un provinciale da uno dei suoi amici intorno alle dispute attuali della Sorbona; a questa lettera ne seguirono altre diciassette, l’ultima delle quali datata 24 marzo 1657. Le Lettere Le Lettere provinciali di Pascal costituiscono un capolavoro di profondità e di umorismo, oltre provinciali che uno dei primi “monumenti” letterari della lingua francese. Nelle prime lettere della raccolta e la critica ai gesuiti Pascal polemizza contro la dottrina gesuitica della «grazia sufficiente», mentre, a partire dalla
quinta, le sue critiche si rivolgono anche alla prassi dei gesuiti, ritenuta troppo accomodante. Nell’ultima lettera, Pascal ribadisce la dottrina agostiniana della grazia. Tra i due punti di vista opposti – da una parte quello di Lutero, secondo cui l’uomo non contribuisce in alcun modo alla propria salvezza, e dall’altra quello dei gesuiti, secondo cui la salvezza richiede non soltanto la grazia divina ma anche la cooperazione umana – per Pascal bisogna riconoscere, con Agostino, che le nostre azioni sono effettivamente “nostre” in virtù del libero arbitrio, ma che esse sono anche “di Dio”, il quale, concedendoci la sua grazia, fa sì che il nostro arbitrio le scelga. Come dice Agostino, Dio ci induce a fare ciò che gli piace, portandoci a volere ciò che potremmo non volere affatto. In questa dottrina Pascal indica l’autentica tradizione della Chiesa, da Agostino a Tommaso e a tutti i tomisti, nonché il vero significato del giansenismo.
I Pensieri Mentre pubblica le Lettere e attende al suo lavoro scientifico, Pascal lavora anche a un’Apo-
logia del cristianesimo, che avrebbe dovuto essere la sua grande opera. Tuttavia non riesce a condurla a termine, perché la sua salute, malferma fin dall’infanzia, si è ormai fatta estremamente fragile. Il filosofo muore il 19 agosto 1662, a 39 anni, e i frammenti della sua opera apologetica vengono raccolti e ordinati dai suoi amici di Port-Royal, per essere pubblicati la prima volta nel 1669 con il titolo Pensieri.
2. Il problema del senso della vita Il mistero Secondo Pascal la questione più importante e decisiva che l’essere umano deve affrontare dell’uomo e è l’interrogativo sul senso della vita. In alcune tra le sue pagine più note egli scrive: del suo essere al mondo Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra sé stessa, e non conosce sé meglio del resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. […] Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, (Pensieri, 194, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1962) questa stessa morte, che non posso evitare.
‘
Ritenendo che il problema di ciò che l’uomo è per sé stesso sia il più vero e importante, Pascal reputa «mostruoso» che gli individui, occupati nelle mille faccende del vivere e assorbiti dalle vanità sociali, possano rimanervi indifferenti. Le tematiche esistenziali, secondo Pascal, «c’interessano talmente, ci riguardano così profondamente, che bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di venirne in chiaro» (Pensieri, 194). Lo studio dell’essere umano e quello correlativo di Dio e dell’anima – afferma Pascal seguendo Agostino – è il solo che ci sia appropriato. Tutto il resto è «svago», «esercizio intellettuale», «piacere del conoscere» (libido sciendi) e «inutile curiosità».
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Unità 3 IL RazIonaLIsmo e I suoI InteRPRetI Capitolo 2 pascal
L’enigma dell’uomo e della vita, secondo Pascal, non ha alcuna possibilità di soluzione al di fuori della fede. Da questa convinzione emerge la curvatura religiosa del filosofare di Pascal, il quale si propone infatti di difendere la fede cristiana mostrando: 1. l’inadeguatezza della mentalità comune, della scienza e della filosofia di fronte al problema dell’esistenza; 2. la capacità del cristianesimo di dare a questo problema una risposta idonea.
)
Per l’esposizione orale
La fede come orizzonte del filosofare pascaliano
1. Quali sono i princìpi fondamentali della dottrina giansenista? 2. Qual è secondo Pascal la questione più importante a cui l’essere umano deve cercare di rispondere?
3. I limiti della mentalità comune Pascal ritiene che l’atteggiamento più comune di fronte ai problemi esistenziali sia quello del divertissement . Questo termine – che viene solitamente tradotto con “divertimento”, “distrazione”, o “diversione” – non ha il significato volgare di “sollazzo”, bensì quello filosofico di “oblio di sé”, “stordimento” nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali. Il divertimento di cui parla Pascal è quindi una “fuga da sé”, ottenuta mediante una qualsivoglia attività, lavorativa o ricreativa. glossario p. 187 Ma da che cosa fugge l’uomo? Per Pascal, sostanzialmente, si fugge dall’infelicità quale tratto costitutivo della natura umana e dai supremi interrogativi sulla vita e sulla morte:
Il divertissement come fuga dall’angoscia e dalla noia
‘
Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto (Pensieri, 168) meglio, per essere felici, di non pensarci.
Niente è così insopportabile all’essere umano come il rimanere in riposo, senza passioni, senza cose da fare, senza divertimento: proprio allora, infatti, l’uomo sente il suo niente, la sua impotenza, il suo vuoto interiore. E immediatamente affiorano dal fondo della sua anima l’umor nero, la perfidia, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione e, soprattutto, la noia. Il pregio fondamentale di tutte le occupazioni consiste proprio nel distrarre l’individuo dalla considerazione di sé e della propria miserevole condizione. Il desiderio di fuga dall’angoscia e dalla noia fa sì che si ricerchino il gioco, la conversazione, La perenne le varie forme di svago, l’impegno lavorativo e la carriera, perfino la guerra. Tutte queste co- attesa del futuro se non sono desiderate in vista della felicità: nessuno crede davvero che essa consista nel denaro che si può guadagnare al gioco, o nella lepre che si rincorre a caccia, tant’è vero che, se queste cose ci venissero offerte gratuitamente, non le desidereremmo più. Quello che si rincorre attraverso tali occupazioni è in realtà l’occupazione stessa, il trambusto che esse comportano, il quale ci distrae, consentendoci di non pensare alla nostra condizione. Noi non cerchiamo le cose, ma la loro ricerca; e in questo modo non viviamo nel presente, ma in attesa del futuro, e così facendo «non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è inevitabile che non siamo mai tali» (Pensieri, 172). Il divertimento (divertissement) è quindi un’illusione che non genera felicità ma disperde Il divertissement l’essere umano in mille accidenti, procurandogli inevitabili afflizioni. La sola cosa che come fuga illusoria sembra consolarlo delle sue miserie è infatti, in realtà, la più grande delle sue miserie, poiché senza il divertimento affronteremmo “di petto” l’angoscia e la noia, cercando un mezzo più solido per uscirne; invece il divertimento ci riesce piacevole, e così ci fa smarrire, e arrivare alla morte senza la necessaria consapevolezza.
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4. I limiti della scienza L’imprescindibilità Pur essendo uno scienziato, Pascal è convinto che la scienza presenti alcuni limiti, sia in dell’esperienza sé stessa sia in relazione ai problemi umani. Un primo limite è l’esperienza. Sebbene que-
sta rappresenti da un lato il suo punto di partenza e un motivo di forza (Pascal è galileianamente e anti-cartesianamente un fautore del metodo sperimentale), dall’altro lato è pur sempre qualcosa con cui la ragione deve fare i conti, ossia che frena e circoscrive i poteri della ricerca umana.
L’indimostrabilità Un altro limite della scienza è costituito dall’indimostrabilità delle sue nozioni fondamendei princìpi primi tali e dei suoi princìpi primi. Le nozioni che stanno alla base del ragionamento scientifico
(spazio, tempo, movimento ecc.) sfuggono al ragionamento stesso, poiché nel campo del sapere umano, come avevano già notato i filosofi antichi, non risulta mai possibile una regressione all’infinito in cerca di una definizione o di una spiegazione generalissime dei concetti. Pertanto ci si deve per forza arrestare ad alcuni termini che si considerano primi pur senza poterne dimostrare la verità indiscutibile: questi termini rappresentano un limite oltre il quale non si può procedere, ma da cui la catena deduttiva dei ragionamenti è costretta a partire.
L’autonomia della scienza e la sua inutilità nelle questioni esistenziali
Sebbene incontri questi limiti nel suo stesso dominio, tuttavia la scienza rimane, per Pascal, arbitra assoluta nel proprio ambito. Il filosofo francese, infatti, ritiene che dal campo delle conoscenze naturali debbano essere esclusi ogni intrusione metafisica o teologica, così come ogni principio di autorità. Ma di fronte agli interrogativi umani più importanti, la scienza risulta impotente, “muta” ed estranea, mostrando gli stessi limiti della mentalità comune:
‘ ‘
Vanità delle scienze. Nei giorni di afflizione, la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza di questa mi consolerà sempre (Pensieri, 67) dell’ignoranza del mondo esteriore.
In fondo – osserva dunque Pascal – la cosa più preziosa per l’essere umano non è la conoscenza del mondo che lo circonda, ma la conoscenza di sé stesso: Bisogna conoscere sé medesimi: quand’anche non servisse a trovare la verità, giova per lo (Pensieri, 66) meno a regolare la propria vita; e non c’è nulla di più giusto.
Le capacità Poiché, come via d’accesso all’uomo, la ragione scientifica e dimostrativa mostra la sua totadel «cuore» le incapacità, Pascal le preferisce la comprensione istintiva o, come egli la chiama, il cuore ,
che intende come una facoltà capace di: glossario p. 187 1. intuire i princìpi primi che stanno alla base dei ragionamenti; 2. captare gli aspetti più profondi e problematici dell’esistere; 3. rapportarsi a Dio.
Ragione L’antagonismo tra ragione e cuore viene talvolta espresso da Pascal con la celebre contrape cuore posizione fra esprit de géométrie ed esprit de finesse : glossario p. 187
lo «spirito di geometria» è la ragione scientifica, che ha per oggetto le cose esteriori (cioè la realtà naturale) e gli enti astratti della matematica, e che procede dimostrativamente; lo «spirito di finezza» si fonda invece sul «cuore», ovvero sul sentimento, che ha per oggetto l’essere umano e i misteri dell’esistenza, e che procede intuitivamente. Con lo spirito di finezza le cose si “sentono”, più che vedersi; si fatica a farle sentire a quelli che non le avvertono da sé e non si riesce a dimostrarle completamente, poiché non si possiedono i loro princìpi (come del resto non si possiedono fino in fondo quelli della geometria).
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Unità 3 IL RazIonaLIsmo e I suoI InteRPRetI Capitolo 2 pascal
Lo spirito di finezza vede l’oggetto d’un sol colpo e con un solo sguardo, senza passare attraverso il ragionamento discorsivo. Si può esprimere con buona approssimazione la differenza stabilita da Pascal tra spirito di geometria e spirito di finezza dicendo che il primo “ragiona” intellettivamente, mentre il secondo “comprende” intuitivamente. È pur vero che lo spirito di finezza opera anche nell’ambito del sapere matematico-geome- L’ambito trico, consentendo di cogliere i princìpi primi: ad esempio, si intuisce, o si “sente” che vi specifico del cuore sono tre dimensioni dello spazio e che i numeri sono infiniti. Ma l’oggetto specifico dello spirito di finezza è il mondo umano: su di esso si fondano l’eloquenza, la morale e anche la filosofia, poiché soltanto grazie al contributo del sentimento e del «cuore» si può giungere a un’eloquenza davvero persuasiva, ai princìpi di una morale autentica e a una filosofia che sappia affrontare in maniera efficace il mistero dell’esistenza. SPIRITO DI GEOMETRIA
SPIRITO DI FINEZZA
OGGETTO
enti naturali (concreti) ed enti matematici (astratti)
essere umano e temi esistenziali, morali e religiosi
FACOLTÀ
ragione
«cuore»
METODO
dimostrativo
intuitivo
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cos’è per Pascal il divertissement, da che cosa si fugge per mezzo di esso e qual è il suo limite. 2. RIFLESSIONE CRITICA Considera le molteplici attività in cui l’uomo contemporaneo, soprattutto nel mondo occidentale, è impegnato (lavoro, sport, turismo, shopping...): pensi anche tu, come Pascal, che tutte queste occupazioni non siano autenticamente utili, ma servano semplicemente a “distrarci” dai veri problemi dell’esistenza? Argomenta la tua risposta. 3. Quali sono, secondo Pascal, i limiti della scienza? 4. Spiega che cosa sono lo «spirito di geometria» e lo «spirito di finezza», e chiarisci i loro rispettivi metodi e oggetti. Nella tua esposizione, fa’ riferimento anche alla celebre affermazione pascaliana: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» (Pensieri, 177).
5. I limiti della filosofia A differenza della mentalità comune e della scienza, la filosofia affronta i massimi problemi metafisici ed esistenziali (e in ciò risiede la sua nobiltà), e tuttavia non riesce a risolverli. Secondo Pascal, infatti, i filosofi hanno cercato di dimostrare l’esistenza di Dio e hanno indagato la natura dell’essere e dell’uomo, ma a nulla, a ben vedere, sono valsi i loro sforzi.
Il problema di Dio La pretesa di dimostrare che Dio esiste a partire dalla considerazione della natura è per L’indimostrabilità Pascal del tutto infondata, poiché l’ordine e le “meraviglie” del creato non provano di per dell’esistenza di Dio sé l’esistenza della divinità. Soltanto agli occhi di chi già crede la natura appare con evidenza come un’opera divina, mentre per chi non crede può essere spiegata anche senza Dio.
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L’astrattezza Pascal osserva che, dal punto di vista della ragione, l’esistenza di un creatore non è né del «Dio dei chiara né certa, bensì oscura e problematica quanto la sua inesistenza. Inoltre le prove filosofi»
metafisiche dell’esistenza di Dio hanno il limite di giungere a una divinità astratta, a un «Dio dei filosofi e degli scienziati» che appare lontano dall’uomo, essendo un puro ente di ragione a cui tutt’al più si richiede di «mettere in movimento il mondo»:
‘
Non posso perdonare a Descartes. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia (naturale), poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto per mettere (Pensieri, 77) in movimento il mondo: dopo di che, non sa che farsi di lui.
Il problema della condizione umana L’uomo di Incapace di risolvere la questione di Dio, la filosofia è altrettanto inadeguata a spiegare la fronte al condizione umana. Il centro dell’analisi di Pascal è la tesi della posizione intermedia cosmo
dell’uomo nell’ordine del cosmo. Compreso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, anzi tra il tutto e il nulla, nel cosmo l’essere umano risulta un nulla di fronte al tutto e un tutto di fronte al nulla, un misto di essere e non essere.
L’uomo di Questa medietà umana nell’ordine del cosmo trova riscontro anche nell’ordine della conoscenfronte alla za. Nella scala del conoscere, infatti, l’intelletto dell’uomo occupa lo stesso posto occupato dal conoscenza
suo corpo nell’immensità della natura: se in relazione all’essere si può dire che l’uomo sia e non sia, in quanto è qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla, analogamente in relazione al sapere si può dire che egli conosca e non conosca. L’uomo non si trova né in una condizione di completa insipienza, né di totale sapienza, bensì tra l’ignoranza assoluta e la scienza assoluta: non così ignorante da non sapere nulla, né così dotto da sapere tutto. Pur avendo un illimitato desiderio di conoscere, egli è nell’impossibilità di cogliere il principio e il fine delle cose, e deve accontentarsi di apprendere qualche cosa riguardante la “zona mediana” dell’universo.
L’uomo di La medietà caratterizza l’uomo anche in relazione al bene e alla felicità, ovvero nell’ordine fronte al bene pratico. Tutti gli esseri umani, nessuno escluso, si propongono secondo Pascal di realizzae alla felicità
re il bene e di conseguire la felicità. Eppure, anche se la felicità è «il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini», «non occorre un’anima molto elevata per comprendere che quaggiù non ci sono soddisfazioni veraci e durature; che tutti i nostri piaceri sono vani e i nostri mali senza numero» (Pensieri, 194).
L’uomo come Questa situazione esistenziale di medietà determina nell’essere umano uno scarto incoldesiderio mabile tra aspirazione e realtà, e fa sì che egli, filosoficamente parlando, sia un desiderio frustrato
frustrato. Incapace di sentirsi appagato da quel che è, e altrettanto incapace di diventare quel che vorrebbe essere, l’uomo è preso tra volere e non potere, e si trova in uno strutturale dissidio con sé stesso:
‘
Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza. Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte. Siamo incapaci di non aspirare alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di certezza e di felicità. (Pensieri, 437)
L’uomo tra Tuttavia, se negli esseri umani vi sono la spinta verso la verità assoluta, la nostalgia di un miseria e bene totale e l’istinto di una felicità piena, vuol dire che in loro è presente una vocazione grandezza
naturale verso un ordine superiore di essere e di valori, ossia un barlume di grandezza e di nobiltà. La stessa coscienza della propria miseria è un segno di grandezza, perché un vegetale o un altro animale non sono in grado di riconoscersi miseri. A rendere grande l’uomo è la facoltà del pensiero, in cui risiede la sua stessa essenza. Se dal punto di vista spaziale e materiale egli non è che una parte infinitesima del Tutto, in balìa delle forze della natura, in quanto ente pensante è ben superiore alla materia e ai suoi inconsapevoli meccanismi.
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L’essenza dell’essere umano sta proprio in questa ambigua compresenza di miseria e grandezza, che fa di lui un «mostro incomprensibile», una «chimera», un «prodigio», un «paradosso di fronte a sé stesso», e qualcosa di unico al mondo. Ma se la condizione umana è tutta in questa paradossalità, cioè in questa duplicità inelimi- Gli errori nabile di grandezza e di miseria, ogni tentativo di sottolineare un aspetto a scapito dell’altro dei filosofi è destinato a fallire. L’errore della filosofia è stato appunto quello di aver oscillato, in ogni tempo, tra la celebrazione della grandezza dell’uomo e la puntualizzazione della sua miseria. Non essendo capaci di spiegare la dualità insita nella nostra specie, i maestri della filosofia umana hanno cercato di annullarla, elidendo l’uno o l’altro dei due termini.
Il problema della vita pratica Secondo Pascal la ragione filosofica ha finora fallito anche in un altro settore di fondamen- La mutevolezza tale importanza: quello dei princìpi pratici, cioè morali e politici. Gli uomini, infatti, sulla dei princìpi morali base della sola ragione non hanno saputo mettersi d’accordo sulle regole del vivere e del comportamento, e non sono riusciti a elaborare un’etica universale:
‘ ‘
Nulla si vede di giusto o d’ingiusto che non muti qualità col mutar di clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (Pensieri, 294)
I filosofi non hanno saputo accordarsi tra loro neppure nel determinare quale fosse il sommo bene, poiché l’uno lo ha identificato nella virtù e l’altro nel piacere, l’uno nella ragione e l’altro nella natura, l’uno nella vita attiva e l’altro nella contemplazione, e altri ancora hanno affermato che non lo si può trovare, poiché risiede nell’“atarassica” rinuncia a cercarlo. A ben vedere, i cosiddetti princìpi “universali” del comportamento – che gli uomini comuni considerano certi, e i filosofi reputano naturali e razionali – non sono altro che il frutto di convenzioni, abitudini e interessi, oppure della forza o dell’arbitrio:
La natura relativa e convenzionale della morale
La giustizia è quel che è stabilito. (Pensieri, 312) La moda, come determina il piacevole, così determina il giusto. (Pensieri, 309)
Questa sottile dialettica pascaliana – volta a mostrare l’extra-razionalità e la mutevolezza delle regole comportamentali, e a svelare quel sottile inganno per cui, nella mente umana, ciò che è storico diviene naturale, ciò che è relativo assoluto, ciò che è convenzione legge, ciò che è interesse giustizia – è uno strumento per mostrare come la ragione, con le sole sue forze, sia incapace di fondare solide norme comportamentali e come l’essere umano, senza la luce della fede, sia destinato a vagare nell’incertezza e ad approdare allo scetticismo.
)
Per l’esposizione orale
ESERCIZI
1. Come si pone Pascal rispetto alle dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio? 2. Riassumi il pensiero di Pascal sulla condizione “mediana” dell’essere umano nell’ordine della realtà, della conoscenza e dell’azione. 3. Precisa qual è, per Pascal, la vera natura dei princìpi etici e politici. SNODI PLURIDISCIPLINARI lingua e letteratura italiana
Per la loro piacevole leggibilità e per le numerose immagini poetiche, i Pensieri di Pascal possono essere considerati una grande opera letteraria, oltre che filosofica. Particolarmente celebre è la metafora dell’essere umano come «canna che pensa», che richiama la fragilità e insieme la grandezza della nostra natura. Il tema della caducità dell’uomo è presente anche nella lirica barocca. Considera ad esempio i sonetti Tratta delle miserie umane di Giovan Battista Marino (15691625) e L’orologio da rote di Ciro di Pers (1599-1663): quali analogie e quali differenze sono riscontrabili tra questi componimenti e la riflessione di Pascal?
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6. La ragionevolezza del cristianesimo una filosofia Se i limiti della filosofia nell’affrontare il problema di Dio, della nostra condizione esistendei limiti della ziale e della morale sono i limiti stessi della ragione umana, allora l’unica via d’uscita sarà filosofia
quella che potremmo chiamare una “meta-filosofia”, ovvero una riflessione filosofica sull’impotenza della filosofia tradizionale. Scrive infatti Pascal: «beffarsi della filosofia è filosofare davvero» (Pensieri, 4).
un filosofare Tuttavia, se Pascal si fermasse a questa critica della ragione condotta per mezzo della stesche porta sa ragione («nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione», alla fede
Pensieri, 272), continuerebbe a muoversi nell’ambito della filosofia, e precisamente in una forma raffinata di scetticismo. Invece la meta-filosofia di Pascal è la cerniera che unisce ragione e religione: essa si pone al servizio della fede e ne costituisce un originale preambolo, in quanto mette dialetticamente capo al cristianesimo, visto come messaggio sovra-razionale capace di risolvere quei nodi che la ragione, da sola, non riesce a sciogliere. Questo significa che la filosofia, pur essendo sterile, per Pascal rimane però fondamentale, perché, sebbene lasci insoluti l’enigma della nostra natura e l’incognita del nostro destino (anzi, proprio perché li lascia insoluti), funge da stimolo a cercare le risposte altrove, e precisamente in quella superiore forma di conoscenza che è la rivelazione religiosa. L’uomo, per Pascal, è un problema la cui soluzione si trova soltanto in Dio.
un «re Tra le varie religioni, l’unica vera secondo Pascal è quella cristiana, poiché è la sola che decaduto» riesce a spiegare, con la dottrina biblica del peccato originale, sia la grandezza sia la mi-
seria dell’essere umano. Infatti, che uno stesso soggetto accolga in sé due opposti o è una tragica assurdità, oppure è il segno che l’uomo non è come dovrebbe essere, nel senso che risulta privo di qualcosa che un tempo deve aver posseduto. Come un «sovrano decaduto» (roi déchu) è tormentato dalla nostalgia della dignità regale, così l’uomo che ha perso la Verità, il Bene e la Felicità avverte la sofferenza della loro mancanza e l’anelito al loro possesso.
Dio come Gettando un fascio di luce sulla simultanea dignità e bassezza dell’essere umano, la relirimedio gione cristiana spiega dunque la sua perenne inquietudine e frustrazione. Nato per l’infiall’inquietudine umana nito, l’uomo cerca vanamente nel finito la soddisfazione del proprio desiderio di felicità,
dimenticando che il vuoto abissale e la carenza ontologica che porta dentro di sé possono essere colmati soltanto da Dio:
‘
Che mai ci gridano, dunque, quest’avidità e quest’impotenza se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui gli restano ora soltanto il segno e l’impronta affatto vuota, che esso cerca invano di colmare con tutto quanto lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti, e che non può essergli dato da nessuna, perché quell’abisso infinito può esser colmato soltanto da un oggetto infinito ed immutabile: ossia, da Dio stesso? (Pensieri, 425)
La ragionevolezza Se il cristianesimo possiede la chiave esplicativa del mistero della condizione umana, sidel cristianesimo gnifica che esso, pur non essendo un sistema “razionale”, è tuttavia “ragionevole”, ossia
conforme a ragione. Anzi, pur essendo una fede e non una filosofia, il cristianesimo è così aderente alla ragione da essere in grado di chiarire ciò che essa non chiarisce. Di conseguenza, secondo Pascal, la fede non è una fuga immotivata nell’irrazionalità, poiché consiste nel credere in qualcosa che, pur essendo meta-razionale, cioè superiore alle capacità della ragione umana, risulta pur sempre l’unica verità capace di spiegare ciò che la ragione, con le sole sue forze, non può spiegare.
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7. La scommessa su Dio Per mostrare ulteriormente la “ragionevolezza” della fede, Pascal, rivolgendosi in particolare ai “liberi pensatori”, elabora il celebre argomento della scommessa (in francese pari). Non potendo dimostrare con la ragione né che Dio esiste né che non esiste, gli esseri umani La fede come – osserva Pascal – devono scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se scommessa Dio non ci fosse. Nessuno può sottrarsi a questa scelta, poiché anche non scegliere equivale a una scelta negativa, cioè a vivere come se Dio non ci fosse. E dal momento che nessun argomento certo può orientare la scelta nell’una o nell’altra direzione, è necessario valutare quale tra le due opzioni sia quella più “conveniente”. Si tratta dunque di un gioco, di una scommessa appunto, nella quale bisogna soppesare la “posta”, rapportando il valore dell’eventuale perdita a quello dell’eventuale vincita. Ora, chi scommette sull’esistenza di Dio, se vince, vince tutto, mentre se perde, non perde nulla. Infatti, mentre in caso di perdita (cioè se Dio effettivamente non esiste), si perderanno soltanto dei beni materiali e finiti (che si perderebbero comunque nel momento della morte), in caso di vincita (cioè se Dio effettivamente esiste) si guadagnerà quel bene infinito che è costituito dalla salvezza dell’anima e dalla beatitudine eterna. Bisogna quindi scommettere senza esitare che Dio esiste: questa scelta sarebbe già ragionevole se l’eventuale vincita fosse di poco superiore all’eventuale perdita; ma essa diventa tanto più conveniente considerando che la possibile vincita è infinita, e dunque infinitamente superiore a ciò che si può perdere. SCOMMETTENDO SU DIO
SCOMMETTENDO CONTRO DIO
se Dio esiste
si vince l’infinito (la beatitudine eterna)
se Dio non esiste
si perde il finito (i piaceri transeunti del mondo)
se Dio esiste
si perde l’infinito (la beatitudine eterna)
se Dio non esiste
si vince il finito (i piaceri transeunti del mondo)
La ragionevolezza di scommettere sull’esistenza di Dio
Pascal riconosce tuttavia che l’argomento della scommessa non può essere sufficiente a La fede come convincere ad abbracciare la fede: non si può credere a comando e, anche ammettendo la abitudine ragionevolezza del cristianesimo e la convenienza di scommettere sull’esistenza di Dio, ci si può sentire «con le mani legate e la bocca muta», incapaci comunque di credere. Per superare tali difficoltà, secondo Pascal bisogna impegnarsi a fondo, non già aumentando le presunte prove dell’esistenza di Dio, bensì diminuendo le passioni che ostacolano la fede. A questo fine può essere utile entrare nei “meccanismi” della fede, e far tutto come se si credesse: prendere l’acqua benedetta, mettersi in ginocchio, pregare, far dire messe ecc. Ciò farà poco a poco tacere i dubbi, inducendo una sorta di “abitudine alla fede”: come scrive Pascal, una tale consuetudine «vi farà credere e vous abêtira» (Pensieri, 233). L’espressione “vous abêtira” deriva dal verbo abêtir e letteralmente significa “vi abbrutirà”, “vi renderà come bestie” (in francese bêtes). Essa sconcertò i lettori e gli editori di PortRoyal, che inizialmente scelsero di espungerla dal testo. In realtà, nelle intenzioni di Pascal suggeriva probabilmente che la fede deve investire non soltanto lo spirito dell’essere umano, ma anche il suo corpo, la “macchina” che ne costituisce la parte materiale, trasformandosi così in un atteggiamento “automatico”, che non occorre più scegliere o imporsi, ma che scaturisce in modo spontaneo dal proprio essere.
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8. Il fideismo di Pascal Che il cristianesimo, spiegando alcuni dati di base della condizione umana, risulti “ragionevole”, ossia conforme alla ragione, secondo Pascal non significa né che esso sia completamente riconducibile alla ragione e totalmente giustificabile per mezzo di essa, né che si fondi sulla ragione stessa, in quanto presenta alcuni contenuti e aspetti che si possono accogliere soltanto per fede. L’irrazionalità Tra le cose di cui Pascal non intende (o non può) rendere ragione vi è la stessa dottrina del della dottrina peccato originale, su cui, come abbiamo visto, si radica gran parte della sua difesa della del peccato originale religiosità cristiana. Con grande onestà intellettuale, Pascal riconosce infatti le “offese” al-
la ragione che vi sono implicite, pur ribadendo (non senza una sorta di circolo vizioso) che soltanto l’accettazione di questo mistero rende comprensibile la natura dell’essere umano.
La fede come La constatazione dell’irragionevolezza di certi tratti della fede cristiana implica l’idea che “salto” oltre la tra ragione e fede non vi sia un mero passaggio, ma un’autentica rottura, un “salto”, poiché ragione
la logica della fede è meta-razionale, e talvolta addirittura contro-razionale. Per questo il suo “organo” autentico non è la ragione, ma il cuore.
‘
Il cuore e non la ragione sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla (Pensieri, 278) ragione.
La fede come Pascal nega con decisione anche l’idea che la fede si fondi sulla ragione. Anzi, egli afferma che, dono divino a rigor di termini, non si può neanche asserire che la fede sia “preparata” dalla ragione: «La fede
è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento» (Pensieri, 279).
La dottrina del Questo spiega perché Pascal, mentre sembra valorizzare la ricerca umana, di fatto l’annulli, co“Dio nascosto” me dimostra emblematicamente la sua immagine di un «Dio che si nasconde». Egli è infatti
convinto che Dio si manifesti agli uomini e si nasconda nello stesso tempo, risultando non così manifesto da non poter essere negato, e non così occulto da non poter essere affermato.
L’ambiguità La dottrina del Dio nascosto sembra fatta apposta per attribuire agli esseri umani sia il del fideismo merito della fede sia il demerito della mancanza di fede. pascaliano
Tuttavia Pascal lascia intendere che i segni chiaroscuri attraverso cui Dio si manifesta, pur essendo in linea di principio davanti agli occhi di tutti, acquistano la loro effettiva rilevanza soltanto per gli animi che, avendo già in sé la grazia, sono predisposti a coglierli. Pertanto, in ultima analisi, è Dio che, nel suo imperscrutabile disegno e giudizio, lascia i più nella gran “massa dei dannati” e sceglie “pochi eletti” ai quali, mediante la grazia, dà l’occhio per vedere e l’orecchio per udire, cioè la sensibilità per captare le sue manifestazioni. In tal modo la costruzione apologetico-filosofica di Pascal, volta a persuadere lo scettico della “ragionevolezza” del cristianesimo, rischia di essere svuotata di senso. Il “Pascal teologo” mette infine a tacere il “Pascal filosofo”, sebbene quest’ultimo, in virtù del suo “affresco” dell’esistenza umana, continui a essere di gran lunga il più originale, interessante e storicamente decisivo.
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Per l’esposizione orale
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1. Con quali argomenti Pascal sostiene che è “ragionevole” credere nell’esistenza di Dio? 2. Richiama brevemente la relazione che secondo Pascal intercorre tra il libero arbitrio umano e la grazia divina, e spiega in che modo questa concezione inclini il filosofo francese a un atteggiamento fideistico. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera le varie definizioni o descrizioni della fede cristiana (talvolta fra loro contraddittorie) elaborate da Pascal: scelta ragionevole, salto oltre la ragione, dono divino, scommessa, manifestazione e nascondimento di Dio ecc. Quale di queste ti sembra la più convincente, o comunque quella che maggiormente si possa condividere? Per quali ragioni?
Unità 3 IL RazIonaLIsmo e I suoI InteRPRetI Capitolo 2 pascal
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 PASCAL
La vita e le opere Nato nel 1623, Blaise Pascal si interessa inizialmente di scienza; quindi, entrato a far parte della comunità di Port-Royal, si avvicina al giansenismo, dottrina che difende la teoria agostiniana del peccato originale e della grazia. In difesa del giansenismo (condannato dalla Chiesa cattolica), Pascal pubblica nel 1656 le Lettere provinciali. Dopo la morte del filosofo, avvenuta nel 1662, i suoi amici danno alle stampe i Pensieri, che raccolgono numerosi frammenti destinati a un’opera in difesa del cristianesimo.
La concezione dell’essere umano Secondo Pascal il problema fondamentale dell’uomo è costituito dall’uomo stesso, nel senso che l’interrogativo che più assilla gli esseri umani riguarda il loro stesso essere al mondo. Essi, tuttavia, solitamente fanno di tutto per sottrarsi alle domande sul senso profondo della loro esistenza e si rifugiano nel
• divertissement
(dal verbo latino de-vertere, “volgere lontano da”) il “divertimento”, inteso come “distrazione” da sé stessi e dal problema del senso profondo della propria esistenza. Si tratta insomma di una sorta di stordimento, di oblio di sé raggiunto grazie alle molteplici occupazioni quotidiane, individuali e sociali.
Anziché fuggire nel “divertimento”, sottraendosi ai supremi interrogativi sulla vita e sulla morte, l’uomo dovrebbe riconoscere e accettare la propria condizione, che è caratterizzata dalla paradossale coesistenza nella sua natura di miseria e grandezza. La prima consiste nella caducità e nella piccolezza di fronte all’immensità del cosmo (cioè nell’essere una fragile «canna» esposta alle intemperie); la seconda consiste nell’essere una «canna che pensa», ovvero un soggetto pensante, che dunque ha consapevolezza della propria condizione.
Di fronte alla paradossale condizione umana e alla profondità dei problemi esistenziali, a nulla valgono le spiegazioni della scienza, la quale, fondata com’è sulla ragione e su rigorose procedure dimostrative, risulta totalmente inadeguata. Per conoscere sé stessi o occorre una facoltà diversa dalla ragione, ovvero il
• cuore
la capacità intuitiva, o istintiva, di cui l’essere umano si avvale per: 1. cogliere i princìpi primi delle dimostrazioni; 2. captare gli aspetti più tipici e profondi dell’esistenza, che sfuggono all’analisi razionale («Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce», Pensieri, 177); 3. rapportarsi a Dio («Il cuore, e non la ragione, sente Dio», Pensieri, 278).
Alla distinzione tra ragione e cuore Pascal fa corrispondere quella tra
• esprit de géométrie ed esprit de finesse
letteralmente, “spirito di geometria” e “spirito di finezza”, ovvero, rispettivamente: la ragione discorsiva su cui si fonda la scienza, che ha per oggetto gli enti naturali della fisica o gli enti astratti della matematica, e che procede mediante dimostrazioni; e il «cuore», cioè il sentimento e l’intuito, che, per quanto indispensabile anche per cogliere i princìpi scientifici generali, costituisce la via d’accesso più valida al mondo umano e ai problemi etici, politici e religiosi.
La concezione della fede Soltanto nella fede si può ottenere una risposta al mistero della propria esistenza, e l’unica religione autentica per Pascal è il cristianesimo, poiché con la dottrina del peccato originale spiega la caduta dell’uomo e la sua conseguente condizione di «re spodestato». Tuttavia il Dio cristiano di cui parla Pascal non è quello delle dimostrazioni dei filosofi: queste, infatti, non sono in grado di concludere né che Dio esiste, né che Dio non esiste. E, se Dio non si può trovare con il ragionamento, allora sulla sua esistenza bisogna “scommettere”. Con l’argomento del «pari» Pascal cerca di mostrare perché è conveniente vivere come se Dio esistesse: in caso di perdita, si perderanno soltanto beni finiti, mentre in caso di vincita si guadagnerà un bene infinito, cioè Dio stesso e la beatitudine eterna. Mentre si impegna per mostrare la ragionevolezza del cristianesimo, Pascal riconosce che la fede è un salto oltre la ragione, come attestano alcune sue dottrine (prima fra tutte quella del peccato originale). Del resto Pascal crede in un Dio che si manifesta e insieme si nasconde, e concepisce la fede non tanto come impegno e conquista umani, quanto come dono divino.
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MAPPE
CAPITOLO 2 PASCAL
L’ESSERE UMANO è
qualcosa di intermedio
un paradosso
un mistero
negli ordini
in quanto
che
anela all’infinito senza poterlo raggiungere
dell’essere
della conoscenza
della ricerca del bene e della felicità
la ragione scientifica (esprit de géométrie) non può comprendere
LA FEDE spiega la
condizione umana con la
dottrina del peccato originale e rivela che
l’esistenza di Dio non si può dimostrare
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Unità 3 IL RazIonaLIsmo e I suoI InteRPRetI Capitolo 2 pascal
sull’esistenza di Dio è ragionevole scommettere
Dio si mostra e insieme si nasconde agli esseri umani
il cuore (esprit de finesse) può aiutare a svelare
CAPITOLO 3 SPINOZA
Tutte le cose io dico che sono in Dio e che in Dio si muovono. (B. Spinoza, Epistolario, LXXXIII)
Tra i grandi sistemi filosofici che nel Seicento celebrano il trionfo della ragione cartesiana, quello di Baruch de Spinoza è senz’altro il più notevole. Attorno alle tesi centrali della razionalità e intelligibilità del reale e della sua identificazione panteistica con Dio, Spinoza fa convergere temi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate: dal cartesianesimo alla teologia giudaico-cristiana, dal naturalismo e dal neoplatonismo rinascimentali al pensiero arabo. In tal modo prende vita un sistema raffinato e originale, che unisce la visione tradizionale della realtà (metafisico-teologica) ai primi esiti della rivoluzione scientifica.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Un martire della libertà di pensiero
‘
Dal disprezzo all’apprezzamento Per quanto provocatorie, le parole riportate nel riquadro a fianco – con cui il filosofo contemporaneo Bertrand Russell (1872-1970) esprime il suo giudizio su Spinoza – rivelano un’amara verità: quello che oggi può a buon diritto essere considerato «il più nobile e il più degno d’amore dei grandi filosofi» fu, in vita, tra gli uomini più avversati, odiati e perseguitati del suo Paese, isolato dalla comunità intellettuale europea e guardato con diffidenza, come un pericoloso sovversivo. Emblematico a questo proposito è il caso del Dizionario storico e critico pubblicato nel 1697 da un pensatore francese poco più giovane di Spinoza, Pierre Bayle (1647-1706), per il quale il termine “spinozista” è sinonimo di “libertino”, “materialista”, “ateo”, ovvero di una serie di aggettivi che all’epoca suonavano sostanzialmente negativi. Ripercorrendo la vita di Spinoza per individuare i motivi di tanta ostilità, si può comprendere come essa non sia stata altro che l’ingiusto prezzo da lui pagato per avere coraggiosamente sfidato i pregiudizi religiosi e culturali del suo tempo: una sfida condotta attraverso una “militanza” della ragione che, per coerenza e forza morale, non ha eguali nella sua epoca. Tuttavia, se in vita Spinoza paga la tenacia delle proprie tesi divenendo bersaglio di accuse infamanti e disprezzo, con il tempo la sua grandezza avrà la meglio, finendo per essere riconosciuta e celebrata da pensatori di epoche e orientamenti culturali anche molto distanti.
Spinoza è il più nobile e il più degno d’amore dei grandi filosofi. […] Come logica conseguenza, fu considerato, durante la sua vita e per un secolo dopo la morte, un uomo di spaventosa malvagità. (B. Russell, Storia della filosofia occidentale)
Tra ragione e Kabbalah: la “costruzione” di un nuovo Dio DALLA VITA AL PENSIERO
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Un’originale mescolanza Le radici del pensiero di Spinoza sono molteplici e di non facile ricostruzione, ma certamente la filosofia di Cartesio, scoperta negli anni dell’adolescenza, gioca un ruolo fondamentale nell’elaborazione teorica del pensatore olandese. Formato alla religiosità ebraica, Spinoza è subito catturato dal rigore scientifico dei razionalisti, e impara molto presto a guardare con sospetto al “Dio dei suoi padri”, e a cercare di depurarlo dagli elementi superstiziosi per farne un Dio conforme alla ragione. Sorprendentemente, però, accanto a questa “razionalizzazione” della divinità, nella costruzione del sistema metafisico di Spinoza interviene anche la tradizione esoterica ebraica (la Kabbalah), di cui la mente aperta ed eclettica del giovane Bento subisce il fascino. È da questa originalissima mescolanza di elementi Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI iL RACCOntO Di UnA VitA
apparentemente opposti e inconciliabili che emergerà la visione spinoziana del mondo e di Dio.
Una nuova concezione di Dio Per quanto nel testo dell’Etica – la sua opera maggiore – il termine “Dio” ricorra decine di volte, nel corso della sua vita (come nei secoli successivi) Spinoza sarà ripetutamente accusato di ateismo e, in generale, verrà percepito come una figura contraddittoria, come un “ateo traboccante di Dio”, maledetto come “l’uomo più empio del secolo” e insieme benedetto per avere dedicato proprio a Dio pagine di grande intensità. Questa duplicità di giudizio si può meglio comprendere se si considera che mediante la ragione Spinoza “costruirà” una divinità dal carattere fortemente eversivo per l’epoca, priva dei tratti personalistici e trascendenti del Dio biblico, e assimilabile piuttosto
Un ebreo portoghese nella “Gerusalemme d’Olanda” Bento de Spinoza (Baruch in ebraico, Benedictus in latino) nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632. Il padre, Michael, è un mercante di frutta esotica di origine ebraico-portoghese; la madre, Hannah Debora, è la sua seconda moglie, che muore quando Spinoza ha soltanto sei anni. La famiglia di Spinoza apparteneva ai cosiddetti “marrani” (marranos), come erano spregiativamente chiamati gli ebrei sefarditi, cioè quegli ebrei che avevano vissuto nella penisola iberica fino alla fine del XV secolo e che poi, costretti ad abbracciare pubblicamente la religione cristiana, avevano dovuto scegliere se rimanere in patria professando l’ebraismo soltanto in privato, oppure abbandonare la Spagna e il Portogallo in cerca di Paesi più aperti e concilianti. Gli Spinoza facevano parte di questo secondo gruppo e, per praticare liberamente la loro fede, avevano scelto la calvinista e tollerante Amsterdam, la “Gerusalemme del Nord”.
Dall’educazione religiosa alla scoperta della filosofia Nel 1639 Bento entra nella scuola della comunità ebraico-portoghese della sua città, dove studia l’ebraico, la Bibbia e il Talmud sotto la guida di un autorevole maestro, il rabbino Saul Levi Morteira (1596-1660), il quale, di fronte all’intelligenza non comune del giovane, pensa di farne il suo successore. Sarà proprio la brillante intelligenza di Bento, unita a una curiosità vorace e alla profonda conoscenza della lingua ebraica, ad avvicinarlo alle correnti eterodosse dell’ebraismo, e CARTA INTERATTIVA in particolare allo studio della Kabbalah, che svolgerà un ruolo importante nella costru- i luoghi di SPINOZA zione del suo sistema metafisico ( “Dalla vita al pensiero”).
enciclosofia Talmud Uno dei testi fondamentali dell’ebraismo, costituito da un’antica raccolta di commenti al Vecchio Testamento, interpretazioni e delucidazioni dottrinali (in ebraico la parola talmúd significa appunto “insegnamento”, “studio”).
Kabbalah Vasto insieme di testi ebraici contenenti dottrine mistiche ed esoteriche su Dio e sull’universo, che in origine venivano tramandate oralmente all’interno di un gruppo ristretto di iniziati (la parola ebraica kabbaláh si può tradurre con “tradizione”).
a un principio unitario e infinito che si identifica panteisticamente con il mondo.
Tra panteismo cabalistico e dimostrazioni razionali Ed è appunto nel panteismo che si rivela l’influenza della tradizione cabalistica su Spinoza. Il primo a sottolineare questo aspetto sarà un filosofo tedesco di poco più giovane: Gottfried Wilhlelm Leibniz ( cap. 4, p. 234), che nel 1706 pubblicherà una raccolta di Osservazioni sulla Kabbalah e Spinoza, affermando che il pensatore olandese «confonde Dio con il mondo». Al di là delle considerazioni di Leibniz, il giovane Spinoza legge sicuramente uno dei più importanti testi cabalistici, lo Zohar, o Libro dello Splendore, un vasto trattato attribuito allo spagnolo Mosè de León (1240-1305), in cui è descritta la genesi del mondo a partire da un principio divino,
primordiale e infinito: l’En Sof. A tale principio sono ricondotte tutte le infinite manifestazioni della realtà, le quali, più precisamente, sono descritte come infiorescenze o ramificazioni “interne” di Dio: «Tutto è uno», afferma ripetutamente lo Zohar. Il Dio di Spinoza avrà esattamente queste caratteristiche, ovvero quelle di un unico Principio o di un’unica Sostanza che comprende in sé tutte le cose, nelle loro infinite differenze e sfumature. È dunque a partire dalla tradizione cabalistica che nasce la concezione spinoziana della divinità e dell’universo. Ma è con la ragione cartesiana che Spinoza affina tale concezione, pervenendo con la forza del ragionamento a “dimostrare” che la realtà è costituita da una sostanza unica, eterna, increata e infinita, e che tale sostanza non può essere che Dio.
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Nel 1649, a circa diciassette anni, Spinoza è costretto ad abbandonare gli studi per aiutare il padre nell’attività commerciale. Nonostante i nuovi impegni lavorativi, comincia a frequentare la scuola di latino fondata da Franciscus Van den Enden (1602-1674), un libero pensatore, ex-gesuita, trasferitosi anch’egli ad Amsterdam per poter esprimere più liberamente le proprie idee. Van den Enden stimola l’attenzione dei suoi allievi con metodi innovativi, ad esempio facendo loro mettere in scena le commedie dell’autore latino Terenzio (II secolo a.C.). Si dice, fra l’altro, che l’unica donna per la quale Spinoza abbia mai provato interesse sia stata proprio la giovane figlia del maestro, a cui quest’ultimo aveva affidato una parte dell’insegnamento. Van den Enden trasmette a Spinoza l’amore non soltanto per i classici latini, ma anche per la filosofia di Cartesio: nel giro di poco tempo il giovane Bento prende definitivamente le distanze dalla dottrina ebraica ortodossa, per cercare un sapere più saldo nel razionalismo cartesiano e nella scienza ( “Dalla vita al pensiero”).
La scomunica Oltre agli insegnamenti di Van den Enden, ad allontanare Spinoza dall’ortodossia contribuiscono due avvenimenti. Il primo risale agli anni della sua infanzia, e precisamente al 1640, quando il filosofo portoghese Uriel da Costa, che era stato un insegnante di Spinoza e che si era convertito dall’ebraismo al cristianesimo, per essere riammesso nella comunità ebraica di Amsterdam è costretto a rinnegare pubblicamente le proprie idee. Da Costa viene poi flagellato e fatto sdraiare all’ingresso della sinagoga, per essere calpestato dai fedeli uscenti; prostrato dall’umiliazione, pochi giorni dopo si suicida. È probabile che il piccolo Bento (che all’epoca aveva otto anni) sia stato testimone diretto della tragica vicenda di questo martire dell’intolleranza religiosa, rimanendone fortemente colpito. Il secondo avvenimento è l’arrivo in città, nel 1655, di Juan de Prado (o Daniel de Prado, come fu ribattezzato dalla comunità sefardita di Amsterdam), un “libero pensatore” spagnolo, di formazione ebraica ma di idee eterodosse. Influenzato dalle riflessioni di de Prado, nel 1656 Spinoza subisce un interrogatorio da parte dei capi della comunità ebraica, forse in seguito alla delazione di due giovani che avrebbero riferito i suoi dubbi sull’immortalità dell’anima e sull’incorporeità di Dio. Il 27 luglio, ad appena ventitré anni, viene scomunicato, cioè espulso dalla “Nazione d’Israele”. All’interno della sinagoga, alla presenza di tutta la comunità, viene proclamato il cherém (o herém), ossia l’anatema o la scomunica, che consisteva in una lunga sequela di maledizioni:
‘
Su decreto degli angeli e su ordine dei santi, noi scomunichiamo, espelliamo, malediciamo e danniamo Baruch de Espinoza, col consenso di Dio, sempre sia lodato, e col consenso dell’intera santa congregazione. […] Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Il Signore non lo risparmierà; al contrario, la collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest’uomo, e tutte le maledizioni scritte in questo libro penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo. Il Signore lo allontanerà con tutto il male dalle tribù di Israele, in obbedienza a tutte le maledizioni scritte in questo libro della legge […]. Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcun trattato composto o scritto da lui. (Libro delle ordinanze, dagli Archivi della Comunità ebraico-portoghese di Amsterdam, 334, n. 19, f. 408, cit. in S. Nadler, L’eresia di Spinoza, trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2005, p. 4)
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI iL RACCOntO Di UnA VitA
Una filosofia che si fa vita L’isolamento e la dedizione al sapere Il cherém contro Spinoza termina con un “amen” furioso, pronunciato all’unisono da tutti i presenti. A questa esperienza umiliante e dolorosa se ne aggiunge presto un’altra; la scomunica, infatti, non si limita a emarginare Spinoza dai rituali e dalle attività religiose: i rabbini ottengono che anche l’autorità civile lo consideri colpevole, imponendogli di lasciare Amsterdam. Nel 1660, a ventotto anni, Spinoza abbandona dunque la casa del padre (morto cinque anni prima) e si stabilisce a Rijnsburg, un piccolo villaggio presso Leida, dove, lontano dal tumulto della città, può concentrarsi sui suoi studi, iniziando di fatto un’esistenza consacrata alla filosofia ( “Dalla vita al pensiero”). In ottemperanza al precetto rabbinico che prescrive a ogni uomo di imparare un lavoro manuale, Spinoza aveva appreso in gioventù l’arte di fabbricare lenti per strumenti ottici. Dopo aver lasciato Amsterdam, nell’impossibilità di continuare l’attività paterna, questo nuovo mestiere gli consente di sopperire ai propri bisogni.
La vita di Spinoza come “opera filosofica” DALLA VITA AL PENSIERO
Dopo la scomunica, Spinoza si ritrova doppiamente esule e reietto: emarginato dai cristiani in quanto ebreo, e dagli ebrei in quanto eretico. Nonostante la giovane età, riesce tuttavia ad affrontare l’odio e il disprezzo di cui è bersaglio con serenità, impegnandosi a chiarire nei suoi libri, con ferma pacatezza, le ragioni delle proprie idee.
La filosofia come strumento di felicità Tra le vicende biografiche di un filosofo e la sua riflessione c’è sempre un legame indissolubile. Nel caso di Spinoza, però, non è tanto l’opera filosofica ad essere un riflesso della vita, quanto quest’ultima ad essere l’espressione visibile del suo pensiero. La vita di Spinoza è un’autentica “opera filosofica”, di cui le opere scritte rappresentano una chiarificazione su carta. Ciò non deve stupire, dato che secondo Spinoza la filosofia non è altro che un mezzo finalizzato al «conseguimento della suprema perfezione umana», che sola può elargire il bene stabile della felicità. La «gioia continua e suprema» di cui Spinoza va in cerca (e di cui parla nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, che inizia a comporre l’anno stesso della scomunica) non consiste negli onori o nelle ricchezze, bensì in una vita condotta con misura, ordine, probità di costumi e rifiuto del risentimento, ovvero in un’esistenza libera da tutti quei moti dell’animo che generano tristezza e afflizione. E l’unico modo per liberarsene è trovarne
una spiegazione razionale, perché, comprendendo che anche la malvagità umana e le «passioni» negative possono essere spiegate, è più facile accettare le avversità con animo sereno e fermo. In piena coerenza con questo principio, la vita di Spinoza si risolve interamente nella sua filosofia, cioè in un esercizio della ragione finalizzato a raggiungere la «libertà dalle passioni», come ci conferma il pastore luterano tedesco Johannes Köhler (latinizzato “Colerus”, 1647-1707), il quale, avendo dimorato a lungo nella stessa casa del filosofo, racconta di lui: È quasi incredibile come abbia vissuto sobriamente: non costrettovi da estrema indigenza, ché anzi gli veniva offerto denaro a sufficienza, ma per una innata sobrietà e senso della misura e perché non voleva avere la nomea di mangiare a spese altrui […]. Sapeva meravigliosamente temperare le sue passioni. Non lo si vedeva mai né troppo triste né troppo allegro. […] Era in grado di padroneggiare piuttosto bene la sua collera e la sua contrarietà o di tenersele dentro lasciandole trasparire solo mediante un segno o poche brevi parole oppure, per timore che le passioni potessero avere la meglio, si alzava e se ne andava. (Johannes Colerus, Breve ma veridica vita di Benedetto Spinoza, ne Le vite di Spinoza, a cura di R. Bordoli, Quodlibet, Macerata 1994, pp. 74-76)
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Mentre si guadagna di che vivere molando lenti nel suo laboratorio, Spinoza porta a termine il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità (noto anche come “Breve trattato”) che, andato perduto, sarà ritrovato e pubblicato soltanto nel 1862. Nel 1662 inizia a scrivere la prima parte di quello che sarà il suo capolavoro, l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (Ethica ordine geometrico demonstrata). Nel 1663 si trasferisce a Voorburg, un sobborgo dell’Aia, e pubblica l’unico scritto che apparirà con il suo nome: i Princìpi di filosofia cartesiana, una sorta di sommario del cartesianesimo che Spinoza aveva composto per un suo allievo e che, su richiesta di alcuni suoi amici, viene dato alle stampe con un’appendice intitolata Pensieri metafisici, in cui Spinoza espone le sue critiche a Cartesio. L’opera gli procura una certa fama, che supera i confini olandesi per raggiungere anche l’Inghilterra e la Germania. Sempre nel 1663, Spinoza conosce il gran pensionario d’Olanda Johan de Witt (1625-1672), che, divenuto suo amico e ammiratore, gli offre una pensione annua di duecento fiorini. Nel 1670 si trasferisce all’Aia, dove si mantiene, oltre che con il suo lavoro di tornitore di lenti e di ottico, con un’altra pensione annua di trecento fiorini, concessagli dall’amico Simon de Vries (1624-1708), che vorrebbe addirittura nominarlo suo erede universale, ottenendo però il netto rifiuto di Spinoza. Nello stesso anno in cui Spinoza si trasferisce all’Aia compare anonimo e scritto in latino il suo Trattato teologico-politico (1670), che difende la libertà di religione, di pensiero e di espressione, affermando che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito ad ognuno pensare quello che vuole e dire ciò che pensa». Il libro viene condannato come empio, blasfemo e sovversivo sia dalla Chiesa protestante sia da quella cattolica.
enciclosofia gran pensionario d’Olanda Nella Repubblica delle Sette Province Unite (1581-1795) era una delle più alte cariche amministrative, che tuttavia controllava, di fatto, la politica estera, influenzando ogni ambito della vita pubblica.
1630
Ritratto di Johan de Witt, gran pensionario d’Olanda, 1669 ca., Amsterdam, Rijksmuseum.
1640
1650
1642
1648
In Inghilterra inizia la guerra civile
Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni
EVENTI STORICI
VITA DI SPINOZA
1632
1639
Nasce ad Amsterdam
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
194
1633 Galilei è processato e costretto ad abiurare
1632 Rembrandt: Lezione di anatomia del dottor Tulp Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI iL RACCOntO Di UnA VitA
1649
Inizia a frequentare la scuola della comunità ebraica
Inizia a lavorare con il padre e a studiare con Van den Enden
1637
1644
Cartesio: Discorso sul metodo
Torricelli dimostra l’esistenza del vuoto
1642 Borromini: Sant’Ivo alla Sapienza (Roma)
1644 Milton: Areopagitica
Il rifiuto dell’insegnamento universitario Per quanto uscito anonimo, il Tractatus viene attribuito quasi subito a Spinoza, contribuendo ad accrescerne la fama. Nel 1673 il principe elettore del Palatinato, Carlo Ludovico (1617-1680), gli offre una prestigiosa cattedra di filosofia a Heidelberg, ma Spinoza rifiuta l’offerta, nonostante possieda appena il necessario per vivere. Nella lettera di risposta al principe palatino spiega i motivi del diniego, affermando di non voler rinunciare – in cambio di un incarico accademico, per quanto prestigioso – a quella «libertà di filosofare» (libertas philosophandi) che con la scomunica ha pagato a caro prezzo. Del resto è consapevole di non poter insegnare pubblicamente le proprie dottrine (condannate da tutte le autorità religiose e civili), a meno di non «turbare la religione pubblicamente istituita»:
‘
Io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella libertà di filosofare, affinché non sembri che io voglia perturbare la religione pubblicamente costituita […]. Io non declino l’invito per la speranza di migliore fortuna, ma per amore della tranquillità, che in nessun altro modo credo di potermi assicurare se non astenendomi dal pubblico insegnamento. (B. Spinoza, Epistolario, XLVIII, a cura di A Droetto, Einaudi, Torino 1974, p. 222)
La morte e le opere postume Nel 1674 Spinoza termina la sua opera fondamentale, la cui stesura lo impegnava ormai da anni: l’Ethica more geometrico demonstrata, che comincia a circolare manoscritta nella cerchia dei suoi amici. Il testo scatena un diffuso «odio teologico», a causa del quale il filosofo decide di rinviarne la pubblicazione: verrà dato alle stampe soltanto dopo la sua morte, nel 1677, in un volume di Opere postume pubblicate in latino e olandese con le sole iniziali “B.D.S.”, senza il nome né la città dell’editore. Affetto da disturbi respiratori congeniti, aggravati dalla polvere di vetro inalata a lungo durante il lavoro di intaglio delle lenti, Spinoza muore di tubercolosi il 21 febbraio 1677, all’età di quarantaquattro anni. La raccolta delle sue Opere postume include, oltre all’Etica, un Trattato politico e un Trattato sull’emendazione dell’intelletto, entrambi incompiuti, e un certo numero di Lettere.
1650
1660
1670
1652
1660
1665
1672
Prima guerra anglo-olandese
In Inghilterra restaurata la monarchia con Carlo II Stuart
Seconda guerra anglo-olandese
Terza guerra anglo-olandese
1656
1660
Viene scomunicato
Si trasferisce Si trasferisce a a Rijnsburg Voorburg; Princìpi di filosofia cartesiana
1663
1670
1674
1677
Si trasferisce all’Aia; Trattato teologico-politico (anonimo)
Termina la stesura dell’Etica
Muore all’Aia
1651
1662
1669
Hobbes: Leviatano
In Inghilterra nasce l’accademia scientifica Royal Society
Pascal: Pensieri (postumi)
1648-1651
1673
1677
Bernini: Fontana dei Quattro Fiumi (Roma, piazza Navona)
Molière: Il malato immaginario
Racine: Fedra
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1. la concezione della filosofia Tra il 1658 e il 1659 Spinoza scrive il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, un’opera giovanile che, pur rimasta incompiuta, è stata considerata dai critici come un “Discorso sul metodo” spinoziano, parallelo a quello di Cartesio. In realtà, in questo scritto Spinoza rivela una concezione della filosofia come via verso la salvezza che va ben oltre le preoccupazioni prevalentemente metodologiche-gnoseologiche di Cartesio, e che lo avvicina piuttosto a quella tradizione filosofico-religiosa che unisce i pensatori ellenistici ad Agostino. la ricerca del Come appare dall’introduzione al Trattato – che è la parte più bella dell’opera, nonché una bene autentico delle gemme della letteratura filosofica di tutti i tempi – lo spinozismo ha origine da una
delusione per ciò che nella vita è comunemente considerato un valore, e si alimenta della ricerca di un «vero bene», capace di dare un significato all’esistenza e di colmare la sete umana di felicità:
‘
Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che occorrono nella vita comune sono vane e futili, e dopo che ebbi visto che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, stabilii finalmente di cercare se non si desse qualcosa che fosse un vero bene, capace di comunicarsi a noi e da cui soltanto, abbandonate tutte le altre cose, l’animo fosse mosso.
La critica della visione comune la condanna Con una rapida quanto incisiva analisi dei beni comunemente ricercati dagli uomini dei beni finiti – le ricchezze, gli onori e i piaceri dei sensi – Spinoza afferma chiaramente che si tratta
di beni «vani», perché: non appagano veramente l’animo e i suoi bisogni profondi; sono effimeri; generano perlopiù inquietudine. Grazie alla loro natura ingannevole – la consapevolezza della quale si identifica con l’illuminazione che spinge l’uomo verso una nuova esistenza e, quindi, verso la filosofia – tali presunti beni hanno la forza di incatenare la mente degli esseri umani, oscurandone le facoltà e ostacolando la ricerca di valori autentici e superiori. Un esempio emblematico è costituito dalla «libidine», di cui Spinoza dice: «l’anima è presa da essa come se si trattasse di qualche bene ed è impedita completamente di pensare a qualche altro bene. Ma dopo la fruizione dei piaceri dei sensi, segue una somma tristezza, la quale, se non annienta la mente, tuttavia la perturba e la rende ottusa». Quanto invece all’onore, «per ottenerlo si deve necessariamente condurre la vita secondo le opinioni altrui, sfuggendo ciò che generalmente si sfugge e cercando ciò che generalmente si cerca». Infine, per ciò che attiene alle ricchezze, vi sono «molti esempi di coloro che [per procurarsele] hanno sopportato la persecuzione sino alla morte […] e anche di coloro che, per procacciarsele, si esposero a tanti pericoli da scontare la pena della loro stoltezza con la vita».
la relativizzazione È bene chiarire, tuttavia, che Spinoza non critica i beni materiali in quanto tali, ma in della prassi quanto, essendo scambiati per il sommo bene, si trasformano in impedimenti al suo comune
raggiungimento. In altre parole, il filosofo non condanna i beni finiti in sé, ma la loro assolutizzazione e la loro quotidiana trasformazione da mezzi in fini dell’agire umano.
196
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
In sostanza, la posizione di Spinoza non implica un rifiuto totale dei valori comuni, ma soltanto una loro relativizzazione in vista di qualcosa di più alto:
‘
vidi che l’acquisizione del denaro, la libidine e la gloria tanto più movevano l’animo quanto più venivano cercate per sé e non come mezzi in vista di qualche altra cosa. Cercate come mezzi, sono capaci di misura e possono non nuocere, anzi, come a suo luogo dimostrerò, possono essere, al fine per cui si cercano, anche utili.
La via dell’autentica realizzazione umana Il «vero bene» che Spinoza ha in mente e che vuole inseguire con tutto sé stesso, a costo di la ricerca lasciare il certo (i beni volgari) per l’incerto (l’ipotetica perfezione ideale), deve poter sod- dell’eterno e dell’infinito disfare appieno l’animo, procurandogli l’agognata serenità e letizia. Ma, come aveva già insegnato Agostino (il quale aveva condotto un’analoga ricerca della via per l’autentica realizzazione umana), l’unico bene capace di “far riposare” l’animo e di curare in profondità la sua inquietudine è meta-temporale e meta-finito: «l’amore per la cosa eterna ed infinita – scrive Spinoza – riempie l’animo di pura letizia e lo rende immune da ogni tristezza», poiché rende la mente beata non di una gioia passeggera, ma di una felicità stabile e ferma, come l’essere che ne costituisce l’oggetto. Tuttavia, mentre per i filosofi cristiani la «cosa eterna ed infinita» si identifica con Dio e la la concezione gioia suprema con il suo raggiungimento celeste, per Spinoza l’infinito e l’eterno si iden- panteistica dell’infinito tificano con il cosmo (panteismo) e la gioia suprema con «l’unione della mente con la natura». E questo traguardo di «beatitudine», di cui nei prossimi paragrafi vedremo i caratteri concreti, viene presentato da Spinoza in chiave non soltanto terrena, ma anche comunitaria (e non individualistica); nell’introduzione al Trattato sull’emendazione dell’intelletto egli dichiara infatti esplicitamente: «appartiene alla mia felicità fare in modo che gli altri comprendano le cose come le comprendo io».
2. la metafisica Il capolavoro di Spinoza, l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (Ethica ordine geometrico demonstrata) è una sorta di enciclopedia delle scienze filosofiche che tratta di vari problemi: metafisico-teologici, gnoseologici, antropologici, psicologici e morali ( p. 207), con particolare attenzione, come suggerisce il titolo, all’etica. Per comprendere la metafisica spinoziana è dunque a quest’opera che bisogna guardare, e in particolare alla prima delle cinque parti in cui essa si suddivide, dedicata a Dio. Prima di addentrarci nel sistema metafisico di Spinoza, è bene ricordare il metodo da lui se- Il metodo guito nell’Etica: come esplicitamente suggerito dal titolo, il filosofo espone le proprie teorie geometrico ispirandosi al modello geometrico seguito da Euclide nei suoi Elementi, accordandosi in questo alla mentalità matematizzante dell’epoca, che perseguiva l’ideale di un sapere rigoroso e universalmente valido. Il procedimento espositivo seguito da Spinoza è dunque deduttivo, articolato in definizioni, assiomi, proposizioni (cioè teoremi, ovvero tesi da dimostrare), dimostrazioni (dei teoremi), corollari (cioè conseguenze) e scolii (cioè delucidazioni). In generale, gli interpreti sono apparsi poco entusiasti del geometrismo filosofico spinoziano e lo hanno perlopiù considerato come una sorta di “camicia di forza” imposta a un contenuto refrattario, con il risultato di rendere spesso più difficile la lettura e incompleta l’esposizione.
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Il concetto di sostanza Una volta chiarito il metodo espositivo scelto da Spinoza, possiamo analizzare le sue dottrine. Il concetto fondamentale da cui egli parte per dedurre tutto il suo sistema metafisico è quello di «sostanza». la concezione Nella tradizione greco-medievale, per “sostanza” si intendeva (aristotelicamente) l’indiviaristotelica duo concreto (ad esempio Socrate) in quanto sostrato o sostegno ontologico delle sue
proprietà accidentali (ad esempio l’essere bianco) e soggetto logico dei suoi predicati (come nell’affermazione “Socrate è bianco”). Nella prospettiva aristotelica, dunque, la sostanza sussiste in sé (perché, diversamente dagli accidenti, non ha bisogno di nulla su cui poggiarsi) e si concepisce per sé (poiché un predicato si comprende soltanto in riferimento a un soggetto, ma non viceversa).
la concezione Insistendo sull’autonomia e sull’autosussistenza della sostanza (la quale, a differenza degli cartesiana accidenti, esiste di per sé), Cartesio aveva finito per riferirla non più agli individui, bensì a
Dio, inteso come realtà originaria e autosufficiente per eccellenza, che, essendo causa sui (causa di sé), non riceve l’esistenza da altro. Tuttavia Cartesio non era stato completamente fedele a sé stesso, dato che accanto alla sostanza divina o creatrice aveva ammesso, come sostanze seconde o derivate, la res extensa e la res cogitans, intese come due realtà che per esistere hanno bisogno di Dio.
la critica Il discorso di Cartesio presenta per Spinoza alcune ambiguità: per il filosofo francese, infatti, di spinoza l’estensione o la materia, benché non abbia bisogno d’altro per essere concepita (è un concetto a Cartesio
originario, o primo) né dei singoli corpi per esistere (dal momento che essi sussistono soltanto come modificazioni accidentali della materia e sono conoscibili soltanto in quanto riconducibili alla loro estensione misurabile), ha comunque bisogno di Dio, che l’ha creata. Lo stesso vale per la sostanza pensante che, pur essendo un concetto primo e originario, è creata da Dio. Obietta quindi Spinoza: come possono la materia e il pensiero essere “sostanze”, se per esistere hanno bisogno di un’altra sostanza che le crei? La conclusione di Spinoza è che esiste un’unica sostanza, mentre pensiero ed estensione (come vedremo) sono suoi «attributi», cioè aspetti qualitativamente diversi di quell’unica sostanza, che l’intelletto percepisce nel momento in cui cerca di conoscerne l’essenza costitutiva.
la definizione Spinoza si propone dunque di andare oltre Cartesio, sviluppando con la massima coerenspinoziana za tutte le implicazioni logiche della definizione di sostanza . Questa ricalca apparentemente quella aristotelica (già ripresa anche da Cartesio): glossario p. 218
‘
Intendo per sostanza ciò che è in sé e per sé si concepisce, vale a dire ciò il cui concetto non ha (Etica, I, def. III) bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato.
Con la prima parte della formula («è in sé») Spinoza intende dire che la sostanza, essendo “da sé” (perché tale è il significato dell’espressione “in sé”), deve la propria esistenza unicamente a sé stessa, ed è quindi una realtà autosussistente e autosufficiente, che per esistere non ha bisogno di altri esseri. Con la seconda parte della formula («per sé si concepisce») intende affermare che la nozione di sostanza, essendo concepibile soltanto per mezzo di sé stessa, rappresenta un concetto che per essere pensato non ha bisogno di altri concetti. Pertanto la sostanza gode di una totale autonomia ontologica e concettuale, poiché si identifica con una realtà che non presuppone l’esistenza di alcuna altra realtà ma è anzi presupposta da ogni altra possibile realtà, e con un concetto che non presuppone alcun altro concetto ma è anzi presupposto da ogni altro possibile concetto.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
Le caratteristiche fondamentali della sostanza Dalla definizione della sostanza come «ciò che è in sé e per sé si concepisce» Spinoza deriva le proprietà della sostanza una serie di proprietà di base che la caratterizzano: la sostanza è increata in quanto, essendo per natura causa di sé (causa sui), cioè un ente «la cui essenza implica l’esistenza», per esistere non ha bisogno di altro che di sé stessa, cioè non necessita di un presunto ente creatore; la sostanza è eterna in quanto, possedendo come sua nota costitutiva l’esistenza, che non riceve da altro, è necessario che esista da sempre e per sempre: «intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della sola definizione di una cosa eterna» (def. VIII); la sostanza è unica in quanto «nella natura delle cose non si possono dare due o più sostanze della medesima natura, ossia del medesimo attributo» (prop. V). Spinoza ragiona per assurdo: se ci fossero più sostanze della medesima natura, esse si differenzierebbero o per avere «attributi» diversi (cioè, come vedremo, qualità essenziali diverse) o per avere «modi» diversi (cioè, come vedremo, «affezioni» o modificazioni accidentali diverse). Ma se si distinguessero soltanto per la diversità degli attributi, si ammetterebbe, per ciò stesso, che «non esiste se non una sola sostanza del medesimo attributo». Viceversa, se si distinguessero per la diversità delle affezioni, poiché la sostanza è per natura anteriore alle sue affezioni, si dovrebbe ammettere che la diversità delle affezioni non tocca la sostanza in quanto tale, la quale non può quindi essere distinta da un’altra soltanto per le sue affezioni1; la sostanza è infinita in quanto, se fosse finita, «dovrebbe essere limitata da un’altra della medesima natura, la quale a sua volta dovrebbe esistere necessariamente» (prop. VIII). Ma in tal modo esisterebbero due sostanze di un medesimo attributo, il che (per la prop. V) è assurdo. Inoltre la sostanza è infinita nel senso che la sua essenza non ha limiti e consta di infiniti attributi. Questa sostanza increata, eterna, infinita e unica (e quindi anche indivisibile) non può es- l’identificazione sere che Dio, ovvero quell’Assoluto di cui da sempre parlano le filosofie e le religioni, e del- della sostanza con Dio la cui esistenza Spinoza è più certo di quanto lo sia dell’esistenza di qualunque altra realtà. Così, mentre la riflessione di Cartesio prende le mosse dalla certezza del soggetto che pensa, e quella degli empiristi dall’evidenza percettiva delle cose sensibili (come vedremo nella prossima unità), Spinoza sceglie, quale principio ontologico e conoscitivo, Dio inteso come sostanza infinita, ovvero come ente la cui esistenza si impone alla ragione come verità evidente (il fatto che la lunga sezione con cui si apre l’Etica sia dedicata a Dio non è casuale). le prove Dell’esistenza di Dio Spinoza accetta le prove tradizionali: 1. pensare a Dio significa pensare a una realtà che, avendo in sé la propria ragion d’essere, dell’esistenza di Dio non può non esistere (prova ontologica o a priori); 2. «noi esistiamo in noi o in un’altra cosa che esiste necessariamente» (Etica, I, prop. XI): poiché non siamo causa della nostra esistenza, deve esistere un ente necessario (sostanza infinita o Dio) che, avendo in sé la causa del proprio esistere, sia anche la causa di tutti gli esseri contingenti (prova a posteriori).
1. È stato osservato che Spinoza dimostra soltanto che non possono esistere più sostanze «del medesimo attributo», e non già che non possano esistere più sostanze con attributi diversi. Anzi, su questo punto egli tace del tutto, facendosi forza, probabilmente, del fatto che due sostanze aventi attributi diversi avrebbero anche una diversa natura, e quindi non avrebbero nulla in comune tra loro.
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Il panteismo Fin qui sembra che Spinoza, rispetto ai pensatori precedenti, non sia poi così originale. Ma
egli si stacca nettamente da gran parte della metafisica occidentale, e in particolare dal filone ebraico-cristiano, quando afferma che Dio e il mondo non sono due sostanze separate, bensì la stessa sostanza. L’identificazione della sostanza infinita con Dio implica infatti che quest’ultimo non sia “esterno” al mondo creato, ma coincida con quell’unica, assoluta e infinita realtà che è il mondo stesso, o la natura: «Deus sive Natura», dice Spinoza, cioè “Dio ovvero la natura”. In quanto sostanza unica, Dio è una sorta di circonferenza infinita che ha tutto dentro di sé e nulla fuori di sé, per cui le cose del mondo saranno per forza la sostanza o la manifestazione in atto di tale sostanza:
‘
Tutto ciò che è, è in Dio, e senza Dio nessuna cosa può essere concepita. (Etica, I, prop. XV)
Spinoza perviene così a una forma di panteismo che, identificando Dio o la sostanza con la natura, intende anche quest’ultima come una realtà increata, eterna, infinita e unica, dalla quale tutte le cose derivano e nella quale tutte le cose sono glossario p. 218
Gli attributi e i modi della sostanza Per chiarire la natura del rapporto tra Dio e il mondo, Spinoza ricorre ai concetti di “attributo” e di “modo”. Gli attributi Gli attributi sono «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua
stessa essenza» (Etica, I, def. IV), ossia le qualità essenziali o strutturali della sostanza. Ora, dal momento che la sostanza è infinita (cioè dall’essenza illimitata), anche i suoi attributi saranno infiniti, ed essa sarà simile a un unico immenso prisma dalle illimitate facce. glossario p. 218
l’estensione Tuttavia, tra gli infiniti attributi della sostanza, e quindi tra gli infiniti volti della natura (in e il pensiero virtù dell’equazione “sostanza = natura”), l’essere umano ne conosce soltanto due: l’esten-
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
sione e il pensiero, ovvero la materia e la coscienza, che sono le due “facce” o i due ambiti della realtà di cui è partecipe. Si noti come Spinoza, che è giunto ad affermare l’infinità degli attributi della sostanza derivandola logicamente dalla definizione di quest’ultima, debba ora “scontrarsi” con l’esperienza, e limitarsi a considerare gli unici due attributi che agli esseri umani è dato conoscere. In questo senso si è parlato di deduzione logica dell’infinità degli attributi, e di deduzione empirica della loro dualità. Come scriverà il filosofo tedesco Friedrich Schelling (1775-1854 unità 7), “Spinoza non perviene alla dualità degli attributi partendo dalla sostanza, a priori […]. Egli li accoglie semplicemente a posteriori dall’esperienza, perché è costretto a riconoscere che il mondo non è semplicemente spirito o pensiero, ma in parte anche materia o estensione, e parimenti che esso non è semplicemente materia, ma in parte anche spirito o pensiero” (Lezioni monachesi, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1950, p. 46).
una domanda L’infinitezza dell’essenza divina viene dunque “filtrata” dalla mente finita dell’uomo, che senza risposta la de-finisce mediante le due proprietà essenziali di cui egli stesso partecipa. Tuttavia, af-
fermare che conosciamo soltanto due degli infiniti attributi della sostanza pone grosse difficoltà: se la sostanza è sempre la medesima in tutti i suoi infiniti attributi, perché gli esseri umani ne scorgono soltanto una minima parte?
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
Attribuire questo dato di fatto a una carenza mentale umana significa introdurre un motivo “soggettivo” che rischia di apparire estraneo all’assoluta “oggettività” perseguita dall’esposizione spinoziana. In altri termini, nella definizione degli attributi («ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza» compare una nozione – quella di “intelletto” – che Spinoza non ha né definito preliminarmente (ad esempio chiarendo se si tratti della mente finita dell’uomo, o del pensiero in generale), né dedotto dalle altre definizioni. La questione rimane senza risposta e rappresenta una delle difficoltà dello spinozismo. I modi di cui parla Spinoza sono invece «le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in al- I modi tro, per mezzo del quale è anche concepito» (Etica, I, def. V). Se gli attributi sono proprietà essenziali della sostanza (nel senso che sono la sostanza stessa, nelle diverse modalità in cui essa si esprime), i modi sono modificazioni accidentali della sostanza, nel senso che esistono e possono essere pensati dall’uomo soltanto in riferimento all’estensione e al pensiero). In altre parole, i modi sono le manifestazioni o le concretizzazioni particolari degli attributi, e si identificano quindi con i singoli corpi (modificazioni dell’estensione) e con le singole menti con le loro idee (modificazioni del pensiero). In questo senso non hanno sostanzialità (sono «ciò che è in altro, per mezzo del quale è anche concepito»), in quanto esistono e possono essere pensati dall’intelletto umano soltanto in virtù degli attributi della sostanza. glossario p. 218 Anche su questo punto Spinoza cerca dunque di restituire coerenza al discorso cartesiano: ogni corpo è modificazione accidentale dell’unica materia o estensione (come per Cartesio), e ogni mente è modificazione accidentale dell’unico pensiero (mentre Cartesio concepiva la mente individuale – l’«anima» – come sostanza anch’essa). Ma l’estensione che “sorregge” i singoli corpi non è sostanza, proprio come non lo è il pensiero che “sorregge” le singole menti e i singoli pensieri. Il “sostegno” di ogni realtà (fisica e psichica) è Dio, unica sostanza infinita. ( T1 p. 222) Il passaggio dagli attributi del pensiero e dell’estensione (che sono infiniti) ai loro modi I modi infiniti e (che sono finiti) presenta qualche difficoltà, che Spinoza cerca di superare inserendo, tra i modi finiti questi due estremi difficilmente conciliabili (l’infinito e il finito), un elemento mediatore. Egli distingue infatti due tipi di modi: quelli infiniti e quelli finiti. I modi infiniti derivano direttamente dagli attributi, nel senso che sono proprietà strutturali degli attributi stessi. Ad esempio, dato l’infinito attributo dell’estensione, ne seguono da sempre «il movimento o la quiete», così come, dato l’infinito attributo del pensiero, ne seguono da sempre «l’intelletto e la volontà». Un modo infinito è anche l’universo come totalità, ossia, come scrive Spinoza, «la faccia di tutto l’universo, la quale, benché l’universo varii in infiniti modi, rimane sempre la stessa». I modi finiti sono invece gli enti particolari di cui abbiamo già parlato, cioè “questo” corpo (singola e finita modificazione dell’estensione infinita) o “quella” idea (singola e finita modificazione del pensiero infinito), i quali, all’interno delle rispettive serie dei corpi e dei pensieri, sono tra loro legati in una catena causale infinita ( p. 208).
)
Per l’esposizione orale
1. Qual è, secondo Spinoza, la funzione della filosofia? 2. In che cosa consiste il “metodo geometrico” seguito da Spinoza nell’Etica? 3. Definisci le nozioni spinoziane di sostanza, Dio e natura, presentando brevemente la prospettiva panteistica di Spinoza. 4. Spiega in modo sintetico che cosa intende Spinoza con le seguenti espressioni: attributi, pensiero, estensione, modi infiniti e modi finiti.
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Natura «naturante» e «naturata»: Dio come causa del mondo un esempio per Cerchiamo ora di chiarire e ricapitolare con un esempio quanto si è detto fino a questo ricapitolare punto: la sostanza di Spinoza può essere paragonata a un oceano sconfinato ed eterno;
gli attributi che ne costituiscono l’essenza possono essere equiparati all’estensione acquatica; i modi infiniti (che sono le proprietà permanenti degli attributi) al movimento incessante del mare; i modi finiti (che sono le determinazioni particolari degli attributi) alle varie onde. Ora, mentre le singole onde, come le cose finite del mondo, vanno e vengono in quanto rappresentano pieghe o modi di essere transeunti della massa marina, l’oceano con le sue proprietà (cioè il sistema sostanza-attributi-modi infiniti) permane in eterno, pur continuando incessantemente a specificarsi nella serie infinita delle onde. Ritraducendo il tutto in termini filosofici, la sostanza di Spinoza è la natura stessa, intesa come realtà infinita ed eterna che si manifesta in un’infinità di dimensioni (gli attributi, tra i quali noi percepiamo soltanto il pensiero e l’estensione) e che si concretizza in un’infinità di modalità o di forme d’essere (i modi).
Dio come Al di là del linguaggio tecnico, è facile capire che cosa intenda Spinoza quando afferma che pensiero tutto ciò che esiste o è un attributo di Dio, o è una modificazione interna ai suoi attrie materia
buti: Dio è la totalità e l’unità di tutte le cose, le quali infatti o sono idee, o sono corpi, ovvero sono eventi che cadono o nel dominio del pensiero, o in quello della materia, e che esistono e possono essere pensati soltanto se ricondotti a questi due orizzonti infiniti. E per quanto pensiero ed estensione siano concetti originari (perché «concepibili per sé»), sussistono soltanto in virtù di un “sostegno” ulteriore, la sostanza divina di cui sono manifestazioni. Per questo Dio è «cosa che pensa» (Etica, II, prop. I) e «cosa estesa» (Etica, II, prop. II), pensiero e materia: è la realtà profonda, o fondamento, che “sostiene” le menti e i corpi.
Dio come Pertanto, quando Spinoza distingue la natura naturante (cioè Dio e i suoi attributi, causalità considerati come causa) dalla natura naturata (cioè l’insieme dei modi, visti come immanente
effetto), non fa che ribadire panteisticamente che la natura è madre e figlia di sé stessa. In apparente accordo con il lessico della tradizione teologica, anche Spinoza afferma che Dio «deve essere detto causa di tutte le cose» (Etica, I, prop. XXV, scolio), ma la causalità divina rispetto al mondo acquista nel pensiero spinoziano il significato inedito di attività produttrice il cui prodotto non esiste fuori della causa (secondo il tradizionale schema della “causalità transitiva”), ma nella causa stessa, secondo uno schema di causalità immanente. glossario p. 218 In altre parole, dal momento che «nulla è fuori di Dio» (non essendoci un “fuori” rispetto all’infinito), Dio non “crea” qualcosa di diverso da sé, ma piuttosto si “modifica”, cioè si esprime e si determina in infiniti «modi determinati» (le menti e i corpi). ( T2 p. 224)
Dio come Oltre che immanente, la causalità divina è anche libera, ma non nel senso che Dio avrebcausalità libera be potuto scegliere di non produrre il mondo (sulla base di un libero arbitrio, come nel cae necessaria
so del concetto biblico di “creazione”), bensì nel senso che Dio agisce seguendo le sole leggi della propria natura, senza alcun condizionamento esterno (dal momento che è sostanza infinita o totalità, all’esterno della quale non c’è nulla che possa limitarla o condizionarla). Dio, insomma, risulta libero e necessitato nello stesso tempo. Libero perché agisce senza costrizioni, necessitato perché agisce necessariamente in virtù delle leggi immanenti al suo essere o alla sua perfezione: «Dio agisce per le sole leggi della sua natura, e senza essere costretto da nessuno» (Etica, I, prop. XVII). La libertà dell’agire di Dio consiste precisamente nella sua necessità, cioè nella sua perfetta conformità alle leggi della natura divina.
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
Il che significa che tutto ciò che Dio può, lo fa, e lo fa necessariamente dall’eternità, il che significa che la natura è un ordine immutabile. Ma perché «l’estensione infinita» si concretizza necessariamente in una «serie infinita di corpi finiti»? E perché «il pensiero infinito» si concretizza necessariamente in una «serie infinita di idee finite»? In altre parole, perché l’infinito spinoziano si finitizza? Anche in questo caso (come già in quello della dualità degli attributi) si può osservare che il filosofo dell’Etica è costretto ad abbandonare il piano delle pure deduzioni logiche, e quindi delle spiegazioni metafisiche, per guardare semplicemente a quanto viene attestato dall’esperienza. Con grande lucidità, il già citato Schelling osserverà: «Su questo punto Spinoza non dà alcuna risposta e del resto non ne può dare alcuna […]. Spinoza pone determinazioni nella sostanza infinita, non perché in essa o nel suo concetto ci sia una necessità di darsi determinazioni, ma perché egli può pensare le cose [di cui fa esperienza] solo come autodeterminazioni della sostanza infinita: non gli verrebbe in mente, per dir così, di porre affezioni nella sostanza infinita, se egli non trovasse alcuna cosa nell’esperienza» (Lezioni monachesi, cit., p. 51).
I MODI (MODIFICAZIONI ACCIDENTALI DELLA SOSTANZA)
GLI ATTRIBUTI (QUALITÀ ESSENZIALI DELLA SOSTANZA)
eterna è
infinita unica
infiniti (proprietà strutturali degli attributi)
finiti (modificazioni accidentali degli attributi)
Spinoza e la pittura fiamminga del Seicento p. 232
natura naturante (causa)
sono pensiero (cogitatio)
movimento e quiete intelletto e volontà il mondo come totalità
possono essere
FILOSOFIA E ARTE
estensione (extensio)
increata LA SOSTANZA (CIÒ CHE È IN SÉ E PER SÉ SI CONCEPISCE) O DIO
perché l’infinito si finitizza?
natura naturata (effetto)
i singoli corpi le singole menti e le singole idee
I due grandi problemi dello spinozismo Senza considerare le numerose questioni particolari, gli interrogativi di base che emergono dall’Etica – e su cui continuano ad affaticarsi i critici – sono essenzialmente due: 1. che cos’è, in definitiva, la sostanza di Spinoza? 2. quali rapporti esistono, precisamente, tra la sostanza e i suoi modi? In queste domande si gioca il senso stesso dello spinozismo.
La natura della sostanza Affermare che la sostanza è la natura (secondo la formula spi-
la sostanza
noziana «Deus sive Natura») significa a ben vedere rimanere nel vago, a meno che non si come struttura geometrica puntualizzi che per Spinoza la natura non è una forza che “genera” le cose (secondo schemi dell’universo concettuali vitalistici e antropomorfici), ma un ordine da cui “derivano” o “seguono” i modi.
203
In altre parole, il Deus sive Natura di Spinoza si configura come l’ordine geometrico dell’universo, cioè come il sistema globale del Tutto. Come tale, la natura spinoziana non è il puro insieme o la semplice somma delle cose, ma l’ordine intrinseco che le collega in una struttura, e che ne regola il comportamento secondo precise e immutabili concatenazioni. la sostanza Da questo punto di vista, la filosofia di Spinoza si presenta come una traduzione metacome ordine fisica della concezione galileiana della natura. Come per Galilei il mondo fisico si idencartesiano dell’universo tificava con l’insieme delle leggi che governano i fenomeni, così per Spinoza esso è il
sistema o l’ordine strutturale delle relazioni tra le cose, ovvero il complesso delle leggi universali dell’essere. Spinoza, tuttavia, esprime questo suo pensiero servendosi ancora del linguaggio della tradizione metafisico-teologica, cioè parlando di “sostanza”, “attributi” e “modi”, e animando i suoi scritti con un forte afflato religioso: per questo la sua opera risulta di difficile comprensione, e suscettibile di interpretazioni contrastanti.
la novità Il rapporto tra la sostanza e i suoi modi Per spiegare il rapporto tra la sostanza e i del modello suoi modi Spinoza costruisce un modello che nel panorama dell’epoca rappresenta una spinoziano
«singolare eccezione» (Karl Löwith) e segna un cambiamento radicale nell’orizzonte metafisico e teologico dell’Occidente. La novità della proposta filosofica di Spinoza emerge dal rifiuto di entrambi i modelli con cui la tradizione aveva pensato il rapporto tra Dio e il mondo: quello creazionistico e quello emanatistico. La sostanza spinoziana, infatti, non è né la causa creante della metafisica cristiana, né la causa emanante della metafisica neoplatonica e del panteismo di Bruno.
la necessità La sostanza spinoziana si configura come un ordine cosmico, come un teorema eterno, matematica da cui le cose scaturiscono o «seguono» in modo necessario, esattamente come dalla defidell’ordine cosmico nizione del triangolo “segue” o “si deduce” che la somma dei suoi angoli interni è uguale
a due retti. La forma matematica dell’Etica si alimenta appunto della convinzione che l’ordine geometrico sia la sostanza stessa delle cose, e che i singoli modi derivano dalla sostanza esattamente come i singoli teoremi, corollari e scolii derivano dai princìpi della geometria. La necessità, matematicamente pensata, diventa quindi per Spinoza la fondamentale categoria esplicativa della realtà.
l’esclusione del Di conseguenza, nell’universo spinoziano non vi è nulla di contingente, poiché in escontingente so tutto ciò che è possibile si realizza necessariamente, esattamente come in geometria le
verità implicitamente contenute negli assiomi si esplicitano necessariamente nei teoremi.
CONCETTI A CONFRONTO
DIO in CARTESIO
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in PASCAL
in SPINOZA
è un Dio della ragione (nozione filosofica)
è un Dio-persona (nozione cristiana)
è un Dio-natura (nozione metafisica scaturita dal concetto di “sostanza”)
la sua esistenza si può dimostrare (prove a priori)
la sua esistenza non si può dimostrare, ma soltanto intuire mediante il «cuore»
la sua esistenza si può dimostrare (prove a priori e a posteriori)
è fondamento e garanzia di una conoscenza veridica
offre una soluzione agli interrogativi esistenziali degli esseri umani
è l’ordine geometrico (necessario e razionale) dell’universo
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
La critica al finalismo e al Dio biblico La concezione di Dio come ordine geometrico (cioè razionale e necessario) dell’universo pone dunque il pensiero di Spinoza nell’orizzonte di un rigoroso determinismo, e quindi in antitesi a ogni forma di finalismo. Si dice spesso che l’anti-finalismo spinoziano sia un portato della rivoluzione scientifica, ma ciò è vero soltanto in parte. Galilei, ad esempio, non aveva escluso l’esistenza di cause finali nell’organizzazione del mondo: si era limitato a sostenere che gli esseri umani non possono conoscerle. E Cartesio aveva incluso il proprio universo meccanicistico nei piani liberi e razionali di Dio creatore. Spinoza, invece, superando Cartesio e spostando la questione dal piano gnoseologico-metodologico a quello ontologico, afferma risolutamente che le cause finali non esistono, né in natura né in Dio: quelle che chiamiamo “cause finali” non sono altro che finzioni umane. Egli porta così la critica al finalismo aristotelico a uno dei punti più radicali toccati dalla filosofia moderna.
Dal piano della conoscenza a quello della realtà
Per Spinoza ammettere l’esistenza di cause finali è un pregiudizio dovuto alla costituzione Il «pregiudizio» dell’intelletto umano. Gli uomini ritengono tutti di agire in vista di un fine, cioè di un van- finalistico taggio o di un bene che desiderano conseguire. E poiché in natura trovano a loro disposizione i mezzi per raggiungere i loro fini (ad esempio gli occhi per vedere, il sole per illuminare, le erbe e gli animali per nutrirsi ecc.), e sanno che tali mezzi non sono stati da loro stessi prodotti, credono che siano stati preparati per loro da Dio. Nasce così un «pregiudizio», un’idea erronea, ovvero che la divinità produca e governi le cose perché gli esseri umani possano disporne, in modo da legare gli uomini a sé ed essere da loro venerata. Osservando poi come la natura offra loro non soltanto agi e comodità, ma anche disagi e svantaggi di ogni genere (malattie, terremoti, intemperie ecc.), gli uomini credono che questi malanni derivino dallo sdegno della divinità per le loro mancanze nei suoi riguardi. E sebbene l’esperienza di ogni giorno mostri con infiniti esempi che vantaggi e danni si distribuiscono ugualmente tra i pii e gli empi, gli uomini preferiscono, anziché abbandonare il loro pregiudizio, ricorrere a un altro pregiudizio per puntellare il primo; e ammettono che il giudizio divino superi di gran lunga le capacità di comprensione umane. Dal punto di vista concettuale, il limite maggiore del finalismo è il considerare come cau- Gli errori sa ciò che in natura è effetto e viceversa. Ad esempio: il calore trasmesso agli esseri vi- concettuali del finalismo venti non è la causa del sole, ma viceversa il sole è la causa del calore trasmesso agli esseri viventi. Inoltre i finalisti considerano imperfetto ciò che è perfetto. Secondo Spinoza, infatti, perfetto è ciò che è prodotto immediatamente da Dio, mentre è imperfetto ciò che è stato prodotto da cause intermedie; pertanto, se alcune cose fossero state create da Dio quali mezzi per conseguire un certo fine, esse sarebbero meno perfette rispetto ai loro fini. In ultimo, la dottrina delle cause finali annulla la perfezione di Dio. Se Dio agisse per un fine, infatti, necessariamente “vorrebbe” qualcosa di cui difetta. La critica spinoziana al finalismo si accompagna al deciso rifiuto di ogni riduzione di Dio Contro ai limiti dell’umano, e quindi al rigetto di ogni antropomorfismo religioso. Per Spinoza la l’antropomorfismo religioso visione biblica di Dio, considerato come una specie di “super-uomo”, che ha una mente e una sensibilità simili alle nostre e che ama, odia, si ingelosisce, si arrabbia e punisce, è il prodotto dell’immaginazione superstiziosa degli uomini. A un Dio siffatto, Spinoza sostituisce l’idea filosofica di un Dio sovra-personale, coincidente con il Tutto cosmico. In tal senso la spaccatura tra lo spinozismo e la rappresentazione ebraico-cristiana della divinità risulta netta e radicale.
205
Il parallelismo tra pensiero ed estensione Il problema Individuando i due fondamentali modi infiniti della sostanza infinita nel pensiero e neldi partenza l’estensione, Spinoza ricalca piuttosto da vicino la metafisica di Cartesio: come per
quest’ultimo lo spirito e la materia erano due sostanze distinte, così per Spinoza sono due realtà qualitativamente eterogenee (lo spirito non può mai essere materiale e la materia non può mai essere spirituale), che non possono influenzarsi a vicenda. Lo dimostra il fatto che la causa di un’idea è sempre un’altra idea, così come la causa di un corpo è sempre un altro corpo, poiché non si trova mai un’idea che sia causa di un corpo o un corpo che sia causa di un’idea. Stando così le cose, Spinoza si trova ad affrontare lo stesso problema che Cartesio non aveva saputo risolvere pienamente: come si spiega la connessione, che pure esiste, tra pensiero ed estensione, cioè tra mente e corpo?
la soluzione Spinoza ritiene che, pur non influenzandosi a vicenda, ossia pur non trovandosi mai in di spinoza un rapporto scambievole di causa ed effetto, le serie dei corpi e delle idee concordino
necessariamente tra loro, come in una sorta di corrispondenza biunivoca nella quale a ogni moto corporeo corrisponde un’idea e viceversa, nulla potendo accadere al corpo «che non sia percepito dalla mente» (Etica, II, prop. XII). Ciò avviene in quanto il corpo, per Spinoza, non è altro che l’aspetto esteriore della mente, così come la mente non è che l’aspetto interiore del corpo. Per fare un esempio: nella metafisica spinoziana uno stato esistenziale – come un’emozione – può esprimersi simultaneamente sia in termini fisiologici (battito più rapido del cuore, pallore, rossore ecc.) sia in termini psichici (paura, piacere ecc.), senza per questo che cessi di essere il medesimo, proprio come un arco su di una circonferenza, presentandosi concavo da un lato e convesso dall’altro, è pur sempre lo stesso arco. Questo parallelismo psico-fisico costituisce un nuovo modo filosofico di rappresentare i rapporti tra corpo e psiche, che si differenzia sia da quello cartesiano ( cap. 1, p. 155), sia da quello materialistico di Hobbes (di cui parleremo nella prossima unità), sia da quello occasionalistico (secondo cui materia e spirito, pur essendo indipendenti, di fatto sono resi paralleli da un intervento provvidenziale di Dio p. 161). glossario p. 218
l’ordine Ciò che garantisce e fonda la correlazione necessaria tra mente e corpo, facendo sì che i unitario due ordini del pensiero e dell’estensione si corrispondano perfettamente, è la struttura dell’essere
unitaria dell’essere:
‘
sia che concepiamo la natura sotto l’attributo dell’Estensione, sia che la concepiamo sotto l’attributo del Pensiero, o sotto un qualunque altro attributo, troveremo un solo e medesimo (Etica, II, scolio alla prop. VII) ordine, o una sola e medesima connessione di cause.
ESERCIZI
206
E quest’ordine unitario, questa «connessione di cause», questa realtà è appunto la sostanza, il Deus sive Natura, la struttura unitaria e matematica del cosmo. Questo significa che il parallelismo psico-fisico di Spinoza sottintende in realtà un monismo metafisico, che vede nel pensiero e nell’estensione non due sostanze, ma due attributi diversi di una medesima sostanza, e quindi due traduzioni distinte e simultanee di una stessa realtà di fondo. In tal modo, nello spinozismo il rapporto tra le idee e la realtà cessa di essere un problema gnoseologico, poiché, se «l’ordine e la connessione delle idee si identificano con l’ordine e la connessione delle cose», la validità della nostra conoscenza risulta garantita. Ovviamente, però, non di qualunque conoscenza, ma soltanto di quella che Spinoza chiama «conoscenza adeguata», cioè della conoscenza che sa riprodurre esattamente, tramite l’intelletto, l’ordine oggettivo delle cose ( p. 214). Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
NELLA SERIE DELLE IDEE A>B>C>D
la causa (A) di un’idea (B) è sempre un’idea
NELLA SERIE DEI CORPI A1 > B1 > C1 > D1
la causa (A1) di un corpo (B1) è sempre un corpo
)
Per l’esposizione orale
L’ordine delle idee corre parallelo a quello dei corpi. Il corpo è l’espressione esteriore della mente; la mente è l’espressione interiore del corpo.
1. Presenta i tratti del Dio-natura di Spinoza, utilizzando le espressioni elencate di seguito: natura naturante, natura naturata, causalità, libertà, ordine geometrico dell’universo. 2. Chiarisci il rapporto che secondo Spinoza lega la sostanza e i suoi modi. 3. Esponi gli errori concettuali che Spinoza individua nella visione finalistica del mondo. 4. Quale relazione sussiste, per Spinoza, tra pensiero ed estensione? 5. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera l’idea spinoziana secondo cui, in un essere umano, il corpo è l’espressione esteriore della mente, e viceversa la mente è l’espressione interiore del corpo: ritieni che sia condivisibile una tale rappresentazione del rapporto mente-corpo? Per quali ragioni? Se dovessi fornire una tua immagine di tale rapporto, quale sarebbe?
3. l’etica Come si è visto a proposito del Trattato sull’emendazione dell’intelletto ( p. 196), in Spinoza l’a- la finalità more della ricerca filosofica nasce dal desiderio di trovare quella beatitudine dell’animo che le etica della metafisica ricchezze, gli onori e i piaceri non sono in grado di assicurare. Di conseguenza, nell’Etica (come suggerisce il titolo stesso) la riflessione metafisica risulta finalizzata alla riflessione morale, programmaticamente intesa (alla maniera ellenistica) come ars vivendi. Questo aspetto emerge dalla stessa articolazione dell’opera, che si divide in tre ambiti tematici: Dio (libro I); la mente che conosce (libro II); la libertà dell’essere umano dalle passioni (libri III, IV e V). Ci si trova così di fronte a un’opera sistematica, che si apre con una trattazione di teologia o ontologia, prosegue con un’indagine di gnoseologia e soltanto alla fine affronta il tema propriamente morale della virtù e della felicità. Questa sequenza trova una giustificazione teorica anche nel fatto che, secondo Spinoza, l’uomo è parte di un ordine necessario (il Dio-natura), per cui non si può indagare la sua destinazione morale quale ente finito, senza comprendere la sua collocazione in quell’infinito di cui egli è manifestazione accidentale.
L’analisi “geometrica” dell’essere umano Il presupposto del discorso morale di Spinoza, che discende coerentemente dalla sua onto- la naturalità logia, è la tesi della naturalità dell’essere umano. Contro l’antropologia tradizionale, che ave- dell’uomo va considerato l’uomo come una sorta di eccezione all’interno della natura, come «un impero in un impero» perché svincolato, in quanto soggetto libero di agire secondo la propria volontà, dalle leggi deterministiche, Spinoza afferma che la nostra specie costituisce una manifestazione naturale come tutte le altre, sottoposta alle comuni leggi dell’universo. Così come la nuova astronomia aveva tolto alla Terra la sua centralità spaziale, allo stesso modo Spinoza toglie all’essere umano il suo statuto ontologico di creatura “privilegiata”, e lo fa in base al principio che «la natura è sempre la medesima»: le regole «secondo cui tutto avviene e muta da una forma all’altra sono ovunque e sempre le stesse, e unico e identico deve perciò essere il modo di comprendere la natura di qualunque cosa» (Etica, III, “Prefazione”). ( T3 p. 226)
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Il geometrismo Essendo nient’altro che casi particolari di leggi universali, le azioni umane obbediscono a morale regole fisse e necessarie, che possono essere studiate con matematica obiettività. «Consi-
dererò le azioni umane e gli umani appetiti – dice Spinoza – come se si trattasse di linee, di piani e di corpi», secondo lo schema di un rigoroso geometrismo morale . glossario p. 219 In questa prospettiva, l’unico atteggiamento filosofico conveniente di fronte alle passioni non è quello di deriderle, compiangerle o condannarle, ma quello di comprenderle, trattandole «non come vizi della natura umana, ma quali proprietà che le appartengono necessariamente, così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, il temporale, il tuono e simili» (Trattato politico, I, par. IV). Con il lucido realismo di un “Machiavelli dell’etica”, Spinoza elabora una morale non tanto prescrittiva quanto descrittiva, scagliandosi contro quei moralisti che credono di «attingere il colmo della sapienza, quando hanno appreso a lodare in mille modi una natura umana che non esiste e a perseguitare con i propri detti quella che realmente esiste, concependo gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero» (ibidem). Sulla base di questi presupposti, Spinoza costruisce una vera e propria geometria delle emozioni (o delle passioni, o degli «affetti»), proponendosi di: 1. individuare le leggi e le forze basilari che reggono la condotta pratica degli individui; 2. ricondurre la «schiavitù» dell’essere umano alla «potenza delle passioni» e la sua «libertà» alla «potenza dell’intelletto».
Gli affetti primari Quelle che noi chiamiamo genericamente “emozioni” Spinoza le definisce affetti , termine con cui indica, in generale, «le affezioni [modificazioni] del Corpo, dalle quali la potenza d’agire del Corpo stesso è accresciuta o diminuita, assecondata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni» (Etica, III, def. III). glossario p. 219 la distinzione Spinoza distingue poi gli affetti in « azioni » e « passioni ». glossario p. 219 tra azioni e Le azioni sono gli affetti di cui siamo «causa adeguata»: passioni
‘ ‘
Dico che noi agiamo allorquando, in noi o fuori di noi, accade qualcosa di cui siamo causa adeguata, cioè […] quando dalla nostra natura, in noi o fuori di noi, segue qualcosa che può (Etica, III, def. II) essere compreso con chiarezza e distinzione mediante essa sola.
Le passioni sono invece gli affetti che subiamo, cioè di cui non siamo «causa adeguata»: dico che noi patiamo quando in noi accade qualcosa, o dalla nostra natura segue qualcosa, (ibidem) di cui noi non siamo causa se non parziale.
lo sforzo di L’analisi spinoziana delle passioni muove dal principio secondo cui «Ogni cosa, per quanautoconservazione to sta in essa, tende a perseverare nel proprio essere» (Etica, III, prop. VI). Traduzione nell’essere umano
antropologica del principio di inerzia, questo «sforzo» (conatus) di autoconservazione costituisce, secondo Spinoza, l’essenza di tutto ciò che esiste (Etica, III, propp. VI-VIII); e nel caso dell’essere umano corrisponde alla «volontà» (voluntas) quando si riferisce soltanto alla mente, e all’«appetito» (appetitus) quando si riferisce sia alla mente sia al corpo.
Gli affetti La volontà e l’appetito costituiscono quindi «la stessa essenza dell’uomo» e, quando sono primari: coscienti, si chiamano «desiderio» (cupiditas). Il desiderio – che è dunque la forma cosciente desiderio, gioia e tristezza assunta nell’essere umano dallo sforzo di autoconservazione – è il primo e più fondamen-
tale degli affetti, dal quale «seguono» la gioia (laetitia), che è l’emozione connessa al passaggio da una perfezione minore a una maggiore, e la tristezza (tristitia), che è l’emozione connessa al passaggio da una perfezione maggiore a una minore. Il desiderio (o «cupidità»), la gioia (o «letizia») e la tristezza sono quindi i tre affetti primari, o fondamentali, da cui derivano tutti gli altri affetti secondari, ovvero tutte le possibili emozioni umane ( p. 209).
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
Dagli affetti primari scaturiscono anche il bene e il male, che per Spinoza non esistono di per sé, ma soltanto in relazione al desiderio umano. Infatti il bene è ciò che giova allo sforzo di autoconservazione (e quindi è fonte di gioia o letizia), mentre il male è ciò che nuoce allo sforzo di autoconservazione (e quindi è fonte di tristezza):
‘
la natura relativa del bene e del male
noi non tendiamo a nulla, nulla vogliamo, appetiamo, né desideriamo perché giudichiamo che sia buono; ma, al contrario, noi per questa ragione giudichiamo che qualche cosa è buona, (Etica, III, scolio alla prop. IX) perché tendiamo ad essa, la vogliamo, appetiamo e desideriamo. LO SFORZO DI AUTOCONSERVAZIONE nell’essere umano coincide con il desiderio (o cupidità) da cui nascono la gioia (o letizia) per l’acquisizione di qualcosa di giovevole
la tristezza per l’acquisizione di qualcosa di nocivo
che è considerato
che è considerato
bene
male
Gli affetti secondari Quando la gioia e la tristezza sono accompagnate dall’idea di una causa esterna danno origine a due basilari affetti secondari: l’amore e l’odio. Ma dagli affetti primari (desiderio, gioia e tristezza) Spinoza ricava tutti gli affetti secondari (ovvero tutte le emozioni), “deducendoli” con geometrica necessità e mostrandone i meccanismi profondi con un tale acume che in lui si è visto un precursore della psicologia scientifica:
‘
VI. L’Amore è una Letizia accompagnata dall’idea d’una causa esterna. VII. L’Odio è una Tristezza accompagnata dall’idea d’una causa esterna. VIII. La Propensione è Letizia accompagnata dall’idea d’una cosa che è per accidente causa di Letizia. IX. L’Avversione è Tristezza accompagnata dall’idea d’una cosa che è per accidente causa di Tristezza. XII. La Speranza è una Letizia incostante, nata dall’idea d’una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo in qualche misura. XIII. La Paura è una Tristezza incostante, nata dall’idea d’una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo in qualche misura. XIV. La Sicurezza è Letizia nata dall’idea d’una cosa futura o passata, riguardo alla quale è stata tolta ogni causa di dubbio. XV. La Disperazione è Tristezza nata dall’idea d’una cosa futura o passata, riguardo alla quale è stata tolta ogni causa di dubbio. XVI. Il Gaudio è Letizia accompagnata dall’idea d’una cosa passata, accaduta insperatamente. XVII. Il Rimorso è Tristezza accompagnata dall’idea d’una cosa passata, accaduta contro la nostra Speranza. XXIII. L’Invidia è Odio in quanto s’impadronisce talmente dell’uomo che questi si rattrista della felicità altrui, e, al contrario, gode del male altrui. XXIV. La Misericordia è Amore in quanto s’impadronisce talmente dell’uomo che questi gode del bene altrui, e, al contrario, si rattrista del male altrui. (Etica, III)
209
La schiavitù e la libertà dell’essere umano l’illusione del Spinoza è convinto che lo sforzo di autoconservazione, che si identifica con la ricerca del libero arbitrio proprio utile e da cui, nel caso dell’essere umano, deriva tutto il complesso sistema degli
FILOSOFIA affetti, rappresenti la comune legge di comportamento di tutti i viventi. Di conseguenE SCIENZA za, ogni tentativo di sottrarsi alla forza delle passioni si rivela illusorio, in quanto equivale
Da Spinoza alle neuroscienze p. 228
al tentativo di sottrarsi alle leggi deterministiche che reggono l’intero mondo naturale. In questo senso il libero arbitrio di cui hanno favoleggiato i filosofi è soltanto un’illusione:
‘
Gli uomini si credono liberi perché sono consci dei loro voleri e desideri, ma ignorano le (Etica, I, “Appendice”) cause per cui sono condotti a desiderare e a bramare.
E per questo aspetto – chiarisce il filosofo in una sua lettera – fanno venire in mente una pietra che, una volta messa in movimento da una forza esterna, credesse di dirigere autonomamente la sua traiettoria e di scegliere il luogo e il momento della sua caduta: «Proprio questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di possedere» (Epistolario, LVIII). Il problema Tuttavia Spinoza si domanda se l’essere umano, pur senza pretendere di evadere dal dedell’etica terminismo naturale, possa raggiungere, in virtù della ragione, una qualche forma di lispinoziana
bertà. Ma ha senso parlare di “libertà” in un orizzonte deterministico? Come è possibile essere «liberi dagli affetti», se questi sono necessari? In questo problema e nella relativa risposta (cioè nel nuovo modo di intendere la «libertà dalle passioni») risiedono il cuore e l’originalità dell’etica di Spinoza, a cui egli dedica la quarta e la quinta parte del suo capolavoro, rispettivamente intitolate “La schiavitù umana, ossia la forza delle passioni” e “La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana”.
la conoscenza Spinoza definisce la schiavitù come «l’impotenza dell’uomo a moderare e a reprimere come antidoto gli affetti; giacché l’uomo sottoposto agli affetti non è padrone di sé, ma in balìa della foralla schiavitù
tuna» (Etica, IV, “Prefazione”). Ora, se l’essere umano fosse soltanto passione, non sarebbe mai libero, poiché sarebbe sempre dominato da forze esterne. Ma l’uomo è anche ragione, cioè conoscenza. E come tale, anziché subire lo sforzo di autoconservazione inconsapevolmente, può porsi di fronte ad esso in modo consapevole e intelligente.
Il comportamento Mentre il comportamento passionale è sempre dettato da una conoscenza inadeguata passionale e della realtà, nei cui confronti ci si sente impotenti e passivi, al contrario il comportamenquello razionale
to razionale è dettato da idee «chiare e distinte», in virtù delle quali si è attivi e causa di atti consapevoli. Pertanto, quando Spinoza parla di libertà, non intende riferirsi a un impossibile tentativo di mettere tra parentesi il determinismo naturale, ossia la ferrea legge dell’autoconservazione e della ricerca dell’utile (personale o collettivo), ma alla possibilità di acquisire consapevolezza di tale meccanismo, in modo da non sentirsi “schiacciati” da esso. Infatti noi agiamo sempre in vista dell’utile, comunque sia inteso o interpretato, e in questo senso non siamo liberi ma determinati. Tuttavia l’alternativa che si apre di fronte a noi è tra l’agire per l’utile in modo istintivo e inconsapevole (schiavitù delle passioni) e l’agire per l’utile in modo consapevole (libertà dalle passioni). Soltanto in questo senso, secondo Spinoza, possiamo essere liberi, pur senza violare le leggi del determinismo.
la natura Se l’unica forma possibile di libertà consiste nel porsi come soggetto attivo e non puradella virtù mente passivo della propria tendenza all’autoconservazione, essa non può che riconoscere
e assecondare la naturale inclinazione dell’individuo verso il proprio benessere o il proprio utile. La virtù consisterà quindi nell’«agire, vivere, conservare il proprio essere secondo le leggi della propria natura» (cioè tendendo all’utile), ma «sotto la guida della ragione» (Etica, IV, prop. XXIV), vale a dire in modo consapevole, avendo di tutte le cose (comprese le passioni) una «conoscenza adeguata». È questa, nell’orizzonte del determinismo spinoziano, l’unica possibile «liberazione» dalla «schiavitù degli affetti». glossario p. 219
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
La tesi spinoziana può essere espressa anche affermando che, quanto più adeguatamente Il potere della mente sulle conosciamo un affetto, tanto meno ne siamo travolti o dominati:
‘
passioni
Un affetto, dunque, è tanto più in nostro potere e la mente ne patisce tanto meno, quanto più lo conosciamo. (Etica, V, prop. III)
Infatti la mente, non potendo agire sull’ordine delle cause esterne, non può agire neppure sugli affetti. Tutto ciò che essa può fare è averne una conoscenza adeguata, così da poter modificare l’idea della causa che li produce. In questo senso le passioni non possono essere represse o estirpate, ma possono essere private della loro forza perturbante e nociva, se comprese in modo adeguato.
QUESTIONE La ragione può vincere le passioni? (Cartesio, Spinoza) p. 262
Ora, la conoscenza adeguata è quella che percepisce le cose «sotto l’aspetto della neces- la conoscenza sità». Secondo Spinoza, infatti, l’affetto prodotto da ciò che immaginiamo nella sua partico- della necessità larità, slegato da altre cause e dalla totalità in cui è inserito, risulta più forte e nocivo di un affetto che comprendiamo razionalmente come parte di un ordine necessario di cause. Questo perché quando comprendiamo che non c’è nulla di contingente e che tutto è necessario, la forza violenta dell’affetto e la carica di minaccia che esso trattiene si stemperano. Ad esempio, «la tristezza per un bene perduto si mitiga appena l’uomo che lo ha perduto considera che tale bene non poteva essere conservato in nessun modo» (Etica, V, prop. VI). Si perviene così a una situazione paradossale: la conoscenza adeguata restituisce all’essere Il paradosso umano il senso della sua dipendenza dal Tutto. Pertanto la libertà non è altro che la con- dell’etica spinoziana sapevolezza della propria necessità, ed è virtuoso e felice solamente chi sa di essere una modificazione finita e transitoria dell’infinito e nell’infinito.
La virtù tra ragione ed emozione In quanto fonte di «libertà», la conoscenza adeguata è per l’uomo «bene supremo» e la conoscenza sorgente di «beatitudine»: essa consiste, come abbiamo visto, nel comprendere la realtà di Dio come «bene supremo» alla luce dell’ordine necessario del mondo, ovvero alla luce della sostanza divina, percependo le cose finite e molteplici «sotto la specie», o dal punto di vista, «dell’eternità» e dell’unità di Dio. Tale supremo grado del conoscere (come vedremo) è definito da Spinoza «conoscenza di Dio» o amore intellettuale di Dio , poiché Dio non è altro che l’ordine della natura da comprendere e in cui riconoscere sé stessi e le cose come parti di una totalità: glossario p. 219
‘
Il bene supremo della Mente è la conoscenza di Dio, e la suprema virtù della Mente è (Etica, III, prop. XXVIII) conoscere Dio.
Con l’espressione «amore intellettuale di Dio» Spinoza sottolinea che la conoscenza di Dio è anche amore, nel senso che è un’emozione di gioia che accompagna la mente quando comprende l’ordine necessario del mondo. In questo indissolubile legame tra ragione ed emozione risiede uno degli aspetti più originali dell’etica spinoziana, che proprio per questo motivo non può essere ridotta a una variante dell’etica stoica. Infatti, se (per Spinoza come per gli stoici) la suprema virtù e la suprema felicità consistono nel vivere secondo ragione, tuttavia (per Spinoza) la ragione non riesce “da sola” a renderci liberi e felici, ma è efficace quando genera emozioni – come la gioia e l’amore – con cui vincere la tristezza, il risentimento e l’odio, che sono propri dell’uomo ignorante e che sono fonte di malessere. In tal senso, per avere un qualche potere sulle emozioni negative, la ragione deve farsi essa stessa emozione, gioia che scaturisce dal possesso della verità e dall’esercizio di una conoscenza razionale adeguata.
ragione ed emozione
FILOSOFIA E ARTE Spinoza e la pittura fiamminga del Seicento p. 232
211
Felicità e virtù Secondo Spinoza un affetto negativo (che produce tristezza) «non può essere ostacolato né
tolto se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare», cioè da un affetto capace di produrre gioia (Etica, IV, prop. VII). Ecco perché la felicità non consiste nella virtù intesa come “repressione” delle passioni, ma nel “superamento” delle passioni negative per mezzo di una passione “positiva” e “superiore”: l’«amore di Dio», cioè la conoscenza appassionata e coinvolgente della natura. Soltanto tale emozione positiva è capace di generare un sentimento stabile, piacevole, scevro da gelosia, invidia e paura:
‘ ‘
La beatitudine non è il premio della virtù, ma è la virtù stessa; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le (Etica, V, prop. XLII) nostre voglie.
Mediante la gioia che deriva dall’amore per la conoscenza del Deus sive Natura quale totalità necessaria, il sapiente, vale a dire l’uomo virtuoso e libero, vince il malessere che può derivare da passioni e amori caduchi, nonché la tristezza che scaturisce dal più grande dei timori, quello della morte: l’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte, in quanto la sua sapienza è una (Etica, IV, prop. LXVII) meditazione non della morte, ma della vita.
)
Per l’esposizione orale
1. In che cosa consiste il “geometrismo morale” di Spinoza? 2. Esponi sinteticamente il pensiero di Spinoza a proposito della libertà umana e della necessità. 3. In che cosa consistono, per Spinoza, la virtù e la beatitudine?
4. la gnoseologia La liberazione dalle passioni, come abbiamo visto, per Spinoza si raggiunge soltanto con la conoscenza o contemplazione del Dio-natura, ovvero con ciò che Spinoza definisce «amore intellettuale di Dio» ( p. 211). Ciò risulta evidente anche dalla teoria dei tre generi della conoscenza, che costituisce una sorta di sintesi della metafisica, della gnoseologia e dell’etica di Spinoza, nonché lo sbocco ultimo delle sue meditazioni. l’unione di Fin dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Spinoza aveva articolato il processo conosciconoscenza tivo secondo alcuni stadi o momenti, facendoli corrispondere ad altrettante maniere di e azione
concepire la realtà e di atteggiarsi di fronte a essa. Come i filosofi del mondo classico, egli ritiene infatti che il progresso conoscitivo proceda parallelamente al progresso morale e che la vita mentale e la vita pratica formino un tutt’uno. In questa prospettiva vanno dunque compresi i tre generi o gradi della conoscenza, che Spinoza distingue nel secondo libro dell’Etica.
I primi due gradi della conoscenza la conoscenza La conoscenza di primo genere consiste nella percezione sensibile, o immaginazione, di primo grado mediante la quale la mente coglie la realtà in modo slegato e parziale, tramite idee «oscu-
re e confuse», che essa si limita a “subire” senza comprendere, come se fossero «conseguenze senza premesse». Questo primo grado conoscitivo si identifica quindi con una conoscenza pre-scientifica del mondo, in cui, anziché connettere causalmente tra loro le varie realtà, collocandole nell’ordine dovuto, ci si limita a percepirle isolatamente, oppure a unirle in “classi” etichettate da nomi comuni (i cosiddetti “universali”: uomo, cavallo ecc.).
212
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
L’errore di questo tipo di conoscenza consiste nella sua inadeguatezza, ossia nel modo parziale e confuso di rappresentare le cose. Non si tratta quindi, a ben vedere, di un errore vero e proprio (“positivo”), ma piuttosto di una “mancanza” o “privazione” di conoscenza adeguata (cognitionis privatio). Il corrispondente etico di questa forma di conoscenza è la schiavitù nei confronti delle passioni, ovvero quella situazione in cui l’essere umano, non comprendendo di non poter sfuggire alla necessità dell’ordine naturale, si lascia sopraffare dalle proprie emozioni. La conoscenza di secondo genere scaturisce invece dalla ragione e si fonda sulle «idee co- la conoscenza muni». Con questa espressione, di origine stoica, Spinoza non intende gli “universali” di secondo grado della tradizione (da lui relegati, come abbiamo visto, nel primo genere della conoscenza), bensì quelle idee adeguate, chiare e distinte, che sono proprie della ragione e che riproducono le caratteristiche strutturali delle cose (estensione, figura, movimento ecc.), vale a dire i concetti della moderna scienza meccanicistica. La cognizione di secondo genere si identifica dunque con quella visione razionale del mondo che trova nella scienza la sua tipica espressione. Diversamente dal primo genere di conoscenza, essa connette le cose tra loro, considerandole nei loro rapporti di causa-effetto e nel loro ordine necessario. L’equivalente comportamentale di questa fase conoscitiva è la vita secondo ragione, o secondo virtù, in cui l’essere umano padroneggia il proprio sforzo di autoconservazione e dirige intelligentemente la propria condotta.
Il terzo grado della conoscenza Alla conoscenza scientifica, che avanza discorsivamente di causa in causa e che non esaurisce mai totalmente l’infinita catena causale che lega gli esseri tra loro, Spinoza fa seguire una conoscenza di terzo genere, che egli chiama «scienza intuitiva» e di cui tratta soprattutto nella quinta e ultima parte dell’Etica, dedicata alla «libertà umana». Questa terza e suprema forma di cognizione, che si fonda sull’intelletto, consiste (come la scienza abbiamo anticipato nel paragrafo precedente) nel concepire la realtà alla luce dell’unica intuitiva delle cose sostanza, cogliendone adeguatamente la struttura ontologica e l’articolazione triadica sostanza-attributi-modi. La conoscenza intuitiva si identifica dunque con la metafisica, ossia con la visione delle cose nel loro scaturire da Dio, o, se si vuole, con quella suprema intuizione attraverso cui si coglie l’Uno nei molti e i molti nell’Uno. Con la conoscenza di terzo genere la mente, innalzandosi al di sopra delle limitazioni del finito (che ancora permangono nel secondo genere), si colloca dal punto di vista di Dio. Tant’è vero che l’Etica, nelle intenzioni di Spinoza, vuole essere una sorta di colpo d’occhio divino gettato sul mondo. Considerato dalle vertiginose altezze della metafisica, l’universo appare totalmente diverso rispetto a come appare al pensiero comune e al primo genere di conoscenza. Per i sensi e per l’immaginazione il mondo è molteplice, contingente e temporale: una pluralità di cose che esistono in relazione a un certo spazio e a un certo tempo, e tali che, pur essendo, potrebbero non essere. All’intelletto il mondo appare invece come qualcosa di unitario, poiché la molteplicità è soltanto l’insieme dei diversi modi di essere dell’unica sostanza; di necessario, poiché il contingente è soltanto ciò di cui ignoriamo le cause; di eterno, poiché ciò che pare svolgersi nel tempo è in realtà la manifestazione di una struttura meta-temporale, e poiché ogni “modo”, considerato in Dio, risulta eterno.
Il mondo secondo i sensi e secondo l’intelletto
213
Non a caso, Spinoza distingue nettamente tra la considerazione dell’universo sub specie temporis, ossia dal punto di vista del tempo, e quella sub specie aeternitatis, ossia dal punto di vista dell’eternità. Ai sensi e all’immaginazione, inoltre, il mondo può apparire talora come imperfezione e male. Dal punto di vista dell’intelletto, invece, bene, male, perfezione, imperfezione, ordine e disordine sono categorie esclusivamente umane e soggettive, in quanto relative a ciò che gli individui percepiscono e giudicano come utile. Il punto di Come abbiamo già detto, alla gioia o letizia che nasce dalla conoscenza di quell’ordine arrivo della necessario che è la stessa sostanza divina, Spinoza dà il nome di amore intellettuale di conoscenza umana Dio , espressione che indica un amore eterno, che è parte di quell’amore infinito con cui Dio ama sé stesso. glossario p. 219
Questa concezione rivela chiaramente l’ultimo pensiero di Spinoza per ciò che riguarda Dio e la «conoscenza adeguata» che gli esseri umani possono conseguire: Dio è l’ordine geometrico dell’universo; la conoscenza di ogni singola cosa quale elemento o manifestazione necessaria di un tale ordine è contemplazione e amore intellettuale di Dio. Così come il misticismo di Giordano Bruno era in realtà un naturalismo, poiché non tendeva ad attingere l’Unità trascendente, ma il principio immanente della natura, analogamente il misticismo di Spinoza è in realtà una metafisica geometrizzante, per la quale l’unione mistica con Dio non è altro che il cogliere la sostanza ultima delle cose nella struttura matematica dell’universo.
la massima L’amore intellettuale di Dio coincide (lo ripetiamo) con la «beatitudine», ovvero con il libertà umana grado più alto dell’elevazione spirituale dell’essere umano, e si identifica con la libertà e la
virtù ai loro massimi livelli:
‘
Quanto più la Mente gode di quest’Amore divino, ossia della beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la potenza che ha sugli affetti, e tanto meno essa patisce (Etica, V, dimostrazione della prop. XLII) dagli affetti che sono cattivi.
ESERCIZI
A questo punto, al di là del linguaggio misticheggiante del quinto libro dell’Etica, risulta chiaro che cosa sia quella «somma perfezione» esistenziale che Spinoza, fin dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto, aveva indicato come traguardo per il genere umano. Perseguire l’utile in modo razionale e vivere la vita nel miglior modo possibile, rapportandosi serenamente al Tutto eterno e necessario di cui si è transitorie manifestazioni: ecco la beatitudine secondo Spinoza, e il messaggio ultimo della sua filosofia.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta brevemente i tre generi di conoscenza individuati da Spinoza e i corrispondenti stadi di progresso morale. 2. Spiega in che senso, nella filosofia di Spinoza, l’«amore intellettuale di Dio» ha un valore conoscitivo, etico e metafisico insieme.
5. la politica La teoria dello Stato La dottrina spinoziana dello Stato, esposta nel Trattato politico e nel Trattato teologicopolitico, è orientata al realismo. Ciò avvicina Spinoza a Thomas Hobbes ( unità 4, cap. 1), con il quale il filosofo olandese condivide anche l’intenzione di applicare il metodo geometrico all’analisi dei rapporti umani che danno origine alle comunità politiche.
214
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
Come Hobbes, anche Spinoza muove dalla descrizione di un ipotetico stato di natura, nel Dallo stato quale il diritto di ciascun individuo coincide con il suo potere, dal momento che ogni es- di natura allo stato civile sere riceve dalla natura tanto diritto quanta è la sua forza. In questo stato naturale originario, ciascuno è quindi soggetto al diritto o alla forza degli altri individui, e reciprocamente ha il diritto di respingere ogni violenza, vendicare il danno che gli è stato fatto e vivere come gli pare. Questa condizione determina uno stato di «guerra di tutti contro tutti» (per usare un’espressione di Hobbes), in cui il singolo non riesce a difendersi da solo e in cui, di conseguenza, il suo diritto naturale su tutto è reso nullo e fittizio. Se inoltre si considera che gli uomini non possono provvedere pienamente alle proprie necessità senza darsi aiuto reciproco, allora si comprende perché la condizione di precarietà che caratterizza lo stato di natura spinga gli esseri umani ad associarsi e a cercare un comune accordo per una pacifica convivenza. Nasce così la società civile. Poiché quanti più individui si associano, tanto più cresce la loro forza, e quindi il loro di- la dimensione ritto, dall’associazione di molti individui in una società civile deriva un diritto più forte sociale della morale di quello dei singoli, che appartiene a ciò che si chiama governo. E il sorgere di tale diritto comune, dovuto all’istituzione di un governo, fa nascere le valutazioni morali, che si giustificano soltanto nell’ambito di una comunità organizzata, mentre non hanno senso al di fuori di essa. La giustizia e l’ingiustizia nascono in relazione al diritto comune. Come l’individuo nello stato naturale, così lo stato civile ha nei confronti dei singoli tanto diritto quant’è la sua forza. Il diritto dello Stato limita quindi il diritto dei singoli, ma non annulla il loro diritto naturale; e comunque i vantaggi dello stato civile sono tali che la ragione consiglia a ciascuno di sottomettersi alle regole. Spinoza non ritiene tuttavia che il diritto dello Stato sia assoluto, cioè illimitato. Come ogni altro ente naturale, anche lo Stato non può esistere e conservarsi se non si conforma alle leggi della propria natura. Il limite della sua azione è perciò determinato da quelle leggi senza le quali esso cessa di essere “Stato”. Lo Stato – dice Spinoza – “pecca” quando fa o tollera cose che possono causare la sua rovina; pecca nel senso in cui i filosofi e i medici dicono che pecca la natura, cioè nel senso che agisce contro ragione. In altri termini, lo Stato è sottomesso a leggi nello stesso senso in cui vi è sottomesso l’essere umano nello stato naturale: nel senso, cioè, che è obbligato a non distruggere sé stesso. Come per l’uomo singolo, così per lo Stato la regola migliore sarà dunque quella di fondarsi sui precetti della ragione, che sono i soli che garantiscano la sua conservazione. E poiché i fini dello Stato sono la pace e la sicurezza della vita dei cittadini, la legge fondamentale che ne limita l’azione deriverà da questa sua intrinseca finalità, senza la quale esso verrebbe meno alla sua stessa natura, cioè allo scopo per il quale è sorto.
l’utilità dello stato civile e i limiti del suo potere
La libertà di pensiero L’analisi spinoziana dell’organizzazione politica ha come fine prioritario quello di difendere e garantire all’essere umano la libertà di pensiero e dunque della ricerca filosofica. Lo Stato non può privare gli uomini di tutti i loro diritti: in qualsiasi comunità politica il singolo conserva infatti una parte dei suoi diritti, e il diritto da custodire più gelosamente e meno trasferibile è la facoltà di pensare e di giudicare liberamente. Su questa facoltà non è possibile esercitare alcuna forma di costrizione: i governi possono tenere a freno la lingua degli uomini, ma non il loro pensiero; pertanto quei governi che pretendono di prescrivere ai cittadini ciò che essi devono riconoscere come vero o come falso devono essere considerati violenti.
Il diritto di pensare e di giudicare liberamente
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la libertà Del resto – ribadisce Spinoza – il fine della società civile è la tutela della libera natura come fine dell’essere umano: ultimo dello stato Il fine dello Stato non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in macchine, ma al contrario quello di garantire che la loro mente e il loro corpo adempiano con sicurezza alla loro funzione, che essi si servano della libera ragione e non si combattano (Trattato teologico-politico, 20) con odio, ira o inganno, né si affrontino con animo iniquo.
‘
L’autentico fine dello Stato, a ben guardare, è quindi l’esercizio della libertà, che è anche
OFFICINA il fine ultimo del percorso conoscitivo e morale dell’essere umano. Filosofo della necessità CITTADINANZA Libertà di opinione e di religione p. 86
(che concepisce Dio, la sua azione creatrice e il suo governo nel mondo come una vivente geometria infallibile), Spinoza non ha altro scopo nella sua opera speculativa che quello di garantire all’uomo la libertà dalle passioni, la libertà religiosa, la libertà politica.
)
Per l’esposizione orale
216
1. Spiega come nasce lo Stato secondo Spinoza, e perché a suo avviso lo stato civile è preferibile allo stato di natura. 2. Quali sono per Spinoza i limiti del potere statale? 3. Spiega quale dev’essere, secondo Spinoza, l’atteggiamento dello Stato in relazione alla religione e alla libertà di pensiero dei singoli. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la tensione tra riconoscimento della necessità e salvaguardia della libertà che anima la riflessione di Spinoza: quale ti sembra l’aspetto prevalente? Ritieni che il sistema metafisico spinoziano finisca per ridurre la libertà umana a una pura illusione, o al contrario pensi che Spinoza abbia colto la vera “essenza” della libertà? Motiva le tue risposte.
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
l’eredità di SPINOZA DA CHI E CHE COSA EREDITA
CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
da Cartesio la nozione di sostanza
spingendo agli estremi l’idea cartesiana dell’autosussistenza della sostanza, Spinoza ne deriva la prospettiva metafisica secondo cui esiste un’unica sostanza, increata, eterna e infinita, la quale si identifica con Dio
da Bruno il panteismo
identificando la realtà (o la Natura) con l’unica sostanza, e l’unica sostanza con Dio, Spinoza accoglie la prospettiva panteistica che era stata di Bruno
dalla tradizione scolastica la distinzione tra sostanza e accidenti
ammettendo un’unica sostanza infinita (Dio), Spinoza elabora la tradizionale nozione di “accidente” distinguendo al suo interno fra attributi (modificazioni “strutturali” o “essenziali” della sostanza) e modi (modificazioni “accidentali” della sostanza)
da Cartesio la distinzione tra res cogitans e res extensa
l’individuazione cartesiana di due sostanze diverse assume in Spinoza i tratti della distinzione tra due attributi della stessa sostanza: il pensiero e l’estensione
da Cartesio il problema del rapporto mentecorpo
Spinoza risolve il problema del rapporto tra la dimensione del pensiero e quella dell’estensione con la dottrina del parallelismo psico-fisico e con l’idea secondo cui, come la mente è l’aspetto interiore del corpo, così il corpo è l’aspetto esteriore della mente
da Galilei l’idea di un ordine matematico del mondo
per Spinoza la Natura (cioè Dio stesso) è regolata da un ordine geometrico che rappresenta la struttura necessaria dell’essere
da Cartesio l’evidenza come condizione di una conoscenza certa
la conoscenza, per Spinoza, si sviluppa secondo tre “generi” o “gradi”, nei quali le idee si fanno via via meno «oscure e confuse» e più «chiare e distinte» (secondo un’espressione cartesiana), fino a coincidere (nel terzo genere, «amore intellettuale di Dio») con lo “sguardo” divino sul mondo
dalla tradizione aristotelica l’idea della virtù come realizzazione della propria natura
l’ascesa nei gradi della conoscenza corrisponde in Spinoza all’elevazione nella virtù, che egli fa consistere nel «conservare il proprio essere secondo le leggi della propria natura»
da Cartesio l’idea che la ragione debba comprendere il meccanismo delle passioni
per Spinoza il fine della vita umana consiste nella liberazione dalle passioni, che però non si ottiene reprimendo le emozioni, bensì scoprendone la naturalità e la razionalità, e assecondando le passioni superiori, che spingono a conoscere e amare Dio quale sostanza e ordine del mondo
217
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 SPINOZA
• modi
«le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per mezzo del quale è anche concepito» (Etica, I, def. V). I modi sono dunque le manifestazioni accidentali degli attributi infiniti ed essenziali della sostanza, e possono essere anch’essi infiniti (quando sono proprietà strutturali degli attributi) oppure finiti (quando sono manifestazioni particolari della sostanza, come nel caso dei singoli corpi e delle singole menti).
La sostanza come natura Se la sostanza è unica,
La metafisica La sostanza come Dio Per Spinoza la filosofia deve guidare l’essere umano verso la saggezza e la beatitudine: l’Etica muove quindi da concetti metafisici per approdare a una riflessione morale. L’opera segue un procedimento deduttivo, articolato in definizioni, assiomi, proposizioni (cioè teoremi, o tesi, da dimostrare), dimostrazioni dei teoremi, corollari e scolii. L’esposizione parte da un concetto basilare nella tradizione filosofica occidentale, ovvero quello di
• sostanza
(dal latino substantia, a sua volta derivato dal verbo substare, “stare sotto”) il soggetto o il sostrato che “sostiene” il mutevole avvicendarsi delle determinazioni accidentali. Riprendendo la tradizione aristotelica e cartesiana, Spinoza definisce la sostanza come «ciò che è in sé e per sé si concepisce, vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato» (Etica, I, def. III).
tutto ciò che esiste non può essere che la sostanza stessa. Perciò Dio e la natura, per Spinoza, coincidono, secondo un rigoroso
• panteismo
(dal greco pan, “tutto”, e theós, “dio”) dottrina filosofica che identifica Dio con il mondo o con la realtà.
Dio non è fuori dal mondo, ma nel mondo, e con esso costituisce quell’unica realtà globale che è la natura: «Deus sive Natura», afferma Spinoza, cioè “Dio ovvero la natura”. Identificandosi con Dio ed essendo l’unica realtà esistente, la natura risulta contemporaneamente madre e figlia di sé stessa, e quindi può essere pensata sotto due punti di vista:
• come natura naturante
la natura vista come causa, ovvero come Dio e i suoi attributi;
• come natura naturata
la natura vista come effetto, ovvero come l’insieme dei modi.
Con la prima parte della sua definizione («è in sé», in se est), Spinoza intende dire che la sostanza è una realtà autosussistente e autosufficiente, che per esistere non ha bisogno di “appoggiarsi” ad altro. Con la seconda parte della formula («per sé si concepisce», per se concipitur) intende dire che la nozione di sostanza può essere pensata da sola, senza bisogno di altre nozioni. A partire da questa definizione, Spinoza conclude che la sostanza è increata, eterna, unica e infinita, e per queste sue caratteristiche si identifica con Dio. L’infinita sostanza divina presenta secondo Spinoza infiniti «attributi» e infiniti «modi», che egli definisce così:
In questa prospettiva panteistica Dio, rispetto alle cose, non è “causa transitiva”, cioè un’attività produttrice il cui prodotto esiste fuori di essa, bensì “causa immanente”, cioè un’attività produttrice il cui prodotto esiste in essa stessa, e “causa libera”, poiché agisce senza alcun condizionamento esterno. Tuttavia la libertà divina coincide con la necessità, poiché Dio opera secondo l’ordine geometrico dell’universo. Questa concezione si contrappone a quella finalistica: Spinoza sostiene infatti che tutte le cause finali sono soltanto finzioni umane. Sul monismo metafisico, di Spinoza, che intende pensiero ed estensione come attributi di un’unica sostanza, si fonda il
«ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza» (Etica, I, def. IV). Si tratta, in pratica, delle qualità essenziali della sostanza, che per Spinoza sono infinite come la sostanza stessa, sebbene l’essere umano ne conosca soltanto due, ovvero l’estensione e il pensiero;
la concezione secondo cui il pensiero e l’estensione sono due realtà qualitativamente eterogenee, le quali tuttavia, pur non influenzandosi a vicenda, risultano tra loro in un rapporto di corrispondenza biunivoca, in quanto a ogni moto corporeo corrisponde un’idea e viceversa.
• attributi
218
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
• parallelismo psico-fisico
L’etica Per Spinoza l’essere umano è una manifestazione naturale; pertanto anche le sue azioni, come ogni altro aspetto della realtà, obbediscono a regole fisse e necessarie, secondo un rigoroso
• geometrismo morale
lo studio delle azioni e delle emozioni umane condotto con “matematica” obiettività.
Spinoza sviluppa dunque una dettagliata analisi delle emozioni umane (che muovono alle azioni) nella consapevolezza di non doverle giudicare ma soltanto comprendere nei loro meccanismi, poiché fanno parte di un ordine necessario dal quale non possono essere eliminate. Innanzitutto egli offre una definizione generale degli
• affetti
(in latino affectus) le emozioni in genere, che Spinoza intende come «affezioni [modificazioni] del Corpo, dalle quali la potenza d’agire del Corpo stesso è accresciuta o diminuita, assecondata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni» (Etica, III, def. III).
Gli affetti, per Spinoza, sono dunque modificazioni corporee e meccaniche, e nascono dallo sforzo di autoconservazione che accomuna tutti gli esseri. In questo senso il libero arbitrio è un’illusione, derivante dal fatto che gli uomini ignorano le cause delle loro stesse emozioni e azioni. La libertà umana consiste piuttosto nell’utilizzare la ragione per comprendere le cause delle emozioni e, in tal modo, non lasciarsene travolgere. Si comprende allora la distinzione spinoziana degli affetti in
• azioni e passioni
rispettivamente, gli affetti di cui siamo causa adeguata, cioè che nascono in noi da idee chiare e distinte, e che quindi possiamo dominare; e gli affetti che subiamo o patiamo, poiché non ne siamo causa adeguata, ovvero ne abbiamo un’idea oscura e confusa.
Azioni e passioni corrispondono, rispettivamente, alla libertà e alla schiavitù dell’uomo, secondo la seguente nozione di
• virtù
«l’agire secondo le leggi della propria natura» (Etica, IV, prop. XVIII), che coincide con lo sforzo di autoconservazione divenuto cosciente di sé e saggiamente diretto.
La virtù è dunque una tecnica razionale del ben vivere: l’uomo è libero e agisce virtuosamente quando conosce adeguatamente le cose, cioè quando ne ha un’idea chiara e distinta, tanto che le sue emozioni (che pure non può eliminare) cessano di essere perturbanti e nocive.
La gnoseologia Nella conoscenza Spinoza distingue tre generi o gradi: il primo coincide con la percezione sensibile e con l’immaginazione. Si tratta di una conoscenza prescientifica che non riconosce i nessi causali tra le cose, e che si forma rappresentazioni parziali e confuse. Sul piano etico, questo grado conoscitivo corrisponde alla condizione in cui l’essere umano è schiavo delle passioni; il secondo grado si deve alla ragione e si fonda sulle «idee comuni», ovvero su quelle nozioni che riproducono le caratteristiche strutturali delle cose (ad esempio l’estensione, la figura, il movimento). Questo tipo di conoscenza, che trova la sua massima espressione nei procedimenti razionali del sapere scientifico, considera le cose nei loro rapporti di causa-effetto e nel loro ordine necessario. Il suo limite è quello di non poter risalire completamente nell’infinita catena causale degli esseri, e il suo equivalente etico è la vita secondo virtù; il terzo grado si basa sull’intelletto e consiste in una sorta di intuizione che, innalzandosi al di sopra delle limitazioni del finito, arriva a cogliere l’Uno nei molti e i molti nell’Uno. In altri termini, il terzo grado di conoscenza si identifica con la consapevolezza della metafisica delineata da Spinoza, ossia con la visione dell’unicità della sostanza e dello scaturire di tutte le cose da e in Dio. In quest’ultimo stadio conoscitivo l’universo viene colto «sub specie aeternitatis», cioè dal punto di vista dell’eternità, e l’essere umano fa esperienza di quello che Spinoza chiama
• amore intellettuale di Dio
(in latino amor Dei intellectualis) la conoscenza e l’accettazione di quell’ordine necessario della realtà che è costituito dalla stessa sostanza divina. Tale stadio conoscitivo è permeato da gioia (o letizia) e costituisce anche il culmine etico che un essere umano può raggiungere.
La politica La visione politica di Spinoza muove (come quella di Hobbes) dalla descrizione di un ipotetico stato di natura, in cui il diritto di ognuno coincide con la sua forza. Questa situazione determina continui conflitti tra gli esseri umani, che quindi sono spinti a trovare un comune accordo per vivere in società senza rischi. Da tale accordo nasce lo stato civile, il cui fine ultimo è garantire la vita e la libertà dei singoli.
219
MAPPE
CAPITOLO 3 SPINOZA LA SOSTANZA è
presenta
ciò che è in sé
ciò che si concepisce per sé
infiniti attributi (proprietà essenziali)
infiniti modi (modificazioni accidentali degli attributi)
perché
perché
tra cui
che possono essere
per esistere non ha bisogno di altro
per essere pensata non ha bisogno di altri concetti
l’essere umano conosce soltanto il pensiero e l’estensione
infiniti
finiti (i corpi e le anime)
quindi
è increata, eterna, unica e infinita e coincide con
Dio
la natura
LA NATURA si identifica con
Dio
si distingue in
natura naturante (Dio e i suoi attributi, in quanto causa di tutto ciò che esiste)
natura naturata (Dio e i suoi modi, in quanto effetti di Dio unica sostanza)
secondo una
secondo un preciso
prospettiva panteistica
ordine geometrico da cui tutto scaturisce in modo necessario
220
Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
implica un
parallelismo tra mente e corpo
L’ETICA si basa su
un’analisi geometrica dell’essere umano che distingue
le azioni: affetti di cui siamo causa adeguata
le passioni: affetti di cui non siamo causa adeguata e che quindi subiamo
nascono dallo sforzo di autoconservazione (tendenza a perseverare nel proprio essere)
rendono l’uomo schiavo, ma possono essere dominate con la ragione
LA CONOSCENZA presenta tre gradi
la percezione sensibile e l’immaginazione
il ragionamento
la conoscenza intellettuale
che
che
che
offrono rappresentazioni parziali e confuse non colgono i nessi causali tra i fenomeni
offre idee chiare e distinte coglie i nessi causali tra i fenomeni
è «amore intellettuale di Dio» (apice conoscitivo ed etico) coglie la suprema unità dell’universo
LA RIFLESSIONE POLITICA distingue tra
stato di natura
stato civile
coincidenza tra il diritto e la forza = anarchia e conflittualità
accordo tra gli uomini = regole condivise per garantire la libertà di tutti
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CAPITOLO 3 SPINOZA la metafisica
Nel suo capolavoro, l’Etica, Spinoza si propone di operare una sintesi originale tra la scienza del suo tempo e la tradizionale metafisica neoplatonica. Fondamenti teorici della sua filosofia sono la rigorosa dimostrazione dell’assoluta necessità dell’essere e delle sue modificazioni, che sfocia in un determinismo radicale, e la definizione di Dio come causa immanente della natura (Deus sive Natura), che porta a escludere sia il creazionismo sia una concezione antropomorfica della divinità. TESTO
1
Le definizioni fondamentali (Etica) IL TESTO NELL’OPERA A differenza di quanto il titolo potrebbe far pensare, l’Ethica ordine geometrico demonstrata (“Etica dimostrata con metodo geometrico”) non riguarda esclusivamente il problema morale, ma ha un carattere enciclopedico. L’opera è infatti articolata in cinque parti o libri, dedicati rispettivamente: a Dio; alla natura e all’origine della mente; all’analisi delle passioni; alla «servitù umana», cioè alla «forza delle passioni»; alla «potenza dell’intelletto», cioè alla libertà dell’essere umano. Indubbiamente influenzato, sul piano metodologico, da Cartesio, nella composizione dell’Etica Spinoza si ispira agli Elementi di Euclide e struttura l’opera come un trattato di geometria, imperniandola su una serie di definizioni, assiomi, proposizioni (ovvero teoremi), dimostrazioni, corollari e scolii (ovvero chiarificazioni). Il testo che segue contiene alcune delle definizioni fondamentali presentate da Spinoza in apertura della prima parte dell’opera.
la causa di sé I. Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non e il finito come può essere concepita se non come esistente. 2 limitato
II. Si dice finita nel suo genere una cosa che può essere limitata da un’altra della stessa natura. Per esempio diciamo che un corpo è finito perché ne concepiamo sempre un altro più 4 grande. Così pure un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma né un corpo può essere limitato da un pensiero né un pensiero da un corpo. 6
la sostanza, III. Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ossia ciò il cui concetto non gli attributi ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato. 8 e i modi
IV. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza. 10 V. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro per mezzo del quale è anche concepito. 12
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
Dio e la sua VI. Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attribunatura ti, ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita. 14
Spiegazione Dico assolutamente infinito, ma non infinito nel suo genere; infatti di qualsiasi cosa, infinita soltanto nel suo genere, possiamo negare un’infinità di attributi; invece all’essenza di ciò che è assolutamente infinito appartiene tutto ciò che esprime essenza e non contiene alcuna negazione. VII. Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina da sé sola ad agire: invece si dice necessaria o, meglio, coatta, quella cosa che è condizionata ad esistere e ad agire da qualcos’altro, secondo una precisa e determinata ragione. VIII. Per eternità intendo l’esistenza stessa, in quanto concepita come necessariamente conseguente dalla sola definizione di cosa eterna.
16 18 20 22
(Etica, I, in Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, utet, Torino 1988, pp. 85-86)
La causa di sé e il finito come limitato (rr. 1-6) La formula causa sui rimanda, nella definizione di Spinoza, a un essere che esiste necessariamente, ossia ad un essere che (eleaticamente) non può non essere e che, in quanto tale, è condizione per l’esistenza e la conoscenza di tutta la realtà. L’espressione “causa di sé” è equivalente, in questo senso, a “causa prima”. Si noti fin d’ora che le definizioni spinoziane riecheggiano generalmente la terminologia aristotelico-scolastica (che anche Cartesio aveva utilizzato), ma subiscono una rielaborazione che porterà a conclusioni di tipo panteistico, monistico e deterministico, cioè a concezioni differenti tanto da quelle scolastiche, quanto da quelle cartesiane. La seconda definizione è importante (come si chiarirà poco oltre) per comprendere la concezione spinoziana di Dio quale «ente assolutamente infinito» (r. 13). Soltanto Dio è sostanza assolutamente infinita, cioè la sostanza la cui essenza è illimitata (ovvero, come si vedrà, costituita da infiniti attributi), mentre qualunque altra realtà può essere al massimo infinita nel suo genere, cioè relativamente a un solo attributo. Una cosa si dice invece «finita nel suo genere» (r. 3) se esiste necessariamente un’altra cosa della sua stessa natura (corporea o ideale) che, differenziandosi da essa, la limita e ne è limitata.
La sostanza, gli attributi e i modi (rr. 7-12) Le definizioni di “sostanza”, di “attributo” e di “modo” sono di importanza basilare, perché su di esse è imperniata l’intera metafisica spinoziana. Sostanza è ciò che è pienamente autosufficiente sul piano ontologico e concettuale; attributo è ciò che viene concepito come proprietà essenziale della sostanza; modo ciò che non esiste in sé e per sé, ma soltanto come modificazione non necessaria della sostanza o, meglio, di un suo attributo. Dio e la sua natura (rr. 13-23) Le ultime tre definizioni riportate in queste righe hanno tutte come oggetto Dio: la prima direttamente, la seconda e la terza chiarendone la natura libera ed eterna. La definizione di Dio presuppone quelle di “sostanza” e “attributo”, e rimanda (per opposizione, come abbiamo visto) alla definizione II. La libertà è definita non in opposizione, bensì in correlazione con la necessità perché per Spinoza essa consiste nell’adeguazione alla propria natura: in questo senso il suo contrario non è la necessità, bensì la costrizione, o il condizionamento, da parte di qualcosa di esterno. L’eternità non è concepita come una determinazione temporale, ma è identificata con l’esistenza necessaria; ciò che è eterno (la sostanza divina) è tale non perché abbia una durata illimitata, ma perché è assolutamente necessario, al di là del tempo.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Spinoza si è cimentato nella definizione rigorosa di alcuni termini fondamentali della metafisica, chiarendo e precisando il lessico filosofico con cui ha dato forma al proprio sistema. Prova anche tu a redigere un brevissimo dizionario di termini filosofici (max 10), a partire da “sostanza”, “attributo” e “modo”, sui quali verte il testo che hai letto, e aggiungendo quelli che, in base agli studi che hai compiuto finora, ritieni fondamentali (max 5 righe a termine).
TESTI SPINOZA
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
223
TESTO
2
La concezione di Dio
(Etica)
Procedendo nella dimostrazione delle proposizioni (o dei teoremi), Spinoza trasforma la propria metafisica in una teologia panteistica. Nel testo che segue sono riportate alcune proposizioni basilari (e le relative dimostrazioni) che illustrano questa concezione. l’esistenza Proposizione XI di Dio Dio, cioè la sostanza costituita da una infinità di attributi ognuno dei quali esprime un’es- 2
senza eterna e infinita, esiste necessariamente. Dimostrazione Se lo neghi, pensa, se è possibile, che Dio non esista. Allora la sua essenza (per l’Assioma 7) non implica l’esistenza. Ma questo è assurdo (per la Prop. 7): dunque Dio esiste necessariamente. – C.D.D. Altra dimostrazione A ogni cosa deve essere assegnata una causa, o ragione, del perché essa esiste o non esiste. Per esempio, se un triangolo esiste, ci deve essere una causa, o ragione; se invece non esiste, ci deve essere lo stesso una causa, o ragione, che gli impedisce di esistere, che lo priva cioè dell’esistenza. Questa causa o ragione deve trovarsi o nella natura della cosa o fuori di essa. Per esempio la ragione per cui non esiste un cerchio quadrato, la indica la sua stessa natura, poiché implica una contraddizione. Perché invece esista la sostanza risulta ancora dalla sua sola natura, che appunto implica l’esistenza (v. Prop. 7 [Alla sostanza compete d’esistere]). Ma la ragione per cui un triangolo o un cerchio esiste o non esiste, non dipende dalla loro natura ma dall’ordine dell’intera natura corporea; da essa infatti deve dipendere o che un triangolo esiste già necessariamente o che è impossibile che esista già. E questo è di per sé evidente. Ne consegue che esiste necessariamente una cosa quando non c’è alcuna ragione, né causa, che le impedisca di esistere. Se dunque non ci può essere alcuna ragione, né causa, che impedisce che Dio esista, o che gli toglie l’esistenza, bisogna concludere assolutamente che egli necessariamente esiste. Ma se tale causa, o ragione, ci fosse, essa dovrebbe trovarsi o nella stessa natura di Dio o al di fuori di essa, cioè in un’altra sostanza di altra natura. Infatti se fosse della stessa natura si ammetterebbe automaticamente che Dio esiste. Ma una sostanza che fosse di altra natura non potrebbe avere nulla in comune con Dio (per la Prop. 2 [Due sostanze che hanno attributi diversi non hanno nulla in comune]) e quindi né dargli né togliergli l’esistenza. Poiché dunque la ragione, o causa, che gli nega l’esistenza non può trovarsi al di fuori della natura di Dio, dovrà necessariamente essere, se Dio non esiste davvero, nella sua stessa natura, che perciò implicherebbe una contraddizione. Ma affermare questo dell’Ente assolutamente infinito e sommamente perfetto è assurdo; quindi né in Dio, né fuori di Dio, vi è alcuna causa che gli tolga l’esistenza, e perciò Dio esiste necessariamente. – C.D.D. […]
l’unicità della Proposizione XIV sostanza divina All’infuori di Dio non può esserci, né essere concepita, alcuna sostanza.
Dimostrazione Poiché Dio è l’ente assolutamente infinito del quale non si può negare alcun attributo che esprima l’essenza di una sostanza (per la Def. 6) e poiché Egli esiste necessariamente (per la Prop. 11), se ci fosse qualche sostanza all’infuori di Dio la si dovrebbe spiegare con qualche attributo di Dio, e così esisterebbero due sostanze dello stesso attributo, il che è assurdo (per la Prop. 5 [Non possono esistere due o più sostanze della stessa natura, ovvero con lo stesso attributo]); non ci può essere quindi alcuna sostanza al di fuori di Dio, e di conseguenza non può nemmeno essere concepita. Infatti, se potesse essere concepita, dovrebbe necessariamente
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Unità 3 Il razIonalIsmo e I suoI InterpretI CApitOLO 3 Spinoza
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essere concepita come esistente, il che (per la prima parte di questa Dimostrazione) è assurdo. Dunque all’infuori di Dio non può esserci, né essere concepita, alcuna sostanza. – C.D.D. Corollario I Da ciò deriva molto chiaramente 1): che Dio è unico, ossia (per la Def. 6) nella natura c’è una sostanza sola e assolutamente infinita, come già abbiamo accennato nello Scolio della Prop. 10. Corollario II Deriva 2) che la cosa estesa e la cosa pensante o sono attributi di Dio o (per l’Assioma 1 [Tutto ciò che esiste, esiste in sé, o in altro]) sono affezioni degli attributi di Dio. […] Dio come Proposizione XVIII causa Dio è causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose. immanente delle cose Dimostrazione
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Tutte le cose che sono, sono in Dio e devono essere concepite per mezzo di Dio (per la Prop. 15 [Tutto ciò che esiste, esiste in Dio, e nulla può esistere, né essere pensato senza Dio]), 54 cioè (per il Cor. I della Prop. 16 [Dio è causa efficiente di tutte le cose che possono cadere sotto un intelletto infinito]) Dio è causa delle cose che sono in lui; questo in primo luogo. 56 All’infuori di Dio, quindi, non ci può essere alcuna sostanza (per la Prop. 14), cioè alcuna cosa che sia in sé al di fuori di Dio (per la Def. 3); e questo in secondo luogo. Dunque Dio è 58 causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose. – C.D.D. (Etica, I, in Etica e Trattato teologico-politico, cit.)
L’esistenza di Dio (rr. 1-31) Spinoza propone una dimostrazione “per assurdo” dell’esistenza di Dio: egli parte, cioè, dalla negazione di quanto intende provare, mostrando che le conseguenze di una tale assunzione sono contraddittorie. Se si concepisce Dio come non esistente, allora la sua essenza non implica l’esistenza (l’assioma 7 dice infatti che «L’essenza di tutto ciò che può essere concepito come non esistente, non implica l’esistenza»). Ma questa affermazione contraddice la proposizione 7 (preliminarmente dimostrata da Spinoza), secondo la quale «Alla natura della sostanza compete d’esistere». Si noti che nei passaggi precedenti Spinoza ha dimostrato che una sostanza non può essere prodotta da un’altra sostanza (prop. 6): essa è dunque causa sui, il che significa (per la def. I testo 1) che la sua essenza implica l’esistenza. Alla dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio Spinoza ne fa seguire una seconda, imperniata sul principio secondo cui tutto deve avere una «causa, o ragione» (r. 9): sia che esista (in tal caso ci sarà una causa della sua esistenza), sia che non esista (in tal caso ci sarà qualcosa che gli impedisce di esistere). Attraverso l’esempio del cerchio quadrato (che ha nella contraddittorietà della sua natura la ragione della sua non esistenza) e del triangolo o del cerchio (che devono avere nell’ordine necessario «dell’intera natura
corporea» [r. 17] la ragione sia della loro esistenza necessaria, sia della loro non esistenza), Spinoza chiarisce che, se qualcosa non esiste, è perché esiste una causa che ne impedisce l’esistenza. A questo punto gli è facile mostrare che, nel caso di Dio, è impossibile che una tale causa esista, perché se esistesse e fosse “esterna” a Dio (cioè di altra natura), essa non potrebbe “comunicargli” l’esistenza, ma se esistesse e fosse “interna” alla natura di Dio, implicherebbe una contraddizione (si ricordi che Dio è stato definito come «la sostanza che consta di infiniti attributi, ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita» testo 1). L’unicità della sostanza divina (rr. 32-49) Nella proposizione 14 Spinoza afferma che Dio è necessariamente unico perché, se così non fosse, si avrebbero due sostanze dello stesso attributo, il che è assurdo. Infatti, essendo «l’ente assolutamente infinito» (r. 35), Dio è la totalità che contiene in sé tutti i possibili attributi che esprimono l’essenza di una sostanza. Se ci fosse una sostanza “diversa” da Dio la si dovrebbe definire con un attributo che, però, è anche di Dio. Ma non possono esistere due sostanze dello stesso attributo, perché sarebbero identiche. Una sostanza esistente al di fuori di Dio non può neanche essere concepita, perché dovrebbe essere concepita come esistente, il che, per quanto già detto, è assurdo. Il primo corollario ribadisce quanto già affermato nella pro-
TESTI SPINOZA
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
225
posizione 1, e cioè che in natura esiste un’unica sostanza con infiniti attributi. Spinoza aveva chiarito, nella proposizione 10, che «Ogni attributo di una sostanza deve essere conosciuto per sé solo» e, nello scolio di tale proposizione, che ciò non significa ammettere l’esistenza di due diverse sostanze, ma soltanto (secondo la definizione di Dio) la coesistenza eterna, all’interno dell’unica sostanza, di infiniti attributi indipendenti l’uno dall’altro. Da qui il secondo corollario, in cui Spinoza smentisce Cartesio: la res extensa e la res cogitans non possono essere due sostanze diverse, ma soltanto due
attributi di Dio o due affezioni di tali attributi (più avanti si chiarirà che si tratta di attributi). Dio come causa immanente delle cose (rr. 50-59) Coerentemente con la definizione di “sostanza” e con le proposizioni immediatamente precedenti, Spinoza definisce Dio come causa “immanente” del mondo, cioè come causa il cui effetto è ad essa interno; egli dunque non accetta il modello creazionistico cristiano, secondo il quale Dio è causa transitiva («transeunte», r. 51) del mondo, ovvero una causa il cui effetto è qualcosa di diverso e di “esterno” a essa.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Spinoza non è il primo filosofo che abbia provato a dimostrare l’esistenza di Dio. Raccogli in un testo scritto (max 40 righe) alcune delle dimostrazioni (o prove) che hai studiato finora e mettile a confronto, facendo emergere di ciascuna gli elementi che ti sembrano più originali e quelli che a tuo avviso presentano maggiori fragilità.
l’etica
Concluso il discorso riguardante l’ambito teologico-metafisico, Spinoza passa a quello morale che, insieme con i temi della gnoseologia, costituisce il cuore dell’opera. TESTO
3
Il metodo geometrico applicato alle passioni (Etica) Il testo seguente riporta per intero la “Prefazione” che apre la terza parte dell’Etica, dedicata all’origine e alla natura delle passioni. Spinoza intende analizzare con metodo geometrico gli affetti dell’uomo, mettendo in evidenza i “meccanismi” che ne spiegano il sorgere.
la critica La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomidell’antropologia ni, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma 2 tradizionale
di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero. Infatti credono che l’uomo sconvolga l’ordine della natura, più che seguirlo, e che abbia sulle proprie azioni un potere assoluto, e che non sia determinato da altro che da se stesso. Attribuiscono poi la causa dell’impotenza e dell’incostanza umana non al comune potere della natura, ma a un presunto vizio della natura umana, e perciò la compiangono, la deridono, la disprezzano, o, più comunemente, la detestano; e chi con maggior eloquenza o arguzia sa cogliere l’impotenza della Mente umana passa per uomo divino. Tuttavia non sono mancati uomini assai illustri (alla cui fatica e operosità riconosciamo di dover molto) che hanno scritto cose eccellenti sul giusto modo di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di saggezza; ma nessuno, che io sappia, ha determinato la natura e le forze degli Affetti, e che cosa possa fare la Mente per dominarli. So bene che il celeberrimo Cartesio, benché anch’egli abbia creduto che la Mente è dotata di un potere assoluto sulle sue azioni, ha cercato tuttavia di spiegare gli Affetti umani mediante le loro cause prime e, nello stesso tempo, ha cercato di indicare la via per cui la Mente
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potesse ottenere il potere assoluto sugli Affetti; ma secondo me non ha dimostrato altro che l’acume del suo grande ingegno, come a suo tempo dimostrerò. 18 un nuovo Infatti io voglio tornare a coloro che preferiscono detestare e irridere gli Affetti e le azioni demodo di gli uomini piuttosto che comprendere. A costoro sembrerà certamente strano che io mi accin- 20 studiare gli affetti ga a trattare dei vizi e delle stoltezze umane secondo il metodo geometrico, e che voglia di-
mostrare con un ragionamento rigoroso cose che essi proclamano incompatibili con la ragione, vane, assurde, orrende. Ma ecco qual è il mio argomento. Nella natura nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la natura è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della natura, secondo le quali ogni cosa accade e da una forma si muta in un’altra, sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo d’intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della natura. Quindi gli Affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtù della natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza come le proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a dilettarci. Tratterò dunque della natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi, con lo stesso Metodo con cui nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi.
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(Etica, III, “Prefazione”, in Etica e Trattato teologico-politico, cit.)
La critica dell’antropologia tradizionale (rr. 1-18) La “Prefazione” si apre con la critica dell’antropologia tradizionale. Attribuendo all’essere umano la capacità di dominare in totale autonomia la propria volontà, lo si “svincola” dall’ordine deterministico che regge il mondo naturale, facendo di lui il signore assoluto di un improbabile «impero» (r. 4) situato all’interno del più vasto «impero» della natura. L’individuo diventa così il solo “responsabile” delle proprie azioni e, nel caso in cui queste siano giudicate malvagie, viene compianto, deriso, disprezzato o detestato per la sua colpevolezza. Vi è stata comunque una minoranza di valenti pensatori, verso i quali Spinoza si dichiara debitore, che hanno trattato l’argomento con maggior realismo, anche se nessuno di loro ha saputo compiere un’indagine veramente esauriente. Egli cita a questo proposito Cartesio, il quale, a suo giudizio, ha oscillato tra un’analisi realistica degli affetti umani (di cui ha sapu-
to cogliere le vere cause, ovvero quelle efficienti) e il vecchio pregiudizio secondo cui le passioni, o gli affetti, possono essere dominati dalla volontà. Un nuovo modo di studiare gli affetti (rr. 19-35) Polemizzando con i moralisti («coloro che preferiscono detestare e irridere gli Affetti e le azioni degli uomini piuttosto che comprendere», rr. 19-20), Spinoza dichiara di voler utilizzare il metodo geometrico anche nell’analisi dei «vizi» (r. 21) e delle «stoltezze» (r. 21) degli esseri umani, poiché le leggi della natura sono universali e valgono anche per l’uomo, qualunque sia l’aspetto che se ne prende in considerazione. La “Prefazione” si chiude con una dichiarazione metodologica, per così dire, “solenne”: Spinoza intende trattare le questioni pratiche o morali con quello stesso metodo geometrico che ha utilizzato in ambito metafisico, in modo da spiegare il sorgere delle passioni (o degli «Affetti») nell’uomo mediante quegli stessi rapporti di causa-effetto che reggono ogni evento naturale.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Qual è il tuo punto di vista su un’indagine morale che considera le passioni «come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi» (rr. 35-36)? Rispondi alla domanda in un testo scritto (max 35 righe), argomentando il tuo punto di vista e, se possibile, facendo riferimento alla tua esperienza personale.
TESTI SPINOZA
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
DA SPINOZA ALLE NEUROSCIENZE: L’ILLUSIONE DELLA LIBERTÀ
Da sempre il tema della libertà individuale affascina il pensiero umano, suscitando la riflessione di teologi, filosofi e psicologi. Oggi a interrogarsi su questo complesso argomento sono in particolare le neuroscienze, cioè un variegato insieme di discipline (dalla psicologia alla psichiatria, dalla biologia alla chimica) che studiano il funzionamento del sistema nervoso. Alla domanda “il comportamento umano è libero?” le neuroscienze sembrano rispondere negativamente. Facciamo un esempio: ora state leggendo queste righe, ma potete decidere
La visione deterministica di Spinoza Come sappiamo, per Spinoza nell’ordine meccanicistico della natura nulla avviene senza una causa: ogni evento (sia fisico sia psichico) è determinato da qualcosa. Mente e corpo, che Cartesio indicava come gli ambiti, rispettivamente, della libertà e della necessità, per Spinoza sono invece governati entrambi dalla necessità, dal momento che sono sottoposti «a un solo e medesimo ordine, a una sola e medesima connessione di cause» (Etica, II, prop. 7, scolio). In questa prospettiva la libertà (ossia la volontà libera) è inconcepibile; se esistesse, infatti, essa dovrebbe configurarsi come una causalità “dal nulla”, cioè come un atto che, pur determinando una concatenazione di eventi, non è a sua volta determinato da altro:
‘
La volontà non può essere chiamata causa libera, ma soltanto necessaria. [...] Ciascuna volizione non può esistere, né essere determinata ad agire, se non sia determinata da un’altra causa, e questa a sua volta da un’altra, e così di nuovo all’infinito; e perciò [la volontà] non si può dire causa libera, ma soltanto necessaria, o coatta. (B. Spinoza, Etica, I, prop. 32, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1984)
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di interrompere la lettura, e certo ritenete di poterlo decidere “liberamente”, nel senso che pensate che nessuno possa sapere in anticipo ciò che sceglierete di fare. Per le neuroscienze, invece, visualizzando il vostro cervello mediante una risonanza magnetica, si potrebbe “pre-vedere” la vostra decisione, svelando così il carattere illusorio, o perlomeno problematico, del cosiddetto “libero arbitrio”, e confermando così quanto intravisto con straordinaria lungimiranza, più di tre secoli fa, da Baruch de Spinoza.
Ma allora da che cosa deriva la nostra presunzione o illusione di essere liberi? La risposta di Spinoza è chiara: dipende dal fatto che ignoriamo le cause che determinano la nostra scelta, e chiamiamo “libere” quelle azioni delle cui cause siamo inconsapevoli. Secondo Spinoza il funzionamento del nostro corpo è estremamente complesso e difficile da comprendere, ma se fosse possibile un’osservazione precisa e dettagliata dei meccanismi naturali che vi presiedono (compresi i fenomeni biochimici ed elettrici di quella porzio-
ne di “materia” che è il nostro cervello), essa ci consentirebbe di sapere in anticipo l’esito di ciò che ci appare come una libera decisione:
‘
Nessuno, [...] fino adesso, ha conosciuto la struttura del Corpo tanto accuratamente da poter spiegare tutte le sue funzioni, per non dire che [...] i sonnambuli durante il sonno fanno moltissime cose che non oserebbero fare da svegli; il che mostra a sufficienza che lo stesso Corpo, in base alle sole leggi della natura, è capace di molte cose di cui la sua stessa Mente si stupisce [...]. Donde segue che gli uomini, quando dicono che questa o quella azione del Corpo trae origine dalla Mente che esercita il proprio dominio sul Corpo, non sanno quel che dicono e non fanno altro che confessare con parole speciose di ignorare, senza meravigliarsene, la vera causa di quell’azione. [...] Tanto la decisione della Mente quanto l’appetito e la determinazione del Corpo sono contemporanei per natura, o piuttosto sono una sola e stessa cosa, che chiamiamo decisione [libera] quando è considerata sotto l’attributo del Pensiero e si esplica per mezzo di esso, e chiamiamo determinazione [necessitata] quando si considera sotto l’attributo dell’Estensione e si deduce dalle leggi del movimento e della quiete. (B. Spinoza, Etica, III, prop. 2, scolio, cit.)
Le rivelazioni delle neuroscienze Le ardite idee di Spinoza hanno ricevuto un sostegno sperimentale dai recenti progressi delle neuroscienze. È stato il neurofisiologo statunitense Benjamin Libet (1916-2007) il primo a dimostrare, nel 1979, che la corteccia cerebrale di un uomo posto di fronte a una scelta semplice (ad esempio se piegare o meno un dito) si attiva determinando l’atto otto decimi di secondo prima che la persona diventi consapevole della propria decisione. A “decidere” di compiere una certa azione, quindi, non sarebbe propriamente il soggetto (la nostra “sostanza spirituale” o “coscienza”), ma qualcosa nel suo corpo, cioè nel tessuto cerebrale, come se il cervello “scegliesse” in anticipo se e quando dar luogo a un comportamento, e soltanto successivamente ne informasse il soggetto.
Ciò significa che, per Spinoza, come il movimento dei corpi è governato da regole meccaniche e dinamiche ben precise, così le decisioni della mente (che corrispondono sempre a modificazioni del corpo) sono riconducibili a una rigorosa necessità naturale, anche se non siamo in grado di comprenderla. Con un’immagine paradossale ma efficace, Spinoza afferma che gli uomini pensano di essere liberi proprio come farebbe una pietra che, muovendosi a causa di una forza esterna, credesse di «persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo vuole. Così, il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga. [...] Così il delirante, il chiacchierone e molti altri di simil risma credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso» (Epistolario, LVIII, trad. it. di A. Droetto, Einaudi, Torino 1984).
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Preoccupato che le sue ricerche potessero portare alla negazione del libero arbitrio e alla riduzione della coscienza a mera esecutrice meccanica di quanto determinato a livello corporeo, nei suoi studi successivi Libet ha recuperato il dualismo cartesiano, cioè l’idea dell’esistenza, nell’essere umano, di una sostanza mentale (o «pensante») libera e distinta dalla materia. E tale sostanza sarebbe stata capace, per Libet, di selezionare le diverse pulsioni generate nel tessuto cerebrale ed, eventualmente, di interrompere il processo fisico iniziato dal cervello, impedendo l’esecuzione dell’atto motorio. In realtà, a ben vedere, sulla base delle scoperte di Libet questa interruzione consapevole e libera provocata dalla mente dovrebbe anch’essa avere origine in un precedente accadimento fisico-chimico. La “libera” scelta sarebbe così nuovamente ricondotta a qualcosa di meccanico o biologico.
L’illusione di scegliere liberamente Le incertezze di Libet sono state definitivamente superate da alcuni esperimenti realizzati a partire dal 2004 da John-Dylan Haynes (nato nel 1971) presso il Bernstein Center for Computational Neurosciences di Berlino. Mediante una risonanza magnetica, Haynes è riuscito a “fotografare” l’attività elettrica del cervello di alcune persone invitate a scegliere se schiacciare un pulsante posto alla loro destra o uno collocato alla loro sinistra. L’esperimento ha confermato l’esistenza di processi cerebrali (“vortici” di segnali elettrici scambiati tra i neuroni, come una sorta di borbottio o ronzio di cui non siamo consapevoli) che anticipano di alcuni secondi la decisione del soggetto e analizzando i quali è possibile prevedere l’opzione che verrà effettivamente scelta. Le indagini neurofisiologiche più recenti sembrano dunque corroborare l’intuizione di Spinoza: la convinzione umana di poter prendere una decisione libera è una mera illusione, in quanto effetto psicologico della nostra ignoranza delle reali cause delle volizioni. L’individuo crede di scegliere (liberamente) ciò che in realtà è determinato a fare.
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Liberi o troppo complessi? Anche quando si trovano di fronte a un’evidenza sperimentale, gli uomini sono però difficilmente disposti a rinunciare all’idea di essere dotati di libero arbitrio. Che la presunta libertà possa essere ridotta a una serie di segnali elettrici e di connessioni neuronali è un’ipotesi sconcertante, avvertita dall’essere umano quasi come un’offesa alla sua natura. Già Spinoza aveva rilevato questo aspetto:
‘
Sebbene le cose stiano in modo da non lasciare alcun motivo di dubbio, credo tuttavia che a stento gli uomini possano essere indotti a considerarle con equità [...] tanto fermamente sono persuasi che al solo cenno della Mente il Corpo ora si muove ora sta fermo, e che fa moltissime cose che dipendono dalla sola volontà della Mente. (B. Spinoza, Etica, III, prop. 2, scolio, cit.)
Al di là delle resistenze psicologiche che in qualche modo la difendono, la nozione di “libero arbitrio”, anche se approssimativa, conserva un suo valore, dal momento che i fenomeni biochimici che determinano il comportamento umano sono talmente complessi da renderlo, di fatto, imprevedibile. La “libertà” sarebbe quindi “complessità”, dovuta alla grandissima varietà di risposte comportamentali possibili, a loro volta determinate da una straordinaria ricchezza di “contatti” cerebrali, a loro volta provocati da un’indefinita catena di cause sia interne sia esterne all’individuo, e così via.
Una casualità soltanto apparente Lo stesso Haynes, con un’immagine suggestiva, afferma che in linea di principio, risalendo di causa in causa, le ragioni di una decisione potrebbero essere tracciate a ritroso fino al Big Bang, mentre allo stato attuale ci è consentito di tracciarle soltanto fino a dieci secondi prima. La libertà consisterebbe dunque nel fatto che i milioni di miliardi di “anelli” di una catena causale (a cominciare dai segnali elettrici scambiati tra le nostre cellule cerebrali) sono troppi perché qualcuno possa metterli in evidenza per spiegare un comportamento. In una tale catena non c’è niente di misterioso: semplicemente non siamo (ancora?) in grado di ricostruirla. Per questo talvolta diciamo di avere preso “per caso” una certa decisione: perché non ne conosciamo le cause. Il che riecheggia in maniera sorprendente l’idea spinoziana che la libertà coincida, a ben guardare, con una lacuna, o un limite, della conoscenza scientifica.
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
In un libro sulla libertà e sul determinismo della natura scritto con il biologo Edoardo Boncinelli (nato nel 1941), il filosofo Giulio Giorello (1945-2020) cita le parole del teologo Vito Mancuso (nato nel 1962): «Come il vento appare libero nel suo andare e venire, così l’uomo, almeno qualche volta, giunge ad essere libero rispetto al mondo». E Giorello prosegue commentando: «l’immagine del vento che va e poi torna è fuorviante. Come sa bene qualunque meteorologo, il vento non è affatto libero nel suo soffiare; solo che spesso non siamo in grado di indicare le cause scatenanti di questo o quel particolare refolo (o di prevedere oggi ove il vento spirerà tra qualche giorno). Non posso che concludere che la cosiddetta libertà dell’anima si basa in definitiva solo sull’ignoranza» (Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, pp. 100-101). • A partire da questo testo e facendo riferimento ai passi spinoziani riportati in queste pagine (in particolare a quello in cui il filosofo olandese usa l’immagine della pietra), spiega in che senso la nozione di “caso” non trova posto nel rigoroso determinismo della natura, essendo piuttosto riconducibile (come la nozione di “libertà”) alla semplice ignoranza delle reali cause dei fenomeni.
PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA in libreria • Edoardo Boncinelli e G. Giorello, Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Rizzoli, Milano 2012 (in particolare il capitolo 3: “Una trappola filosofica”) • Benjamin Libet, Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, a cura di E. Boncinelli, Raffaello Cortina, Milano 2007 • John-Dylan Haynes, Posso prevedere quello che farai, in Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice, Torino 2010
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FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
SPINOZA E LA PITTURA FIAMMINGA DEL SEICENTO L’etica “gioiosa” di Spinoza In ambito morale, la riflessione filosofica seicentesca tende a rimuovere gli antichi precetti che imponevano all’uomo di rinunciare alle proprie passioni e ai propri desideri, per recuperare una visione dell’essere umano “riconciliato” con la concretezza e la vitalità del mondo. Emblematica in questo senso è l’etica di Baruch Spinoza, con il suo fermo rifiuto di ogni morale del sacrificio e della rinuncia, da quella di matrice platonica (fondata
1. Georg Flegel, Natura morta con pappagallo, 1635, olio su tela, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek.
sulla concezione della filosofia come preparazione alla morte) a quella stoica (basata sul disprezzo delle passioni), a quella cristiana (che predica la vanità del mondo terreno). Al contrario, per Spinoza l’uomo non è spirito immateriale destinato alla trascendenza, ma è un animale desiderante, che ama la vita e la felicità. Ecco perché il filosofo olandese considera degne di biasimo la passività e l’inclinazione alla solitudine e alla tristezza, mentre esalta la vitalità e la gioia che scaturiscono dalla relazione con gli altri e dal godimento delle cose:
‘
È proprio dell’uomo saggio ristorarsi e rinforzarsi con cibi e bevande moderate e gradevoli, come anche con odori, con l’amenità delle piante verdeggianti, con gli ornamenti, con la musica, coi giochi che esercitano il corpo. (B. Spinoza, Etica, IV, prop. XLV, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1984)
La vitalità delle nature morte Leggendo le parole di Spinoza non possiamo non pensare alle opere di molti artisti fiamminghi o olandesi più o meno contemporanei del filosofo: Georg Flegel (15661638), Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625), Floris van Dyck (1575-1651), Johannes Bosschaert (1610-1650) e tanti altri, i quali hanno dato un contributo decisivo al diffondersi delle cosiddette “nature morte”. Queste sono raffigurazioni estremamente realistiche, straripanti di oggetti raffigurati con colori accesi e nei minimi dettagli: fiori, cibi e bevande che diventano il simbolo di una vita godibile in tutta la sua pienezza. Un significativo esempio di questo genere pittorico è la Natura morta con pappagallo (1635) di Georg Flegel (fig. 1). Lungi dal rappresentare la caducità delle cose e la vanità del mondo, le “nature morte” appaiono piuttosto come “nature vive”, espressione di un’unica e infinita sostanza. Il filosofo Remo Bodei (1938-2019) afferma a questo proposito:
‘
Se consideriamo uno dei temi tipici dei quadri olandesi, potremo renderci conto che le espressioni “natura morta”, “Stilleben” o “stilllife” sono in parte svianti, perché si tratta in realtà di vegetali o animali (fiori, frutta, cacciagione, ostriche, pesci: tutte cose pensate per la gioia e il godimento dell’uomo) che […] testimoniano insieme – e con pari forza – i piaceri della vita e la loro vanità, i momenti lieti e il loro trascorrere,
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l’utilità e la bellezza dei beni quotidiani e il loro breve destino […]. Sottoposti alla prospettiva spinoziana, che li considera sub specie aeternitatis, apparirebbero tuttavia – nella loro natura di “cose particolari” intuite dall’amore intellettuale – “nature vive” piuttosto che “nature morte”. (R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 124-125)
La rivalutazione del finito Nella filosofia spinoziana trova il suo sfondo teorico anche un altro aspetto peculiare della pittura seicentesca, ovvero il senso della dignità ontologica del finito. Per Spinoza, gli enti finiti e i singoli individui non si dissolvono nell’infinito, ma al contrario è l’infinito (il «DioNatura») a esprimersi nella loro singolarità, legittimandola e conferendole valore, tanto che nell’Etica si legge: «quanto più conosciamo le cose particolari, tanto più conosciamo Dio» (V, prop. XXIV). Rifiutando l’antropocentrismo di matrice biblica, Spinoza ritiene inoltre che l’ordine della natura non ammetta gradazioni o gerarchie, né tra gli esseri umani e gli altri animali, né tra il corpo e l’anima: ogni aspetto della realtà – non importa quanto piccolo e insignificante ci appaia – è espressione di Dio. Uno dei pittori olandesi che meglio esprime questa “estetica del finito” è Jan Vermeer (1632-1675), un artista che si dedicò soprattutto alla pittura d’interni, mosso da una particolare attenzione per le cose e gli eventi ordinari (fig. 2). Nei quadri di Vermeer l’oggetto inanimato non fa da ornamento o contorno alla figura umana, ma è anch’esso protagonista della rappresentazione, come afferma il filosofo Roberto Diodato:
LABORATORIO
2. Jan Vermeer, La lattaia, 1660 ca., olio su tela, Amsterdam, Rijksmuseum.
‘
[Vermeer] dipinge […] soggetti quotidiani, talvolta umili, perlopiù ragazze o donne, intente a compiere azioni banali, insieme a oggetti: tende, tappeti, vassoi, sedie, mappe ecc. […] oggetti e soggetti importano solo come macchie di colore, sono cose […] individuate dalla luce: il soggetto del quadro è, senza compromessi con alcuna azione o contenuto, unicamente l’oggetto della visione. (R. Diodato, Vermeer, Góngora, Spinoza, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 13-15)
COMPETENZE Individuare i nessi tra la filosofia, le altre forme del sapere
e gli altri linguaggi | Collaborare e partecipare | Progettare
COMPITO DI REALTÀ
Immagina di dover allestire, insieme con i tuoi compagni di classe, una mostra sul tema “Finito e infinito nella pittura fiamminga del Seicento”. • Con l’aiuto dei docenti di filosofia e di storia dell’arte, svolgete una ricerca sul tema, consultando i vostri manuali, Internet ed eventuali pubblicazioni reperibili in biblioteca. • Sulla base della ricerca effettuata, elaborate un elenco dei temi e dei concetti fondamen-
tali che vorreste illustrare, quindi cercate in Internet le opere adatte a questo fine. • Individuate il luogo in cui allestireste la mostra e immaginate un possibile percorso espositivo attraverso i locali. Infine preparate la cartellonistica necessaria (pannello introduttivo generale, targhette identificative e di commento alle varie opere, eventuali altri pannelli con citazioni filosofiche, immagini ecc.).
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CAPITOLO 4 LEIBNIZ
1. La vita e le opere Tra studio solitario e impegno politico Un uomo «Desidera penetrare le cose più a fondo di quanto siano solite fare le persone comuni [...]. di filosofia, Non molto è il desiderio di conversazione; maggiore è quello di meditare e di leggere in scienza e politica solitudine» (G.W. Leibniz, Nouvelles lettres et opuscules inédits). Queste parole sono dello
stesso Leibniz, il quale, parlando di sé in terza persona, sottolinea il proprio carattere schivo, solitario, incline soprattutto allo studio e alla meditazione. Eppure, oltre che filosofo, storico e scienziato dai molteplici interessi, Leibniz fu anche uomo di corte, che non esitò a intraprendere la carriera politica e diplomatica, e che sempre si impegnò per la costruzione di una comunità di «spiriti» intellettuali che potessero confrontarsi e scambiarsi opinioni e scoperte. Membro dell’Accademia delle Scienze di Parigi, riuscì a fondare un’associazione simile a Berlino, e a contribuire alla nascita delle analoghe Accademie di Vienna e di San Pietroburgo. Così quel filosofo solitario, sempre chino sui libri, contribuì a diffondere una concezione comunitaria del sapere.
I primi Gottfried Wilhelm Leibniz nasce a Lipsia il 21 giugno 1646. Si laurea in filosofia a Jena interessi e gli e in giurisprudenza ad Altdorf, vicino a Norimberga. Proprio a Norimberga si affilia in seincarichi politici guito alla società dei Rosacroce, nel cui ambito può dedicarsi alla ricerca naturalistica.
In questa stessa città fa la conoscenza del barone di Boyneburg (Johann Christian von Boyneburg, 1622-1672) e per suo tramite diventa consigliere del principe elettore di Magonza. Nel periodo in cui esercita questa carica (1668-1671) compone vari scritti politici e giuridici; inoltre si occupa di logica e di fisica, e pubblica le prime opere.
Il soggiorno Nel 1672 Leibniz viene inviato a Parigi al seguito di una missione diplomatica che deve distoa Parigi gliere il re Luigi XIV dalla progettata invasione dell’Olanda, invogliandolo alla conquista dell’E-
gitto. A Parigi entra in contatto con gli uomini e gli intellettuali più famosi del tempo, si occupa di matematica e di fisica, e approfondisce la sua conoscenza della filosofia cartesiana. Nella capitale francese soggiorna fino al 1676, anno in cui scopre il calcolo infinitesimale, che però renderà pubblico soltanto nel 1684. Questo tipo di calcolo era già stato scoperto una decina di anni prima da Newton, ma Leibniz lo formula autonomamente e in modo da renderlo più fecondo, consentendone una più rapida e comoda applicazione ( “Per saperne di più”, p. 236). enciclosofia Rosacroce Nella Germania del XVII secolo i “Rosacroce” erano i membri di un ordine segreto fondato, secondo la leggenda, da un certo Christian Rosenkreuz, vissuto nel XVI secolo, iniziato in Oriente ai diversi misteri e alle pratiche alchimistiche, e infine ritornato in patria con il progetto di riformare il mondo.
principe elettore Erano detti “prìncipi elettori” i sette prìncipi tedeschi ai quali spettava il compito di eleggere l’imperatore del Sacro romano impero. Tre di essi erano ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, di Treviri e di Colonia) e quattro laici (il re di Boemia, il duca di Sassonia, il margravio del Brandeburgo e il conte palatino del Reno).
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
Sempre nel 1676 , una volta rientrato in Germania, Leibniz diventa bibliotecario del duca Il ritorno in di Hannover (Giovanni Federico di Lüneburg, 1625-1679). Dopo la morte del duca, viene Germania e i viaggi poi incaricato dal suo successore, Ernesto Augusto, di ricostruire la storia dell’illustre casata dei Lüneburg. A questo scopo viaggia per tre anni (1687-1690) in Germania e in Italia, incontrando importanti personalità politiche e intellettuali, e continuando a intrattenere con i dotti del tempo una fitta corrispondenza sulle più svariate questioni scientifiche. Fautore della riunione della Chiesa protestante con quella cattolica, lavora lungamente a questo progetto, che tuttavia si rivelerà utopistico. Muore a Hannover il 14 novembre 1716.
Gli scritti Leibniz fu uomo di vasti e grandiosi progetti, e si applicò alla soluzione dei problemi più diversi. I suoi scritti concernono la giurisprudenza, la politica, la storia, la teologia, la matematica e la fisica, ma non comprendono opere sistematiche. Leibniz compone opere di argomento filosofico soltanto occasionalmente. Tra le più note- Le opere voli ricordiamo il Discorso di metafisica, pubblicato nel 1686, in cui l’autore offre una filosofiche breve ma fondamentale esposizione del proprio pensiero. Seguono: il Nuovo sistema della natura, della comunicazione tra le sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo (1695); i Princìpi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714) e i Princìpi della filosofia (1714), che sono universalmente noti con il titolo di Monadologia. I Nuovi saggi sull’intelletto umano, scritti tra il 1703 e il 1704 ma pubblicati postumi nel 1765, costituiscono una risposta critica al Saggio sull’intelletto umano di John Locke, che era uscito nel 1690 ( unità 4, cap. 2). Al 1710 risale invece la pubblicazione dei Saggi di teodicea, scritti in francese, che con- I saggi tengono un insieme di osservazioni «sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del teologici male» (come dice il sottotitolo).
2. L’idea di fondo del pensiero leibniziano Il pensiero che domina tutte le multiformi attività di Leibniz è questo: esiste un ordine del mondo, che tuttavia non è geometricamente determinato e quindi necessario, ma spontaneamente organizzato e quindi libero. Si può dire che l’intero lavoro di Leibniz sia consistito nel ricercare quest’ordine in tutti i campi dello scibile e nel riconoscerne la possibilità o il fondamento. La concezione leibniziana dell’ordine del mondo è espressa nel Discorso di metafisica, dove La contingenza dell’ordine del si legge:
‘
mondo
Nulla accade nel mondo che sia assolutamente irregolare e non si può neppure immaginare nulla di simile. Supponiamo che qualcuno segni a caso sulla carta una quantità di punti: dico che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme, secondo una regola determinata e tale che passi per tutti questi punti proprio nell’ordine in cui la mano li ha tracciati. Se qualcuno traccia una linea continua, ora retta ora circolare, ora di altra natura, è possibile trovare una nozione o regola o equazione comune a tutti i punti di questa linea, in virtù della quale i mutamenti stessi della linea risultano spiegati. […] Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre (Discorso di metafisica, par. 6) regolare e fornito di un ordine generale.
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È facile scorgere in queste parole la netta differenza tra la concezione di Leibniz e quella di Spinoza: per Spinoza c’è un solo ordine univoco e necessario, che è Dio stesso; per Leibniz c’è invece un ordine non necessario ma contingente, che è frutto di una scelta divina. Leibniz, infatti, presenta Dio come colui che ha scelto, tra i vari possibili ordini dell’universo, il migliore o il più perfetto. E un ordine che includesse la possibilità della libera scelta (non soltanto divina, ma anche umana), e che da quella stessa scelta fosse determinato, è appunto quello che Leibniz cercò di riconoscere e realizzare in ogni campo della realtà e della sua indagine. Lo spirito L’idea di un tale ordine è alla base dei più disparati aspetti del pensiero di Leibniz: dall’ela“conciliatore” borazione di una «caratteristica universale»1 capace di esprimere l’organizzazione di Leibniz
OFFICINA CITTADINANZA Pace e ripudio della guerra p. 118
dell’intero sapere, al tentativo – che costituisce il nucleo storicamente più decisivo del suo pensiero – di conciliare meccanicismo e finalismo, materialismo e spiritualismo, scienza e metafisica, filosofia dei moderni e ontologia degli antichi. L’esigenza di un ordine universale fondato sulla libertà e sul rispetto della pluralità è anche alla base della multiforme attività pratica di Leibniz, che si ispirò sempre agli ideali della pace politica, della riconciliazione tra le Chiese e dell’organizzazione di una repubblica delle scienze. 1. L’espressione «caratteristica universale» designa una sorta di linguaggio simbolico universale composto di tanti «caratteri» quanti concetti elementari o primitivi si possono rintracciare nell’intero sapere umano. Nel progetto leibniziano una simile “caratteristica” avrebbe permesso, mediante il rispetto di precise regole logiche per la combinazione dei caratteri-concetti, di ottenere tutte le nozioni composte, trasformando così qualunque ragionamento in una sorta di calcolo che avrebbe escluso la possibilità dell’errore.
per saperne di più Leibniz e il calcolo filosofia e scienza infinitesimale Un nuovo sistema per calcolare gli “infinitesimi” Coerentemente rispetto alla legge (da lui stesso formulata) della continuità della natura, Leibniz ritiene che tra due termini (generalmente intesi, ovvero tra due corpi, tra due idee, tra due numeri ecc.) esistano differenze che possono essere infinitamente ridotte, senza mai annullarsi: si parla a questo proposito di differenze infinitesimali. La distanza tra due oggetti, ad esempio, è una misura che si può scomporre in misure sempre minori, in un processo di divisione infinito. La stessa cosa vale per i numeri naturali, che sono tra loro “separati” da altri infiniti numeri, che si avvicinano sempre più allo zero senza mai del tutto azzerarsi. Leibniz si accorge che queste grandezze infinitamente piccole (gli “infinitesimi”) non possono essere trattate mediante gli stessi strumenti di calcolo che si applicano alle grandezze finite. Per questo mette a punto un nuovo sistema (in parte in uso ancora oggi) che,
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
mediante l’uso di nuovi simboli, rende possibile l’analisi degli infinitesimi, esattamente come i simboli algebrici avevano reso possibile l’analisi delle grandezze finite.
La disputa tra Leibniz e Newton Leibniz pubblicò la sua scoperta (sugli “Acta eruditorum”, un celebre periodico edito in Germania) nel 1684, benché avesse elaborato il suo sistema di calcolo infinitesimale già nel 1676. Ma una decina d’anni prima era giunto a un risultato analogo anche lo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1726). Per quanto Leibniz e Newton avessero portato avanti i loro studi in maniera autonoma e indipendente, tra loro si accese un’aspra e lunga disputa per l’attribuzione della scoperta, spesso alimentata, più che da loro stessi, dai rispettivi seguaci e dalle diverse correnti della comunità scientifica internazionale. La polemica ebbe inizio ufficialmente nel 1699, quando un matematico inglese
Infine, l’appello a un ordine libero e intelligente di origine divina fonda anche la distinzione leibniziana tra il piano filosofico-metafisico (proteso a spiegare la realtà nel suo insieme e nei suoi aspetti sostanziali e finalistici) e il piano scientifico (proteso a spiegare la natura nei suoi aspetti fenomenici di tipo matematico e meccanicistico). Tale distinzione assume in Leibniz la forma concreta di un tentativo di mediazione o di sintesi tra l’antico e il nuovo, ossia tra la filosofia delle “forme sostanziali” della tradizione greco-medievale (che egli denomina «philosophia perennis») e la filosofia matematizzante e meccanicisticamente orientata dei philosophi novi dell’età moderna.
La distinzione tra piano filosofico e scientifico
3. La distinzione tra verità di ragione e di fatto L’opera di Leibniz è dunque diretta a giustificare la possibilità di un ordine contingente. Il primo aspetto di questa giustificazione consiste nel dimostrare che “ordine” non significa “necessità”. La necessità, secondo Leibniz, riguarda il mondo della logica, non il mondo della realtà. Un ordine reale non è mai necessario. Tale è il significato della distinzione leibniziana tra “verità di ragione” e verità di fatto. Le verità di ragione sono necessarie (come, la proposizione “Il triangolo ha tre lati”), ma Le verità non riguardano la realtà. Esse sono «identiche» (nel senso che il loro predicato non fa di ragione che ripetere quanto già espresso dal soggetto, senza dire nulla di nuovo) e risultano fondate sui princìpi di identità e di non-contraddizione, i quali affermano, rispettivamente, che “ogni cosa è ciò che è” e che “una proposizione o è vera, o è falsa” (che vuol dire che una proposizione non può essere contemporaneamente vera e falsa, né può essere non vera e non falsa). Tutte le verità fondate su questi princìpi sono necessarie e infallibili, ma non dicono nulla sulla realtà esistente di fatto. Esse non possono dunque derivare dall’esperienza, e pertanto sono innate. glossario p. 249
affermò in una pubblicazione che il primo inventore del nuovo calcolo non era Leibniz, ma Newton. In seguito la Royal Society di Londra si pronunciò in favore di Newton (in considerazione della priorità cronologica della sua scoperta), ma la disputa si protrasse ancora per molti anni.
La superiorità del sistema simbolico leibniziano Ciò che oggi si può dire è che l’opera di Newton e quella di Leibniz furono talmente preparate dai lavori dei matematici precedenti che stabilire la priorità cronologica dell’uno o dell’altro non ha molta importanza. Tuttavia, poiché la parte formale del nuovo metodo (cioè i simboli adoperati) ebbe in seguito un ruolo decisivo nello sviluppo del calcolo infinitesimale, gli storiografi sono propensi, pur senza sminuire i meriti di Newton, ad attribuire un merito maggiore a Leibniz, come a colui che per l’appunto escogitò e mise in uso il simbolismo più adatto.
Christoph Bernhard Francke, Ritratto di Leibniz, 1695, Brunswick (Germania), Herzog Anton Ulrich Museum.
237
Le verità di ragione delineano il mondo della pura possibilità logica, che è assai più vasto ed esteso di quello della realtà effettiva. Ad esempio, i mondi possibili, ovvero i mondi la cui nozione non implica contraddizione, sono moltissimi; ma uno solo è il mondo reale. Le verità Le verità di fatto sono invece contingenti e concernono la realtà effettiva. Esse delimidi fatto tano dunque il dominio ristretto della realtà all’interno del campo molto più esteso del
possibile. Queste verità non sono fondate sui princìpi di identità e di non-contraddizione, il che vuol dire che il loro contrario è possibile. Sono fondate invece sul principio di ragion sufficiente . glossario p. 249 In base a questo principio, nulla si verifica senza una ragione («nihil est sine ratione»), cioè senza che sia possibile, a chi conosca sufficientemente le cose, individuare una ragione che sia «sufficiente» per spiegare perché le cose stanno così e non altrimenti. Ma questa ragione non è una causa necessitante: è un principio di ordine e di concatenazione per il quale le cose che accadono si legano le une con le altre, senza però formare una catena necessaria.
LE VERITÀ DI RAGIONE
LE VERITÀ DI FATTO
sono
identiche (il predicato non dice nulla di nuovo rispetto al soggetto)
si basano sui
princìpi di identità e di non-contraddizione (il loro contrario è impossibile)
sono
non identiche (il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto)
si basano sui
principio di ragion sufficiente (il loro contrario è possibile)
sono necessarie; riguardano il mondo della possibilità logica
sono contingenti; riguardano la realtà effettiva
I mondi Il principio di ragion sufficiente è il principio specifico di quell’ordine che Leibniz si è sforpossibili e la zato di trovare in ogni aspetto dell’universo: un ordine che non escluda, ma includa la scelscelta divina
ta libera. Ad esempio, se ci si chiede perché, tra tutti i mondi possibili (cioè il cui concetto non implica contraddizione), sia reale soltanto quello in cui viviamo, bisognerà trovare la ragione sufficiente della sua realtà, cioè della sua scelta da parte di Dio. E questa ragione sufficiente sarà che esso è il migliore di tutti i mondi possibili , e che pertanto Dio, nella sua perfezione, non poteva che sceglierlo ( p. 248). glossario p. 251 L’affermazione “non poteva che sceglierlo” non implica ovviamente una necessità assoluta, ma l’atto della volontà di Dio, che ha liberamente scelto in conformità della sua natura perfetta. La ragione sufficiente – dice Leibniz – “inclina” senza necessitare: essa spiega ciò che accade in modo infallibile e certo, e tuttavia senza necessità, perché il contrario di ciò che accade è sempre possibile.
La riammissione Il principio di ragion sufficiente, secondo Leibniz, implica l’esistenza di cause finali. Su del finalismo questo punto Leibniz si stacca da Cartesio e da Spinoza, per riallacciarsi alla metafisica
scolastica. Se Dio ha creato questo mondo, che è il migliore dei mondi possibili, egli ha agito in vista di un fine; e questo fine è la vera causa della sua scelta.
)
Per l’esposizione orale
238
1. In che senso Leibniz parla di un «ordine contingente» del mondo (mentre Spinoza parlava di un «ordine necessario»)? 2. RIFLESSIONE CRITICA Considera le concezioni spinoziana e leibniziana dell’ordine del mondo: quale delle due ti sembra maggiormente condivisibile? Per quali ragioni?
Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
4. La concezione della sostanza Il principio di ragion sufficiente conduce Leibniz a formulare la nozione centrale della sua metafisica: quella di «sostanza individuale». Sappiamo che, secondo Leibniz, in una verità di ragione il soggetto e il predicato sono La sostanza “identici”, tanto che non si può negare quel predicato di quel soggetto senza contrad- individuale dirsi; e sappiamo che, al contrario, in una verità di fatto il predicato non è “identico” al soggetto, tanto che può essere negato di esso senza dare adito ad alcuna contraddizione logica. In una verità di fatto, tuttavia, il soggetto deve contenere la ragion sufficiente del suo predicato. Un soggetto di questo genere, che, trattandosi di una verità di fatto, è sempre un soggetto reale o esistente, è ciò che Leibniz chiama sostanza individuale . glossario p. 249 La natura di una sostanza individuale – dice Leibniz – è di corrispondere a una nozione così compiuta da essere sufficiente a far comprendere o a dedurre tutti i suoi possibili predicati. Ad esempio, “Alessandro Magno” è una sostanza individuale perché la sua nozione include la ragion sufficiente di tutti i predicati che gli possono essere attribuiti con verità (ad esempio che vinse Dario e Poro, che costruì un grande impero ecc.), fino a permettere di sapere a priori se sia morto di morte naturale o avvelenato. L’essere umano non possiede mai una nozione compiuta di una sostanza individuale, e quindi è costretto a desumere dall’esperienza o dalla storia gli attributi (i predicati) che le si riferiscono. Invece Dio, la cui conoscenza è perfetta, è in grado di scorgere nella nozione di ogni sostanza la ragion sufficiente di tutti i suoi predicati, e quindi può leggere, ad esempio, nella nozione di Alessandro tutto ciò che gli è accaduto o che gli accadrà, e anche le tracce di ciò che accade nell’intero universo. Questo non significa che la sostanza individuale sia necessitata ad agire in un certo modo. Non significa, ad esempio, che Alessandro non potesse fare a meno di sconfiggere Dario: egli poteva anche non farlo, poiché il non farlo non avrebbe implicato alcuna contraddizione logica; ma che lo avrebbe fatto è un dato certissimo desumibile dalla nozione di Alessandro, poiché la sua natura è quella, e risponde all’ordine generale dell’universo voluto da Dio.
La sostanza individuale nella conoscenza umana e divina
ESERCIZI
5. Il fondamento metafisico della fisica La natura non costituisce un’eccezione al carattere non necessario dell’ordine universale: questa convinzione, che domina lo spirito di Leibniz, lo spinge a modificare via via le dottrine da lui stesso esposte nello scritto giovanile Una nuova ipotesi fisica (Hypothesis physica nova), e in particolare l’idea (risalente a Pierre Gassendi) della costituzione atomica della materia e quella cartesiana della riconducibilità del mondo fisico all’estensione e al movimento. Alla prospettiva atomistica Leibniz rinuncia quando giunge a formulare quella che egli Il rifiuto stesso definisce una delle sue grandi massime, cioè la legge della continuità della natura , dell’atomismo ovvero il principio (di origine scolastica) secondo cui «la natura non fa salti» (natura non facit saltus), nel senso che procede sempre per gradi, rispettando la struttura continua (e non discreta) della realtà. glossario p. 249
239
Sulla base di questo principio si deve ammettere che, per passare dal piccolo al grande o viceversa, bisogna attraversare infiniti gradi intermedi, e di conseguenza che il processo di divisione della materia non può fermarsi a elementi indivisibili, quali sarebbero gli atomi, ma deve procedere all’infinito. La nozione di In seguito Leibniz smette anche di vedere nell’estensione e nel movimento, che erano gli «forza viva» elementi della fisica cartesiana, i costituenti originari del mondo naturale, e arriva a rico-
noscere un diverso e unico elemento originario: la forza. Ciò accade quando si convince che il principio cartesiano della conservazione della quantità di movimento deve essere sostituito con il principio della conservazione della forza. In altre parole, per Leibniz ciò che rimane costante in un sistema “chiuso” o “isolato” (cioè nel quale agiscono soltanto forze interne al sistema stesso) non è la quantità di movimento (definita dalla formula m · v, cioè “massa x velocità”), ma la quantità di «azione motrice» o di «forza viva» (oggi diremmo “energia cinetica”), la quale è pari al prodotto della massa di un corpo per il quadrato della sua velocità (m · v2). La forza viva , per Leibniz, consiste nella capacità di produrre un determinato effetto, ad esempio il sollevamento di un peso; essa implica quindi un’attività, o una produttività, che rimane invece esclusa se ci si limita a considerare il movimento, il quale consiste nella semplice traslazione nello spazio. glossario p. 249 Leibniz considera perciò la forza come assai più reale del movimento: di per sé il movimento non è reale, come di per sé non sono reali lo spazio e il tempo necessari per definirlo. Movimento, spazio e tempo devono piuttosto essere considerati “enti di ragione”, attraverso i quali noi esprimiamo i rapporti di coesistenza e di successione tra le cose, secondo la rappresentazione mentale che ce ne formiamo.
La forza come Individuando nella forza viva l’autentica realtà dei corpi, Leibniz supera la spiegazione principio meccanicistica dei fenomeni naturali. Egli accetta il meccanicismo cartesiano soltanto metafisico
come spiegazione provvisoria, che esige di essere integrata da una spiegazione più alta, di tipo metafisico. In pratica, sebbene Leibniz ammetta che nella natura tutto avviene meccanicamente, e cioè che tutti i fenomeni naturali si possono spiegare ricorrendo alle nozioni della geometria e alle leggi del movimento, tuttavia ritiene che quegli stessi princìpi della meccanica nascano da qualcosa di superiore, che può essere meglio indagato dalla metafisica che dalla geometria. La forza viva è appunto il superiore principio metafisico che fonda le leggi stesse della fisica. Pertanto l’ultimo risultato della fisica di Leibniz sarà la risoluzione della realtà fisica in una realtà incorporea. L’elemento costitutivo della natura, riconosciuto nella forza, si rivelerà di natura spirituale, e il dualismo cartesiano tra sostanza estesa e sostanza pensante verrà negato, dal momento che nell’universo non esistono veramente né estensione, né corporeità, né materia: tutto è spirito e vita, perché tutto è forza.
)
Per l’esposizione orale
240
1. Introduci la nozione leibniziana di “sostanza individuale”. 2. Che cosa significa che «la natura non fa salti»? 3. Che cos’è la «forza viva» e in che senso è il principio metafisico che fonda le leggi fisiche?
Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
6. La concezione dell’universo Sulla base delle sue riflessioni di carattere fisico-metafisico, Leibniz giunge a riconoscere che l’elemento ultimo che entra a comporre sia il mondo dello spirito sia il mondo della materia è unico. Nel Discorso di metafisica (1686) Leibniz aveva elaborato il concetto di «sostanza indivi- Dalla sostanza duale» facendo riferimento prevalentemente all’individualità umana. Come si è detto, la individuale alla monade sostanza individuale è il principio logico della ragion sufficiente elevato a entità metafisica, e cioè a elemento costitutivo dell’ordine contingente e libero che regge l’intera realtà. In quello scritto Leibniz aveva accennato all’esigenza che anche i corpi fisici avessero in sé una «forma sostanziale» che corrispondesse alla sostanza individuale umana, ma non si era spinto oltre. Verso il 1696 egli comincia a introdurre la parola e il concetto di «monade». L’uso di questo termine segna nel suo pensiero l’estensione al mondo fisico della dottrina dell’ordine contingente, e quindi l’unificazione di mondo fisico e mondo spirituale in un unico e libero ordine universale.
Le caratteristiche della monade La monade è un atomo spirituale, ovvero una sostanza semplice, senza parti e quindi La monade priva di estensione o di figura, e indivisibile. Come tale, non si può disgregare ed è eterna: come atomo spirituale soltanto Dio può crearla o annullarla. glossario p. 250 Le monadi che costituiscono la realtà sono infinite di numero, e ogni monade è diversa dall’altra, poiché «in natura non ci sono mai due esseri perfettamente uguali e fra i quali non sia possibile trovare una differenza intrinseca» (Monadologia, prop. 9). Su questo principio – detto dell’ identità degli indiscernibili – Leibniz insiste con forza. Esso significa che gli esseri reali (viventi e non) si diversificano tutti l’uno dall’altro, perché, se per assurdo esistessero due enti tra loro perfettamente uguali sotto tutti gli aspetti (se esistessero, cioè, due enti «indiscernibili»), essi sarebbero in realtà il medesimo ente. Anche se la loro diversità consistesse soltanto, ad esempio, in una diversa posizione nello spazio, questa diversità di posizione (differenza quantitativa) si trasformerebbe immediatamente in una diversità qualitativa, e quindi sostanziale: due cubi perfettamente uguali esistono soltanto in matematica, in astratto, ma nella realtà si tratterebbe di due cubi distinti, ovvero di due sostanze diverse. glossario p. 250 ( T1 p. 254)
L’identità degli indiscernibili
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
In quanto sostanze semplici e immateriali, le monadi non possono “comunicare” o La monade influenzarsi a vicenda, ma sussistono come altrettanti mondi chiusi, privi di “finestre” come attività rappresentativa attraverso cui qualcosa possa uscire o entrare:
‘
non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato […]. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire. (Monadologia, prop. 7).
Di conseguenza, tutte le monadi sono presenti alla singola monade soltanto in modo ideale, cioè sotto forma di rappresentazione (che è l’unico modo in cui una molteplicità può essere presente in un’unità semplice e immateriale), al punto che ogni monade si configura come uno specchio vivente dell’universo.
241
Non per questo la conoscenza di ogni singola monade è identica a quella delle altre. Ogni monade, infatti, si rappresenta l’universo da un particolare e specifico punto di vista:
‘
come una medesima città, guardata da punti differenti, sembra tutt’altra e come moltiplicata secondo le prospettive, così accade, analogamente, che, per la molteplicità infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi che però non sono che le prospettive d’un (Monadologia, prop. 57). unico universo, secondo i diversi punti di vista di ciascuna monade.
I tipi di Dire che la monade è un centro attivo di rappresentazione significa dire che è costituita a rappresentazione somiglianza della nostra anima e che consta di due attività fondamentali: la percezione della monade
(cioè l’attività rappresentativa in generale) e l’ appetizione (cioè il tendere da una percezione all’altra). glossario p. 250 Attribuire a tutte le monadi la capacità della percezione può apparire paradossale soltanto a chi confonda la vita rappresentativa con la vita cosciente, ossia il percepire con la consapevolezza di percepire. Leibniz denomina tale consapevolezza appercezione , riferendola soltanto a quelle monadi più elevate che sono le «anime» in senso stretto. Del resto anche nella nostra anima – osserva Leibniz – esistono delle piccole percezioni , o «percezioni insensibili», di cui non abbiamo consapevolezza. Ammettendo l’esistenza di queste piccole percezioni, il filosofo riconosce che l’anima pensa sempre, anche quando non si accorge di pensare, e in ciò si oppone a Cartesio e a Locke ( unità 4, cap. 2), che al contrario avevano identificato il pensare proprio con la coscienza di pensare. glossario p. 250
CONCETTI A CONFRONTO
LA SOSTANZA in CARTESIO
in SPINOZA
in LEIBNIZ
in senso proprio è Dio, sostanza infinita, eterna, immutabile, autosufficiente, onnipotente e onnisciente
è unica e coincide con Dio, sostanza increata, eterna, unica e infinita, principio immanente del Tutto
è molteplice e costituita dalle monadi, sostanze semplici, inestese (e dunque indivisibili) ed eterne
in senso derivato si articola in due sostanze distinte, create da Dio: • sostanza pensante (res cogitans) • sostanza estesa (res extensa)
si manifesta all’intelletto umano secondo due «attributi»: • il pensiero • l’estensione
le monadi si aggregano in infiniti corpi e agiscono in quanto centri di attività rappresentativa
L’organizzazione Le infinite monadi che costituiscono la realtà sono ordinate gerarchicamente in base a divergerarchica si gradi di perfezione, i quali dipendono dai gradi di chiarezza delle percezioni delle modelle monadi
nadi stesse, cioè dalla maggiore o minore chiarezza con cui esse percepiscono l’universo. Da questo punto di vista, al vertice delle monadi c’è Dio, che possiede una conoscenza totale e perfettamente chiara dell’universo. Dio, infatti, si rappresenta l’universo da tutti i possibili punti di vista, e in questo senso è la monade delle monadi, mentre le monadi create hanno, ciascuna, soltanto un punto di vista particolare. Le percezioni delle monadi create, inoltre, sono sempre in qualche misura confuse, simili a quelle che si hanno quando si cade in uno stato di deliquio o di sonno. Le monadi pure e semplici (cioè quelle che, come vedremo nel prossimo paragrafo, costituiscono la materia) sono quelle che possiedono soltanto percezioni di questo tipo, cioè confuse; le monadi fornite di
242
Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
memoria sono quelle che costituiscono le anime degli animali; quelle fornite di ragione costituiscono invece le anime umane. Leibniz ammette quindi, contro Cartesio, che gli animali abbiano un’anima, sebbene non identica a quella degli uomini e capace soltanto di stabilire tra le percezioni una concatenazione che si limita a “imitare” quelle che può stabilire la ragione. LA MONADE
è un
atomo spirituale cioè una
sostanza semplice, inestesa e indivisibile che
si differenzia da tutte le altre (principio dell’identità degli indiscernibili)
non può agire causalmente sulle altre monadi
può conoscere le altre monadi mediante un’attività rappresentativa che si articola in
che determina il
percezione, appercezione, appetizione
grado occupato nell’ordine gerarchico delle monadi
La concezione della materia Poiché le monadi sono il costituente ultimo dell’intera realtà, anche la materia è fatta di monadi. E poiché le monadi sono atomi spirituali, la materia da esse formata non può dirsi né sostanza corporea, né sostanza spirituale: essa è piuttosto un “aggregato” di sostanze spirituali. Tale aggregato è infinitamente divisibile, nel senso che è scomponibile in infiniti elementi ultimi (le monadi), ma questi elementi ultimi non hanno niente di corporeo. Sono “atomi di sostanza”, o “punti metafisici”, che sono “contenuti” in numero infinito da ogni ente.
I corpi come aggregati di infiniti atomi spirituali
Leibniz chiama materia seconda la materia intesa in questo modo, cioè come aggregato di monadi che, nel caso degli animali e degli esseri umani, è tenuto insieme da una monade superiore o dominante (l’anima). Chiama invece materia prima la «potenza passiva» (forza di inerzia o di resistenza) che insieme con la “potenza attiva” (cioè alla «forza viva» di cui abbiamo già parlato p. 240) costituisce la monade stessa1 . glossario p. 250 Nelle monadi superiori, ovvero nelle anime umane, la potenza passiva (o materia prima) è l’insieme delle percezioni confuse, le quali costituiscono ciò che propriamente vi è di finito e di imperfetto nelle monadi spirituali create da Dio.
La materia prima e la materia seconda
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
1. All’interno del concetto di “forza” Leibniz distingue, da una parte, la “forza attiva”, cioè la forza vera e propria, o la «forza viva», che è conatus o tendenza all’azione, e, dall’altra, la “forza passiva”, che coincide con la massa di un corpo, ovvero con la sua inerzia motoria e con la resistenza che esso oppone agli altri corpi.
243
L’attività Leibniz osserva a questo proposito che da un punto di vista rigorosamente metafisico, cone la passività siderando come “azione” ciò che proviene dalla sostanza spontaneamente, cioè dal suo stesso delle monadi
“fondo”, ogni sostanza non fa che agire, poiché, dopo l’atto creatore di Dio, essa non subisce l’azione di alcuna altra sostanza e quindi è essa stessa l’origine di tutto ciò che in essa “accade”. Ma Leibniz aggiunge che, considerando come “azione” un’attività più perfetta e come “passione” un’attività meno perfetta, allora non vi è azione nelle sostanze se non quando la loro percezione diviene più distinta, così come non vi è passione se non quando diviene più confusa. Ecco perché, come abbiamo detto, nelle monadi spirituali le percezioni confuse corrispondono a ciò che è l’inerzia o l’impenetrabilità delle monadi corporee, cioè a quella che Leibniz chiama “materia prima”. Le percezioni confuse corrispondono quindi, negli esseri umani, all’imperfezione, alle affezioni, alla dipendenza dall’insieme delle cose esterne o dalla materia, mentre la perfezione, la forza, il dominio e l’azione libera dell’anima consistono nei pensieri distinti.
Il problema del Abbiamo dunque visto come per Leibniz il corpo degli esseri umani e degli animali sia rapporto tra una “materia seconda”, cioè un aggregato di monadi tenuto insieme e dominato da una anima e corpo
monade superiore, che è l’anima. Ma, sebbene tra le monadi aggregate che costituiscono il corpo e la monade dominante che costituisce l’anima non ci sia alcuna diversità sostanziale o metafisica (perché le diverse monadi, come sappiamo, differiscono tra loro soltanto per i diversi gradi di chiarezza delle loro percezioni), Leibniz ammette tuttavia che il corpo e l’anima seguono leggi indipendenti. I corpi – egli dice – agiscono tra loro secondo leggi meccaniche, mentre le anime agiscono secondo leggi finalistiche. E non c’è modo di immaginare un’azione dell’anima sul corpo o del corpo sull’anima. Bisogna concludere, pertanto, che l’anima e il corpo seguono ognuno la propria legge, separatamente, senza che le leggi corporee siano turbate dalle azioni dell’anima o che i corpi trovino “finestre” per far entrare nell’anima il loro influsso. Nasce così il problema di spiegare l’accordo dell’anima con il corpo.
I rapporti tra le monadi e l’«armonia prestabilita» Al problema del rapporto tra l’anima e il corpo si riconduce la questione più generale della comunicazione reciproca tra le monadi che costituiscono l’universo. Dalla comunicazione tra le monadi al problema mente-corpo
Tutte le monadi (come abbiamo già detto) sono perfettamente chiuse in sé stesse e “senza finestre”, cioè senza possibilità di comunicare direttamente l’una con l’altra. Ma nello stesso tempo esse sono “legate” l’una all’altra, nella misura in cui ognuna possiede o si forma una rappresentazione più o meno chiara di tutte le altre monadi. In altre parole, le monadi sono come tante diverse vedute di una medesima città ( p. 242), e come tali si accordano insieme a costituire la veduta totale e complessiva dell’universo, che si trova pienamente espressa e riassunta nella monade suprema: Dio. Sebbene ogni monade si rappresenti l’intero universo, la monade-anima si rappresenta più distintamente il corpo che le si riferisce, e siccome tale corpo, costituito di monadi, esprime tutto l’universo, così l’anima, rappresentandosi il corpo che le “appartiene”, si rappresenta nello stesso tempo tutto l’universo. In questo modo il problema della comunicazione tra le monadi viene a configurarsi nella forma particolare che esso aveva assunto nella filosofia cartesiana, cioè come problema del rapporto tra l’anima e il corpo.
Le possibili Leibniz distingue tre possibili soluzioni di questo problema. soluzioni 1. Se si paragonano l’anima e il corpo a due orologi che devono segnare la stessa ora, il pri-
mo modo di spiegare il loro accordo è quello di ipotizzare l’influenza reciproca dell’uno
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
sull’altro. È questa la soluzione proposta da certe filosofie erronee, che ignorano la tesi dell’incomunicabilità delle monadi e la conseguente impossibilità di ammettere un’azione causale tra due sostanze (quella spirituale e quella materiale) che seguono leggi eterogenee. 2. Il secondo modo di spiegare l’accordo è quello che Leibniz chiama dell’«assistenza», e che è proprio dell’occasionalismo ( cap. 1, p. 161): due orologi anche non ben funzionanti possono essere mantenuti costantemente in armonia tra loro da un abile orologiaio che a ogni istante provveda a regolarli. Questo sistema, secondo Leibniz, ha il torto di introdurre un Deus ex machina in qualcosa che in realtà è naturale e ordinario, e nel quale pertanto Dio non deve intervenire se non nello stesso modo in cui interviene in tutti gli altri fenomeni naturali. 3. Non resta allora che una terza soluzione, consistente nel supporre che i due orologi siano stati costruiti con tanta arte e tale perfezione da essere in futuro sempre d’accordo tra loro. Questa è la dottrina dell’ armonia prestabilita sostenuta da Leibniz. glossario p. 250 Secondo questa dottrina, l’anima e il corpo seguono ciascuno le proprie leggi; ma il loro La dottrina accordo è stato fissato preventivamente da Dio nell’atto di stabilire queste stesse leggi. dell’armonia prestabilita Il corpo seguendo le leggi meccaniche e l’anima seguendo la propria interna spontaneità sono in ogni istante tra loro in armonia, e questa armonia è stata prestabilita da Dio all’atto della creazione. ( T2 p. 255)
7. La teoria della conoscenza
ESERCIZI
Abbiamo già visto che la vita dell’anima (della monade-anima) si sviluppa con perfetta L’innatismo spontaneità dal suo interno. Essa è una specie di “sogno” ben congegnato, nel quale le per- totale cezioni si susseguono in virtù di una legge che è inscritta nella natura stessa della monade e che Dio ha stabilito all’atto della sua creazione. Ecco perché Leibniz giunge a dire che l’anima è una specie di «automa immateriale». Ed ecco perché Leibniz sostiene un innatismo “totale”, secondo il quale la monade è interamente innata a sé stessa, dal momento che nulla può ricevere dall’esterno. Essa contiene in sé da sempre non soltanto i princìpi logici e le verità di ragione, ma anche le verità di fatto e perfino le sensazioni, che provengono anch’esse dal suo interno, ovvero da un “fondo oscuro” costituito dalle sue «piccole percezioni» ( p. 242), le quali divengono via via, almeno in parte, distinte. Leibniz espone la propria prospettiva innatistica nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, che L’innatismo già nel titolo contengono un preciso riferimento polemico al Saggio sull’intelletto umano di virtuale John Locke ( unità 4, cap. 2). In questo scritto si afferma che le verità di ragione non possono derivare dall’esperienza, in quanto hanno una necessità assoluta che le conoscenze empiriche non possiedono. Ciò non toglie – precisa Leibniz, elaborando una forma di innatismo sui generis, detto “virtuale” – che le verità innate siano presenti alla mente TEST DI LOGICA non in modo attuale, bensì potenziale, cioè sotto forma di possibilità o tendenze. Per chiarire il carattere specifico del suo innatismo e il modo in cui le idee passano dalla virtualità all’attualità, Leibniz si serve dell’esempio del blocco di marmo. L’anima – egli scrive – è simile a un blocco di marmo in cui siano impresse delle venature che delineano una certa figura; saranno sufficienti pochi colpi di scalpello per eliminare il marmo superfluo e fare apparire la statua. In altri termini, l’anima ricava da sé stessa le idee (la statua), portando alla luce mediante la riflessione (i colpi di scalpello) e rendendo attuali le predisposizioni e le tendenze che possiede (le venature del marmo).
245
La correzione Leibniz afferma dunque che l’anima dispone di “categorie” proprie («l’essere, la sostandel principio za, l’uno» ecc.), che i sensi non potrebbero fornirle. Con la formula secondo cui «l’anima empiristico
è innata a sé stessa», egli ribadisce l’idea secondo cui la monade esce dalle mani di Dio compiuta nella sua natura e determinata (sebbene non in modo necessitante) in tutti i suoi pensieri e in tutte le sue azioni.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta le caratteristiche della monade utilizzando le espressioni e i termini elencati di seguito: atomo spirituale, identità degli indiscernibili, percezione, appercezione, appetizione. 2. In che cosa consiste la dottrina leibniziana dell’armonia prestabilita e quale problema cerca di risolvere?
8. La concezione di Dio e i problemi della «teodicea» Con la dottrina dell’armonia prestabilita, il sistema metafisico di Leibniz diventa un sistema esplicitamente teologico, e il suo pensiero si trasforma in una riflessione su Dio. Leibniz affronta dunque il problema delle prove dell’esistenza di Dio, quello del male e quello della libertà e della predeterminazione degli esseri umani.
L’esistenza e la natura di Dio La prova Per dimostrare l’esistenza di Dio, Leibniz rielabora una delle prove a posteriori della tradia posteriori zione. Si tratta della terza «via» di Tommaso d’Aquino, e precisamente di quella denomi-
nata «ex contingentia mundi» e desunta dal rapporto tra il contingente e il necessario. La formulazione di Leibniz fa riferimento al principio di ragion sufficiente, che egli applica a una questione filosofica fondamentale: “perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?”. Se qualcosa c’è, per Leibniz deve esserci una “ragione”. Ma il mondo non ha in sé la ragione sufficiente della propria esistenza, dal momento che tutto ciò che esiste è contingente e rimanda ad altro; dunque, per evitare un regresso all’infinito nella catena causale, deve esistere un essere necessario che sia causa sufficiente e ragione ultima di sé stesso e del mondo. Questa ragione ultima delle cose è Dio.
Dio come Se Leibniz dimostra l’esistenza di Dio avvalendosi di uno schema argomentativo già elaluogo dei borato in precedenza, del tutto nuova è invece la sua concezione di Dio come “luogo dei possibili
possibili”. Per spiegare questa idea, occorre richiamare brevemente la distinzione leibniziana tra “possibile” e “reale”: possibile è tutto ciò che si può pensare senza contraddizione, mentre reale è tutto ciò che, oltre a essere possibile, esiste anche realmente. “Possibile”, nel senso di “pensabile” è ad esempio un triangolo di tre lati; “impossibile”, nel senso di “impensabile”, è invece un triangolo di quattro lati, o un cerchio quadrato. La possibilità è quindi qualcosa che riguarda il piano logico, le essenze delle cose, le quali (essenze) esistono nell’intelletto divino: in questo senso Dio è «regione delle verità eterne» e «luogo di tutti i possibili», ovvero sede necessaria ed eterna di tutto ciò che è logicamente non contraddittorio, e che pertanto potrebbe passare all’esistenza.
Dio come Il “ponte” tra la possibilità logica e la realtà è costituito dalla creazione, mediante la quale Dio intelletto porta le essenze all’esistenza. L’esistenza, però, non aggiunge nulla all’essenza (cioè alla defie volontà
nizione) delle cose. Dio crea gli individui (cioè li rende esistenti e non soltanto possibili), ma non crea le loro essenze, le quali sussistono da sempre nella sua mente. In questo senso il possibile è il contenuto eterno e necessario dell’intelletto divino, mentre il reale è il frutto temporale e contingente della libera volontà creatrice di Dio. Questo significa che Dio
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non crea le essenze eterne ma crea gli individui che “incarnano” quelle essenze. È causa del fatto che qualche triangolo esista, non dell’essenza del triangolo e delle sue proprietà necessarie. Leibniz rifiuta dunque l’arbitrarismo divino di Cartesio, secondo il quale le verità ne- Il limite logico cessarie sono tali perché Dio le ha stabilite mediante un atto libero di volontà; per Leibniz, della potenza divina al contrario, esse sono necessarie perché neppure Dio può violarle pensando l’impossibile. Anche Dio, come gli esseri umani, deve riconoscere il carattere assoluto e inviolabile della matematica e della logica. Così, pur affermando che Dio è onnipotente, Leibniz deve ammettere che la sua potenza trova un limite nella necessità delle verità eterne. Per dimostrare l’esistenza di Dio, Leibniz rielabora anche l’argomento ontologico svilup- La prova ontologica pato da Anselmo d’Aosta, utilizzando però il proprio concetto di “possibile”. Alla forma data a questo argomento da Cartesio ( cap. 1, p. 152), egli obietta che si può dedurre l’esistenza, in quanto perfezione, dal concetto di un essere che possieda tutte le perfezioni soltanto dopo aver dimostrato che la nozione di questo essere è possibile, cioè priva di contraddizioni interne. Sicché, in realtà, non si può passare dalla perfezione di Dio alla sua esistenza, ma si deve piuttosto passare dalla possibilità di Dio alla sua esistenza. Questa è dunque, secondo Leibniz, la forma corretta dell’argomento ontologico:
‘
Dio solo, ovvero l’essere necessario, ha questo privilegio: che, se è possibile, bisogna che esista. E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna contraddizione, ciò solo basta per riconoscere a priori l’esistenza di Dio. (Monadologia, par. 45)
In Dio, dunque, possibilità e realtà coincidono: tale è, secondo Leibniz, il significato della necessità della sua natura. Posto che sia riconosciuto possibile, dev’essere riconosciuto esistente; e non c’è dubbio che possa e debba essere riconosciuto possibile, data la totale e intrinseca assenza di limitazioni che lo caratterizza.
Il problema del male Affrontata dai filosofi fin dall’antichità, la “questione del male” riguarda in ultima analisi La giustificazione la possibilità di conciliare l’idea di un Dio creatore buono e onnipotente con la presenza di Dio del dolore e del male nel mondo creato. Leibniz affronta questo tema nei Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male (1710), nei quali cerca di “scagionare” Dio dalla possibile accusa di essere responsabile dell’esistenza del male nel mondo. Proprio questo è il significato del termine teodicea che compare nel titolo dell’opera; un termine che viene coniato dallo stesso Leibniz e da lui così definito: «dottrina del diritto e della giustizia di Dio» (dal greco théos, “dio”, e díke, “giustizia”). glossario p. 251 Rifacendosi in parte a uno schema che era già stato di Agostino, Leibniz distingue tre tipi di male: il male fisico è la sofferenza che affligge i corpi; il male morale coincide con il peccato o con la colpa; il male metafisico è una forma di non-essere, un difetto “strutturale” e originario che le cose create, in quanto finite, non possono non presentare. Il male metafisico, in un certo senso, non desta scandalo, perché può essere spiegato nella prospettiva della naturale e inevitabile differenza tra Dio e il mondo; il male fisico, analogamente, può essere visto come la conseguenza necessaria del male metafisico o del male morale, cioè come l’effetto fisico dell’imperfezione originaria delle creature o come la giusta punizione per le colpe umane. Il male morale, invece, risulta inaccettabile agli occhi dell’uomo e richiede una “giustificazione” di Dio, dal momento che questi, se vuole impedire la malvagità (e la conseguente dannazione di chi è malvagio) ma non può, allora non è onnipotente; se, al contrario, può impedirla ma non vuole, allora è malvagio.
I tre tipi di male e lo “scandalo” del male morale
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La scelta del La soluzione che Leibniz prospetta è la seguente: poiché è buono, Dio vorrebbe che tutte migliore le perfezioni possibili (pensate dal suo intelletto) diventassero effettivamente esistenti. Ma mondo possibile non tutti i possibili sono “com-possibili”, cioè compatibili nello stesso mondo reale. La
libertà di scelta, ad esempio, è un valore positivo, che Dio vorrebbe portare all’esistenza; ma essa non è conciliabile con una totale assenza di colpa, che pure Dio vorrebbe realizzare nella sua creazione: nel mondo reale, uno di questi due valori dovrà quindi essere sacrificato a vantaggio dell’altro. Tra i diversi mondi possibili costituiti dalle diverse possibili combinazioni di qualità positive, secondo Leibniz Dio sceglie quello che implica la minore quantità di male. Pertanto il mondo creato, in cui viviamo, non è “l’ottimo” (tant’è vero che in esso c’è il male), ma è comunque “il migliore possibile”, perché, per eliminare completamente il male, Dio avrebbe dovuto o non creare alcun mondo, o crearne uno peggiore, ovvero un mondo abitato da esseri incapaci di peccare, ma non liberi.
Volontà Detto in altri termini, in Dio ci sono una volontà antecedente che vuole il bene in sé, antecedente e una volontà conseguente che vuole il meglio possibile. Dio non vuole il male morale, e volontà conseguente ossia il peccato che deriva interamente dalla scelta libera dell’uomo, ma lo «permette» in
L’origine del male nella necessità logica
base alla sua volontà conseguente, ovvero per ottenere un bene maggiore (un mondo in cui l’uomo è libero) rispetto a un mondo dal quale il male sarebbe assente, ma in cui gli uomini non potrebbero scegliere liberamente. ( T3 p. 257) In ultima analisi, l’origine del male risiede nella «suprema necessità delle verità eterne». La teodicea di Leibniz si fonda sull’ammissione di un “limite” contro cui la potenza di Dio è costretta a urtare: Dio si scontra con la necessità della logica, perché non può pensare e creare l’impossibile: combinare nello stesso mondo reale la libertà e la volontà di tutti gli uomini di non compiere il male sarebbe come realizzare un cerchio quadrato.
La libertà umana nell’ordine del mondo Le scelte Creato da un atto libero della volontà di Dio, l’ordine dell’universo è conservato e svilupumane pato dalla libertà delle monadi, e soprattutto delle monadi spirituali (le «anime» degli es-
seri umani»), nelle quali meglio si riflette e si riconosce la sostanza divina. Il principio di ragion sufficiente, sul quale è fondato l’ordine del mondo, conduce Leibniz a individuare nel creato un orientamento finalistico verso il meglio, che è l’obiettivo ultimo sia della volontà divina sia di quella umana. Dio agisce (cioè crea e regge il mondo) secondo una volontà che tende al meglio; di conseguenza le scelte umane sono sì predeterminate (perché presenti da sempre e per sempre all’onniscienza divina), ma rimangono libere e non necessitate. Detto in altri termini: la predeterminazione divina è «inclinante» ma non «necessitante» nei confronti della libertà umana, e la scelta del meglio (o del peggio) da parte delle creature rimane libera e responsabile.
Il motivo Già all’epoca di Leibniz numerosi pensatori individuarono nella sua teologia alcune difficoltà ispiratore e alcuni punti critici. Ma la teologia, se è il punto di arrivo della speculazione leibniziana, tutdell’opera di Leibniz tavia non è l’intera sua filosofia, il cui principio ispiratore è la libertà dell’ordine universale.
Leibniz, cioè, cercò di realizzare un sistema filosofico che giustificasse l’atteggiamento da lui stesso assunto di fronte ai problemi della vita: l’atteggiamento di chi vuol promuovere e fondare nel mondo umano, e riconoscere in tutto l’universo, un insieme di attività che liberamente si incontrano, si limitano e finiscono per trovare la loro pacifica coordinazione.
)
Per l’esposizione orale
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1. Esponi sinteticamente le dimostrazioni dell’esistenza di Dio elaborate da Leibniz. 2. Che cosa intende Leibniz per “teodicea”?
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 4 LEIBNIZ
La vita e le opere Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) si distingue per i vasti interessi culturali; tra questi vi è il tentativo di elaborare una «caratteristica universale», ossia un linguaggio univocamente interpretabile, fatto di simboli che coincidono con i concetti elementari e di precise regole per combinarli. In tal modo “ragionare” equivale a “calcolare”, riducendo la possibilità di errore. In matematica Leibniz è ricordato soprattutto per la scoperta (autonoma rispetto a Newton) del calcolo infinitesimale. Le sue opere filosofiche principali sono invece: il Discorso di metafisica (1686), i Saggi di teodicea (1710), la Monadologia (1714) e i Nuovi saggi sull’intelletto umano, pubblicati postumi.
La metafisica L’ordine dell’universo e la sostanza individuale Diversamente da Spinoza (per il quale l’ordine dell’universo è necessario), Leibniz ritiene che il mondo sia retto da un ordine contingente, nel senso che deriva da una libera creazione di Dio e che al suo interno ammette la libera scelta degli esseri umani. Leibniz è infatti convinto che la necessità riguardi il solo ambito della logica, e non quello della realtà. In questo senso egli distingue tra:
• verità di ragione e verità di fatto
rispettivamente, le verità che dal punto di vista logico sono assolutamente necessarie ed evidenti, e le verità che riguardano il mondo reale, che in quanto tali sono contingenti. Le verità di ragione (come “Il triangolo è un poligono di tre lati”) sono proposizioni «identiche» (cioè tautologie), e dunque sempre vere; si fondano sui princìpi di identità e di non-contraddizione, e non possono derivare dall’esperienza ma devono essere innate. Le verità di fatto (come “Cesare passò il Rubicone”, o “Domani pioverà”) sono invece proposizioni il cui contrario (“Cesare non passò il Rubicone”, “Domani non pioverà”) non è logicamente contraddittorio: per poter dire se sono vere o false, occorre dunque ricorrere all’esperienza.
Anziché sui princìpi di identità e non-contraddizione, le verità di fatto per Leibniz si fondano sul
• principio di ragion sufficiente
il principio «in virtù del quale consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente [...] senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non possano esserci conosciute» (I Princìpi della filosofia o Monadologia, prop. 32).
Il principio di ragion sufficiente («nihil est sine ratione») non rimanda quindi a una causa necessitante: esso si limita ad affermare che esiste sempre un “perché” dell’accadere di qualcosa, pur ammettendo che ciò che accade avrebbe potuto non accadere, o accadere in modo differente. In altri termini, la «ragione sufficiente» è quella che spiega un fatto senza necessitarlo. Sul principio di ragion sufficiente si fonda anche la nozione leibniziana di
• sostanza individuale
il soggetto reale la cui nozione ha in sé la ragione sufficiente di tutti i predicati che le possono essere attribuiti con verità.
La legge e il fondamento metafisico della natura Avendo chiarito che l’universo è basato su un ordine contingente, ovvero su una concatenazione di cause sufficienti e non necessitanti, Leibniz passa a spiegare come esso è strutturato: egli nega la costituzione atomica della materia, e al contrario accoglie la cosiddetta
• legge della continuità della natura
il principio secondo cui «la natura non fa salti», poiché in ogni suo cambiamento (ad esempio nel movimento di un corpo, o nella trasformazione di un organismo) sono sempre rintracciabili infiniti gradi intermedi.
Criticando inoltre il meccanicismo cartesiano, che individuava i costituenti originari del mondo fisico nell’estensione e nel movimento, Leibniz afferma che l’unico principio reale del mondo è la
• forza viva
il principio ultimo della realtà, che per Leibniz è di natura dinamica e incorporea o spirituale: tutto è spirito e vita, poiché tutto è forza, cioè capacità di produrre un effetto.
Del resto Leibniz è convinto che ciò che resta costante nei fenomeni meccanici non sia la quantità di movimento (m · v, cioè la massa moltiplicata per la velocità), bensì appunto la «forza viva» (oggi diremmo l’energia cinetica), che è pari al prodotto della massa di un corpo per il quadrato della sua velocità (m · v2).
249
Il sistema delle monadi Se nei Discorsi di metafisica (1686) Leibniz aveva elaborato il concetto di sostanza individuale (soggetto che contiene in sé la ragione sufficiente di tutti i suoi predicati) riferendosi particolarmente all’individualità umana, qualche anno dopo integra questa nozione con la riflessione sulla forza viva e giunge al concetto di
• monade
(dal greco monás, “unità”, “cosa indivisibile”, che a sua volta deriva da mónos, “solo”, “unico”) l’elemento base della realtà, identificabile con un “centro” immateriale di forza, ovvero con un atomo spirituale, una sostanza semplice, priva di estensione (e quindi indivisibile), che, non potendosi disgregare, è eterna e può essere creata o annullata soltanto da Dio.
Le monadi sono infinite, e ognuna di esse è diversa da tutte le altre in virtù del
• principio di identità degli indiscernibili
il principio secondo cui in natura non esistono due cose tra loro assolutamente uguali, poiché, se ci fossero due sostanze indiscernibili (ossia indistinguibili), esse coinciderebbero e sarebbero un’unica e identica sostanza.
Le monadi per Leibniz sono prive di “finestre”, nel senso che sono chiuse e autosufficienti. La loro attività non consiste nell’“interagire” con le altre monadi, ma nel rappresentarsi il resto dell’universo da uno specifico punto di vista. L’attività delle monadi, in pratica, si articola in due funzioni principali:
• percezione
l’attività rappresentativa in generale, ovvero la capacità di percepire o rappresentarsi la realtà;
• appetizione
il tendere da una percezione all’altra.
La percezione, a sua volta, si distingue in
• piccole percezioni
percezioni oscure e confuse, di cui non si ha consapevolezza (Leibniz le chiama anche «percezioni insensibili»);
• appercezione
la consapevolezza delle proprie per-
cezioni.
Mentre le piccole percezioni appartengono anche agli animali e alle piante, l’appercezione è propria soltanto di quella monade più elevata che è l’anima umana. In effetti, esistono per Leibniz monadi superiori e monadi inferiori, organizzate secondo una gerarchia che rispecchia la maggiore o minore chiarezza delle loro percezioni. Al vertice di questa gerarchia si trova Dio, monade suprema che si rappresenta l’universo in maniera chiara e distinta, e da tutti i punti di vista possibili.
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Anche la materia è un insieme di monadi, ovvero di un numero infinito di tali atomi spirituali. In particolare, Leibniz distingue tra
• materia prima
la forza di inerzia e di resistenza (la «potenza passiva») che caratterizza le monadi, e che nelle monadi-anima è costituita dall’insieme delle percezioni confuse;
• materia seconda
l’aggregato di monadi che costituisce un corpo, e che nel caso degli esseri umani e degli animali è tenuto insieme e controllato da una monade superiore o dominante, cioè l’anima.
Stabilita così la struttura della realtà, Leibniz affronta il problema del rapporto tra le monadi: se sono prive di “finestre” e chiuse in sé stesse, come è possibile che vivano in accordo l’una con l’altra, in un universo ordinato? E che tipo di rapporto c’è, in particolare, tra le monadi-anima e le monadi-corpo? Leibniz afferma che l’accordo tra anima e corpo (o tra mente e corpo) è stato predisposto da Dio fin dall’eternità. Si tratta della teoria della cosiddetta
• armonia prestabilita
il comportamento armonico e solidale che Dio ha imposto da sempre a tutte le monadi dell’universo, e soprattutto alle monadi che costituiscono i corpi rispetto a quelle che costituiscono l’anima. Esclusa l’idea che le monadi possono influenzarsi reciprocamente, ed esclusa l’idea (occasionalistica) che Dio intervenga ogni volta in cui si presenti la necessità di accordare il comportamento di mente e corpo, Leibniz afferma che fin dall’eternità Dio ha predisposto le cose in modo tale che le modificazioni interne di ciascuna monade corrispondano alle modificazioni interne di tutte le altre monadi.
La gnoseologia Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, opponendosi alla prospettiva empirica sostenuta pochi anni prima da John Locke (per il quale la conoscenza deriva interamente dall’esperienza), Leibniz afferma l’esistenza di idee innate: sono tali le verità di ragione, che non possono derivare dall’esperienza, poiché hanno una necessità assoluta che le conoscenze empiriche non possiedono. Secondo Leibniz queste idee innate sono presenti alla mente in modo virtuale, così come una scultura è virtualmente presente nelle venature di un blocco di marmo.
Inoltre la concezione della monade come totalità autosufficiente porta Leibniz ad assumere la posizione di un innatismo totale: poiché non ricevono nulla dall’esterno, le monadi devono trarre da sé tutto ciò che rappresentano, quindi non soltanto le verità di ragione, ma anche le sensazioni e le verità di fatto, le quali emergono dal loro interno, dal loro “fondo” costituito di piccole percezioni confuse, e diventano gradualmente, almeno in parte, chiare e distinte. L’anima, cioè, dispone da sempre di “categorie” proprie, che i sensi non sono in grado di fornirle.
La concezione di Dio e la teodicea Leibniz dimostra l’esistenza di Dio, da un lato, mediante una prova a posteriori fondata sul rapporto tra il contingente e il necessario; e, dall’altro, mediante una prova a priori che è una ripresa dell’argomento ontologico di Anselmo, rielaborato alla luce della nozione di Dio come “luogo di tutti i possibili” e come “possibilità che non può non esistere”. Tuttavia, nonostante Dio esista e sia buono, occorre riconoscere che nel mondo c’è il male, inteso come: male metafisico, implicito nella natura finita delle creature; male fisico, che deriva da quello metafisico o da quello morale; male morale, consistente nel peccato. Nasce così l’esigenza di una
• teodicea
(dal greco théos, “dio”, e díke, “giustizia”) termine coniato dallo stesso Leibniz, che ne spe-
cifica la seguente definizione: «dottrina del diritto e della giustizia di Dio». Si tratta, più precisamente, della “giustificazione di Dio”, ovvero del tentativo di scagionarlo dalla possibile accusa di essere responsabile del male.
La teodicea di Leibniz consiste insomma nel mostrare la compatibilità di un Dio buono e onnipotente con il male che innegabilmente esiste nel mondo. Per fare questo, Leibniz sostiene che in Dio esistono una volontà antecedente, che vuole il bene in sé, e una volontà conseguente, che vuole il meglio. Dio vorrebbe (volontà antecedente) creare un mondo privo di qualunque male, e in cui gli esseri umani fossero liberi di scegliere come comportarsi, ma un tale mondo sarebbe contraddittorio (perché se tutti gli uomini sono liberi, qualcuno può scegliere il male). Dal momento che neppure Dio può violare le leggi della logica creando un mondo contraddittorio, egli sceglie (volontà conseguente) di creare
• il migliore di tutti i mondi possibili
il mondo reale, in cui viviamo, scelto da Dio perché è quello che implica la maggior quantità possibile di bene (prevedendo la libertà o il libero arbitrio degli individui) e la minor quantità possibile di male (che pure deve esistere).
Dio, insomma, crea gli uomini liberi e responsabili, e in tal modo permette il male in vista del meglio. In questo senso la predeterminazione divina è «inclinante» ma non «necessitante» nei confronti della libertà umana.
251
MAPPE
CAPITOLO 4 LEIBNIZ L’UNIVERSO è
retto da un ordine contingente
fondato su un unico principio meta-fisico
che è
che è
il risultato di una libera creazione di Dio
regolato da leggi che rispettano il principio di ragion sufficiente
la forza viva
il quale
ha scelto di realizzare il migliore dei mondi possibili
LE MONADI sono
punti immateriali di forza
entità autosufficienti e chiuse in sé stesse
che costituiscono
centri di rappresentazione del mondo poiché sono dotate di
regolate dall’armonia prestabilita
in base al principio
che fissa
dell’identità degli indiscernibili
l’accordo perfetto tra gli eventi che accadono in ciascuna di esse e in particolare
percezione
appercezione
appetizione
cioè
cioè
cioè
l’attività rappresentativa comune a tutte le monadi
la consapevolezza di percepire, esclusiva delle monadi superiori
la tendenza a passare da una percezione all’altra, comune a tutte le monadi
252
diverse l’una dall’altra
Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
tra gli eventi afferenti all’ordine del corpo e quelli afferenti all’ordine della mente
L’INNATISMO DI LEIBNIZ è
totale
virtuale
poiché
poiché
riguarda tutte le rappresentazioni delle monadi: le verità di ragione, le verità di fatto e tutte le percezioni
ogni conoscenza o rappresentazione è presente alla mente come una scultura è “presente” nelle venature di un blocco di marmo
LA TEODICEA è il tentativo di
conciliare l’idea di un Dio buono e onnipotente con la presenza del male nel mondo distinguendo in Dio
una volontà antecedente che vuole il bene in sé
una volontà conseguente che sceglie il meglio possibile
riconoscendo all’uomo
il libero arbitrio e la capacità di scegliere
perché
perché
la totale assenza di colpa è logicamente incompatibile con la totale libertà umana
la predeterminazione divina non è necessitante ma inclinante
253
CAPITOLO 4 LEIBNIZ L’universo monadistico
Rispetto al Discorso di metafisica la Monadologia non presenta alcuna novità rivoluzionaria, e tuttavia offre una riformulazione della metafisica leibniziana in base al “vocabolario” monadologico. TESTO
1
Le monadi e le loro caratteristiche
(Monadologia)
IL TESTO NELL’OPERA I Princìpi della filosofia o Monadologia sono composti da Leibniz in francese nel 1714, ma vengono pubblicati in traduzione tedesca nel 1720 e nella versione latina tratta da questa nel 1721; il testo originale (Les principes de la philosophie ou la monadologie) sarà edito soltanto nel 1840. In quest’opera trovano espressione motivi di filosofia della natura e di filosofia morale che, unitamente a istanze metafisiche, culminano nell’originale teoria monadologica, premessa indispensabile alla teoria leibniziana dell’armonia universale prestabilita da Dio. Nel testo seguente, tratto dalla Monadologia, Leibniz ribadisce le principali caratteristiche di quelle sostanze semplici che ora egli designa inequivocabilmente con il nome di «monadi». La natura La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei semplice e composti; semplice, cioè senza parti. […] 2 inestesa della monade Ora, laddove non ci sono parti, non c’è estensione, né figura, né divisibilità possibili. Que-
ste monadi sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. Non c’è da temere alcuna dissoluzione e non è concepibile alcun modo per il quale una sostanza semplice possa naturalmente estinguersi. Per la stessa ragione non c’è alcun modo per il quale una sostanza semplice possa avere un’origine naturale, perché essa non può formarsi per composizione. Così si può affermare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè, che possono cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto, comincia o finisce per parti. Di conseguenza, non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o diminuito, come accade nei composti, nei quali c’è mutamento fra le parti. […]
4 6 8 10 12 14 16
L’identità degli Bisogna ammettere che ogni monade sia differente da ogni altra. In natura, infatti, non vi indiscernibili sono mai due esseri che siano perfettamente l’uno come l’altro e nei quali non sia possibi- 18
le trovare una differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca.
(Monadologia, in Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, utet, Torino 1967, pp. 283-284)
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE La natura semplice e inestesa della monade (rr. 1-16) Le caratteristiche delle monadi sono: la semplicità, il carattere atomico, l’impossibilità che muoiano e nascano e l’impossibilità che vengano alterate da qualcosa di esterno. Il principio dell’identità degli indiscernibili (rr. 17-19) Nel Discorso di metafisica Leibniz aveva formulato il cosiddetto “principio dell’identità degli indiscernibili”, sostenendo che «non è vero che due sostanze
possano somigliare interamente e differire solo numero». Qui egli ripropone lo stesso principio, insistendo sul carattere intrinseco della distinzione: non possono esistere due esseri identici, dei quali tuttavia l’uno sia qui e l’altro lì, poiché essi sono diversi proprio per il fatto che l’uno è qui e l’altro lì. Tutte le determinazioni appartengono infatti essenzialmente alla cosa e non c’è spazio, nell’impostazione leibniziana, per l’accidentalità.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Come abbiamo accennato, non è stato Leibniz a introdurre il termine “monade” nel lessico filosofico. Svolgi una ricerca al riguardo e ripercorri l’origine di questo concetto in un testo scritto (max 35 righe), evidenziando gli elementi di novità che esso acquisisce nella dottrina leibniziana.
TESTO
2
L’armonia prestabilita
(Monadologia)
La dottrina dell’armonia prestabilita postula un accordo tra le monadi, fissato preventivamente da Dio fin dall’eternità. Negli intenti di Leibniz essa deve sia risolvere il problema dei rapporti tra l’anima e il corpo dei viventi, sia, più in generale, spiegare perché le rappresentazioni delle singole monadi concordino tra loro. I rapporti tra La creatura si dice che agisce verso l’esterno, in quanto ha perfezione, e che patisce, da parle monadi te di un’altra, in quanto imperfetta. Così alla monade si attribuisce azione, in quanto ha 2 4 6 8 10 12 14
La scelta del Ora, poiché nelle idee di Dio c’è un’infinità di universi possibili, mentre non può che esinostro mondo sterne uno solo, bisogna che ci sia una ragione sufficiente della scelta di Dio, la quale lo 16 da parte di Dio
determini all’uno piuttosto che all’altro. E questa ragione non può trovarsi che nella convenienza o nei gradi di perfezione che que- 18 sti mondi contengono e ciò perché ogni perfezione possibile ha il diritto di pretendere all’esistenza nella misura della perfezione che implica. 20 E ciò è la causa dell’esistenza del meglio, che la Saggezza fa conoscere a Dio, che la sua Bontà gli fa scegliere e la sua Potenza gli fa produrre. 22
TESTI LEIBNIZ
percezioni distinte, e passione, in quanto le ha confuse. […] Ma nelle sostanze semplici non si ha che un’influenza ideale di una monade sull’altra, che non può avere il suo effetto se non per l’intervento di Dio, in quanto nelle idee di Dio, una monade giustamente domanda che Dio, regolando sin dal principio le altre, abbia riguardo ad essa. E ciò perché, non potendo avere una monade creata un’influenza fisica nell’interno dell’altra, è soltanto per questo mezzo che l’una può subire una dipendenza da un’altra. Ed è a questo modo che, tra le creature, le azioni e le passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due sostanze semplici tra loro, trova in ciascuna ragioni che l’obbligano ad adattarvi l’altra; e di conseguenza ciò che è attivo sotto certi aspetti, è passivo da un altro punto di vista; attivo in quanto ciò che in essa è conosciuto distintamente serve a rendere ragione di ciò che accade in un’altra; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade in essa si trova in ciò che si conosce distintamente nell’altra.
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Ora questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia rapporti che esprimano tutte le altre e che essa sia, di conseguenza, un vivente e perpetuo specchio dell’universo. E come una medesima città, guardata da punti differenti, sembra tutt’altra e come moltiplicata secondo le prospettive, così accade analogamente che, per la molteplicità infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi che però non sono che le prospettive di un unico universo, secondo i diversi punti di vista di ciascuna monade. È questo il modo di ottenere la massima varietà possibile, congiunta col maggior ordine possibile, cioè il mezzo per ottenere la massima perfezione possibile.
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La conformità Questi princìpi mi hanno offerto la possibilità di spiegare, secondo i princìpi naturali, l’u- 32 di anime nione o meglio la conformità dell’anima e del corpo organico. L’anima segue le sue proprie e corpi
leggi ed il corpo, del pari, le sue; essi poi s’incontrano in virtù dell’armonia prestabilita fra 34 tutte le sostanze, perché sono entrambi rappresentazioni dello stesso universo. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, per appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono 36 secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. Ma i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono in armonia fra loro. 38 (Monadologia, in Scritti filosofici, cit., pp. 291-292 e 295-296)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE I rapporti tra le monadi (rr. 1-14) Come già sappiamo, in linea con la struttura monadologica della totalità le sostanze non hanno azione o passione nel senso che agiscano su altro o da altro siano influenzate, bensì a seconda della chiarezza della propria attività rappresentativa. Quello che noi riteniamo il frutto dell’influenza diretta di una monade sull’altra è in realtà il risultato dell’adattamento complessivo che Dio ha prodotto tra le sue creature, in altre parole, dell’armonia prestabilita: in questo senso Dio si può ritenere colui che “media” tra le varie monadi. La concezione monadologica integra, non escludendola, la visione tradizionale degli accadimenti mondani: se sul piano fisico sarà corretto parlare di individui correlati, di una causalità meccanica, di una mutua influenza, sul piano metafisico vige il ricorso esclusivo alle monadi. Poiché ogni monade rispecchia lo stesso mondo, non servirà che davvero esse siano in contatto, essendo sufficiente che Dio produca la loro coordinazione una volta per tutte. È stata più volte messa in rilievo la differenza tra la soluzione leibniziana e quella occasionalistica: quest’ultima richiede che Dio agisca di continuo sulla sostanza pensante per far sì che essa si adegui agli eventi, tanto da suscitare la celebre critica del cattivo orologiaio. Leibniz invece ritiene tale armonia “prestabilita”, ossia fissata una volta per tutte al momento della creazione del mondo: Dio ha “programmato” il creato e lascia che esso effettui o “metta in pratica” quanto già deciso.
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
La scelta del nostro mondo da parte di Dio (rr. 1531) Leibniz ribadisce la “regola del meglio”, che ha guidato la volontà di Dio nella scelta del nostro mondo tra gli infiniti possibili. Quindi spiega che parlare della gerarchia tra le monadi significa parlare dell’armonia prestabilita: in effetti quest’ultima celebre espressione possiede un duplice significato. Da un lato e su un piano particolare essa indica la felice coordinazione della monade-anima con le varie monadi che compongono il corpo; dall’altro e più in generale si riferisce alla globale armonia delle monadi tra loro. La conformità di anime e corpi (rr. 32-38) Ma che cosa garantisce al mio singolo punto di vista che esistano veramente altre monadi? Nel linguaggio quotidiano io affermo di condividere con altri le mie esperienze, di esperire oggetti, di essere influenzato da eventi esterni. In realtà, dato che le monadi non hanno né porte né finestre, ma sono autarchicamente chiuse nella loro attività rappresentativa, devo invertire i termini del problema. Io non ho le stesse rappresentazioni di un altro perché entrambi riceviamo dall’esterno gli stessi stimoli, ma credo di ricevere gli stessi stimoli dell’altro perché ho rappresentazioni analoghe alle sue. Ad esempio, io e la mia dirimpettaia non crediamo di vivere a Venezia e ce la rappresentiamo in modo assai simile perché ci viviamo, ma poiché abbiamo rappresentazioni assai simili crediamo di vivere entrambi proprio a Venezia; e poiché siamo monadi inestese, è chiaro che non ci troviamo fisicamen-
te in alcun posto. Tuttavia questo non deve portarci a pensare che il mondo esterno sia una parvenza insussistente o, peggio, ingannevole: «Il mondo, infatti, sussiste anzitutto a livello di mondo possibile, nella mente divina; in secondo luogo a livello monadizzato, come prospezione individuale di tale mondo possibile da parte di infiniti punti di vista imperfetti; infine, come mondo oggettivo, grazie alla coordinazione di tutti
questi punti di vista per virtù divina» (V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 35). Nonostante ciò, se tutto non è che una mia rappresentazione, la stessa esistenza del mondo esterno e del mio corpo potrebbero essere pure e semplici chimere. Leibniz risponde che in effetti non esistono argomenti che dimostrino con assoluta certezza l’esistenza del mondo esterno.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Immagina che Leibniz e Cartesio si confrontino sulla questione del rapporto tra corpo e anima. Alla luce del testo che hai appena letto e di quanto hai studiato finora, redigi il testo del presunto dialogo (max 40 righe). Non limitarti a riportare le teorie dei due filosofi, ma adattale in modo da “drammatizzare” lo scambio di battute che immagini possa intercorrere tra loro.
La teodicea
Elaborando il principio dell’armonia prestabilita, Leibniz pone al centro del proprio universo monadistico Dio, monade di tutte le monadi, che tutte riflettono, seppure ciascuna in misura imperfetta e limitata. Indirizzandosi a Dio, la speculazione leibniziana deve accogliere i temi tradizionali della teologia, compresa la questione del male. TESTO
3
Il problema del male
(Saggi di teodicea)
IL TESTO NELL’OPERA Con i suoi Saggi di teodicea, pubblicati anonimi nel 1710 ad Amsterdam, Leibniz argomenta a favore della grazia e del libero arbitrio, al fine di sottrarre il mondo e gli esseri umani alle leggi del meccanicismo e della necessità. L’opera intende formulare una giustificazione di Dio, occupandosi di due problemi fondamentali: il concetto di necessità e il ruolo di Dio nel peccare dell’uomo. Nel passo che segue è affrontata la questione della presenza del male nel mondo. Il migliore dei Ora questa suprema saggezza, congiunta ad una bontà che non è meno infinita di quella, mondi possibili non poteva mancare di scegliere il meglio. […] Qualche avversario, non potendo risponde- 2 4 6 8 10
La ragione Per quanto riguarda il peccato o il male morale, benché accada spesso che possa servire codel male e del me mezzo per ottenere un bene o per impedire un altro male, non è questo tuttavia che lo 12 peccato
rende un oggetto sufficiente della volontà divina, o un oggetto legittimo della volontà creata; bisogna che non sia ammesso e permesso se non in quanto venga considerato come una 14
TESTI LEIBNIZ
re a questo argomento, risponderà, forse alla conclusione, con un argomento contrario, sostenendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza il dolore; ma io nego che allora sarebbe stato il migliore. Perché bisogna riflettere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l’universo, qualunque fosse per essere, è tutto d’un pezzo, come un Oceano; il minimo movimento estende il suo effetto a qualunque distanza, di modo che Dio ha tutto regolato in anticipo ed una volta per tutte […]. […] Così, se il più piccolo male che accade nel mondo non accadesse, non sarebbe più questo mondo, che tutto sommato e soppesato, è apparso il migliore al Creatore che l’ha scelto. […]
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conseguenza certa di un dovere imprescindibile; di modo che colui il quale non volesse permettere il peccato di un altro verrebbe egli stesso meno al proprio dovere […]. Ma in rapporto a Dio, niente è dubbio, niente potrebbe essere opposto alla regola del meglio che non soffre alcuna eccezione o dispensa. Ed in questo senso Dio permette il peccato; perché egli mancherebbe a ciò che deve a sé, alla sua saggezza, alla sua bontà, alla sua perfezione, se non seguisse il risultato di tutte le sue tendenze al bene e se non scegliesse quello che è assolutamente il meglio, nonostante il male di colpa che si trova incluso in forza della necessità suprema delle verità eterne. Da tutto ciò bisogna concludere che Dio vuole il bene in sé antecedentemente, il meglio conseguentemente, come fine […]. Ora è esattamente in questo senso che Dio permette il peccato, poiché verrebbe meno a ciò che deve a se stesso, a ciò che deve alla propria saggezza e alla propria bontà e perfezione se non […] scegliesse ciò che è assolutamente il migliore, nonostante il male di colpa [male morale] che vi si trova implicato per la suprema necessità delle verità eterne […]. Da tutto ciò bisogna concludere che Dio […] vuole soltanto permettere il male morale se non in quanto condizione senza la quale non si otterrebbe il meglio […]. (Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, cit., pp. 462-463 e 473-474)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il migliore dei mondi possibili (rr. 1-10) Il punto di partenza di Leibniz non può che essere la perfezione di Dio: posto che Egli è «suprema saggezza» (r. 1) e «bontà … infinita» (r. 1), non può che aver creato quello che gli è parso come il migliore dei mondi possibili. E poiché in ogni mondo possibile tutto è collegato armonicamente con tutto il resto (passato, presente o futuro), anche «il più piccolo male» (rr. 8-9) non potrebbe essere eliminato senza che un tale mutamento non ne provocasse infiniti altri (a esso collegati), che renderebbero il mondo almeno un po’ peggiore di questo. La ragione del male morale e del peccato (rr. 11-28) Come si concilia la possibilità umana di compiere il male con la bontà e l’onnipotenza di Dio? Dio vuole forse impedire la malvagità dell’uomo, ma non può (cioè non è onnipotente)? Oppure può, ma non vuole (cioè non è buono)? L’idea di un ordine, che l’uomo non riesce a cogliere e che è evidente soltanto all’infinita saggezza divina, in cui certi mali sarebbero necessari per la realizzazione di beni maggiori non soddisfa Leibniz. Così come non lo soddisfa la soluzione agostiniana della predestinazione ripresa dai protestanti, sia perché im-
plica la necessità di spiegare il motivo per cui Dio scelga di destinare alcuni alla salvezza e altri alla dannazione, sia perché priva l’uomo della libertà di scelta. Leibniz afferma che, in quanto infinitamente buono, Dio non può che volere il bene assoluto, ovvero l’effettiva realizzazione di tutti i beni pensati dal suo intelletto. Ma Egli si scontra, per così dire, con limiti di tipo “logico”: infatti la totale libertà umana (che è evidentemente una cosa buona) non può coesistere con una totale assenza di colpa (cosa altrettanto buona). Non potendo quindi far esistere “insieme” il bene in sé della libertà assoluta e quello dell’assoluta mancanza di colpa, Dio sceglie di realizzarli entrambi, ma in misura minore, “mescolandoli” nel miglior modo possibile, cioè quello in cui ci sia la maggior quantità possibile di libertà e la minor quantità possibile di colpa. In questo senso Leibniz afferma che, anche se la volontà antecedente di Dio sceglie il bene in sé, la sua volontà conseguente sceglie il meglio, tollerando o permettendo una certa quantità di male. Qualunque “altro” mondo avrebbe presentato una quantità maggiore di male: ecco perché il nostro è il migliore dei mondi possibili.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Nel testo riportato Leibniz affronta un tema classico della filosofia: “Se Dio esiste, da dove viene il male?”. Per il filosofo questo mondo, con tutte le sue atrocità e le sue imperfezioni, rappresenta comunque il migliore ordine possibile dell’essere. Il “problema del male” ha offerto spunti interessanti anche al mondo del cinema e delle serie tv, che ha dato risposte diverse a seconda dei presupposti teorici di partenza. Individua un prodotto cinematografico o televisivo che ruoti intorno a tale questione e analizza in un testo scritto (max 40 righe) la soluzione che viene in esso proposta, facendo emergere affinità e differenze rispetto al pensiero di Leibniz.
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI Capitolo 4 leibniz
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VERIFICA
UNITÀ 3 IL RAZIONALISMO E I SUOI INTERPRETI
CAPITOLO 1 Cartesio
FLASHCARD
1 Il metodo proposto da Cartesio è:
c. La res extensa è corporea,
inconsapevole e determinata
A complesso ma vantaggioso
fornite dai sensi
C semplice ma privo di applicazioni pratiche
V
F
V
F
V
F
e. La realtà naturale è dominata dal
D complesso e privo di applicazioni pratiche
meccanicismo e dal determinismo
2 Il dubbio diventa iperbolico quando si estende:
f. Le emozioni non arrecano alcun
A a tutte le conoscenze sensibili
beneficio all’essere umano
B all’esistenza di Dio
5 Qual è il triplice compito del nuovo metodo, secondo
C alla propria esistenza
Cartesio?
D alle verità logico-matematiche
(max 6 righe)
6 In che cosa consiste il dualismo ontologico di Car-
3 L’errore per Cartesio dipende:
tesio?
A dall’inganno del «genio maligno»
(max 6 righe)
7 Qual è stato il contributo che ha dato Cartesio alla
B dai limiti dell’intelletto C dalla libertà della volontà
scienza fisica?
D dalla difficile applicazione del metodo
(max 6 righe)
8 Esponi le critiche che sono state mosse alle prove
4 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla filosofia di Cartesio, sono vere o false.
cartesiane dell’esistenza di Dio.
9 V
F
V
F
b. L’esistenza di un Dio buono è posta a
garanzia della verità
F
d. Sono fattizie le idee che vengono
B semplice e vantaggioso
a. Il cogito è l’esito di una deduzione
V
(max 15 righe)
attività PLUS Cartesio individua nell’io il perno stabile della realtà. Approfondisci questo concetto e analizzane il rapporto con l’ontologia classica, che aveva rintracciato nella permanenza della sostanza il rimedio alle problematiche implicate dal divenire.
(max 20 righe)
CAPITOLO 2 Pascal 10 Secondo Pascal l’interrogativo più importante per l’essere umano riguarda: A l’esistenza di Dio B i limiti del sapere scientifico C il senso della vita D il rapporto tra cuore e ragione
11 Con il termine divertissement Pascal indica: A la ricerca di svaghi propria del libertino moderno B il desiderio di felicità che caratterizza l’individuo
di ogni epoca C la fuga dalla noia, che assale quando si resta inoccupati D la fuga da sé stessi e dal proprio vuoto interiore
12 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla filosofia di Pascal, sono vere o false. a. L’enigma dell’essere umano non ha
possibilità di soluzione al di fuori della fede
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. L’ordine e le meraviglie del creato bastano
da soli a dimostrare l’esistenza di Dio c. L’essere umano si dibatte in una
duplicità ineliminabile di grandezza e di miseria d. Le regole comportamentali sono
extra-razionali e mutevoli e. L’essere umano può scegliere di impegnarsi
nella fede con la sola ragione
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13 Per Pascal, scommettendo su Dio:
16 In che senso per Pascal il cristianesimo è dotato di un’intrinseca ragionevolezza?
A se Dio non esiste si perde il finito B se Dio non esiste si guadagna il finito
17
C se Dio esiste si guadagna il finito D se Dio esiste si perde l’infinito
14 Quali sono i limiti della filosofia per Pascal?
(max 10 righe)
attività PLUS Analizza l’argomento della scommessa di Pascal, mettendo a confronto l’idea che lo sorregge – quella del “rischio” della fede – con la convinzione di Cartesio che l’esistenza di Dio sia evidente per (max 15 righe) la ragione.
(max 6 righe)
15 Qual è la posizione di Pascal in merito alla morale? (max 6 righe)
CAPITOLO 3 Spinoza 18 La sostanza spinoziana:
21 Le cause finali per Spinoza:
A si articola in “sostanza prima” e “sostanze seconde”
A non sono conoscibili
B non presuppone l’esistenza di alcuna altra
B non sono altro che finzioni umane
realtà, se non quella di Dio C gode di totale autonomia ontologica e concettuale D è l’individuo concreto, unione di materia e di forma
C esistono in natura ma non in Dio
19 Per Spinoza, rispetto alla natura, Dio è: A la causa immanente B il creatore trascendente C un principio estraneo e indifferente D un attributo della stessa sostanza
20 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla filosofia di Spinoza, sono vere o false. a. Pensiero ed estensione sono due realtà
qualitativamente eterogenee
V
F
V
F
F
V
F
260
Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI VERiFiCa
z. scienza meccanicistica
(max 6 righe)
(max 6 righe)
25 Quando, per Spinoza, un individuo è libero e quando, (max 6 righe)
26 Esponi sinteticamente la teoria etica di Spinoza e V
F
V
F
f. Il diritto dello Stato non è assoluto né
illimitato
3. intelletto
e la Natura naturata?
invece, è schiavo?
e. L’«amore intellettuale di Dio» è,
insieme, conoscenza ed emozione
c. conoscenza di terzo genere
e mente? V
d. Lo sforzo di autoconservazione implica
il tentativo di sottrarsi alle passioni
(colonna di sinistra) rispettivamente con il loro fondamento (colonna centrale) e con ciò con cui si identificano (colonna di destra). a. conoscenza 1. ragione x. conoscenza pre-scientifica di primo genere del mondo b. conoscenza di 2. percezione e y. scienza immaginazione intuitiva secondo genere
24 Come viene giustificato da Spinoza il rapporto fra corpo
c. Cupidigia, letizia e tristezza sono i tre
affetti primari, dai quali derivano tutti gli altri
22 Collega i generi di conoscenza individuati da Spinoza
23 Che cosa sono, rispettivamente, la Natura naturante
b. Essendo dotato di volontà, l’individuo non
soggiace al determinismo della natura
D esistono in Dio ma non in natura
spiega per quale ragione egli può essere definito uno (max 15 righe) “stoico moderno”.
CAPITOLO 4 Leibniz 27 Per Leibniz le verità di fatto sono:
d. sono tutte dotate di ragione
A necessarie
e. rappresentano l’universo da un particolare
B innate
punto di vista
C identiche
f. sono tutte sullo stesso livello gerarchico
D fondate sul principio di ragion sufficiente
g. non ricevono nulla dall’esterno
28 Anima e corpo secondo Leibniz:
30 Come viene concepita da Leibniz la materia? (max 6 righe)
A si influenzano vicendevolmente B sono a ogni istante in armonia tra loro C sono estranei l’una all’altro perché seguono
leggi eterogenee D richiedono il costante intervento di Dio per essere armonizzati
29 Tra le affermazioni seguenti, indica le quattro che si possono riferire alle monadi di Leibniz. a. sono atomi spirituali b. differiscono l’una dall’altra c. hanno estensione e figura
AVANGUARDIE EDUCATIVE DIBATTITO CRITICO
31 In che cosa consiste l’innatismo gnoseologico di Leibniz?
(max 6 righe)
32 Esponi il significato della teoria leibniziana in base alla quale Dio avrebbe una volontà antecedente e (max 10 righe) una volontà conseguente.
33
attività PLUS A proposito della concezione di Leibniz, in base alla quale il nostro è il migliore dei mondi possibili, si è parlato di “ottimismo metafisico”. Spiega le ragioni di questa definizione alla luce di quello che (max 15 righe) hai studiato.
COMPETENZE Acquisire ed interpretare l’informazione | Individuare
collegamenti e relazioni | Collaborare e partecipare | Comunicare
Il Dio della ragione o il Dio della fede? Dio come natura necessaria o come creatore libero? In questa unità avete studiato diverse spiegazioni sull’essenza di Dio e sul suo rapporto con il mondo, ovvero con gli esseri umani. Ora confrontatevi su quale può essere ritenuta la più efficace.
FASE 1 Sotto la guida dell’insegnante dividetevi in cinque gruppi e date avvio a un doppio dibattito. Il primo vedrà il gruppo A sostenere la validità della posizione di Cartesio (il Dio della ragione) contro il gruppo B, che invece si farà portatore del punto di vista di Pascal (il Dio della fede). Il secondo dibattito, invece, metterà a confronto il gruppo C, sostenitore della teoria di Spinoza (Dio come natura necessaria) e il gruppo D, fautore dell’interpretazione di Leibniz (Dio come creatore libero). Il gruppo E svolgerà il ruolo di giuria in entrambi i dibattiti. FASE 2 pianificare Elaborate il vostro discorso, che esporrete in forma orale e che dovrà prevedere l’enunciazione della tesi,
un argomento a favore della stessa, supportato dalla citazione del filosofo in nome del quale parlate, e un argomento contro la tesi avversaria.
FASE 3 argomentare Avviate ora i dibattiti. Ogni gruppo sceglie tre portavoce, uno per ogni parte in cui si articola il discorso. Inizia a parlare un membro del gruppo A, che espone la propria tesi (max 2 minuti); gli risponde un membro del gruppo B; la parola torna quindi al gruppo A e si procede con lo stesso ordine fino all’esaurimento di tutti gli interventi (che hanno la durata di 5 minuti max). Lo stesso iter seguono i due gruppi del secondo dibattito: a prendere la parola per primo sarà il gruppo C. FASE 4 valutare Il gruppo che ha assistito al dibattito senza prendervi parte dovrà giudicare chi è stato più convincente nel corso dei due dibattiti, valutando sia il contenuto sia lo stile comunicativo.
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QUESTIONE La ragione può vincere le passioni
Cartesio
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
La duplice natura umana Nella loro vita, gli esseri umani appaiono spesso divisi tra due poli che li “attraggono” in direzioni opposte: c’è il polo riflessivo, o razionale, per il quale ogni scelta deve essere frutto di un calcolo, l’esito pacato e misurato di una considerazione il più possibile oggettiva e distaccata; e c’è il polo emotivo, o passionale, che invece non conosce misura né calcolo né distacco, ma che ci trascina con forza in azioni e comportamenti che non sembrano avere alcuna logica.
Chi di noi non ha mai provato il carattere irrazionale, ingovernabile e travolgente di emozioni come la rabbia, la paura, la gelosia? A prima vista, non sembra possibile imporre una misura o un freno alle passioni, integrando armonicamente la componente emotiva della natura umana con quella razionale. Del resto le passioni, per la loro stessa definizione, non sono qualcosa che opera contro o al di là della ragione?
spinoza
UNA POESIA PER AVVIARE LA RIFLESSIONE Una delle esperienze che meglio mettono in luce l’intima – e apparentemente insolubile – scissione tra ragione e passioni è quella dell’innamoramento, caso esemplare di emozione incontrollabile. Quando si è innamorati, ci si sente attratti da qualcuno senza ragione, o addirittura contro ogni ragionevolezza. La passione amorosa si impone come una forza che vince ogni ponderata valutazione intellettuale, come il poeta di origini austriache erich Fried (1921-1988) ben suggerisce nei versi riportati di seguito.
È assurdo dice la ragione È quel che è dice l’amore. È infelicità dice il calcolo [...] È vano dice il giudizio È quel che è dice l’amore. È ridicolo dice l’orgoglio È avventato dice la prudenza È impossibile dice l’esperienza È quel che è dice l’amore. (E. Fried, da È quel che è. Poesie d’amore di paura di collera, trad. it. di A. Casalegno, Einaudi, Torino 1988)
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LE PROSPETTIVE IN CAMPO È certamente accaduto anche a te di sentirti molto attratto da una persona e di soffrirne perché questa non ricambia il tuo sentimento. Che cos’è che, in questi casi, può mettere fine a una pulsione tanto irrazionale e foriera di infelicità? È la ragione che può vincere la passione amorosa o, piuttosto, non c’è modo di contenerla, almeno fino a quando non venga scalzata da un’altra passione più forte (ad esempio la rabbia per non essere corrisposti) e anch’essa incontenibile? La scelta tra queste possibili risposte sottende due diversi punti di vista:
la prospettiva razionalistica Una prima posizione è quella di chi ritiene che le passioni, per quanto potenti, possano essere regolate e governate dalla ragione, la quale è in grado di introdurre in esse una misura, un contenimento, orientando i desideri. la prospettiva deterministica Una seconda posizione è quella di chi invece afferma che la ragione non ha alcun potere sulle passioni e sui desideri: per quanto possa valutare negativamente certi appetiti e certe emozioni, non può far sì che l’individuo non li provi, né può impedire che la sua volontà inclini verso di essi, poiché sono determinati dal “funzionamento” del nostro organismo.
LA QUESTIONE FILOSOFICA Il tema del rapporto tra ragione e passioni è uno dei problemi filosofici più affrontati nella storia del pensiero. In età moderna, tuttavia, quando a partire da Cartesio l’attenzione si concentra sul soggetto, ovvero sull’individuo cosciente e pensante, esso acquista una particolare importanza. La questione – trattata in modo esauriente da Cartesio e da spinoza – si può sintetizzare così:
La ragione può vincere le passioni?
prospettiva razionalistica
prospettiva deterministica
Le passioni dell’anima (1649) di René Descartes rappresentano il manifesto del cosiddetto “razionalismo antropologico”: secondo il filosofo francese, infatti, la ragione (che ha sede nell’anima) è capace di governare le passioni (che derivano dal corpo), dirigendole verso il meglio.
Secondo Baruch de Spinoza, una passione può essere “vinta” soltanto da un’altra passione più forte. La ragione, infatti, nulla può contro le passioni, essendo queste un fenomeno necessario, che coinvolge nello stesso tempo l’anima e il corpo.
263
QUESTIONE
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Cartesio
il razionalismo antropologico Il dualismo della Nella fisiologia cartesiana il corpo umano è radicalmente distinto dall’anima e, come tutti gli altri corpi fisiologia fisici, è governato dalle leggi della meccanica. Prova ne è che alcune funzioni fisiologiche (ad esempio cartesiana respirare, deglutire, arrossire) avvengono in modo indipendente dalla volontà e, secondo Cartesio, si possono spiegare grazie all’attività meccanica del sistema nervoso. I nervi, infatti, per Descartes sono piccoli condotti che uniscono il cervello alla periferia del corpo: al loro interno fluiscono i cosiddetti «spiriti animali», che trasmettono gli impulsi dagli organi di senso al cervello, il quale, a sua volta, risponde trasmettendo i propri impulsi agli spiriti animali che, dilatando i muscoli, determinano il movimento. Questi «movimenti riflessi» sono gli unici che Cartesio riconosce agli animali, mentre nell’essere umano (macchina dotata di un’anima) tra l’impulso del cervello e la stimolazione dell’organo corporeo si inserisce, grazie all’azione mediatrice della ghiandola pineale, l’attività libera dell’anima, cioè la «deliberazione». Come possa accadere che l’anima (inestesa) sia influenzata dal corpo (esteso), o che lo influenzi causando i suoi movimenti volontari, è uno dei problemi più ardui della filosofia cartesiana. azioni e passioni, Quando l’anima subisce meccanicamente gli impulsi nervosi, per Cartesio si hanno le «passioni», e «passioni o «percezioni»; quando essa trasmette le sue risposte al sistema nervoso, determinando attraverso gli dell’anima»
spiriti animali i movimenti volontari, si hanno invece le «azioni», o «volizioni». Tra le passioni o percezioni, Cartesio distingue poi quelle causate dall’anima (le percezioni dei nostri atti volitivi o dei nostri pensieri) e quelle causate dal corpo. E tra queste ultime, egli distingue ulteriormente quelle provocate dagli oggetti esterni (le percezioni sensoriali), quelle provocate dal nostro corpo (le sensazioni di dolore, sete, fame ecc.) e quelle «i cui effetti si sentono come se fossero nell’anima stessa» (i sentimenti di gioia, collera, paura ecc.). Sono queste, in senso specifico, le «passioni dell’anima».
La forza della In sostanza, Cartesio riconduce le passioni a un atteggiamento forzatamente passivo dell’anima, che non ne ragione per è l’origine (come invece accade nelle volizioni), ma le subisce quali affezioni di origine corporea. Per questo, “dirigere” le passioni secondo Cartesio, le passioni non possono essere né prodotte né soppresse dall’anima con un atto di
volontà. Ad esempio, quando vediamo un animale feroce, la sua immagine raggiunge (attraverso i nervi ottici e la ghiandola pineale) la nostra anima, la quale la “patisce” come pericolosa: in ciò consiste la paura. Alle passioni, tuttavia, l’anima può opporre una forza indiretta, nel senso che, pur non potendo contrastarle con la volontà, può tuttavia limitarne gli effetti negativi mediante una valutazione razionale. La ragione, in altre parole, non può sopprimere le passioni, ma può “dirigerle” verso il bene, trasformandole in occasioni di comportamenti virtuosi:
‘ ‘
Averne la volontà non basta, per esempio, a suscitare in sé il coraggio, e a soffocar la paura; bisogna invece soffermarsi a considerare le ragioni, gli oggetti o gli esempi che persuadono che il pericolo non è grande; che si è sempre più sicuri a difendersi che a fuggire; che si avrà gloria e soddisfazione ad aver vinto, mentre dal fuggire non ci si può aspettare che rimorso e vergogna, e così via. (Le passioni dell’anima, art. 45, in Opere, trad. it. di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. 2, p. 428)
L’ottimismo Mentre gli animali regolano la loro esistenza soltanto attraverso le passioni (cioè attraverso quello che è razionalistico di comunemente chiamato “istinto”), gli esseri umani (essendo corpi dotati di spirito) possono dunque, Cartesio
in qualche modo, elevarsi al di sopra del determinismo che governa il mondo fisico. Cartesio conclude pertanto il suo trattato sulle passioni con un’ottimistica affermazione di fiducia razionalistica: Non c’è anima tanto debole che non possa, ben guidata, acquistare un assoluto dominio sulle passioni. […] Quando un cane vede una pernice, è naturalmente portato a correre verso di essa; e quando vede un fucile sparare, il rumore lo incita naturalmente a fuggire; pur tuttavia, di solito, si addestrano i cani da caccia in modo da farli fermare quando vedono una pernice, e da farli accorrere al rumore
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI QUestIone la ragione può vincere le passioni?
che sentono quando spariamo su di essa. Ed è utile sapere queste cose, perché danno a ciascuno il coraggio di dedicarsi all’esame delle proprie passioni: infatti, se con un po’ di applicazione si possono mutare i movimenti del cervello negli animali privi di ragione, è chiaro che si può farlo anche meglio negli uomini, sì che persino le anime più deboli potrebbero acquistare un dominio assoluto su tutte le loro passioni, se ci si dedicasse a sufficienza ad educarle e a guidarle. (Le passioni dell’anima, art. 50, in Opere, cit., vol. 2, p. 432)
Spinoza
il determinismo antropologico
Diverse La posizione di Spinoza sul tema delle passioni si distacca radicalmente da quella di Cartesio. Il filosofo olanprospettive per dese, infatti, muove da una prospettiva antropologica diversa. Se Cartesio concepisce l’anima come sostanza una medesima sostanza auto-sussistente, superiore al corpo e capace di dominarlo, Spinoza afferma invece che l’anima e il corpo
sono lo stesso individuo visto da due prospettive diverse: quella del pensiero e quella dell’estensione. Ora, se l’ordine della mente è parallelo all’ordine del corpo, non è possibile immaginare alcuna possibilità di controllo della mente sul corpo o viceversa, poiché gli affetti riguardano parallelamente e contestualmente la mente e il corpo:
‘
tutto ciò che accresce o diminuisce, asseconda od ostacola la potenza d’agire del nostro Corpo, accresce o diminuisce, asseconda od ostacola la potenza di pensare della nostra Mente. (Etica, III, prop. 11, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1984)
L’“innocenza” Nella terza parte dell’Etica, intitolata Della natura e dell’origine degli affetti, Spinoza afferma che l’essere delle passioni umano non è «un impero nell’impero» della natura e non può sottrarsi all’ordine necessario e immuta-
bile che regola tutto ciò che accade. Ecco perché l’etica (scienza del comportamento umano) deve essere costruita in analogia con la fisica meccanicistica: così come quest’ultima si basa sul principio di inerzia, che regola il movimento di tutti i corpi, analogamente l’agire dell’uomo è dominato dal «conàtus», cioè da uno “sforzo” di autoconservazione con cui ogni ente «tende a perseverare nel suo essere» (Etica, III, prop. 7). Negli esseri umani, questo sforzo di autoconservazione è cosciente e prende il nome di «desiderio», o «cupidità» (cupìditas): facendoci desiderare ciò che ci conserva e aumenta la nostra potenza, e rifuggire ciò che ci minaccia e ci depotenzia, la «cupidità» precede e determina ogni nostra attività. Se la cupidità viene assecondata e la potenza individuale ne risulta accresciuta, si ha la «letizia» (laetitia); se invece viene ostacolata e la potenza individuale ne risulta diminuita, si ha la «tristezza» (tristitia). Ma né la letizia né la tristezza, né gli altri moti dell’animo possono essere considerati “colpevoli”:
‘
Ho messo tutto il mio impegno nel comprendere le azioni umane, invece di deriderle, compiangerle, maledirle: e per questo ho considerato le passioni umane come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, la vanità, la misericordia e altri moti dell’animo, non come vizi della natura umana, ma come proprietà che le appartengono allo stesso modo in cui il caldo, il freddo, la bufera, il tuono e simili fenomeni, appartengono alla natura dell’aria; i quali, per quanto incresciosi, sono tuttavia necessari, e hanno precise cause, grazie alle quali cerchiamo di comprendere la loro natura. (Trattato politico, I, 1, a cura di L. Pezzillo, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 6)
Il “rovesciamento” Nella “Prefazione” alla quinta parte dell’Etica Spinoza fa esplicito riferimento all’articolo 50 delle Passioni del razionalismo dell’anima di Cartesio (sopra citato) e critica il dualismo antropologico del filosofo francese, così come la cartesiano
sua teoria della ghiandola pineale e l’idea che le passioni si possano in qualche modo vincere con la ragione. Secondo Spinoza l’essere umano è una sorta di macchina delle emozioni, un animale desiderante in cui non è la ragione a dirigere la volontà inducendola a desiderare ciò che essa valuta “bene”, ma è piuttosto la ragione a giudicare buono e preferibile ciò che la volontà desidera:
‘
Noi non tendiamo a nulla, nulla vogliamo, appetiamo, né desideriamo, perché giudichiamo che sia buono; ma, al contrario, noi per questa ragione giudichiamo che qualcosa è buona, perché ci sforziamo verso essa, la vogliamo, l’appetiamo e la desideriamo. (Etica, III, prop. 9, scolio, cit.)
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QUESTIONE La libertà come Eppure la quinta parte dell’Etica s’intitola La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana. Ma che senso «conoscenza ha parlare di “libertà” nell’orizzonte deterministico delineato da Spinoza? Com’è possibile essere «libeadeguata» ri dagli affetti» se questi sono necessari?
Proprio in tali altissime questioni emerge l’originalità della proposta filosofica di Spinoza. Egli afferma che la ragione non può che riconoscere e assecondare la naturale inclinazione dell’essere umano verso ciò che aumenta la sua potenza e felicità. La virtù, dunque, non può configurarsi come un astratto esercizio della ragione contro l’inclinazione naturale, e le passioni non possono essere represse o estirpate, ma possono essere liberate della loro forza perturbante e nociva, qualora vengano comprese in modo corretto. La suprema virtù consiste dunque in una «conoscenza adeguata», unica possibile “liberazione” dalla schiavitù degli affetti:
‘ ‘
Un affetto, che è una passione, cessa di essere una passione appena ce ne formiamo un’idea chiara e distinta […]. Un affetto, dunque, è tanto più in nostro potere e la mente ne patisce tanto meno, quanto più (Etica, V, prop. 3 e corollario, cit.) lo conosciamo.
Ma in che cosa consiste una tale «conoscenza adeguata»? Secondo Spinoza, una passione o un affetto prodotto da ciò che immaginiamo nella sua particolarità, slegato da altre cause e dalla totalità in cui è inserito, risulta più forte e nocivo di un affetto che comprendiamo razionalmente come parte di un ordine necessario di cause. Conosciamo adeguatamente una cosa, quindi, quando la percepiamo «sotto l’aspetto della necessità». Quando comprendiamo che non c’è libertà, o contingenza, e che tutto è necessario, la forza violenta dell’affetto e la sua carica di minaccia si stemperano. Ad esempio: la tristezza per un bene perduto si mitiga appena l’uomo che lo ha perduto considera che un (Etica, V, prop. 6 e scolio, cit.) tale bene non poteva essere conservato in nessun modo.
La libertà dalle Si delinea così una situazione paradossale, in cui la conoscenza adeguata restituisce all’uomo il senso passioni come della sua dipendenza dal tutto: la libertà, alla fine, per Spinoza non è altro che la consapevolezza della passione suprema
propria necessità, ed è virtuoso e felice solamente chi sa di essere una modificazione finita e transitoria nell’infinito e dell’infinito. È quindi in un senso completamente nuovo che per Spinoza la ragione può “vincere” le passioni. Una passione può essere vinta soltanto da una passione più forte, e la passione più forte di tutte è l’«amore intellettuale di Dio», che per Spinoza è il più perfetto modo di conoscere, nel quale l’uomo trova il «bene supremo» e la massima «beatitudine», perché porta a compimento la tensione che lo costituisce e ne potenzia l’essere. Come per gli stoici antichi, quindi, anche per Spinoza bisogna «vivere secondo ragione», ma la ragione non è in grado di liberarci dalla tristezza, dal risentimento e dall’odio se non facendosi essa stessa passione, intesa come appassionata comprensione dell’ordine naturale del tutto:
‘ ‘
La conoscenza vera […] non può, in quanto vera, impedire alcun affetto, ma solo in quanto è un (Etica, IV, prop. 14, cit.) affetto, se è più forte dell’affetto da impedire, potrà impedirlo.
una questione aperta
Per illustrare la posizione di Cartesio e di Spinoza abbiamo usato una schematizzazione didattica per certi versi “ingenua”, che sembrerebbe fare del filosofo francese il paladino di un astratto razionalismo che condanna le passioni. In realtà Cartesio è il primo ad accostarsi al mondo degli affetti con interesse scientifico e desiderio di comprendere, e anche per lui le passioni non sono da condannare, dal momento che anche le più negative (come la paura di fronte al pericolo) sono funzionali alla salute e alla sopravvivenza. Nel commentare il proprio trattato sulle passioni, lo stesso Cartesio afferma: dal fatto che ho studiato le passioni, vi sembra di poter concludere che non devo più averne nessuna; vi dirò al contrario che, esaminandole, le ho trovate quasi tutte buone, e tanto utili alla vita, che la nostra anima non avrebbe motivo di voler restare un solo momento unita al corpo (Lettera a Chanut del 1 novembre 1646, in Opere, cit., vol. 2, p. 600) se non potesse provarle.
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Unità 3 IL razIonaLIsmo e I sUoI InterPretI QUestIone la ragione può vincere le passioni?
Inaugurata proprio da Cartesio, l’etica moderna riconoscerà l’utile o il giovevole (ciò che appaga i bisogni dell’uomo e lo rende felice) come un autentico valore spirituale. Ed è appunto a questa “scoperta dell’utile” che si ispirano sia la riflessione di spinoza (per il quale «il bene è ciò che sappiamo in modo certo esserci utile») sia la successiva riflessione anglosassone. Secondo David Hume (1711-1776), in particolare, la ragione non è in grado né di influenzare né di ostacolare le passioni:
‘ ‘
La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse. (D. Hume, Trattato sulla natura umana, a cura di E. Lecaldano, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1971, vol. 1, pp. 433-436)
All’etica di Spinoza si rifarà poi il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), il quale affermerà che l’agire etico è inseparabile dall’elemento passionale e utilitario: per ciò che concerne l’utilità, la morale non deve farle il viso dell’armi, perché ogni buona azione è di fatto utile. (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, II, a cura di E. Codignola, La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 427)
ora tocca a voi...
dibattito critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto la guida dell’insegnante, mediante sorteggio dividete la classe in due squadre, assegnando a ciascuna di esse il compito di argomentare in favore o contro la seguente mozione.
La ragione può vincere le passioni PREPAR A ZIONE DEL DIBAT TITO
• Per prepararvi a presentare il punto di vista della vostra squadra, rispondete alle seguenti domande: - perché la posizione di Cartesio/può essere ricondotta al razionalismo/determinismo? - in che senso, per Cartesio, la ragione non può sopprimere le passioni, ma può “dirigerle”? - in che senso, per Spinoza, il solo strumento per vincere le passioni è una passione più grande? • Per elaborare gli argomenti favorevoli o contrari alla mozione, cercate nel manuale, in biblioteca e in Internet le riflessioni di alcuni (almeno due o tre) filosofi e psicologi (di ieri e di oggi) sulla sfera emotiva umana e sul suo rapporto con la sfera razionale. SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO 1. primo intervento (max 6 min. per ogni squadra)
Per avviare la discussione, un primo studente della squadra favorevole alla mozione riassume il problema ed espone la tesi: Sì, la ragione può vincere le passioni. Poi anticipa sinteticamente
gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il primo argomento. Un componente della squadra avversaria espone la tesi: No, la ragione non può vincere le passioni. Poi anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra; quindi espone il primo argomento. 2. secondo intervento (max 6 min. per ogni squadra) Un secondo studente per ogni squadra difende il primo argomento presentato dalle critiche eventualmente ricevute; quindi confuta il primo argomento avversario ed espone altri argomenti in favore della mozione o contro di essa. 3. terzo intervento (max 6 min. per ogni squadra) Un terzo studente per ogni squadra difende dalle critiche gli argomenti presentati fino a quel momento e confuta le argomentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 min. per ogni squadra) Un esponente per ciascuna squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
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UNITÀ
4
IL PENSIERO INGLESE TRA RAGIONE ED ESPERIENZA: DA HOBBES A HUME
In questa unità vedremo come, tra Seicento e Settecento, i pensatori inglesi elaborino il concetto cartesiano di “ragione” su base empiristica, individuando nell’esperienza l’unica fonte della conoscenza e il solo criterio di verità. CAPITOLO 1 Hobbes IL RACCONTO DI UNA VITA
Thomas Hobbes riduce la realtà a due soli elementi: la materia e il movimento, circoscrivendo a questo dominio il campo d’azione della ragione umana. Egli elabora inoltre una teoria politica fondata sul concetto di “stato di natura” e su una prospettiva contrattualistica.
CAPITOLO 2 Locke IL RACCONTO DI UNA VITA
Considerato il fondatore dell’empirismo, John Locke indaga le modalità della conoscenza, concludendo che la mente è una sorta di foglio bianco su cui gli esseri umani “scrivono” le idee fornite dai sensi ed elaborate dall’intelletto.
CAPITOLO 3 Berkeley
Sulla via aperta da Locke si pone George Berkeley, il quale giunge alla tesi secondo cui l’uomo non ha alcun modo per affermare con certezza l’esistenza di una realtà esterna alla mente che la pensa.
CAPITOLO 4 Hume
Portando alle estreme conseguenze lo scetticismo inaugurato da Berkeley, David Hume sostiene che ciò che un individuo conosce attraverso i sensi è valido soltanto per lui, e che pertanto non si può dire di conoscere nulla con certezza.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda il video in cui lo storico della filosofia Remo Bodei (1938-2019) parla di John Locke, un filosofo che ha fortemente segnato la tradizione filosofica moderna, soprattutto nel mondo anglosassone. Prendi appunti e registra eventuali passaggi oscuri, che sottoporrai al confronto in classe.
VIDEO Locke e l’empirismo
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IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante suddividetevi in gruppi di 4 o 5 studenti, quindi verificate quanto avete appreso a casa confrontandovi tra voi e facendo emergere dubbi o perplessità. Elaborate quindi insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - che cosa si intende per “empirismo”? - quali sono i presupposti teorici dell’innatismo? - perché Bodei fa riferimento a Platone? - quale struttura hanno le idee per Locke?
CAPITOLO 1 HOBBES
Ragionare è la stessa cosa che addizionare o sottrarre concetti. (Thomas Hobbes, De corpore, I, I, 2)
La filosofia di Hobbes rappresenta l’altra grande via, accanto a quella tracciata da Cartesio, a cui l’elaborazione del concetto di “ragione” mette capo nel XVII secolo. Per Hobbes il ragionamento non è (come per Cartesio) una deduzione a partire da princìpi che la mente intuisce con assoluta certezza ed evidenza, ma piuttosto una tecnica di calcolo applicata alla realtà, la quale si studia scomponendone e riaggregandone gli elementi (o meglio i loro nomi). Hobbes applica questo metodo di indagine anche alla vita politica, allo scopo di individuare i fondamenti di una comunità ordinata e pacifica, che egli rinviene nella forza dello Stato assoluto.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Un’esistenza condizionata dalla paura
‘
Consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si arma e cerca di andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che anche quando è nella sua casa, chiude i forzieri. (T. Hobbes, Leviatano, I, XIII)
La forza dello Stato come rimedio alla paura
L’invito riportato nel riquadro a fianco è rivolto dallo stesso Hobbes (nel capitolo XIII del suo capolavoro, il Leviatano) a chi non crede che l’essere umano, in assenza della forza dello Stato, sia per natura incline all’odio, alla violenza e all’egoismo. Nell’arco della sua lunga esistenza (novantun anni), Hobbes sperimenta personalmente la condizione di paura e il senso di insicurezza descritti in queste righe. Egli, infatti, vive in un periodo drammatico della storia politica europea, in cui le guerre di religione funestano il continente opponendo un Paese all’altro. Il culmine dei conflitti è costituito dalla Guerra dei trent’anni (1618-1648), sintomo di un indebolimento degli Stati nazionali causato non soltanto dalle lacerazioni religiose venutesi a creare con la Riforma protestante, ma anche dalle tensioni tra le monarchie e i parlamenti. In questo quadro non fa eccezione la patria di Hobbes, l’Inghilterra, attraversata da una crisi dell’autorità statale che culmina in una vera e propria guerra civile, conosciuta anche come prima rivoluzione inglese. Sono anni angosciosi, in cui il filosofo vive sulla propria pelle l’odio delle fazioni che si contrappongono, ricavandone la convinzione che anche il più oppressivo degli Stati, se riesce a mantenere la pace, sia preferibile «alle miserie e alle calamità che accompagnano una guerra civile». Come ha osservato Norberto Bobbio (1909-2004), «il male che egli paventa maggiormente […] non è l’oppressione che deriva dall’eccesso di potere, ma l’insicurezza, che deriva al contrario, se mai, dal difetto di potere» (Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 2004, p. 30). Per questo il fine ultimo della riflessione hobbesiana sarà la legittimazione teorica della suprema “ragione dello Stato” e del suo primato sulle “ragioni” dei singoli individui.
La formazione giovanile CARTA INTERATTIVA
i luoghi di HOBBES
Thomas Hobbes nasce a Westport (un villaggio presso la cittadina di Malmesbury, nell’Inghilterra sud-occidentale) il 5 aprile 1588. La madre, spaventata per l’annuncio dell’avvicinarsi alle coste inglesi dell’Invincibile Armata, lo dà alla luce con un parto prematuro. enciclosofia prima rivoluzione inglese Combattuto tra il 1642 e il 1651, il conflitto nacque dall’opposizione tra Carlo I Stuart e i membri del Parlamento, in gran parte scontenti per le imposizioni religiose e fiscali del sovrano. Dopo fasi alterne, la lotta si concluse con la decapitazione di Carlo I (1649) e la proclamazione della repubblica.
Invincibile Armata Così era chiamata la flotta allestita da Filippo II di Spagna per sbaragliare la potenza navale inglese. Composta da centotrenta navi, la flotta partì da Lisbona nel 1588 e, giunta nel caL’Armada spagnola nei pressi delle coste nale della Manica, resistette a numerosi attacchi inglesi, per essere poi inglesi nel 1588, XVII secolo, collezione decimata dal maltempo e dalle malattie durante il viaggio di ritorno. privata.
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume iL RACCOntO Di UnA VitA
Nella sua autobiografia, composta in tarda età e in versi latini, Hobbes ricorderà questa circostanza scrivendo:
‘
E mia madre mise al mondo due gemelli: me stesso e la paura. (T. Hobbes, Vita carmine expressa, in Opera latina, a cura di W. Molesworth, Londra 1839, vol. I, p. LXXXVI)
Nella sua riflessione politica, Hobbes attribuirà al sentimento della paura un ruolo centrale, e non è da escludere che nel formarsi tale convinzione egli sia stato influenzato anche da questa personale vicenda biografica ( “Dalla vita al pensiero”). Il padre di Hobbes, anch’egli di nome Thomas, è un ministro anglicano che, dopo una lite con un altro pastore, viene rimosso dal suo incarico e abbandona la famiglia (moglie e tre figli piccoli), lasciandola alle cure del fratello Francis. È dunque quest’ultimo a occuparsi dell’educazione del nipote Thomas, che a soli quattro anni comincia a frequentare la scuola della chiesa di Westport, per poi passare (a otto anni) alla scuola di Malesbury e infine a una scuola privata, sotto la guida di un buon grecista (“mister Latimer”) che gli trasmette la passione per le lingue antiche.
La paura come “passione” politica DALLA VITA AL PENSIERO
Il duplice ruolo della paura nella formazione e nella vita dello Stato Venuto al mondo come “gemello della paura”, e tormentato per tutta la sua esistenza da timori e insicurezze dovuti alle minacce dei suoi avversari, Hobbes attribuirà a queste emozioni una funzione politica fondamentale. Egli, infatti, si convincerà che a spingere gli esseri umani ad associarsi non sia una naturale inclinazione a vivere insieme, ma la paura di essere aggrediti e uccisi dai propri simili: L’origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini, ma il reciproco timore. (T. Hobbes, Elementi filosofici del cittadino, I, II, in Opere politiche, a cura di N. Bobbio, utet, Torino 1988)
Ma nella concezione di Hobbes l’azione della paura è determinante non soltanto per l’origine della vita associata. Essa è anche lo strumento grazie al quale lo Stato esercita la sua funzione di tutore dell’ordine e della sicurezza: è mediante la paura della pena che il potere costituito costringe il cittadino al rispetto delle leggi. «In Hobbes – scrive il filosofo della politica Virgilio Mura – è il potere della paura a determinare la nascita dello Stato. È però la paura del potere che consente di conservarlo e che ne permette il regolare funzionamento» (Il potere della paura, la paura del potere, in La paura e la città, a cura di D. Pasini, Astra, Roma 1984, vol. II, p. 109).
Il controllo della paura mediante la ragione Del resto, per Hobbes la paura è un moto originario dell’animo umano, proprio come il desiderio («appetito»). Entrambi orientano le scelte della volontà, che fugge da ciò che teme come pericoloso e dannoso, ed è attratta da ciò che ritiene giovevole: L’appetito e il timore […] sono i primi inavvertiti inizi delle nostre azioni […]. Questa alternata successione di appetito e timore, che dura tutto il tempo in cui è in nostro potere di compiere o no l’azione, è ciò che noi chiamiamo deliberazione […]. Nella deliberazione l’ultimo appetito, come anche l’ultimo timore, è chiamato volontà, cioè l’ultimo appetito volontà di fare, l’ultimo timore volontà di non fare o volontà di tralasciare. (T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, XII, 1, in op. cit.)
«Appetito» e «timore», cioè desideri e paure: per Hobbes sono queste le due potenti fonti dell’azione, che gli esseri umani non possono in alcun modo annullare. Possono però controllarle e volgerle a proprio vantaggio usando la ragione. Per quanto possa apparire paradossale, il ruolo che Hobbes attribuisce allo Stato è proprio quello di affrancare gli uomini dalla «paura reciproca», sostituendola con una «paura comune». A una vita vissuta nel timore di essere aggrediti dai loro simili, gli uomini preferiscono una vita sottomessa alla forza di un sovrano capace di proteggerli; al «potere della paura» preferiscono la «paura del potere».
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Sempre grazie all’aiuto dello zio, nel 1603 il giovane Thomas entra poi nella “Magdalen Hall” di Oxford, un prestigioso collegio dove nel 1608 consegue il baccellierato nelle arti liberali (grammatica, retorica e dialettica; aritmetica, geometria, musica e astronomia).
I viaggi in Europa Terminati gli studi a Oxford, Hobbes si iscrive all’Università di Cambridge ma, prima ancora di cominciare a frequentarne i corsi, la sua vita prende un’altra via: nel 1608 accetta l’offerta di William Cavendish, futuro primo conte di Devonshire, e diventa precettore di suo figlio, il futuro secondo conte di Devonshire, anch’egli di nome William e di appena due anni più giovane di Hobbes. Per il filosofo comincia così quello che sarà un lungo e proficuo rapporto con una delle più ricche e influenti famiglie del regno britannico. Entrato nella cerchia dei Cavendish, Hobbes conosce alcuni pensatori illustri, tra i quali Francesco Bacone ( unità 2, cap. 2), di cui diventa discepolo e segretario personale. Inoltre, nel 1610 intraprende con il suo allievo un grand tour di circa tre anni, che lo porta in Francia e in Italia. È questo il primo di tre lunghi viaggi attraverso l’Europa (1610-1613; 16291630; 1634-1637) che influiranno in modo determinante sulla formazione di Hobbes, mettendolo in contatto con i maggiori esponenti della cultura filosofica e scientifica del tempo.
L’impegno per una scienza della politica Dagli interessi umanistici a quelli scientifici All’inizio gli interessi di Hobbes sono prevalentemente umanistici: al 1628, ad esempio, risale la traduzione della Guerra del Peloponneso di Tucidide, che il filosofo dedica al suo primo allievo, morto proprio quell’anno. Ma già nel 1629, nel corso del suo secondo viaggio in Europa, Hobbes legge gli Elementi di Euclide e si entusiasma per il metodo deduttivo della geometria, che da evidenze prime o postulati ricava conclusioni necessarie. Nel 1634, durante il suo terzo viaggio, in Italia probabilmente conosce Galilei ( “L’incontro”), mentre in Francia entra in contatto con il circolo di filosofi cartesiani e scienziati che ruota intorno a padre Mersenne ( unità 3, cap. 1). Dai ripetuti incontri con l’ambiente scientifico parigino e, soprattutto, con l’opera di Galilei, Hobbes ricava la convinzione che il mondo sia un sistema meccanico in cui ogni evento – naturale o umano – può essere spiegato sulla base di leggi matematiche, cioè le stesse che governano i corpi e il movimento.
L’esilio parigino e il Leviatano Nel 1637 Hobbes rientra in patria e trova un’Inghilterra ormai prossima alla guerra civile, lacerata dai contrasti fra il parlamento e il re Carlo I Stuart. Temendo di essere perseguitato per le sue idee politiche (favorevoli alla monarchia) e per la sua vicinanza alla corte degli Stuart, già nel 1640 si trasferisce a Parigi, dove vivrà stabilmente per undici anni. Da qui, nel 1641, attraverso padre Mersenne fa giungere a Cartesio le proprie Obiezioni alle Meditazioni metafisiche. enciclosofia grand tour Espressione francese traducibile letteralmente con “grande giro”: si trattava di un lungo viaggio nei luoghi europei di maggiore interesse artistico e culturale, con il quale i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche completavano la loro educazione.
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume iL RACCOntO Di UnA VitA
Nel frattempo lavora a una dottrina dello Stato fondata sulla concezione meccanicistica della natura, che troverà espressione negli Elementi di filosofia, una trilogia costituita da tre saggi: Il cittadino (De cive, 1642), Il corpo (De corpore, 1655) e L’uomo (De homine, 1658). Il primo di questi – pubblicato quando Hobbes ha lasciato l’Inghilterra da appena un anno – difende esplicitamente il potere assoluto del re, suscitando ben presto l’ostilità degli antimonarchici. Nel 1646 la corte inglese si trasferisce a Parigi per sfuggire alla rivoluzione e Hobbes viene nominato precettore del principe Carlo, figlio del re Carlo I Stuart. Appena tre anni dopo (1649), i parlamentari ribelli ottengono la condanna a morte del sovrano, che viene decapitato. È probabilmente in questo periodo che Hobbes inizia la composizione del suo capolavoro filosofico, che verrà pubblicato a Londra nel 1651 con il titolo Leviatano, ossia La materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile.
Il rientro in patria e le polemiche con monarchici e anglicani Pur teorizzando uno Stato assoluto, nel Leviatano Hobbes nega l’origine divina del potere; l’opera, di conseguenza, non viene accolta favorevolmente dalla corte inglese esule a Parigi. Nel 1651 (lo stesso anno dell’uscita del saggio) il filosofo decide pertanto di rientrare in Inghilterra, dove Oliver Cromwell ha ormai abolito la Camera dei Lord e proclamato la repubblica (il Commonwealth), assumendo di fatto il potere. Hobbes si accorge ben presto che non soltanto la monarchia, ma anche il nuovo regime è in grado di garantire quell’ordine e quella stabilità dello Stato che gli sta così a cuore. Inoltre Cromwell non mostra alcuna ostilità nei suoi confronti.
enciclosofia Commonwealth Formata dall’aggettivo common, “comune”, e dal sostantivo wealth, “ricchezza”, “bene”, l’espressione è sostanzialmente equivalente al latino res publica, “cosa pubblica”. Fu adottata per indicare lo Stato britannico nato in seguito alla prima rivoluzione inglese, guidato da Oliver Cromwell e durato fino al 1660, quando la dinastia Stuart fu restaurata.
L’ I N CO N T RO
Hobbes e Galilei Secondo alcuni biografi, Hobbes incontra Galileo Galilei a Pisa o ad Arcetri, divenendone subito un amico. Sebbene il fatto che il filosofo inglese abbia direttamente conosciuto lo scienziato pisano non sia del tutto certo, è invece un dato assolutamente evidente che le idee di Galilei – anche attraverso la mediazione di Marin Mersenne – ebbero sulla filosofia naturale hobbesiana una profonda influenza. A riconoscere con gratitudine e ammirazione questo debito intellettuale è lo stesso Hobbes, che nel De motu, loco et tempore (1642-1643) indica in Galilei «il più grande filosofo di tutti i secoli», e nel De corpore (1655) lo presenta come colui che «ci
ha aperto la porta principale di tutta la fisica: la natura del moto». In effetti, dalla lettura degli scritti galileiani Hobbes ricava non soltanto l’idea che il mondo sia un sistema regolato in ogni sua parte da leggi meccaniche e matematiche, ma anche la spinta ad applicare il metodo scientifico in ogni ambito di ricerca, compresa l’analisi del comportamento degli esseri umani. In tal senso, come Bacone e Galilei sono i fondatori della fisica moderna, ovvero dello studio sperimentale del mondo naturale, così Hobbes può essere considerato il fondatore della moderna scienza politica: in un certo senso il “Galilei” del mondo umano.
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A riaccendere le polemiche sulle teorie hobbesiane sono piuttosto i monarchici, che, vedendo nel Leviatano un espediente per ingraziarsi il governo repubblicano, accusano Hobbes di tradimento. Ma la polemica più aspra è quella scatenata dalla Chiesa anglicana, che si sente danneggiata soprattutto dalla terza parte del saggio, in cui l’autore presenta una rilettura spregiudicata ed eterodossa delle Scritture, a sostegno della tesi della supremazia del potere politico su quello papale. Gli ultimi anni della vita di Hobbes (che al suo rientro in Inghilterra si era nuovamente stabilito presso la famiglia Cavendish) sono dunque impegnati in discussioni di varia natura, tra cui quella con il vescovo anglicano di Derry, John Bramhall (1594-1663), sulla corporeità di Dio e sulla libertà umana, rispettivamente affermata e negata da Hobbes. L’oggetto della discussione con il vescovo è esposto in un saggio pubblicato nel 1656 e intitolato Questioni circa la libertà, la necessità e il caso, in cui il filosofo replica a Bramhall ed espone la propria dottrina deterministica.
Gli ultimi anni Nel 1660, due anni dopo la morte di Cromwell, l’Inghilterra torna a essere una monarchia: con la restaurazione sul trono inglese di Carlo II Stuart – figlio del re decapitato ed ex allievo di Hobbes – il filosofo recupera le simpatie della casa reale, ottenendo anche una pensione. Ciò nonostante, non si placano le accuse di ateismo nei suoi confronti da parte
1580
1590
EVENTI STORICI
1600
1598
L’Inghilterra respinge l’attacco dell’Invincibile Armata
Muore Editto di Nantes: fine Elisabetta I delle Guerre d’Inghilterra di religione
1603
Nasce a Westport
1620
1603
1588
1588
VITA DI HOBBES
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Entra nella Magdalen Hall di Oxford
1618
1630
1623
Inizia la Guerra dei trent’anni
Maffeo Barberini diventa papa con il nome di Urbano VIII
1610-1613
1628
Primo viaggio in Europa (Francia e Italia)
Traduce la Guerra del Peloponneso di Tucidide
1608 Conseguito il baccellierato, diventa precettore di William Cavendish
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
274
1584
1597
Bruno: La cena delle ceneri
Bacone: Saggi di morale e politica
1594-1596 Shakespeare: Romeo e Giulietta
1600
1610
Giordano Bruno è arso vivo in Campo de’ Fiori
Galilei: Sidereus nuncius
1620 Bacone: Novum Organum
1616 Il De revolutionibus 1625 di Copernico è Grozio: Il diritto della messo all’indice guerra e della pace
1596-1598
1605
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Caravaggio: Cena in Emmaus
Cervantes: Don Chisciotte della Mancia (primo libro)
Bernini: Apollo e Dafne
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume iL RACCOntO Di UnA VitA
della Chiesa anglicana, così come non diminuiscono le invettive dei monarchici contro il Leviatano (che continueranno anche dopo la morte dell’autore). Tra il 1665 e il 1666 una terribile epidemia di peste (la cosiddetta “Grande peste”) devasta l’Inghilterra, e in particolare Londra, che per di più nel 1666 viene in gran parte distrutta da un vasto incendio (noto come “secondo Grande incendio”, dopo un primo scoppiato nel 1212). La drammatica situazione infiamma gli animi e nel 1667 alcuni vescovi inducono la Camera dei Comuni a introdurre una legge contro l’ateismo: il Leviatano viene condannato, nonché additato come una delle cause delle recenti calamità. Nel timore di essere processato per eresia, Hobbes brucia alcuni dei suoi manoscritti più compromettenti e, non ottenendo la liberatoria della censura inglese per le sue ultime opere (tra cui una Narrazione storica sull’eresia e un Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra), nel 1668 le dà alle stampe nella calvinista Amsterdam. Il clima di ostilità gli impedisce anche di pubblicare il Behemoth, un’opera storica sulla guerra civile inglese che, scritta intorno al 1670, comparirà soltanto postuma, nel 1682. Negli ultimi anni di vita Hobbes torna agli interessi classici coltivati in gioventù: compone un’autobiografia in versi latini, che intitola Vita espressa in poesia (Vita carmine expressa, pubblicata postuma), e traduce l’Illiade e l’Odissea. Lascia Londra nel 1675, per vivere a Hardwick Hall e a Chatsworth House, le residenze dei Cavendish nel Derbyshire. Muore ad Hardwick Hall il 4 dicembre 1679, all’età di novantuno anni.
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1653
1665
In Inghilterra Cromwell Pace di inizia la guerra Westfalia: sale civile fine della al potere Guerra dei 1649 trent’anni Carlo I Stuart è decapitato
1634-1637
1642
Terzo viaggio in Europa
De cive
1640-1641
1629-1630
Si trasferisce a Parigi; Obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio
Secondo viaggio in Europa
1628
1632
Pubblica il Leviatano e rientra a Londra
Descartes: Meditazioni metafisiche
1642
Corneille: Medea
Rembrandt: Ronda di notte
1679
1679
De corpore
1641
1635
1672
1655 1651
A Hardwick Hall, ospite dei Cavendish, muore Il Leviatano viene condannato dalle autorità 1675 ecclesiastiche Lascia Londra; traduce l’Iliade e l’Odissea
1667
1658 De homine
1656-1657
Descartes: Discorso sul metodo
1680
Seconda guerra Terza guerra In Inghilterra anglo-olandese anglo-olandese promulgato l’Habeas Corpus 1660 In Inghilterra si torna alla monarchia con Carlo II Stuart
Harvey Galilei: Dialogo sopra i due massimi sistemi Pascal: Lettere scopre la del mondo (subito messo all’indice) provinciali circolazione sanguigna 1644 Torricelli dimostra l’esistenza del vuoto
1637
1670
1662
1669
A Londra nasce l’accademia scientifica Royal Society
Pascal: Pensieri (postumi)
1677 Spinoza: Etica (postuma)
1670 Spinoza: Trattato teologico-politico
1673 Molière: Il malato immaginario
1677 Racine: Fedra
275
1. la concezione della ragione e della conoscenza Il linguaggio Nel tentativo di delineare il proprio concetto di “ragione”, Hobbes va in cerca di ciò che come facoltà costituisce la specificità dell’essere umano rispetto agli altri animali. Egli osserva dunque specifica della ragione umana che tutti gli animali possiedono la ragione, per lo meno in un certo grado, perché sanno
appagare i loro bisogni e conservare la loro vita imparando dall’esperienza passata e prevedendo il futuro, sia pure in modo limitato. L’uomo, invece, può prevedere e progettare la propria condotta e i mezzi per raggiungere i propri fini a lunga scadenza grazie al linguaggio, che per Hobbes consiste nell’uso di segni con i quali cataloghiamo le nostre esperienze, allo scopo di conservarle meglio nella memoria e di poterle trasmettere ad altri.
la funzione I versi degli animali (come i gridi e le voci degli esseri umani quando non usano parole) sodelle parole no anch’essi segni, ma non costituiscono un linguaggio. Quest’ultimo, infatti, si ha soltan-
to quando si ricorre alle parole, le quali sono segni convenzionali che significano (o stanno per) i concetti delle cose. La ragione dell’uomo è condizionata da questi segni artificiali, perché soltanto le parole consentono quelle generalizzazioni che guidano il pensiero. Ad esempio, senza la parola “triangolo”, di fronte a ogni triangolo particolare ci si dovrebbe rendere conto delle sue proprietà ricominciando ogni volta da capo; invece, una volta inventata questa parola e creata la corrispondenza con il concetto di triangolo, si saprà sempre, in modo pressoché automatico, che ogni triangolo particolare, comunque disegnato o formato, possiede le stesse proprietà. Avere a disposizione le parole significa insomma poter disporre di generalizzazioni che consentono di abbracciare con un solo colpo d’occhio un numero indefinito di casi simili.
Il ragionamento Per questa sua funzione, il linguaggio rende possibile il ragionamento, che per Hobbes è come calcolo sempre assimilabile al “calcolo”, cioè a un’«addizione» o «sottrazione» di concetti. «Cal-
colare – afferma Hobbes – è cogliere la somma di più cose l’una aggiunta all’altra, o conoscere il resto sottratta una cosa all’altra» (De corpore, I, II, 2). Ecco due esempi: uomo = corpo + animato + razionale; animale = corpo + animato – razionale. Da questo punto di vista la forma generale del ragionamento è per Hobbes il sillogismo ipotetico, la cui struttura è esemplificabile come segue: “Se qualcosa è uomo, è anche animale; se qualcosa è animale, è anche corpo; dunque se qualcosa è uomo, è anche corpo”. In questo caso specifico l’«addizione» (come la chiama Hobbes) dei termini “uomo” e “animale” e dei termini “animale” e “corpo” porta, come conseguenza, all’addizione di “uomo” e “corpo” in un unico concetto.
la conoscenza Il sillogismo ipotetico mette in luce la causa di un certo fatto: quello appena riportato, ad certa (dalle esempio, serve a dimostrare che l’uomo è corpo perché è animale, cioè che l’essere un anicause agli effetti) male è per l’uomo la causa del suo essere corporeo. E poiché la scienza è fatta di dimostra-
zioni di questo genere, ogni discorso scientifico non fa che mostrare la connessione per la quale da una determinata causa si genera un determinato effetto. Questo accade specificamente nelle scienze che si applicano a oggetti (di qualsiasi natura) prodotti dagli esseri umani, dal momento che, proprio in quanto le produce, l’uomo può conoscerne la causa. Perciò l’autentica conoscenza scientifica, cioè che va dalla causa all’effetto, è possibile agli esseri umani soltanto per quegli oggetti che essi stessi hanno creato. E Hobbes ritiene che soltanto le scienze matematiche e le scienze morali (cioè l’etica e la politica) abbiano oggetti di questa natura. Infatti è l’uomo che costruisce le figure geometriche tracciandone a suo arbitrio le linee, così come è l’uomo che “crea” le nozioni di giustizia e ingiustizia, stabilendo le leggi e le convenzioni che ne sono alla base. Perciò è
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
soltanto nella matematica, nell’etica e nella politica che si possono avere dimostrazioni necessarie, e dunque un sapere di tipo scientifico. Le cose naturali sono invece prodotte da Dio e non dagli uomini: perciò questi ultimi non ne conoscono le cause, cioè il modo in cui esse sono generate o prodotte. Per questo tipo di oggetti una dimostrazione necessaria, che vada dalla causa all’effetto, non è quindi possibile. L’unica strada che si può seguire in questo caso è quella di risalire dagli effetti, cioè dai fenomeni che vediamo in natura, alle loro cause supposte; ma poiché uno stesso effetto può essere prodotto da cause diverse, in ambito naturale si raggiungono conclusioni soltanto probabili, ma non necessariamente vere.
la conoscenza probabile (dagli effetti alle cause)
Questa concezione della conoscenza è sintetizzata nella formula «scire per causas» (letteralmente, “conoscere attraverso le cause”), che per Hobbes esprime il fine ultimo dell’autentica filosofia: il conoscere le cause generatrici di una determinata realtà. Ma, come abbiamo visto, esistono due modi di filosofare: 1. mediante dimostrazioni a priori che vanno dalle cause agli effetti; 2. mediante dimostrazioni a posteriori che risalgono dagli effetti (cioè dai fenomeni naturali) alle cause che si ipotizza li abbiano generati.
la duplice via della conoscenza delle cause
IL SAPERE consiste nel
dimostrazioni a priori, di tipo deduttivo (dalle cause agli effetti)
che
pervengono a conclusioni necessarie e riguardano oggetti prodotti dall’uomo (matematica, etica, politica)
dimostrazioni a posteriori, di tipo induttivo (dagli effetti alle cause)
che
pervengono a conclusioni probabili e riguardano oggetti non prodotti dall’uomo (scienze naturali)
comprende
conoscere le cause generatrici dei fenomeni
2. la prospettiva materialistica Abbiamo visto che per Hobbes la ragione e la scienza possono rivolgersi con successo sol- I corpi some tanto a oggetti di cui si può conoscere (a priori o a posteriori) la causa produttrice, quindi a unici oggetti di scienza oggetti generabili. Quando si tratta di oggetti non generabili – quali sono Dio, gli angeli e, in generale, tutte le cose incorporee – la ragione non ha modo di esercitarsi e la scienza non è possibile. Ora, poiché i soli oggetti generabili, che in quanto tali hanno una causa conoscibile della loro genesi, sono i corpi, ovvero gli enti estesi o materiali, secondo Hobbes questi sono i soli oggetti che la ragione possa indagare. Questa convinzione gnoseologica si riflette nella concezione della realtà, in cui Hobbes, I corpi come rifacendosi su questo punto alla dottrina degli stoici, afferma che tutto ciò che esiste è unici oggetti esistenti corpo, perché soltanto il corpo può compiere o subire un’azione. La parola “incorporeo” – afferma Hobbes – è per gli esseri umani priva di significato: anche quando è riferita a Dio, non esprime una caratteristica che gli si può attribuire con certezza, ma soltanto la pia intenzione di rendergli omaggio con un attributo onorifico che lo distingua da tutto ciò che esiste in natura. Anzi, nella sua polemica con il vescovo Bramhall ( p. 274) Hobbes afferma che dire che Dio è incorporeo equivale a sostenere che non esiste affatto.
277
la corporeità Anche la sensazione è l’incontro di una sorta di immagine corporea che si stacca dagli oggetti delle sensazioni e che colpisce i nostri organi di senso. Essa è quindi determinata da corpi in movimento, e non e dell’immaginazione c’è mai un momento in cui si trasmetta all’anima diventando “ideale” (come affermava Cartesio).
Se la sensazione è riducibile al movimento, lo stesso vale per le qualità sensibili che caratterizzano gli oggetti. E lo stesso vale per l’immaginazione, che conserva le immagini dei sensi ed è quindi una specie di “inerzia” dei movimenti che si originano dall’esterno con la sensazione.
la corporeità Secondo questo rigoroso materialismo, neppure lo spirito umano è incorporeo: l’anima, o dell’anima la mente (la res cogitans cartesiana), è anch’essa materiale, sebbene fatta di particelle sotti-
lissime, per noi impalpabili. Come abbiamo visto a proposito del cogito di Cartesio ( unità 3, cap. 1, p. 150), per Hobbes è illegittimo il passaggio dall’affermazione «io sono una cosa che pensa», che è indubitabile, all’affermazione «io sono una sostanza pensante». Non è necessario, infatti, che la cosa che pensa sia pensiero: anzi, per Hobbes essa è il corpo stesso. Anche l’anima umana è dunque materiale; e non potrebbe non esserlo, dato che, come si è detto, i suoi atti (sensazioni, idee, sentimenti ecc.) sono movimenti, prodotti in ultima analisi dal movimento di corpi esterni.
la realtà come Il corpo è dunque l’unica realtà, cioè l’unica sostanza che esista realmente; e il movimento materia in è l’unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali, giacché a esso si riducono movimento
anche i concetti di causa, di forza e di azione.
le partizioni Poiché per Hobbes soltanto i corpi esistono, e poiché ci possono essere corpi naturali e della filosofia corpi artificiali, ci saranno una filosofia naturale, che ha per oggetto i corpi naturali, e una
ESERCIZI
filosofia civile, che ha per oggetto i corpi artificiali, cioè le società umane. La filosofia civile, a sua volta, si dividerà nell’etica, che tratta delle emozioni, dei bisogni e dei comportamenti umani, e nella politica, che tratta dei doveri civili. Esiste inoltre una filosofia prima, che ha lo scopo di chiarire gli attributi fondamentali di tutti i corpi, come lo spazio e il tempo, nonché i concetti di causa, di effetto, di potenza e atto, di identità e diversità, di quantità ecc., dei quali comunemente ci serviamo per comprendere la genesi dei corpi.
3. l’etica Il carattere Per Hobbes le valutazioni morali (ovvero i giudizi mediante i quali si afferma che qualrelativo dei cosa è bene o male) sono puramente soggettive, cioè relative ai singoli individui e algiudizi morali
le situazioni in cui essi vengono a trovarsi. Non c’è nulla che sia buono o cattivo in senso assoluto, e non esiste alcuna norma per distinguere assolutamente il bene dal male. Bene e male sono infatti determinazioni che non ineriscono alla natura delle cose, ma dipendono dagli individui (nel caso in cui non esista lo Stato), o da chi detiene il potere (nel caso in cui lo Stato invece esista), o da un arbitro o giudice scelto da due o più persone che si trovino tra loro in disaccordo, al fine di risolvere la controversia.
la volontà come ultimo atto di desiderio e deliberazione
278
In generale, si chiama bene ciò che si ama e si desidera e male ciò che si odia e si rifugge; e poiché il raggiungimento di ciò che si desidera procura piacere, e il piacere aumenta e rafforza il movimento della vita, così le cose che danno piacere si chiamano “giovevoli” e “belle”. Quando nella mente dell’uomo si alternano desideri diversi e opposti, speranze e timori, e si vagliano le conseguenze buone e cattive di una possibile azione, si è in uno stato che Hobbes chiama di «deliberazione». Esso termina con l’atto della volontà, che decide di agire o di non agire. glossario p. 289 Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
La volontà, con l’azione che ne consegue, pone dunque temporaneamente a tacere i dubbi, la vita come le oscillazioni, le incertezze dell’essere umano; ma questi rinascono subito, giacché alla desiderio incessante natura umana non è concesso di raggiungere uno stato definitivo di tranquillità e di quiete. Perciò non si può parlare di un sommo bene e di un fine ultimo nella vita dell’uomo. Per poter essere definito “ultimo”, un bene dovrebbe infatti essere tale che, una volta raggiuntolo, non si desideri nient’altro. Ma poiché il desiderio si accompagna necessariamente alla sensibilità, un uomo che avesse raggiunto il fine ultimo non soltanto non desidererebbe più nulla, ma neppure sentirebbe, e quindi non vivrebbe affatto:
‘
La vita è un movimento incessante che, quando non può continuare in linea retta, si trasforma in moto circolare. (De homine, 11)
Nella vita umana così intesa non c’è posto per la libertà . Quest’ultima, infatti, è definita da Hobbes come «l’assenza di tutti gli impedimenti all’azione che non sono contenuti nella natura e nell’intrinseca qualità dell’agente». Questa definizione riduce la libertà umana alla libertà di azione, ovvero a una condizione in cui la volontà non sia impedita nelle sue manifestazioni esteriori. Essa nega invece la libertà del volere: quando un uomo ha desiderio o volontà di qualcosa di cui poco prima non aveva né desiderio né volontà, la causa della sua volontà non è la volontà stessa, ma qualcosa di diverso, che non dipende da lui e che anzi gli è esterno. La volontà umana è dunque causata da altro (cioè dagli oggetti di volta in volta desiderati); e poiché la volontà e l’azione sono determinate da tali cause in maniera necessaria, le azioni umane non sono libere ma necessitate. glossario p. 289 Hobbes, che nella polemica con il vescovo Bramhall chiarisce e difende il suo determinismo, insiste sul fatto che la volontà è intrinsecamente necessitata da cause e motivi che in ultima analisi sono rintracciabili nella totalità della natura, poiché tutti gli atti dello spirito umano (comprese la deliberazione e la volontà) sono movimenti connessi con i movimenti degli oggetti esterni: «Difficilmente – egli dice – v’è qualche azione che, per quanto sembri casuale, non sia prodotta da tutto ciò che esiste in natura».
)
Per l’esposizione orale
la negazione del libero arbitrio e il determinismo
1. Quale relazione esiste, secondo Hobbes, tra linguaggio, ragionamento e calcolo? 2. In che cosa consiste per Hobbes la conoscenza scientifica e quali oggetti riguarda? 3. Presenta brevemente il materialismo di Hobbes, indicando a quali realtà tradizionalmente ritenute spirituali egli attribuisce una natura corporea. 4. Spiega che cosa sono per Hobbes il bene e il male. 5. RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione hobbesiana della libertà: pensi anche tu che l’essere umano nelle sue scelte non sia davvero libero, ma sempre condizionato? Se sì, da che cosa, e perché?
4. la politica La dottrina politica di Hobbes si inserisce nella prospettiva giusnaturalistica e contrattualistica che caratterizza la riflessione moderna sull’origine e sui limiti del potere, la quale si sviluppa prendendo le distanze dal pensiero politico aristotelico. Il primo ad allontanarsi dalla visione “naturalistica” di Aristotele (secondo cui la comuni- Il giusnaturalismo tà politica era l’esito di una naturale inclinazione umana alla socievolezza) era stato Ma- e il contrattualismo prima di Hobbes chiavelli ( unità 1, cap. 4, p. 38), il quale aveva affermato che lo Stato è una “costruzione della ragione”, il frutto di un «calcolo di utilità» che spinge gli uomini a rinunciare a una parte della loro libertà in cambio della sicurezza e dell’ordine.
279
Su questa strada si era collocato anche Grozio ( unità 1, cap. 4, p. 40), che, elaborando le nozioni di “stato di natura” e di “contratto”, aveva sancito la nascita ufficiale, rispettivamente, del giusnaturalismo e del contrattualismo moderni: Grozio definisce lo “stato di natura” (opposto allo “stato civile”) come la condizione che precede la formazione dello Stato e delle leggi “positive” che lo regolano: in questa fase gli individui, interrogando soltanto la propria ragione, possono individuare un sistema di princìpi universali e immutabili (il “diritto naturale”, in latino ius naturale) capaci di guidare le loro azioni indipendentemente da qualunque precetto morale o divino; inoltre Grozio individua l’origine dello Stato in un “patto”, o “contratto”, mediante il quale gli individui riconoscono un “sovrano” comune, al quale si sottomettono per uscire dallo stato di natura. Pur con varianti e complicazioni, lo schema giusnaturalistico e contrattualistico elaborato da Grozio (che nasce – lo ricordiamo – appena cinque anni prima di Hobbes) si ritrova in quelli che saranno riconosciuti come i tre principali modelli del pensiero politico moderno: l’assolutismo di Hobbes (che analizzeremo nelle prossime pagine), il liberalismo di Locke ( cap. 2) e la prospettiva democratica di Rousseau ( unità 5, cap. 4).
L’impostazione geometrica Il geometrismo L’intento di Hobbes è quello di elaborare una dottrina politica che sia una rigorosa scienza depolitico duttiva, ossia una costruzione teorica le cui tesi siano tutte derivabili, mediante deduzioni neces-
sarie, da alcuni princìpi certi ed evidenti. Poiché una tale scienza viene concepita in analogia con la geometria euclidea, questa prospettiva viene definita geometrismo politico . glossario p. 289 Il carattere necessario della scienza politica è per Hobbes un riflesso della necessità che agisce nelle volontà umane: se si mettono in luce i princìpi necessari dell’azione umana, partendo da essi si potrà costruire una politica more geometrico.
La natura umana e la condizione pre-sociale I postulati sulla Partendo dall’osservazione della condizione reale dell’essere umano (cioè da come l’uomo natura umana di fatto è, e non da come dovrebbe essere), Hobbes ricava i due «postulati certissimi intorno
alla natura umana», dai quali discende l’intera scienza politica: 1. tutti gli esseri umani sono animati da un desiderio naturale (cupiditas naturalis), per cui ciascuno pretende di godere da solo di ogni bene, compresi quelli comuni; 2. tutti gli esseri umani sono accomunati da una ragione naturale (ratio naturalis) che li induce a rifuggire la morte violenta come dal peggiore dei mali naturali.
la natura Il primo di questi postulati esclude che l’uomo sia per natura un “animale politico” (come egoistica affermava Aristotele). Hobbes riconosce che gli uomini hanno bisogno gli uni degli altri, dell’essere umano ma nega che essi abbiano per natura un istinto che li porta alla benevolenza reciproca e al-
la concordia. In altri termini, egli afferma che gli uomini si associano non perché esista un amore naturale che li lega gli uni agli altri, ma perché ne traggono beneficio. Insomma, per Hobbes «ogni associazione spontanea nasce o dal bisogno reciproco o dall’ambizione, mai dall’amore o dalla benevolenza verso gli altri» (Elementi filosofici sul cittadino, I, 2).
lo stato di Se, dunque, l’origine delle più grandi e durature società risiede nella ricerca del proprio innatura come teresse e nel «timore reciproco», occorre indagare le cause di un tale timore. Esse sono: guerra di tutti contro tutti 1. in primo luogo, l’uguaglianza naturale tra tutti gli uomini, che Hobbes intende come
comune vulnerabilità: poiché la natura ha equamente distribuito intelligenza e forza, allora chiunque può dare la morte a un suo simile, e quindi tutti vivono nella paura;
280
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
2. in secondo luogo, la volontà naturale (che, come abbiamo visto, accomuna tutti gli es-
seri umani) di godere dei beni messi a disposizione dalla natura: unita all’insufficienza di tali beni per tutti e all’antagonismo che deriva dal contrasto delle opinioni, questa volontà naturale porta gli uomini a danneggiarsi a vicenda. E proprio la volontà di nuocersi a vicenda per assicurarsi il maggior numero possibile di beni fa sì che lo stato di natura (cioè la condizione pre-sociale, o pre-politica) sia un incessante stato di guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). glossario p. 290 ( T1 p. 292) È bene osservare che lo stato di natura è per Hobbes una pura ipotesi razionale. Egli, lo stato di infatti, a differenza di quanto farà più tardi Rousseau ( unità 5, cap. 4), non crede che in natura come ipotesi teorica un determinato momento storico l’umanità sia davvero venuta a trovarsi in questa condizione, poiché, se così fosse, il bellum omnium contra omnes avrebbe fatalmente portato, protraendosi nel tempo, all’estinzione della nostra specie. Ciò che per Hobbes è presumibilmente esistito – e che tuttora esiste – è invece uno stato di natura parziale. A conferma di questa idea, Hobbes ritiene che dalla creazione in poi il genere umano non sia mai stato del tutto privo di un’organizzazione civile, ovvero di un potere superiore che regolasse i rapporti tra gli individui. Quest’ultima circostanza può infatti verificarsi soltanto in pochi e ben precisi casi: 1. durante le guerre civili, perché in esse si instaura una condizione di totale anarchia; 2. in talune società primitive, come quella dei barbari dell’antichità o – secondo la concezione di allora – degli indigeni delle Americhe; 3. tra gli Stati sovrani, che si trovano tra loro in un rapporto del tutto analogo a quello vigente tra gli individui nello stato di natura (si ricordi che non esisteva, al tempo di Hobbes, alcun diritto internazionale).
La nozione hobbesiana di “diritto naturale” Da quanto detto finora consegue che per Hobbes nello stato naturale vige il più assoluto relativismo morale: ciò che a ciascuno piace e che ciascuno desidera è avvertito come bene, e ciò che ciascuno rifugge perché procura dolore è avvertito come male. In una tale prospettiva non si può neanche dire che l’uomo sia per natura “cattivo”: egli è quello che è, in virtù di una “necessità della natura” che lo predetermina e lo orienta. Analogamente, nello stato di natura nulla può essere detto “giusto” o “ingiusto”, poiché le nozioni della giustizia e dell’ingiustizia nascono soltanto con la legge, e la legge nasce dove c’è un potere comune.
lo stato di natura come assenza di morale e di legge
Questo significa, detto in altri termini, che nello stato naturale vige il diritto di tutti su le caratteristiche tutto (ius omnium in omnia), compresa la vita degli altri; e in virtù di tale diritto ogni uomo del diritto naturale risulta necessariamente un “lupo” per ogni altro uomo: «homo homini lupus», sentenzia Hobbes. glossario p. 290 ( T2 p. 295) Un siffatto “diritto” non ha nulla a che fare con la «legge di natura», la quale per Hobbes (come vedremo meglio nel prossimo paragrafo) consiste piuttosto nell’eliminazione proprio del diritto naturale, o almeno in una sua radicale limitazione. È piuttosto un istinto naturale insopprimibile e non è contrario alla ragione far di tutto per sopravvivere:
‘
ciascuno è portato a desiderare ciò che per lui è bene e a fuggire ciò che per lui è male, e soprattutto a fuggire il maggiore di tutti i mali naturali che è la morte; e ciò con una necessità di natura non minore di quella con cui la pietra è portata verso il basso. (Elementi filosofici sul cittadino, I, 7)
281
Il diritto È interessante notare come, con la sua concezione del diritto naturale come diritto “illimitanaturale per to” (di tutti su tutto), di fatto Hobbes prenda le distanze dal punto di vista giusnaturalistico. Hobbes e per i giusnaturalisti Per i giusnaturalisti, infatti, il diritto naturale è un insieme di diritti inviolabili e inalie-
nabili (come il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà) che caratterizzano gli individui fin dalla loro nascita e che la ragione è naturalmente portata a riconoscere, tanto da porli a fondamento della costituzione dello Stato stesso. Invece per Hobbes il diritto naturale non può essere mantenuto (pena l’annientamento dell’umanità), ma deve essere limitato proprio mediante la costituzione dello Stato ( p. 283).
CONCETTI A CONFRONTO
IL DIRITTO NATURALE in GROZIO
in HOBBES
è un insieme di princìpi universali e immutabili che ogni essere umano possiede fin dalla nascita e che lo inclinano alla socievolezza
è il diritto di tutti su tutto (ius omnium in omnia) che nello stato di natura caratterizza ogni essere umano, spingendolo ad agire per il proprio interesse
deriva dalla natura razionale umana
coincide con l’istinto naturale umano
fonda e giustifica il patto tra sovrano e sudditi che sta alla base dello Stato
viene superato nel patto tra sovrano e sudditi che sta alla base dello Stato
La nozione hobbesiana di “legge naturale” l’abbrutimento La condizione di guerra universale che caratterizza la vita degli uomini nello stato di nadell’umanità tura è di ostacolo per ogni attività industriale e commerciale, per l’agricoltura, la navigazionello stato di natura ne, la costruzione di case e, in generale, per l’arte e la scienza. Per queste ragioni, nello sta-
to di natura l’essere umano precipita al livello di un animale solitario, abbrutito dal timore e incapace di disporre proficuamente del proprio tempo.
I “suggerimenti” Se l’uomo fosse privo di ragione, lo stato di natura si trasformerebbe dunque in una condella ragione dizione di abbrutimento e immobilità, e poi di guerra totale e insormontabile, e il genere
umano finirebbe annientato. Ma la ragione, come abbiamo visto, per Hobbes è la capacità di prevedere e di provvedere, mediante un calcolo accorto, ai bisogni e alle esigenze umane: essa indica dunque una via d’uscita da una tale precaria condizione, proibendo a ciascun individuo, da una parte, di fare ciò che provoca la distruzione della vita e, dall’altra, di omettere ciò che serve a conservarla meglio. Questo principio, suggerito all’uomo dalla ragione, è il fondamento di tutte le «leggi di natura». ( T2 p. 295)
la distinzione Il diritto naturale (ius naturale) e la legge naturale (lex naturalis) di cui parla Hobbes non tra il diritto e vanno dunque confusi. Il primo si riferisce a uno stato di libertà illimitata, mentre la sela legge di natura conda indica una restrizione di questa libertà mediante una norma. Il diritto naturale
dice che cosa l’uomo può fare per conservare la vita, ma non garantisce l’esito di tale possibilità; la legge naturale, invece, dice che cosa l’uomo deve fare, o evitare di fare, per garantire la propria sicurezza in modo efficace. glossario p. 290 Come si vede, la legge naturale di cui parla Hobbes non ha niente a che fare con l’ordine divino e universale nei cui termini era stata concepita dagli stoici e da tutta la tradizione medievale: è un prodotto della ragione umana. Diversamente da Grozio, tuttavia, per Hobbes la razionalità umana è un’attività condizionata dal contesto in cui opera, una tecnica di “calcolo” capace di prevedere le situazioni future e di fare in vista di esse le scelte più convenienti.
282
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
Le norme fondamentali della legge naturale sono dirette a sottrarre l’essere umano al le tre leggi gioco spontaneo e autodistruttivo degli istinti, e ad imporgli una disciplina che gli procu- naturali fondamentali ri una sicurezza almeno relativa e la possibilità di dedicarsi alle attività che rendono agevole la sua vita. La prima di queste regole per l’autoconservazione è:
‘ ‘
Cercare e conseguire la pace in quanto si ha la speranza di ottenerla; e, quando non si può ottenerla, cercare e usare tutti gli ausili e i vantaggi della guerra. (Leviatano, I, XIV; Elementi filosofici sul cittadino, II, 2)
Da questa legge fondamentale (pax est quaerenda) derivano tutte le altre, e in particolare il principio seguente: l’uomo spontaneamente, quando anche gli altri lo facciano e per quanto lo giudicherà necessario alla pace e alla sua difesa, deve rinunciare al suo diritto su tutto e accontentarsi di avere tanta libertà rispetto agli altri quanta egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a sé. (Leviatano, I, XIV; Elementi filosofici sul cittadino, II, 3)
In fondo, nota Hobbes, questa seconda legge (ius in omnia est retinendum) non è che lo stesso precetto evangelico: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Essa implica la rinuncia, da parte di ogni uomo, al suo diritto illimitato su tutto, perché soltanto a condizione di una tale rinuncia è possibile uscire dallo stato di natura, cioè dalla guerra continua di tutti contro tutti. La seconda norma fondamentale ne implica una terza, ugualmente imprescindibile: «bisogna stare ai patti, cioè osservare la parola data» (pacta servanda sunt). Questo perché si può scegliere di rinunciare al proprio diritto su tutto soltanto se anche tutti gli altri uomini si impegnano a fare altrettanto mediante un patto e, ovviamente, se tale patto viene rispettato da tutti. Anche per quel che riguarda la concezione della legge naturale Hobbes si allontana dai giusnaturalisti. Questi ultimi, infatti, la intendono come una sorta di patrimonio di cui è dotato ogni essere umano e che, pertanto, gli appartiene sempre e comunque. Invece in Hobbes l’espressione «leggi di natura» indica i mezzi che, alla luce di una considerazione razionale, si rivelano più idonei a garantire la sopravvivenza. Mezzi, dunque, che traggono il loro valore semplicemente dalla loro efficacia e non configurano princìpi assoluti o imperativi incondizionati, ma regole di prudenza, volte a tutelare l’autoconservazione dell’umanità. Non sono, insomma, valori “biologicamente” connaturati all’individuo, tant’è vero che, se l’indagine razionale ne trovasse di più efficaci e di più adatti allo scopo primario di garantire la sopravvivenza, essi potrebbero tranquillamente venire sostituiti.
)
Per l’esposizione orale
la legge di natura per Hobbes e per i giusnaturalisti
1. Perché il pensiero politico di Hobbes è definito “geometrismo politico”? 2. Chiarisci il significato delle espressioni hobbesiane: stato di natura, guerra di tutti contro tutti, diritto naturale, ragione naturale, legge naturale. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera i tre precetti che secondo Hobbes costituiscono la legge naturale: pensi anche tu che si tratti di norme incontestabili dalle quali non sia possibile prescindere per evitare i conflitti? Per quali ragioni? Ti vengono in mente altre regole fondamentali, in aggiunta o in sostituzione a quelle hobbesiane?
La teoria dello Stato Benché siano dettate dalla ragione naturale presente in tutti gli uomini, abbiamo visto l’inefficacia che per Hobbes le leggi di natura non sono comandi assoluti, ma regole prudenziali delle leggi naturali condizionate al fine da conseguire. Nello stato di natura non c’è dunque alcuna garanzia che esse vengano effettivamente rispettate da tutti, dal momento che nessun individuo è abbastanza forte da poter costringere gli altri a metterle in pratica.
283
la nascita e le caratteristiche dello stato
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 370
OFFICINA CITTADINANZA Libertà individuali e diritti inviolabili p. 76
Come efficacemente fa notare Norberto Bobbio, «le leggi naturali ci sono, cioè sono valide, ma non sono efficaci», per cui «sarebbe il colmo dell’imprudenza seguire le regole della prudenza […]. Ne consegue che l’unica via per rendere efficaci le leggi naturali, cioè per far in modo che gli uomini agiscano secondo ragione e non secondo passione, è l’istituzione di un potere tanto irresistibile da rendere svantaggiosa ogni azione contraria. Questo potere irresistibile è lo Stato» (Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 2004, pp. 46-47). Dice Hobbes: L’atto che segna il passaggio dallo stato naturale allo stato civile è quindi il trasferimento, mediante un patto, del potere illimitato (il diritto su tutto) di cui ogni individuo gode nello stato di natura a un’unica persona (sia essa fisica, come un monarca, o giuridica, come un’assemblea) che con la forza possa obbligare tutti gli uomini al rispetto del patto e delle leggi. La nascita della società civile avviene dunque in conformità con la seconda legge naturale, cioè mediante la stipulazione di un contratto, o patto con il quale gli individui rinunciano al loro diritto illimitato per trasferirlo a un «potere comune» che essi, mediante una scelta volontaria, istituiscono. glossario p. 290 ( T3 p. 297) Lo Stato o la società civile è detto anche «persona civile» proprio perché, riducendo a unità la molteplicità delle volontà singole, si impone come unica persona giuridica, la cui volontà e razionalità coincide con la volontà di tutti, tanto che ciascuno non può che volere ciò che il sovrano vuole. È pertanto possibile offrire la seguente definizione dello Stato:
‘ ‘
l’unica persona la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui: onde può servirsi delle forze e degli averi (Elementi filosofici sul cittadino, V, 9) dei singoli per la pace e per la comune difesa.
Il sovrano Chi rappresenta lo Stato, o la persona civile, è il sovrano , che Hobbes designa anche
con il nome di un mostro biblico – il Leviatano – per evidenziarne l’irresistibile potenza. Il sovrano (che, lo ripetiamo, può essere un individuo o un’assemblea) ha potere assoluto; tutti gli altri sono sudditi. Dice Hobbes: glossario p. 290 Questa è l’origine di quel grande Leviatano o per usare maggior rispetto, di quel dio mortale al quale, dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché, per l’autorità conferitagli da ogni singolo uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col terrore, la volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici esterni. (Leviatano, II, XVII) desiderio naturale, egoismo
LO STATO DI NATURA
è caratterizzato da
diritto naturale di tutti su tutto guerra di tutti contro tutti bisogna cercare la pace (pax est quaerenda)
LA LEGGE NATURALE
si basa su
tre precetti fondamentali
bisogna rinunciare al diritto su tutto (ius in omnia est retinendum) bisogna stare ai patti (pacta servanda sunt)
LO STATO
284
nasce da un
contratto
con cui
ciascun individuo aliena il proprio diritto e potere a un sovrano (uomo o assemblea)
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
Le caratteristiche dell’assolutismo hobbesiano Da quanto detto finora si comprende perché la teoria hobbesiana dello Stato si possa con- la nozione di “assolutismo” siderare una forma di assolutismo politico. glossario p. 290 Il termine “assolutismo” nasce nei circoli liberali della prima metà dell’Ottocento per alludere agli aspetti deteriori di un potere monarchico illimitato e “sciolto da” (in latino ab-solutus) qualunque limite e controllo. Nel corso del tempo la parola è passata a indicare una forma di governo non necessariamente monarchica, in cui la volontà sovrana del potere statale costituisce la fonte unica e suprema del diritto. Hobbes sostiene una tale posizione con forza. Egli è convinto che il potere sovrano che regge uno Stato sia “assoluto” in virtù del processo stesso attraverso il quale viene a essere costituito: il potere statale non è sottoposto ad alcun limite giuridico (poiché non esiste un “giusto in sé” che preceda la volontà dello Stato e la promulgazione delle leggi da parte di esso) e ad alcun limite etico (poiché al di fuori dello Stato non esistono né bene né male). Più precisamente, l’assolutismo di Hobbes presenta alcuni tratti specifici fondamentali, che analizzeremo nel dettaglio nelle prossime pagine. In primo luogo, Hobbes insiste sulla irreversibilità e unilateralità del contratto che san- l’irreversibilità cisce la nascita della società civile. Una volta costituito lo Stato, i cittadini non possono più e l’unilateralità del patto negare il proprio consenso al patto, dissolvendolo: il diritto dello Stato nasce infatti da un accordo dei singoli individui tra loro, i quali si impegnano vicendevolmente («ciascuno con ogni altro») a sottomettersi a un sovrano che invece non è coinvolto nel patto. In secondo luogo, secondo Hobbes il potere sovrano è indivisibile, nel senso che non può l’indivisibilità essere distribuito tra poteri diversi che si limitino a vicenda. Una tale distribuzione, infatti, non del potere sovrano garantirebbe la libertà dei cittadini, perché, se i poteri divisi fossero concordi, rappresenterebbero gli interessi di un unico polo, e, se fossero discordi, si arriverebbe presto alla guerra civile. Il terzo dei caratteri specifici dell’assolutismo hobbesiano è l’idea che il giudizio sul bene l’assolutezza e sul male appartenga allo Stato, e non ai cittadini. Questo aspetto è strettamente legato del potere sovrano all’unilateralità del patto, che a sua volta fonda l’assolutezza del potere sovrano, secondo un processo circolare di reciproco supporto tra i due convincimenti. Dal momento che è estraneo al patto, il sovrano è “sciolto da” (ab-solutus) qualsiasi vincolo, compresa la volontà dei cittadini. Del resto, la regola che consente di distinguere tra bene e male, tra giusto e ingiusto ecc. non potrebbe essere affidata all’arbitrio dei singoli. Se questo avvenisse, l’obbedienza allo Stato sarebbe condizionata dalla varietà dei criteri individuali e lo Stato si dissolverebbe. Inoltre, l’intera volontà del singolo è stata trasferita con il patto nella volontà del sovrano, per cui ciò che lo Stato vuole è sempre giusto (lo deve volere anche l’individuo):
‘
Con le leggi dello Stato è come con le regole di un gioco: qualsiasi cosa i giocatori (Leviatano, II, XXX) stabiliscono di comune accordo non è ingiusta per nessuno di loro.
Si ritrova in questo terzo punto l’aspetto “giuspositivistico” della dottrina hobbesiana. Il giuspositivismo Per Hobbes, infatti, la legge positiva o il diritto positivo (in latino ius positum, cioè “imposto” di Hobbes dalla forza dello Stato) non prescrive un comportamento perché esso è costitutivamente “buono”. Al contrario, un comportamento è giusto (iustum) perché è ordinato dalla legge (iussum). È la legge che istituisce la morale, e non viceversa. Ma il tratto più caratteristico dell’assolutismo hobbesiano è la sua negazione dell’idea che il sovrano sia in alcun modo soggetto alle leggi dello Stato. Hobbes difende quest’ultima tesi osservando che lo Stato non ha alcun obbligo né verso i cittadini (i quali, al contrario, contraggono unilateralmente e irreversibilmente l’obbligo di obbedire allo Stato), né verso sé stesso, perché nessuno si può obbligare se non verso un altro.
la non sottomissione del sovrano alle leggi statali
285
Il pactum Anche su quest’ultimo punto si evidenzia l’opposizione di Hobbes al giusnaturalismo. Per unionis e i giusnaturalisti, infatti, la nascita dello Stato si compie secondo una duplice scansione. il pactum subiectionis Vi è dapprima un «pactum unionis» (letteralmente “patto di unione”) compiuto ancora
nello stato di natura. Gli uomini, pur naturalmente socievoli e perlopiù disposti a rispettare i diritti naturali degli altri, si rendono tuttavia conto che ci può sempre essere qualcuno che li viola. Per sanzionare gli eventuali trasgressori e per ripristinare la situazione di diritto è allora necessario rivolgersi a un’autorità superiore. È a questo punto che gli uomini decidono pacificamente e di comune accordo, cioè appunto attraverso il pactum unionis, di sottomettersi allo Stato, che quindi è il frutto di un ulteriore tipo di contratto: il «pactum subiectionis» (letteralmente “patto di sottomissione”). Per Hobbes, invece, a causa dell’indole aggressiva dell’essere umano sarebbe impossibile raggiungere nello stato di natura quell’accordo che sfocia nel pactum unionis, poiché gli uomini si dilanierebbero nel trovarlo e non vi giungerebbero mai. Per Hobbes, dunque, il pactum unionis e il pactum subiectionis coincidono. ( T3 p. 297)
I limiti La prospettiva hobbesiana, per quanto assolutistica, riconosce tuttavia alcuni limiti all’adell’azione zione dello Stato. Neppure quest’ultimo, infatti, può imporre a un essere umano di uccidello stato
dere o ferire sé stesso, o di non difendersi, o di non mangiare o respirare o bere o fare qualunque altra cosa necessaria alla vita; né può comandargli di confessare un delitto, perché nessuno può essere costretto ad accusare sé stesso. Ma per tutti gli altri aspetti il suddito è libero soltanto in ciò che il sovrano ha omesso di regolare con le leggi. In pratica, i limiti posti da Hobbes all’assolutismo derivano soltanto da quel fondamento (gius)naturalistico che è il diritto alla vita. Se il sovrano viola questa condizione (l’unica che lo vincoli), allora la sua funzione decade e si ritorna allo stato di natura, dove ogni uomo può difendersi come meglio crede.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra le caratteristiche specifiche dell’atto che per Hobbes segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile. 2. Quali sono i caratteri fondamentali dello Stato teorizzato da Hobbes? 3. Presenta la differenza tra pactum unionis e pactum subiectionis e illustra il significato che essi assumono nella riflessione hobbesiana. SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
Nella sua vita Hobbes assiste a tutte le fasi attraversate dal suo Paese per trasformarsi da monarchia assoluta in monarchia parlamentare. Mentre in Inghilterra infuria la guerra civile, in Francia regna Luigi XIV, noto come “Re Sole”, simbolo dell’assolutismo seicentesco. Quali forme assume l’assolutismo nell’Europa del Seicento? Quali differenze presentano le varie monarchie?
286
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
SVILUPPO SOSTENIBILE
EDUCAZIONE CIVICA
LA FILOSOFIA CHE VIVE Dal giuspositivismo di Hobbes allo statuto dei diritti umani Da Hobbes alla Dichiarazione dei diritti umani Per Hobbes non ha senso chiedersi se ci sia una giustizia al di là o prima della legge positiva, perché il giusto (iustum) coincide interamente con ciò che è ordinato (iussum) dalla legge. Queste idee hobbesiane sono state al centro di un dibattito che ha visto contrapporsi, da una parte, il giuspositivismo, o positivismo giuridico (riconducibile proprio a Hobbes), e dall’altra il giusnaturalismo. Si tratta, rispettivamente, di una concezione monista del diritto, secondo cui il diritto positivo è l’unico ammissibile, e di una concezione dualista, che oltre al diritto positivo riconosce anche un diritto naturale, costituito da norme eterne e universali in base alle quali le leggi positive possono essere ritenute ingiuste. Il confronto tra i giuspositivisti e i giusnaturalisti si accende ogni volta in cui si verifica una situazione di contrasto tra la legislazione vigente in un certo Stato e ciò che comunemente viene chiamato “senso della giustizia”. Ciò accade quando ci sono leggi che (direttamente o indirettamente) legittimano pratiche discriminatorie, oppure quando i diritti della persona vengono violati, come ancora oggi, purtroppo, si registra in certe aree del nostro pianeta (ad esempio in Medio Oriente, in alcune regioni africane o nei Paesi retti da governi autoritari) e come è avvenuto in Europa con i regimi totalitari del Novecento. È proprio al fine di evitare tali discrepanze che nel 1948, all’indomani della Seconda guerra mondiale, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha promulgato la Dichiarazione universale dei diritti umani, in cui si enunciano una serie di diritti dell’individuo che tutte le legislazioni positive dovrebbero rispettare, sulla base di quanto sancito dai primi due articoli:
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Pace, giustizia e istituzioni solide
di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
Il problema dei diritti umani oggi Poiché non fa parte di un diritto positivo specifico, la Dichiarazione universale dei diritti umani non ha forza di legge: è piuttosto un “codice etico”, espressione (come scrive Norberto Bobbio) di un «diritto disarmato» che, a differenza del diritto positivo, non può essere fatto valere con la forza. Tuttavia, il fatto che i diritti umani considerati universali e inviolabili siano stati enunciati in una dichiarazione sottoscritta da numerosi Paesi fa sì che essa sia entrata a far parte di una sorta di diritto “storico-positivo” internazionale, e quindi debba essere assunta come valida anche da chi non riconosce l’esistenza di princìpi naturali anteriori e superiori a quelli positivi. In ogni caso, nel secondo dopoguerra molti Stati hanno inserito nelle proprie Costituzioni le sollecitazioni “morali” contenute nella Dichiarazione del 1948: la tensione tra giuspositivismo e giusnaturalismo appare così in qualche modo attenuata e, anzi, trasformata, come dichiara Bobbio: «il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico» (Sul fondamento dei diritti dell’uomo, da “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1965, XLII, 2, p. 309).
Articolo 1. Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Articolo 2. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore,
)
RICERCA E DISCUSSIONE
Quali sono le principali violazioni dei diritti umani oggi, e in quali Stati si verificano? Quali sono gli strumenti più efficaci di cui la comunità internazionale dispone, per far sì che i diritti umani siano rispettati? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, approfondite il tema delle violazioni dei diritti umani consultando i siti specializzati presenti in rete (ad esempio quelli della Federazione Internazionale dei Diritti Umani, o di Amnesty International). In classe, sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in piccoli gruppi, ciascuno dei quali approfondirà la questione in relazione a una certa area geografica; avviate una discussione condividendo le diverse informazioni acquisite. TEMA
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l’eredità di HOBBES DA CHI E CHE COSA EREDITA
CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
da Cartesio l’importanza attribuita alla ragione
la prospettiva razionalistica di Cartesio viene accolta da Hobbes e reinterpretata alla luce di un’enfatizzazione della prospettiva empiristica
da Galileo l’idea della scienza come studio delle cause dei fenomeni
la conoscenza autentica consiste anche per Hobbes in uno scire per causas, che nel caso della matematica, dell’etica e della politica si applica a oggetti “creati” dall’uomo e quindi approda a un sapere certo, mentre nel caso della filosofia naturale porta a un sapere solo probabile, perché riguarda oggetti creati da Dio
da Cartesio il meccanicismo deterministico
la spiegazione meccanicistica del mondo fisico viene estesa da Hobbes anche al mondo spirituale, a cui egli attribuisce natura corporea, riconducendolo ai due princìpi fondamentali della materia e del movimento
da Spinoza la concezione naturalistica e relativistica del bene e del male
Hobbes condivide l’idea spinoziana secondo cui il bene e il male non sono definibili in modo assoluto, ma coincidono, rispettivamente, con ciò che si desidera perché giova al corpo e ciò che si rifugge perché danneggia il corpo
da Grozio l’idea di uno stato di natura, precedente allo stato civile, in cui vige un diritto naturale che sancisce i diritti universali e inviolabili degli individui
il diritto naturale vigente nello stato di natura assume in Hobbes i toni pessimistici di un diritto di tutti su tutto (ius omnium in omnia), che produce una condizione di anarchia e di «guerra di tutti contro tutti»
da Grozio l’idea di una legge naturale razionale che tutela i diritti naturali
la legge naturale di cui parla Hobbes è una costruzione della ragione (come per Grozio), ma non ha valore universale e assoluto, bensì funzionale alla sopravvivenza
da Grozio il contrattualismo
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per Hobbes, come per Grozio, lo Stato non è una formazione naturale, ma un prodotto artificiale, nato da un contratto stipulato da un gruppo di individui, i quali, per garantirsi la sopravvivenza, cedono il loro potere a un “sovrano” che abbia la forza di far rispettare le regole di una convivenza pacifica
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 1 HOBBES
La concezione della conoscenza Il progetto di Thomas Hobbes (1588-1679) è quello di costruire una filosofia razionale che ponga i fondamenti di una comunità politica ordinata e pacifica. Egli è convinto che ciò che distingue l’essere umano dagli altri animali sia il linguaggio, quale sistema di segni convenzionali con i quali classifichiamo e comunichiamo le nostre esperienze. Il linguaggio sta alla base del ragionamento, che per Hobbes è assimilabile a un calcolo, cioè all’addizione o alla sottrazione di concetti. L’obiettivo di un tale calcolo consiste per Hobbes nel conoscere le cause generatrici dei diversi fenomeni, secondo la formula latina «scire per causas» (letteralmente, “conoscere attraverso le cause”). E questo è possibile mediante due tipi di ragionamento: attraverso dimostrazioni deduttive a priori, che partendo dalle cause (princìpi certi ed evidenti) pervengono a conclusioni necessariamente valide (gli effetti); attraverso dimostrazioni induttive a posteriori, che partendo dagli effetti (i fenomeni osservati) pervengono a conclusioni soltanto probabili (le cause). Il primo tipo di ragionamento è applicabile soltanto negli ambiti della matematica, dell’etica e della politica, ovvero di quelle discipline che si occupano di oggetti prodotti dagli esseri umani, di cui pertanto possiamo conoscere con certezza le cause; il secondo tipo di ragionamento deve invece essere applicato all’ambito naturale, poiché la conoscenza certa delle cause degli oggetti naturali è concessa soltanto a Dio.
Il materialismo In generale, la filosofia hobbesiana risponde a una prospettiva rigorosamente materialistica, secondo la quale esistono e sono conoscibili soltanto i corpi, ovvero gli
oggetti estesi e materiali, poiché soltanto questi sono in grado di agire o di subire un’azione. Tale prospettiva si traduce in Hobbes in una forma di meccanicismo che spiega in termini di materia e movimento ogni realtà, compresa l’anima umana, che viene infatti concepita come materiale.
L’etica Hobbes è convinto che le valutazioni morali siano puramente soggettive, secondo la seguente concezione di
• bene e male
rispettivamente, ciò che si ama e si desidera in quanto piacevole o vantaggioso, e ciò che si odia e si rifugge in quanto spiacevole o svantaggioso.
In altre parole, il bene e il male “in sé” o “assoluti” non esistono; esistono soltanto il bene e il male “relativi” a determinati individui e situazioni, nonché agli «appetiti» di ognuno. Del resto la vita umana è per Hobbes un incessante movimento da un desiderio all’altro, e poiché i desideri sono condizionati dal corpo, non c’è spazio per il libero arbitrio, secondo la seguente idea di
• libertà
condizione in cui la volontà non è ostacolata nelle sue manifestazioni esteriori.
Si tratta insomma di una prospettiva deterministica, in cui all’essere umano non è concessa la libertà del volere, ma soltanto la libertà di azione, cioè la possibilità di realizzare senza alcun impedimento (esteriore) i propri desideri (interiori).
La politica La riflessione hobbesiana sul potere e sullo Stato può essere considerata una forma di
• geometrismo politico
dottrina politica che, in analogia con la geometria euclidea, parte da pochi postulati sulla natura umana, per dedurne con matematica necessità tutto il sistema delle conoscenze politiche.
I «postulati certissimi intorno alla natura umana» sono: l’esistenza in ogni essere umano di un desiderio naturale che lo spinge a possedere beni; l’esistenza in ogni essere umano della ragione naturale, che lo induce a fuggire la morte e a preservarsi in salute.
289
Da questi postulati emerge come per Hobbes l’uomo non sia un «animale politico» o sociale (quale era per Aristotele), ma sia spinto verso l’altro soltanto dal bisogno o dal timore. Hobbes descrive allora un ipotetico
• stato di natura
la condizione (teorica) in cui gli uomini, non essendo ancora associati tra loro e disciplinati da una serie di leggi positive comuni, sono spinti dal proprio egoismo a perseguire il proprio bene a scapito di quello di tutti gli altri.
L’effetto di questa condizione di generale egoismo e conflitto sarebbe una
• guerra di tutti contro tutti
(in latino bellum omnium contra omnes) la condizione che inevitabilmente caratterizza lo stato di natura, in cui ogni essere umano risulta necessariamente un «lupo» per l’altro uomo («homo homini lupus»): «se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro» (Leviatano, I, 13).
La guerra di tutti contro tutti è motivata dal fatto che nello stato di natura vige quello che Hobbes chiama «diritto naturale», il quale coincide con il
• diritto di tutti su tutto
(in latino ius omnium in omnia) la condizione di totale assenza di leggi, in cui tutti vantano un diritto illimitato su tutto, compresa la vita altrui.
Per poter uscire da questa situazione di abbrutimento, la ragione fornisce all’uomo alcuni suggerimenti, che costituiscono la
• legge naturale
(da non confondersi con il “diritto naturale”) un «dettame della retta ragione», la quale, essendo capace di “calcolare” le conseguenze delle azioni e dunque di prevedere le situazioni future, indica all’uomo alcuni precetti fondamentali per sottrarlo alla condizione di vita precaria in cui si trova nello stato di natura.
290
I precetti razionali fondamentali che costituiscono la legge naturale sono tre: il primo ordina di cercare la pace (pax est quaerenda); il secondo prescrive di rinunciare al diritto su tutto (ius in omnia est retinendum); il terzo obbliga a osservare i patti (pacta servanda sunt). Le leggi naturali, tuttavia, da sole non bastano: è necessario anche un
• contratto, o patto
l’atto attraverso cui i singoli individui trasferiscono il proprio diritto su tutto a un sovrano (v.) che sia in grado di salvaguardare il rispetto del patto stesso e la pace della comunità.
Il contratto sancisce così la nascita dello Stato (contrattualismo), ovvero il passaggio dallo stato naturale allo stato civile, che non potrebbe sussistere senza un potere coercitivo che imponga il rispetto delle leggi con la forza. Lo Stato concepito da Hobbes è dunque uno Stato forte, e più precisamente una forma di
• assolutismo
regime politico in cui il potere è illimitato e “sciolto da” (ab-solutus) qualunque norma o controllo.
Questo accade perché il patto che dà origine allo Stato è, secondo Hobbes, unilaterale e irreversibile, e il potere che ne deriva indivisibile. Del resto la legge civile è l’unica fonte del giusto e del bene, e chi detiene il potere, stabilendo le leggi, non è sottomesso a esse. Tale figura svincolata da ogni norma è il
• sovrano
l’uomo o l’assemblea in cui si concentra il potere statale. Hobbes lo paragona a un «dio mortale» e al «Leviatano», un mostro marino che nella Bibbia (Giobbe, 40-41) è descritto come la più potente e terribile delle creature.
L’unico limite che Hobbes riconosce alla volontà del sovrano deriva dal fatto che neppure lo Stato può violare il diritto alla vita, obbligando un essere umano a mettere in pericolo o accusare sé stesso.
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
MAPPE
CAPITOLO 1 HOBBES LA FILOSOFIA per Hobbes consiste nel
conoscere le cause dei fenomeni (scire per causas) attraverso
deduzioni dalle cause ai loro effetti necessari
induzioni dagli effetti alle loro probabili cause
applicabili nella filosofia civile (etica e politica)
applicabili nella filosofia naturale (fisica)
secondo un rigoroso
secondo un rigoroso
geometrismo
materialismo
che
che
esclude la libertà del volere (determinismo)
considera soggettive le valutazioni morali (relativismo)
considera esistenti e conoscibili soltanto i corpi
spiega la realtà in termini di materia e movimento
LA DOTTRINA POLITICA DI HOBBES parte dall’idea di un
ipotetico stato di natura
diritto naturale (di tutti su tutto) guerra di tutti contro tutti
caratterizzato da
dal quale si esce mediante
le leggi naturali suggerite dalla ragione che sono
pax quaerenda est
ius in omnia est retinendum
la stipulazione di un contratto da cui nasce
pacta servanda sunt
lo Stato (o società civile) in cui
gli uomini rinunciano al proprio diritto illimitato e lo trasferiscono al sovrano
il sovrano (uomo o assemblea) riunisce in sé ogni potere e non è soggetto alle leggi dello Stato
291
CAPITOLO 1 HOBBES
la condizione degli esseri umani nello stato di natura
Nel Leviatano, la sua opera politica più celebre, Hobbes propone una concezione fortemente pessimistica della natura umana, che dipinge l’individuo come un essere egoista e asociale. Per questo il cosiddetto “stato di natura” non potrà essere altro che una situazione di anarchia e di guerra di tutti contro tutti. Da una tale condizione, tuttavia, è possibile liberarsi, a patto di ascoltare i “consigli” della ragione presente in tutti gli esseri umani. TESTO
1
La guerra di tutti contro tutti
(Leviatano)
IL TESTO NELL’OPERA Il Leviatano, ossia La materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile è stato pubblicato in inglese nel 1651 e nella traduzione latina nel 1668. L’opera è suddivisa in quattro libri che trattano, rispettivamente, dell’essere umano, dello Stato, dello Stato cristiano e del Regno delle tenebre. L’esposizione della teoria politica di Hobbes – che prende in considerazione il costituirsi della società, la natura della sovranità e le caratteristiche del governo – si conclude con un’analisi biblica da cui emerge la necessità di unificare la sovranità statale e quella ecclesiastica nell’unica figura del «luogotenente di Dio»: il sovrano assoluto. Nel testo proposto di seguito, tratto dal primo libro, si vede come la totale assenza di regole e la conseguente paura che caratterizzano la vita nello stato di natura producano incertezza economica e culturale, che Hobbes descrive con accenti particolarmente cupi. le cause di […] si trovano nella natura umana tre principali cause di conflitto: la competizione, la difconflitto tra gli fidenza, la gloria. 2 individui
La prima fa sì che gli uomini entrino in lotta tra loro per il profitto; la seconda per la sicurezza; la terza per la reputazione. Nel primo caso si adopera la violenza per impadronirsi 4 della persona di altri uomini, delle loro donne, dei loro fanciulli e delle loro mandrie di bestiame; nel secondo per difenderli; nel terzo si fa uso di sciocchezze, come per es. di una 6 parola, di un sorriso, di una opinione diversa, e di qualunque altro segno di disistima, sia direttamente rivolto ad una persona, oppure indirettamente mediante un apprezzamento 8 sulla sua parentela, i suoi amici, la sua nazione, o professione, od il suo nome.
la miseria della Da ciò appare chiaro come, durante il tempo in cui gli uomini sono sprovvisti di un potere 10 condizione comune che li tenga soggetti, essi si trovino in quella condizione che è chiamata guerra, e pre-statale
tale guerra è di ciascuno contro l’altro. Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia 12
292
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 1 Hobbes
od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico. Tutto l’altro tempo è pace. Tutto ciò dunque che è conseguente allo stato di guerra in cui ognuno è nemico dell’altro, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza all’infuori di quella che vien loro offerta dalla forza e dall’astuzia che sono in grado di sviluppare. In tale condizione non c’è posto per l’applicazione al lavoro perché il frutto di esso è incerto, e perciò non si coltiva la terra, non ci si dedica alla navigazione, né si fa uso di quelle cose utili che vengono importate per via di mare, non si costruiscono comodi edifici, né macchine per sollevare e trasportare oggetti che richiedono molta forza, non ci si applica a conoscere la superficie della terra, non si coltiva la storia, le arti, le lettere, i rapporti sociali, e ciò che è peggio si vive in uno stato di continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ripugnante, brutale e breve.
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una tesi Può sembrare strano a chi non abbia ben considerato queste cose, che la natura sia stata 30 comprovata capace di dividere così gli uomini e di renderli capaci di distruggere gli altri ed invadere le dall’esperienza
loro proprietà, e, di conseguenza, non riponendo alcuna fiducia in questa prova derivata dalle passioni, desidererà forse di averne la conferma dall’esperienza. Pensi egli dunque come, quando si mette in viaggio, prende con sé le armi e cerca di essere ben accompagnato; quando va a letto, chiude a chiave tutte le porte, ed anche quando è in casa chiude i suoi scrigni, e ciò pur sapendo che esistono leggi e pubblici ufficiali armati che hanno il compito di punire ogni ingiuria a lui arrecata. Nel fare ciò si renderà conto di quale sia l’opinione che ha del suo prossimo, quando viaggia armato; dei suoi vicini di casa, quando chiude a chiave le porte, e dei suoi stessi figli e servitori quando chiude i suoi scrigni. Non accusa egli forse con le sue azioni il genere umano allo stesso modo che io lo accuso con le mie parole? Ma né io né lui accusiamo la natura dell’uomo. I desideri e le altre passioni umane non sono in se stesse peccato, e nemmeno le azioni che scaturiscono da quelle passioni finché non si conosce una legge che le vieti, la qual legge non può essere conosciuta finché non viene formulata, né si può promulgare alcuna legge se non ci si mette d’accordo di eleggere la persona capace di far ciò. […]
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giustizia. Dove non c’è un potere comune non c’è legge, e dove non c’è legge non c’è ingiustizia. […] Deriva anche da quella condizione di guerra il fatto che non esiste proprietà, né concetto del dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma soltanto che ognuno si impadronisce di ciò che può, e per tanto tempo quanto è in grado di conservarlo. E ciò basti per quel che riguarda quella misera condizione nella quale l’uomo è posto dal semplice stato di natura, sebbene egli abbia la possibilità di uscirne, in parte servendosi delle passioni, in parte della ragione. (Leviatano, I, cap. XIII, a cura di P. Giammanco, utet, Torino 1955, pp. 158-162)
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TESTI HOBBES
Il legame tra Da questa guerra di ciascuno contro l’altro deriva anche questa conseguenza: che nulla 46 giustizia e può essere ingiusto: non vi è posto qui per i concetti di equo e non equo, di giustizia ed inlegge
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Le cause di conflitto tra gli individui (rr. 1-9) Tra gli esseri umani, secondo Hobbes, esiste un’originaria uguaglianza, ma in negativo. In primo luogo, tutti sono dominati dalle stesse passioni, qui ben concretizzate nella «competizione» (r. 1), nella «diffidenza» (rr. 1-2) e nella «gloria» (r. 2) come «cause di conflitto» (r. 1). In secondo luogo, sono portati ad affermare sé stessi, in vario modo, a scapito dei propri simili. Altrove Hobbes esprime questa medesima idea usando la celebre ed efficace formula homo homini lupus (“ogni uomo è un lupo per gli altri uomini”). La miseria della condizione pre-statale (rr. 10-29) La condizione inevitabile degli uomini, se non sono tenuti a freno da un potere sovra-individuale, o statale, è quella della guerra di tutti contro tutti («di ciascuno contro l’altro», r. 18). Che un conflitto reale sia o meno in corso è del tutto ininfluente nella definizione dello stato di natura come di uno stato di “guerra”, poiché tale condizione è caratterizzata da un atteggiamento incessante di ostilità e diffidenza reciproche. In questa condizione conflittuale, in cui ognuno può (e deve) fare affidamento soltanto sulla propria «forza» (r. 5) e sulla propria «astuzia» (r. 22), vengono trascurate le varie attività produttive e culturali, in un clima generale di paura per la propria vita.
Una tesi comprovata dall’esperienza (rr. 30-45) Chi stenti a credere alle crude parole di Hobbes viene invitato a pensare a tutte le precauzioni che, pur vivendo in una condizione di maggiore tutela rispetto allo stato di natura, prende per salvaguardare la propria incolumità e i propri averi. Con una precisazione importante, Hobbes richiama qui la sua concezione convenzionalistica del diritto e della morale, secondo cui le passioni e le azioni umane non sono né buone né cattive, né giuste né ingiuste, ma diventano tali soltanto in riferimento a una legge. Il legame tra giustizia e legge (rr. 46-54) Il convenzionalismo di Hobbes emerge ancora una volta con grande evidenza: nello stato di natura nulla può dirsi “giusto” o “ingiusto”, perché la giustizia e l’ingiustizia nascono soltanto dove ci sia una legge (cioè un potere legiferante) che le determini. Analogamente non esiste, nello stato di natura, la proprietà, poiché tutti possono ritenersi padroni di tutto. Le «passioni» (r. 33, cioè la paura di perdere la vita) e la «ragione» (r. 54, cioè il “calcolo” di ciò che è più conveniente) condurranno l’essere umano a superare la precarietà dello stato di natura.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Il neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti afferma quanto segue: «Se vedo una persona che afferra una bottiglia, [grazie ai neuroni specchio] colgo subito il suo gesto perché è già neurologicamente programmata in me la maniera in cui afferrarla. Si verifica una comprensione istantanea dell’altro, senza bisogno di mettere in gioco processi cognitivi superiori. In seguito abbiamo visto che la stessa cosa capita per le emozioni. […] Io ti capisco perché sei simile a me. Non deduco, ma sento. C’è un legame intimo, naturale e profondo tra gli esseri umani». Rizzolatti sembrerebbe sconfessare scientificamente la teoria hobbesiana di una naturale inimicizia tra gli individui: approfondisci questo spunto di riflessione e riporta la tua opinione personale in un testo scritto (max 25 righe), avvalorandola, se possibile, con esempi concreti.
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TESTO
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Le tre leggi di natura
(Leviatano)
Se da un lato descrive la natura umana come egoista, asociale e dominata dalle passioni, dall’altro Hobbes ritiene che gli individui siano portati ad ascoltare la ragione, la quale prescrive loro alcune norme finalizzate a una coesistenza pacifica. Si tratta di quelle che Hobbes chiama «leggi di natura», ammonendo a non confonderle con il «diritto naturale», cioè con quel diritto soggettivo illimitato (ius in omnia) che gli esseri umani detengono nello stato di natura. alcune Il diritto di natura, comunemente definito dagli scrittori come Ius Naturale, è la libertà che definizioni ciascuno possiede di usare il proprio potere nel senso che vuole, allo scopo di preservare 2 preliminari
la propria natura, cioè la sua vita, e conseguentemente di fare qualunque cosa che, secondo il giudizio e la ragione, gli sembra essere il mezzo più adatto a realizzare quel fine. Per libertà s’intende, secondo il più esatto significato della parola, l’assenza di impedimenti esterni, i quali possono spesso stornare una parte del potere dell’uomo dal fare ciò che egli si propone, ma non possono impedirgli completamente di usare il potere che gli rimane, seguendo i dettami del suo giudizio e della ragione. Legge di natura [Lex Naturalis] è un precetto o regola generale scoperta dalla ragione, a causa della quale è vietato all’uomo di far ciò che può distruggere la sua vita, o privarlo dei mezzi per conservarla, o tralasciare ciò mediante cui egli pensa di poterla meglio conservare. Infatti, sebbene coloro che trattano questo argomento siano abituati a confondere Diritto e Legge [Ius e Lex], tuttavia dovrebbero essere distinti, perché il diritto consiste nella libertà di agire o di non agire, laddove la legge codifica ed impone di fare una delle due cose, di modo che la legge ed il diritto differiscono allo stesso modo dell’obbligo e della libertà, che risultano inconsistenti se coesistono nella medesima situazione.
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la prima E dato che la condizione dell’uomo, come si è detto nel precedente capitolo, è uno stato di legge di natura guerra di ciascuno contro l’altro, nel qual caso ognuno è guidato dalla propria ragione e 18 20 22 24 26 28
la seconda Da questa fondamentale legge di natura che ordina agli uomini di sforzarsi di procurare la 30 legge di natura pace, deriva questa seconda legge; che ciascuno di buon grado, quando anche gli altri fan-
no ciò e per quanto crederà necessario alla propria pace e difesa, tralasci questo suo diritto sopra tutte le cose, e si contenti di usufruire, nei confronti degli altri, di tanta libertà quanta egli stesso concederebbe agli altri nei suoi confronti. Infatti fino a che ciascuno conserva questo diritto di fare ciò che gli piace, tutti gli uomini rimangono nello stato di guerra. Ma se gli altri non tralasceranno di usare di quel loro diritto così come lui, allora non c’è motivo che uno solo se ne privi, perché ciò vorrebbe dire esporsi come preda, alla qual cosa nessuno è tenuto, anziché porsi in un atteggiamento di pace. […]
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TESTI HOBBES
non esiste nulla di cui egli possa servirsi che non abbia un’utilità nel preservare la sua vita dalla minaccia dei nemici; da ciò deriva che, in una tale condizione, ciascuno ha diritto ad ogni cosa, anche alla persona fisica dell’altro. Dunque, finché esiste questo diritto naturale di ciascuno ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per nessuno, per quanto saggio o forte possa essere, di vivere per tutto quel tempo che la natura ordinariamente consente agli uomini. Di conseguenza è un precetto, o regola generale della ragione, che ciascuno debba sforzarsi di procurare la pace nella misura in cui ha speranza di ottenerla; e quando gli è impossibile realizzare ciò, deve cercare ed adoperare tutti gli espedienti e vantaggi della guerra. La prima proposizione di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura: cioè cercare la pace e conservarla. La seconda il principale dei diritti di natura: cioè difendersi con tutti i mezzi a disposizione.
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la terza legge Da quella legge di natura dalla quale siamo obbligati a trasferire quei diritti che se vengodi natura no conservati ostacolano la pace del genere umano, deriva la terza legge e cioè che gli uo- 40
mini debbono mantenere i patti da essi stipulati, senza di che i patti sarebbero vani e nient’altro che vuote parole, e continuando ad esistere il diritto di tutti a tutte le cose, gli 42 uomini si troverebbero ancora allo stato di guerra. (Leviatano, I, cap. XIV, cit., pp. 162-164 e 177)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Alcune definizioni preliminari (rr. 1-16) Compare qui la definizione del diritto di natura, che per Hobbes è la libertà, di cui ogni essere umano gode nello stato di natura, di adoperarsi nel modo che ritiene più conveniente per l’auto-conservazione. Il diritto naturale non va confuso con la legge di natura, di cui Hobbes fornirà la definizione poco oltre. Per comprendere meglio il discorso sul diritto e sulla legge naturali, Hobbes fornisce la definizione della libertà. Non ammettendo il libero arbitrio (cioè la libertà del volere), il filosofo non può che concepire la libertà come «assenza di impedimenti esterni» (rr. 5-6) alla realizzazione del fine che ci si prefigge. Si noti che tali impedimenti esterni possono limitare, ma non annullare il potere di azione di un individuo. Diversamente dal diritto di natura, che consiste, in ultima analisi, in una libertà illimitata, la legge di natura è una vera e propria prescrizione («precetto o regola generale», r. 9) dettata dalla ragione, la quale ordina all’individuo di non fare ciò che può nuocere alla sua sopravvivenza, e di fare ciò che invece può giovare a essa. La prima legge di natura (rr. 17-29) Nello stato di natura, in cui ognuno può esercitare il proprio diritto (ius naturale) su tutto, vige ovviamente uno stato di
«guerra di ciascuno contro l’altro» (r. 46): è in una tale tragica situazione che interviene la ragione, prescrivendo (come si è visto) che si faccia di tutto per preservare la propria vita. Questa «regola generale» (r. 24) si specifica in tre precetti altrettanto generali, il primo dei quali comanda all’essere umano di ricercare la pace («prima proposizione», r. 27) e, nel caso in cui la pace non sia realizzabile, di difendersi con qualunque mezzo possibile («seconda [proposizione]», r. 28). La seconda legge di natura (rr. 30-38) Connessa alla prima è la seconda legge di natura, che ordina a ciascuno di rinunciare a parte del suo originario diritto su tutte le cose, in cambio del medesimo impegno da parte di tutti gli altri. Con questo secondo precetto, la ragione suggerisce cioè di non pretendere una libertà illimitata, ma di accontentarsi di una libertà uguale a quella che si concede agli altri nei propri confronti. Condizione imprescindibile per l’attuazione di questa legge è ovviamente la reciprocità. La terza legge di natura (rr. 39-43) In base alla terza legge di natura (che discende in modo diretto dalla seconda) gli individui sono tenuti a rispettare i patti che stipulano; in caso contrario, si riaffermerebbe il diritto di tutti su tutto e l’umanità ritornerebbe allo stato di guerra.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Hobbes, in base al suo determinismo, esclude il libero arbitrio e afferma che la libertà è «assenza di impedimenti esterni» (rr. 5-6). Riporta in un testo scritto (max 25 righe) il tuo parere personale in merito a questa affermazione, argomentandolo adeguatamente.
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la fondazione dello stato
AUDIOLETTURA
TESTO
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La geometria politica hobbesiana trova la sua logica conclusione nella “deduzione” della fondazione dello Stato. Dopo che la ragione ha calcolato quello che più conviene per emanciparsi dall’infelice condizione dello stato di natura, dettando le leggi naturali, gli esseri umani non possono che scegliere la via di un grande accordo, di un patto mediante il quale trasferiscono il proprio ius in omnia ad un’autorità sovra-individuale.
Lo Stato come «dio mortale» (Leviatano) Nella prospettiva hobbesiana, il “contratto” che dà vita allo Stato non è semplicemente un patto “di unione” che lega tra loro una molteplicità di individui, ma anche (e soprattutto) un patto “di sottomissione”, stipulato da tale molteplicità di individui nei confronti di un’autorità sovra-individuale esclusa dal patto stesso e, dunque, dotata di un potere illimitato.
Il patto sociale Il solo modo per dar vita alla costituzione di un potere comune capace di difendere gli uo-
mini dalle invasioni degli altri popoli e dalle reciproche ingiurie, ed insomma di garantire la loro sicurezza in modo che con la propria attività e con i prodotti della terra essi possano nutrirsi e vivere comodamente, consiste nell’investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria forza un uomo o un’assemblea di uomini che sia in grado di ridurre tutte le varie opinioni, per mezzo della pluralità dei voti, ad una sola volontà; il che è come dire di dare incarico ad un uomo o ad un’assemblea di uomini di rappresentare la persona dei singoli cittadini e riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso, come l’autore di qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a rappresentarli farà o farà in modo che venga fatta, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, ed in questo ridurre le proprie volontà ciascuno alla volontà di lui, ed i loro giudizi al giudizio di esso. Ciò è più di un consenso o di un accordo; è una concreta unità di tutti i componenti dello Stato in una sola e medesima persona, resa possibile da un patto di ciascuno con l’altro, come se uno di essi dicesse all’altro: «Do autorizzazione e trasferisco il mio diritto di governare me stesso a questo uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che anche tu ceda il tuo diritto a lui e nello stesso modo ne autorizzi tutte le azioni». Quando si è fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona è chiamata uno Stato, in latino Civitas.
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Il leviatano Questa è la fondazione di quel grande Leviatano o piuttosto, per parlare con più reveren- 18
(Leviatano, II, cap. XVII, cit., pp. 209-210)
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TESTI HOBBES
za, di quel dio mortale a cui, al disotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace e difesa. Infatti, attraverso questa autorità di cui è stato investito da ogni singolo individuo nello Stato, esso è in grado di usare tanto potere e tanta forza che gli è stata conferita, sì da piegare col terrore le volontà di tutti e fare in modo da rivolgerle al mantenimento della pace interna ed all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso è l’essenza dello Stato, che può essere definito come una persona dei cui atti una moltitudine, attraverso reciproco accordo, si è fatta autore, in modo che quella persona che riassume le loro volontà possa usare la forza e le risorse di tutti i componenti per garantire la comune pace e difesa.
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il patto sociale (rr. 1-17) Nella concezione contrattualistica di Hobbes, la costituzione di un potere capace di eliminare gli inconvenienti dello stato di natura è possibile soltanto se tutti gli esseri umani rinunciano al loro originario diritto su tutto, per conferirlo a una sola persona (o a una sola assemblea di persone). Espressione di un patto stretto da tutti i cittadini, la volontà di chi detiene questo nuovo potere sovra-individuale sarà, in un certo senso, la volontà stessa dei singoli. A fondamento dello Stato c’è un pactum unionis (un «consenso» o un «accordo», rr. 11-12) fra tutti i cittadini, con il quale essi si impegnano vicendevolmente a deporre lo ius in omnia di cui godono nello stato di natura. Ma nello stesso tempo c’è un pactum subiectionis, ovvero un atto di sottomissione piena, mediante il quale i singoli trasferiscono tutti i loro poteri a un unico uomo o ad un’unica assemblea. Lo Stato è quindi concepito da Hobbes come «una sola persona» (r. 17),
nella quale si riassumono tutte le altre persone: non a caso, il frontespizio del Leviatano riportava la raffigurazione di un gigantesco individuo, formato dalle teste di molteplici altri individui. Il Leviatano (rr. 18-27) Paragonando lo Stato a Leviathan, il mostro spaventoso nominato nelle Scritture, e subito dopo definendolo «dio mortale» (r. 19), Hobbes non potrebbe esprimere più efficacemente la sua prospettiva assolutistica. Se è vero che nello stato di natura gli esseri umani vivono come bestie feroci, ne deriva che lo Stato dovrà avere un potere non limitato o moderato, bensì illimitato, poiché soltanto in questo modo potrà imporsi a tutti con il terrore, al fine di garantire la pace e la difesa della nazione. Del resto, ribadisce ancora una volta il filosofo inglese, come potrebbe il potere dello Stato essere limitato, dal momento che «riassume» (r. 25) in sé le volontà di tutti i cittadini?
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Una descrizione suggestiva del Leviatano viene offerta nel libro biblico di Giobbe: «Dalla sua bocca partono vampate, / sprizzano scintille di fuoco. / Dalle sue narici esce fumo / come da caldaia, che bolle sul fuoco. / Il suo fiato incendia carboni / e dalla bocca gli escono fiamme. / Nel suo collo risiede la forza / e innanzi a lui corre la paura. / […] / Il suo cuore è duro come pietra, / duro come la pietra inferiore della macina. / Quando si alza, si spaventano i forti / e per il terrore restano smarriti. / La spada che lo raggiunge non vi si infigge, / né lancia, né freccia né giavellotto; / stima il ferro come paglia, / il bronzo come legno tarlato. / […] / Nessuno sulla terra è pari a lui, / fatto per non aver paura. / Lo teme ogni essere più altero; / egli è il re su tutte le fiere più superbe» (Giobbe, 41, 11-26). In un testo scritto (max 30 righe) prova a stabilire un parallelismo fra il mostro biblico e il sovrano hobbesiano, individuando le ragioni per cui, secondo te, il filosofo inglese si è servito dell’immagine del Leviatano per esprimere l’essenza dello Stato.
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CAPITOLO 2 LOCKE
Quando i nostri sensi si pongono in relazione con oggetti sensibili particolari, introducono nella mente molte percezioni distinte delle cose. ( John Locke, Saggio sull’intelletto umano, II, I, 3)
Il filosofo inglese John Locke è il primo a indicare il compito specifico della filosofia nell’individuazione delle reali possibilità e dei limiti della ragione. Questa impostazione critica comporta una sorta di capovolgimento del punto di vista cartesiano: anziché partire dalla sostanza spirituale e dai princìpi universali e assoluti della conoscenza, Locke parte infatti da un’indagine psicologica sul funzionamento della mente umana, e quindi dall’analisi dei suoi “oggetti”: le idee. Su questi presupposti egli costruisce un sistema che individua il fondamento di ogni sapere valido nell’esperienza, ponendosi come il fondatore dell’empirismo seicentesco.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Un’esistenza tra filosofia e militanza politica
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Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione. (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 10, comma 1)
Un “padre” dello Stato liberale
Nel riquadro a fianco è riportato il primo comma dell’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata solennemente a Nizza il 7 dicembre 2000. A indurre l’Europa, entrata ormai nel terzo millennio, a cercare di tutelare la «libertà di pensiero, di coscienza e di religione» è stata la sua negazione da parte di regimi autoritari che in passato (e in particolare nel Novecento) l’hanno ignorata e calpestata. Il primo europeo a rivendicare pubblicamente ed esplicitamente la libertà quale inviolabile diritto di tutti gli esseri umani è stato però, quattro secoli prima, il filosofo inglese John Locke. Osservatore diretto e protagonista di primo piano delle tappe più importanti della storia del suo Paese (dalla “prima rivoluzione” alla nascita della monarchia costituzionale), Locke ha fatto della sua vita una lotta instancabile per difendere la libertà dei singoli dalle prevaricazioni del potere e si è imposto come uno degli artefici di quella prima forma di governo liberale e costituzionale di cui tutti i moderni Stati dell’Occidente sono in qualche modo “figli”.
La giovinezza e gli studi
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di LOCKE
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Nato il 29 agosto 1632 a Wrington, vicino a Bristol, Locke vive la sua giovinezza in un periodo turbinoso della storia dell’Inghilterra, segnato dalla guerra civile (1642-1651) e dalla decapitazione del re Carlo I Stuart (1649). All’età di quindici anni, ovvero in pieno conflitto, lascia la cittadina natale per frequentare la scuola londinese di Westminster, il cui rettore, Richard Busby (1606-1695), era famoso per l’asprezza del metodo pedagogico applicato e per il fanatismo con cui sosteneva il progetto assolutista di Carlo I. Il 30 gennaio 1649, giorno della decapitazione del sovrano, Busby fa mettere i suoi allievi in ginocchio, obbligandoli a pregare per il condannato. Il giovane Locke, il cui padre è capitano nell’esercito che si oppone alla monarchia, vive questa esperienza con angoscia. Mentre l’Inghilterra continua a essere lacerata dalla guerra civile, John prosegue la propria formazione: studia greco, latino ed ebraico, e nel 1652 riceve per merito una borsa di studio presso il Christ Church College di Oxford, dove inizia ad approfondire la filosofia con entusiasmo e slancio. Ben presto, però, si ritrova deluso dall’impostazione scolastica e aristotelica dei suoi maestri, che favoriscono un apprendimento mnemonico, ripetitivo e privo di spirito critico. Conserverà un brutto ricordo soprattutto delle dispute pubbliche a cui gli universitari sono costretti a partecipare: esse gli paiono più un’occasione per ostentare un verbalismo capzioso, che uno strumento volto alla ricerca della verità. È invece attratto dalle opere di Cartesio e di Hobbes, e studia con passione le materie scientifiche: matematica, astronomia, chimica e, soprattutto, medicina. Locke conclude la sua formazione presso il Christ Church College nel 1658 (anno della morte di Oliver Cromwell p. 273) e, conseguito il grado di maestro delle arti (paragonabile alla nostra laurea), è subito chiamato a insegnare in quella stessa Università. Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume iL RACCOntO Di UnA VitA
Le prime riflessioni sulla tolleranza Appena due anni dopo la morte di Cromwell, in Inghilterra viene restaurata la monarchia (1660) e il Paese è percorso da un’ondata di fanatismo politico-religioso che scuote l’animo del giovane filosofo, il quale tuttavia preferisce tenersi lontano dalla contesa politica. La scelta di non imbracciare le armi non deriva da vigliaccheria, ma dal non sapere con chi schierarsi, come lo stesso Locke spiega in una lettera al padre:
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In questo tempo in cui non c’è altra sicurezza contro le passioni e le vendette degli uomini se non quella che la forza e il ferro procurano, ho a lungo pensato che la più sicura condizione fosse quella di prendere le armi, cosa che avrei fatto se avessi potuto risolvere il dilemma sotto quale insegna arruolarmi e per quale partito usare quelle armi […]. (Lettera al padre, 9 gennaio 1660, cit. in M. Sina, Introduzione a Locke, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 7-8)
A partire da questo momento, tutta la riflessione filosofica e politica di Locke trarrà alimento dalle concrete vicende storiche. Il passaggio dal protettorato di Cromwell (calvinista puritano) alla monarchia di Carlo II Stuart (anglicano filo-cattolico) apre infatti un periodo di sopraffazioni settarie e fanatiche, che vengono perpetrate in nome di una pretesa verità religiosa: questi eventi accendono nell’animo del giovane Locke un desiderio di pace e di concordia religiosa sempre maggiore, e lo inducono a riflettere sulla questione della tolleranza, cioè su quali siano le condizioni giuridiche e politiche che rendono possibile la coesistenza di diverse confessioni religiose all’interno di uno Stato ( “Dalla vita al pensiero”, p. 302).
La “scoperta” della politica e la costruzione della dottrina liberale L’incontro con Shaftesbury Dopo un breve soggiorno nel ducato di Clèves, in territorio olandese, nel 1666 Locke rientra a Oxford, dove approfondisce gli studi naturali e di medicina anche grazie alla frequentazione di amici come il celebre chimico e fisico Robert Boyle e il medico David Thomas. Sebbene in questi ambiti non abbia mai conseguito il titolo di dottore, viene chiamato “dottor Locke”. Al 1666 risale anche un incontro che si rivelerà fondamentale per la vita del filosofo: quello con lord Anthony Ashley Cooper (1621-1683), che pochi anni dopo (1672) diventerà il primo conte di Shaftesbury e che ricopre importanti incarichi politici. L’anno successivo, all’età di trentacinque anni, Locke si stabilisce a Londra presso Exeter House, l’abitazione di lord Anthony, nel ruolo di suo medico personale, nonché di precettore del figlio Anthony junior. Ben presto, tuttavia, diventa il segretario del futuro conte, che lo incoraggia a occuparsi di problemi politici, per poter giocare un ruolo attivo nella vita pubblica inglese. Ne dà testimonianza il primo biografo di Locke, l’amico e teologo calvinista Jean Leclerc (1657-1736), che nell’Elogio del defunto Signor Locke (1705) sottolinea l’ammirazione di lord Anthony per il filosofo, nonché l’importanza del loro incontro:
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Concepì tanta stima per Locke, che da allora considerò la sua abilità medica, che pure Locke aveva dimostrato così grande, solo come la più piccola delle sue qualità. Lo esortò ad interessarsi di altro […]. Volle che egli si applicasse piuttosto allo studio dei problemi che riguardavano lo Stato e la Chiesa di Inghilterra […]. (Johannes Clericus, Elogio del defunto Signor Locke, in J. Locke, Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Sina, Rusconi, Milano 1979, p. 121)
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La nuova prospettiva politica e gli studi sulla conoscenza Politicamente, lord Anthony è favorevole a una pacificazione tra la Chiesa anglicana e le confessioni (perlopiù calviniste) dissenzienti, e sostiene il partito del Parlamento contro quello della Corona, di tendenza conservatrice e filo-cattolica. Anche sotto l’influenza dell’atteggiamento liberale del suo amico e protettore, Locke matura nuove idee sulla tolleranza e sul rapporto tra potere politico e libertà religiosa, rivedendo la posizione che aveva assunto negli scritti del 1660-1662. Al formarsi di tali nuove convinzioni aveva contribuito anche il soggiorno del 1665-1666 a Clèves, dove Locke aveva potuto constatare che la pacifica convivenza tra calvinisti, luterani e cattolici era possibile, e che la diversità delle fedi e dei culti non compromette di per sé la pace e il benessere dello Stato. Nel 1667 queste esperienze – unitamente all’orientamento autoritario e repressivo assunto nel frattempo dalla monarchia restaurata – confluiscono nel Saggio sulla tolleranza, in cui Locke nega il diritto di intervento dell’autorità civile nelle questioni di fede e riconosce che le opinioni religiose e gli atti di culto «godono di un diritto alla tolleranza assoluto ed universale» ( “Dalla vita al pensiero”). Nel 1668 Locke diventa membro della Royal Society e pochi anni dopo (1671), in seguito agli incontri con alcuni amici intellettuali avvenuti presso Exeter House, decide di affrontare
enciclosofia Royal Society Società scientifica fondata a Londra nel 1660, sotto il patrocinio di Carlo II, con lo scopo di favorire lo sviluppo delle discipline fisico-matematiche. Oltre a un periodico informativo sullo stato della ricerca scientifica (Philosophical Transactions), la Royal Society pubblicò numerosi nuovi studi (celebre il caso dei Principia mathematica di Newton, usciti nel 1687) e finanziò la realizzazione di esperimenti e collezioni (molte delle quali confluirono al British Museum).
La riflessione di Locke sulla tolleranza DALLA VITA AL PENSIERO
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La prima fase: Locke conservatore Locke comincia a riflettere sul tema della tolleranza durante il regime di Oliver Cromwell (1653-1658) e nel periodo di anarchia che segue alla sua morte (16581660). In questi anni il giovane filosofo ritiene che i fautori della libertà religiosa, del pluralismo confessionale e della tolleranza rappresentino una minaccia per la stabilità del potere statale e, di conseguenza, per la pace. La drammatica situazione politica che il suo Paese sta vivendo gli fa apparire come prioritaria l’esigenza dell’ordine e della sicurezza, più che quella della libertà dei cittadini. È in questo periodo che Locke, pur ritenendo che la fede debba rispondere a una libera scelta di ciascuno, scrive due brevi trattati Sul potere del magistrato civile in materia di culto religioso (16601662), nei quali afferma che lo Stato ha il diritto, per mantenere l’ordine e la pace, di intervenire nelle questioni religiose, poiché spesso le «pretese della coscienza» di scegliere in libertà la propria
religione sono all’origine del proliferare di sette animate da cieco fanatismo: Se questa parte della libertà […] fosse generalmente concessa in Inghilterra, essa darebbe prova d’essere soltanto una libertà per la contesa, per la critica e per la persecuzione, e ci farebbe trovare disponibili alla tirannia di una furia religiosa. (Primo trattato sul potere del magistrato civile, in Scritti editi e inediti sulla tolleranza, a cura di C.A. Viano, Taylor, Torino 1961, p. 154)
La seconda fase: Locke liberale Con la restaurazione della monarchia (1660), il nuovo sovrano Carlo II (figlio del re decapitato Carlo I) promette l’amnistia per i rivoluzionari e il rispetto dei diritti rivendicati dal Parlamento e delle libertà individuali. Tuttavia, la Corona inglese disattende ben presto queste promesse, attuando una politica duramente repressiva nei confronti dei dissidenti e delle minoranze religiose, in particolare puritane. Con il Corporation Act (1661), ad esempio, viene imposta la professione di
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in modo organico l’analisi delle condizioni e dei limiti della conoscenza umana. Il progetto confluirà in un Saggio sull’intelletto umano che sarà terminato e pubblicato soltanto vent’anni dopo. Nel 1672 Anthony Ashley Cooper viene nominato conte di Shaftesbury e Lord Cancelliere, e a sua volta propone Locke come segretario di una commissione per gli affari commerciali. Nonostante la salute cagionevole, il filosofo accetta l’incarico, cominciando a partecipare in prima persona alla politica inglese.
Il soggiorno in Francia e la messa a punto della dottrina politica Nel 1674 Shaftesbury cade in disgrazia presso il re Carlo II ed è rimosso dal suo incarico. Locke si ritira allora a Oxford e poi (nel 1675) in Francia, dove vive per circa quattro anni soggiornando soprattutto a Montpellier e a Parigi, e dedicandosi al completamento e alla revisione del Saggio sull’intelletto umano. Locke rientra a Londra verso la fine del 1679 per essere di nuovo vicino a Shaftesbury, il quale nel frattempo è ritornato al potere come presidente del Consiglio del re. In questo periodo la dottrina lockeana dello Stato si delinea con maggiore precisione e il filosofo comincia a comporre la sua opera politica maggiore: i Due trattati sul governo. Il testo è anche una risposta a un libro uscito l’anno precedente: Il patriarca, ovvero il potere naturale dei re di Robert Filmer (1588-1653), in cui l’autore (morto ormai ventisette anni prima) difendeva l’assolutismo monarchico e affermava l’origine divina del potere dei sovrani. Contro questa tesi, Locke sostiene invece che il potere del re deriva dal popolo, in virtù di un «contratto» che, se da una parte limita la libertà dei singoli, dall’altra limita le possibilità di intervento dello Stato, nato proprio per tutelare la sicurezza e la libertà dei cittadini.
fede anglicana a coloro che rivestono cariche pubbliche, e con l’Act of Uniformity (1662) il rito anglicano diventa l’unico culto pubblico ammesso. Questa involuzione autoritaria della monarchia inglese contribuisce a indurre Locke a rivedere le precedenti riflessioni sulla questione della tolleranza e ad affermare l’esistenza di alcuni diritti “naturali” e “inalienabili” dell’individuo, che lo Stato deve riconoscere e tutelare, e che quindi costituiscono un limite al suo operato. Tra i diritti non negoziabili individuati da Locke c’è ovviamente la libertà di scegliere e di professare pubblicamente la propria fede. Nel Saggio sulla tolleranza (1667) egli osserva che lo Stato non può intromettersi nelle questioni che «si svolgono interamente tra Dio e me stesso», poiché esso è «arbitro tra uomo e uomo e null’altro», e pertanto «può farmi giustizia contro il mio prossimo, ma non può difendermi contro il mio Dio». Neppure l’esigenza della pace e della sicurezza può essere invocata a sostegno di una limitazione della libertà religiosa, dal
momento che la fede è questione interiore di ogni singolo, e non è possibile che «gli uomini conferiscano al magistrato [cioè all’autorità civile] il potere di scegliere per conto loro la via della salvezza, che è potere troppo grande perché possa essere ceduto».
Due vie per un unico obiettivo Sulla questione della tolleranza religiosa, nel corso della sua vita Locke difende dunque due opposte prospettive, la seconda delle quali, tuttavia, risponde alla stessa esigenza a cui rispondeva la prima: assicurare ai cittadini una convivenza ordinata e pacifica, scongiurando il dramma delle guerre di religione. Ciò che cambia è la via suggerita per conseguire questo risultato: mentre negli anni giovanili il filosofo individua la condizione dell’ordine e della pace nel rafforzamento dell’autorità dello Stato, in seguito la indica nella tolleranza, convinto che a nuocere alla concordia tra i cittadini non sia tanto la pluralità delle opinioni religiose e delle forme di culto, quanto il tentativo dell’autorità civile di imporne una a danno di altre.
303
L’esilio in Olanda e la definizione del principio della tolleranza Sono anni turbolenti per la vita politica dell’Inghilterra e le oscillazioni della monarchia si riflettono nelle alterne fortune di Shaftesbury, che nel 1682 è accusato di alto tradimento: il lord viene prima imprigionato nella Torre di Londra e poi costretto a fuggire in Olanda, dove morirà nel 1683. Nonostante il suo contegno prudente, anche Locke cade in sospetto presso i regnanti e nel 1682 lascia Londra per trasferirsi prima a Oxford e poi, nel 1683, anch’egli in Olanda, dove vivrà per più di cinque anni sotto la falsa identità di un tale “dottor Van der Linden”, dedicandosi alla stesura definitiva delle sue opere principali, il Saggio sull’intelletto umano e i Due trattati sul governo. In Olanda Locke assiste alle lotte fra l’ala intransigente dei calvinisti, ovvero i seguaci del teologo Franz Gomar, detti “gomaristi”, e i cosiddetti “rimostranti”, chiamati anche “arminiani” perché seguaci di Jacob Harmenszoon, o Arminio, discriminati per le loro idee teologiche e fautori del pluralismo religioso. In particolare, Locke stringe amicizia con il leader dei rimostranti, il teologo Philipp van Limborch (1633-1712), che nel 1685 lo convince a rimettere per scritto i pensieri che circa vent’anni prima il filosofo aveva raccolto nel Saggio sulla tolleranza. Così, grazie al contatto con l’ambiente teologico olandese – e in particolare grazie alle lunghe e profonde discussioni con Limborch – Locke perviene a una definitiva fondazione razionale del principio della tolleranza religiosa. enciclosofia rimostranti I seguaci di Arminio, così detti perché nel 1610 indirizzarono agli Stati d’Olanda una “Rimostranza” contro la proibizione delle proprie dottrine teologiche. Condannati in un primo momento dai vescovi calvinisti, nel 1630 ottennero il permesso ufficiale di praticare il proprio culto, anche se, di fatto, i conflitti con i calvinisti ortodossi non si placarono completamente.
1630
1640
1650
1642
EVENTI STORICI
1660
1648 1649
1653
1660
In Inghilterra inizia Pace di Westfalia: Carlo I Stuart Cromwell sale la guerra civile fine della Guerra è decapitato al potere dei trent’anni
VITA DI LOCKE
1632
1652
Nasce a Wrington
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
304
1633 Processo e abiura di Galilei
Intraprende gli studi universitari a Oxford
1637
1641
1644
Descartes: Descartes: Torricelli dimostra Discorso Meditazioni 1642 l’esistenza del vuoto sul metodo metafisiche Hobbes: De cive
1635
1642
Corneille: Medea
Rembrandt: Ronda di notte
1651 Hobbes: Leviatano
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume iL RACCOntO Di UnA VitA
Viene restaurata la monarchia con Carlo II Stuart
1658 1660-1662 Comincia a insegnare presso l’Università di Oxford
Due trattati Sul potere del magistrato civile in materia di culto religioso
Il ritorno in patria Dal suo esilio olandese Locke partecipa alla preparazione di quella che passerà alla storia come “Gloriosa rivoluzione”, che nel 1688 porta all’ascesa sul trono inglese di Guglielmo III d’Orange e alla successiva nascita di una monarchia costituzionale. Nel 1689 il filosofo ritorna in patria al seguito della moglie del sovrano, la principessa Maria II Stuart, e in quello stesso anno, a sua insaputa, Limborch pubblica in latino la Lettera sulla tolleranza (Epistola de tolerantia). Tradotta in inglese (A Letter concerning Toleration) e pubblicata a Londra nel 1690 con l’aggiunta di una prefazione al lettore, l’opera suscita notevole scalpore. In quello stesso anno, infatti, in Inghilterra viene promulgato l’Act of Toleration (“Atto di tolleranza”), che sancisce la libertà religiosa per tutte le minoranze tranne i cattolici (i cosiddetti “papisti”) e i sociniani (seguaci dei teologi italiani Lelio e Fausto Socini, detti anche “unitari” perché contestavano il dogma della Trinità). La versione inglese del testo di Locke viene dunque accolta come una sorta di grido di protesta levato in difesa dei cattolici e dei sociniani, risentiti per essere stati esclusi dall’Atto di tolleranza. enciclosofia Gloriosa rivoluzione Così è chiamata la seconda rivoluzione inglese (1688-1689), che senza spargimenti di sangue (da cui l’aggettivo “Gloriosa”) trasformò la monarchia da assoluta in costituzionale. Prese avvio con la morte di Carlo II (1685) e con la successiva salita al trono di suo fratello minore, Giacomo II, che, apertamente cattolico e di spiccate tendenze assolutistiche, indusse l’ala progressista del Parlamento a invocare l’intervento di Guglielmo III d’Orange (marito della primogenita di Giacomo, Maria II Stuart). Guglielmo accettò di guidare una spedizione in Inghilterra, di fronte alla quale Giacomo preferì fuggire in Francia, lasciando la corona al genero.
1670
1680
Godfrey Kneller, Ritratto di Guglielmo III, 1680 ca., Edimburgo, Scottish National Gallery.
1690
1685
1700
1690
Luigi XIV re di Francia revoca l’editto di Nantes
Inizia il regno dello zar Pietro 1688 il Grande Seconda rivoluzione inglese: deposto Giacomo II, sale al potere Guglielmo III d’Orange
1668
1672-1674
1679
Entra nella Royal Society
Incarichi politici su nomina di Shaftesbury
Con Shaftesbury nuovamente al potere, ritorna a Londra
1667 Si stabilisce a Londra presso lord Anthony Ashley Cooper
Dopo la fuga di Shaftesbury ripara a Oxford e poi in Olanda
1701
In Inghilterra abolita la censura sulla stampa
Scoppia la guerra di successione spagnola
1689 1691
1704
Ritorna a Si trasferisce Londra ad Oates, 1695-1697 presso sir Ragionevolezza Masham del cristianesimo
Muore a Oates, assistito da Lady Masham
1675
1690
Caduto Shaftesbury in disgrazia, si ritira in Francia
Saggio sull’intelletto umano; Lettera sulla tolleranza; Due trattati sul governo (anonimi)
1669 1670
1677
Pascal: Spinoza: Trattato Pensieri teologico-politico (postumi)
1667 Milton: Il paradiso perduto
1682-1683
1695
1704
Spinoza: Etica (postuma)
1677 Racine: Fedra
1673 Molière: Il malato immaginario
Leibniz: Nuovi saggi sull’intelletto umano
1689 Purcell: Didone ed Enea
1697 ca. 1699 Fischer von Erlach Fénelon: Le avventure progetta il castello di di Telemaco Schönbrunn a Vienna
305
Alle obiezioni suscitate dal suo scritto Locke risponderà con una Second Letter concerning Toleration (1690), con una Third Letter (1693) e, infine, con una Fourth Letter, interrotta dalla morte dell’autore e pubblicata postuma nel 1706. In questi anni la fama e l’autorità di Locke sono grandissime, poiché in lui si vede il difensore filosofico del nuovo regime liberale. La sua attività letteraria si intensifica: oltre al Saggio sull’intelletto umano (dato alle stampe nel 1689 con la data del 1690 e subito salutato da un grande successo), nel 1690 escono a Londra, anonimi, i Due trattati sul governo, che offrono una giustificazione teorica della rivoluzione e della monarchia costituzionale. Composti nell’arco dei dieci anni precedenti, questi testi vengono adattati da Locke alla nuova situazione politica e corredati di un’apposita prefazione, nella quale si legge:
‘
Queste pagine spero che bastino a stabilire il trono del nostro grande rinnovatore e attuale re Guglielmo, a fondare la validità del suo titolo sul consenso del popolo, che è l’unico titolo di tutti i governi legittimi […], e a giustificare di fronte al mondo il popolo inglese, il cui amore per i propri giusti e naturali diritti, unitamente alla decisione di conservarli, ha salvato la nazione quando già si era sul punto di precipitare nella schiavitù e nella rovina. (Due trattati sul governo, “Prefazione”, a cura di L. Pareyson, utet, Torino 1960, p. 63)
Gli ultimi anni Nel 1691 Locke accetta l’ospitalità di sir Francis Masham (1646-1723) presso il castello di Oates (nella contea dell’Essex), a circa venti miglia da Londra. Lì trascorre i suoi ultimi anni, circondato dalle amorose cure di lady Masham e continuando a scrivere. Le prime opere composte da Locke in casa Masham sono i saggi Sulla condotta dell’intelletto e Un esame di Malebranche, che usciranno postumi. Nel 1693 sono pubblicati i Pensieri sull’educazione, in cui si trovano i capisaldi di una teoria pedagogica che, sebbene si concentri soprattutto sulla formazione dei giovani delle classi medio-alte, sottolinea l’importanza di un’istruzione per tutti e di un ruolo attivo dell’allievo nel processo d’apprendimento. Risale invece al 1695 la prima edizione della Ragionevolezza del cristianesimo, e al 1697 la seconda edizione, in cui Locke risponde alle critiche del teologo anglicano Edward Stillingfleet. A partire dal 1700, dimessosi dalle cariche pubbliche per la salute malferma, Locke continua ad occuparsi soprattutto di teologia ed esegesi biblica, e compone alcune Parafrasi e Note alle Lettere di san Paolo, che saranno pubblicate postume. Muore il 28 ottobre 1704.
enciclosofia lady Masham Damaris Cudworth (1659-1708), figlia del teologo e filosofo neoplatonico Ralph Cudworth e autrice anch’ella di alcuni scritti filosofici. A ventisei anni sposò il baronetto Francis Masham e si trasferì nel suo castello di Oates, dove proseguì i suoi studi confrontandosi per via diretta o epistolare con i maggiori pensatori del tempo, tra cui Locke (ospite nel castello dal 1791) e Newton.
Edward Stillingfleet (1635-1699) Teologo anglicano protagonista di una notevole carriera ecclesiastica, che lo portò a diventare cappellano regio a Londra e, dal 1689, vescovo di Worcester. Difese la dottrina cristiana contro i possibili sviluppi scettici o atei del pensiero scientifico e filosofico. Tra il 1695 e il 1697 polemizzò con Locke in difesa del dogma trinitario.
306
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume iL RACCOntO Di UnA VitA
1. I tratti generali dell’empirismo Una lunga tradizione vede in Locke il fondatore dell’empirismo inglese, ossia di una corrente della filosofia moderna che si sviluppa in Inghilterra a cavallo tra Seicento e Settecento, e che per alcuni aspetti anticipa l’atmosfera illuministica ( unità 5). Sul piano storico, l’empirismo seicentesco si innesta sulla tradizione inglese che va da le matrici Ruggero Bacone a Guglielmo di Ockham, a Francesco Bacone, e rappresenta un punto di storicoculturali incontro di questa stessa tradizione con il cartesianesimo (da cui desume concetti e terminologia) e con la rivoluzione scientifica (da cui ricava l’appello all’esperienza e una nuova metodologia del sapere). Filosoficamente parlando, rispetto al razionalismo l’empirismo inglese è caratterizzato la concezione dalla concezione della ragione come facoltà i cui poteri sono limitati dall’esperienza. dell’esperienza Quest’ultima, poi, è intesa in due modi principali, ovvero come origine del processo conoscitivo e come criterio di verità o strumento di certificazione delle tesi dell’intelletto, le quali risultano valide soltanto se sono suscettibili di controllo empirico. Mentre il primo aspetto riconnette l’empirismo a tutta la tradizione anti-innatistica della filosofia occidentale (a cominciare da Aristotele), il secondo aspetto è il carattere più originale e decisivo dell’empirismo moderno: aspetto che, pur essendo presente in Locke, sarà fatto valere in tutta la sua forza e coerenza soltanto da Hume ( cap. 4). Il richiamo all’esperienza fa sì che l’empirismo, in antitesi al razionalismo, tenda ad assu- la tendenza mere un atteggiamento critico nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo e a critica e anti-metafisica seguire un indirizzo anti-metafisico, che esclude dalla filosofia e dalla scienza i problemi riguardanti realtà che non sono accessibili agli strumenti mentali (finiti) dell’essere umano.
2. l’analisi critica della ragione Nel 1687 Newton pubblica i Princìpi matematici di filosofia naturale, e nel 1690 compare a Londra il Saggio sull’intelletto umano di Locke. Queste due opere definirono profondamente il periodo storico in cui apparvero e costituirono un punto di riferimento fondamentale anche per il secolo successivo. Il comune orientamento che lega il pensiero di Newton e quello di Locke è ben espresso da una frase dell’illuminista francese Voltaire (1694-1778 unità 5, cap. 3): «La filosofia è Newton, e Locke è il suo profeta». La filosofia di Locke rappresenta infatti, da un lato, la giustificazione dei procedimenti scientifici che avevano permesso a Newton le sue scoperte e, dall’altro lato, la rielaborazione originale dei nuovi ideali politici e religiosi scaturiti dalla Rivoluzione inglese. Per Locke la ragione non possiede nessuno di quei caratteri che Cartesio le aveva attribu- I limiti e ito: non è uguale in tutti gli uomini, perché essi ne partecipano in misura diversa; non le possibilità della ragione è infallibile, perché spesso le idee di cui dispone sono troppo poche, o sono oscure, o non si lasciano concatenare tra loro nella forma di un ragionamento, e anche perché può essere tratta in inganno da falsi princìpi e dallo stesso linguaggio, del quale non può fare a meno. Inoltre la ragione non può ricavare da sé idee e princìpi, ma deve ricavarli dall’esperienza, che non potrà mai offrire un sapere certo ed esaustivo. Eppure, debole e imperfetta com’è, la ragione è comunque l’unica guida efficace di cui disponiamo, e l’intera opera di Locke è diretta a estendere il campo della sua azione a tutto ciò che riguarda l’essere umano, comprese la morale, la politica e la religione.
307
l’origine Anche l’opera maggiore di Locke, il Saggio sull’intelletto umano (1690), nasce dal bisogno di del Saggio affrontare problemi non strettamente filosofici, come Locke stesso dichiara in una “Episull’intelletto umano stola al lettore” premessa al Saggio: in una riunione di cinque o sei amici (avvenuta proba-
bilmente nell’inverno del 1670) si discuteva di argomenti che non avevano nulla a che fare con quello che poi divenne l’oggetto dell’opera. Nella discussione si incontravano varie difficoltà e non si riusciva a trovare una soluzione ai dubbi. Venne allora in mente a Locke che, prima di intraprendere indagini di qualsiasi natura, era necessario esaminare le capacità degli esseri umani, per vedere quali oggetti il loro intelletto fosse o non fosse in grado di considerare.
l’atteggiamento Locke iniziò così le ricerche che sarebbero confluite nel suo Saggio. E in quel momento, critico si può dire, nacque la prima indagine critica della filosofia moderna, cioè la prima in-
dagine diretta a stabilire le effettive possibilità conoscitive umane, e a riconoscerne i limiti. Proprio nel Saggio, Locke afferma infatti che il suo principale obiettivo è l’indagine «sull’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana» (“Introduzione”). L’atteggiamento critico è uno degli aspetti più caratteristici del pensiero di Locke: un aspetto che nel secolo successivo il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) riprenderà in modo sistematico ( unità 6).
l’esperienza Analizzando criticamente la ragione umana, Locke ne individua il limite primario nel docome limite ver fare i conti con l’esperienza. È l’esperienza, infatti, che fornisce alla ragione il materiale e possibilità della ragione di cui essa si serve, e cioè le «idee semplici» (di cui parleremo nel prossimo paragrafo), che
QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza? (Cartesio, Locke) p. 362
sono gli “elementi” di ogni sapere umano. La ragione può bensì combinare e ordinare questo materiale, formando «idee complesse» e ragionamenti ( p. 309); ma anche in questa attività deve essere controllata mediante l’esperienza, in modo da non produrre costruzioni arbitrarie o fantastiche. Se controllata dall’esperienza, la ragione impedisce alla mente umana di avventurarsi in problemi che sono al di là delle sue capacità, come quelli affrontati dalla metafisica. E, se guidata dall’esperienza, la ragione consente di individuare i fondamenti della morale e della politica, nonché l’essenza permanente della religione al di là delle credenze mitiche e superstiziose.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra i tratti fondamentali dell’empirismo. 2. In che senso si può affermare che con Locke nasce la prima indagine critica della filosofia moderna?
3. la gnoseologia Il ruolo passivo della mente: le idee semplici Locke desume da Cartesio il punto di partenza della sua indagine: l’oggetto della nostra conoscenza è l’idea. Pensare e avere idee sono la stessa cosa. Ma subito Locke introduce la prima fondamentale differenza rispetto al cartesianesimo: le idee derivano esclusivamente dall’esperienza. Esse, cioè, sono il frutto non di una spontaneità creatrice dell’intelletto umano, ma piuttosto della sua passività di fronte alla realtà. le idee di Poiché per l’essere umano la realtà o è realtà esterna (le cose naturali), o è realtà interna sensazione (il suo spirito, o la sua mente), le idee possono derivare dall’una o dall’altra di queste reale di riflessione
tà e si chiameranno idee di sensazione se derivano dal cosiddetto «senso esterno»,
308
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
e idee di riflessione se derivano dal «senso interno». Ad esempio, sono idee di sensazione (o più semplicemente sensazioni) il giallo, il caldo, il duro, l’amaro e, in generale, tutte le qualità che attribuiamo alle cose. Sono invece idee di riflessione il pensiero, il dubbio, il ragionamento, la conoscenza e, in generale, tutte le idee che si riferiscono a operazioni della nostra mente. glossario p. 322 ( T1 p. 326) Locke si mantiene fedele al principio cartesiano secondo cui avere un’idea significa per- la critica cepirla, cioè esserne cosciente, ma proprio di questo principio si avvale per criticare l’in- dell’innatismo natismo difeso da Cartesio. La critica si riduce sostanzialmente a un unico argomento: le idee non ci sono quando non sono pensate, poiché per un’idea esistere significa essere pensata. Se esistessero, le idee innate dovrebbero essere presenti in tutti gli uomini, compresi i bambini, gli «idioti» (oggi parleremmo di persone con deficit cognitivi) e i «selvaggi» (come all’epoca erano chiamati i membri delle tribù primitive del Nuovo mondo). Ma poiché molte idee che si considerano innate non sono pensate da queste persone, se ne può concludere che tali idee, in queste persone, non esistono affatto, e quindi non sono innate. A questo argomento qualcuno potrebbe obiettare che i bambini giungono alla coscienza delle idee innate con l’età della ragione; ma con l’età della ragione si giunge anche a conoscenze che non sono ritenute innate: nulla vieta dunque di supporre che le conoscenze innate non siano davvero tali, ma acquisite nel corso degli anni. Se tutta la nostra conoscenza risulta di idee, e se le idee derivano dall’esperienza, l’analisi della nostra capacità conoscitiva dovrà in primo luogo fornire una classificazione di tutte le idee che l’esperienza ci fornisce. Ora, l’esperienza ci fornisce soltanto idee semplici , mentre le idee complesse sono prodotte dal nostro spirito (ovvero dalla nostra mente) mediante la combinazione di più idee semplici. Quando l’intelletto, grazie alla sensazione e alla riflessione, sia provvisto di idee semplici, esso avrà la capacità di riproporle, paragonarle e riunirle in modi infinitamente vari. glossario p. 322
la distinzione tra idee semplici e complesse
La conoscenza umana è dunque la costruzione che risulta da questa capacità di combinare le Il limite idee che è propria dell’intelletto. Ma neppure l’intelletto più potente può inventare o creare dell’intelletto umano un’idea semplice nuova, cioè non derivante dall’esperienza, o distruggere qualcuna di quelle che l’esperienza fornisce. Questo è il limite insuperabile con cui si scontra l’intelletto umano. Ignorare o disconoscere tale limite significa, secondo Locke, abbandonarsi a sogni chimerici. Una volta chiariti questi assunti di fondo, Locke compila un elenco delle idee semplici che derivano dalla sensazione e dalla riflessione. Per quanto riguarda le idee di sensazione, egli distingue le sensazioni dalle qualità delle cose che le producono, riprendendo la distinzione tra qualità oggettive e soggettive già elaborata da Galilei e da Cartesio (distinzione che egli desume dal fisico Robert Boyle). Locke chiama dunque «qualità primarie» le qualità oggettive, che egli definisce anche «reali», intendendo affermare che esistono “realmente” nei corpi, a prescindere dal fatto che vengano o meno percepite (tali sono l’estensione, la figura, il movimento ecc.). E chiama «qualità secondarie» le qualità soggettive (come «i colori, i suoni, i gusti ecc.»), che sussistono finché c’è un soggetto che le percepisce:
la distinzione tra qualità primarie e secondarie
‘
Togliete le sensazioni che percepiamo, impedite agli occhi di vedere la luce, o i colori, impedite alle orecchie di ascoltare suoni, al palato di gustare sapori, al naso di fiutare odori, e allora tutti i colori, i sapori, gli odori e i suoni svaniranno e cesseranno di esistere come quel particolare tipo di idee, e non rimarranno che le loro cause, ossia la dimensione, la figura, il movimento delle parti. (Saggio sull’intelletto umano, II, VIII, 17, trad. it. di V. Cicero e M.G. D’Amico, Bompiani, Milano 2004, p. 223)
309
Il ruolo attivo della mente: le idee complesse Se nel ricevere le idee semplici lo spirito è puramente passivo, esso diventa invece attivo nel servirsi di tali idee come di un materiale per le sue costruzioni, cioè nel riunire e organizzare in vario modo le idee semplici. Questa attività dello spirito può dar luogo a idee complesse e a idee generali.
Le idee complesse e la loro analisi
Le idee complesse, per quanto infinite di numero,
I tipi di idee secondo Locke sono tutte prodotte dallo spirito mediante l’aggregazione di più idee complesse (semplici o a loro volta complesse) e possono essere ricondotte a tre categorie:
1. sono dette idee di sostanza le idee di ciò che è percepito come sussistente di per sé, corporeo o spirituale che sia (ad esempio l’idea di un essere umano, o di un albero);
2. sono dette idee di modo le idee di ciò che non è percepito come sussistente di per sé,
ma soltanto come manifestazione accidentale di una sostanza (ad esempio l’idea dell’ipocrisia, o dell’ubriachezza, che non esistono in quanto tali, ma soltanto come condizioni accidentali di un individuo); 3. sono dette idee di relazione le idee che scaturiscono dal mettere a confronto più idee, istituendo tra esse un rapporto (ad esempio l’idea di causa-effetto, identità, diversità ecc.). glossario p. 322 l’analisi critica Di tutti questi tipi di idee complesse Locke si sofferma a considerare le forme principali. dell’idea di Ma la sua analisi risulta particolarmente importante per ciò che concerne l’idea complessa sostanza
di sostanza. Egli chiarisce il modo in cui le idee di sostanza si formano, ovvero mediante l’aggregazione di un certo numero di idee semplici che si presentano alla mente costantemente unite tra loro (ad esempio a formare ciò che chiamiamo un “essere umano”, o un “albero”), e che per questa ragione siamo portati a considerare come un’unica idea. E dal momento che non arriva a immaginare come un’idea semplice (ad esempio l’idea di un certo colore, o di una certa forma) possa sussistere di per sé, la nostra mente si abitua a supporre che esista un qualche substratum che la “sostiene” (ad esempio un albero che “sostiene” il verde). Dell’esistenza di un tale sostrato o sostanza non possiamo tuttavia essere certi, in quanto supera la testimonianza dell’esperienza: ( T2 p. 328)
‘
Se si domandasse a qualcuno quale sia il soggetto a cui ineriscono colore e peso, egli non avrebbe niente da dire se non che riguardano parti solide ed estese; e se gli venisse chiesto a che cosa siano inerenti quella solidità e quell’estensione, in tal caso non si troverebbe in una posizione migliore dell’indiano al quale, poiché affermava che il mondo era sostenuto da un grande elefante, fu domandato su cosa poggiasse l’elefante, al che la sua risposta fu: su una grande tartaruga, ma poiché si insisteva per sapere che cosa sostenesse quella tartaruga dalla schiena così ampia, rispose che non lo sapeva. […] Dunque, la nostra idea a cui diamo il nome generale di sostanza, non essendo altro che il presunto ma ignoto supporto di quelle qualità che (Saggio sull’intelletto umano, II, XXIII, 2) scopriamo esistenti.
Ciò vale sia per le (presunte) sostanze corporee, sia per quelle spirituali: le prime sono il substrato sconosciuto di un certo numero di qualità sensibili, mentre le seconde sono il substrato altrettanto sconosciuto delle operazioni dello spirito. l’apertura allo Da questa critica dell’idea di sostanza alla negazione della sostanza stessa, cioè alla negascetticismo zione dell’esistenza di una realtà “soggiacente” ai fenomeni del senso interno e del senso
esterno, non c’è che un passo, che tuttavia non è Locke a compiere, ma Berkeley per ciò che riguarda le sostanze materiali (come vedremo nel prossimo capitolo) e Hume per ciò che riguarda la sostanza spirituale (come vedremo nel capitolo 4).
310
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
Come abbiamo detto, tra le idee complesse ci sono anche quelle di relazione. L’intelletto, le idee infatti, non si limita a considerare le cose in maniera isolata, ma riconosce anche i rappor- di relazione ti in cui le diverse cose stanno con tutte le altre. Nascono così le idee delle diverse relazioni e i diversi nomi (“uguaglianza”, “disuguaglianza” ecc.) con cui le indichiamo. Tra le idee di relazione indagate da Locke sono fondamentali quelle di causa ed effetto, e l’idea di identità e di diversità, e proprio parlando di queste ultime Locke affronta il problema dell’identità personale dell’identità della persona. Egli ne scorge il fondamento nella coscienza che accompagna gli stati o i pensieri che si succedono nel senso interno. L’essere umano non soltanto percepisce, ma percepisce di percepire: a tutte le sue sensazioni e percezioni si accompagna la consapevolezza che è il suo io a sentire o a percepire. Ed è proprio questa consapevolezza a costituire il fondamento dell’unità della persona e della sua identità.
Le idee generali e la loro analisi Per quanto riguarda invece la formazione delle idee
le idee
generali , queste secondo Locke non corrispondono ad alcuna realtà effettivamente esi- generali come segni stente, ma sono meri segni di insiemi di cose particolari. glossario p. 322 I nomi generali sono dunque segni di idee generali; ma le idee generali sono a loro volta segni di gruppi di cose particolari, tra le quali è possibile riconoscere una certa somiglianza. Alle idee generali non corrisponde, cioè, alcuna realtà generale o universale, ma soltanto un certo rapporto di somiglianza tra cose particolari, che sono le sole esistenti. Ad esempio, non c’è una realtà universale o un’essenza dell’essere umano: il nome e l’idea generale “essere umano” sono semplici segni di quelle creature alle quali, dati i loro caratteri comuni, noi attribuiamo il nome “essere umano”. Una volta formatasi l’idea generale di “essere umano”, il nostro intelletto riconosce come appartenenti a essa tutti gli individui somiglianti. La specie “uomo” è quindi soltanto un segno, cioè una parola usata nei discorsi al posto dei nomi di singoli uomini particolari.
LE IDEE COSTRUITE DALLA MENTE
)
Per l’esposizione orale
idee complesse
formate con l’aggregazione di più idee semplici o complesse
che possono essere
• idee di sostanza • idee di modo • idee di relazione
idee generali
formate per astrazione dalla percezione di oggetti simili
che sono
meri segni di gruppi di oggetti
si distinguono in
1. Presenta la critica di Locke all’innatismo. 2. Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per spiegare in che senso, secondo Locke, la mente umana è “passiva”: idee semplici, esperienza, idee di riflessione, idee di sensazione. 3. Esponi la differenza tra qualità primarie e secondarie. 4. Spiega in che senso, secondo Locke, la mente umana è “attiva”, chiarendo che cosa sono le idee complesse e le idee generali. 5. RIFLESSIONE CRITICA Considera la distinzione operata da Locke tra una fase di attività e una fase di passività del nostro intelletto. Pensi anche tu che alcune evidenze o informazioni “investano” la nostra mente senza che essa possa in alcun modo opporvisi? Se ritieni che sia così, lo consideri un vantaggio o uno svantaggio?
311
Le forme della conoscenza Abbiamo visto che nella prospettiva empiristica e anti-innatistica di Locke l’esperienza fornisce il materiale della conoscenza; ma l’esperienza non è la conoscenza. Quest’ultima, infatti, ha sempre a che fare con le idee ma non si riduce alle idee, perché consiste nella percezione o nel riconoscimento di un accordo o di un disaccordo tra esse. Così concepita, la conoscenza può essere di due tipi: intuitiva e dimostrativa. la conoscenza Si ha conoscenza intuitiva quando l’accordo o il disaccordo di due idee è colto immediataintuitiva mente e in virtù di queste idee stesse, senza l’intervento di altre idee. Si percepisce imme-
diatamente, ad esempio, che il bianco non è nero, che tre oggetti sono più di due ecc. Questa conoscenza è la più chiara e la più certa che l’essere umano possa raggiungere, ed è quindi il fondamento della certezza e dell’evidenza di ogni altra conoscenza. glossario p. 322
la conoscenza Si ha invece conoscenza dimostrativa quando l’accordo o il disaccordo tra due idee non dimostrativa è percepito immediatamente, ma viene reso evidente mediante l’uso di idee intermedie
che vanno a costruire delle «prove». La conoscenza dimostrativa consiste evidentemente in una catena di conoscenze intuitive. Ogni passo di un ragionamento che tende a dimostrare una relazione tra due idee a prima vista lontane consiste infatti nel mettere in rapporto queste due idee con idee intermedie, che a loro volta stiano tra loro in un rapporto che si coglie in modo intuitivo. La certezza della dimostrazione si fonda dunque su quella dell’intuizione. Ma, specialmente nelle dimostrazioni ampie e articolate, quando le prove sono molto numerose, allora diventa possibile l’errore, e questa possibilità rende la conoscenza dimostrativa assai meno sicura di quella intuitiva. glossario p. 323
la conoscenza Accanto a queste due specie di conoscenza, ve n’è una terza: la conoscenza delle cose esidelle cose stenti al di là delle idee. Locke è consapevole del problema che emerge dalla stessa imesterne
postazione della sua dottrina. Se lo spirito, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, non ha a che fare se non con idee, se la conoscenza consiste nel percepire l’accordo o il disaccordo tra le idee, come si può giungere a conoscere una realtà diversa dalle idee? Ridotta la conoscenza a idee e rapporti tra idee, non la si è ridotta a un puro castello in aria, a una fantasia non diversa dal più chimerico sogno? Secondo Locke è certo che una conoscenza è vera soltanto quando c’è conformità tra le idee e le cose reali. Ma come può essere controllata una tale conformità o verità, se le cose reali sono conosciute soltanto attraverso le idee? Per rispondere, dobbiamo ricordare che per Locke esistono tre ordini di realtà: l’io, Dio e le cose; e ci sono tre modi diversi di giungere alla certezza di queste tre realtà. Noi infatti abbiamo conoscenza: dell’esistenza del nostro io attraverso l’intuizione; dell’esistenza di Dio attraverso la dimostrazione; dell’esistenza delle cose attraverso la sensazione.
l’intuizione Per ciò che riguarda l’esistenza dell’io, Locke si avvale del procedimento cartesiano. Io penso, dell’esistenza ragiono, dubito, e con ciò intuisco la mia esistenza di soggetto pensante, di cui non posso dell’io
dubitare.
la dimostrazione Quanto all’esistenza di Dio, Locke rielabora la prova causale della tradizione. Il nulla, egli dell’esistenza dice, non può produrre nulla; se qualcosa c’è, vuol dire che è stato prodotto da qualcos’aldi dio
tro, e dunque, non potendosi risalire all’infinito nella catena delle cause, si deve ammettere un essere eterno o una causa prima che ha prodotto ogni cosa. Poiché questo essere rappresenta la fonte di ogni potenza e intelligenza, sarà onnipotente e onnisciente. Questo essere eterno, potentissimo e intelligentissimo non può essere che Dio.
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
Quanto all’esistenza delle cose, l’essere umano non ha altro mezzo per venirne a conoscenza se non la sensazione, e precisamente la «sensazione attuale». Come abbiamo visto parlando delle idee generali e del linguaggio, non c’è alcun rapporto necessario tra l’idea e la cosa a cui essa si riferisce: l’idea potrebbe esserci anche se non ci fosse la cosa, come ci possono essere un’immagine o un dipinto senza che esistano o siano mai esistite la persona o la cosa che l’immagine o il dipinto rappresentano. Ma nel momento in cui riceviamo una certa idea dall’esterno, quella sensazione in atto ci dice con certezza che qualcosa, esattamente in quel momento, esiste fuori di noi e produce in noi quell’idea. Nel momento in cui noi riceviamo una sensazione, siamo certi che esiste la cosa che la produce in noi; e questa certezza è sufficiente, secondo Locke, a garantire la reale esistenza della cosa esterna. Non è infatti ammissibile che le nostre facoltà ci ingannino su questo punto; una fiducia di fondo nelle nostre facoltà conoscitive è indispensabile.
la percezione sensibile dell’esistenza delle cose
La certezza che la sensazione attuale ci offre dell’esistenza delle cose esterne, pur non essendo assoluta, è sufficiente per tutti gli scopi umani. Locke, tuttavia, ritiene che essa possa essere confermata o supportata da alcune ragioni supplementari: 1. le idee vengono a mancare quando manca l’organo di senso adeguato (ad esempio, senza la vista non abbiamo le idee dei colori), il che prova che le sensazioni e le idee elementari che vi corrispondono sono prodotte da cause esterne che colpiscono i nostri sensi; 2. le idee sono prodotte nel nostro spirito senza che noi le possiamo evitare, il che vuol dire che non sono prodotte da noi, ma da una causa esterna; 3. la produzione di molte idee si accompagna in noi a sensazioni di piacere o dolore, mentre questo non accade quando le idee sono soltanto ricordate, il che vuol dire che esiste un oggetto esterno il quale, colpendo i nostri sensi, produce in noi quel piacere o quel dolore; 4. i sensi si offrono testimonianza reciproca; ad esempio, il tatto e la vista confermano spesso l’esistenza di un medesimo oggetto (come un tavolo che possiamo sia vedere sia toccare), il che rafforza la certezza dell’esistenza delle cose fuori di noi.
argomenti in favore dell’esistenza delle cose
Tutte queste ragioni, tuttavia, valgono soltanto se si considera la sensazione attuale, ov- la conoscenza vero l’istante in cui la sensazione è ricevuta. Quando invece l’oggetto non è più testimo- probabile niato dai sensi, la certezza della sua esistenza svanisce, ed è sostituita da una semplice probabilità. È ragionevole supporre che le cose, le piante, gli animali e gli esseri umani continuino a esistere anche quando noi non ne abbiamo una percezione attuale, così come è ragionevole supporre che esistano anche le cose, i vegetali, gli animali e gli umani di cui non abbiamo mai avuto alcuna percezione. Ma tutto ciò costituisce probabilità, non TEST DI LOGICA conoscenza certa. Perciò Locke, accanto al dominio della conoscenza certa, ammette anche il dominio della conoscenza probabile , che è assai più esteso. In questo caso si afferma la verità o la falsità di una proposizione non già per la sua evidenza (che manca), ma per la sua conformità con l’esperienza passata o con la testimonianza altrui, oppure per analogia (ad esempio, in base al fatto che io penso ipotizzo che anche gli altri pensino). glossario p. 323
)
Per l’esposizione orale
1. Quale differenza c’è tra la conoscenza intuitiva e la conoscenza dimostrativa? 2. Chiarisci in che cosa consiste per Locke il dominio della conoscenza probabile. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la distinzione lockeana tra conoscenza certa e conoscenza soltanto probabile: se dovessi individuare tu un criterio discriminante tra questi due tipi di conoscenza, quale sarebbe, e perché?
313
4. la politica la fondazione In ambito politico e religioso Locke ci ha lasciato contributi fondamentali: la Lettera sulla toldel liberalismo leranza, i Due trattati sul governo e la raccolta di scritti sulla Ragionevolezza del cristianesimo gli
assicurano in questo campo un posto altrettanto importante di quello che il Saggio sull’intelletto umano gli assicura nel campo più strettamente filosofico. Queste opere fanno di Locke il fondatore del liberalismo moderno, cioè uno dei primi e più efficaci difensori della libertà dei cittadini contro gli abusi del potere statale, della tolleranza religiosa e della libertà religiosa. Tutti ideali che a Locke appaiono come teoremi dimostrati e dimostrabili da parte di quella ragione di cui il Saggio ha chiarito la natura e le regole d’uso. glossario p. 323
Lo stato di natura I Due trattati Il primo dei Due trattati sul governo è destinato a confutare le tesi teocratiche e assolutistisul governo che contenute nel saggio Il patriarca o La potenza naturale dei re (1680) di Robert Filmer.
In quest’opera Filmer sosteneva che il potere dei re deriva per diritto ereditario da Adamo, al quale Dio avrebbe conferito l’autorità su tutti i suoi discendenti e il dominio del mondo. Il secondo dei Due trattati contiene invece la pars costruens della dottrina di Locke, ossia la teoria dello Stato liberale e l’affermazione dell’esistenza di una legge di natura che coincide con la ragione, la quale ha per oggetto i rapporti tra gli esseri umani e prescrive la reciprocità perfetta di tali rapporti.
la concezione Nel Secondo trattato Locke descrive lo stato di natura, che, come per Hobbes, è caratterizlockeana dello zato da una condizione di uguaglianza di tutti gli uomini. Ma, mentre per Hobbes si tratstato di natura
ta di un’uguaglianza di forza, per Locke si tratta di un’uguaglianza di diritti. Secondo Locke gli esseri umani nascono uguali in quanto tutti dotati di ragione, e con l’identico diritto di disporre di sé stessi e dei propri beni. Nello stato di natura ogni uomo è perfettamente libero, cioè non sottoposto ad alcun potere o al dominio di altri: in questo senso gode di un diritto naturale , cioè pre-politico, alla vita (ossia alla sicurezza), alla libertà e alla proprietà. Sono questi i diritti originari di ogni essere umano, che si fondano sulla nostra naturale inclinazione all’autoconservazione e alla felicità. glossario p. 323
la legge Per quanto caratterizzato dalla libertà, questo stato di natura non coincide però con una naturale condizione di sfrenata licenza (come quella descritta da Hobbes), in cui ciascuno può «vi-
vere come gli piace» (Secondo trattato sul governo, 4, 22): al contrario, ogni individuo è regolato nel suo agire dalla legge naturale . Questa, secondo Locke, è una «legge della ragione», ma non nel senso che indica all’uomo come conseguire il vantaggio della sopravvivenza (come per Locke), bensì nel senso che rivela a tutti gli uomini, in quanto ugualmente dotati di ragione, alcuni limiti invalicabili, ovvero che non si può violare la propria vita, né la vita, la libertà e i beni degli altri. Locke afferma infatti: glossario p. 323
‘
Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che è per tutti vincolante; e la ragione – che è quella stessa legge – insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, (Secondo trattato sul governo, II, 2, 6) nella libertà o negli averi.
enciclosofia Robert Filmer Strenuo difensore dell’assolutismo e di una concezione divina del potere dei re, Robert Filmer (1588-1653) fu nominato baronetto da Carlo I e durante la guerra civile inglese fu bersaglio di persecuzioni. Negando l’uguaglianza naturale degli esseri umani, Filmer indicava quale unica forma di governo ammissibile la monarchia assoluta, individuando nell’autorità del sovrano un’estensione del potere patriarcale del padre di famiglia.
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
Grazie alla «legge di natura», nello stato di natura regnano dunque la benevolenza e la socievolezza, che spingono l’uomo verso il proprio simile (cosa che, in polemica con Aristotele e Grozio, Hobbes aveva negato con forza). Per Hobbes la proprietà non era un diritto naturale: la distinzione tra “mio” e “tuo” (come quella tra “giusto” e “ingiusto”) sorgeva soltanto con la costituzione dello Stato. Se, infatti, tutti hanno diritto su tutto (come secondo Hobbes accadeva nello stato di natura), nessuno ha alcun legittimo possesso su nulla. Per Locke, al contrario, l’istituto fondamentale dello stato di natura è la proprietà. I diritti naturali di ognuno, infatti, sono riconducibili al diritto di godere della proprietà individuale, intesa sia in senso lato, cioè come “possesso” della propria persona (diritto alla vita), sia in senso più ristretto, come tutela dei propri beni (diritto alla proprietà). Nello stesso modo in cui la vita sociale sussiste indipendentemente dall’autorità politica, così per Locke la proprietà non ha bisogno dello Stato per sussistere: essa è un diritto naturale di ogni individuo, che lo Stato non può violare, ma che, al contrario, deve tutelare e difendere.
la proprietà come diritto fondamentale e originario
Ma se Dio ha dato la Terra agli uomini come bene comune, per quale ragione un individuo ha il diritto di escludere gli altri dall’uso di un particolare bene? Su che cosa si fonda, insomma, il diritto alla proprietà? A questa domanda Locke risponde che ognuno è padrone della propria persona e, di conseguenza, del lavoro che essa produce; un oggetto lavorato da un uomo (un frutto colto, un animale ucciso, una porzione di terra coltivata) appartiene dunque a quell’uomo come una sorta di “prolungamento” del suo corpo, come un’oggettivazione di sé ottenuta attraverso il lavoro.
Il lavoro come fondamento del diritto alla proprietà
OFFICINA CITTADINANZA Valore del lavoro p. 130
Il diritto naturale di ogni essere umano è dunque limitato alla propria persona: alla diritti e propria vita, alla propria libertà e alla proprietà, intesa come il prodotto del proprio lavoro. giustizia nello stato di natura Questo diritto implica indubbiamente anche quello di essere giudici ed esecutori della legge di natura, cioè di applicare la «giustizia naturale» rivelata dalla ragione: di fronte a una violazione della legge naturale (che prescrive, lo ripetiamo, il rispetto della propria e altrui vita, dei propri e altrui beni) ognuno può e deve reagire in modo proporzionato alle offese, assumendo il ruolo del giudice che risarcisce un danno con una giusta pena. Ma neppure questo diritto autorizza l’uso di una forza assoluta o arbitraria, poiché legittima soltanto quelle reazioni che la ragione indica come proporzionate alle trasgressioni. Per Locke, dunque, lo stato di natura non è necessariamente uno stato di guerra (come voleva Hobbes), bensì una condizione di pacifica coesistenza, in cui la legge della ragione fissa la proprietà e i diritti individuali, nonché la possibilità della legittima difesa e delle punizioni per le trasgressioni della legge naturale.
LO STATO DI NATURA in HOBBES
CONCETTI A CONFRONTO
in LOCKE
è fondato sull’egoismo e sull’identico diritto di tutti su tutto
è fondato sull’identico diritto di tutti gli esseri umani di disporre di sé e dei propri beni
non è limitato da alcuna regola e genera uno stato di guerra di tutti contro tutti
è limitato dalla legge di natura, che impone a ogni individuo di non danneggiare gli altri, garantendo (entro certi limiti) una convivenza pacifica
è una condizione pre-morale, in cui non esistono giusto e ingiusto
coincide con una condizione di giustizia naturale
315
Il contratto e l’origine dello Stato Il fine ultimo Per Locke lo Stato sorge per difendere il diritto alla proprietà, ovvero per consentire agli dello stato individui di godere in sicurezza e in pace dei loro beni, a partire da quel bene primario che
è costituito dalla vita e dall’incolumità del proprio corpo:
‘
Il grande e principale fine per cui gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà. A tale fine lo stato di natura è per molti (Secondo trattato sul governo, IX, 124) aspetti inefficiente.
la genesi Ma in che senso per Locke lo stato di natura è «inefficiente», se in esso l’uomo, come abdello stato biamo visto, può godere del diritto alla proprietà e vivere in pace, esercitando una forma
di giustizia e di risarcimento dei danni? Diversamente da Hobbes, Locke ritiene che lo stato di natura sia concettualmente diverso da uno stato di guerra, e che dunque non debba necessariamente coincidere con esso. Tuttavia, a causa della malvagità e dell’ignoranza di alcuni individui, lo stato di natura si presenta fragile e precario, e può di fatto degenerare in uno stato di guerra. In effetti, abbiamo visto che ogni violazione della legge naturale comporta una legittima reazione individuale commisurata al torto subito. Ma questo può determinare una catena di reazioni eccessive e la degenerazione in uno stato di guerra: ciò rende necessaria la società civile. Lo Stato è quel potere superiore in grado di risolvere le controversie e di imporre una misura alla riparazione delle offese. Una volta istituito lo Stato, la guerra diventa inutile perché tutti sono egualmente soggetti all’imparziale e comune autorità della legge.
Il contrattualismo Al di là delle differenze pur radicali che li distanziano l’uno dall’altro, Locke e Hobbes di locke hanno in comune il presupposto contrattualistico secondo cui la società politica ha la
propria origine in un patto tra individui isolati e indipendenti. È il «libero consenso» dei singoli che determina il passaggio dallo stato di natura allo stato civile:
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 370
‘
Essendo gli uomini tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà […]. Così ciò che dà origine e realmente istituisce una società politica, non è nient’altro se non il consenso di un gruppo di uomini liberi […] a riunirsi e associarsi in una società siffatta. Ed è questo, e questo soltanto, che ha dato o può aver dato origine ad ogni governo legittimo nel mondo. (Secondo trattato sul governo, VIII, 95, 99)
I limiti del potere statale e il «diritto di resistenza» I diritti individuali inviolabili e lo «stato minimo»
316
Stipulando il patto e costituendo un potere sovra-individuale, gli individui non rinunciano, come riteneva Hobbes, a tutti i loro diritti naturali, ma soltanto a quelli di difesa e di punizione per cui ciascuno è giudice ed esecutore della legge di natura. Il potere sovrano dello Stato trova dunque un limite invalicabile nel fine stesso per il quale sorge, ossia nel dovere di tutelare e garantire i diritti naturali e inalienabili di ogni individuo, difendendo ciò che ogni persona ha di proprio: vita, libertà e proprietà dei beni. Alla base della propria costruzione politica Locke pone insomma l’ideale liberale dello «Stato minimo», secondo cui, per quanto artificiale, la società civile deve essere il più simile possibile allo stato naturale, nel quale l’essere umano godeva comunque di libertà e diritti. Quello di Hobbes, al contrario, era uno «Stato massimo» e pervasivo, perché doveva correggere i rischi dello stato di natura quale stato di guerra e paura. Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
Al pessimismo hobbesiano, ovvero alla sfiducia nella natura umana e alla corrispondente fiducia nella forza di uno Stato assoluto, si contrappone dunque, in Locke, una visione più ottimistica, che implica la fiducia nella natura umana e in uno Stato liberale. Questa differenza si lega a una diversa concezione del patto con cui nasce lo Stato. Diver- la natura del samente da Hobbes, Locke ritiene infatti che il contratto con cui gli uomini istituiscono il contratto secondo locke potere sovrano sia bilaterale (cioè stipulato, oltre che dai sudditi tra loro, anche tra questi e il sovrano) e che perciò il sovrano sia vincolato al patto esattamente come il popolo. In altre parole, il patto non consiste (come per Hobbes) in un trasferimento irreversibile di tutti i diritti, bensì in un mandato fiduciario mediante il quale i sudditi, o i cittadini, affidano il potere a una o più persone, ma ne rimangono i legittimi possessori. La sovranità appartiene dunque al popolo, che liberamente e a proprio vantaggio trasferisce il potere di promulgare le leggi (potere legislativo) a chi governa. Accanto a quello legislativo ci sono il potere esecutivo (che vigila sull’esecuzione delle leggi) e quello che Locke chiama «potere federativo» (che si occupa delle relazioni internazionali, cioè della politica estera): mentre Hobbes afferma con forza l’unità e l’indivisibilità del potere sovrano, Locke ne prevede la distinzione, sancendo così il principale tra i vincoli ai quali deve sottostare chi detiene il potere. In particolare, chi esercita il potere legislativo (che Locke considera come il più importante) deve: 1. governare secondo le leggi e non secondo l’arbitrio; 2. legiferare nell’interesse del popolo; 3. non violare o limitare il diritto alla proprietà; 4. non trasferire il potere in mani diverse da quelle che il popolo ha scelto.
la sovranità e la distinzione dei poteri
OFFICINA CITTADINANZA Costituzione e divisione dei poteri p. 96
In questa prospettiva il sovrano non è l’origine di ogni legge e di ogni diritto, ma risulta es- Il diritto di so stesso soggetto alla legge e al diritto. Tant’è vero che, anche dopo la costituzione della resistenza società politica, il popolo conserva il diritto di difendersi contro gli stessi legislatori: nel caso in cui chi esercita il potere tradisca il proprio mandato, violando la libertà e la proprietà dei cittadini, il popolo, detentore unico e legittimo del potere sovrano, può e deve intervenire per porre fine all’abuso, revocando la delega al potere costituito. In ciò consiste il «diritto di resistenza» riconosciuto da Locke al popolo, cioè nel «diritto di riprendersi la sua libertà originaria e provvedere con l’istituzione di un nuovo potere legislativo alla propria salvezza e sicurezza, che è il fine in vista del quale esso si costituisce in società». Il popolo agisce così «in base a una legge antecedente e superiore a tutte le leggi posi- Il giusnaturalismo tive degli uomini». Emerge qui con nettezza l’impostazione giusnaturalistica di Locke in di locke opposizione all’esito giuspositivistico che Hobbes aveva impresso alla propria nozione di “diritto naturale”. Per Locke esiste una «legge di natura» che assegna agli individui alcuni diritti fondamentali (alla vita, alla libertà e alla proprietà) e che non si fonda sulla forza degli Stati o sulle decisioni della maggioranza, ma è scritta nella ragione di ogni essere umano. È in virtù di questa legge che uno Stato può essere considerato “ingiusto”, nel momento in cui non la difenda ma la violi.
La concezione della libertà Per quanto Locke guardi allo Stato con ottimistica fiducia, è costretto ad ammettere che libertà nello esso è nel medesimo tempo strumento di tutela dell’individuo e minaccia alle sue li- stato e libertà dallo stato bertà. Da una parte, infatti, protegge i diritti naturali; dall’altra, godendo del monopolio della forza, può abusare del proprio potere e diventare violento, iniquo e arbitrario, operando contro il benessere e la libertà dei cittadini.
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In questo senso la libertà ha per Locke un duplice profilo: da una parte è libertà nello Stato, il quale con la forza della legge impedisce il crimine e il reato; dall’altra è libertà dallo Stato (questa è l’essenza del liberalismo), nel senso che prevede precisi limiti all’azione del potere, il quale non può invadere la sfera privata violando la persona, i beni e le scelte di coscienza degli individui. la distinzione La costituzione di un potere civile non può dunque togliere agli esseri umani i diritti di cui tra libertà godevano nello stato di natura (tranne quello di farsi giustizia da sé). Anzi, la giustificanaturale e politica zione del potere civile consiste proprio nella sua efficacia nel garantire ai cittadini, in modo
OFFICINA CITTADINANZA Libertà individuali e diritti inviolabili p. 77
pacifico, questi diritti. Così, se nello stato di natura l’individuo è libero nel senso che obbedisce soltanto alla legge di natura (cioè alla propria ragione), nello stato civile rimane libero nel senso che liberamente si sottomette a un potere che esige il suo consenso, e che per di più è uno strumento di tutela della sua libertà originaria e naturale. Obbedendo alla legge dello Stato, l’individuo non obbedirà ad alcuna volontà particolare, ma in un certo senso obbedirà a sé stesso, dal momento che quella legge è l’espressione della sua volontà. Senza legge non vi è libertà, sia perché si dovrebbe obbedire al più forte, sia perché non ci sarebbe un limite all’invadenza altrui nella sfera privata.
5. la difesa della tolleranza La Lettera sulla tolleranza, pubblicata nel 1689, è uno dei più solidi monumenti elevati alla libertà di coscienza. Essa proclama alcuni princìpi perenni della civiltà laica e liberale: la separazione tra Stato e Chiesa, la distinzione tra reato e peccato e il diritto al pluralismo religioso. Gli argomenti addotti in questo scritto in favore della libertà religiosa e del non intervento dello Stato in materia di fede conservano ancora oggi, a distanza di secoli, la loro validità. l’ambito di Nella Lettera Locke mette a confronto lo Stato e la Chiesa, fondando il concetto di tolleintervento del ranza sulla separazione tra l’ambito politico-giuridico e quello religioso. Lo Stato è «una potere statale
società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili», dove per «beni civili» egli intende, come sappiamo, la vita, la libertà, la salute fisica e il possesso di beni materiali. Questo compito stabilisce i limiti della sovranità dello Stato, e la salvezza dell’anima è chiaramente al di là di questi limiti.
l’impossibilità Gli unici strumenti di cui il potere civile dispone per far rispettare la legge e impedire i reati di imporre sono la forza e la costrizione; ma la costrizione è incapace di condurre alla salvezza dell’ala fede con la forza nima. La fede, infatti, non può essere indotta negli animi con la forza: ( T3 p. 330)
‘
Se qualcuno vuole accogliere qualche dogma, o praticare qualche culto per salvare la propria anima, deve credere con tutto il suo animo che quel dogma è vero e che il culto sarà gradito e accetto a Dio; ma nessuna pena è, in nessun modo, in grado di istillare nell’anima una convinzione di questo genere. (Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, utet, Torino 1977, p. 137)
la Chiesa come D’altra parte, né i cittadini né la Chiesa possono pretendere l’intervento dello Stato e della società libera e legge in materia religiosa. La Chiesa, afferma Locke, è «una libera società di uomini che si volontaria
riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima». Come società libera e volontaria, la Chiesa non può far nulla che concerna la proprietà dei beni civili o terreni, né può far ricorso alla forza, dal momento che questa è riservata al magistrato civile. Certamente la Chiesa ha il diritto di espellere dalla propria comunità coloro che mostrano di avere cre-
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
denze incompatibili con i suoi princìpi, ma la scomunica non deve in alcun modo trasformarsi in una diminuzione dei diritti civili dello scomunicato. Tra Chiesa e Stato, tra cielo e terra, Locke innalza così un muro insormontabile. Questa la separazione scelta ha un duplice esito: da una parte consente di garantire la piena autonomia delle scel- fra stato e Chiesa te religiose (o non religiose) di ciascuno, senza che la pubblica autorità possa interferire nella coscienza individuale; dall’altra assicura l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato, indipendentemente dalle loro opinioni etico-religiose ( “La filosofia che vive”, p. 320). D’altro canto, Locke non intende negare o sminuire il valore della religione riducendola la ragionevolezza a “pura fede”, cioè a un insieme di credenze che si oppongono alla ragione. Gli scrittori liber- del cristianesimo tini (che Locke conosceva) tendevano a confinare nel dominio della fede le credenze ripugnanti o assurde per la ragione. Invece Locke, pur accettando alcuni degli argomenti di cui questi autori si avvalevano per negare il valore razionale della religione (ad esempio la pluralità e la disparità delle fedi e dei culti religiosi), ne afferma e difende la ragionevolezza. Ed è in particolare nel cristianesimo che egli individua quel nucleo teorico essenziale e spoglio di superstizioni che rende la religione accettabile alla ragione, trasformandola anzi nel suo più valido alleato per migliorare la vita morale del genere umano. È bene ricordare, tuttavia, che nelle sue opere Locke non presenta la tolleranza come un valore assoluto. Al termine della Lettera, in particolare, il filosofo analizza quei casi in cui, a suo avviso, l’autorità civile non può e non deve essere tollerante, e cioè: 1. verso coloro che insegnano convinzioni che palesemente sovvertono i fondamenti della società e mettono a rischio il bene pubblico; 2. verso coloro che rivendicano il primato della propria religione sulle altre, ad esempio pretendendo di detronizzare un sovrano dichiarandolo eretico; 3. verso coloro che, aderendo a una religione a capo della quale è collocato il sovrano di un altro Stato, scelgano di combattere per quest’ultimo contro lo Stato in cui vivono; 4. verso coloro che negano l’esistenza di Dio. Nei primi tre punti il riferimento polemico è ai «papisti», ovvero ai cattolici, che Locke ritiene incapaci di conciliare la loro fede religiosa con la loro condizione di cittadini inglesi. Per Locke non si tratta di vietare o punire le loro credenze, ma di limitare la possibilità del loro accesso alle cariche pubbliche, per evitare che, in nome di una «cieca obbedienza ad un papa infallibile», possano mettere in discussione proprio il principio della libertà di coscienza. Per quanto riguarda invece l’ultimo punto, Locke ritiene che gli atei, essendo privi di ogni riferimento a qualcosa di trascendente, rendano instabili i rapporti tra i cittadini, non ritenendo sacri i patti che sottostanno alla nascita della società umana. Nonostante l’esclusione dei cattolici e degli atei dall’orizzonte della tolleranza, il Saggio e la Lettera di Locke sulla tolleranza rappresentano ancora oggi una fra le più preziose giustificazioni della libertà di coscienza che la storia della filosofia ci abbia offerto, tanto che nei secoli successivi (come vedremo nelle prossime unità) apriranno la via a un riconoscimento ben più ampio e radicale delle diverse libertà individuali.
)
Per l’esposizione orale
limiti della tolleranza
ESERCIZI
OFFICINA CITTADINANZA Libertà di opinione e di religione p. 86
1. Spiega in che cosa consiste la libertà dei cittadini all’interno dello Stato lockeano. 2. Quali sono per Locke i compiti e i limiti, rispettivamente, dello Stato e della Chiesa? SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
Ripercorri le tappe principali della storia inglese nel periodo in cui visse Locke: dalla prima rivoluzione alla seconda o “Gloriosa” rivoluzione. In che modo le vicende storiche influirono sulla riflessione del filosofo? In quali tratti del suo pensiero se ne possono individuare le tracce più significative?
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EDUCAZIONE CIVICA
LA FILOSOFIA CHE VIVE Locke e il principio della laicità dello Stato
Il termine “laicità”, nella sua accezione più comune, indica la separazione tra il potere politico e quello religioso, tra le leggi civili e i codici ecclesiastici, tra il reato (perseguito dallo Stato) e il peccato (deprecato dalla Chiesa). Uno Stato “laico” – diversamente da quello “confessionale” – non privilegia alcuna visione religiosa o non religiosa, ma garantisce la libertà di pensiero e di culto di tutti i cittadini, senza interferire nelle loro scelte personali in materia di fede, di etica o di convinzioni ideologiche. In quanto espressione di una concezione liberale del potere, John Locke può essere considerato il primo teorico dello Stato laico. La laicità dello Stato nella nostra Costituzione La Costituzione italiana (diversamente, ad esempio, da quella francese) non contiene un riferimento esplicito alla laicità dello Stato, anche se garantisce l’uguaglianza dei cittadini escludendo ogni discriminazione per motivi religiosi (articolo 3) e sancisce la libertà di religione e di culto (articolo 19), nonché la libertà di pensiero (articolo 21). Durante la stesura della nostra Carta costituzionale, la forte pressione del Vaticano e della Democrazia Cristiana, con il consenso del Partito Comunista di Togliatti (sensibile alla «pace religiosa» degli italiani), portò alla stesura dell’articolo 7, che riconosce il ruolo primario svolto nella storia italiana dalla Chiesa cattolica e stabilisce che i rapporti fra Stato e Chiesa siano regolamentati dai Patti lateranensi del 1929. Secondo molti giuristi e costituenti, il rimando ai Patti lateranensi (non modificabili senza il consenso delle due parti) rappresentava un’incrinatura nella laicità della nascente Repubblica. È quanto fecero notare, tra gli altri, il filosofo Benedetto Croce (1866-1952) e il giurista Piero Calamandrei (1889-1956). L’articolo 1 del Concordato fra Stato e
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RICERCA E DISCUSSIONE
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Chiesa (contenuto nei Patti lateranensi) affermava infatti che il cattolicesimo era l’unica religione di Stato, fissando così, anche se in maniera non esplicita, il carattere confessionale dello Stato italiano. L’articolo 8 compensava in parte questo “privilegio” concesso al cattolicesimo, affermando che «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». L’evoluzione del carattere laico della nostra Repubblica A partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, l’evoluzione politica e culturale dell’Italia ha portato alla progressiva conquista di una laicità più completa da parte del nostro ordinamento. Nel 1984 si è arrivati a una «revisione» del Concordato in cui, tra le altre cose, si afferma che «non si considera più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano». Nel 1989 la Corte costituzionale ha inserito tra i «princìpi fondamentali» del nostro ordinamento il «principio supremo» della laicità dello Stato, che «implica non indifferenza dello Stato davanti alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Nel nostro ordinamento giuridico è ancora assente una legge che sancisca esplicitamente la libertà religiosa. Quali sono le ragioni storiche di questo ritardo? E quali sono gli strumenti con cui sarebbe possibile colmarlo? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, approfondite il tema storico dell’assenza del principio di laicità nell’ordinamento costituzionale italiano e individuate eventuali casi in cui tale principio sia stato violato o ignorato. In classe, sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in piccoli gruppi, ciascuno dei quali analizzerà un aspetto del tema proposto; avviate, infine, una discussione per condividere le diverse informazioni acquisite. TEMA
l’eredità di LOCKE DA CHI E CHE COSA EREDITA
CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
da Cartesio l’importanza attribuita alla ragione
la prospettiva razionalistica di Cartesio viene fondamentalmente accolta da Locke, ma integrata da una nuova analisi critica degli effettivi poteri della ragione umana
da Galilei l’importanza attribuita all’esperienza nel processo conoscitivo
l’esperienza acquista in Locke un ruolo determinante, venendo a identificarsi non soltanto con l’origine della conoscenza, ma anche con il suo limite, costituendo il criterio insostituibile della verità
da Cartesio la concezione dell’idea come contenuto mentale e della conoscenza come concatenazione di idee
Locke condivide le definizioni cartesiane dell’idea e della conoscenza, ma precisa che non esistono idee innate, dal momento che ogni contenuto mentale elementare proviene dall’esperienza
da Galilei e da Cartesio la distinzione tra proprietà oggettive e proprietà soggettive dei corpi
Locke accoglie la distinzione galileiana e cartesiana, parlando di qualità primarie (oggettive) e qualità secondarie (soggettive)
da Cartesio l’idea di sostanza
condividendo la definizione cartesiana della sostanza come ciò che sussiste di per sé, Locke precisa che essa non è altro che un’idea complessa (cioè un’idea costruita dal nostro intelletto sulla base di idee semplici), alla quale non corrisponde alcun “sostrato” che possa dirsi realmente esistente
da Ockham il nominalismo
condividendo la prospettiva nominalistica della tradizione inglese, Locke afferma che le idee generali, ottenute per astrazione a partire da idee particolari, non sono che segni mediante i quali si indicano gruppi di individui tra loro affini
da Grozio e da Hobbes i concetti di stato di natura e di diritto naturale
Locke accoglie l’idea di una condizione pre-sociale (lo stato di natura) in cui vige un diritto naturale (diverso dalle leggi positive che caratterizzano lo Stato), che egli interpreta in modo affine a Grozio e molto diverso da Hobbes (per il quale era «diritto di tutti su tutto»), ovvero come legge razionale che prescrive la tutela della vita e dei beni propri e altrui
da Grozio e da Hobbes il contrattualismo
anche Locke individua l’origine dello Stato in un contratto, ma (diversamente da Hobbes) ritiene che questo sia stipulato tra i futuri sudditi e il sovrano
dagli eventi storici del suo tempo l’attenzione per i temi dei diritti individuali e della tolleranza
nella prospettiva liberale di Locke, lo Stato deve garantire i diritti naturali inalienabili dei cittadini (vita, libertà, proprietà) e non deve interferire nelle loro scelte di fede, che non riguardano i beni civili e vanno dunque rispettate
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 LOCKE
L’atteggiamento critico Il pensiero di John Locke (1632-1704) si inserisce nella corrente dell’empirismo inglese, che individua la fonte della conoscenza e il criterio della verità nell’esperienza, evidenziando così i limiti della ragione umana. Non a caso il Saggio sull’intelletto umano, pubblicato nel 1690, muove da un atteggiamento critico, dettato dalla convinzione che prima di dedicarsi a ricerche complesse sia necessario indagare le reali capacità dell’intelletto umano.
La gnoseologia La concezione delle idee Nel suo Saggio Locke parte dall’analisi delle idee, che costituiscono «l’oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa» (“Introduzione”): esse derivano esclusivamente dall’esperienza e non possono essere innate. Alla base di tutta la nostra conoscenza Locke colloca le
• idee semplici
idee che non sono scomponibili in altre idee più elementari, e che pertanto fungono da “materiale” di base nella costruzione di tutto il sapere. Tali sono le idee ricevute mediante l’esperienza, sia attraverso il «senso interno» sia attraverso il «senso esterno».
Nei confronti delle idee semplici, l’intelletto umano è secondo Locke del tutto passivo: neppure l’intelletto più potente può inventare un’idea semplice, né distruggerne una esistente. A seconda che derivino dal senso esterno o interno, le idee semplici si distinguono in
• idee di sensazione e idee di riflessione
rispettivamente, le idee (o «sensazioni») che l’intelletto riceve grazie al contatto dei sensi con la realtà esterna (ad esempio l’idea del giallo, del duro, del dolce ecc.), e le idee che invece ricava dalla propria esperienza interiore (ad esempio l’idea del pensiero, del dubbio e, in generale, di qualunque operazione della nostra mente).
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Le idee di sensazione, ovvero le sensazioni, a loro volta possono riferirsi a qualità primarie, cioè a qualità oggettive e inseparabili dai corpi (come l’estensione, la figura e il movimento), oppure a qualità secondarie, cioè soggettive e prodotte in noi dalle varie combinazioni delle qualità primarie (come i colori, i suoni, i sapori). Se nel ricevere le idee semplici dall’esperienza (esterna o interna) il nostro intelletto è passivo, esso diventa invece attivo nel comporre tra loro tali idee per produrre le
• idee complesse
idee prodotte o costruite dalla nostra mente. Le idee complesse sono a loro volta distinte da Locke in tre categorie:
• idee di sostanza, o sostanze
le idee di ciò che è percepito come sussistente di per sé;
• idee di modo, o modi
le idee di ciò che non percepiamo come sussistente di per sé, ma soltanto come manifestazione accidentale di una sostanza;
• idee di relazione, o relazioni
le idee che scaturiscono dal mettere a confronto due o più idee.
A proposito delle idee di sostanza, Locke osserva che noi percepiamo soltanto idee semplici, ovvero idee di qualità primarie o secondarie, oppure idee di moti del nostro spirito, ma ci abituiamo a supporre che esse si riferiscano a un sostrato che chiamiamo “sostanza”. Le idee di sostanza (corporea o spirituale) non corrispondono pertanto a nulla che sia realmente esistente. Oltre alle idee complesse, il nostro spirito è in grado di elaborare anche le
• idee generali
le idee ottenute mediante un processo di “astrazione” che, prescindendo dalle differenze specifiche sussistenti all’interno di un gruppo di cose particolari, fissa in modo arbitrario ciò che le accomuna. Le “idee generali”, in Locke, non corrispondono insomma ad alcuna realtà effettiva, ma sono semplici segni di insiemi di cose particolari tra loro affini o somiglianti.
La concezione della conoscenza La conoscenza consiste per Locke nella percezione di un accordo o di un disaccordo tra idee e può essere fondamentalmente di due tipi:
• conoscenza intuitiva
la forma di conoscenza che deriva dall’intuizione immediata dell’accordo o del disaccordo esistente tra due o più idee (come quando si percepisce con evidenza e immediatezza che il bianco non è il nero);
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
• conoscenza dimostrativa
la forma di conoscenza in cui l’accordo o il disaccordo esistente tra due o più idee è colto attraverso il ricorso a idee intermedie e a “catene” di conoscenze intuitive («prove»). La conoscenza dimostrativa si appoggia dunque su quella intuitiva.
Riflettendo sulla natura della conoscenza, Locke si trova però di fronte a un problema: se lo spirito ha a che fare soltanto con idee, in che modo può arrivare a conoscere una realtà diversa da quelle stesse idee? Locke risponde chiarendo che ci sono tre ordini di realtà (l’io, Dio e le cose) e che si raggiunge la certezza dell’esistenza di tali realtà in tre modi diversi: l’esistenza dell’io è colta attraverso l’intuizione di noi stessi come soggetti pensanti (su questo punto Locke segue il procedimento cartesiano); l’esistenza di Dio è provata per via dimostrativa (su questo punto Locke rielabora la prova causale della tradizione); l’esistenza delle cose è provata dalle «sensazioni attuali» prodotte dalle cose stesse. Accanto a queste nozioni certe si ha poi un terzo tipo di sapere, cioè la
• conoscenza probabile
la forma di conoscenza in cui la verità o la falsità di una proposizione si afferma non in virtù della sua evidenza, ma sulla base dell’esperienza passata o dalla testimonianza altrui.
Dall’ambito della conoscenza, infine, va distinta la fede, che è basata soltanto sulla rivelazione.
La politica Il liberalismo Nei Due trattati sul governo (1690) Locke si oppone all’assolutismo hobbesiano e afferma che nello stato di natura tutti gli esseri umani godono di un medesimo
• diritto naturale
il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà che nello stato di natura caratterizza ogni individuo.
Diversamente da Hobbes, Locke ritiene che nello stato naturale gli uomini possano vivere pacificamente, dal momento che, essendo tutti dotati di ragione, tendenzialmente rispettano una comune
• legge naturale
la «legge della ragione» che stabilisce l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e la reciprocità dei loro rapporti. In altre parole, la legge naturale coincide con la ragione stessa, che suggerisce a ogni individuo di rispettare i diritti naturali (alla vita, alla libertà e alla proprietà) dei suoi simili.
Tuttavia, poiché è sempre possibile che qualcuno si imponga sugli altri con la forza, violando la legge naturale, gli esseri umani, in piena libertà e di comune accordo, fondano lo Stato, quale potere superiore che possa garantire i diritti naturali originari di ogni cittadino. A questo fine gli individui stipulano un contratto non soltanto tra loro, ma anche con il sovrano, il quale è soggetto come gli altri alla legge statale. È questo il pensiero tipico di una corrente politica di cui Locke è considerato il fondatore, ovvero il
• liberalismo
visione politica secondo cui lo Stato non gode di un potere assoluto, ma è tenuto a tutelare i diritti fondamentali che ogni individuo possiede “per natura” (diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà).
La difesa della tolleranza Nella Lettera sulla tolleranza (1689) Locke teorizza la separazione radicale tra la sfera politica e quella religiosa, ossia tra lo Stato e la Chiesa. Nello Stato egli scorge un’associazione di uomini costituita al solo scopo di conservare e promuovere i beni civili; nella Chiesa una società formata spontaneamente per onorare Dio e per ottenere la salvezza dell’anima. La distinzione tra i due ambiti, secondo Locke, è necessaria per l’instaurarsi di una condizione di tolleranza: in campo religioso, la possibilità di professare liberamente il proprio credo è salvaguardata dal non-intervento dell’autorità statale; mentre in campo politico è assicurata l’uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalla religione praticata.
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MAPPE
CAPITOLO 2 LOCKE LE IDEE costituiscono
l’oggetto del nostro intelletto il quale è
passivo
attivo
nel ricevere
nel produrre
idee semplici
idee complesse
idee generali
attraverso
che comprendono
che sono
il senso interno (idee di riflessione)
il senso esterno (idee di sensazione)
sostanze
modi
relazioni
segni di insiemi di cose particolari
LA CONOSCENZA riguarda
le idee
realtà diverse delle idee
e in questo caso è
e in questo caso può essere
percezione di un accordo o di un disaccordo tra idee
conoscenza certa
ossia
quando concerne
conoscenza intuitiva (se l’accordo o il disaccordo è percepito immediatamente)
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conoscenza dimostrativa (se l’accordo o il disaccordo è reso evidente attraverso idee intermedie)
l’io (colto intuitivamente) Dio (dimostrato razionalmente) le cose (colte attraverso la sensazione, che non può essere ingannevole)
Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
conoscenza probabile quando si basa
sull’esperienza passata o sulla testimonianza altrui
IL LIBERALISMO è la prospettiva politica di Locke, il quale
rifiuta l’assolutismo e l’origine divina del potere del re e intende
lo stato di natura
lo Stato
come
come
condizione pre-sociale in cui gli uomini vivono pacificamente seguendo la legge di natura e godono di uguali diritti
società tra gli uomini costituita per tutelare i diritti naturali dei singoli
che sono
e fondata
il diritto alla vita il diritto alla libertà il diritto alla proprietà
sul consenso dei cittadini
sul contratto stipulato tra i sudditi e il sovrano
LA TOLLERANZA è realizzabile mediante la separazione di
Stato
Chiesa
che è
che è
costituito per promuovere e conservare i beni civili
formata per onorare Dio e ricercare la salvezza dell’anima
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CAPITOLO 2 LOCKE
la conoscenza nella prospettiva empiristica
Locke è il massimo esponente dell’empirismo moderno. Come già anticamente Aristotele, anche lui è convinto che nell’intelletto umano non si trovino contenuti che non risalgano, direttamente o indirettamente, alla testimonianza dei sensi. Pertanto, pur riconoscendo nella ragione l’unica guida dell’esistenza, Locke le assegna un potere limitato, circoscritto dall’esperienza. TESTO
1
L’origine delle idee
(Saggio sull’intelletto umano)
IL TESTO NELL’OPERA Redatto durante gli anni dell’esilio olandese e pubblicato integralmente in Inghilterra soltanto nel 1690, il Saggio sull’intelletto umano esprime gli esiti maturi e complessivi della riflessione di Locke sulla conoscenza. Nell’“Epistola al lettore” che costituisce la premessa al Saggio, Locke precisa di mirare «sinceramente alla verità e all’utilità», e illustra l’occasione da cui è nata l’opera: riunito con alcuni amici intenti a discutere di vari argomenti, egli capisce che, prima di ogni tipo di ricerca, è necessario esaminare le nostre capacità e verificare quali siano gli oggetti che siamo in grado di trattare. Seguono quattro libri: il primo è indirizzato a confutare l’innatismo, il secondo contiene la teoria in base alla quale le idee derivano dall’esperienza, il terzo affronta il tema del linguaggio, il quarto quelli della conoscenza, delle opinioni e della fede. Nel testo riportato di seguito, tratto dal secondo libro, l’assunto empiristico della gnoseologia lockeana trova la sua formulazione più nota: Locke afferma che «tutto il materiale della ragione e della conoscenza» deriva dall’esperienza. La distinzione tra idee di sensazione e idee di riflessione sottolinea però che l’empirismo lockeano non va confuso con una forma di sensismo tout court, dal momento che implica, da parte dell’intelletto, un comportamento almeno parzialmente attivo. la mente come Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni caratte«foglio bianco» re, senza alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto 2
deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con una varietà quasi infinita? Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Ri- 4 spondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva. La nostra osservazione, adoperata sia per gli oggetti esterni 6 sensibili, sia per le operazioni interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è ciò che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. […] 8
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
le idee di In primo luogo, quando i nostri sensi vengono in rapporto con oggetti sensibili particolari, sensazione trasmettono allo spirito molte percezioni distinte dalle cose, secondo i vari modi in cui 10
quegli oggetti agiscono sui nostri sensi. E così veniamo ad avere le idee del giallo, del bianco, del caldo, del freddo, del morbido, del duro, dell’amaro, del dolce e di tutte quelle che chia- 12 miamo qualità sensibili. E quando dico che i sensi le trasmettono allo spirito intendo che dagli oggetti esterni essi trasmettono allo spirito ciò che vi produce queste percezioni. 14 Chiamo sensazione questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, che dipendono interamente dai nostri sensi, dai quali l’intelletto le deriva. 16
le idee di In secondo luogo, l’altra sorgente dalla quale l’esperienza trae le idee che fornisce all’intelriflessione letto è la percezione delle operazioni del nostro spirito in noi stessi, così com’è applicato 18
alle idee che ha; operazioni che, quando l’anima ci riflette e le considera, forniscono all’intelletto un altro insieme di idee che non potrebbero essere ottenute dalle cose esterne. Tali sono il percepire, il pensare, il dubitare, il credere, il ragionare, il conoscere, il volere e tutte le diverse azioni del nostro spirito; e giacché ne siamo consapevoli e le osserviamo in noi stessi, ne riceviamo nel nostro intelletto idee tanto distinte quanto quelle che ci provengono dai corpi che agiscono sui nostri sensi. Ogni uomo ha in sé questa fonte di idee; e sebbene non si tratti di un senso, poiché non ha nulla a che fare con gli oggetti esterni, tuttavia è molto simile ad esso e potrebbe propriamente essere chiamata senso interno. Ma così come chiamo l’altra sensazione, chiamo questa r iflessione, perché le idee che essa ci dà sono soltanto quelle ottenute dallo spirito quando riflette in se stesso sulle proprie operazioni. […] Io dico che queste due cose, cioè le cose esterne materiali quali oggetti della sensazione, e le operazioni del nostro spirito dentro di noi quali oggetti della riflessione, sono le sole origini dalle quali tutte le nostre idee hanno inizio.
20 22 24 26 28 30
(Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. 1, trad. it. di M. e N. Abbagnano, utet, Torino 1971, pp. 133-135)
La mente come «foglio bianco» (rr. 1-8) Utilizzando l’immagine, notissima, del «foglio bianco» (r. 1), Locke paragona la condizione originaria della mente umana a quella di un “contenitore” vuoto, pronto ad accogliere in modo passivo quella «varietà quasi infinita» (rr. 3-4) di idee di cui diverrà «deposito» (r. 3) nel corso della vita. Le idee di sensazione (rr. 9-16) La nostra conoscenza non è rivolta direttamente alle cose, ma alle idee delle cose (ideismo). Nel caso in cui tali idee si riferiscano a (o derivino da) oggetti o eventi a noi “esterni” (il libro che mi sta di fronte, l’infuriare del temporale ecc.), si ha a che fare con idee di sensazione, ovvero con idee che «dipendono interamente dai nostri sensi» (r. 16). Le idee di riflessione (rr. 17-31) Se le idee di sensazione derivano interamente dai sensi, le idee di riflessione derivano interamente da quello che Locke chiama «senso interno» (r. 26), cioè dalla consapevolezza delle operazioni svolte dall’intelletto sulle idee.
Si noti come, per Locke, le idee che l’individuo possiede (siano esse idee di sensazione, cioè di “cose esterne”, oppure di riflessione, cioè di “cose interne”) derivino sempre da una percezione, ovvero da un atteggiamento passivo dell’intelletto. Il fatto però di poter cogliere (passivamente) le idee delle operazioni “interne” del nostro spirito testimonia l’esistenza di un’attività dell’intelletto stesso. Facendo riferimento agli oggetti della sensazione e della riflessione (le «cose esterne materiali», r. 29, e le «operazioni del nostro spirito», r. 18) come fondamento ultimo di ogni nostra conoscenza, Locke sembra abbracciare una prospettiva di realismo scientifico. Tuttavia, la convinzione, che pure emerge in queste righe, in base alla quale la nostra conoscenza si “riduce” unicamente alle nostre idee apre la possibilità di un’interpretazione della gnoseologia lockeana anche in senso “ideistico” o “idealistico”. In altre parole, seguendo la tradizione cartesiana, secondo cui le idee costituiscono la rappresentazione intra-mentale di oggetti
TESTI LOCKE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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extra-mentali, da un lato Locke ritiene che le idee dipendano direttamente dalle cose, dall’altro si ritrova a fare i conti con la questione del rapporto tra res cogitans e res extensa. A questo proposito egli afferma
non soltanto l’attendibilità della mediazione operata dalle idee tra oggetto e soggetto, ma anche la sua verificabilità grazie alla metodica reiterazione delle percezioni e al confronto con gli altri.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Nel Teeteto Platone paragona l’anima umana a un blocco di cera su cui si stampano le impressioni del mondo esterno; nel De anima Aristotele parla dell’intelletto come di un libro in cui tutto è scritto in potenza, ma niente ancora in atto. Attingendo alle conoscenze che hai maturato l’anno scorso, in un testo scritto (max 30 righe) metti a confronto il significato che la tavoletta o la pagina bianca hanno per i due filosofi antichi e per Locke.
TESTO
2
L’inconoscibilità della sostanza (Saggio sull’intelletto umano) Il testo seguente riporta la critica mossa da Locke all’idea di sostanza, un concetto basilare nella tradizione metafisica occidentale, che tuttavia il filosofo considera infondato. Quando determinate idee semplici si presentano accostate tra loro con una certa costanza l’intelletto le aggrega, fino a considerarle come se fossero una sola. Non riuscendo a immaginare in quale modo tali idee semplici possano sussistere da sole, l’intelletto ipotizza che ci sia “qualcosa” a cui ineriscono: da qui si origina appunto l’idea di sostanza. Siamo perciò portati a presumere l’esistenza di un fondamento ultimo di tutte le idee fornite dall’esperienza che tuttavia non potremo mai conoscere direttamente.
l’idea della Poiché lo spirito, come ho già detto, è fornito di un gran numero di idee semplici, ad esso sostanza in convogliate dai sensi così come si trovano nelle cose esterne o dalla riflessione sulle pro- 2 generale
prie operazioni, esso si accorge anche che un certo numero di queste idee semplici vanno costantemente insieme. Presumendo che esse appartengano ad una cosa sola, e poiché le parole si adattano alle apprensioni comuni e sono usate per un rapido scambio, queste idee, così unite in un solo soggetto, vengono chiamate con un nome solo; che inavvertitamente ci capita in seguito di menzionare e di considerare come una sola idea semplice, mentre invece è una complicazione di molte idee messe assieme. Infatti, come ho detto, poiché non immaginiamo in quale maniera queste idee semplici possano sussistere da sole, ci abituiamo a supporre che ci sia qualche substratum in cui sussistono e dal quale risultano, che chiamiamo perciò sostanza. Se qualcuno vorrà esaminare la propria nozione di sostanza pura in generale, troverà che non ne ha nessun’altra idea se non la supposizione di non si sa quale sostegno di quelle qualità che sono capaci di produrre idee semplici in noi; qualità che comunemente si chiamano accidenti. […] L’idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine re substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno sub-stantia […].
4 6 8 10 12 14 16 18
le idee delle Avendo formato in tal modo un’idea oscura e relativa della sostanza in generale, giungiamo sostanze alle idee di particolari specie di sostanze, raccogliendo quelle combinazioni di idee semplici che 20 particolari
l’esperienza e l’osservazione dei sensi umani ci hanno fatto scorgere come esistenti insieme,
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
e si suppongono quindi scaturite dalla particolare costituzione interna o dall’essenza sco- 22 nosciuta di quella sostanza. Così giungiamo ad avere le idee di un uomo, un cavallo, l’oro, l’acqua ecc.; e mi appello all’esperienza di ognuno per sapere se chiunque abbia un’idea 24 chiara di tali sostanze al di fuori di certe idee semplici che coesistono. I limiti della Mi sembra quindi probabile che le idee semplici che riceviamo dalla sensazione e dalla ri- 26 conoscenza flessione siano i confini dei nostri pensieri, al di là dei quali lo spirito, per quanti sforzi facumana
cia, non è in grado di avanzare di un passo; né può fare alcuna scoperta quando vuole sbir- 28 ciare nella natura e nelle cause nascoste di quelle idee. (Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. 23, cit., pp. 350-351 e 368-369)
L’idea della sostanza in generale (rr. 1-18) Come abbiamo visto ( testo 1), la sensazione ci convince dell’esistenza di sostanze estese e la riflessione dell’esistenza di sostanze pensanti: mediante la sensazione, infatti, percepiamo alcune proprietà che supponiamo ineriscano alla stessa cosa o sostanza; ad esempio, siamo convinti che gli esseri umani abbiano sempre e comunque due braccia e due gambe, che gli alberi portino innumerevoli foglie verdi ecc. Analogamente, mediante la riflessione, percepiamo le operazioni del nostro intelletto e supponiamo ineriscano allo stesso soggetto o sostanza pensante. Il cuore della critica lockeana è contenuto in queste righe, in cui si passa dalle idee delle sostanze particolari a quella della sostanza in generale, la quale, svuotata degli «accidenti» (r. 15) che di volta in volta le attribuiamo, non corrisponde più a nulla che noi possiamo in qualche modo raggiungere. Il problema del “che cosa” sia la sostanza si dissolve così in quello del “come” la costruiamo. Le idee delle sostanze particolari (rr. 19-25) La differenziazione tra la nozione di sostanza in generale e le idee particolari di sostanza è di fondamentale importanza, poiché segna il discrimine tra ciò che Locke accetta e ciò che rifiuta. Egli non riconosce la sostanza intesa come “sostrato” (nozione generale) a causa dell’oscurità di quest’idea, ma ammette l’esistenza di quelle che lui stesso chiama “sostanze” (idee particolari), intendendole semplicemente come
composti di determinazioni. Possiamo dire, ad esempio, che il cavallo è una sostanza, se con questa espressione ci riferiamo a un animale (particolare) con coda e criniera, in grado di correre e nitrire; non siamo invece in grado di dire se lo sia, qualora, intendendolo come qualcosa che non può essere indicato con una o più proprietà (accidentali), andassimo in cerca di un’entità che assomma in sé, in modo del tutto “astratto”, le caratteristiche di avere una coda e una criniera, come di correre e di nitrire ecc. I limiti della conoscenza umana (rr. 26-29) La conclusione lockeana è aperta: il filosofo non nega l’esistenza delle sostanze, ma esclude con decisione la possibilità dell’intelletto umano di ottenerne una qualche conoscenza. È lo stesso Locke a dissipare equivoci e interpretazioni inadeguate della sua dottrina nella lettera a Stillingfleet, vescovo di Worcester, datata 1697, asserendo: «io fondo non l’esistenza, ma l’idea di sostanza sull’abitudine nostra di supporre un qualche substratum: perciò qui parlo solo dell’idea della sostanza e non del suo essere. Sempre ho affermato che un uomo è una sostanza e ho proseguito nei miei ragionamenti su un simile fondamento; non è dunque possibile supporre che io metta in questione o che dubiti dell’esistenza della sostanza, fin tanto che non metto in questione o in dubbio il mio proprio essere» (Lettera a Edward Stillingfleet, in J. Locke, Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Sina, Rusconi, Milano 1979, p. 507).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Locke ritiene che le nostre «parole» e «apprensioni comuni» (r. 5) contribuiscano alla formazione dell’idea di sostanza: a partire da questa affermazione rifletti sul ruolo rivestito dal linguaggio e dall’abitudine nel processo costitutivo dei concetti metafisici. Esprimi e argomenta la tua opinione al riguardo in un testo scritto (max 25 righe).
TESTI LOCKE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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le ragioni etico-religiose della tolleranza
La Lettera sulla tolleranza si apre con l’affermazione secondo cui la carità è il principale segno distintivo della vera Chiesa cristiana. Così Locke sottolinea fin dall’esordio della sua argomentazione l’importanza del buon esempio per la diffusione della fede, da cui derivano il rifiuto dell’uso della forza e, quindi, la scelta di un atteggiamento tollerante. TESTO
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La tolleranza come segno del cristianesimo autentico
(Lettera sulla tolleranza)
IL TESTO NELL’OPERA La Lettera sulla tolleranza – indirizzata all’amico Philip van Limborch, professore di teologia presso il “Collegio dei Rimostranti” di Amsterdam – è forse il testo più noto e fortunato di Locke. Pubblicata nel 1689 e letta anche al di fuori della cerchia dei filosofi di professione, proclama alcuni princìpi perenni della civiltà laica e liberale: la libertà della coscienza, la separazione fra Stato e Chiesa e il pluralismo religioso, anticipando di almeno un secolo la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) e la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789). L’opera raccoglie le principali argomentazioni contro l’intolleranza religiosa che erano state elaborate nell’ambiente dell’Europa riformata, sviluppandole in modo originale. Nel testo seguente Locke richiama uno dei significati fondamentali da lui attribuiti alla tolleranza: essa è un obbligo etico-religioso, in quanto carattere distintivo dell’autentico cristiano. la carità come Illustrissimo Signore, fondamento Poiché mi chiedete la mia opinione sulla tolleranza reciproca tra i Cristiani, vi rispondo in 2 della «vera religione» poche parole che la ritengo il principale segno distintivo della vera Chiesa. Infatti, per
quanto alcuni possano vantare antichità di luoghi di culto e di titoli, o magnificenza di riti; altri la riforma a cui hanno sottoposto il loro insegnamento; e tutti infine l’ortodossia della loro fede (perché ciascuno è ortodosso per se stesso), questi, ed altri dello stesso genere, possono essere segni di una contesa tra uomini, per il potere e il dominio, anziché segni della Chiesa di Cristo. Uno che possegga tutte queste doti non è ancora cristiano, se manca di carità, di mitezza e di benevolenza verso tutti gli uomini in generale, anche quelli che non professano la fede cristiana. Diverso è il compito della vera religione, che non è nata per sviluppare un fasto esteriore, né per instaurare il dominio degli ecclesiastici, né, infine, per esercitare la violenza; ma per porre in atto una vita giusta e pia. Chi vuole militare nella Chiesa di Cristo deve innanzitutto dichiarare guerra ai suoi propri vizi, al suo orgoglio e alle sue passioni; vano sarebbe altrimenti rivendicare il nome di cristiano, se non si pratica una vita santa, se non si hanno costumi puri, e benignità e mitezza d’animo. […] Difficilmente infatti potrà persuaderci di essere particolarmente preoccupato della salvezza altrui chi trascura la propria; nessuno può sinceramente dedicarsi anima e corpo a far sì che altri diventino cristiani, se in cuor suo non ha ancora abbracciato effettivamente la religione di Cristo. Se infatti dobbiamo prestar fede al Vangelo e agli Apostoli, nessuno può essere cristiano senza carità, e senza la fede che agisce con l’amore, non con la forza. […] Perché mai uno zelo così grande per Dio, per la Chiesa, per la salvezza delle anime, che arde fino a bruciare delle persone vive, ma lascia impuniti, senza neppure accorgersene, quei delitti e quei vizi morali che sono, per ammissione generale, diametralmente opposti alla professione del Cristianesimo, si attacca soltanto, dedicandovi tutte le sue forze, all’introduzione di riti o alla correzione di opinioni, che per giunta riguardano per lo più questioni
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sottili, che sorpassano la capacità di comprensione della gente comune? Quale delle parti contendenti abbia l’opinione più giusta su questi argomenti, quale sia colpevole di scisma o 28 di eresia, se la parte che trionfa o quella che soccombe, lo si saprà per certo nel momento in cui sarà giudicata la ragione della loro divisione. Perché chi segue il Cristo e abbraccia la sua 30 dottrina e prende su di sé il suo giogo, anche se abbandona suo padre e sua madre, i riti patrii, le adunanze pubbliche o anche tutti gli uomini, tuttavia non è eretico. 32 l’irragionevolezza […] Che qualcuno voglia che un’anima, la cui salvezza egli intensamente desidera, spiri tra della forza come i tormenti, quando per giunta non è ancora convertita, mi stupisce davvero, e insieme a me, 34 strumento di conversione credo, stupirà altri; ma una cosa è certa: che nessuno può pensare che un tale comporta-
mento derivi dall’amore, dalla benevolenza, dalla carità. Se gli uomini hanno da essere costretti col ferro e col fuoco ad abbracciare determinati dogmi, e se gli si deve imporre con la violenza un culto esteriore, senza che peraltro siano posti minimamente in discussione i loro costumi; se qualcuno converte alla fede gli eterodossi, nel senso di costringerli a professare ciò che non credono, e di permettere loro di compiere azioni che il Vangelo non permette ai Cristiani, e il fedele non permette a se stesso; se è così, non dubito che costui voglia che un numeroso consesso professi insieme a lui queste stesse cose; ma chi può pensare che ciò che egli vuole sia la Chiesa di Cristo? Dunque non c’è di che stupirsi se si serve di armi inadatte ad una milizia cristiana chi, nonostante le sue pretese, non milita dalla parte della vera religione e della Chiesa di Cristo.
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l’esempio Se costoro bramassero sinceramente la salvezza delle anime, come la guida della nostra sal- 46 di Cristo vezza, seguirebbero le sue orme, e imiterebbero l’esempio eccellente del principe della pace,
che inviò i suoi ministri a soggiogare le genti e a raccoglierle in una Chiesa, non armati di ferro, non di spada, non di violenza, ma provvisti del Vangelo, di un messaggio di pace, di costumi santi e del suo esempio; eppure, se gli infedeli avessero dovuto essere convertiti con la forza delle armi, se i mortali accecati od ostinati avessero dovuto essere distolti dai loro errori da soldati in armi, sarebbe stato più facile per lui avere a disposizione l’esercito delle legioni celesti, che per qualunque protettore della Chiesa, per quanto potente, ricorrere alle sue coorti. La tolleranza verso coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto consona al Vangelo e alla ragione, che appare una mostruosità che ci siano uomini ciechi, di fronte a una luce così chiara.
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(Lettera sulla tolleranza, trad. it. di D. Marconi, in Scritti sulla tolleranza, utet, Torino 1997, pp. 131-135)
La carità come fondamento della «vera religione» (rr. 1-32) La Lettera si apre con l’affermazione secondo cui la «carità» (r. 9) – cioè quell’amore rivolto a tutti (compreso il proprio nemico) da cui deriva la tolleranza – è il segno distintivo della fede cristiana: l’autentico cristiano non combatte con la spada ma con la persuasione e il buon esempio. Locke individua quindi l’essenza del cristianesimo non in un sistema di dogmi o di riti particolari, ma nella pratica dell’amore e della benevolenza, cioè in una vita degna dell’esempio di Gesù. Dietro l’intolleranza di molti cristiani, secondo
Locke, non si nasconde tanto la ferma adesione alla propria fede, quanto l’“eresia” più pericolosa: la tendenza a non cambiare sé stessi e a non combattere contro i propri vizi. Per Locke la vera Chiesa cristiana non si fonda sulla presunta verità dei suoi dogmi (che concernono perlopiù «questioni sottili, che sorpassano la capacità di comprensione della gente comune», rr. 26-27), né sui riti (che spesso sono imposti con la forza e l’autorità), bensì sulla carità, cioè proprio sulla pratica di quella tolleranza che accoglie tutte le opinioni e tutti i riti come legittimi.
TESTI LOCKE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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L’irragionevolezza della forza come strumento di conversione (rr. 33-45) Che qualcuno possa desiderare di convertire un individuo facendolo morire tra i tormenti (come ritenevano di dover fare i giudici dell’Inquisizione) è per Locke cosa assurda. Così come è assurdo pensare che l’uso della forza in materia di fede derivi dall’amore. Per cogliere fino in fondo l’importanza di queste osservazioni, bisogna tener conto del fatto che, prima del Seicento, l’intolleranza era perlopiù considerata uno strumento legittimo per salvaguardare l’ortodossia della fede cristiana dalla contaminazione eretica. Agostino, nell’Epistola 93 al vescovo Vincenzo, era stato il primo a prospettare l’uso della forza in materia di religione come atto di carità finalizzato alla salvezza dell’eretico, il quale, essendo incapace di redimersi autonomamente, doveva essere “costretto” alla verità. Proclamandosi come unica depositaria della verità da cui scaturisce la salvezza, all’epoca di Locke la Chiesa cattolica aveva a lungo invocato il potere temporale (con i suoi strumenti coercitivi e punitivi) per conservare intatto il monopolio delle coscienze. Con la fine dell’unità religiosa dell’Europa, da una parte essa lottava contro l’eresia protestante, mentre dall’altra le diverse Chiese riformate tendevano a reprimere con la forza anche i dissidenti interni. Il fanatismo per una verità ritenuta unica fonte di salvezza aveva dunque
privato il cristianesimo della sua essenza evangelica: la carità. Ed è proprio questo impianto teorico che Locke intende qui confutare. Non si può costringere con la forza ad abbracciare una certa fede. Al massimo si può imporre un certo culto esteriore ma, nel profondo della propria coscienza, colui che è stato “convertito” con la violenza continuerà a credere ciò che vuole. L’esempio di Cristo (rr. 46-56) Se l’uso della forza fosse legittimo, lo stesso Cristo avrebbe fatto ricorso all’«esercito delle sue legioni celesti» (rr. 52-53) per distogliere gli uomini dal peccato e diffondere la vera fede; ma così non è stato. La tolleranza in materia di religione è, secondo Locke, conforme non soltanto al Vangelo ma anche alla ragione; è un obbligo cristiano e razionale nello stesso tempo. Del resto, per Locke il cristianesimo, una volta spogliato dei suoi dogmi e dei suoi riti esteriori (che sono il frutto dell’imposizione delle diverse Chiese), possiede un’intrinseca “ragionevolezza” e può essere ricondotto a pochi contenuti essenziali e condivisibili. Questa convinzione è riconducibile al deismo, corrente di pensiero (di cui Locke è considerato uno dei fondatori) che, oltre alle diverse religioni positive o storiche, ammetteva una religione “naturale”, fondata sulla fede “razionale” nell’esistenza di un Dio creatore e ordinatore del mondo.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS A partire dal testo che hai letto, immagina un dialogo tra Locke e Spinoza sul tema della tolleranza (max 40 righe). Fai in modo che emerga, oltre alla concezione filosofica dei due pensatori, anche lo specifico contesto storico-culturale che ne influenzò le riflessioni.
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Unità 4 Il pensIero Inglese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a Hume CApitOLO 2 Locke
CAPITOLO 3 BERKELEY
1. Un pensatore eclettico L’empirismo di Locke viene assunto dal vescovo anglicano George Berkeley come punto di partenza e fondamento per una difesa dei valori spirituali e religiosi, esattamente come, allo stesso fine, Nicolas Malebranche si era servito del razionalismo cartesiano ( unità 3, cap. 1, p. 161). Berkeley nasce a Dysert, nell’Irlanda occidentale, il 12 marzo 1685 e si laurea a Dublino nel La vita e 1707. Formulato prestissimo il principio fondamentale della sua filosofia (l’immateriali- le opere smo), pubblica il Saggio di una nuova teoria della visione (1709), il Trattato sui princìpi della conoscenza umana (1710) e i Tre dialoghi tra Hylas e Philonous (1713). Dopo alcuni anni trascorsi in studi e viaggi e nella frequentazione della società brillante di Londra, concepisce il grande disegno di evangelizzare e civilizzare i “selvaggi” d’America. Credendo di avere attirato sul suo progetto l’attenzione del pubblico e del governo, nel 1728 parte per fondare un collegio nelle isole Bermuda. Fermatosi a Rhode Island per attendere (inutilmente) i sussidi promessi, vi rimane fino alla fine del 1731. In questi anni compose l’Alcifrone, dialogo polemico contro i liberi pensatori del tempo. Ritornato a Londra, riprende i suoi studi e chiede di essere nominato vescovo di Cloyne, in Irlanda, dove si stabilisce una volta ottenuta la nomina, per dedicarsi a opere filantropiche e morali. Nel 1740 l’Irlanda viene colpita da alcune epidemie e Berkeley crede di aver individuato nell’acqua di catrame un medicamento miracoloso. Compone allora un’opera intitolata Siris (1744), in cui, partendo dall’analisi delle proprietà di questo elemento, elabora una dottrina metafisica di stampo neoplatonico. Nel 1752 si trasferisce a Oxford, dove muore il 20 febbraio 1753.
2. Il nominalismo Berkeley è convinto che la causa principale delle incertezze e degli errori filosofici consista La critica nel credere che il nostro spirito possa legittimamente formare idee astratte. Il procedimen- dell’astrazione to astrattivo è il seguente: la nostra mente, una volta osservato, ad esempio, che tutti gli oggetti estesi hanno come tali qualcosa in comune, isola questo elemento comune dagli elementi (grandezza, figura, colore ecc.) che invece li differenziano e forma l’idea astratta dell’estensione, che non è né una linea né una superficie né un solido, e che non ha né una figura né una grandezza, ma è completamente separata da tutte queste cose. Ora, Berkeley nega che lo spirito umano possieda effettivamente queste capacità astrattive, e pertanto afferma che le idee astratte non sono legittime. L’idea di “uomo” è in realtà
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sempre l’idea di un uomo particolare, bianco o nero, alto o basso ecc. L’idea di “estensione” è sempre quella di un particolare oggetto esteso, dotato di una determinata figura, di una determinata grandezza e così via. L’idea di “uomo” in generale, ovvero l’idea di un uomo che non presenti alcun carattere particolare, non esiste, così come un uomo di tal genere non esiste nella realtà. Le idee Queste considerazioni servono a Berkeley per difendere un nominalismo che, come generali come quello di Locke, discende direttamente da Ockham ma che, rispetto a quello lockeano, idee particolari
è ancora più radicale. Quelle che Locke chiama «idee generali» non sono, per Berkeley, idee astratte (come ritiene Locke), ma idee particolari assunte come segni di un gruppo di altre idee particolari tra loro affini. Pertanto, il presunto carattere di universalità di un’idea deriva, a ben guardare, soltanto dalla funzione di “segno” che essa può svolgere nei confronti di altre idee. glossario p. 339 Il triangolo che un geometra ha presente per dimostrare un qualsiasi teorema è sempre un triangolo particolare, ad esempio isoscele; ma poiché di quel carattere particolare del triangolo non si fa menzione nel corso della dimostrazione, il teorema dimostrato vale indistintamente per tutti i triangoli, ognuno dei quali può prendere il posto di quello considerato. Questa è la sola universalità che le nostre idee possono possedere.
3. L’immaterialismo Strettamente legato al nominalismo e alla critica all’astrazione è la prospettiva fondamentale di Berkeley, ovvero l’immaterialismo.
Esse est percipi La riduzione Anche Berkeley (come già aveva fatto Locke) fa suo il principio cartesiano secondo il quadegli oggetti le i soli “oggetti” della conoscenza umana sono le idee, non la realtà esterna. Ma Berkeal loro essere percepiti ley deriva da tale principio conseguenze ben più radicali di quelle lockeane: ciò che noi
chiamiamo “cose” – egli afferma – non sono altro, per quanto ci è dato sapere, che collezioni di idee. Ad esempio, una mela è l’insieme delle idee di un certo colore, di un certo odore, di una figura e di una consistenza determinate. Ma le idee, per esistere, hanno bisogno di essere percepite: il loro essere (esse) – dice Berkeley – consiste nel loro essere percepite (percipi), secondo la formula esse est percipi . E questo vale non soltanto per le idee dei nostri pensieri o sentimenti (cioè per quelle che Locke chiama «idee di riflessione»), ma anche per le idee che derivano dai sensi. Comunemente si crede che le cose (le persone, gli alberi, le case ecc.) abbiano un’esistenza reale distinta dalla percezione che ne ha il nostro intelletto: si distingue l’essere percepito di una cosa dal suo essere reale. Ma questa distinzione non è altro che una delle tante astrazioni che Berkeley condanna. L’oggetto e la percezione sono la stessa cosa e non possono essere astratti o separati l’uno dall’altra: glossario p. 339
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per me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono. (Trattato sui princìpi della conoscenza umana, parte I, par. 3, a cura di M.M. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 32-33)
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Questo vuol dire che la materia, intesa come oggetto (esterno) immediato della nostra co- La materia noscenza non esiste. Questo presunto oggetto è soltanto un’idea, e l’idea non esiste se come astrazione non è percepita da un intelletto. L’unica sostanza reale è dunque lo spirito che percepisce le idee. Afferma Berkeley:
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Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprir gli occhi per vederle. Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, che insomma tutti quei corpi che formano l’enorme impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti. E di conseguenza, finché non vengono percepiti attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente né in quella di qualcun altro spirito creato, non esistono affatto, o altrimenti sussistono nella mente di qualche Eterno Spirito: poiché sarebbe assolutamente incomprensibile, e porterebbe a tutte le assurdità dell’astrazione, l’attribuire a qualunque parte dell’universo un’esistenza indipendente da ogni spirito. (Trattato sui princìpi della conoscenza umana, parte I, par. 6, cit., pp. 34-35)
Accanto alla dottrina che afferma l’esistenza di una materia esterna al nostro intelletto e da esso immediatamente conoscibile ve n’è un’altra più raffinata, secondo la quale i corpi materiali non sono percepiti in maniera immediata, ma sono comunque i modelli delle nostre idee, che ne sarebbero delle copie o delle immagini. Ma Berkeley ribatte che, se questi esemplari esterni, questi «originali» delle nostre idee sono percepibili, allora nel momento stesso in cui vengono percepiti diventano anch’essi interni alla mente, cioè idee; e se invece non sono percepibili, allora è impossibile che possano “assomigliare” alle idee che li rappresentano. Un colore, ad esempio, non sarà mai simile a qualcosa che per sua natura è invisibile, così come il duro e il soffice non potranno mai essere simili a qualcosa che non si può toccare. Ma in tal caso non potremo mai saperne nulla, né tanto meno paragonarli alle nostre rappresentazioni.
La critica della realtà esterna come modello delle idee
Confutata la teoria rappresentazionale di Locke, per il quale le idee di sensazione “rappresentavano” in modo certo le qualità primarie degli oggetti esterni, Berkeley può confutare anche la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, tra le quali, a suo parere, non c’è alcuna differenza. Le qualità primarie, infatti, non esistono senza quelle secondarie: non c’è, ad esempio, un’estensione che non sia colorata. E in ogni caso la forma, il movimento, la grandezza ecc. sono idee esattamente come i colori, i suoni ecc. Non possono dunque sussistere al di fuori di uno spirito che le percepisca, e non sono certamente più “oggettive” delle cosiddette qualità secondarie o “soggettive”; le cosiddette qualità primarie, perciò, «saranno anch’esse nella mente e non altrove» (Trattato, parte I, par. 10).
La critica alla distinzione tra qualità primarie e secondarie
L’ultimo rifugio del materialismo potrebbe essere quello di ammettere l’esistenza di La critica all’idea una sostanza materiale quale substrato o “sostegno” delle qualità sensibili. Ma an- di una sostanza materiale che un tale substrato materiale, dovendo per definizione essere diverso dalle idee di sensazione, non avrebbe alcun rapporto con la nostra percezione, il che significa che non ci sarebbe modo di dimostrarne l’esistenza. Né potrebbe essere ritenuto la causa delle idee, perché non si può arrivare a concepire come un corpo agisca su uno spirito o possa produrre un’idea, essendo (il corpo e lo spirito) due dimensioni del tutto eterogenee. L’affermazione dell’esistenza reale di oggetti materiali “esterni” allo spirito è dunque per Berkeley assolutamente priva di senso. Noi possiamo indubbiamente pensare che
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un gruppo di alberi in un parco o una pila di libri in una biblioteca esistano senza che nessuno li percepisca, ma questo significherebbe pensarli come non pensati, il che è una contraddizione evidente. l’esistenza delle idee astratte (esistono soltanto idee particolari)
BERKELEY
nega
la distinzione tra qualità primarie e secondarie (le qualità primarie non esistono senza le secondarie)
affermando che
l’esistenza di una sostanza materiale (non può essere immediatamente conosciuta e non può fungere da causa attiva delle idee)
esse est percipi (la realtà è riconducibile a un insieme di idee che per esistere hanno bisogno di essere percepite)
Tutto ciò che esiste è idea (pensata) o spirito (pensante)
)
Per l’esposizione orale
1. Che cosa dice Berkeley a proposito delle idee astratte? 2. Spiega in che cosa consiste il nominalismo di Berkeley. 3. Che cosa significa la formula esse est percipi? 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la riduzione dell’essere di un certo oggetto al suo essere percepito da un intelletto: trovi sensata questa idea? Ha ragione Berkeley quando afferma che ciò di cui possiamo affermare con certezza l’esistenza sono esclusivamente le nostre idee? Argomenta la tua risposta. 5. Presenta in modo sintetico la critica di Berkeley al materialismo, utilizzando le espressioni elencate di seguito: immaterialismo spiritualistico, qualità primarie, qualità secondarie, substrato materiale.
Gli spiriti finiti e lo Spirito infinito L’attività Berkeley prosegue l’esposizione della propria dottrina osservando che le idee devono indello spirito dubbiamente avere una causa; ma questa non può essere, come si è visto, la materia. Né sulle idee
può essere qualche altra idea, dal momento che le idee sono essenzialmente inattive, cioè prive di forza e di azione. Attivo è soltanto lo spirito che le possiede. Il nostro spirito può quindi agire sulle idee, sulle quali infatti agisce, unendole e variandole liberamente:
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oltre a questa infinita varietà di idee, o di oggetti della conoscenza, v’è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, e esercita su di esse diversi atti come il volere, l’immaginare, il ricordare ecc. Questo essere che percepisce e agisce è ciò che chiamo “mente”, “spirito”, “anima”, “io”. (Trattato sui princìpi della conoscenza umana, parte I, par. 2, cit., p. 32)
dio come Ma il nostro spirito non ha alcun potere sulle idee percepite attualmente. Queste idee causa delle sono più forti, più vive e più distinte di quelle che derivano dalla nostra immaginazione. idee di sensazione Inoltre questo tipo di idee si presenta dotato di un ordine e di una coerenza assai supe-
riori a quelli che caratterizzano le idee raggruppate o organizzate dal nostro intelletto. Le idee corrispondenti a una sensazione attuale devono quindi essere prodotte in noi da uno Spirito superiore, che è Dio : glossario p. 339
Le idee impresse […] non sono creazioni della mia volontà. V’è dunque qualche altra (Trattato sui princìpi della conoscenza umana) volontà, ossia un altro spirito che le produce.
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E quelle che noi chiamiamo leggi di natura (ossia le leggi che regolano i fenomeni natu- L’affidabilità rali) sono le regole fisse e i metodi (modi) costanti mediante i quali Dio produce in noi delle leggi naturali le idee di sensazione. Noi apprendiamo quelle regole dall’esperienza, la quale ci insegna che nel corso ordinario delle cose una certa idea (ad esempio quella del fuoco) è sempre accompagnata da un’altra determinata idea (ad esempio quella del calore). Così siamo in grado di regolarci per i bisogni della vita, sapendo ad esempio che gli alimenti nutrono, il fuoco brucia ecc. L’ordine con cui le idee naturali si presentano dimostra quindi la bontà e la saggezza dello Spirito divino che ci governa. Berkeley intende in questo modo salvaguardare la realtà della conoscenza, evitando il rischio di ridurla a fantasia o a sogno. Affermando che le idee di ciò che noi chiamiamo “cose reali” sono prodotte nei nostri sensi da Dio, e che quelle altre, assai meno regolari e vive, che noi chiamiamo propriamente “idee”, sono le immagini delle prime, il filosofo ritiene infatti di avere saldamente stabilito la differenza tra realtà e fantasia. Egli non è neppure contrario all’uso del termine “cose” per indicare le idee reali provenienti da Dio. Si tratta soltanto di parole: l’importante è non attribuire alle “cose” una realtà esterna allo spirito. Il ricorso allo Spirito infinito di Dio permette inoltre a Berkeley di non dover ammettere che, negli intervalli in cui non sono percepite da alcuno spirito finito, le idee non esistano. Le idee non sono annientate e create in ogni momento, poiché, quando non sono percepite da noi, sono percepite da Dio. In questo senso le cose possono anche essere dette “esterne”, in quanto non sono generate dall’interno di quello spirito finito che è l’essere umano, ma sono impresse in esso da uno Spirito diverso, dal quale sono costantemente percepite in modo attuale. Per illustrare questo punto decisivo del pensiero di Berkeley, il filosofo contemporaneo Bertrand Russell (1872-1970), nella sua Storia della filosofia occidentale (1945), riporta alcuni simpatici versi del teologo britannico Ronald Knox (1888-1957):
L’esistenza delle “cose” nella percezione divina
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Si stupiva un dì un allocco: “Certo Dio trova assai sciocco che quel pino ancora esista se non c’è nessuno in vista”. “Molto sciocco, mio Signore, è soltanto il tuo stupore. Tu non hai pensato che se quel pino sempre c’è è perché lo guardo io. Ti saluto e sono Dio”.
Il fine etico-religioso della gnoseologia di Berkeley La concezione di Dio quale Spirito infinito che “causa” e rende affidabili le nostre idee L’inconciliabilità di sensazione, unita alla negazione dell’esistenza di una sostanza materiale, presenta se- di materialismo e religione condo Berkeley alcuni indubbi vantaggi al fine di una convincente giustificazione della religione. Quella tra materialismo e spiritualismo, infatti, è un’alternativa senza alcuna possibilità di compromesso: se si ammette che la materia è reale, l’esistenza di Dio diventa inutile perché la materia stessa diventa la causa di tutte le cose e delle idee che sono in noi. Il materialismo non può dunque che aprire la strada alla negazione di ogni disegno provvidenziale, di ogni libertà e intelligenza nella formazione del mondo, dell’immortalità dell’anima e della possibilità della resurrezione. L’esistenza della materia è il principale fondamento teorico dell’ateismo e del fatalismo.
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La natura come Al contrario, una volta bandita la materia dalla realtà esistente, non si può ricorrere che a linguaggio Dio per spiegare l’origine, l’ordine e la bellezza delle nostre idee di sensazione; e in questo divino
ESERCIZI
senso l’esistenza delle cose sensibili si palesa come l’evidenza immediata dell’esistenza di Dio. La considerazione e lo studio della natura acquistano così un immediato significato religioso, poiché rendersi conto delle leggi naturali significa interpretare il linguaggio attraverso il quale Dio svela i suoi attributi agli esseri umani, guidandoli verso la felicità autentica. In questa prospettiva la scienza della natura è una specie di grammatica del linguaggio divino, che considera i segni e le loro possibili combinazioni, più che le loro cause. L’autentica lettura e interpretazione del linguaggio divino spetta invece alla filosofia, la quale scopre il suo significato religioso delle leggi naturali, risalendo alla grandezza, alla saggezza e alla benevolenza del creatore. In altre parole, la maggior parte delle idee, corrispondendo a ciò che chiamiamo “opere della natura”, ci rivela direttamente l’azione di Dio come l’azione di uno Spirito unico, infinito e perfetto. L’esistenza di Dio è in questo senso assai più evidente per noi di quella degli altri esseri umani.
L’immortalità L’immaterialismo rende inoltre indubitabile l’immortalità dell’anima. Lo spirito, ovvero la dell’anima sostanza che pensa, che percepisce e che vuole, non ha alcun carattere in comune con le
idee. Le idee (come abbiamo detto) sono passive, lo spirito è attività; le idee sono labili e mutevoli, lo spirito è una realtà permanente e semplice, estranea a ogni composizione o scomposizione. Come tale, l’anima umana è immortale.
La conoscenza Il nostro spirito e le idee sono così diversi tra loro che del nostro spirito (ovvero del nodel nostro stro “io”) non possiamo neppure dire di avere un’idea. Lo conosciamo, sì, e con assoluspirito e di quello altrui ta certezza; ma questa conoscenza non corrisponde tanto a un’«idea», quanto a una
«nozione», che si presenta di natura completamente diversa rispetto a quella delle idee del mondo fisico. Gli spiriti diversi dal nostro, invece, li conosciamo attraverso le idee che producono in noi. La conoscenza che abbiamo di loro, quindi, non è immediata (come quella che abbiamo del nostro spirito), ma mediata e indiretta.
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Per l’esposizione orale
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1. Spiega qual è per Berkeley l’origine delle idee e che cosa sono le “leggi naturali”. 2. In che modo, in Berkeley, l’immaterialismo si lega alla fede in Dio?
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 BERKELEY
I princìpi della dottrina di Berkeley Nel delineare il proprio pensiero, George Berkeley (1685-1753) parte dalla convinzione che lo spirito umano non possieda un’effettiva capacità di formare idee astratte, e che pertanto le presunte idee generali siano in realtà idee particolari, ovvero semplici segni di un gruppo di idee tra loro affini. Su questa base si è soliti considerare la filosofia di Berkeley come una forma di
• nominalismo
dottrina filosofica secondo cui i cosiddetti “universali”, ossia i concetti o i termini generali, non hanno esistenza autonoma, ma sono “segni” che stanno al posto di più oggetti particolari.
Con Berkeley il nominalismo (già presente, ad esempio, in Ockham) acquista una radicalità inedita, poiché il filosofo inglese nega che gli universali (le «idee generali» di cui parlava Locke) esistano non soltanto nella realtà, ma anche nella mente umana Oltre al nominalismo, l’altro principio fondamentale della filosofia di Berkeley è l’immaterialismo, ossia la convinzione che la materia, intesa come sostanza “esterna” all’intelletto, non esista, poiché tutta la realtà si risolve nelle idee e negli spiriti che le percepiscono. Per quanto ci è dato sapere, infatti, tutte quelle che chiamiamo “cose” non sono altro che collezioni di idee, e le idee, per esistere, hanno bisogno di essere percepite. È questo il senso della celebre affermazione di Berkeley:
• esse est percipi
letteralmente, “l’essere è essere percepito”; la formula riassume la tesi fondamentale della filosofia di Berkeley, secondo il quale la realtà si risolve in un insieme di idee che, per esistere, hanno bisogno di essere percepite da uno spirito. In virtù di questa tesi, Berkeley esclude l’esistenza “assoluta”
delle cose, cioè la possibilità che vi siano realtà materiali indipendenti dalla mente: tutto ciò che esiste è idea, oppure spirito, secondo una posizione che viene definita “immaterialismo spiritualistico”.
Oltre a negare la distinzione tra gli oggetti e la percezione che ne abbiamo, Berkeley nega anche la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, argomentando che le qualità primarie non esistono concretamente senza le secondarie, ossia senza una mente che le colga come inerenti a qualche “oggetto” particolare. Infine, egli afferma che non c’è alcun modo di dimostrare l’esistenza della sostanza materiale, cioè di un sostrato che “sostenga” le qualità sensibili, poiché tale sostrato, dovendo essere diverso dalle idee, non potrebbe avere alcun rapporto con la nostra percezione. In conclusione, per Berkeley tutto ciò che esiste è idea, oppure spirito che conosce, percepisce, immagina, ricorda le idee.
La concezione di Dio Chiariti i presupposti della sua dottrina, Berkeley osserva che la causa delle idee corrispondenti a quelle che Locke chiamava «sensazioni attuali» non può essere il nostro spirito, che nella sua finitudine riceve questi pensieri senza poterli produrre. Le idee devono dunque essere impresse in noi da uno Spirito infinito, cioè da
• Dio
la realtà ontologica eterna e infinita da cui Berkeley fa derivare il sorgere delle idee nella mente umana.
Il ricorso allo Spirito infinito di Dio serve a Berkeley non soltanto per spiegare l’origine delle nostre idee, ma anche per garantire l’affidabilità delle scienze della natura: le leggi naturali, infatti, non sono altro che le regole e i metodi costanti con i quali Dio produce in noi le idee. Mediante la nozione di Spirito infinito (Dio) Berkeley spiega inoltre che cosa accada alle idee quando nessun intelletto umano le pensi: esse continuano a esistere perché, anche se non sono percepite da qualche spirito finito, sono percepite senza interruzione da Dio. Il presupposto anti-materialistico del pensiero di Berkeley si concilia così con l’affermazione dell’esistenza di Dio e con la difesa della religione, e la filosofia si configura come una lettura del linguaggio divino della natura.
339
MAPPE
CAPITOLO 3 BERKELEY I PRINCÌPI DELLA DOTTRINA DI BERKELEY sono
il nominalismo radicale
l’immaterialismo che comporta
che comporta
la negazione delle idee astratte
la riduzione della realtà a un insieme di idee
le quali sono
le quali
idee particolari assunte come segni di insiemi di altre idee particolari
per esistere devono essere percepite (esse est percipi)
il rifiuto della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie
la negazione dell’esistenza di una sostanza materiale
DIO è concepito come
Spirito infinito che
340
produce le idee (che sono percepite dal nostro spirito finito)
percepisce le idee con continuità
in base alle
garantendone
leggi naturali
l’esistenza anche quando noi non le pensiamo
Unità 4 IL pensIero IngLese tra ragIone ed esperIenza: da Hobbes a HUme Capitolo 3 Berkeley
CAPITOLO 4 HUME
1. La vita e le opere Un’esistenza di studio e di viaggi David Hume nasce il 26 aprile 1711 a Edimburgo, in Scozia, da una famiglia di origini La formazione nobili, ma non molto abbiente. Rimasto orfano di padre a soli due anni, trascorre l’infanzia giovanile in campagna. Nel 1725, ancora molto giovane, comincia a frequentare l’Università di Edimburgo, dove studia giurisprudenza. I suoi principali interessi sono però rivolti alla filosofia e alla letteratura. Dopo un breve e poco convinto tentativo di fare l’avvocato a Bristol, Hume si trasferisce in Francia, dove rimane tre anni, dal 1734 al 1737, dedicandosi finalmente agli studi filosofici. In questo periodo compone la sua prima e fondamentale opera, il Trattato sulla natura umana, i cui diversi libri vengono pubblicati tra il 1739 e il 1740, senza tuttavia riscuotere alcun successo. Ritornato in Inghilterra, pubblica nel 1742 la prima parte dei Saggi morali e politici, che invece ottengono un’accoglienza favorevole.
Gli studi filosofici e le prime pubblicazioni
Tra il 1745 e il 1748 Hume ricopre diversi incarichi politici, tra cui quello di segretario del generale e politico scozzese James St. Clair (1688-1762), che lo porta con sé presso le corti di Vienna e di Torino. E proprio mentre Hume si trova a Torino, nel 1748, a Londra viene pubblicata la Ricerca sull’intelletto umano, dove sono esposti in forma più semplice i contenuti della prima parte del Trattato.
I viaggi e la Ricerca sull’intelletto umano
Nel 1752 Hume ottiene un posto come bibliotecario a Edimburgo e comincia a compor- Gli studi storici re una Storia dell’Inghilterra. Pubblicata in sei volumi tra il 1754 e il 1762, l’opera ottiene e morali un grande successo, regalando finalmente all’autore una certa stabilità economica. Nel 1752 Hume dà alle stampe anche la Ricerca sui princìpi della morale, che è una rielaborazione della terza parte del Trattato. Del 1757 è invece la Storia naturale della religione. A quell’epoca Hume aveva già composto anche i Dialoghi sulla religione naturale, che però saranno pubblicati postumi, nel 1779. Nel 1763 Hume diventa segretario di Francis Seymour Conway, conte di Hertford (1718- Il periodo 1794), appena nominato ambasciatore d’Inghilterra a Parigi. Trasferitosi con lui nella ca- parigino pitale francese, il filosofo vi rimane fino al 1766, frequentandone, assai bene accolto, i vivaci ambienti intellettuali. Rientrato in Inghilterra, ospita in casa sua il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau Gli ultimi anni ( unità 5, cap. 4), il cui carattere ombroso finirà tuttavia per causare una rottura tra i due. CARTA INTERATTIVA Dal 1769 in poi, ormai benestante, Hume conduce una vita ritirata e tranquilla. Muore a i luoghi di Edimburgo il 25 agosto 1776. HUME
341
Uno “scienziato” della natura umana Nonostante la freddezza con cui venne inizialmente accolta, l’opera più importante di Hume è senz’altro il Trattato sulla natura umana (1739-1740). Il progetto Superiore per ampiezza e grado di dettaglio alla Ricerca sull’intelletto umano e alla Ricerca sui filosofico princìpi della morale, l’opera espone l’ambizioso progetto filosofico del pensatore scozzese:
quello di costruire una scienza della natura umana su base sperimentale, analoga a quella che Francesco Bacone aveva teorizzato per la natura fisica. Hume intende insomma proporsi come il “Newton” del mondo umano, offrendo un’analisi sistematica delle varie dimensioni che la costituiscono: dalla ragione al sentimento, dalla morale alla politica.
La natura umana come «capitale» del regno del sapere
Del resto, Hume è persuaso che la natura umana sia una sorta di «capitale» del regno del sapere, e che quindi una scienza che se ne occupi risulti più basilare e urgente delle altre. La tendenza empiristica e anti-metafisica della filosofia di Hume finirà per condizionare in modo decisivo questo progetto, delineando un’immagine della natura umana fortemente limitata nelle sue pretese conoscitive.
2. La teoria della conoscenza Dall’empirismo Se Locke, restringendo il sapere umano entro i limiti dell’esperienza, non aveva inteso diallo scetticismo minuirne il valore, Hume conduce invece l’empirismo a un esito scettico, giungendo ad
affermare che l’esperienza non è in grado di fondare la validità della conoscenza e costringendo i pensatori successivi a una radicale revisione della gnoseologia tradizionale.
La riduzione della realtà a impressioni e idee I contenuti Nella sua analisi della conoscenza umana – volta a sondare «la portata e la forza dell’inteldella mente letto umano», nonché «la natura delle idee» e «delle operazioni che compiamo nei nostri
ragionamenti» – Hume chiama percezioni tutti i contenuti della mente e li divide in due classi, che si distinguono tra loro per il diverso grado di forza e di vivacità con cui colpiscono lo spirito: 1. le percezioni che penetrano con più forza ed evidenza nella coscienza si chiamano impressioni e sono tutte le sensazioni, passioni ed emozioni attuali, cioè considerate nel momento in cui vediamo o sentiamo, amiamo o odiamo, desideriamo o vogliamo; 2. le «immagini sbiadite» di queste impressioni si chiamano invece idee . glossario p. 352 La differenza tra un’impressione e un’idea è, ad esempio, la stessa che intercorre tra il dolore provato per un calore eccessivo e il ricordo di questo dolore. L’idea non può mai raggiungere la vivacità e la forza dell’impressione, e anche in casi eccezionali, quando la mente è disordinata dalla malattia o dalla pazzia, la differenza permane.
L’origine Ogni idea deriva dalla corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri di cui di tutte non si sia avuta in precedenza un’impressione. L’illimitata libertà di cui il pensiero le idee nelle impressioni umano sembra dotato trova il suo limite invalicabile in questo principio. L’uomo può sen-
za dubbio comporre le idee nei modi più arbitrari e fantastici, e spingersi con il pensiero fino agli estremi limiti dell’universo; ma non farà mai realmente un passo al di là di sé stesso, perché non potrà mai partire da altro che non siano le sue impressioni.
Il superamento Con questa impostazione, Hume si spinge ben oltre le posizioni sia di Locke sia di Berkeley. di Locke e Infatti Locke, pur ammettendo che l’unico oggetto della conoscenza umana è l’idea, aveva Berkeley
riconosciuto, al di là di essa, la realtà dell’io, di Dio e delle cose. E Berkeley, pur negando la
342
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
sostanzialità della materia, aveva ammesso la realtà degli spiriti finiti e dello Spirito infinito divino, considerandoli entrambi come entità irriducibili alle idee. Soltanto Hume risolve totalmente la realtà nella molteplicità delle idee attuali (cioè delle impressioni sensibili e delle loro copie «sbiadite») e al di là di esse non ammette alcunché. Per spiegare la realtà del mondo e dell’io, egli non ha dunque a sua disposizione che le impressioni, le idee e i loro rapporti. Ogni realtà deve per lui essere ricondotta ai rapporti con cui si connettono tra loro le impressioni e le idee. Questo obiettivo, come vedremo, in virtù degli stessi assunti di fondo della prospettiva humeana, è destinato a una conclusione scettica.
La costruzione delle idee astratte e complesse Riducendo i contenuti della mente (le percezioni) alle sole impressioni e idee, Hume accoglie La concezione la negazione delle idee astratte già operata da Berkeley. Non esistono idee astratte, cioè idee delle idee astratte generali, che non si riferiscano a entità particolari caratterizzate da certe qualità (è impossibile pensare o immaginarsi un triangolo che non sia né equilatero né isoscele né scaleno, né un essere umano che non sia bianco o nero, alto o basso ecc.); esistono unicamente idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari tra loro simili. glossario p. 352 Per spiegare il funzionamento di tali “segni”, cioè la capacità di un’idea di richiamare un La funzione gruppo di idee tra loro simili, Hume ricorre a un principio di cui si servirà largamente in dell’abitudine tutte le sue analisi: il principio dell’ abitudine . glossario p. 352 Quando abbiamo scoperto una somiglianza di fondo tra idee che per certi aspetti sono diverse (ad esempio tra le idee di molti triangoli tra loro differenti), noi cominciamo a usare un unico nome (“triangolo”) per indicarle. Si forma così in noi l’abitudine a considerare le idee che indichiamo con quel nome come se fossero in qualche modo unite tra loro, finché il nome arriverà a risvegliare in noi non una sola di quelle idee, ma la nostra abitudine di considerarle unite. Quella funzione puramente logica del segno, o del nome, che Locke e Berkeley avevano desunto da Ockham, diventa così in Hume un fatto psicologico, un’abitudine. Accanto alle idee astratte, ve ne sono altre che vengono “costruite” dalla nostra mente. In La funzione essa, infatti, le impressioni e le idee corrispondenti non rimangono isolate, ma si aggrega- dell’immaginazione no in costrutti complessi. Secondo Hume la facoltà che stabilisce relazioni tra idee è l’ immaginazione . Questa opera liberamente, ma la sua attività non è completamente casuale, come è dimostrato dal fatto che anche nei sogni e nelle «fantasticherie più sfrenate e vagabonde» troviamo che «viene sempre mantenuta una connessione tra le diverse idee che si succedono l’una all’altra». glossario p. 352 L’IMMAGINAZIONE è la
è guidata dal
forma le
facoltà che stabilisce relazioni tra idee
principio di associazione
idee complesse
ovvero da criteri di
e in particolare le idee di
somiglianza, contiguità e causalità
causalità e sostanza
343
Il principio di Questa connessione è garantita da una forza che rappresenta, per la mente, ciò che la forassociazione za di gravità rappresenta per la natura. Tale è il cosiddetto principio di associazione , che e i suoi criteri
Hume descrive come «una dolce forza che comunemente s’impone, facendo che la mente venga trasportata da un’idea all’altra». glossario p. 352 Questa «dolce forza» di attrazione opera secondo tre criteri fondamentali: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causalità. Un ritratto, ad esempio, conduce naturalmente i nostri pensieri al suo originale (somiglianza); il ricordo di un appartamento collocato in una certa casa porta a ricordare anche gli altri appartamenti di quella stessa casa (contiguità); l’idea di una ferita fa pensare al dolore che ne deriva (causa ed effetto).
Le principali Ora, Hume ritiene che proprio l’associazione sia alla base della costruzione, da parte della idee complesse nostra mente, di quelle che Locke aveva chiamato idee complesse . Tra queste idee, le più I NODI DEL PENSIERO importanti sono quelle di causa ed effetto, e di sostanza (sia corporea sia spirituale). Che cos’è glossario p. 352 la sostanza? p. 374
)
Per l’esposizione orale
1. Quale differenza sussiste, secondo Hume, tra impressioni e idee? 2. Spiega che cos’è per Hume l’abitudine e in che modo essa rientri nel processo di formazione delle idee astratte. 3. Chiarisci qual è in Hume il ruolo dell’immaginazione.
L’analisi critica delle idee di causalità e sostanza Abbiamo visto che per Hume un’idea ricava la propria validità e oggettività dal fatto di derivare da un’impressione, di cui è immagine. Ma le idee complesse di causalità e di sostanza, che sono i pilastri della nostra conoscenza, si fondano anch’esse su impressioni o sono arbitrarie? Possono dirsi “oggettive” o sono costruzioni illusorie e “soggettive”? Il tentativo di Hume di mostrare che a queste idee non corrisponde alcuna impressione costituisce il contributo più originale della sua gnoseologia. Le idee di Tanto per cominciare, tra le idee complesse Hume annovera anche le idee di spazio e di tempo, spazio e tempo le quali non sono affatto impressioni, ma «maniere di sentire» le impressioni, ovvero modi in
cui le impressioni si «dispongono» dinanzi allo spirito. Ad esempio, l’idea di tempo «non deriva da un’impressione particolare mescolata ad altre, ma nasce dalla maniera complessiva con la quale le impressioni si affacciano alla mente senza essere nessuna di esse. Cinque note suonate nel flauto ci danno l’impressione e l’idea di tempo, ma il tempo non è una sesta impressione che si presenti all’udito o ad un altro senso» (Trattato sulla natura umana, I, II, 3). Come «dal succedersi delle idee e impressioni ci formiamo l’idea del tempo», così «l’idea di spazio la riceviamo dalla disposizione degli oggetti visibili e tangibili». Ad esempio, «la vista della tavola che mi sta dinanzi basta da sola a darmi l’idea dell’estensione [spaziale]. Ma la vista mi trasmette soltanto le impressioni di punti colorati disposti in un certo modo». L’idea dello spazio, quindi, non è riconducibile a un’impressione, ma è soltanto il «modo di apparire» e di disporsi di quei punti colorati (ibidem). Nelle prossime pagine vedremo che Hume destituisce di oggettività anche le idee di causalità e di sostanza.
La critica del principio di causalità
L’idea di causalità è il principio su cui si fonda
L’origine l’intera nostra conoscenza del mondo fisico, concepito come sistema di fatti o fenomeni empirica collegati tra loro da relazioni di causa-effetto. Ora, la tesi fondamentale di Hume è che dell’idea di causa-effetto l’idea di una relazione causale tra due fatti non possa mai derivare da un puro ragiona-
mento, ma soltanto dall’esperienza.
344
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
Nessuno, messo di fronte a un oggetto che non ha mai visto, è in grado di scoprire le sue cause e i suoi effetti soltanto ragionando a priori su di esso, ma deve in qualche modo farne esperienza:
‘
Adamo, anche se le sue facoltà razionali siano supposte perfette fin dal principio, non avrebbe mai potuto inferire dalla fluidità e trasparenza dell’acqua che essa poteva soffocarlo, o dalla luce e dal calore del fuoco che esso poteva consumarlo. Nessun oggetto svela mai, per mezzo delle sole sue qualità che appaiono ai sensi, le cause che lo producono o gli effetti che sorgeranno da esso; né può la nostra ragione, senza l’aiuto dell’esperienza, effettuare alcuna induzione che concerna realtà o fatti. (Ricerca sull’intelletto umano, sez. IV, 1, in Opere filosofiche, cit., vol. II, p. 33)
Hume fa l’esempio di una palla da biliardo che corre verso un’altra. Se prescindiamo dalle informazioni che riceviamo dall’esperienza, potremmo prevedere come effetto dell’urto tanto il movimento della seconda palla quanto che le due palle rimangano entrambe ferme, o che la prima ritorni indietro lungo la traiettoria già percorsa, o che devii lateralmente. Tutte queste alternative non possono essere escluse a priori, perché non sono in sé stesse contraddittorie. In altre parole, dal punto di vista logico si prospettano diverse possibilità, e soltanto mediante l’esperienza si può verificare quale di esse si realizzi effettivamente. ( T1 p. 355) Due oggetti sono considerati l’uno la causa dell’altro – osserva Hume – quando si presentano tra loro vicini («contiguità» spaziale) e quando uno dei due (la causa) viene prima dell’altro («priorità» temporale della causa sull’effetto). Ma una tale vicinanza spazio-temporale non è sufficiente perché si possa parlare di causalità: un oggetto, infatti, può essere contiguo o anteriore a un altro senza per questo esserne la causa. Per poter avere l’idea di un rapporto causale è necessario constatare anche un «congiungimento costante», cioè bisogna avere sperimentato che due oggetti o eventi analoghi, in analoghe circostanze, si siano sempre presentati connessi l’uno all’altro. I due tratti della relazione causale messi in evidenza (la continuità spazio-temporale della causa e dell’effetto e la costanza del loro presentarsi contigui) non sono ancora sufficienti, però, per costituire il fondamento oggettivo della causalità. Al rapporto causale, infatti, si ricorre non soltanto e non tanto per spiegare ciò che è avvenuto, ma anche e soprattutto per prevedere ciò che accadrà in futuro nei casi simili a quelli osservati. Questa operazione è resa possibile dal fatto che noi attribuiamo alla relazione causa-effetto anche il carattere della necessità: in altri termini, dopo aver constatato molteplici volte che “ad A segue B”, concludiamo induttivamente che “ad A deve (sempre) seguire B”. Ma, dal momento che si tratta di una previsione che va oltre l’esperienza osservativa, su che cosa si fonda una simile inferenza o induzione?
La constatazione empirica di un «congiungimento costante»
La presunta necessità delle relazioni causali
Le osservazioni passate – nota Hume – non possono garantire la certezza delle nostre in- Il presupposto ferenze induttive sul futuro. Per riprendere l’esempio delle palle da biliardo, l’esperienza ci dell’uniformità della natura dice che, tra le diverse alternative possibili, in passato se ne è verificata sempre soltanto una, e cioè che l’urto della prima palla ha messo in movimento la seconda; ma questa constatazione non ci illumina sui casi futuri, perché potrebbe sempre accadere qualcosa di diverso da quanto è accaduto fino a questo momento. Per poter assumere la nostra esperienza passata come base per ragionamenti e previsioni sul futuro occorre che presupponiamo che il corso della natura non cambi, ovvero che i legami causali che l’esperienza ci ha testimoniato in passato non possano non verificarsi in futuro. Se ci fosse anche soltanto il minimo sospetto che il corso della natura possa cambiare e che il passato non servisse da regola per il futuro, l’esperienza non potrebbe dare origine ad alcuna inferenza o conclusione riguardante il futuro. L’idea, o meglio il presupposto che il corso della natura sia uniforme costituisce quindi il fondamento del principio di causalità.
345
Il principio di causalità come credenza fondata sull’abitudine
Ma a questo punto si riproporrà il problema iniziale, dal momento che anche il principio dell’uniformità della natura non è vero a priori (il fatto che il corso della natura cambi è un’eventualità logicamente non contraddittoria, e quindi possibile), né si può inferire mediante un’induzione da precedenti osservazioni (perché esse, per complete ed esaustive che siano, non contemplano i casi futuri, i quali potrebbero sempre smentirla. Queste considerazioni escludono che il legame tra causa ed effetto possa essere oggettivo e necessario, cioè che sia una “legge” naturale constatabile mediante l’osservazione. Ciò nonostante, l’essere umano lo considera tale, tanto da fondare su di esso la sua vita concreta e lo sviluppo della sua conoscenza. Questo si spiega, secondo Hume, perché, pur non avendo alcun fondamento oggettivo, il principio dell’uniformità della natura risponde a un’aspettativa insita nella stessa natura umana. Esso costituisce una credenza soggettiva e non razionale, una sorta di conoscenza istintiva che a sua volta è frutto dell’abitudine: essendo abituati a vedere due oggetti o due fatti congiunti (ad esempio la fiamma e il calore che essa produce), gli esseri umani sono portati a credere che anche in futuro, necessariamente, tali oggetti o fatti si presenteranno congiunti. glossario p. 352
Il principio È dunque l’abitudine a spingerci a credere che domani il sole si leverà come si è sempre ledi causalità vato; è l’abitudine a farci prevedere gli effetti dell’acqua o del fuoco o di qualsiasi fatto o come enigma filosofico evento naturale o umano; è l’abitudine che guida e sorregge tutta la nostra vita quotidiana,
suggerendoci che il corso della natura non muta ma si mantiene uguale e costante, e offrendoci così la possibilità di regolarci per il futuro. Tuttavia, sebbene l’abitudine spieghi perché l’essere umano creda alla necessità dei rapporti causali, essa non giustifica una tale credenza, la quale per Hume rimane «uno dei più grandi misteri della filosofia». La credenza nel principio di causalità è una sorta di libero istinto della mente, di «sentimento» (feeling) naturale di cui, per orientarci nella vita pratica, non possiamo fare a meno. ( T1 p. 355)
IL PRINCIPIO DI CAUSALITÀ
)
Per l’esposizione orale
non è giustificabile
a priori, ossia con il puro ragionamento, in quanto si basa sull’esperienza a posteriori, in quanto l’esperienza ci dice soltanto che B segue A, non che B deve seguire A
La presunta conoscenza oggettiva dei nessi causali è in realtà una credenza soggettiva prodotta dall’abitudine
1. Perché, secondo Hume, il rapporto tra causa ed effetto non è deducibile a priori, né inferibile con certezza a posteriori? 2. Su che cosa si fonda la presunta necessità dei rapporti causali? 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS L’analisi di Hume del principio di causalità contiene uno dei capisaldi della riflessione filosofica sulla scienza, ovvero la critica del ragionamento induttivo, che per la sua stessa struttura non può pervenire a conoscenze certe. Questo significa che le leggi scientifiche (quelle di ieri come quelle di oggi) non possono essere considerate definitivamente vere, ma sono sempre passibili di confutazione. In che cosa consiste, allora, l’affidabilità della scienza?
La credenza nell’esistenza del mondo esterno
In quanto fondata, come abbia-
La differenza mo visto, su una credenza scaturita dall’abitudine, la conoscenza umana della realtà è tra credenza e priva di necessità e rientra nel dominio della mera probabilità, e non della scienza. Tutfinzione
tavia, le “credenze” non devono essere confuse con le “finzioni”, dal momento che non soggiacciono del tutto ai poteri arbitrari dell’intelletto.
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Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
Infatti, se la credenza dipendesse esclusivamente dall’intelletto o dalla ragione, allora potremmo credere qualunque cosa, poiché l’intelletto ha pieni poteri sulle sue idee; invece «noi possiamo, nel nostro concetto, congiungere la testa di un uomo con il corpo di un cavallo, ma non è in nostro potere credere che un tale animale esista realmente». Rispetto alla finzione, la credenza è quindi riconducibile alla maggiore vivacità che le impressioni possiedono rispetto alle idee. Su una credenza (e non su una finzione) si basa quindi l’intero edificio della conoscenza umana, poiché per Hume è assimilabile a una credenza derivata da un’abitudine non soltanto l’idea della necessità causale, ma anche quella dell’esistenza delle cose esterne. Gli uomini credono abitualmente che ci sia un mondo esterno diverso ed estraneo (permanente) rispetto alle impressioni (mutevoli) che se ne hanno. Hume si sofferma lungamente nel Trattato (I, 4, 2) e brevemente nella Ricerca (XII, 1) a spiegare la genesi naturale di questa credenza. Egli comincia con il distinguere la credenza nell’esistenza continua delle cose, che è propria di tutti gli esseri umani, dalla credenza nell’esistenza esterna delle cose, la quale implica la distinzione semi-filosofica o pseudo-filosofica delle cose dalle impressioni sensibili.
Il problema dell’origine della credenza nel mondo esterno
Per quanto riguarda la credenza nell’esistenza continua delle cose, Hume osserva che dalla coerenza e dalla costanza di certe impressioni si è portati a immaginare che esistano cose dotate di un’esistenza continua e ininterrotta, e quindi tali che esisterebbero anche se tutti gli intelletti che percepiscono quelle impressioni fossero assenti o annientati. In altri termini, la coerenza e la costanza di certi gruppi di impressioni ci fa dimenticare, o trascurare, che le nostre impressioni sono sempre interrotte e discontinue, e ce le fa considerare come riunite in oggetti persistenti e stabili. ( T2 p. 357)
La credenza istintiva nell’esistenza continua delle cose
La credenza nella permanenza delle cose appartiene alla parte irriflessiva e a-filosofica del genere umano (e quindi a tutti gli uomini, indipendentemente dal tempo in cui vivono e dal livello delle loro conoscenze), ma viene presto superata dalla riflessione filosofica, la quale insegna che ciò che si presenta alla mente è soltanto l’immagine dell’oggetto, e che i sensi sono le porte attraverso le quali queste immagini entrano, per così dire, nel nostro intelletto, senza che vi sia alcun rapporto immediato tra gli oggetti e le loro immagini. Il tavolo che vediamo nella nostra cucina sembra rimpicciolirsi quando ce ne allontaniamo, ma noi sappiamo che il tavolo reale, che esiste indipendentemente da noi, non subisce alterazioni: questo significa che alla nostra mente è presente soltanto la sua immagine. Con ragionamenti simili a questo, la riflessione filosofica conduce a distinguere le percezioni (soggettive, mutevoli e interrotte) dalle cose (oggettive ed esternamente e continuamente esistenti sotto forma di ciò che i metafisici chiamano “sostanze materiali”).
La distinzione semi-filosofica tra immagini e cose
In verità – ribatte Hume contro i (semi-)filosofi – la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle nostre percezioni; e le sole inferenze che possiamo costruire sono quelle fondate sui nessi causali, cioè sono meri nessi tra idee o percezioni. L’esistenza di una realtà che sia diversa dalle percezioni ed esterna a esse non si può affermare né sulla base delle impressioni sensibili, né sulla base delle nostre inferenze causali. La realtà esterna è dunque razionalmente ingiustificabile, ma l’istinto a credere nella sua esistenza è ineliminabile.
La forza invincibile della credenza nella realtà esterna
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
Una spiegazione analoga trova, nelle analisi sviluppate da Hume, la credenza nell’unità e nell’identità di ciò che comunemente viene det- L’origine to “io”. Secondo Hume, infatti, noi non facciamo alcuna esperienza, né abbiamo alcuna dell’idea di “io” impressione del nostro io (inteso come entità unitaria e sempre identica a sé stessa), ma
La credenza nell’esistenza dell’io
347
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 374
soltanto degli stati e dei moti dell’animo che via via si succedono nella nostra vita, “comparendo” nella nostra coscienza come gli attori sulla scena di un teatro. Ciò che consideriamo come il nostro “io”, o “mente”, o “coscienza” è dunque, rigorosamente parlando, soltanto un «fascio di percezioni» (bundle of perceptions) che si susseguono nel tempo e che noi supponiamo essere “sostenute” da qualcosa di invariabile e permanente (l’identità del soggetto) soltanto perché siamo abituati a osservarne la concomitanza o vicinanza temporale.
CONCETTI A CONFRONTO
L’IO in CARTESIO
in HUME
è una sostanza pensante, cioè una realtà spirituale
è un fascio di percezioni che si susseguono nel tempo e non possono essere ricondotte a una sostanza unitaria
resiste al dubbio iperbolico
svanisce con la “messa in parentesi” delle percezioni
quindi è il fondamento del sapere
)
Per l’esposizione orale
quindi non può fondare alcuna conoscenza
1. Illustra le critiche avanzate da Hume alla credenza istintiva nell’esistenza continua delle cose e alla credenza (pseudo)filosofica nell’esistenza esterna delle cose. 2. Riassumi il ragionamento con cui Hume critica la credenza nell’unità e nell’identità dell’io.
Le «relazioni tra idee» e le «materie di fatto» Le sole verità Con la negazione del soggetto conoscente, delle cose esterne e dei loro stabili e oggettivi certe nessi causali, viene meno l’intera ossatura della conoscenza. Per Hume la permanenza
delle cose in quanto distinte dalla mente che le conosce, la permanenza e l’identità dell’io quale centro di consapevolezza, e la sua capacità di individuare tra le cose collegamenti necessari e stabili non sono affatto certezze, ma soltanto credenze soggettive. Di conseguenza le sole cose che gli esseri umani possono conoscere in modo certo (al di là delle proprie percezioni puntuali) sono le affermazioni della matematica. Le proposizioni della scienza naturale, invece, in quanto previsioni che vanno al di là delle impressioni dei sensi, sono generalizzazioni soltanto probabili. Come Leibniz aveva distinto le «verità di ragione» dalle «verità di fatto», così Hume distingue le proposizioni che concernono «relazioni tra idee» (le proposizioni matematiche) dalle proposizioni che concernono «materie di fatto» (le proposizioni delle scienze naturali).
La certezza Le relazioni tra idee , precisa Hume, si possono scoprire «per mezzo della sola operaziodelle relazioni ne del pensiero, indipendentemente da ciò che è realmente esistente in una qualsiasi partra idee
te dell’universo». Si tratta infatti di proposizioni che costruiamo basandoci semplicemente sul principio di non-contraddizione. Ad esempio, posta la definizione di triangolo rettangolo, ricaviamo per via puramente razionale che «il quadrato dell’ipotenusa è uguale al quadrato di due lati». Le proposizioni che concernono relazioni tra idee hanno quindi in sé stesse la ragione della loro validità: «Anche se non vi fossero, in natura, cerchi o triangoli – sentenzia Hume – le verità dimostrate da Euclide conserverebbero intatta la loro certezza e la loro evidenza». glossario p. 353
348
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
Invece le proposizioni che concernono materie di fatto (matter of fact) sono fondate La probabilità sull’esperienza, e non sul principio di non-contraddizione. Infatti il contrario di un deter- delle materie di fatto minato fatto è sempre logicamente possibile («ogni cosa che è, può non essere», dice Hume). Con un’immagine divenuta celebre, Hume osserva che la proposizione “il sole domani non si leverà” è una proposizione non meno intelligibile né più contraddittoria di “il sole domani si leverà”. glossario p. 353 Mentre le verità matematiche sono valide necessariamente, le proposizioni che riguardano materie di fatto sono dunque prive di necessità. Fissando questa distinzione, Hume stabilisce insomma, tra le conoscenze matematiche e le conoscenze empiriche, una differenza che non è di grado o di quantità, ma di struttura o di qualità.
)
Per l’esposizione orale
1. Esponi la differenza individuata da Hume tra le proposizioni che concernono «relazioni tra idee» e quelle che riguardano «materie di fatto». 2. Perchè per Hume soltanto le affermazioni della matematica costituiscono conoscenze certe?
3. La teoria morale Secondo quanto emerge dallo stesso sottotitolo del Trattato sulla natura umana (“Un ten- L’impostazione tativo per introdurre il metodo del ragionamento sperimentale negli argomenti morali”), descrittiva l’intento principale dell’etica di Hume non è quello di prescrivere certi comportamenti (in base a princìpi morali assoluti), ma quello di descrivere, partendo dall’osservazione empirica, come e secondo quali princìpi gli uomini “di fatto” si comportino. Fedele a questo assunto metodologico, Hume analizza dunque tutti gli elementi che entrano a costituire il “merito” o il “valore” di una persona (le qualità, le abitudini, i sentimenti, le facoltà che rendono un individuo degno di stima o di disprezzo), trasformando in tal modo il problema morale in una questione di fatto.
Morale e «sentimento» Secondo Hume l’osservazione empirica ci dice che l’essere umano non agisce sulla base Il sentimento della ragione (secondo quanto affermato dalla tradizione cartesiana), bensì sulla base di morale un «gusto morale» (moral taste) in virtù del quale una certa azione si avverte come preferibile, proprio come in virtù di un innato gusto estetico un determinato oggetto si percepisce come bello. È questo sentimento morale, e non la ragione, a determinare la volontà e a indurre l’uomo a compiere un’azione anziché un’altra. Il sentimento è il centro e il motore non soltanto dell’azione, ma anche della valutazione La valutazione morale. Infatti, è riflettendo sui sentimenti del piacere e del dolore che l’uomo produce le morale «idee morali», indispensabili per formulare giudizi di approvazione o disapprovazione. Quando diciamo che “una cosa è buona“, intendiamo dire che “ci piace”, e quando diciamo che “una cosa è cattiva” intendiamo dire che “non ci piace”. Accanto a questa prospettiva “emotivistica“, che riconduce la valutazione morale al La coincidenza sentimento o all’emozione del piacere, negli scritti di Hume sembra coesistere una pro- del piacere con l’utilità spettiva “utilitaristica”, in base alla quale bene e male sono assimilabili rispettivamente all’utile e al nocivo. In realtà Hume istituisce un’equivalenza tra il piacere e l’utilità: «l’utile è ciò che piace», così come «il dannoso è ciò che dispiace». In altre parole, le
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due prospettive sono accomunate dall’idea di fondo che bene e male non siano enti metafisici, né princìpi oggettivi conoscibili con l’intelletto, bensì un insieme di impressioni ed emozioni soggettive. Il rapporto Opponendosi a una lunga tradizione razionalistica, Hume afferma che «la ragione non tra ragione può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà». Egli non intende certo e passioni
sostenere che le nostre azioni siano sempre irragionevoli, bensì che il ruolo della ragione è subalterno a quello delle passioni. La morale, infatti, ha come oggetto le «volizioni» quali impulsi naturali, eventi che accadono, “fatti” che la ragione non può né produrre né reprimere, ma soltanto constatare. Quello che il senso comune chiama “decisione” non è altro che il prevalere di un impulso o desiderio su un altro:
‘
Nulla può ostacolare o rallentare l’impulso di una passione se non un impulso contrario. (Trattato sulla natura umana, II, III, 3)
In quanto fatti naturali, tutte le passioni sono uguali e la ragione non è in grado di giustificare la preferibilità morale di alcune di esse rispetto alle altre. Ciò che la ragione può fare è però mostrare l’eventuale “irragionevolezza” di un impulso (ad esempio svelando che l’oggetto a cui si tende non esiste, o che non si dispone di mezzi sufficienti per raggiungerlo), contribuendo in questo modo al suo affievolimento.
Morale e società Il principio Ma è possibile fondare una morale (che esige che qualcosa sia buono in senso universale) dell’utilità sulle passioni, che sono fatti individuali? Davvero si può ridurre il bene a ciò che piace? Se collettiva
i giudizi morali esprimono soltanto degli stati emotivi, non si cade nel relativismo etico? Hume è consapevole di queste difficoltà e, pur mantenendo fermo il carattere sentimentale della valutazione morale (paragonabile a quella estetica), tenta di salvaguardarne l’universalità e l’intersoggettività. Avendo chiarito che il fondamento della valutazione morale non risiede nella sfera razionale, Hume lo rintraccia dunque in un «sentimento comune a tutta l’umanità». La valutazione morale si basa su di esso, cioè sulla percezione dell’utilità o dannosità sociale di certe azioni: sono moralmente lodevoli le azioni collettivamente utili, mentre sono degne di biasimo quelle dannose ai più. Questo significa che gli esseri umani non rimangono indifferenti al benessere dei loro simili, e giudicano facilmente che è bene ciò che promuove la felicità del maggior numero di uomini, e male ciò che tende a procurare la loro miseria.
una morale In tal modo Hume attribuisce al criterio dell’utile, individuato come fondamento del «sendella timento morale», una valenza universale, grazie alla quale è possibile superare il rischio di «simpatia»
QUESTIONE Il bene consiste nell’utile o nel dovere? (Hume, Kant) p. 603
La giustizia come espressione di ciò che è utile per la vita sociale
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un’etica individualistica ed egoistica. La morale poggia insomma su un sentimento di simpatia per gli altri (dal greco syn, “con”, e páthos, “affezione”, “dolore”) e su un «generoso interesse» per l’umanità, tale per cui si giudica buono ciò che giova non soltanto a sé stessi ma anche ai propri simili. Per questo motivo l’etica di Hume è anche denominata “morale della simpatia”. glossario p. 353 Per rafforzare la tesi secondo cui il bene morale coincide con ciò che è percepito e valutato come utile per la collettività umana, Hume ricorre a un esempio efficace: in una situazione in cui fosse concessa al genere umano una dotazione inesauribile di tutte le comodità e di tutti i beni materiali, cioè in una situazione in cui nessuno dovesse preoccuparsi delle proprie necessità materiali, le nozioni di “giusto” e “ingiusto” sarebbero superflue. Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
Così come nessuno è indotto a commettere ingiustizia per poter godere dell’aria che respira, poiché questa è data a tutti in quantità illimitata, allo stesso modo nessuno commetterebbe ingiustizia se tutti i beni fossero forniti a tutti in quantità illimitata. Questo vuol dire che quell’obbligo alla giustizia che ciascuno sente come doveroso serve per regolare la distribuzione e l’uso dei beni, ed è quindi l’espressione di ciò che è utile a preservare la vita degli uomini in società. L’obbligo alla giustizia non nascerebbe neppure nel caso in cui l’uomo bastasse a sé stesso e potesse vivere in completo isolamento. Il fatto che la giustizia sia necessaria a mantenere in vita la società umana è dunque il suo solo fondamento. Ora, poiché la giustizia è considerata una virtù, si può supporre che l’utilità per la collettività umana sia il fondamento di tutte le virtù (la benevolenza, l’amicizia, la socievolezza, la fedeltà, la sincerità ecc.), compresa la massima virtù politica: l’obbedienza. Infatti è l’obbedienza che mantiene i governi, e i governi sono indispensabili per conseguire quella felicità a cui la natura umana tende con tutte le sue forze.
L’utilità sociale come fondamento della virtù
Sottolineando la necessità della morale e della virtù per la vita associata degli uomini, Hu- una morale me ne riconosce in qualche modo la “naturalità” e la “spontaneità”. In questa stessa dire- «gentile» zione va l’indicazione della «simpatia» come sentimento morale che accomuna tutti gli esseri umani. In un certo senso, Hume sembra in questo modo voler togliere alla morale l’“abito da lutto” con il quale l’avevano rivestita teologi e filosofi, per mostrarla «gentile, umana, benefica, affabile; anzi in certi momenti giocosa, allegra e gaia». La morale – egli precisa – non impone inutili austerità e rigori, sofferenze e umiliazioni; il suo solo fine è rendere gli uomini contenti e felici in ogni istante della loro esistenza:
‘
Il solo disturbo che essa domanda è quello di calcolare giustamente e di preferire costantemente la felicità maggiore. E se le si avvicinano pretendenti austeri, nemici della gioia e del piacere, si vedono respinti come ipocriti o ingannatori; o, se sono accettati al suo seguito, sono posti però tra i meno favoriti dei suoi seguaci. (Ricerca sui princìpi della morale, sezione IX, II, in Opere filosofiche, cit., vol. 2, p. 296)
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega quale ruolo hanno, per Hume, il sentimento e la ragione nell’ambito della morale. 2. In riferimento alla riflessione di Hume, definisci le seguenti espressioni: bene, simpatia, utilità collettiva; quindi utilizzale per chiarire il rapporto tra morale e società delineato dal filosofo scozzese. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’ottimismo antropologico di Hume: condividi l’idea che gli esseri umani siano naturalmente portati alla benevolenza verso i propri simili? Oppure ti senti più vicino alla concezione hobbesiana sintetizzata nella formula «homo homini lupus»? Motiva la tua risposta.
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 4 HUME
La gnoseologia L’analisi dei contenuti della mente Per sviluppare la sua teoria gnoseologica, David Hume (1711-1776) muove, come già Locke, dai contenuti della mente, che egli chiama
• percezioni
tutto ciò che è «presente alla mente», e che a seconda del grado di vivacità con cui colpisce lo spirito può a sua volta essere distinto in:
• impressioni
le «percezioni che si presentano con maggior forza e violenza». Con questo nome Hume comprende «tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima» (Trattato sulla natura umana, I, I, I);
• idee
le «immagini sbiadite» delle impressioni. Ogni idea deriva quindi da un’impressione avuta in precedenza.
Hume risolve totalmente la realtà nella molteplicità delle impressioni e delle loro copie ideali. Egli nega anche l’esistenza delle
• idee astratte, o generali
idee particolari che fungono da “segni” di una serie di altre idee particolari tra loro simili e abitualmente associate.
Nella formazione delle presunte idee generali gioca dunque un ruolo fondamentale
• l’abitudine
la disposizione, prodotta dalla ripetizione di un atto, a rinnovare quello stesso atto senza che intervenga il ragionamento.
Accanto all’abitudine, nella formazione delle idee è fondamentale
• l’immaginazione
la facoltà responsabile delle varie forme di attività mentale; consiste nello stabilire relazioni tra le idee.
A differenza della memoria, che riproduce passivamente connessioni già date, l’immaginazione opera in libertà. Ciò nonostante, la sua attività non è totalmente fantastica e casuale, ma è disciplinata dal
• principio di associazione
una specie di «dolce forza» (gentle force) che spinge l’immaginazione a collegare
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certe idee e non altre, in base ai tre criteri fondamentali della contiguità spazio-temporale, della somiglianza e della causalità.
L’abitudine e il principio di associazione sono alla base della costruzione, da parte della nostra mente, di quelle che Locke aveva chiamato
• idee complesse
le idee costruite dalla mente umana sulla base di impressioni che vengono associate perché contigue, somiglianti o causalmente legate.
Le idee complesse così prodotte non hanno per Hume alcuna oggettività, poiché a esse non corrisponde alcuna impressione. Tra le idee complesse, ve ne sono due particolarmente importanti, ovvero quella di causalità e quella di sostanza, che Hume analizza criticamente.
L’analisi del principio di causalità Innanzitutto, Hume evidenzia il carattere empirico del legame causale, ossia l’impossibilità di dedurre (a priori) da un certo oggetto le sue cause o i suoi effetti. Un tale legame non si può neppure indurre (a posteriori) dall’esperienza passata. La relazione causale è quindi un nesso tra oggetti o eventi privo di necessità oggettiva, che risponde piuttosto a un’aspettativa soggettiva degli esseri umani. A sua volta, questa aspettativa è fondata sull’abitudine (v.): essendo abituati a vedere che oggetti o eventi simili (le presunte cause) si presentano accompagnati da altri oggetti o eventi simili (i presunti effetti), gli esseri umani sono indotti a credere che ciò avvenga e debba avvenire sempre. Il principio di causalità non è dunque un’autentica conoscenza, bensì una
• credenza
il frutto di una predisposizione istintiva della natura umana a riconoscere la realtà, l’esistenza o la necessità di una certa idea. Nel caso della credenza nella necessità dei rapporti causali, essa si configura come «uno dei più grandi misteri della filosofia», tanto che, rinunciando a spiegarla, Hume la presenta come un «sentimento» (feeling, o sentiment) naturale e irriducibile.
Il principio di causalità si fonda anche sul principio di uniformità della natura, che tuttavia è a sua volta una credenza. Pertanto, quello che è il principio cardine di ogni conoscenza scientifica viene destituito da Hume di ogni necessità e oggettività.
L’analisi delle credenze nel mondo esterno e nell’io Oltre al principio di causalità, fra le principali credenze umane Hume annovera quella nell’esistenza di un mondo esterno e quella nell’esistenza di un “io” unitario e stabile.
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
La credenza nel mondo esterno è anch’essa frutto dell’abitudine: dalla percezione di certe impressioni che si presentano sempre unite tra loro, si è indotti a immaginare che queste impressioni corrispondano a “cose” dotate di un’esistenza continua; questa ipotesi è avvalorata da un ragionamento pseudo-filosofico, che distingue le percezioni (soggettive) da presunte sostanze materiali esistenti esternamente al soggetto. Lo stesso vale per la credenza nell’io, inteso come sostanza spirituale stabile e unitaria che “sostiene” ogni nostra percezione e ogni nostro moto dell’animo. In realtà – osserva Hume – noi non abbiamo impressioni del nostro io, ma soltanto dei nostri successivi stati di coscienza, che compaiono in noi come gli attori su un palcoscenico. L’io, pertanto, non è una sostanza, ma semplicemente un «fascio di percezioni» (bundle of perceptions).
Lo scetticismo Una volta destituiti di oggettività i tradizionali pilastri della conoscenza (la necessità del legame causale e la certezza dell’esistenza di una realtà esterna e di un soggetto conoscente), Hume riprende la distinzione operata da Leibniz tra verità di ragione e verità di fatto. Egli individua due ambiti sui quali il nostro intelletto può formulare giudizi o proposizioni:
• le relazioni tra idee
i legami che l’intelletto istituisce liberamente tra le proprie idee, facendo in modo che non violino il principio di non-contraddizione. Le proposizioni concernenti le relazioni tra idee sono per Hume quelle della matematica (ad esempio “il triangolo è un poligono di tre lati”), le quali per la loro struttura tautologica sono necessariamente valide, nel senso che il loro contrario è impensabile, ovvero logicamente impossibile;
• le materie di fatto
gli eventi o i fatti constatabili empiricamente. Le proposizioni concernenti le materie di fatto sono quelle della filosofia naturale (ad esempio “l’acqua bolle a 100 gradi”), le quali si basano esclusivamente sull’esperienza e non rispettano il principio di non contraddizione, nel senso che il loro contrario è logicamente possibile. Esse risultano pertanto prive di necessità e soltanto probabili.
Accanto all’ambito logico-matematico (in cui sulla base di leggi logiche si giunge a conoscenze la cui verità è necessaria, ma che non ci fanno conoscere nulla di nuovo) e all’ambito fisico (in cui si giunge a nuove conoscenze che tuttavia non sono necessariamente vere, ma soltanto probabili), Hume analizza il terzo grande ramo del sapere del tempo: la metafisica, affermando che le proposizioni che si formulano in tale campo (ad esempio “Dio esiste”) sono prive di significato, cioè tali che non esiste alcun criterio (né logico a priori, né empirico a posteriori) per stabilire se sono vere o false.
La morale Hume estende il progetto di una “scienza” della natura umana, oltre che all’ambito gnoseologico, anche a quello pratico, ovvero alla morale, alla religione, all’estetica e alla politica. La morale, secondo Hume, è una questione di fatto, che richiede un approccio empirico e descrittivo. Le valutazioni morali dipendono fondamentalmente dal sentimento: esse nascono in vista della pubblica utilità, per cui grazie a una sorta di «gusto morale» (moral taste) si giudicano buoni i comportamenti che portano vantaggi alla felicità comune. La morale, secondo Hume, si appoggia insomma su un sentimento naturale e comune a tutti gli esseri umani, ovvero la
• simpatia
(letteralmente “com-passione”, dal greco syn, “con”, e páthos, “affezione”, “dolore”) la capacità di partecipare ai vissuti altrui, e in particolare al loro dolore. Grazie a questo «principio potentissimo», secondo Hume proviamo piacere per ciò che è utile o benefico per gli altri, e dolore per ciò che li danneggia.
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MAPPE
CAPITOLO 4 HUME I CONTENUTI DELLA MENTE UMANA sono detti percezioni e si dividono in
impressioni (sensazioni ed emozioni nell’atto in cui compaiono in noi per la prima volta)
idee («immagini sbiadite» delle impressioni)
che costituiscono tutta la realtà quindi sono escluse
le idee astratte o generali
le idee complesse
che sono
che sono
idee particolari assunte come segni di insiemi di idee particolari tra loro simili
costruite dall’immaginazione sotto la spinta del principio di associazione
prive di oggettività, poiché non vi corrisponde alcuna impressione
IL LEGAME CAUSA-EFFETTO è
privo di necessità oggettiva
fondato su un’aspettativa soggettiva
perché
che a sua volta scaturisce
non è deducibile (a priori) dalla definizione o da una presunta “essenza” degli oggetti
non è ricavabile per induzione (a posteriori) dall’esperienza
dall’abitudine
LE PRINCIPALI CREDENZE UMANE
dalla credenza nell’uniformità del corso della natura
LA MORALE
riguardano
l’esistenza del mondo esterno (le “sostanze materiali”) che è ingiustificabile perché
non possiamo essere certi di alcuna realtà al di fuori delle nostre percezioni
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l’esistenza dell’io (la “sostanza spirituale”) che è ingiustificabile perché
non abbiamo alcuna impressione di un “io” unitario e stabile, ma soltanto di un «fascio di percezioni» tra loro slegate
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
è fondata sul comune sentimento della «simpatia» per gli altri e sul «generoso interesse» per l’umanità
CAPITOLO 4 HUME La critica dell’idea di causalità
La massima conquista teorica di Hume è la negazione della validità logica (o razionale) del principio di causalità e, conseguentemente, del metodo induttivo utilizzato nella ricerca scientifica. Consapevole tuttavia del valore pragmatico di tali strumenti argomentativi e conoscitivi, Hume ne rintraccia l’origine nei meccanismi “naturali” della mente umana, nel tentativo di garantire alla conoscenza un certo grado di affidabilità. TESTO
1
Il nesso causale, un principio irrinunciabile (Trattato sulla natura umana) IL TESTO NELL’OPERA Il Trattato sulla natura umana, che ha come sottotitolo Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento nei soggetti morali, viene pubblicato anonimo in tre libri: i primi due nel 1739, il terzo nel 1740. L’obiettivo che si prefigge Hume è quello di fondare una «scienza dell’uomo» ricorrendo al metodo sperimentale impiegato nello studio della natura. Nel primo libro, incentrato sulla conoscenza, il filosofo distingue le percezioni in impressioni e idee, quindi chiarisce i modi in cui l’attività immaginativa associa le idee semplici in veri e propri sistemi di idee complesse. Nel secondo libro, che ha per oggetto le passioni, Hume analizza le leggi secondo le quali le passioni si presentano nella coscienza, approfondendo specialmente il sentimento della simpatia, che ci spinge a partecipare del piacere e del dolore altrui e ad agire in favore dei nostri simili. Il terzo libro, infine, è dedicato al mondo morale. Il testo seguente presenta la celebre analisi humeana del rapporto causale, che perde il suo carattere di legge necessaria per essere ridotto alle relazioni (non necessarie) di contiguità, successione e congiungimento costante. Hume sa bene di non poter fondare razionalmente la validità delle leggi causali, ma sa altrettanto bene di non poter fare a meno di utilizzarle, nella vita quotidiana come nella ricerca filosofica. E, in un certo senso, è proprio in questa “ineluttabilità” che egli indica la ragione della validità di tali leggi.
La causalità come contiguità, successione e unione costante
Diamo, dunque, uno sguardo a due di quegli oggetti che chiamiamo causa ed effetto, e rivolgiamoli da tutti i lati, al fine di trovare quell’impressione che produce un’idea d’importanza così prodigiosa. Vedo subito che non devo cercarla in nessuna delle particolari qualità degli oggetti, poiché, qualunque di queste io scelga, trovo oggetti che non la possiedono, e tuttavia son chiamati cause o effetti. […] L’idea, dunque, di causalità deve derivare da qualche relazione esistente tra gli oggetti, e questa relazione dobbiamo cercare di scoprire. In primo luogo, trovo che gli oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui; e che niente potrebbe agire su altro se tra essi ci fosse il minimo intervallo di tempo o di spazio. […]
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Dobbiamo, quindi, considerare il rapporto di contiguità come essenziale a quello di causalità […]. La seconda relazione che io considero come essenziale a quella di causalità non è universalmente riconosciuta, anzi è controversa, e consiste nella priorità di tempo della causa sull’effetto […]. Pian piano siamo, così, arrivati a scoprire […] una nuova relazione fra causa ed effetto: la relazione, dico, di congiungimento costante. […] essa implica semplicemente questo: che oggetti simili si sono sempre presentati in una relazione simile di contiguità e di successione; e sembra evidente, almeno a prima vista, che con questo mezzo noi non potremo mai scoprire un’idea nuova [come quella della successione necessaria], e potremo solo moltiplicare, ma non approfondire gli oggetti della mente. […]
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L’abitudine L’idea di causa ed effetto è derivata dall’esperienza, la quale c’informa che certi particolari og- 20 come origine getti, in tutti i casi passati, sono andati costantemente uniti insieme. E poiché un oggetto sidelle credenze umane mile a uno di questi si suppone che sia immediatamente presente alla nostra impressione, si 22
presume l’esistenza anche di quell’altro, simile a esso, che l’accompagnava usualmente. […] Quando, dunque, la mente passa dall’idea o impressione d’un oggetto all’idea o credenza d’un altro, non è determinata dalla ragione, ma da certi princìpi che associano tra loro le idee di questi oggetti e le uniscono nell’immaginazione. […] Se, dunque, chiamo abitudine ciò che procede da un’antecedente ripetizione, senza nessun nuovo ragionamento o inferenza, possiamo stabilire come verità certa che ogni credenza, la quale segua un’impressione presente, ha in questa la sua unica origine. Quando siamo abituati a vedere due impressioni congiunte insieme, l’apparire o l’idea dell’una immediatamente ci porta all’idea dell’altra. (Trattato sulla natura umana, libro I, sez. III, cit., pp. 86-117 passim)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La causalità come contiguità, successione e unione costante (rr. 1-19) Se la causalità fosse una proprietà rintracciabile negli oggetti, dovremmo essere in grado di identificare una qualità comune, un tratto presente in tutte le cose, che corrisponda a ciò che chiamiamo “causa”; ma un tale tratto non esiste. Pertanto la causalità concerne, piuttosto, la relazione tra le cose. Chiaramente connessa al rapporto di causa-effetto è, secondo Hume, la contiguità spazio-temporale. Il filosofo è infatti convinto che una cosa possa essere causa di un’altra soltanto nel caso in cui non sia separata (nello spazio o nel tempo) da essa. Inoltre, se le cause fossero contemporanee agli effetti, non ci sarebbe divenire, ma tutte le cose dovrebbero coesistere, il che è assurdo: per questo Hume indica la «priorità» (r. 12) temporale della causa sull’effetto come «seconda relazione» (r. 11) implicita nel rapporto di causalità. Hume accosta poi alla contiguità e alla successione un terzo elemento: il «congiungimento costante» (r. 15), ovvero la regolarità con cui, nella nostra esperienza passata, oggetti simili ci si sono presentati come tra
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loro contigui e successivi. Anche il congiungimento costante non possiede alcuna necessità logica, e a nulla giova in questo senso che si tratti di una regolarità constatata un elevato numero di volte. L’abitudine come origine delle credenze umane (rr. 20-31) Benché la relazione di causa ed effetto sia dotata, per la mente umana, della forza necessitante della verità logica, essa ha comunque origine empirica. Questo significa che anche il principio secondo cui il futuro assomiglia al passato (fondamento del nesso causale) ha una tale origine e può pertanto ricevere il carattere della necessità logica non da motivazioni razionali o oggettive, ma soltanto da motivazioni soggettive, ovvero legate al modo di funzionare della mente umana. Hume sta qui cercando una soluzione al problema dell’induzione, cioè di come sia possibile giustificare l’inferenza da una “collezione” di casi particolari alla totalità dei casi, ovvero a una “regola”. Dal fatto che in passato le cose si sono sempre svolte secondo una certa modalità, noi “induciamo” che ciò accadrà anche in futuro, ma
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
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in tale operazione applichiamo precisamente quel principio (di causalità) che stiamo cercando di dimostrare. L’impossibilità di giustificare deduttivamente l’induzione, cioè di “dimostrarne” (in senso logico-matematico) la validità, spinge Hume a volgersi al funzionamento della mente umana e a soffermarsi sulla «credenza» (r. 24) naturale, non razionale, nella necessità di certi legami tra le cose. Il principio
di causalità non è dunque oggetto di intuizione, né di dimostrazione, ma, in un certo senso, di “fede”. Non si tratta però di un atteggiamento irrazionale, o immotivato, ma di una fiducia (ben) fondata sull’«abitudine» (r. 27), cioè sulla prassi reiterata: si tratta di un comportamento, se non filosofico, certo naturale, che risponde a un “meccanico” o istintivo modo di operare del nostro intelletto.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS La critica humeana al nesso di causalità ha dato e continua a dare motivi di discussione a filosofi ed epistemologi, trovando echi anche nel campo della fisica. Nella teoria classica newtoniana la connessione tra causa ed effetto era considerata basilare e indiscutibile. La fisica quantistica, invece, di recente è arrivata a mettere in dubbio la nozione di causalità per affrontare lo studio di fenomeni difficilmente inquadrabili in un ordine deterministico. Effettua una ricerca su questo argomento e riportane gli esiti in un testo scritto (max 30 righe), in cui metti in evidenza affinità e differenze tra le rivoluzionarie teorie della fisica quantistica e i presupposti metodologici della filosofia di Hume.
La critica della metafisica tradizionale
L’assunto empiristico che Hume pone a fondamento metodologico del proprio pensiero gli impedisce di risolvere il problema degli oggetti esterni e del proprio corpo. Egli è infatti convinto che sia impossibile dimostrare che tali oggetti esistano al di fuori della mente, come entità unitarie e costanti. Allo stesso modo è destinato a fallire il tentativo di dimostrare l’esistenza dell’io, o dell’anima, come “sostegno” unitario e permanente delle percezioni. TESTO
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La credenza nell’esistenza del mondo esterno (Trattato sulla natura umana) Nel testo proposto di seguito Hume prova a chiarire la ragione per cui noi crediamo che esista il mondo esterno. La prospettiva assunta dalla sua esposizione è quella di un’analisi psicologica, volta a illustrare i meccanismi mentali che stanno alla base di tale convinzione. Il filosofo non intende certo negare l’esistenza dei corpi, ma soltanto la possibilità di darne una dimostrazione.
contraddizione in termini: supporre che i sensi continuino ad agire anche quando non agiscono più affatto. Se, in questo caso, hanno una funzione, sarà quella di produrre l’opinione di un’esistenza distinta, non di un’esistenza continuata e quindi presenteranno le loro impressioni o soltanto come immagini e rappresentazioni, ovvero come esistenze realmente distinte ed esteriori. […] Qui troviamo che le conclusioni, alle quali giunge il volgo su questo punto, sono direttamente contrarie a quelle della filosofia. La filosofia, infatti, ci dice che tutto ciò che si presenta alla mente non è altro che percezione, la quale, interrompendosi, è dipendente
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TESTI HUME
L’indimostrabilità Per cominciare dai sensi, è evidente che questi sono incapaci di far nascere la nozione di dell’esistenza un’esistenza continua dopo che gli oggetti cessano di apparire a loro. Poiché questa è una 2 delle cose
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dalla mente; invece il volgo confonde percezioni e oggetti, e attribuisce una distinta e continuata esistenza soltanto alle cose che tocca o che vede. Questa convinzione, dunque, 12 essendo assolutamente irragionevole, deve procedere da qualche altra facoltà che non sia l’intelletto. […] 14 un’idea basata Dopo un breve esame troveremo che tutti quegli oggetti, ai quali si attribuisce un’esistensulla regolarità za continuata, hanno una costanza peculiare che li distingue dalle impressioni la cui esi- 16
stenza facciamo dipendere dalle nostre percezioni. […] Questa costanza, tuttavia, non è così perfetta da non ammettere numerose eccezioni: 18 spesso i corpi mutano di disposizione e qualità, sì che, anche dopo una breve assenza o interruzione, si riconoscono appena. Ma qui è da osservare che, anche in questi mutamenti, 20 per la regolarità con cui questi dipendono gli uni dagli altri, essi conservano una coerenza che serve da fondamento a una specie di ragionamento di causalità che produce l’idea del- 22 la loro continuata esistenza. (Trattato sulla natura umana, libro I, sez. IV, cit., pp. 202 e 207-208)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’indimostrabilità dell’esistenza delle cose (rr. 114) La prima difficoltà relativa alla nostra nozione di mondo esterno deriva dal fatto che siamo legati all’ambito delle percezioni. I nostri sensi si limitano ad attestare l’esistenza della percezione che di volta in volta forniscono: solamente per mezzo di un’ulteriore inferenza noi possiamo dedurre l’esistenza di qualcos’altro che le sta dietro e che è ad essa esterno. Poiché non possiamo andare oltre i nostri sensi, le nostre affermazioni sugli oggetti di cui abbiamo percezione sono valide unicamente finché tali oggetti sono presenti ai sensi stessi: non è quindi possibile provarne l’esistenza continua. Non si dà alcun motivo nemmeno per provare l’esistenza esterna delle cose, cioè il fatto che ci siano davvero entità distinte dalle impressioni sensibili. Dedurre la realtà esterna dalle percezioni significa presupporre la validità del rapporto causale (poiché niente è senza causa, se ho percezioni deve esserci una causa di tali percezioni, che è appunto la realtà esterna), ma, come abbiamo
visto ( testo 1), Hume mette in discussione la fondatezza di tale rapporto. Un’idea basata sulla regolarità (rr. 15-23) Posto che non ci sono buone ragioni per comprovare la nostra fiducia nell’esistenza dei corpi, rimane da sapere su che cosa si fondi tale diffusa credenza. Sono la costanza e la coerenza che riscontriamo nelle cose a fare sorgere in noi l’idea della loro continuità e indipendenza. Le nostre impressioni, tuttavia, sono interrotte e diverse: a questo punto interviene l’immaginazione, che rimuove le discontinuità del reale conferendo al mondo degli oggetti una coerenza maggiore di quanto i sensi non attestino. La conclusione humeana è che la fiducia dell’essere umano nell’esistenza continua ed esterna della realtà non è giustificabile, tuttavia è impossibile da sradicare; la sua matrice non è oggettiva ma psicologica, dal momento che ciò che noi chiamiamo “continuità” e “coerenza” altro non è che la tendenza ad attribuire un’identità a differenti oggetti tra loro in relazione.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Hume sembra suggerire che se mi allontano dalla mia stanza e faccio ritorno un’ora dopo, sebbene trovi tutto invariato, i miei sensi non possono confermare che la stanza abbia continuato a esistere anche quando non c’ero e dunque non la vedevo. A partire da questo spunto, inventa una breve storia (max 30 righe), in cui sostieni o avversi la tesi del filosofo scozzese in forma narrativa.
358
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume Capitolo 4 Hume
VERIFICA
UNITÀ 4 IL PENSIERO INGLESE TRA RAGIONE ED ESPERIENZA: DA HOBBES A HUME FLASHCARD
CAPITOLO 1 Hobbes 1 Per Hobbes l’unico principio di spiegazione dei feno-
5 Utilizza le espressioni elencate di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla concezione hobbesiana dello Stato.
meni è: A il nesso causale
C il movimento
B la forza meccanica
D il pensiero
assemblea • contratto • illimitato • pace • patti di reciprocità • stato di natura • unico uomo • volontà
2 Per Hobbes la libertà:
L’atto fondamentale che segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile è la stipulazione di un . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . con il quale gli esseri umani rinunciano al diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di cui godono nello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e lo trasferiscono al “sovrano”. Questo trasferimento è indispensabile: infatti, soltanto se ciascun individuo sottomette la propria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . a un . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . o a una sola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , si possono garantire la . . . . . . . . . . . . ............................... e i ........................................... in cui essa consiste.
A non esiste, perché l’individuo è determinato ad
agire da cause a lui esterne B esiste soltanto come libertà di azione C esiste soltanto come libertà del volere D è il requisito che distingue gli esseri umani dagli
animali
3 La teoria politica di Hobbes può essere definita: A contrattualistica
C giusnaturalistica
B naturalistica
D liberale
4 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla filosofia di Hobbes, sono vere o false.
6 Come procede il ragionamento secondo Hobbes? Rispondi riportando un esempio di tua ideazione.
a. Dire che Dio è incorporeo equivale a
sostenere che non esiste affatto
(max 6 righe) V
F
V
F
b. Il fine ultimo per gli individui consiste
nella cessazione di tutti i desideri
condo Hobbes?
V
lo Stato?
F
9
d. Diritto naturale e legge naturale,
in quanto prodotti della retta ragione, coincidono
(max 6 righe)
8 Come nasce, per Hobbes, la comunità civile, ovvero
c. Gli esseri umani sono inclini alla
reciproca benevolenza
7 Quali sono le caratteristiche dello stato di natura se-
V
F
V
F
(max 6 righe)
attività PLUS Sintetizza in modo organico la filosofia di Hobbes, seguendo le tre direttrici seguenti: il materialismo etico-metafisico, il pessimismo antropolo(max 20 righe) gico, l’assolutismo politico.
e. Il sovrano non è soggetto alle leggi
dello Stato
CAPITOLO 2 Locke 10 Le idee per Locke:
11 Locke sostiene che lo stato di natura si basi su:
A sono prodotte dall’intelletto
A un’uguaglianza di forza
B sono innate nell’essere umano
B un’uguaglianza di diritti
C esistono da sempre nella mente di Dio
C un’uguaglianza di beni materiali
D derivano dall’esperienza
D un’uguaglianza di opportunità
359
12 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito
15 Quali sono le specie di conoscenza ammesse da Locke
per completare la mappa riportata sotto.
e in che cosa consistono?
(max 10 righe)
cose esterne • dimostrazione • Dio • idee • immediata • intuizione • mediata • sensazione
16 Come si caratterizza, per Locke, la libertà nello stato
13 Facendo riferimento alla teoria di Locke, collega le
17 Nella sua appassionata difesa della tolleranza, Locke
idee (colonna di sinistra) con le tipologie a cui appartengono (colonna di destra).
teorizza la divisione degli ambiti di competenza e di azione dello Stato e della Chiesa: chiarisci i termini (max 15 righe) di questa distinzione.
a. b. c. d. e.
1. 2. 3. 4. 5.
freddo dubbio libro ubriachezza padre
modo relazione riflessione sensazione sostanza
di natura e nella società civile?
18
14 Quale rapporto sussiste tra ragione ed esperienza nella gnoseologia lockeana?
(max 6 righe)
attività PLUS Prova a spiegare in che senso la critica di Locke all’innatismo e la sua adesione all’empirismo rivestano in ambito conoscitivo una funzione antidogmatica; quindi evidenzia come questo aspetto si ripercuota sulla teoria politica del filosofo inglese. (max 20 righe)
(max 6 righe)
CAPITOLO 3 Berkeley 19 Le cose per Berkeley:
20 Spiega in che senso, per Berkeley, l’idea può svolgere una funzione di “segno”.
A hanno un’esistenza reale distinta dalla nostra B sono collezioni di idee
(max 6 righe)
21 Spiega in che modo, dal punto di vista di Berkeley,
C sono i modelli delle nostre idee
la negazione della materia risulta vantaggiosa per la (max 15 righe) religione.
D sono il sostrato delle qualità sensibili che
percepiamo
CAPITOLO 4 Hume 23 Il fondamento del principio di causalità per Hume
22 Secondo Hume le idee:
consiste: A in un ragionamento a priori B in un’induzione a posteriori C nell’idea che il corso della natura sia uniforme D nella continuità spazio-temporale della causa e dell’effetto
A non hanno mai caratteri particolari B hanno notevole forza e vivacità C danno origine alle impressioni corrispondenti D derivano dalle impressioni corrispondenti
[mappa esercizio 12]
LA CONOSCENZA riguarda
360
le . . . . . . . . . . . . . . . . . .
le . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ed è
cioè
intuitiva
dimostrativa
quando è
quando è
percezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . di un accordo o di un disaccordo tra idee
percezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . di un accordo o di un disaccordo tra idee
l’io
..................
le cose
di cui si è certi per di cui si è certi per di cui si è certi per ..................
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume VERiFiCa
..................
..................
attuale
24 Il bene per Hume corrisponde:
26 Spiega in che senso le categorie di “credenza” e “abitudine” sono centrali nella teoria humeana della co(max 10 righe) noscenza.
A a ciò che promuove la felicità del singolo B a ciò che promuove la felicità di tutti gli individui
27 Perché quella di Hume si può definire una “morale
C a una dotazione inesauribile di ricchezze
della simpatia”?
D all’indifferenza nei confronti delle passioni
25 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla filosofia di Hume, sono vere o false. a. Alle idee di spazio e di tempo non
corrisponde alcuna impressione
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. Le proposizioni che concernono relazioni
tra idee si basano sull’esperienza
28
(max 6 righe)
attività PLUS Hume si è occupato di una delle questioni che maggiormente hanno animato il dibattito filosofico tra Seicento e Settecento: quella della sostanza. Facendo riferimento alle soluzioni proposte dai razionalisti e dagli empiristi, spiega in che cosa consiste l’originalità della teoria della sostanza del (max 20 righe) filosofo scozzese.
c. La credenza è una forma di
conoscenza istintiva d. Le cose hanno un’esistenza oggettiva,
indipendente dalle percezioni che abbiamo di esse e. Il sentimento è alla base sia dell’azione
sia della valutazione morale
VERSO L’ESAME DI STATO PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C
RIFLESSIONE CRITICA DI CARATTERE ESPOSITIVO-ARGOMENTATIVO SU TEMATICHE DI ATTUALITÀ
COMPETENZE Comunicare in forma scritta | Elaborare le informazioni | Sviluppare la riflessione personale e il giudizio critico | Argomentare una tesi
L’attualità del pensiero politico di Hobbes
‘
Il ragionare di Hobbes non lascia freddi, anche perché, sotto il suo apparente formalismo geometrico, operano opzioni antropologiche e politiche, emotive e razionali, […] da cui ognuno di noi viene scosso e interpellato perché accetti o rifiuti. La sua filosofia politica nasce da quesiti esistenziali e tiene conto, come poche altre, delle passioni, spinte distruttive ed esigenze vitali della natura umana, tentando una risposta razionale globale e, nella sua intenzione, definitiva: quesiti e tentativi di risposte che ci toccano perché sono anche nostri, come lo saranno degli uomini di ogni epoca. Forse il motivo più vero e profondo della sua attualità, tra i molti che più o meno validamente vengono indicati, sta proprio nel modo radicale con cui imposta la domanda: perché esiste lo Stato? È un “perché” dal duplice significato, causale e finale, al quale Hobbes dà una duplice inequivocabile risposta: perché l’abbiamo creato noi – per la nostra salvezza.
Il tutto sembra corrispondere alle inquietudini e agli orgogli prometeici d’oggi, contraddizioni intrinseche dell’uomo moderno-contemporaneo, che perciò avverte una particolare consonanza con questo pensatore del XVII secolo. (G. Sorgi, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2014, pp. 11-12)
La citazione proposta è tratta dall’“Introduzione” di un saggio volto a confrontare e ad armonizzare le svariate interpretazioni che nel tempo sono state date di Hobbes. Facendo riferimento alle tue conoscenze, rifletti sull’attualità della teoria politica hobbesiana e spiega in che cosa consistono le «inquietudini» e gli «orgogli prometeici» che, secondo l’autore del saggio, caratterizzerebbero la società di oggi. Infine, prova a dare una risposta alla domanda enunciata nel passo – “perché esiste lo Stato?” –, specificando se concordi o meno con il filosofo inglese.
361
QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza
Cartesio
Locke
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
Le vie della conoscenza La storia della filosofia è segnata da una domanda di fondo sulle modalità del conoscere: in che modo possiamo estendere e incrementare il nostro sapere? Le due “vie” – entrambe indispensabili – individuate dai filosofi nel corso dei secoli sono note: da una parte c’è il pensiero, con le sue idee concatenate mediante il ragionamento; dall’altra ci sono le cose, o la “realtà”, oggetto di osservazione. Ma è possibile stabilire se e quale fra queste due strade o fonti del conoscere abbia un ruolo predominante? A prima vista sembra di poter dire con una certa sicurezza che la verità – cioè l’oggetto della nostra ricerca – non può che consistere nel registrare i “fatti” così
come essi ci si presentano. In questo senso si potrebbe riconoscere nell’osservazione la fonte privilegiata della conoscenza, nonché il criterio per stabilire “come stanno le cose”. Fin dall’antichità, tuttavia, i filosofi hanno mostrato che ciò che osserviamo e ci sembra evidente non sempre risulta vero al vaglio della ragione. Tanto che Aristotele aveva affermato che la scienza è fatta di un momento deduttivo (di ragionamento puramente concettuale, in cui da premesse universali si ricavano conclusioni particolari) e di un momento induttivo (in cui da una serie di osservazioni empiriche particolari si ricavano affermazioni universali). Ma entrambi questi momenti – come lo stesso Aristotele aveva già compreso – presentano vantaggi e limiti.
UN ANEDDOTO PER AVVIARE LA RIFLESSIONE Per smascherare le convinzioni rassicuranti di quello che potremmo chiamare “empirismo ingenuo” (cioè le convinzioni di chi ritiene possibile fondare la conoscenza sull’evidenza dei fatti), il filosofo inglese Bertrand russell (1872-1970) ha raccontato il divertente aneddoto del “tacchino induttivista”:
Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle nove del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “Mi danno il cibo alle nove del mattino”. Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato. (cit. in A.F. Chalmers, Che cos’è questa scienza?, trad. it. di A. Runfola, Mondadori, Milano 1979, p. 24)
362
LE PROSPETTIVE IN CAMPO Dietro l’ironia divertita di Russell si nasconde una questione complessa e di non facile soluzione: in che senso quella che chiamiamo “verità” consiste nel rappresentarci le cose così come esse effettivamente sono? Se l’osservazione – anche quella puntuale e reiterata – non è un criterio di verità infallibile, allora qual è lo strumento principale con cui gli esseri umani possono incrementare la loro conoscenza del mondo? La ragione che collega concetti e costruisce ragionamenti, oppure la ragione che nei fatti cerca di rintracciare regole generali? La scelta tra queste due possibili risposte sottende i seguenti punti di vista:
la prospettiva razionalistica La conoscenza si fonda sulla ragione, la quale, partendo da alcuni suoi saldi princìpi e operando al di là dell’incerta testimonianza dei sensi, è in grado di produrre una conoscenza universale e rigorosa. In questa prospettiva, è vero ciò che si impone allo “sguardo” della mente con chiarezza ed evidenza, mentre i sensi possono pervenire soltanto a un sapere confuso, ingannevole e oscuro. la prospettiva empiristica La conoscenza si fonda sull’esperienza, cioè sull’osservazione di “dati” sensibili, dai quali per astrazione è possibile ricavare i concetti universali necessari per comprendere il mondo e le leggi della natura. In questa prospettiva, l’esperienza è l’unico criterio di verità del sapere: una rappresentazione mentale o un’“idea” è vera se è conforme ai fatti che esprime.
LA QUESTIONE FILOSOFICA Rifacendosi a un’analisi che era già stata di Aristotele, la gnoseologia moderna ha individuato i limiti e le difficoltà sia della prospettiva razionalistico-deduttiva, sia di quella empiristico-induttiva. La deduzione, infatti, non sembra capace di aumentare il nostro sapere sulle cose, dal momento che si muove “entro sé stessa”, senza alcun rapporto con la realtà concreta; l’induzione, d’altro canto, non offre garanzie di validità universale, poiché rimane prigioniera della mutevolezza dei dati empirici. Ma, procedendo per gradi, possiamo partire dall’analisi dell’interrogativo di fondo sotteso alla scelta tra queste due vie della ricerca: la conoscenza si basa sui collegamenti istituiti dalla ragione tra le idee, o sull’osservazione dei fatti? La questione – che in età moderna è riconducibile in modo esemplare a Cartesio e a Locke – si può sintetizzare così:
La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?
prospettiva razionalistica
prospettiva empiristica
L’idea che la conoscenza si basi sulla ragione trova L’idea che la conoscenza si basi sull’esperienza la sua fondazione filosofica nel razionalismo trova la sua formulazione nell’empirismo lockeano, cartesiano, secondo il quale esistono nella mente secondo il quale l’esperienza svolge un ruolo umana alcune nozioni innate che si impongono determinante nella nostra indagine sul mondo, sia come fonte di tutte le conoscenze, che si per la loro chiarezza ed evidenza, e sulle quali è possibile costruire deduttivamente l’intero possono ricavare dai dati sensibili induttivamente, edificio del sapere umano. sia come criterio per il controllo della loro verità.
363
QUESTIONE
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Cartesio
il razionalismo
Le conoscenze Per Cartesio la garanzia della verità si trova esclusivamente nella ragione, e più precisamente nell’adoevidenti zione della «regola dell’evidenza» quale criterio per distinguere il vero dal falso:
‘ ‘
mi sembra che si possa stabilire per regola generale che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere. (Meditazioni metafisiche, III, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Roma-Bari 2009, vol. 1, pp. 215-216)
Applicando questo principio, Cartesio afferma l’indubitabilità, da una parte, dell’io, cioè della «sostanza pensante», la cui esistenza si impone come evidente alla mente umana mediante il cogito; e dall’altra parte di Dio, la cui esistenza è dimostrabile a priori a partire proprio dall’autoevidenza originaria del cogito. Le conoscenze Ciò che invece risulta incerto è l’esistenza delle cose esterne, dal momento che questa è attestata dai non evidenti sensi, i quali ci informano sulle qualità sensibili degli oggetti in modo «oscuro e confuso»:
una prova certa dell’esistenza di cose corporee non si può trarre da quel che è percepito con quel modo di pensare che chiamo senso. (Meditazioni metafisiche, VI, 91, cit., p. 251)
Per avere la certezza dell’esistenza dei corpi e per conoscerne l’essenza, cioè la loro vera natura, la mente deve quindi mettere da parte le ingannevoli percezioni sensoriali, e «rivolgersi in qualche modo a sé stessa», cioè alle «idee» (le rappresentazioni mentali) dei corpi materiali, per stabilire che cosa, della realtà esterna, si possa effettivamente conoscere in modo certo. L’evidenza Come per Galilei, anche per Cartesio le qualità sensibili (colore, odore, sapore, suono...) sono soggettive dell’estensione (relative, cioè, al soggetto senziente) e non appartengono ai corpi in quanto tali. Ciò che delle cose dei corpi
materiali la ragione concepisce in modo «chiaro e distinto», e dunque ciò che afferisce alla vera natura dei corpi, sono piuttosto le proprietà geometriche e misurabili, ossia il fatto di avere una certa figura, certe dimensioni, di occupare un determinato spazio, di muoversi o di essere in quiete. In un brano delle Meditazioni metafisiche Cartesio chiarisce ulteriormente questo punto con il famoso esempio della cera. Se prendiamo un oggetto di cera e lo facciamo sciogliere avvicinandolo al fuoco, tutte le sue qualità sensibili verranno meno, tanto che l’oggetto originario non cadrà più sotto i sensi (non sarà più visibile nella sua forma iniziale, non emetterà più suoni se percosso ecc.). Eppure qualcosa permarrà in questa trasformazione, tanto da permetterci di riconoscere la stessa cera prima e dopo il mutamento. In che cosa consiste, dunque, questa «sostanza» della cera, questo qualcosa che, permanendo identico, “sostiene” il trasformarsi delle sue qualità sensibili?
‘
Di sicuro niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, perché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovano cambiate, e tuttavia (Meditazioni metafisiche, II, cit., p. 211) la cera stessa resta.
La conclusione di Cartesio è chiara: la sostanza dei corpi è il loro essere «qualcosa di esteso». Così come il pensare, il desiderare, il volere ecc. sono «modi» della «sostanza pensante» (res cogitans), analogamente i corpi, con la loro possibilità di assumere diverse configurazioni geometriche, sono «modificazioni» accidentali della «sostanza estesa» (res extensa). L’estensione L’estensione non è però un dato percettivo, o sensibile, poiché le infinite possibili configurazioni della come nozione sostanza estesa possono essere concepite dal pensiero, ma non raffigurate mediante l’immaginazione. innata
sensibile. Diversamente dalla materia, che cade sotto i sensi ed è qualitativamente determinata, l’estensione di cui parla Cartesio è uniforme e qualitativamente indifferenziata. In quanto tale, non è un concetto ricavato mediante astrazione dall’esperienza, bensì una nozione intuitiva e innata, una pura «visione della mente».
364
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume QuestIone la conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?
Per Cartesio, la differenza tra l’«immaginazione sensibile», con cui «contempliamo la figura o appunto l’immagine di qualcosa di corporeo», e l’«intellezione pura», con cui concepiamo in modo chiaro e distinto che le proprietà geometriche di un certo corpo si “appoggiano” a una «sostanza estesa», è esemplificata dal fatto che è possibile, ad esempio, concepire l’idea di un chiliagono (cioè di un poligono di mille lati) anche senza possederne l’immagine. Questo significa che l’intellezione pura è in grado di distinguere idee (come quella di estensione) che l’immaginazione non riesce invece a mettere a fuoco. Il modello Una volta ridotta la materia (sensibile) a estensione geometrica (idea innata), la conoscenza del mondo geometrico coincide per Cartesio con la costruzione deduttiva della geometria. Il filosofo francese afferma spesso del sapere
di voler costruire una fisica a priori, che cioè prenda le mosse da alcuni princìpi primi fondati sull’evidenza della ragione, e non sull’esperienza: ora, poiché il dominio dei corpi materiali coincide con il concetto di estensione, ovvero con la nostra idea di mondo, le leggi che governano quest’ultimo saranno quelle dedotte con rigore dimostrativo da tale nozione prima ed evidente.
Locke
l’empirismo
La rivalutazione Se per Cartesio l’esperienza ha una funzione tutto sommato irrilevante nel processo conoscitivo, per dell’esperienza Locke il dato empirico costituisce invece la fonte e il criterio di controllo di ogni conoscenza: è dall’e-
sperienza che la ragione ricava le idee, cioè i contenuti della mente; ed è l’esperienza a segnare il limite oltre il quale non è lecito avventurarsi senza rischiare di realizzare costruzioni illusorie ed erronee. Questo non significa però che Locke riduca il sapere scientifico a pura osservazione empirica. Egli afferma infatti che la scienza esige “oggettività”, cioè universalità e necessità, e che questa non si trova nella semplice raccolta dei dati, bensì nella concatenazione necessaria delle idee, cioè nell’evidenza della ragione. tra realismo Coerentemente con questi assunti di base, Locke afferma che, se la “ricezione” del materiale della conoscenza e mentalismo (le «idee semplici») è un’operazione involontaria, su tale materiale l’intelletto esercita invece il proprio libero
potere costruttivo, riunendo, organizzando e separando in diversi modi le idee semplici conservate nella memoria. In tal modo, sottolineando a un tempo la passività della mente nella raccolta dei dati empirici e la sua attività combinatoria esercitata su questi stessi dati, Locke oscilla tra l’esigenza del realismo, che impone di collegare qualsiasi contenuto mentale ai dati percettivi dell’esperienza, e la tendenza al mentalismo, per cui la conoscenza concerne «la percezione della concordanza o della discordanza tra le idee». Alla fine del Saggio sull’intelletto umano, chiedendosi se la verità sia in re, cioè nella corrispondenza tra le idee dell’intelletto e le cose, o in dicto, cioè nella coerenza tra segni (ossia tra le idee espresse dai nomi), Locke si schiera però a favore di questa seconda ipotesi:
‘
Mi sembra che la verità, nel significato proprio della parola, non significhi altro che l’unione o la separazione di segni, in quanto le cose da essi designate sono reciprocamente in accordo o in disaccordo fra loro. […] Così che la verità appartiene propriamente solo alle proposizioni, di cui esistono due tipi: proposizioni mentali [concettuali] e verbali [linguistici], come vi sono due tipi di segni di cui si fa comunemente uso, ossia le idee e le parole. (Saggio sull’intelletto umano, IV, V, 2, trad. it. di V. Cicero e M.G. D’Amico, Bompiani, Milano 2004)
Ma se la conoscenza concerne unicamente le relazioni tra i segni (concettuali e linguistici), come possiamo stabilire la conformità o meno «delle nostre idee con la realtà delle cose esistenti fuori di noi»? In altri termini, come può l’essere umano uscire dal cerchio della propria mente, per attingere la concretezza della realtà extra-mentale? Il fondamento Locke ritiene che, entro certi limiti, possiamo essere sicuri che alle nostre idee corrispondano delle cose. della verità Dell’esistenza dell’io siamo certi per intuizione (secondo il procedimento cartesiano); la conoscenza di
Dio la otteniamo per dimostrazione (in base alle tradizionali prove a posteriori); alla conoscenza delle cose esterne, infine, perveniamo attraverso la sensazione e, in particolare, attraverso la «sensazione attuale», mediante la quale sappiamo che “in quel momento” esiste fuori di noi qualcosa che causa nella
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QUESTIONE nostra mente “quella idea”. Quando invece non si percepisce alcuna qualità sensibile in atto, la certezza dell’esistenza della cosa viene meno: che gli oggetti sussistano anche una volta terminata la percezione che ne ho, e che esistano cose che io non percepisco è una convinzione ragionevole, ma di cui non possiamo essere certi. I limiti Questo significa che Locke ammette una conoscenza certa (Knowledge) che può basarsi sull’evidenza dell’empirismo: intuitiva (del mio io), sulla forza dimostrativa della ragione (che perviene a Dio) e sulla sensazione attuala scienza come congettura le (che mi informa dell’esistenza degli oggetti che sto percependo mentre li sto percependo); ma, oltre
a questa, riconosce anche una conoscenza probabile, che non è altro che la conoscenza empirica, la quale, procedendo mediante l’induzione, opera collegamenti tra fatti. La riflessione gnoseologica ed epistemologica di Locke approda così a un’idea di scienza come «congettura», secondo la quale induttivamente, cioè mediante «osservazioni regolari», è possibile conoscere sempre meglio la natura e fare ipotesi sempre più corrette, senza tuttavia poter mai pervenire a una conoscenza della realtà naturale che sia salda come quella matematica.
L’esito scettico Locke prefigura in tal modo l’esito scettico a cui l’empirismo perverrà con Hume. Fondata su generalizdell’empirismo zazioni soltanto probabili, la scienza della natura sacrifica l’universalità e la necessità del modello matelockeano
matico in favore della fecondità di un sapere che si accresce per via ipotetica:
‘
Questo modo di procurarci e accrescere la nostra conoscenza delle sostanze, sulla base della sola esperienza […], fa sorgere in me il sospetto che la filosofia naturale [cioè la conoscenza della natura] non sia capace di trasformarsi in scienza [cioè in un sapere universale e necessario]. (Saggio sull’intelletto umano, IV, XII, 11, cit.)
Indipendentemente dalla scelta di abbracciare la prospettiva empiristica o razionalistica, per la modernità il comune punto di partenza dell’indagine gnoseologica è comunque cartesiano: pensare vuol dire avere idee, il che significa che l’oggetto della conoscenza non sono le “cose”, bensì, appunto, le “idee”, che delle cose sono segni, o immagini mentali e soggettive. Si impone così una questione cruciale, che attraverserà l’intera filosofia moderna: se tutto ciò di cui possiamo avere consapevolezza sono le nostre rappresentazioni mentali, allora il mondo reale sarà inconoscibile, o conoscibile soltanto in modo problematico, attraverso la mediazione dell’idea. In altre parole, il soggettivismo moderno contiene in sé il rischio di un esito scettico, che troverà la sua più chiara formulazione in Hume e nella sua negazione di qualsiasi possibilità di mettere in relazione le nostre rappresentazioni mentali soggettive con un presunto mondo reale oggettivo e permanente.
una questione aperta
Quella tra Cartesio e Locke, come abbiamo potuto constatare, non è un’autentica alternativa, poiché anche l’empirista Locke riconosce il valore della deduzione matematica (la quale però non può incrementare la nostra conoscenza) e ammette la fragilità dell’induzione (che approda a un sapere soltanto probabile).
La stessa scienza moderna, del resto, fin dal suo sorgere trova il proprio fondamento nella reciproca implicazione di deduzione e induzione, di ragione ed esperienza, o, per usare il linguaggio di Galilei, nell’intreccio delle «necessarie dimostrazioni» con le «sensate esperienze». Ma, al di là del cammino della scienza, per assistere alla liberazione della filosofia dal pericolo dello scetticismo, e per ritornare a scorgere nel soggetto non un fattore di relativismo conoscitivo, ma l’unica garanzia possibile di una conoscenza oggettiva, bisognerà attendere le riflessioni di Immanuel Kant ( unità 6), con il quale l’io, conferendo oggettività ai dati sensoriali mediante le sue «forme pure», sarà la fonte della stessa possibilità di una conoscenza universale e necessaria, diventando in tal modo «legislatore del mondo», cioè facendosi esso stesso fondamento dell’ordine necessario della realtà e della sua conoscibilità.
366
Unità 4 IL pensIero InGLese tra raGIone eD esperIenza: Da HoBBes a Hume QuestIone la conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?
ora tocca a voi...
dibattito critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto la guida dell’insegnante, mediante sorteggio dividete la classe in due squadre, assegnando a ciascuna il compito di argomentare in favore o contro la seguente mozione:
La conoscenza si fonda sulla sola ragione PREPAR A ZIONE DEL DIBAT TITO
• Per prepararvi a presentare il punto di vista della vostra squadra, rispondete alle seguenti domande: - perché la posizione di Cartesio può essere ricondotta al razionalismo? - in che senso, per Cartesio, l’esperienza produce una conoscenza incerta e confusa? - perché la posizione di Locke è detta “empirismo”? - per quali ragioni l’empirismo di Locke si apre a un possibile esito scettico? • Per elaborare gli argomenti favorevoli o contrari alla mozione, cercate nel manuale, in biblioteca e in Internet le riflessioni dei principali filosofi moderni sul fondamento del conoscere. SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO 1. primo intervento (max 6 minuti per ogni
squadra) Per avviare la discussione, un primo studente della squadra favorevole alla mozione riassume il problema ed espone la tesi: Sì, la conoscenza si fonda sulla sola ragione, ovvero su princìpi e nozioni evidenti e innati. Poi anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il primo argomento.
Un componente della squadra avversaria espone la tesi: No, la conoscenza non si fonda sulla sola ragione, poiché questa ricava il materiale delle proprie elaborazioni dall’esperienza. Poi anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra; quindi espone il primo argomento. 2. secondo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un secondo studente per ogni squadra difende il primo argomento presentato dalle critiche eventualmente ricevute; quindi confuta il primo argomento avversario ed espone altri argomenti in favore della mozione o contro di essa. 3. terzo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un terzo studente per ogni squadra difende dalle critiche gli argomenti presentati fino a quel momento e confuta le argomentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 minuti per ogni squadra) Un esponente per ciascuna squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
367
L’OFFICINA DELL’ESAME VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C
RIFLESSIONE CRITICA DI CARATTERE ESPOSITIVO-ARGOMENTATIVO SU TEMATICHE DI ATTUALITÀ 1 La concezione della mente umana
‘
La cosa decisiva nella rivoluzione copernicana non è stato aver rimosso noi esseri umani dal centro dell’universo, ma di avere dato inizio […] alla “meccanizzazione dell’immagine del mondo”. […] La meccanizzazione significava che il mondo in cui gli esseri umani vivevano non poteva più insegnare loro nulla sul modo in cui avrebbero dovuto vivere. […] Hume aveva già trattato idee e impressioni non come proprietà di un sé sostanziale, ma come atomi mentali la disposizione dei quali era il sé. Questa disposizione era determinata da leggi di associazione, analoghe alla legge di gravità. Hume si considerava il Newton della mente e la mente meccanica che aveva immaginato era – vista dall’alto, per così dire – altrettanto moralmente insensata dell’universo corpuscolare di Newton. (R. Rorty, Scritti filosofici II, trad. it. di B. Agnese, Laterza, Bari 1993, pp. 194-195)
Gli autori dell’empirismo elaborano una visione della mente come una sorta di meccanismo computazionale, come un macchinario calcolatore tutto sommato estraneo e indifferente alla ricerca di significato, alle questioni di senso affrontate, ad esempio, dall’arte o dalla religione. Rifletti su questo modo di intendere la mente
umana, facendo riferimento alle tue conoscenze, alle tue esperienze personali, alla tua sensibilità. Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto.
SNODI PLURIDISCIPLINARI
VERSO IL COLLOQUIO 2 Apparenza e realtà Leggi il percorso delineato di seguito, che attraversa e mette in connessione alcune discipline, e prova a svilupparlo rispondendo in forma orale agli spunti ed ai quesiti proposti. Non limitarti a giustapporre argomenti affini, ma sviluppa un confronto in termini di analogie e differenze. Rifletti sulla specificità di ciascuna disciplina e individua gli elementi utili a una comparazione.
PARTIAMO DA UNA CITAZIONE
‘
Dato che talvolta i nostri sensi c’ingannano, volli supporre che nessuna cosa fosse così come essi ci inducono a immaginarla; siccome taluni si sbagliano quando ragionano, […] rifiutai come false tutte le ragioni che, precedentemente, avevo assunto come dimostrazioni; e, infine, considerando che gli stessi pensieri che ci vengono quando siamo svegli ci possono venire anche nel sonno senza per questo che nessuno di essi sia vero, decisi di fingere che tutto ciò che, da sempre, era entrato nel mio spirito non fosse più vero delle illusioni dei miei sogni.
368
(Cartesio, Discorso sul metodo, trad. it. di R. Campi, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 86-87)
SEZIONE 2 TRA SEICENTO E SETTECENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
FILOSOFIA Spingendo all’estremo il dubbio metodico, Cartesio arriva a sospendere il giudizio circa l’esistenza stessa della realtà esterna: come il daltonico o l’allucinato vengono ingannati dalle loro percezioni, così, per ciascun individuo, sensazioni, idee e contenuti di pensiero non garantiscono, da soli, l’esistenza di alcuna realtà al di fuori della propria coscienza. • Per Cartesio, il dubbio sulle nostre percezioni è una condizione definitiva o lascia il posto a un sapere certo e razionalmente fondato? Al termine del percorso gnoseologico e metafisico prospettato nelle Meditazioni cartesiane, quale significato assume la distinzione tra apparenza e realtà esterna? Confronta ora la prospettiva di Cartesio con le diverse tesi elaborate nell’alveo dell’empirismo inglese (dal probabilismo di Locke allo scetticismo di Hume). Questi autori prendono le mosse da un punto di partenza comune: l’oggetto immediato della coscienza sono le idee. Per quali ragioni giungono a esiti differenti? LE T TER ATUR A SPAGNOL A Due anni prima della pubblicazione del Discorso sul metodo, in Spagna vede la luce La vida es sueño (“La vita è sogno”, 1635) del drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Il dramma ruota attorno alle vicende di Sigismondo, figlio dell’astrologo e re di Polonia Basilio. Al momento della nascita dell’erede, il padre interpreta i segni delle stelle e si convince che Sigismondo, se prenderà il potere, non potrà che regnare tirannicamente. Per questo motivo fa allevare il figlio in un luogo segreto e lo tiene completamente all’oscuro delle proprie origini. Trascorsi molti anni, Basilio decide di mettere alla prova il figlio: trasportato durante il sonno fino alla reggia, Sigismondo si risveglia a corte e viene a conoscenza della propria identità. Le sue azioni sembrano però confermare i timori paterni e pertanto, addormentato con un potente narcotico, viene ricondotto nella prigione dov’è cresciuto. Una volta sveglio si trova davanti al dilemma: i suoi ricordi sono soltanto un sogno, come tutti gli suggeriscono, oppure ha davvero vissuto per un giorno nel palazzo del re?
• Leggi l’atto II, scene XVIII-XIX. A partire dal dubbio circa la realtà delle esperienze vissute a corte, Sigismondo riflette sull’esistenza umana come tale: che cosa significa che «tutti nel mondo sognano di essere quel che sono» e che «tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni» (atto II, scena XIX)? Confronta il contenuto dell’opera di Calderón con il dubbio metodico di Cartesio: quali analogie e quali differenze si possono individuare?
STORIA DELL’ARTE L’arte barocca, nel suo intento di suscitare meraviglia e stupore, cerca di portare lo spettatore a una provvisoria sospensione della distinzione tra verosimile e immaginario. La decorazione di volte, saloni e cupole ricorre spesso all’illusionismo prospettico per sfondare i limiti architettonici e ottenere effetti di trompe-l’œil (letteralmente “inganna l’occhio”), nella coinvolgente e spettacolare sovrapposizione di spazi reali e spazi dipinti. • Tra gli esempi più noti della grande decorazione barocca figurano il Trionfo della Divina Provvidenza (Pietro da Cortona, 1633-1639) e la Gloria di sant’Ignazio (Andrea Pozzo, 1691-1694). Individua nelle due opere gli elementi che contribuiscono all’illusione prospettica: soffermati in particolare sulle architetture dipinte, sul dinamismo delle figure, sull’uso dei colori e della luce. Confronta poi la sensibilità che caratterizza l’arte barocca con gli altri spunti proposti, riflettendo in particolare sulle emozioni suscitate dalla possibile confusione di realtà e apparenza (angoscia, disillusione, distacco intellettualistico, piacere di lasciarsi ingannare...). FISIC A Declina il tema proposto facendo riferimento ai fenomeni ottici correlati alla riflessione e rifrazione della luce: ad esempio le illusioni ottiche, i miraggi, l’arcobaleno. • Distingui attentamente i diversi significati che può assumere la dicotomia realtà-apparenza e poi confrontali tra di loro, senza formulare interpretazioni forzatamente univoche.
369
I NODI DEL PENSIERO QUAL È L’ORIGINE DEL POTERE?
In epoca moderna il pensiero politico è caratterizzato da una specifica riflessione sul potere, e più precisamente sulla sua origine, sulla fonte della sua legittimità e sui suoi limiti. Il dibattito su questi temi porta al superamento della visione teocratica medievale (secondo cui il potere dei sovrani derivava da Dio) e alla nascita di quella che può essere considerata la conquista più tipica della filosofia politica moderna, ovvero la prospettiva contrattualistica.
370
01
MACHIAVELLI
Il potere deriva da un «calcolo di utilità»
‘
Una piccola parte degli uomini desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. (N. Machiavelli, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, I, XVI )
Niccolò Machiavelli è comunemente considerato il fondatore della scienza politica moderna. Egli è infatti il primo ad assumere una prospettiva laica e mondana, affermando che lo Stato non risponde a un disegno salvifico o soprannaturale: esso non è un «remedium peccati», cioè uno strumento di cui la provvidenza divina si serve per contenere la malvagità umana; e non è nemmeno l’esito naturale e “automatico” dell’istintiva socievolezza degli uomini (come affermava Aristotele sulla base della sua definizione dell’uomo come «animale politico»).
1 Machiavelli
2 Grozio
3 Hobbes
4 Locke
Per quanto sia «una cosa della natura», cioè un organismo che nasce, cresce e muore, lo Stato è per Machiavelli una costruzione della ragione, il frutto di un «calcolo di utilità» con cui gli uomini rinunciano a una parte della loro libertà per avere in cambio la sicurezza e l’ordine, condizioni essenziali per il loro «vivere libero». Nato per eliminare la violenza privata che mette a repentaglio la vita dei cittadini, lo Stato richiede da parte dei governanti un’autentica arte, o tecnica, ovvero una specifica competenza politica, che consenta loro di ricorrere efficacemente alla ragione e alla forza per combattere l’inclinazione al male che caratterizza la natura umana.
2
GROZIO
Il potere deriva da un contratto
‘
La conservazione della società, conforme alla ragione umana, è la fonte del diritto propriamente inteso. (U. Grozio, De iure belli ac pacis, 8)
Rifacendosi alle teorie di Machiavelli (ma anche di pensatori come Giovanni Botero e Jean Bodin), Ugo Grozio riprende la riflessione sull’origine dello Stato pervenendo a fissare le due nozioni fondamentali di quello che diverrà noto come modello giusnaturalisticocontrattualistico: la nozione di «legge di natura» e quella di «contratto». Grozio chiama «stato di natura» la condizione che precede la fondazione dello Stato: una condizione in cui ciascuno, interrogando la ragione, può trovare un sistema di norme per guidare le proprie azioni e ridurre al minimo i conflitti con i suoi simili. Si tratta di princìpi del tipo “non impossessarti delle cose altrui”, “mantieni le promesse”, “risarcisci i danni arrecati” ecc., di «leggi naturali» che si presentano alla ragione come evidenti e valide «etsi deus non daretur» (anche se Dio non ci fosse). Le nozioni di “stato di natura” e di “legge naturale” (ius naturale) consentono a Grozio di elaborare una teoria della fondazione del diritto di tipo laico e razionale, spezzando – sulla scia di Machiavelli – il legame tra politica e teologia che aveva dominato la cultura medievale. Quanto al contratto, Grozio lo concepisce come un patto liberamente stipulato dagli individui tra loro e dagli individui con un sovrano al quale essi si sottomettono: mediante tale patto nasce lo Stato, e gli esseri umani escono dalla condizione naturale per entrare in quella civile, o politica. Pertanto Grozio – sebbene ritenga (diversamente da Machiavelli) che la natura umana non sia malvagia e insocievole, ma naturalmente inclinata alla vita sociale – si oppone anch’egli (come già Machiavelli) al modello naturalistico di matrice aristotelica. In alternativa a quest’ultimo, elabora infatti una teoria volontaristica e contrattualistica della fondazione del potere, secondo la quale lo Stato è un ente artificiale, una costruzione della ragione che trova il suo fondamento in quei princìpi razionali universali e immutabili che sono le leggi di natura.
5 Rousseau
6 Kant
7 Fichte
8 Hegel
371
3
HOBBES
Il potere deriva da un patto tra i soli sudditi
‘
Viene infatti creato dall’arte quel grande Leviatano chiamato Repubblica o Stato (in latino Civitas), che non è altro che un uomo artificiale, anche se ha una statura e una forza maggiori rispetto all’uomo naturale, per protegger e difendere il quale è stato voluto. (T. Hobbes, Leviatano, “Introduzione”)
La prospettiva laica e razionalistica di Grozio giunge alla sua massima espressione nella riflessione politica di Hobbes, il quale abbandona definitivamente sia l’idea aristotelica dell’essere umano come «animale politico» (incline per natura alla socievolezza) sia l’idea cristiana dello Stato come «rimedio» (di origine trascendente) ai mali umani. Anche per Hobbes (come già per Machiavelli e per Grozio) lo Stato è un artefatto della ragione, il più utile dei “congegni” costruiti dall’uomo per fronteggiare le insidie della natura e le pulsioni egoistiche. Esso è il frutto di un contratto mediante il quale gli individui (i futuri sudditi), guidati dalla ragione, rinunciano al loro naturale diritto su tutto e riconoscono a un «sovrano» il potere assoluto di promulgare o abrogare le leggi, e di farle rispettare con la forza. L’assolutismo hobbesiano corrisponde a un radicale giuspositivismo, secondo il quale è “giusto” (iustum) soltanto ciò che è “comandato” (iussum) dallo Stato, dal momento che non esiste nulla che possa dirsi “giusto in sé”. La legge positiva è quindi l’unica misura del bene e del male: essa rappresenta «la volontà e l’appetito dello Stato», e costituisce l’unico modo per uscire dal relativismo morale che caratterizza lo stato di natura, dove l’agire è regolato esclusivamente dall’«appetito dei privati».
4
LOCKE
Il potere deriva da un patto tra i sudditi e il sovrano
‘
I NODI DEL PENSIERO QUal È l’oRiGinE DEl potERE?
Il grande e principale fine per cui gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà. (J. Locke, Secondo trattato sul governo, IX, 124)
372
La dottrina politica di Locke rappresenta la variante liberale del modello contrattualistico. Al di là delle differenze – pur radicali – che lo distanziano da Hobbes, con quest’ultimo Locke condivide infatti la convinzione che la società politica abbia la sua origine in un patto tra individui isolati, indipendenti e uguali (tutti egualmente esposti al rischio della morte violenta per Hobbes, e tutti depositari degli stessi diritti inviolabili per Locke). Da Hobbes, Locke si distingue invece per il diverso modo di considerare lo stato di natura (bellicoso per Hobbes, pacifico per Locke), per le caratteristiche attribuite al contratto (unilaterale, irrevocabile e totale per Hobbes; bilaterale, revocabile e parziale nella rinuncia ai diritti per Locke) e per la concezione del potere che ne deriva (assoluto e indivisibile per Hobbes, limitato e divisibile per Locke).
1 Machiavelli
2 Grozio
3 Hobbes
4 Locke
Libero nello stato di natura (nel senso che non deve obbedire a nessuno e non è soggetto ad alcun potere se non a quello della propria ragione), per Locke l’essere umano rimane tale anche nello stato civile, perché si sottomette a un potere che esige il suo consenso e che è uno strumento di tutela della sua libertà originaria. Lo Stato, in altre parole, per Locke non nasce per garantire la sicurezza e la sopravvivenza dell’individuo (come ritiene Hobbes), ma per tutelare i diritti che ogni essere umano può rivendicare sul proprio corpo e sui propri beni.
FARE FILOSOFIA COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare | Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali
Pressoché tutti i pensatori politici dell’età moderna sono legati da una convinzione comune, ovvero dall’idea che l’origine dell’organizzazione statale sia da rintracciare nell’ingegno costruttivo della ragione, e che il suo scopo consista fondamentalmente nella tutela della «sicurezza» (securitas) dei cittadini: Machiavelli indica il primo motivo della nascita delle comunità umane nell’impossibilità degli individui isolati di resistere alla prepotenza dei propri simili; e anche per Grozio tale motivo corrisponde alla ricerca di un vantaggio collettivo, cioè il «godere della protezione delle leggi». Questo nucleo essenziale del pensiero politico moderno è fissato con chiarezza e in modo definitivo da Hobbes, il quale afferma che «fuori dello Stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità. Nello Stato è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza» (Elementi filosofici sul cittadino, X, 1).
5 Rousseau
6 Kant
• Immagina di dover organizzare, insieme con i tuoi compagni di classe, un’assemblea di istituto dedicata al tema: “Il principio della securitas dal pensiero politico moderno ai giorni nostri”. - Stabilite i diversi momenti dell’assemblea, ad esempio: discorso introduttivo generale; esposizione delle principali posizioni dei filosofi moderni sul tema dello Stato e della sicurezza; analisi dei documenti (Dichiarazioni dei diritti umani, Costituzioni ecc.) in cui viene sancito il diritto alla sicurezza; analisi dello stato di fatto nel nostro Paese; dibattito. - Quindi dividetevi in gruppi e distribuite a ciascuno di essi la preparazione di un momento specifico, prevedendo eventualmente la partecipazione di uno o due relatori esterni (ad esempio un giurista, un filosofo o uno storico) e allestendo gli strumenti necessari (presentazioni multimediali, proiezione di filmati ecc.).
7 Fichte
8 Hegel
VEDI P. 802 PER GLI ALTRI FILOSOFI DEL PERCORSO
373
I NODI DEL PENSIERO CHE COS’È LA SOSTANZA?
1
BRUNO
La sostanza è Dio in quanto «Anima del mondo» Nel pensiero greco antico la sostanza (ousía) era il sostrato immutabile delle cose, la loro essenza, che rimane sempre identica nonostante il mutare degli “accidenti”. In epoca moderna, questa nozione subisce una graduale evoluzione, passando a indicare, attraverso fasi alterne, sia il principio immanente ed eterno della realtà, sia il soggetto conoscente.
374
1 Bruno
‘
La prima e principal forma naturale, principio formale e natura efficiente, è l’Anima de l’universo: la quale è principio di vita, vegetazione e senso in tutte le cose, che vivono, vegetano e sentono. (G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, “Epistola proemiale”)
All’alba della modernità, il naturalismo rinascimentale rielabora la nozione di “sostanza” soprattutto alla luce della tradizione neoplatonica. Intesa come principio immanente dell’intera realtà, nonché come fine ultimo dell’organizzazione finalistica della natura, la sostanza viene identificata con l’«Anima del mondo», cioè con Dio quale causa e fondamento da cui il cosmo ha origine e da cui è vivificato e governato. Emblematica concretizzazione di questa prospettiva è il panteismo di Giordano Bruno, il quale guarda alla natura come a un immenso organismo, come a un grande animale dotato (proprio come l’essere umano) di un corpo e di un’anima: quest’ultima è appunto l’«Anima de l’universo», ovvero Dio stesso, concepito come sostanza o principio attivo (forma) che plasma la materia (principio passivo) determinando la vita di tutto ciò che esiste.
2 Cartesio
3 Spinoza
4 Leibniz
5 Hume
2
CARTESIO
La sostanza autentica è il soggetto pensante
‘
Io non sono, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione. (Cartesio, Meditazioni metafisiche, II)
Il distacco dalla concezione tradizionale della sostanza, e dunque l’ingresso ufficiale nella filosofia moderna, si deve a Cartesio, per il quale la sostanza non è più il sostrato immutabile – di una cosa o del mondo – che sorregge una serie di proprietà mutevoli. Anziché un oggetto (ob-iectum) o una cosa (res) che ci sta di fronte e di cui si possono predicare delle proprietà (come un albero, di cui si può dire che è verde, alto ecc.), la sostanza diventa in Cartesio il soggetto (sub-iectum), cioè la mente umana, o l’io, che sorregge quegli atti attraverso i quali l’oggetto ci è dato (il percepire, il pensare ecc.). Il soggetto che pensa, ossia la «sostanza pensante» (res cogitans), diventa così il fondamento dell’oggetto e delle sue proprietà (un oggetto verde, ad esempio, è tale perché c’è un soggetto che lo percepisce verde). Accanto alla sostanza pensante (incorporea, consapevole e libera), Cartesio ammette però anche una «sostanza estesa» (res extensa), che è corporea, inconsapevole e determinata meccanicisticamente. Come il pensare, il volere, il desiderare ecc. sono «modi» della sostanza pensante (che ne costituisce il “sostegno”), così i singoli corpi non sono altro che «modificazioni accidentali» della sostanza estesa, nel senso che la materia o l’estensione sussiste in sé, mentre i corpi hanno bisogno di essa per esistere e per essere pensati.
3
SPINOZA
La sostanza è Dio, totalità infinita
‘
Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato. (B. Spinoza, Etica, I, def. III)
Spinoza trae da Cartesio la propria definizione della sostanza come ciò che sussiste in sé e non ha bisogno di altro per essere concepito. A rigore, una tale definizione avrebbe dovuto essere applicata soltanto a Dio, principio assoluto ontologico e logico; ma, accanto alla sostanza divina, Cartesio aveva ammesso anche la «sostanza pensante» e la «sostanza estesa», le quali, in quanto create da Dio, per il filosofo francese sono concepibili per sé ma non sono in sé. In Cartesio, dunque, il pensiero e l’estensione erano due realtà concettualmente autonome e “prime”, sebbene entrambe dipendenti da Dio per la loro esistenza. Restituendo coerenza e rigore alla prospettiva cartesiana, Spinoza dimostra che sostanza in senso proprio è soltanto Dio, sostanza unica e infinita. Le singole menti e i singoli corpi non sono che modificazioni accidentali del pensiero infinito e dell’estensione infinita, che a loro volta sono i due «attributi» con cui la sostanza divina viene colta dall’essere umano. La sostanza del mondo, il suo “sostegno” o “soggetto”, per Spinoza è dunque Dio, che è Natura infinita, in relazione alla quale va “com-preso” tutto ciò che esiste.
6 Kant
7 Fichte
8 Schelling
9 Hegel
375
4
LEIBNIZ
Sostanze sono le infinite monadi
‘
Le sostanze composte, cioè i corpi, sono delle molteplicità; mentre le sostanze semplici, cioè le vite, le anime, gli spiriti, sono delle unità. (G.W. Leibniz, Princìpi razionali della natura e della grazia, par. 1)
A differenza di Spinoza, Leibniz ammette una pluralità, anzi un’infinità di sostanze, ognuna delle quali è un’individualità unica, diversa da tutte le altre. Queste infinite sostanze non sono riconducibili all’estensione, o alla materia; esse sono piuttosto realtà spirituali dinamiche, dotate di forza intrinseca: «La sostanza è un Essere capace di azione». Leibniz le chiama «monadi» (dal greco mónos, “uno”), poiché le concepisce come sostanze semplici, indivisibili, come “punti” dotati di energia, o come princìpi del mutamento: sorta di atomi spirituali che costituiscono gli elementi di tutte le cose, dal momento che i corpi sono composti o aggregati di tali sostanze semplici.
5
HUME
La sostanza non esiste, o comunque non è conoscibile
‘
La mente non è una sostanza alla quale le percezioni ineriscano. (D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana)
I NODI DEL PENSIERO CHE CoS’È la SoStanZa?
Il carattere sostanziale degli oggetti del mondo da una parte, e del soggetto conoscente dall’altra (ovvero dell’io inteso come realtà stabile e permanente), viene radicalmente messo in discussione dagli empiristi inglesi, e in particolare da Hume. Già Locke aveva chiarito come la sostanza non sia che un’«idea complessa», ovvero una costruzione della mente che sorge quando, di fronte all’esperienza di un certo numero di «idee semplici» che ci appaiono concomitanti, ipotizziamo che esse ineriscano a un unico e permanente sostrato. Questo vale sia per le presunte sostanze materiali, sia per la sostanza spirituale: noi facciamo esperienza di singoli atti o operazioni della nostra coscienza e supponiamo che ineriscano a un identico e unico sostrato, ma quest’ultimo non è altro che un’idea prodotta da noi. Accogliendo e radicalizzando il discorso lockeano, Hume afferma che nella realtà non c’è nulla di stabile, permanente o sostanziale. Non c’è alcuna connessione necessaria tra le nostre percezioni, le quali ci appaiono collegate tra loro e relative a una realtà permanente e costante soltanto per abitudine e per una nostra supposizione logicamente infondata. Questo vale sia per le cose che costituiscono il mondo esterno, sia per il nostro io.
376
FARE FILOSOFIA PER RIFLETTERE E ARGOMENTARE Competenza alfabetica funzionale | Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali
• Rifletti sull’aspetto evidenziato di seguito, quindi rispondi per scritto alla domanda.
1 Bruno
2 Cartesio
A partire dall’evoluzione (dovuta a Cartesio) della nozione di “sostanza” in quella di “soggetto”, la concezione dell’io come attività è probabilmente il tratto più caratterizzante della filosofia moderna: in che modo si esprime nei vari autori analizzati in questo percorso?
3 Spinoza
4 Leibniz
VEDI P. 798 PER GLI ALTRI FILOSOFI DEL PERCORSO
5 Hume
IL SETTECENTO L’Illuminismo
I
l Settecento è dominato, da una parte, dai conflitti tra le grandi potenze europee (specialmente Francia e Inghilterra) e, dall’altra, dalla crisi dell’ancien régime, che nel 1789 culmina con la Rivoluzione francese. In questo contesto di instabilità socio-politica nasce l’Illuminismo, i cui esponenti si prefiggono di diffondere tra gli uomini la luce della ragione, opponendosi alle “tenebre” del fanatismo religioso, del dispotismo e dell’ingiustizia sociale. Ad avviare il movimento sono i philosophes francesi (come Montesquieu, Voltaire e Diderot, ai quali si aggiunge per certi aspetti il ginevrino Rousseau), che influenzano con le loro idee la politica di alcuni grandi sovrani, tra cui Federico II di Prussia. E proprio la Prussia è la patria di Kant, il quale fa della ragione il tribunale del mondo e di sé stessa, divenendo il più compiuto interprete dei princìpi illuministici.
L’OGGETTO la tavola dei diritti
Jean-JacquesFrançois Le Barbier, Tavola della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789, Parigi, Museo Carnavalet.
«Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti»: così si apre la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, promulgata dai rivoluzionari francesi il 26 agosto 1789 e raffigurata da Jean-Jacques-François Le Barbier (1738-1826). Nel suo dipinto, i diciassette articoli della Dichiarazione sono scolpiti su due “tavole della legge” che ricordano quelle di Mosè. In alto due figure simboliche: a sinistra la Nazione spezza le catene del dispotismo e dell’ingiustizia, mentre a destra la Libertà regge lo scettro del potere e indica i nuovi “comandamenti”, che non sono imposti da Dio, ma dalla suprema autorità della Ragione. L’opera di Le Barbier è quindi una potente “messa in scena” della ragione illuministica, intesa come strumento non contemplativo o teorico, ma politico e riformista, posto al servizio del bene comune.
377
UNA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE LA LUCE DELLA RAGIONE
Tra assolutismo illuminato e rivoluzione
Nel Settecento – e in particolare negli anni compresi tra la Guerra di successione spagnola (1702-1714) e la Rivoluzione francese (1789) – la situazione politica internazionale non è affatto stabile e i conflitti continuano a funestare l’Europa. Ciò nonostante, la crisi economica e demografica che aveva caratterizzato il secolo precedente sembra attenuarsi, soprattutto al termine della Guerra dei sette anni (17561763), quando nei vari Paesi si assiste a una ripresa delle attività produttive e ad un aumento del benessere generale. Protagonista e motore di questo processo è l’Inghilterra, dove prendono avvio sia la rivoluzione agricola (cominciata già nei primi decenni del secolo con la privatizzazione dei terreni) sia la rivoluzione industriale. Se l’innovazione tecnologica fa da sfondo al graduale instaurarsi in tutta Europa di un sistema economico e produttivo di tipo capitalistico, dal punto di vista politico il modello dominante (fatta eccezione per la monarchia parlamentare inglese) è quello dell’assolutismo illuminato. Con questa espressione si è soliti definire il governo di alcuni sovrani che, pur accentrando in sé il potere statale, Il nostro secolo è il non lo esercitano in modo dispotico, ma si impegnano in un tentavero e proprio secolo tivo di rinnovamento delle strutture sociali, economiche e culturadella ragione critica, li dei loro Paesi. Figure emblematiche sono in questo senso la zarialla quale tutto deve na di Russia Caterina II, l’imperatore austriaco Giuseppe II e il re di Prussia Federico II. sottomettersi. Con il tempo, anche la politica “illuminata” e progressista di questi (I. Kant, Critica della ragion pura, grandi sovrani mostra tuttavia i propri limiti: specialmente in Fran“Prefazione” alla prima edizione) cia, la nobiltà continua a essere protetta da un sistema di privilegi che schiacciano lo spirito intraprendente della classe borghese, mentre il popolo (soprattutto nei grandi centri urbani) non riesce a emanciparsi da una condizione di precarietà e miseria. Guerra dei sette anni A Parigi, il 14 luglio 1789 il malcontento generale sfoIl vasto conflitto che tra il 1756 e il 1763 cia nella “presa della Bastiglia”, una fortezza eretta oppose le principali potenze europee: da nel XIV secolo e utilizzata fin dal secolo successivo couna parte l’Inghilterra e la Prussia; dall’altra me prigione di Stato e luogo di tortura. Simbolo del la Francia, l’Austria e i Paesi loro alleati potere e dei suoi abusi, la Bastiglia viene presa d’assal(in primo luogo la Russia). Combattuta to e incendiata: è l’inizio della Rivoluzione francese, anche oltreoceano, nei territori coloniali, che sancisce la fine dell’ancien régime. la guerra confermò il dominio marittimo dell’Inghilterra e, nel continente, l’affermarsi della Prussia, mentre sancì la decadenza della Francia e dell’Austria. La battaglia di Rossbach, 1757 circa, Weissenfels (Germania), Museo del Castello di Neu-Augustusburg.
378
IL SETTECENTO L’ILLumInIsmo
La battaglia dei Lumi contro le tenebre
Oltre che come il secolo della Rivoluzione francese, il Settecento è solitamente ricordato come il secolo dei “Lumi”, ovvero dell’Illuminismo, vasto movimento culturale sorto in Francia e diffusosi ben presto nei maggiori Paesi europei. Come tutti gli “-ismi” – cioè come tutti i termini che fungono da “etichetta”
per una complessa e varia epoca della storia –, anche la parola “Illuminismo” indica un’esperienza culturale articolata ed eterogenea, di cui tuttavia cercheremo di mettere in evidenza alcuni tratti unificanti fondamentali. Innanzitutto può essere utile analizzare la metafora della luce, che è comune ai termini con cui questa corrente di pensiero è designata: Lumi in italiano, Lumières (“luci”) in francese, Aufklärung (“rischiaramento”) in tedesco, Enlightenment (“illuminazione”) in inglese. Tratta dal “Prologo” del Vangelo di Giovanni (dove è usata in riferimento a Gesù, Figlio di Dio fattosi uomo per vincere le tenebre del male), la metafora viene usata dai pensatori illuministi in un contesto laico, per indicare la forza chiarificatrice della ragione che disperde l’oscurità di tutto ciò che è irrazionale. La battaglia religiosa tra il bene e il male si trasforma così nell’impegno contro il pregiudizio, la superstizione, il fanatismo, il dogmatismo, ovvero contro tutto ciò che non è “secondo ragione”, e deve quindi essere rischiarato, sottratto alle tenebre. Non a caso, per designare l’atteggiamento (opposto a quello illuminista) di rifiuto del progresso, dell’istruzione e della cultura si diffonde proprio in questo periodo il termine “oscurantismo”.
L’uomo “maggiorenne” Già da quanto detto sulla metafora della luce emerge il tratto basilare che caratterizza l’Illuminismo: la celebrazione della ragione libera e autonoma, che sa guidare il pensiero e l’azione di ogni individuo indipendentemente da qualunque autorità o tradizione. Particolarmente significative sono a questo proposito le parole del filosofo tedesco Immanuel Kant ( unità 6), il quale in un passo celeberrimo paragona l’uomo “illuminato” all’uomo finalmente divenuto “maggiorenne”, adulto, capace di affidarsi, nelle proprie scelte, esclusivamente alle proprie facoltà razionali, senza il bisogno di alcuna guida esterna:
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L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude!1 Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura gli ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea, rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. Senonché a questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: «Non ragionate!». L’ufficiale dice: «Non ragionate, ma fate esercitazioni militari!». L’impiegato di finanza: «Non ragionate, ma pagate!». L’uomo di Chiesa: «Non ragionate, ma credete!». (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, utet, Torino 1965, pp. 141-143) 1. Letteralmente, “Osa sapere!”, formula tratta da una delle Epistole del poeta latino Orazio (I sec. a.C.).
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Dalla critica del passato all’impegno per il futuro Dal passo kantiano emerge un altro aspetto cruciale: l’Illuminismo non si limita a celebrare la forza della ragione (elemento già presente nelle epoche precedenti), ma chiama in causa anche l’audacia di farne un «pubblico uso», ovvero di impiegarla per il bene comune, in vista di un miglioramento concreto della vita umana. Si tratta dunque di un uso politico (e non soltanto teoretico) della ragione, che richiede il coraggio di opporsi alle intimidazioni di ogni tipo di potere. L’impegno della ragione illuministica risulta pertanto duplice: 1. da una parte implica un severo giudizio critico sul passato, cioè sul cammino già percorso dall’umanità; 2. dall’altra delinea una forte tensione progettuale per migliorare il futuro. In altre parole, la ragione illuministica possiede una valenza critica e normativa: è il “tribunale” di fronte a cui vengono portate teorie filosofiche, istituzioni, dogmi e tradizioni, per misurarne la legittimità, la fondatezza e l’utilità; ma è anche la fonte suprema da cui far derivare le nozioni di “giusto” e “ingiusto”, con le quali indirizzare concretamente la vita umana verso il meglio.
Il nuovo ruolo del filosofo A confermare l’impegno degli illuministi a usare liberamente e pubblicamente la ragione è lo stesso nome con cui sono soliti definirsi: philosophes, “filosofi”. Un termine semplice e antico, a cui però viene attribuito un nuovo significato. Rispetto alla tradizionale figura del sapiente o del metafisico, che ricercava o contemplava la verità in maniera disinteressata, il philosophe pone il proprio sapere al servizio di una missione civile e mondana: “illuminare” gli altri uomini per philosophes migliorare il mondo. Per l’illuminista l’amore per la ragione e per Nome con cui gli illuministi francesi il sapere (la philo-sophía) è passione per l’umanità, e la passione usavano definirsi, attribuendo per l’umanità è vita sociale, solidarietà, sollecitudine per il dolore ad esso un’accezione diversa da umano, alacre impegno per assicurare «la massima felicità per il quella antica: “filosofo” non è più maggior numero di persone», secondo la formula dell’illuminista il sapiente che si limita a ricercare italiano Cesare Beccaria (1738-1794). e a contemplare la verità, ma l’uomo che usa la propria ragione per vivere nel mondo insieme con gli altri uomini, impegnandosi concretamente per migliorare la vita di tutti e aumentarne la felicità.
Un gruppo di philosophes francesi in un’incisione del XVIII secolo (al centro, con la mano alzata, Voltaire).
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Le nuove modalità comunicative
Cosmopolita, viaggiatore, frequentatore delle corti della nobiltà illuminata e dei salotti della ricca borghesia, il philosophe vive pienamente immerso nel mondo e nell’umanità, alla quale si rivolge con modalità comunicative inedite. Per certi aspetti può essere accostato a un giornalista che con i suoi articoli svolga un’opera di educazione e divulgazione, con l’intento di risvegliare le coscienze facendo circolare nuove idee, in modo che l’opinione pubblica possa prendere coscienza delle proprie potenzialità e rivendicare i propri diritti. Destinatario di questa azione educativa è prima di tutto il popolo – o almeno la sua classe colta – ma essa si rivolge anche a quei sovrani che sanno mostrarsi attenti a un messaggio di rinnovamento. In ogni caso la filosofia, per gli illuministi, è impegno civile, pubblica discussione, dibattito politico da portare fuori delle mura delle università, perché possa incidere sul mondo concreto. Per questo il Settecento inventa nuovi luoghi della comunicazione e della cultura: salotti, caffè, club, società letterarie e scientifiche, luoghi piacevoli da frequentare, che favoriscono lo scambio e il confronto.
IL SETTECENTO L’ILLumInIsmo
Un nuovo Umanesimo La celebrazione dell’essere umano quale soggetto dotato di ragione non costituisce una novità assoluta nella storia della cultura. Cifra essenziale dell’età moderna, era stata inaugurata dagli umanisti, che per primi avevano rivendicato l’autonomia dell’indagine razionale rispetto alle diverse forme di auctoritas, oltre ad aver spostato l’attenzione della filosofia dall’orizzonte della trascendenza a quello mondano, incoraggiando l’impegno civile e politico dell’intellettuale. L’Illuminismo, però, porta alle estreme conseguenze il processo di secolarizzazione e laicizzazione avviato dall’Umanesimo, sottoponendo a una critica radicale e corrosiva non soltanto i “secoli bui” del Medioevo (come già fatto dagli umanisti), ma la tradizione religiosa nella sua generalità, compresi i dogmi delle religioni positive e l’apparato di potere delle Chiese cristiane. Il centro dell’interesse degli illuministi è sì l’essere umano, ma visto nella sua finitezza mondana e non nella sua somiglianza o relazione con la divinità. Una sorta di manifesto di questo nuovo umanesimo laico è l’Enciclopedia, il celebre Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri che può essere considerato il simbolo stesso della cultura illuministica ( cap. 3). Ideata da Denis Diderot e Jean-Baptiste d’Alembert, e pubblicata a partire dal 1750, l’Enciclopedia risponde a un grandioso progetto di riorganizzazione del sapere che mette in secondo piano le discipline teologiche e metafisiche in favore di quelle scientifiche e tecniche, e soprattutto attribuisce nuova importanza alle “scienze dell’uomo” (la storia, l’economia, l’antropologia, la sociologia ecc.), facendo dell’essere umano e della sua vita il «centro dell’universo».
Le radici della filosofia dei Lumi A porre le basi della cultura illuministica è ovviamente il razionalismo cartesiano, con la sua esaltazione della ragione quale norma assoluta del vero e del falso, del bene e del male. Occorre tuttavia sottolineare una differenza essenziale rispetto a Cartesio: gli illuministi non vedono la ragione come un deposito infallibile di idee e princìpi innati, garantiti da Dio, ma come un fallibile strumento d’indagine. In questo senso essi accolgono quella auto-limitazione della ragione al campo (mutevole) dell’esperienza che era stata promossa da Locke e dalla tradizione empiristica in generale. Scrive a questo proposito il filosofo tedesco Ernst Cassirer (1874-1945):
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Per i grandi sistemi metafisici del secolo XVII […] la ragione è il territorio delle “verità eterne”, di quelle verità che sono comuni allo spirito umano e a quello divino. […] Il secolo XVIII dà alla ragione un altro significato, più modesto. Essa non è più un complesso di “idee innate” date prima di ogni esperienza, nelle quali si manifesta l’essenza assoluta delle cose. La ragione non è tanto un siffatto possesso, quanto piuttosto una data forma di acquisto. Non è l’erario né il tesoro dello spirito, nel quale si è ben custodita la verità, come una moneta coniata; è invece la forza originaria dello spirito, la quale conduce alla scoperta della verità e alla sua determinazione. (E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad. it. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 31)
Erede del razionalismo e dell’empirismo, l’Illuminismo recupera anche le istanze della rivoluzione scientifica, che soprattutto con Bacone aveva perseguito un sapere vero e nello stesso tempo utile, radicalmente diverso dalle sterili metafisiche razionalistiche. Il baconiano “sapere è potere” viene inoltre esteso dalla natura alla società, nel tentativo di comprendere e dominare a proprio vantaggio non soltanto i meccanismi naturali, ma anche quelli più specificamente umani (economici, politici, morali ecc.).
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Un «immenso laboratorio» di nuovi valori Questa breve presentazione generale non può concludersi senza sottolineare il valore ancora attuale del messaggio illuministico. L’Illuminismo non può essere ridotto all’esperienza culturale di un’epoca del passato, ma rappresenta una conquista perenne dell’umanità. I Lumi hanno segnato l’avvio di un imponente esperimento culturale, di una sorta di «laboratorio dei nuovi valori» della modernità che ha mutato la coscienza dell’Occidente, e che ancora oggi deve essere mantenuto vivo e attivo. Come osserva lo storico Vincenzo Ferrone (nato nel 1954), la celebrazione dell’essere umano e la difesa della sua dignità e dei suoi diritti contro ogni sopruso e abuso costituiscono una sorta di lezione definitiva, che ha segnato un passaggio epocale nella storia umana:
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Con l’Illuminismo prese corpo un progetto di radicale trasformazione dell’Occidente e dell’antico regime, un progetto pari per importanza ed efficacia solo alla rivoluzione cristiana, [che era stata] capace di far tramontare per sempre il mondo pagano degli antichi […]. Nella costruzione di una comune cultura europea dei Lumi, dagli orizzonti universalistici e cosmopolitici unitari, più che le diverse e contrastanti risposte erano le domande di partenza a essere sempre le medesime. Che cos’è l’uomo? Quali sono i suoi limiti e le sue potenzialità? Qual è il suo posto nella natura? Com’è possibile emancipare l’uomo attraverso l’uomo? […] È possibile migliorare l’esistenza umana attraverso le riforme, l’educazione, la scienza, l’arte, l’uso dell’opinione pubblica, con la costruzione di una nuova morale universale fondata sui diritti, e dunque esercitando lo spirito critico della ragione in ogni campo […]? Ne nacque […] una sorta di immenso laboratorio dei nuovi valori, dei nuovi linguaggi, delle rappresentazioni e delle pratiche culturali proprie di una moderna società civile di liberi ed eguali. (V. Ferrone, Il mondo dell’Illuminismo. Storia di una rivoluzione culturale, Einaudi, Torino 2019, pp. 4-6)
Le domande del «laboratorio dei nuovi valori» inaugurato dai Lumi sono quanto mai attuali, rendendo evidente l’“universalità” della loro lezione. In questo senso si può affermare che nessun essere umano, in quanto razionale, può non dirsi illuminista.
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA REGNO DI GRAN BRETAGNA Londra
Danzica
Königsberg KANT
Berlino REGNO DI PRUSSIA Francoforte
Parigi
Voltaire D’Alembert REGNO DI FRANCIA Bordeaux
Montesquieu
Ginevra ROUSSEAU
Grenoble
Condillac
REGNO DEL PORTOGALLO Lisbona
Lione
Langres
Diderot
Madrid REGNO DI SPAGNA
Roma
Vico
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IL SETTECENTO L’ILLumInIsmo
Napoli REGNO DI NAPOLI
UNO SGUARDO ALLA SEZIONE IL SETTECENTO – L’ILLumINISmO UNITÀ 5
VICO, GLI ILLUMINISTI E ROUSSEAU L’Illuminismo – grande protagonista del Settecento – è per certi aspetti anticipato dalla riflessione di Vico (attivo a Napoli tra fine Seicento e inizio Settecento), nella cui opera emergono motivi che diverranno centrali nel pensiero successivo, a cominciare da quello della storia e del progresso. Tra i numerosi esponenti francesi del movimento dei Lumi spiccano Voltaire e Montesquieu, celebri per le loro riflessioni sul potere.
libero e critico della ragione illuministica. Nel suo complesso e rigoroso sistema, la ragione diventa infatti giudice e insieme imputato, in un processo condotto non soltanto sul sapere e sulla morale tradizionali, ma anche sui fondamenti di ogni esperienza e conoscenza umane.
Spirito inquieto e pensatore atipico per il suo tempo, il ginevrino Rousseau fa parte per un certo periodo della cerchia dei philosophes francesi, dai quali tuttavia prende le distanze. Le sue riflessioni sull’educazione, sulla famiglia e sullo Stato sono pietre miliari nella storia del pensiero occidentale.
UNITÀ 6 KANT
Già partecipe, in alcuni tratti del suo pensiero, dell’atmosfera romantica, il tedesco Kant porta alle estreme conseguenze l’atteggiamento
Vico
VIDEO Una rivoluzione del pensiero
(1668-1744) Montesquieu
(1689-1755)
Voltaire
(1694-1778) La Mettrie
(1709-1751)
ROUSSEAU
(1712-1778)
Diderot
(1713-1784)
Condillac
(1715-1780)
Helvétius
(1715-1771)
D’Alembert
(1717-1783)
D’Holbach
(1723-1789)
KANT
1650
1700
(1724-1804)
1750
1800
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UNITÀ
5
VICO, GLI ILLUMINISTI E ROUSSEAU
L’unità si apre con la presentazione del pensiero di Vico, per passare poi ai temi e alle figure principali dell’Illuminismo, di cui la riflessione vichiana rappresenta per certi aspetti un’anticipazione.
CAPITOLO 1 Vico
Le opere di Giambattista Vico introducono argomenti e questioni che saranno centrali nella filosofia del Settecento e dell’Ottocento, a cominciare dai motivi della storia e del progresso.
CAPITOLO 2 I caratteri generali dell’Illuminismo
Grande protagonista del Settecento è l’Illuminismo, movimento di idee caratterizzato soprattutto dall’esaltazione della ragione e della libertà, dal rifiuto del dogmatismo e dell’autoritarismo, dalla denuncia delle istituzioni oppressive del passato e del presente.
CAPITOLO 3 L’Illuminismo francese
Il personaggio forse più rappresentativo dello spirito libero, disincantato e tollerante dell’Illuminismo francese è Voltaire, apprezzato in tutte le corti d’Europa per la sua teoria sul dispotismo illuminato. Il suo pensiero politico si contrappone a quello di Montesquieu, che delinea un governo di tipo moderato, la cui maggiore novità consiste nella divisione dei poteri.
CAPITOLO 4 Rousseau IL RACCONTO DI UNA VITA
Inizialmente vicino agli illuministi francesi, il ginevrino Jean-Jacques Rousseau è uno spirito contrastato e inquieto, sensibile ai temi dell’educazione, della famiglia e della convivenza nella società civile.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Mediante una ricerca in Internet, consultando siti istituzionali e affidabili, ricostruisci le vicende che hanno portato alla nascita dell’Enciclopedia, il massimo strumento di diffusione delle dottrine illuministiche. Concentrati soprattutto sul contributo dato da personaggi come Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, due dei maggiori rappresentanti dell’Illuminismo francese.
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IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante suddividetevi in gruppi di 4 o 5 studenti, quindi verificate quanto avete appreso a casa confrontandovi tra voi e facendo emergere dubbi o perplessità. Elaborate quindi insieme una presentazione multimediale (max 5 slides), in cui sintetizzate le informazioni raccolte, facendo emergere i presupposti culturali e gli obiettivi dell’Enciclopedia.
CAPITOLO 1 VICO
1. La vita e le opere Con Vico la filosofia moderna affronta per la prima volta in maniera sistematica e originale il tema del mondo storico nelle sue strutture e nei suoi significati. Giambattista Vico nasce il 23 giugno 1668 a Napoli, dove studia filosofia e diritto. Una Un’esistenza volta laureato, per alcuni anni (1689-1695) lavora come precettore dei figli di Domenico poco fortunata Rocca, marchese di Vatolla, nel Cilento, dove, utilizzando la ricca biblioteca del castello, si forma la maggior parte della sua cultura. Ritornato a Napoli, nel 1699 ottiene la cattedra di retorica nella sede universitaria della città. Al periodo dell’insegnamento risalgono le cinque Orazioni inaugurali, la più importante delle quali è quella intitolata Sul metodo degli studi del nostro tempo, del 1708. Intorno al 1723 Vico comincia ad aspirare a una cattedra di giurisprudenza, più consona ai suoi studi rispetto a quella di retorica e meglio retribuita. Non la otterrà mai e la sua esistenza rimarrà povera e oscura, vissuta in un ambiente familiare poco adatto al raccoglimento e allo studio, e resa precaria dalle ristrettezze finanziarie. Finché il filosofo resterà in vita, si riveleranno scarsi e avari anche i riconoscimenti del suo lavoro da parte degli intellettuali, forse a causa dell’originalità e della complessità del suo pensiero rispetto alla cultura italiana del tempo, e dei riferimenti eruditi di cui la sua opera abbonda. Vico muore a Napoli il 23 gennaio 1744, e soltanto in tempi relativamente recenti gli è stato riconosciuto il posto che gli spettava nella storia del pensiero. Nel 1710 Vico si accinge a dare espressione sistematica al proprio pensiero in un saggio in- Il De antiquissima titolato Dell’antichissima sapienza italica da trarsi dalle origini della lingua latina Italorum sapientia (De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda). Il piano dell’opera prevede tre libri, rispettivamente dedicati alla metafisica, alla fisica e alla morale, ma il filosofo riesce effettivamente a comporre soltanto il primo, mentre gli altri due non saranno mai scritti. L’intento di Vico è quello di risalire, attraverso la storia di alcune parole latine, alle dottrine dei primi popoli italici (gli Ioni e gli Etruschi), che a suo avviso erano giunti ad alcune importanti verità. Egli presenta perciò la propria metafisica come la metafisica di quelle antichissime popolazioni italiche. Nel 1725 Vico pubblica la sua opera fondamentale, Princìpi di una scienza nuova d’in- La «scienza torno alla comune natura delle nazioni, a cui continuerà a lavorare incessantemente per nuova» il resto della vita, apportandovi ripetute correzioni e aggiunte. Nel 1730 la riscrive da capo, e da questa seconda edizione non differisce sostanzialmente la terza, che vedrà la luce nel 1744, alcuni mesi dopo la morte del filosofo.
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2. La concezione del sapere Alla base del pensiero di Vico si trova una concezione del sapere che prende irrimediabilmente le distanze dalla prospettiva razionalistica cartesiana, aprendo la via per una riflessione incentrata sulla realtà storica. La distinzione Nel De antiquissima Italorum sapientia si trova esposta una prospettiva gnoseologica intetra conoscenza ramente basata sull’antitesi tra conoscenza divina e conoscenza umana: divina e umana
a Dio appartiene l’intendere (intellígere), cioè una conoscenza perfetta risultante dal pieno intendimento di tutti gli elementi che costituiscono l’oggetto; all’essere umano appartiene invece il pensare (cogitáre), che Vico definisce come «l’andar raccogliendo» fuori di sé alcuni degli elementi costitutivi dell’oggetto. La ragione, che è l’organo dell’intendere, appartiene quindi in modo autentico e completo soltanto a Dio, mentre gli esseri umani ne partecipano in misura limitata.
La coincidenza Questa distinzione tra conoscenza divina e umana deriva da un principio che Vico assume di «vero» come fondamentale, ossia l’idea che si possa conoscere con verità e pienezza soltanto ciò e «fatto»
che si è in grado di fare. Il filosofo conferma tale principio considerando che presso gli antichi popoli latini le parole «vero» (verum) e «fatto» ( factum) erano sostanzialmente usate come sinonimi, e lo sintetizza nella formula « verum ipsum factum », cioè “il vero è il fatto stesso”. glossario p. 393 In effetti, se si “fa” o si “costruisce” un certo oggetto, se ne possono conoscere gli elementi costitutivi e la vera natura. Il che significa che il mondo fisico, nel quale viviamo, può essere autenticamente conosciuto soltanto da Dio, che ne è il creatore, mentre l’essere umano può conoscere con verità soltanto il mondo della matematica, che è un mondo di astrazioni da lui stesso create.
I limiti della Il principio secondo cui il vero e il fatto si identificano (o «si convertono l’uno con l’altro», conoscenza secondo un’altra celebre formula di Vico: «verum et factum convertuntur») restringe la conoumana
scenza umana in limiti assai angusti. Da una parte gli esseri umani, come si è detto, possono conoscere davvero soltanto il mondo della matematica, che è una loro creazione, mentre non possono autenticamente conoscere il mondo naturale, il quale, essendo creato da Dio, può essere oggetto di un sapere vero e completo soltanto per parte divina. La conoscenza umana della natura è invece una sorta di costruzione di oggetti fittizi, astratti, di immagini che il nostro intelletto si forma «raccogliendo fuori di sé» i presunti elementi che costituiscono le cose, ma senza poter in alcun modo sapere se tale costruzione corrisponde effettivamente a verità. Dall’altra parte, gli esseri umani non possono veramente conoscere neppure il proprio essere, la propria realtà metafisica. Il limite o l’errore di Cartesio, secondo Vico, risiede proprio nell’avere pensato che l’uomo possa conoscere la propria essenza. Il cogito è la coscienza del proprio essere, non la sua conoscenza o scienza. La coscienza – argomenta Vico – può essere propria anche dell’ignorante, mentre la scienza è la conoscenza vera fondata sulle cause. E l’uomo non conosce la causa del proprio essere, dal momento che non è egli stesso questa causa: egli non si crea da sé. Perciò Cartesio avrebbe dovuto dire non già «penso, dunque sono», bensì «penso, dunque esisto». L’esistenza è il modo d’essere proprio della creatura, e coincide con il suo “esserci”, o con il suo “essere sorta”, ovvero con uno “stare sopra” una sostanza che la sostiene e ne racchiude l’essenza, ma che la creatura non è in grado di conoscere. Tra la conoscenza umana della propria essenza e la conoscenza che Dio ha di essa c’è dunque lo stesso scarto che c’è tra l’esistenza creaturale e l’essere divino.
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UNITÀ 5 VIco, gLI ILLUmInIstI e RoUsseaU CapITolo 1 Vico
Di questo discorso sui limiti della ragione e della conoscenza degli esseri umani fanno La rivalutazione parte integrante sia la polemica di Vico contro la boria dei dotti, sia la valorizzazione del senso comune del senso comune, inteso come l’insieme delle certezze che necessariamente precedono ogni riflessione critica, costituendone in qualche modo la base:
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Il senso comune è un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano. (Scienza nuova, II, XII)
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega il significato delle formule vichiane «verum ipsum factum» e «verum et factum convertuntur». 2. Indica quali sono per Vico gli oggetti propri della conoscenza umana e chiarisci i motivi per i quali il filosofo napoletano critica la concezione cartesiana della conoscenza. 3. RIFLESSIONE CRITICA Condividi l’idea vichiana che non si possa dire di conoscere veramente ciò che non si sa fare? Argomenta la tua risposta e sostienila con esempi concreti.
3. La storia come oggetto di una «scienza nuova» Ricondotta da Vico entro i propri limiti, e rivelatasi impotente sia di fronte al mondo della natura sia di fronte all’essenza dell’essere umano, la nostra conoscenza si apre tuttavia al mondo delle nostre creazioni. L’uomo può conoscere con verità e pienezza ciò che egli stesso crea, e dunque non soltanto la matematica, ma anche il mondo della storia. Nel mondo della storia l’essere umano non è sostanza fisica e metafisica, ma prodotto e creazione della sua stessa azione: il mondo storico è il mondo umano per eccellenza, quello che certamente è stato fatto dagli uomini e di cui pertanto si possono conoscere in modo certo i princìpi. Considerata sotto questa luce, la storia non è un succedersi slegato di avvenimenti: deve avere in sé un ordine fondamentale, al quale lo svolgersi degli avvenimenti tende come al suo significato finale. Il tentativo che l’uomo ha sempre vanamente compiuto nei riguardi del mondo naturale, cioè quello di rintracciarne l’ordine e le leggi, può essere effettuato con successo soltanto nel mondo storico, giacché soltanto questo è davvero opera umana. Vico vuol essere dunque il “Bacone” del mondo della storia, e compiere in questo ambito l’opera che Bacone aveva intrapreso in ambito naturale. La scienza nuova di Vico è «nuova» proprio nel senso che per la prima volta è diretta a individuare l’ordine e le leggi necessarie che regolano la storia. glossario p. 393
La ricerca dell’ordine e delle leggi della storia
Stabilendo gli assiomi di tale «scienza nuova» – assiomi che egli definisce «degnità», in I fondamenti quanto verità “degne” (dal greco áxios, “degno”, “che vale”) di essere accettate da tutti perché della «scienza nuova» autoevidenti – Vico afferma che essa deve fondarsi sia sulla filologia, sia sulla filosofia. La prima, intesa come studio non soltanto della lingua, ma anche di ogni altra manifestazione tramandata della civiltà umana, è chiamata da Vico «coscienza del certo». La seconda, intesa come studio delle cause e delle leggi che spiegano i fatti, è detta «scienza del vero». Prospettate in questo modo, filologia e filosofia devono procedere insieme e completarsi a vicenda, in modo tale che si possa giungere a inverare il certo e accertare il vero.
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La «storia ideale eterna» L’origine Il punto di partenza della meditazione storica di Vico è la situazione originaria dell’esdella storia sere umano, ovvero una condizione di fragilità e impotenza di fronte all’incontrollabile
forza della natura: «L’uomo, caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, desiderava una cosa superiore che lo salvasse». Di superiore all’essere umano e alla natura non c’è che Dio: perciò l’uomo cerca di uscire dal proprio stato di precarietà con il pensiero religioso, ossia ipotizzando l’esistenza di un ordine divino verso il quale è possibile sollevarsi abbandonando il disordine degli impulsi primitivi. Ad aiutare l’essere umano in questo «sforzo» (conatus) di elevazione spirituale è la filosofia, che gli mostra come egli «deve essere»: la filosofia, e in modo particolare Platone con la sua Repubblica, indica all’umanità gli strumenti con cui abbandonare lo «stato bestiale» e costituire comunità civili ordinate e giuste.
Il fine ultimo Come ha un punto originario, così l’esistenza storica dell’umanità ha un termine finale, tanto che della storia a Vico la ricerca storica appare come una «teologia civile ragionata della provvidenza divina», cioè
come lo studio razionale e scientifico della manifestazione di un ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana via via che l’uomo si solleva dalla sua miseria primitiva. La storia, in effetti, per Vico si muove o si sviluppa nel tempo attraverso fasi diverse, ma tende a un ordine che è universale ed eterno. Gli uomini sono spinti dai loro impulsi primordiali a ricercare il proprio utile particolare; ma anche senza il loro esplicito proponimento, o magari contro di esso, la «gran città del genere umano» si va gradualmente manifestando come la meta finale della loro storia. La «gran città del genere umano» è la comunità umana nel suo ordine ideale: è ciò che la vita associata dell’uomo deve essere nella sua realizzazione finale.
L’ordine ideale L’ordine provvidenziale che rende significante e intelligibile la storia effettiva è ciò che Vico della storia chiama storia ideale eterna , precisando che «sopra» di essa «corron in tempo le storie di
tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini» (Scienza nuova, I, IV). In altri termini, la storia ideale eterna è la struttura che sorregge il corso temporale delle nazioni, e che perciò trasforma la semplice successione cronologica dei momenti storici in un ordine progressivo che tende a una meta ideale. La storia ideale eterna è dunque il modello o il paradigma (l’idea in senso platonico) della storia reale, e quindi il criterio o il canone per giudicarla. Detto con altre parole ancora, la storia ideale eterna si configura come il “dover essere” della storia nel tempo. glossario p. 393 Questa struttura “sopra” la quale «corre» il corso temporale degli eventi non corrisponde, tuttavia, a una necessità di fatto: la storia nel tempo non si identifica mai con la storia eterna. Quest’ultima è soltanto “ideale”, e la sua necessità è meramente normativa, non fattuale. In conclusione, la storia ideale eterna è un dover essere che non annulla né la problematicità della storia reale, né la libertà umana (come vedremo meglio più avanti).
Le tre età della storia Vico individua nella storia ideale la successione di tre età: quella degli dèi, quella degli eroi e quella degli uomini, secondo uno schema che, in base a una testimonianza di Erodoto, egli ritiene sia stato inventato dagli Egiziani, ma che in realtà gli scrittori greci e latini avevano desunto dal Crizia di Platone. Tuttavia, mentre per gli antichi la successione delle età aveva un significato negativo o di regresso, in Vico assume un significato progressivo. ( T1 p. 396) Le tre facoltà Vico, inoltre, dà al proprio schema un fondamento antropologico. Infatti, se la causa della mente della storia è l’uomo, cioè la mente umana, le leggi che regolano lo sviluppo della storia umana
saranno le stesse che regolano il funzionamento della mente umana. E poiché
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UNITÀ 5 VIco, gLI ILLUmInIstI e RoUsseaU CapITolo 1 Vico
le «guise» della mente , ovvero i suoi gradi, o i suoi modi di operare, sono il senso, la fantasia e la ragione («gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»), le età della storia corrisponderanno appunto a queste tre facoltà. glossario p. 393 La prima età è quella degli dèi, in cui gli uomini – che all’inizio erano «stupidi, insensati L’età degli dèi ed orribili bestioni», senza alcuna capacità di riflessione – avvertono nelle forze naturali che li minacciano l’azione di divinità terribili e punitrici, per timore delle quali cominciano a frenare i loro impulsi ferini, creando le famiglie e i primi ordini civili. Si costituiscono così i governi teocratici (Vico li chiama «repubbliche monastiche»), in cui il potere dei sovrani è considerato divino. All’età degli dèi segue l’età degli eroi, caratterizzata da governi di tipo aristocratico L’età degli eroi («repubbliche aristocratiche») in cui la classe nobiliare domina sulle masse popolari, alle quali si sente eticamente superiore. Gli aristocratici fanno derivare da Dio la propria nobiltà e coltivano le virtù eroiche della pietà, della prudenza, della temperanza, della fortezza e della magnanimità. Infine, nell’età degli uomini le classi più umili rivendicano i loro diritti nei confronti dei L’età degli nobili e pretendono di entrare a far parte attiva degli ordini civili. Nascono così le «repub- uomini bliche popolari», nelle quali la «dispiegata ragione» svela l’uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani. A questa età risale la nascita della filosofia, intesa come metafisica, cioè come costruzione teorica non più basata sui sensi o sulla fantasia, ma prodotta consapevolmente dalla ragione, e orientata principalmente a conciliare gli interessi privati con un criterio di giustizia comune (come nel caso della filosofia platonica). LA SCIENZA NUOVA (LA SCIENZA STORICA) consta di
filologia (coscienza del certo)
filosofia (scienza del vero)
che studia
che studia
i fatti della storia (= la lingua dei popoli e ogni manifestazione storica tramandata)
l’uomo qual è
le cause e le leggi dei fatti
l’uomo quale deve essere cioè
la storia ideale eterna (l’ordine normativo degli eventi) che comprende
l’età degli dèi
l’età degli eroi
l’età degli uomini
389
La concezione Sulla base di questa tripartizione, Vico distingue tre specie di nature umane, di costumi, vichiana del di leggi, di Stati, di autorità, di giudizi. In particolare, egli identifica «tre spezie» di diritto diritto naturale
naturale, il quale consiste in un insieme di norme dettate spontaneamente dal senso comune, che tengono a freno gli appetiti naturali e rendono possibile la vita sociale. Alla prima età (degli dèi) corrisponde il diritto divino o religioso, in cui si ritiene che siano gli stessi dèi a governare, per bocca dei sacerdoti o dei sovrani; alla seconda età (degli eroi) corrisponde il diritto «delle forze», in cui, sostanzialmente, la forza prende il sopravvento sulla religione; alla terza età (degli uomini) corrisponde il diritto umano, o diritto dei filosofi, interamente fondato sulla ragione. Il diritto naturale di cui parla Vico non coincide dunque con quello dei giusnaturalisti: non è un sistema immutabile di norme eterne e avulse dalla storia in quanto fondate sulla ragione; esso è piuttosto una progressiva conquista storica, una serie di traguardi che l’essere umano decaduto con il peccato originale raggiunge con fatica.
Tra necessità storica e libertà individuale Il rifiuto del In virtù del «primo principio incontrastato» della «scienza nuova» vichiana, gli esseri caso e del fato umani possono conoscere il «mondo delle nazioni» poiché si tratta di una loro libera creacome criteri storici zione. D’altro canto, questo stesso mondo non si può intendere se non in rapporto all’ordi-
ne provvidenziale che necessariamente lo governa, ovvero alla «storia ideale eterna». In ogni caso, il mondo storico può essere oggetto di scienza. Quei filosofi che invece ritengono impossibile una comprensione scientifica del mondo della storia sono detti da Vico «monastici», o «solitari». Tali sono per lui Epicuro, Hobbes e Machiavelli, per i quali le azioni umane non seguono alcun ordine, risultando pertanto “casuali”; e tali sono gli stoici e Spinoza, che riconducono le vicende umane a un ordine razionale o ad un «fato» che supera la libertà umana, necessitandola. Sia il caso sia il fato rendono inconcepibili la libertà dell’uomo e l’ordine provvidenziale della storia: il caso esclude l’ordine, il fato la libertà. La «storia ideale eterna» garantisce invece, secondo Vico, l’una e l’altra cosa.
I fini particolari Il punto di vista della storia ideale eterna, tuttavia, è un punto di vista ben più “ampio”, come mezzi di o più “alto”, di quello dei singoli uomini e del singolo momento in cui essi si trovano a vivefini universali
re, tanto da risultare spesso difficile da comprendere. La storia è sempre razionale, nel senso che si serve dei fini particolari perseguiti di volta in volta dagli individui come di mezzi per raggiungere fini superiori; e ciò accade anche quando i fini particolari appaiono negativi o volgari. Così, ad esempio, dall’impulso sessuale sono nati i matrimoni e le famiglie; dall’ambizione dei capi sono nate le città; dalle imposizioni dei nobili sulle classi popolari sono nate le leggi. I fini ultimi della razionalità storica sono la conservazione della società umana e la giustizia, e a tali obiettivi ultimi sono sempre rivolti le azioni e gli impulsi umani, anche quelli apparentemente più rovinosi.
Il principio Il principio secondo cui i fini particolari perseguiti consapevolmente dagli uomini sono dell’eterogenesi sempre soltanto dei mezzi per il raggiungimento di fini universali sarà indicato nell’Otdei fini
tocento con l’espressione eterogenesi dei fini . La formula si deve allo psicologo e filosofo tedesco Wilhelm Wundt (1831-1920), che definirà in questo modo la convinzione che il corso degli eventi storici realizzi obiettivi diversi o “altri” (in greco éteroi) da quelli a cui i singoli individui o le singole comunità si volgono consapevolmente. glossario p. 394
La possibilità che Come abbiamo anticipato, l’esistenza di un tale ordine provvidenziale non implica tuttavia, le nazioni non secondo Vico, la messa in forse della libertà umana. La conoscenza della storia ideale eterna, seguano l’ordine ideale eterno infatti, pur servendo a illuminare e a dirigere la coscienza degli esseri umani, non la determina
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in modo necessario. Tant’è vero che le storie reali delle singole nazioni possono non seguire il corso della storia ideale eterna. Vico fa l’esempio di nazioni che si fermarono all’età barbara e di altre che si fermarono all’età eroica, senza raggiungere lo sviluppo completo. Egli ritiene che anche nell’Europa del suo tempo (che pure, a suo avviso, ha ormai compiuto il percorso evolutivo per intero) esistano nazioni barbare o scarsamente civili: nazioni, cioè, in cui l’umanità si è fermata agli stadi primitivi. In compenso, la storia di altri popoli ha raggiunto l’ultimo stadio dello sviluppo di colpo, saltando le tappe intermedie, come è accaduto all’America dopo che è stata “scoperta” dagli europei. Soltanto i Romani «camminarono con giusti passi, facendosi regolare dalla provvidenza», e attraversarono tutti e tre gli stadi (età degli dèi, degli eroi e degli uomini) secondo il loro ordine naturale. Al di là di questa possibile alternanza tra stadi evolutivi più o meno avanzati, nelle vicende I «corsi e ricorsi» storiche si individua perlopiù un ciclico ripresentarsi di corsi e ricorsi , ossia il periodico della storia ritorno della storia sui suoi passi: un ritorno che, pur non essendo inesorabile, incombe sempre sulle nazioni civili come una possibilità di regresso. glossario p. 394 Questo avviene quando le filosofie scivolano nello scetticismo, portando le società (e soprattutto le «repubbliche popolari») alla corruzione e alla guerra civile. Per uscire da una tale situazione di disordine sono possibili tre vie: 1. la prima consiste nell’instaurazione di un monarca, e quindi nella trasformazione della «repubblica popolare» in monarchia assoluta; 2. la seconda consiste nell’assoggettamento della nazione che vive nel disordine da parte di nazioni più ordinate, e quindi più forti; 3. la terza via, a cui si approda quando le altre due sono di difficile o impossibile realizzazione, consiste nel rinselvatichirsi degli uomini, cioè nel loro ritorno alla durezza della vita primitiva, che li disperde e li falcidia finché l’esiguo numero dei superstiti e l’abbondanza dei beni a loro disposizione non rendono nuovamente possibile la nascita di un ordine civile fondato sulla religione e sulla giustizia. La storia ricomincia allora il suo ciclo.
)
Per l’esposizione orale
1. 2. 3. 4.
In che cosa consiste la «scienza nuova» proposta da Vico? Illustra brevemente le tre età della storia ideale descritte da Vico. Spiega l’origine e il significato dell’espressione “eterogenesi dei fini”. Che cosa sono i «corsi» e i «ricorsi» di cui parla Vico?
SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
La concezione vichiana della storia risente delle vicende vissute dall’Europa tra Seicento e Settecento, e dalle loro conseguenze sul Regno di Napoli. Ricostruisci le tappe salienti della storia del Regno di Napoli negli anni in cui vive Vico, e prova a mettere in relazione i temi o i princìpi fondamentali della sua dottrina con gli eventi storici di cui fu protagonista.
4. La concezione della poesia Nella Scienza nuova Vico dedica grande spazio allo studio della sapienza poetica, che egli La rivalutazione considera come il prodotto della sensibilità, ma soprattutto della fantasia degli uomini pri- della fantasia mitivi. In ambito filosofico il termine “fantasia” (dal greco phantázo, “faccio apparire”) era stato generalmente utilizzato come sinonimo di “immaginazione” (dal latino imago, “immagine”), per indicare la facoltà che produce, conserva e riproduce immagini, anche indipendentemente dall’effettiva esistenza degli oggetti a cui esse si riferiscono.
391
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è il bello? p. 806
Nell’età moderna, quando l’affermarsi dello studio matematico della natura accentua l’opposizione tra il sapere scientifico e le altre forme di conoscenza, l’immaginazione viene esclusa da ogni rapporto con la conoscenza razionale e rafforza il proprio legame con l’arte, e in particolare con la poesia. In Vico questo legame acquista tuttavia una valenza gnoseologica inedita, poiché egli vede la fantasia come la facoltà che ha presieduto all’elaborazione della più antica comprensione del mondo, la «sapienza poetica», espressione immediata e spontanea della verità.
Il carattere La poesia, secondo Vico, costituisce infatti una forma pre-logica o a-logica di conoscenza. autonomo Essa non è «sapienza riposta», cioè l’espressione “immaginifica” di una verità già conoe “divino” della poesia sciuta razionalmente, ma un modo autonomo e originario di intendere e di comunicare la
verità. Vico riconosce così il valore autonomo della poesia, nonché la sua indipendenza – almeno per quanto concerne la forma – da ogni attività intellettuale o raziocinante: una tesi che si rivelerà straordinariamente feconda nello sviluppo dell’estetica moderna. Tuttavia, se la sua forma è fantastica, e quindi arbitraria (perché soggetta a un’ispirazione che non si attiene necessariamente alla realtà), non è né fantastico né arbitrario il suo contenuto, che è lo stesso dell’attività razionale, vale a dire l’ordine trascendente, provvidenziale o divino, a cui l’umanità deve ispirarsi nel corso della sua storia. Affermando l’indipendenza della sapienza poetica dalla riflessione razionale, Vico la fa dunque essenzialmente coincidere con una sorta di poesia divina, in cui il trascendente, visto attraverso la fantasia, prende corpo in tutte le cose.
La forza e Se la poesia è creazione (secondo il significato della parola greca póiesis, che significa apla naturalità punto “creazione”), essa è creazione sublime, perché non produce cose reali (come l’attidel linguaggio
vità creatrice di Dio), ma immagini «corpulente», con le quali perturba gli animi causando emozioni violente. Elemento primo e basilare della creazione poetica è il linguaggio, che secondo Vico non ha nulla di arbitrario, perché è nato in modo naturale dall’esigenza degli uomini di comunicare e intendersi tra loro: un’esigenza che prima è stata soddisfatta usando «atti muti», cioè gesti, poi oggetti simbolici, poi suoni inarticolati, e infine parole.
La poesia La più grande poesia di tutti i tempi, per Vico, è quella di Omero, nella quale il filosofo veomerica e de l’opera anonima e collettiva del popolo greco nell’età eroica, quando tutti gli uomini gli «universali fantastici» erano poeti per la robustezza della loro fantasia ed esprimevano nei miti e nei racconti fa-
volosi le verità che erano incapaci di chiarire con la riflessione filosofica. È questa l’epoca dei cosiddetti universali fantastici , cioè di quelle immagini poetiche (fantastiche) rappresentative di caratteri tipici (universali) del mondo o della vita (ad esempio, Achille è l’universale fantastico del coraggio, Ulisse dell’astuzia ecc.). glossario p. 394
Dalle immagini Via via che la riflessione prevale negli uomini, la poesia si spegne, poiché la fantasia che le «corpulente» dà origine è tanto più robusta quanto più debole è il raziocinio. Man mano che diventano caai concetti
ESERCIZI
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paci di formulare concetti universali e astratti, gli uomini si allontanano da ciò che è sensibile e «corpulento». Dante, ad esempio, che ha creato la più grande poesia della nazione italiana, appartiene anch’egli a un’epoca di barbarie, e precisamente di «barbarie ritornata» quale è stato il Medioevo. Il passaggio dalla fantasia alla ragione caratterizza, secondo Vico, sia la storia dell’umanità sia lo sviluppo del singolo individuo, in cui l’età adulta corrisponde a una maggiore e migliore capacità di usare la facoltà razionale. Ma, come abbiamo detto, la sapienza poetica non è qualcosa che vada sminuita o ignorata, perché è pur sempre un modo per esprimere, sia pure oscuramente e fantasticamente, quell’ordine provvidenziale, o quella storia ideale eterna, che sottostà a ogni attività umana, e che la riflessione filosofica fa risplendere come verità razionale. UNITÀ 5 VIco, gLI ILLUmInIstI e RoUsseaU CapITolo 1 Vico
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 1 VICO
La concezione della conoscenza Il punto di partenza della riflessione di Giambattista Vico (1668-1744) è l’idea (già di Hobbes) che si possa avere una conoscenza piena e verace soltanto di ciò che si è fatto o si è in grado di fare, in quanto la comprensione di una cosa coincide con la conoscenza delle sue cause generatrici. Vico esprime questo principio con la formula latina
• verum ipsum factum
letteralmente, “il vero è il fatto stesso”. Osservando che presso gli antichi popoli latini le parole verum e factum erano spesso usate come sinonimi, Vico afferma talvolta che «verum et factum convertuntur», cioè “il vero e il fatto si convertono l’uno nell’altro”.
Da questa identificazione del conoscere con il fare Vico ricava l’idea che soltanto Dio conosca davvero l’intera realtà, e in particolare il mondo naturale, la cui conoscenza piena e certa è invece preclusa agli esseri umani. L’uomo non può conoscere a fondo neppure il proprio essere, o la propria essenza, dal momento che non si crea da sé, mentre conosce perfettamente le verità astratte della matematica, poiché gli oggetti e i princìpi di tale disciplina sono una sua creazione.
La concezione della storia Oltre alla matematica, un altro ambito di cui l’essere umano può avere una comprensione piena e scientifica è quello della storia, poiché anche il mondo storico è una sua creazione. In quanto disciplina basata su princìpi specifici certi ed evidenti, la storia è detta da Vico
• scienza nuova
la scienza che ha per oggetto specifico il mondo della storia, ovvero, come Vico lo denomina spesso, il «mondo delle nazioni», o il «mondo civile», inteso come prodotto specificamente umano.
La scienza nuova proposta da Vico si configura come un’analisi del mondo storico volta a rintracciare l’ordine e le leggi che lo regolano. I due “pilastri” sui quali deve fondarsi questa disciplina sono: la filologia, che studia i «fatti» dei popoli, ossia le diverse manifestazioni della civiltà umana (a partire dal linguaggio), e che descrive l’uomo qual è, configurandosi così come «coscienza del certo»; la filosofia, che indaga le cause e le leggi dei fatti, e che descrive l’uomo quale deve essere, presentandosi in tal modo come «scienza del vero». L’ordine che Vico individua nella storia è un ordine universale ed eterno, inteso come un “dover essere” a cui gli avvenimenti del mondo tendono come al loro significato o traguardo finale. Vico afferma quindi che la storia reale si fonda su una
• storia ideale eterna
l’ordine provvidenziale che rende significante e intelligibile la storia reale, ovvero la struttura che sorregge la successione cronologica degli avvenimenti, inserendoli in un ordine ideale progressivo. La storia ideale eterna è insomma sia il modello (l’idea in senso platonico) della storia reale, sia il criterio per giudicarla.
La storia ideale si articola in tre età, a cui corrispondono specifiche facoltà umane, le cosiddette
• «guise» della mente
letteralmente, “modi della mente”; si tratta delle modalità o delle facoltà con cui opera la nostra mente: il senso, la fantasia e la ragione.
A tali facoltà, secondo Vico, corrispondono tre fasi di sviluppo della storia umana: nell’età degli dèi gli uomini sono «orribili bestioni» dominati dalla facoltà sensibile e dalla credenza in divinità corrispondenti alle forze naturali; dato il prevalere del diritto divino o religioso, la forma di governo tipica di questa età è la teocrazia («repubbliche monastiche»); nell’età degli eroi compaiono i regimi aristocratici («repubbliche aristocratiche»), fondati sul diritto del più forte; il modo di operare della mente è caratterizzato dalla fantasia; nell’età degli uomini, infine, si impongono le «repubbliche popolari» di orientamento democratico, e si sviluppano la ragione, la filosofia e il diritto umano razionale.
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L’ordine provvidenziale che secondo Vico regge la storia è un ordine razionale che si serve dei fini particolari perseguiti dai singoli uomini o dalle singole comunità come di mezzi per raggiungere fini superiori o universali, quali la sopravvivenza delle comunità umane e la realizzazione della giustizia. Nell’Ottocento questo principio diverrà noto come
• eterogenesi dei fini
espressione con cui il filosofo e psicologo tedesco Wilhelm Wundt (1831-1920) esprimerà l’idea che i fini particolari che i singoli individui o le singole comunità umane cercano consapevolmente di realizzare sono sempre mezzi utili al raggiungimento di fini superiori o universali.
Il “dover essere” che caratterizza la storia reale, calata nel tempo, per Vico ha un valore orientativo o normativo, ma non necessitante: la conoscenza della storia ideale ed eterna può orientare le scelte degli uomini, ma non le determina. Tant’è vero che la storia reale non si identifica mai totalmente con la storia ideale: ci sono «nazioni» che si fermano ai primi stadi di sviluppo, altre che raggiungono di colpo lo stadio finale saltando le tappe intermedie e altre ancora che, una volta compiuto tutto il percorso, regrediscono nuovamente agli stadi inziali.
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In generale, nelle vicende storiche si individuano
• corsi e ricorsi
il modo di procedere della storia, la quale perlopiù ritorna ciclicamente sui suoi passi. Questo accade perché le «nazioni» che hanno raggiunto il massimo grado di sviluppo possono, a causa di filosofie fallaci e della corruzione della società, decadere ai gradi inziali, dai quali dovranno ripartire.
La concezione della poesia Vico analizza in modo approfondito anche la poesia, che considera una forma di “sapienza” frutto della sensibilità e della fantasia degli uomini primitivi. La poesia, più precisamente, è espressione immediata e spontanea della verità, la quale viene comunicata mediante «immagini corpulente» che hanno un valore pre-logico o a-logico, ovvero autonomo rispetto ai concetti astratti elaborati dalla ragione. Il massimo esempio di «sapienza poetica» è costituito, secondo Vico, dai poemi omerici, nei quali si trovano numerosi
• universali fantastici
rappresentazioni fantastiche di caratteri tipici e generali della realtà. Emblematico è il personaggio di Achille come simbolo del coraggio, o di Odisseo come simbolo dell’astuzia.
MAPPE
CAPITOLO 1 VICO IL PRINCIPIO DELL’IDENTITÀ DI VERO E FATTO implica che
l’essere umano non può conoscere la natura (che è opera di Dio)
l’essere umano può conoscere la matematica e la storia (che sono opera sua)
LA SCIENZA NUOVA si fonda su
filologia (coscienza del certo)
indaga
l’ordine provvidenziale della storia (storia ideale eterna)
filosofia (scienza del vero)
struttura che sorregge il corso temporale delle nazioni modello o paradigma della storia reale
LE TRE ETÀ DELLA STORIA IDEALE sono
l’età degli dèi
l’età degli eroi
l’età degli uomini
che è caratterizzata da
che è caratterizzata da
che è caratterizzata da
sensibilità
governi teocratici
fantasia
governi aristocratici
ragione
governi democratici
L’ANDAMENTO DELLA STORIA REALE è tale che
i fini particolari perseguiti dagli uomini sono mezzi di fini superiori (eterogenesi dei fini)
nelle vicende storiche possono presentarsi corsi e ricorsi
LA SAPIENZA POETICA è
utilizza
un modo pre-logico di cogliere e di comunicare la verità (autonomo rispetto alla conoscenza razionale)
gli universali fantastici (immagini poetiche che rappresentano caratteri tipici della realtà)
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CAPITOLO 1 VICO
Il metodo e l’oggetto propri della conoscenza umana
Il principio dell’identità del vero e del fatto, presentato da Vico nel De antiquissima Italorum sapientia, costituisce la base metodologica della dottrina che il filosofo sviluppa nella Scienza nuova, il suo capolavoro. Posto che l’essere umano non può conseguire un’autentica conoscenza del mondo della natura, in quanto non ne è l’artefice, si apre invece per lui la possibilità di conoscere in modo approfondito ciò che fa, ovvero il mondo della storia. TESTO
1
Le legge della storia ideale (Scienza nuova) IL TESTO NELL’OPERA Il capolavoro di Vico, Princìpi di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, fu pubblicato nel 1725, quindi nel 1730 e infine, postumo, nel 1744: edizioni rispettivamente conosciute come Scienza nuova “prima”, “seconda” e “terza”. L’opera si sviluppa attraverso cinque libri, il primo dei quali è dedicato ai princìpi della nuova scienza storica: gli elementi in esso presentati (definizioni, postulati, assiomi, verità evidenti) testimoniano di come il filosofo, nonostante lo stile sentenzioso e aforistico, intendesse procedere secondo il metodo matematico. Gli assiomi della «scienza nuova» (che Vico chiama anche «degnità», riprendendo il linguaggio della scolastica) sono 114 e si distinguono in filosofici e filologici, a seconda che siano riconducibili alle conoscenze vere raggiunte dalla mente umana o alla certezza dei fatti. Dopo avere presentato i princìpi della nuova scienza storica e avere mostrato che nella storia reale dei popoli opera un ordine provvidenziale di origine divina, la «storia ideale eterna», quale modello e dover essere del mondo storico, Vico espone la legge delle tre età, che scandisce le vicende delle comunità umane.
Il corso In questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformità della storia procedendo in tutti i loro tanto vari e sì diversi costumi sopra la divisione delle tre età, che 2
dicevano gli Egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Perché sopra di essa si vedranno reggere con costante e non mai interrotto ordine di cagioni e d’effetti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di nature; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essi costumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti; e, in conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie di Stati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra loro gli uomini venuti all’umana società tutte queste già dette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spezie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificarle, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezie d’autorità e da altrettante di
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ragioni in altrettante spezie di giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per tre sètte de’ tempi che professano in tutto il corso della loro vita le nazioni. Le quali tre speziali uni- 12 tà, con altre molte che loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unità generale, che l’unità della religione d’una divinità provvedente, 14 la qual è l’unità dello spirito, che informa e dà vita a questo mondo di nazioni. Le quali co16 se sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del loro corso. Le tre età: dèi, La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima ne’ debolissimi di razioeroi ed esseri cinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a’ corpi diede l’es- 18 umani
sere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La qual natura fu quella de’ poeti teologi, che furono gli più antichi sappienti di tutte le nazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fondarono sulla credenza, ch’ebbe ogniuna, di certi suoi propi dèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, per quello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spaventosamente gli dèi ch’essi si avevano finti. Di che restarono queste due eterne propietà: una, che la religione è l’unico mezzo potente a raffrenare la fierezza de’ popoli; l’altra, ch’allora vanno bene le religioni, ove coloro che vi presiedono essi stessi internamente le riveriscano. La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano stati generati con gli auspìci di Giove: nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltà: – perocché fussero della spezie umana; – per la qual essi furono i prìncipi dell’umana generazione. La quale natural nobiltà essi vantavano sopra quelli che dall’infame comunion bestiale, per salvarsi nelle risse ch’essa comunion produceva, s’erano dappoi riparati a’ di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per bestie, siccome l’una e l’altra natura sopra si è ragionata. La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere.
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(Scienza nuova seconda, libro IV, introduzione e sezione I, a cura di F. Nicolini, Einaudi, Torino 1976, pp. 71-75)
Il corso della storia (rr. 1-16) All’inizio del quarto libro della Scienza nuova seconda, Vico presenta «il corso che fanno le nazioni» (r. 1). Queste attraversano tre età – degli dèi, degli eroi e degli uomini – che comportano tutta una serie di specificazioni che qui vengono semplicemente accennate, per poi essere svolte nelle successive sezioni del libro. La dottrina vichiana delle tre età è legata a una concezione evolutiva della storia; essa ha il suo corrispettivo nella vita dell’essere umano (nell’assioma LIII Vico aveva affermato che «gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e com-
mosso, finalmente riflettono con mente pura») e si riflette su tutti gli aspetti della società e della cultura. Le tre età: dèi, eroi ed esseri umani (rr. 17-34) La prima natura è quella della fantasia, cioè la natura poetica o creatrice dei poeti teologi che si erano finti gli dèi. La seconda è quella degli eroi che si ritenevano generati dagli dèi. La terza è quella umana, intelligente, che si basa sulla coscienza, sulla ragione e sul dovere. Va rilevato che la descrizione della religione come prodotto umano non ne inficia il valore divino, in quanto, proprio poiché divina, la religione si afferma attraverso l’uomo stesso (secondo la concezione provvidenziale di Vico).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS La legge delle tre età scandisce in modo progressivo la storia del genere umano. Immagina di dover avversare l’ipotesi vichiana, sostenendo una successione differente da quella individuata dal filosofo napoletano. Riporta in un testo scritto (max 35 righe) le tue riflessioni opportunamente argomentate.
TESTI VICO
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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CAPITOLO 2 I CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO
1. Il programma illuministico L’Illuminismo è un movimento culturale che si sviluppa nel XVIII secolo nei maggiori Paesi d’Europa e che, pur non coprendo tutta l’area filosofica del Settecento, ne rappresenta la voce più importante e significativa. Con l’Illuminismo, infatti, ci troviamo di fronte a una svolta intellettuale destinata a caratterizzare in profondità la storia dell’Occidente. Un nuovo modo Prima di identificarsi con questo o quell’insieme di teorie, l’Illuminismo consiste in un attegdi avvalersi giamento generale di fronte alla realtà e in uno specifico modo di rapportarsi alla ragione. della ragione
Si afferma spesso che la sostanza dell’Illuminismo risiede in un’esaltazione della capacità razionale dell’essere umano. Ciò è senz’altro vero, ma non è un tratto sufficientemente caratterizzante, se non si aggiunge che l’Illuminismo è l’impegno ad avvalersi della ragione in modo libero e pubblico, ai fini di un miglioramento effettivo del vivere. Gli illuministi ritengono infatti che l’uomo, pur possedendo per natura quel bene prezioso che è l’intelletto, in passato non ne abbia fatto il debito impiego, rimanendo così in una sorta di “minorità” che lo ha reso preda di un insieme di forze irrazionali, da cui ha il dovere di emanciparsi. Esemplificando in modo paradigmatico questi concetti, il filosofo tedesco Immanuel Kant ( unità 6), nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784), così scrive:
‘
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità se la causa di esso non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.
L’uso libero Più precisamente, la formula «sapere aude!» – che Kant trae da una delle Epistole del poeta e critico latino Orazio (65-8 a.C.) e che letteralmente significa «osa sapere!» – per gli illuministi è della ragione
un invito ad assumere un atteggiamento problematizzante nei confronti dell’esistente e di ogni tesi preconcetta, facendo valere il proprio diritto di analisi e di critica. Da qui deriva la battaglia contro il pregiudizio, il mito, la superstizione e contro tutte quelle forze (la tradizione, l’autorità, il potere politico, le religioni, le metafisiche ecc.) che hanno ostacolato il libero e critico uso dell’intelletto, soffocando le energie vitali degli uomini. E da qui deriva lo sforzo di sottoporre ogni realtà al “tribunale” della ragione, per distinguere il vero dal falso e per individuare ciò che può creare giovamento alla società.
Il compito Questa idea della ragione come organo di verità e strumento di progresso, ossia (per usadei filosofi re una metafora cara agli illuministi) come “lume” che rischiara le “tenebre” dell’ignoranza
e della barbarie, implica una nuova interpretazione della figura dell’intellettuale e del suo
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compito tra gli uomini. Per gli illuministi il “filosofo” – dando a questa espressione un’accezione non strettamente tecnica – non è più il “sapiente” dedito alle speculazioni metafisiche, bensì un uomo che vive in mezzo agli altri uomini, e che lotta per rendere il mondo più abitabile. Per questo, se egli porta davanti al tribunale della ragione passato e presente, politica e religione, società e costume, non lo fa per una eccentrica mania o per sfoggio di “anticonformismo” salottiero, ma con lo scopo programmatico di riformare la realtà e di giovare al prossimo, perseguendo il fine di diminuire le sofferenze degli individui e di raggiungere la maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di persone.
2. Le matrici sociali e culturali del movimento Illuminismo e borghesia L’Illuminismo sorge nell’ambito di precise circostanze storiche. In primo luogo, esso ri- Il legame con specchia la rivoluzione sociale compiuta dalla borghesia, ovvero da quella classe sociale il dinamismo della borghesia che fin dal Cinquecento era economicamente in espansione e politicamente in ascesa. Da un certo punto di vista, l’Illuminismo si configura come l’espressione teorica e l’arma intellettuale del processo di avanzamento della borghesia settecentesca. È quest’ultima, infatti, la classe “portatrice del progresso”, che appare impaziente di rompere con il passato e con le antiche consuetudini, incarnate in particolar modo dalle sopravvissute istituzioni feudali e dalla Chiesa. Il legame tra Illuminismo e borghesia è confermato dal fatto che i rappresentanti del mo- Il nuovo ideale vimento sono perlopiù borghesi, oltre che dal nuovo ideale di essere umano delineato nel del mercantefilosofo “secolo dei Lumi”. Se la civiltà comunale aveva celebrato l’intellettuale laico in contrapposizione a quello ecclesiastico; se l’Umanesimo aveva onorato il filosofo e il letterato amante dei classici; se il Rinascimento aveva magnificato il cortigiano colto e raffinato; ebbene, l’Illuminismo si rispecchia nelle figure del “filosofo” e del “mercante”, che talora riunisce nel personaggio del “mercante-filosofo”, esplicitando così, anche verbalmente, la tendenza a teorizzare modelli e valori di tipo borghese. E tutto ciò non è contraddetto né dalla presenza, nelle file degli illuministi, di alcuni aristocratici (che sono perlopiù nobili dediti ad attività e modi di vita borghesi), né dai cosiddetti “sovrani illuminati” (da Caterina II di Russia a Maria Teresa d’Austria e a suo figlio Giuseppe II; da Carlo di Borbone a Federico II di Prussia), che vogliono andare incontro alle richieste delle forze economicamente e intellettualmente più vive delle loro nazioni.
Illuminismo e Rinascimento Per quanto riguarda la storia della cultura, l’Illuminismo si configura in primo luogo come Un secondo Rinascimento continuazione ideale del Rinascimento. La celebrazione dell’individuo, la difesa della sua dignità, il rifiuto di sottomettere la ragione al principio di autorità, il prevalente interesse per i valori mondani, il desiderio di fare dell’essere umano il “padrone” della terra, l’avversione per il Medioevo: nel pensiero settecentesco ritornano tutti i grandi temi della cultura rinascimentale, e in forme talora analoghe. Anzi, per certi aspetti l’Illuminismo si presenta come una vera e propria ripresa del programma rinascimentale, ossia, secondo quanto è stato detto da alcuni studiosi, come un “secondo Rinascimento”.
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Un umanismo Per opera degli illuministi, il programma generale del Rinascimento subisce inoltre una più radicale decisa radicalizzazione. Anche l’Illuminismo crede in una “rinascita” antropologica,
ma, spogliando questa nozione di residue valenze religiose, la intende unicamente come un riscatto operato dall’uomo per l’uomo. Di conseguenza, il suo umanismo risulta più accentuato di quello rinascimentale, in quanto Dio, sebbene perlopiù non venga dichiarato inesistente (ateismo), viene tuttavia relegato in una sfera che ha poco o nulla a che vedere con il nostro mondo (deismo p. 403). In tal modo, nell’Illuminismo l’essere umano diventa davvero l’unico artefice del proprio destino.
Il ruolo Sganciata da ogni fondamento trascendente, la ragione trova in sé stessa i princìpi del codirettivo noscere e dell’agire, atteggiandosi a basilare criterio direttivo della vita in tutta la varietà ed eversivo della ragione e molteplicità delle sue espressioni. In tal modo l’Illuminismo conduce al suo esito estremo
il processo di autonomizzazione delle varie attività umane già iniziato dal Rinascimento, e accelera la laicizzazione della cultura.
Illuminismo e rivoluzione scientifica Il primato Erede del Rinascimento, l’Illuminismo lo è altrettanto della rivoluzione scientifica. Anzi, della scienza sotto certi punti di vista può esserne considerato il prodotto filosofico per eccellenza. Nel
metodo scientifico gli illuministi riconoscono infatti il modello del sapere, che contrappongono alle metafisiche tradizionali, cogliendone e propagandandone la connessione con il progresso civile. La scienza pone così la sua candidatura al primo posto nella gerarchia delle attività conoscitive.
Le radici Questo legame strutturale tra la scienza e l’Illuminismo è tanto più evidente se si pensa galileiane e che la rivoluzione scientifica può, per certi aspetti, essere interpretata come il punto di baconiane dell’Illuminismo partenza dell’Illuminismo. La battaglia di Galilei contro i dogmi intellettuali del passa-
to, la sua polemica contro i teologi e conto la metafisica, la sua fiducia nella ragione e nell’esperienza rappresentano infatti, al di là della stessa consapevolezza dello scienziato pisano, posizioni potenzialmente illuministiche. Rifacendosi idealmente a esse e ispirandosi al sogno di Bacone di una civiltà scientifica in grado di controllare la natura, gli illuministi credono nella realizzazione dell’essere umano tramite un sapere vero e utile al tempo stesso. Da ciò deriva l’ottimistica esaltazione della scienza e la lotta contro le forze che possono ostacolarla (i pregiudizi, l’autorità delle metafisiche, i dogmi delle religioni ecc.), nonché il progetto di estendere il baconiano «sapere è potere» dalla natura alla società, mediante la costruzione di una “scienza dell’uomo” in grado di comprendere e dominare i meccanismi economici, politici e morali.
Illuminismo, razionalismo ed empirismo L’Illuminismo è anche l’erede delle due grandi scuole filosofiche dell’età moderna: il razionalismo e l’empirismo. La ragione Quando nel Discorso sul metodo (1637) aveva stabilito che si deve accettare come vero solcartesiana tanto ciò che appare alla mente in modo evidente, Cartesio aveva dato avvio al razionalie i suoi limiti
smo, ma nel contempo aveva posto le basi dell’Illuminismo e dell’idea di un esercizio autonomo e spregiudicato dell’intelletto. Rispetto al razionalismo cartesiano, tuttavia, l’Illuminismo è segnato da una rigorosa auto-limitazione della ragione nel campo dell’esperienza. All’epoca dei Lumi, infatti, la ragione cartesiana ha già subìto, per opera di Locke e della metodologia scientifica di Newton, un ridimensionamento che l’ha trasformata da deposito infallibile di idee innate in un semplice strumento di acquisizione
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metodica di nuove conoscenze. In virtù di questo ridimensionamento, la ragione non può fare a meno dell’esperienza, perché si nutre di essa e funziona soltanto all’interno del suo orizzonte, al di là del quale non ci sono che problemi insoluti o fittizi. La ragione illuministica appare inoltre caratterizzata dalla possibilità di investire ogni aspetto o dominio che rientri nei limiti dell’esperienza. Anche in questo l’Illuminismo si contrappone al cartesianesimo, che si era precluso ogni ingerenza nell’ambito morale e politico, pur avendo avuto la pretesa di fondare razionalmente le verità religiose. D’altro canto, pur essendo fortemente influenzato dall’empirismo, il concetto illuministico di ragione si distingue da quello empiristico sia per una maggior fiducia nei poteri intellettivi, sia per un’accentuazione della portata pratica e sociale di tali poteri.
La portata morale e politica della ragione
Molti illuministi riconoscono la funzione e il valore del sogno, dell’istinto e delle passioni, Il rapporto fra considerando la ragione non come una realtà a sé, che debba prevalere sugli altri elementi la ragione e le emozioni della vita umana, ma piuttosto come l’ordine a cui la vita intrinsecamente tende, e che non può realizzarsi se non attraverso il concorso e la disciplina di tutte le componenti sentimentali e pratici che costituiscono l’essere umano.
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Per l’esposizione orale
1. Presenta sinteticamente la concezione illuministica della ragione. 2. Quali sono le radici storico-culturali dell’Illuminismo? SNODI PLURIDISCIPLINARI lingua e letteratura italiana
Dal punto di vista linguistico e letterario, il Settecento illuministico è il secolo in cui le lingue nazionali acquistano forza e diffusione, imponendosi (soprattutto nella frazionata situazione politica italiana) come lingue unitarie, in sostituzione dei dialetti. Soffermati sulla “questione della lingua” dibattuta nell’Italia settecentesca (che vede, ad esempio, i “puristi” dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia fiorentina contrapporsi agli “innovatori” del “Caffè”), considerando anche il ricorrente uso del francese e la diffusione nella lingua italiana di termini scientifici e tecnici. Metti poi in relazione questi aspetti linguistici con le idee dell’Illuminismo.
3. Illuminismo e metafisica Il rifiuto della gnoseologia razionalistica e l’accettazione del modello empiristico e newto- Il rifiuto dei niano del sapere si accompagnano, negli illuministi, a una critica delle grandi costruzioni grandi sistemi metafisici metafisiche in cui Cartesio, Spinoza e Leibniz avevano preteso di racchiudere ogni realtà mondana e divina. Espressione tipica di questa tendenza è la polemica contro il “sistema” e contro lo “spirito di sistema”: al “sistema” e all’ideale deduttivo della scienza cartesiana, gli illuministi contrappongono l’ideale analitico della scienza newtoniana, consistente nell’osservazione metodica dei casi particolari e nella formulazione di princìpi generali sempre supportati da nuove esperienze. Lo “spirito di sistema” viene così sostituito con l’“esigenza sistematica”, consistente nello sforzo di determinare quell’ordine e quella connessione strutturale delle conoscenze di cui l’Enciclopedia è insigne testimonianza. Sulle orme della rivoluzione scientifica e della riflessione di Locke, l’Illuminismo rinuncia Il rifiuto degli inoltre a dibattere i problemi riguardanti l’essenza ultima del reale e le questioni relative alla enigmi della metafisica sostanza-spirito o alla sostanza-corpo. Anzi, certi enigmi tradizionali della mente, oltre che irrisolvibili, vengono ritenuti irrilevanti ai fini di una conoscenza effettiva del mondo, e considerati un semplice retaggio di una cultura parassitaria di tipo aristocratico-sacerdotale.
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La metafisica Questa mentalità non porta tuttavia, come talvolta impropriamente si afferma, a bandire deistica del tutto il discorso metafisico. L’Illuminismo, infatti, si mantiene perlopiù entro i limiti di
una metafisica deista (come vedremo tra poco), che, pur non pretendendo di spiegare “l’essenza” degli esseri, ritiene almeno di poter dimostrare che alla base di quell’“orologio” che è il mondo sta quell’“orologiaio” che è Dio. Tuttavia, il Dio “geometra e meccanico” dei deisti non ha nulla a che fare con il Dio delle varie fedi, poiché è semplicemente una forza che ordina il reale, e a cui si accede attraverso la pura ragione. A differenza del “teismo” (presupposto teorico di quelle religioni positive che ammettono un Dio personale, trascendente, creatore dell’universo e provvidente), il “deismo” tende infatti a limitare l’intervento divino nel mondo, spesso attribuendo a Dio la più radicale indifferenza nei confronti degli uomini e del loro destino.
La metafisica Se il deismo è una sorta di metafisica ridotta ai minimi termini, una metafisica globale è materialistica invece il materialismo, che tuttavia si pone in pieno accordo con i risultati della ricerca
scientifica, di cui anzi rappresenta l’ontologia. In conclusione, bisogna riconoscere che, sebbene sul tema della metafisica l’Illuminismo sia forse poco organico e coerente, esso svolge la funzione storica di diffondere per la prima volta nel mondo moderno una certa cautela critica nei confronti dei sistemi ontologici tradizionali.
4. Illuminismo e religione La critica alle religioni positive Come si è accennato, l’Illuminismo ammette la possibilità della religione soltanto nella forma del deismo. Fin dal suo esordio, esso appare quindi fortemente polemico nei confronti delle religioni positive e delle grandi fedi storiche dell’umanità occidentale: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. In particolare in Francia, dove la battaglia anti-religiosa assume toni più accesi, Mosè, Gesù e Maometto vengono bollati come «les trois imposteurs» (“i tre impostori”). I motivi L’ostilità dell’Illuminismo nei confronti delle religioni positive nasce da una serie di ragiodella critica ni teoriche e pratiche strettamente collegate. alla religione
In primo luogo, essa deriva da una mentalità razionalistica che, non riconoscendo altro criterio di verità all’infuori della ragione e dell’esperienza, misconosce il concetto di “rivelazione”, reputando inoltre che i vari “dogmi”, anziché essere verità meta-razionali (secondo la tesi dei teologi), siano credenze anti-razionali. La stessa idea centrale del cristianesimo – cioè quella di un Dio che, dopo aver creato l’uomo, accetta di morire sulla croce per redimerlo – agli occhi degli autori più estremisti appare soltanto una “favola” che secoli interi di educazione cristiana non bastano a rendere più credibile, o meno assurda, di fronte all’intelletto. In secondo luogo, gli illuministi ritengono che le varie religioni della storia abbiano contribuito, insieme al potere politico, a tenere i popoli nell’ignoranza e nella servitù, ostacolando il progresso scientifico, economico e sociale dell’umanità, e producendo perlopiù intolleranza, fanatismo e divisione tra gli individui. In terzo luogo, gli illuministi, convinti che «la ragione vuole la felicità», reputano che la religione, soprattutto quella cristiana, «imbrogliando i popoli», li abbia intristiti con il senso del peccato, della morte e del castigo, impedendo una naturale e armonica realizzazione del loro essere mondano.
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Il deismo e l’ateismo Nell’ambito della critica illuministica alla religione si profilano due filoni principali: uno più moderato e di orientamento deista, e uno più estremistico e di tendenza atea. Il deismo – che è l’atteggiamento di gran lunga prevalente nella cultura illuministica – L’indirizzo distingue tra natura e storia, ragione e superstizione, pervenendo a una forma di religione deista naturale fondata su un nucleo razionale di verità comuni a tutti gli uomini, quali l’esistenza di Dio e i precetti morali riguardanti l’amore e il rispetto per i propri simili. La religiosità laica e razionalistica del deismo tende così a concretizzarsi in un’etica universale che affratella tutta l’umanità. Proclama ad esempio Voltaire:
‘
Esiste una sola morale così come c’è una sola geometria. Mi si obietterà che la maggior parte degli uomini ignora la geometria. È vero; ma, appena qualcuno ci si dedica, si raggiunge (Dizionario filosofico, “Morale”) subito un accordo.
Per gli illuministi questa forma di religione risulta la sola capace di garantire, al tempo stesso, l’autonomia degli esseri umani e l’idea dell’esistenza di una Mente superiore. Essa si contrappone quindi nettamente alle religioni “positive”, le quali ai precetti razionali dei deisti aggiungono dogmi o credenze inutili, o addirittura dannose. La religione naturale è una religione fondata esclusivamente sulla ragione; invece la religione positiva è fondata sulla tradizione, e trae il proprio titolo di legittimità dal richiamo ad una originaria rivelazione. Ma fondare una religione sulla rivelazione vuol dire fondarla su un fatto storico, e per di più su un fatto di dubbia attendibilità, o risultato di un’evidente mistificazione» (P. Rossi, Gli illuministi francesi, cit., p. XXI). Mentre la corrente deista distingue nelle credenze religiose un momento fisiologico e uno L’indirizzo patologico, un nucleo razionale e uno irrazionale, la corrente atea ritiene che la religione ateo sia, di per sé, un fenomeno patologico e irrazionale, che scaturisce da fattori quali il timore e il disagio dell’essere umano di fronte all’universo e all’esistenza. Alcuni pensatori – come Jean Meslier (1664-1729, autore di un Testament diffuso tra i Manoscritti clandestini di cui abbiamo parlato) – tendono inoltre a interpretare il fatto religioso in chiave politica, ritenendo che la sottomissione al «Monarca» divino imposta dalle religioni non sia altro che una manovra per sottomettere i popoli ai monarchi umani. Ma se la religione affonda le sue radici nell’irrazionale e nella paura, e obbedisce a interessi umani e di potere, anche la ricerca deistica di una “religione razionale” appare contraddittoria, poiché dove trionfa la ragione non può esserci religione, e viceversa. Di conseguenza, se Dio è soltanto una falsa proiezione della mente, l’unica verità (secondo il filone ateo dell’Illuminismo e, in particolare, secondo i materialisti) è da ricercarsi nel mondo reale, ossia nella natura, intesa come una realtà autosufficiente ed eterna, e come sano criterio di comportamento: «Confrontate la morale religiosa con quella della natura: questa la contraddice ad ogni istante» (D’Holbach, Sistema della natura, XXIV).
L’ideale della tolleranza religiosa Sul piano politico e storico, la polemica degli illuministi contro le religioni pone le pre- La difesa della messe teoriche di una persecuzione religiosa – non di una fede su un’altra, com’era av- libertà religiosa venuto perlopiù nel passato, ma dei non credenti sui credenti – che darà i suoi frutti più drammatici durante la Rivoluzione francese. Ma l’obiettivo degli illuministi non era certo questo. Deisti o atei, gli illuministi combattono le religioni storiche sul piano delle idee, e difendono la possibilità teorica e pratica di professare qualunque credo religioso.
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Scrive a questo proposito Voltaire:
ESERCIZI
‘
Alla borsa di Amsterdam, di Londra, di Surata, o di Bassora il guebro, il baniano, l’ebreo, il maomettano, il deista cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero, trafficano tutto il giorno assieme: e nessuno leverà mai il pugnale sull’altro, per guadagnare un’anima alla sua religione. E perché allora noi ci siamo scannati quasi (Dizionario filosofico, “Tolleranza”) senza interruzione, a partire dal primo concilio di Nicea?
La difesa Da questo punto di vista si può quindi affermare che l’Illuminismo ha favorito il progresso delle minoranze civile e le Chiese stesse, soprattutto quelle minori: stabilendo sulle orme di Locke che ogni religiose
religione, in quanto implica un atto di fede, non può essere imposta o rifiutata con la forza, ha riconosciuto a tutte le confessioni un uguale diritto all’esistenza, secondo un principio che costituisce tuttora uno dei fondamenti degli Stati.
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Per l’esposizione orale
1. In che cosa consiste la polemica degli illuministi contro lo “spirito di sistema”? 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera il deismo e l’ateismo illuministici: quale di queste due correnti giudichi più coerente con le critiche illuministiche della religione? Per quali motivi? 3. In che senso gli illuministi esaltano la tolleranza religiosa?
5. Illuminismo e storia Il rapporto tra l’Illuminismo e la storia rappresenta uno degli argomenti più importanti e discussi dagli studiosi. Concentrandoci sulle linee generali e sulle idee comuni della visione illuministica della storia, cercheremo di evidenziarne alcuni punti essenziali. La prospettiva Prima dell’Illuminismo, il modo occidentale di rapportarsi alla storia era ancora sostanumanistica zialmente di tipo ebraico-cristiano. Soltanto con il pensiero del XVIII secolo si comincia ad
assistere a un esplicito distacco da quel modello teologico-provvidenzialistico che aveva trovato la sua massima espressione nella Città di Dio di Agostino. Con l’Illuminismo francese, e soprattutto con Voltaire, comincia infatti a farsi strada, in connessione con la prospettiva deistica, la persuasione che l’unico soggetto della storia sia l’essere umano, con i suoi sforzi, i suoi errori e i suoi successi. Il Dio degli illuministi cessa insomma di essere l’autore o il coautore dell’universo storico, che viene interamente attribuito all’uomo, negli aspetti positivi come in quelli negativi. Per questo gli illuministi ritengono che ogni teoria che fondi la storia su Dio e sulla provvidenza sia una mistificazione della reale condizione umana, e rappresenti una delle cause secolari dell’immobilismo delle masse, portate a sperare in una soluzione dall’alto dei propri problemi. Al contrario, le malattie, i cataclismi, le carestie, le prepotenze e le ingiustizie sono mali che attestano l’assenza della provvidenza, o comunque l’indifferenza concreta di Dio nei confronti delle vicende umane, e che possono e debbono essere combattuti soltanto ricorrendo alle energie congiunte degli individui e agli strumenti che l’intelligenza e la scienza mettono a loro disposizione.
Il pessimismo storico Il “processo” Nella storia passata gli illuministi vedono perlopiù un insieme di condizioni negative, un teatro alla storia irrazionale di ignoranze, superstizioni, violenze e patimenti di ogni genere. Perciò, alla menta-
lità tendenzialmente giustificazionista della filosofia cristiana, che vedeva nella storia la «mano segreta di Dio», l’Illuminismo contrappone una visione apertamente critico-polemica, basata sull’amara constatazione di Voltaire che «la ragione non conosce sé stessa nella storia».
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Questo atteggiamento ipercritico verso il passato si concretizza in un autentico processo alla storia, che rappresenta uno degli aspetti più vistosi del programma illuministico, tutto proteso a liberarsi dalla «ruggine dei secoli» (come afferma Cesare Beccaria). Da questo punto di vista, l’Illuminismo rappresenta una forma di pessimismo storico, in quanto nella storia vede il luogo del negativo e la sede di un processo di alienazione o di smarrimento, da parte dell’essere umano, della sua essenza naturale e razionale. All’atteggiamento critico e pessimistico verso il passato si lega la critica mossa al Medioevo, La critica bollato come l’età della barbarie per eccellenza e scelto come emblema di tutti gli oscuran- del medioevo e il primitivismo tismi e di tutte le sofferenze patite dagli esseri umani nel corso della storia, ossia come il modello negativo di tutto ciò che l’umanità non dovrà mai più essere. Al pessimismo storico si lega anche la contrapposizione tra l’«uomo naturale» e l’«uomo artificiale» (homme naturel e homme artificiel), che prende la forma sia dell’idoleggiamento di una felicità preistorica da cui l’uomo sarebbe “decaduto”, sia del mito del “buon selvaggio” e dell’interesse per le civiltà esotiche e primitive. La forma più specifica e diffusa in cui si incarna il pessimismo storico illuministico è l’anti- L’antitradizionalismo. Alla mentalità comune, secondo cui il fatto che una credenza sia stata accet- tradizionalismo tata nei secoli costituisce già di per sé una prova del suo valore, gli illuministi oppongono l’istanza critica per cui la “patente” di antichità non è mai, per sé, contrassegno di verità. Anzi, gli illuministi sono convinti che l’appello alla tradizione sia stato uno dei tanti modi disonesti e ingannatori a cui si è fatto ricorso per giustificare e tenere in piedi credenze e modi di vita perlopiù irrazionali. Da tale convinzione deriva l’attacco violento sferrato dagli illuministi sia al “principio di tradizione”, sia ai contenuti in cui essa si è di volta in volta concretizzata.
L’ottimismo storico Se nei confronti del passato l’Illuminismo tende ad assumere – salvo eccezioni – un atteg- Il “bifrontismo” giamento di sfiducia e di critica, in rapporto al presente e al futuro esso tende invece ad assumere un tono fiducioso e attivistico. Ciò spiega perché alcuni studiosi abbiano parlato di “pessimismo storico” e altri di “ottimismo storico” degli illuministi. In realtà, nei confronti della storia l’Illuminismo appare bifronte, ossia pessimista e ottimista al tempo stesso, a seconda che il suo sguardo sia rivolto alla «ruggine dei secoli» o ad una nuova umanità plasmata dai Lumi. Nel momento stesso in cui distrugge, l’Illuminismo si dispone infatti a costruire. Anzi, più aggressiva è la critica verso il passato, tanto più forte è l’impegno dei vari autori per il presente e per il futuro, poiché ciò che li rende illuministi è proprio la speranza, variamente condivisa, di poter “ritrovare l’uomo al di là della storia”, ovvero la persuasione di poter edificare, sulle rovine del passato e tramite la ragione, un mondo nuovo e a misura di essere umano. Quest’atto di fiducia verso la storia e verso le sue possibilità di riscatto, di cui l’Enciclopedia La storia come è una delle incarnazioni più significative, costituisce il presupposto di fondo dell’attivismo progresso illuministico, che si concretizza anche in una visione generale della storia come processo graduale di incivilimento, che da uno stadio primitivo di esistenza selvaggia, attraverso una condizione intermedia di barbarie, giunge a uno stadio di civiltà effettiva e in costante progresso. Questa dottrina della storia come storia della civiltà – che avrà tanta fortuna e che finirà per costituire la forma mentis stessa del modo occidentale e moderno di rapportarsi alla storia – si basa in primo luogo sulla connessione ragione-civiltà, in quanto l’avanzamento storico appare condizionato dalle conquiste della ragione e dal complesso delle scienze e delle arti a cui essa mette capo.
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In secondo luogo, si radica sull’idea della storia come sforzo dell’essere umano per il progresso. Da ciò il carattere tortuoso e problematico che viene riconosciuto al corso storico, interpretato come alternanza di periodi di stasi e periodi di avanzamento, ossia come un processo privo di garanzie infallibili. La nascita della Questo modo di interpretare il mondo storico trova espressione anche nelle tendenze di storiografia fondo della storiografia illuministica, che, non potendosi richiamare a un sistema scientimoderna
fico già costituito (come quello della fisica newtoniana), deve porsi il problema del fondamento stesso dell’indagine storica. A cominciare da Bayle, l’Illuminismo farà valere quel principio del vaglio critico delle testimonianze tramandate, e del correlativo rigetto di quelle “false” o “contraffatte”, che costituisce il primo passo della storiografia modernamente e scientificamente intesa. Nei confronti della storiografia tradizionale, incentrata in prevalenza sulla dimensione politica, diplomatica e militare dei fatti, l’Illuminismo persegue inoltre l’ideale di un ampliamento della prospettiva storica, proponendosi di considerare non soltanto la successione dei sovrani, i rapporti tra le corti, le battaglie ecc., ma anche la vita economica, il progresso scientifico e tecnico, la cultura letteraria e artistica ecc. Infine, e questo è forse l’aspetto più caratteristico della storiografia illuministica, essa ha elaborato un quadro storico “universale” del cammino della civiltà, impegnandosi a valutare le varie epoche alla luce del contributo, positivo o negativo, fornito all’incivilimento dell’umanità intera e al miglioramento delle sue condizioni di vita.
6. Illuminismo e politica Il rinato L’attenzione per i problemi politico-giuridici, parallela all’interesse per il mondo storico, cointeresse per stituisce un’altra delle caratteristiche salienti dell’Illuminismo europeo, e soprattutto di i temi politici
quello francese. Sebbene la filosofia e la letteratura francesi, a cominciare da Cartesio, si fossero poste alla testa dell’emancipazione e dello sviluppo intellettuale dell’Europa, il filone politico in esse era stato poco coltivato. Del resto, in un’età dominata dall’assolutismo monarchico e burocratico, e dall’autocrazia personale di uomini come Richelieu, Mazzarino e Luigi XIV, la filosofia politica aveva pochi stimoli e ridotti spazi di ascolto. La crisi degli ambiziosi progetti di Luigi XIV e il premere di forze sempre più avverse all’assolutismo regio, incarnate soprattutto dalla borghesia, avevano invece cominciato a produrre un interesse generalizzato per le problematiche politiche e per la filosofia sociale. Tant’è vero che nella prima metà del XVIII secolo si assiste a un’autentica esplosione della pubblicistica storica e filosofico-politica, la quale innesca un dibattito (di cui gli illuministi sono i principali promotori) destinato a farsi sempre più “rovente” e a porsi dapprima come piattaforma teorica del “dispotismo illuminato” e della ventata di riforme che caratterizza alcuni paesi europei, e a configurarsi in seguito come la preparazione ideologica della Rivoluzione francese.
Una politica a servizio della “pubblica felicità” La “politicità” La dottrina della ragione come insieme di strumenti concettuali operativi e il conseguente del progetto impegno a tradurre il pensiero in azione fondano l’essenziale “politicità” dell’Illuminismo, illuminista
che risulta costantemente teso a legare la speculazione filosofica al raggiungimento di obiettivi pratici di portata sociale. Convinti che nel corso del tempo l’essere umano abbia
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subìto un processo di alienazione e di smarrimento, gli illuministi ritengono infatti che sia indispensabile ingaggiare una battaglia per restituire l’uomo a sé stesso e all’integrità dei suoi poteri naturali e razionali: risultato ottenibile soltanto mediante una modifica della vita nella globalità dei suoi aspetti economici, giuridici, culturali, pedagogici ecc. Lo sdegno etico verso il passato si traduce così in un impegno riformatore verso il presente. Alla pratica millenaria della politica come arte di offesa e di difesa e come tecnica di dominio, La difesa dei gli illuministi contrappongono l’idea, già di per sé rivoluzionaria, di una politica a servizio diritti naturali dell’essere umano e dei suoi diritti naturali. Così come nel campo religioso la contrapposizione tra religione naturale e religioni positive offre lo strumento polemico per attaccare le varie religioni storiche, analogamente nel campo politico l’antitesi tra diritto naturale e diritto positivo diventa il punto di partenza per una critica radicale dei vari ordinamenti storici. Il concetto di “diritti naturali” (che l’Illuminismo deriva dal giusnaturalismo moderno e da Locke) non è certo nuovo, poiché affonda le sue radici nella filosofia greca e nel pensiero medievale. Questo non significa però che l’Illuminismo si limiti in questo ambito a una mera ripetizione del passato. Ciò che differenzia la proclamazione illuministica dei diritti umani dalle precedenti teorie giusnaturalistiche è, da un lato, una particolare interpretazione di tali diritti, e, dall’altro, la loro utilizzazione ai fini della critica politica, accompagnata dal correlativo sforzo di renderli operanti nella realtà. In altre parole, con gli illuministi i diritti umani cessano di essere oggetto di un’astratta e perlopiù impotente proclamazione di principio, per diventare un’idea-forza calata nella dimensione effettiva della storia, capace, come tale, di smuovere le energie sociali. Tra i diritti più caratteristicamente e originalmente difesi dagli illuministi vi è innanzitut- Il diritto to la felicità. Nella ricca pubblicistica del Settecento non vi è scritto che non accenni in alla felicità qualche modo a questo diritto:
‘‘
Tutti gli uomini si riuniscono nel desiderio di essere felici. A tutti noi la natura ha fatto una legge della nostra felicità. Ci è estraneo tutto ciò che non è felicità. (Enciclopedia, voce “Bonheur”)
Se ogni uomo tende alla felicità, ogni società si propone lo stesso fine: l’uomo vive in società per essere felice. Perciò la società è un insieme di uomini collegati dai loro bisogni per lavorare di comune accordo alla propria conservazione e alla propria felicità. (D’Holbach, Il sistema sociale, II, 1)
E la felicità viene intesa come quella situazione di pace in cui gli uomini soddisfano i propri bisogni materiali e spirituali. Gli illuministi ritengono infatti che la guerra e le contese tra gli Stati siano “mali” da cui l’umanità deve liberarsi, e che la pace sia la meta ultima della storia. Di conseguenza, essi auspicano il superamento delle barriere nazionali e vedono nella fratellanza degli individui e dei popoli la condizione propria di un’umanità vivente sotto la guida della ragione, e quindi felice. Poiché di tale nozione di “felicità” fanno parte anche il benessere concreto e la lotta contro La concretezza la miseria, gli illuministi incoraggiano le industrie e i commerci, facendosi cultori delle della felicità scienze economiche e sociali che proprio grazie a loro ottengono un adeguato riconoscimento nell’ambito dell’enciclopedia del sapere. L’ideale della “pubblica felicità”, che costituisce l’idea-madre della filosofia politica illuministica, nell’orizzonte mentale del XVIII secolo assume così una portata oggettivamente riformatrice, in quanto si pone sia come modello ideale per giudicare l’esistente, sia come sprone a un mutamento delle forme della vita associata.
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La battaglia per i diritti civili Tra i diritti difesi dagli illuministi in favore della “pubblica felicità”, vi sono anche quelli che ancor oggi sono detti “diritti civili” e concepiti come aspetti essenziali dello Stato moderno: l’uguaglianza, la libertà e la tolleranza. L’uguaglianza La proclamazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini rappresenta una delle idee più im-
portanti degli illuministi, per i quali tutti gli esseri umani sono uguali per natura, in quanto accomunati dalla ragione. L’aspetto specifico dell’uguaglianza su cui insistono gli autori del XVIII secolo è però quello dell’uguaglianza dei diritti. L’esaltazione di questo tipo di egualitarismo si esprime storicamente nella rivendicazione politico-giuridica della parità di tutti i cittadini di fronte alla legge, e si concretizza nella lotta, condotta soprattutto dalla borghesia, contro i “privilegi” della nobiltà. Inizialmente questa nozione della «equalità naturale degli uomini» – come la chiameranno gli illuministi italiani – non si accompagna né all’idea dell’uguaglianza democratica (cioè alla convinzione che tutti debbano godere di un identico diritto di partecipare alla vita politica), né all’idea dell’uguaglianza sociale (secondo la quale tutti devono essere uguali anche sul piano economico dei beni). Anzi, nei grandi autori francesi (ad esempio in Voltaire) vi è l’esplicita accettazione-giustificazione della struttura gerarchica della società, considerata come inevitabile portatrice di disuguaglianze di funzioni, potere e ricchezze. Ma dall’egualitarismo moderato della prima generazione degli illuministi scaturiranno ben presto, con Rousseau e con la Rivoluzione francese, rivendicazioni più radicali di uguaglianza politica ed economica. Pertanto si può dire che, storicamente parlando, l’Illuminismo abbia rappresentato non soltanto il principio ispiratore delle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo proclamate dai rivoluzionari americani e francesi, ma anche il punto di partenza di ogni moderna filosofia dell’uguaglianza.
La libertà Un altro diritto fondamentale difeso dagli illuministi è la libertà, intesa soprattutto come
libertà dall’invadenza del potere politico e da ogni forma di assolutismo pratico e teorico. Questa battaglia per la libertà civile, che ha il suo massimo rappresentante in Voltaire, si indirizza soprattutto contro il dispotismo della Corona e della Chiesa cattolica, e si concretizza principalmente nella salvaguardia della libertà di pensiero, di parola e di stampa. Tale forma di liberalismo – che si riallaccia a Locke e alla società inglese, considerata come patria di libertà (Locke e Newton, afferma Voltaire, in Francia sarebbero stati ostacolati, a Roma incatenati e a Lisbona bruciati!) – non include, se non in modo marginale, il concetto di libertà come partecipazione e sovranità. Quest’ultimo concetto è invece teorizzato dal pensiero tendenzialmente democratico di Rousseau, per il quale “libertà” non significa solamente tutela dei diritti individuali nei confronti dello Stato e del potere (libertà da), ma anche possibilità di essere soggetti, e non meri oggetti o destinatari, delle decisioni politiche (libertà di). È comunque indubbio che l’Illuminismo abbia contribuito più di ogni altro movimento alla diffusione di quel principio della libertà di parola e di espressione che costituisce il presupposto di qualsiasi altra forma di libertà politica e di conquista sociale.
La tolleranza Parti integranti della salvaguardia illuministica della libertà civile sono la condanna del
fanatismo e il riconoscimento della tolleranza come modalità universale di coesistenza. Il fanatismo, spiega Voltaire, consiste nel dogmatismo e nell’assolutismo portati alle loro estreme e disumane conseguenze, poiché si identifica non soltanto con la certezza di possedere “la” verità, ma anche con la persuasione che essa vada imposta agli altri con la forza.
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UNITÀ 5 VIco, gLI ILLUmInIstI e RoUsseaU CapITolo 2 I caratteri generali dell’Illuminismo
La tolleranza, al contrario, consiste nell’accettazione del “diverso” e nell’ammissione teorica e pratica della pluralità degli atteggiamenti umani di fronte al mondo, e quindi nello sforzo di far coesistere, nel comune rispetto dei valori sociali di fondo, la varietà delle convinzioni filosofiche, religiose, morali ecc., evitando così di tornare a quella notte dei tempi in cui l’unica legge di comportamento era la soppressione dell’“altro”. Pur derivando da Locke, il concetto illuministico e voltairiano di tolleranza risulta più ampio, sia perché si estende anche ai cattolici e agli atei (che Locke escludeva dal principio di libertà religiosa), sia perché tende a generalizzarsi nella nozione di tolleranza civile, includendo quindi non soltanto la dimensione religiosa, ma ogni tipo o forma di attività umana. L’esigenza del rispetto delle diverse credenze ha rappresentato anche uno dei fondamenti Lo stato “laico” teorici della delineazione illuministica di uno Stato “laico”, ossia di uno Stato che, nel mo- e “di diritto” mento stesso in cui si propone di salvaguardare l’autonomia delle istituzioni pubbliche dall’invadenza ecclesiastica, si pone come garante dell’uguaglianza di tutte le religioni di fronte alla legge. Uno Stato, cioè, che nel momento stesso in cui rifiuta di identificarsi con una visione del mondo o con una filosofia, concede la possibilità di esistere a tutte le visioni del mondo e a tutte le filosofie. Parallelamente al concetto di uno Stato “laico”, l’Illuminismo sostiene anche quello di uno Stato “di diritto”, sviluppando la tesi secondo cui nello Stato non devono governare gli uomini, ma le leggi, ossia strumenti impersonali capaci di salvaguardare i diritti degli indiESERCIZI vidui e di impedire forme di dominio personali e tiranniche sul prossimo. Un altro diritto verso il quale gli illuministi si mostrano particolarmente sensibili (nuova- Il diritto alla mente sulla scia di Locke) è la proprietà. Il teorico fisiocratico François Quesnay (1694- proprietà 1774), ad esempio, nelle sue Maximes générales (1767) scrive in caratteri maiuscoli che «la sicurezza della proprietà è il fondamento essenziale dell’ordine economico della società». Affermazioni analoghe si trovano in Montesquieu e in Voltaire. Questa eloquente celebrazione della proprietà privata non rappresenta l’unica voce dell’Illuminismo, ma è comunque indubbio che essa sia la più tipica del movimento.
)
Per l’esposizione orale
1. Esponi i tratti salienti della visione illuministica della storia. 2. Chiarisci in che senso si può parlare di “pessimismo storico” e di “ottimismo storico” degli illuministi. 3. Presenta gli ideali politici dell’Illuminismo, soffermandoti sui concetti di “pubblica felicità”, “Stato laico”, “Stato di diritto”. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera le due diverse concezioni della libertà (“libertà da” e “libertà di”) che emergono nel corso del Settecento dalle riflessioni degli illuministi: quale ritieni più importante? L’accezione (tra gli altri) di Voltaire o quella di Rousseau? Argomenta la tua risposta, possibilmente sostenendola con esempi concreti.
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AUDIOSINTESI
SINTESI
CAPITOLO 2 I CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO
I tratti fondamentali L’Illuminismo è un movimento culturale che si sviluppa in Europa, prevalentemente in Francia, nel XVIII secolo. Il fondamento del pensiero illuminista è l’utilizzo libero della ragione per migliorare la vita degli uomini e per emanciparsi dai pregiudizi. Questo richiede un radicale atteggiamento critico, che impone di sottoporre a esame ogni convinzione politica, filosofica, religiosa. Secondo gli illuministi i Lumi della ragione, opposti alle tenebre dell’ignoranza, potranno consentire il progresso dell’umanità, e dovrà essere l’intellettuale ad assumersi il compito di divulgare il sapere necessario.
Le premesse sociali e culturali L’Illuminismo si presenta soprattutto come l’espressione dei valori del progresso e dell’innovazione tipici della borghesia. Per certi aspetti, tuttavia, questo periodo è anche un “secondo Rinascimento”, che celebra la dignità e la libertà dell’essere umano. L’esaltazione della scienza e del suo metodo (fondata soprattutto sulle scoperte di Galilei, Bacone e Newton) è un altro tratto tipico del pensiero illuministico, che si rifà non soltanto alla rivoluzione scientifica, ma anche al razionalismo cartesiano e all’empirismo inglese. Sulla base di questi presupposti, l’Illuminismo approda alla critica delle grandi costruzioni metafisiche, in parallelo con l’espressione di una certa “esigenza sistematica”, secondo l’approccio analitico e osservativo tipico della scienza newtoniana.
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UNITÀ 5 VIco, gLI ILLUmInIstI e RoUsseaU CapITolo 2 I caratteri generali dell’Illuminismo
La critica alle religioni positive I pensatori illuministici sono fautori di una critica radicale alle religioni positive. In base alla mentalità razionalistica, la fede è infatti considerata una forma di superstizione, colpevole di tenere i popoli nell’ignoranza e nella tristezza. Dalla critica delle religioni positive, l’Illuminismo trae due differenti concezioni: il deismo, che difende una forma di religione naturale, razionale e universale; l’ateismo, che afferma invece l’irrazionalità di ogni fede e prospetta una visione materialistica. In ogni caso, l’Illuminismo prende le distanze dalla prospettiva teologica e provvidenzialistica della tradizione cristiana e considera l’essere umano come l’unico responsabile dell’agire storico.
La visione della storia Per quanto riguarda la concezione della storia, nell’Illuminismo convivono due tendenze opposte: da un lato una forma di pessimismo che in alcuni casi prende la forma del vagheggiamento di una felicità preistorica, da cui l’uomo sarebbe “decaduto”; dall’altro lato una forma di ottimismo, sostenuta dalla convinzione che l’umanità, sotto la guida della ragione, possa liberarsi delle “catene” del passato e orientarsi al progresso.
Le idee politiche Per gli illuministi la speculazione filosofica ha una natura politica, perché deve servire a raggiungere un miglioramento sociale. In questo senso diviene centrale la difesa dei diritti naturali, primo fra tutti il diritto alla felicità. La politica, in altre parole, deve garantire il benessere, ovvero il soddisfacimento dei bisogni materiali e spirituali, ma questo risultato è possibile soltanto in condizioni di pace e di fratellanza. Generalmente, gli illuministi rivendicano uno Stato di diritto basato sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e sulla libertà, intesa come difesa dalle prevaricazioni del potere. Lo Stato, inoltre, deve essere laico e fondato sulla tolleranza civile e religiosa.
MAPPE
CAPITOLO 2 I CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO I TRATTI FONDAMENTALI DELL’ILLUMINISMO sono
la promozione di un uso libero e critico della ragione
la concezione del sapere come strumento di miglioramento sociale
che hanno come premesse
lo sviluppo della civiltà borghese, portatrice del valore del progresso
la celebrazione rinascimentale della dignità dell’essere umano
l’esaltazione della scienza come modello di tutto il sapere
LA CRITICA ALLE RELIGIONI POSITIVE determina
un indirizzo deista
un indirizzo ateo
che difende
che proclama
una religione naturale, razionale e universale
l’irrazionalità di ogni religione
LA VISIONE DELLA STORIA è segnata dal contrasto fra
pessimismo (rimpianto per un’originaria felicità perduta)
ottimismo (convinzione che l’umanità possa liberarsi dalle catene del passato)
LE IDEE POLITICHE sono
la difesa dei diritti naturali dell’essere umano
il progetto di uno Stato laico e di diritto
in particolare
fondato sui
il diritto alla “pubblica felicità”
diritti civili di uguaglianza, libertà, tolleranza e proprietà
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CAPITOLO 3 L’ILLUMINISMO FRANCESE
1. Bayle L’impegno Pierre Bayle (1647-1706) nasce in una famiglia protestante, e al protestantesimo fa riaccademico torno dopo una breve “incursione” giovanile nel cattolicesimo. Professore dapprima e l’attività pubblicistica presso l’Accademia protestante di Sedan, e poi presso quella di Rotterdam, svolge un’in-
tensa attività pubblicistica, componendo lettere e opuscoli su svariati argomenti, ma soprattutto difendendo la tolleranza religiosa e la libertà di pensiero. La tolleranza religiosa, in particolare, per Bayle trova il suo fondamento nell’obbligo di ciascun individuo di seguire unicamente il giudizio della propria coscienza, e nel fatto che un tale obbligo non può essere contrastato o impedito con la violenza.
La critica della Nel 1682 Bayle pubblica i Pensieri diversi sulla cometa, che costituiscono la sua prima tradizione presa di posizione contro l’idea che la tradizione sia criterio o garanzia di verità. L’occasio-
ne dello scritto è la critica della credenza popolare, assai diffusa all’epoca, che le comete fossero presagi di sventure. Bayle osserva che il fatto che una credenza sia accettata dalla maggioranza degli uomini, o sia trasmessa di generazione in generazione, non costituisce una buona ragione per ritenere che tale credenza sia valida. La polemica di Bayle contro il sistema delle credenze e delle istituzioni tradizionali diventa ancora più radicale nel Dizionario storico e critico (1697), che è la sua opera fondamentale. Lo scritto è concepito come «una raccolta degli errori commessi tanto da coloro che hanno fatto i dizionari quanto da altri scrittori», ed è organizzato in modo da raccogliere «sotto ogni nome di uomo o di città gli errori concernenti quell’uomo o quella città». Il modo in cui il dizionario è ideato e composto rivela il compito critico e negativo che Bayle attribuisce alla ragione, la quale tuttavia viene presentata come incapace di dirimere le dispute in modo definitivo, tanto che di essa Bayle afferma che è adatta soltanto a far conoscere all’uomo le sue tenebre e la sua impotenza.
La fondazione Questa conclusione negativa sull’essere umano e sulle sue facoltà conoscitive non è però il della solo insegnamento del dizionario. Infatti c’è anche una conclusione positiva, che Bayle metodologia storica esprime dicendo: «Non c’è niente di più insensato che ragionare contro i fatti». Ed è pro-
prio al modo di accertare i fatti, cioè alla metodologia storica, che Bayle dà un contributo importante. Risalire alle fonti di ogni testimonianza, vagliarla criticamente rispetto all’intento esplicito o sottinteso del suo autore, e rifiutarla ogni volta che appaia infondata o sospetta: questi sono gli atteggiamenti che Bayle ha costantemente messo in pratica nella composizione della sua opera. A buon diritto, pertanto, egli è stato definito come il vero fondatore del rigore e della precisione delle discipline storiche. L’accertamento di un fatto è per lui un problema, alla cui soluzione devono essere indirizzati tutti i possibili mezzi di indagine di cui lo storico dispone.
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UNITÀ 5 Vico, gLi iLLuministi e Rousseau CapITolo 3 l’Illuminismo francese
2. montesquieu Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, nasce a La Brède, presso Bordeaux, La vita e il 18 gennaio 1689 e muore a Parigi il 20 febbraio 1755. Tra i suoi scritti ricordiamo le Let- le opere principali tere persiane (1721), le Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) e Lo spirito delle leggi (1748), che è la sua opera fondamentale. Nella finzione letteraria, l’autore delle Lettere persiane è Usbek, un giovane persiano che critica la civiltà occidentale dell’epoca di Montesquieu, mostrandone satiricamente l’incongruenza e la superficialità, e polemizzando contro l’assolutismo religioso e politico. Nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza, Montesquieu individua le cause della grandezza di Roma nell’amore della libertà, del lavoro e della patria, ovvero in quegli ideali all’ombra dei quali i cittadini romani erano allevati fin dall’infanzia. Le cause della decadenza dell’impero vengono invece additate nell’eccessivo ingrandimento dello Stato, nelle guerre lontane, nell’estensione eccessiva del diritto di cittadinanza, nella corruzione dovuta all’introduzione dei lussuosi costumi asiatici, nella perdita della libertà individuale in epoca imperiale.
L’analisi della civiltà occidentale e dell’impero romano
Nello Spirito delle leggi Montesquieu affronta il problema della storia, partendo dal presupposto che al di sotto della diversità capricciosa degli eventi vi è un ordine che si manifesta in leggi costanti, ovvero secondo regolarità che è possibile rintracciare. «Io ho posto i princìpi – dice Montesquieu nella prefazione dell’opera – e ho visto i casi particolari piegarsi ad essi di per sé stessi, le storie di tutte le nazioni derivarne come conseguenze e ogni legge particolare legarsi ad un’altra legge o dipendere da un’altra più generale». In generale, la legge è definita da Montesquieu come «il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose». Ogni essere ha dunque la sua legge, compreso l’essere umano; ma le leggi alle quali l’uomo (inteso come soggetto spirituale) obbedisce non hanno nulla di necessitante:
Le leggi come espressione dell’ordine storico
‘
L’uomo come essere fisico è, come gli altri corpi, governato da leggi immutabili; come essere intelligente viola incessantemente le leggi che Dio ha stabilite e cambia quelle che egli stesso stabilisce. Bisogna che egli si diriga, tuttavia è un essere limitato; è soggetto all’ignoranza e all’errore come tutte le intelligenze finite; le deboli conoscenze che ha, può ancora perderle; come creatura sensibile è soggetto a mille passioni. Un tale essere poteva a tutti gli istanti dimenticare il suo creatore; Dio l’ha richiamato a sé con le leggi della religione. Un tale essere poteva a tutti gli istanti dimenticare sé stesso; i filosofi lo hanno avvertito con le leggi della morale. Fatto per vivere nella società, poteva dimenticare gli altri; i legislatori l’hanno reso ai (Lo spirito delle leggi, I, 1) suoi doveri con le leggi politiche e civili.
Attraverso le leggi (religiose, morali e politiche) si manifesta dunque un ordine che non è mai un fatto storico, né mai un semplice ideale superiore ed estraneo ai fatti storici: l’ordine della storia che viene espresso mediante le leggi è il dover essere dei fatti e degli eventi storici, a cui essi possono più o meno avvicinarsi e adeguarsi. Nello Spirito delle leggi Montesquieu individua anche i tipi fondamentali di governo, ov- i tipi di vero la repubblica, la monarchia e il dispotismo, e ne indica i rispettivi princìpi costitu- governo tivi nella virtù (intesa come virtù politica, cioè come amor di patria e difesa dell’uguaglianza), nell’onore (inteso come senso di appartenenza a una certa classe) e nel timore:
‘
Tali sono i princìpi dei tre governi; ciò non significa che in una certa repubblica si sia virtuosi, ma che si deve esserlo. Ciò non prova neppure che in una certa monarchia si tenga in conto l’onore e che in uno Stato dispotico particolare domini il timore; ma solo che bisognerebbe che (Lo spirito delle leggi, III, 11) così fosse, senza di che il governo sarà imperfetto.
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Le leggi La ricerca di Montesquieu prosegue poi nel tentativo di mostrare come ogni tipo di governo della storia e si realizzi in un insieme di leggi specifiche, riguardanti i più diversi aspetti dell’attività la libertà umana
umana, e costituenti la struttura del governo stesso. Queste leggi riguardano l’educazione, l’amministrazione della giustizia, la distribuzione dei beni, i matrimoni, insomma l’intero insieme dei costumi civili, che ogni tipo di governo (repubblicano, monarchico o dispotico) regolamenta secondo modalità proprie. Ma ogni governo si corrompe quando viene meno al suo principio costitutivo (la virtù, l’onore o il timore) e, una volta corrotto, anche le migliori leggi divengono cattive e si rivolgono contro lo Stato stesso. In questa prospettiva gli eventi della storia, il sorgere e il decadere delle nazioni, non sono frutti del caso o del capriccio di singoli uomini, ma hanno cause ben precise, che possono essere indagate e che dipendono dalle leggi o dai princìpi stessi della storia. D’altro canto, le leggi storiche non hanno alcuna necessità “fatale”, dal momento che il comportamento umano, in virtù della libertà che lo caratterizza, può sempre sottrarvisi.
L’influenza Montesquieu è stato uno dei primi pensatori a mettere in luce l’influenza delle condizioni delle «cause fisiche, e specialmente climatiche, sul temperamento, sui costumi, sulle leggi e sulla vita fisiche» sui costumi politica dei popoli. Ciò nonostante, egli ritiene che a una tale influenza sia possibile reagire,
imponendosi comportamenti e regole che la contrastano: ad esempio, quando il clima (troppo rigido o troppo caldo) porta gli uomini a evitare il lavoro della terra, allora la religione e le leggi devono spingerli a svolgere comunque i loro compiti.
La libertà La libertà degli esseri umani nei confronti dei princìpi della storia si manifesta, insomma, andei cittadini e che nel loro contrastare gli agenti fisici. Lo scopo ultimo che Montesquieu si propone nello la divisione dei poteri Spirito delle leggi è d’altronde quello di mettere in luce e di giustificare storicamente la libertà
ESERCIZI
OFFICINA CITTADINANZA Costituzione e divisione dei poteri p. 96
politica di cui i cittadini devono godere. Essa non è inerente per natura ad alcun tipo specifico di governo, neppure alla democrazia, ma è propria dei governi moderati, cioè di quei governi in cui ogni potere trova dei limiti che gli impediscono di prevaricare gli altri poteri: «Occorre che per la disposizione stessa delle cose il potere arresti il potere» (Lo spirito delle leggi, XI, 4). A questa esigenza risponde, secondo Montesquieu, la divisione dei tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – realizzata nella Costituzione inglese. La riunione anche soltanto di due di questi poteri nelle mani di una stessa persona o di uno stesso organo annulla di fatto la libertà del cittadino, perché consente di abusarne senza che nessuno abbia gli strumenti giuridici necessari per opporvisi. ( T1 p. 429)
)
Per l’esposizione orale
1. Su quale principio si basa la critica di Bayle alle credenze e alle istituzioni tradizionali? 2. Quali sono per Montesquieu i tipi fondamentali di governo e a che cosa è finalizzata la divisione tra i poteri dello Stato da lui teorizzata?
Il principio della separazione dei poteri
EDUCAZIONE CIVICA
Il principio della divisione dei poteri teorizzato da Montesquieu (all’epoca già operante in Inghilterra) fu accolto a fine Settecento dagli Stati Uniti d’America (nella Costituzione del 1787) e dalla Francia rivoluzionaria (nella Costituzione del 1791), e nell’Ottocento dall’Italia (nello Statuto Albertino del 1848). Oggi è presente nelle Costituzioni di gran parte dei Paesi del mondo. • Esamina gli articoli 70-77, 92-96, 101-110 della nostra Costituzione: da chi sono esercitati e in che cosa consistono il potere legislativo, esecutivo e giudiziario? • In che modo questa separazione e questo esercizio dei tre poteri ne impedisce, in linea di principio, gli abusi da parte di un solo organo?
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UNITÀ 5 Vico, gLi iLLuministi e Rousseau CapITolo 3 l’Illuminismo francese
3. Voltaire La vita e le opere François-Marie Arouet, detto Voltaire, nasce a Parigi il 21 novembre 1694. Educato in un Dalla vita collegio gesuitico, viene introdotto assai giovane nella vita dell’aristocrazia cortigiana di corte al carcere francese. Ma prima i suoi scritti satirici e anticonformisti, e poi una lite con l’aristocratico Guy-Auguste de Rohan-Chabot, cavaliere di Rohan, gli costano diversi arresti, la reclusione nel carcere della Bastiglia e alcuni periodi di confino. Negli anni 1726-1728 Voltaire vive a Londra, assimilando e apprezzando la cultura ingle- L’apprezzamento se del tempo. Egli la illustra nelle Lettere filosofiche (composte tra il 1729 e il 1732, della cultura inglese e pubblicate in inglese nel 1733 e in francese nel 1734), nelle quali difende la religiosità dei quaccheri, puramente interiore e aliena da riti e cerimonie (Lettere filosofiche, I-IV); mette in luce la libertà politica ed economica del popolo inglese (IX, X); analizza la letteratura inglese e ne traduce poeticamente alcuni testi (XVIII-XXIII); esalta il pensiero di Bacone, Locke e Newton (XII-XVII). A partire dal 1734 Voltaire vive nel castello di Cirey, nella Francia settentrionale, ospite La permanenza dell’amica madame du Châtelet. Questi sono gli anni più fecondi della sua attività di presso madame du châtelet scrittore. Nel 1734 compone il Trattato di metafisica (pubblicato postumo), in cui difende i temi già messi in luce nelle Lettere filosofiche. Nel 1738 pubblica gli Elementi della filosofia di Newton e nel 1740 la Metafisica di Newton. Nel 1749 accetta l’ospitalità di Federico II di Prussia presso il palazzo di Sanssouci (nei Da sanssouci pressi di Potsdam, nell’odierna Germania orientale), dove rimane circa tre anni. Dopo la a Ferney rottura dell’amicizia con Federico e varie altre peregrinazioni, nel 1759 si stabilisce nel proprio castello di Ferney, presso un piccolo borgo sul confine con la Svizzera. Qui continua instancabilmente la sua attività, diventando il punto di riferimento dell’Illuminismo europeo e il difensore della tolleranza religiosa e dei diritti umani. Significativo, a questo proposito, è il Trattato sulla tolleranza (1763), in cui Voltaire, richiamandosi per molti versi al Saggio sulla tolleranza di Locke, rivolge un accorato appello in favore della fratellanza tra tutti gli uomini. A 84 anni, ritornato a Parigi per dirigere la rappresentazione della sua ultima tragedia, Irène, viene accolto con onori trionfali. Muore il 30 maggio 1778. Voltaire è autore di poemi, tragedie, saggi di storia, romanzi, nonché di opere di fisica e di Le opere filosofia. Tra queste ultime, ricordiamo (oltre a quelle già citate) il Dizionario filosofico filosofiche (1764), che con le sue numerose edizioni divenne una sorta di enciclopedia in vari volumi, e Il filosofo ignorante (1766), l’ultimo suo scritto filosofico. Assai notevole per la concezione della storia è il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756), a cui più tardi Voltaire premette una Filosofia della storia (1765) in cui cerca di caratterizzare i costumi e le credenze dei principali popoli del mondo. enciclosofia quaccheri Noti anche come membri della “Società degli amici”, i quaccheri appartenevano a un movimento religioso nato in Inghilterra intorno alla metà del XVII secolo, e caratterizzato (soprattutto all’inizio) da una forte componente mistica e dal rifiuto di celebrare sacramenti e di istituire gerarchie ecclesiastiche. Ostili alle convenzioni sociali, ma contrari alla violenza e fautori di atteggiamenti tolleranti, i quaccheri furono duramente perseguitati fino al 1689.
madame du Châtelet Gabrielle Émilie, marchesa du Châtelet (1706-1749), fu una letterata e matematica francese. I suoi nobili natali le consentirono di coltivare vastissimi interessi culturali, come autodidatta o con l’aiuto di precettori privati. Studiò in particolare le opere di Leibniz e di Newton, contribuendo alla loro divulgazione in Francia.
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La critica dell’ottimismo e l’accettazione dei limiti umani Convinto che contro la superstizione e l’intolleranza non ci sia miglior rimedio del buon umore, Voltaire adopera l’umorismo, l’ironia, la satira, il sarcasmo, l’irrisione aperta o velata, rivolgendoli di volta in volta contro la metafisica scolastica e contro le credenze religiose tradizionali. contro le Nel racconto Micromega (1752), che ha per protagonista un abitante della stella Sirio, Vol“verità” dei sensi taire deride la vecchia convinzione metafisica che l’essere umano sia il centro e il fine
dell’universo e, sulle orme dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1667-1745), mette in luce il carattere soggettivo e relativo delle sensazioni, che può essere superato soltanto grazie al rigore e all’oggettività del calcolo matematico.
contro l’ottimismo metafisico: Voltaire e Leibniz
Nel Poema sul disastro di Lisbona (1756), prendendo spunto dal terremoto che aveva colpito Lisbona nel 1755, Voltaire polemizza contro l’ottimismo metafisico di matrice leibniziana, mostrando come esso sia un insulto ai dolori che gli esseri umani sono costretti ad affrontare nella loro vita. All’illusione di poter trovare i risvolti positivi (magari futuri) di ogni evento, Voltaire contrappone una visione amara e disincantata del mondo e dell’esistenza, animata però dalla speranza in un avvenire migliore dovuto all’opera dell’uomo:
‘
Tutto un dì sarà bene, ecco la nostra speranza; Tutto è bene oggidì, l’illusione è codesta.
La critica alla prospettiva leibniziana e l’invito a un impegno concreto che possa rendere il male e il dolore più tollerabili pervadono anche il romanzo Candido o dell’ottimismo (1759), in cui Voltaire narra le incredibili peripezie e disgrazie del giovane Candido. Questi si muove in un mondo lacerato dal male, che rende patetica se non comica ogni spiegazione finalistica e provvidenzialistica della realtà; si dibatte in un magma di assurdità e contraddizioni in cui è difficile scorgere la luce della razionalità; eppure, insieme con il suo maestro, il dottor Pangloss (caricatura della teodicea leibniziana), riesce sempre a concludere che «tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili» ( “Filosofia e Letteratura”, p. 417). L’accettazione Dal Candido emerge dunque l’idea che il male del mondo sia una realtà non meno che il della condizione bene, e che sia una realtà impossibile a spiegarsi con i lumi della ragione umana. In queumana: Voltaire, Bayle e Pascal sto senso Voltaire accoglie la lezione di Bayle, il quale aveva affermato che il problema del
male è insolubile e ne aveva criticato spietatamente tutti i possibili tentativi di spiegazione. D’altro canto, Voltaire è persuaso che gli esseri umani debbano riconoscere i limiti della loro condizione nel mondo non per lamentarsene, ma per riuscire ad accettarla. Nella lettera Sui Pensieri di Pascal, scritta negli anni 1731-1733 e inclusa come XXV tra le Lettere filosofiche, egli accoglie la “diagnosi” di Pascal sulla condizione umana, ma ne trae un insegnamento completamente diverso. Se Pascal era approdato a una sorta di negazione del mondo umano e al riconoscimento della necessità di rifugiarsi nel trascendente, Voltaire accetta invece la nostra imperfetta condizione come la sola che ci sia concessa, alla quale non ci si può sottrarre, ed esorta quindi non a distaccarsi dal mondo, bensì a servirsene per cercare di vivere il più serenamente possibile.
enciclosofia I viaggi di Gulliver Scritto dall’irlandese Jonathan Swift nel 1713 e pubblicato nel 1726, I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels) è un romanzo in cui le certezze e i valori della civiltà moderna vengono criticati con sarcasmo. Il protagonista, catapultato in società radicalmente diverse dalla propria, è infatti costretto a constatare quanto tutte le sue convinzioni siano relative ed effimere.
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FILOSOFIA E LETTERATURA SNODI PLURIDISCIPLINARI
LA SFIDA DEL MALE DA VOLTAIRE A OGGI Ferita ineluttabile del destino umano, la questione del male pervade tutti i romanzi filosofici di Voltaire, e in particolare il racconto incalzante e paradossale del Candido o dell’ottimismo (1759). Al di là degli intenti polemici contro l’ottimismo metafisico di Leibniz, questo breve romanzo, nella sua scanzonata leggerezza, contiene una lezione intramontabile.
L’inspiegabilità del male e il valore del lavoro La risposta di Voltaire all’antica questione del male giunge al termine del romanzo. Stabilitisi in una piccola fattoria nelle vicinanze di Costantinopoli, Candido e il precettore Pangloss interpellano un derviscio, cioè un membro di una confraternita musulmana:
‘
«Maestro, veniamo a pregarti di dirci perché un animale strano come l’uomo è stato creato». «Di che ti impicci?» disse il dervì «forse che ti riguarda?». «Ma, reverendo padre» disse Candide «è orribile il male che c’è al mondo». «Cos’importa» disse il dervì «che ci sia male o bene? Quando Sua Altezza spedisce un vascello in Egitto, forse che s’inquieta se i topi che son sul vascello stanno bene o male?». […] «Speravo» disse Pangloss «di ragionare un poco con te degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita». A quelle parole il dervì gli sbatté la porta in faccia. (Voltaire, Candido, trad. it. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 2008, p. 180)
LABORATORIO
Il gesto del derviscio, metafora della rinuncia a ogni sterile disputa teorica, è rafforzato dalle parole di un «buon vecchio» contadino, che i tre incontrano sulla via del ritorno e che li accoglie nella propria casa: «Non posseggo che venti jugeri […] li coltivo coi miei figli; il lavoro ci tiene lontani tre grandi mali: la noia, il vizio e la miseria». Queste parole sembrano mettere tutti d’accordo, compresi l’ottimista Pangloss e il pessimista Martin, che afferma: «Lavoriamo senza ragionare»; «è l’unico modo di render la vita tollerabile».
L’invito a “coltivare il proprio orto” L’estremo insegnamento che Candido trae dalle proprie peripezie è però racchiuso in una frase che egli pronuncia alla fine del romanzo: «dobbiamo coltivare il nostro orto». Divenuta proverbiale (sebbene come riduttivo invito a rifugiarsi nella vita privata), questa frase esprime la convinzione che l’unico rimedio al male sia l’operosità, accompagnata dalla saggezza pratica di chi smette di farsi domande. La posizione di Voltaire sottende una potente originalità rispetto ai pensatori precedenti. Egli è convinto che il male esista e sia operante nel mondo, e che non sia razionalmente giustificabile, ma trasforma questa amara constatazione in un invito all’impegno per rendere la vita migliore: il male può sollecitare la nostra volontà trasformatrice, impedendoci di cadere nel pessimismo e nella rasegnazione. Lo scrittore Italo Calvino (1923-1985) commenta così la morale voltairiana del “coltivare il proprio orto”:
‘
Morale molto riduttiva, certo, che va intesa prima di tutto nel suo significato intellettuale e antimetafisico: non devi porti altri problemi se non quelli che puoi risolvere con la tua diretta applicazione pratica. […] una morale dell’impegno pratico responsabile e concreto, senza il quale non ci sono problemi generali che possano risolversi. (I. Calvino, “Introduzione” a Voltaire, Candido, cit., pp. VII-IX)
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la letteratura | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
APPROFONDIRE E RIFLETTERE
• A casa, leggi (o rileggi) i passi del Candido indicati in questa scheda e commentali per scritto (20 righe max), esprimendo la tua personale opinione. • In classe, sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in gruppi e considerate la seguente cele-
bre massima di Antonio Gramsci (1891-1937): «il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà». In che modo questa massima si collega alla morale voltairiana del “coltivare il proprio orto”? Discutetene insieme, confrontando anche il lavoro svolto a casa.
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La concezione di Dio e dell’essere umano Come abbiamo già avuto modo di chiarire ( p. 403), nella prospettiva deistica abbracciata da Voltaire la religione non contiene nulla di irrazionale, dal momento che non si fonda su una presunta rivelazione di Dio all’uomo, ma su una sua manifestazione alla ragione umana, la quale è capace di fissare poche e semplici verità: esiste un Dio creatore e reggitore del mondo, e questo Dio esige il bene e dissuade dal male.
Il deismo
L’esistenza Coerentemente con i princìpi deistici, Voltaire è dunque convinto che Dio esista e che sia di Dio la ragione ad affermarlo; e sebbene nel sostenere questa opinione si incontrino molte dif-
ficoltà, sono ancora maggiori le difficoltà che si oppongono all’opinione contraria. Voltaire ripete a questo proposito l’argomentazione di Locke e dei deisti (che a sua volta riproduce l’argomento cosmologico della tradizione):
‘
Esiste qualcosa, dunque esiste qualcosa di eterno perché nulla si produce dal nulla. Ogni opera che ci mostra dei mezzi e un fine rivela un artefice: dunque questo universo composto di mezzi, ognuno dei quali ha il suo fine, rivela un artefice potentissimo e intelligentissimo. (Dizionario filosofico, voce “Dio”)
L’inconoscibilità Sebbene rifiuti l’idea che la materia si muova e si organizzi da sé, ricavandone la convine l’“indifferenza” zione dell’esistenza di Dio, Voltaire rifiuta però anche la possibilità per l’essere umano di Dio
di determinare gli attributi divini. Egli, inoltre, nega con decisione l’idea che Dio intervenga nelle vicende degli uomini. Questi sono pertanto chiamati a gestire da sé la loro vita, scegliendo il bene anziché il male non per obbedire a un comando divino, ma perché questa è la scelta più utile per vivere in società. Dall’ammissione di un Dio universale che si rivela alla ragione di tutti gli uomini e dalla conseguente critica delle religioni storiche Voltaire fa derivare il principio della tolleranza.
Dal deismo alla tolleranza
oltre le «sette», Egli è convinto che soltanto abbandonando la pretesa di giungere a una verità assoluta, e verso una fede soltanto comprendendo che Dio si nasconde dietro le “maschere” delle religioni rivelate, comune
sia possibile costruire un mondo basato sulla tolleranza e sulla comprensione reciproche. La tolleranza è il frutto di un’incessante lotta della ragione contro l’oscurantismo e il fanatismo, e può scaturire soltanto da una fede purificata da dogmi e riti particolari, e ricondotta ad alcuni princìpi semplici e universalmente condivisibili che costituiscono il nucleo razionale comune di tutte le religioni:
‘
[Il deista] non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte. La sua religione è la più antica e la più estesa, perché la semplice adorazione di un Dio ha preceduto tutte le dottrine del mondo. […] Egli è persuaso che la religione non consista né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto; obbedire a Dio è la sua dottrina. Il maometto gli grida: «bada a te se non fai il pellegrinaggio alla Mecca!». «Sventura a te», gli dice un colletto bianco [un prete cattolico], «se non fai un viaggio a Nostra Signora di Loreto!». Egli sorride di Loreto e della Mecca, ma soccorre il misero e difende l’oppresso. (Dizionario filosofico, voce “Teista”1)
oltre l’antropo- Essendo lontano dal tumulto degli uomini e indifferente al loro destino, il Dio della ragione centrismo professato dal deismo non assomiglia agli esseri umani (come invece accade al Dio antro-
pomorfico delle religioni tradizionali), e proprio per questo è garanzia di civiltà e di tolleranza, e non pretesto di odio e di conflitto. Con graffiante sarcasmo Voltaire critica le violente 1. Nella sua opera, Voltaire usa indifferentemente déiste e théiste.
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dispute teologiche nelle quali gli uomini “usano” le presunte verità di Dio contro altri uomini, e smaschera il narcisismo delle religioni storiche, che fanno credere all’uomo di essere il centro del mondo e il destinatario del progetto divino. Soltanto accettando la parzialità del nostro sguardo e il carattere relativo delle nostre convinzioni è possibile apprendere la difficile pratica della tolleranza e comprendere il valore positivo della diversità. Nel già citato racconto filosofico Micromega, Voltaire immagina che un gigantesco extraterreste proveniente da Sirio (Micromega, appunto), giunga sul nostro pianeta in compagnia di un altrettanto enorme abitante di Saturno. Le due creature si imbattono in una nave che solca il mar Baltico e che trasporta un gruppo di scienziati e sapienti, minuscoli «atomi intelligenti» con i quali riescono a instaurare un colloquio. Alla fine del racconto prende la parola un dottore della Sorbona, un «piccolo animaletto in berretto quadrato»:
L’accettazione dei limiti umani
OFFICINA CITTADINANZA Libertà di opinione e di religione p. 87
‘
guardò dal basso in alto i due abitanti del cielo e, rivolgendosi ad essi, sosteneva che le loro persone, i loro mondi, i loro soli, le loro stelle, tutto era fatto unicamente per l’uomo. Sentendo questo discorso, i due viaggiatori si lasciarono cadere uno addosso all’altro, soffocando di quel riso inestinguibile che secondo Omero è dote degli dèi. Le loro spalle e il loro ventre ballavano di qua e di là, e nella confusione la nave che stava sull’unghia del Siriano [l’abitante della stella Sirio] cadde in una tasca delle brache del Saturniano. Quelle due brave persone si diedero d’attorno per ritrovarla, e finalmente ripescarono l’equipaggio e lo rimisero a posto ben in ordine. Il Siriano riprese in mano i piccoli vermiciattoli e parlò ad essi con molta gentilezza, benché in fondo al cuore fosse un po’ irritato nel vedere che gli infinitamente piccoli avevano un orgoglio infinitamente grande. (Micromega, trad. it. di M. Moneti, Garzanti, Milano 1992, pp. 188-189)
Un punto di vista “esterno” (come quello dei due extra-terrestri) può aiutare a guardare alle assurdità, ai fanatismi e alle ossessioni umane con un sentimento di tollerante compassione e di commiserazione per la fragilità della nostra natura:
‘
Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura. (Dizionario filosofico, voce “Tolleranza”)
Dalla consapevolezza dell’umana fragilità alla tolleranza
La fede deista di Voltaire diventa così un invito alla fratellanza, all’accoglienza della diversità, alla lotta contro il fanatismo religioso, alla pratica di una fede concepita non come rito esteriore o astratta dottrina, ma come esercizio di moralità e civiltà, e come impegno per l’altro. ( T2 p. 431)
La concezione della storia Lungo il corso della sua attività di storiografo, Voltaire chiarisce via via i concetti ai quali essa si ispira. Egli vuole trattare la storia da filosofo, cogliendo al di là della congerie dei fatti un ordine progressivo che ne riveli il significato. La prima esigenza di Voltaire è quella di liberare i fatti da tutte le sovrastrutture fan- gli obiettivi tastiche di cui il fanatismo, lo spirito romanzesco e la credulità umana li hanno rivestiti. dell’attività storiografica In questo senso, per Voltaire, la filosofia è lo spirito critico che si oppone alla tradizione distinguendo il vero dal falso:
‘
Presso tutte le nazioni la storia è sfigurata dalla favola fino al momento in cui la filosofia viene a illuminare gli uomini; e quando infine la filosofia arriva in mezzo a queste tenebre, trova gli spiriti così accecati da secoli di errori che può a malapena disingannarli; trova (Saggio sui costumi, cap. 197) cerimonie, fatti, monumenti, stabiliti per convalidare menzogne.
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ESERCIZI
A questa prima esigenza se ne aggiunge una seconda: quella di scegliere i fatti più importanti e significativi per delineare la «storia dello spirito umano». Bisogna pertanto eliminare le informazioni relative ai dettagli delle guerre (noiosi quanto infedeli), ai piccoli negoziati tra gli Stati (inutili furberie), alle avventure particolari che soffocano i grandi avvenimenti; e bisogna conservare soltanto i fatti che dipingono i costumi, facendo scaturire dal caos iniziale un quadro generale ben articolato. A questo ideale Voltaire obbedisce soprattutto nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, nel quale dà massimo rilievo al nascere e al perire delle istituzioni e delle credenze fondamentali dei popoli.
La storia come Ma lo scopo principale dell’opera storiografica di Voltaire è mettere in luce i tentativi della progresso ragione umana di affrancarsi dai pregiudizi e di porsi come guida della vita umana asso-
ciata. La storia, infatti, è essenzialmente progresso, e il progresso deriva dal dominio che la ragione esercita su quelle passioni in cui si radicano i pregiudizi e gli errori. La storia si presenta così a Voltaire come storia dell’Illuminismo, cioè del rischiaramento progressivo che l’essere umano fa di sé stesso, della progressiva scoperta del proprio principio razionale; e implica una vicenda incessante di oscuramenti e di rinascite.
)
Per l’esposizione orale
1. Qual è la posizione di Voltaire a proposito del problema del male? 2. Spiega perché la riflessione di Voltaire sulla religione può essere ricondotta a una forma di deismo. 3. Esponi le idee di Voltaire sulla tolleranza.
4. L’Enciclopedia L’origine Il massimo strumento di diffusione delle dottrine illuministiche fu l’Enciclopedia o Didell’opera zionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Essa nacque dalla modesta
idea del libraio parigino André Le Breton di tradurre in francese il Dizionario universale delle arti e delle scienze dell’inglese Ephraim Chambers, pubblicato tra il 1728 e il 1742. A mutare questo piano originario, rendendolo assai più ambizioso, fu Denis Diderot (del quale parleremo più nel dettaglio nelle prossime pagine), il quale si circondò di numerosi collaboratori e rimase fino alla fine il direttore dell’opera.
Le vicende Il primo volume dell’Enciclopedia comparve il 1° luglio 1751. Dopo la pubblicazione del seeditoriali condo volume (1752) l’opera subì un arresto per le opposizioni che aveva suscitato negli
ambienti religiosi; ma grazie all’appoggio di madame de Pompadour il progetto poté essere ripreso e nel 1753 uscì il terzo volume.
enciclosofia madame de Pompadour JeanneAntoinette Poisson, marchesa di Pompadour (1721-1764), fu la donna francese più influente del XVIII secolo. Grazie alla sua posizione di amante e consigliera del re Luigi XV e ad una notevole preparazione culturale, seppe condizionare la moda, la musica e il teatro della prima metà del Settecento. Sostenitrice degli illuministi, si adoperò perché fosse portata a termine la pubblicazione dell’Enciclopedia.
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Maurice Quentin de La Tour, Ritratto della marchesa di Pompadour, 1750 ca., Parigi, Museo del Louvre.
Altri volumi (fino al settimo) si susseguirono poi regolarmente, finché nel 1757 l’Enciclopedia attraversò una nuova crisi, non soltanto a causa delle opposizioni esterne, ma anche per discordie interne, che determinarono il ritirarsi dall’impresa di alcuni suoi compilatori, tra cui d’Alembert ( p. 423). Venuto meno l’appoggio di d’Alembert, dal 1758 Diderot rimase solo nella direzione dell’opera, che condusse a termine nel 1772. Gran parte delle voci dell’Enciclopedia furono redatte dallo stesso Diderot, affiancato da i principali d’Alembert per i temi scientifici e matematici, e da altri ventuno collaboratori. Alcuni tra i compilatori dell’opera più noti e influenti rappresentanti della filosofia illuministica non collaborarono all’opera, oppure vi intervennero con contributi scarsi e poco significativi. Montesquieu, ad esempio, firmò un solo articolo sul gusto, ovvero su un argomento completamente diverso dai temi delle sue opere fondamentali. L’economista Robert-Jacques Turgot (1727-1781) scrisse invece tre articoli, uno sul tema dell’etimologia, un altro sull’esistenza (nel quale elaborò le riflessioni di Locke sull’esistenza dell’io, del mondo esterno e di Dio), e un terzo sul tema della fondazione del potere. Voltaire contribuì ai primi volumi e poi troncò la sua collaborazione; e lo stesso fece d’Alembert, come si è visto. Anche il famoso naturalista Buffon (Georges-Louis Leclerc de Buffon, 1707-1788), celebre per le sue teorie proto-evoluzionistiche, partecipò all’opera soltanto con qualche articolo. Tuttavia, lo spirito di questi “illustri assenti” – nonché quello di Locke, di Newton e dei filosofi inglesi del tempo – è ugualmente presente nelle pagine dell’Enciclopedia, e anche quelle dottrine che essi non presentarono in prima persona ispirarono comunque i contributi dei numerosi collaboratori “anonimi”. D’altronde l’Enciclopedia non è tutta quello “squillo di battaglia” contro la tradizione che co- L’importanza munemente si crede: essa include anche vari articoli destinati a rassicurare le anime pie e a storica dell’opera costituire una sorta di “alibi” o di “scudo” per i sostenitori delle posizioni più audaci. Non è priva, inoltre, di incongruenze e di errori, anche relativamente alla cultura del tempo. Tuttavia la sua efficacia fu immensa, tanto che proprio alla sua pubblicazione si deve in buona parte la diffusione europea dell’Illuminismo, ossia di uno dei più vasti e radicali rivolgimenti della cultura europea.
5. Diderot Come Voltaire, anche Denis Diderot (6 ottobre 1713 - 31 luglio 1784) fu uno “spirito uni- La vita e versale”. Filosofo, poeta, romanziere, matematico, critico d’arte, Diderot riassume nella le opere sua opera l’esigenza di quel rinnovamento radicale di tutti i campi della cultura e della vita che è propria dell’Illuminismo. Tra le prime opere di Diderot vi è la traduzione in francese, nel 1745, dello scritto Sul merito e la virtù di lord Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (l’amico e protettore di Locke). Nello stesso anno Diderot inizia a lavorare per l’Enciclopedia, immergendosi in un’attività che lo occuperà per circa un ventennio. Contemporaneamente, tuttavia, porta avanti la sua produzione filosofica: nel 1746 escono (anonimi) i Pensieri filosofici; nel 1754 appaiono invece i Pensieri sull’interpretazione della natura. Altri scritti filosofici notevoli rimarranno inediti, così come le Conversazioni tra d’Alembert e Diderot e Il sogno di d’Alembert, composti nel 1769.
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La ragione Le teorie di Diderot illustrano i temi fondamentali dell’Illuminismo, e in primo luogo la e i suoi limiti fede nella ragione e l’invito all’esercizio del dubbio. La ragione è per Diderot la sola gui-
da dell’essere umano, e il suo giudizio supera per affidabilità anche i dati ricavati dai sensi:
‘
quando la testimonianza dei sensi contraddice, oppure non compensa, l’autorità della ragione, non c’è nessun problema di scelta: secondo una corretta logica, occorre attenersi (Pensieri filosofici, 52) alla ragione.
Anche la ragione, nel suo procedere, può sollevare dubbi, ma questi, soprattutto in materia di religione, non possono che essere benèfici; anzi, lo scetticismo più radicale è il solo metodo a cui la ragione deve attenersi. In tal modo Diderot insiste con energia non soltanto sulle possibilità, ma anche sui limiti della ragione. La necessità Diderot osserva inoltre che gli esseri umani non hanno finora utilizzato nel modo migliodi un nuovo re le (pur modeste) possibilità conoscitive di cui dispongono. Le scienze astratte hanno tesapere filosofico nuto gli intelletti migliori occupati troppo a lungo e con troppo pochi frutti. Non si è stu-
diato, secondo Diderot, ciò che davvero è importante sapere, e in ciò che si è studiato non si è applicato un metodo rigoroso; così si sono moltiplicate parole vuote, e l’autentica conoscenza delle cose è rimasta indietro. La filosofia deve d’ora in poi dedicarsi allo studio dei fatti, che sono «la sua vera ricchezza» (Pensieri sull’interpretazione della natura, 20). Questo non significa che i filosofi non debbano formulare anche ipotesi generali; anzi Diderot ritiene che proprio nella «generalizzazione» e nella formulazione di «congetture» consista il metodo della ricerca in ambito sia fisico sia metafisico:
‘
L’atto della generalizzazione è per le ipotesi del metafisico ciò che le osservazioni e le esperienze ripetute sono per le congetture del fisico. Son giuste le congetture? Più esperienze si fanno, più le congetture si verificano. Son vere le ipotesi? Più se ne estendono le conseguenze, più verità esse abbracciano, più acquistano d’evidenza e di forza. (Pensieri sull’interpretazione della natura, 50)
La concezione La visione della realtà di Diderot è una specie di spinozismo, o meglio è lo spinozismo cordi Dio e del retto alla luce delle riflessioni di Bayle. Per Diderot, infatti, il mondo è una sorta di grande mondo
ESERCIZI
organismo, o animale, e Dio è l’anima di questo animale. A differenza di Spinoza, però, Diderot ritiene che Dio, come anima del mondo, non sia un intelletto infinito, ma una sensibilità diffusa, che si manifesta in gradi diversi e che può anche rimanere latente. Nel Sogno di d’Alembert egli paragona Dio a un ragno e il mondo alla sua tela: attraverso i fili della tela il ragno percepisce più o meno, a seconda della maggiore o minore lontananza, tutto ciò che viene a contatto con la tela stessa. In sostanza, per ciò che riguarda la concezione della divinità si può dire che Diderot oscilli tra il deismo e il panteismo, per quanto egli proponga le proprie teorie sulla realtà sempre come “ipotesi”, ovvero come congetture che non hanno alcun carattere di certezza, ma che anzi si presentano come problemi o interrogativi.
)
Per l’esposizione orale
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1. Spiega perché l’Enciclopedia riveste un’importanza fondamentale nella storia della cultura europea. 2. Chiarisci la visione della ragione e del dubbio che emerge nel pensiero di Diderot.
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6. D’alembert Accanto a Diderot, l’altra grande figura legata all’Enciclopedia è quella di Jean-Baptiste La vita e Le Rond d’Alembert (16 novembre 1717 - 29 ottobre 1783), autore del “Discorso prelimi- le opere nare” e degli articoli scientifici e matematici. Fra gli scritti di d’Alembert ricordiamo inoltre il Trattato di dinamica, pubblicato nel 1743, e il Saggio sugli elementi di filosofia, composto su richiesta di Federico II di Prussia e dato alle stampe nel 1759. Nel “Discorso preliminare” dell’Enciclopedia, d’Alembert presenta, a giustificazione del La classificazione piano dell’opera, una classificazione delle facoltà conoscitive umane e delle discipline fon- del sapere damentali in cui si articola il sapere. Dopo aver affermato, sulle orme di Locke, che tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi e che il passaggio dalle sensazioni all’esistenza degli oggetti esterni non è frutto di un ragionamento, ma di «una specie d’istinto, più sicuro della stessa ragione», d’Alembert distingue, con Bacone, tre modi diversi di operare sugli oggetti del pensiero: la memoria, la ragione e l’immaginazione. Mentre la memoria è la conservazione passiva e meccanica delle conoscenze, la ragione consiste nell’esercizio della riflessione su di esse, e l’immaginazione nella loro imitazione libera e creativa. A queste tre facoltà corrispondono i tre rami fondamentali della scienza: la storia, che è fondata sulla memoria; la filosofia, che è il frutto della ragione; e le arti belle, che nascono dall’immaginazione. Come Diderot, anche d’Alembert ritiene che la scienza in tutti i suoi rami debba prendere L’oggetto delle le distanze dalle opinioni e attenersi unicamente alla considerazione dei fatti. Egli elenca scienze perciò il tipo di fatti che compete a ogni disciplina:
‘ ‘
La fisica si limita unicamente alle osservazioni e ai calcoli; la medicina alla storia del corpo umano, delle sue malattie e dei loro rimedi; la storia naturale alla descrizione dettagliata dei vegetali, degli animali e dei minerali; la chimica alla composizione e alla decomposizione (Enciclopedia, “Discorso preliminare”) sperimentale dei corpi.
Accanto alle scienze che si occupano dei fatti, d’Alembert ammette tuttavia anche una L’oggetto della indagine metafisica o ontologica, che analizza i concetti comuni a tutte le scienze. metafisica Egli scrive a questo proposito: Poiché sia gli esseri spirituali sia quelli materiali hanno proprietà generali in comune, come l’esistenza, la possibilità, la durata, è giusto che questo ramo della filosofia, dal quale tutti gli altri rami prendono in parte i loro princìpi, si denomini ontologia, ossia scienza dell’essere o (ibidem) metafisica generale.
Alla «metafisica generale» spetta anche il compito di discutere la validità dei princìpi su cui si fonda ciascuna scienza: «non esiste alcuna scienza che non abbia la sua metafisica, se con ciò s’intendono i princìpi generali su cui è costruita una determinata dottrina e che sono, per così dire, i germi di tutte le verità particolari». Come per Voltaire e per Diderot, anche per d’Alembert Dio è l’autore dell’ordine dell’universo, La religione rivelato dalle leggi immutabili della natura, ma è totalmente indifferente all’uomo e ai rapporti umani. Di conseguenza, la vita morale dell’umanità non dipende per nulla dalla religione.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta la classificazione delle facoltà conoscitive umane e delle corrispondenti forme di sapere elaborata da d’Alembert e precisa il ruolo che egli attribuisce alla metafisica. 2. Illustra la concezione della religione dei principali filosofi illuministi francesi.
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7. condillac Nell’opera di Condillac si trova la più coerente e compiuta formulazione della gnoseologia dell’Illuminismo francese. La vita Étienne Bonnot, abate di Condillac, nasce a Grenoble il 30 settembre 1715 e muore in un e le opere castello presso Beaugency il 3 agosto 1780. Vive per un certo tempo a Parigi, dove entra in
rapporto con i filosofi illuministi e dove pubblica le sue opere fondamentali. Nel 1746 compare il Saggio sull’origine delle conoscenze umane, «opera in cui si riduce ad un solo principio tutto ciò che concerne l’intelletto». Nel 1749 Condillac riprende in un Trattato dei sistemi i princìpi metodologici accennati nell’introduzione del saggio. L’opera fondamentale è però il Trattato delle sensazioni, che risale al 1754.
il sensismo Nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane Condillac afferma che l’anima è distinta e diffe-
rente dal corpo, e che quest’ultimo non è che la causa occasionale di ciò che sembra produrre in quella. Egli parte dal principio di Locke secondo cui tutte le conoscenze derivano dall’esperienza e mantiene la distinzione lockeana tra sensazione e riflessione. Lo scopo che si propone è quello di mostrare che l’intero sviluppo delle facoltà umane deriva dall’esperienza. Questo scopo rimane immutato nel Trattato delle sensazioni, nel quale tuttavia viene perseguito in modo più rigoroso. Condillac abbandona infatti la distinzione tra sensazione e riflessione, e indica nella sola sensazione il principio che determina lo sviluppo di tutte le facoltà umane. Essendo le sensazioni o piacevoli o spiacevoli, l’essere umano tende a cercare le prime e a liberarsi delle seconde, e a quest’unico principio sensibile può essere ricondotta l’intera sua attività spirituale.
L’esempio Per spiegare la sua teoria Condillac ricorre all’esempio della statua (del quale si erano già della statua serviti Buffon e Diderot: ragione per cui Condillac fu anche accusato di plagio, sebbene a
torto), cioè di un essere organizzato interiormente come un essere umano, ma esteriormente fatto di marmo, e nel quale si introduce un solo senso per volta. Condillac comincia con il supporre che la statua abbia soltanto il senso dell’olfatto e che le si avvicini una rosa. Tutta la coscienza della statua sarà allora occupata dal profumo della rosa, ovvero da una sensazione, dalla quale essa non avrà modo di distinguersi. La concentrazione della capacità di sentire della statua sul profumo della rosa sarà l’attenzione; e l’impressione che il profumo della rosa lascerà nella statua sarà la memoria. A quel punto, se la fonte odorosa cambia, la statua si ricorderà di tutti gli odori percepiti, e quindi potrà paragonarli, giudicarli, discernerli e immaginarli, acquistando così, anche se dotata di un unico senso, tutte le facoltà fondamentali. Potrà inoltre formarsi alcune idee astratte, come quelle di numero e di durata; e nasceranno in essa desideri, passioni, abitudini e via dicendo. In altri termini, già nelle sensazioni prodotte da un unico senso sono racchiuse tutte le facoltà dell’anima.
il tatto e La combinazione dell’olfatto con gli altri sensi fornirà alla statua il modo di arricchire e alil «sentimento» largare ulteriormente le sue conoscenze, che rimarranno però sempre chiuse in lei stessa, dell’io
poiché la statua non potrà avere alcuna idea di una realtà diversa dalle sensazioni che percepisce. Da dove le verrà quest’idea? Per Condillac essa proviene dal senso del tatto. Infatti, se la statua fosse priva degli altri sensi ma fosse provvista del tatto, essa avrebbe il sentimento dell’azione reciproca delle parti del suo corpo, nonché dei suoi movimenti. Tale sentimento viene definito da Condillac «sentimento fondamentale». L’io della statua si identificherebbe con questo sentimento fondamentale e con la percezione dei suoi mutamenti.
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A questo punto la statua non avrebbe ancora alcuna idea né del suo corpo né dei corpi i corpi esterni esterni. Se però essa, muovendo a caso la sua mano, incontrasse il proprio corpo, la sua e la nascita delle idee sensazione immediatamente si sdoppierebbe: da un lato essa sentirebbe, e dall’altro sarebbe sentita, e di conseguenza la parte del corpo toccata e la mano che la tocca sarebbero immediatamente percepite come l’una esterna all’altra. E se la mano toccasse un oggetto esterno, allora la statua sentirebbe, ma non sarebbe sentita da una parte di sé stessa. Essa distinguerebbe dunque il proprio corpo dai corpi esterni. In questo modo, secondo Condillac, la sensazione del tatto si sdoppia in sentimento e idea: «è sentimento per il rapporto che ha con l’anima che essa modifica; è idea per il rapporto che ha con qualcosa di esterno». È evidente, aggiunge Condillac, che le idee non ci fanno conoscere ciò che gli esseri sono in sé stessi, ma ce li rappresentano attraverso i rapporti che i corpi stessi hanno con noi mediante i sensi; e ciò dimostra quanto siano superESERCIZI flui gli sforzi dei filosofi che pretendono di cogliere l’essenza delle cose.
CONCETTI A CONFRONTO
LA SENSAZIONE in LOCKE
in CONDILLAC
deriva dal senso esterno
è l’attività fondamentale dell’anima
ci dà la certezza dell’esistenza delle cose esterne che la producono
ci porta al riconoscimento della realtà esterna
resta distinta dall’ambito della riflessione, che concerne il senso interno
consente lo sviluppo di tutte le altre facoltà dell’anima
8. i materialisti Nessuno dei maggiori filosofi e scienziati dell’Illuminismo francese professa in modo esplicito il materialismo, anche se, come abbiamo visto, l’ideale che li domina è quello di una descrizione del mondo naturale che si attenga strettamente ai fatti, e che conceda il meno possibile alle ipotesi metafisiche. Sulle orme di Locke, gli illuministi ammettono di solito la possibilità che la materia, la cui essenza ci è sconosciuta, abbia ricevuto da Dio, tra le altre qualità, anche la facoltà del pensiero che caratterizza gli esseri umani; ma si rifiutano di ammettere che la materia e la causalità materiale costituiscano l’unica realtà esistente. Eppure la medicina settecentesca stava accumulando un gran numero di osservazioni che La tesi di fondo mostravano come non soltanto le sensazioni e le emozioni, ma anche l’immaginazione, del materialismo la memoria e l’intelligenza fossero influenzate dall’attività di certi organi corporei (i sensi per primi) e dalle loro condizioni, nonché dalla struttura anatomica e dall’età del soggetto, dalla sua salute, dall’alimentazione e via dicendo. Proprio su queste osservazioni della medicina fa leva il materialismo, la cui tesi fondamentale è che nell’uomo e fuori dell’uomo agisca un unico tipo di causalità, ovvero la causalità della materia. Tra i maggiori sostenitori di questa tesi ricordiamo La Mettrie, d’Holbach e Helvétius. L’opera principale del medico e filosofo Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751) è il sag- La mettrie gio L’homme machine (“L’uomo macchina”), pubblicato nel 1748, in cui si sostiene che l’essere umano non è altro che una macchina, per quanto complessa.
425
Non ha dunque senso parlare di “anima”, poiché tutte le attività psichiche, che erroneamente vengono attribuite a una qualche facoltà o sostanza “superiore” e “diversa” dal corpo, non sono altro che il prodotto di movimenti corporei, nei quali agiscono e si riflettono i movimenti dell’intero universo. Il comportamento umano è pertanto guidato da una legge naturale, ovvero da quell’unica legge che la stessa natura segue nella propria organizzazione. D’Holbach Paul Henri Dietrich, barone d’Holbach (1723-1789), è autore (sotto lo pseudonimo di
Mirabaud) di un Sistema della natura (1770) in cui pone alla base della propria teoria il principio secondo cui «l’uomo è un essere puramente fisico», sottoposto alla stessa rigida necessità causale che regola i fenomeni naturali. D’Holbach condanna pertanto come illusioni o dannose superstizioni sia le credenze della religione, sia l’idea della libertà individuale, che impediscono agli esseri umani di seguire gli impulsi della propria natura fisica, nei quali risiede la loro unica guida legittima.
Helvétius Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), nell’opera intitolata Dello spirito (1758), espone la
tesi secondo cui la sensibilità fisica è l’unica origine delle idee, tanto che anche giudicare o valutare equivale, in ultima analisi, a “sentire”. Da qui Helvétius ricava la convinzione che il solo movente dell’essere umano sia l’interesse, o l’«amore di sé»: questa è l’unica legge che governa l’universo morale (il comportamento dei singoli e quello delle comunità), così come le leggi del movimento sono le uniche leggi che governano l’universo fisico.
)
Per l’esposizione orale
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1. Che cosa si intende con l’espressione “gnoseologia sensista”? 2. Esponi l’esempio della statua elaborato da Condillac, spiegandone il significato. 3. Qual è la tesi fondamentale del materialismo settecentesco?
UNITÀ 5 Vico, gLi iLLuministi e Rousseau CapITolo 3 l’Illuminismo francese
AUDIOSINTESI
SINTESI
CAPITOLO 3 L’ILLUMINISMO FRANCESE
Gli esponenti e le teorie principali Bayle (1647-1706) nel suo Dizionario storico e critico riconosce alla ragione il compito di sottoporre a una critica radicale le credenze e le istituzioni tradizionali, ma conclude che ci sono problemi che neppure la ragione può risolvere, essendo adatta soltanto a fornire agli esseri umani la coscienza delle tenebre in cui si dibattono. Nella stessa opera Bayle difende con forza l’ideale dell’obiettività come fondamento della ricerca storica. Montesquieu (1689-1755) nello Spirito delle leggi afferma che nel susseguirsi degli eventi storici si può scorgere un ordine che si manifesta in leggi costanti, le quali esprimono il “dover essere” della storia. Il filosofo individua tre tipi fondamentali di governo: la repubblica, la monarchia e il dispotismo; ogni governo si realizza in un insieme di leggi specifiche, che sono legate anche alle circostanze fisiche in cui si svolge la vita di un determinato popolo. Non c’è, secondo Montesquieu, una forma di governo che per sua natura garantisca la libertà politica dei cittadini: essa può essere conseguita soltanto in un governo moderato, fondato sulla divisione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Affrontando il problema del male, Voltaire (16941778) afferma che il male del mondo è una realtà ineliminabile e un mistero insondabile, che la ragione umana non è in grado di spiegare. Per questo egli critica l’ottimismo metafisico di Leibniz e si oppone a ogni spiegazione provvidenzialistica dell’universo. Quanto alla miserevole condizione umana, secondo Voltaire non si può fare altro che accettarla serenamente. Aderendo alla prospettiva del deismo, Voltaire afferma l’esigenza di una religione razionale, fondata su princìpi universali. Riguardo alla storia, infine, egli la fa coincidere con il progresso della ragione, che si libera dai pregiudizi e si afferma come guida della vita associata.
L’Enciclopedia Tra il 1751 e il 1772 viene data alle stampe l’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, un’opera dominata dalla figura di Diderot (17131784), fautore di un rinnovamento radicale di tutti i settori della cultura e della vita, e tenace assertore dell’importanza del dubbio come stimolo all’azione della ragione. Riguardo al divino, Diderot oscilla tra il deismo e una visione panteistica, che intende Dio alla stregua di una sensibilità diffusa che si manifesta nella realtà in gradi diversi. Fino al 1758 d’Alembert (1717-1783) collabora con Diderot all’Enciclopedia, di cui scrive il “Discorso preliminare”. Qui classifica il sapere in tre branche: la storia, basata sulla memoria, la filosofia, fondata sulla ragione, e le arti belle, legate all’immaginazione. D’Alembert prospetta inoltre la possibilità di mettere in atto un’indagine metafisica che discuta la validità dei princìpi delle singole scienze e ne analizzi i concetti comuni, mentre rifiuta la metafisica tradizionale.
Il sensismo e il materialismo Condillac (1715-1780) propone una gnoseologia sensista. Attraverso l’esempio della statua di marmo, dimostra che le sensazioni caratterizzano la natura umana in maniera peculiare, consentendo lo sviluppo di tutte le altre facoltà dell’anima e il riconoscimento del mondo esterno. Il materialismo illuministico si identifica invece con la tesi secondo cui sia nell’essere umano sia al suo esterno agisce esclusivamente la causalità della materia. In questa prospettiva La Mettrie sostiene che tutte le attività psichiche sono prodotte da movimenti corporei; d’Holbach afferma che l’uomo dovrebbe essere libero di seguire gli impulsi della propria natura fisica, unica sua guida legittima; Helvétius riconosce nell’interesse o «amore di sé» l’unica legge morale che muove gli esseri umani all’azione.
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MAPPE
CAPITOLO 3 L’ILLUMINISMO FRANCESE I MAGGIORI ESPONENTI DELL’ILLUMINISMO IN FRANCIA sono
Bayle
Montesquieu
Voltaire
che afferma
che sostiene
che afferma
l’esigenza di sottoporre a critica le credenze e le istituzioni tradizionali l’ideale dell’obiettività storica
l’esistenza di un ordine della storia, che si manifesta in leggi costanti l’influenza delle condizioni fisiche sulle leggi e sui costumi dei popoli la divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) come garanzia di libertà
la realtà ineliminabile del male l’esistenza di un Dio creatore indifferente ai destini umani la necessità della tolleranza, contro ogni fanatismo la presenza di un ordine nella storia, intesa come progresso della ragione
I PRINCIPALI ENCICLOPEDISTI sono
Diderot
D’Alembert
che considera
che oscilla
che distingue
che rifiuta
la ragione come unica guida dell’essere umano
tra deismo e panteismo
memoria (su cui si fonda la storia) ragione (su cui si fonda la filosofia) immaginazione (su cui si fondano le arti belle)
la metafisica tradizionale
ALTRE PROSPETTIVE FILOSOFICHE sono
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la gnoseologia sensista (Condillac)
il materialismo (La Mettrie, d’Holbach, Helvétius)
secondo cui
secondo cui
il principio da cui derivano tutte le facoltà umane è la sensazione
ogni realtà e ogni cambiamento sono riconducibili a materia in movimento
UNITÀ 5 Vico, gLi iLLuministi e Rousseau CapITolo 3 l’Illuminismo francese
CAPITOLO 3 L’ILLUMINISMO FRANCESE
montesquieu
Tra il 1729 e il 1734 Montesquieu compie lunghi viaggi in Germania, Ungheria, Italia e Inghilterra. Particolarmente importante per la sua formazione politica è il suo soggiorno a Londra, dove può frequentare la corte ed entrare in contatto con molti uomini politici, approfondendo la conoscenza delle leggi e delle consuetudini inglesi, e della reale vita politica del paese. La teoria della divisione dei poteri è uno dei risultati più noti di questa fruttuosa esperienza. TESTO
1
La tripartizione delle funzioni fondamentali dello Stato (Lo spirito delle leggi) IL TESTO NELL’OPERA Lo Spirito delle leggi è un’opera in 2 volumi articolati in 32 libri, frutto di 14 anni di lavoro. Si tratta di una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento. In essa Montesquieu si propone di analizzare le diverse forme del diritto civile e dei governi, e le loro relazioni con la natura fisica e con la natura umana. A questo scopo egli si avvale sia del razionalismo e del giusnaturalismo classici, sia di un’innovativa prospettiva storica e sociologica. Il testo che segue fa parte del libro XI, in cui si tratta della monarchia inglese e dello Stato di diritto nato dalla “Gloriosa rivoluzione” del 1688. È qui enunciata la teoria della distinzione dei poteri, che in parte era già stata elaborata da Locke ( p. 317): Montesquieu la rinviene nell’ordinamento inglese, la perfeziona e la assume come fulcro dello Stato di diritto.
i poteri In ogni Stato esistono tre tipi di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose dipenlegislativo, denti dal diritto delle genti e il potere esecutivo delle cose dipendenti dal diritto civile. 2 esecutivo e giudiziario In forza del primo, il principe o il magistrato fa leggi, aventi una durata limitata o illimita-
ta, e corregge o abroga quelle già fatte. In forza del secondo, fa la pace o la guerra, invia o 4 riceve ambasciate, garantisce la sicurezza, previene le invasioni. In forza del terzo, punisce i delitti o giudica le cause fra privati. Chiameremo quest’ultimo il potere di giudicare, e l’al- 6 tro semplicemente il potere esecutivo dello Stato.
una garanzia La libertà politica in un cittadino è quella tranquillità di spirito che deriva dalla persuasio- 8 di libertà per ne che ciascuno ha della propria sicurezza; perché si goda di tale libertà, bisogna che il goi cittadini
verno sia in condizione di liberare ogni cittadino dal timore degli altri. Quando in una 10
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stessa persona o nello stesso corpo di magistrati il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non c’è più libertà; perché sussiste il legittimo sospetto che lo stesso monarca o lo stesso senato possa fare leggi tiranniche per poi tirannicamente farle eseguire. Così non c’è più libertà se il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Infatti, se fosse unito al potere legislativo, ci sarebbe una potestà arbitraria sulla vita e la libertà dei cittadini, in quanto il giudice sarebbe legislatore. Se poi fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza d’un oppressore. Tutto sarebbe perduto, infine, se lo stesso uomo o lo stesso corpo dei governanti, dei nobili o del popolo, esercitasse insieme i tre poteri: quello di fare leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni e quello di giudicare i delitti o le cause fra privati. Nella maggior parte dei regni europei, il governo è moderato perché il principe, che detiene i due primi poteri, lascia ai suoi sudditi l’esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove i tre poteri sono riuniti nelle mani del sultano, il regno è uno spaventoso dispotismo […]. (Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro XI, cap. 6, trad. it. di M. Ghio, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1968, vol. XIV, pp. 508-509)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE I poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (rr. 1-7) Il primo potere (legislativo) consiste nel promulgare le leggi e nell’abrogare quelle già esistenti (si noti che in questo passo, alla r. 3, si parla di «magistrato», mentre alla r. 13 si parlerà di «senato»). Le leggi – e quindi il “fare le leggi” – hanno grande importanza nell’opera di Montesquieu, tanto che egli si preoccupa, come evidenzia il titolo dell’opera, di delinearne con precisione lo «spirito». Nel libro I il filosofo francese afferma che «la legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra; le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono essere altro che i casi particolari ai quali si applica tale umana ragione». Il secondo potere (esecutivo) consiste essenzialmente nell’intrattenere rapporti di pace o di guerra con gli altri paesi per garantire la sicurezza pubblica. Il terzo potere (giudiziario) consiste infine nel punire i delitti e nel giudicare le cause tra i privati.
Una garanzia di libertà per i cittadini (rr. 8-23) Ogni forma di governo deve tendere alla libertà politica del cittadino, ovvero a una condizione di «tranquillità di spirito» (r. 8) derivante dalla percezione della propria sicurezza. Questa libertà è garantita soltanto nell’ordinamento in cui ogni forza individuale è limitata e contenuta da un’altra forza opposta. Al contrario, la libertà è compromessa quando due dei poteri elencati si uniscono in una stessa persona o in uno stesso gruppo di persone, perché in tal caso chi governa dispone di un potere arbitrario sui cittadini, trasformandosi così in un potenziale oppressore. È il caso della maggior parte dei regni europei, che Montesquieu definisce comunque “moderati”, perché all’unione dei poteri legislativo ed esecutivo nelle mani del monarca oppongono l’esercizio del potere giudiziario da parte del popolo. Diverso è il caso in cui tutti e tre i poteri sono riuniti: il regno si trasforma in uno «spaventoso dispotismo» (r. 23).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Diversamente da Montesquieu, Hobbes ( p. 284) è decisamente contrario alla divisione dei poteri: a suo avviso, se questi agiscono di concerto non c’è ragione di tenerli separati, se invece agiscono in disaccordo allora siamo già di fronte al primo passo verso la guerra civile. Nel Leviatano si legge: «se noi consideriamo singolarmente ciascuno dei detti diritti [dei diritti, cioè, conferiti al sovrano], noi vedremo che conservare tutti gli altri, senza di quello, non servirà a niente per quanto riguarda la conservazione della pace e della giustizia, lo scopo cioè per il quale ogni Stato viene fondato. E questa divisione è quella riguardo alla quale si dice: un regno diviso in se stesso non può stare in vita». Alla luce del testo che hai letto e attingendo alle tue conoscenze, immagina quale potrebbe essere la replica di Montesquieu alle parole del filosofo inglese (max 25 righe).
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Voltaire
A differenza di Montesquieu, che fu a Londra più o meno nello stesso periodo in cui vi soggiornò Voltaire (1726-1728), quest’ultimo rimase colpito non dalle istituzioni degli inglesi (il modello politico ideale di Voltaire sarebbe sempre rimasto quello dell’assolutismo illuminato), ma dalla loro mentalità aperta e dinamica, legata ai valori della libertà e della tolleranza. TESTO
2
La tolleranza come esigenza della ragione (Trattato sulla tolleranza)
IL TESTO NELL’OPERA L’occasione che dà origine al Trattato sulla tolleranza si presenta nel 1763, quando a Tolosa viene condannato a morte un protestante, un certo Jean Calas, accusato di avere strangolato suo figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. L’efferatezza dell’esecuzione, decretata sulla base di prove inattendibili e di testimonianze tendenziose, spinge Voltaire a un accorato appello alla tolleranza che si traduce appunto nel Trattato. Mobilitando tutte le sue conoAUDIOLETTURA scenze, spendendo il suo denaro e utilizzando la sua penna, Voltaire riesce a dimostrare che Calas era innocente; la sua famiglia verrà quindi scarcerata e risarcita. Il testo proposto di seguito contiene la preghiera al «Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi» (rr. 8-9) perché rinsaldi la fratellanza tra gli esseri umani. una fede che Ragionando in buona fede, la nostra religione, per il fatto che è divina, dovrebbe forse imnon si può porsi con l’odio, con la persecuzione, l’esilio, la confisca dei beni, la prigione, la tortura, il 2 imporre con la forza delitto e per giunta rendere grazie a Dio per tali delitti? Quanto più la religione cristiana è
divina, tanto meno toccherà all’uomo imporla. Se Dio l’ha fatta, Dio la sosterrà anche sen- 4 za di voi. Ricordate che l’intolleranza non produce che ipocriti o ribelli: quale funesta alternativa! Infine, vorreste far difendere dal boia la religione di un Dio che dal boia è stato 6 ucciso, e che non ha predicato se non la dolcezza e la pazienza? […]
L’appello Non mi rivolgerò dunque più agli uomini; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e 8 contro l’odio e di tutti i tempi: se è permesso a deboli creature perdute nell’immensità e impercettibili al la persecuzione
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TESTI VOLTAIRE
resto dell’universo osare di domandarti qualcosa, a te che tutto hai donato, a te i cui decreti sono immutabili quanto eterni, degnati di considerare pietosamente gli errori connessi alla nostra natura: che questi errori non siano per noi fonte perenne di calamità. Tu non ci hai dato un cuore perché ci odiassimo, mani perché ci sgozzassimo; fa’ che sappiamo aiutarci vicendevolmente a sopportare il fardello d’una vita penosa e breve; che le piccole differenze intercorrenti fra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, fra i nostri imperfetti linguaggi, fra tutte le nostre ridicole usanze, fra tutte le nostre leggi imperfette, fra tutte le nostre opinioni insensate, fra tutte le nostre condizioni così disparate agli occhi nostri e così uguali ai tuoi; che tutte le lievi sfumature distinguenti quegli atomi chiamati uomini, non siano segnacoli di odio e di persecuzione. Che coloro i quali accendono ceri in pieno giorno per celebrarti, sopportino coloro che si contentano della luce del tuo sole; che coloro i quali ricoprono le loro tonache con una tela bianca per significare che bisogna amarti, non odino coloro i quali affermano la stessa cosa ricoperti da un mantello di lana nera; che sia considerata la stessa cosa l’adorarti servendosi di un’antica lingua, o adoperandone una più recente; che gli uomini rivestiti di abiti rossi o violetti, che dominano su una piccola parte del piccolo ammasso di fango di questo mondo, che posseggono qualche tondeggiante frammento di un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò ch’essi chiamano grandezza e ricchezza; e che gli altri uomini li sopportino senza invidia: tu sai infatti che in tali vanità non c’è nulla da invidiare né di cui inorgoglirsi.
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L’invito alla Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Aborrire la tirannia esercitata sulle fratellanza anime, così come hanno in esecrazione il brigantaggio, che sottrae con la violenza il frutto 30
del lavoro e della pacifica industria! Se i flagelli della guerra sono inevitabili, almeno non odiamoci, non straziamoci a vicenda nei tempi di pace, e impieghiamo l’istante della no- 32 stra esistenza a benedire ugualmente in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato quest’istante! 34 (Voltaire, Trattato sulla tolleranza, in Grande antologia filosofica, cit., vol. XIV, pp. 558-559)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Una fede che non si può imporre con la forza (rr. 17) In queste pagine del Trattato sulla tolleranza Voltaire sta parlando del diritto di ogni individuo a credere soltanto alla propria ragione, sottolineando tuttavia che c’è una differenza tra la religione cristiana, che è opera di Dio, e tutte le altre religioni, che sono opera dell’uomo. Su questo tema si inseriscono le righe qui riportate: proprio per il fatto che è divina, la religione cristiana non deve essere imposta con l’odio, con la persecuzione, con la tortura e con il delitto. Voltaire si rifà in questo senso a un principio fondamentale formulato da Bayle a proposito dell’esegesi biblica: è falsa ogni interpretazione che vada contro i princìpi morali e che implichi la raccomandazione o la giustificazione del delitto. Inoltre, poiché Cristo «non ha predicato se non la dolcezza e la pazienza» (r. 7), un cristiano intollerante è in realtà un ipocrita, perché non segue l’insegnamento di Cristo. Il fondamento dell’intolleranza, quindi, non si trova nel messaggio di Cristo, ma nell’interpretazione che di esso viene data. L’appello contro l’odio e la persecuzione (rr. 828) Voltaire rivolge il suo appello a Dio stesso, in un vibrante inno di lode che va al di là delle sue stesse
concezioni deistiche. Richiamando la fragilità e la miseria che caratterizzano l’essere umano, Voltaire ne fa gli aspetti costitutivi e fondanti della tolleranza: la nostra vita è «penosa e breve» (r. 14), le nostre usanze «ridicole» (r. 16), le nostre leggi «imperfette» (r. 16). In fondo noi uomini non siamo che «atomi» (r. 18) distinti l’uno dall’altro da «lievi sfumature» (r. 18), e proprio perché siamo tutti “impastati” di debolezze e di errori, dobbiamo perdonarci reciprocamente. Nessuno ha il diritto di giudicare gli altri e di sentirsi a loro superiore, ma tutti dobbiamo imparare a essere tolleranti. L’invito alla fratellanza (rr. 29-34) Per indurre alla tolleranza Voltaire richiama in queste righe un altro tema caro all’Illuminismo: quello della fratellanza universale. Poiché tutti gli esseri umani sono fratelli, non è possibile giustificare chi perseguita un individuo perché non è della sua opinione. Se le guerre sono inevitabili, almeno in tempo di pace bisognerebbe evitare l’odio reciproco: ancora una volta Voltaire supporta il suo appello alla tolleranza con una considerazione “ragionevole”, sottolineando così come la tolleranza sia un’esigenza fondamentale della ragione.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Rifletti sul valore delle tesi di Voltaire per una società, come quella contemporanea, in cui gli episodi di intolleranza non sono infrequenti. Ti sembra che, rispetto all’epoca in cui visse il filosofo, la situazione sia progredita per quanto riguarda l’accettazione dell’“altro” (lo straniero, il diverso, l’avversario politico ecc.)? Rispondi in modo argomentato in un testo scritto (max 35 righe).
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UNITÀ 5 Vico, gLi iLLuministi e Rousseau CapITolo 3 l’Illuminismo francese
CAPITOLO 4 ROUSSEAU
L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene. C’è chi si crede padrone di altri, ma è più schiavo di loro. Come è avvenuto questo cambiamento? ( J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, I, 1)
Personalità inquieta, riservata e per certi versi scontrosa, Jean-Jacques Rousseau si inserisce nel quadro della riflessione degli illuministi, dai quali tuttavia lo distanzia l’idea che il progresso non costituisca necessariamente un miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità, ma celi in sé i germi dell’ingiustizia e della corruzione. L’intera esistenza di Rousseau, come tutta la sua opera, non è che un tentativo di ricomporre la tensione esistente tra l’uomo “naturale” e l’uomo “civilizzato”, tra la vita spontanea e libera dell’individuo che pensa a sé stesso, e la vita associata, fatta di regole e convenzioni che possono diventare soffocanti e ingiuste.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Dal “paradiso” infantile all’impatto con la società
‘
Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura, e quest’uomo sarò io, io solo. Non sono come alcun altro da me conosciuto, e oso credere di non essere fatto come alcun altro che esista. Se non valgo di più, sono, almeno, diverso. (J.-J. Rousseau, Le confessioni)
Un uomo «diverso» e inquieto
Con le parole riportate nel riquadro Jean-Jacques Rousseau inizia le sue Confessioni, una memorabile opera autobiografica in cui, ormai anziano e profondamente segnato dalla sofferenza, svela gli aspetti spigolosi, fragili e contraddittori della propria personalità, scorgendovi il segno di una individualità irripetibile. Ripercorrendo le eccezionali peripezie della sua vita e i difficili eventi del suo passato, il filosofo mette a nudo il proprio io, esplorandone le pieghe più nascoste e ricomponendo nel ricordo le schegge di un’esistenza ondivaga, scontrosa e dolorosa. Se le Confessioni di Agostino erano lo svelamento della luce divina all’interno dell’anima, quelle di Rousseau sono un atto di ricerca dell’autenticità dell’io in una società che egli giudica corrotta, ipocrita e dominata dall’opacità delle relazioni. Un dato, in particolare, emerge costante dalle pagine di questa autobiografia: il tormento di una vita segnata da una tensione insanabile tra il sentimento, impetuoso e travolgente, e la ragione, lucida e pacata:
‘
Due cose quasi inconciliabili si uniscono in me senza che io possa capire come: un temperamento molto ardente, delle passioni vive, impetuose; e delle idee lente a nascere, impacciate, e che si presentano sempre troppo tardi. Si direbbe che il mio cuore e la mia testa non appartengano allo stesso individuo. (Le confessioni, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Milano 1993, p. 808)
I giorni sereni dell’infanzia Rousseau nasce a Ginevra il 28 giugno 1712, da Isaac, modesto orologiaio, e da Suzanne Bernard, che muore nove giorni dopo il parto: «Costai la vita a mia madre – racconterà il filosofo – e la mia nascita fu la prima delle mie sventure» (Le confessioni, in Opere, cit., p. 748). Cagionevole di salute, il piccolo Jean-Jacques cresce ricevendo le attente cure del padre, che gli è compagno di lunghe letture notturne di romanzi e testi classici. Il fratello, di sette anni più grande, se ne va di casa in giovanissima età e sceglie la strada del vagabondaggio in Germania. Nelle Confessioni, Rousseau ricorda la propria infanzia come un’età spensierata, trascorsa in un ambiente amorevole e protettivo, in cui sarebbe stato impossibile sviluppare un’indole malvagia:
‘
I figli dei re non potrebbero essere più curati di quanto non lo sia stato io nei miei primi anni […], trattato sempre da figlio prediletto senza essere viziato. […] Come avrei potuto diventare cattivo, se sotto gli occhi non avevo che esempi di dolcezza, e attorno a me le migliori persone del mondo? (Le confessioni, in Opere, cit., p. 750)
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau IL RACCONTO DI UNA VITA
I primi studi e le prime amarezze L’infanzia felice di Jean-Jacques si interrompe bruscamente nel 1722, quando il padre, di carattere passionale e litigioso, in seguito a una rissa abbandona Ginevra per sfuggire all’arresto, e affida il figlio di appena dieci anni alla tutela dello zio materno, Abrahm Bernard. Questi lo alloggia presso il pastore calvinista Jean-Jacques Lambercier, nel villaggio di Bossey, dove il piccolo ha modo di apprezzare l’incanto della campagna. Qui Rousseau può dedicarsi agli studi, imparando il latino e «tutta la minuta cianfrusaglia che l’accompagna con il nome di educazione». Sarebbe per lui un periodo abbastanza sereno, se non fosse per la severità della governante, la signorina Gabrielle Lambercier, sorella del pastore, che infligge al ragazzo pesanti punizioni corporali. Un episodio, in particolare, acquista un significato indelebile nella mente del giovane Jean-Jacques. La signorina Lambercier lo accusa di aver spezzato un pettine e lo punisce con violenza, per estorcergli una confessione che egli tuttavia non può concedere, dal momento che non ha commesso il fatto:
‘
Quello che sentivo era solo la durezza di una punizione terribile per una colpa che non avevo commesso. […] Questa prima impressione della violenza e dell’ingiustizia è rimasta così profondamente incisa nella mia anima che tutte le idee che vi si riferiscono me la fanno (Le confessioni, in Opere, cit., pp. 755-756) rivivere.
L’incontro con madame de Warens Nel 1725, a tredici anni, Rousseau abbandona Bossey e torna a Ginevra, per lavorare prima come scrivano di un cancelliere, e poi come apprendista di un incisore. Tre anni dopo si verifica la prima grande svolta della sua vita: il 28 marzo 1728, avvilito per le ingiustizie e i maltrattamenti subìti dai suoi padroni, il sedicenne Jean-Jacques decide di lasciare il lavoro, dando inizio a un’esistenza di pellegrino inquieto. La sua prima tappa è Annecy, nell’Alta Savoia, dove viene accolto da madame de Warens, una giovane gentildonna svizzera da poco convertitasi al cattolicesimo e impegnata per conto della Chiesa cattolica e di casa Savoia a diffondere la sua nuova religione fra i protestanti. Tra i due si crea un legame affettivo profondissimo. Nella donna (che lo chiama Petit, “Piccolo”, e che lui chiama Maman, “Mammà”), Jean-Jacques ritrova la madre persa prematuramente. In breve tempo il giovane si lascia convincere a convertirsi anch’egli: dopo aver abiurato la fede calvinista, il 23 aprile 1728 riceve il battesimo cattolico. A questo punto si apre per Rousseau un nuovo periodo di spostamenti tra la Savoia, il Piemonte e la Svizzera, durante i quali si procura da vivere praticando umili mestieri (segretario, cameriere ecc.) presso famiglie signorili.
Les Charmettes: un breve momento di felicità Dopo alcuni anni di vita errabonda, Rousseau torna presso madame de Warens e intreccia con lei un rapporto amoroso appassionato e complesso. Nel 1736 i due si trasferiscono a “Les Charmettes”, una tenuta in campagna nelle vicinanze di Chambéry. In questa enciclosofia madame de Warens Louise-Éléonore Delatour Depil (1699-1762) diventò baronessa di Warens nel 1713, quando ad appena quattordici anni venne data in sposa al barone Sébastien Isaac de Loys. Anima inquieta e romantica, ben presto lasciò il marito e si trasferì ad Annecy (vicino a Chambery), dove condusse una vita dai costumi piuttosto liberi per il suo tempo. Nel 1726 si convertì al cattolicesimo e cominciò un’opera di evangelizzazione stipendiata dalla Chiesa e dal re di Sardegna. Nel 1728 conobbe Rousseau, con cui per un certo periodo intrattenne una relazione amorosa.
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«casa isolata sul declivio di una valle», il giovane può leggere e studiare religione, filosofia, matematica e scienze. Immerso nella natura, negli studi e nell’amore, vive un tempo felice, «l’unico e breve tempo – egli dice – nel quale fui pienamente me stesso»:
‘
Mi alzavo col sole, ed ero felice; passeggiavo ed ero felice; vedevo mammà ed ero felice; scorrazzavo per i boschi, per i pendii, vagavo per i valloni, leggevo, restavo in ozio, lavoravo in giardino, raccoglievo i frutti, aiutavo in casa, e la felicità mi seguiva ovunque; non era in nessuna (Le confessioni, in Opere, cit., p. 872) cosa, era in me, non poteva lasciarmi un solo istante.
Lione, Parigi e Venezia: l’impatto con la società urbana Fra il 1737 e il 1738, cessato l’incanto di un rapporto non privo di alti e bassi, madame de Warens allontana Jean-Jacques, che vive il dolore di un nuovo abbandono. Dopo aver nuovamente vagabondato tra la Svizzera e la Francia, nel 1740 il giovane si trasferisce a Lione, per lavorare come precettore nella casa di un magistrato fratello dell’abate Mably e del filosofo Condillac ( cap. 3, p. 424). Nel 1742 è a Parigi, dove partecipa alla vita culturale della capitale conoscendo artisti, musicisti, scienziati e filosofi, e accostandosi all’Illuminismo. Nel 1743 è a Venezia come segretario dell’ambasciatore francese e ha modo di rendersi conto dell’importanza della politica («avevo intuito che tutto dipende dalla politica»). Nella città lagunare Rousseau non trova la serenità idilliaca della campagna, ma il turbinare della vita mondana: viaggia in portantina incipriato e imparruccato, e partecipa alle feste danzanti di un’aristocrazia ricca e gaudente. L’avventura veneziana lo induce a riflettere sulle disuguaglianze sociali: un tema che diverrà costante nelle sue opere.
Il legame con Thérèse Levasseur Nel 1744 Rousseau ritorna a Parigi, dove comincia a farsi conoscere per i suoi interessi musicali e teatrali. Nel 1745 inizia una relazione con una donna giovane e incolta, Thérèse Levasseur (1721-1801). Da lei avrà cinque figli, che affiderà tutti, secondo un diffuso costume dell’epoca, all’Ospizio dei Trovatelli, sia in omaggio alla teoria platonica dell’educazione della prole per opera dello Stato (motivo ideale), sia per evitare che siano di intralcio ai suoi impegni (motivo concreto). Per quanto gli amici la giudichino ridicola, la relazione con Thérèse si protrarrà per trent’anni, fino alla morte del filosofo.
L’“illuminazione” di Vincennes e il primo Discorso Nonostante le ristrettezze economiche e il duro ménage familiare, a Parigi Rousseau continua a frequentare la cerchia dei philosophes. Nel 1749, su incarico di Diderot, redige per l’Enciclopedia alcuni articoli di argomento musicale, ma in quello stesso anno proprio Diderot viene arrestato e incarcerato nel castello di Vincennes a causa di certe sue pubblicazioni sovversive. Nell’ottobre 1749, mentre si reca in visita all’amico prigioniero, Rousseau legge casualmente su un giornale il bando di un concorso promosso dall’Accademia di Digione, che pone il quesito se le scienze e le arti abbiano contribuito a migliorare i costumi degli uomini. enciclosofia abate Mably Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), fratello di Étienne Bonnot de Condillac. Formatosi in un seminario gesuita, nel 1742 abbandonò la carriera ecclesiastica per entrare nel corpo diplomatico francese. Nel 1746 lasciò la diplomazia e si dedicò allo studio. È ricordato soprattutto per le sue idee sulla proprietà privata (da lui considerata l’origine dei mali della società) e per la teorizzazione di uno Stato egualitario.
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau IL RACCONTO DI UNA VITA
L’annuncio lo induce a riflettere, provocando in lui un’“illuminazione” che lo trasforma profondamente, decidendo del suo destino intellettuale:
‘
Non appena lessi questo, vidi un altro universo e divenni un altro uomo. […] I miei sentimenti ascesero con la più inconcepibile rapidità al tono delle mie idee. Tutte le mie piccole passioni furono soffocate dall’entusiasmo per la verità, la libertà, la virtù, e la cosa più sorprendente è che questa effervescenza si mantenne nel mio cuore per più di quattro o cinque anni, come non è mai stata nel cuore di un altro uomo. (Le confessioni, in Opere, cit., p. 946)
In breve Rousseau redige un Discorso sulle scienze e le arti (1750) in cui condanna il progresso come sinonimo di corruzione: grazie a tale scritto non soltanto vince il concorso, ma ottiene anche un’improvvisa fama.
Il ritorno a Ginevra: l’illusione di una città ideale Nel 1752 Rousseau compone il melodramma L’indovino del villaggio, che viene rappresentato a Fontainebleau alla presenza del re. Questi gli propone anche una pensione, che tuttavia il filosofo rifiuta, sia per coerenza con le proprie idee, sia per un senso di fastidio nei confronti della società benestante. Per questo nel 1754 ritorna a Ginevra, dove si riconverte al calvinismo e ottiene la cittadinanza. Diventare «cittadino di una città libera» significa per lui ritornare alle origini, all’innocenza di un mondo felice perché ancora immune dalla corruzione che affligge i grandi centri urbani come Parigi ( “Dalla vita al pensiero”).
La ricerca di una “patria”: i luoghi-simbolo della vita di Rousseau DALLA VITA AL PENSIERO
Tra i molteplici luoghi visitati e vissuti da Rousseau, ve ne sono tre in particolare che esercitano sulla sua formazione intellettuale un’influenza decisiva: Les Charmettes, Parigi e Ginevra. Questi tre luoghi assumeranno nella riflessione politica di Rousseau il significato simbolico di tre diverse fasi dell’esistenza individuale, corrispondenti alle tre condizioni attraversate dall’umanità nella sua storia.
Les Charmettes «Qui si inizia la breve felicità della mia vita», osserva Rousseau a proposito delle Charmettes. Sede dell’amore giovanile con madame De Warens, la tenuta delle Charmettes è per lui il simbolo della primigenia felicità dell’essere umano, che vive guidato soltanto dall’istinto e dal sentimento, immerso nell’innocenza della natura. Parigi La metropoli parigina è invece il simbolo di una civiltà decadente e corrotta, in cui gli esseri umani hanno ormai abbandonato la vita naturale e istintiva, e sono entrati nella rete di convenzioni e regole che governa la vita sociale. Quelli parigini sono per Rousseau anni opprimenti e dolorosi, durante i quali il filosofo sperimenta, accanto alla vanità della vita mondana, anche la miseria e la fame, e di conseguenza lo sdegno per le ingiustizie sociali. «Disgustato dalla società e dal commercio con gli
uomini», egli considera Parigi come «una città dove domina l’arroganza, e i poveri virtuosi sono oggetto di disprezzo».
Ginevra Fuggito da Parigi, Rousseau approda a Ginevra, in cui crede di trovare la città “ideale”. Essa rappresenta il terzo luogo simbolico di una vicenda individuale e al tempo stesso universale: una società che ha saputo superare le ingiustizie e i privilegi di una classe aristocratica corrotta. I ginevrini vivono in osmosi con una natura selvaggia e maestosa; sono contadini e artigiani vigorosi e fieri che, pur all’interno di una società regolata da norme, usi e costumi, sono ancora capaci di condividere il frutto del loro lavoro per alleviare la povertà del vicino. Ma, al di là del paesaggio naturale che la circonda e delle virtù morali dei suoi abitanti, Ginevra per Rousseau costituisce anche l’espressione di un ideale politico: quello di una comunità democratica, il cui governo è affidato al popolo grazie ad alcune istituzioni (come il Consiglio Generale, assemblea di cui entra a far parte lo stesso Rousseau) a cui possono partecipare tutti i cittadini. Ginevra si presenta dunque come il modello di una nuova umanità e di un nuovo ordine socio-politico: quello che Rousseau delineerà nel suo capolavoro: il Contratto sociale (1762).
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Il ritorno in Francia e il secondo Discorso Purtroppo la convinzione di aver trovato una patria buona e giusta si rivelerà ben presto un’illusione: Ginevra accoglie Rousseau con freddezza, facendolo sentire esule ed estraneo. Nel 1755, inoltre, in Svizzera si trasferisce anche Voltaire, che un tempo Rousseau ammirava come maestro, ma che ora gli appare come un simbolo di corruzione e del falso mito del progresso. Deluso dunque anche da Ginevra e dalla Svizzera, Rousseau decide di tornare in Francia, dove nel 1754 partecipa a un altro concorso letterario con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, che sarà pubblicato l’anno seguente. Pur senza ottenere il primo premio, questo secondo Discorso suscita interesse e polemiche tra gli illuministi, i quali interpretano le tesi di Rousseau come un nostalgico elogio dello stato ferino, contrapposto alla condizione civile. Nello stesso anno il filosofo scrive per l’Enciclopedia la voce “Economia politica”, ma ormai ha cominciato a sviluppare nei confronti degli esponenti dell’Illuminismo una sorta di manìa di persecuzione che renderà impossibile comunicare proficuamente con loro.
Dal successo alla persecuzione e all’isolamento La composizione dei capolavori Nel 1756 Rousseau si trasferisce nel parco della Chevrette, in una zona non molto distante da Parigi, ospitato da madame d’Épinay, la quale provvede a sistemarlo, insieme con Thérèse, in una suggestiva casetta chiamata “L’Ermitage”. Qui il filosofo si innamora della cognata della sua ospite, madame Sophie d’Houdetot (1730-1813), e nella sua mente la 1710
1720
EVENTI STORICI
VITA DI ROUSSEAU
1730
1713
1720
Pace di Utrecht: fine della guerra di successione spagnola
Pace dell’Aia: la Spagna rinuncia alle pretese sull’Italia
1740
1738 Pace di Vienna: fine della guerra di successione polacca
1712
1722
Nasce a Ginevra
È affidato Diviene apprendista incisore al pastore Lambercier
1725
1735-1736 1728
Conosce madame de Warens e si converte al cattolicesimo
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
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Soggiorno alle Charmettes con madame de Warens
1707
1714
1725
1733
Newton: Arithmetica universalis
Fahrenheit inventa il termometro a mercurio; Leibniz: Monadologia
Vico: Scienza nuova
John Kay inventa la spoletta volante
1735 Linneo: Systema naturae
1719 1721 Defoe: Robinson Crusoe
UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau IL RACCONTO DI UNA VITA
Bach: Concerti brandeburghesi
1726 Swift: I viaggi di Gulliver
1740 ca. Canaletto: Il bacino di San Marco verso est
donna amata si sovrappone al personaggio di Giulia, protagonista del romanzo epistolare La nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle Hélöise), che il filosofo sta scrivendo proprio in quel periodo:
‘
vidi la mia Giulia nella signora d’Houdetot e in breve non vidi più che la signora d’Houdetot, ma rivestita di tutte le perfezioni di cui avevo ornato l’idolo fittizio del mio (Le confessioni, in Opere, cit., p. 998) cuore. […] Forza contagiosa dell’amore!
A causa di questo nuovo amore, nel 1757 Rousseau deve allontanarsi da madame d’Epinay e si trasferisce nel castello di Montmorency, ospite del Maresciallo di Luxembourg, il generale François-Henri de Montmorency (1628-1695). Questo è per il filosofo un periodo di particolare fecondità intellettuale, da cui nascono i suoi capolavori: la già citata Giulia o La nuova Eloisa (pubblicata a Londra nel 1760 e a Parigi nel 1761), Il contratto sociale e l’Emilio o Dell’educazione (usciti entrambi nel 1762).
La condanna del Contratto sociale e dell’Emilio Alle persistenti polemiche con i philosophes – con i quali Rousseau aveva rotto ufficialmente nel 1758 – si sommano ben presto le aspre reazioni suscitate dai suoi ultimi scritti, che vengono condannati e bruciati sulle pubbliche piazze. Il 9 giugno 1762 il Parlamento di Parigi condanna l’Emilio e poco dopo (il 19 giugno) il “Petit Conseil” di Ginevra condanna sia l’Emilio sia il Contratto sociale.
enciclosofia madame d’Épinay Louise Tardieu d’Esclavelles (1726-1783), scrittrice francese autrice di memorie e di saggi di argomento morale e pedagogico. Dopo aver divorziato dal marito (l’alto funzionario pubblico Denis d’Épinay), si ritirò nel castello del parco della Chevrette, nella regione dell’Île-de-France, dove divenne l’animatrice di un salotto letterario frequentato dai migliori intellettuali europei del suo tempo.
1740
1750
1760
1770
1748
1757
1763
1776
Pace di Aquisgrana: fine della guerra di successione austriaca
Attentato contro Luigi XV: scoppia la Guerra dei sette anni
Trattato di Parigi: fine della Guerra dei sette anni
Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane
1740
1744
1750
È precettore a Lione
Ritorna a Parigi: interessi musicali e teatrali
Discorso Ritorna a Ginevra sulle scienze e si ri-converte al e le arti calvinismo
1754
1760
1766
1772
1778
Giulia o la Nuova Eloisa (pubblicato a Londra)
È accolto da Hume a Londra
Rousseau giudice di Jean-Jacques
Muore a Ermenonville, ospite del marchese de Girardin
1767
1745
1743
Si lega a Thérèse Levasseur
Hume: Trattato sulla natura umana
Rompe con Hume e ritorna in Francia
1755 Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini
È a Venezia come segretario dell’ambasciatore francese
1739-1740
1780
1748 1750-1758
1759
1762 Contratto sociale ed Emilio, subito condannati; Rousseau si rifugia a Moitiers
1764
1776
Montesquieu: Baumgarten: Aesthetica Condanna ufficiale Beccaria: Dei delitti e delle pene Lo spirito delle dell’Encyclopédie leggi; La Mettrie: 1751 1763 L’uomo macchina Primo volume dell’Encyclopédie Voltaire: Trattato sulla tolleranza
1741
1753
Händel: Il Messia
Goldoni: La locandiera
1768
Smith: Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni
1774
Prima opera di Mozart: Goethe: I dolori del La finta semplice giovane Werther
1777 Alfieri: Della tirannide
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Il 28 agosto dello stesso anno si pronuncia contro l’Emilio anche l’arcivescovo di Parigi (Christophe de Beaumont): «Condanniamo il detto libro come contenente una dottrina abominevole, atta a sradicare la legge naturale e a distruggere i fondamenti della fede cristiana; come asserente massime contrarie alla morale evangelica; come tendente a turbare la pace negli Stati, a far ribellare i sudditi contro l’autorità del loro sovrano». Rousseau replica con una Lettera a Christophe de Beaumont, nella quale attacca il cattolicesimo sperando di ottenere appoggi da parte calvinista, ma il governo di Ginevra risponde vietando la stampa della lettera. Deluso e indignato, il filosofo decide allora di rinunciare alla cittadinanza ginevrina e parte nuovamente alla volta della Francia.
L’ostilità svizzera e la fuga dalla società Dopo aver diviso la propria esistenza tra la nativa Ginevra e la Francia, tra calvinismo e cattolicesimo, alla fine Rousseau si ritrova osteggiato e avversato da entrambe le parti. Pur consapevole di come neppure la “democratica” Svizzera apprezzi le sue idee, nel 1762 è obbligato a tornarvi per evitare in Francia di essere arrestato. Cerca un po’ di pace a Môtiers, un paese svizzero che si trova però in un territorio del re Federico II di Prussia, il quale acconsente al soggiorno. Se nel 1754 l’accoglienza ginevrina era stata fredda, questa volta il ritorno in patria assume un aspetto addirittura drammatico. La crescente ostilità dell’ambiente calvinista – unita allo sdegno provocato da un libello anonimo il cui autore (Voltaire) dipinge Rousseau come un amico infido, un marito infame e un padre snaturato – scatena un linciaggio morale che si traduce ben presto anche in minaccia fisica:
‘
Mi si ammonì dal pulpito, fui chiamato l’Anticristo, e perseguitato nella campagna come un lupo mannaro […]. Già per i sentieri dei ciottoli cominciavano a rotolarmi dietro […]. Infine (Le confessioni, in Opere, cit., p. 1109) […] fui assalito nella mia dimora.
La grandinata di sassi che una sera del 1765 si abbatte sulla sua casa persuade Rousseau ad andarsene. Temendo per l’incolumità fisica propria e di Thérèse, si rifugia con lei nell’isola di Saint-Pierre, sul lago di Bienne (nel cantone svizzero di Berna). È questo
La ricerca della “marginalità” tra natura e società DALLA VITA AL PENSIERO
Soltanto nella solitudine e nell’incontro con la potenza della natura è possibile la vera felicità: è questa una convinzione costante di Rousseau, che nel 1765 lo induce a rifugiarsi nella piccola isola di Saint-Pierre.
Una figura “ai margini” Questa attrazione per la solitudine è un elemento importante per far luce sul pensiero del filosofo ginevrino. Rousseau è in fondo un uomo “del popolo”, che, diversamente dagli intellettuali del suo tempo, vive in una condizione di marginalità sociale che è nello stesso tempo subìta e scelta. Giovane dall’animo irrequieto e vagabondo, egli rimane “diverso” anche quando dall’anonimato si affaccia al gran mondo parigino dei letterati. Il successo, le amicizie con i philosophes e la vita lus-
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau IL RACCONTO DI UNA VITA
suosa dei salotti lo trovano imbarazzato e inadeguato. Perfino nel momento di maggiore fama egli conserva i comportamenti di chi vive “ai margini” della società: si lega a una donna semi-analfabeta, abbandona i figli, si riduce a copiare musica per guadagnarsi da vivere, si allontana bruscamente dall’ambiente della filosofia, cerca inutilmente nuove radici a Ginevra e in Svizzera, per tornare infine, ogni volta, a scegliere la solitudine e il vagabondaggio.
Una tensione irrisolta Quello di essere senza radici, “straniero” nel mondo, è nello stesso tempo un destino crudele e il più grande privilegio che Rousseau rivendica. Ma perché egli sceglie di rimanere ai margini di quel mondo in cui infine è riuscito ad affermarsi?
l’ennesimo tentativo di tornare alla natura quale luogo di incontaminata felicità: l’isola diventa lo spazio reale e simbolico di una scelta di solitudine e marginalità, di una vita lontana dagli artifici di una società opprimente e ostile ( “Dalla vita al pensiero”).
Il breve soggiorno presso Hume Il ritiro a Saint-Pierre dura ben poco: ostili al suo radicalismo politico, le autorità di Berna promulgano un decreto di espulsione che obbliga Rousseau a fuggire di nuovo. Considerato dagli ex amici illuministi uno squilibrato da cui stare alla larga, chiuso in una solitudine scontrosa, nel 1766 il filosofo accetta l’offerta di asilo che David Hume gli aveva fatto l’anno prima e parte per Londra. Ma ormai è in preda a una mania di persecuzione divenuta patologica e cronica: accusa il filosofo scozzese di cospirare con i suoi nemici e, nel 1767, fa ritorno in Francia, dove erra da una città all’altra afflitto da un disagio psichico sempre più marcato.
Il matrimonio con Thérèse e gli ultimi anni Il 13 agosto 1768 Rousseau sposa finalmente Thérèse, in una stanza di albergo a Bourgoin, nella Francia sud-orientale. Ritornato nel 1770 a Parigi, va ad abitare in uno squallido appartamento di via Plâtière (oggi via Rousseau), vicino al Louvre. Qui porta a compimento il suo capolavoro autobiografico, Le confessioni, che verranno pubblicate postume, insieme con una serie di altri scritti: dal Progetto di costituzione per la Corsica alle Considerazioni sul governo di Polonia, dai dialoghi di Rousseau giudice di Jean-Jacques alle Fantasticherie di un viandante solitario. Ormai stanco, malato e psicologicamente instabile, nel maggio 1778 viene accolto dal marchese René de Girardin nel castello di Ermenonville (nella Francia settentrionale), dove muore il 2 giugno dello stesso anno, stroncato da un ictus. Viene sepolto sulla cosiddetta “Isola dei Pioppi”, nello stagno della tenuta del marchese, e il luogo diventa presto mèta di pellegrinaggi. Nel 1794, durante la Rivoluzione, le sue ceneri verranno solennemente trasferite nel Panthéon di Parigi.
Probabilmente, nella solitudine il filosofo trova lo spazio reale e mentale per mostrare a tutti com’è l’uomo “naturale”, l’uomo nella sua vera essenza, non corrotto dalle sovrastrutture della società. Intesa come dimensione esistenziale, la solitudine consente a Rousseau di appartenere esclusivamente a sé stesso e alla natura. Non si tratta, tuttavia, di una scelta univoca: l’intera opera di Rousseau è attraversata da un’insolubile tensione fra solitudine e socialità, fra l’essere per sé stessi e l’essere per il mondo. Quando Diderot afferma perentoriamente che «soltanto il malvagio è solo», il filosofo ginevrino si sente direttamente chiamato in causa dall’amico, e in più passaggi dei suoi scritti e della sua autobiografia si può leggere il
tentativo di difendersi da questo giudizio. In una lettera, in particolare, egli giustifica la propria scelta di isolarsi all’Ermitage dicendo che è impossibile amare gli uomini rimanendo prigionieri delle convenzioni e delle ipocrisie. Così come è impossibile amare l’umanità senza prima liberarla dall’ingiustizia che la opprime: Amo troppo gli uomini per avere bisogno di scegliere fra loro; li amo tutti, ed è proprio perché li amo che odio l’ingiustizia, è perché li amo che li fuggo. (Lettera a Malesherbes del 4 gennaio 1762, in Scritti autobiografici, a cura di L. Sozzi, Einaudi, Torino 1997, p. 1090)
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1. il Discorso sulle scienze e le arti l’“illuminazione” Nell’ottavo libro delle Confessioni Rousseau racconta di come nell’ottobre 1749, mentre di Vincennes si stava recando a far visita a Diderot carcerato a Vincennes, avesse letto sul “Mercure de
France”, di un «quesito proposto dall’Accademia di Digione per il premio dell’anno: Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a corrompere o a purificare i costumi». In realtà, il titolo originale del concorso era: «Si le rétablissement des Sciences et des Arts a contribué à épurer le moeurs» (se la rinascita delle scienze e delle arti abbia contribuito a purificare i costumi). Il fatto che Rousseau, nel suo racconto, aggiunga «a corrompere» è di per sé significativo e rivela il suo punto di vista sull’argomento. Dopo aver letto il bando – prosegue Rousseau – «vidi un altro universo e diventai un altro uomo». E in una famosa lettera a Malesherbes (1762) scrive: «Se mai qualcosa è stato simile a un’ispirazione improvvisa, tale fu il moto che si produsse in me a quella lettura». Da questa ispirazione nasce il Discorso sulle scienze e le arti (1750).
la prefazione: L’opera si divide in due parti, precedute da una prefazione generale in cui Rousseau, conl’invito al scio di muoversi in aperta controtendenza rispetto alla filosofia e alla sensibilità della sua pensiero critico
epoca, rivendica il proprio diritto a pensare in modo critico e autonomo:
‘ ‘
attaccando frontalmente tutto ciò che oggi riscuote l’ammirazione degli uomini non posso aspettarmi che un biasimo universale […] non mi curerò di piacere né agli spiriti raffinati né alla gente alla moda. (Discorso sulle scienze e le arti, “Prefazione”, in Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. 1, p. 3)
la prima parte: Passando quindi alla prima parte del Discorso, Rousseau afferma che le arti, lungi dal pul’opposizione rificare i costumi, hanno contribuito a corromperli. Esse sono infatti ornamenti supertra natura e cultura flui, che servono ad abbellire la realtà delle cose stendendo «ghirlande di fiori» sulle
«ferree catene» che gravano sugli uomini. Inoltre, invitando le persone ad agire secondo «buone maniere», le abituano ad «apparire» piuttosto che a «essere», ovvero a seguire schemi di comportamento artificiali e uniformi, antitetici a quelli naturali:
prima che l’arte avesse modellato le nostre maniere […] i nostri costumi erano rozzi, ma naturali; e la diversità dei comportamenti rivelava al primo sguardo la diversità dei caratteri […]. Oggi […] nei nostri costumi regna una vile e ingannevole uniformità e tutti gli spiriti sembrano usciti dallo stesso stampo […]. Non si osa più mostrarsi come si è […]. Così non si saprà mai bene con chi si ha a che fare. […] Addio amicizie sincere, addio stima reale, addio fiducia fondata. I sospetti, le ombre, i timori, la freddezza, le riserve, l’odio, il tradimento, si nasconderanno senza posa sotto questo velo uniforme e perfido di cortesia, sotto la tanto (Discorso sulle scienze e le arti, I, cit., p. 7) decantata urbanità.
Alla verità e alla virtù, sua fedele compagna, subentra così la menzogna, accompagnata da tutto il suo immancabile “codazzo” di vizi.
enciclosofia Malesherbes Guillaume-Chrétien de Lamoignon de Malesherbes (1721-1794) fu un uomo politico e un magistrato, oltre che un appassionato botanico. Vicino alle idee illuministiche e buon amico di Turgot, quando fu responsabile per il Parlamento parigino del controllo della stampa, favorì la pubblicazione dell’Enciclopedia.
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
Ritratto di Guillaume-Chrétien de Lamoignon de Malesherbes in toga, XVIII secolo, Parigi, Museo Carnavalet.
Tant’è vero che ai vizi della raffinata Atene Rousseau contrappone le virtù della ruvida Sparta:
‘
O Sparta, eterna condanna della vana dottrina! mentre i vizi frutto delle belle arti penetravano in frotta in Atene […] tu bandivi dalle tue mura le arti e gli artisti, le scienze e gli scienziati. (ibidem, p. 11)
E ricorda come popoli inizialmente forti e potenti (ad esempio gli Egizi e i Romani) alla fine siano diventati deboli e dissoluti. Al di là di questa antitesi retorica tra virtù e vizio (che attinge a un’ampia letteratura moralistica), si va profilando nel pensiero di Rousseau un’antitesi ben più radicale: quella tra natura e civiltà, con la conseguente condanna della cultura in nome della natura. Nella seconda parte del Discorso Rousseau passa poi ad analizzare le scienze, mostrando la seconda come, anziché scaturire dalle virtù, esse siano nate da altrettanti vizi (l’astronomia dalla parte: l’origine dei vizi sociali superstizione, l’eloquenza dall’ambizione, la geometria dall’avarizia, la fisica dalla curiosità ecc.), e come, alimentate dall’ozio e dal lusso, abbiano favorito la disuguaglianza sociale e la perdita delle virtù etiche e patriottiche: «abbiamo fisici, geometri, astronomi, poeti, musicisti, pittori; ma non abbiamo più cittadini» (Discorso sulle scienze e le arti, II, cit., p. 23). Pur contenendo qualche ambiguità e incertezza (soprattutto nella parte finale, dove Bacone, Cartesio e Newton vengono definiti «maestri del genere umano» e dove si esortano i prìncipi ad appoggiarsi alle grandi menti), la linea argomentativa del Discorso è dunque chiara, come l’invocazione che Rousseau mette in bocca ai posteri:
‘ ‘
Dio onnipotente […] liberaci dai lumi e dalle arti funeste dei nostri padri; rendici l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possono fare la nostra felicità e che (Discorso sulle scienze e le arti, II, cit., p. 25) siano preziosi al tuo cospetto.
A questo punto sorge spontaneo un interrogativo. Attribuire alle scienze e alle arti i di- le reali cause fetti e la corruzione della civiltà non era forse eccessivo? Le “cause” della degenerazio- della decadenza della civiltà ne umana potevano davvero essere quelle indicate da Rousseau? In effetti, quando si vide attaccato da una folla di polemisti, il filosofo fu costretto a rimeditare sui fattori che aveva indicato come fonti della corruzione dei costumi etici e politici. E fu soprattutto un’obiezione sollevata dal re Stanislao di Polonia (secondo il quale erano le ricchezze, e non la scienza, a costituire il fattore patogeno primario) a far sì che egli, pur senza ritrattare l’accusa alle scienze e alle arti, rivedesse la scala delle priorità causali: la fonte prima del male è la disuguaglianza; dalla disuguaglianza sono venute le ricchezze […]. Dalle ricchezze sono nati il lusso e l’ozio; dal lusso sono venute le belle arti e dall’ozio le scienze. (Osservazioni sulla risposta data al suo Discorso, in Scritti politici, cit., vol. 1, p. 44)
Questo mutamento di prospettiva, che comporta una transizione dal problema delle scienze e delle arti al problema della disuguaglianza, risulterà evidente sia nel secondo Discorso, sia in alcuni scritti minori: la prefazione al Narciso (1753), che esprime in modo più organico e maturo le idee del primo Discorso, e l’articolo “Economia Politica”, apparso nel 1755 nel quinto volume dell’Enciclopedia.
)
Per l’esposizione orale
1. Riassumi le tesi principali sostenute da Rousseau nel Discorso sulle scienze e le arti. 2. RIFLESSIONE CRITICA Che cosa pensi dell’idea che le arti e le scienze favoriscano nell’essere umano un’esistenza poco virtuosa, cioè falsa e incline alla prevaricazione sui propri simili? Argomenta la tua risposta.
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2. il Discorso sull’origine della disuguaglianza Nel 1753 l’Accademia di Digione propone un nuovo concorso, ponendo il seguente quesito: «Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, e se essa sia autorizzata dalla legge naturale». Rousseau partecipa con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, composto nel 1754 e pubblicato nel 1755. il rifiuto Nella prefazione al discorso Rousseau afferma che per conoscere l’origine della disudel modello guaglianza tra gli uomini occorre prima conoscere la natura umana. Ma come fare? giusnaturalistico
Analizzando le teorie antropologiche esistenti, Rousseau comincia con il respingere il modello del giusnaturalismo, sostenendo che il suo limite consiste nell’aver dipinto, come prototipo dell’uomo naturale, quello che in realtà è il paradigma dell’uomo civilizzato: «tutti […] hanno trasferito nello stato di natura idee prese dalla società; parlavano dell’uomo allo stato selvaggio e dipingevano l’uomo civilizzato» (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, “Prefazione”, in Scritti politici, cit., vol. 1, p. 139). Ad esempio, la concezione della legge naturale di Grozio e di Locke presuppone che gli uomini primitivi possedessero capacità di intuizione e deduzione tipiche della razionalità dell’uomo civilizzato. E anche Hobbes, parlando dell’uomo-lupo, ha finito per offrire un duplicato dell’individuo aggressivo ed egoista della società contemporanea. Com’è dunque possibile rinvenire, al di là dell’odierno uomo “artificiale” («l’homme de l’homme»), l’originario uomo “naturale”?
il metodo ipotetico e la concezione dello stato di natura
Ai fini della sua indagine, Rousseau sceglie di avvalersi del metodo ipotetico proprio della scienza. Egli dichiara infatti che le sue ricerche non devono essere considerate «verità storiche», ma semplici «ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatti a chiarire la natura delle cose che non a svelarne la vera origine, simili a quelli che fanno ogni giorno i nostri fisici sulla formazione del mondo» (ibidem, p. 140). In altre parole, Rousseau segue un procedimento che non è storico-antropologico, bensì logico-filosofico. Questa scelta è evidente se si considera il concetto di stato di natura da lui elaborato, che si riferisce (come egli stesso dichiara in un passo-chiave dell’opera) a «uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, e di cui tuttavia bisogna avere nozioni giuste per giudicar bene del nostro stato presente» (ibidem, p. 131). glossario p. 458 Appurato che lo stato di natura non è né un dato storico, né una restaurazione filosofica delle antiche credenze relative all’età dell’oro, né il prodotto di una fantasticheria sentimentale, bensì un’ipotesi teorica metodicamente e razionalmente elaborata ai fini di una critica radicale dell’esistente, Rousseau si chiede in che cosa, precisamente, tale stato consista e attraverso quali vicende sia avvenuto il progressivo snaturamento dell’essere umano. Da questo programma di indagine deriva la suddivisione del Discorso in due parti, la prima delle quali descrive com’è l’uomo in natura e la seconda com’è diventato nella storia.
Lo stato di natura Per Rousseau l’uomo “naturale” non coincide con il “selvaggio” (che richiama già un’umanità consociata). Ciò non toglie che, rispetto all’uomo civilizzato, il selvaggio sia più vicino alla natura, e che dunque sia più facile, guardando a lui, cogliere la sostanza originaria dell’essere umano, ricordando però che si tratta di una figura già alterata. l’equilibrio Ciò che caratterizza l’uomo primitivo è il perfetto equilibrio tra i bisogni e le risorse di cui tra necessità dispone. «I soli beni che conosce al mondo – dice Rousseau – sono il cibo, la femmina, il e risorse
sonno» (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, cit., p. 151),
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e tali bisogni “minimi” sono facili da soddisfare, poiché vi provvede la natura stessa. Lo stato di natura è dunque da concepire come una situazione di armonia, in cui gli esseri umani possiedono tutto ciò che desiderano, in quanto desiderano soltanto ciò che già possiedono:
‘ ‘
poiché il selvaggio desidera solo le cose che conosce, e conosce solo quelle che possiede o può possedere facilmente, niente può essere tranquillo quanto il suo animo. (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, cit., p. 232, nota “M”)
Trovandosi in rapporto diretto immediato con i propri bisogni, un tale uomo risulta privo di progettualità a lunga scadenza, al punto che la sua vita sembra svolgersi in una sorta di eterno presente: La sua anima […] si abbandona tutta al senso della sua esistenza attuale, senza nessuna idea dell’avvenire […] e i suoi progetti, limitati come le sue vedute, si estendono appena alla (ibidem, p. 152) fine della giornata.
In virtù di questo modo di essere pre-razionale e pre-sociale, l’ uomo naturale non è né l’amore di sé buono né cattivo, poiché vive in uno stato neutro di innocenza. Gli unici princìpi («ante- e la pietà riori alla ragione») che gli si possono attribuire sono l’ amore di sé e la pietà. Il primo, spiega Rousseau, consiste nell’agire per il proprio benessere e la propria conservazione; la seconda consiste invece in una ripugnanza istintiva a veder soffrire o morire gli altri esseri, e soprattutto i propri simili. glossario p. 458 Si noti che l’amore di sé non coincide con l’«amor proprio», che Rousseau descrive come quell’egoistico culto del proprio interesse e della propria immagine che ispira agli uomini civili «tutto il male che si fanno a vicenda». Il fatto che l’uomo naturale provi pietà per i propri simili non significa che egli sia portato a unirsi a loro con legami durevoli. Nello stato di natura ciascuno basta a sé stesso e i contatti con i propri simili sono soltanto sporadici, dettati perlopiù dalla pulsione sessuale:
‘ ‘ ‘
l’asocialità e l’indipendenza dell’uomo naturale
Questa cieca tendenza, priva di qualunque sentimento del cuore, dava luogo soltanto a un atto puramente animale. Appagato il bisogno, i due sessi non si riconoscevano più e persino il bambino, appena poteva fare a meno di lei, non era più niente per la madre. (ibidem, pp. 173-174)
L’asocialità dell’uomo naturale coincide con la sua indipendenza, ovvero con uno stato di autarchia e libertà assoluta. Bisogna infatti rappresentarsi l’uomo naturale come un essere vagante nelle foreste senza occupazione, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra e senza legami: Se per caso giungeva a qualche scoperta non sapeva a chi comunicarla, tanto più che non riconosceva neanche i propri figli. L’arte periva con l’inventore; non c’era né educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente, e, poiché ognuna partiva dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e l’uomo (ibidem, pp. 168-169) restava sempre bambino.
Ora, che cosa può spingere un essere che non manca di nulla – e che ha «il cuore in pace» l’uscita dallo stato di natura e il «corpo in buona salute» – a cambiare stato o condizione? Osserva infatti Rousseau: chi non vede che tutto sembra allontanare dall’uomo selvaggio la tentazione e i mezzi di por fine alla sua condizione? La fantasia non gli dipinge nulla; il cuore non gli chiede nulla. I suoi modesti bisogni sono talmente alla sua portata, ed egli è tanto lontano dal grado di conoscenza necessario per desiderarne di più grandi, che non può avere né previdenza né (ibidem, p. 152) curiosità.
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ESERCIZI
È dunque impossibile – prosegue Rousseau – «immaginare perché, in questo stato primitivo, un uomo avrebbe avuto bisogno di un altro uomo, più di quanto un lupo o una scimmia potesse aver bisogno del suo simile» (ibidem, p. 160). Eppure gli esseri umani hanno scelto di uscire da tale stato. E questa decisione è dovuta ai loro due attributi specifici: la libertà, ossia la capacità di volere e di scegliere, e la perfettibilità, ossia l’attitudine a perfezionarsi. Mentre gli animali, essendo privi di queste due facoltà, vivono al di fuori del tempo e della storia, e sono da sempre – e per sempre – ciò che sono, l’essere umano può mutare.
Il passaggio alla società civile Nella seconda parte del Discorso Rousseau espone dunque le cause e le modalità del passaggio dallo stato di natura a quello civile, che coincide con il passaggio dall’uguaglianza primitiva («dove tutti si nutrono degli stessi alimenti, vivono alla stessa maniera e fanno esattamente le stesse cose») alla disuguaglianza propria di ogni società. Per la sua analisi il filosofo si serve di una sorta di esperimento mentale: egli cerca cioè di immaginare quali condizioni siano state necessarie affinché il genere umano divenisse quello che è attualmente. le cause esterne del primo associarsi umano
Da quanto si è detto finora, appare evidente che per Rousseau la società può nascere soltanto se qualche forza esterna impedisce all’uomo di vivere in quella totale armonia di esigenze e risorse che caratterizza lo stato di natura. Infatti, se la natura avesse sempre provveduto ai bisogni umani, e se la Terra si fosse mantenuta in una sorta di primavera perpetua, allora l’umanità non si sarebbe mai attivata in direzione del progresso. Invece non tardarono a presentarsi difficoltà che si dovette imparare a vincere: l’altezza degli alberi su cui cogliere i frutti, la ferocia degli animali, gli inverni rigidi, le estati torride ecc. Divenuto, oltre che raccoglitore, anche pescatore e cacciatore, l’uomo scopre il fuoco e comincia a unirsi con i propri simili in libere associazioni che non obbligano nessuno e che durano quanto il bisogno passeggero da cui scaturiscono. E lentamente prendono forma il linguaggio e l’idea dell’aiuto reciproco.
la «prima Questi primi progressi mettono gli esseri umani in condizione di farne altri, e più rapidarivoluzione» mente. Presto si arriva così a quella che Rousseau chiama prima rivoluzione , cioè alla
costituzione dei primi nuclei tribali e delle famiglie, e alla nascita dei valori e dei sentimenti che vi sono legati: «l’abitudine a vivere insieme dette origine ai più dolci sentimenti che si conoscano tra gli uomini, l’amore coniugale e l’amore paterno» (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, II, cit., p. 177). glossario p. 458 Nello stesso tempo cominciano però a svilupparsi sentimenti sociali negativi come la vanità e l’invidia, e inizia ad affermarsi la disuguaglianza: «chi cantava o danzava meglio; il più bello; il più forte, il più abile o il più eloquente divenne anche il più considerato» (ibidem, p. 179). Ciò nonostante, in questa sorta di «società nascente» (société naissante) che non è più (totalmente) natura e che non è ancora (totalmente) cultura, Rousseau scorge l’epoca più felice della storia dell’umanità:
‘
Più ci si riflette, più si trova che questa condizione era […] la migliore per l’uomo […]. L’esempio dei selvaggi, che sono stati trovati quasi sempre a questo stadio, sembra confermare che il genere umano era fatto per restarvi definitivamente, che questa è la vera (ibidem, p. 180) giovinezza del mondo.
la «grande Finché si accontentarono di questo tipo di vita e si dedicarono a lavori o ad arti che non ririvoluzione» chiedevano alcuna mutua cooperazione e dipendenza, gli uomini vissero «liberi, sani,
buoni, felici». Ma nel momento in cui «un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro […]
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l’uguaglianza scomparve» (ibidem, p. 181) e si arrivò alla grande rivoluzione . Questa consiste nella divisione sociale del lavoro, la quale a sua volta è una conseguenza dell’invenzione di due arti in particolare: la metallurgia e l’agricoltura. «Per il poeta – osserva Rousseau – a civilizzare gli uomini e a mandare in rovina il genere umano, sono stati l’oro e l’argento; ma per il filosofo sono stati il ferro e il grano». Alla coltivazione delle terre segue infatti la loro spartizione, e quindi l’avvento della proprietà privata: glossario p. 458
‘
Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti!». (ibidem, p. 173)
Insieme con la proprietà privata si consolida in modo definitivo la disuguaglianza morale e politica (ben più pesante e dannosa della semplice disuguaglianza fisica). Si determina infatti la prima grande divisione tra gli uomini: quella tra ricchi e poveri, con la conseguente sottomissione dei secondi ai primi (ma anche, in un certo senso, dei primi ai secondi, dovendo i ricchi dipendere dai servizi prestati loro dai poveri). Così l’essere umano, che in origine era libero e indipendente, si ritrova assoggettato alla natura da nuovi bisogni, e vincolato al prossimo da un rapporto di mutua, universale dipendenza. L’avvento della proprietà privata conduce inoltre a una guerra permanente tra ricchi e poveri, all’insegna della rapina e della violenza. L’uguaglianza spezzata – dice Rousseau – «fu seguita dal più spaventoso disordine: così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi […]. La società in sul nascere fece posto al più orribile stato di guerra» (ibidem, p. 186). L’itinerario dell’umanità attraverso la storia tracciato da Rousseau finisce insomma per concludersi nello stesso punto da cui era partito Hobbes nel dipingere il suo presunto stato naturale: la guerra di tutti contro tutti.
OFFICINA CITTADINANZA Sovranità popolare e diritti politici p. 106
CONCETTI A CONFRONTO
LA GUERRA in HOBBES
l’origine della disuguaglianza e del conflitto
in ROUSSEAU
è la condizione dell’essere umano nello stato naturale
è la condizione dell’essere umano nello stato civile
dipende dall’egoistica e aggressiva natura umana
dipende dall’avvento della proprietà privata
L’origine dello Stato e la corruzione dei costumi Nella situazione di generale conflitto scaturita dalla «grande rivoluzione», a rischiare di più sono i possidenti. Tant’è che Rousseau immagina che siano proprio loro, i ricchi, a proporre ai poveri un patto iniquo , anti-egualitario, che il filosofo – non senza amaro sarcasmo – sintetizza così: glossario p. 458
‘
l’ingiusto patto imposto dai ricchi ai poveri
Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi poveri; stipuliamo dunque un accordo fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prenderò dandovi degli ordini. (Enciclopedia, voce “Economia politica”, in Scritti politici, cit., vol. 1, p. 311)
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la nascita Dalla necessità di sancire anche sul piano giuridico-politico l’ingiusto patto imposto dai dello stato ricchi ai poveri nasce lo Stato, subdola legalizzazione del sopruso e dello sfruttamento:
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 802
‘
Uniamoci, disse [il ricco], per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza distinzione il potente ed il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, II, cit., p. 187) concordia.
Illusi e ingannati da questo discorso, «tutti [i poveri] corsero incontro alle catene, convinti di assicurarsi la libertà» (ibidem, p. 188). ( T1 p. 461)
le tre tappe Di fatto, secondo Rousseau la nascita dello Stato non fa che accelerare un processo di della decadenza decadimento della natura umana articolato in tre tappe:
1. la fondazione della legge e del diritto di proprietà sanciscono la distinzione tra ricchi e poveri;
2. l’istituzione della magistratura sancisce la distinzione tra potenti e deboli; 3. la conseguente trasformazione del potere legittimo in potere arbitrario sancisce la distinzione di fatto tra “padrone” e “schiavo”. E proprio nell’avvento del dispotismo e della schiavitù politica delle fasce popolari Rousseau individua l’ultimo esito della parabola storica dell’umanità:
‘
È qui l’ultimo sbocco della disuguaglianza e il punto d’arrivo che chiude il circolo toccando il punto da cui siamo partiti. Qui tutti i privati tornano ad essere uguali, perché non sono niente, e i sudditi non avendo altra legge oltre la volontà del padrone, né il padrone altra norma oltre le proprie passioni, le nozioni relative al bene e i princìpi di giustizia tornano di nuovo a svanire. A questo punto tutto si riporta alla sola legge del più forte, e quindi a un nuovo stato di natura diverso da quello con cui abbiamo cominciato, in quanto l’uno era lo stato di natura nella sua purezza, mentre quest’altro è il frutto di un eccesso di corruzione. (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, cit., p. 202)
il rapporto tra Nelle ultime pagine del Discorso, Rousseau afferma nuovamente che «la disuguaglianza, disuguaglianza essendo pressoché nulla nello stato di natura, trae la propria forza e il proprio incremento e legge di natura dallo sviluppo delle nostre facoltà e dal progresso dello spirito umano». Rispondendo alla
seconda parte del quesito posto dall’Accademia di Digione (se la disuguaglianza sia autorizzata dalla legge naturale), egli precisa dunque che la disuguaglianza civile, «autorizzata dal solo diritto positivo, è contraria al diritto naturale ogni volta che non risulta in proporzione con la disuguaglianza fisica […] poiché […] è contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, che un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille guidi un saggio, e che un pugno di uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario» (ibidem, pp. 204-205).
)
Per l’esposizione orale
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1. Presenta la riflessione di Rousseau sull’«uomo naturale» utilizzando e le espressioni e i termini elencati di seguito: stato di natura, amore di sé, amor proprio, libertà, perfettibilità. 2. Illustra sinteticamente le tappe del processo che secondo Rousseau ha portato l’umanità dallo stato di natura alla società civile. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera l’opposizione, tipica del pensiero di Rousseau, tra la spontaneità della condizione naturale e il carattere artificiale e menzognero della vita sociale: che cosa ne pensi? Rispondi in modo argomentato e riporta, se possibile, esempi concreti.
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3. il pensiero della maturità e la Nuova Eloisa Il passaggio di Rousseau dai Discorsi alle opere della maturità ha spesso rappresentato un nodo problematico per gli storici della filosofia, che hanno talvolta individuato una frattura tra una parte critica del suo pensiero (i Discorsi) e una parte propositiva e costruttiva (l’Emilio e il Contratto sociale). In realtà, attribuendo esclusivamente all’essere umano – e non a Dio o alla natura – la causa del male e della corruzione che caratterizzano la vita sociale, Rousseau è naturalmente portato a credere nella possibilità di un riscatto dell’uomo attraverso l’uomo. Se gli esseri umani sono gli unici artefici del proprio male, saranno anche gli unici a potersene liberare.
Gli aspetti positivi della vita sociale A offrire la risposta a tutti i problemi umani, ovvero la soluzione al problema del male nel il ruolo della politica mondo, è soprattutto la politica. Questa valorizzazione del piano politico-sociale non è per nulla in contraddizione con il precedente atto d’accusa contro la civiltà, come dimostra il fatto che già in una nota del secondo Discorso Rousseau aveva scritto:
‘ ‘
allora? Dobbiamo distruggere la società, sopprimere il tuo e il mio, e tornare a vivere con gli orsi nelle foreste? Conclusione alla maniera dei miei avversari; preferisco prevenirla anziché lasciar loro la vergogna di esprimerla. (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, cit., p. 222, nota 1)
Nella fase matura del suo pensiero Rousseau riprende dunque questa riflessione e sottoli- un’opportunità nobilitare nea in modo esplicito i vantaggi del vivere sociale, benedicendo l’«istante felice» (instant per l’essere umano heureux) che di un «animale stupido e limitato» ha fatto «un essere intelligente e un uomo»: Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cambiamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto, e dando alle sue azioni la moralità che ad esse prima mancava. Solamente allora, subentrando la voce del dovere al posto dell’impulso fisico e il diritto al posto dell’appetito, l’uomo, il quale fino allora non aveva considerato che sé stesso, si vede obbligato ad agire secondo altri princìpi e a consultare la sua ragione prima di cedere alle sue inclinazioni. Sebbene in questo stato egli si privi di molti vantaggi che gli vengono dalla natura, ne guadagna in cambio altri così grandi, le sue facoltà si esercitano e si sviluppano, le sue idee si allargano, i suoi sentimenti si nobilitano, tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lo degradassero spesso al disotto di quella da cui è uscito, egli dovrebbe benedire continuamente l’istante felice che lo strappò per sempre da quelle sue condizioni primitive e che di un animale stupido e (Il contratto sociale, I, 8) limitato fece un essere intelligente e un uomo.
Appurato che lo stato civile non costituisce una regressione assoluta per gli uomini, dal momento che offre loro possibilità ben più ampie ed elevate rispetto a quelle offerte dallo stato naturale, per Rousseau rimane comunque il fatto che gli esseri umani, originariamente virtuosi e benevoli, sono stati corrotti dalle arti e dalle scienze, dall’introduzione della proprietà privata, dall’istituzione della magistratura e dagli abusi del potere. Tuttavia (come si è detto), poiché il responsabile di tale stato di corruzione è in ultima analisi l’uomo, questi può anche trovare la via per uscirne: si tratta di recuperare gli aspetti positivi della vita naturale, nobilitandoli e perfezionandoli con la nuova consapevolezza e le nuove opportunità offerte dalla vita sociale.
le vie per un nuovo recupero della dimensione naturale
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Nelle opere della maturità, Rousseau analizza dunque gli ambiti principali di questo ritorno “mediato” alla natura: nella Nuova Eloisa descrive un nuovo modo di vivere l’amore e la famiglia; nel Contratto sociale un nuovo modo di intendere e di concretizzare il patto da cui si origina lo Stato; nell’Emilio un nuovo modo di educare i bambini e i giovani, formandoli allo spirito critico e all’impegno sociale.
La Nuova Eloisa
il fondamento Giulia o La nuova Eloisa (1760) narra la vicenda di due giovani amanti la cui relazione è condel legame trastata dalla volontà dei parenti e dalle convenzioni sociali. Attraverso il racconto Rousconiugale
seau intende affermare la santità di un vincolo familiare fondato sugli istinti naturali e sulla libera scelta dei coniugi. Questa posizione è ben sintetizzata in alcune parole pronunciate da un personaggio del romanzo (milord Edouard) in difesa della giovane coppia:
‘
Il legame coniugale non è forse il più libero come il più sacro degli impegni? Sì, tutte le leggi che lo mortificano sono ingiuste, tutti i padri che osano formarlo o romperlo sono tiranni. Questo casto nodo della natura non è sottomesso né al potere sovrano né all’autorità paterna, ma alla sola autorità del Padre comune che sa comandare i cuori e che, ordinando loro di unirsi, li può costringere ad amarsi […]. Che il rango sia regolato dal merito e l’unione dei cuori dalla loro scelta, ecco il vero ordine sociale; coloro che lo regolano con la nascita o con le ricchezze sono i veri perturbatori di (Giulia o la Nuova Eloisa, II, lett. 2a) quest’ordine e sono essi che vanno condannati o puniti.
4. il Contratto sociale Due anni dopo aver pubblicato (a Londra) la Nuova Eloisa, Rousseau dà alle stampe Il contratto sociale (1762), in cui si propone una rifondazione etico-politica della società. L’obiettivo è indicare la via per trasformare l’uomo in cittadino, ossia in un individuo che, anziché vivere nella dimensione naturale dell’io particolare, sappia vivere nella dimensione artificiale dell’io comune. E ciò tramite un processo che gli permetta di riappropriarsi, in maniera mediata e razionale, di quella libertà e di quell’uguaglianza di cui godeva in modo immediato e istintivo nello stato di natura.
Il patto e le sue caratteristiche il fondamento A differenza di Montesquieu, che si era limitato a descrivere de facto le legislazioni posidel potere tive, Rousseau si propone di determinare de iure il fondamento dell’autorità politica. Pas-
sando in rassegna le tradizionali giustificazioni del potere, egli respinge come illegittimo ogni tentativo di fondarlo sul diritto divino, sulla potestà paterna, sulla forza ecc. Rifacendosi al contrattualismo, il filosofo ginevrino afferma infatti che non esiste autorità senza un consenso pattuito (nullum imperium sine pacto).
tra alienazione A differenza dei teorici contrattualisti – i quali, accanto al pactum unionis (patto di uniodei diritti e ne), riconoscevano un pactum subiectionis (patto di subordinazione) in virtù del quale gli libertà individuale uomini si assoggettano a un sovrano –, Rousseau ritiene però che sia illegittima, cioè
giuridicamente nulla, ogni abdicazione alla libertà, sostenendo che «Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo» (Il contratto sociale, I, trad. it. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1994, p. 16).
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In sostanza, anche Rousseau prevede che gli uomini, entrando in società, «alienino» i propri diritti originari, attribuendoli a un «sovrano», ma a differenza dei contrattualisti pensa che, proprio in virtù del patto, i cittadini non debbano risultare soggetti ad altri che a sé stessi. Ma come si conciliano l’alienazione dei diritti e la libertà dell’individuo? Proviamo a rispondere seguendo il ragionamento di Rousseau. L’ordine sociale non è un ordine naturale, bensì convenzionale (Il contratto sociale, I, 1, cit., p. 9). Esso nasce quando lo stato di natura originario si è ormai convertito nell’abominevole «stato di guerra» descritto alla fine del secondo Discorso. A quel punto, infatti, il genere umano perirebbe, se non mutasse la sua maniera di vivere. Questo problema è risolto dal contratto sociale , ovvero dal patto con cui si costituisce la società politica, poiché la sua clausola fondamentale è l’alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità. In cambio della sua persona privata, ciascun contraente riceve la nuova qualità di membro o parte indivisibile del tutto. Si genera così un nuovo corpo morale e collettivo, che ha la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. glossario p. 459
la creazione di un nuovo “io” collettivo
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 802
Sulla base di un tale patto, si forma per Rousseau una comunità etico-politica nella quale la nascita di volontà ciascun individuo non si sottomette a una volontà particolare estranea, ma a una volontà una comune comune che riconosce come propria, tanto che si può affermare che egli obbedisce soltanto a sé stesso. Il patto descritto da Rousseau non è dunque eteronomo, bensì autonomo, in quanto è il patto di ciascun individuo con sé stesso. Ma analizziamone nel dettaglio gli elementi. ( T2 p. 463) I soggetti del patto sono i singoli individui, considerati nella loro particolarità naturale. gli elementi Ciò che viene ceduto è la totalità dei diritti individuali pre-sociali. Il destinatario del del patto patto è la comunità o l’«io comune» (moi commun). Lo scopo del patto è la salvaguardia della sicurezza, della libertà e dell’uguaglianza dei contraenti: della sicurezza perché il patto tutela la persona e i beni di ognuno; della libertà perché, obbedendo all’io comune, ognuno obbedisce in realtà a sé stesso, o meglio a quel più impegnativo io trans-individuale che ha scelto di essere; dell’uguaglianza perché nel patto i cittadini «si obbligano tutti sotto le stesse condizioni e devono godere tutti gli stessi diritti» (Il contratto sociale, II, 4, cit., p. 46). La persona pubblica che si forma dall’unione di tutte le persone individuali si chiama gli elementi e democraticità repubblica, o corpo politico. Quest’ultimo è detto «Stato» quando è passivo, «corpo so- la dello stato vrano» quando è attivo, «potenza» in relazione agli altri corpi politici. Considerati collettivamente, gli associati prendono il nome di «popolo». Singolarmente si chiamano invece «cittadini» in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e «sudditi» in quanto sottoposti alle leggi dello Stato. In virtù della tesi secondo cui la sovranità risiede nel popolo, Rousseau è considerato il teorico settecentesco della democrazia ( “La filosofia che vive”, p. 452). Abbiamo già visto che la volontà del corpo politico, o del sovrano, è per Rousseau la volontà la volontà e le sue generale . Questa non è la semplice somma delle volontà particolari (quella che Rousseau generale caratteristiche chiama «volontà di tutti»), ma la volontà che tende all’utilità comune, ossia un tipo di volontà che si distingue da quella «di tutti» non per ragioni quantitative, bensì qualitative. Infatti la volontà generale «mira soltanto all’interesse comune; l’altra [la volontà di tutti, o di ciascuno] all’interesse privato» (Il contratto sociale, II, 3, cit., p. 42). glossario p. 459
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EDUCAZIONE CIVICA
LA FILOSOFIA CHE VIVE L’éthos democratico da Rousseau alla Costituzione italiana Oltre l’individualismo La prospettiva democratica di Rousseau prende le mosse dalla critica del pensiero di Locke, che poneva come scopo principale del contratto sociale l’utilità del singolo individuo e la protezione del suo diritto a tutelare il proprio corpo e i propri beni. Contro il liberalismo anglosassone, Rousseau recupera parzialmente il comunitarismo di Platone, ponendo al centro della sua riflessione il «cittadino» che si realizza nella comunità. A questo risultato Rousseau perviene mediante le nozioni di «sovranità popolare» e, soprattutto, di «volontà generale», che potremmo definire come la capacità dei singoli, in quanto partecipi del «corpo sovrano», di rinunciare ai propri interessi privati in favore della collettività, dell’interesse generale. Questa impostazione anti-individualista è evidente anche nella nostra Costituzione, la quale non ricorre mai al termine “individuo”. La parola usata è invece “persona”, che indica il singolo «nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità». In tal modo la Costituzione italiana sostituisce, per così dire, al pronome “io” il pronome “noi”, auspicando una democrazia solidaristica in cui non prevalgano gli specifici interessi individuali, ma quelli collettivi, cioè “di tutti”. La democrazia come sfida etica Intesa in questi termini, la nostra democrazia (come quella descritta da Rousseau), prima ancora che un sistema politico-giuridico, è un éthos da apprendere, un impegno da assumere nella propria condotta, un ideale a cui tendere. La mancanza di partecipazione, l’indifferenza verso la «cosa pubblica» (res publica), l’attenzione per i soli interessi individuali o corporativi sono i nemici mortali della democrazia. Per questo aspetto Rousseau si ispira a Montesquieu, il quale aveva osservato che ogni tipo di governo si distingue, oltre che per le modalità del suo funzionamento, per il principio che lo anima, vale a dire per «le passioni umane
)
DIBATTITO CRITICO
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che lo fanno muovere». Se la monarchia si fonda sull’onore e il dispotismo sulla paura, la democrazia si fonda invece sulla «virtù politica» dei cittadini: La virtù politica è una rinuncia a sé, cosa che è sempre molto penosa. Si può definire questa virtù l’amore delle leggi e della patria» (Montesquieu, Lo spirito delle leggi, IV, 4)
Se si tiene conto delle pulsioni egoistiche e particolaristiche innegabilmente presenti nella natura umana, la democrazia sembra dunque una condizione contro natura: per questo essa costituisce una sfida, un compito infinito di perfezionamento morale. Anche la nostra Costituzione indica ai cittadini la via di un impegno etico (sottolineato da parole come «dovere», «disciplina», «onore») volto a sollecitare lo spirito civile quale nutrimento del regime democratico: Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. (Costituzione della Repubblica italiana, art. 54)
Copia della Costituzione italiana sulla scrivania del Presidente della Repubblica, nel suo ufficio al Quirinale.
QUESTIONE In che modo si può “imparare” la democrazia? INDICAZIONI OPERATIVE «La democrazia non è qualcosa fuori
di noi, indipendentemente da noi. La democrazia non promette nulla a nessuno, ma richiede molto a tutti. Non è un idolo, ma un ideale corrispondente a un’idea di dignità umana. La sua ricompensa sta nello stesso agire per realizzarlo» (Gustavo Zagrebelsky, Imparare democrazia, Torino, Einaudi 2005, pp. 44-46). A casa, riflettete sull’idea (suggerita dalla citazione) secondo cui l’acquisizione di un éthos democratico è faticosa e non scontata, e rispondete all’interrogativo. In classe, il docente forma alcuni piccoli gruppi: all’interno di ciascuno di essi confrontate le riflessioni svolte singolarmente; quindi esponete le vostre conclusioni al resto della classe, argomentandole opportunamente. Provate infine, tutti insieme, a elaborare un possibile progetto per educare i cittadini alla vita democratica.
Per sua natura, la volontà generale è sempre: retta, in quanto «il popolo vuole sempre il bene» (Il contratto sociale, II, 6, cit., p. 55) e si dirige verso «la conservazione e il benessere del tutto» con la stessa sicurezza con cui la volontà privata è orientata alla felicità e alla conservazione del singolo; infallibile, in quanto non sbaglia mai. Certo, ammette Rousseau, può accadere che il popolo si inganni e che il presunto bene comune in realtà non sia tale, ma in questo caso non è la volontà a essere in errore, bensì il giudizio da cui scaturisce: «La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato» (ibidem); giusta, in quanto tende sempre all’uguaglianza, mentre la volontà particolare tende a instaurare preferenze e privilegi; indistruttibile, in quanto, anche quando è oscurata dal prevalere delle volontà particolari, essa non si disperde.
IL CONTRATTO SOCIALE
OFFICINA CITTADINANZA Sovranità popolare e diritti politici p. 107
ciascun associato alieni sé stesso e tutti i suoi diritti alla comunità prevede che ciascun associato riceva in cambio la nuova qualità di membro del tutto
la volontà del corpo politico
LA VOLONTÀ GENERALE
tesa all’interesse comune è diversa dalla somma delle volontà particolari retta, infallibile, giusta, indistruttibile
L’esercizio del potere La funzione della volontà generale è quella di emanare leggi, e nell’esercizio di tale fun- la sovranità zione risiede la sovranità (del popolo), che Rousseau intende come una realtà assoluta, e i suoi attributi inalienabile e indivisibile: glossario p. 459 assoluta perché ha «un potere assoluto su tutti quelli che sono come le sue membra» (cioè su tutti i cittadini) e perché non è limitata da alcuna legge fondamentale o costituzionale, pur avendo in sé stessa quel limite intrinseco costituito dal perseguimento del bene comune; inalienabile perché la rinuncia alla sovranità da parte del popolo equivarrebbe a una rinuncia alla libertà, e quindi a una rinuncia alla stessa natura umana. Sulla base di questa convinzione Rousseau rifiuta il principio lockeano della delega o della rappresentanza, osservando che l’essere collettivo non può essere rappresentato da un soggetto diverso da sé stesso, dal momento che un tale soggetto esprimerebbe una volontà particolare; indivisibile, in quanto la sovranità non può essere divisa in parti diverse. Teorizzando l’indivisibilità della sovranità, Rousseau sembra rifiutare il principio della la distinzione divisione dei poteri di Montesquieu. In realtà, il fatto che per Rousseau la sovranità sia tra sovranità e governo unica e indivisibile, e coincida con l’esercizio del potere legislativo, non significa che egli identifichi la funzione legislativa con quella esecutiva. Ciò che il filosofo ginevrino rifiuta non è tanto la distinzione o la separazione dei poteri, quanto l’idea che essi siano “interni” alla sovranità. Rousseau distingue infatti nettamente tra sovranità e governo: se alla prima compete l’emanazione delle leggi, al secondo compete l’esecuzione delle leggi.
453
Il governo non è dunque che il ministro del popolo sovrano, e non procede dal contratto, ma da una legge: glossario p. 459
‘
i depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, bensì i suoi funzionari […] (Il contratto sociale, III, 18, cit., p. 134) esso può nominarli o destituirli quando gli piaccia.
le possibili La distinzione tra sovranità e governo permette di intendere meglio la teoria delle forme di forme di governo elaborata da Rousseau. Come si è detto, per il filosofo ginevrino la funzione legigoverno
slativa fa tutt’uno con la sovranità e non può essere delegata, tant’è vero che alla teoria della rappresentanza (ossia all’idea di ciò che oggi chiamiamo “democrazia rappresentativa”) egli oppone la teorizzazione di una democrazia diretta, nella quale siano gli stessi membri del corpo politico, fisicamente riuniti in assemblea, a emanare le leggi (circostanza che presuppone Stati di piccole dimensioni, come le città-Stato greche o i cantoni svizzeri). Tuttavia abbiamo visto che, pur insistendo sul principio democratico della sovranità popolare, Rousseau ritiene che le funzioni esecutive (o governative) non debbano necessariamente essere gestite dal popolo. In questo senso, rifacendosi ai classici, egli ritiene possibili tre forme di governo: 1. quando il corpo sovrano rende depositario del governo tutto il popolo, o la maggior parte di esso, si ha la democrazia; 2. quando restringe il governo nelle mani di una minoranza si ha l’aristocrazia; 3. quando concentra il governo nelle mani di uno solo si ha la monarchia.
la forma di Rousseau osserva che in ogni tempo si è molto disputato su quale fosse la forma di govergoverno no preferibile, senza considerare che ciascuna di esse (democrazia, aristocrazia e monarmigliore
ESERCIZI
chia) è la migliore in certi casi e la peggiore in altri. Tra queste forme, tuttavia, Rousseau predilige l’aristocrazia elettiva, ritenendo che l’ordine sociale più naturale si realizzi «quando sono i più saggi a governare la moltitudine, purché si sia certi che la governino per il suo profitto, e non per il loro» (Il contratto sociale, III, 5, cit., p. 96). Critico verso la monarchia, Rousseau si mostra quindi scettico anche nei confronti della democrazia in senso stretto, cioè intesa come forma di governo o di gestione dello Stato che nelle stesse mani riunisce sovranità e amministrazione: «Se vi fosse un popolo di dèi – egli dice –, esso si governerebbe democraticamente. [Ma] Un governo così perfetto non conviene agli uomini» (Il contratto sociale, III, 4, cit., p. 94).
)
Per l’esposizione orale
1. Quali sono i temi principali affrontati da Rousseau nelle sue opere della maturità? 2. Illustra la natura e lo scopo del «contratto sociale» descritto da Rousseau, utilizzando le espressioni e i termini elencati di seguito: libertà, uguaglianza, alienazione, patto, io comune, volontà generale. 3. Spiega la differenza istituita da Rousseau tra la «sovranità» e il «governo». 4. Quali sono le forme di governo individuate da Rousseau? E qual è, e per quali ragioni, quella da lui preferita? SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
Abbiamo visto come, per la sua celebrazione della volontà generale, Rousseau sia stato considerato da alcuni studiosi come il fautore di uno Stato totalitario, secondo un indirizzo teorico che, poco più di vent’anni dopo la pubblicazione del Contratto sociale, avrebbe trovato una drammatica esemplificazione storica nella fase del Terrore della Rivoluzione francese. Ripercorri sinteticamente le principali tappe della Rivoluzione francese, rintracciando nei suoi proclami (e in primo luogo nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino) alcuni fondamentali assunti teorici tratti dal pensiero di Rousseau, ed evidenziando anche l’alternanza – e talvolta la contraddittorietà – tra la proclamazione ideale della democrazia e le pratiche dispotiche del Terrore.
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
5. l’Emilio Se nella Nuova Eloisa e nel Contratto sociale Rousseau chiarisce le condizioni e il significato di un ritorno “mediato” alla natura per la società familiare e per quella politica, nell’Emilio chiarisce le stesse condizioni per l’individuo. In questo caso tutto dipende dall’educazione, che infatti è il tema centrale dell’opera (non a caso intitolata Emilio o dell’educazione). La tesi di fondo illustrata da Rousseau è la seguente: all’educazione tradizionale, che oppri- l’educazione me e distrugge la natura umana originaria con una sovrastruttura artificiale, bisogna so- negativa stituire un’educazione che si proponga come unico fine la conservazione e il rafforzamento di tale natura. L’Emilio è appunto la storia di un fanciullo educato a questo fine, rispetto al quale, almeno in un primo tempo, l’opera dell’educatore non deve essere volta a insegnare (in positivo) la virtù e la verità, bensì a preservare il cuore dell’allievo dal vizio, e la sua mente dall’errore. In altre parole, l’educatore deve farsi strumento di un’ educazione negativa diretta unicamente a far sì che: glossario p. 459 1. lo sviluppo fisico e spirituale del ragazzo avvenga in modo del tutto spontaneo; 2. ogni sua nuova acquisizione sia una creazione; 3. nulla venga dall’esterno, ma tutto dall’interno, cioè dal sentimento e dall’istinto dell’allievo.
Le tappe dell’educazione Nel delineare questo sviluppo spontaneo, Rousseau segue l’indirizzo sensistico, tanto che alcuni studiosi hanno osservato che lo sviluppo di Emilio ricalca quello della statua di Condillac ( cap. 3, p. 424). La prima tappa dell’educazione coincide con la conoscenza sensibile:
‘ ‘
Le prime facoltà che si formano e si perfezionano in noi sono i sensi […]. Esercitare i sensi non vuol dire soltanto usarli, ma imparare a giudicare bene attraverso di essi, imparare, per così dire, a sentire, perché non sappiamo né toccare né vedere né udire che nel modo in cui (Emilio, II) abbiamo imparato.
Dalla conoscenza sensibile a quella intellettuale
L’impulso ad apprendere, cioè a trasformare i dati sensibili in conoscenze intellettuali, deve provenire dalla natura, e il criterio che deve orientare nella scelta delle conoscenze da acquisire è l’utilità: Appena il nostro allievo si sarà fatto un concetto della parola utile, avremo un nuovo mezzo validissimo per guidarlo, perché tale parola avrà per lui il senso di qualcosa che interessa (Emilio, III) immediatamente il suo benessere attuale.
In seguito, imparando un lavoro manuale Emilio potrà formarsi l’idea della solidarietà l’educazione sociale e degli obblighi che essa impone; e sarà portato all’amore degli altri dallo stesso morale amore di sé, che, quando non è artificiosamente deviato o gonfiato, è la fonte di tutti i sentimenti benevoli. Quando nell’adolescenza le sue passioni cominceranno a manifestarsi, bisognerà lasciare che si sviluppino da sé, affinché abbiano modo e tempo di equilibrarsi progressivamente, perché non deve essere l’individuo a ordinarle e disciplinarle, ma la natura stessa. Da un tale “disciplinamento naturale” delle passioni nasceranno in Emilio le valutazioni morali:
‘
Formare l’uomo della natura non vuol dire farne un selvaggio da relegare in mezzo ai boschi, ma una creatura che, vivendo nel turbine della società, non si lascia trasportare né dalle passioni né dalle opinioni degli uomini, che vede coi suoi occhi e sente con il suo cuore, e che non riconosce altra autorità fuori della propria ragione.
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l’educazione Il principio secondo il quale tutto deve nascere con perfetta spontaneità “dall’interno” come «libertà dell’educando contrasta, nell’opera di Rousseau, con tutto un insieme di accorgimenti, ben guidata»
artifici e finzioni che il precettore ordisce da ogni parte intorno all’allievo per procurargli l’occasione favorevole a determinati sviluppi. Il motivo di questo contrasto è che l’educazione non è, secondo Rousseau, il risultato di una libertà disordinata e capricciosa, ma di una libertà ben guidata:
‘ ‘
Non bisogna allevare un bimbo quando non si sa condurlo dove si vuole mediante le sole leggi del possibile e dell’impossibile, le cui sfere, essendogli egualmente sconosciute, si possono ampliare o stringere intorno a lui come meglio piace. Lo si può incatenare, spingere o trattenere senza che egli se ne dolga, solo attraverso la voce della necessità; e si può rendere mite e docile solo attraverso la forza delle cose, senza che nessun vizio abbia occasione di germinare nel suo cuore, perché mai le passioni si accendono quando sono vane nei loro effetti. (Emilio, II)
il valore D’altronde, secondo Rousseau, la vera virtù non nasce nell’essere umano se non attravereducativo so lo sforzo contro gli ostacoli e le difficoltà esterne. Quando, alla fine dell’Emilio, il giodelle difficoltà
vane si innamora di Sofia, il precettore gli impone un lungo viaggio, e quindi la separazione da lei, per insegnargli a dominare le sue passioni: Non c’è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta: la parola virtù deriva dalla parola forza; la forza è la base di ogni virtù […]. Ti ho cresciuto piuttosto buono che virtuoso, ma chi è soltanto buono si conserva tale unicamente fino a quando prova piacere ad esserlo, fino a quando la sua bontà non è annientata dalla furia delle passioni […]. Finora tu sei stato libero solo in apparenza, hai fruito unicamente della libertà precaria di uno schiavo a cui nulla sia stato comandato. Ora è tempo che tu sia realmente libero, perciò sappi essere padrone di te stesso, sappi comandare al (Emilio, V) tuo cuore: solo a questo patto si guadagna la virtù.
Così, anche nell’Emilio, la dimensione della natura umana che deve essere recuperata non è quella dell’istinto o della passione nella sua immediatezza, ma piuttosto quella di un ordine razionale e di un equilibrio ideale dell’istinto e delle passioni. E questa non è una condizione primitiva o originaria che l’uomo possiede da sempre, ma una norma da riconoscere e da far valere: non è un fatto, ma un dover essere. Ciò spiega perché Kant ( unità 6) abbia potuto ispirarsi a Rousseau nella sua dottrina morale, e riconoscere in lui il “Newton” del mondo morale.
La concezione della religione Nel quarto libro dell’Emilio Rousseau inserisce una sorta di saggio nel saggio: si tratta della Professione di fede del vicario savoiardo, in cui espone i princìpi della religione naturale da lui teorizzata. Composta probabilmente diversi anni prima, la Professione descrive una forma di religiosità che, pur facendo appello all’istinto e al sentimento naturale, si serve soprattutto della ragione, la quale sola può illuminare e chiarire ciò che l’istinto e il sentimento oscuramente testimoniano. i dogmi Il criterio di cui si serve il personaggio del vicario savoiardo è infatti quello di interrogare il della religione proprio «lume interiore» per analizzare le diverse opinioni e credenze, e accordare il pronaturale
prio assenso soltanto a quelle che si presentano ragionevoli. Da tale vaglio critico e razionale emergono i due “dogmi” della religione naturale: 1. il primo afferma l’esistenza di Dio, che viene accolta in base alla necessità di ammettere una causa del movimento che anima la materia e di spiegare l’ordine e la finalità dell’universo; 2. il secondo afferma il carattere spirituale, attivo e libero dell’anima.
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
La religione naturale è presentata nell’Emilio come un’acquisizione o una scoperta che ognuno può e deve fare da sé, dal momento che non si può imporre. Alla fine della sua professione di fede, il vicario dice infatti al suo interlocutore:
‘
la distinzione tra religione naturale e civile
Ora tocca a voi giudicare. Cominciate a mettere la vostra coscienza in condizione di poter essere rischiarata; siate sincero con voi stesso e delle mie idee fate vostre quelle che vi hanno persuaso e respingete le altre, perché voi non siete ancora tanto corrotto dal vizio da temere di scegliere male.
Nel Contratto sociale, tuttavia, Rousseau ammette l’esistenza anche di «una professione di fede puramente civile, di cui appartiene al sovrano fissare gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di sociabilità, senza i quali è impossibile essere un buon cittadino e un suddito fedele» (IV, 8). Lo Stato non può obbligare a credere nella verità di questi articoli, ma può bandire chiunque non li metta in pratica, non come empio ma come insocievole. Gli articoli di questo credo civile sono gli stessi della religione naturale, a cui si aggiungono il dogma “positivo” della «santità del contratto sociale e delle leggi» e quello “negativo” dell’intolleranza.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega perché per Rousseau l’educazione è il risultato di una “libertà ben guidata”. 2. RIFLESSIONE CRITICA Condividi, in tutto o in parte, i princìpi educativi teorizzati da Rousseau? Per quale ragione? Sostieni possibilmente le tue argomentazioni con esempi tratti dalla tua esperienza. 3. Qual è la differenza istituita da Rousseau tra la “religione naturale” e la “religione civile”?
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 4 ROUSSEAU
Il primo Discorso Nel 1750 Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) partecipa a un concorso indetto dall’Accademia di Digione con il Discorso sulle scienze e le arti, in cui sostiene che le arti hanno contribuito a corrompere i costumi, poiché sono ornamenti che nascondono agli uomini le loro catene e li abituano a fare attenzione all’apparire più che all’essere. Quanto alle scienze, esse non sono scaturite dalle virtù umane, bensì dai vizi, e hanno favorito le disuguaglianze sociali.
Il secondo Discorso Nel 1755, sempre in occasione di un concorso indetto dall’Accademia di Digione, Rousseau compone il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini. In questo testo egli descrive lo
• stato di natura
la condizione dell’umanità in un’ipotetica fase originaria e pre-sociale. Si tratta di un modello concettuale, cioè di un’ipotesi teorica che Rousseau elabora al fine di poter giudicare l’esistente in modo più corretto.
Nello stato di natura vive quello che Rousseau chiama
• uomo naturale
l’essere umano che, privo di qualunque istituzione sociale e giuridica, vive in una condizione di innocenza, libertà e autosufficienza, derivante da un perfetto equilibrio tra i suoi bisogni e le risorse naturali di cui può disporre.
Poiché le esigenze dell’uomo naturale sono minime e facilmente appagabili («il cibo, la femmina, il sonno»), egli gode di una sostanziale tranquillità. Anche la sua morale è ridotta ai due valori essenziali della pietà (un’istintiva ripugnanza che si prova nel veder soffrire i propri simili) e dell’
• amore di sé
il «sentimento del tutto naturale che porta ogni animale a vegliare sulla propria conservazione e che nell’uomo, governato dalla ragione e modificato dalla pietà, dà luogo all’umanità e alla virtù».
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UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
Dallo stato di natura, gli esseri umani escono in virtù della libertà e della tensione al perfezionamento che li caratterizza. Il primo grande cambiamento, dovuto principalmente a fattori fisici, consiste in una
• prima rivoluzione
l’insieme degli eventi che portano alla formazione dei primi nuclei tribali, della famiglia e dei valori che vi sono connessi. Con la prima rivoluzione l’umanità entra in uno stadio di equilibrio tra natura e cultura che costituisce l’epoca più felice della storia, sebbene proprio in questa fase comincino a profilarsi i primi sentimenti sociali negativi (vanità, invidia ecc.).
La seconda grande tappa nella storia dell’umanità è costituita dalla
• grande rivoluzione
l’insieme dei cambiamenti sociali scaturiti dalla nascita dell’agricoltura e della metallurgia e sostanzialmente legati all’introduzione della divisione del lavoro e alla spartizione delle terre.
La grande rivoluzione coincide in pratica con l’avvento della proprietà privata, che segna l’inizio di un processo di decadenza, le cui tappe fondamentali sono: la promulgazione delle leggi sulla proprietà, che sancisce la distinzione tra ricchi e poveri; l’istituzione della magistratura, che accentua la distinzione tra potenti e deboli; la trasformazione del potere legittimo in potere arbitrario, che acuisce la distinzione tra padroni e schiavi. Dopo la grande rivoluzione, l’uomo si ritrova a vivere in uno stato di permanente conflitto, a cui cerca di sfuggire con l’istituzione dello Stato. Nella voce “Economia politica” redatta per l’Enciclopedia, Rousseau afferma che lo Stato si fonda su un
• patto iniquo
un subdolo accordo proposto (o, meglio, imposto) dai ricchi ai poveri come un mezzo per proteggere i deboli ed eliminare le disuguaglianze sociali, mentre di fatto le sancisce, irrigidendole nell’organizzazione sociale.
Le opere della maturità Nelle sue opere della maturità, Rousseau sottolinea come il passaggio dallo stato naturale allo stato civile non sia un regresso assoluto, perché il vivere sociale offre agli esseri umani possibilità (conoscitive, etiche ecc.) più ampie e nobilitanti rispetto a quelle offerte dallo
stato di natura. Tuttavia è necessario che tutti quei fattori (interamente imputabili all’uomo) che hanno portato alla corruzione dei costumi e alla disuguaglianza siano eliminati mediante un ritorno, per quanto “mediato” e consapevole, alla naturalità delle origini. Rousseau analizza dunque i tre ambiti in cui tale ritorno deve essere attuato: la famiglia, la società e l’educazione, che sono i temi trattati, rispettivamente, nella Nuova Eloisa, nel Contratto sociale e nell’Emilio.
Giulia o la Nuova Eloisa Nella Nuova Eloisa, attra-
verso la storia romanzata di due giovani amanti la cui unione è ostacolata dai rispettivi parenti e dalle convenzioni sociali, Rousseau presenta l’amore coniugale come il vincolo su cui la famiglia deve fondarsi: un vincolo che a sua volta deve rispettare gli istinti naturali e la libera scelta dei coniugi.
Il contratto sociale Interrogandosi sul tipo di patto
che deve essere considerato il fondamento di una nuova forma di comunità politica, la quale «difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a sé stesso, e resti libero come prima» (Il contratto sociale, I, 6, cit., p. 23), Rousseau perviene a delineare una nozione inedita, diversa da quelle elaborate da Hobbes e da Locke), di
• contratto sociale
il patto mediante il quale l’individuo cede tutti i diritti naturali alla comunità, e in cambio diventa parte indivisibile di un nuovo corpo politico e morale collettivo, i cui associati «prendono collettivamente il nome di popolo, e singolarmente si chiamano cittadini, in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi, in quanto sottoposti alle leggi dello Stato» (Il contratto sociale, I, 6, cit., p. 25). Con questo patto tutti i cittadini si obbligano sotto le stesse condizioni e godono degli stessi diritti, garantendo così non soltanto la sicurezza e la libertà, ma anche l’uguaglianza.
Con il contratto sociale, ciascun individuo si sottomette dunque a quella che Rousseau chiama
• volontà generale
la volontà del corpo politico comune costituito mediante il contratto sociale. Tale volontà tende all’utile comune; è sempre retta, infallibile, giusta e indistruttibile; e non deve essere confusa con la «volontà di tutti», ovvero con la semplice somma delle volontà particolari.
La funzione propria della volontà generale coincide per Rousseau con l’esercizio della
• sovranità
la realtà alla quale spetta il compito di emanare le leggi. La sovranità per Rousseau è assoluta (in quanto ha «un potere assoluto su tutti quelli che sono come le sue membra»), inalienabile (in quanto il corpo sovrano «non può essere rappresentato che da sé stesso») e indivisibile (in quanto «la volontà è generale o non lo è; è quella del corpo del popolo o solamente di una sua parte») e risiede nel popolo, secondo un modello di democrazia diretta in cui i membri del corpo politico, fisicamente riuniti in assemblea, emanano le leggi.
Se il potere legislativo spetta al popolo sovrano, quello esecutivo spetta al
• governo
il “ministro” del popolo sovrano, a cui spetta il compito di rendere esecutive le leggi: «i depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, bensì i suoi funzionari» (Il contratto sociale, III, 18).
Rifacendosi ai filosofi classici, Rousseau distingue tre principali forme di governo: la democrazia, in cui il potere è nelle mani del popolo o della maggior parte di esso; l’aristocrazia, in cui il potere è nelle mani di una minoranza; la monarchia, in cui è nelle mani di una sola persona. Tra queste forme, Rousseau predilige un’aristocrazia elettiva in cui governino i più saggi.
Emilio o dell’educazione Nell’Emilio Rousseau illustra un progetto educativo fondato sul recupero e la valorizzazione della natura umana originaria. Si tratta, più precisamente, di un paradigma pedagogico noto come
• educazione negativa
modello formativo che insiste sulla centralità del bambino e si basa sulla tesi di Rousseau secondo cui educare consiste «non già nell’insegnare la virtù e la verità, ma nel garantire [preservare] il cuore dal vizio e la mente dall’errore».
In altre parole, l’educazione negativa mira a far sviluppare le caratteristiche fisiche e spirituali del fanciullo in modo spontaneo: ogni nuova acquisizione deve essere una sua creazione; nulla perciò va imposto dall’esterno, ma tutto deve nascere dal sentimento e dall’istinto dell’educando.
459
MAPPE
CAPITOLO 4 ROUSSEAU NEL PRIMO DISCORSO Rousseau afferma che
le arti e le scienze hanno contribuito a
scaturiscono
favoriscono
corrompere i costumi
dai vizi
le disuguaglianze sociali
NEL SECONDO DISCORSO Rousseau descrive
lo stato di natura
la prima rivoluzione
la grande rivoluzione
il «patto iniquo»
che è caratterizzato da
che consiste nella
che coincide con
che porta alla
un perfetto equilibrio tra bisogni e risorse innocenza, libertà e autosufficienza degli esseri umani
formazione delle famiglie e dei primi gruppi tribali
la nascita dell’agricoltura e della metallurgia la divisione del lavoro e la nascita della proprietà privata
in una situazione che è
da cui conseguono
l’epoca più felice della storia (per l’equilibrio tra natura e cultura)
la disuguaglianza sociale e politica la mutua dipendenza tra gli individui la guerra tra ricchi e poveri
nascita dello Stato
il quale costituisce
la legalizzazione del sopruso e dello sfruttamento dei poveri e dei deboli da parte dei ricchi e dei potenti
LE OPERE DELLA MATURITÀ sono
la Nuova Eloisa
il Contratto sociale
l’Emilio
che afferma
che descrive
che difende
la santità del vincolo coniugale fondato sugli istinti naturali
la fondazione di una nuova forma di comunità politica
il progetto di un’educazione “negativa”
che si basa su
alienazione dei diritti di ogni individuo alla comunità
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riconoscimento di ogni associato come membro del tutto
UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
distinzione tra sovranità (che spetta al popolo) e governo
CAPITOLO 4 ROUSSEAU la teoria della società
Nel Discorso sulle scienze e le arti Rousseau abbozza un’analisi della società del suo tempo, che approfondisce prima nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, poi nel Contratto sociale, il suo capolavoro, di cui i due Discorsi costituiscono le premesse teoriche. Nel ricercare l’origine delle ingiustizie che dividono gli esseri umani, egli rileva infatti che queste non costituiscono affatto una condizione “naturale”, ma sono piuttosto legate alla nascita della proprietà privata e alla conseguente divisione del lavoro. TESTO
1
La perdita dell’originario stato di felicità
(Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini) IL TESTO NELL’OPERA Il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755, contiene la risposta che Rousseau dà a un nuovo quesito dell’Accademia di Digione: “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, e se essa sia autorizzata dalla legge naturale”. Nonostante questo Discorso, a differenza del precedente, non ottenga il primo premio, ha comunque una notevole risonanza. In opposizione al giusnaturalismo, Rousseau descrive il costituirsi della società civile, in cui vige la legge del più forte, a partire da un ipotetico stato di natura, caratterizzato da felicità, libertà e assenza di gerarchie. Nel testo che segue Rousseau nota che l’invenzione dell’agricoltura e della metallurgia ha avuto come conseguenza l’appropriazione della terra e dei prodotti del lavoro, originando così disuguaglianze economiche tra i cittadini.
la nascita Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare questo è mio, e trovò persone abbastandella proprietà za ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante 2 privata
guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti!». Ma è molto probabile che allora le cose fossero già arrivate al punto di non poter durare così com’erano; infatti quest’idea di proprietà, dipendendo da parecchie idee antecedenti che non sono potute nascere se non in successione di tempo, non si formò tutt’a un tratto nello spirito umano: fu necessario fare molti progressi, acquistare molta abilità e molte cognizioni, trasmetterle ed arricchirle di generazione in generazione, prima di giungere a quest’ultimo termine dello stato di natura. […]
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il sorgere di Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucire 12 nuovi bisogni le loro vesti di pelli con spine di vegetali o con lische di pesce, a ornarsi di piume e conchi-
glie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro; da quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria.
14 16 18 20 22
le tragiche […] Ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente, assoggettato, per così dire, a tutta la 24 conseguenze natura da una quantità di nuovi bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui didella civilizzazione venta in certo senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno dei loro 26
servizi; povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farsi temere e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente. Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno, quanto per collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, […] il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della proprietà e il corteo inseparabile della disuguaglianza nascente.
28 30 32 34 36
la nascita […] «Uniamoci, disse [il ricco], per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno dello stato gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli 38
ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza distinzione il potente ed il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna concordia». […] Questa fu, almeno è probabile, l’origine della società e delle leggi, che ai poveri fruttarono nuove pastoie e ai ricchi nuove forze, distruggendo senza rimedio la società naturale, fissando per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, facendo d’una accorta usurpazione un diritto irrevocabile, e assoggettando ormai, a vantaggio di pochi ambiziosi, tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. (Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, parte II, in Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1997, vol. 1, pp. 173, 180-181, 184-185, 188)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La nascita della proprietà privata (rr. 1-11) La nascita della proprietà privata rappresenta l’«ultimo termine dello stato di natura» (r. 11), ovvero il punto di approdo di un percorso lento e graduale che porta
462
UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
l’essere umano da una condizione in cui tende a soddisfare i bisogni primari, legati alla sopravvivenza, alla creazione di bisogni superflui (come si vedrà meglio nelle righe seguenti).
40 42 44 46 48
Il sorgere di nuovi bisogni (rr. 12-23) La proprietà privata è per Rousseau lo strumento con cui l’essere umano cerca di soddisfare tutta una serie di nuovi bisogni che prima non avvertiva, ad esempio il bisogno di primeggiare sugli altri o quello di accumulare prodotti. Per far fronte a queste esigenze non naturali (cioè non legate alla sopravvivenza) gli individui inventano la metallurgia e l’agricoltura, che a loro volta portano con sé la proprietà degli utensili, la delimitazione e l’assegnazione dei terreni, la divisione del lavoro: in breve, la divisione tra ricchi e poveri, o tra potenti e deboli: la disuguaglianza sociale. Le tragiche conseguenze della civilizzazione (rr. 2436) La nuova condizione in cui, dopo l’avvento della proprietà privata, l’essere umano si trova a vivere è un vero e proprio stato di guerra, caratterizzato da violenza, egoismo, prepotenza, falsità. La descrizione
di Rousseau ricorda quella fatta da Hobbes a proposito dello stato di natura, con la differenza che per il filosofo ginevrino la malvagità e l’aggressività sono difetti “acquisiti”, che non appartengono all’uomo naturale, bensì all’uomo civilizzato. La nascita dello Stato (rr. 37-49) Alla drammatica situazione dello stato di guerra pone fine un atto di subdola astuzia condotto da parte di chi è ricco e potente. Quest’ultimo – al quale Rousseau, con graffiante ironia, mette in bocca le parole riportate in queste righe – legittima la disuguaglianza mediante un patto iniquo, che istituisce la società “civile”. È in questo modo, cioè nascondendo un imbroglio del potente a danno del debole e appellandosi a una presunta legge di natura, che, secondo Rousseau, la tradizione giusnaturalistica legittima una condizione di disuguaglianza e un’«accorta usurpazione» (rr. 47-48).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Secondo Rousseau, l’avvento della società civile rende tutto il genere umano schiavo del lavoro, dei rapporti di servitù e della miseria: sei d’accordo con questa tesi? Ritieni che nello Stato la disuguaglianza sia sancita per legge? A tuo giudizio, quale dovrebbe essere teoricamente e qual è nella realtà il ruolo dello Stato rispetto all’uguaglianza tra gli esseri umani? Argomenta le tue risposte in un testo scritto (max 30 righe).
TESTO
2
La clausola alla base del patto sociale
(Il contratto sociale)
l’alienazione Queste clausole, bene intese, si riducono tutte ad una sola: cioè l’alienazione totale di ciadei diritti scun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; perché, in primo luogo, se cia- 2 dei singoli alla comunità scuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e se la condizione è uguale per
tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. Di più, facendosi l’alienazione senza riserve, l’unione è perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che potesse pronunciarsi tra loro e il pubblico, ciascuno, essendo su qualche punto il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo stato di natura persisterebbe, e l’occasione diverrebbe necessariamente tirannica o vana.
4 6 8 10
TESTI ROUSSEAU
IL TESTO NELL’OPERA Rousseau pubblica il Contratto sociale nel 1762, come frammento di un più ampio lavoro sulla politica e sulle leggi. Il problema fondamentale affrontato in quest’opera è l’individuazione di una forma di potere politico legittimo, ovvero tale che, pur presupponendo la perdita irrimediabile del “felice paradiso” dello stato di natura, possa rivelarsi utile e addirittura vantaggioso. Si tratta, più precisamente, di scoprire come sia possibile realizzare un’organizzazione sociale che consenta di rendere sicuri quei beni di cui gli individui godevano indisturbati nello stato di natura. Nel testo seguente Rousseau spiega che soltanto se tra la volontà individuale e la volontà collettiva si instaura un rapporto di identità l’obbedienza dei cittadini si trasforma in libertà. L’elemento distintivo del contratto rousseauiano consiste pertanto nella sottomissione volontaria e libera alla legge.
463
Infine, ciascuno dandosi a tutti, non si dà a nessuno; e siccome non c’è associato, sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente in- 12 tiero di ciò che si perde, e più forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non fa parte della sua essenza, si troverà 14 ch’esso si riduce ai termini seguenti: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo 16 riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». la nascita di un Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun contraente, quest’atto di as- 18 «io comune» sociazione produce un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha
l’assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall’unione di tutte le altre, prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di repubblica o di corpo politico il quale è chiamato dai suoi membri Stato, in quanto è passivo, sovrano, in quanto è attivo, potenza nel confronto con i suoi simili. Riguardo agli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano particolarmente cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottomessi alle leggi dello Stato. (Il contratto sociale, libro I, cap. 6, trad. it. di R. Mondolfo, in Opere, a cura di P. Rossi, cit., p. 285)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’alienazione dei diritti dei singoli alla comunità (rr. 1-17) A differenza delle società realmente esistenti, in cui l’uguaglianza originaria è stata sconvolta dalle disuguaglianze artificiali e dai rapporti di dipendenza e di potere tra gli esseri umani, la nuova associazione prospettata da Rousseau deve essere una comunità di uguali, in cui il potere non sia attribuito a una o a più persone, ma a tutti contemporaneamente. Questo potere condiviso da tutti si incarna nella «volontà generale» (r. 16), in cui viene assorbita ogni volontà particolare. La volontà generale non è una volontà particolare che assoggetti tutte le altre volontà e le metta in situazione di dipendenza; essa ha il carattere impersonale delle forze della natura. Per questo, il rapporto tra le volontà particolari e la volontà generale non si fonda sulla forza, ma sulla libertà. Il contratto sociale deve contenere clausole precise e ben determinate, che si riducono in definitiva a una sola: la totale alienazione dei diritti di ciascun associa-
to alla comunità. Di fronte alla legge della comunità non possono esistere riserve o privilegi: tutti gli individui devono essere posti su un piano di assoluta parità e dopo l’unione non possono più avanzare rivendicazioni di alcun genere nei confronti dello Stato. Questo entusiasmo per la legge della comunità si basa sulla convinzione che le esigenze morali dell’individuo si realizzino soltanto nella legge. La nascita di un «io comune» (rr. 18-26) Lo Stato che si costituisce attraverso il contratto sociale è un «io comune», un corpo morale e politico autonomo, che si configura come “persona pubblica”. Questa, a seconda delle circostanze, sarà denominata “Stato”, ma anche “repubblica”, “corpo sovrano” o “potenza”, mentre i suoi associati diventeranno “popolo”, “cittadini” o “sudditi”. Soltanto nello Stato così costituito l’individuo troverà la sua libertà e la sua perfezione morale. Pur rinunciando a parecchi vantaggi naturali, egli diverrà propriamente uomo tra uomini e libero tra liberi.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Nei Due trattati sul governo Locke, a proposito dell’origine della società civile, afferma: «Un uomo si spoglia della sua libertà naturale e accetta i vincoli della società civile solo quando decide insieme con altri uomini di associarsi e unirsi tutti in una comunità, per viver bene, nella tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle loro proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella società non appartengono. […] Quando un certo numero di uomini in tal modo consente di istituire una comunità o stato politico, essi vengono immediatamente associati in modo da costituire un solo corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di decretare e decidere per il resto». Alla luce del brano che hai letto e delle tue conoscenze, immagina quale risposta possa dare Rousseau al filosofo inglese, quindi riportala in un testo scritto (max 35 righe).
464
UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau CApITOLO 4 ROUSSEAU
20 22 24 26
VERIFICA
UNITÀ 5 VICO, GLI ILLUMINISTI E ROUSSEAU
CAPITOLO 1 Vico
FLASHCARD
1 Per Vico la conoscenza umana:
c. Nel corso delle tre età della storia
gli esseri umani regrediscono progressivamente
A è affine, per contenuti e metodo, a quella divina B è limitata al solo mondo della natura
sui propri passi
l’oggetto D raccoglie fuori di sé gli elementi che costituiscono l’oggetto
V
F
V
F
V
F
e. La poesia è l’espressione di una verità
già conosciuta razionalmente f. Gli universali fantastici rappresentano
2 La «storia ideale eterna»:
i caratteri tipici della realtà
A si identifica con il corso temporale delle nazioni
4 Perché Vico definisce «nuova» la propria scienza?
B è il modello della storia reale C è necessaria e, in quanto tale, annulla la libertà
(max 6 righe)
dell’individuo D ammette il caso, pertanto non è indirizzata ad alcun fine
5 Quali sono, per Vico, l’origine e la natura del linguaggio?
3 Indica se le affermazioni seguenti, riferite al pensie-
6
ro di Vico, sono vere o false. a. L’uomo non può conoscere il proprio V
F
V
F
b. La storia è un succedersi slegato
di avvenimenti
F
d. La storia ritorna periodicamente
C possiede in sé gli elementi che costituiscono
essere perché non ne è la causa
V
(max 6 righe)
attività PLUS Prima di Vico, Hobbes aveva operato una distinzione tra conoscenza certa e conoscenza probabile, circoscrivendo l’ambito della prima alle creazioni dell’essere umano. Vico, a sua volta, sostiene che il vero e il fatto si identificano. Metti a confronto le concezioni gnoseologiche dei due filosofi, facendo emer(max 20 righe) gere affinità e differenze.
CAPITOLO 2 I caratteri generali dell’Illuminismo 7 Nel “secolo dei Lumi” l’intellettuale:
c. Gli illuministi riscoprono il sentimento
come categoria spirituale irriducibile alla ragione
A si adopera per riformare la società e giovare
al prossimo B è un sapiente avulso dalla vita della comunità C è un eccentrico anticonformista D appartiene generalmente alla classe aristocratica
prevalente nella cultura illuministica è l’antiegualitarismo
V
F
V
F
e. Per l’Illuminismo l’unico soggetto
a. Gli illuministi attenuano il processo
della storia è l’essere umano
9 In che cosa consiste il “programma” illuministico? (max 6 righe)
V
F
V
F
b. L’Illuminismo respinge il dogmatismo
e la presunzione della ragione cartesiana
F
d. L’atteggiamento di gran lunga
8 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. di laicizzazione della cultura iniziato dal Rinascimento
V
10
attività PLUS Spiega quali rapporti l’Illuminismo intrattenga, rispettivamente, con il Rinascimento, con la rivoluzione scientifica, con il razionalismo e l’empirismo moderni, e metti in evidenza gli elementi di originalità (max 20 righe) che caratterizzano il movimento.
465
CAPITOLO 3 L’Illuminismo francese 11 Di fronte al male nel mondo Voltaire:
14 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
A va alla ricerca degli immancabili risvolti positivi
la mappa riportata sotto.
B assume un atteggiamento negazionista
guida • leggi • necessitante • ordine • progressivo • progresso • ragione
C confida in un avvenire migliore, dovuto all’opera
degli esseri umani D riconosce la necessità di rifugiarsi nel
15 Qual è la concezione che Montesquieu ha delle leggi? (max 6 righe)
trascendente
12 Diderot concepisce Dio come:
16 Quale visione ha Voltaire della religione? (max 6 righe)
A un intelletto infinito
17 Spiega il modo in cui La Mettrie, D’Holbach e Hel-
B una sensibilità diffusa
vétius hanno declinato i princìpi del materialismo (max 10 righe) settecentesco.
C un’idea fallace con cui il clero mantiene
il popolo sottomesso D un creatore completamente separato dalla sua creazione
13 Per Condillac le facoltà umane derivano:
18 Ricostruisci le vicende dell’Enciclopedia e mettine in luce il valore storico, al di là delle incongruenze e de(max 15 righe) gli errori di contenuto.
19
A dalla sensazione B dalla ragione C dal sentimento D dalla coscienza
attività PLUS Analizza la concezione dell’essere umano che emerge dalle opere letterarie di Voltaire, in particolare dal racconto Micromega, dal Poema sul disastro di Lisbona e dal romanzo Candido o dell’ottimismo. Quali aspetti di questa concezione possono essere considerati propriamente illuministici? Riporta l’esito delle tue riflessioni in un testo scritto, in cui (max 25 righe) argomenti il tuo punto di vista.
CAPITOLO 4 Rousseau 20 Lo stato di natura per Rousseau è: A un dato storico
A nell’indipendenza dei singoli dallo Stato
B una fantasticheria
B nell’accettazione volontaria della legge
C un’ipotesi teorica D un’antica credenza relativa all’età dell’oro
C nella pienezza dell’arbitrio D in un surrogato della libertà naturale
GLI ILLUMINISTI FRANCESI
[mappa esercizio 14] individuano
un . . . . . . . . . . . . . . . . . . nella storia dovuto a ..................
466
21 La libertà civile di cui parla Rousseau consiste:
riconoscono
il carattere non . . . . . . . . . . . . . . . . . . delle
leggi della storia
UNITÀ 5 Vico, gli illuministi e Rousseau VERIFICA
considerano
identificano
l’ordine della storia come . . . . . . . . . . . . . . . . . .
il . . . . . . . . . . . . . . . . . . della storia con la crescente prevalenza della . . . . . . . . . . . . . . . . . . come . . . . . . . . . . . . . . . . . . delle attività umane
22 Il criterio che Rousseau pone alla base dell’apprendi-
e. Il fine dell’educazione è la correzione
delle fragilità e dei vizi della natura
mento di Emilio è: A l’utilità B la severità C la spensieratezza D l’astrazione
il valore della religione civile
(max 10 righe)
25 Spiega in che senso Rousseau può essere consideraV
F
V
F
V
F
V
F
b. L’epoca più felice della storia del c. Il contratto sociale prevede l’alienazione d. La volontà generale è la somma
delle volontà particolari
F
nei due Discorsi inviati all’Accademia di Digione?
a. Le scienze e le arti abituano gli uomini
dei singoli a tutta la comunità
V
24 Quali sono le tesi principali sostenute da Rousseau
ro di Rousseau, sono vere o false.
mondo è lo stato di natura
F
f. La religione naturale non esclude
23 Indica se le affermazioni seguenti, riferite al pensie-
ad apparire piuttosto che a essere
V
VERSO L’ESAME DI STATO PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C
RIFLESSIONE CRITICA DI CARATTERE ESPOSITIVO-ARGOMENTATIVO SU TEMATICHE DI ATTUALITÀ
to un pensatore democratico e libertario, ma anche (max 15 righe) autoritario e totalitario.
26
attività PLUS Prima di Rousseau, anche Hobbes e Locke hanno parlato di “contratto sociale”, con significative differenze. Analizza la riflessione del filosofo ginevrino su questo tema alla luce dei contributi dei due filosofi inglesi, facendone emergere gli aspetti (max 25 righe) più originali.
COMPETENZE Comunicare in forma scritta | Elaborare le informazioni | Sviluppare la riflessione personale e il giudizio critico | Argomentare una tesi
La liceità delle punizioni
‘
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne’ romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo. […] Fu […] la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto. […] E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono
nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di M. Sipione, Lu::Ce Edizioni, Massa 2014)
La citazione proposta è tratta dal saggio dell’illuminista milanese Cesare Beccaria (1738-1794) Dei delitti e delle pene, che godette di grande notorietà anche all’estero e che affronta con spirito illuminista il tema delle sanzioni giudiziarie, intese come strumento per prevenire i reati. Rifletti sull’attualità della concezione di Beccaria, facendo riferimento a uno specifico caso di cronaca che ha colpito particolarmente la tua sensibilità. Puoi articolare il tuo testo in paragrafi e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
467
6 UNITÀ
KANT
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me. (I. Kant, Critica della ragion pratica, “Conclusione”)
468
Con il suo sistema filosofico, Immanuel Kant inaugura una nuova fase del pensiero moderno. Convinto della necessità di analizzare e delimitare rigorosamente ogni campo del sapere, per rifondarlo su basi più salde, fa propri gli interrogativi già presenti nell’empirismo e li conduce a una maggiore radicalità, prospettando un’originale critica condotta dalla ragione nei confronti di sé stessa. Il kantismo si delinea così come un’accurata indagine sulle condizioni che rendono possibili tutte le esperienze umane – dalla conoscenza alla morale, dall’arte alla politica – e si pone come il punto di arrivo del processo moderno di affermazione dell’autonomia della ragione.
L’
unità presenta la complessa opera di Immanuel Kant, il quale, collocandosi tra Illuminismo e Romanticismo, attribuisce alla ragione il compito di condurre una “critica” intorno ai fondamenti e ai limiti di ogni esperienza e di ogni facoltà umana. Il filosofo costruisce così un sistema che pone al proprio centro l’uomo e le sue possibilità negli ambiti del conoscere, dell’agire e del giudicare. IL RACCONTO DI UNA VITA
Una vita nell’“ordine” della ragione Gli scritti di Kant
CAPITOLO 1 Il progetto filosofico
Nel cosiddetto “periodo pre-critico” Kant effettua ricerche in campo naturalistico, per poi avvicinarsi all’empirismo inglese e affermare un nuovo punto di vista sulla metafisica, intesa come scienza che fissa i limiti entro i quali la ragione può legittimamente essere applicata.
CAPITOLO 2 La Critica della ragion pura
Riguardo al problema della conoscenza, Kant ribalta i rapporti tra soggetto e oggetto,
affermando che non è la nostra mente a modellarsi sui fenomeni, quasi riflettendoli, ma è la rappresentazione che ci facciamo del mondo ad adattarsi alle nostre strutture conoscitive.
CAPITOLO 3 La Critica della ragion pratica Anche nel campo della ragione pratica, che regola i comportamenti, l’assunto kantiano rimane invariato: la morale non è un insieme di precetti esterni all’essere umano, a cui ci si deve adeguare, ma risiede dentro di noi.
CAPITOLO 4 La Critica del Giudizio
Il sentimento è per Kant la facoltà mediante la quale gli uomini fanno esperienza e giudicano della finalità del mondo: questa esula dall’ambito legittimo della ragione «pura» (teoretica) e deve pertanto essere assunta dalla ragione «pratica» come un postulato indimostrabile.
CAPITOLO 5 Le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
Anche negli ambiti della religione, del diritto e della storia Kant propone originali contributi, che sono stati rivalutati soprattutto dalla critica contemporanea.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi Kant - La “rivoluzione copernicana” nella filosofia e sintetizzane per scritto il contenuto, elaborando una scaletta dei punti-chiave che vi sono esposti e prendendo nota di eventuali dubbi e spunti di riflessione.
IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante dividetevi a coppie e, all’interno di ciascuna di esse, confrontate il lavoro svolto a casa e discutete dei dubbi e degli spunti di riflessione che avete individuato.
Infine elaborate insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - perché, a proposito del pensiero di Kant, si parla di una “rivoluzione copernicana”? - in che senso l’io diventa con Kant il «legislatore della natura», e non un suo semplice spettatore passivo? - per quali motivi si può affermare che il soggettivismo moderno arriva in Kant al suo culmine?
VIDEOLEZIONE Kant La “rivoluzione copernicana” nella filosofia
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IL RACCONTO DI UNA VITA AUDIO
Una vita nell’“ordine” della ragione
‘
Il filosofo si racconta
Al servizio della razionalità
Io ho avuto la felicità di conoscere un filosofo, che fu mio maestro. […] Egli incoraggiava e costringeva dolcemente a pensare da sé […]. Quest’uomo, che io nomino con la massima gratitudine e venerazione, è Immanuel Kant: la sua immagine mi sta sempre dinanzi. (J.G. Herder, Lettera sulla promozione dell’umanità)
Le parole riportate nel riquadro fanno parte di un ritratto vibrante e ammirato in cui Johann Gottfried Herder (1744-1803), allievo di Kant tra il 1762 e 1774, apprezza l’altissima statura morale e intellettuale di quello che da sempre è considerato uno dei filosofi più importanti di tutti i tempi. Della grandezza di Kant parla anche un altro suo studente, Reinhold Bernhard Jachmann (17671843), che dedica al proprio maestro una biografia epistolare in cui osserva:
‘
La mente di Kant fu un sole splendente che nulla poteva oscurare, che illuminava e scaldava ogni cosa intorno a sé, e risplenderà in eterno dal firmamento degli spiriti magni. (R.B. Jachmann, Immanuel Kant descritto in lettere a un amico, in AA.VV., La vita di Immanuel Kant, trad. it. di E. Pocar, Laterza, Roma-Bari 1969, p. 134)
Eppure questo “eroe” del pensiero, capace di scalare le impervie vette della filosofia, ha condotto un’esistenza appartata e abitudinaria, priva di eventi esteriori di rilievo. In un certo senso, quella di Kant è stata una vita interamente dedicata a servire la ragione, il cui esercizio esige sobrietà, ordine e disciplina.
L’educazione e gli studi
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di KANT
Immanuel Kant nasce a Königsberg il 22 aprile 1724, da una famiglia di umili origini (il padre era sellaio). A quel tempo Königsberg (che alla fine della Seconda guerra mondiale è stata annessa all’Unione Sovietica con il nome di Kaliningrad, e che oggi si trova in Russia) era la capitale della Prussia orientale e si presentava come un importante e vivace centro commerciale e intellettuale. Dalla sua città natale, Kant non si sposterà mai: anche quando nel 1778 gli verrà offerta una cattedra presso l’Università di Halle, con uno stipendio più alto e con la possibilità di una maggiore notorietà, il filosofo rifiuterà, convinto che il sapere si possa acquisire anche senza viaggiare e giudicando Königsberg come il luogo ideale per accrescere la conoscenza sia degli uomini sia, indirettamente, del mondo. La madre di Kant, Anna Regina Reuter, educa il figlio nello spirito religioso del pietismo, di cui è fervente seguace. Morirà nel 1737, quando Immanuel avrà soltanto tredici anni, lasciando in lui un ricordo pieno di gratitudine:
‘
Non dimenticherò mai mia madre, perché gettò e nutrì in me il primo germe del bene, aprì il mio cuore alle impressioni della natura, suscitò e allargò i miei concetti ed esercitò con i suoi (R.B. Jachmann, op. cit., pp. 165-166) insegnamenti un perenne benefico influsso sulla mia vita.
enciclosofia pietismo Corrente protestante fondata alla fine del XVII secolo da Philipp Jakob Spener (1635-1705). Insisteva sul carattere soggettivo, interiore e mistico del cristianesimo e, in polemica con gli indirizzi intellettualistici del luteranesimo, sottolineava il carattere pratico della fede, intendendola come impegno attivo nella società, lontano dai riti e dai dogmi ufficiali.
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UnitÀ 6 KANT iL RACCOntO Di UnA VitA
Philipp Jacob Spener ritratto in un’incisione del 1683 circa.
All’età di otto anni Kant entra nel prestigioso Collegium Fridericianum di Königsberg, diretto dal pastore e teologo Franz Albert Schultz (1692-1763), anch’egli pietista e amico della madre. Conseguito il diploma nel 1740, studia filosofia, teologia, matematica e scienze naturali presso l’Università Albertina di Königsberg. Qui ha come maestro Martin Knutzen (1713-1751), al quale si deve il suo particolare avvicinamento alla filosofia, alla matematica e alla fisica newtoniana. Nel 1746, a causa della morte del padre, Kant è costretto a lasciare l’università e a provvedere a sé stesso lavorando come precettore privato. In quello stesso anno termina il suo primo scritto, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (che verrà pubblicato nel 1749), in cui partecipa alla disputa tra Cartesio e Leibniz sulla natura dell’energia cinetica dei corpi.
L’insegnamento universitario Nel 1755 Kant ottiene la libera docenza presso l’Università di Königsberg e pubblica in forma anonima il suo primo testo importante: il trattato Storia universale della natura e teoria del cielo, in cui descrive secondo le leggi di Newton la genesi del sistema solare a partire da una nebulosa. Questa teoria – formulata qualche anno più tardi, in maniera indipendente, anche dal francese Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) – diverrà nota come “ipotesi Kant-Laplace” e sarà la base della moderna cosmologia. In questo periodo il filosofo partecipa alla vita mondana della sua città: frequenta salotti privati e circoli culturali, mostrando una piacevole socievolezza e acquistando fama per la sua abilità nel gioco del biliardo e delle carte. Amabile, colto e brillante nella conversazione, è molto richiesto dai suoi concittadini, sebbene le sue condizioni economiche lo costringano a dedicare gran parte del proprio tempo libero alla preparazione delle lezioni. Per attirare il maggior numero possibile di studenti (ed essere di conseguenza maggiormente retribuito), egli accetta infatti di tenere più corsi contemporaneamente, misurandosi con le più svariate discipline: matematica, fisica, antropologia, geografia, logica, metafisica, filosofia, teologia e pedagogia, e perfino arte della fortificazione e pirotecnica.
L’occupazione russa di Königsberg Le asprezze e la fatica dell’esistenza non turbano l’ordine metodico della vita intellettuale di Kant, il quale, oltre a dimostrarsi un docente straordinario, molto apprezzato dai suoi allievi, nel giro di una decina d’anni riesce a comporre e a dare alle stampe diversi scritti. Nel frattempo la situazione politica internazionale degenera: mosso da mire espansionistiche, nel 1756 Federico II trascina la Prussia in quella che sarà chiamata “Guerra dei sette anni” (1756-1763), portando il Paese a combattere a fianco della Gran Bretagna contro Francia, Austria, Russia e Svezia. Affacciata sul mar Baltico, Königsberg è un porto strategico, fondamentale specialmente per l’esportazione dei prodotti russi: per evitare un’invasione da parte dei nemici, nel 1758 Federico II acconsente all’occupazione della città da parte delle truppe dello zar, che la libereranno soltanto nel 1762. enciclosofia Federico II Figlio di Federico Guglielmo I e di Sofia Dorotea di Hannover, Federico II (1712-1786) venne formato con severità in economia e storia, ma manifestò ben presto uno spiccato interesse anche per le lettere e la filosofia. Salì sul trono di Prussia nel 1740 e condusse una politica estera di espansione; contemporaneamente riorganizzò lo Stato secondo criteri illuministici, promulgando un nuovo codice civile (il Corpus Iuris Fridericianum, 1745-1751) e favorendo lo sviluppo economico, culturale e artistico del Paese. Le sue qualità di condottiero e di sovrano illuminato gli valsero il soprannome di Federico “il Grande”.
Johann Georg Ziesenis, Federico il Grande, 1763, Potsdam, Palazzo di Sanssouci.
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Da bibliotecario a professore ordinario Nel 1766, grazie all’appoggio di Federico II, Kant ottiene l’incarico di sotto-bibliotecario presso la Biblioteca del Castello di Königsberg, dove lavorerà per sei anni. Sempre nel 1766 dà alle stampe i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, in cui paragona le pretese conoscitive della metafisica (che si spinge oltre i sensi) alle sedute spiritiche di Emanuel Swedenborg (1688-1772), un mistico svedese che affermava di poter comunicare con i defunti. Nel 1770, con una dissertazione Sulla forma e sui princìpi del mondo sensibile e intelligibile, Kant finalmente ottiene la cattedra ordinaria di logica e metafisica presso l’Università di Königsberg: un posto che manterrà fino alla morte, adempiendo con grande scrupolo ai suoi doveri di insegnante, anche quando la debolezza senile glieli renderà estremamente gravosi. Al Kant insegnante è dedicata l’intera lettera quarta della biografia epistolare composta da Jachmann, il quale sottolinea la dedizione e l’efficacia comunicativa di questo appassionato e appassionante docente:
‘
Il suo discorso era sempre perfettamente adeguato all’argomento, ma non era mandato a memoria, era ogni volta una ripensata effusione della sua mente. […] L’aula delle sue lezioni pubbliche, specie all’inizio del semestre, non poteva contenere la folla degli ascoltatori e molti erano costretti a stare in una stanza attigua o nel vestibolo. I suoi studenti quasi lo adoravano e (R.B. Jachmann, op. cit., pp. 136-139) coglievano ogni occasione per dimostrarglielo.
La pubblicazione delle opere maggiori Da professore ordinario, Kant gode finalmente di uno stipendio fisso e non è costretto a lavori di ripiego. Si apre così il suo periodo intellettualmente più produttivo, favorito da uno stile di vita ordinato e meticoloso, fondato su rigide abitudini: sveglia alle cinque, preparazione delle lezioni, insegnamento, colazione con gli amici (primo fra tutti il commerciante inglese Joseph Green), passeggiata pomeridiana compiuta sempre alla stessa ora (al punto che gli abitanti di Königsberg, a quanto si dice, regolavano il loro orologio
Una ragione che richiede disciplina Il dovere di usare bene il proprio tempo
DALLA VITA AL PENSIERO
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La vita regolare e disciplinata di Kant ci è in gran parte nota grazie a Ludwig Ernst Borowski (1740-1831), amico e biografo del filosofo. Nel presentare gli aspetti aneddotici e spesso parodistici delle abitudini kantiane (molti dei quali sono senz’altro frutto di fantasia), Borowski non li riduce a forme di pedanteria esteriore, ma vi rintraccia l’espressione di una severa autodisciplina, che aveva la sua motivazione nella volontà del filosofo di sfruttare fino in fondo il tempo che la sorte gli metteva a disposizione. Scrive infatti Borowski che il tempo «fu sempre assai prezioso per Kant, che si fece un sacro e rigorosamente adempiuto dovere di usarlo sempre nel modo migliore» (Descrizione della vita e del carattere di Immanuel Kant, in AA.VV., La vita di Immanuel Kant, cit., p. 44). UnitÀ 6 KANT iL RACCOntO Di UnA VitA
E il modo migliore per impiegare il proprio tempo è per Kant la filosofia, la quale dunque non ha nulla di evasivo o consolatorio, ma è l’adempimento di un dovere «sacro» e faticoso, un “lavoro” della ragione, impegnativo, gravoso e monotono come l’insegnamento.
L’esercizio della ragione come lotta contro gli istinti Dovere, fatica, disciplina: queste parole, che animano l’intera esistenza di Kant, illuminano anche un tema centrale della sua riflessione: la convinzione che l’esercizio della ragione non sia qualcosa di istintivo e piacevole, ma esiga un’incessante lotta della volontà contro le pulsioni egoistiche e utilitaristiche presenti in ogni essere umano. Vivere secondo ragione, per Kant, non è facile, e proprio in questo consiste la virtù: nella
sulla comparsa del filosofo), ancora lavoro e infine, alle dieci in punto, riposo. Grazie a questa ferrea disciplina, confortato da pochi affetti e amicizie, Kant può concentrarsi in uno sforzo intellettuale di altissimo livello, che darà come frutto i suoi grandi capolavori ( “Dalla vita al pensiero”). Nel 1781, dopo undici anni dalla nomina a professore ordinario, Kant pubblica la Critica della ragion pura, che tuttavia gli attira alcuni giudizi sfavorevoli per via della complessità espositiva e delle novità linguistiche utilizzate. A suscitare sconcerto, probabilmente, sono soprattutto l’altezza concettuale e il carattere rivoluzionario dell’opera, che scardina i princìpi fondamentali del precedente pensiero filosofico mettendo in forse l’affidabilità conoscitiva della metafisica. Per difendersi dalle accuse, nel 1783 Kant dà alle stampe i Prolegomeni a ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza. Nel 1784 esce il saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? e due anni dopo Kant viene nominato rettore dell’Università di Königsberg. Al 1788 risale la Critica della ragion pratica e al 1790 la Critica del Giudizio: in meno di dieci anni (1781-1790) fanno dunque la loro comparsa alcuni tra i più importanti scritti filosofici di tutti i tempi.
La difesa di una costituzione “repubblicana” Per quanto si dedichi in modo quasi esclusivo allo studio e all’insegnamento, Kant non rimane indifferente agli avvenimenti del suo tempo, che osserva con curiosità e partecipazione. Dopo aver simpatizzato con gli americani nella loro Guerra d’indipendenza (17751783), giudica positivamente anche la Rivoluzione francese ( “Dalla vita al pensiero”, p. 475). E proprio agli ideali di libertà e giustizia proclamati dai rivoluzionari francesi nel 1789 si ispira la riflessione politica che pochi anni dopo (nel 1795) egli delinea nello scritto Per la pace perpetua. In tale scritto, infatti, Kant mette in luce il valore di una «costituzione repubblicana» e democratica, «fondata in primo luogo sul principio di libertà dei membri di una società, come uomini; in secondo luogo sul principio d’indipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge dell’uguaglianza, come cittadini».
soluzione di un drammatico conflitto tra ciò che vorremmo fare (il piacere) e ciò che dobbiamo fare (il dovere). In una celebre biografia dedicata al pensatore tedesco, il filosofo contemporaneo Ernst Cassirer (1874-1945) osserva che i diversi espedienti messi in atto da Kant per sottomettersi alla forza della ragione sono il sintomo (o il simbolo) di un atteggiamento bivalente nei confronti della ragione stessa. Pur nutrendo in essa una grande fiducia, Kant è infatti consapevole anche dei suoi limiti, cioè di come, nell’ambito della vita pratica, dal «legno storto dell’umanità» essa riesca a tirar fuori il bene soltanto al prezzo di una grande fatica: [Kant] ha foggiato tutta la sua esistenza con la limpida forza di una volontà inflessibile e l’ha
tutta pervasa di una sola idea dominante; ma questa volontà, che si è dimostrata positivamente creativa in sommo grado nella costruzione della sua filosofia, nei confronti della vita privata personale ha un tratto limitante e negativo. Per lui tutti i moti del sentire soggettivo e della passione soggettiva costituiscono solo il materiale che egli si sforza sempre più decisamente di sottomettere al dominio della “ragione” e dell’imperativo del dovere. Se in tale lotta la vita di Kant perde in ricchezza e armonia, d’altra parte è certo solo attraverso questa lotta che essa acquista il suo carattere veramente eroico. (E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, trad. it. di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 14)
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Lo scontro con il governo prussiano La Rivoluzione francese e le vicende che ne seguono cadono negli anni in cui Kant sta ormai ultimando il suo edificio teorico e dottrinario; progressivamente, egli orienta dunque il proprio interesse sulle questioni politiche, trasformandosi, da filosofo, in una sorta di pubblicista. In questa nuova veste, egli si mostra particolarmente critico nei confronti del regime reazionario e illiberale che proprio in quegli anni, dopo la morte di Federico II (1786), si sta instaurando in Prussia. Se Federico era stato un sovrano “illuminato” e tollerante, il suo successore, Federico Guglielmo II, è un conservatore, che sceglie come ministro dell’educazione un acceso avversario della cultura illuminista. Con grande coraggio, Kant celebra allora la libertà della ragione contro ogni autoritarismo e oscurantismo: «O amici dell’umanità […] non contestate alla ragione ciò che la rende il bene sommo in terra, cioè il privilegio di fungere da pietra ultima di paragone della verità!» (Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, p. 66). Mentre la reazione antiilluministica incalza, Kant difende il diritto degli intellettuali di esercitare una libera critica nei confronti del potere:
‘
Deve spettare ai cittadini dello Stato, e con l’approvazione del medesimo signore supremo, la facoltà di rendere pubblicamente nota la loro opinione su ciò che nelle disposizioni di quel supremo potere appaia un’ingiustizia contro il corpo comune. […] la libertà della penna […] è l’unico baluardo a protezione dei diritti del popolo. (Sopra il detto comune “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, utet, Torino 1965, p. 270)
Schierandosi in difesa della “luce” della ragione e della libertà di espressione, Kant entra in conflitto con il governo prussiano, soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1793, del saggio La religione entro i limiti della sola ragione. Federico Guglielmo condanna infatti lo scritto kantiano, accusando il filosofo di recare offesa alla religione cristiana e proibendogli di insegnare le dottrine esposte nel saggio. Per evitare uno scontro aperto, Kant invia al sovrano una lettera in cui promette di non tenere più corsi di filosofia della religione. La libertà di stampa viene ripristinata in Prussia soltanto nel 1797, con la salita al trono del più tollerante Federico Guglielmo III, e appena un anno più tardi (1798) Kant pubblica Il conflitto delle facoltà, in cui rivendica la libertà di pensiero e di parola – anche in ambito religioso – contro gli arbìtri del dispotismo ( “Dalla vita al pensiero”).
La debolezza senile e la morte Negli ultimi anni della sua esistenza Kant viene travolto da una debolezza senile (forse riconducibile a quella che oggi è nota come malattia di Alzheimer) che lo priva gradualmente di tutte le sue facoltà, compresa la parola, facendolo vivere in uno stato di sonnolenza continua. Lo spegnersi di una così vivida intelligenza provoca grande tristezza negli amici e nei discepoli. Emblematica in questo senso è la testimonianza di Jachmann:
‘
Appena entrai, il vecchio [filosofo] si alzò curvo dalla sedia e mi venne incontro con passo incerto. […] Mi guardò con occhi scialbi, cercando, e gentilmente mi domandò chi fossi. Il mio Kant non mi riconosceva! […] Abbracciai il mio grande maestro per l’ultima volta e me ne andai con una gran pena nel cuore e con le lacrime agli occhi. (R.B. Jachmann, op. cit., pp. 202-203)
Kant muore il 12 febbraio 1804, mormorando «Sta bene» (Es ist gut). Sulla sua tomba saranno incise alcune parole tratte dalla Critica della ragion pratica: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».
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Gli scritti di Kant Le due grandi fasi della produzione kantiana Nell’attività filosofica e nella produzione scritta di Kant si possono distinguere due periodi principali. 1. Nel primo, che va dal 1746 al 1770 (anno della dissertazione Sulla forma e sui princìpi del mondo sensibile e intelligibile), prevale all’inizio l’interesse per le scienze naturali, e poi per la filosofia: Kant passa gradualmente dagli studi scientifici (sull’universo, sul fuoco, sui terremoti, sui venti ecc.) a quelli logico-epistemologici, teologici e metafisici, che lo portano a interrogarsi sui princìpi e sul metodo delle scienze, sui fondamenti della teologia e della morale, nonché sulla portata conoscitiva della metafisica. 2. Dopo più di un decennio (1770-1781) trascorso senza alcuna pubblicazione, si apre il secondo grande periodo della produzione scritta di Kant, che va dal 1781 in poi, ovvero dall’uscita della Critica della ragion pura fino alla fine. Negli scritti di questi anni sono esplicitati i princìpi fondamentali del “criticismo” – come sarà chiamato l’orientamento generale del pensiero di Kant – e della sua “filosofia trascendentale”.
La libertà umana: da ideale della ragione a realtà storica DALLA VITA AL PENSIERO
Dalla sua Königsberg, Kant segue con interesse ciò che accade negli altri Paesi, guardando con particolare attenzione agli sviluppi della Rivoluzione francese. Un capitolo del saggio Il conflitto delle facoltà (1798) è dedicato proprio alla Rivoluzione del 1789, che viene descritta come un «evento del nostro tempo per il quale è lecito sperare nel progresso del genere umano».
La “repubblica” auspicata da Kant In effetti, alle vicende della Francia il filosofo attribuisce un’importanza particolare, poiché gli pare che, al di là dei drammatici anni del “Terrore”, esse segnino l’irruzione nella storia di una novità assoluta, ovvero della possibilità di tradurre in politica concreta quello che egli considera un dovere morale valido per tutti gli uomini in quanto tali: essere liberi. Kant aveva fissato l’ideale di una società di uomini liberi e di una «costituzione repubblicana» ben prima del 1789, sebbene con questa espressione non intendesse suggerire l’abolizione della monarchia (evento che, in quanto fedele suddito del re di Prussia, non auspicava affatto), bensì una conduzione della “cosa pubblica” (in latino res publica) secondo gli interessi di tutto il popolo, anziché di una sola persona, di una sola dinastia o di un solo ceto. Per quanto compatibile con la monarchia, questa forma di governo consisteva in un regime parlamentare e rappresentativo, basato sulla divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu. Si trattava
dunque di un’organizzazione politica ben diversa dalla monarchia assoluta di Luigi XVI rovesciata dai rivoluzionari, ma soprattutto si trattava di un regime che già nella Critica della ragion pura (1781) Kant aveva indicato come il tipo di governo «più vicino alla sublime idea della ragione». Agli occhi di Kant, la Rivoluzione francese appare dunque come il tentativo di incarnare nella realtà storica l’ideale razionale della libertà, dell’indipendenza e dell’uguaglianza di tutti gli uomini.
L’«entusiasmo» per il progresso morale dell’umanità Le vicende francesi suscitano in Kant il medesimo «entusiasmo» (come egli stesso lo chiama) che accende i frequentatori di tutti i circoli liberali, democratici e illuministi della Germania e, più in generale, dell’Europa: La rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità […] trova negli spiriti di tutti gli spettatori non coinvolti una partecipazione che rasenta l’entusiasmo. (I. Kant, Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, utet, Torino 1995, p. 219)
E proprio questo entusiasmo che “contagia” i liberi pensatori di tutto il mondo costituisce per Kant la prova del fatto che l’umanità si è incamminata sulla strada del progresso morale, aumentando la propria consapevolezza dell’importanza della libertà dei singoli contro i possibili soprusi dei governi dispotici.
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Gli scritti del primo periodo sono comunemente definiti “scritti del periodo pre-critico”; quelli del secondo vanno invece sotto il nome di “scritti del periodo critico” e comprendono, oltre alle varie parti del sistema di Kant, anche una serie di articoli, recensioni e chiarimenti del suo pensiero su temi specifici, spesso di ambito politico e religioso.
Gli scritti del periodo pre-critico I primi scritti di Kant rispondono agli interessi naturalistici propri della sua formazione universitaria. L’opera principale di questi anni è la già citata Storia universale della natura e teoria del cielo, pubblicata anonima nel 1755. Allo stesso anno risale un’opera di argomento più spiccatamente filosofico, ovvero la dissertazione con cui Kant ottiene la libera docenza presso l’Università di Königsberg: Nuova delucidazione sui primi princìpi della conoscenza metafisica; è invece del 1756 la Monadologia fisica, dove è descritto un sistema in cui le monadi leibniziane (che erano «atomi spirituali») sono sostituite da monadi fisiche (materiali).
Dalla filosofia naturale alla metafisica
La prospettiva ottimistica Nelle Considerazioni sull’ottimismo (redatte nel 1759 come programma dell’attività didattica per il semestre invernale) Kant affronta la questione trattata da Voltaire nel Poema sul disastro di Lisbona ( unità 5, cap. 3, p. 416), risolvendola in favore di un ottimismo radicale. Immaginando di considerare il mondo nella sua assoluta totalità, egli afferma infatti che Dio non avrebbe potuto sceglierne uno migliore. Si noti che, proprio a causa di questo assunto, ovvero di una pretesa visione totale ed esauriente dell’universo, Kant ripudierà in seguito il contenuto di questo suo scritto. La critica della logica aristotelica, della teologia naturale e della metafisica Negli anni Sessanta, negli scritti kantiani cominciano ad affiorare temi e motivi che verranno sviluppati nelle opere del periodo “critico”. In particolare, nel saggio La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche (1762), Kant critica la logica aristotelico-scolastica, paragonandola a un colosso «che ha la testa nelle nuvole dell’antichità e i cui piedi sono di argilla».
1720
1730
1740
1750
1740
EVENTI STORICI
Federico II sale al trono di Prussia
1760
1755
Terremoto di Lisbona
1758
Le truppe russe
1756 occupano
Inizia la Guerra Königsberg dei sette anni
1724
VITA DI KANT
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
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1732
Nasce a Königsberg
Entra nel Collegium Fridericianum
1721
1735
Montesquieu: Lettere persiane
1726
Swift: I viaggi di Gulliver
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Linneo: Systema naturae
1729
Bach: La passione secondo san Matteo
1737
1740
1746
Muore Si iscrive Muore il padre la madre all’Università di Königsberg 1747 Inizia l’attività di precettore privato
1739-1740
1755
Storia naturale universale e teoria del cielo (anonima); libera docenza presso l’Università di Königsberg
1748 1750
Hume: Trattato Montesquieu: Rousseau: Discorso sulle scienze e le arti sulla natura Lo spirito delle leggi; umana La Mettrie: L’uomo 1751 macchina Primo volume dell’Encyclopédie
1738
Canaletto: Il bacino di San Marco verso est
1741
Händel: Il Messia
1752 1755
Goldoni: Winckelmann: La locandiera Considerazioni sull’imitazione delle opere greche
Nell’Unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763), il filosofo affronta invece la teologia naturale e la metafisica, descrivendole come un «abisso senza fondo», un «oceano tenebroso senza sponde e senza fari», per via della loro pretesa di dimostrare affermazioni che in realtà sono indimostrabili, in quanto riguardanti il mondo sovra-sensibile. A questo proposito egli afferma che «c’è un tempo in cui si ardisce spiegare tutto e tutto dimostrare; ce n’è un altro, al contrario, in cui soltanto con timore e diffidenza ci si avventura in simili imprese». Nella primavera del 1764 compare la Ricerca sulla chiarezza dei princìpi della teologia naturale e della morale, in risposta al tema di un concorso bandito dall’Accademia di Berlino: «Se le verità metafisiche possano avere la stessa evidenza di quelle matematiche e quale sia la natura della loro certezza». La metafisica vi è definita come «nient’altro che una filosofia sui primi fondamenti della nostra conoscenza», mentre la morale è ricondotta non tanto a una questione conoscitiva, quanto a un «sentimento» presente nell’animo umano.
L’avvicinamento all’empirismo e la riflessione sui «sogni» della metafisica Nello scritto del 1764 sulla teologia e sulla morale si coglie un avvicinamento di Kant all’empirismo inglese: un orientamento che risulta ancora più chiaro nella Notizia sull’indirizzo delle lezioni relativa all’insegnamento di Kant nel semestre invernale del 1765-1766. In questo senso, un altro documento significativo è costituito dai Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica (sempre del 1765), in cui sono già presenti i capisaldi dell’indirizzo critico. Prendendo spunto dalle visioni mistiche e spiritistiche dello svedese emanuel Swedenborg (1688-1772), Kant propone una scherzosa satira delle dottrine che ne sono a fondamento. La vanità di questi sogni a occhi aperti si trasforma così in un’occasione per riflettere sulla metafisica, la quale è invitata da Kant a considerare le proprie forze, per scoprire se l’obiettivo conoscitivo che essa persegue vi sia commisurato. La metafisica comincia così a delinearsi come la scienza dei limiti della ragione umana, per la quale – proprio come nel caso di un piccolo Paese – è più importante conoscere bene e mantenere i propri possedimenti, che andare alla cieca in cerca di conquiste. 1760
1770
1762
1780
1790
1775
Lo zar Pietro III firma la pace con la Prussia
1789
Guerra di indipendenza americana
Rivoluzione francese
1763
Fine della Guerra dei sette anni
1764 1766
Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime
Bibliotecario presso la Biblioteca reale
1770
Ordinario di logica e metafisica a Königsberg (dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis)
1762
Rousseau: Contratto sociale
1763
Voltaire: Trattato sulla tolleranza
1762
Gluck: Orfeo ed Euridice
1777
1781
1800
1793
1788 1790
Critica della Critica Critica ragion pura della ragion del Giudizio pratica
Verri: Osservazioni sulla tortura
1785
1797
1804
1795-1797
1804
Luigi XVI Federico e Maria Guglielmo III Antonietta sale al trono sono di Prussia ghigliottinati
Napoleone imperatore
Per la pace perpetua; Muore a Metafisica dei costumi Königsberg
1793
Fondazione della La religione entro i limiti metafisica dei costumi della sola ragione
1794
Fichte: Fondamenti dell’intera dottrina della scienza
1790 1791
1800
1807
Schelling: Sistema Hegel: dell’idealismo Fenomenologia trascendentale dello spirito
1800 1802
Goethe: prima Mozart: Novalis: Inni Foscolo: Le ultime lettere versione del Faust Il flauto magico alla notte di Jacopo Ortis e Requiem in re minore 1804 Beethoven: “Eroica”
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Nel 1768 Kant scrive un breve saggio Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in cui sostiene che il concetto di “spazio” non deriva dall’esperienza che gli uomini fanno della materia e della collocazione reciproca delle sue parti, ma è qualcosa di originario, appartenente da sempre alle strutture conoscitive umane. Queste considerazioni costituiscono il punto di partenza della dissertazione Sulla forma e sui princìpi del mondo sensibile e intelligibile (1770), che – secondo quanto affermato dallo stesso Kant – è il risultato di una “illuminazione” dell’anno precedente: «L’anno ’69 – dice il filosofo – mi ha portato una gran luce». In effetti, la dissertazione inaugurale del 1770, presentata in occasione della nomina a professore ordinario di logica e metafisica presso l’Università di Königsberg, segna (come vedremo) la soluzione del problema dello spazio e del tempo e apre la strada al criticismo vero e proprio.
La «luce» del 1769 e la dissertazione del 1770
Gli scritti del periodo critico La prima Critica Negli anni successivi alla pubblicazione della dissertazione, Kant va
lentamente e intensamente elaborando la sua filosofia critica. Trascorre immerso nello studio circa undici anni, durante i quali pubblica pochissimo, e comunque nulla che riguardi i temi della sua meditazione. Nel 1781 compare finalmente la Critica della ragion pura, un’opera redatta in soli quattro o cinque mesi, in cui Kant (come scriverà a Moses Mendelssohn il 16 agosto 1783) raccoglie i risultati della sua lunga riflessione prestando la massima attenzione al contenuto, ma avendo poca cura della forma e di quanto occorre per facilitare la comprensione del lettore. Per chiarire i complessi concetti esposti nell’opera del 1781, nel 1787 Kant ne pubblica una seconda edizione, che contiene importanti rimaneggiamenti e aggiunte. Le differenze tra le due edizioni e la preferenza accordata all’una o all’altra dagli studiosi e dagli storici della filosofia sono tra i motivi della varietà di interpretazioni del kantismo. La Critica della ragion pura apre la serie delle grandi opere di Kant. Nel 1783 escono i Prolegomeni a ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza, in cui la dottrina della prima Critica è esposta in forma più breve e più chiara. Seguono la Fondazione della metafisica dei costumi (1785); i Princìpi metafisici della scienza della natura (1786); la Critica della ragion pratica (1788); la Critica del Giudizio (1790); La religione entro i limiti della sola ragione (1793); La metafisica dei costumi (1797), che nella prima parte contiene i “Fondamenti metafisici della dottrina del diritto” e nella seconda parte i “Fondamenti metafisici della dottrina della virtù”; infine Il conflitto delle facoltà (1798) e l’Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798).
Le successive grandi opere
Gli scritti minori Negli stessi anni in cui appaiono le sue opere fondamentali, Kant
pubblica numerosi articoli, recensioni critiche di opere altrui e chiarimenti del suo pensiero su vari temi, sia teorici sia di attualità. Tra queste opere minori ricordiamo due saggi del 1784 – Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? – e lo scritto Per la pace perpetua (1795), in cui il filosofo esprime in modo originale e incisivo il proprio pensiero politico. A questi testi bisogna aggiungere le raccolte delle lezioni (Logica, Geografia fisica e Pedagogia), curate e pubblicate dai discepoli di Kant tra il 1803 e il 1804.
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CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO
1. Il percorso filosofico di Kant La via percorsa da Kant fino al raggiungimento del punto di vista completo e definitivo della sua filosofia può essere ricapitolata come segue: 1. negli studi giovanili egli si avvicina alla filosofia naturalistica dell’Illuminismo ispirata da Newton. Questa filosofia, con il suo ideale di una descrizione dei fenomeni e con la rinuncia ad ammettere cause e forze oscure, che trascendano tale descrizione, gli prospetta l’esigenza di una metafisica che si costituisca in base agli stessi criteri limitativi, e che si avvalga del metodo della ragione fondante, che domina l’ambiente filosofico in cui Kant si è formato; 2. le analisi degli empiristi inglesi lo inducono a delineare la metafisica dapprima come scienza limitativa e negativa, quindi come un’autocritica della ragione. Questo punto di vista è già raggiunto negli scritti pubblicati tra il 1762 e il 1765; 3. in seguito, e per la prima volta nella dissertazione del 1770, il punto di vista critico si chiarisce, limitatamente alla conoscenza sensibile, come punto di vista «trascendentale», in virtù del quale la validità della conoscenza viene fondata sui suoi stessi limiti; 4. dal 1781 in poi, il punto di vista «critico» viene esteso a tutti gli ambiti della vita umana.
2. Le basi del criticismo nella dissertazione del 1770 Nell’elencare gli scritti di Kant, abbiamo già osservato come la dissertazione La forma e i princìpi del mondo sensibile e intelligibile (1770) segni il punto di svolta del suo pensiero: risolvendo in senso critico il problema dello spazio e del tempo, essa pone le basi dell’intero sistema filosofico kantiano. Kant inizia con lo stabilire la distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale: la prima, che è dovuta alla ricettività (o passività) del soggetto, ha per oggetto il fenomeno , cioè la cosa come appare al soggetto che la conosce; glossario p. 511 la seconda, che è una facoltà attiva del soggetto, ha per oggetto la cosa così come essa è, nella sua natura intelligibile, cioè come noumeno, o cosa in sé . glossario p. 511
La distinzione tra conoscenza sensibile e intellettuale
Nella conoscenza sensibile si deve poi distinguere: la materia, cioè l’oggetto della sensazione, che a sua volta è una modificazione degli organi di senso e che perciò testimonia la presenza della cosa da cui è causata; la forma, che Kant intende come una legge indipendente dalla sensibilità, che ordina la materia sensibile.
La materia e la forma della conoscenza sensibile
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La concezione La forma della conoscenza sensibile è costituita dallo spazio e dal tempo. Questi non critica derivano dunque dalla sensibilità, che anzi li presuppone. Più precisamente, lo spazio e il dello spazio e del tempo tempo sono «intuizioni pure» ( cap. 2, p. 492), in quanto precedono ogni conoscenza sen-
sibile e sono indipendenti da essa. Perciò non sono realtà oggettive, ma condizioni soggettive e necessarie alla mente umana per ordinare i dati sensibili. Questi chiarimenti sulla conoscenza sensibile rimarranno pressoché immutati nella Critica della ragion pura.
L’esperienza A seconda che sia anteriore o posteriore all’intervento (attivo) dell’intelletto, la conoscenza sencome conoscenza sibile si distingue a sua volta in «apparenza» e in «esperienza». Quest’ultima, infatti, consiste riflessa
per Kant nel confronto operato dall’intelletto tra una molteplicità di apparenze, e pertanto è una forma di conoscenza riflessa. In altri termini: dall’apparenza all’esperienza si va attraverso la riflessione, la quale si avvale dell’intelletto. Gli oggetti dell’esperienza sono i fenomeni.
La conoscenza Quanto alla conoscenza intellettuale, in questo periodo Kant condivide ancora l’idea traintellettuale dizionale che essa, pur nell’ambito di una serie di limiti, abbia la possibilità di cogliere le
cose uti sunt, ossia “come sono” nel loro ordine intelligibile (i «noumeni»), a differenza della sensibilità, che le percepisce uti apparent, ossia “come appaiono” (i «fenomeni»). In seguito Kant lascerà cadere questa distinzione e insisterà sempre di più sui limiti dell’intelletto.
3. Il criticismo come “filosofia del limite” Critica Il pensiero di Kant è detto criticismo perché, contrapponendosi all’atteggiamento mene criticismo tale del “dogmatismo” – che consiste nell’accettare opinioni o dottrine senza interrogarsi
preliminarmente sulla loro effettiva consistenza –, fa della critica lo strumento per eccellenza della filosofia. “Criticare”, nel linguaggio tecnico di Kant, significa infatti “giudicare”, “distinguere”, “valutare”, “soppesare”, ossia interrogarsi programmaticamente sul fondamento delle esperienze umane, chiarendone: glossario p. 482 le possibilità (le condizioni che ne permettono l’esistenza); la validità (i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano); i limiti (i confini di validità).
Il senso Nell’istanza critica di Kant, è dunque centrale e qualificante l’aspetto del limite, in virtù del limite del quale il criticismo si configura come un’autentica filosofia del limite , ossia come
un’interpretazione dell’esistenza volta a stabilire le “colonne d’Ercole” dell’umano, riconoscendo il carattere finito o condizionato delle varie possibilità esistenziali, che non sono mai tali da garantire l’onniscienza e l’onnipotenza dell’individuo. glossario p. 482
Criticismo Questa filosofia del finito non equivale tuttavia, nelle intenzioni esplicite di Kant, a una fore scetticismo ma di scetticismo, poiché tracciare il limite di un’esperienza significa nel contempo garan-
ESERCIZI
tirne, entro il limite stesso, la validità. Il riconoscimento e l’accettazione del limite divengono così la norma che dà legittimità e fondamento alle varie facoltà umane1. Pertanto, come vedremo, l’impossibilità per la conoscenza di trascendere i limiti dell’esperienza diventa in Kant la base della validità della conoscenza stessa; l’impossibilità per le azioni umane di raggiungere la santità diventa la norma della moralità; l’impossibilità di subordinare la natura all’essere umano diventa la base dell’interpretazione finalistica del creato.
1. Scrive Pietro Chiodi che l’assunto di base del criticismo kantiano è di «reperire nel limite della validità la validità del limite» (in I. Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 1970, p. 13).
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UnitÀ 6 KANT CApitOLO 1
il progetto filosofico
4. L’orizzonte storico del criticismo Ovviamente il criticismo non è soltanto una scoperta “geniale” di Kant, ma si inserisce Le coordinate nell’orizzonte storico del pensiero moderno e risulta definito da quelle due coordinate di storico-culturali del criticismo base che sono la rivoluzione scientifica da un lato e la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali dall’altro. Questa situazione, scardinando la vecchia enciclopedia del sapere, aveva finito per ripercuotersi anche sull’etica, che veniva tradizionalmente dedotta dalla metafisica, facendo nascere il problema di una morale autonoma rispetto alle speculazioni ontologiche. Nello stesso tempo, la riflessione sull’arte e sul “gusto”, nonché sulla sfera sentimentale dell’essere umano, tendeva a produrre una serie di interrogativi sulla loro struttura e validità. Tutto ciò spiega come a un certo momento dello sviluppo della filosofia moderna sia potuto sorgere il criticismo, che s’interroga in profondità sui fondamenti del sapere, della morale e dell’esperienza estetica e sentimentale, concretizzandosi nei tre rispettivi capolavori di Kant: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del Giudizio. Da questo punto di vista, il kantismo può essere considerato come la prosecuzione di Il rapporto del quell’indirizzo critico che l’empirismo inglese aveva seguito (a partire da Locke) ricono- criticismo con l’empirismo scendo e segnando i limiti della ragione e del mondo umano, e che l’Illuminismo aveva difeso e propagandato nel Settecento. Tuttavia, il kantismo si distingue dall’empirismo non soltanto perché rifiuta gli esiti scettici di quest’ultimo, ma anche perché spinge più a fondo l’analisi critica, seguendo un metodo del filosofare che, più che soffermarsi sulla descrizione dei meccanismi conoscitivi, etici, sentimentali ecc., si sforza di fissarne le condizioni di possibilità e i limiti di validità. Dall’Illuminismo, invece, il kantismo si distingue per una maggiore radicalità di intenti. Il rapporto del Se l’Illuminismo aveva portato davanti al tribunale della ragione l’intero mondo umano, criticismo con l’Illuminismo Kant si propone di portare davanti al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente le strutture e le possibilità. Anche in questo andar oltre l’Illuminismo, tuttavia, Kant è pur sempre figlio dell’Illuminismo, in quanto ritiene che i confini della ragione possano essere tracciati soltanto dalla ragione stessa, che, essendo autonoma, non può ricavare dall’esterno la direttiva e la guida del suo procedimento. Tant’è vero che Kant combatte instancabilmente (non soltanto nelle opere principali, ma anche negli scritti minori) ogni tentativo di limitare la ragione in nome della fede o di una qualsiasi esperienza extra-razionale: egli si presenta così come l’avversario risoluto di ogni specie di fideismo, di misticismo o di fanatismo. Per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti della natura umana: volerli varcare in nome di presunte capacità superiori alla ragione significa soltanto avventurarsi in sogni arbitrari o fantastici.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta il tema centrale della dissertazione del 1770, spiegando che cosa intende Kant per: conoscenza sensibile, conoscenza intellettuale, fenomeno e noumeno, spazio e tempo. 2. Precisa che cosa si intende per “criticismo” e quali sono i principali interrogativi a cui cerca di rispondere la filosofia critica. 3. Spiega perché il pensiero kantiano può essere definito una “filosofia del limite”. 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera la scelta kantiana di portare di fronte al tribunale della ragione non soltanto tutti gli ambiti del sapere e dell’agire, ma perfino la ragione, che diventa così “giudice” e “imputato”. Che cosa pensi dell’idea che, per potersi affidare a una facoltà o ad un criterio di giudizio, occorra prima essere sicuri delle sue effettive possibilità e della legittimità del suo uso? Argomenta la tua risposta.
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO
Il criticismo Negli anni successivi alla dissertazione, Kant elabora la sua filosofia critica, nota anche come
• criticismo
(in tedesco Kritizismus) il pensiero proprio di Kant, in quanto volto a interrogarsi programmaticamente sul fondamento delle esperienze umane.
Per Kant, dunque, lo strumento filosofico per eccellenza è la
Il periodo pre-critico Immanuel Kant (1724-1804) nasce e trascorre tutta la vita a Königsberg, dove esercita con passione il proprio ruolo di professore universitario. Fino al 1760 i suoi scritti evidenziano un interesse per le scienze naturali e per la fisica newtoniana. In una seconda fase Kant si avvicina all’empirismo inglese e sviluppa tematiche propriamente filosofiche: opponendosi alla metafisica tradizionale, che descrive come un «abisso senza fondo», delinea una nuova metafisica, intesa come scienza dei limiti della ragione umana, il cui campo d’azione è delimitato dall’esperienza. La svolta decisiva nel pensiero kantiano si compie con la dissertazione del 1770, presentata in occasione della nomina a professore ordinario presso l’Università di Königsberg. In tale scritto (intitolato La forma e i princìpi del mondo sensibile e intelligibile) il filosofo fornisce una nuova interpretazione dei concetti di spazio e tempo, e distingue tra la conoscenza sensibile, che ha per oggetto i fenomeni (ossia le cose come appaiono al soggetto conoscente), e la conoscenza intellettuale, che mira a cogliere i noumeni (ossia le cose così come sono di per sé, nella loro natura intelligibile). Nella conoscenza sensibile Kant distingue inoltre una «materia», costituita dai dati forniti dalla sensazione, e una «forma», che ordina tali dati e che è costituita appunto dallo spazio e dal tempo. Questi ultimi, pertanto, non sono realtà “oggettive”, cioè “delle cose”, ma intuizioni «pure», mediante le quali il soggetto organizza i dati che riceve dai sensi.
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UnitÀ 6 KANT CApitOLO 1
il progetto filosofico
• critica
(in tedesco Kritik, dal verbo greco kríno, che significa “giudico”, “distinguo”, “valuto”) l’atteggiamento filosofico di chi si affida alla ragione per chiarire la possibilità di ogni esperienza umana (le condizioni che ne consentono l’esistenza), la sua validità (i titoli di legittimità o non-legittimità che la caratterizzano) e i suoi limiti (i confini della sua validità).
Il criticismo kantiano si prospetta pertanto come una
• filosofia del limite
espressione che in Italia è stata usata soprattutto da Nicola Abbagnano e da Pietro Chiodi, e che esprime con efficacia lo spirito proprio del criticismo kantiano, impegnato a stabilire le “colonne d’Ercole” (che in quanto tali non devono essere oltrepassate) dei vari ambiti dell’esperienza umana, cioè il carattere condizionato delle nostre diverse possibilità esistenziali.
Frutti emblematici di questo atteggiamento saranno i tre capolavori di Kant: la Critica della ragion pura del 1781, la Critica della ragion pratica del 1788 e la Critica del Giudizio del 1790. Il criticismo kantiano trova il proprio predecessore nell’atteggiamento tipico dell’empirismo inglese, dal quale tuttavia prende le distanze sia perché spinge più a fondo l’analisi critica, sia perché ne rifiuta gli esiti scettici. Dall’Illuminismo, che si proponeva di portare davanti al tribunale della ragione l’intero mondo umano, il criticismo si distingue invece per una maggiore radicalità di intenti, dal momento che prevede di condurre di fronte al tribunale della ragione la ragione stessa, per indagarne le strutture e le possibilità.
MAPPE
CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO IL PERIODO PRE-CRITICO comprende
una prima fase
una seconda fase
caratterizzata da
caratterizzata da
interesse per le scienze naturali
interesse per la filosofia
avvicinamento all’empirismo inglese
che culminano in una
concezione critica dello spazio e del tempo (dissertazione del 1770)
IL CRITICISMO si fonda sull’intento di
si distingue da
interrogarsi sul fondamento delle esperienze umane (vita conoscitiva, vita pratica, produzione e riflessione estetica, religione, politica)
empirismo
Illuminismo
allo scopo di chiarirne
perché
perché
spinge più a fondo l’analisi critica rifiuta gli esiti scettici
porta di fronte al tribunale della ragione la ragione stessa
le possibilità
la validità
i limiti
e sfocia in tre capolavori filosofici
la Critica della ragion pura la Critica della ragion pratica la Critica del Giudizio
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CAPITOLO 2 LA CRITICA DELLA RAGION PURA
1. Il problema generale La Critica della ragion pura è sostanzialmente un’analisi critica dei fondamenti del sapere. E, poiché ai tempi di Kant l’universo del sapere si articolava in scienza (matematica e fisica) e metafisica, essa prende la forma di un’indagine valutativa su queste due attività conoscitive. La scienza e la Agli occhi di Kant, e di molti suoi contemporanei, la scienza e la metafisica si presentavano metafisica agli in modo diverso. La prima, grazie ai successi conseguiti da Galilei e da Newton, appariva occhi di Kant
come un sapere fondato e in continuo progresso, mentre la seconda, con il suo voler procedere oltre l’esperienza, con il suo fornire le soluzioni più disparate (talora antitetiche) ai medesimi problemi e con le sue contese senza fine tra i vari pensatori, non sembrava affatto – nonostante la sua venerabile antichità – aver trovato il cammino sicuro della scienza:
‘
Vi fu un tempo in cui essa [la metafisica] era considerata la regina di tutte le scienze, e, se si prepongono le intenzioni ai fatti, meritava senza dubbio questo nome onorifico per l’importanza del suo oggetto. Ora la moda del tempo è incline a deprezzarla. (Critica della ragion pura, A 8, a cura di Pietro Chiodi, utet, Torino 1967)
Il rapporto Tuttavia, Hume aveva minato alla base non soltanto i fondamenti ultimi della metafisica, di Kant con ma anche (con la sua analisi critica del principio di causalità) quelli della scienza: per quelo scetticismo di Hume sto, secondo Kant, si profilava l’improrogabile necessità di un riesame globale della strut-
tura e della validità della conoscenza, che fosse in grado di rispondere in modo esauriente alla domanda circa lo statuto di scientificità di questi due campi del sapere. Come chiariremo meglio nel corso della trattazione, Kant respinge lo scetticismo scientifico di Hume, ritenendo che il valore della scienza (cioè della matematica e della fisica) sia ormai un dato di fatto di cui non ha senso dubitare; ne condivide invece lo scetticismo metafisico, sebbene in una diversa prospettiva di fondo. Infatti, se Hume vedeva nella metafisica la «semplice illusione di conoscere razionalmente ciò che, in realtà, ci proviene dall’esperienza» (Critica della ragion pura, B 20), Kant le riconosce invece una certa nobiltà e importanza, e, pur dichiarandosene «innamorato deluso», la descrive come un anelito perenne, come una «disposizione naturale» che porta l’essere umano a trascendere l’orizzonte del verificabile:
‘
la ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell’onniscienza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso empirico della ragione o in base ai princìpi su cui esso riposa; e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, (Critica della ragion pura, B 21) appena che la loro ragione si innalzi alla speculazione.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
La ricerca kantiana sui fondamenti del sapere assume dunque la forma concreta di un’indagine rivolta, da un lato, alla matematica e alla fisica, e, dall’altro, alla metafisica, lungo due percorsi in un certo senso paralleli:
‘
Le domande fondamentali della prima Critica
Poiché queste scienze [la matematica e la fisica] sono effettivamente date, conviene di certo domandarsi come [wie] siano possibili; infatti, che [dass] esse siano possibili è dimostrato dalla loro realtà. Quanto alla metafisica, il suo cattivo andamento fino ad oggi, unito al fatto che nessuna delle metafisiche fin qui offerte si può dire che realmente sussista rispetto al suo scopo essenziale, fa dubitare chiunque, a ragione, della sua possibilità. Tuttavia, anche questa specie di conoscenza deve in certo senso esser considerata come data, e la metafisica, anche se non come (Critica della ragion pura, B 20-21) scienza, è tuttavia reale come disposizione naturale.
Da queste considerazioni derivano le domande fondamentali a cui la Critica cercherà di dare risposta: «Come è possibile la matematica pura?»; «Come è possibile la fisica pura?»; «Come è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale?». Consapevole di non potersi accontentare, nel caso della metafisica, di uno studio che si limiti ad analizzarla come «disposizione naturale», a queste tre domande Kant ne aggiunge una quarta: «Come è possibile la metafisica come scienza?». ( T1 p. 516) Tuttavia, mentre nel caso della matematica e della fisica si tratta di giustificare una situa- Il problema zione di fatto, chiarendo le condizioni che le rendono possibili come scienze, nel caso del- della metafisica la metafisica si tratta in realtà di scoprire “se” esistano condizioni tali che possano legittimare le sue pretese di porsi come scienza o, viceversa, se essa sia inevitabilmente condannata alla non-scientificità.
2. I giudizi sintetici a priori Esplicitata la domanda ultima e fondamentale dell’intera prima Critica, e cioè “se la metafisica sia possibile”, per potervi rispondere Kant deve partire dall’analisi di quelle discipline la cui scientificità è indubitabile. Una volta individuato il fondamento della scientificità della matematica e della fisica, sarà infatti possibile verificare se esso fondi anche la metafisica. Il punto di partenza della riflessione gnoseologica kantiana è, necessariamente, lo scetti- L’eredità cismo radicale di Hume. Al filosofo scozzese Kant riconosce il merito di averlo “risveglia- di Hume to” dal suo «sonno dogmatico», mostrando che il principio di causalità, ovvero il fondamento della conoscenza umana, non ha alcuna base oggettiva, essendo piuttosto l’oggetto di una «credenza» soggettiva, a sua volta generata dall’abitudine e da una sorta di “istinto” che consente agli esseri umani di orientarsi nella vita pratica. Hume aveva inoltre correttamente distinto le proposizioni della matematica (che esprimono «relazioni tra idee» e che pertanto sono universali e necessarie, pur non accrescendo la nostra conoscenza del mondo esterno) da quelle della fisica e della conoscenza comune, che riguardano invece «materie di fatto» ma che, fondandosi sul principio di causalità, sono soltanto probabili. In questo modo, tuttavia, egli aveva finito per arenarsi nel “vicolo cieco” di una conoscenza che, laddove è certa, non accresce il sapere e, laddove lo accresce, non è certa.
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L’ipotesi Raccogliendo la sfida lanciata da Hume, Kant intende mostrare che la conoscenza umana gnoseologica può essere universale e necessaria, ma al tempo stesso feconda. Per questo motivo egli di Kant
apre la Critica della ragion pura con un’ipotesi gnoseologica di fondo:
‘
benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili). (Critica della ragion pura, B 1)
Questa “ipotesi”, secondo Kant, risulta convalidata dall’esistenza di quelli che egli chiama «giudizi sintetici a priori», che analizzeremo nelle prossime righe. I princìpi Kant è convinto che la conoscenza umana, e in particolare la scienza (da sempre al centro immutabili delle sue attenzioni), offra il tipico esempio di princìpi che, pur derivando in parte dall’edella scienza
sperienza, sono assoluti, cioè sono verità universali e necessarie, che valgono ovunque e sempre allo stesso modo. Infatti, pur nutrendosi continuamente dell’esperienza, la scienza presuppone anche, alla propria base, alcuni princìpi immutabili che sono i “pilastri” su cui essa si regge. Tali sono ad esempio le proposizioni: «Tutto ciò che accade ha una causa» (Critica della ragion pura, B 13), «Tutti i fenomeni in generale […] cadono nel tempo e stanno necessariamente fra di loro in rapporti di tempo» (Critica della ragion pura, B 51). I princìpi di questo tipo sono denominati da Kant giudizi sintetici a priori : glossario p. 511 giudizi poiché consistono nel connettere un predicato con un soggetto (tale è infatti l’accezione logico-filosofica del termine “giudizio”); sintetici perché il predicato dice qualcosa di nuovo e di più rispetto al soggetto; a priori perché, essendo universali e necessari, non possono derivare dall’esperienza. Dal punto di vista di Kant, i giudizi fondamentali della scienza non sono quindi né giudizi analitici a priori , né giudizi sintetici a posteriori . glossario p. 511
I giudizi I primi sono giudizi che vengono enunciati a priori, senza bisogno di ricorrere all’esperienza, analitici in quanto in essi il predicato non fa che esplicitare, con un processo di analisi basato sul a priori
principio di non-contraddizione, quanto è già implicitamente contenuto nel soggetto. È il caso, ad esempio, del giudizio “i corpi sono estesi”, in cui il concetto di “estensione” espresso nel predicato non aggiunge nulla a quello di “corpo”, dal momento che vi è implicato “per definizione”. Pur essendo universali e necessari (a priori), i giudizi analitici a priori sono dunque infecondi, perché non ampliano il nostro patrimonio conoscitivo preesistente.
I giudizi I secondi sono giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, sintetici aggiungendosi o sintetizzandosi a quest’ultimo in virtù dell’esperienza, cioè a posteriori. a posteriori
Lo stesso Kant cita ad esempio il giudizio “i corpi sono pesanti”, che si può formulare soltanto dopo avere fatto esperienza di più oggetti corporei, dal momento che il peso, a differenza dell’estensione, non è collegato a priori con il concetto di “corpo”. Pur essendo fecondi (sintetici), questi giudizi sono dunque privi di universalità e necessità, perché si appoggiano esclusivamente sull’esperienza.
Tra razionalismo I princìpi della scienza, invece, secondo Kant sono al tempo stesso «sintetici», ossia feed empirismo condi, e «a priori», ossia universali e necessari, e quindi irriducibili alle due classi prece-
denti. Pur essendo formulata in modo logico, questa teoria kantiana dei giudizi sottintende un confronto storico con le scuole filosofiche precedenti: i giudizi analitici a priori richiamano infatti la concezione razionalistica della scienza, che pretendeva di partire da alcuni principi a priori (le idee innate) per derivare da essi tutto lo scibile, delineando in tal modo il modello di un sapere universale e necessario, ma sterile;
486
UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
i giudizi sintetici a posteriori richiamano invece l’interpretazione empiristica della scienza, che pretendeva di fondare quest’ultima esclusivamente sull’esperienza, delineando così il modello di un sapere fecondo, ma privo di universalità e necessità. Kant ritiene invece, contro il razionalismo, che la scienza derivi dall’esperienza, ma ritie- La concezione ne anche, contro l’empirismo, che alla base dell’esperienza vi siano dei princìpi inderiva- kantiana della scienza bili dall’esperienza stessa. Nella visione kantiana, pertanto, la scienza, globalmente considerata, risulta feconda in un duplice senso: sia per quanto riguarda il contenuto o la materia, che le deriva dall’esperienza; sia per quanto riguarda la forma, che le deriva dai giudizi sintetici a priori, i quali ne rappresentano i quadri concettuali di fondo. Nello stesso tempo, proprio in virtù di questi ultimi, essa è anche a priori, cioè universale e necessaria. Possiamo quindi sintetizzare la concezione kantiana della scienza con la formula seguente:
SCIENZA
=
esperienza
+
princìpi sintetici a priori
Pertanto, quando si afferma, schematizzando, che la scienza “è costituita” di giudizi sintetici a priori, a rigore si intende dire che i vari giudizi scientifici “si basano” su giudizi sintetici a priori. L’errore di Hume, secondo Kant, è stato proprio quello di non cogliere la differenza tra i giudizi sintetici (che esprimono il collegamento percettivo di due fatti concomitanti) e il principio di causalità “ogni evento ha una causa”, che altro non è che un giudizio sintetico a priori. Ad esempio: la proposizione “il calore dilata i metalli”, pur essendo formulata in virtù dell’esperienza (non ha senso affermare che il predicato “dilata i metalli” viene aggiunto a priori al soggetto “il calore”), presuppone alla propria base il giudizio sintetico a priori relativo alla causalità.
I GIUDIZI ANALITICI A PRIORI
I GIUDIZI SINTETICI A POSTERIORI
I GIUDIZI SINTETICI A PRIORI
infecondi (analitici) = il predicato non dice niente di nuovo rispetto al soggetto sono universali e necessari (a priori) = non hanno bisogno di convalide empiriche
fecondi (sintetici) = il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto sono particolari e non necessari (a posteriori) = derivano dall’esperienza
fecondi (sintetici) = il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto sono universali e necessari (a priori) = non derivano dall’esperienza
I giudizi sintetici a priori come “base” dei giudizi scientifici
simboleggiano la concezione razionalistica (e deduttivistica) della scienza
simboleggiano la concezione empiristica (e induttivistica) della scienza
simboleggiano la concezione criticistica della scienza
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L’”ossatura” In altre parole, i giudizi sintetici a priori rappresentano la spina dorsale della scienza, della scienza ovvero l’elemento che le conferisce stabilità e universalità, e in mancanza del quale essa
sarebbe costretta a muoversi, a ogni passo, nell’incerto e nel relativo. Senza alcuni fondamentali princìpi assoluti – e in ciò risiede il cuore di tutta l’epistemologia kantiana – la scienza non potrebbe sussistere. Il ricercatore “humeano” sarebbe obbligato a ogni passo a brancolare nel buio, non sapendo ad esempio se anche nel futuro ogni evento dipenderà da cause, o se ogni oggetto d’esperienza sarà collocato nello spazio e nel tempo. Invece lo scienziato “kantiano” è certo a priori di tali verità, anche se per sapere quali siano le diverse cause che producono i diversi eventi, o che cosa vi sia nello spazio e nel tempo, ha bisogno di ricorrere alla testimonianza dell’esperienza.
)
Per l’esposizione orale
1. Quali sono le domande fondamentali a cui la Critica della ragion pura cerca di dare risposta? 2. Definisci ed esemplifica le seguenti espressioni: giudizi analitici a priori, giudizi sintetici a posteriori, giudizi sintetici a priori. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la soluzione kantiana al problema lasciato aperto da Hume: in linea di principio, ti pare una soluzione soddisfacente? Per quali ragioni?
3. La “rivoluzione copernicana” di Kant Dopo aver messo in luce il “dato di fatto” che il sapere si basa su giudizi sintetici a priori, Kant si trova di fronte al problema di spiegare la provenienza di questi ultimi. Infatti, se non derivano dall’esperienza, da dove provengono i giudizi sintetici a priori? Il che equivale a porsi la questione “di diritto” se i giudizi sintetici a priori possano legittimamente pretendere di valere universalmente e necessariamente. La «materia» Kant risponde a questo interrogativo articolando la sua ipotesi gnoseologica di fondo ed e la «forma» elaborando una nuova teoria della conoscenza, intesa come sintesi di materia e forma, osdella conoscenza
sia di un elemento a posteriori e un elemento a priori: per materia della conoscenza egli intende la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono dall’esperienza (elemento empirico o a posteriori); glossario p. 511
per forma della conoscenza egli intende l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina, secondo determinati rapporti, le impressioni sensibili (elemento razionale o a priori). glossario p. 511 Kant, infatti, ritiene che la mente filtri attivamente i dati empirici attraverso forme che le sono innate e che risultano comuni a tutti i soggetti pensanti. Come tali, queste forme sono a priori rispetto all’esperienza e hanno validità universale e necessaria, in quanto tutti le possiedono e le applicano allo stesso modo. In un certo senso, Kant è dunque un innatista, anche se il suo innatismo “formale” è ben diverso da quello della tradizione, in quanto le sue “forme a priori” non sono ciò che si conosce, ma semplicemente ciò attraverso cui si conosce. Alcuni esempi di Le forme a priori di Kant sono state paragonate a particolari lenti colorate attraverso cui gli forme a priori esseri umani guardano la realtà. Un’immagine più attuale è quella tratta dall’informatica:
la mente kantiana sarebbe simile a un computer, che elabora la molteplicità dei dati forniti dall’esterno utilizzando una serie di programmi “interni” fissi, che ne rappresentano gli immutabili codici di funzionamento. Per cui, pur mutando incessantemente le informazioni
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
(= le impressioni sensibili), non mutano mai gli schemi attraverso i quali esse sono ricevute (= le forme a priori). In modo epistemologicamente efficace, il filosofo novecentesco Karl Popper (1902-1994) ha assimilato le forme a priori kantiane a «una specie di intelaiatura per gli oggetti e gli eventi: qualcosa di simile a un sistema di caselle, o a uno schedario, per le osservazioni». L’esistenza nell’essere umano di determinate forme a priori universali e necessarie (che per Kant, come vedremo, sono lo spazio e il tempo e le dodici categorie), attraverso le quali i dati della realtà vengono “incapsulati”, spiega perché si possano formulare dei giudizi sintetici a priori sul mondo senza timore di essere smentiti dall’esperienza. Per chiarire questa idea con un ulteriore esempio (nostro): se sapessimo di portare sempre delle lenti azzurre, potremmo dire con tutta sicurezza che il mondo, anche in futuro, per noi continuerà a essere azzurro. Analogamente, possiamo asserire con certezza che ogni evento, anche in futuro, dipenderà da cause o sarà nello spazio e nel tempo, in quanto non possiamo percepire le cose se non attraverso la causalità e mediante lo spazio e il tempo. In conclusione, «noi tanto conosciamo a priori delle cose, quanto noi stessi poniamo in esse» (Critica della ragion pura, B 18). Questa nuova impostazione del problema della conoscenza implica immediatamente al- La “rivoluzione copernicana” cune importanti conseguenze. In primo luogo, essa comporta quella rivoluzione copernicana che lo stesso Kant si vantò di aver operato in filosofia. Così come Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i rapporti tra lo spettatore e le stelle, e quindi tra la Terra e il Sole, allo stesso modo Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti tra soggetto e oggetto, affermando che non è la mente che si modella in modo passivo sulla realtà – nel qual caso non vi sarebbero conoscenze universali e necessarie – ma la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. glossario p. 511 ( T2 p. 518) In secondo luogo, la nuova ipotesi gnoseologica comporta la distinzione kantiana tra Il fenomeno e la cosa in sé «fenomeno» e «cosa in sé», o «noumeno»: il fenomeno è la realtà quale ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. Esso, dunque, non è un’apparenza illusoria, poiché è un oggetto, e un oggetto reale, ma è reale soltanto nel rapporto con il soggetto conoscente: in altre parole, il fenomeno possiede una sua peculiare oggettività (universalità e necessità) consistente nel fatto di essere percepito allo stesso modo da tutti gli intelletti strutturati come il nostro; glossario p. 511 il noumeno, o cosa in sé , è la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante le quali la conosciamo. Come tale, la cosa in sé costituisce una «x sconosciuta», che rappresenta tuttavia il necessario correlato di quell’“oggetto per ESERCIZI noi” che è il fenomeno. glossario p. 511
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa sono per Kant, rispettivamente, la “materia” e la “forma” della conoscenza. 2. Chiarisci il senso della “rivoluzione copernicana” messa in atto da Kant nell’ambito della conoscenza. 3. RIFLESSIONE CRITICA Pensi che il rovesciamento dei rapporti operato da Kant tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza (ossia tra la nostra mente e la realtà) sia stato davvero un cambio di prospettiva rivoluzionario? Perché? 4. Presenta la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, o noumeno.
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4. Le facoltà conoscitive e la partizione della Critica della ragion pura La sensibilità, Kant distingue tre facoltà conoscitive principali: «Ogni nostra conoscenza scaturisce dai l’intelletto sensi, da qui va all’intelletto, per finire nella ragione» (Critica della ragion pura, B 355). e la ragione
La sensibilità è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi, ordinati mediante le forme a priori di spazio e tempo; glossario p. 512 l’ intelletto (in senso stretto) è la facoltà con cui pensiamo i dati sensibili mediante i concetti puri, o le categorie; glossario p. 512 la ragione (in senso stretto) è la facoltà con cui, procedendo oltre l’esperienza, cerchiamo di spiegare globalmente la realtà mediante le idee di anima, mondo e Dio. glossario p. 512
L’articolazione Su questa tripartizione della facoltà conoscitiva in generale (cioè della ragione in senso della Critica lato) è sostanzialmente basata anche la divisione della Critica della ragion pura. L’opera si della ragion pura biforca infatti in due tronconi principali:
1. la «dottrina degli elementi», che si propone di scoprire, isolandoli, quegli elementi formali della conoscenza che Kant chiama «puri», o «a priori»;
2. la «dottrina del metodo», che si propone di determinare il metodo della conoscenza, ovvero di mostrare come sia possibile e legittimo usare le forme a priori (gli elementi) della conoscenza.
La dottrina La dottrina degli elementi, che è la parte più estesa della Critica, si ramifica a sua volta in degli elementi «estetica trascendentale» e «logica trascendentale»:
l’ estetica trascendentale (intesa nel senso etimologico di “dottrina della sensibilità”, dal greco áisthesis, “sensazione”) studia la sensibilità e le sue forme a priori dello spazio e del tempo, mostrando come su di esse si fondi la matematica; glossario p. 512 la «logica trascendentale» si sdoppia a sua volta in analitica trascendentale , che studia l’intelletto e le sue forme a priori (le dodici categorie), mostrando come su di esse si fondi la fisica; e in dialettica trascendentale , che studia la ragione e le sue tre «idee» di anima, mondo e Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica. glossario p. 512
LA CRITICA DELLA RAGION PURA si articola in
DOTTRINA DEGLI ELEMENTI
DOTTRINA DEL METODO
studia le forme a priori della conoscenza
estetica trascendentale studia le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) logica trascendentale studia le forme a priori del pensiero discorsivo
studia come devono essere usate le forme a priori della conoscenza
analitica trascendentale studia le forme a priori dell’intelletto (le categorie) dialettica trascendentale studia le forme a priori della ragione (le idee)
Sulle forme a priori della sensibilità si fonda la matematica, sulle forme a priori dell’intelletto si fonda la fisica, sulle forme a priori della ragione si fonda la metafisica
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5. Il concetto kantiano di “trascendentale” e il senso complessivo dell’opera Nella terminologia scolastica medievale erano denominate “trascendentali” quelle proprietà universali (l’essere, l’uno, il vero ecc.) comuni a tutte le cose: quelle proprietà, cioè, che “eccedono” o “trascendono” per generalità le stesse categorie aristoteliche. Kant si collega a questa tradizione terminologica, ma, conformemente all’indirizzo sogget- Il rapporto fra i tivistico della sua filosofia, connette il concetto di trascendentale con quello di forma trascendentali e le forme a priori a priori, la quale, come sappiamo, non esprime una proprietà (ontologica) della realtà in sé, ma soltanto una condizione (gnoseologica) che rende possibile la conoscenza della realtà fenomenica. In questo senso, lo stesso Kant osserva nei Prolegomeni a ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza (1783) che “trascendentale” «non significa qualcosa che oltrepassa ogni esperienza, bensì qualcosa che certo la precede (a priori) ma non è determinato a nulla più che a render possibile la conoscenza nell’esperienza» (“Appendice”, nota [A 204]). glossario p. 512 Questo non significa, tuttavia, che il trascendentale coincida con l’a priori, inteso come l’opposto dell’empirico. Infatti, a parte le oscillazioni e le incoerenze di Kant a questo proposito, il principale significato di “trascendentale”, su cui lo stesso filosofo ha esplicitamente richiamato l’attenzione, è quello che lo identifica non con gli elementi a priori in quanto tali, ma con il loro studio filosofico:
‘
Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti, nella misura in cui questo deve essere (Critica della ragion pura, B 25) possibile a priori.
Pertanto, a rigore, in Kant risultano trascendentali non tanto le forme a priori, quanto le discipline filosofiche ad esse relative (l’estetica trascendentale, l’analitica trascendentale ecc.). A questo punto siamo in grado di intendere compiutamente il titolo del capolavoro di Il titolo della Kant: Critica della ragion pura. Posto che con il termine “ragione” si intenda la facoltà prima Critica conoscitiva in generale, e che per “ragione pura” si intenda «quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa prettamente a priori» (Critica della ragion pura, B 24), il titolo in questione (che in tedesco suona Kritik der reinen Vernunft) può essere interpretato nel seguente modo: “esame critico generale della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori”. Così intesa, la Critica rappresenta un’analisi delle autentiche possibilità conoscitive dell’essere umano e si configura come una specie di mappa filosofica della potenza e dell’impotenza della ragione, in quanto depositaria di princìpi puri o a priori. Ovviamente, davanti al «tribunale» (come lo chiama Kant) costituito dalla critica, la ragione appare come giudice e giudicato al tempo stesso, tant’è che il genitivo che compare nel titolo risulta simultaneamente oggettivo e soggettivo. La critica, infatti, è «della» (der) ragione sia nel senso che la ragione è ciò che viene reso argomento di critica, sia nel senso che essa è ciò che mette in atto la critica.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta sinteticamente la partizione della Critica della ragion pura. 2. Indica e descrivi le tre facoltà conoscitive individuate da Kant. 3. Spiega che cosa significa per Kant il termine “trascendentale” e che differenza sussiste, propriamente, fra il concetto di “trascendentale” e quello di “a priori”. 4. Illustra il significato del titolo Critica della ragion pura.
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6. L’estetica trascendentale Come si è detto, l’Estetica trascendentale è la sezione della Critica della ragion pura in cui Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori. Egli considera la sensibilità «ricettiva», perché essa non genera i propri contenuti, ma li accoglie per intuizione dalla realtà esterna o dall’esperienza interna. Tuttavia la sensibilità non è soltanto ricettiva, ma anche attiva, in quanto organizza il materiale delle sensazioni (le intuizioni empiriche ) attraverso lo spazio e il tempo, che – come Kant aveva definito già nella dissertazione del 1770 – sono appunto le forme a priori (le intuizioni pure ) della sensibilità. glossario p. 512
La concezione dello spazio e del tempo La definizione
Lo spazio (Raum) è la forma del senso esterno, cioè quella «rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne» (Critica della ragion pura, B 38) e del disporsi delle cose «l’una accanto all’altra» (Critica della ragion pura, B 43). Il tempo (Zeit) è la forma del senso interno, cioè quella rappresentazione a priori che sta a fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi l’uno dopo l’altro, ovvero secondo un ordine di successione.
Il tempo come Tuttavia, poiché è unicamente attraverso il senso interno che ci giungono i dati del senso forma esterno, il tempo si configura anche, indirettamente, come la forma del senso esterno, cioè universale dell’esperienza come la maniera universale attraverso cui percepiamo tutti gli oggetti. Pertanto, se non
ogni cosa è nello spazio (pensiamo ai sentimenti), ogni cosa è però nel tempo, in quanto «tutti i fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel tempo» (Critica della ragion pura, B 51).
La giustificazione Kant giustifica l’apriorità dello spazio e del tempo sia con argomenti teorici generali (nella dell’apriorità di cosiddetta “esposizione metafisica”), sia con argomenti tratti dalla considerazione delle spazio e tempo
scienze matematiche (nella cosiddetta “esposizione trascendentale”).
L’esposizione metafisica Nell’esposizione metafisica Kant fa emergere il proprio
FILOSOFIA punto di vista confutando sia la visione empiristica, che considerava spazio e tempo come E SCIENZA
Spazio e tempo fra scienza e filosofia p. 528
nozioni tratte dall’esperienza (Locke), sia la visione oggettivistica, che considerava spazio e tempo come entità a sé stanti o recipienti vuoti (Newton), sia la visione concettualistica, che considerava spazio e tempo come concetti esprimenti i rapporti tra le cose (Leibniz).
Contro Contro l’interpretazione empiristica, Kant afferma che spazio e tempo non possono del’empirismo rivare dall’esperienza, poiché per fare un’esperienza qualsiasi dobbiamo già presupporre
le rappresentazioni originarie di spazio e di tempo.
Contro Contro l’interpretazione oggettivistica, Kant sostiene che qualora spazio e tempo fossero l’oggettivismo davvero dei recipienti vuoti, ossia degli assoluti a sé stanti, essi dovrebbero continuare a esi-
stere anche nell’ipotesi che in essi non vi fossero oggetti. Ma come fare a concepire «qualcosa che, senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale»? (Critica della ragion pura, B 49). In verità, puntualizza Kant, spazio e tempo non sono dei contenitori in cui si trovano gli oggetti – poiché in tal caso, come si è appena visto, sarebbe difficile concepire la loro esistenza autonoma – bensì quadri mentali a priori entro cui connettiamo i dati fenomenici. Come tali, pur essendo “ideali” o “soggettivi” rispetto alle cose in sé stesse, essi sono tuttavia “reali” e “oggettivi” rispetto all’esperienza, ossia alle cose quali appaiono fenomenicamente (se noi portassimo sempre delle lenti azzurre, tale colore sarebbe per noi altrettanto “reale” che i vari oggetti). Per questo motivo, Kant parla di idealità trascendentale e di realtà empirica dello spazio e del tempo.
492
UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
Contro l’interpretazione concettualistica, infine, Kant afferma che spazio e tempo non Contro il possono essere considerati come dei concetti, in quanto hanno una natura intuitiva e concettualismo non discorsiva, perché noi, ad esempio, non astraiamo il concetto di spazio dalla constatazione dei vari spazi (come il concetto di cavallo dai vari cavalli), ma intuiamo i vari spazi come parti di un unico spazio, presupponendo in tal modo la rappresentazione originaria di spazio, che risulta quindi un’intuizione pura o a priori. Pur rifiutando l’oggettivismo di Newton, cioè la sua concezione dello spazio e del tempo Kant e Newton come realtà (ontologiche) a sé stanti, Kant si avvicina allo scienziato inglese per la sua dottrina dello spazio e del tempo come coordinate assolute dei fenomeni. Assolutezza che egli cerca di giustificare su base soggettivistico-trascendentale, ossia facendo di esse delle condizioni a priori del conoscere. Nell’esposizione trascendentale Kant giustifica ulteriormente l’apriorità dello spazio e del tempo mediante considerazioni epistemologiche sulla matematica, volte a una fondazione filosofica della medesima.
L’esposizione trascendentale
Kant vede nella geometria e nell’aritmetica le scienze sintetiche a priori per eccellenza. Sono sintetiche (e non analitiche) in quanto ampliano le nostre conoscenze mediante costruzioni mentali che vanno oltre il già noto. Ad esempio, la proposizione 7 + 5 = 12, osserva Kant, è sintetica in quanto il risultato 12 viene aggiunto tramite l’operazione del sommare e non può quindi essere ricavato per via puramente analitica (ciò risulta evidente se si prendono in esame cifre più alte: ad esempio la semplice analisi mentale dei concetti aritmetici 62.525 e 48.734 non può affatto suggerirci il risultato della loro somma, che occorre invece far scaturire sinteticamente mediante un calcolo, il quale soltanto ci fa scoprire che tale risultato è 111.259). Inoltre, la matematica è a priori (e non a posteriori) in quanto i teoremi geometrici e aritmetici – come insegna una tradizione di pensiero che va da Platone a Hume – valgono indipendentemente dall’esperienza. Qual è, allora, il punto di appoggio delle costruzioni sintetiche a priori della matematica? Kant non ha dubbi: esso risiede nelle intuizioni di spazio e di tempo. Infatti la geometria è la scienza che dimostra sinteticamente a priori le proprietà delle figure mediante l’intuizione pura di spazio, stabilendo ad esempio, senza ricorrere all’esperienza del mondo esterno, che tra le infinite linee che uniscono due punti la più breve è la retta, che due parallele non chiudono uno spazio, che in una circonferenza il raggio è minore del diametro ecc. Analogamente, l’aritmetica è la scienza che determina sinteticamente a priori la proprietà delle serie numeriche, basandosi sull’intuizione pura di tempo e di successione, senza la quale lo stesso concetto di numero non sarebbe mai sorto. In quanto a priori, la matematica è anche universale e necessaria, immutabilmente valida per tutte le menti pensanti.
La geometria e l’aritmetica come scienze sintetiche a priori
Per quale ragione, allora, le matematiche, pur essendo una costruzione della nostra mente, valgono anche per la natura? Anzi, perché tramite esse siamo addirittura in grado di fissare anticipatamente delle proprietà che in seguito riscontriamo nell’ordine fattuale delle cose? Che cosa garantisce questa stupefacente coincidenza, sulla quale fa leva la fisica? A questi interrogativi di filosofia della scienza Galilei, sulla base della sua epistemologia realistica, aveva risposto sostanzialmente che Dio, creando, geometrizza, postulando in tal modo una struttura ontologica di tipo matematico. Kant, avendo dichiarato inconoscibile la cosa in sé, non poteva certo presupporre simili “armonie prestabilite”. Escludendo ogni garanzia di
La validità della matematica per il mondo naturale
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ESERCIZI
tipo metafisico e teologico, egli afferma invece che le matematiche possono venir proficuamente applicate agli oggetti dell’esperienza fenomenica poiché quest’ultima, essendo intuita nello spazio e nel tempo – che sono anche i cardini della matematica –, possiede già, di per sé, una configurazione geometrica e aritmetica. In altre parole, se la forma a priori di spazio con cui ordiniamo la realtà è di tipo euclideo, risulta evidente che i teoremi della geometria di Euclide varranno anche per l’intero mondo fenomenico.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra il processo della conoscenza sensibile descritto da Kant utilizzando e spiegando le seguenti espressioni: intuizioni pure, sensibilità, intuizioni empiriche, estetica trascendentale. 2. Spiega perché Kant intende lo spazio e il tempo come forme a priori e precisa in che modo, secondo il filosofo tedesco, queste intuizioni possano fondare la matematica.
7. L’analitica trascendentale Come abbiamo visto, la seconda parte della dottrina degli elementi è la logica trascendentale, cioè un tipo di logica che presenta una fisionomia originale rispetto a quella della tradizione, in quanto ha come specifico oggetto di indagine «l’origine, l’estensione e la validità oggettiva» delle conoscenze a priori che sono proprie dell’intelletto (studiato nell’Analitica trascendentale) e della ragione (studiata nella Dialettica trascendentale). La sensibilità Ora, nell’Analitica trascendentale, addentrandosi appunto nello studio delle modalità conoe l’intelletto, scitive proprie dell’intelletto, in un passo famoso Kant precisa che, per la conoscenza umaovvero intuizioni e concetti na, l’intelletto è indispensabile quanto la sensibilità, poiché:
‘
Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto [senza intuizioni] sono vuoti, le intuizioni senza concetti (Critica della ragion pura, B 75) sono cieche.
Ma che cosa sono i concetti? Questa domanda trova risposta nell’Analitica dei concetti, che è la prima parte dell’Analitica trascendentale.
Le categorie I concetti come Se le intuizioni sono “affezioni” (cioè qualcosa di passivo), i concetti sono invece “funzioni”, funzioni ovvero operazioni attive che consistono nell’ordinare o unificare diverse rappresentazioni unificatrici
«sotto una rappresentazione comune». Ad esempio, quello di “corpo” è un concetto in quanto sotto di esso si trovano raccolte altre rappresentazioni (ad esempio quella di metallo, come vedremo meglio tra poco). Ora, i concetti possono essere «empirici», cioè costruiti con materiali ricavati dall’esperienza, o «puri», cioè contenuti a priori nell’intelletto. glossario p. 512
I concetti puri, I concetti puri si identificano con le categorie (nel senso aristotelico del termine), cioè con quei ovvero le concetti basilari che costituiscono le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto. E poiché categorie
ciascun concetto è «il predicato di un giudizio possibile» (Kant fa l’esempio: «ogni metallo [soggetto] è un corpo [predicato]»), le categorie coincidono con i predicati primi, cioè con quelle grandi “caselle” entro cui rientrano tutti i predicati possibili. glossario p. 512 ( T3 p. 520) Tuttavia, diversamente dalle categorie aristoteliche, che hanno un valore ontologico e gnoseologico al tempo stesso, essendo simultaneamente forme dell’essere e del pensiero (leges entis et mentis), le categorie kantiane hanno una portata esclusivamente gnoseologico-trascendentale, in quanto rappresentano dei modi di funzionamento dell’intelletto (semplici leges mentis), che non valgono per la cosa in sé, ma soltanto per il fenomeno.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
CONCETTI A CONFRONTO
LE CATEGORIE in ARISTOTELE
in KANT
sono i predicati primi, cioè i modi generalissimi in cui l’essere può essere predicato delle cose nelle proposizioni (accezione logica)
sono i concetti puri o i predicati primi, cioè le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto (accezione gnoseologica)
sono i generi supremi dell’essere, cioè i modi fondamentali in cui si presenta la realtà (accezione ontologica)
non sono forme dell’essere in sé in quanto valgono soltanto per la realtà fenomenica
Stabilita la nozione di “categoria”, si tratta di redigerne una tavola completa. Kant, che La tavola delle rimprovera ad Aristotele di aver rinvenuto le categorie in modo casuale e frammentario categorie («rapsodicamente»), ossia senza servirsi di un principio sistematico comune, formula il proprio inventario sulla base del seguente “filo conduttore”: poiché pensare è giudicare (e poiché giudicare significa attribuire un predicato a un soggetto), ci saranno tante categorie (cioè tanti predicati primi) quante sono le modalità di giudizio (ovvero quanti sono i modi fondamentali in cui si attribuisce un predicato a un soggetto). E poiché la logica generale, secondo Kant, raggruppa i giudizi secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità, egli fa corrispondere – non senza qualche forzatura dettata dalla ricerca di una perfetta simmetria – a ogni tipo di giudizio un tipo di categoria, secondo lo schema riportato di seguito. TAVOLA DEI GIUDIZI quantità
qualità
relazione
modalità
universali
affermativi
categorici
problematici
particolari
negativi
ipotetici
assertori
singolari
infiniti
disgiuntivi
apodittici
TAVOLA DELLE CATEGORIE quantità
qualità
relazione
modalità
unità
realtà
dell’inerenza e sussistenza (sostanza e accidente)
possibilitàimpossibilità
pluralità
negazione
della causalità e dipendenza (causa ed effetto)
esistenza-inesistenza
limitazione
della comunanza (azione reciproca tra agente e paziente)
necessitàcontingenza
totalità
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L’onnipresenza È facile vedere come le categorie kantiane entrino in azione in tutti i giudizi o in tutte le delle categorie proposizioni in cui si concreta il nostro pensiero. Si parla infatti sempre di una cosa, o di nei giudizi 1
più cose, o di una totalità di cose (categorie della quantità) . Si afferma che una cosa è reale, oppure che non lo è, oppure che non è quella tale realtà (categorie della qualità). Si giudica che una certa proprietà appartiene a una certa sostanza, o che un certo fatto è causa di un altro fatto, o che due cose agiscono e reagiscono l’una sull’altra (categorie della relazione). Infine si afferma che una cosa è possibile o impossibile, che esiste o non esiste, che deve necessariamente esistere o è puramente accidentale (categorie della modalità).
La deduzione trascendentale delle categorie Formulata la tavola delle categorie, Kant si trova di fronte al problema della giustificazione della loro validità e del loro uso. Problema che egli considera «il più difficile» della Critica e che denomina «deduzione trascendentale». Il concetto Kant usa il termine “deduzione” non nel senso logico-matematico, bensì in quello giuridicodi deduzione forense, cioè alludendo alla dimostrazione della legittimità di diritto di una pretesa di
fatto. Come tale, la deduzione riguarda il quid iuris e non il quid facti di una questione: ad esempio, il fatto che una persona risulti in possesso di un certo oggetto non prova che essa, in base alla legge, abbia qualche diritto su di esso. Analogamente, la “deduzione” delle categorie non consiste nel provare che esse sono usate, di fatto, nella conoscenza scientifica, ma nel giustificare la legittimità e i limiti di tale uso, ovvero nel determinare il diritto della ragione di farvi ricorso: diritto che, come tutti gli altri, è soggetto a restrizioni.
Il problema: Tradotto concretamente nei termini gnoseologici della Critica, il problema della deduzione perché le delle categorie suona perciò in questo modo: perché le categorie, pur essendo forme della categorie “funzionano”? nostra mente, e quindi soggettive, pretendono di valere anche per gli oggetti, ossia per
qualcosa che, materialmente, non è l’intelletto a creare? Detto altrimenti: che cosa garantisce, di diritto, che la natura obbedirà alle categorie del nostro intelletto, manifestandosi nell’esperienza secondo il nostro modo di pensarla? Per le forme della sensibilità, cioè per lo spazio e il tempo, questo problema non si presentava, poiché un oggetto non può apparire a un essere umano, cioè essere percepito da lui, se non attraverso queste forme. La necessità che gli oggetti di esperienza siano percepiti nello spazio e nel tempo è quindi garantita: un oggetto che non è dato nello spazio e nel tempo non è un “oggetto-per-noi”, perché non è da noi intuito. Per quanto concerne le categorie, invece, non è per nulla evidente che gli oggetti debbano sottostarvi. In altri termini, dire che la realtà obbedisce, oltre che alle forme delle nostre intuizioni, anche alle forme dei nostri pensieri, è un paradosso che esige una giustificazione critica adeguata. ( T4 p. 522)
1. Le corrispondenze tra giudizio universale e categoria dell’unità, e tra giudizio singolare e categoria della totalità, appaiono artificiali e contro-intuitive. Tant’è che Kant, in un altro testo, aveva seguito una via più semplice, connettendo la singolarità con l’unità e l’universalità con la totalità. Probabilmente la modifica è dovuta alla volontà di far scaturire la totalità combinando unità e pluralità, e trova una giustificazione nel fatto che «l’universale pare esso stesso una forma di unità, perché riguarda tutti gli individui della classe, ed il singolare un giudizio universale poiché riguarda tutta la classe composta da un solo individuo» (Mauro Sacchetto).
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
Al di là della complessità testuale, la soluzione kantiana, nelle sue linee generali, risulta sufficientemente chiara e può essere articolata nei punti seguenti: 1. l’unificazione del molteplice non deriva dalla molteplicità stessa, che è sempre qualcosa di passivo, ma da un’attività sintetica che ha la sua sede nell’intelletto; 2. distinguendo tra l’unificazione (il processo tramite il quale si attua la sintesi del molteplice) e l’unità stessa (il principio in base a cui si realizza l’unificazione), Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza – che è qualcosa di diverso dalla semplice categoria dell’unità – con quel centro mentale unificatore che egli, per meglio sottolineare come esso non si identifichi con la psiche di questa o di quella persona, ma con l’identica struttura mentale che accomuna tutti gli uomini, denomina con l’espressione io penso (oppure con quelle affini di «appercezione» o «autocoscienza» trascendentale). Infatti, osserva il filosofo, senza tale autocoscienza le varie rappresentazioni non si configurerebbero come “mie” e di conseguenza risulterebbero impossibili: «L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso contrario si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe esser pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla»; glossario p. 513 3. ora, l’attività dell’io penso si attua tramite i giudizi, i quali, come sappiamo, sono i modi concreti con cui il molteplice dell’intuizione viene pensato; 4. ma i giudizi si basano sulle categorie, che sono i diversi modi di agire dell’io penso, ovvero le dodici funzioni unificatrici in cui si concretizza la sua attività sintetica; 5. di conseguenza, gli oggetti non possono assolutamente essere pensati senza per ciò stesso venire categorizzati.
La soluzione: l’«io penso»
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 798
I passaggi del In estrema sintesi, il ragionamento kantiano consiste quindi nel mostrare che: ragionamento poiché tutti i pensieri presuppongono l’io penso e poiché l’io penso pensa tramite le categorie, ne segue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie. Il che equivale a dire che la natura (fenomenica) obbedisce necessariamente alle forme (a priori) del nostro intelletto. ( T5 p. 524)
Il testo di Kant A questo punto non dovrebbe essere più così difficile comprendere il testo di Kant. Ecco il basilare paragrafo 20, in cui egli riassume i vari passaggi concettuali della deduzione trascendentale delle categorie (i numeri tra parentesi quadra corrispondono ai cinque punti in cui abbiamo schematizzato il pensiero del filosofo):
‘
Il molteplice, dato in una intuizione sensibile, cade necessariamente sotto l’unità sintetica originaria dell’appercezione, perché solo per mezzo di questa è possibile l’unità dell’intuizione [punti 1 e 2]. Ma quell’operazione dell’intelletto, in virtù della quale il molteplice di rappresentazioni date (siano esse intuizioni o concetti) è in generale portato sotto un’appercezione, è la funzione logica dei giudizi. Ogni molteplice, quindi, per quanto sia dato in un’unica intuizione empirica, è determinato in riferimento ad una delle funzioni logiche del giudicare, mediante cui esso è in generale portato a una coscienza [punto 3]. Ma le categorie non sono altro appunto che queste funzioni del giudicare, in quanto il molteplice d’una intuizione data è determinato in riferimento ad esse [punto 4]. Dunque il molteplice di un’intuizione data sottostà necessariamente alle categorie [punto 5]. (Critica della ragion pura, B 143)
497
In altri termini, come afferma Kant nel paragrafo 26 (che completa il 20):
‘
ogni sintesi, in virtù della quale si rende possibile la stessa percezione, è sottoposta alle categorie; e siccome l’esperienza è conoscenza mediante percezioni connesse, le categorie risultano condizioni della possibilità dell’esperienza e valgono pertanto a priori per tutti gli (Critica della ragion pura, B 161) oggetti dell’esperienza.
L’importanza L’io penso si configura dunque come «il principio supremo della conoscenza umana», dell’io penso ossia come ciò a cui ogni realtà deve sottostare per poter entrare nel campo dell’esperienza
e per divenire un oggetto-per-noi. Nello stesso tempo, esso rappresenta ciò che rende possibile l’oggettività (cioè l’universalità e la necessità) del sapere. Infatti, senza l’io penso – e senza le categorie mediante le quali esso opera – saremmo chiusi nel cerchio della soggettività individuale e potremmo stabilire soltanto connessioni particolari e contingenti. Ad esempio, non potremmo dire «i corpi sono pesanti» (fissando, in virtù della categoria di sostanza, un rapporto universale e necessario tra il soggetto “i corpi” e il predicato “essere pesante”), ma soltanto «ogni volta che porto un corpo, sento un’impressione di peso».
La critica L’importanza della figura teoretica dell’io penso nell’ambito della gnoseologia criticista dell’idealismo non fa certo di Kant un “idealista”, nel senso che questa parola assumerà nella successiva
filosofia del periodo romantico. Infatti l’io di Kant, a differenza di quello di Fichte ( unità 7, cap. 2), non è affatto un io che “crea” la realtà che conosce. Tant’è vero che Kant insiste sul carattere formale, e quindi finito, dell’io penso, il quale si limita a ordinare una realtà che gli preesiste, e senza la quale la sua stessa conoscenza non avrebbe senso. Non a caso, la seconda edizione della Critica contiene anche, tra le aggiunte più significative, una Confutazione dell’idealismo diretta sia contro l’idealismo problematico di Cartesio (che aveva dichiarato indubitabile soltanto l’“io sono”), sia contro l’idealismo dogmatico di Berkeley (che aveva ridotto le cose a semplici idee). La sostanza di questa confutazione dell’idealismo risiede nella tesi secondo cui l’interiorità non può essere concepita senza l’esteriorità, in quanto l’esperienza interna dipende da qualcosa di permanente che si trova al di fuori di essa:
‘
Io sono cosciente della mia esistenza come determinata nel tempo. Ogni determinazione temporale presuppone alcunché di permanente nella percezione. Ma questo elemento permanente non può essere qualcosa in me, visto che la mia esistenza nel tempo richiede di essere determinata proprio da questo alcunché di permanente. La percezione di questo permanente non è dunque possibile se non in base a qualcosa fuori di me e non in base alla semplice rappresentazione di una cosa fuori di me. Quindi, la determinazione della mia esistenza nel tempo presuppone l’esistenza di cose reali, da me percepite come fuori di me. (Critica della ragion pura, B 275-276)
Lo schematismo trascendentale Se nell’Analitica dei concetti Kant si occupa delle categorie e della loro legittimazione, nell’Analitica dei princìpi indaga il modo in cui esse si “applicano” ai fenomeni. È questa la funzione del cosiddetto “schematismo trascendentale”: se con la deduzione trascendentale Kant ha mostrato in generale come l’intelletto condizioni la realtà fenomenica attraverso le categorie, con lo schematismo trascendentale mostra come ciò possa avvenire in concreto.
La domanda di partenza L’interrogativo da cui Kant prende le mosse è il seguente: com’è possibile che l’intelletto condizioni effettivamente le intuizioni, e quindi gli oggetti sensibili? Detto altrimenti: se la sensibilità e l’intelletto sono due facoltà eterogenee, 498
UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
quale sarà l’elemento mediatore che fa sì che l’intelletto possa applicare alle intuizioni i propri concetti a priori? Per usare le parole dello stesso Kant:
‘
Com’è possibile la sussunzione delle intuizioni sotto i concetti dell’intelletto, quindi (Critica della ragion pura, B 176) l’applicazione della categoria [della causalità] ai fenomeni?
Il senso della domanda è chiaro: se le categorie (e in particolare la categoria della causalità) non sono proprietà delle cose (dati), ma concetti puri o a priori (pensati), per quale ragione esse dovrebbero valere per le cose? O, il che è lo stesso: perché le cose dovrebbero “obbedire” alle categorie (ad esempio disponendosi tra loro in una relazione di tipo causale)? La rilevanza di questo interrogativo – sia in riferimento alla deduzione trascendentale, sia in rapporto alla gnoseologia complessiva di Kant – spiega perché gli studiosi odierni tendano a dare sempre più importanza a questa sezione dell’Analitica, vedendo in essa “il segreto” o “la chiave di volta” della Critica. Kant risolve il problema affermando che l’intelletto, non potendo agire direttamente sugli La soluzione oggetti della sensibilità, agisce indirettamente su di essi attraverso il tempo, che è il medium universale attraverso il quale tutti gli oggetti sono percepiti. In altre parole, se il tempo condiziona gli oggetti, allora l’intelletto, condizionando il tempo, condizionerà gli oggetti. E ciò avviene attraverso una facoltà che Kant chiama immaginazione produttiva , in quanto “produce” (a priori) una serie di “schemi” temporali che corrispondono ognuno a una delle categorie. La “rete” temporale attraverso la quale l’intelletto “cattura” i fenomeni corrisponde esattamente alle categorie, in quanto è organizzata (dall’immaginazione produttiva) proprio sulla base di esse. Ma vediamo come. glossario p. 513 In generale, Kant intende per «schema» la rappresentazione intuitiva di un concetto, ovvero, in termini dinamici, una «regola della determinazione della nostra intuizione, in conformità ad un determinato concetto universale» (Critica della ragion pura, B 180). Come tale lo schema, pur avendo una certa parentela con l’immagine, va distinto da essa. Per fare un esempio: lo schema di “cane” non coincide con l’immagine sensibile e particolare di questo o quel cane, ma si identifica con «una regola in base alla quale la mia immaginazione è posta in grado di delineare in generale la figura di un quadrupede, senza tuttavia chiudersi entro una particolare raffigurazione offertami dall’esperienza o in una qualsiasi immagine che io possa rappresentarmi in concreto» (Critica della ragion pura, B 180). La stessa cosa vale per gli schemi di “triangolo”, “numero” ecc., e per quella specifica classe di schemi che corrispondono alle categorie e che Kant chiama schemi trascendentali .
La nozione di «schema»
glossario p. 513
Gli schemi trascendentali, come abbiamo anticipato, sono infatti le regole attraverso cui Gli schemi l’intelletto condiziona il tempo in conformità con i propri concetti a priori: in questo trascendentali senso costituiscono lo strumento di una “pre-sintesi intellettiva”, mediante la quale il materiale della sensibilità viene ordinato non ancora secondo le forme (concettuali) delle categorie, ma secondo la “prefigurazione” di esse nella forma del tempo. Potremmo dire (per usare un’immagine didattica) che gli schemi trascendentali sono le categorie “calate” nel tempo, ovvero le categorie “tradotte” in linguaggio temporale: per quanto concerne le categorie di relazione, lo schema della categoria di sostanza è la permanenza nel tempo (infatti, noi possiamo pensare qualcosa come sostanza soltanto a patto di rappresentarcela come un quid che “permane” sotto il variare degli accidenti); lo schema della categoria di causa-effetto è la successione (irreversibile) nel tempo; lo schema della categoria di azione reciproca è la simultaneità nel tempo;
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per quanto concerne le categorie di modalità, lo schema della categoria di possibilità è l’esistenza in un tempo qualsiasi; lo schema della categoria di realtà è l’esistenza in un determinato tempo; lo schema della categoria di necessità è l’esistenza in ogni tempo; per quanto concerne le categorie di quantità, il loro schema complessivo è il numero, ovvero la successiva addizione di enti omogenei nel tempo; per quanto concerne le categorie di qualità, il loro schema complessivo è la “cosalità”, ossia la presenza, l’assenza e l’intensità dei fenomeni nel tempo (come chiariremo nel prossimo paragrafo parlando delle «anticipazioni della percezione»).
I princìpi dell’intelletto puro Con la teoria dello schematismo, la deduzione trascendentale delle categorie raggiunge il suo coronamento. Con essa, infatti, Kant chiarisce definitivamente perché gli oggetti, pur non essendo creati dalla nostra mente, si costituiscano già nell’esperienza in sintonia con il nostro modo di pensarli. Ma il frutto ultimo del discorso kantiano (e il definitivo superamento dello scetticismo di Hume) si trova nella sezione dedicata ai «princìpi dell’intelletto puro», ovvero alle regole fondamentali mediante cui avviene l’applicazione delle categorie agli oggetti. I princìpi I princìpi dell’intelletto puro sono le enunciazioni generali che, sulla base delle categodell’intelletto rie, possiamo formulare a priori sulle cose; in quanto tali, essi si identificano con le leggi puro
supreme dell’esperienza e con le proposizioni di fondo del sapere scientifico. Kant li suddivide in quattro gruppi, corrispondenti ai quattro tipi di categorie. glossario p. 513
Gli assiomi dell’intuizione
Gli «assiomi dell’intuizione» (corrispondenti alle categorie della quantità) affermano a priori che tutti i fenomeni intuìti costituiscono delle «quantità estensive», ossia qualcosa che può essere conosciuto soltanto mediante la sintesi successiva delle sue parti (ad esempio, una linea o una durata possono essere percepite soltanto percependone successivamente le parti). Codificando il principio secondo cui ogni quantità è composta di parti, tali “assiomi” giustificano l’applicazione della matematica all’intero mondo dell’esperienza.
Le anticipazioni della percezione
Le «anticipazioni della percezione» (corrispondenti alle categorie della qualità) affermano a priori che ogni fenomeno percepito ha una «quantità intensiva», ossia – si pensi alla luce o al calore – un certo grado di intensità che può essere indefinitamente suddiviso. Il termine “anticipazione” indica appunto che «tutte le sensazioni sono date come tali soltanto a posteriori, tuttavia la proprietà che è loro peculiare di avere un grado si può conoscere a priori» (Critica della ragion pura, B 218).
Le analogie dell’esperienza
Le «analogie dell’esperienza» (corrispondenti alle categorie di relazione) affermano a priori che l’esperienza costituisce una trama necessaria di rapporti basata sui princìpi: a) della permanenza della sostanza («In ogni cambiamento dei fenomeni la sostanza permane e il quantum di essa nella natura non viene né accresciuto né diminuito»); b) della causalità («Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto»); c) dell’azione reciproca («Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano fra loro in un’azione reciproca universale»). Con il termine “analogia”, che in questo contesto ha un significato distinto da quello matematico1, Kant designa un concetto filosofico di cui si serve per sottolineare come i princìpi
TEST DI LOGICA
1. In matematica le analogie si identificano con le “proporzioni”, nelle quali abbiamo quattro termini di cui uno incognito, che si scopre grazie agli altri tre.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
in questione non si riferiscano ai singoli oggetti, ma soltanto a quelle analogie formali del loro accadere che fungono da regole generali per scoprirli e per situarli nell’ordine della natura. Ad esempio, in presenza di un evento, noi sappiamo a priori, grazie al principio di causalità, che esso deve avere una causa, pur non sapendo, in base al medesimo principio, quale sia tale causa, che va quindi cercata nell’esperienza. I postulati del pensiero empirico in generale (corrispondenti alle categorie di modalità e identificantisi con le regole dell’uso empirico dell’intelletto) stabiliscono che: a) «Ciò che è in accordo con le condizioni formali dell’esperienza […] è possibile»; b) «Ciò che è connesso con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è reale»; c) «Ciò la cui connessione col reale è determinata in base alle condizioni universali dell’esperienza è (esiste) necessariamente».
I postulati del pensiero empirico in generale
gli assiomi dell’intuizione (tutti i fenomeni intuiti sono quantità estensive)
I PRINCÌPI DELL’INTELLETTO PURO
le anticipazioni della percezione (ogni realtà percepita ha una quantità intensiva, ossia un grado) sono
le analogie dell’esperienza (l’esperienza è possibile soltanto mediante una trama necessaria basata sulle categorie di sostanza, causa e azione reciproca) i postulati del pensiero empirico in generale (possibile, reale o necessario sono, rispettivamente, ciò che si accorda con le condizioni formali, materiali e universali dell’esperienza)
L’io legislatore della natura La dottrina dei princìpi dell’intelletto puro coincide con quella teoria dell’ io legislatore della natura , che si configura come la massima espressione della “rivoluzione copernicana” attuata da Kant in filosofia. Vediamo di che si tratta. glossario p. 513 Se per natura in generale intendiamo la «conformità a leggi dei fenomeni» (Critica della ragion pura, B 165), cioè quell’ordine necessario e universale (natura in senso formale) che sta alla base dell’insieme di tutti i fenomeni (natura in senso materiale), allora è evidente che tale ordine non deriva dall’esperienza, bensì dall’io penso e dalle sue forme a priori. L’io penso e le categorie, d’altro canto, non possono rivelare se non quello che la natura è in generale, cioè la regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo, mentre le leggi particolari, in cui tale regolarità si esprime, non possono essere desunte dalle categorie (pur sottostando in ogni caso a esse), ma soltanto dall’esperienza.
La conoscenza della natura tra io penso ed esperienza
Essendo il fondamento della natura, l’io penso è anche il fondamento della scienza che la Il superamento studia. Infatti i pilastri ultimi della fisica, che in concreto si identificano con i princìpi dello scetticismo di Hume dell’intelletto puro, si basano sui giudizi sintetici a priori della nostra mente, che a loro volta derivano dalle intuizioni pure di spazio e di tempo e dalle dodici categorie. La gnoseologia di Kant si configura così come l’epistemologia della scienza galileianonewtoniana, e come il tentativo di giustificare filosoficamente i suoi princìpi di base contro lo scetticismo di Hume. Questi (lo ricordiamo) riteneva infatti che l’esperienza, in linea di principio, potesse da un momento all’altro smentire le verità fondamentali della scienza.
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Kant sostiene invece che tale possibilità non sussiste, dal momento che l’esperienza, essendo condizionata dalle categorie dell’intelletto e dall’io penso, non potrà mai smentirne i princìpi. In tal modo le leggi della natura “scoperte” dalla scienza risultano pienamente giustificate nella loro validità: l’esperienza che le rivela non potrà mai smentirle, poiché esse rappresentano le condizioni stesse di ogni esperienza, il che equivale a dire che l’ordine oggettivo della natura coincide con le condizioni formali del soggetto conoscente, garante unico e ultimo di una conoscenza salda.
Gli ambiti d’uso delle categorie Nella dottrina dell’io legislatore della natura appare in tutta la sua forza ed evidenza l’originalità del copernicanesimo filosofico di Kant, che, anziché cercare negli oggetti o in Dio la garanzia ultima della conoscenza, la scopre nella mente umana, fondando le istanze dell’oggettività nel cuore stesso della soggettività. Con questo non si intende dire che la rivoluzione kantiana sia consistita semplicemente nel fondare sul soggetto, anziché sull’oggetto, la validità del sapere. La sua originalità risiede anche nell’intendere il fondamento del sapere in termini di possibilità e di limiti, cioè conformemente al modo d’essere di quell’ente pensante finito che è l’uomo. La messa in luce della validità delle categorie e della loro portata giustificatrice nei confronti della scienza implica infatti anche una simultanea delucidazione dei limiti del loro possibile uso. Il fenomeno Le idee di Kant a questo proposito sono nette e inequivocabili: le categorie, costituendo la come unico facoltà logica di unificare il molteplice sensibile, funzionano soltanto in rapporto al mate“oggetto” delle categorie riale che esse organizzano, cioè in connessione con le intuizioni spazio-temporali alle
quali si applicano. Considerate di per sé, cioè senza essere riempite di dati provenienti dal senso esterno o interno, le categorie sono “vuote”. Questo fa sì che esse risultino operanti soltanto in relazione al fenomeno, dove per “fenomeno” si intende l’oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale. Di conseguenza, per Kant il conoscere non può estendersi al di là dell’esperienza, in quanto una conoscenza che non si riferisca a un’esperienza possibile non è conoscenza, ma un vuoto pensiero che non conosce nulla, un semplice gioco di rappresentazioni. Questo principio – che postula una distinzione tra pensare e conoscere – esclude che le categorie abbiano un uso trascendentale (per rifarci alla terminologia di Kant), tale per cui possano essere riferite alle cose in generale e in sé stesse, e implica che il loro unico uso possibile sia quello empirico, per il quale vengono riferite ai soli fenomeni, ossia agli oggetti di un’esperienza determinata.
La cosa in sé come presupposto gnoseologico necessario
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La delimitazione della conoscenza al fenomeno – e quindi alla scienza, che è sempre conoscenza fenomenica – comporta un esplicito rimando alla nozione di “cosa in sé”, la quale, pur essendo inconoscibile, si staglia sullo sfondo di tutta la gnoseologia kantiana. Infatti Kant non ha mai pensato di “ridurre” la realtà al fenomeno, poiché, se c’è un per-noi, deve per forza esserci anche un in-sé, ossia una x meta-fenomenica che si fenomenizza soltanto in rapporto a noi. In questo senso il noumeno, o la cosa in sé, costituisce il presupposto o il postulato immanente del discorso gnoseologico di Kant, il quale, nel momento stesso in cui afferma che l’essere si dà a noi attraverso le nostre forme a priori, è costretto anche a distinguere tra fenomeno e cosa in sé. UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
Per questo motivo Kant sosterrà la validità di tale concetto (cosa in sé) fino alla fine dei suoi giorni, anche quando Fichte ( unità 7, cap. 2), ritenendolo «insostenibile» e «chimerico», trasformerà il criticismo in idealismo, facendo dell’io penso il creatore della realtà. Nello stesso tempo, Kant ribadirà sempre che l’ambito della conoscenza umana è rigoro- Il duplice volto samente limitato al fenomeno, poiché la cosa in sé non può diventare, per definizione, l’og- della cosa in sé getto di un’esperienza possibile. Esprimendo tutto ciò nel proprio linguaggio tecnico, Kant distingue, a proposito del noumeno, tra un significato positivo e uno negativo: in senso positivo, il noumeno è «l’oggetto di un’intuizione non sensibile» (Critica della ragion pura, B 307), cioè di una conoscenza extra-fenomenica che a noi umani è preclusa, ma che potrebbe essere propria di un ipotetico intelletto divino dotato di intuizione intellettuale (ossia di un intuito delle cose che coincide con la loro stessa creazione); in senso negativo, il noumeno è invece il concetto di una x che non potrà mai entrare in rapporto conoscitivo con noi, ovvero che non può farsi «oggetto della nostra intuizione sensibile». In questo secondo senso, che è l’unico in cui possiamo legittimamente usare la nozione di La cosa in sé noumeno, o cosa in sé, quest’ultima non è tanto una realtà per noi, quanto un concetto, e come concetto-limite precisamente un concetto-limite, che serve ad arginare le nostre pretese conoscitive. In altre parole, l’idea di cosa in sé, o noumeno, costituisce una specie di promemoria critico che da un lato circoscrive le pretese della sensibilità, rammentandoci che ciò che ci viene dato nell’intuizione spazio-temporale non è la realtà in assoluto, e dall’altro circoscrive le arroganze dell’intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma soltanto pensarle nella loro possibilità, sotto forma di x ignote. Coerentemente con queste dottrine, Kant paragona la conoscenza scientifica alla terraferma di un’isola, mentre assimila il desiderio di varcare le soglie dell’esperienza alle smanie di un navigante attratto dalla scoESERCIZI perta di nuove terre, ma destinato a vagare inutilmente attraverso i flutti:
‘
questo territorio è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. È il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza [= l’illusione metafisica], dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine, né abbandonare una volta per sempre. (Critica della ragion pura, B 294-295)
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra il processo della conoscenza intellettiva descritto da Kant, utilizzando e spiegando le espressioni seguenti: analitica trascendentale, categorie o concetti puri, giudizi. 2. In che cosa consiste la «deduzione trascendentale» delle categorie? 3. Definisci i concetti kantiani di «immaginazione produttiva» e «schema trascendentale». 4. Elenca e definisci i «princìpi dell’intelletto puro». 5. In che senso si può parlare, per Kant, di un io “legislatore della natura”? SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura
Considera l’efficace e poetica immagine dell’isola usata da Kant per alludere alla conoscenza scientifica, che si appoggia all’ambito fenomenico come alla terraferma. Il tema dell’isola, del mare in tempesta, dei viaggi attraverso l’oceano in cerca di terre sconosciute, è un tema ricorrente nella letteratura del Settecento. Analizzane gli esempi principali (a partire dal Robinson Crusoe di Defoe ai Viaggi di Gulliver di Swift), mettendone in luce le finalità e le caratteristiche principali.
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8. La dialettica trascendentale L’indagine circa la scientificità della metafisica Con l’Estetica trascendentale e con l’Analitica trascendentale Kant ha portato a termine soltanto la prima parte del suo programma, ovvero la dimostrazione di come sia possibile il sapere scientifico. Nella Dialettica trascendentale egli ne affronta la seconda parte, ossia il problema se la metafisica possa anch’essa costituirsi come scienza. La dialettica per Il termine “dialettica” – assunto da Kant a significare la «logica della parvenza1», ovvero la tradizione l’«arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volute illusioni, l’aspetto filosofica
della verità, contraffacendo il metodo del pensare fondato» (Critica della ragion pura, B 86) – lascia intuire la sua risposta negativa alla domanda sulla scientificità della metafisica. In realtà nella tradizione filosofica la nozione di dialettica aveva anche un significato positivo. Per Platone essa era la scienza delle idee. Per gli stoici, come in parte per i medievali, si identificava con la logica. In Aristotele la dialettica aveva invece assunto un’accezione negativa, in quanto denotava, da una parte, il procedimento dimostrativo fondato su premesse probabili, ma dall’altra l’arte “sofistica” di costruire ragionamenti capziosi basati su premesse che sembrano probabili, ma in realtà non lo sono.
La dialettica Riconnettendosi al significato peggiorativo del termine, per «dialettica trascendentale» Kant per Kant intende l’analisi dei ragionamenti fallaci della metafisica. Nonostante la sua infondatezza
(che deve essere “smascherata”), la metafisica rappresenta infatti «un’esigenza naturale e inevitabile della mente umana», di cui la filosofia critica intende chiarire la genesi profonda.
La genesi della metafisica e delle sue idee L’immagine La metafisica è un parto della ragione, la quale a sua volta non è altro che l’intelletto (ovdella colomba vero la facoltà logica che unifica i dati sensibili attraverso le categorie) nel momento in cui
è inevitabilmente portata a pensare anche senza dati. In ciò l’intelletto (o la ragione) – dice Kant con una famosa immagine – è simile a una colomba che, presa dall’ebbrezza del volo e avvertendo l’impedimento dell’aria, immaginasse di poter volare anche senza di essa, non rendendosi conto che proprio l’aria, pur essendo un limite al suo volo, ne costituisce tuttavia anche la condizione immanente, in mancanza della quale la colomba precipiterebbe a terra.
La tendenza Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla nostra innaall’assoluto ta tendenza all’incondizionato e alla totalità. In altre parole, la nostra ragione, mai paga del
mondo fenomenico (che è il campo del condizionato e del relativo) è irresistibilmente attratta dal regno dell’assoluto e quindi da una spiegazione globale e onnicomprensiva di ciò che esiste.
Le tre idee Una tale spiegazione globale fa leva su tre idee trascendentali che sono proprie della ratrascendentali gione. Quest’ultima, infatti, è costitutivamente portata a unificare: glossario p. 513
i dati del senso interno mediante l’idea di “anima”, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni interni;
1. La «parvenza» (Schein), o apparenza illusoria, non va confusa in Kant con l’«apparenza» (Erscheinung) che è propria del fenomeno (Phänomenon) nel senso positivo del termine: «Cadrei in un grave errore – avverte Kant – se trasformassi in una semplice parvenza ciò che debbo invece considerare come un fenomeno» (Critica della ragion pura, B 69). Traducendo Schein con «apparenza» (Gentile), se ne accentua indebitamente il significato positivo, mentre traducendolo con «illusione» (Colli) se ne accentua troppo quello negativo. Il termine «parvenza» (Chiodi) ha il vantaggio di ovviare a tali unilateralità.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
i dati del senso esterno mediante l’idea di “mondo”, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni; i dati interni ed esterni mediante l’idea di “Dio”, inteso come totalità di tutte le totalità e fondamento di tutto ciò che esiste. ( T6 p. 526) L’errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze (mentali) di uni- L’errore della ficazione dell’esperienza – che Kant fa artificiosamente derivare dai tipi fondamentali di metafisica sillogismo – in altrettante realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a che fare con la cosa in sé, ma soltanto con la realtà non oltrepassabile del fenomeno. Per questo i metafisici, secondo Kant, sono simili a quei già citati navigatori degli oceani burrascosi che, non contenti della loro isola (cioè della “terraferma” del fenomeno e della scienza), si spingono in alto mare con l’irrealizzabile speranza di trovare nuove terre. La dialettica trascendentale vuole appunto essere lo studio critico e la denuncia impietosa La funzione delle peripezie e dei naufragi della metafisica, cioè delle avventure e dei fallimenti del della dialettica trascendentale pensiero quando procede oltre gli orizzonti dell’esperienza. L’illusione strutturale che guida il pensiero in questa “fuga” oltre i propri limiti è così forte che non cessa neppure quando ci si rende conto di tale illusorietà: un po’ come accade all’astronomo, il quale non può impedire che la Luna gli appaia più grande al suo levarsi, pur sapendo che ciò non è vero nella realtà. Per dimostrare l’infondatezza della metafisica, Kant prende in considerazione le tre presunte scienze che da sempre ne costituiscono l’ossatura: la psicologia razionale, che stuVIDEO dia l’anima, la cosmologia razionale, che indaga il mondo, la teologia razionale o natuLe idee della rale, che specula su Dio. ragione
La critica della psicologia razionale Kant ritiene che la psicologia razionale sia fondata su di un «paralogismo», cioè su un ra- La critica gionamento errato che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’io penso, tra- dell’idea di “anima” sformandolo in una «realtà permanente» chiamata «anima». In realtà – osserva Kant – l’io penso non è un oggetto empirico, ma soltanto un’unità formale, e per di più sconosciuta, a cui non possiamo quindi applicare alcuna categoria. In altri termini, l’equivoco di base della psicologia razionale consiste nella pretesa di attribuire tutta una serie di valori positivi a quella x funzionale e ignota che è l’io penso, ossia nella pretesa di identificare con un’anima «immateriale», «incorruttibile», «personale», «spirituale» e «immortale» (in una parola con una “sostanza”) quella che è soltanto la condizione formale suprema del costituirsi dell’esperienza. La verità – chiarisce Kant – è che noi non possiamo conoscere l’io qual è in sé stesso, ov- La conoscibilità vero l’io noumenico, ma soltanto l’io quale appare a noi stessi tramite le nostre forme del solo io fenomenico a priori, ossia l’io fenomenico.
La critica della cosmologia razionale Anche la cosmologia razionale è destinata a fallire, dal momento che pretende di far uso Le quattro della nozione di «mondo», inteso come la totalità assoluta dei fenomeni cosmici. Infatti, antinomie poiché la totalità dell’esperienza non è mai un’esperienza (noi possiamo sperimentare questo o quel fenomeno, ma non la serie completa dei fenomeni), l’idea di mondo cade, per definizione, al di fuori di ogni esperienza possibile. Tant’è vero che quando i metafisici, dimentichi di ciò, pretendono di parlare del mondo nella sua totalità, cadono inevitabilmente nei reticolati logici delle cosiddette «antinomie»,
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veri e propri «conflitti della ragione con sé stessa», che si concretizzano in coppie di affermazioni opposte nelle quali l’una (la tesi) afferma e l’altra (l’antitesi) nega, ma tra le quali, in assenza di un’esperienza corrispondente, non è possibile decidere. Proponiamo qui un prospetto completo delle antinomie kantiane, in cui si fa riferimento sia al testo classico della Critica della ragion pura (B 454-459), sia a quello, più stringato, dei Prolegomeni (par. 51). PRIMA ANTINOMIA tesi Critica Il mondo ha un suo inizio nel tempo e, rispetto allo spazio, è chiuso dentro limiti.
antitesi Critica Il mondo non ha né inizio, né limiti nello spazio, ma è infinito così rispetto al tempo come rispetto allo spazio.
Prolegomeni Il mondo ha un cominciamento [limite] secondo il tempo e secondo lo spazio.
Prolegomeni Il mondo è infinito secondo il tempo e secondo lo spazio.
SECONDA ANTINOMIA tesi Critica Nel mondo, ogni sostanza composta consta di parti semplici, e in nessun luogo esiste qualcosa che non sia o il semplice o ciò che ne risulta composto.
antitesi Critica Nel mondo, nessuna cosa composta consta di parti semplici, e in nessuna parte del mondo esiste alcunché di semplice.
Prolegomeni Tutto nel mondo consta del semplice.
Prolegomeni Non vi è niente di semplice, tutto invece è composto.
TERZA ANTINOMIA tesi Critica La causalità in base a leggi della natura non è l’unica da cui sia possibile far derivare tutti i fenomeni del mondo. Per la loro spiegazione si rende necessaria l’ammissione anche d’una causalità mediante libertà.
antitesi Critica Non c’è libertà alcuna, ma tutto nel mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura.
Prolegomeni Vi sono nel mondo delle cause con libertà.
Prolegomeni Non vi è libertà, tutto invece è natura.
QUARTA ANTINOMIA tesi Critica Del mondo fa parte qualcosa che – o come suo elemento o come sua causa – costituisce un essere assolutamente necessario.
antitesi Critica In nessun luogo – né nel mondo, né fuori del mondo – esiste un essere assolutamente necessario che ne sia la causa.
Prolegomeni Nella serie delle cause cosmiche vi è un certo essere necessario.
Prolegomeni In quella serie non vi è niente di necessario, tutto è contingente.
La critica Fra la tesi e l’antitesi delle quattro antinomie – che Kant divide in «matematiche» (le prime dell’idea di due) e «dinamiche» (le altre due) – è impossibile decidersi, perché entrambe possono es“mondo”
sere razionalmente dimostrate. Il difetto è nella stessa idea di «mondo», la quale, essendo al di là di ogni esperienza possibile, non può fornire alcun criterio adeguato per decidere per l’una o per l’altra delle tesi in conflitto. Le antinomie dimostrano quindi l’illegittimità dell’idea di mondo.
Alcune Questa illegittimità risulta evidente anche osservando che le tesi delle antinomie presentapuntualizzazioni no un concetto troppo “piccolo” per l’intelletto (come l’idea di un universo finito), mentre le di Kant
antitesi presentano un concetto troppo “grande” (come l’idea di un universo infinito).
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
Inoltre Kant puntualizza che: le tesi sono proprie del pensiero metafisico e del razionalismo, mentre le antitesi sono tipiche della scienza e dell’empirismo; per quanto riguarda la terza e la quarta antinomia, le antitesi valgono per il fenomeno (nel cui ambito non si potranno mai incontrare né Dio né la libertà), mentre le tesi si riferiscono al noumeno (nel cui regno sconosciuto potrebbe esserci posto sia per la libertà sia per Dio). Vedremo più avanti, a proposito dell’etica, quale sia il senso di quest’ultima “ipotesi” kantiana.
La critica della teologia razionale Agli occhi di Kant anche la teologia razionale – che si occupa del più arduo problema del- La critica dell’idea la metafisica, cioè della questione di Dio – risulta priva di valore conoscitivo. di “Dio” Dio, secondo Kant, è infatti un ideale della ragion pura, cioè quel supremo “modello” personificato di ogni realtà e perfezione che i filosofi hanno designato con il nome di ens realissimum, concependolo come l’Essere da cui derivano e dipendono tutti gli esseri. Ma, poiché scaturisce dalla semplice ragione, tale ideale ci lascia nella totale ignoranza circa la sua effettiva realtà; per questo la tradizione ha elaborato una serie di «prove dell’esistenza di Dio» che Kant raggruppa in tre classi: prova ontologica, prova cosmologica e prova fisico-teologica. La prova ontologica (che risale ad Anselmo d’Aosta, ma che Kant assume nella forma carte- La prova siana) pretende di ricavare l’esistenza di Dio dal semplice concetto di Dio come essere per- ontologica fettissimo, affermando che, in quanto tale, egli non può mancare dell’attributo dell’esistenza. Distinguendo criticamente tra piano mentale e piano reale, Kant obietta che non risulta possibile “saltare” dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica. L’esistenza è qualcosa che possiamo constatare soltanto per via empirica, e non già dedurre per via puramente intellettiva. Kant sostiene infatti che «l’esistenza non è un predicato», intendendo dire che l’esistenza non è una proprietà logicamente inferibile da una determinata nozione, bensì un fatto asseribile soltanto mediante l’esperienza. Tant’è vero che quand’anche si sia ben descritta, in tutti i suoi caratteri, la natura di una realtà qualsiasi, ci si può comunque ancora chiedere se tale realtà esista o meno. La differenza – chiarisce Kant con un esempio assai efficace – tra cento talleri reali e cento talleri pensati non risiede nella serie di proprietà “contenute” nei rispettivi concetti (che sono identiche), ma nel fatto che gli uni esistono e gli altri no. In altri termini:
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Qualunque sia l’estensione e la natura del contenuto del nostro concetto di un oggetto, dovremo sempre uscir fuori dal concetto se vogliamo conferire l’esistenza all’oggetto. (Critica della ragion pura, B 601)
Di conseguenza, una prova ontologica dell’esistenza di Dio o è impossibile, o è contraddittoria: impossibile se vuol derivare da un’idea una realtà; contraddittoria se nell’idea di un essere perfettissimo assume già, implicitamente e “sottobanco”, quella proprietà dell’esistenza che vorrebbe dimostrare (è chiaro che, se si presuppone che l’essere perfettissimo sia esistente, non si può fare a meno di concludere che l’esistenza gli appartiene necessariamente; ma il problema è di vedere se un tale essere esista davvero). In entrambi i casi, la prova risulta palesemente fallace. La prova cosmologica (che costituisce il fulcro delle «vie» tomistiche e che Kant riprende La prova dalla filosofia del suo tempo) gioca sulla distinzione tra contingente e necessario, affer- cosmologica mando che «se qualcosa esiste, deve anche esistere un essere assolutamente necessario; poiché io stesso, almeno, esisto, deve quindi esistere un essere assolutamente necessario» (Critica della ragion pura, B 632-633).
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Secondo Kant, il primo limite di questo argomento consiste in un uso illegittimo del principio di causalità, in quanto, partendo dall’esperienza della catena degli enti eterocausati (i contingenti), si pretende di innalzarsi oltre l’esperienza giungendo a un primo anello non-causato (il necessario). Ma il principio di causalità, puntualizza Kant, è una regola con cui connettiamo tra loro i fenomeni, e che quindi non può affatto servire a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico. Il secondo limite dell’argomento risiede nel suo fondarsi su una serie di forzature logiche e nel suo inevitabile ricadere nella prova ontologica. Infatti, dopo essersi elevati all’idea del necessario – che però non si sa bene, in concreto, che cosa sia – con un disinvolto gioco di concetti si giunge a sostenere che il necessario coincide con l’idea dell’essere perfettissimo, cioè di un ens realissimum che non può fare a meno di esistere. Così, dopo essere pervenuti a delle semplici idee, per di più forzatamente legate tra loro, si pretende di essere giunti a delle realtà effettivamente esistenti. La prova cosmologica finisce così per servirsi della stessa logica fallace di cui si serve la prova ontologica, che da puri concetti vuol presuntuosamente fare scaturire delle esistenze. Ma «il giuoco di prestigio – aveva già avvertito Kant nell’Analitica trascendentale – con cui si sostituisce alla possibilità logica di un “concetto” (che non è in contraddizione con sé stesso) la possibilità trascendentale di una “cosa” (dove al concetto corrisponde un oggetto) può ingannare e soddisfare soltanto gli inesperti» (Critica della ragion pura, B 302). Anche questo argomento, che in sostanza parte dall’esperienza per saltare al di là di essa, avventurandosi in discorsi meta-empirici, risulta dunque inequivocabilmente fallace e privo di autentica capacità dimostrativa. La prova La prova fisico-teologica1 fa leva sull’ordine, sulla finalità e sulla bellezza del mondo per fisico-teologica innalzarsi a una Mente ordinatrice, identificata con un Dio creatore, perfetto e infinito.
Essa, rileva Kant, «è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione», tanto che ha trovato fortuna anche presso i critici ostili alla teologia tradizionale, ad esempio presso gli illuministi, che l’hanno espressa con il noto argomento secondo il quale, se c’è un orologio, deve per forza esserci un orologiaio che l’ha progettato e costruito. Anche questa prova, tuttavia, per Kant è internamente minata da una serie di forzature logiche e dal ricorso mascherato all’argomento ontologico. In primo luogo, essa parte dall’esperienza dell’ordine del mondo, ma pretende di elevarsi all’idea di una causa ordinante trascendente, dimenticando che l’ordine della natura potrebbe essere una conseguenza della natura stessa e delle sue leggi immanenti. Per asserire che tale ordine non può scaturire dalla natura, si è infatti obbligati a concepire Dio non soltanto come causa dell’ordine del mondo (cioè come supremo architetto, secondo quanto la prova autorizzerebbe), ma anche come causa dell’essere del mondo (cioè come creatore). Ma si può compiere questa operazione soltanto a patto di identificare la suprema causa ordinante con l’essere creatore necessario, ricadendo così nella prova cosmologica, la quale ricade a sua volta in quella ontologica. In secondo luogo, la prova fisico-teologica pretende di stabilire, sulla base dell’ordine cosmico, l’esistenza di una causa infinita e perfetta, ritenuta proporzionata a esso. Ma così facendo non ci si accorge che le proprietà attribuite al mondo (“saggiamente conformato”,
1. Quella che Kant chiama prova “fisico-teologica” viene anche denominata “fisico-teleologica”. Nel linguaggio filosofico, infatti, il termine “teologia” si riferisce allo studio di Dio, mentre la parola “teleologia” (dal greco télos, “fine”, “scopo”) indica la considerazione dei fini del mondo, per cui dire “teleologico” è come dire “finalistico”.
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“mirabile” ecc.) sono relative a noi, e quindi non autorizzano affatto a passare dal finito all’infinito, sostenendo l’esistenza di una causa infinita e perfetta da cui tali proprietà scaturirebbero. In altre parole, noi sappiamo che in questo universo c’è una qualche misura o gradazione di ordine, ma relativa ai nostri parametri mentali, e in ogni caso non certo infinita e priva di imperfezioni. Di conseguenza, non possiamo arrogarci il diritto di affermare che la causa del mondo è infinitamente perfetta, saggia, buona ecc. E se lo facciamo, è perché, saltando «l’abisso» che separa il finito dall’infinito, identifichiamo, “sottobanco”, l’ipotetica causa ordinante con l’idea della realtà perfettissima di cui parla l’argomento ontologico. Di conseguenza anche questa prova, secondo Kant, non fa che partire dall’esperienza per subito saltarne fuori, giocando con idee forzatamente manipolate, le quali possono essere illusoriamente scambiate per realtà soltanto grazie al ricorso “camuffato” agli argomenti cosmologico e ontologico.
VIDEO Le prove dell’esistenza di Dio
Le confutazioni kantiane delle prove dell’esistenza di Dio, pur essendo connesse alla Due osservazioni gnoseologia della prima Critica, in parte ne sono indipendenti, tant’è vero che Kant le conclusive aveva anticipate nell’Unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, risalente al 1763. Ciò contribuisce a spiegare la loro vasta fortuna e utilizzazione nell’ambito del pensiero moderno. Con tali confutazioni, Kant non ha inteso negare Dio (ateismo), ma piuttosto mettere in discussione la dimostrabilità razionale della sua esistenza. In sede teorica, infatti, Kant non è ateo ma agnostico, in quanto ritiene che la ragione umana non possa dimostrare né l’esistenza di Dio, né la sua non-esistenza.
CONCETTI A CONFRONTO
L’IDEA DI DIO in CARTESIO
in KANT
è un’idea innata
è un’idea trascendentale cioè
cioè
l’idea di una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente e onnipotente
l’idea della totalità di tutte le totalità (o del “fondamento”) con cui la ragione tende a unificare i dati del senso esterno e del senso interno
è il punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio
non consente di provare l’effettiva esistenza di Dio
L’uso regolativo delle idee e la nuova concezione della metafisica Le idee della ragion pura, anche se non possono avere un uso costitutivo (perché non ser- La funzione vono a conoscere alcun oggetto possibile), possono e devono avere, secondo Kant, una delle idee funzione regolativa, indirizzando la ricerca intellettuale verso quell’unità totale che esse rappresentano. Ogni idea, infatti, è una regola che spinge la ragione a dare al suo campo d’indagine, che è l’esperienza, non soltanto la massima estensione possibile, ma anche la massima unità sistematica: l’idea di “anima” spinge a cercare i legami tra tutti i fenomeni del senso interno e a rintracciare in essi una sempre maggiore unità, proprio come se fossero manifestazioni di un’unica sostanza spirituale;
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l’idea di “mondo” spinge a passare incessantemente da un fenomeno naturale all’altro, ovvero da un effetto alla sua causa, quindi alla causa di questa causa, e così via all’infinito, proprio come se la totalità dei fenomeni costituisse un unico sistema organizzato causalmente; l’idea di “Dio”, infine, addita all’intera esperienza umana un ideale di perfetta organizzazione sistematica, che essa non raggiungerà mai ma che perseguirà sempre, come se tutto dipendesse da un unico principio creatore. Le idee, cessando di valere dogmaticamente come realtà, varranno dunque problematicamente come condizioni o indicazioni che impegnano l’essere umano in una ricerca naturale incessante. Dalla metafisica Dall’opera di Kant emerge quindi un verdetto inappellabile contro la metafisica tradiziodogmatica nale: alla metafisica critica La metafisica, come disposizione naturale della ragione, è reale, ma per sé sola […] è anche dialettica e ingannatrice. Se, adunque, vogliamo da essa prendere i princìpi […] non possiamo mai trarne fuori una scienza, ma soltanto una vana arte dialettica, in cui una scuola può sorpassare l’altra, ma niuna può mai procacciarsi un legittimo e durevole consentimento. (Prolegomeni, “Finale”)
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ESERCIZI
Alla vecchia metafisica «dogmatica», o «iperfisica», Kant contrappone così una nuova metafisica «critica», o «scientifica», che viene intesa come «scienza dei concetti puri», ovvero come una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute indipendentemente dall’esperienza, sul fondamento delle strutture razionali della mente umana.
La prima Di questo nuovo tipo di metafisica fanno parte, secondo Kant, sia una metafisica della Critica come natura (che studia i princìpi a priori della conoscenza della natura), sia una metafisica dei propedeutica alla metafisica costumi (che studia i princìpi a priori dell’azione morale).
In sintesi, respinta nella sua forma classica, la metafisica è accettata da Kant nella forma di una scienza dei princìpi a priori del conoscere o dell’agire. Questo spiega il titolo di alcune opere di Kant (Prolegomeni a ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza, Fondazione della metafisica dei costumi, Princìpi metafisici della scienza della natura) e perché egli abbia concepito la stessa Critica della ragion pura come una “propedeutica” (o esercizio preliminare) al sistema della metafisica.
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Per l’esposizione orale
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1. Quali sono per Kant le tre idee trascendentali proprie della ragione e le tre pseudo-scienze che ne derivano? 2. Esponi la critica di Kant alla prova ontologica dell’esistenza di Dio. 3. Qual è, secondo Kant, l’unico uso legittimo delle idee della ragion pura? 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Condividi la tesi kantiana secondo cui la ricerca umana può trarre dalle idee della ragione un impulso a non fermarsi mai, e ad attribuire alle nuove conoscenze un ordine e una sistematicità sempre maggiori? Pensi che le idee di “anima”, “mondo” e “Dio” siano utili o necessarie a questo fine, oppure ritieni che la ricerca scientifica possa o debba prescindere da esse? Argomenta la tua risposta.
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 LA CRITICA DELLA RAGION PURA
Il quadro generale La concezione della conoscenza La Critica della ragion pura è un’analisi rigorosa della conoscenza umana, di cui Kant vuole individuare condizioni di possibilità, validità e limiti. Kant sottopone dunque a indagine i due gruppi di discipline che costituiscono l’universo del sapere del suo tempo, ossia la scienza (matematica e fisica) e la metafisica. Constatando che la matematica e la fisica hanno ormai raggiunto uno statuto scientifico, egli si propone di individuare il fondamento della loro scientificità, in modo da poter poi verificare se esso fondi anche la metafisica, ovvero se la metafisica possa costituirsi come scienza. Kant individua quindi il fondamento della scienza in alcuni princìpi immutabili, che chiama
• giudizi sintetici a priori
i princìpi assoluti (ossia le verità universali e necessarie) che stanno alla base della scienza (come l’assioma “tutto ciò che accade ha una causa”). Sono giudizi perché connettono un soggetto con un predicato; sono sintetici perché il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto (e quindi sono “fecondi” per il sapere); sono a priori perché non derivano dall’esperienza (e infatti sono universali e necessari).
In quanto fecondi, i giudizi sintetici a priori si differenziano dai
• giudizi analitici a priori
giudizi in cui il predicato non fa che esplicitare, con un processo di analisi basato sul principio di non-contraddizione, quanto è già implicitamente contenuto nel soggetto (come nel caso dell’affermazione “i corpi sono estesi”). Pur essendo universali e necessari (cioè a priori), questi giudizi sono infecondi, perché non ampliano la nostra conoscenza.
In quanto universali e necessari, i giudizi sintetici a priori si distinguono dai
• giudizi sintetici a posteriori
giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, aggiun-
gendosi o sintetizzandosi a quest’ultimo in virtù dell’esperienza, ovvero a posteriori (come nel caso dell’affermazione “i corpi sono pesanti”). Pur essendo fecondi, questi giudizi sono particolari e non valgono necessariamente.
La teorizzazione dei giudizi sintetici a priori costituisce la più importante acquisizione della gnoseologia di Kant, che intende la conoscenza (scientifica) come sintesi di due elementi:
• materia
il “contenuto“ della conoscenza, ovvero la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono dall’esperienza;
• forma
l’insieme delle modalità fisse attraverso le quali la mente ordina le impressioni sensibili.
I rapporti tra soggetto e oggetto Nella concezione della conoscenza Kant introduce pertanto un radicale cambiamento di prospettiva, che egli stesso paragona alla
• rivoluzione copernicana
l’introduzione dell’idea che non siano le strutture mentali a modellarsi sulla realtà esterna (sulla natura), ma che sia la realtà esterna a essere “ordinata” secondo le nostre strutture mentali. Come Copernico aveva ribaltato il rapporto fra la Terra e il Sole, così Kant ribalta i rapporti tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.
Questa nuova impostazione comporta la distinzione tra due elementi:
• il fenomeno
(dal verbo greco pháinomai, “appaio”) la realtà quale ci appare in quanto “filtrata” dalle forme a priori proprie della nostra struttura conoscitiva;
• il noumeno, o cosa in sé
(in tedesco Ding an sich) la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante le quali la conosciamo. Il termine «noumeno» (coniato da Kant) deriva dal greco noúmenon, che letteralmente significa “ciò che è pensato” (da noéin, “percepire con la mente”) e che nella riflessione kantiana indica una “realtà pensabile”, un “intelligibile puro”.
Benché sia sempre relativo al nostro modo di conoscere, il fenomeno non è per Kant qualcosa di ingannevole o illusorio: esso, infatti, ha una sua specifica oggettività, nel senso che appare allo stesso modo a tutti gli intelletti umani. Quanto al noumeno, esso è per Kant una «x sconosciuta», ovvero qualcosa di inconoscibile ma reale, in quanto necessario correlato di quell’“oggettoper-noi” che è il fenomeno.
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Le facoltà conoscitive Gli esseri umani, per Kant, conoscono mediante tre facoltà principali:
• la
Le sezioni fondamentali dell’opera
sensibilità (in tedesco Sinnlichkeit) la facoltà mediante la quale gli oggetti ci sono dati attraverso i sensi in modo immediato o intuitivo, ordinati attraverso le forme a priori dello spazio e del tempo;
L’Estetica trascendentale Nella sezione della Criti-
(in tedesco Verstand) la facoltà mediante la quale pensiamo attivamente (o «spontaneamente», come dice Kant) i dati offerti dalla sensibilità. Poiché pensare, per Kant, significa giudicare, ossia formulare giudizi in cui si istituiscono connessioni tra concetti (il soggetto e il predicato), «l’intelletto può essere concepito, in generale, come la facoltà di giudicare» (Critica della ragion pura, B 94), esercitata attraverso l’uso di dodici «categorie» (v.);
• intuizione
• l’intelletto
• la ragione
(in tedesco Vernunft) la facoltà con cui, spingendosi al di là dell’esperienza, gli esseri umani cercano di spiegare globalmente la realtà ricorrendo alle «idee trascendentali» (v.) di anima, mondo e Dio.
Presa insieme con l’intelletto, la ragione costituisce dunque la seconda «sorgente» della conoscenza, cioè la facoltà attiva o discorsiva che si aggiunge alla prima «sorgente» (passiva o ricettiva) della sensibilità. Questa è studiata da Kant nella
• estetica trascendentale
(dal greco áisthesis, “sensazione”) «la scienza di tutti i princìpi a priori della sensibilità», ovvero la sezione della Critica della ragion pura in cui si analizzano lo spazio e il tempo.
L’intelletto e la ragione sono invece studiati nella «logica trascendentale», che si divide in:
• analitica trascendentale
(dal greco análysis, che a sua volta deriva dal verbo analýo, “sciolgo”, “scompongo”) la prima parte della logica trascendentale, che studia l’intelletto e le sue forme a priori;
• dialettica trascendentale
(dal greco dialektikós, che a sua volta deriva dal verbo dialégo, “raccolgo”, ma anche “discorro”, “ragiono”) la seconda parte della logica trascendentale, in cui Kant studia la ragione e gli errori in cui essa incorre spingendosi al di là dell’esperienza.
Da queste espressioni si comprende che Kant fa un uso particolare del termine (molto usato nella logica medievale)
• trascendentali
le condizioni gnoseologiche che rendono possibile la conoscenza del mondo naturale. Kant identifica quindi i trascendentali con le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto, sebbene a rigore essi corrispondano piuttosto all’uso filosofico di tali forme: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti, nella misura in cui questo deve essere possibile a priori» (B 25).
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
ca della ragion pura intitolata Estetica trascendentale, Kant analizza dunque la sensibilità, che è caratterizzata dalla passività e ricettività dei sensi, e dalla facoltà della (in tedesco Anschauung) forma di conoscenza in cui l’oggetto viene colto dalla mente umana in modo immediato.
Pur essendo passiva nei confronti dei dati che riceve dai sensi, la sensibilità umana è nello stesso tempo attiva, in quanto organizza il materiale sensibile mediante le forme a priori dello spazio e del tempo, tant’è che Kant distingue tra:
• intuizioni empiriche e intuizioni pure
rispettivamente, i dati ricevuti mediante la sensazione, e le forme a priori dello spazio e del tempo (considerati “non mescolati” con l’esperienza) mediante le quali tali dati vengono organizzati.
Quanto alla definizione dello spazio e del tempo, per Kant il primo è la forma a priori (o intuizione pura) del senso esterno, mentre il secondo è la forma a priori (o intuizione pura) del senso interno. Nell’«esposizione metafisica» Kant chiarisce che spazio e tempo sono condizioni a priori del conoscere, in quanto non derivano dall’esperienza. Nell’«esposizione trascendentale» mostra invece come sullo spazio e sul tempo si fondino la geometria e l’aritmetica, e come tali scienze possano essere applicate con successo anche al mondo naturale, dal momento che la nostra esperienza di tale mondo è già strutturata attraverso lo spazio e il tempo.
L’Analitica trascendentale Nella sezione intitolata Analitica trascendentale Kant studia l’intelletto, il quale esplica la propria attività attraverso i
• concetti
(in tedesco Begriff) le funzioni tipiche dell’intelletto, ovvero le operazioni mediante le quali esso «ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune» (Critica della ragion pura, B 93). Il concetto svolge quindi una funzione unificatrice, o sintetica.
Kant distingue i concetti in «empirici», quando sono costruiti con materiali ricavati dall’esperienza (cioè dalle sensazioni), e in «puri», quando la loro origine risiede «esclusivamente nell’intelletto». In questo secondo caso si parla di
• categorie
quei concetti basilari che costituiscono le supreme funzioni unificatrici del nostro intelletto. Le categorie corrispondono insomma ai diversi modi in cui l’intelletto unifica a priori, nei giudizi, le molteplici intuizioni empiriche della sensibilità, producendo concetti empirici.
Kant identifica dodici categorie, che corrispondono ad altrettanti tipi di giudizio e che, a differenza delle categorie aristoteliche, non hanno valore ontologico, cioè non sono anche forme dell’essere, ma sono soltanto forme del pensiero, valide per il fenomeno ma non per il noumeno. Per giustificare la pretesa delle categorie di valere per oggetti che non sono prodotti dall’intelletto stesso, Kant elabora la cosiddetta «deduzione trascendentale», che si fonda sulla nozione di
• io penso
(in tedesco Ich denke) il centro mentale che unifica tutti i nostri pensieri, e le cui funzioni corrispondono alle categorie. Kant lo denomina anche «autocoscienza», o «appercezione» (dal francese s’apercevoir, “accorgersi di”).
Sintesi di tutte le sintesi, l’io penso «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni», costituendo così la suprema garanzia dell’oggettività (cioè dell’universalità e della necessità) dei giudizi. In sostanza, nella deduzione trascendentale Kant afferma che tutti i pensieri presuppongono l’io penso, che unifica i fenomeni tramite le categorie; pertanto i fenomeni stessi obbediscono necessariamente alle categorie. Un ulteriore problema affrontato nell’Analitica trascendentale è quello di come concretamente l’intelletto “condizioni” o “determini” la realtà fenomenica di cui facciamo esperienza. Nella dottrina dello «schematismo trascendentale» Kant afferma che l’intelletto opera grazie ad una facoltà che egli chiama
• immaginazione produttiva
l’attività spontanea mediante cui l’intelletto può «determinare a priori la sensibilità [...] in conformità alle categorie» (Critica della ragion pura, B 152). Si tratta cioè di una facoltà che “produce” a priori le condizioni dell’intuizione sensibile, ovvero che ha il potere di approntare, per ogni categoria, uno
• schema trascendentale
la rappresentazione intuitivo-temporale di una categoria. In altri termini, gli schemi trascendentali sono le regole mediante le quali l’intelletto ordina a priori il tempo secondo determinate forme che corrispondono alle varie categorie.
In sostanza, gli schemi trascendentali sono “termini medi” tra le intuizioni e i concetti, grazie ai quali il materiale sensibile può già essere ordinato dall’intelletto: non ancora secondo le categorie, ma secondo la loro “prefigurazione” nel tempo. Oltre che degli schemi trascendentali, nella sua attività unificatrice l’intelletto si serve di quelli che Kant chiama
• princìpi dell’intelletto puro
gli enunciati o le proposizioni fondamentali (Grundsätze) che fungono da «regole dell’uso oggettivo» delle categorie (Critica della ragion
pura, B 200), e che rappresentano le leggi supreme dell’esperienza e nello stesso tempo gli assiomi di fondo della scienza. Kant li distingue in «assiomi dell’intuizione», «anticipazioni della percezione», «analogie dell’esperienza» e «postulati del pensiero empirico in generale».
La teoria dei princìpi dell’intelletto puro coincide con quella dell’
• io legislatore della natura
formula che riassume il senso profondo della “rivoluzione copernicana” attuata da Kant: «l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad essa» (Prolegomeni, par. 36), imponendo alla realtà un ordine fenomenico necessario e universale grazie alle sue forme a priori.
Al di fuori del mondo fisico conosciuto secondo le modalità messe in luce nell’Analitica trascendentale rimane il noumeno (v.) che non può essere oggetto della nostra conoscenza (scientifica) e che pertanto va inteso come un concetto-limite, che argina le nostre pretese conoscitive.
La Dialettica trascendentale Abbiamo visto che la seconda parte della logica trascendentale è dedicata alla Dialettica trascendentale, in cui Kant studia la ragione e i ragionamenti fallaci della metafisica, i quali derivano dall’indebito spingersi delle nostre facoltà conoscitive nella sfera noumenica. Irresistibilmente attratta dall’assoluto, la ragione cerca di dare all’esistente una spiegazione globale, basandosi su tre
• idee trascendentali
i «concetti puri della ragione», corrispondenti a “perfezioni non reali”, ovvero perfezioni che «trascendono la possibilità dell’esperienza» (Critica della ragion pura, B 377).
Tali forme pure della ragione sono: l’idea di anima, che nasce dall’unificazione dei dati del senso interno e che deriva dall’applicazione (illegittima) della categoria di sostanza all’io penso: da questo «paralogismo» nasce la psicologia razionale, che è una pseudo-scienza; l’idea di mondo, che nasce dall’unificazione della totalità dei fenomeni esterni e che dà luogo alla cosmologia razionale, che trascende (illegittimamente) l’esperienza e va incontro a quattro «antinomie» irrisolvibili; infine l’idea di Dio, che nasce dall’unificazione dei dati esterni ed interni, e che rappresenta la totalità di tutte le totalità. Da essa deriva la teologia razionale, che elabora una serie di prove fallaci dell’esistenza di Dio. Queste tre idee della ragione falliscono nel loro utilizzo costitutivo; esse però possono avere un utile uso regolativo, in quanto indirizzano la ricerca umana verso la completezza.
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MAPPE
CAPITOLO 2 LA CRITICA DELLA RAGION PURA
Il quadro generale LA CONOSCENZA è sintesi di
materia
forma
che è
che è
la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili (elemento a posteriori)
l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina le impressioni (elemento a priori)
LE TRE FACOLTÀ CONOSCITIVE sono
la sensibilità (oggetto dell’Estetica trascendentale)
l’intelletto (oggetto dell’Analitica trascendentale)
la ragione (oggetto della Dialettica trascendentale)
Le sezioni fondamentali dell’opera L’ESTETICA TRASCENDENTALE ha per oggetto
la conoscenza sensibile che è
passiva in quanto riceve i dati dall’esperienza
attiva in quanto organizza il materiale sensibile mediante due forme a priori che sono
spazio
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
tempo
che unifica le intuizioni sensibili mediante le
L’intelletto
categorie
è studiato nella
ANALITICA TRASCENDENTALE che comprende
la deduzione trascendentale
lo schematismo trascendentale
i princìpi dell’intelletto puro
che giustifica
che giustifica
che sono
la validità delle categorie e del loro uso
il modo in cui le categorie possono essere applicate
le regole per l’applicazione delle categorie agli oggetti
poiché afferma che
poiché afferma che
e si distinguono in
tutti i pensieri presuppongono l’io penso, che unifica le rappresentazioni tramite i giudizi i giudizi si basano sulle categorie gli oggetti non possono essere pensati senza essere categorizzati
La ragione
l’intelletto agisce sugli oggetti tramite l’immaginazione produttiva, la quale determina la rete del tempo secondo schemi trascendentali gli schemi sono la prefigurazione intuitiva (temporale) delle categorie
che cerca di andare
assiomi dell’intuizione anticipazioni della percezione analogie dell’esperienza postulati del pensiero empirico
oltre l’esperienza
è studiata nella
DIALETTICA TRASCENDENTALE dove si considerano le idee di
anima (totalità assoluta dei fenomeni interni)
mondo (totalità assoluta dei fenomeni esterni)
Dio (totalità di tutte le totalità e fondamento di tutto ciò che esiste)
che nasce
che produce
che nasce
che produce
che nasce
che produce
dall’unificazione dei dati del senso interno
la psicologia razionale
dall’unificazione dei dati del senso esterno
la cosmologia razionale
dall’unificazione dei dati del senso interno e del senso esterno
la teologia razionale
ma risulta dalla
ma cade nelle
ma si scontra con
errata applicazione della categoria di sostanza all’io penso (paralogismo)
antinomie
l’impossibilità di dimostrare l’esistenza o la non-esistenza di Dio
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CAPITOLO 2 LA CRITICA DELLA RAGION PURA I princìpi fondamentali del criticismo
La Critica della ragion pura costituisce la risposta kantiana alle tendenze speculative del suo tempo. Contro il “dogmatismo” di quanti non si preoccupavano di “agganciare” il sapere all’esperienza, lasciandolo vagare in una autoreferenzialità sterile e in qualche modo dispotica, ma anche contro lo scetticismo di quanti erano approdati alla svalutazione di tutti gli strumenti conoscitivi dell’essere umano, Kant sceglie la via di un’indagine critica del sapere nella sua globalità, con l’obiettivo di rintracciarne un saldo fondamento. TESTO
1
Il «tribunale» della ragione
(Critica della ragion pura)
IL TESTO NELL’OPERA La Critica della ragion pura, edita nel 1781 e ripubblicata nel 1787 dopo un’ampia revisione, è suddivisa in due parti principali. La prima è la Dottrina trascendentale degli elementi, che comprende l’Estetica e la Logica, a sua volta suddivisa in Analitica e Dialettica. La seconda parte è la Dottrina trascendentale del metodo. L’Estetica indaga le strutture della sensibilità e le sue forme pure a priori, lo spazio e il tempo, mediante le quali vengono organizzati tutti i dati dell’esperienza. L’Analitica studia le forme pure a priori dell’intelletto, cioè le categorie, funzioni logiche che rendono possibile unificare la molteplicità delle intuizioni sensibili secondo quantità, qualità, relazione e modalità. La Dialettica esamina la ragione, intesa come “facoltà delle idee”; queste sono concetti puri, che hanno una semplice funzione regolativa, in quanto non possono essere applicati all’esperienza, ossia ai fenomeni. La Dottrina trascendentale del metodo analizza il tipo di sapere che è possibile costruire a partire dalle strutture della nostra conoscenza. Nella “Prefazione” alla prima edizione della Critica della ragion pura, da cui è tratto il passo proposto di seguito, Kant espone il senso e gli ambiti di applicazione della sua indagine critica. I problemi In una specie delle sue conoscenze la ragione umana ha il particolare destino di esser tordi natura mentata da problemi che non può scansare, perché le sono imposti dalla sua stessa natura, 2 metafisica
ma ai quali tuttavia non è in grado di dar soluzione, perché oltrepassano ogni suo potere. La ragione cade in questa difficoltà senza sua colpa. Essa prende le mosse da princìpi il cui uso risulta inevitabile nel corso dell’esperienza ed è da questa sufficientemente convalidato. Attraverso questi princìpi (come la sua stessa natura comporta) la ragione procede sempre più in alto, verso condizioni sempre più remote. Ma quando si accorge che per questa via il suo procedere è costretto a restar sempre incompiuto, perché i problemi non cessano di risorgere, si vede costretta a far ricorso a princìpi che oltrepassano ogni possibile uso d’esperienza e che tuttavia sembrano così al di sopra di ogni sospetto da riscuotere il consenso della comune
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ragione umana. Ma in tal modo essa cade in oscurità e contraddizioni, a causa delle quali può certamente rendersi conto che in qualche luogo debbono nascondersi errori di base; non le ri- 12 esce tuttavia di scoprirli, perché i princìpi di cui si serve, ponendosi al di là di ogni esperienza, negano all’esperienza ogni possibilità di valere come pietra di paragone. Orbene, il campo su 14 cui si combattono queste lotte senza conclusione si chiama metafisica. […] I diversi modi All’inizio, sotto i dogmatici, il suo potere era dispotico. Ma la legislazione, per le tracce della 16 di intendere la sua barbarie primitiva, andò sempre più degenerando, attraverso guerre intestine, in una conoscenza
totale anarchia, e gli scettici, una specie di nomadi, detestanti ogni stabile cultura della terra, sconvolgevano ogni tanto il buon ordinamento sociale. Essendo fortunatamente poco numerosi, non erano tuttavia in grado di impedire che gli altri tentassero sempre nuovamente di ricostruirlo, anche se i loro sforzi mancavano di un piano comune. In tempi più recenti parve in verità che, una buona volta per tutte, queste contese dovessero aver fine, attraverso una certa fisiologia dell’intelletto umano (ad opera del celebre Locke), e che la legittimità di quelle pretese dovesse trovare un giudizio definitivo; tuttavia, benché l’origine della presunta regina venisse rintracciata fra la plebaglia della comune esperienza e, di conseguenza, si avesse a buon diritto in sospetto la sua arroganza, essa poté continuare a mantenere le sue pretese per il fatto che questa genealogia le era stata falsamente attribuita; e in tal modo tutto ricadde nell’antico e tarlato dogmatismo, quindi nel discredito da cui si era voluta salvare la scienza. […] Gli stessi presunti indifferenti, anche se cercano di mimetizzarsi dando un tono popolare al linguaggio di scuola, tosto che pensano qualcosa, finiscono inevitabilmente per cadere in quelle affermazioni metafisiche verso cui ostentavano tanto spregio. […]
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Le pretese [Questa indifferenza] non è di certo l’effetto della leggerezza, ma della matura capacità di della ragione valutazione dell’epoca che non vuol più lasciarsi tenere a bada da un falso sapere, ed è un 34 e la loro legittimità richiamo alla ragione affinché assuma nuovamente il più arduo dei suoi compiti, cioè la
conoscenza di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste pretese, ma tolga di mezzo quelle prive di fondamento, non già arbitrariamente, ma in base alle sue leggi eterne ed immutabili; e questo tribunale altro non è se non la critica della ragion pura stessa. Con questa espressione non intendo alludere a una critica dei libri e dei sistemi, ma a una critica della facoltà della ragione in generale, rispetto a tutte le conoscenze a cui essa può aspirare indipendentemente da ogni esperienza; quindi alla decisione sulla possibilità o impossibilità di una metafisica in generale, alla determinazione tanto delle fonti quanto dell’estensione e dei limiti della medesima, il tutto però in base a princìpi.
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(Critica della ragion pura, “Prefazione” alla prima edizione, A VII-XII, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 2013)
I problemi di natura metafisica (rr. 1-15) La ragione umana, per Kant, è indotta dalla sua stessa natura a porsi problemi che costituiscono la fonte di ogni metafisica, perché mira a conoscere la totalità degli oggetti e le cause ultime delle cose. Questa tendenza non è “colpevole”: la ragione trova lo stimolo al proprio operare negli oggetti empirici, di cui avvia la conoscenza, producendo però una serie eterogenea e caotica di nozioni che sente di dover ordinare. In tale
operazione essa ricorre a spiegazioni sempre più originarie e qui sta la genesi della metafisica, che risulta essere una conoscenza sistematica che aspira progressivamente alla totalità, senza però che un così ambizioso progetto possa trovare mezzi atti a realizzarlo. Il risalire all’indietro nelle condizioni empiriche non ottiene mai compimento, cosicché la ragione tenta di chiudere il regresso forzatamente, facendo ricorso a princìpi estranei all’esperienza ( testo 6).
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Questi non vengono scelti a caso, o risulterebbe subito evidente il carattere artificiale della soluzione, ma sono princìpi attorno ai quali è facile raccogliere il consenso. Tuttavia l’intera costruzione finisce per fondarsi su asserzioni ingiustificabili e per produrre contraddizioni irresolubili, poiché la ragione, avendo oltrepassato l’esperienza, non ha più alcun termine di confronto e metodo di correzione. I diversi modi di intendere la conoscenza (rr. 1632) I «dogmatici» (r. 16) per Kant sono i razionalisti: Cartesio, Spinoza, Leibniz, Malebranche. Essi vengono così definiti perché ritengono che la conoscenza si ottenga grazie alla ragione, senza fare ricorso all’esperienza. Gli «scettici» (r. 18), invece, sono gli empiristi, ad esempio Locke e Hume, i quali, affidando l’intera conoscenza all’esperienza, la sottraggono a ogni possibile punto d’appoggio e criterio di verifica, e così facendo la destabilizzano. Nello specifico, nota Kant, Locke tentò di analizzare l’intelletto umano e rivolse la propria attenzione non tanto ai problemi filosofici, quanto all’organo da cui essi derivano e in ciò sembrò anticipare in qualche modo la stessa ricerca criticistica. Ma, da buon empirista, il filosofo inglese non poté che rinvenire nell’esperienza l’origine della metafisica e di tutte le problematiche filosofiche: muovendo da questo punto di vista, egli sottopose a dura critica molti dei tradizionali costrutti metafisici, come i concetti di sostanza e di identità, e tuttavia le critiche non sortirono l’effetto desiderato, tanto che la meta-
fisica continuò a sopravvivere. Gli «indifferenti» (r. 30), infine, sono i sostenitori di quell’atteggiamento antimetafisico che Kant riscontra in alcuni settori dell’Illuminismo francese e nella maggior parte degli scienziati. Questo indirizzo ritiene che sia opportuno chiudere con ogni metafisica o addirittura mettere da parte la filosofia, ma sbaglia, perché inferisce dall’insuccesso dei tentativi l’irresolubilità di principio delle questioni metafisiche, mentre è facile vedere come esse risorgano di continuo. Le pretese della ragione e la loro legittimità (rr. 3343) L’indifferentismo scientistico possiede almeno un merito: quello di spargere un sano scetticismo sulla filosofia per come è stata portata avanti finora. Esso infatti stigmatizza giustamente l’assenza di rigore della filosofia: resta da stabilire – ed è il compito dell’indagine che Kant sta per affrontare – se questa sia una caratteristica tipica di ogni filosofia, o se invece essa non possa e debba instradarsi sulla via della scienza. L’analisi della ragione non può essere condotta che dalla ragione stessa: è questo l’unico metodo per porre fine alla lotta tra le varie posizioni filosofiche. È necessario individuare le caratteristiche, ossia le possibilità, i limiti e il campo di lavoro della ragione: soltanto in questo modo sarà possibile stabilire quali problemi siano legittimi e risolubili per l’essere umano, e sapere se la metafisica assumerà lo statuto di conoscenza scientifica.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Kant la ragione non può «scansare» i problemi metafisici «perché le sono imposti dalla sua stessa natura» (r. 2). Spiega il senso di questa affermazione e rifletti sulla tendenza che spinge l’essere umano ad affrontare questioni metafisiche, chiarendo e argomentando la tua posizione al riguardo.
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La “rivoluzione copernicana” (Critica della ragion pura) L’individuazione dei giudizi sintetici a priori come fondamento della scienza costituisce l’avvio di quella che lo stesso Kant definisce come una rivoluzione, in ambito filosofico, del tutto simile a quella operata in ambito astronomico dalla teoria eliocentrica di Copernico. La questione riguarda la ricerca di quella incognita x che permette di unire, in un giudizio, un concetto A (soggetto) con un concetto B (predicato) che gli sia “estraneo” (il che implica che il giudizio sia sintetico), ma al tempo stesso “necessariamente collegato” (il che implica che il giudizio sia a priori). Con un’intuizione geniale, Kant comprende che, non potendo consistere nell’esperienza (poiché nessun giudizio empirico può essere a priori), cioè non potendo consistere in qualcosa di “esterno” alla mente che conosce, tale incognita dovrà essere ricercata nella mente stessa.
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Un capovolgi- Sin dai tempi più remoti a cui può giungere la storia della ragione umana, la matematica, mento nel ad opera del meraviglioso popolo greco, si è posta sulla via sicura della scienza. […] Innan- 2 modo di pensare zi a colui che dimostrò i primi teoremi sul triangolo isoscele (fosse Talete o chiunque altro) si
accese una gran luce, poiché comprese che non doveva seguire ciò che via via vedeva nella figura, né attenersi al semplice concetto della figura stessa, quasi dovesse apprenderne le proprietà; ma doveva produrre la figura (costruendola) secondo ciò che con i suoi concetti pensava e rappresentava in essa a priori; comprese cioè che per sapere qualcosa con sicurezza a priori, non doveva attribuire alla cosa se non ciò che risultava necessariamente da quanto, conformemente al suo concetto, egli stesso vi aveva posto. Per quanto riguarda la fisica, le cose andarono molto più a rilento nella scoperta della via maestra della scienza; non è infatti passato più di un secolo e mezzo, da quando le proposte del sagace Bacone di Verulamio in parte determinarono, in parte, essendo già sulla traccia, accelerarono quella scoperta che, non diversamente dalla precedente, può venir spiegata soltanto con un improvviso rivolgimento del modo di pensare. Prenderò qui in esame la fisica nei limiti in cui è fondata su princìpi empirici.
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Il ruolo del Allorché Galilei fece rotolare lungo un piano inclinato le sue sfere, il cui peso era stato da 16 ricercatore lui stesso prestabilito, e Torricelli1 fece sopportare all’aria un peso, da lui precedentemente
calcolato pari a quello d’una colonna d’acqua nota, e, più tardi ancora, Stahl2 trasformò dei metalli in calce, e questa, di nuovo, in metallo, con l’aggiunta o la sottrazione di qualcosa, una gran luce risplendette per tutti gli indagatori della natura. Si resero allora conto che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno, e compresero che essa deve procedere innanzi coi princìpi dei suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le dande3. In caso diverso le nostre osservazioni casuali, fatte senza un piano preciso, non trovano connessione in alcuna delle leggi necessarie di cui invece la ragione va alla ricerca ed ha impellente bisogno. È pertanto indispensabile che la ragione si presenti alla natura tenendo, in una mano, i princìpi in virtù dei quali soltanto è possibile che i fenomeni concordanti possano valere come leggi e, nell’altra mano, l’esperimento che essa ha escogitato in base a questi princìpi; e ciò al fine sì di essere instruita dalla natura, ma non in veste di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piace al maestro, bensì di giudice che nell’esercizio delle sue funzioni costringe i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge.
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(Critica della ragion pura, “Prefazione” alla seconda edizione, cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Un capovolgimento nel modo di pensare (rr. 1-15) La gnoseologia prekantiana (dalla sua formulazione aristotelica fino a tutto il pensiero moderno) aveva concepito il processo conoscitivo come il rispecchiamento dell’oggetto da parte del soggetto: ri-
specchiamento che andava condotto senza che il soggetto introducesse nulla di suo, in modo da non “deformare” l’oggetto stesso. Era pertanto quest’ultimo a costituire il nucleo di una conoscenza che si poteva definire “oggetto-centrica”. Nel tradurre la
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1. Evangelista Torricelli (1608-1647) dimostrò la possibilità del vuoto in natura e misurò per primo la pressione atmosferica con uno strumento simile al barometro. 2. Georg Ernst Stahl (1659/1660-1734) fu tra i primi sostenitori del metodo sperimentale in chimica. 3. Le dande sono le strisce di lana, di canapa o di tela, con le quali, soprattutto in passato, si reggevano i bambini ai loro primi passi.
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teoria gnoseologica di Aristotele secondo la propria concezione realistica, Tommaso d’Aquino aveva definito la conoscenza come «adaequatio rei et intellectus», volendo significare che l’intelletto, ovvero il soggetto, doveva adeguarsi alla cosa, ovvero all’oggetto (il fatto che fosse poi l’intelletto a giudicare se tale adeguamento fosse realmente avvenuto non modificava la prospettiva “oggetto-centrica” di fondo). In modo analogo si era comportata la filosofia in età moderna, a partire da Francesco Bacone, il quale aveva prescritto all’intelletto di togliere di mezzo tutti gli idòla, ossia quelle “interferenze” soggettive che potevano portare a una conoscenza deformata della realtà. Kant inverte drasticamente la rotta e interpreta la storia della scienza dal proprio punto di vista, cioè come la progressiva “scoperta”, nella natura, di leggi che in realtà le sono conferite dalla ragione umana. Lo scienziato come giudice che interroga la natura (rr. 16-32) L’immagine della natura che non guida
l’individuo come se fosse un bambino ai suoi primi passi, ma che risponde alle domande che le sono poste rende bene l’idea di questa inversione. La forma della realtà appartiene all’essere umano, è lui che gliela attribuisce: il nuovo modello gnoseologico “soggetto-centrico”, grazie al quale Kant potrà dare alla conoscenza un nuovo e più saldo fondamento, è ormai delineato. Il testo pare chiudersi con un esplicito richiamo a Galilei, che con la sua concezione della scienza come sapiente articolazione di «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni» aveva invitato alla costruzione di “esperimenti” («cimenti») che non fossero una passiva registrazione di “dati”, ma veri e propri espedienti per “interrogare” la natura orientandola a rispondere a domande precise, ovvero quelle univocamente definite dall’ipotesi teorica. La metafora del «giudice» (r. 30) che interroga i testimoni sembra quindi evocare non soltanto la nuova impostazione critica di Kant, ma anche la fondamentale lezione galileiana.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Nel 1782 nella rivista letteraria “Göttingische Gelehrte Anzeigen” compare un’anonima recensione della Critica della ragion pura di Kant, che accusa l’autore di avere riproposto, senza alcuna originalità, l’idealismo di Berkeley, poiché anche lui finisce per ridurre il mondo a mera parvenza. Alla luce del testo che hai letto, ritieni che questa affermazione abbia un fondamento? Rispondi in un testo scritto (max 20 righe), argomentando opportunamente il tuo punto di vista.
L’analitica trascendentale
Se nell’Estetica trascendentale Kant tratta della sensibilità, cioè delle intuizioni, nell’Analitica trascendentale studia l’intelletto, cioè i concetti. Sensibilità e intelletto sono le «due sorgenti fondamentali» della conoscenza e sono entrambi indispensabili: come dirà lo stesso Kant, «i pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche». TESTO
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I concetti puri dell’intelletto
(Critica della ragion pura)
Nel testo che segue, tratto dal primo capitolo dell’Analitica dei concetti, i concetti sono presentati come gli strumenti specifici mediante i quali l’intelletto “giudica”, cioè conferisce unità alla molteplicità delle intuizioni sensibili. La natura L’intelletto è stato definito, sopra, soltanto negativamente, come una facoltà conoscitiva dell’intelletto e non sensibile. Ora, non essendoci concesso di avere alcuna intuizione indipendente dalla 2 dei concetti
sensibilità, l’intelletto non può essere una facoltà dell’intuizione. Ma, all’infuori dell’intuizione, non esiste altro modo di conoscere se non per concetti. Quindi la conoscenza di 4
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ogni intelletto, almeno umano, è una conoscenza per concetti, non intuitiva, ma discorsiva. Tutte le intuizioni, in quanto sensibili, riposano su affezioni; i concetti, quindi, su funzioni. Per funzione intendo l’unità dell’operazione che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. Dunque i concetti si fondano sulla spontaneità del pensiero, allo stesso modo che le intuizioni sensibili si fondano sulla recettività delle impressioni. Ora, di questi concetti l’intelletto non può fare un uso diverso da quello consistente nel giudicare per mezzo di essi. Siccome nessuna rappresentazione, eccettuata l’intuizione, si riferisce all’oggetto in modo immediato, ne segue che un concetto non avrà mai un riferimento immediato a un oggetto, ma soltanto a un’altra rappresentazione di questo oggetto (si tratti d’una intuizione o già di un concetto). Il giudizio è pertanto la rappresentazione mediata di un oggetto, quindi la rappresentazione di una rappresentazione dell’oggetto. […] noi possiamo ricondurre a giudizi tutte le operazioni dell’intelletto, sicché l’intelletto può esser concepito in generale come la facoltà di giudicare. […]
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Dal molteplice Come si è ripetutamente detto, la logica generale astrae da ogni contenuto della conoscen- 18 sensibile za e attende che le rappresentazioni le siano date da qualche altra fonte, per poi trasforalla sintesi
marle in concetti, la qual cosa ha luogo analiticamente. La logica trascendentale, invece, trova innanzi a sé il molteplice della sensibilità a priori, offertole dall’estetica trascendentale, per dare una materia ai concetti puri dell’intelletto, senza la quale sarebbero privi di ogni contenuto e perciò assolutamente vuoti. Ora, spazio e tempo contengono un molteplice dell’intuizione pura a priori, ma tuttavia appartengono a quelle condizioni della recettività del nostro animo, per le quali soltanto esso può ricevere rappresentazioni di oggetti; quindi non possono non modificare in ogni caso i concetti di tali oggetti. Ma la spontaneità del nostro pensiero richiede che questo molteplice sia dapprima in certo modo penetrato, riunito e connesso, per trarne una conoscenza. Questa operazione prende il nome di sintesi. Per sintesi, nel suo significato più generale, intendo l’operazione consistente nel riunire diverse rappresentazioni e nel comprendere la loro molteplicità in una conoscenza. Una tal sintesi è pura se il molteplice è dato in modo non empirico, cioè a priori (come quello nello spazio e nel tempo). […]
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I giudizi e le Quella medesima funzione che conferisce unità alle diverse rappresentazioni in un giudizio, 34 categorie dà anche unità alla semplice sintesi delle diverse rappresentazioni in una intuizione; questa
unità è detta, con espressione generale, concetto puro dell’intelletto. […] Sorgono in tal mo- 36 do tanti concetti puri dell’intelletto, volti a priori agli oggetti dell’intuizione in generale, quante funzioni logiche in tutti i possibili giudizi risultavano dalla tavola precedente; infat- 38 ti le suddette funzioni esauriscono integralmente l’intelletto, misurandone pertanto l’intera capacità. Seguendo Aristotele, chiamiamo questi concetti categorie, poiché il nostro scopo, 40 nella sua origine prima, fa tutt’uno col suo, benché ne diverga assai nell’esecuzione.
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La natura dell’intelletto e dei concetti (rr. 1-17) Poiché esistono due sole forme di conoscenza, l’intuizione sensibile e l’elaborazione concettuale, e poiché l’intelletto è per definizione una «facoltà conoscitiva
non sensibile» (rr. 1-2), esso conosce necessariamente «per concetti» (r. 5). Inoltre, dal momento che l’intelletto è attivo (a differenza della sensibilità, che è passiva), i concetti non possono essere «affezioni»
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(Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, B 93-94, 102-103, 105, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 2013)
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(r. 6), ma devono essere «funzioni» (rr. 6-7), mediante le quali è possibile unificare rappresentazioni diverse sotto una rappresentazione comune. La modalità di questa operazione di “accorpamento” tra rappresentazioni è il giudizio: come già Aristotele, Kant ritiene infatti che la modalità tipica per formulare conoscenze sia quella predicativa. Dal molteplice sensibile alla sintesi (rr. 18-33) Per quanto ci giunga già necessariamente spazializzato e temporalizzato (per quanto, cioè, i dati sensibili pervengano alla nostra sensibilità già “ordinati” come colori, suoni…, secondo le nostre forme a priori spazio-temporali), il materiale sensibile dev’essere ulteriormente elaborato perché possa effettivamente rappresentare gli oggetti dell’esperienza (alberi, uomini ecc.). In altre parole: perché possa effettivamente prodursi una cono-
scenza, le diverse rappresentazioni devono essere riunite sotto rappresentazioni più generali; in ciò consiste la «sintesi» (r. 29) operata dall’intelletto mediante i giudizi. La sintesi si dice «pura» (r. 32) nel caso in cui utilizzi concetti che non derivano dall’esperienza, ma che appartengono a priori al nostro intelletto. I giudizi e le categorie (rr. 34-41) Gli oggetti si “costituiscono” o si “formano” nella mente grazie al fatto che essa già possiede, a priori rispetto a qualunque esperienza, una serie di rappresentazioni generali con cui ordinare i dati sensibili: sono i «concetti puri dell’intelletto» (r. 37), che Kant denomina anche «categorie» (r. 40), richiamandosi ad Aristotele, e che suddivide in quantità, qualità, relazione e modalità. Questi non sono altro che tutti i possibili modi in cui l’intelletto pensa, o giudica, o predica.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO A partire dal testo che hai letto, prova a concretizzare il processo conoscitivo così come l’ha descritto Kant, avvalendoti di un esempio specifico tratto dalla tua esperienza personale (max 20 righe). Rispetta i passaggi indicati dal filosofo, che dal molteplice sensibile giunge alla sintesi passando attraverso le intuizioni e le categorie.
TESTO
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La deduzione trascendentale dei concetti puri
(Critica della ragion pura)
Nel testo presentato di seguito, tratto dal secondo capitolo dell’Analitica dei concetti, Kant sottolinea come, diversamente da quanto avviene per lo spazio e per il tempo (ovvero per le forme a priori della sensibilità), nel caso dei concetti puri dell’intelletto sia necessario giustificare la validità del loro uso. La necessità di Noi ci serviamo di un gran numero di concetti empirici senza contraddizione e ci riteniaspiegare l’uso mo autorizzati a conferire loro un senso e un significato supposto, anche senza deduzio- 2 dei concetti a priori ne, perché abbiamo ad ogni momento a disposizione l’esperienza per attestare la loro
realtà oggettiva. Vi sono tuttavia anche concetti usurpati, come quelli di felicità, destino, che circolano, in verità, nella quasi generale indulgenza, ma che tuttavia sono a volte messi in questione con la domanda quid iuris [“qual è la norma di legge applicabile al caso specifico”]? […] fra i concetti di diversa specie che costituiscono il così vario tessuto della conoscenza umana, ce ne sono alcuni che sono determinati anche per l’uso puro a priori (del tutto indipendente da ogni esperienza), e questa loro legittimità abbisogna sempre di una deduzione; infatti, per la giustificazione di un tale uso, le prove ricavate dall’esperienza non sono sufficienti, essendo necessario sapere come questi concetti possano riferirsi a oggetti che non traggono la loro origine da alcuna esperienza. La spiegazione del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti costituisce ciò che io chiamo la deduzione trascendentale dei medesimi […]. Qui emerge dunque una difficoltà che non abbiamo incontrato nel campo della sensibilità: in qual modo, cioè, le condizioni soggettive del pensiero debbano avere una validità oggettiva, ossia ci diano le condizioni della possibilità di ogni conoscenza degli oggetti […].
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Il fondamento Il molteplice delle rappresentazioni può esser dato in un’intuizione, che è puramente senunitario della sibile, quindi null’altro che recettività; e la forma di questa intuizione può trovarsi a priori 20 facoltà del giudizio nella nostra facoltà rappresentativa, pur non essendo che la maniera in cui il soggetto vie-
ne affetto. Ma la congiunzione (conjunctio) di un molteplice in generale non può mai provenirci dai sensi, e neppure esser racchiusa nella forma pura dell’intuizione sensibile. Essa è infatti un atto della spontaneità della facoltà rappresentativa, la quale, per esser distinta dalla sensibilità, è detta intelletto […]. Ma oltre al concetto del molteplice e della sintesi del medesimo, il concetto della congiunzione richiede anche quello dell’unità del molteplice. Congiunzione è la rappresentazione dell’unità sintetica del molteplice. La rappresentazione di questa unità non può nascere dalla congiunzione; al contrario, l’unità, aggiungendosi alla rappresentazione del molteplice, comincia col rendere possibile il concetto di congiunzione. Questa unità, che precede tutti i concetti di congiunzione, non si identifica con la categoria di unità. In realtà tutte le categorie si fondano su funzioni logiche nel giudizio, ma in queste la congiunzione, e conseguentemente l’unità dei concetti dati, è già pensata. La categoria presuppone già la congiunzione. È dunque più in alto ancora che va cercata quest’unità (come qualitativa), e precisamente in ciò che contiene lo stesso fondamento dell’unità di diversi concetti nei giudizi, quindi della stessa possibilità dell’intelletto, perfino nel suo uso logico.
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(Critica della ragion pura, Analitica dei concetti, B 116-117, 122, 129, 131, cit.)
La necessità di spiegare l’uso dei concetti a priori (rr. 1-18) La deduzione trascendentale delle categorie consiste nel dimostrare come tali costrutti godano di una validità oggettiva, ovvero come possano, pur essendo del tutto a priori, applicarsi all’esperienza, cioè a oggetti da cui non derivano. Nel caso delle forme pure dello spazio e del tempo, il problema della legittimazione del loro uso non si pone. Questo è dovuto al loro carattere esclusivamente ricettivo, in virtù del quale la mente umana non aggiunge nulla e non modifica nulla dell’esperienza. Le categorie richiedono invece una legittimazione, dal momento che, pur potendo essere “applicate” al materiale empirico (ovvero all’ambito dell’esperienza possibile, esattamente come le forme pure dello spazio e del tempo), possono però esserlo secondo modalità “metaempiriche”, di cui è necessario stabilire la correttezza. Il problema è il seguente: con quale diritto le categorie, la cui origine è interna al soggetto che conosce, pretendono di avere validità universale e necessaria nei confronti degli oggetti esterni?
Il fondamento unitario della facoltà del giudizio (rr. 19-36) Ogni giudizio (cioè ogni operazione dell’intelletto) è, come sappiamo, una sintesi, o una «congiunzione» (r. 22). Perché tale congiunzione sia possibile, si richiedono tre elementi: il molteplice da unificare, che ha origine empirica; il principio sintetico, che è aprioristico; e l’idea dell’«unità sintetica del molteplice» (r. 28). Ma che cos’è questo ulteriore “ingrediente”? Per combinare il molteplice nella sintesi (per organizzare le intuizioni sensibili secondo i concetti), la mente umana deve già possedere l’idea o la rappresentazione dell’unità del molteplice. Tale rappresentazione non può dunque che essere a priori, e non può che precedere l’operazione sintetica stessa. Kant chiarisce inoltre che la rappresentazione dell’unità del molteplice non coincide con la categoria dell’unità, ma anzi ne è il presupposto, così come è il presupposto di tutte le categorie (non essendo, le categorie, null’altro che gli strumenti di applicazione della rappresentazione generale dell’unità del molteplice). La via per la dottrina dell’«io penso» ( testo 5) è ormai tracciata.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Spiega in un testo scritto (max 20 righe) le ragioni per le quali Kant si preoccupa di conferire una validità oggettiva alle condizioni soggettive del pensiero, specificando gli esiti a cui approderebbe la sua gnoseologia se le categorie non avessero validità universale e necessaria nei confronti degli oggetti esterni.
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L’io penso (Critica della ragion pura) Il passo che segue completa l’analisi iniziata nel testo precedente, evidenziando come la sintesi operata dall’intelletto mediante le categorie debba essere per così dire “presieduta” da una sintesi ulteriore. È l’«io penso» a consentire questa operazione, grazie alla quale le varie sintesi concettuali vengono riferite a una medesima coscienza individuale.
L’io penso come L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso diverso, si dareb«appercezione be in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe esser pensata; il che equivale a 2 pura» o «originaria» dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla.
[…] 4 Ma la rappresentazione io penso è un atto della spontaneità, ossia non può venir ritenuta propria della sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o 6 anche appercezione originaria, perché essa è quell’autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una e identica in 8 ogni coscienza – non può essere accompagnata da nessun’altra.
L’io penso come L’unità di questa rappresentazione la chiamo anche unità trascendentale dell’autoco- 10 «autocoscienza» scienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori, che in essa si basa. Infatti
le molteplici rappresentazioni, che sono date in una certa intuizione, non potrebbero tutte assieme essere mie rappresentazioni se tutte assieme non appartenessero a una sola autocoscienza. […] […] questa costante identità dell’appercezione di un molteplice dato nell’intuizione include una sintesi delle rappresentazioni ed è possibile soltanto mediante la coscienza di questa sintesi. Infatti, la coscienza empirica, che accompagna diverse rappresentazioni, è in sé dispersa e senza riferimento all’identità del soggetto. Questo riferimento, dunque, non ha ancora luogo fin che mi limito ad accompagnare con la coscienza ogni rappresentazione, ma si dà solo quando pongo ogni rappresentazione assieme alle altre e ho coscienza della loro sintesi. Solo dunque in quanto posso congiungere in una coscienza un molteplice di rappresentazioni date, mi diviene possibile rappresentarmi l’identità della coscienza in queste rappresentazioni; ossia, l’unità analitica dell’appercezione è possibile solo sul presupposto di un’unità sintetica. […]
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L’io penso come Ma la congiunzione non è propria degli oggetti, e non può perciò esser ricavata da essi ma«principio gari attraverso la percezione, e così fatta propria dall’intelletto. Questo, a sua volta, altro 28 supremo» della conoscenza non è che capacità di congiungere a priori e di ricondurre il molteplice delle rappresenta-
zioni date sotto l’unità dell’appercezione. E questo è il principio supremo di tutta la cono- 30 scenza umana. (Critica della ragion pura, Analitica dei concetti, B 132-135, cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’io penso come «appercezione pura» o «originaria» (rr. 1-9) Fin da queste prime righe emergono le due fondamentali funzioni che Kant attribuisce all’io
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
penso: in primo luogo, esso è il principio unitario e supremo della sintesi conoscitiva. Infatti le sintesi operate dalle categorie hanno bisogno di essere
ulteriormente coordinate in una unità superiore per poter costituire l’effettiva rappresentazione degli oggetti (serve più di una categoria per rappresentare un oggetto). In questo senso, l’io penso è una sorta di “super-categoria” che a sua volta ne sintetizza altre, fornendo finalmente la massima e assoluta unità oggettuale. In secondo luogo, l’io penso è il principio di ogni consapevolezza. Non è sufficiente che io produca la sintesi, devo anche esserne consapevole: così come vedo realmente qualcosa non quando il mio occhio lo scorge, ma quando la mia mente ha acquistato consapevolezza di ciò che il mio occhio scorge, analogamente l’io penso rende presente al soggetto la realizzata sintesi categoriale e, quindi, l’oggetto. In quanto principio che precede e rende possibile ogni sintesi e ogni consapevolezza, l’io penso non può derivare dalla sensibilità e, in generale, dall’esperienza: perciò è puro; e non può derivare da altre precedenti sintesi: perciò è originario. Si noti che Kant desume il termine «appercezione» (r. 6) da Leibniz, per il quale l’appercezione era la coscienza della percezione e insieme la tendenza a passare senza termine da una rappresentazione alla successiva. L’io penso come «autocoscienza» (rr. 10-25) In quanto rappresentazione della più elevata e completa unità, l’io penso dà a ogni coscienza la regola per sintetizzare le innumerevoli rappresentazioni e per coglierle come proprie: in questo senso è definito come «unità trascendentale dell’autocoscienza» (rr. 10-11). Esso però non va confuso con la coscienza, ovvero con il soggetto individuale: è, come si è detto, una struttura trascendentale, la condizione generale
di tutta la conoscenza possibile, un’entità impersonale il cui operato deve valere per tutti gli individui empirici. Non a caso Kant scrive non che esso accompagna, ma che «deve poter accompagnare» (r. 8) le mie rappresentazioni, intendendo dire con ciò che non sta descrivendo un fatto della coscienza, né un evento psicologico, bensì un’esigenza strutturale della conoscenza. Nelle righe 16-22 si ribadisce il carattere “originario” o “puro” dell’io penso: se, infatti, esso fosse soltanto condizione della sintesi del molteplice, e non anche dell’unità della coscienza, le varie sintesi rimarrebbero tra loro disperse, prive di qualunque garanzia di intersoggettività. L’io penso come «principio supremo» della conoscenza (rr. 27-31) Per poter produrre l’unità dell’oggetto nelle rappresentazioni, ci si deve prima rappresentare, come condizione, l’unità della coscienza in queste stesse rappresentazioni. L’io penso è in questo senso l’origine non soltanto dell’oggetto come nesso sistematico di determinazioni, ma anche del soggetto come stabile riferimento delle rappresentazioni. Pertanto: 1. è constatando l’identità del riferimento (il mio io) che posso concepire la stabilità degli oggetti delle mie rappresentazioni; 2. è constatando l’oggetto a cui mi riferisco che acquisisco la consapevolezza del mio io, poiché questo inizia a funzionare dietro uno stimolo esterno. Privo di contenuti, l’io si arresterebbe alla mera affermazione tautologica di sé stesso, senza essere consapevole di sé; “assistendo” al proprio operare nella conoscenza (ma soltanto all’interno delle condizioni poste da questa), esso può invece conoscere anche sé stesso.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI KANT
attività PLUS Kant sostiene che la conoscenza delle cose sia la condizione per la conoscenza di sé, in quanto l’io penso accompagna tutte le nostre rappresentazioni. A partire da questa riflessione, metti a confronto in un testo scritto (max 30 righe) l’io penso di Kant con il cogito di Cartesio, facendo emergere affinità e differenze.
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La dialettica trascendentale
Nella Dialettica trascendentale Kant cerca di chiarire se la metafisica sia possibile come scienza. Egli identifica nelle idee di “anima”, “mondo” e “Dio” (su cui si basano rispettivamente la psicologia, la cosmologia e la teologia razionali) i tre principali temi della metafisica tradizionale: quelli che, discussi da tutti i filosofi che lo hanno preceduto, meglio mostrano gli errori metodologici da loro commessi. TESTO
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Le idee di anima, di mondo e di Dio (Critica della ragion pura) Nell’Analitica trascendentale Kant giunge a concludere che non si può conoscere nulla al di fuori dell’ambito fenomenico. Ciò tuttavia non significa che la ragione debba accontentarsi di tale orizzonte finito: essa, infatti, tende a pensare che qualcosa sia possibile al di là dell’esperienza. La Dialettica trascendentale affronta dunque lo studio critico delle idee prodotte dalla ragione quando si avventura nel terreno della metafisica.
Dialettica logica La dialettica con cui abbiamo a che fare qui, non è una dialettica logica che astragga da e dialettica ogni contenuto della conoscenza e che scopra unicamente la falsa parvenza, nascosta nel- 2 trascendentale
la forma dei sillogismi, bensì è una dialettica trascendentale che deve contenere del tutto a priori l’origine di certe conoscenze che sorgono dalla ragion pura e di certi concetti de- 4 dotti, il cui oggetto non può affatto essere dato empiricamente, e che dunque si trovano completamente al di fuori della facoltà dell’intelletto puro. […] 6
La funzione Ora, tutti i concetti puri in generale hanno a che fare con l’unità sintetica delle rappresenunificatrice tazioni, mentre i concetti della ragion pura (idee trascendentali) hanno a che fare con l’u- 8 delle idee trascendentali nità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Ne segue che tutte le idee
trascendentali si possono ricondurre sotto tre classi, di cui la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del soggetto pensante, la seconda contiene l’unità assoluta della serie delle condizioni del fenomeno, la terza contiene l’unità assoluta della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale. Il soggetto pensante è l’oggetto della psicologia, l’insieme di tutti i fenomeni (il mondo) è l’oggetto della cosmologia, e la cosa che contiene la condizione suprema della possibilità di tutto ciò che può essere pensato (l’ente di tutti gli enti) è l’oggetto della teologia. Dunque la ragion pura fornisce l’idea per una dottrina trascendentale dell’anima (psychologia rationalis), per una dottrina trascendentale del mondo (cosmologia rationalis), e infine anche per una conoscenza trascendentale di Dio (theologia transscendentalis). Neppure il semplice abbozzo di una di queste scienze potrebbe provenire dall’intelletto, anche qualora esso fosse connesso col più elevato uso logico della ragione, e cioè con tutte le inferenze pensabili per poter procedere da un suo oggetto (cioè da un fenomeno) a tutti gli altri, fino ai membri più remoti della sintesi empirica. Un tale abbozzo, dunque, sarà unicamente un puro e autentico prodotto, ovvero un problema della ragion pura. […] Di queste idee trascendentali non è possibile propriamente alcuna deduzione oggettiva, come quella che abbiamo potuto fornire delle categorie: e di fatto quelle idee non hanno alcun riferimento a un qualsivoglia oggetto che gli possa essere dato in maniera corrispondente, e questo proprio per il motivo che esse sono solo idee. […]
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La metafisica Si può dire che l’oggetto di una semplice idea trascendentale sia qualcosa di cui non si ha come disposizione alcun concetto, sebbene quest’idea sia stata prodotta in maniera del tutto necessaria nella 30 naturale della ragione ragione, in base alle leggi originarie di quest’ultima. Poiché, di fatto, di un oggetto che
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 2 la Critica della ragion pura
dev’essere adeguato alle esigenze della ragione non è neanche possibile alcun concetto dell’intelletto, tale cioè che possa essere mostrato e possa esser reso intuibile in un’esperienza possibile. Ci si esprimerebbe comunque meglio e con minor rischio di essere fraintesi, se si dicesse che dell’oggetto che corrisponde a un’idea non possiamo avere alcuna conoscenza, anche se possiamo averne un concetto problematico. Ora, la realtà trascendentale (soggettiva) dei concetti puri della ragione si fonda per lo meno sul fatto che siamo condotti a tali idee tramite un sillogismo necessario. Vi saranno, dunque, dei sillogismi che non contengono alcuna premessa empirica e tramite i quali da qualcosa che conosciamo possiamo inferire qualcosa d’altro, di cui comunque non abbiamo alcun concetto, e a cui noi ugualmente, per mezzo di una parvenza inevitabile, attribuiamo realtà oggettiva. Inferenze siffatte devono essere quindi chiamate – rispetto al loro risultato – inferenze raziocinanti piuttosto che inferenze razionali o sillogismi. Esse possono portare tuttavia quest’ultimo nome poiché non sono sorte né fittiziamente né casualmente, ma sono scaturite dalla natura della ragione. Si tratta di sofisticazioni non degli uomini, bensì della ragion pura stessa, dalle quali neppure il più sapiente fra tutti gli uomini saprebbe liberarsi: forse, dopo un grande sforzo, potrà prevenire l’errore, ma mai liberarsi del tutto dalla parvenza che lo insegue senza sosta e si beffa di lui.
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(Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, I, trad. it. di C. Esposito, Bompiani/RCS, Milano 2004/2012, pp. 577, 579, 581, 585)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE unifica tutti i fenomeni, sia interni sia esterni. Su queste idee trascendentali si basano, rispettivamente, la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale. La metafisica come disposizione naturale della ragione (rr. 29-49) Come già accennato all’inizio del testo, Kant ribadisce che le idee trascendentali derivano da un’esigenza originaria della ragione, la quale per natura mira a dare una spiegazione globale dell’esperienza, a portare il condizionato e il relativo sul piano dell’incondizionato e dell’assoluto. Nel fare questo, la ragione pretende indebitamente di dare oggettività a ciò che ha valenza soltanto soggettiva e di procedere oltre i dati esperienziali. L’anima, il mondo e Dio sono quindi oggetti illusori, le cui idee, tuttavia, sono connaturate nell’uomo, anche in quello più sapiente.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Kant le inferenze che vogliano condurci al di là del campo dell’esperienza sono prive di fondamento, e tuttavia la ragione umana ha una tendenza naturale a oltrepassare questi confini. Ritieni che l’anima, il mondo e Dio siano mere parvenze? Se sì, pensi, come Kant, che si tratti di parvenze “irresistibili”? Se no, pensi che siano in qualche modo “oggetti” conoscibili? Motiva le risposte in un testo scritto (max 30 righe), adducendo anche esempi concreti.
TESTI KANT
Dialettica logica e dialettica trascendentale (rr. 16) Rispetto alla dialettica logica (ad esempio quella sofistica), che ha a che fare con forme argomentative imperfette perché prive di rigorosa necessità, la dialettica trascendentale di cui si occupa Kant deriva da un’illusione naturale e inevitabile della ragione, la quale confonde princìpi privi di riscontro nell’esperienza con realtà effettivamente esistenti. La funzione unificatrice delle idee trascendentali (rr. 7-28) Nell’Analitica trascendentale Kant ha spiegato che i concetti hanno una funzione unificatrice o sintetica, in quanto per loro tramite l’intelletto ordina rappresentazioni diverse sotto una rappresentazione comune. In questa sede il filosofo spiega che le idee trascendentali hanno una funzione analoga: l’idea di anima unifica la totalità dei dati interiori, l’idea di mondo unifica i dati del senso esterno, l’idea di Dio
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
SPAZIO E TEMPO FRA SCIENZA E FILOSOFIA
Segnata nel 1453 dal De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, la rivoluzione astronomica distrugge antiche certezze e inaugura una nuova immagine del cosmo. La fisica aristotelica viene gradualmente ma inesorabilmente abbandonata, e con essa l’idea di un cosmo finito e spazialmente ordinato, racchiuso all’interno di sfere celesti e dotato di un centro rispetto al quale individuare un “alto” e un “basso”. Nello spazio definito dalla nuova concezione
La fisica di Newton Il problema dell’assenza di un riferimento assoluto sembra presentarsi fin dalla formulazione, da parte di Isaac Newton, della prima legge del moto: il principio d’inerzia, secondo il quale un corpo permane nel suo stato di quiete o di movimento rettilineo uniforme se nessuna forza esterna interviene a modificare tale stato. Ma in relazione a quale punto di riferimento si può affermare che un corpo è in quiete o in movimento? Prendiamo il caso di un oggetto posto su una nave che si allontana dalla riva: è fermo o si muove? Inoltre: è la nave che si allontana dalla riva o è quest’ultima che si allontana dalla nave? Nella fisica newtoniana (che rimarrà immutata per molto tempo e che verrà detta “classica”), il moto di un corpo può essere determinato soltanto in relazione alla posizione di altri corpi. Questi, però, possono a loro volta essere in movimento e avere quindi bisogno di coordinate ulteriori, in un processo potenzialmente infinito. E, anche assumendo come punto di riferimento ultimo la posizione del Sole, il problema non viene risolto ma soltanto differito, in quanto si potrebbe scoprire (come del resto è accaduto) che anche il Sole si muove. Ecco perché Newton postula uno spazio assoluto, infinito e immobile, che “contiene” diversi spazi relativi, finiti e mobili. Tra questi ultimi vi è quello a cui
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cosmologica non vi sono né un alto o un basso assoluti, né una destra o una sinistra assolute, poiché le determinazioni spaziali sussistono soltanto in relazione alla prospettiva dell’osservatore e alla posizione reciproca dei corpi. Questa prospettiva “relativistica” della cosmologia moderna disorienta scienziati e filosofi, i quali sono costretti a cercare nuovi punti di riferimento, approdando così a nuove e interessanti concezioni dello spazio e del tempo.
facciamo normalmente riferimento noi, quando definiamo la posizione dei corpi rispetto alla Terra:
‘
Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile; lo spazio relativo è una misura o dimensione mobile dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente preso al posto dello spazio immobile […]. Se la Terra, per esempio, si muove, lo spazio che contiene la nostra aria e che, relativamente alla Terra, rimane sempre identico, ora sarà una data parte dello spazio assoluto […], ora un’altra parte di esso. (I. Newton, Princìpi matematici della filosofia naturale, a cura di F. Giudice, Einaudi, Torino 2018, pp. 106-107)
Soltanto postulando uno spazio assoluto è possibile, secondo Newton, salvare l’oggettività del movimento, evitando di ridurlo a qualcosa di apparente, cioè di relativo al soggetto che lo percepisce:
‘
Il moto assoluto è la traslazione di un corpo da un luogo assoluto in un luogo assoluto, il relativo da un luogo relativo in un luogo relativo. Così in una nave spinta dalle vele, il luogo relativo di un corpo è quella parte della nave in cui il corpo giace, ossia quella parte dell’intera cavità che il corpo riempie e che dunque si muove insieme alla nave […].
Ma la quiete vera è la permanenza del corpo nella medesima parte di quello spazio immobile nella quale la stessa nave si muove insieme alla propria cavità e all’intero suo contenuto. (I. Newton, Princìpi matematici della filosofia naturale, cit., p. 108)
Strettamente legato al discorso di Newton sullo spazio è quello sul tempo. Come nel caso dello spazio, infatti, anche per il tempo si ripropone la necessità di avere un punto di riferimento stabile e “ultimo”, che non sia a sua volta la misura di un movimento (ad esempio la misura della rotazione della Terra intorno al proprio asse). Per Newton questo punto di riferimento stabile è il tempo assoluto, che egli chiama anche «durata» e che distingue dal tempo relativo, il quale è invece la «misura della durata per mezzo del moto»:
‘
Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno [il movimento dei corpi], scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, l’anno. (I. Newton, Princìpi matematici della filosofia naturale, cit., pp. 105-106)
La critica di Leibniz a Newton I concetti newtoniani di spazio assoluto e di tempo assoluto vengono duramente contestati da Gottfried Leibniz, il quale negli ultimi anni della sua vita, in un vivace scambio epistolare con il newtoniano Samuel Clarke, polemizza aspramente con Newton e i suoi seguaci. L’idea che esistano uno spazio e un tempo assoluti – intesi, per così dire, come contenitori infiniti e sempre uguali a sé stessi, a prescindere dalla posizione e dal movimento dei corpi che contengono – appare a Leibniz una «fantasia» priva di fondamento. Così concepiti, infatti, lo spazio e il tempo sarebbero realtà esistenti per sé; avrebbero, cioè, natura sostanziale, mentre Leibniz è convinto che siano entità di tipo esclusivamente ideale, ovvero relazionale:
‘
Quei signori [Newton e Clarke] sostengono che lo spazio è un ente reale assoluto, ma ciò li espone a grandi difficoltà. Pare infatti che questo ente debba essere eterno e infinito. Ecco perché vi sono alcuni che hanno creduto che si trattasse di Dio stesso, oppure del suo attributo (l’immensità). […] Quanto a me, ho sottolineato più di una volta che considero lo spazio qualcosa di puramente relativo, come il tempo: un ordine delle coesistenze, come il tempo è un ordine delle successioni. (G. Leibniz, dal Carteggio Leibniz-Clarke, in Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e P. Pasini, utet, Torino 2000, vol. 3, p. 499)
Definendo lo spazio come «ordine delle coesistenze», cioè come «l’ordine di quelle cose che esistono nello stesso tempo», Leibniz intende dire che, quando osserviamo più cose in uno stesso momento, le cogliamo ordinate tra loro in un certo modo, e quest’ordine è appunto ciò che chiamiamo spazio. Lo stesso vale per il tempo, che egli chiama «ordine delle successioni» perché corrisponde ai successivi mutamenti dell’ordine spaziale delle cose da noi percepite. Il discorso può risultare più chiaro se consideriamo come si forma in noi, secondo Leibniz, il concetto di spazio. Se, tra più corpi coesistenti (A, B, C, D...) che si trovino fra loro in un determinato ordine, due di essi (ad esempio A e B) si muovono e mutano le loro posizioni reciproche, diciamo che si scambiano di «posto». Ora, se consideriamo “fissi” i «posti» determinati sia dalle reciproche relazioni dei corpi in un dato momento, sia dalle diverse relazioni che, a causa dei movimenti dei corpi, si vengono a determinare in momenti successivi, abbiamo un’idea di come l’essere umano si costruisca l’idea di
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«spazio», che non è altro se non «ciò che risulta dai posti presi insieme»:
‘
Ciò che comprende tutti questi posti viene chiamato spazio. Il che fa vedere come, per avere l’idea del posto e, di conseguenza, dello spazio, basti considerare i rapporti [tra i corpi] e le regole dei loro mutamenti, senza che vi sia bisogno di figurarsi alcuna realtà assoluta fuori delle cose di cui si considera la situazione. (G. Leibniz, dal Carteggio Leibniz-Clarke, in Scritti filosofici, cit., p. 535)
Secondo Leibniz, una volta che ci siamo formati l’idea dello spazio (e del tempo, per il quale vale un discorso analogo), ne dimentichiamo la natura soggettiva e relazionale, e attribuiamo a tale idea una realtà oggettiva, come se si trattasse di un vero e proprio contenitore “precedente” e distinto rispetto ai corpi e al loro movimento. In realtà, conclude Leibniz con una chiara allusione polemica a Newton, lo spazio e il tempo in sé, indipendentemente dai corpi e dalle loro reciproche relazioni, sono soltanto l’«idolo di alcuni Inglesi moderni».
La “terza via” di Kant La discussione tra Newton e Leibniz influenza profondamente Immanuel Kant, il quale propone una terza diversa soluzione del problema. Nel quadro generale di quella “rivoluzione copernicana” da lui attuata in ambito conoscitivo, egli contesta la tesi dell’esistenza di uno spazio e di un tempo oggettivi, cioè realmente esistenti indipendentemente dal soggetto. In questo senso si ricollega, da un lato, a Locke e agli empiristi e, dall’altro, a Leibniz e ai suoi seguaci. Dagli uni e dagli altri, però, Kant si differenzia in quanto non riconosce né il carattere empirico (cioè derivato dall’esperienza) né quello concettuale o ideale dello spazio e del tempo, che concepisce piuttosto come «intuizioni pure» della sensibilità, ovvero come le «forme» della ricettività dei nostri sensi. Per Kant, infatti, i corpi non sono altro che «fenomeni», cioè il modo in cui le cose appaiono a un soggetto; pertanto lo spazio e il tempo, in cui in corpi si situano, non sono condizioni dell’essere in sé delle cose, ma condizioni che rendono possibile la rappresentabilità delle cose per noi. Kant espone quest’idea nella terza sezione della Dissertazione del 1770 e successivamente nell’Estetica trascen-
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dentale, dove enuncia le tesi seguenti: 1. spazio e tempo non derivano dall’esperienza per astrazione (secondo la lezione dell’empirismo), poiché, al contrario, costituiscono il presupposto di ogni esperienza sensibile. Fare esperienza del mondo, infatti, significa non soltanto riferire le proprie sensazioni a qualcosa di “esterno” (gli oggetti), ma anche rappresentarsi tali oggetti come gli uni accanto agli altri (nello spazio) e tra loro in successione (nel tempo):
‘
affinché certe sensazioni siano riferite a qualcosa fuori di me (ossia a qualcosa che si trovi in un luogo dello spazio diverso dal mio), e affinché io possa rappresentarmele come esterne e l’una accanto all’altra – e quindi non soltanto come differenti ma come poste in luoghi diversi – deve già esserci a fondamento la rappresentazione di spazio. (I. Kant, Critica della ragion pura, B 38, 46, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 1962)
2. Poiché non derivano per astrazione dall’esperienza sensibile, lo spazio e il tempo sono «rappresentazioni a priori». Essi sono inoltre la «condizione di possibilità dei fenomeni», poiché possiamo benissimo rappresentarci uno spazio e un tempo privi di oggetti, ma non degli oggetti “fuori” dello spazio e del tempo: lo spazio è quella «rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizione esterne» e del disporsi delle cose «l’una accanto all’altra»; il tempo è quella rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi l’uno dopo l’altro. 3. Non ci si può rappresentare che un unico spazio e un unico tempo (ancorché divisibili in infinite “porzioni”). Quindi essi non sono «concetti», cioè insiemi di caratteri comuni che si astraggono dalla rappresentazione di più oggetti, ma lo sfondo unitario del coesistere e del succedersi degli oggetti stessi.
Quest’ultima osservazione è confermata anche dal fatto che il «concetto» è per Kant una rappresentazione che “raccoglie sotto di sé”, ma non “contiene in sé” la rappresentazione di infiniti individui particolari (poiché questi non sono sue parti, ma suoi casi particolari). Invece lo spazio e il tempo possono effettivamente essere divisi in un numero infinito di rappresentazioni di loro “parti”, il che vuol dire che non sono concetti ma intuizioni, e intuizioni «pure» o a priori, dal momento che, come abbiamo visto, non derivano dall’esperienza. Dunque per Kant l’esperienza sensibile non può costituire la base da cui ricavare lo spazio e il tempo, poiché essa è già, originariamente, spazializzata e temporalizzata. Lo spazio e il tempo sono pertanto entità in un certo senso assolute e originarie, come riteneva Newton, anche se lo sono in quanto forme a priori del soggetto conoscente, e non in quanto contenitori universali delle cose.
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
Nella fase matura del suo pensiero Kant si avvicina decisamente alle posizioni di Newton, allontanandosi definitivamente da quelle di Leibniz. Accogliendo l’influsso del neoplatonico Henry More e della tradizione cabalistica ebraica, Newton aveva interpretato lo spazio e il tempo assoluti come il «sensorio di Dio» (sensorium Dei). Secondo questa prospettiva Dio, poiché «è presente ovunque» e «dura sempre», è il fondamento dello spazio e del tempo, i quali costituiscono a loro volta le condizioni perché le cose cadano nella percezione divina, ovvero esistano. In modo analogo, per Kant lo spazio e il tempo sono il “sensorio” del soggetto umano, la condizione originaria perché le cose siano date ai sensi dell’uomo, ovvero si costituiscano come oggetti della sua esperienza. Pur essendo ideali o soggettivi rispetto alle cose in sé stesse (Kant parla in tal senso di «idealità trascendentale»), spazio e tempo sono dunque oggettivi in quanto reali come gli stessi
oggetti d’esperienza, che infatti contribuiscono a costituire come tali. • Sulla base delle informazioni acquisite in queste pagine e nelle unità del manuale, redigi un breve testo che contenga un paragone tra le concezioni di Newton, Leibniz e Kant relativamente allo spazio e al tempo. Spiega, in particolare, in che senso e in che modo, a tuo avviso, questi tre autori intendano rintracciare un nuovo punto di riferimento stabile e oggettivo dopo la “deriva relativistica” introdotta dalla cosmologia moderna. PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA in libreria • Paolo Casini, Filosofia e fisica da Newton a Kant, Loescher, Torino 1978 • Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, trad. it. di L. Cafiero, Feltrinelli, Milano 1970
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CAPITOLO 3 LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
1. Gli obiettivi della seconda Critica La distinzione La ragione serve a dirigere non soltanto la conoscenza, ma anche l’azione. Accanto alla ratra ragione gione teoretica si ha quindi una ragione pratica. pratica pura ed empirica Kant distingue tuttavia tra una ragion pratica pura, cioè che opera indipendentemente
dall’esperienza e dalla sensibilità, e una ragione pratica empirica, cioè che opera sulla base dell’esperienza e della sensibilità. E poiché la dimensione della moralità si identifica con la dimensione della ragione pratica pura, il filosofo dovrà distinguere in quali casi la ragione è pratica e anche pura (ovvero morale), e in quali casi invece essa è pratica senza essere pura (ovvero senza essere morale). A questo serve appunto la Critica della ragion pratica.
Il titolo Questa seconda Critica – si badi bene – «non sarà, però, una “critica della ragione pratica dell’opera pura”, come la prima Critica era una “critica della ragione teoretica pura”, perché, mentre
la ragione teoretica ha bisogno di essere criticata, cioè sottoposta ad esame, anche nella sua parte pura, in quanto tende a comportarsi in modo illegittimo (valicando i limiti dell’esperienza), la ragione pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo perfettamente legittimo, obbedendo ad una legge appunto universale. Invece nella sua parte non pura, cioè legata all’esperienza, la ragione pratica può darsi delle massime, cioè delle forme di azione, dipendenti appunto dall’esperienza, e perciò non legittime dal punto di vista morale. Perciò deve essere sottoposta a critica» (Enrico Berti). In altri termini, «mentre nella Critica della ragion pura Kant aveva criticato le pretese della ragione teoretica (che rappresentano un eccesso) di trascendere l’esperienza, nella Critica della ragion pratica egli critica le pretese opposte della ragion pratica (che rappresentano un difetto) di restar legata sempre e soltanto all’esperienza» (G. Reale e D. Antiseri). In conclusione, il capolavoro morale del filosofo di Königsberg si propone di stabilire «non soltanto che la ragione pura può essere pratica, ma che essa sola, e non la ragione sottostante a limiti empirici, è pratica in modo incondizionato» (Critica della ragion pratica, A 30, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 1970).
I limiti Il fatto che la ragione pratica pura non debba essere criticata, ma semplicemente illustrata della morale nelle sue strutture e funzioni, non significa tuttavia – e l’osservazione è importante – che esnella finitudine umana sa sia priva di limiti o di errori di valutazione. Vedremo infatti come per Kant la morale ri-
sulti profondamente segnata dalla finitudine umana, e necessiti di essere salvaguardata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l’attività di un essere infinito. Approfondendo l’interpretazione (abbagnaniana) di Kant come “filosofo del finito”, Pietro Chiodi scrive a questo proposito che «il mondo morale non ubbidisce allo stesso genere di
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
restrizioni del mondo della conoscenza. Nel campo morale la ragione umana non è condizionata dai fenomeni come nel mondo della conoscenza; ma è un errore credere che Kant restauri nel campo morale l’assolutezza della metafisica. La ragione morale è pur sempre la ragione d’un essere pensante finito, e quindi condizionato. Il condizionamento che la finitudine umana introduce nel campo morale è costituito dal fatto che la ragione vi incontra costantemente ed ineliminabilmente la resistenza della natura sensibile dell’uomo». Resistenza che (come vedremo) obbliga la legge morale ad assumere la forma del “dovere”.
2. I caratteri generali dell’etica kantiana Alla base della Critica della ragion pratica c’è l’idea che nell’essere umano si trovi scolpita una legge morale a priori, valida per tutti e per sempre. In altri termini, così come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea dell’esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica egli muove dall’analogo convincimento dell’esistenza di una legge etica assoluta. Legge che il filosofo non ha il compito di “dedurre”, e tanto meno di “inventare”, ma unicamente di “constatare” quale “fatto” della ragione pratica pura, «di cui abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente certi» (Critica della ragion pratica, A 81). Che esista una legge morale assoluta o «incondizionata» (unbedingt, come la chiama testualmente Kant) è dunque qualcosa su cui il filosofo non ha dubbi. Dal suo punto di vista, infatti, o la morale è una chimera, in quanto l’uomo agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali; oppure, se esiste, deve per forza essere incondizionata, cioè presupporre una ragion pratica “pura”, capace di svincolarsi dalle inclinazioni particolari e contingenti della sensibilità, e di guidare la condotta in modo stabile.
L’esistenza di una legge morale incondizionata
La tesi dell’assolutezza o incondizionatezza della legge morale implica due convinzioni di fondo strettamente legate tra loro: la libertà dell’agire umano e la validità universale e necessaria della legge. Per quanto riguarda il primo punto, Kant nota che, essendo incondizionata, la morale implica la possibilità per gli esseri umani di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto – o «postulato», come egli dirà in seguito – della vita etica: «La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse» (Critica della ragion pratica, A 52). Il secondo punto è una conseguenza del primo: essendo indipendente da ogni impulso contingente e da ogni condizione particolare, la legge morale risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a sé stessa in ogni tempo e in ogni luogo.
La libertà umana e l’universalità della legge morale
L’equazione “moralità = incondizionatezza = libertà = universalità e necessità” rap- La tensione presenta il fulcro dell’analisi etica di Kant e la chiave di volta per cogliere in modo logica- fra ragione e sensibilità mente concatenato le caratteristiche essenziali che il filosofo riferisce alla legge morale (e che analizzeremo nel dettaglio nelle prossime pagine): categoricità, formalità e autonomia. Però si badi bene: per Kant la morale è ab-soluta, cioè “sciolta” dai condizionamenti istintuali e contingenti non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto a essi. La morale si gioca infatti all’interno di un’insopprimibile tensione bipolare tra ragione e sensibilità. Se l’uomo fosse esclusivamente sensibilità (ossia animalità e impulso), è ovvio
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che il problema morale non esisterebbe, perché l’individuo agirebbe sempre per istinto. Ma se l’uomo fosse pura ragione, anche in quel caso la morale perderebbe il suo senso, in quanto l’individuo sarebbe sempre in quella che Kant chiama «santità», ovvero in una situazione di «conformità perfetta della volontà alla legge morale». L’illusione della È proprio la bidimensionalità dell’essere umano (che è una sintesi di sensibilità e ragione) «santità» come a far sì che l’agire morale si concretizzi in una lotta permanente tra la ragione e gli imbersaglio della seconda Critica pulsi egoistici. Tra legge morale e volontà, infatti, non c’è una spontanea coincidenza:
ecco perché la prima si presenta all’uomo nella forma dell’«imperativo», ovvero di un comando che richiede di sacrificare le proprie inclinazioni sensibili e che l’uomo, per la sua natura limitata e imperfetta, può anche trasgredire. Pertanto, se nella Critica della ragion pura circola come tema dominante la polemica contro l’arroganza della ragione, che pretende di oltrepassare i limiti della conoscenza umana, nella Critica della ragion pratica circola come tema dominante la polemica contro il fanatismo morale, che consiste nell’idea velleitaria di poter superare i limiti della condotta umana, sostituendo alla virtù, che è «l’intenzione morale in lotta» contro gli impulsi sensibili, la presunzione della «santità» ( p. 543), che è «una perfezione a cui non può giungere nessun essere razionale in nessun momento della propria esistenza» (Critica della ragion pratica, A 220).
Il carattere Consapevole della natura finita dell’uomo, Kant non mette in discussione la forza condiprescrittivo zionante che di fatto i desideri e gli impulsi esercitano sulla volontà umana, ma nega che dell’etica kantiana tale forza possa essere considerata (in quanto naturale) un movente morale. Infatti il senti-
mento e l’inclinazione al piacere, per il loro carattere mutevole e soggettivo, non possono essere posti alla base dell’etica, che deve invece avere un valore universale, cioè essere valida per tutti e per sempre. In questo senso l’etica di Kant non è un’etica descrittiva, ma prescrittiva o deontologica (dal greco déon, “dovere”): non concerne l’essere (come di fatto gli uomini si comportano), ma il dover-essere (come gli uomini dovrebbero comportarsi).
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Per l’esposizione orale
1. Quale differenza sussiste, per Kant, tra la ragione pratica pura e la ragione pratica empirica? 2. Chiarisci in che senso, secondo Kant, la legge morale costituisce un “fatto” della ragione pratica pura. 3. Utilizza i termini elencati di seguito per illustrare le caratteristiche che Kant attribuisce alla moralità: incondizionatezza, libertà, universalità, necessità, santità. 4. RIFLESSIONE CRITICA Condividi l’idea kantiana che la moralità si giochi su un’insopprimibile tensione tra gli impulsi naturali e sensibili, e un “senso del dovere” avvertito da tutti? Motiva la tua risposta.
3. L’articolazione dell’opera Analogamente alla Critica della ragion pura, anche la Critica della ragion pratica si divide in due parti fondamentali: la «dottrina degli elementi» e la «dottrina del metodo». La prima analizza gli elementi della morale e si divide in «analitica», che è l’esposizione della legge etica, e «dialettica», che affronta l’antinomia propria della ragione pratica ( p. 542). La seconda analizza il modo in cui le leggi morali possono «accedere» all’animo umano, ovvero il modo «di rendere anche soggettivamente pratica la ragione oggetti-
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
vamente pratica» (Critica della ragion pratica, A 269). In questa parte dell’opera si parla quindi dell’importanza dell’educazione, dei buoni esempi e della capacità di giudicare in modo retto. LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA analitica espone la legge morale
si articola in DOTTRINA DEGLI ELEMENTI
tratta degli elementi della morale
DOTTRINA DEL METODO
tratta del modo in cui la legge morale può accedere all’animo umano (educazione, esempi ecc.)
dialettica affronta l’antinomia propria della ragione pratica
4. I princìpi della ragion pura in ambito pratico A livello metodologico, Kant avverte che nell’Analitica della ragion pura pratica:
‘
l’ordine sarà l’opposto di quello che è stato seguito nella Critica della ragion pura speculativa. Infatti nel caso presente procederemo dai princìpi ai concetti, e soltanto da qui andremo verso i sensi, se è possibile; nella ragione speculativa, al contrario, dovremmo cominciare coi sensi e (Critica della ragion pratica, A 32) finire coi princìpi.
I princìpi della volontà
L’esposizione della dottrina morale kantiana comincia dunque con l’analisi dei princìpi pratici, ossia delle regole generali che disciplinano la nostra volontà (Wille), intesa come la facoltà di agire «secondo la rappresentazione delle leggi, ossia secondo princìpi». glossario p. 546 La distinzione I princìpi pratici sono distinti da Kant in «massime» e «imperativi»: una massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclu- tra massime e imperativi sivamente per l’individuo che la fa propria (può essere una massima ad esempio quella di vendicarsi di ogni offesa subìta, o anche quella di alzarsi presto al mattino per fare ginnastica); glossario p. 546 un imperativo è invece una prescrizione di valore oggettivo, cioè valida per chiunque. glossario p. 546
Gli imperativi si dividono a loro volta in «imperativi ipotetici» e «imperativo categorico». Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e hanno la Gli imperativi forma del “se vuoi… allora devi…” (ad esempio, “se vuoi conseguire buoni risultati sco- ipotetici lastici, allora devi impegnarti in modo costante”). glossario p. 546 Questi imperativi si distinguono poi in «regole dell’abilità», che coincidono con le norme o le indicazioni tecniche per raggiungere un certo scopo (come nel caso delle procedure da seguire per diventare un buon medico), e in «consigli della prudenza», che indicano i mezzi per ottenere il benessere o la felicità (si pensi ai vari “manuali” della salute o del vivere felici). L’ imperativo categorico , invece, ordina il dovere in modo incondizionato, ossia a pre- L’imperativo scindere da qualsiasi scopo, e non ha la forma del “se vuoi… allora devi…”, ma del “devi” categorico puro e semplice. glossario p. 546
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Rifacendoci all’esempio proposto sopra (“se vuoi conseguire buoni risultati, devi impegnarti”): nel caso in cui un insegnante ordini a uno studente di studiare, lo studente obbedisce se vuole ottenere buoni risultati. La forza di questo imperativo è dunque condizionata alla volontà del soggetto. Diverso è il caso della legge morale, la quale non può dipendere da impulsi soggettivi e da circostanze mutevoli: essa pertanto non può risiedere negli imperativi ipotetici, ma soltanto in un imperativo categorico, che si imponga assolutamente e incondizionatamente, cioè indipendentemente dalla persona alla quale si rivolge, dall’obiettivo che ci si prefigge, dalla circostanza in cui si agisce. Soltanto un tale imperativo, in quanto totalmente in-condizionato, ha le caratteristiche della legge , ovvero di un comando che vale in modo perentorio per tutte le persone e per tutte le circostanze. glossario p. 546 In conclusione, soltanto l’imperativo categorico, che ordina un “devi” assoluto, e quindi universale e necessario, ha in sé stesso i contrassegni della moralità.
La legge morale e le sue formule Il contenuto Una volta appurato che la legge etica assume la forma di un «imperativo categorico», quadell’imperativo le sarà il suo contenuto? categorico
Kant risponde che, in quanto incondizionato, esso consiste nell’elevare a legge l’esigenza stessa di una legge. E poiché dire “legge” significa dire “universalità”, l’imperativo categorico si concretizza nella prescrizione di agire secondo una massima che può valere per tutti. Da qui deriva la formula-base dell’imperativo categorico:
‘
agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo (Critica della ragion pratica, A 54) come principio di una legislazione universale.
Il test dell’uni- In altri termini, l’imperativo categorico è quel comando che prescrive di tener sempre preversalizzabilità senti gli altri e che ci ricorda che un comportamento risulta morale soltanto se, e nella mi-
sura in cui, supera il “test della generalizzabilità”, ovvero se la sua massima appare universalizzabile. Ad esempio, chi mente compie un atto chiaramente immorale, poiché, qualora la massima che prescrive di mentire venisse universalizzata, i rapporti umani diventerebbero impossibili. ( T1 p. 551)
Una seconda La formula dell’imperativo categorico citata sopra è l’unica presente nella Critica della ragion formula pratica. Ma nella Fondazione della metafisica dei costumi (pubblicata nel 1785 e altra importan-
te fonte della dottrina etica di Kant) troviamo anche una seconda e una terza formula. La seconda formula dell’imperativo categorico suona:
‘
agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo. (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67)
Traduzione: rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di ridurre il prossimo o te stesso a semplice «mezzo» del tuo egoismo e delle tue passioni. In questo contesto, la parola «fine» indica infatti quella caratteristica fondamentale della persona umana che consiste nell’essere scopo-a-sé-stessa, facendo sì che le venga riconosciuta la prerogativa di essere soggetto e non oggetto di azione. In questo senso Kant sostiene che la morale istituisce un regno dei fini , ossia una comunità ideale di persone libere e razionali che, in quanto tali, vivono sempre secondo le leggi della morale, riconoscendo ciascuna la «dignità» (cioè il valore assoluto) di sé stessa e di tutte le altre. glossario p. 547
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La terza formula dell’imperativo categorico prescrive di agire in modo tale che
‘
la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente sé stessa come (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76) universalmente legislatrice.
Questa formula ripete, in parte, la prima. A differenza di quella, che puntualizza soprattutto la legge, quest’ultima sottolinea però in modo particolare l’autonomia della volontà, evidenziando come il comando morale non debba essere un imperativo esterno, ma il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo legge a sé medesima, fa sì che noi, sottomettendoci a essa, non facciamo altro che obbedire a noi stessi. Tant’è vero che nel «regno dei fini» ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso. In altre parole, secondo la terza formula dell’imperativo categorico «la volontà – dice Kant – non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 70-71).
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Per l’esposizione orale
Una terza formula
VIDEO Le tre formule dell’imperativo categorico
1. Definisci le espressioni kantiane: massima, imperativo ipotetico, imperativo categorico, legge morale; quindi illustra il “dovere” prescritto dalla legge morale. 2. Spiega le tre formule dell’imperativo categorico. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Che cosa pensi dell’idea kantiana secondo cui la legge morale non può prescrivere qualcosa di particolare e determinato, ma soltanto suggerire di scegliere azioni che siano “universalizzabili”? Pensi che un tale criterio sia sufficiente per distinguere i comportamenti giusti o retti da quelli ingiusti o scorretti? Argomenta le tue risposte, possibilmente supportandole con esempi concreti.
Il dovere-per-il-dovere: il carattere formale della legge morale Un’altra caratteristica strutturale dell’etica kantiana, che emerge chiaramente da quanto si I motivi della è detto sull’imperativo categorico, è la formalità: la legge non ci dice che cosa dobbiamo formalità della legge morale fare, ma come dobbiamo farlo. Anche questo carattere deriva dall’incondizionatezza della norma etica e dalla libertà dell’agire umano. Infatti, se la legge morale non fosse formale bensì “materiale”, cioè se prescrivesse contenuti concreti, sarebbe “vincolata” a tali contenuti, perdendo inevitabilmente sia la sua universalità (poiché nessun contenuto o precetto particolare può avere una portata universale) sia il carattere libero dell’azione che ne deriva (la quale sarebbe infatti condizionata dalla situazione contingente)1. Per questo la legge morale non consiste in una casistica o in una manualistica di precetti concreti e specifici, ma soltanto in una legge formale-universale, ovvero in un imperativo che si limita a prescrivere: quando agisci, tieni presenti gli altri e rispetta la dignità umana che è in te e nel prossimo. 1. Il problema di individuare un giudizio pratico mediante il quale applicare nel particolare e nel concreto ciò che nella regola è detto in modo universale e astratto è analogo a quello che era sorto nella Critica della ragion pura a proposito della necessità di trovare un “termine medio” fra le categorie (o i concetti puri dell’intelletto) e le intuizioni sensibili, e che Kant aveva risolto con lo schematismo trascendentale. In sede etica egli scioglie la difficoltà nella sezione della Critica intitolata Tipica del giudizio puro pratico, dove, per mediare il “sovrasensibile” (la legge morale) con il “sensibile” (l’azione morale) fa riferimento al mondo naturale. La tipica del giudizio pratico indica infatti nelle leggi della natura, in quanto universali, il tipo (cioè l’immagine o il termine di paragone analogico) della legge morale. In altre parole, per Kant, per giudicare se un’azione sia morale o meno, si può ricorrere al seguente criterio: «domandati se l’azione che intendi compiere potrebbe essere considerata come possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse aver luogo secondo una legge della natura di cui tu facessi parte» (Critica della ragion pratica, A 122-123).
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Anche in campo etico si ripresenta dunque la contrapposizione tra materia e forma già evidenziata e analizzata da Kant in ambito gnoseologico: la prima è il contenuto delle massime, ossia l’azione che viene prescritta; la seconda è invece l’universalità della legge etica, che obbliga ad agire indipendentemente dai fini, dai desideri o dalle preferenze egoistiche di ognuno. glossario p. 547 Dall’astrattezza Ovviamente, sta poi a ogni singolo individuo il compito di “tradurre” in concreto, nell’amdella legge alla bito delle varie situazioni esistenziali, sociali e storiche, la parola della legge morale. L’imconcretezza dell’azione portante è non dimenticare che le norme etiche concrete in cui l’imperativo categorico si
incarna di volta in volta risultano rispetto a tale imperativo sempre “fondate” e mai “fondanti”, esistendo soltanto in funzione di esso, che è ciò che le suscita e le giustifica. Di conseguenza «il vero significato del formalismo etico kantiano «non sta (come pure è stato detto) nell’affermazione di una forma vuotata di ogni contenuto, ma nella scoperta della fonte perenne della moralità, che alimenta i costumi morali dei popoli nel loro divenire storico, restando essa stessa immune da ogni mutamento» (Guido De Ruggiero, Storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1990, vol. 10, p. 302). glossario p. 547
L’anti- Il carattere formale e incondizionato della legge morale fa tutt’uno con il suo carattere antiutilitarismo utilitaristico. Infatti, se la legge morale ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile,
QUESTIONE Il bene consiste nell’utile o nel dovere? (Hume, Kant) p. 603
si ridurrebbe a un insieme di imperativi ipotetici e comprometterebbe, in primo luogo, la libertà dell’azione, in quanto non sarebbe più la volontà a dare la legge a sé medesima, ma sarebbero gli oggetti a dare la legge alla volontà. In secondo luogo, essa metterebbe in forse la propria universalità, poiché l’area degli scopi e degli interessi coincide con il campo della soggettività e della particolarità. Il cuore della moralità kantiana risiede invece nello sforzo di attuare la legge della ragione soltanto per ossequio a essa, e non sotto la spinta di personali inclinazioni o in vista dei risultati che possono scaturirne. Occorre tuttavia precisare che nella prima formula dell’imperativo categorico, o meglio nel test di universalizzabilità che questa prescrive, alcuni studiosi hanno visto una potenziale contraddittorietà. In effetti, Kant sembra dire che, per sapere se un’azione sia morale, dobbiamo immaginare che cosa accadrebbe se tutti agissero in quel modo; ma questo non significa forse giudicare un’azione in base alle sue conseguenze, ovvero in base a criteri utilitaristici? In realtà, il test di Kant è di tipo logico-formale ed è volto non tanto a un’analisi delle conseguenze dell’azione, quanto a una verifica della razionalità (o non contraddittorietà) della massima, nel caso in cui questa sia universalizzata. Ad esempio, un uomo ricco può disinteressarsi del suo prossimo bisognoso? Se il test di universalizzabilità consistesse in un mero calcolo delle conseguenze, forse la risposta potrebbe essere positiva (anche se io non mi curo del mio prossimo, forse se ne curerà qualcun altro…). Tuttavia nessuno può volere che una tale azione diventi l’oggetto di una legge universale, perché chiunque, trovandosi nel bisogno, vorrebbe poter contare sull’aiuto altrui. È la razionalità della massima universalizzata che, in questo caso, risulta compromessa. ( T1 p. 551)
Il rigorismo Al formalismo dell’etica kantiana è inscindibilmente legato il suo rigorismo : Kant
esclude emozioni e sentimenti dal dominio dell’etica, non soltanto perché possono sviare la volontà da un retto comportamento, ma anche perché, quando collaborano con i precetti della morale, ne inquinano la severa purezza. In questo senso nemmeno la felicità, che pure è innegabilmente uno dei principali motivi dell’azione umana, può costituire il fine del dovere . La moralità consiste nel puro dovere-per-il-dovere: glossario p. 547
‘
Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che importi lusinga; ma esigi la sottomissione; che tuttavia non minacci nulla […] ma presenti semplicemente una legge (Critica della ragion pratica, A 154) che penetra da sé sola nell’animo e si procura venerazione.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
Il rispetto della legge morale In un’etica siffatta, che si pone necessariamente in polemica con ogni tipo di morale sen- Il sentimento «rispetto timentalistica, si riconosce il diritto di cittadinanza a un unico sentimento: il rispetto per del per la legge» la legge , che si configura come «rispetto di sé» e che sorge dalla capacità dell’essere umano di «umiliare» le proprie pulsioni egoistiche, sottomettendosi alla legge morale e in questo modo innalzandosi ad essa. Si noti che questo «sentimento morale» non è «un movente della moralità», ma è «prodotto esclusivamente dalla ragione» e, diversamente da qualsiasi altro sentimento «patologico», che va combattuto, «è di una specie così singolare che sembra esclusivamente a disposizione della ragion pura pratica», come se nascesse soltanto per disporre l’individuo all’obbedienza al puro dovere. glossario p. 547 Si comprende allora come per Kant, perché un’azione sia morale, non sia sufficiente che sia La distinzione legalità esteriormente «conforme al dovere», ma occorra anche che sia compiuta «per il dovere», tra e moralità cioè con la sola intenzione di obbedire alla legge morale. Ad esempio, un atto altruistico come devolvere denaro in beneficenza ha carattere morale soltanto se è compiuto per obbedire a un comando della ragione, ma cessa di essere tale sia se è compiuto per ottenere un vantaggio (ad esempio la stima dei concittadini), sia se è compiuto sulla base di un sentimento di benevolenza, per quanto tale sentimento sia positivo. Si fonda su questo la distinzione kantiana tra legalità e moralità . La prima concerne l’azione visibile (come nel caso in cui si assolve al dovere esteriore di pagare le tasse), mentre la seconda concerne l’intenzione invisibile (come nel caso in cui si pagano le tasse per puro dovere). glossario p. 547 È evidente che, in base a questa distinzione, non tutte le azioni legali, cioè esteriormente conformi alla legge, sono anche morali. La morale implica una partecipazione interiore, altrimenti rischia di scadere in una serie di atti di legalità ipocrita, oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento. Se la morale non concerne ciò che si fa (l’azione esteriore), ma l’intenzione con cui lo si fa ( etica La nozione «volontà dell’intenzione ), allora il bene consiste nel volere il bene, cioè in quella che Kant chia- di buona» ma volontà buona , espressione con cui indica l’intenzione della volontà di conformarsi alla legge morale. Questa è l’unica cosa incondizionatamente buona (tutti gli altri beni, ad esempio l’intelligenza o il coraggio, possono essere usati male) ed è un bene in sé stessa, non in vista del conseguimento di altri beni. glossario p. 547 Il dovere-per-il-dovere e la volontà buona, secondo Kant, innalzano l’essere umano al di sopra del mondo sensibile (fenomenico), in cui vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo rendono partecipe del mondo intelligibile (noumenico), in cui vige la libertà (si veda a questo proposito la soluzione kantiana della cosiddetta “aporìa della libertà” p. 544). In altri termini, la vita morale è la costituzione di una natura sovrasensibile, nella quale la legislazione morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale. Nel suo “inno al dovere”, Kant a un certo punto scrive infatti:
Il carattere noumenico e sovrasensibile della morale
‘
quale origine è degna di te? E dove si trova la radice della tua nobile stirpe, […] quella radice in cui ha origine la condizione indispensabile dell’unico valore che gli uomini possono darsi da sé stessi? Non può essere niente di meno di ciò che eleva l’uomo al di sopra di sé (come parte del mondo sensibile), di ciò che lo lega a un ordine di cose che il solo intelletto è in grado di pensare e che nello stesso tempo subordina a sé il mondo sensibile […]. Non è altro che la personalità, cioè la libertà e l’indipendenza nei confronti del meccanismo dell’intera natura, considerata tuttavia contemporaneamente come facoltà di un essere sottostante a leggi speciali, cioè a leggi pure pratiche, che la sua stessa ragione gli fornisce; pertanto la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta alla propria personalità perché appartiene nello stesso tempo al mondo intelligibile. (Critica della ragion pratica, A 154-155)
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La natura fenomenica e insieme noumenica dell’essere umano
Questa noumenicità del soggetto morale non implica tuttavia l’abbandono della sensibilità e l’eliminazione di ogni legame con il mondo sensibile. Infatti, proprio perché l’essere umano partecipa strutturalmente dei due mondi, egli non può affermare il secondo (quello intelligibile o noumenico) se non nel primo e in virtù del primo (quello sensibile o fenomenico). Anzi, la noumenicità dell’uomo esiste soltanto in relazione alla sua fenomenicità, in quanto il mondo sovrasensibile, per lui, esiste soltanto come forma del mondo sensibile.
La “rivoluzione copernicana”: il carattere autonomo della legge morale Le varie determinazioni della legge etica che abbiamo esaminato convergono in quella dell’ autonomia , che le implica e le riassume tutte. Il senso profondo dell’etica kantiana consiste infatti nell’aver posto il fondamento dell’etica nell’essere umano e nella sua ragione, al fine di salvaguardare la piena libertà e purezza della condotta morale. Questo è il significato della cosiddetta “rivoluzione copernicana” morale compiuta da Kant, il quale colloca l’uomo al centro dell’universo morale, così come in campo gnoseologico lo aveva posto al centro della natura, facendone il «legislatore». glossario p. 548 La critica Se la libertà, considerata in senso negativo, risiede in una volontà indipendente dalle indelle morali clinazioni sensibili, in senso positivo si identifica con la capacità della volontà di autodeeteronome
terminarsi, ossia in quella prerogativa auto-legislatrice della volontà grazie alla quale l’umanità è norma a sé stessa. Per questo Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome , cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento del dovere e il criterio della valutazione morale in forze esterne all’essere umano o alla sua ragione, facendo così scaturire la condotta etica, anziché dalla pura “forma” dell’imperativo categorico, da princìpi “materiali”. A tale proposito Kant elabora una tavola dei diversi motivi etici teorizzati dai filosofi, distinguendoli in “soggettivi” e “oggettivi”: glossario p. 548 SOGGETTIVI esterni dipendenti dall’educazione (Montaigne)
dipendenti dal governo civile (Mandeville)
OGGETTIVI interni
dipendenti dal sentimento fisico (Epicuro)
dipendenti dal sentimento morale (Hutcheson)
interni
esterni
volti alla ricerca della perfezione (Wolff e gli stoici)
riferiti alla volontà di Dio (Crusius e gli altri moralisti teologi)
Passando in rassegna le varie posizioni (cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, BA 8896 e Critica della ragion pratica, A 69-71), Kant considera i limiti di ciascuna di esse, individuandoli in generale nel fatto di non riuscire a preservare l’incondizionatezza della legge morale. L’inadeguatezza Analizzando i motivi “soggettivi”, Kant osserva infatti che i princìpi della condotta moradei motivi le non possono derivare dall’educazione, dai costumi o dalle leggi della società, dal piacesoggettivi
re fisico o dal sentimento della benevolenza, perché se così fosse l’azione non sarebbe più libera e universale, ma vincolata a fattori determinanti e mutevoli, ossia a forze necessitanti e soggette al cambiamento. Questo tipo di motivi potrebbe tutt’al più spiegare in linea di fatto i comportamenti esteriormente morali di certi uomini o gruppi di uomini, ma non giustificherebbe il carattere assolutamente obbligatorio della legge morale.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
Quanto ai motivi oggettivi, se la morale consistesse nella ricerca di un generico ideale di L’inadeguatezza perfezione, oppure in un adeguamento alla volontà di Dio, allora si cadrebbe in inconve- dei motivi oggettivi nienti molto simili a quelli implicati dai motivi soggettivi. Più precisamente, il concetto di “perfezione” è un’idea vuota, a meno che non lo si identifichi con quello di perfezione morale. Ma dire che la moralità consiste nel realizzare la perfezione sarebbe una palese tautologia, poiché equivarrebbe a dire che la moralità risiede nella moralità. Analogamente, l’idea di “volontà divina” risulta di per sé indeterminata; pertanto: o la si determina “sottobanco” in virtù del concetto di perfezione etica, dicendo che Dio è la perfezione morale stessa, a cui l’essere umano deve guardare come al proprio modello di comportamento – ma allora si cade in un circolo vizioso fondato sull’asserzione che la morale consiste nel seguire la morale (personificata in Dio); oppure la si determina in modo volontaristico, dicendo che bisogna sottomettersi alla volontà superiore di Dio – ma allora la morale cessa di essere libera e disinteressata, poiché l’obbedienza alle sue leggi deriva da una costrizione o da un calcolo dettato dal timore di punizioni (la dannazione eterna) o dalla speranza di premi (la salvezza eterna). A ciò si aggiunga che le differenti religioni o filosofie possono interpretare in modo diverso la volontà divina, distruggendo così l’universalità del valore morale. Pertanto anche la morale teologica, come ogni forma di etica eteronoma, va contro quegli attributi di libertà e di universalità che secondo Kant devono costituire strutturalmente il mondo morale. Come si può notare, il modello etico di Kant si distingue nettamente dai precedenti sistemi morali del razionalismo e dell’empirismo. Infatti il razionalismo, pur basando la morale sulla ragione, l’aveva fatta dipendere dalla metafisica, fondandola ad esempio sull’ordine del mondo, su Dio ecc.; e l’empirismo, pur sganciando la morale dalla metafisica, l’aveva connessa al sentimento (si pensi alla «simpatia» di cui aveva parlato Hume). Contro il razionalismo, sotto l’influenza dei moralisti inglesi e di Rousseau, Kant afferma che la morale si basa unicamente sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito, e non dipende da alcuna concezione metafisica. Contro l’empirismo e le varie morali sentimentalistiche, Kant sostiene che la morale si fonda unicamente sulla ragione, in quanto il sentimento, anche inteso nel senso migliore e più alto del termine (ad esempio come «benevolenza del prossimo»), è qualcosa di troppo fragile e soggettivo per fungere da piedestallo per un robusto edificio etico. Di conseguenza, anche in sede etica il kantismo non nasce da una “sintesi” tra il razionalismo e l’empirismo, ma dal critico misurarsi con le varie espressioni della filosofia moderna, approdando a una forma di pensiero del tutto originale e irriducibile a quelle precedenti.
CONCETTI A CONFRONTO
LA MORALE in HUME
Un’alternativa al razionalismo e all’empirismo morali
in KANT
si fonda • sul sentimento di simpatia • sulla percezione dell’utilità o dannosità sociale dei comportamenti quindi
il bene coincide con l’utile, inteso come ciò che promuove la felicità di tutti gli uomini
si fonda • sulla ragione • sulla presenza nell’essere umano di un imperativo morale categorico e incondizionato quindi il bene coincide con l’intenzione della volontà di conformarsi alla legge morale
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Il paradosso Il tema dell’autonomia morale, escludendo qualsiasi causa determinante che sia esterna della ragion alla condotta etica, scioglie anche quell’apparente «paradosso della ragion pratica» sepratica
condo cui non sono i concetti di bene e di male a fondare la legge morale, ma è la legge morale a fondare e a dare un senso alle nozioni di bene e di male. La rivoluzione copernicana di Kant, che fa dell’essere umano l’unico legislatore del proprio comportamento, trova così anche in ambito etico il suo ultimo e più significativo compimento.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega in che senso la morale kantiana è “formale”. 2. Illustra la distinzione kantiana tra legalità e moralità. 3. Spiega la relazione esistente tra l’autonomia della morale, la rivoluzione copernicana morale e la critica kantiana alle morali eteronome. 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera la nozione kantiana del dovere-per-il-dovere: ritieni possibile che un essere umano adegui (o cerchi di adeguare) il proprio comportamento a un tale ideale universale? O pensi che siano i fattori contingenti a determinare le nostre scelte e le nostre azioni? Motiva le tue risposte.
5. I postulati della ragion pratica La distinzione Se nell’Analitica, che è la parte della Critica della ragion pratica che abbiamo esposto fin qui, tra il «sommo Kant ha analizzato il dovere, nella Dialettica della ragion pura pratica prende in consibene» e il «bene supremo» derazione l’assoluto morale, ossia quello che egli chiama sommo bene (das höchste Gut).
Il «sommo bene» è quel «bene intero e perfetto» che si identifica con l’unione di virtù e felicità. Tuttavia sappiamo che per Kant la felicità non può mai erigersi a motivo del dovere, perché metterebbe in forse l’incondizionatezza della legge etica, e quindi la sua categoricità, formalità e autonomia. Per questo il filosofo distingue dal «sommo bene» il bene supremo , che coincide con la sola virtù, cioè con il tendere alla «santità», e che quindi non è ancora quel «sommo bene» a cui la nostra natura anela irresistibilmente. glossario p. 548 In sostanza, il «bene supremo» a cui la volontà umana deve tendere è la virtù, che a sua volta insegue (faticosamente) la «santità», cioè la perfetta adesione della volontà alla legge morale. Gli esseri umani, tuttavia, hanno connaturato in sé stessi il bisogno di pensare che, pur agendo per puro dovere, ci si renda anche degni di felicità, ovvero ci si renda degni di raggiungere il «sommo bene». Ma il motivo dell’azione non è la felicità implicata dal «sommo bene», e dunque il carattere disinteressato e autonomo della legge morale non è contraddetto. Analizziamo meglio questo aspetto.
L’antinomia In questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, poiché lo sforzo di essere virdella ragion tuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e perlopiù opposte, in quanto l’impratica
perativo etico implica la sottomissione e l’umiliazione delle tendenze naturali ed egoistiche. Il binomio “virtù e felicità” costituisce pertanto l’ antinomia etica per eccellenza, che forma l’oggetto specifico della Dialettica della ragion pura pratica. glossario p. 548 Kant rileva come i filosofi greci abbiano vanamente tentato di sciogliere tale antinomia rimanendo all’interno di una prospettiva terrena, e risolvendo o la felicità nella virtù (come gli stoici) o la virtù nella felicità (come gli epicurei). Invece Kant, collocandosi in una tradizione di pensiero che va da Platone al cristianesimo, afferma che l’unico modo per uscire da tale antinomia – che rischia di rendere impossibile il «sommo bene» e di ridurre la morale che lo prescrive a un’impresa senza senso – consiste nel “postulare” un mondo dell’aldilà in cui possa realizzarsi ciò che nell’aldiquà risulta impossibile, cioè l’equazione “virtù = felicità”.
542
UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
I tre postulati Kant trae il termine “postulato” dal linguaggio della matematica classica, in cui si dicono “assiomi” le verità fornite di auto-evidenza, mentre si chiamano “postulati” quei princìpi indimostrabili che vengono assunti come veri per rendere pensabili o possibili determinate entità o verità geometriche. Analogamente, i postulati della ragion pura pratica sono quelle proposizioni non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizioni della sua stessa esistenza e pensabilità, ovvero quelle esigenze interne della morale che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che di per sé non possono essere dimostrate. I postulati, dunque, «non sono dogmi teoretici, ma presupposizioni necessarie dal punto di vista pratico» (Critica della ragion pratica, A 238). glossario p. 548 Il primo postulato etico formulato da Kant è quello dell’immortalità dell’anima, a propo- L’immortalità dell’anima sito del quale il filosofo afferma: 1. poiché soltanto la santità, cioè la completa conformità della volontà alla legge morale, rende degni del sommo bene, 2. e poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, 3. allora si deve ammettere che l’essere umano, oltre il tempo finito dell’esistenza, possa disporre, in un’altra zona del reale, di un tempo infinito nel quale poter progredire all’infinito verso la santità. Se la realizzabilità della prima condizione del sommo bene, ossia della santità, implica il L’esistenza di Dio postulato dell’immortalità dell’anima, la realizzabilità del secondo elemento del sommo bene, cioè della felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell’esistenza di Dio, ossia la credenza in una «volontà santa e onnipotente» che faccia corrispondere la felicità al merito. ( T2 p. 554) Accanto ai due postulati “religiosi” dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio, La libertà: Kant pone il postulato della libertà. Quest’ultima è infatti la condizione stessa del- devi, dunque puoi l’etica, la quale, nel momento in cui prescrive il dovere, presuppone anche che si possa agire o meno in conformità a esso, e che quindi si sia sostanzialmente liberi. Se nell’ordine ontologico la libertà è condizione della moralità, nell’ordine gnoseologico il rapporto si inverte ed è la legge morale a costituire il presupposto della libertà:
‘
la libertà è senza dubbio la ratio essendi della legge morale, ma […] la legge morale è la ratio (Critica della ragion pratica, “Prefazione”) cognoscendi della libertà.
Kant intende in questo modo sottolineare che non sapremmo di essere liberi, se non ci scoprissimo obbligati a seguire la legge morale. «Devi, dunque puoi», egli afferma: se c’è la legge morale che prescrive il dovere, deve per forza esserci la libertà che consente di compierlo. Come si è già detto, sebbene in natura viga il più rigoroso determinismo, l’essere umano conosce in maniera evidente e certa le prescrizioni della legge morale, e soltanto grazie a questa certezza del dovere “scopre” di essere libero di sottrarsi al meccanismo delle inclinazioni sensibili. ( T3 p. 555)
La soluzione della terza antinomia della cosmologia razionale Il postulato kantiano della libertà si colloca su un piano oggettivamente diverso rispetto a quello degli altri due, in quanto, pur non sapendo che cosa sia la libertà, possiamo almeno dire che essa esiste. Invece questo non avviene né per l’immortalità dell’anima, né per l’esistenza di Dio, delle quali, a rigore, non possiamo sostenere con sicurezza né che cosa siano, né che siano, trattandosi unicamente di “bisogni” pratici dell’essere morale finito.
543
In altri termini, mentre la libertà è la condizione stessa dell’etica – ed è quindi una certezza che scaturisce dallo stesso fatto morale –, l’anima immortale e Dio sono mere condizioni ipotetiche (sia pure razionalmente fondate) affinché la morale trovi in un altro mondo quella realizzazione che in questo mondo le è negata. Pertanto, “postulati” in senso forte e caratteristicamente kantiano sono da considerarsi soprattutto quelli religiosi. Ma allora perché Kant classifica come “postulato” anche la libertà? L’aporìa della Ciò avviene perché, stando alle conclusioni gnoseologiche della Critica della ragion pura, libertà e la sua l’idea dell’uomo come soggetto capace di autodeterminarsi non potrebbe essere scientifisoluzione
camente affermata. Il mondo dell’esperienza si regge infatti sul principio di causalità, cioè su una legge “necessaria” nel senso che regola eventi che “non possono essere altrimenti”. Ma è evidente che l’essere umano compie azioni che avrebbe anche potuto non compiere:
‘
Se, a proposito di un uomo che ha commesso un furto, affermo che questa azione, stando alla legge naturale della causalità, è il risultato necessario dei motivi determinanti del tempo precedente, ciò equivale a dire che è impossibile che essa potesse non accadere; come allora il giudizio fondato sulla legge morale potrà qui mutare le cose e supporre che l’azione poteva essere omessa perché la legge dice che così doveva essere? Cioè: come quest’uomo potrà chiamarsi libero nello stesso tempo e rispetto alla stessa azione in cui sottostà ad una necessità (Critica della ragion pratica, A 171) naturale inevitabile?
La soluzione della cosiddetta “aporìa della libertà” consiste nel fatto che una stessa azione può essere determinata in quanto accadimento del mondo sensibile e libera in quanto atto morale. E questa “duplicità” di ordinamento (corrispondente alla terza antinomia della cosmologia razionale) è sostenibile soltanto postulando, a livello noumenico, la libertà della volontà umana. Il duplice ordine In quanto appartenente al mondo fenomenico, l’uomo è soggetto alla legge fisica (tutti gli d’appartenenza uomini devono nutrirsi); in quanto appartenente al mondo noumenico, è sottoposto alla dell’essere umano legge morale (tutti gli uomini devono dire la verità), alla quale tuttavia può trasgredire. In
ESERCIZI
altre parole, se nel mondo fenomenico vige il determinismo, nel regno della cosa in sé può trovar posto la libertà: ecco perché l’essere umano può dire che ogni sua azione compiuta contro la legge morale, per quanto come fenomeno o accadimento naturale abbia nel passato la propria causa e sia dunque predeterminata, avrebbe potuto essere evitata, poiché la decisione di compierla non è determinata né necessitata. Libertà e determinismo possono in questo modo coesistere.
6. Il primato della ragion pratica La teoria dei postulati etici mette capo a ciò che Kant definisce primato della ragion pratica, che consiste nella prevalenza dell’interesse pratico su quello teoretico, e nel fatto che la ragione ammette, nel suo uso pratico, proposizioni che nel suo uso teoretico non potrebbe ammettere. La non Tuttavia, pur aprendo uno squarcio sul trans-fenomenico e sul metafisico, i postulati etici teoreticità dei kantiani non possono affatto valere come conoscenze. Come scrive Pietro Chiodi, il pripostulati etici
mato della ragion pratica rispetto alla ragione speculativa «non significa che essa ci può dare ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le sue condizioni di validità comportano la ragionevole speranza dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima: ma se questa ragionevole speranza fosse intesa come certezza razionale, non solo il mondo morale non ne uscirebbe rafforzato, ma totalmente distrutto».
544
UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
Se i postulati della ragion pratica fossero verità dimostrabili o certezze comunque intese, la morale scivolerebbe immediatamente verso l’eteronomia e sarebbe nuovamente la religione (o la metafisica) a fondare la morale, con tutti gli inconvenienti già esaminati. Rovesciando il modo tradizionale di intendere il rapporto tra morale e religione, Kant so- Il rapporto stiene invece, a chiare lettere, che non sono le verità religiose a fondare la morale, ma è la tra morale e religione morale, sia pure sotto forma di “postulati”, a fondare le verità religiose. In altri termini, per Kant Dio non sta all’inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. In altre parole ancora, l’uomo di Kant è colui che agisce seguendo soltanto il dovere-per-il-dovere, ma che in più nutre una «ragionevole speranza» nell’immortalità dell’anima e nell’esistenza di Dio. A questo proposito i testi sono inequivocabili; il filosofo scrive infatti:
‘ ‘
La morale, essendo fondata sul concetto dell’uomo come essere libero, il quale, appunto perché tale, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierla […] non ha quindi bisogno (sia oggettivamente, per ciò che concerne il volere, sia soggettivamente, per ciò che concerne il potere) del sostegno della religione, ma è autosufficiente grazie alla ragion pratica pura. (La religione nei limiti della semplice ragione, prefazione alla prima edizione)
Dall’altro lato, però, Kant afferma che la morale conduce inevitabilmente alla religione perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona) e nello stesso tempo onnipotente possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci fa un dovere di (Critica della ragion pratica, A 233) proporci come oggetto dei nostri sforzi.
Con la teoria dei postulati pratici, Kant non elimina quindi l’autonomia dell’etica, ma la integra con una sorta di fede razionale. Queste considerazioni sulla coerenza interna della morale kantiana e sulle cautele critiche Il dualismo del filosofo circa il significato pratico e non teoretico dei postulati non escludono però che della dottrina kantiana la Critica della ragion pratica finisca per delineare una sorta di dualismo platonizzante che spezza la realtà e l’essere umano in due: da un lato il mondo fenomenico della scienza, dall’altro il mondo noumenico dell’etica; da un lato l’uomo fenomenico delle inclinazioni naturali, dall’altro l’uomo noumenico della libertà e del dovere. Ed è proprio dalla consapevolezza di questo dualismo che, in parte, muoverà la Critica del Giudizio, di cui parleremo nel prossimo capitolo.
)
Per l’esposizione orale
1. Precisa che cosa intende Kant per: bene supremo, sommo bene, antinomia etica e postulati della ragion pura pratica; quindi enuncia questi ultimi e spiega in che senso costituiscono le condizioni di possibilità della morale. 2. Illustra il motivo per cui Kant parla di un primato della ragion pratica sulla ragione teoretica.
545
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
I caratteri e il “contenuto” della legge morale La ragione pratica e la sua legge Nella Critica della ragion pratica Kant analizza l’ambito morale, distinguendo una ragione pratica pura, che orienta l’azione umana a priori (cioè dal punto di vista della sola ragione, indipendentemente dall’esperienza) e una ragione pratica empirica, che invece tiene conto dei condizionamenti concreti. Se in ambito teoretico era da criticare l’uso “puro” della ragione (slegato dall’esperienza), in ambito pratico è da criticare l’uso “empirico” (condizionato dall’esperienza e dalla “materia”). La tesi dell’esistenza di una «ragion pura pratica» coincide con la tesi dell’esistenza di una legge etica assoluta, o «incondizionata» (unbedingt), ossia indipendente dalle sollecitazioni particolari e contingenti della sensibilità. Kant è convinto che una tale legge morale a priori, fondata unicamente sulla ragione e valida per tutti gli esseri umani, sia un “fatto” della ragione, che non dobbiamo dimostrare e tantomeno “inventare”, ma semplicemente constatare. Il carattere assoluto e incondizionato della legge morale implica la libertà dell’agire, ossia la possibilità che gli esseri umani si auto-determinino sottraendosi al meccanismo degli istinti. Inoltre, essendo indipendente dagli impulsi particolari e contingenti, la legge morale risulterà anche universale e necessaria, cioè sempre uguale a sé stessa in ogni tempo e luogo. Il fatto che la morale sia indipendente dai condizionamenti della sensibilità non significa però che possa prescinderne del tutto, ma soltanto che è in grado di de-condizionarsi rispetto a essi. La morale si gioca infatti in una continua tensione tra la ragione e gli impulsi sensibili, cosa che non accadrebbe se l’uomo fosse soltanto sensibilità, ma nemmeno se fosse pura ragione. Per questo motivo la legge morale assume la forma di un comando (etica prescrittiva) che pretende dall’essere umano il superamento dei suoi impulsi egoistici.
546
UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
I princìpi pratici Per Kant la ragione pratica coincide con la
• volontà
(in tedesco Wille) la facoltà di agire «secondo la rappresentazione delle leggi, ossia secondo princìpi».
E i princìpi pratici che orientano la volontà si dividono in due tipologie fondamentali:
• massime
regole di comportamento soggettive, cioè che l’individuo considera valide «soltanto per la sua volontà» (Critica della ragion pratica, A 35);
• imperativi
prescrizioni con valore oggettivo, ossia che valgono sempre e per chiunque.
Gli imperativi, a loro volta, si dividono in:
• imperativi ipotetici
comandi che prescrivono un’azione in vista di un fine: essi hanno la forma del “se vuoi… allora devi…” e si suddividono in «regole dell’abilità», che consistono nelle istruzioni o nelle indicazioni tecniche per conseguire un determinato scopo, e in «consigli della prudenza», che indicano i mezzi per ottenere il benessere o la felicità;
• imperativo categorico
il comando che prescrive un dovere incondizionato, ovvero che «rappresenta un’azione come necessaria per sé stessa, senza relazione con nessun altro fine» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 39). Questo imperativo ha la forma del “devi” puro e semplice.
Per le sue caratteristiche di categoricità e incondizionatezza, l’imperativo categorico è l’unico che ha la forma della
• legge
in ambito pratico (e non giuridico), un comando che vale in modo assolutamente oggettivo (cioè universale e necessario), ovvero per tutti gli esseri pensanti, e quindi «a prescindere dalle condizioni accidentali e soggettive che distinguono un essere razionale da un altro» (Critica della ragion pratica, A 38).
Le tre formulazioni dell’imperativo categorico Appurato che la legge morale non può avere che la forma di un imperativo categorico, Kant la esplicita nella seguente formula: « agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale» (Critica della ragion pratica, A 54). Questo significa che un comportamento può essere ritenuto morale soltanto se è universalmente generalizzabile. Accanto a questa formulazione (l’unica presente nella Critica della ragion pratica), nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant ne offre altre due.
La seconda prescrive il rispetto della «dignità» dell’essere umano, il quale, essendo un fine in sé stesso e possedendo perciò un valore assoluto, non dovrà mai essere ridotto a “mezzo” o “strumento” dell’egoismo proprio o altrui: «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67). Soltanto così potrà essere istituito quello che Kant chiama
• regno dei fini
(in tedesco Reich der Zwecke) la comunità ideale degli esseri liberi e ragionevoli che, in quanto tali, obbediscono alle leggi della morale. In tale regno ogni membro è, nello stesso tempo, legislatore e suddito.
La terza formulazione sottolinea infine l’autonomia della volontà, prescrivendo di agire in modo tale che «la volontà, in base alla massima, possa considerare sé stessa come universalmente legislatrice» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76).
I caratteri dell’etica kantiana Il formalismo Come aveva già fatto in ambito teoretico, anche in ambito etico Kant distingue tra
• materia e forma
rispettivamente, l’azione specifica prescritta da una massima (che tende a soddisfare un desiderio o a raggiungere un fine particolare) e l’universalità della legge etica, che obbliga ad agire indipendentemente da fini e desideri particolari.
La legge morale non indica alcuna «materia» (cioè alcuna azione specifica da mettere in atto), ma prescrive la forma, ossia il modo in cui ci si deve universalmente comportare. In questo senso si parla di
• formalismo etico
la dottrina secondo cui il motivo che determina l’azione morale non è la sua «materia» (v.), bensì la sua «forma» (v.), la quale si limita a indicare come dobbiamo fare ciò che facciamo, prescrivendoci unicamente la massima (o il “test”) dell’universalizzabilità.
In altre parole, per Kant è la forma a determinare la moralità di un contenuto, e non viceversa.
Il rigorismo Accanto al formalismo, il secondo fondamentale tratto della morale kantiana è il
• rigorismo
il carattere “severo” che caratterizza la dottrina etica di Kant, in quanto imperniata sull’ideale del puro «dovere» (v.), che esclude dai confini della condotta morale ogni emozione o sentimento.
Il perno del rigorismo etico kantiano è dunque la nozione di
• dovere
(in tedesco Pflicht) il principio etico in base al quale ogni azione deve essere compiuta unicamente in vista della legge morale: «il dovere è la necessità di un’azione per rispetto della legge» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 14).
Contro ogni etica utilitaristica o finalistica, Kant afferma insomma che non si deve agire in vista di un qualche utile o scopo, ma soltanto “per dovere”, ovvero secondo l’ideale del dovere-per-il-dovere. In una tale etica c’è posto per un unico sentimento:
• il rispetto per la legge
sentimento a priori (cioè prodotto dalla ragione pura) che costituisce «l’unico e, insieme, l’incontestato movente morale» (Critica della ragion pratica, A 139) e che consiste nella capacità di “umiliare” le nostre inclinazioni egoistiche, sottomettendole alla legge morale e consentendo in tal modo a quest’ultima di imporsi in tutta la sua forza e maestà.
Per tutte queste caratteristiche, la morale kantiana si configura come una
• etica dell’intenzione
la teoria secondo cui la moralità di un comportamento non dipende dal fine (esteriore) che esso persegue, bensì dall’intenzione (interiore) che lo muove, e che nel caso di Kant deve essere il dovere-per-il-dovere.
Tra i princìpi dell’etica dell’intenzione kantiana si trova la distinzione tra
• legalità e moralità
rispettivamente, la caratteristica di un’azione conforme alla legge soltanto esteriormente, ovvero di un’azione che in realtà è compiuta per un movente di natura sensibile (ad esempio per evitare un danno o per ottenere un vantaggio); e la caratteristica di un’azione in cui è la volontà stessa a conformarsi alla legge, senza il concorso di alcun impulso sensibile.
Da questa distinzione scaturisce un altro concetto-cardine dell’etica di Kant: quello di
• volontà buona
l’intenzione della volontà di conformarsi alla legge morale. La volontà buona è dunque una volontà che “vuole il bene” in senso assoluto, cioè non questo o quel bene particolare (che pure dovrà essere di volta in volta stabilito). Ogni azione (nella sua esteriorità) può essere buona o cattiva, nel senso che la sua “qualità morale” è condizionata dall’intenzione. Ma la volontà buona è incondizionata: è il bene in sé stesso e rende buono il contenuto di un’azione.
547
Il principio del dovere e la volontà buona, secondo Kant, innalzano l’essere umano al di sopra del mondo fenomenico (in cui vige il meccanismo delle leggi naturali) e lo rendono in qualche modo partecipe del mondo noumenico, in cui vige la libertà.
L’autonomia La legge morale riconosciuta da Kant si contraddistingue infine per la sua
• autonomia
(in tedesco Autonomie, dal greco autónomos, “che si governa da sé”, da autós, “sé”, e nómos, “legge”) termine introdotto da Kant per designare l’indipendenza della «volontà buona» (v.) rispetto a qualunque desiderio o oggetto di desiderio, e la sua capacità di determinarsi in conformità della sola legge morale, intesa come legge che le appartiene totalmente e che da essa sola dipende.
L’autonomia morale si identifica quindi con la libertà e l’auto-normatività della ragione pura pratica, che è legge a sé stessa e che si contrappone alle
• morali eteronome
(dal tedesco Eteronomie, “eteronomia”, a sua volta derivante dal greco héteros, “altro”, e nómos, “legge”) espressione introdotta da Kant per designare quei sistemi etici in cui la condotta virtuosa dipende da una volontà che si adegua a una legge “esterna”, cioè “altra” rispetto a sé stessa (l’educazione, la ricerca del piacere, il «sentimento morale», l’ideale della perfezione, la volontà di Dio ecc.).
Sul carattere autonomo della legge morale kantiana (che pone l’uomo, ovvero la ragion pratica, al centro dell’universo etico) hanno insistito i critici, per sostenere che Kant attua anche in ambito morale quella stessa “rivoluzione copernicana” che aveva attuato in ambito gnoseologico, risolvendo così l’apparente
• paradosso della ragion pratica
il fatto che non è il concetto di “bene” (con quello correlativo di “male”) a fondare la legge morale, poiché in tal caso si cadrebbe in una condizione di eteronomia morale; al contrario, è «la legge morale che anzitutto determina e rende possibile il concetto del bene» (Critica della ragion pratica, A 112).
I postulati della ragion pratica Nella Dialettica della ragion pura pratica, Kant analizza l’assoluto morale, e a questo fine elabora la nozione di
• bene supremo
la virtù, che Kant concepisce come «intenzione morale in lotta», ovvero come il tendere della volontà alla «santità», cioè alla perfetta adesione alla legge morale.
548
UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
Il bene supremo rappresenta la condizione prima e originaria di ogni bene, ma per Kant non è ancora il
• sommo bene
(das höchste Gut) la «totalità incondizionata dell’oggetto della ragion pura pratica», cioè quel «bene intero e perfetto» (Critica della ragion pratica, A 194 e 198) che si identifica con l’unione di virtù e felicità.
Proprio l’idea che alla virtù possa corrispondere la felicità dà origine alla
• antinomia
etica, o antinomia della ragion pratica il problema fondamentale della ragione pratica, consistente nel fatto che la felicità non può essere il movente o il fine dell’agire morale (per l’autonomia della legge morale), sebbene l’agire morale debba poter aspirare a essa, dal momento che il «sommo bene» (v.) risiede nell’unione tra un comportamento virtuoso e la felicità.
In altri termini, il principio del dovere esige che l’essere umano vinca le sue inclinazioni sensibili e la sua tendenza al piacere e alla felicità. D’altra parte Kant riconosce che la natura umana tende alla felicità, tanto che l’uomo, anche quando agisce per il puro dovere razionale, sente di rendersi “degno” della felicità, ovvero sente il bisogno che alla sua condotta virtuosa corrisponda una condizione felice. In questo mondo, tuttavia, la virtù e la felicità non sono mai realmente congiunte: per uscire dall’antinomia etica è dunque necessario introdurre alcuni
• postulati della ragion pura pratica
proposizioni indimostrabili che vengono assunte come vere per garantire la realtà, la pensabilità e la realizzabilità della legge morale.
Tali postulati non sono «dogmi teoretici», ma esigenze “interne” alla morale: il primo postulato afferma l’immortalità dell’anima: poiché la santità, ossia la perfetta conformità della volontà alla legge morale, non è realizzabile in questo mondo, bisogna presupporre un tempo infinito in cui sia possibile progredire verso la perfezione; il secondo postulato afferma l’esistenza di Dio, ovvero di una volontà santa e onnipotente che possa far corrispondere la felicità alla virtù; il terzo postulato, che è la condizione stessa della morale, afferma la libertà dell’essere umano: se la legge morale prescrive un dovere, è necessario che l’uomo sia libero di seguirla (“devi, dunque puoi”). La teoria dei postulati mette in luce il primato della ragion pratica, che ammette proposizioni che non potrebbe dimostrare nel suo uso teoretico. I postulati, tuttavia, non sono conoscenze scientifiche, ma soltanto condizioni del retto agire.
MAPPE
CAPITOLO 3 LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA LA LEGGE MORALE è
un fatto della ragione
assoluta o incondizionata
espressa nella forma di un comando
e quindi implica
perché deve contrastare
la libertà dell’essere umano
la propria validità universale e necessaria
gli impulsi sensibili che caratterizzano gli uomini
I PRINCÌPI PRATICI si dividono in
massime
imperativi
ovvero
ovvero
prescrizioni di carattere soggettivo
prescrizioni di carattere oggettivo a loro volta distinte in
diversi imperativi ipotetici
un unico imperativo categorico
che
che
hanno la forma “se vuoi... allora devi...” sono particolari e contingenti
ha la forma “devi” è universale e incondizionato
LE TRE FORMULE DELL’IMPERATIVO CATEGORICO sono
agisci secondo una massima che può valere per tutti
agisci evitando di ridurre il prossimo o te stesso a semplice mezzo del tuo egoismo
agisci in modo che la volontà possa considerarsi auto-legislatrice
che vuol dire
che vuol dire
che vuol dire
un’azione è morale se è universalizzabile
la persona umana non è “oggetto”, ma “soggetto” (e membro di un “regno dei fini”)
la volontà non è imposta dall’esterno ma è frutto spontaneo della razionalità
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I CARATTERI DELL’ETICA KANTIANA sono
il formalismo
il rigorismo
l’autonomia
perché
perché
perché
l’imperativo categorico non dice che cosa dobbiamo fare ma come dobbiamo farlo
la moralità esclude le emozioni e i sentimenti
la moralità esclude contenuti o fini “esterni” a essa
richiedendo invece
implicando
il dovere-per-ildovere (rispetto della legge)
l’intenzione di conformarsi alla legge
la critica delle morali eteronome
una rivoluzione copernicana in ambito morale
che
elevano l’essere umano al di sopra del mondo fenomenico rendendolo partecipe del mondo noumenico
I POSTULATI ETICI
sono
esigenze interne della morale
affermano
l’immortalità dell’anima
l’esistenza di Dio
la libertà
ossia
ossia
che è
la possibilità di disporre di un tempo infinito in cui progredire verso la perfezione morale (santità)
l’esistenza di una volontà santa e onnipotente che faccia coincidere virtù e felicità
la condizione stessa dell’etica
dato che quest’ultima
prescrivendo il dovere presuppone che si possa agire in conformità a esso («devi, dunque puoi»)
550
UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
CAPITOLO 3 LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA La genesi della dottrina morale
La Fondazione della metafisica dei costumi è il primo scritto di Kant interamente dedicato alla filosofia pratica, il cui obiettivo, stando alle parole stesse dell’autore, è quello di ricercare e definire il «supremo principio della moralità». In base a questo principio, secondo Kant, gli individui dovrebbero essere in grado di definire da sé stessi, con la sola ragione, in che cosa consiste il bene, senza ricorrere a rivelazioni religiose o a fondamenti metafisici. TESTO
1
La prima formula dell’imperativo categorico (Fondazione della metafisica dei costumi) IL TESTO NELL’OPERA La Fondazione della metafisica dei costumi (1785) esce tre anni prima della Critica della ragion pratica, rispetto alla quale presenta una sostanziale somiglianza sul piano dei contenuti. L’opera è costituita da tre sezioni precedute da una prefazione. Nella prima sezione – che sancisce il passaggio dal senso comune alla conoscenza filosofica – Kant analizza il concetto di “volontà buona”, che per lui è strettamente connesso alla nozione di “dovere”: la volontà è buona quando è determinata, oggettivamente, dalla legge e, soggettivamente, dal puro rispetto per la legge. Il dovere è, quindi, l’adeguamento della massima soggettiva dell’agire alla pura forma di una legge universale. Nella seconda sezione – che segna il passaggio dalla filosofia morale popolare alla metafisica dei costumi – Kant delinea due tipi di imperativi (cioè di regole) che stanno alla base dell’agire: l’imperativo ipotetico, che comanda un’azione in vista di altro, e l’imperativo categorico, che rappresenta l’azione come oggettivamente necessaria, a prescindere dalle circostanze esterne e dalle motivazioni sensibili dell’agire. Soltanto l’imperativo categorico, per Kant, costituisce la legge morale. La terza e ultima sezione – che dalla metafisica dei costumi conduce alla critica della ragion pratica – è incentrata sulla libertà, che nel sistema kantiano è la condizione di possibilità dell’imperativo categorico. Nel testo seguente, tratto dalla seconda sezione, si può leggere la “prima formula” della legge morale, che Kant ricava dall’analisi del concetto stesso di imperativo categorico. Quest’ultimo, essendo incondizionato, non può che avere un carattere formale, cioè non può contenere altro che la legge nella sua universalità.
La conformità Quando penso un imperativo ipotetico in generale, non so ciò che conterrà finché non me a una legge ne sia data la condizione. Se invece penso un imperativo categorico, so immediatamente 2 universale
che cosa contiene. Infatti l’imperativo, oltre alla legge, non contiene che la necessità, per la massima, di essere conforme a tale legge, senza che la legge sottostia a nessuna condizione; 4
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di conseguenza non resta che l’universalità d’una legge in generale, a cui deve conformarsi la massima dell’azione, ed è soltanto questa conformità che l’imperativo presenta propriamente come necessaria. Non c’è dunque che un solo imperativo categorico, cioè questo: agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale. […] Siccome l’universalità della legge, in base alla quale si producono effetti, costituisce ciò che è detto propriamente natura nel senso più generale (quanto alla forma), ossia è l’esistenza delle cose in quanto determinata da leggi universali, l’imperativo universale del dovere potrebbe esser formulato così: agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura. […]
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L’esempio 1) Un uomo, indotto alla disperazione da una serie di mali, prova disgusto per la vita, pur del suicidio conservando il dominio della propria ragione quanto occorre per chiedersi se sia in contra- 16
sto col dovere verso se stesso togliersi la vita. Cerca allora di stabilire se la massima della sua azione possa diventare una legge universale della natura. Ma la sua massima è: «Per amore di me stesso assumo a principio di abbreviarmi la vita se la sua ulteriore durata mi fa prevedere più mali che piaceri». Tutto sta nel sapere se questo principio dell’amor di sé possa diventare legge universale della natura. Ma è facile vedere che una natura la cui legge consistesse nel distruggere la vita proprio in virtù di quel sentimento che è destinato a promuoverla, cadrebbe in contraddizione con se stessa, quindi non sussisterebbe come natura; è quindi impossibile che quella massima possa valere come legge universale della natura, perciò risulta contraria al principio supremo di ogni dovere.
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L’esempio della 2) Un tale è costretto dal bisogno a farsi prestare del denaro. Si rende ben conto che non 26 falsa promessa sarà mai in grado di pagare, ma vede anche chiaramente che non avrà il più piccolo prestito
se non si impegnerà seriamente a pagare entro un determinato tempo. Gli vien voglia di fare questa promessa, ma conserva ancora sufficiente coscienza per domandarsi: «Non è illecito e contrario al dovere trarsi d’impaccio in questo modo?». Supposto tuttavia che egli decida di farlo, la massima della sua azione prenderebbe questa forma: «Quando credo di aver bisogno di denaro, ne prendo a prestito promettendo di restituirlo, benché sappia che non lo farò mai». Ora, è possibile che tale principio dell’amor di sé o dell’utilità personale si accordi in pieno con l’intero mio benessere futuro, ma il problema a questo punto è di sapere se sia giusto. Converto allora l’esigenza dell’amor di sé in una legge universale e pongo così il problema: «Cosa accadrebbe se la mia massima divenisse una legge universale?». Mi rendo subito conto che essa non potrebbe mai valere come legge universale della natura ed essere in accordo con se stessa, perché è necessariamente autocontraddittoria. Infatti, assumere come legge universale che ogni uomo, quando crede di essere in bisogno, può promettere qualsiasi cosa col proposito di non mantenere, renderebbe impossibile il promettere stesso e il fine che promettendo ci si propone, perché nessuno crederebbe più a ciò che gli viene promesso e riderebbe di dichiarazioni del genere come di inutili pretesti. […]
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L’esempio 4) Infine, un quarto, al quale tutto va bene, vedendo che gli altri (che egli potrebbe benisdell’indifferenza simo aiutare) si dibattono fra gravi difficoltà, ragiona così: «Che me ne importa? L’altro sia 44 verso gli altri
felice quanto piace al Cielo o quanto può esserlo da solo; io non lo priverò di nulla, anzi neppure lo invidierò; ma non intendo dare alcun contributo al suo benessere e soccorrerlo 46 nel bisogno». Ora, se questo modo di vedere divenisse una legge universale di natura, il genere umano potrebbe senz’altro continuare ad esistere e certamente in condizioni mi- 48 gliori di quelle in cui tutti vanno cianciando di simpatia e benevolenza o magari affaccendandosi per metterle in pratica in certi casi, ma anche, appena possono, ingannando, e in- 50
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trallazzando ai danni di terzi e cercando di recar loro ogni sorta di danno. Anche se è possibile che esista una legge universale della natura conforme a quella massima, è però 52 impossibile volere che tale principio abbia valore universale di legge della natura. Infatti una volontà che prendesse partito per esso, cadrebbe in contraddizione con se stessa, per- 54 ché sono possibili i casi in cui quest’uomo potrebbe aver bisogno dell’amore e della simpatia altrui e in cui priverebbe se stesso di ogni speranza di ricevere l’aiuto desiderato, pro- 56 prio in virtù della legge di natura istituita dalla sua volontà. (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 51-56, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 1986, pp. 78-82)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La conformità a una legge universale (rr. 1-14) Mentre il contenuto di un imperativo ipotetico non è prevedibile prima di conoscere l’obiettivo al quale è finalizzato, il contenuto dell’imperativo categorico si può ricavare a priori. Esso, infatti, in quanto incondizionato, non può contenere altro che la necessità dell’obbedienza alla legge, il dovere in generale, ossia la forma che il nostro volere deve assumere per essere morale. In questo senso, la prima formula dell’imperativo categorico mette in evidenza l’esigenza dell’universalità: un’azione è morale se la massima che la prescrive può essere universalizzata. Kant espone anche una variante della prima formula (rr. 10-14) in base alla quale, in sostanza, per sapere se un’azione è morale bisogna chiedersi se è concepibile (cioè non contraddittorio) volerla trasformare in una legge naturale, la quale, per definizione, è una regola universale e necessaria. L’esempio del suicidio (rr. 15-25) Nel primo degli esempi, l’immoralità del suicidio risulta in modo evidente dal fatto che esso non è concepibile come legge di natura: sarebbe infatti contraddittorio ammettere
come legge di natura la possibilità di negare la vita sulla base di un sentimento (l’«amor di sé» o l’«utilità personale» a cui lo stesso Kant farà riferimento più avanti: r. 33) che, al contrario, dovrebbe favorire la vita stessa. L’esempio della falsa promessa (rr. 26-42) Nel secondo esempio, sulla base del “test di universalizzabilità” proposto da Kant risulta immorale anche il chiedere denaro a prestito sapendo di non poterlo restituire. Infatti, se la massima che prescrive tale azione diventasse una legge di natura, essa stabilirebbe la possibilità di non mantenere le promesse (le quali per definizione vanno invece mantenute), percorrendo la via di una autocontraddittorietà razionalmente non sostenibile. L’esempio dell’indifferenza verso gli altri (rr. 4357) È presentato il caso di chi, non avendo problemi, sceglie di non danneggiare gli altri, ma anche di non curarsi delle loro difficoltà. Anche qui, per dimostrare l’immoralità di un simile comportamento, non potendo negare che esso sia di fatto universalizzabile, Kant afferma l’impossibilità di volere che esso diventi legge universale, dal momento che è possibile a chiunque cadere in disgrazia e avere bisogno dell’aiuto altrui.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI KANT
Rifletti sul carattere universale dell’imperativo categorico kantiano ed esponi il tuo punto di vista al riguardo. Concordi con il fatto che la morale debba fondarsi su massime universalizzabili? Ritieni che la comune natura razionale degli uomini consenta di individuare alcuni princìpi etici basilari validi per tutti? Motiva le tue risposte in un testo scritto (max 25 righe).
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I postulati della ragion pratica
I postulati della ragion pratica sono «proposizioni teoretiche che non possono essere dimostrate come tali», ma che fondano la possibilità stessa della morale in quanto si presentano come esigenze insopprimibili della ragione nel suo uso pratico. Tali sono l’esistenza di Dio e la libertà. TESTO
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L’esistenza di Dio (Critica della ragion pratica) IL TESTO NELL’OPERA Nella Critica della ragion pratica (1788) Kant studia le condizioni trascendentali dell’agire morale, la cui legge si presenta come un imperativo categorico, ossia pura legge del dovere, scevra da ogni contenuto. Se nella Critica della ragion pura il filosofo si propone di mostrare non che cosa l’essere umano conosce, ma come conosce, nella Critica della ragion pratica egli non vuole definire quali precetti etici debbano seguire gli individui, bensì come questi debbano comportarsi per compiere un’azione autenticamente morale. Nella “Prefazione” Kant chiarisce che l’intenzione dello scritto è quella di indicare la forma della morale, non il suo contenuto. Di quest’ultimo, che consiste nelle norme morali, si occuperà la Metafisica dei costumi (1797), ossia l’opera con cui Kant esporrà il sistema dei doveri che derivano dalla ragione pratica. Il secondo postulato della ragion pratica concerne l’esistenza di Dio. Anche in questo caso non si può parlare di una contraddizione di Kant rispetto alle conclusioni della Critica della ragion pura, perché il filosofo mantiene ferma l’inconoscibilità di Dio, limitandosi ad affermare che è moralmente necessario ammetterne l’esistenza.
La connessione Nell’analisi precedente la legge morale ha condotto al problema pratico che, senza alcun necessaria intervento di moventi sensibili, è prescritto semplicemente dalla ragion pura, cioè alla 2 di moralità e felicità completezza della prima parte, la principale, del sommo bene, la moralità; e poiché tale pro-
blema non può essere risolto del tutto se non nell’eternità, al postulato dell’immortalità. Questa stessa legge deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, che consiste nella felicità proporzionata a questa moralità, in modo altrettanto disinteressato, per semplice e imparziale ragione; deve cioè condurre alla supposizione dell’esistenza di una causa adeguata a tale effetto; ossia a postulare l’esistenza di Dio come rientrante necessariamente nella possibilità del sommo bene (che è un oggetto della nostra volontà congiunto necessariamente con la legislazione morale della ragion pura). Vogliamo ora presentare in modo convincente questa connessione.
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L’impossibilità La felicità è lo stato di un essere razionale nel mondo al quale, per l’intero corso della sua 12 per l’uomo di vita, tutto accade secondo il suo desiderio e la sua volontà; essa si fonda dunque sull’accordo essere felice
della natura con il fine generale di questo essere e con il motivo essenziale di determinazione della sua volontà. Ora la legge morale, in quanto legge della libertà, comanda per mezzo di motivi determinanti che devono essere del tutto indipendenti dalla natura e dall’accordo con la nostra facoltà di desiderare (quali moventi); ma l’essere razionale che agisce nel mondo non è, in quanto tale, causa del mondo e della natura stessa. Di conseguenza, nella legge morale non c’è il ben che minimo principio di una connessione necessaria di moralità e felicità ad essa proporzionata in un essere che sta nel mondo come parte di esso e perciò ne dipende, essere che appunto per ciò non può essere causa di tale natura mediante la propria volontà e che, per quanto concerne la propria felicità, non può, con le proprie forze, determinare continuamente l’accordo di questa natura coi propri princìpi pratici.
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Il presupposto Ma nel problema pratico della ragion pura, cioè nel perseguimento necessario del sommo 24 di una causa bene, tale connessione è postulata come necessaria: noi dobbiamo cercare di realizzare il della natura
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
sommo bene (che deve dunque esser possibile). Così si postula anche l’esistenza di una 26 causa dell’intera natura, diversa dalla natura stessa, tale da contenere il principio di questa connessione, cioè della concordanza esatta di felicità e moralità. 28 (Critica della ragion pratica, A 223-225, in Scritti morali, cit., pp. 271-272)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La connessione necessaria di moralità e felicità (rr. 1-11) Per Kant il sommo bene è costituito dall’unione di virtù e felicità, ovvero dalla moralità (la «prima parte, la principale, del sommo bene», r. 3) e dalla possibilità di una giusta ricompensa per essa (il «secondo elemento», r. 5). Per questo la ragione pratica, così come ha postulato l’immortalità dell’anima (grazie alla quale soltanto l’uomo può rendersi veramente degno della felicità), deve ora postulare anche l’esistenza di Dio come causa di una felicità proporzionata alla virtù. L’impossibilità per l’uomo di essere felice (rr. 12-23) Se la felicità è per definizione l’accordo tra la natura di
un individuo, il suo fine generale e la sua volontà, essa non può dipendere dall’individuo, il quale, non essendo l’artefice del mondo, non può garantire alcuna connessione necessaria tra la moralità e la felicità. Il presupposto di una causa della natura (rr. 2428) Come Kant dirà poco oltre, «la legge morale mi ordina di fare del sommo bene possibile in un mondo l’oggetto ultimo di tutta la mia condotta» dunque il sommo bene deve essere possibile, e ciò implica che si postuli l’esistenza di una causa suprema della natura, da essa distinta e diversa, che possa garantire la concordanza esatta di moralità e felicità: Dio.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Di Dio, per Kant, non possiamo dire né che sia né che cosa sia, eppure il filosofo ne ammette l’esistenza per poter realizzare appieno la morale. Qual è la tua visione su questo argomento? Ritieni che la morale possa aspirare a una sua assolutezza, indipendentemente da un fondamento trascendente? È possibile, secondo te, armonizzare virtù e felicità prescindendo dall’esistenza di Dio? Rispondi a questi interrogativi in un testo scritto (max 30 righe) opportunamente argomentato.
TESTO
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La libertà dell’essere umano (Critica della ragion pratica) Nella seconda Critica Kant abbandona l’idea, coltivata nella Fondazione, di poter dedurre la legge morale dalla libertà e inverte il suo percorso. Ora è la legge morale a costituire il fondamento o il principio per la “deduzione” della libertà umana.
AUDIOLETTURA
La legge La libertà e la legge pratica incondizionata risultano […] reciprocamente connesse. Qui io morale come non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia 2 fondamento della libertà piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica, e se questa sia identica al 4 6 8 10 12
TESTI KANT
concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. Non è possibile che prenda inizio dalla libertà, di cui non possiamo né aver coscienza immediata, perché il primo concetto di essa è negativo, né conoscenza mediata dall’esperienza, perché l’esperienza non ci dà che la legge dei fenomeni, e con ciò il meccanismo della natura, che è l’opposto puro e semplice della libertà. È quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le massime della volontà) ciò che ci si offre per primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse.
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La libertà come “imposizione” della legge morale
Ma come è possibile la coscienza di questa legge morale? Noi possiamo diventare consci delle leggi pure pratiche, come siamo consci dei princìpi teoretici puri, se badiamo alla necessità con cui la ragione ce li impone e se facciamo astrazione da tutte le condizioni empiriche che essa ci presenta. Il concetto di una volontà pura proviene da quelle leggi, come la coscienza di un intelletto puro proviene da quei princìpi. Che questa sia la vera subordinazione dei nostri concetti, che sia la moralità a rivelarci il concetto della libertà, e che, di conseguenza, la ragion pratica per prima, con questo concetto, proponga alla ragione speculativa il più insolubile dei problemi per metterla così nel più grande imbarazzo, risulta chiaramente da questo: che, poiché niente può essere spiegato nei fenomeni mediante il concetto della libertà, ma qui il filo conduttore è sempre costituito dal meccanismo naturale, e poiché inoltre la ragion pura, se vuol salire all’incondizionato nella serie delle cause, dà luogo a un’antinomia in cui si avvolge nell’incomprensibile così con un concetto [la libertà] come con l’altro [il determinismo meccanicistico], mentre il secondo (il meccanismo) è almeno di vantaggio nella spiegazione dei fenomeni, non si sarebbe mai ardito di introdurre la libertà nella scienza, se la legge morale, e con essa la ragion pratica, non vi fossero giunte e non ci avessero imposto questo concetto. (Critica della ragion pratica, A 52-53, in Scritti morali, cit., pp. 166-167)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La legge morale come fondamento della libertà (rr. 1-13) Per Kant il motivo determinante sufficiente della volontà deve essere la pura forma legislativa universale: in questa prospettiva, la volontà deve essere pensata come del tutto indipendente dalla legge naturale dei fenomeni nei loro rapporti reciproci, cioè dalla legge di causalità. Ecco perché Kant afferma che la libertà e la legge morale sono tra loro inscindibilmente connesse e che la legge morale coincide con l’autocoscienza della ragion pura pratica, ovvero con la libertà positiva. Quello che il filosofo intende ora accertare è se l’essere umano conosca prima la libertà o la legge morale. Si deve escludere che si conosca per prima la libertà: il primo concetto che l’individuo ha di essa, infatti, è negativo (come indipendenza dalle inclinazioni sensibili); del resto l’essere umano conosce la libertà soltanto in forma mediata dall’esperienza, e quest’ultima è caratterizzata dalla necessità delle leggi fenomeniche. La prima a essere conosciuta è dunque la legge morale, che la ragione presenta come interamente indipendente dalle circostanze empiriche.
La libertà come “imposizione” della legge morale (rr. 14-29) Alla coscienza della legge morale si perviene allo stesso modo in cui si perviene a quella dei princìpi teoretici puri, cioè considerando la necessità con cui la ragione ci impone entrambi, e poiché la necessità coincide con l’«astrazione da tutte le condizioni empiriche» (rr. 15-16), nel caso dei concetti puri essi non possono che derivare dall’intelletto, e nel caso della legge morale essa non può che fondarsi su una volontà capace di determinarsi in modo del tutto indipendente rispetto alle leggi fenomeniche. Ricordando che sul piano strettamente teoretico il problema della libertà è insolubile, Kant allude alla terza antinomia della cosmologia razionale, per cui la ragione giunge sia all’idea di una causa prima, libera, dei fenomeni, sia alla tesi opposta, cioè alla negazione dell’esistenza di una simile causa. La scienza spiega meccanicisticamente, deterministicamente, tutti i fenomeni e soltanto la coscienza della legge morale ci spinge a postulare l’esistenza della libertà.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Al giorno d’oggi si parla molto di libertà, associandola a svariate tipologie di rivendicazioni e di battaglie. Ritieni che la libertà per come la intende Kant si presti a una traduzione in termini “civici” e possa, quindi, indirizzare azioni concrete da parte dei politici e della società? Perché? Rispondi in un testo scritto (max 30 righe), in cui argomenti il tuo punto di vista e lo supporti con esempi concreti.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 3 la Critica della ragion pratica
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CAPITOLO 4 LA CRITICA DEL GIUDIZIO
1. L’argomento e la struttura dell’opera Come abbiamo anticipato al termine del capitolo precedente, nella Critica del Giudizio Kant muove da una sorta di “dualismo” lasciato aperto dalle prime due Critiche: dalla Critica della ragion pura emergeva una visione meccanicistica della realtà, in quanto la natura, dal punto di vista fenomenico, appariva come una struttura causale e necessaria, entro la quale non trovava posto la libertà umana; dalla Critica della ragion pratica affiorava invece una visione indeterministica e finalistica della realtà, in quanto si postulavano, come condizioni della morale, la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio. In altre parole, da un lato campeggiava un mondo fenomenico e deterministico “conosciuto” dalla scienza, e dall’altro un mondo noumenico e finalistico “postulato” dall’etica, con un conseguente «immensurabile abisso» tra «due mondi tanto diversi» (Critica del Giudizio, “Introduzione”, II, a cura di A. Gargiulo, rivista da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1997).
Il dualismo implicato dalle prime due Critiche
Se nella Critica della ragion pura aveva analizzato la conoscenza, e nella Critica della ragion L’oggetto pratica aveva indagato la morale, nella Critica del Giudizio Kant studia il sentimento . studiato dalla terza Critica Procedendo oltre la bipartizione tradizionale delle facoltà (teoretica e pratica), e sulla scia degli empiristi inglesi e dei moralisti francesi del Settecento, egli fa del sentimento una sorta di terza facoltà umana, nonché un ambito di attività autonoma. Per Kant, infatti, il sentimento è la facoltà peculiare mediante la quale gli esseri umani fanno esperienza di quella finalità del reale che la prima Critica escludeva sul piano fenomenico e la seconda postulava a livello noumenico. glossario p. 569 Ciò non significa tuttavia, che la Critica della ragion pura rappresenti la tesi, la Critica della ragion pratica l’antitesi e la Critica del Giudizio la sintesi, quasi che quest’ultima fosse un superamento del dissidio tra le due opere precedenti. Infatti, sebbene il sentimento tenda a figurarsi il mondo fisico in termini di finalità e di libertà, secondo Kant esso rappresenta soltanto un’esigenza umana, che come tale non ha alcun valore di tipo conoscitivo o teoretico. Detto in altri termini, il sentimento «permette, nel soggetto, l’incontro tra i due mondi. L’incontro, non la conciliazione: la conciliazione infatti implicherebbe l’oggettività del medio che concilia, mentre questo è un accordo che vale solo soggettivamente» (Sergio Givone).
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I giudizi del sentimento e la loro classificazione La distinzione Come nella prima Critica aveva analizzato i giudizi tipici della facoltà teoretica, ovvero tra giudizi dell’intelletto, così nella terza Critica Kant analizza i giudizi tipici del sentimento, procedendo determinanti e riflettenti innanzitutto a distinguerli da quelli precedenti. Per Kant i giudizi sentimentali costituiscono
infatti il campo dei giudizi «riflettenti», in contrapposizione al campo dei giudizi «determinanti»: i giudizi determinanti sono i giudizi conoscitivi e scientifici studiati nella Critica della ragion pura, ovvero i giudizi che “determinano” gli oggetti fenomenici mediante forme a priori universali (spazio, tempo e le dodici categorie); glossario p. 569 i giudizi riflettenti , invece, si limitano a “riflettere” su un mondo naturale già “costituito” mediante i giudizi determinanti, e ad apprenderlo (o ad interpretarlo) attraverso le nostre esigenze universali di finalità e di armonia. glossario p. 569
Una risposta Nel suo linguaggio tecnico, Kant afferma che, se nei giudizi determinanti l’universale è a un bisogno «già dato» dalle forme a priori, che infatti “incapsulano” il particolare in maniera imumano
mediata, nei giudizi riflettenti l’universale – che in questo caso si identifica con il principio della finalità della natura – va «cercato» partendo dal particolare. Del resto (come abbiamo anticipato), mentre i giudizi determinanti sono oggettivi e scientificamente validi (almeno per quanto concerne il fenomeno), i giudizi riflettenti esprimono più che altro un «bisogno» tipico di quell’essere finito che è l’uomo. Quest’ultimo, infatti, deve realizzare sé stesso nella natura; pertanto ha bisogno di pensare che essa sia adatta a servire i suoi fini e a rendere possibile la sua libertà, mentre di fatto, in quanto essere finito, egli non può affatto renderla docile e pronta alle sue esigenze. Al contrario, se l’uomo fosse un essere infinito e creatore, le cose sarebbero costitutivamente disposte in vista dei suoi fini, e l’accordo tra natura e libertà sarebbe oggettivo, cioè intrinseco ed essenziale alle cose stesse: in tal caso il giudizio riflettente – che fonda tale accordo soltanto soggettivamente – sarebbe inutile.
La facoltà del La Critica del Giudizio si configura dunque come un’analisi dei giudizi riflettenti, per cui “Giudizio” la parola Giudizio (Urtheilskraft, o Urteilskraft) che compare nel titolo dell’opera assume
il significato filosofico specifico di “organo dei giudizi riflettenti”, ossia di una funzione o capacità tipica del sentimento, che, come abbiamo detto, Kant considera una facoltà intermedia tra l’intelletto e la ragione, e quindi tra la conoscenza e la morale. Per alludere a una tale funzione o facoltà, useremo la parola “Giudizio” con l’iniziale maiuscola. glossario p. 569
La distinzione I due tipi fondamentali di giudizio riflettente sono per Kant quello «estetico», che verte tra giudizio sulla bellezza, e quello «teleologico», che riguarda invece i fini della natura. Entrambi sono estetico e teleologico giudizi sentimentali puri, cioè derivanti a priori dalla nostra mente (e soltanto in
quanto tali suscettibili di analisi critico-trascendentale), anche se si distinguono tra loro per un diverso modo di rimandare al finalismo: nel giudizio estetico noi viviamo intuitivamente (cioè immediatamente) la finalità della natura (avvertendo una sorta di sintonia, ad esempio, tra un bel paesaggio e le nostre esigenze spirituali); glossario p. 569 nel giudizio teleologico , invece, pensiamo tale finalità concettualmente (cioè in modo non immediato) attraverso la nozione di “fine” (riflettendo, ad esempio, sulla struttura scheletrica di certi animali, e dicendo che essa “serve” a sorreggerne il corpo). glossario p. 569
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 4 la Critica del Giudizio
Nel caso del giudizio estetico, la finalità della natura consiste in un “venir incontro” dell’oggetto alle aspettative estetiche del soggetto, quasi che la natura fosse bella “apposta” per noi. Nel secondo caso la finalità consiste invece in un carattere che si attribuisce all’oggetto stesso. In altri termini, il giudizio riflettente risulta estetico o teleologico a seconda del modo in cui viene usato il principio di finalità. Se quest’ultimo riguarda il rapporto di armonia che si instaura tra il soggetto e la sua rappresentazione dell’oggetto, si ha il giudizio estetico. Se il principio di finalità riguarda invece un (presunto) ordine finalistico interno alla natura stessa, si ha il giudizio teleologico. Per sottolineare tale diversità Kant parla, nel primo caso, di finalità «soggettiva» o «formale», e nel secondo caso di finalità «oggettiva» o «reale». La terminologia del filosofo non deve però trarre in inganno, poiché anche il giudizio teleologico (che non è determinante, bensì riflettente) esprime semplicemente, come si è già detto, un’esigenza umana, ossia un bisogno soggettivo della nostra mente di rappresentarsi in modo finalistico l’ordine delle cose. I GIUDIZI DETERMINANTI
“determinano” gli oggetti fenomenici
mediante
forme a priori universali e necessarie (l’universale è dato)
I GIUDIZI RIFLETTENTI
“riflettono” su una natura già costituita, interpretandola
secondo le
esigenze di finalità e armonia (l’universale, ovvero il principio di finalità, è cercato)
si distinguono in
La distinzione tra finalità soggettiva e oggettiva
ESERCIZI
giudizi estetici = la finalità della natura è “vissuta” in modo immediato o a-teoretico (finalità soggettiva o formale) giudizi teleologici = la finalità della natura è “pensata” in modo concettuale mediante la nozione di fine (finalità oggettiva o reale)
L’articolazione dell’opera La Critica del Giudizio si divide in due parti, ovvero la Critica del Giudizio estetico e la Critica del Giudizio teleologico, le quali si dividono entrambe, a loro volta, in due sezioni: la prima si articola in: Analitica del Giudizio estetico (che tratta del “bello” e del “sublime”) e Dialettica del Giudizio estetico (che tratta dell’“antinomia del gusto”); la seconda si articola in Analitica del Giudizio teleologico (che tratta del Giudizio sulla finalità della natura) e Dialettica del Giudizio teleologico (che tratta dell’“antinomia del Giudizio”). In appendice si trova infine una Metodologia del Giudizio teleologico.
)
Per l’esposizione orale
1. Che cosa intende Kant con il termine «sentimento»? 2. Spiega che cosa sono per Kant i «giudizi riflettenti» e in che cosa si distinguono dai «giudizi determinanti». 3. Quale differenza sussiste, per Kant, tra il giudizio estetico e il giudizio teleologico rispetto al sentimento della finalità?
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2. Le definizioni della bellezza Abbandonando la dimensione specifica dell’estetica “trascendentale” (analisi delle forme a priori della sensibilità), nella Critica del Giudizio Kant restituisce al termine “estetica” il suo significato tradizionale di “dottrina dell’arte e della bellezza”. L’ambito Dopo aver premesso che il bello (Schöne) si distingue sia dal piacevole (ciò che «diletta», specifico ovvero «ciò che piace ai sensi nella sensazione», Critica del Giudizio, par. 3) sia dal buono («ciò della bellezza
che, mediante la ragione, piace puramente per il suo concetto», Critica del Giudizio, par. 4), Kant chiarisce che esso è ciò che piace nel giudizio estetico, o giudizio di gusto, dove per «gusto» (Geschmach) si intende appunto la facoltà specifica del giudizio estetico, ovvero «la facoltà di giudicare del bello». Il bello non è quindi ciò che comunque piace, ma l’oggetto specifico di quel particolare tipo di giudizio che è il giudizio estetico, di cui Kant si propone pertanto di analizzare la natura: articolando il giudizio estetico secondo la tavola delle categorie, egli offre così ben quattro definizioni della bellezza. glossario p. 569
Il disinteresse
1. Secondo la qualità, il bello è l’oggetto di un piacere «senza alcun interesse» (Critica
del Giudizio, parr. 1-5). Infatti i giudizi estetici sono contemplativi e disinteressati, poiché non si curano dell’esistenza o del possesso degli oggetti, ma soltanto della loro immagine o rappresentazione (ad esempio, dal punto di vista dell’interesse un campo di grano conta per il guadagno che se ne può trarre, mentre dal punto di vista estetico conta per la pura immagine di bellezza che offre). Tant’è che, «quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza […]. Si vuol sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell’oggetto è accompagnata in me da piacere» (Critica del Giudizio, par. 2). Tutto questo significa che per Kant una cosa è bella perché bella, non perché soddisfi interessi esterni di ordine biologico, morale, utilitaristico ecc. ( T1 p. 573)
L’universalità extra-concettuale
2. Secondo la quantità, il bello è «ciò che piace universalmente senza concetto» (Critica del
La finalità senza scopo
3. Secondo la relazione, il bello è «la forma della finalità di un oggetto, in quanto que-
La necessità extra-logica
4. Secondo la modalità, il bello è «ciò che, senza concetto, è riconosciuto come ogget-
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Giudizio, parr. 6-9). Infatti il giudizio estetico si presenta, da un lato, con una tipica pretesa di universalità, in quanto esige che il sentimento di piacere provocato da una cosa bella sia condiviso da tutti, ma dall’altro lato non richiede che il bello sia sottomesso a qualche concetto, o esprima un piacere dipendente da una conoscenza. Pur proponendosi come universale, il giudizio estetico è qualcosa di sentimentale e di extra-logico, in quanto le cose che diciamo “belle” sono tali perché vissute spontaneamente come belle, e non perché giudicate tali attraverso un ragionamento o una serie di concetti. ( T1 p. 573) sta vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo» (Critica del Giudizio, parr. 10-17). Con questa affermazione un po’ complicata – che, ridotta ai suoi termini essenziali, sostiene che la bellezza è percepita come «finalità senza scopo» – Kant intende dire che l’armonia degli oggetti belli, pur esprimendo un formale accordo tra le parti, e quindi una certa finalità, non soggiace a uno scopo determinato e concettualmente esprimibile (senza scopo = senza concetto). Detto altrimenti: la bellezza è un libero gioco di armonie formali che non rimanda a concetti o a fini precisi, e non risulta imprigionabile in schemi conoscitivi.
to di un piacere necessario» (Critica del Giudizio, parr. 18-22). Questa formula è un altro modo per ribadire che il giudizio estetico si presenta come qualcosa su cui tutti devono essere d’accordo, sebbene non si possa esprimere tale consonanza mediante
UnitÀ 6 KANT Capitolo 4 la Critica del Giudizio
concetti o regole logiche, ossia tramite giudizi scientifici come quelli determinanti, in quanto il bello è qualcosa che ognuno percepisce intuitivamente, ma che nessuno riesce a “spiegare” intellettualmente. Quando si dice (esempio di Kant) che “questo fiore è bello” oppure (esempio nostro) che “un rosso tramonto sulle nevi è bello”, si presuppone necessariamente, sulla base del sentimento, che ognuno debba essere d’accordo, senza tuttavia poter esprimere o giustificare concettualmente tale emozione:
‘
VIDEO Le definizioni del bello
Non si può dare alcuna regola oggettiva del gusto, che determini per mezzo di concetti che cosa sia bello. Poiché ogni giudizio derivante da questa fonte è estetico […], la sua causa determinante è il sentimento del soggetto, non un concetto dell’oggetto. (Critica del Giudizio, par. 17)
Proprio perché non vi sono principi razionali del gusto o ideali rigidi di bellezza – in quanto l’universalità estetica è stabilita su base sentimentale, e non concettuale o scientifica – l’educazione alla bellezza, per Kant, non può risiedere in un “manuale” tecnico sull’argomento, ma soltanto nella ripetuta contemplazione delle cose belle, elevate al grado di “esemplari” della bellezza.
L’educazione alla bellezza
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è il bello? p. 806
3. L’universalità del giudizio estetico La tesi dell’universalità del giudizio estetico – che è il tratto più qualificante dell’estetica kantiana – può apparire (soprattutto alla mentalità odierna, così abituata alla varietà dei gusti) piuttosto paradossale. È utile, pertanto, soffermarsi un po’ di più su questo aspetto.
In che senso il giudizio estetico è universale In primo luogo, che cosa intende sostenere Kant quando difende l’universalità del giudizio La “condivisibilità” estetico? Forse che esso presenta il carattere di una «comunicabilità possibile» (Nicola Ab- della bellezza bagnano)? Non basta. Kant intende proprio asserire che nel giudizio estetico la bellezza è vissuta come qualcosa che deve essere condivisa da tutti. Ad esempio, il filosofo scrive:
‘
Il giudizio di gusto esige il consenso di tutti; e chi dichiara bella una cosa, pretende che ognuno dia l’approvazione all’oggetto in questione e debba dichiararlo bello allo stesso modo. […] In tutti i giudizi con i quali dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, ma (Critica del Giudizio, par. 19, 22) soltanto sul nostro sentimento.
Ora, per comprendere adeguatamente questa tesi di Kant, è indispensabile tenere presenti almeno due ordini di considerazioni.
1. In primo luogo è necessario ricordare che Kant distingue nettamente tra il campo del pia-
La distinzione
piacevole e cevole, che è «ciò che piace ai sensi nella sensazione», e il campo del piacere estetico, che tra piacere estetico è il sentimento provocato dall’immagine o dalla “forma” di ciò che giudichiamo bello. Il piacevole – chiarisce Kant – dà luogo ai «giudizi estetici empirici»: questi scaturiscono dalle attrattive delle cose sui sensi e sono legati alle inclinazioni individuali, e perciò sono privi di universalità, in quanto rispettano l’antica massima «de gustibus non est disputandum» (“sui gusti non si può discutere”). Tant’è vero che tutte le volte in cui la bellezza è soltanto o prevalentemente un fatto di attrattiva fisica, che mette in moto i sensi più che lo spirito (come succede, ad esempio, con la bellezza sensibile che ci attrae in una persona), il giudizio estetico risulta inquinato nella sua purezza e quindi
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inevitabilmente soggettivo. Il piacere estetico invece è qualcosa di “puro”, che si concretizza nei «giudizi estetici puri». Questi derivano dalla sola contemplazione della “forma” di un oggetto (secondo Kant, infatti, la materialità sensibile, di per sé, non dà mai luogo a bellezza, poiché questa risiede soltanto nell’ordine e nella forma degli elementi), e soltanto giudizi di questo tipo hanno la pretesa dell’universalità, in quanto non sono soggetti a condizionamenti di alcun genere:
‘
Per ciò che riguarda il piacevole ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli piace, non ha valore se non per la sua persona. […] Per il bello, la cosa è del tutto diversa […]. Quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per tutti, e parla (Critica del Giudizio, par. 7) quindi della bellezza come se essa fosse una qualità della cosa.
Ciò accade soprattutto di fronte ai fenomeni della natura, quali (esempi kantiani) i fiori o le conchiglie, oppure (esempi nostri) l’arcobaleno sulla cascata o il cielo stellato. La distinzione tra bellezza libera e aderente
2. In secondo luogo bisogna sottolineare che Kant distingue tra bellezza libera e bellezza
aderente : la prima viene appresa senza alcun concetto (come nel caso di un arabesco o di una musica senza testo); la seconda implica il riferimento a un determinato modello o concetto di perfezione dell’oggetto che viene definito bello (un edificio, un vestito, una chiesa ecc.). glossario pp. 569, 570 Ovviamente, soltanto i giudizi che riguardano la bellezza libera sono giudizi estetici puri, e perciò universali, perché gli altri sono complicati da considerazioni intellettuali o pratiche, che possono variare a seconda delle epoche e delle civiltà.
Come si può notare, queste specificazioni, se da un lato rendono meno paradossale la teoria di Kant, permettendo di capire meglio in che senso egli sostenga l’universalità del giudizio estetico, dall’altro mettono in luce che i giudizi estetici «puri» di cui parla il filosofo costituiscono una fascia oggettivamente ristretta di tutti i giudizi umani sul bello.
La giustificazione dell’universalità dei giudizi estetici La deduzione Affermata l’universalità del giudizio estetico, Kant si trova di fronte al problema di quella dei giudizi che egli stesso chiama «deduzione dei giudizi estetici puri», cioè della «legittimazione estetici puri
della pretesa dei giudizi di gusto alla validità universale». Il filosofo risolve questo problema-chiave della sua estetica sulla base della teoria della comune struttura della mente umana. Egli afferma che il giudizio estetico nasce da un «libero gioco», ossia da un rapporto spontaneo dell’immaginazione (cioè della fantasia) con l’intelletto; in virtù di tale rapporto l’immagine della cosa appare adeguata alle esigenze dell’intelletto, generando un senso di armonia (che è appunto l’effetto dell’equilibrato intreccio tra le facoltà dell’animo). E poiché tale meccanismo risulta identico in tutti gli uomini, questo spiega l’universalità estetica e giustifica la presenza di un «senso comune» del gusto, ossia di un principio meta-individuale del sentire estetico «che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace e ciò che dispiace» (Critica del Giudizio, par. 20).
L’antinomia del Questa linea argomentativa rappresenta anche la piattaforma per risolvere la cosiddetta «angusto e la sua tinomia del gusto» (Antinomie des Geschmacks), che costituisce l’oggetto della Dialettica del soluzione
Giudizio estetico. Tale antinomia si può sintetizzare così: il giudizio di gusto non si basa su concetti, perché altrimenti se ne potrebbe discutere (tesi); il giudizio di gusto si basa su concetti, perché altrimenti non si potrebbe pretendere che sia condiviso da tutti (antitesi).
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Kant osserva che queste due affermazioni cessano di essere contraddittorie – permettendo la soluzione dell’antinomia – soltanto a patto di attribuire alla nozione di “concetto” due significati diversi, cioè sostenendo, nella tesi, che il giudizio di gusto non si basa su concetti determinati e, nell’antitesi, che il giudizio di gusto si basa sul concetto indeterminato del «sostrato soprasensibile dei fenomeni», ovvero «d’un fondamento in generale della finalità soggettiva della natura rispetto al Giudizio» (Critica del Giudizio, par. 57). Il che è un modo per ribadire che, se il giudizio di gusto non si basa su concetti, in quanto non è un giudizio di conoscenza, si basa però su quella facoltà del Giudizio (mediante la quale viene soggettivamente intuìta la finalità della natura) che è comune a ogni essere umano. Fondando il giudizio di gusto e la sua universalità sulla mente umana, Kant perviene dun- La rivoluzione que a una “rivoluzione copernicana” anche in ambito estetico. Il fulcro di tale rivoluzio- copernicana estetica ne è la tesi secondo cui il bello non è una proprietà oggettiva o ontologica delle cose (quale era nella filosofia classica e nella dottrina medievale dei “trascendentali”), ma il frutto di un incontro del nostro spirito con le cose stesse, cioè qualcosa che nasce soltanto per la mente umana e in rapporto alla mente umana. E sebbene Kant precisi talvolta che in natura vi sono «forme» belle (egli descrive ad esempio alcuni fenomeni di cristallizzazione dell’acqua), aggiunge subito che, «se le belle forme sono in natura, la bellezza è nell’uomo», in quanto, affinché esse si traducano in bellezza, è indispensabile la mediazione della mente, che è il baricentro del giudizio estetico. Tanto più che l’armonia che costituisce la forma dell’oggetto bello non è una qualità della cosa stessa, ma consiste nella vissuta armonia interiore del soggetto, che egli, inconsapevolmente, «proietta» nell’oggetto. Proprio per sottolineare come la bellezza esista soltanto in rapporto al soggetto, Kant afferma significativamente che essa non è un «favore» che la natura fa a noi, bensì un «favore» che noi facciamo a essa, innalzandola al livello della nostra umanità. E aggiunge che, se la bellezza risiedesse negli oggetti, e quindi nell’esperienza, essa perderebbe la propria universalità e non sarebbe più qualcosa di libero, perché ci verrebbe “imposta” dalla natura. In sintesi, l’eteronomia estetica distruggerebbe l’universalità e la libertà del giudizio di gusto, così come l’eteronomia etica distrugge l’universalità e la libertà della legge morale. IL BELLO
senza interesse
è universalmente ciò che piace senza scopo necessariamente
Kant distingue tra il piacevole (per i sensi) e il piacere estetico (della forma), e tra bellezza libera (senza concetto) e bellezza aderente (riferita a un concetto)
L’universalità estetica si fonda sulla comune struttura della mente umana
La bellezza non è una proprietà ontologica delle cose, ma il frutto di un incontro fra noi e le cose (rivoluzione copernicana estetica)
Con questa serie di delucidazioni sulla natura del giudizio estetico, Kant prende definitivamente le distanze dalle estetiche di tipo razionalistico ed empiristico. Contro il razionalismo estetico (soprattutto moderno), che considerava la percezione della bellezza come una conoscenza “confusa” della perfezione degli oggetti, Kant sostiene che l’esperienza estetica è fondata sul sentimento e sulla spontaneità, e non sulla conoscenza o sui concetti.
La distanza dall’estetica razionalistica ed empiristica
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Contro gli empiristi e i sensisti, che riconducevano l’apprensione del bello ai sensi, Kant distingue il piacevole dal piacere estetico: in tal modo difende il carattere specifico e spirituale dell’esperienza estetica, rivendicandone l’universalità e giustificando l’esistenza di giudizi estetici a priori. L’autonomia In conclusione, il messaggio profondo del discorso kantiano risiede nella tesi secondo cui dell’esperienza non ogni piacere provocato in noi da un’immagine ha un valore estetico, ma soltanto quel estetica
piacere che non è legato ad attrattive fisiche, né a interessi pratici, né a valutazioni morali o conoscitive degli oggetti. In sostanza, ha valore estetico unicamente un piacere disinteressato, comunicabile a tutti e non dipendente dai mutevoli stati d’animo dell’individuo (e per questi suoi caratteri di autonomia e libertà, la bellezza, secondo Kant, è un «simbolo» della morale e dei suoi attributi). Di conseguenza, Kant costituisce una figura basilare di quel processo di “autonomizzazione” dell’estetica che si approfondirà ulteriormente con il Romanticismo e che troverà una delle sue maggiori espressioni in Benedetto Croce (1866-1952), il quale infatti vedrà nel filosofo tedesco uno dei “pionieri” dell’estetica moderna.
)
Per l’esposizione orale
1. Che cosa intende Kant per «giudizio di gusto» e qual è l’oggetto di questo giudizio? 2. Enuncia e spiega le quattro definizioni kantiane del bello. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la differenza istituita da Kant tra il bello e il piacevole: condividi l’idea che l’autentica bellezza non possa essere ridotta a un insieme di caratteristiche sensibili che ci procurano piacere? Perché? Supporta le tue argomentazioni con esempi concreti.
4. L’analisi della bellezza artistica La concezione Il “bello” di cui Kant ha parlato fino a questo punto è il «bello di natura», dal quale si dikantiana stingue il «bello artistico». Quest’ultimo risponde alla medesima definizione della beldell’arte
lezza naturale, e presenta rispetto a essa una strutturale affinità, in quanto la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte e l’arte è bella quando ha l’apparenza o la spontaneità della natura. Tuttavia, analizzando l’arte più nel dettaglio, Kant la definisce come un tipo di agire che produce opere, e la suddivide in arte meccanica e arte estetica. Quest’ultima, che «ha per scopo immediato il sentimento di piacere», si divide a sua volta in arte piacevole e arte bella. Mentre l’arte piacevole è generalmente indirizzata a uno scopo “secondario”, come quello di intrattenere o rallegrare un gruppo di spettatori, l’arte bella è un tipo di «rappresentazione che ha il suo scopo in sé stessa», e che quindi produce un piacere autenticamente disinteressato (Critica del Giudizio, par. 44).
Il genio La spontaneità e il carattere disinteressato dell’arte bella proviene dal genio (Genie). In-
fatti, se per giudicare oggetti belli è necessario il gusto, per produrre tali oggetti è indispensabile il genio, ovvero quella facoltà umana che è il tramite con cui la natura interviene sull’arte: glossario p. 570
‘
Il genio è il talento [dono naturale] che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo [ingenium] per mezzo della quale la natura dà la (Critica del Giudizio, par. 46) regola dell’arte.
Aprendo la via alla celebrazione romantica del genio, Kant ne sottolinea tre prerogative: 1. l’originalità, ovvero la creatività;
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2. la capacità di produrre opere esemplari, ossia che fungono da modelli per altri; 3. l’impossibilità di mostrare scientificamente come compie la sua produzione.
Per queste caratteristiche, il genio è inimitabile e si manifesta soltanto nel settore delle arti belle. Kant, insomma, individua una differenza fondamentale tra l’arte e la scienza, poiché in quest’ultima operano senz’altro degli ingegni, ma non, propriamente, dei geni:
‘ ‘
Newton avrebbe potuto, non solo a sé stesso, ma ad ogni altro, render visibili ed additare precisamente all’imitazione tutti i suoi passi, dai primi elementi della geometria fino alle grandi e profonde scoperte; ma nessun Omero o Wieland1 potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché (Critica del Giudizio, par. 47) non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo ad altri. l’abilità dell’artista non è comunicabile, ma vuole esser data ad ognuno direttamente dalla mano della natura, e muore con lui, finché la natura un giorno non dia il dono ad un altro. (Critica del Giudizio, par. 47)
5. L’analisi del sublime Dopo aver trattato del “bello”, Kant passa all’analisi del sublime , che era stato oggetto di grande attenzione da parte del pensiero settecentesco. glossario p. 570 Il filosofo irlandese Edmund Burke (1729-1797), nella sua Ricerca sull’origine delle idee del Il sublime sublime e del bello (1757), aveva offerto una descrizione del sublime destinata a influenzare in Burke in modo determinante il pensiero estetico successivo. Opponendolo al bello (riconducibile alla misura, all’ordine e all’armonia, ma anche alla piccolezza e alla delicatezza), Burke collega il sublime alla dismisura, alla sproporzione, alla cupezza e a «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo». In altre parole, egli ne identifica la fonte in un sentimento di «dilettoso orrore» che l’essere umano, nella sua finitezza e fragilità, prova di fronte a ciò che non può controllare ma che può contemplare senza correre pericolo (come la violenza di una tempesta a cui si assista dalla riva del mare). Questa accezione del sublime come valore estetico prodotto da qualcosa di smisurato o di incommensurabile percorre sostanzialmente invariata l’intera riflessione estetica settecentesca, influenzando anche il pensiero di Kant, il quale la assume come punto di partenza per la sua minuziosa analisi. In primo luogo, egli distingue due tipi di sublime: quello «matematico» e quello «dinamico». Il sublime matematico nasce in presenza di qualcosa di smisuratamente grande. Kant Il sublime propone come esempi le montagne, il diametro terrestre, il sistema planetario, le nebulose, matematico le galassie ecc. Di fronte a tutte queste cose, nasce in noi uno stato d’animo ambivalente: da un lato proviamo dispiacere, perché la nostra immaginazione non riesce ad abbracciarne le incommensurabili grandezze; dall’altro proviamo piacere, perché la nostra ragione è portata da tali spettacoli a elevarsi all’idea dell’infinito, in rapporto alla quale le stesse immensità del creato appaiono piccole. Il dispiacere dell’immaginazione si converte dunque in un piacere della ragione, perché entità smisurate (ma pur sempre finite) come le masse montuose, i ghiacciai o la volta celeste, hanno il potere di risvegliare in noi l’idea dell’infinito, che è superiore a ogni realtà e immaginazione sensibili. 1. Christoph Martin Wieland (1733-1813), poeta e scrittore tedesco celebre tra gli intellettuali illuministi, ma che si avvicinò anche agli ambienti romantici.
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Scoprendoci portatori dell’idea di infinito, riconosciamo la nostra essenza di esseri superiori alla stessa natura, trasformando l’iniziale senso della nostra piccolezza fisica in una finale consapevolezza della nostra grandezza spirituale. In altri termini, prendendo coscienza del fatto che il vero sublime non risiede tanto nella realtà che ci sta di fronte, quanto in noi stessi, convertiamo l’iniziale stima per l’oggetto contemplato in una finale stima per il soggetto contemplante, ossia per quell’ente qualificato in modo sovra-sensibile che è l’essere umano:
‘ ‘ ‘
Da ciò si vede […] che la vera sublimità non dev’essere cercata se non nell’animo di colui che giudica, e non nell’oggetto naturale. (Critica del Giudizio, par. 26)
Infatti – prosegue Kant – se si prescindesse dal soggetto, come si potrebbero chiamare “sublimi” «masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso, e altre cose di questo genere?» (Critica del Giudizio, par. 26). Il sublime Il sublime dinamico nasce in presenza di poderose forze naturali: dinamico Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto (Critica del Giudizio, par. 28) dalla tempesta, la cataratta d’un gran fiume […].
Anche in queste situazioni (contemplate al riparo dal pericolo, altrimenti saremmo paralizzati dal terrore), all’inizio avvertiamo la nostra piccolezza materiale e la nostra impotenza nei confronti della natura. Ma in seguito, pascalianamente, proviamo un vivo sentimento di piacere per la nostra grandezza spirituale, dovuta alla nostra realtà di esseri umani pensanti, portatori delle idee della ragione e della legge morale: La natura non è dunque chiamata sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione, (Critica del Giudizio, par. 28) anche al di sopra della natura.
La “sublimità” È dunque l’esperienza del sublime estetico a renderci consapevoli della nostra «destinaziodella legge ne» sovra-sensibile, ovvero della “sublimità” della nostra natura di soggetti morali. morale
VIDEO Le due tipologie di sublime
FILOSOFIA E ARTE L’infinito e il sublime tra arte e filosofia p. 578
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Del resto, per Kant il giudizio sul sublime non riguarda tanto gli oggetti sensibili, quanto il loro corrispondere alle esigenze della morale (esattamente come il bello riguarda la corrispondenza degli oggetti alle esigenze dell’intelletto). Proprio sulla base di questo stretto legame tra estetica e morale, Kant può affermare che sublime per eccellenza è la legge morale. Di fronte alla forza invincibile della ragione che ordina il dovere, l’essere umano non può che provare un sentimento di «rispetto» e venerazione, che lo induce a sottomettersi a essa. Soltanto in questo modo, cioè piegandosi al dovere, egli è in grado di vincere le proprie pulsioni, ovvero di vincere dentro di sé quei condizionamenti naturali a cui fuori di sé è costretto a sottostare. Da depressiva, l’emozione del sublime dinamico diventa così esaltativa e l’angoscia trapassa in entusiasmo, perché l’uomo scopre la sua autonomia e la sua libertà nei confronti della natura:
‘
l’impossibilità di resistere alla potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza in quanto esseri della natura, cioè la nostra debolezza fisica, ma ci scopre contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità che abbiamo su di essa […]. In tal modo la natura, nel nostro giudizio estetico, non è giudicata sublime in quanto è spaventevole, ma perché essa incita quella forza che è in noi (e che non è natura) a considerare come insignificanti quelle cose che ci preoccupano (i beni, la salute e la vita), e perciò a non riconoscere nella potenza naturale (a cui siamo sempre sottoposti relativamente a tali cose) un (Critica del Giudizio, par. 28) duro impero [dominio, potere] su di noi e sulla nostra personalità.
UnitÀ 6 KANT Capitolo 4 la Critica del Giudizio
È bene notare, a questo punto, che per Kant le due forme (matematica e dinamica) del La dialettica sublime presuppongono entrambe una certa levatura d’animo, senza la quale il sublime si del sublime riduce semplicemente al “terribile”. Ma, nel caso di individui di «una certa cultura», allora si avvia il processo dialettico per cui il dispiacere si tramuta in piacere, l’impotenza in potenza. E, come abbiamo detto, è proprio il capovolgimento di un’esperienza che in virtù dell’immaginazione ci fa sentire piccoli di fronte al grande, in un’altra esperienza che, in virtù della ragione e delle sue idee di infinito e di dignità morale, ci fa sentire più grandi del grande stesso, a renderci consapevoli della sublimità del nostro essere. Da quest’ultimo punto di vista, per Kant il sublime si differenzia dunque dal bello: mentre quest’ultimo sgorga dalla consonanza e dall’equilibrio dell’immaginazione e dell’intelletto, e ci procura calma e serenità di fronte a una forma armonica, il sublime nasce dalla rappresentazione dell’informe e si nutre del contrasto tra immaginazione sensibile e ragione, provocando fremito e commozione. Il bello e il sublime sono però accomunati dal presupporre, come loro condizione, il soggetto o la mente, che si configura pertanto come il trascendentale dell’esperienza estetica, cioè come la sua possibilità e il suo fondamento. Inoltre, entrambi «piacciono per sé stessi» e «non presuppongono un giudizio dei sensi né un giudizio determinante dell’intelletto, ma un giudizio di riflessione» (Critica del Giudizio, par. 23). ( T2 p. 576)
)
Per l’esposizione orale
Differenze e analogie tra il sublime e il bello
1. Esponi la concezione kantiana dell’arte. 2. Spiega che cosa intende Kant con il termine «genio». 3. Riassumi brevemente l’analisi kantiana del sublime. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Rifletti sulle analogie istituite da Kant tra la contemplazione del sublime e il rispetto del dovere: condividi l’idea che si tratti di esperienze che ci fanno percepire la nostra natura spirituale, ovvero la nostra capacità di elevazione rispetto alla natura e alle sue leggi? Motiva la tua risposta richiamando almeno un esempio di “sublime matematico” o “dinamico” di cui hai fatto esperienza. SNODI PLURIDISCIPLINARI storia dell’arte
L’analisi estetica kantiana che abbiamo presentato riguarda soprattutto la bellezza naturale, ma abbiamo visto che nei suoi passaggi teorici principali può essere applicata anche alle opere d’arte. Scegli una o più opere tra quelle studiate quest’anno nel programma di storia dell’arte e prova a rintracciarvi i fattori che ne fanno un’opera “bella” secondo le quattro definizioni offerte da Kant e secondo la sua concezione della bellezza come armonia tra immaginazione e intelletto.
6. I giudizi sulla finalità della natura Abbiamo detto che la finalità del reale, oltre ad essere intuìta immediatamente nel giudizio estetico, può anche essere pensata mediatamente, in virtù del concetto di “fine”, nel giudizio teleologico. Vediamo quindi l’analisi kantiana di questo secondo tipo di giudizio riflettente. Per Kant l’unica visione scientifica del mondo è quella meccanicistica, basata sulla categoria Le cause finali di causa-effetto e sui giudizi determinanti. Egli afferma tuttavia che la nostra mente possie- negli organismi e nella natura de una tendenza irresistibile a pensare finalisticamente, cioè a scorgere nella natura l’esistenza di cause finali, sia intrinseche sia estrinseche.
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Infatti, di fronte a un organismo vivente, noi non possiamo fare a meno di ritenere che vi sia un fine o un progetto che spiega la reciproca subordinazione delle parti al tutto (si pensi alla funzione dei diversi organi in vista della conservazione dell’intero organismo). Analogamente, di fronte all’ordine generale della natura, non possiamo fare a meno di «concepire una causa suprema [Dio] che agisce con intenzione» (Critica del Giudizio, par. 75). Tanto più che, se ci trasportiamo in sede etica, avvertiamo l’interiore esigenza di credere che la natura, in virtù della sapienza ordinatrice di un Dio creatore, sia organizzata in modo da rendere possibile la nostra libertà e la nostra moralità, e sia quindi tutta quanta “predisposta” finalisticamente in virtù della nostra specie, poiché «senza l’uomo», cioè senza un essere ragionevole, «la creazione sarebbe un semplice deserto» (Critica del Giudizio, par. 86). Il carattere Tuttavia, ben consapevole del fatto che in filosofia non è lecito trasformare i bisogni in realtà, non teoretico Kant ribadisce che il giudizio teleologico, con tutto ciò che esso implica (Dio), è pur sempre del giudizio teleologico privo di valore teoretico, in quanto il suo assunto di partenza, cioè la finalità, non è un dato
verificabile, ma soltanto un nostro modo di vedere il reale. Certo, noi non potremo mai fare a meno di misurarci con una rappresentazione teleologica della natura, in quanto il meccanicismo, secondo Kant, non è in grado di offrire una spiegazione soddisfacente e totale dei fenomeni naturali, e in particolare degli organismi viventi:
‘
non c’è nessuna ragione umana […] che possa sperare di comprendere secondo cause (Critica del Giudizio, par. 77) meccaniche la produzione sia pure di un filetto d’erba.
Ciò non toglie che si abbia il «dovere», come scrive testualmente il filosofo, di spiegare causalmente e meccanicisticamente «tutti i prodotti e gli avvenimenti della natura, anche quelli che rivelano la più grande finalità» (Critica del Giudizio, par. 78). In altri termini, pur potendosi integrare proficuamente con la spiegazione meccanicistica, e pur potendo svolgere il ruolo di principio euristico per la ricerca di leggi particolari della natura, il modello teleologico non può affatto sostituire quello meccanicistico nella spiegazione della natura, e non può pretendere di valere teoreticamente o scientificamente. L’antinomia In conclusione, anche per evitare l’«antinomia del giudizio teleologico» – che costituisce del giudizio l’oggetto specifico della Dialettica del giudizio teleologico, e che deriva dal considerare i printeleologico e la sua soluzione cìpi semplicemente regolativi del giudizio riflettente come princìpi costitutivi degli oggetti –
è opportuno considerare il finalismo come una sorta di promemoria critico, che da un lato ci ricorda i limiti della visuale meccanicistica, fungendo da “guida” per la ricerca, e dall’altro ci rammenta l’intrascendibilità dell’orizzonte fenomenico per giungere a una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali. Pur lasciando intendere che il finalismo, escluso dall’ambito fenomenico, possa risultare valido in quello del noumeno, Kant si rifiuta dunque, anche nella terza Critica, di procedere oltre la scienza e il fenomeno. Saranno invece i romantici che, pur muovendo da Kant, pretenderanno di andare oltre Kant, facendo irruzione nel mondo “vietato” della cosa in sé, e trasformando i postulati della morale e le esigenze del sentimento in altrettante realtà.
)
Per l’esposizione orale
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1. Illustra la tendenza tipica della mente umana dalla quale, secondo Kant, nasce il giudizio teleologico. 2. Spiega il rapporto che per Kant deve intercorrere fra il determinismo meccanicistico e il finalismo.
UnitÀ 6 KANT Capitolo 4 la Critica del Giudizio
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 4 LA CRITICA DEL GIUDIZIO La facoltà del sentimento La Critica del Giudizio nasce dal tentativo di conciliare il mondo deterministico della conoscenza con il mondo libero della morale. Oltre alle due attività del conoscere e dell’agire (studiate rispettivamente nella Critica della ragion pura e nella Critica della ragion pratica), Kant riconosce l’esistenza di una terza facoltà, autonoma rispetto alle precedenti: si tratta del
• sentimento
(in tedesco Gefühl) la capacità di cogliere la finalità del mondo (esclusa sul piano fenomenico dalla prima Critica e ammessa sul piano noumenico dalla seconda Critica).
Grazie al sentimento, noi formuliamo un tipo di giudizi che si differenzia dai giudizi teoretici. Kant distingue infatti tra:
• giudizi determinanti
i giudizi conoscitivi o scientifici studiati nella Critica della ragion pura; sono chiamati “determinanti” perché “determinano” gli oggetti fenomenici mediante le forme a priori dello spazio, del tempo e delle categorie;
• giudizi riflettenti
i giudizi formulati mediante il «sentimento» (v.) e studiati da Kant nella Critica del Giudizio; sono chiamati “riflettenti” perché si limitano a “riflettere” su un mondo naturale già “determinato” dai giudizi teoretici, e ad interpretarlo attraverso le esigenze di finalità e di armonia proprie di tutti gli esseri umani.
Pertanto Kant formula la seguente definizione generale del
• Giudizio
l’“organo” dei giudizi riflettenti, ovvero la funzione o capacità tipica della facoltà del «sentimento» (v.), che funge da «termine medio tra l’intelletto e la ragione» (Critica del Giudizio, “Introduzione”, III).
Kant divide poi i giudizi riflettenti in:
• giudizi estetici, o giudizi di gusto
giudizi riflettenti in cui la finalità della natura è colta in modo intuitivo o immediato, attraverso il sentimento di piacere o dispiacere che essa suscita (finalità soggettiva o formale);
• giudizi teleologici
giudizi in cui la finalità della natura è “pensata” (concettualmente) mediante l’intelletto e la ragione, i quali attribuiscono agli enti naturali un “fine” (finalità oggettiva o reale).
La definizione della bellezza Diversamente da quanto fatto nella Critica della ragion pura, nella Critica del Giudizio Kant restituisce al termine “estetica” il suo significato tradizionale di “dottrina dell’arte e della bellezza”. Egli definisce dunque il
• bello
(in tedesco Schöne) ciò che piace nel giudizio di gusto, ovvero ciò che «piace senz’altro» (Critica del Giudizio, par. 5), distinguendosi sia dal piacevole (ciò che piace ai sensi) sia dal buono (ciò che piace alla ragione, per il suo concetto).
Dopo aver ricondotto (o ridotto) la bellezza all’ambito del giudizio estetico, Kant ne offre quattro definizioni, elaborate sulla base della tavola delle categorie: secondo la qualità, il bello è ciò che piace «senza alcun interesse»; secondo la quantità, il bello è ciò che piace «universalmente senza concetto»; secondo la relazione, il bello è ciò che piace per la sua finalità, ma «senza la rappresentazione di uno scopo»; secondo la modalità, il bello è ciò che, «senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario».
L’universalità dei giudizi estetici Tra i caratteri della bellezza, Kant sottolinea in particolare l’universalità; se nel giudizio estetico la bellezza è vissuta come qualcosa che deve essere condiviso da tutti, ciò è possibile perché il piacere estetico puro (oggetto dei «giudizi estetici puri») nasce dalla sola contemplazione della “forma” di un oggetto, a differenza del piacere sensibile (oggetto dei «giudizi estetici empirici»), che invece è sempre legato a un certo “contenuto” sensoriale e alle inclinazioni individuali, e quindi a elementi mutevoli e soggettivi. All’universalità dei giudizi di gusto contribuisce anche il fatto che il loro oggetto specifico non è la
• bellezza aderente
la bellezza di un oggetto colta in riferimento a un determinato modello o concetto di perfezione, il quale dipende sempre da considerazioni intellettuali o pratiche variabili nel tempo,
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bensì la
• bellezza libera
la bellezza che non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto contemplato “dovrebbe essere”.
Kant si pone tuttavia la seguente domanda: «com’è possibile un giudizio che dal solo sentimento particolare di piacere per un oggetto, e indipendentemente dal concetto di questo, proclami a priori, senz’aver bisogno di attendere il consenso altrui, che quel piacere inerisce alla rappresentazione dell’oggetto in ogni altro soggetto?» (Critica del Giudizio, par. 36). La soluzione kantiana consiste nel fondare l’universalità estetica sulla comune struttura della mente umana. Più precisamente, Kant spiega che il giudizio estetico nasce da un «libero gioco» dell’immaginazione (cioè della fantasia) con l’intelletto, in virtù del quale l’immagine della cosa appare rispondente alle esigenze dell’intelletto, generando un senso di armonia che è appunto l’effetto dell’equilibrato intreccio tra queste due facoltà dell’animo. Poiché tale meccanismo risulta identico in tutti gli uomini, si spiegano l’universalità del giudizio estetico e la presenza di un «senso comune» del gusto. In ciò consiste la «deduzione dei giudizi estetici puri». Su queste basi Kant risolve l’«antinomia del gusto» ribadendo che, se il giudizio di gusto non si basa su concetti, in quanto non è un giudizio di conoscenza, esso si basa però su quella facoltà del Giudizio (mediante la quale viene intuita la finalità soggettiva della natura) che è comune a ogni essere umano. Radicando il giudizio di gusto e la sua universalità nella mente umana, Kant perviene anche in ambito estetico a quella stessa rivoluzione copernicana a cui era già pervenuto in ambito gnoseologico ed etico. In virtù di questo capovolgimento di prospettiva, che pone il baricentro del giudizio estetico nel soggetto anziché nell’oggetto, il bello si chiarisce non come una proprietà oggettiva delle cose, ma come un qualcosa che nasce soltanto per la mente umana e in rapporto ad essa.
La bellezza artistica Il giudizio di gusto non si riferisce soltanto alla bellezza naturale, ma anche a quella artistica, prodotta dal
• genio
(Genie) la facoltà umana che fa da tramite fra la natura e l’arte, in quanto si tratta di un «talento», ovvero di un dono naturale mediante il quale l’artista «dà la regola all’arte» (Critica del Giudizio, par. 46), ovvero crea opere armoniche e piacevoli.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 4 la Critica del Giudizio
Kant individua le caratteristiche peculiari del genio: 1. nell’originalità o creatività; 2. nella capacità di produrre opere che servono da modelli o esemplari per altri; 3. nell’impossibilità di mostrare scientificamente come si realizza la produzione artistica.
Il sublime Accanto alla trattazione del bello, nell’estetica di Kant trova posto anche la trattazione di un tema che il filosofo di Königsberg riprende da Edmund Burke (17291797), ovvero il
• sublime
(das Erhabene) l’oggetto di un giudizio estetico che nasce dal sentimento provato di fronte a entità naturali smisuratamente grandi (sublime matematico) o potenti (sublime dinamico).
La grandezza e la potenza della natura ci rendono consapevoli della nostra finitezza e piccolezza, ma ci fanno anche avvertire la nostra grandezza spirituale, testimoniata dal fatto che siamo portatori delle idee della ragione, e in particolare dell’idea di infinito (suscitata dal sublime matematico) e dell’idea di dignità morale (suscitata dal sublime dinamico). Sulla base di questo legame tra estetica e morale, Kant afferma che sublime per eccellenza è la legge morale. Il sublime per Kant si differenzia dal bello, perché quest’ultimo sgorga dalla consonanza e dall’equilibrio tra immaginazione e intelletto, procurandoci serenità di fronte a una forma armonica, mentre il sublime nasce dalla rappresentazione dell’informe e si nutre del contrasto tra immaginazione sensibile e ragione, provocando in noi turbamento. Il bello e il sublime sono però accomunati dal presupporre il soggetto, cioè la mente umana, come loro condizione e fondamento.
I giudizi teleologici Analizzando i «giudizi teleologici» (v.), Kant osserva che tutti gli esseri umani sentono l’esigenza di scorgere negli enti naturali (soprattutto viventi) delle cause finali. Tuttavia la finalità della natura non può essere provata scientificamente: il finalismo è necessario perché l’intelletto incontra limiti ben precisi nella spiegazione meccanica del mondo, ed è perciò portato a una considerazione di tipo teleologico; ma il giudizio teleologico deve essere utilizzato soltanto a fini euristici e regolativi.
MAPPE
CAPITOLO 4 LA CRITICA DEL GIUDIZIO IL SENTIMENTO è una facoltà che consente di cogliere
la finalità delle cose e di formulare
giudizi riflettenti che si dividono in
che sono
diversi dai giudizi determinanti della scienza
giudizi estetici
giudizi teleologici
perché
nei quali
nei quali
riflettono su un oggetto già “determinato” dal nostro intelletto mediante le forme a priori di spazio, tempo e categorie
la finalità della natura è colta in modo immediato o intuitivo
la finalità della natura è colta in modo mediato o concettuale, attraverso la nozione di “fine”
IL BELLO è
l’oggetto del giudizio estetico e si configura come
ciò che piace senza alcun interesse
ciò che piace universalmente senza concetto
ciò che è percepito come finalità senza scopo
ciò che è riconosciuto intuitivamente come oggetto di un piacere necessario
infatti
infatti
infatti
infatti
i giudizi estetici sono puramente contemplativi e disinteressati
i giudizi estetici hanno la pretesa di valere per tutti indipendentemente dalla conoscenza
i giudizi estetici colgono l’armonia delle parti e una finalità non esprimibile in concetti
i giudizi estetici presuppongono un accordo tra diversi soggetti, pur non potendolo giustificare intellettualmente
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IL GIUDIZIO ESTETICO PURO si riferisce alla contemplazione
di ciò che piace ai sensi
e non
della “forma” di un oggetto
della bellezza libera
della bellezza aderente
e non
e
ha la caratteristica dell’universalità poiché si fonda sulla
comune struttura della mente umana («senso comune» estetico)
IL SUBLIME si divide in
suscita nell’essere umano
sublime matematico
sublime dinamico
che ha per oggetto
che ha per oggetto
la grandezza della natura
la potenza della natura
un senso di inferiorità nei confronti della natura
la consapevolezza della propria grandezza spirituale
IL GIUDIZIO TELEOLOGICO
572
deriva
ha un valore
dall’esigenza del soggetto di scorgere nella natura l’esistenza di cause finali
euristico e regolativo, non teoretico o dimostrativo
UnitÀ 6 KANT Capitolo 4 la Critica del Giudizio
CAPITOLO 4 LA CRITICA DEL GIUDIZIO
Il giudizio estetico
Kant suddivide i giudizi riflettenti in giudizi estetici, che vertono sulla bellezza, e giudizi teleologici, che vertono sui fini della natura. In realtà anche il giudizio estetico concerne (in quanto giudizio riflettente) la finalità della natura, la quale però viene percepita come soggettiva, cioè come rispondente alle esigenze di armonia insite nel soggetto stesso. TESTO
1
Alcune caratteristiche del giudizio di gusto (Critica del Giudizio) IL TESTO NELL’OPERA Nel 1790 Kant pubblica la Critica del Giudizio perché – come spiega nella “Prefazione” all’opera – sente la necessità di completare il suo “sistema della critica”. Nelle prime due Critiche Kant ha studiato, rispettivamente, il mondo fenomenico, dominato dal meccanicismo e dalla causalità, e il mondo noumenico, proteso verso la libertà e il finalismo. Nella terza Critica egli cerca di conciliare questi aspetti contrapposti, e lo fa introducendo il concetto di giudizio “riflettente”. A differenza del giudizio “determinante” (o giudizio sintetico a priori) mediante il quale il soggetto conosce gli oggetti, il giudizio “riflettente” permette al soggetto di riflettere, come uno specchio, la realtà interiore su quella esterna. La Critica del Giudizio si articola in due parti: la Critica del giudizio estetico, a sua volta suddivisa in Analitica del giudizio estetico (che tratta del bello e del sublime) e Dialettica del giudizio estetico (che introduce l’antinomia del gusto), e la Critica del giudizio teleologico, a sua volta suddivisa in Analitica del giudizio teleologico (che tratta del giudizio sulla finalità della natura) e Dialettica del giudizio teleologico (che introduce l’antinomia del giudizio). Nel testo seguente sono evidenziati i primi due caratteri che Kant attribuisce al giudizio estetico: il disinteresse e l’universalità che deve accompagnare la fruizione del bello.
Un giudizio Si dà il nome di interesse alla soddisfazione che congiungiamo alla rappresentazione scevro da ogni dell’esistenza d’un oggetto. […] Ora, però, quando ci si chiede se una cosa è bella, non si 2 interesse
vuole sapere se a noi o a chiunque altro importi o possa importare qualcosa dell’esistenza della cosa; ma, piuttosto, come noi la giudichiamo da un punto di vista puramente con- 4 templativo (per intuizione o riflessione). […]. Chiunque deve riconoscere che un giudizio sul bello cui si mescoli il più piccolo interesse, è molto parziale, e non costituisce un giudi- 6 zio di gusto puro. […]
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Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione. […] Ogni soddisfazione (si dice, o si pensa) è in sé sensazione (di piacere), di conseguenza, tutto ciò che piace, per il fatto stesso che piace, è piacevole (e, a seconda dei diversi gradi o rapporti con altre sensazioni piacevoli, grazioso, amabile, delizioso, lieto, ecc.). Ma, se si ammette questo, le impressioni dei sensi, che determinano l’inclinazione, i princìpi della ragione, che riguardano la volontà, o le forme meramente riflesse dell’intuizione, che determinano il Giudizio, vengono a identificarsi quanto all’effetto sul sentimento di piacere. Non si tratterebbe infatti d’altro che della gioia che si prova nel sentire il proprio stato; e poiché ogni elaborazione delle nostre facoltà deve infine rivolgersi al pratico e qui trovare unità come nel suo scopo, non si potrebbe attribuire loro altra stima delle cose e del loro valore che non consista nel piacere ch’esse promettono. […] Il colore verde dei prati è una sensazione oggettiva, in quanto percezione d’un oggetto del senso; la gradevolezza invece è una sensazione soggettiva, mediante la quale nessun oggetto è rappresentato: vale a dire, un sentimento, nel quale l’oggetto viene considerato come oggetto di soddisfazione (e non di conoscenza). […] È buono ciò che, mediante la ragione, piace per il puro e semplice concetto. Parliamo di buono a qualcosa (utile), quando ci piace soltanto come mezzo; altre cose le chiamiamo buone in sé, quando ci piacciono per se stesse. In entrambi i casi è sempre implicito il concetto di fine, quindi il rapporto della ragione con una volontà (almeno come possibilità), quindi la soddisfazione per l’esistenza di un oggetto o di un’azione, vale a dire un qualche interesse. Per trovar buono qualcosa, devo sempre sapere che specie di cosa l’oggetto debba essere, cioè averne un concetto. Per trovarvi la bellezza, questo non mi è indispensabile. I fiori, i disegni liberi, quei tratti intrecciati a caso che vanno sotto il nome di fogliame, non significano nulla, non dipendono da concetti definiti, eppure piacciono. La soddisfazione che dà il bello deve dipendere dalla riflessione sopra un oggetto, la quale conduce ad un qualche concetto (senza determinarlo precisamente), distinguendosi perciò dal piacevole, che riposa interamente sulla sensazione. […] Definizione del bello desunta dal primo momento Il gusto è la facoltà di giudicare d’un oggetto o d’una specie di rappresentazione, mediante una soddisfazione o insoddisfazione scevra d’ogni interesse. L’oggetto d’una tale soddisfazione si dice bello. […]
8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36
Un giudizio Questa definizione del bello si può dedurre dalla precedente, di oggetto d’una soddisfa- 38 che aspira zione del tutto scevra d’interesse. Infatti, quando si è consapevoli del fatto che la soddisfaall’universalità
zione che proviamo per qualcosa è del tutto disinteressata, non possiamo fare a meno di ritenere che contenga un motivo di soddisfazione per tutti. Infatti qui non ci si basa su qualche inclinazione del soggetto (né su qualche altro interesse riflesso): chi giudica si sente completamente libero nei confronti della soddisfazione con cui si volge all’oggetto, per cui non riesce ad attribuire tale soddisfazione ad alcuna circostanza particolare, esclusiva del proprio oggetto, e deve quindi considerarla fondata su ciò che può presupporre in ogni altro: di conseguenza dovrà credere d’aver motivo di attendersi da ciascun altro una simile soddisfazione. Parlerà pertanto del bello, come se la bellezza fosse una proprietà dell’oggetto, ed il giudizio fosse logico […]. Infatti, per quanto il giudizio sia soltanto estetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell’oggetto con il soggetto, è analogo al giudizio logico sotto questo profilo, che se ne presuppone la validità per ognuno. Ma questa universalità non può scaturire neppure da concetti. Infatti dai concetti non si dà passaggio al sentimento di piacere o di dispiacere […]. Ne consegue che al
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giudizio di gusto si deve annettere, con la consapevolezza del suo carattere disinteressato, una pretesa di validità universale, senza che tale universalità poggi sull’oggetto; vale a di- 54 re, la pretesa ad una universalità soggettiva deve essere legata al giudizio di gusto. […] Definizione del bello desunta dal secondo momento 56 È bello ciò che piace universalmente senza concetto. (Critica del Giudizio, Analitica del bello, 5-6, 7-10, 16-18, a cura di A. Bosi, utet, Torino 1993)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Un giudizio scevro da ogni interesse (rr. 1-37) La prima caratteristica del giudizio di gusto è il disinteresse, laddove per “interesse” Kant intende la correlazione tra l’esistenza dell’oggetto rappresentato e il desiderio da parte del soggetto che contempla. Si contesta qui una linea di pensiero che postulava il legame tra il piacere e il soddisfacimento di un bisogno, e quindi tra il piacere e l’esistenza dell’oggetto mediante cui soddisfare il bisogno (proviamo piacere, ad esempio, quando, avendo voglia di un gelato, lo gustiamo ovvero quando siamo riusciti a procurarcelo). Al contrario, secondo Kant il piacere disinteressato è l’unico a produrre autentici giudizi di gusto; dovunque si mescoli un interesse, il giudizio risulterà infatti in qualche modo “inquinato” da considerazioni di natura estranea. Gli oggetti del piacere interessato sono il piacevole e il buono, che costituiscono rispettivamente il livello inferiore e quello superiore dell’interesse: Kant ne analizza dunque i tratti, per mostrare come non debbano essere presi in considerazione in un giudizio di gusto che voglia essere autentico. Il piacevole è l’oggetto del sentimento così come appare nella sensazione e non in forma pura. Quando si giudica bella una cosa sulla base della sua piacevolezza, si opera una sorta di “contaminazione” del sentimento con la sensazione: il carattere “impuro” del piacevole risiede, cioè, nel fatto che nel giudizio del piacevole non
viene percepito soltanto il soggetto (il suo stato interno o sentimento), ma anche l’oggetto; questo fa sì che il piacere non risulti disgiunto, come si converrebbe, dalla conoscenza. Il buono è ciò che suscita piacere in quanto o è considerato un fine o è considerato utile al raggiungimento di un fine. Anche in questo caso il piacere non è puro, ma “inquinato” non più da aspetti di tipo conoscitivo (come nel caso del piacevole), ma dalle argomentazioni della ragione. Un giudizio che aspira all’universalità (rr. 38-57) La seconda caratteristica del giudizio di gusto è l’universalità. Il carattere dell’universalità è strettamente collegato a quello del disinteresse, in quanto il giudizio di gusto, proprio perché nasce da un sentimento disinteressato, ovvero completamente libero, ci pare debba scaturire da una caratteristica “oggettiva”, cioè riconosciuta da tutti. In questo senso, il piacere estetico è universale e necessario. Esso, però, non può richiamarsi a un concetto dell’intelletto che lo fondi e lo dimostri. Questo significa che si tratta di una universalità “contingente”, nel senso che noi non siamo certi che tutti la riconoscano, sebbene lo “pretendiamo”. È una universalità soggettiva, che, non potendo essere fondata (come quella oggettiva) su giudizi determinanti, dovrà essere basata sui giudizi di gusto.
Per Kant il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza: la sua universalità pertanto è contingente e indimostrabile. Questo significa che è impossibile fornire regole assolute per la bellezza, come si farebbe ad esempio per un processo biologico o chimico. Anche tu, come Kant, ritieni che i giudizi estetici si basino sul sentimento oppure pensi che si debba presupporre una qualche conoscenza per soddisfarne le pretese universalistiche? Rispondi in un testo scritto (max 30 righe), argomentando il tuo punto di vista.
TESTI KANT
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
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TESTO
2
Il bello e il sublime (Critica del Giudizio) La trattazione del sublime, se da un lato riflette un interesse assai diffuso presso i filosofi dell’epoca, dall’altro lato acquista in Kant un peso teorico piuttosto rilevante. Nel corso della sua analisi, infatti, il filosofo si accorge che il giudizio estetico “puro” è, di fatto, difficilmente formulabile e comincia ad ammettere, se non ad accettare esplicitamente, la possibilità che nella valutazione del bello rientrino anche fattori “interessati”. Tali sono appunto i caratteri che concorrono strutturalmente alla definizione del sublime. Come emerge dal testo riportato di seguito, le caratteristiche del sublime vengono esposte da Kant, almeno in prima battuta, attraverso un confronto con i caratteri del bello.
I tratti comuni Il bello e il sublime concordano in questo, che entrambi piacciono per se stessi. Entrambi
inoltre non presuppongono un giudizio dei sensi o un giudizio logico determinante, ma un 2 giudizio riflettente […].
Qualità e Balzano però anche agli occhi considerevoli differenze. Il bello naturale riguarda la forma 4 quantità dell’oggetto, che è limitazione; il sublime al contrario si può trovare anche in un oggetto
informe, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata tutta- 6 via nella sua totalità; sicché pare che il bello debba essere considerato la presentazione d’un concetto indeterminato dell’intelletto, il sublime d’un concetto indeterminato della 8 ragione. Nel primo caso quindi la soddisfazione è legata alla rappresentazione della qualità, nel secondo a quella della quantità. 10
Piacere Anche tra i due tipi di soddisfazione c’è molta differenza: mentre il bello implica direttapositivo e mente un sentimento di intensificazione della vita, e si può perciò conciliare con le attrat- 12 piacere negativo tive e con il gioco dell’immaginazione, il sentimento del sublime invece è un piacere che
scaturisce in modo indiretto, venendo prodotto dal senso d’un momentaneo impedimento delle forze vitali, seguito da una tanto più forte effusione di queste; e perciò, in quanto emozione, non sembra essere qualcosa di giocoso, ma di serio, tra le occupazioni dell’immaginazione. Quindi è anche inconciliabile con le attrattive; e, dato che l’animo non è solamente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, la soddisfazione del sublime non è tanto un piacere positivo, ma merita piuttosto, accompagnata com’è da ammirazione o rispetto, d’essere detta piacere negativo.
14 16 18 20
Armonia Ma la più importante ed intima differenza tra il sublime e il bello è la seguente: se, com’è e caos giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il sublime degli oggetti 22
naturali (quello dell’arte è limitato sempre dalla condizione che s’accordi con la natura), la bellezza naturale (indipendente) comprende nella sua forma una finalità, per cui l’oggetto sembra come predisposto per il nostro Giudizio, ponendosi così come autonomo oggetto di soddisfazione; mentre ciò che, nella semplice apprensione e senza che ci mettiamo a ragionare, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, quanto alla forma, urtante per il nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà di presentazione e per così dire violento contro l’immaginazione, ma proprio per questo sarà giudicato più sublime. […] Ma in ciò che siamo soliti chiamare sublime c’è così poco di riducibile a princìpi determinati ed a forme della natura ad essi adeguate, che questa anzi suscita più facilmente le idee del sublime quando in lei dominano il caos, il disordine e la devastazione più selvaggi, purché si manifestino grandezza e potenza. E da ciò vediamo che il concetto di sublime naturale è di gran lunga meno importante e ricco di conseguenze di quello del bello naturale […]. (Critica del Giudizio, Analitica del sublime, 74-76, 78, cit.)
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE I tratti comuni (rr. 1-3) L’esperienza del sublime è affine a quella del bello in primo luogo per il carattere disinteressato della contemplazione. In secondo luogo, così come il bello, anche il sublime non riguarda tanto un oggetto, quanto un sentimento: anch’esso appartiene quindi alla sfera della soggettività. Qualità e quantità (rr. 4-10) Ma, rispetto al bello, il sublime presenta anche fondamentali differenze: se il bello è un sentimento di tranquillità, di ordine, di euritmia, al contrario il sublime è la rottura di questi equilibri. Esso può scaturire anche dalla contemplazione di un oggetto informe, laddove il bello risiede invece nella percezione di una forma ordinata e limitata; inoltre corrisponde a un concetto (per quanto «indeterminato», r. 8) della ragione, laddove il bello si imparenta piuttosto con l’intelletto (il quale “pensa”, ovvero determina qualitativamente). Piacere positivo e piacere negativo (rr. 11-20) Il sublime fornisce un piacere «indiretto» (r. 14), perché conseguente alla risoluzione di un conflitto, di un momento di tensione, mentre il piacere provocato dal bello si impone subito a noi, in quanto in pieno accordo
con la tensione vitale che ci anima; inoltre fornisce un piacere “misto”, detto qui «negativo» (r. 20), poiché procura una contemplazione commossa se non addirittura agitata, in cui l’attrazione per l’oggetto si alterna alla repulsione, mentre il piacere tipico del bello è sempre positivo e apporta tranquillità. Armonia e caos (rr. 21-34) La «più importante ed intima differenza» (r. 21) tra il bello e il sublime consiste però nel fatto che, mentre il primo scaturisce da oggetti che vengono percepiti come armonicamente finalizzati al nostro spirito (alla nostra facoltà del Giudizio), il secondo nasce da oggetti che, al contrario, sembrano urtarlo, ostacolarlo, procurandogli tuttavia proprio in questo modo il piacere del superamento o dell’allontanamento dell’ostacolo. Benché in queste righe Kant sembri sminuire l’importanza del sublime, in realtà conferirà ad esso (in particolare al sublime matematico) un ampio spazio, collegandolo alla cosiddetta «bellezza aderente», ossia all’oggetto di quei giudizi di gusto non del tutto “puri”, in cui alle considerazioni disinteressate se ne aggiungono altre di carattere logico-conoscitivo o morale.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI KANT
Concordi con l’idea espressa da Kant, in base alla quale dalla contemplazione della forza straordinaria e devastante della natura può scaturire «un momentaneo impedimento delle forze vitali, seguito da una tanto più forte effusione di queste» (rr. 14-15)? Riporta l’esito della tua riflessione in un testo scritto (max 30 righe), in cui argomenti il tuo punto di vista.
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FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
L’INFINITO E IL SUBLIME TRA ARTE E FILOSOFIA La pittura romantica e l’infinito La pittura paesaggistica romantica ritrae con particolare interesse l’altezza vertiginosa delle montagne, la distesa senza fine del mare, le rupi impervie, i boschi cupi e solitari, la vivida esplosione di un vulcano. Ma non è la natura in sé ad attirare l’attenzione degli artisti romantici, bensì il sentimento dell’infinito che essa suscita, e che si concretizza nel senso di solitudine e di smarrimento provato dall’essere umano di fronte all’immensità e all’impeto della natura. Esemplari, da questo punto di vista, sono le opere del pittore tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840), che può forse essere considerato il più significativo rappresentante della pittura romantica.
Il monaco di fronte al mare Nel dipinto intitolato Monaco in riva al mare (1808-1810, fig. 1) il senso romantico dell’infinito assume una radicalità inconsueta grazie ad una sorta di astrazione e rarefazione dei colori. Dal basso verso l’alto, la scena mostra infatti un’esile striscia di sabbia che contrasta con la distesa infinita di un mare livido, il quale a sua volta lascia spazio a un cielo nebbioso che ricopre la maggior parte della tela.
La sagoma del monaco è appena visibile, posta fra terra e acqua, e quasi si perde nella sovrapposizione di fasce orizzontali che si distinguono tra loro soltanto per le gradazioni cromatiche.
Il viandante di fronte alle nebbie L’opera di Friedrich che viene comunemente additata come la più rappresentativa dell’estetica del sublime è però Il viandante sul mare di nebbia (1818, fig. 2). Su una roccia scura, in primo piano, si erge la figura di un viandante che si affaccia su di un indistinto “mare” di nebbia. La scena è dunque incentrata su due elementi: la natura osservata e l’osservatore, il quale si smarrisce nel suo stupefacente spettacolo. L’uomo, però, è ritratto di spalle, quasi a voler attirare il nostro sguardo non su di sé, ma sulle nebbie lontane che egli stesso sta contemplando.
Il sublime che abita l’animo umano Nella pittura di Friedrich l’immensità della natura si fa metafora degli abissi dell’animo umano: dell’animo dello spettatore raffigurato (il monaco o il viandante), ma anche dello spettatore che osserva il dipinto dall’esterno. La natura diventa così “paesaggio sentimentale”, manifestazione esteriore dell’interiorità del soggetto. In questo senso l’opera di Friedrich richiama in modo evidente la concezione del sublime di Kant, il quale con la sua “rivoluzione copernicana” estetica (simile a quella attuata in campo gnoseologico) ne aveva sottolineato il carattere soggettivo e spirituale.
1. Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-1810, olio su tela, Berlino, Alte Nationalgalerie.
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Nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764) e nella successiva Critica del Giudizio (1790) Kant afferma infatti che il sublime, proprio come il bello, non riguarda le “cose” ma il “soggetto” che le contempla, anche se a suscitare in lui questo sentimento sono l’immensità fisica della natura o la sua smisurata potenza. Per Kant, lo spettacolo sublime della natura produce infatti uno stato d’animo ambivalente, di repulsione e attrazione a un tempo: di fronte all’infinito, da un lato l’essere umano prova «dispiacere» e «spavento» (sia perché la sua immaginazione non riesce a “com-prendere” le grandezze infinite, sia perché si sente fragile di fronte all’infinita potenza della natura), ma dall’altro lato prova un piacere fatto di «meraviglia e stima», perché, di contro alla propria miseria e limitatezza fisica, scopre la propria grandezza spirituale. Non a caso Kant collega il sublime al «rispetto», specificando che la natura può suscitare «stupore» e «ammirazione» ma mai rispetto, poiché quest’ultimo si può provare, in senso proprio, soltanto di fronte alla grandezza dell’essere umano quale soggetto morale, che è capace di vincere dentro di sé la forza della natura che contempla fuori di sé:
‘
La sublimità non risiede […] in nessuna cosa della natura, ma soltanto nell’animo nostro, quando possiamo accorgerci di essere superiori alla natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi (in quanto ha influsso su di noi). (I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo e V. Verra, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 201)
Fra l’estetica del sublime e l’etica del dovere Kant individua una profonda connessione: come il sublime estetico, che ci spaventa e ci attira a un tempo, anche il dovere impostoci dalla ragione ci procura insieme dispiacere e piacere, in quanto esige l’umiliazione delle nostre pulsioni egoistiche, ma nello stesso tempo ci fa assaporare
LABORATORIO
2. Caspar David Friedrich, Il viandante sul mare di nebbia, 1818, olio su tela, Amburgo, Kunsthalle.
il piacere della libertà, «innalzandoci sopra noi stessi», oltre la prigionia e i limiti dei meccanismi naturali:
‘
Dovere! Nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole che implichi lusinga, ma che chiedi la sottomissione; che tuttavia non minacci niente donde nasca nell’animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell’animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione (se non sempre osservanza). (I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 106)
In questa prospettiva acquista una nuova luce anche la conclusione della Critica della ragion pratica, da cui Kant trasse la scritta che volle incisa sulla propria tomba:
‘
Due cose colmano l’animo di ammirazione e riverenza sempre nuova e crescente […]: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me. (I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., pp. 197-198)
COMPETENZE Individuare i nessi tra la filosofia, le altre forme del sapere
e gli altri linguaggi | Collaborare e partecipare | Progettare
COMPITO DI REALTÀ
Immagina di essere un operatore culturale e di dover guidare una classe di studenti della tua età in visita a una mostra virtuale intitolata “L’estetica del sublime nella pittura ottocentesca”. • Con l’aiuto dei docenti di storia dell’arte e di filosofia svolgi una ricerca (nei manuali scolastici, in biblioteca o in Internet) per scegliere le opere da presentare.
• Una volta individuato l’ordine delle opere, redigi per ciascuna di esse un testo di inquadramento storico-artistico e di analisi concettuale, evidenziandone i legami con le nozioni filosofiche di “infinito” e “sublime”. Non dimenticare di premettere al percorso un breve testo introduttivo che spieghi le finalità della mostra e i criteri seguiti per allestirla.
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CAPITOLO 5 LE RIFLESSIONI SULLA RELIGIONE, SUL DIRITTO E SULLA STORIA 1. La religione Di religione Kant si occupa largamente già nella Critica della ragion pratica e, in seguito, nell’opera La religione entro i limiti della sola ragione (1793). Questo scritto viene però condannato dal governo prussiano, che ingiunge al filosofo di «usare meglio il suo ingegno» e di astenersi dallo scrivere su temi religiosi. Kant inizialmente obbedisce, ma dopo la morte di Federico Guglielmo II, con l’ascesa al trono del più tollerante Federico Guglielmo III (1797) pubblica sull’argomento un altro libro, dal titolo Il conflitto delle facoltà (1798). Una fede In generale, Kant non crede a una fede interamente basata sulla dottrina, sui dogmi, sull’as“razionale” senso cieco a un corpus di teorie teologiche. È invece convinto che la vera fede si fondi su
valori e doveri morali che possono essere considerati comandamenti divini, ma che sono già presenti nella ragione di tutti gli esseri umani. E Dio – che, come sappiamo, per Kant non può essere oggetto di conoscenza intellettiva – è visto come la meta di una speranza razionalmente fondata (in grado di rispondere all’interrogativo: “Che cosa mi è lecito sperare?”).
Il rapporto tra religione razionale e religione rivelata La definizione Abbiamo visto ( cap. 2, p. 507) come nella prima Critica non si riconosca alcuna funzione e i compiti di tipo conoscitivo a Dio, il quale in via del tutto ipotetica potrebbe essere concepito come della religione
un intelletto infinito che coglie in sé, intuitivamente e direttamente, tutte le cose, ma che non ha alcun ruolo effettivo nella conoscenza umana. E abbiamo visto ( cap. 3, p. 543) come nella seconda Critica l’assoluto – in quanto espressione del «sommo bene» asserito in forma di postulato dalla ragion pratica – possieda un peculiare ruolo etico, definito per via interamente razionale. Qual è allora lo spazio specifico della religione nella filosofia kantiana? Per rispondere occorre partire dalla definizione che Kant elabora della religione:
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il riconoscimento di tutti i doveri come comandamenti divini, non come sanzioni, cioè comandi arbitrari e per sé stessi fortuiti di una volontà estranea, ma come leggi essenziali di ogni volontà in sé stessa libera, che tuttavia debbono esser viste come comandi dell’essere supremo, perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona) e nello stesso tempo onnipotente possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci fa un dovere di proporci come oggetto dei nostri sforzi e che perciò possiamo sperare di raggiungere (Critica della ragion pratica, A 233) attraverso l’accordo con questa volontà.
In sostanza, per Kant alla religione non spetta il compito di condurre l’essere umano alla moralità, ma, al contrario, è alla moralità che spetta il compito di farlo pervenire alla religione, intesa come riferimento assoluto dei valori morali riconosciuti dalla ragione.
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Di per sé, la morale è autonoma e fondata sulla ragione, e pertanto non richiede la religione; tuttavia essa opera nel quadro di una «connessione necessaria» con la nozione di «sommo bene». Fin qui la religione di cui parla Kant è completamente razionale. Restano dunque da chiarire i nessi di tale religione con quella rivelata. Inoltre va esplicitato il ruolo della fede, che non può essere ridotta a un atteggiamento esclusivamente intellettualistico e che merita in ogni caso un approfondimento, soprattutto dal punto di vista antropologico. In effetti, Kant circoscrive la sua analisi alla religione razionale, ma ammette che, anche restando in quest’ambito, è possibile sviluppare un atteggiamento autenticamente religioso. La religione razionale è infatti costituita da un insieme di convinzioni che l’uomo può riconoscere e accettare con le sole forze della ragione; ma, da un punto di vista storico, essa può anche trarre origine da una rivelazione, sebbene possa affermarsi e perdurare soltanto se si accorda con la ragione.
L’accordo della religione razionale con quella rivelata
Quanto al contenuto, il rapporto tra religione rivelata e religione razionale è descritto Le differenze da Kant come quello tra due cerchi concentrici. La prima ha infatti un’ampiezza maggio- di contenuto re e contiene la seconda, che dunque ne costituisce il nucleo razionale. Ma in che cosa consiste il “di più” della religione rivelata? Una risposta esplicita a questo interrogativo si trova nel Conflitto delle facoltà:
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Ciò che noi abbiamo motivo di credere sulla base di argomenti storici (poiché a tale proposito non vale alcun dovere), cioè la rivelazione in quanto dottrina di fede in sé contingente, è considerato inessenziale, anche se non per questo inutile e superfluo; poiché essa [la rivelazione] serve a supplire alla carenza teoretica della pura fede razionale – carenza che non la nega, per esempio nelle questioni sull’origine del male, sul passaggio da questo al bene, sulla certezza dell’uomo di trovarsi in quest’ultimo stato e simili – ed è inoltre di aiuto per il contributo maggiore o minore che essa dà, secondo la differenza delle circostanze di tempo e delle persone, come soddisfacimento di un bisogno razionale su questi punti. (Il conflitto delle facoltà, “Prefazione”, in Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1989, pp. 233-234)
La religione rivelata riesce dunque a offrire spiegazioni più convincenti su alcuni temi esistenziali fondamentali, come la presenza del male nel mondo o la conversione degli animi al bene, ma a sua volta deve essere sottoposta al vaglio della ragione. È infatti necessario discriminare le forme autentiche di religiosità da quelle irrazionali e dalle superstizioni, che invece allontanano l’uomo dall’agire etico. Kant legge dunque la Bibbia in modo da reinterpretare e intendere la sua narrazione come una serie di proposizioni morali, che nel loro insieme costituiscono una religione “naturale”, ossia tale che «gli uomini avrebbero potuto e dovuto, col semplice uso della loro ragione, giungervi da sé stessi» (La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 170). Insomma, Kant non pone un discrimine netto tra i due tipi di religione. Così come il teologo biblico parte dalla rivelazione, ma cerca sempre di produrre un fondamento razionale per le sue osservazioni, allo stesso modo il filosofo resta nel campo della riflessione razionale, ma trae dalla religione rivelata un aiuto per ampliare le sue considerazioni e per risolvere alcuni problemi sui quali la ragione a volte si mostra impotente o insoddisfacente. A proposito invece della forma, Kant osserva che la religione rivelata si rivolge all’essere Le differenze umano intero, costituito non soltanto dalla ragione, ma anche dalla sensibilità. I simbo- di forma li religiosi traducono i princìpi teologici (e morali) astratti in forme che sono comprensibili a tutti, e ciò è valutato positivamente da Kant, anche se un’umanità davvero matura potrebbe fare a meno di queste concessioni alla sensibilità.
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La concezione del male e del bene Passando a esaminare più nel dettaglio i contenuti della religione razionale, Kant è costretto a confrontarsi con il problema del male e della sua compatibilità con l’esistenza di un Dio buono e onnipotente. Evocato già nel libro biblico di Giobbe, il problema del male era stato affrontato, tra gli altri, da Leibniz, il quale, alludendo specificamente al tentativo di “giustificare” Dio scagionandolo dall’accusa di essere il responsabile del male nel mondo, aveva coniato il termine «teodicea» ( unità 3, cap. 4). Il «male Affrontando a sua volta questo argomento, Kant rileva nell’uomo un’insopprimibile tenradicale» denza al negativo, che indica con l’espressione male radicale . L’essere umano è cattivo e i suoi gradi
per natura, e si tratta di una caratteristica che non si può “dedurre” aprioristicamente dall’essenza umana, ma che tutti constatiamo per esperienza. glossario p. 596 La tendenza al male presenta tre gradi: la fragilità, ossia la difficoltà a mettere in pratica i precetti morali; l’impurità, ossia l’abitudine a mescolare i precetti morali con altri intenti meno nobili; la malvagità, ossia il farsi guidare per intero da motivazioni estranee alla morale.
Il male come Per Kant le cause del male radicale non risiedono né nella sensibilità (secondo la lezione delle peccato scuole di orientamento sensistico, dagli epicurei agli illuministi), né nella società (come sosten-
gono Seneca e Rousseau), e nemmeno in un pervertimento della ragione, che di per sé è ottima legislatrice (altrimenti dovremmo ammettere che l’essere umano ha una natura diabolica). Piuttosto, il male radicale esiste perché l’uomo, pur riconoscendo le norme morali, è libero di anteporvi i propri impulsi sensibili e particolari, come l’amore di sé. L’inclinazione al male è dunque un atto libero, che deve essere imputato esclusivamente all’essere umano, come un peccato di cui egli solo si rende colpevole.
Il bene come Secondo Kant, tuttavia, anche la disposizione al bene è originaria quanto la disposizioprogresso ne al male. Infatti, se nell’uomo è presente il male radicale come effetto del suo libero arincessante
bitrio, dalla medesima libertà umana deriva anche la possibilità di praticare il bene e di «trovarsi sulla via buona (sebbene stretta) di un progresso incessante dal male al meglio» (La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p. 51). Questo passaggio dal male al bene è denominato da Kant conversione , e inteso come un atto interiore che produce un continuo e infinito miglioramento morale, un avvicinamento a un ideale che non si compie mai del tutto. L’essere umano sa che, se le sue forze non saranno sufficienti al raggiungimento dell’obiettivo, riceverà un aiuto da Dio, il quale conosce le sue intenzioni. In altre parole, Kant (memore di un aspetto basilare dell’etica protestante) riconosce il valore della grazia divina, pur subordinandolo all’impegno morale dell’uomo. glossario p. 596
L’attuazione Per quanto la conversione di cui parla Kant sia un ideale, ovvero un’idea astratta, tuttavia essa dell’ideale della si incarna in una persona che rappresenta in concreto la perfezione morale dell’umanità: il conversione in Cristo Cristo, inteso però non tanto come individuo storico, quanto come ideale che l’essere umano
deve trovare dentro di sé. Il Cristo è quindi il Verbo di cui parla l’evangelista Giovanni, visto non come principio o causa della creazione, ma piuttosto come suo fine. Questo principio o ideale, sebbene si sia concretizzato soltanto in un certo momento storico, è sempre stato presente nell’interiorità dell’uomo, anche prima della nascita di Gesù:
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il buon principio non è certo sceso dal cielo nell’umanità in una determinata epoca: ma fin dall’origine del genere umano, in modo invisibile. (La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p. 89)
Più che come il figlio di Dio o il redentore dell’umanità, il Cristo è quindi considerato da Kant prevalentemente come una disposizione morale.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
La concezione della Chiesa A questa particolare lettura della figura del Cristo fa riscontro in Kant una concezione della La Chiesa Chiesa come comunità etica. A differenza della comunità giuridica, nella quale le norme come comunità morale sono imposte ai cittadini da un’autorità esterna, la comunità ecclesiastica richiede una libera e convinta adesione interiore. Se nella prima forma di comunità il legislatore (il governo) si ferma a considerare l’interesse comune e richiede un comportamento che sia (almeno) esteriormente in linea con le norme, nella seconda il legislatore (Dio) prescrive i veri doveri, cioè quelli morali, e li valuta in base all’intenzione (che è invece indifferente alla legge dello Stato). Le leggi divine sono dunque quelle morali, e soltanto Dio è in grado di conoscere gli autentici moventi dell’agire umano, e di giudicare della loro moralità o immoralità. La Chiesa di Kant è quindi la «Chiesa invisibile», cioè la «semplice idea della riunione di tutti i giusti sotto l’immediato ma morale governo universale divino, che serve di modello a ogni altro governo fondato dagli uomini» (La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p. 108). Diversa è la «Chiesa visibile» che si manifesta nelle istituzioni ecclesiastiche, la quale deve essere giudicata in base alla sua conformità a quella invisibile. La Chiesa che noi conosciamo, pertanto, non è l’ideale, ma l’attuazione di un ideale, nella limitata e imperfetta misura in cui gli uomini sono in grado di tradurre in concreto la perfezione di un modello astratto. Essendo un’istituzione umana, la Chiesa visibile non può e non deve rinunciare al principio di autorità e ad un’organizzazione gerarchica, né al ricorso ai dogmi, ai testi sacri e alla liturgia. Essa, tuttavia, deve avere come obiettivo non la mera osservanza esteriore dei precetti religiosi da parte dei suoi membri, ma la loro fede e la loro disposizione morale. Il culto autentico, infatti, secondo Kant consiste nella condotta morale.
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Per l’esposizione orale
La distinzione tra Chiesa invisibile e visibile
ESERCIZI
1. Illustra la relazione che secondo Kant intercorre fra religione, morale e ragione. 2. RIFLESSIONE CRITICA Condividi l’idea kantiana secondo cui, in virtù della libertà che la caratterizza, la natura dell’essere umano è bivalente, cioè potenzialmente sia malvagia sia buona? Argomenta la tua risposta. 3. Spiega la differenza istituita da Kant tra la Chiesa “visibile” e “invisibile”.
2. Il diritto e lo Stato L’etica kantiana è stata spesso accusata di mancare – a differenza di quella aristotelica – di un adeguato concetto di “prassi”. In altre parole, essa si fermerebbe al livello astratto dei princìpi e non riuscirebbe a indicare comportamenti concreti in linea con i valori che propone. La seconda Critica sarebbe insomma affetta da soggettivismo e da astoricità, restando chiusa nella sfera delle intenzioni del singolo, senza sapersi confrontare con la molteplicità delle situazioni reali. In tal senso si sono espressi pensatori e storici della filosofia dell’Ottocento e del Novecento, da Hegel a Nietzsche, da Scheler a Hartmann. Questa posizione diventa però difficilmente sostenibile se si pensa all’ampiezza e alla profondità de La metafisica dei costumi (1797), dove, pur sempre partendo dal carattere universale e formale dell’imperativo categorico, Kant cerca di indicare quali obblighi concreti possano essere legittimati come autenticamente morali.
Dall’astrattezza della morale alla concretezza del diritto
La seconda parte dell’opera – intitolata “Fondamenti metafisici della dottrina della virtù” – L’articolazione è dedicata al comportamento concreto individuale (che si incarna nelle virtù come nelle della Metafisica dei costumi propensioni del carattere).
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La prima – dedicata ai “Fondamenti metafisici della dottrina del diritto” – si occupa invece di come possa attuarsi la morale nelle istituzioni che governano la coesistenza umana, e specificamente nel diritto e nello Stato. Anzi, proprio la duplice articolazione della Metafisica dei costumi mostra come Kant, al pari di Aristotele, cerchi una saldatura tra la dimensione privata e pubblica dei valori, tra la loro affermazione di principio e la loro manifestazione di fatto nel comportamento. Di problemi analoghi Kant tratta anche in lavori meno conosciuti, come l’Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798), le lezioni di Pedagogia (1803) e alcuni scritti politici considerati minori.
La concezione del diritto Il compito Kant ritiene che il diritto trovi la propria attuazione non in un insieme di princìpi astratti, della filosofia bensì negli ordinamenti effettivi che costituiscono il diritto positivo, cioè nelle istituzioni nei confronti del diritto politiche e nei codici. Pertanto la filosofia deve individuare i princìpi metafisici o a priori
del diritto, ma non può compierne una deduzione interamente razionale. Per giustificare la validità dei princìpi giuridici, i filosofi sono infatti costretti a tenere in considerazione anche l’esperienza: gli elementi empirici sono essenziali, perché servono a specificare gli ambiti di applicazione del diritto. Come afferma Kant:
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il concetto del diritto, sebbene sia un concetto puro, è tuttavia orientato alla prassi. (La metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 3)
In altre parole, la filosofia non è in grado di costruire l’intero sistema del diritto e non può sostituirsi né al legislatore né al giudice. Ma questi ultimi non possono fare a meno della filosofia, perché altrimenti mancherebbero dei fondamenti su cui istituire leggi razionali e giuste. La sfera Per Kant il diritto attiene alla sfera della libertà esteriore e riguarda: del diritto 1. le azioni che la persona compie in un contesto collettivo, anche e soprattutto nei con-
fronti degli altri; 2. le regole che normano quelle azioni; 3. i princìpi da cui tali regole vengono dedotte. Nel diritto, al contrario di quanto accade nella sfera pratica, ciò che conta è dunque l’azione, e non l’intenzione che la produce. Ad esempio, se le clausole di un contratto vengono rispettate, non ha alcun rilievo se tale adempimento sia frutto dell’onestà dei contraenti o del loro timore di incorrere in sanzioni penali.
La critica Posto che il diritto riguarda le relazioni esteriori delle persone, Kant afferma che le norme dell’anarchismo giuridiche non possono essere assenti nelle società umane, altrimenti s’instaurerebbe e del positivismo giuridico una situazione di caos e di violenza.
A questa presa di posizione contro l’anarchismo, il filosofo affianca però anche una considerazione di fondo contro il positivismo giuridico (per il quale le leggi, una volta poste dal sovrano, valgono di per sé), affermando che le norme non devono essere arbitrarie, cioè affidate (come voleva Hobbes) a un legislatore assoluto la cui opera è indiscutibile.
I fondamenti razionali del diritto Il metodo Poiché il compito del diritto è rendere possibile la convivenza delle persone ancor prima di trascendentale ogni loro esperienza, anche nell’ambito giuridico Kant segue l’impostazione trascendentale
già scelta per gli altri ambiti. Tant’è che egli non prende in considerazione antiche e ricor-
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
renti questioni di filosofia politica (quali la natura pacifica o aggressiva dell’uomo, o il suo carattere bellicoso o spontaneamente sociale nello stato di natura). Kant non è per niente interessato a ricostruire storicamente la genesi dello Stato, né a studiare come si siano costituiti gli Stati moderni. Per lui la comunità giuridica è un insieme di soggetti responsabili che traggono dalla ragione la notizia dei loro diritti: essa, dunque, è in primo luogo un elemento ideale e regolativo, e non un “fatto”. I diritti degli esseri umani valgono indipendentemente dalle condizioni storiche e da La sintesi ogni altra contingenza. Hanno infatti un carattere universale radicato nella natura a priori giuridica razionale dell’uomo. Più in dettaglio: ogni uomo deve poter godere per intero di quella libertà che rappresenta la condizione imprescindibile di ogni agire pratico. Il metodo trascendentale di Kant, ovvero la sua «sintesi a priori giuridica», consiste proprio in questo: nel mostrare che tutte le categorie giuridiche non prendono le mosse dalla considerazione di fatti (storici o ideali che siano, come la necessità per l’uomo di sopravvivere o di vivere in pace nel benessere e nell’indipendenza economica), bensì dall’analisi di quanto è intrinseco alla natura razionale umana. Quella di Kant è dunque un’indagine sul fondamento a priori della convivenza civile, consistente, in concreto, nel giustificare i principali istituti giuridici mediante alcuni princìpi razionali a priori. Il primo diritto individuale che uno Stato deve tutelare è la libertà esteriore, il che è possibile non in una situazione di libertà illimitata, perché questa, contraddittoriamente rispetto ai suoi stessi presupposti, porterebbe alla distruzione della libertà di tutti. Al contrario, è necessaria una limitazione della libertà di ciascuno per consentire la libertà di tutti. Kant legittima così la costrizione, senza la quale non potrebbe esserci un ordinamento finalizzato alla convivenza. Tuttavia la costrizione è ammissibile, ed è perciò diritto, soltanto nella misura in cui respinge l’ingiustizia. Da ciò la celebre definizione kantiana del diritto : glossario p. 596
La giustificazione della forza costrittiva del diritto
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l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà. (La metafisica dei costumi, cit., pp. 34-35)
Il fondamento della legittimità del diritto sta proprio in questo concetto, il quale esprime la misura dell’equità, e perciò della razionalità, delle norme giuridiche: legittime sono soltanto quelle norme che consentono la convivenza, ossia che obbediscono alla regola della mutua limitazione della libertà individuale. Afferma Kant: Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà (La metafisica dei costumi, cit., p. 35) di ognuno, secondo una legge universale.
Questa regola è pertanto il corrispettivo, nell’ambito della legalità universale, dell’imperativo categorico morale. Le forme Kant divide il diritto in: «innato», che è dato a ciascuno dalla natura, indipendentemente da ogni atto giuridico; del diritto «acquisito», che nasce soltanto da un atto giuridico. Il diritto acquisito si distingue poi in: diritto «privato», che definisce la legittimità e i limiti del possesso delle cose esterne; diritto «pubblico», che concerne la vita associata degli individui in una comunità giuridicamente ordinata; questa comunità è lo Stato.
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La teoria dello Stato Il contrattualismo Per quanto riguarda la genesi dello Stato, Kant abbraccia il contrattualismo. Egli deriva kantiano da Hobbes l’idea che i rischi dello stato di natura conducano alla fondazione razionale
OFFICINA CITTADINANZA Sovranità popolare e diritti politici p. 108
dello Stato; da Locke la convinzione che esistano dei diritti umani inalienabili; sempre da Locke e da Montesquieu la tesi della divisione dei poteri; da Rousseau la concezione della volontà collettiva come unico principio adeguato per la formazione del diritto positivo. Nella prospettiva trascendentale kantiana, il contratto sociale – che il filosofo chiama anche contratto originario – non è un “fatto” o un evento storico, bensì una necessità concettuale che precede e rende possibili tutti i “fatti” e tutti gli eventi: si tratta dunque di un’idea pura (a priori) della ragion pratica, e più precisamente del modello a cui devono tendere e conformarsi i contratti e le politiche reali. glossario p. 596
La critica alla Da questi presupposti deriva la critica kantiana alla Rivoluzione francese. È noto che Kant, Rivoluzione come altri intellettuali tedeschi, simpatizzò con la fase iniziale della Rivoluzione, ma fu francese
inorridito dalla violenza del Terrore, che egli attribuì al fatto che Robespierre, anziché mirare all’interesse collettivo, aveva mascherato i propri interessi, presentandoli come se fossero quelli dell’intera nazione francese. Più in generale, al di là dell’entusiasmo iniziale per gli avvenimenti rivoluzionari che all’epoca sconvolsero la Francia, Kant non ammette la legittimità della rivoluzione, né il diritto di resistere a un potere pubblico legale: egli è convinto che un potere costituito possa essere soltanto riformato, e non rovesciato con la violenza. L’unica sfera legittima del dissenso è quella della libera critica e della «libera penna», ossia dell’uso pubblico e critico della ragione e della libertà di espressione.
Il fine Per quanto concerne i fini dello Stato, Kant si contrappone alla concezione prevalente, che dello Stato attribuiva allo Stato – cioè, di fatto, al sovrano – il compito di orientare i sudditi alla felicità.
Egli afferma che tale pretesa è assurda, poiché la felicità è qualcosa di assolutamente personale e incomunicabile. Lo Stato, a ben guardare, non ha un fine proprio, poiché quest’ultimo coincide in realtà con i fini molteplici degli individui: pertanto deve limitarsi a fare in modo che ciascun individuo possa raggiungere liberamente i propri scopi.
Il liberalismo In altre parole, Kant può essere considerato uno dei padri fondatori del liberalismo mokantiano derno e uno dei suoi maggiori filosofi, poiché per lui lo Stato non deve preoccuparsi né
ESERCIZI
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 802
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della salvezza dell’anima dei cittadini (come pretenderebbe di fare uno Stato confessionale), né della realizzazione delle loro virtù (come pretenderebbe uno Stato etico), né della regolamentazione globale dell’economia (come pretenderebbe uno Stato comunista), né della felicità dei sudditi (come pretenderebbe uno Stato eudemonistico o paternalistico). Lo Stato deve preoccuparsi soltanto di porre i cittadini nella condizione giuridica di perseguire, come meglio credono, i fini religiosi, etici, economici, eudemonistici che ritengono più appropriati e consoni ai loro progetti di vita. Oltre che liberale, lo Stato kantiano, come ha puntualizzato Norberto Bobbio, è quindi “giuridico”, ossia uno “Stato di diritto”, che ha come funzione specifica l’istituzione di un ordinamento in cui, in base alla definizione criticistica del diritto, ciascuno possa coesistere con gli altri secondo una legge universale. Oltre che liberale e giuridico, lo Stato di Kant può inoltre essere detto “formale”, poiché non si occupa di che cosa debbano fare i cittadini, ma di come devono farlo. In altre parole, a questo tipo di Stato non interessa propriamente quello che fanno i cittadini, ma che quello che essi fanno sia fatto in modo da non ledere gli altri e la loro libertà. UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
Su questi punti la dottrina di Kant è lucida e rigorosa. Al punto che Bobbio ha scorto in essa «una delle migliori formulazioni, ancora oggi valide, della concezione liberale dello Stato», aggiungendo che «è proprio per la chiarezza con cui Kant esprime questo concetto della libertà come fine dello Stato che il suo pensiero politico e giuridico merita di essere ancora attentamente studiato» (Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, Torino 1969, p. 231).
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Per l’esposizione orale
1. Che cos’è per Kant il diritto e per quali aspetti si differenzia dalla morale? 2. Presenta la peculiare interpretazione del contratto sociale offerta da Kant. 3. Spiega perché lo Stato descritto da Kant deve essere considerato “liberale”, “giuridico” e “formale”. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la convinzione di Kant che non si possano intraprendere azioni rivoluzionarie o violente contro il potere costituito, ma che per ottenere un cambiamento nel vivere collettivo l’unica via legittima sia quella della pubblica critica. Che cosa ne pensi? Motiva la tua risposta, possibilmente supportandola con esempi tratti dall’attualità o dalla storia recente.
3. La costruzione della pace Nell’ambito della riflessione politica kantiana, una trattazione a sé merita lo scritto Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, redatto in occasione della pace firmata a Basilea da Francia e Prussia il 5 aprile 1795. In quest’opera, che è stata definita «uno degli scritti più suggestivi e giustamente famosi di Kant» (Augusto Guerra), il filosofo affronta il tema della pace tra gli Stati presentandolo nell’insolita forma di un trattato internazionale. Questo è composto da sei «articoli preliminari» (che vertono sulle condizioni necessarie per eliminare le principali ragioni di guerra tra gli Stati) e da tre «articoli definitivi» (che vertono sulle condizioni necessarie per stabilire una pace durevole). Gli articoli In sintesi, gli articoli preliminari affermano che: 1. nessun trattato di pace può ritenersi tale, se è siglato con la tacita riserva che possano preliminari in futuro presentarsi nuovi pretesti o motivi di conflitto; 2. nessuno Stato indipendente può essere acquisito da un altro per successione ereditaria o per via di scambio, «compera» o donazione; 3. gli eserciti permanenti di ogni Stato devono con il tempo interamente scomparire; 4. non si possono contrarre debiti pubblici in vista di un’azione bellica contro altri Stati; 5. nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato; 6. nessuno Stato in guerra con un altro deve permettere atti ostili che renderebbero impossibile la reciproca fiducia nella pace futura. Gli articoli Gli articoli definitivi enunciano invece tre esigenze o condizioni fondamentali: definitivi 1. la costituzione di ogni Stato deve essere «repubblicana»; 2. il diritto internazionale deve fondarsi su una «federazione» di liberi Stati; 3. il «diritto cosmopolitico» deve limitarsi a indicare le condizioni di un’universale «ospitalità». L’analisi di questi tre articoli è particolarmente utile per ricostruire il ragionamento complessivo di Kant.
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La costituzione di un «ordinamento cosmopolitico» L’esigenza di un Considerando la concreta situazione politica del suo tempo e dei secoli precedenti, Kant ordinamento osserva che le norme che favoriscono la sicurezza regolando i rapporti giuridici tra le pergiuridico sovra-statale sone valgono soltanto all’interno di ciascuno Stato, ossia in un orizzonte troppo ristretto
perché possano garantire anche la pace a livello internazionale. È quindi necessario che le regole per la coesistenza pacifica si estendano all’esterno degli Stati, ovvero ai rapporti tra un Paese e l’altro. Questi ultimi, infatti, in mancanza di un ordinamento giuridico sovra-statale, vivono in una sorta di stato di natura bellicoso, in cui domina il diritto del più forte. In altre parole, quello stesso stato di natura che vigeva tra gli individui prima della costituzione della società civile, in seguito continua a valere nei rapporti tra gli Stati:
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Considerati in quanto Stati, i popoli possono essere giudicati come fossero singoli uomini che, nel reciproco stato di natura (ossia nell’indipendenza da leggi esterne), si ledano già con l’essere l’uno vicino all’altro, e ognuno dei quali può e deve esigere dall’altro, per la sua sicurezza, di entrare con lui in una costituzione analoga a quella civile, in cui ciascuno possa essere assicurato del suo diritto. (Per la pace perpetua, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 173-174)
QUESTIONE La guerra: follia da evitare o tragica necessità? (Kant, Hegel) p. 788
Kant è però convinto che, come nel passato la natura ha indotto gli uomini a edificare la società civile per sottrarli a una condizione di libertà illimitata e distruttiva, così in futuro essa li indurrà a uscire dalla condizione di lotta che da sempre caratterizza i rapporti internazionali. Sorgerà così un ordine giuridico mondiale fondato sulla collaborazione e sulla pace tra i popoli, al quale Kant si riferisce con il termine-chiave «Weltbürgertum», che letteralmente significa ordinamento cosmopolitico . glossario p. 597
L’ordinamento Il processo delineato da Kant non è però un processo necessario, cioè destinato ad attuarcosmopolitico si necessariamente, poiché la condizione di pace a cui tende non è un «Naturstand», ossia come compito
uno stato di natura, bensì un «gesetzlicher Zustand», cioè uno stato legale affidato alla razionalità umana. Esso, pertanto, non ha alcuna intrinseca garanzia di realizzazione, e si configura piuttosto come un compito da perseguire:
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Se è dovere, e se è insieme una fondata speranza, realizzare lo stato di un diritto pubblico, sebbene soltanto in un avvicinamento che procede all’infinito, allora la pace perpetua […] (Per la pace perpetua, cit., p. 204) non è un’idea vuota, ma un compito.
La prima Come sancito dal primo articolo definitivo, per Kant la realizzazione di questo compito ricondizione: chiede quale sua prima condizione (secondo un processo avviato dalla Rivoluzione franla costituzione repubblicana cese) l’avvento di un regime “repubblicano” all’interno degli Stati. La «costituzione
OFFICINA CITTADINANZA Pace e ripudio della guerra p. 118
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repubblicana» (nell’accezione kantiana dell’espressione, che non rimanda necessariamente a una repubblica nel senso odierno del termine, ma a un regime che può essere anche monarchico, purché tuteli la libertà e l’uguaglianza giuridica di tutti gli individui) implica infatti – se correttamente applicata – la necessità dell’assenso di tutti i cittadini per poter dichiarare guerra. Ciò porterebbe quindi a una fortissima riduzione del numero dei conflitti, poiché il popolo sarebbe costretto a riflettere a lungo prima di iniziare «un così cattivo gioco», cioè prima di imbarcarsi in un’impresa destinata a ripercuotersi negativamente soprattutto su sé stesso. Al contrario, in una costituzione non repubblicana il sovrano non è “parte” dello Stato, «ma ne è il proprietario», e quindi può affrontare la guerra come se si trattasse di una «specie di partita di piacere». Tanto più – osserva Kant – che la guerra non priva i sovrani assoluti dei loro abituali privilegi e dei loro consueti divertimenti (banchetti, battute di caccia ecc.). UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
EDUCAZIONE CIVICA
SVILUPPO SOSTENIBILE
LA FILOSOFIA CHE VIVE L’attualità del progetto cosmopolitico di Kant
L’apparente ineluttabilità degli scontri bellici, ancora oggi frequenti in gran parte del mondo, ha indotto molti filosofi della politica a domandarsi se e come si possa concretamente costruire una pace duratura. A questo proposito lo scritto kantiano Per la pace perpetua (1795) risulta di grande attualità e interesse. Un diritto internazionale per abitare pacificamente la Terra Il progetto kantiano di una «pace perpetua» si fonda sull’idea di applicare il modello giusnaturalistico e contrattualistico, originariamente pensato per il rapporto tra gli individui, all’ambito dei rapporti tra gli Stati. Questi ultimi, infatti, secondo Kant persistono in un hobbesiano «stato di natura» in cui vale la legge del più forte: in assenza di un potere sovra-statale, la guerra finisce per apparire come l’unico strumento per dirimere le controversie internazionali, e dunque legittima e, in un certo senso, legale. Per uscire da questa condizione occorre che, proprio come gli individui, anche gli Stati rinuncino a far valere con la forza i loro diritti e rinuncino a una parte della loro volontà
La Statua dell’Europa (o Unità in pace) di Bernard Romain, realizzata nel 2003 e collocata a Bruxelles, nel cortile della biblioteca della sede della Commissione Europea.
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RICERCA E DISCUSSIONE
Pace, giustizia e istituzioni solide
VIDEO
(o sovranità), trasferendo parte del loro potere a un organismo politico superiore e sovra-nazionale, a cui devono sottomettersi tutti in uguale misura. Sorgerebbe così un nuovo «ordine giuridico mondiale», fondato sulla consapevolezza che il mondo è la “casa di tutti”, una casa in cui l’umanità deve poter «socializzare – come dice Kant – in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra. E proprio questa fratellanza dei popoli, accomunati da un atteggiamento di reciproca ospitalità, è considerata da Kant una delle condizioni necessarie per il nascere di una pacifica «federazione» tra Stati: Qui [nel terzo articolo definitivo], come nei precedenti articoli, non è questione di filantropia, ma di diritto, e in tal senso ospitalità significa diritto di ogni straniero a non essere trattato ostilmente quando arriva in un territorio altrui. (Per la pace perpetua, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 1997, p. 16)
Le basi kantiane dell’Unione Europea All’idea federalista kantiana è riconducibile il passaggio «dagli Stati sovrani agli Stati uniti d’Europa» auspicato dal Manifesto di Ventotene (1943). Redatto da Altiero Spinelli (1907-1986) ed Ernesto Rossi (1897-1967) durante il loro confino nell’isola di Ventotene, mentre l’Europa era dilaniata dalla Seconda guerra mondiale, il Manifesto di Ventotene viene considerato il testo fondativo del federalismo europeo. In esso si legge infatti: Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani. (A. Spinelli - E. Rossi, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano 2006, p. 12)
Oggi, a più di duecento anni dalla stesura dello scritto Per la pace perpetua, l’idea kantiana di una «federazione mondiale di popoli liberi» (resa più concreta grazie all’esperienza europea) e quella dell’ospitalità per stranieri che chiedono asilo appaiono a molti storici e politologi come l’unica vera alternativa all’uso della violenza nei rapporti internazionali. INDICAZIONI OPERATIVE A casa, analizza gli articoli 10 e 11 della Costituzione italiana, che sanciscono, rispettivamente, il dovere dell’accoglienza nei confronti dei cosiddetti “rifugiati politici” e il consenso dell’Italia, «in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni». In classe, sotto la guida dell’insegnante, chiarite in che senso gli articoli 10 e 11 della nostra Carta costituzionale accolgano la prospettiva kantiana sul tema della pace, e intavolate una libera discussione sulle modalità effettive della loro attuazione e sulle loro ricadute concrete. TEMA
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La seconda La «costituzione repubblicana», tuttavia, rappresenta una condizione necessaria ma condizione: non ancora sufficiente per raggiungere una pace internazionale che sia «perpetua», la federazione di Stati cioè stabile e permanente. La pace, infatti, per non essere relegata nel «grande cimite-
ro dell’umanità», richiede un secondo basilare elemento, vale a dire l’unione di tutti i popoli in una «federazione di liberi Stati» capace di eliminare non una guerra, ma tutte le guerre. Gli Stati, insomma, devono stringere tra loro un patto da cui nasca un organismo giuridico internazionale o sovra-statale, ovvero un ordine legale mondiale.
La terza Infine, la condizione espressa nel terzo degli «articoli definitivi» riguarda l’accoglienza condizione: degli stranieri, che Kant considera un tema fondamentale. Se il diritto statale regola il l’universale diritto all’accoglienza rapporto cittadino-Stato, e il diritto internazionale i rapporti tra gli Stati, il diritto co-
smopolitico deve regolare i rapporti tra uno Stato e i cittadini degli altri Stati. Lo straniero – osserva Kant – non va trattato con ostilità, ma a sua volta non deve approfittare dell’«ospitalità» che gli viene offerta per disgregare la cultura dello Stato ospitante. Il filosofo ricorda a questo proposito i disastri provocati dalle società commerciali europee, che, dopo essere state accolte pacificamente in terra straniera, ne hanno sfruttato le risorse e corrotto i costumi.
Il rapporto tra la filosofia e la politica L’importanza Nella seconda edizione della Pace perpetua (1796), ai sei articoli preliminari e ai tre definidei suggerimenti tivi Kant aggiunge un articolo «segreto», secondo il quale dei filosofi le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pubblica pace devono essere prese (Per la pace perpetua, cit., p. 187) in considerazione dagli Stati armati per la guerra.
‘ ‘
Kant spiega il senso della “segretezza” dell’articolo precisando che per l’autorità legislativa di uno Stato potrebbe apparire sminuente accogliere dai sudditi (quali sono, in fondo, anche i filosofi) insegnamenti sul modo di comportarsi nelle cose pubbliche e nei confronti degli altri Stati. Tuttavia, egli chiarisce che farlo sembra molto consigliabile. Dunque lo Stato li inviterà tacitamente (perciò facendone un segreto) a dare questi insegnamenti, ciò significa: esso li farà parlare liberamente. (ibidem)
La reciproca Secondo il filosofo Norberto Bobbio (1909-2004), il fatto che gli Stati debbano disporsi ad libertà di ascoltare le riflessioni e i consigli dei filosofi dimostra che per Kant la ragione umana, di politici e intellettuali cui i filosofi rappresentano l’espressione più alta, è al di sopra della potenza dello Stato,
il quale non può né cancellarla, né limitarla. «Ma vuol dire anche un’altra cosa – aggiunge Bobbio – che i filosofi (noi diremmo oggi più genericamente gli uomini di cultura, gli intellettuali) hanno qualcosa da dire ai potenti che stringono nel loro pugno le sorti degli uomini. Non sono visionari fuori del tempo, né aridi ripetitori di cose morte; ma stanno, devono stare, accanto ai potenti per ammaestrarli». Questo non significa che per Kant i politici debbano diventare filosofi o che i filosofi (questo sì che sarebbe un sogno di «visionari»…) debbano fare i politici. Il filosofo auspica soltanto che i politici, facendo (bene) i politici, lascino ai filosofi la libertà di fare i filosofi. Egli chiede, d’altra parte, che i filosofi, facendo (bene) i filosofi, non si chiudano nella torre d’avorio delle loro speculazioni, ma si rivolgano ai politici con i loro insegnamenti basati
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
sull’uso critico della ragione. Da ciò scaturisce quello che potremmo definire un realistico e sempre attuale insegnamento di Kant:
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che i re filosofeggino o i filosofi divengano re non c’è da aspettarselo; e neppure da desiderarlo, perché il possesso del potere corrompe inevitabilmente il libero uso della ragione. Che però re o popoli regali (che si comandano da sé secondo leggi di eguaglianza) non facciano scomparire o ammutolire la classe dei filosofi, ma la facciano parlare pubblicamente, è ad entrambi (Per la pace perpetua, cit., p. 188) indispensabile per la chiarificazione del loro compito.
)
Per l’esposizione orale
1. Che cosa intende Kant quando parla di una «costituzione repubblicana», e perché la ritiene indispensabili ai fini della tutela della pace? 2. In che cosa consiste il progetto kantiano di una «federazione» di Stati? 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’«ospitalità» per gli stranieri prescritta dal terzo articolo definitivo: ospitalità che secondo Kant deve essere tutelata dal diritto internazionale. Che cosa ne pensi? Motiva le tue risposte.
4. La storia La filosofia della storia di Kant per lungo tempo non ha ricevuto un’attenzione pari a quella riservata alle sue opere teoretiche e pratiche, e non ha avuto sul pensiero moderno l’influenza esercitata da autori come Hobbes, Locke o Rousseau. Su di essa, inoltre, sono stati talvolta espressi giudizi assai poco lusinghieri. Negli ultimi decenni, tuttavia, la situazione è cambiata. Non soltanto gli storici della filosofia hanno affrontato in un’ottica nuova questa parte della filosofia kantiana, proponendone una profonda rivalutazione, ma anche alcuni tra i maggiori pensatori politici contemporanei hanno rinvenuto in Kant elementi di grande attualità. Il tema della storia è affrontato da Kant in una serie di scritti brevi e in apparenza minori: Gli scritti Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784); Recensione di J.G. Herder e sulla storia Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1785); Congetture sull’origine della storia (1786). L’argomento è poi sfiorato nel Conflitto delle facoltà (1798), nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784) e infine nello scritto Per la pace perpetua (1795). Nella Recensione di J.G. Herder Kant si chiede se la storia sia semplicemente un susse- Storia guirsi casuale di eventi, oppure se abbia una destinazione generale, e quindi una logica e libertà intrinseca che la dirige verso il raggiungimento di qualche fine precostituito. La risposta del filosofo – fondata sulla sua riflessione etica – è che esiste una destinazione aprioristica dell’uomo come essere collettivo: la libertà. In altre parole, le tappe della storia portano l’uomo a essere sempre più consapevole di sé e delle proprie potenzialità, favorendo in misura crescente la sua realizzazione di essere razionale e autonomo. La filosofia della storia di Herder, di matrice spinoziano-leibniziana, tendeva a integrare storia e natura, fondendole in un unico ordine armonico governato da una legge comune e superiore, ma finendo così per sottrarre la storia al dominio della libertà. Per Kant, invece, la realizzazione dell’umanità si attua soltanto se l’essere umano si sottomette a una norma posta da lui stesso, in linea con il principio pratico dell’autonomia del volere. Tuttavia tale realizzazione rimane sempre problematica, proprio perché sciolta dalla necessità naturale e affidata all’iniziativa umana.
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Storia Nell’Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico Kant torna a doe finalità mandarsi se, al di sotto della grande varietà degli eventi storici – e anche del disordine,
dell’irrazionalità e del male –, si possa rintracciare una direzione complessiva, un senso unico, ovvero se attraverso il «libero gioco» delle azioni umane trovi concretezza, nel corso della storia, un piano determinato, sebbene non necessitante, che valga come scopo finale dello sviluppo dell’umanità. Il filosofo risponde appellandosi a quell’idea di finalità che giocherà un ruolo decisivo nella Critica del Giudizio (che uscirà sei anni più tardi). Egli comincia con l’osservare che tutte le tendenze naturali degli esseri creati sono destinate a svilupparsi completamente in conformità al loro scopo: ad esempio, un organo che non debba essere usato o un ordinamento che non raggiunga il suo scopo specifico sono contrastanti con l’organizzazione teleologica della natura. Se tutta la natura contiene elementi teleologici, essi non possono mancare nell’essere umano. Tuttavia il finalismo dell’uomo, a differenza di quello del resto della natura, coincide con la realizzazione della sua essenza razionale. In questa vicenda l’essere umano non è aiutato dalla necessità o dall’istinto, e tutto ciò che riesce a conseguire è dunque frutto di una sua faticosa conquista. Poiché una tale impresa si scontra con la brevità dell’esistenza individuale, essa è resa possibile dalla società e dalla trasmissione delle conquiste culturali. Lo sviluppo riguarda pertanto non i singoli, ma l’umanità nel suo complesso.
L’«insocievole Lo sviluppo della storia non è però lineare. Esso, infatti, è il risultato di due tendenze socievolezza opposte, sintetizzate da Kant in una sorta di ossimoro: «l’insocievole socievolezza dell’uomo»
dell’uomo» (Idea per una storia universale, V, in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 33): da un lato gli individui tendono a unirsi in comunità; dall’altro sono sempre in antagonismo gli uni con gli altri. Da ciò gli inevitabili mali e disordini che agitano la storia. Senza il conflitto, tuttavia, gli uomini resterebbero in una perfetta ma inconsapevole e improduttiva armonia, al pari di un gregge di pecore, e finirebbero per lasciare irrealizzata la loro natura razionale. Invece sono proprio la contrapposizione, lo scontro, il senso dell’emulazione e la stessa invidia o la cupidigia che fanno progredire l’umanità.
Il farsi “adulto” Nelle Congetture sull’origine della storia viene posto un quesito intorno alla “nascita” dell’essere della storia. La risposta non può che essere di tipo congetturale: Kant parte dal testo biumano
blico della Genesi (capp. 2-6), dichiarando però di voler rimanere fedele alla ragione e all’esperienza. Egli immagina l’inizio della storia nel paradiso terrestre, dove gli uomini vivono in base al solo istinto, come animali pacifici ma inconsapevoli delle loro potenzialità e del progresso che da esse può avere origine. Ben presto, però, lo stimolo insopprimibile della ragione conduce l’uomo a voler estendere le sue conoscenze, a desiderare cose non più strettamente legate ai bisogni naturali, e anzi in certi casi in contrasto con questi ultimi. Di conseguenza, l’uomo non è più indotto a un unico modo di vita, come invece accade agli altri animali: egli, ad esempio, può scegliere tra diverse forme di alimentazione e può procrastinare, o comunque dirigere verso oggetti non immediatamente presenti, il soddisfacimento dell’impulso sessuale. In questo modo agli stimoli esclusivamente sensibili si sono aggiunti stimoli anche ideali. Come passo successivo, l’essere umano comincia a preoccuparsi del futuro, sebbene questo implichi anche aspetti negativi come la paura della morte.
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UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
Infine, la ragione consente all’uomo di riconoscere sé stesso come il vero fine della natura. In questo senso tutti gli esseri naturali diventano suoi “mezzi” (come il bue o il cavallo, che sono destinati all’aratura), ma ciò non può valere per gli altri uomini, posti come lui sul piano della razionalità e della libertà. Sorge così il concetto di “uguaglianza”. Il definitivo passaggio dell’umanità dalla condizione “infantile” del paradiso terrestre alla condizione “adulta” è però segnato dalla conquista della libertà, che coincide con l’irruzione del male nella storia. Infatti, se sotto la tutela di Dio non poteva esserci che il bene, una volta che gli uomini se ne svincolano, facendosi liberi, si trovano di fronte alla “possibilità” del male. Tuttavia, se la possibilità del male è un danno per l’individuo, è invece un guadagno per la specie umana. Il fine della storia, infatti, consiste precisamente nel dispiegamento sempre più ampio della razionalità e della libertà dell’uomo. E tale dispiegamento coincide a sua volta con l’affermazione di una società civile in grado di far valere universalmente il diritto e di attuare «una costituzione civile perfettamente giusta» (Idea per una storia universale, V, cit., p. 34).
)
Per l’esposizione orale
La libertà e la razionalità come fini della storia
1. Qual è il fine a cui, secondo Kant, tende la storia umana? 2. Spiega che cosa intende Kant con l’espressione «insocievole socievolezza dell’uomo».
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l’eredità di KANT DA CHI E CHE COSA EREDITA
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CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
dagli empiristi inglesi l’importanza attribuita all’esperienza e l’analisi dei limiti della ragione
la riflessione degli empiristi costituisce in Kant la base per la progressiva assunzione di un punto di vista “critico”, mediante il quale stabilire i confini e le condizioni di validità dell’attività razionale
da Newton il metodo della ricerca scientifica
riflettendo sui procedimenti deduttivi e induttivi utilizzati nella scienza della natura, Kant giunge a individuare nella formulazione di giudizi sintetici a priori lo scopo e il metodo della conoscenza dei fenomeni naturali
dagli empiristi inglesi la distinzione tra le idee (contenuti mentali) e le cose (oggetti reali)
Kant distingue il fenomeno, concepito come la realtà quale appare alla mente umana, e la cosa in sé, o noùmeno, intesa come la realtà considerata indipendentemente dal soggetto che la percepisce o la conosce
dagli scolastici medievali la dottrina dei “trascendentali” (proprietà comuni a tutte le cose, come l’essere, l’unità ecc.)
in Kant il termine “trascendentale” passa a indicare una forma a priori (comune a ogni mente umana) mediante la quale il soggetto organizza la materia della conoscenza (le impressioni sensibili che provengono dall’esperienza)
da Leibniz l’idea dello spazio e del tempo come “concetti” esprimenti rapporti tra le cose
condividendo in parte il concettualismo leibniziano, Kant ritiene che lo spazio e il tempo siano forme pure (o a priori) della conoscenza sensibile, caratteristiche della mente umana
da Aristotele l’idea delle categorie come modi generalissimi di predicazione dell’essere
le categorie diventano in Kant i concetti puri (o a priori) mediante i quali l’intelletto unifica i molteplici dati sensibili, pervenendo ai “giudizi” sui fenomeni naturali
da Leibniz il concetto di appercezione come percezione consapevole
in Kant l’espressione “appercezione trascendentale” indica l’attività (consapevole) dell’io penso, sorta di struttura unitaria, comune a tutte le menti umane, la cui funzione è quella di “giudicare”, cioè di unificare i molteplici dati sensibili mediante le forme pure dell’intelletto
da Aristotele la distinzione tra analitica (analisi degli elementi del ragionamento) e dialettica (scienza dei ragionamenti solo probabili)
nel sistema kantiano l’analitica trascendentale e la dialettica trascendentale sono, rispettivamente, la sezione in cui si analizzano le forme a priori dell’intelletto e quella in cui si smascherano i ragionamenti fallaci della metafisica
UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
dagli empiristi inglesi la critica della metafisica
Kant condivide con gli empiristi l’idea che la metafisica, in quanto slegata dall’esperienza, non possa essere considerata una “scienza”, ma nello stesso tempo afferma che essa risponde a un’esigenza insopprimibile dell’essere umano
da Platone il concetto di “idea” come realtà trascendente
Kant individua tre idee trascendentali (ovvero che trascendono l’esperienza): quelle di “anima”, di “mondo” e di “Dio”, alle quali (diversamente da Platone) non attribuisce realtà ontologica, ma una funzione regolativa, cioè di orientamento dell’indagine in ambito psicologico, cosmologico e teologico
dagli stoici il concetto di “dovere” come azione conforme all’ordine razionale
Kant elabora una rigorosa etica deontologica imperniata sul concetto del “dovere-per-il-dovere”, ovvero su una legge morale assoluta e incondizionata
dai pensatori cristiani l’idea che la moralità risieda non tanto nelle azioni, quanto nelle intenzioni
la prospettiva cristiana, condivisa da Kant, lo porta a distinguere tra legalità (adesione esteriore al dovere) e moralità (adesione interiore alla legge morale, cioè «volontà buona»)
dai pensatori protestanti l’idea che le verità della fede siano indimostrabili
pur condividendo l’idea luterana dell’indimostrabilità delle verità religiose, che vanno dunque accolte per fede, Kant sottolinea la razionalità della religione, che risponde a una speranza umana razionalmente fondata
dagli illuministi inglesi la centralità attribuita al sentimento
Kant concepisce il sentimento come una terza facoltà umana (accanto all’intelletto e alla ragione) capace di cogliere quell’organizzazione finalistica e armonica del reale che è inconoscibile per la ragione teoretica e postulata dalla ragione pratica
da Vico l’importanza attribuita all’arte come forma specifica di conoscenza
considerando l’estetica come studio autonomo dell’arte e della bellezza, Kant fa del bello un valore a sé, irriducibile al piacevole o all’utile
da Burke la distinzione tra il bello e il sublime
riprendendo la distinzione di Burke, Kant la articola maggiormente, differenziando il sublime matematico dal sublime dinamico
da Hobbes, Locke e Rousseau il contrattualismo
per Kant l’origine dello Stato risiede in un «contratto originario» tra i sudditi e il sovrano, che egli non concepisce come un evento storico, ma come un modello a priori cui la politica reale deve guardare; il contrattualismo ispira anche l’ordinamento giuridico cosmopolitico, indicato da Kant come via per evitare il conflitto tra gli Stati
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 5 LE RIFLESSIONI SULLA RELIGIONE, SUL DIRITTO E SULLA STORIA
Per passare dal male al bene, tuttavia, è necessaria quella che Kant chiama
• conversione
l’atto interiore mediante il quale si avvia un graduale, incessante e infinito passaggio dal male al bene; si tratta insomma dell’avvio di un progressivo avvicinamento a un ideale morale che non si realizza mai compiutamente.
Il diritto La religione Secondo Kant la vera fede si fonda sui valori morali e consiste in un insieme di convinzioni che l’essere umano può raggiungere in virtù della sola forza della ragione. Questa religione razionale, o naturale, costituisce il nucleo della religione rivelata, che è più ampia ed è in grado di fornire spiegazioni più convincenti su alcuni temi esistenziali fondamentali, nonché di parlare all’essere umano nella sua “interezza”, cioè non soltanto alla sua razionalità, ma anche alla sua sensibilità ed emotività. I contenuti della religione rivelata devono però essere sottoposti al vaglio critico della ragione, in modo da non accogliere come verità quelle che sono mere credenze superstiziose. Kant si confronta anche con il problema del male, ovvero della teodicea. Constatando l’ineliminabile presenza del male nel mondo, egli teorizza la nozione di
• male radicale
la tendenza al negativo che contraddistingue tutti gli esseri umani, e che si presenta in tre gradi diversi: la fragilità (cioè la difficoltà a tradurre in pratica i precetti morali), l’impurità (cioè la tendenza ad agire mescolando i precetti morali con motivazioni meno nobili) e la malvagità (cioè l’adesione totale a impulsi estranei alla morale).
Nella sua concretezza, tuttavia, il male non è il risultato necessario di una disposizione fisica o naturale a cui l’individuo non possa sottrarsi, bensì il frutto della libera scelta umana di non seguire i precetti morali: in questo senso, per Kant, l’uomo è “cattivo per natura” (ovvero incline al peccato) perché, pur avendo coscienza della legge morale, si riserva liberamente la possibilità di sottrarvisi. Accanto alla disposizione originaria al male, Kant riconosce però nell’essere umano anche una disposizione originaria al bene, che scaturisce dalla medesima libertà da cui deriva il «male radicale»: se siamo liberi di peccare, allora siamo anche liberi di fare il bene.
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Per Kant il diritto riguarda le relazioni esteriori che si instaurano tra gli esseri umani e si riferisce dunque: alle azioni compiute in un contesto collettivo, alle regole che normano tali azioni e ai princìpi da cui tali regole sono dedotte. L’analisi kantiana del diritto mira a individuare il fondamento a priori della convivenza civile, il quale viene rintracciato nella «legge universale della libertà», che a sua volta si radica nella razionalità umana. La libertà, tuttavia, non può essere intesa come anarchia, dal momento che è necessaria una limitazione della libertà di ognuno per garantire la libertà di tutti. Da questa considerazione deriva la celebre definizione kantiana del
• diritto
«l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà» (Metafisica dei costumi).
Kant distingue inoltre il diritto innato, che è dato a ogni individuo dalla natura, dal diritto acquisito, che invece deriva da un atto giuridico. Il diritto acquisito si distingue a sua volta in diritto privato, che definisce la legittimità e i limiti del possesso dei beni materiali, e diritto pubblico, che concerne la vita associata degli individui nello Stato.
Lo Stato Accogliendo e rielaborando le riflessioni di Hobbes, Locke, Montesquieu e Rousseau, Kant individua alle origini della società civile un
• contratto originario
il patto che sta alla base dello Stato. Kant non lo interpreta come un “fatto” storico, bensì come una necessità concettuale che precede e rende possibili gli eventi storici: un’idea pura della ragione pratica che funge da modello per i contratti reali, ovvero per gli ordinamenti politici concreti.
UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
Lo Stato teorizzato da Kant è liberale, in quanto il suo scopo è quello di porre i cittadini in condizione di perseguire i fini religiosi, etici, economici o eudemonistici che prediligono; è giuridico, perché difende i diritti fondamentali di ognuno; è formale, poiché non si occupa di che cosa devono fare i cittadini, ma di come devono farlo per non ledere la libertà altrui.
L’ordinamento cosmopolitico Nello scritto Per la pace perpetua, Kant illustra il progetto di una comunità mondiale fondata sulla pace e sul cosmopolitismo. Egli è convinto che la natura, così come ha indotto gli uomini a costruire la società civile per limitare i conflitti tra i singoli, nello stesso modo deve indurli a uscire dalla situazione conflittuale che caratterizza i rapporti tra i diversi Stati. Il metodo da seguire è dunque lo stesso: così come all’origine dello Stato vi è un patto tra gli individui, analogamente è necessario un patto tra gli Stati per dare origine a un ordine giuridico mondiale. Kant lo chiama:
• ordinamento cosmopolitico
L’espressione usata da Kant per alludere alla comunità mondiale da lui auspicata, vincolata da rapporti giuridici trans-nazionali e improntata alla collaborazione tra i popoli.
Lo stato di pace duratura che una tale comunità mondiale dovrebbe assicurare si configura tuttavia come un
compito affidato alla razionalità umana, e quindi privo di garanzie di successo. Alla sua realizzazione possono contribuire i filosofi, che devono essere liberi di esprimere apertamente le loro idee. Inoltre devono essere soddisfatte alcune condizioni fondamentali (indicate negli «articoli definitivi» della Pace perpetua): l’avvento di una «costituzione repubblicana» all’interno dei singoli Stati, la nascita di una «federazione» di liberi Stati, l’istituzione di un «diritto cosmopolitico» che garantisca l’universale «ospitalità» per gli stranieri.
La storia La storia per Kant non è un susseguirsi casuale di eventi, ma è diretta verso una destinazione aprioristica, che consiste nel dispiegamento sempre più ampio della razionalità e della libertà dell’essere umano. In altre parole, il fine sotteso alla storia coincide con la progressiva acquisizione, da parte dell’uomo, della consapevolezza di sé stesso e delle proprie potenzialità. Una tale impresa non può essere realizzata dai singoli individui, vista la brevità dell’esistenza, ma riguarda l’umanità nel suo complesso. Tuttavia questo processo non è mai lineare, poiché gli uomini sono combattuti tra due opposte tendenze: quella a unirsi e a collaborare tra loro, e quella a imporsi gli uni sugli altri («insocievole socievolezza»).
597
MAPPE
CAPITOLO 5 LE RIFLESSIONI SULLA RELIGIONE, SUL DIRITTO E SULLA STORIA LA RELIGIONE si articola in
religione razionale
religione rivelata
che consta di
che offre
che va sottoposta al
un nucleo di convinzioni a cui si può giungere con la sola ragione
spiegazioni più ampie e convincenti
vaglio della ragione
IL DIRITTO concerne
le azioni compiute in contesti collettivi
ha
le regole che disciplinano quelle azioni
i princìpi da cui le regole sono dedotte
il proprio fondamento a priori nella legge universale della libertà
LO STATO è
nasce da un
contratto originario
liberale
giuridico
formale
inteso come
modello a cui la politica reale deve conformarsi
LA PACE
LA STORIA
richiede la costituzione di un
è diretta verso
è segnata da
ordinamento cosmopolitico
un dispiegamento sempre più ampio della libertà e della razionalità
un’«insocievole socievolezza» degli esseri umani
che
che riguarda
è stipulato da Paesi con «costituzioni repubblicane»
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corrisponde a una «federazione di liberi Stati»
tutela l’universale «ospitalità» per gli stranieri
l’umanità nel suo complesso
UnitÀ 6 KANT Capitolo 5 le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia
VERIFICA
UNITÀ 6 KANT
CAPITOLO 1 Il progetto filosofico
FLASHCARD
1 Nella Dissertazione del 1770 Kant:
c. La conoscenza intellettuale ha
per oggetto la cosa come appare al soggetto che la conosce
A si avvicina alla filosofia naturalistica ispirata da
Newton B approfondisce le analisi degli empiristi inglesi C riconosce nella metafisica una scienza limitativa e negativa D chiarisce in che cosa consiste il punto di vista trascendentale
2 La filosofia del limite di Kant si traduce in una forma di: A scetticismo scientifico
F
V
F
V
F
d. Spazio e tempo precedono ogni
conoscenza sensibile e. L’esperienza è una forma di
conoscenza riflessa
4 In che cosa si differenziano conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale per Kant?
(max 6 righe)
5 Che cosa sono spazio e tempo per Kant? (max 6 righe)
B idealismo problematico
6 Chiarisci l’atteggiamento filosofico che assume Kant
C criticismo
nei confronti delle esperienze umane, da lui sottopo(max 10 righe) ste al vaglio della critica.
D fenomenismo
3 Indica se le affermazioni seguenti, riferite al pensiero di Kant, sono vere o false.
7 Spiega in che modo l’empirismo inglese e l’Illuminismo abbiano contribuito al progetto filosofico kantiano, chiarendo in che senso Kant abbia tuttavia “su(max 15 righe) perato” tali contributi.
a. La conoscenza sensibile è dovuta alla
passività del soggetto
V
V
F
V
F
b. La forma della conoscenza sensibile si
deve a una modificazione degli organi di senso
CAPITOLO 2 La Critica della ragion pura 8 Il termine “trascendentale” in Kant indica: A qualcosa che oltrepassa ogni esperienza B qualcosa che rende possibile la conoscenza
C nella psiche del soggetto che conosce D nella prova che il soggetto conoscente esiste
11 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla Critica
C una proprietà ontologica della realtà in sé
della ragion pura, sono vere o false.
D le forme a priori
a. I giudizi sintetici a priori sono fecondi
9 Per Kant i concetti: A possono essere empirici o puri B sono soltanto empirici, in quanto costruiti con
materiali ricavati dall’esperienza C sono soltanto puri, in quanto contenuti a priori nell’intelletto D si identificano con le categorie aristoteliche
10 L’«io penso» per Kant consiste: A nel processo con cui viene sintetizzato il molteplice B in una struttura mentale comune a tutti
gli esseri umani
ma non universali e necessari
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. La sensibilità non genera i propri
contenuti, ma li accoglie dall’esterno c. Le categorie, e in particolare quella di
causalità, sono proprietà delle cose d. Il tempo è il tramite universale della
percezione di tutti gli oggetti e. L’ordine della natura deriva dall’“io
penso” e dalle sue forme a priori f. L’essere umano può conoscere il noumeno
mediante un’intuizione intellettuale
599
12 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
14 In che cosa consiste la deduzione trascendentale e
la mappa riportata sotto. concetti • dati • idee • intelletto • mondo • ragione • realtà • sensibilità • spazio • tempo
13 Quali sono le partizioni e i rispettivi oggetti di indagine della Critica della ragion pura?
(max 6 righe)
perché Kant la considera il problema più difficile del(max 10 righe) la Critica della ragion pura?
15 Quale valore ha la “cosa in sé” nella gnoseologia di Kant?
16
(max 6 righe)
attività PLUS Chiarisci in che cosa differisce il tempo di Kant dal tempo della fisica newtoniana.
(max 20 righe)
CAPITOLO 3 La Critica della ragion pratica 17 La seconda formula dell’imperativo categorico
19 Utilizza le espressioni elencate di seguito per com-
comanda di: A agire secondo una massima che può valere per tutti B rispettare la dignità umana che è in sé stessi e negli altri C rendersi indipendenti dagli impulsi sensibili soggettivi D obbedire soltanto alla propria volontà
pletare il testo riportato sotto. fenomenico • libertà • meccanicismo • naturale • morale • noumenico • soprasensibile • volontà buona Per Kant, il dovere-per-il-dovere e la . . . . . . . . . . . . . . . . . . innalzano l’essere umano al di sopra del mondo sensibile e . . . . . . . . . . . . . . . . . . , in cui vige il . . . . . . . . . . . . . . . . . . , per renderlo partecipe del mondo intelligibile e . . . . . . . . . . . . . . . . . . , in cui vige la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’etica rende quindi possibile la costituzione di una natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . nella quale la legislazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . prende il sopravvento sulla legislazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
18 Per Kant il sentimento morale: A è sempre patologico B non può mai fungere da movente dell’azione C è incompatibile con la volontà razionale D può disporre l’individuo a ubbidire al puro dovere
[mappa esercizio 12]
20 Quale differenza sussiste, per Kant, tra imperativo ipotetico e imperativo categorico?
(max 6 righe)
PER KANT LE FACOLTÀ CONOSCITIVE sono
600
la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
l’ . . . . . . . . . . . . . . . . . .
la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
mediante la quale
mediante il quale
mediante la quale
gli oggetti ci sono dati intuitivamente
pensiamo i . . . . . . . . . . . . . . . . . . sensibili
cerchiamo di spiegare globalmente la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
tramite
tramite
tramite
le forme a priori dello . . . . . . . . . . . . . . . . . . e del . . . . . . . . . . . . . . . . . .
i . . . . . . . . . . . . . . . . . . puri o le categorie
le . . . . . . . . . . . . . . . . . . di anima, . . . . . . . . . . . . . . . . . . e Dio
UnitÀ 6 KANT VERiFiCa
21 In che cosa consistono e quali sono i postulati della ragion pura pratica?
23
(max 10 righe)
22 Spiega sinteticamente il significato della “rivoluzione copernicana” operata da Kant in ambito morale, evidenziandone le affinità rispetto a quella condotta in (max 15 righe) campo gnoseologico.
attività PLUS Esponi il concetto di “libertà” formulato da Kant, mettendolo in rapporto con quello di “limite”, che è alla base sia della sua teoria gnoseolo(max 20 righe) gica sia di quella etica.
CAPITOLO 4 La Critica del Giudizio 24 Il giudizio riflettente:
e. Per giudicare degli oggetti belli è
necessario il genio
A è una facoltà intermedia fra l’intelletto e la ragione B è una tipologia di giudizio determinante
f. Il modello teleologico non sostituisce
C si differenzia dal giudizio sentimentale
quello meccanico nella spiegazione della natura
D è oggettivo e scientificamente valido
F
28 Quali sono le caratteristiche del sublime matematico e
B ciò che piace universalmente senza concetto
del sublime dinamico?
C ciò che piace necessariamente senza concetto D una forma di finalità senza scopo
(max 6 righe)
29 Quali differenze sussistono tra il “bello di natura” e il “bello artistico” per Kant?
26 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla Critica del Giudizio, sono vere o false.
(max 10 righe)
30 Spiega sinteticamente che cosa si intende quando si
a. Nel giudizio estetico noi viviamo
afferma che per Kant il finalismo è un bisogno con(max 15 righe) naturato alla mente umana.
V
F
V
F
attività PLUS Chiarisci in che senso la Critica del Giudizio rappresenta un tentativo di superare il dualismo che si profila nelle prime due Critiche di Kant.
V
F
(max 20 righe)
V
F
31
b. Il piacevole è il sentimento provocato c. L’universalità del giudizio di gusto
si basa sulla mente umana
V
(max 6 righe)
A l’oggetto di un piacere disinteressato
dall’immagine della cosa bella
F
27 In che senso i giudizi estetici sono universali?
25 Il bello, secondo la categoria della quantità, è:
intuitivamente la finalità della natura
V
d. L’esperienza del sublime ci rende
consapevoli della nostra pochezza
CAPITOLO 5 Le riflessioni sulla religione, sul diritto e sulla storia 32 Per Kant la religione rivelata: A è incompatibile con la religione razionale B corrisponde pienamente alla religione razionale C ha un’ampiezza maggiore rispetto alla religione
razionale D è contenuta nella religione razionale
33 Per Kant è dato dalla natura, indipendentemente da ogni atto giuridico: A il diritto innato B il diritto divino C il diritto privato D il diritto pubblico
601
34 Indica se le affermazioni seguenti, riferite al pensiero di Kant, sono vere o false.
36 Quali sono i fondamenti del diritto per Kant?
a. La fede si riduce a un atteggiamento
esclusivamente intellettualistico
(max 6 righe)
V
F
V
F
zione “infantile” del paradiso terrestre a una condizio(max 10 righe) ne “adulta”?
V
F
38 Spiega il ruolo che occupano, rispettivamente, la li-
V
F
V
F
V
F
37 Come avviene il passaggio dell’umanità dalla condi-
b. Nell’essere umano si trova
un’insopprimibile tendenza al bene
35 In che cosa consiste, per Kant, il bene? (max 6 righe)
c. Una volta poste dal sovrano, le norme
valgono di per sé d. Il fine dello Stato coincide con i fini
molteplici degli individui e. Lo sviluppo storico riguarda l’umanità
nel suo complesso, non i singoli f. La fondazione di un ordine giuridico
mondiale è la prima condizione per la realizzazione della pace perpetua tra i popoli
AVANGUARDIE EDUCATIVE DIBATTITO CRITICO
bertà e il finalismo nella concezione kantiana della (max 15 righe) storia.
39
attività PLUS Esponi il progetto filosofico di Kant indirizzato a costruire una pace duratura: confrontalo, da un lato, con l’epoca in cui visse il filosofo per metterne in evidenza gli aspetti più originali, dall’altro, con l’epoca contemporanea per metterne in luce gli (max 20 righe) aspetti più attuali.
COMPETENZE Acquisire ed interpretare l’informazione | Individuare
collegamenti e relazioni | Collaborare e partecipare | Comunicare
Qual è il fondamento del dovere? In questa unità avete avuto l’occasione di mettere a confronto l’etica kantiana con le morali eteronome dei suoi predecessori. Ora confrontatevi su quale, tra le varie posizioni esaminate, può essere ritenuta la più efficace.
602
zione di uno dei filosofi che avete studiato, e un argomento contro una delle due tesi avversarie.
FASE 1 Sotto la guida dell’insegnante dividetevi in quattro gruppi. Il gruppo A sosterrà la validità della teoria che pone alla base dell’etica motivi soggettivi (interni o esterni); il gruppo B sosterrà, invece, l’efficacia della teoria che pone alla base dell’etica motivi oggettivi (interni o esterni); il gruppo C, infine, si farà portavoce della teoria kantiana. Il quarto gruppo non parteciperà attivamente al dibattito, ma svolgerà il ruolo di giuria.
FASE 3 argomentare Avviate ora il dibattito. Ogni gruppo sceglie tre portavoce, uno per ogni parte in cui si articola il discorso. Inizia a parlare un membro del gruppo A, che espone la propria tesi (2 minuti max); gli rispondono, in successione, un membro del gruppo B e uno del gruppo C. La parola torna, quindi, al gruppo A e si procede con lo stesso ordine fino all’esaurimento di tutti gli interventi (che hanno la durata di 5 minuti max). I gruppi che sono stati “presi di mira” dai compagni hanno 5 minuti di tempo per formulare una risposta (che avrà la durata massima di 2 minuti).
FASE 2 pianificare Dopo aver approfondito il tema della discussione, elaborate il vostro discorso, che esporrete in forma orale e che dovrà prevedere l’enunciazione della tesi, un argomento a favore della stessa, supportato dalla cita-
FASE 4 valutare Il gruppo che ha assistito al dibattito senza prendervi attivamente parte dovrà giudicare chi è stato più convincente, motivando la propria decisione ai compagni.
UnitÀ 6 KANT VERiFiCa
QUESTIONE
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
EDUCAZIONE CIVICA
Il bene consiste nell’utile o nel dovere
Hume
Kant
Una nozione complessa Se si cerca in un dizionario il significato della parola “bene”, si vede che esistono due accezioni fondamentali di questo sostantivo: una di carattere giuridico-economico, secondo cui è detto “bene” qualcosa di materiale che può essere oggetto di diritti, e una di carattere filosofico-morale, secondo cui il bene è qualcosa di materiale o spirituale a cui si attribuiscono valore e dignità. In questo senso “bene” (o “buono”) è sinonimo di “retto”, “giusto”, “conveniente”, “opportuno”, “vantaggioso” ecc. Una pluralità di significati che riflette la complessità della nozione. In epoca moderna, la filosofia morale si
è lungamente soffermata sul concetto di “bene”, indagandolo insieme con quello (inscindibile) di “dovere” e cercando di rispondere ai seguenti interrogativi: che cosa si intende quando si afferma che “è bene” o “non è bene” fare qualcosa, che “si deve” o “non si deve” compiere una certa azione? Che cos’è che rende un certo comportamento “buono e doveroso”, oppure “cattivo e da evitare”? Rispondere a queste domande non è facile, soprattutto se consideriamo che ogni azione umana è qualcosa di molto complesso, che sovente scaturisce da una decisione dilemmatica, in cui sono stati soppesati molteplici fattori.
UN DILEMMA PER AVVIARE LA DISCUSSIONE L’inglese Bernard Williams (1929-2003), uno dei più noti filosofi morali contemporanei, narra in un suo saggio la seguente “storia esemplare”:
Jim si trova nella piazza centrale di una piccola città sudamericana. Legati contro un muro ci sono venti indios, la maggior parte atterriti dalla paura, qualcuno in atteggiamento di sfida; di fronte a loro numerosi uomini armati in uniforme. Un omone con la camicia color cachi macchiata di sudore, che risulta essere il capitano, dopo aver a lungo interrogato Jim, e aver appurato che si trova lì per caso, al seguito di una spedizione botanica, gli spiega che quegli indios sono un gruppo di abitanti presi a caso dopo una recente protesta contro il governo, e che sono sul punto di essere fucilati per ricordare agli altri possibili contestatori gli svantaggi della protesta. Comunque, poiché Jim è un onorevole visitatore straniero, il capitano è felice di offrirgli, come privilegio di ospite, di uccidere lui stesso un indio. Se Jim accetta, allora, vista la speciale occasione, gli altri indios saranno lasciati liberi. Se Jim invece rifiuta, Pedro farà quello che stava per fare quando Jim era arrivato, cioè li ucciderà tutti […]. Che cosa deve fare Jim? (B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in Utilitarismo: un confronto, trad. it. di B. Morcavallo, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 123-124)
Che cosa faresti tu se ti trovassi al posto di Jim? Sacrificheresti la vita di uno degli indios (e le tue regole morali) in virtù del calcolo secondo cui la vita di un uomo vale meno di quella di molti uomini? Oppure non saresti disposto per nessuna ragione a violare il principio assoluto in base al quale non si deve uccidere?
603
QUESTIONE
LE PROSPETTIVE IN CAMPO Allo spinoso interrogativo sollevato dall’esempio di Bernard Williams si può rispondere in due modi fondamentali, riconducibili a due diverse prospettive:
la prospettiva utilitaristica Secondo un primo punto di vista bisogna sempre scegliere ciò che è più utile, oppure il male minore, e quindi agire sulla base di un “calcolo” dei vantaggi e degli svantaggi che possono derivare dalle nostre azioni. Nel caso proposto da Williams, questo significherebbe accettare l’offerta del capitano e, pur con riluttanza, uccidere uno degli indios, rendendosi colpevoli di un omicidio, ma salvando in questo modo la vita a tutti gli altri. la prospettiva deontologica Diversa – e per certi aspetti diametralmente opposta – è la prospettiva di chi afferma che bisogna sempre agire sulla base di un assoluto e incondizionato senso del dovere (in greco déon), indipendentemente dalle conseguenze che possono derivare dalle nostre azioni. Questo vorrebbe dire non accettare la proposta del capitano e non macchiarsi di alcun delitto, condannando però a morte tutti gli indios.
LA QUESTIONE FILOSOFICA Entrambe le prospettive considerate sembrano presentare vantaggi e svantaggi, aspetti morali e immorali, in una commistione apparentemente inestricabile. Ciò che emerge con evidenza è la complessità della questione filosofica presa in esame, che, come abbiamo detto, è stata affrontata anche dai filosofi moderni – e in particolare da Hume e da Kant – e che può essere sintetizzata e schematizzata come segue:
Il bene consiste nell’utile o nel dovere?
604
prospettiva utilitaristica
prospettiva deontologica
In coerenza con i princìpi utilitaristici della tradizione filosofica anglosassone, David Hume afferma che un’azione è buona o cattiva, giusta o ingiusta non in termini assoluti, ma sulla base dei suoi effetti extra-morali, cioè del vantaggio o dello svantaggio che procura. In questo senso il bene coincide con l’utile.
Quella di Immanuel Kant è invece un’etica del dovere, in base alla quale l’obbedienza alla legge morale deve essere incondizionata. Un’azione è buona, e dunque preferibile, perché doverosa in sé, indipendentemente dai vantaggi che ne possono derivare per chi la compie e per coloro che in essa sono coinvolti. In questo senso il bene coincide con il dovere-per-il-dovere.
UnitÀ 6 KANT QUESTIONE il bene consiste nell’utile o nel dovere?
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Hume
il modello utilitaristico
Una morale Hume è convinto che l’essere umano agisca sulla base di un «gusto morale» (moral taste), in virtù del del sentimento quale avverte una certa azione come preferibile in modo del tutto analogo a quello in cui, in base a un
innato gusto estetico, percepisce un certo oggetto come bello. Diversamente da quanto affermato dagli esponenti dalla tradizione razionalistica, per Hume è dunque un «sentimento morale», e non la ragione, a determinare la volontà e a indurre l’individuo ad agire in un certo modo. Il sentimento è per Hume il centro e il motore non soltanto dell’azione, ma anche della valutazione morale, poiché le «idee morali» – che sono indispensabili per formulare giudizi di approvazione o disapprovazione – vengono prodotte sulla base di una riflessione sui sentimenti del piacere e del dolore. Perciò, quando diciamo che “una cosa è buona”, intendiamo dire “ci piace”, così come quando diciamo che “una cosa è cattiva” intendiamo dire che “la consideriamo spiacevole”. Una morale Questa teoria emotivistica, che riconduce sia l’azione sia la valutazione morale al sentimento del piacedell’utile re, negli scritti di Hume sembra contraddetta da una teoria utilitaristica, in base alla quale il bene e il
male sono assimilabili rispettivamente all’utile, o vantaggioso, e al nocivo, o svantaggioso. In realtà Hume istituisce un’equivalenza tra il piacere e l’utilità: «l’utile è ciò che piace», così come «il dannoso è ciò che dispiace». In altre parole, le due prospettive sono accomunate dall’idea di fondo secondo cui le nozioni di bene e di male non rispondono a princìpi oggettivi conoscibili con l’intelletto, bensì a un insieme di impressioni ed emozioni soggettive. La convergenza Ma una morale (la quale esige che qualcosa sia buono in senso universale) può essere fondata sul sentra piacevole timento (che è individuale)? Davvero è bene (per tutti) ciò che piace (a qualcuno)? e morale
Consapevole di questa difficoltà, nel corso degli anni Hume elabora la propria dottrina in modo da garantire l’universalità e l’intersoggettività della valutazione morale, pur mantenendo fermo il suo carattere “sentimentale”. In una sezione della Ricerca sui princìpi della morale (1751) egli cerca dunque di spiegare “perché l’utilità ci piace”:
‘
L’utilità è gradevole e si impone alla nostra approvazione. Questa è una questione di fatto, confermata dall’osservazione quotidiana. Utile? Ma per chi? Per l’interesse di qualcuno, certamente. Per l’interesse di chi, dunque? Non soltanto per il nostro; infatti la nostra approvazione spesso si estende oltre l’ambito del nostro interesse. Si deve trattare dunque dell’interesse di coloro che traggono giovamento dalla qualità o dall’azione che viene approvata; e dobbiamo concludere pertanto che costoro, per quanto lontani, non ci sono del tutto indifferenti […] ne segue che tutto ciò che contribuisce alla felicità della società si raccomanda direttamente alla nostra approvazione e alla nostra buona volontà. Questo è un principio che rende ragione, abbastanza ampiamente, dell’origine della moralità. (Ricerca sui princìpi della morale, V, I, in Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano ed E. Mistretta, Laterza, Roma-Bari 1987, vol. 2)
La simpatia Hume approda così alla nozione di «simpatia», intesa come sentimento morale «comune a tutta come sentimento l’umanità». È appunto sul sentimento della simpatia che si basa la valutazione morale di un’azione, cioè morale
sulla percezione della sua utilità o dannosità per sé stessi e per i propri simili. Attraverso il riferimento alla vita sociale, Hume sembra così riuscire a non abbandonare la prospettiva emotivistica, rendendo però conto di come un individuo possa giudicare “utili”, e perciò “buone”, anche azioni che non sono immediatamente vantaggiose per lui.
605
QUESTIONE
Kant
il modello deontologico
L’esigenza di una Per parte sua, Kant non mette in discussione la forza condizionante, nella vita umana, dell’impulso al legge morale piacere o della tendenza all’utile, ma nega che tale forza possa essere considerata un movente “morale”. universale
Sentimenti, impulsi e inclinazioni, per il loro carattere mutevole e soggettivo, non possono essere posti alla base dell’etica, poiché quest’ultima deve avere valore universale, cioè deve essere valida per tutti e sempre. Ciò significa che una legge morale, per essere autenticamente tale, può essere fondata soltanto sulla ragione, cioè su una facoltà di cui ogni essere umano è provvisto, e che prescrive in modo categorico e rigoroso di rinunciare a ogni piacere o vantaggio individuale.
La formalità Al carattere intersoggettivo è strettamente legato il carattere formale della legge morale delineata della morale da Kant: questa non può essere del tipo “se vuoi... allora devi...”; non può essere condizionata da calcoli,
preferenze soggettive, situazioni particolari, ma deve assumere la forma inesorabile e inflessibile del “tu devi”, escludendo qualunque riferimento allo scopo dell’azione. In questo senso la morale kantiana non riguarda la «materia» del volere, ma la sua «forma»: la prima è «un oggetto la cui realtà sia desiderata», mentre la seconda è ciò per cui un contenuto, anziché essere considerato soltanto “piacevole”, diventa «degno di essere voluto», cioè “morale”. Un’etica È proprio il carattere formale della valutazione morale a conferire all’etica kantiana un carattere antidell’intenzione utilitaristico. Infatti, se la morale non concerne ciò che si fa (l’esteriorità) bensì l’«intenzione» con cui lo si
fa (l’interiorità), allora il bene non può consistere nelle conseguenze visibili dell’azione, ma deve piuttosto essere rintracciato nell’intenzione invisibile che muove all’azione. Il bene consiste nel volere il bene, cioè in quella che Kant chiama «volontà buona», espressione con cui indica l’intenzione di conformarsi alla legge morale. E bisogna volere il bene anche quando le circostanze ne rendono difficile o addirittura impossibile la realizzazione. Il valore La morale, del resto, per Kant non concerne l’essere (cioè il modo in cui di fatto gli uomini si comporassoluto della tano), ma il dover essere (cioè il modo in cui gli uomini devono o dovrebbero comportarsi). Kant fa «volontà buona»
questo esempio: può anche darsi che nessun essere umano sia stato, di fatto, sempre del tutto sincero; ma ciò non toglie che dire sempre la verità sia un dovere assoluto. In altri termini: la volontà buona è tale non per i risultati che consegue, ma per sé stessa. Gli effetti visibili di un’intenzione sono irrilevanti ai fini della valutazione morale. Pensiamo al dilemma paradossale esposto in apertura: se dalla scelta di conformare la propria volontà alla legge morale scaturiscono conseguenze tragicamente svantaggiose, questo non è sufficiente per giudicare immorale l’azione scelta. Lo stesso Kant richiama a tal proposito il detto popolare Fiat justitia, pereat mundus, cioè “si compia il dovere, anche se il mondo intero dovesse crollare”:
‘
La volontà buona non è tale per ciò che essa fa o ottiene, e neppure per la sua capacità di raggiungere i fini che si propone, ma solo per il volere, cioè in sé stessa; considerata in sé stessa, deve essere ritenuta incomparabilmente superiore a tutto ciò che, mediante essa, potrebbe essere fatto in vista di qualsiasi inclinazione [sensibile] o anche, se si vuole, di tutte le inclinazioni insieme. Anche se l’avversità della sorte o i doni avari di una natura maligna privassero interamente questa volontà del potere di realizzare i propri progetti; anche se il maggior sforzo non approdasse a nulla ed essa restasse una pura e semplice buona volontà […] essa brillerebbe di luce propria. L’utilità e l’inutilità non possono accrescere né diminuire questo valore. (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 3, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, utet, Torino 1986)
606
UnitÀ 6 KANT QUESTIONE il bene consiste nell’utile o nel dovere?
una questione aperta
I modelli etici presi in esame – utilitaristico (o consequenzialistico) e deontologico – sono naturalmente posizioni “estremizzate”, che, in quanto tali, presentano entrambe aporie, difficoltà interne e unilateralità.
L’etica utilitaristica di Hume troverà una rigorosa formulazione nel pensiero del filosofo e politico londinese Jeremy Bentham (1748-1776), il quale affermerà che l’utile, inteso come «massimizzazione del piacere» e «minimizzazione del dolore», è l’unico movente delle azioni umane e l’unico criterio per valutarle. Riprendendo l’idea epicurea del «calcolo dei piaceri», Bentham sosterrà che la morale si riduce a un «calcolo felicifico» (felicific calculous), ovvero a una misurazione pragmatica delle conseguenze delle azioni, tale da permettere di scegliere il comportamento che produrrà il massimo di utilità pubblica, cioè «la massima felicità per il maggior numero di persone». La posizione utilitaristica sarà accolta anche da John Stuart Mill (1806-1873), il quale tuttavia ne segnalerà alcune incertezze. Nell’opera intitolata L’utilitarismo (1829) egli noterà infatti come il «calcolo felicifico» benthamiano sia di difficile realizzazione pratica, dal momento che la felicità, soprattutto quando riguarda persone diverse, le quali ne hanno idee diverse, non risulta agevolmente misurabile. Secondo Mill, inoltre, il calcolo della felicità di cui parla Bentham implica una decisione arbitraria su quelle che devono essere le conseguenze da calcolare e non tiene conto del fatto che gli effetti indiretti di un’azione possono, in linea di principio, prolungarsi all’infinito, tanto che una vera analisi delle conseguenze risulta impossibile. Infine, la prospettiva utilitaristica rischia di giustificare azioni apertamente immorali o ripugnanti, come nel caso di Jim presentato in apertura, in cui un atto palesemente immorale come uccidere un innocente potrebbe essere considerato “giusto” in quanto “vantaggioso” per la felicità complessiva. D’altra parte l’etica del dovere di matrice kantiana, non prendendo in considerazione gli effetti dell’azione e separando radicalmente il bene dall’utile, l’intenzione invisibile dall’azione visibile, può arrivare a giustificare anche il male, qualora questo fosse l’effetto accidentale di una buona intenzione. Significativo, a questo proposito, è il detto popolare che il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) utilizzerà contro Kant: «di buone intenzioni è lastricato l’inferno». Il rigorismo dell’etica deontologica, inoltre, separa in modo netto dovere e felicità, finendo così per smarrire quell’unità tra “bene” e “ben-essere”, tra vita buona e vita felice, che era tipica dell’eudemonismo classico. Che l’etica, in quanto “dottrina del dovere”, debba essere in contrasto con l’etica intesa come “tecnica della felicità” viene perentoriamente negato anche da Denis Diderot (1713-1784), il quale, in nome della stessa ragione invocata da Kant, afferma: «propriamente parlando c’è un solo dovere: essere felici». L’alternativa tra modello utilitaristico e modello deontologico può essere accostata alla distinzione che più di un secolo dopo Kant verrà delineata dal filosofo e sociologo Max Weber (1864-1920): quella tra l’«etica della responsabilità» e l’«etica della convinzione». La prima considera l’«agire razionale rispetto allo scopo» ed è fatta propria da chi ritiene rilevanti gli effetti di un’azione e non la conformità dell’intenzione a princìpi morali astratti o generali. La seconda considera invece l’«agire razionale rispetto al valore» ed è propria di chi ritiene che nell’azione ci si debba conformare a princìpi assoluti, in nome dei quali vanno ignorate le possibili conseguenze negative della loro realizzazione, così come quelle positive. Weber risolve parzialmente questa opposizione affermando che ai princìpi assoluti deve guardare la morale, mentre alle conseguenze dell’azione (o alla limitazione dei possibili danni di un’azione) deve tendere la politica. Il carattere dilemmatico, controverso e persino drammatico di ogni scelta che si trovi di fronte all’alternativa tra i princìpi (astratti) della coscienza e quelli dell’utilità (concreta) si traduce così nella tensione dialettica tra politica e morale, ovvero in una tensione che Weber considera tipica della modernità.
607
La filosofia morale più recente (a partire dalle riflessioni dell’economista britannico Roy Forbes Harrod, 1900-1978) ha invece cercato di conciliare la prospettiva utilitaristica con quella deontologica, sostituendo all’utilitarismo tradizionale, o “utilitarismo dell’atto” (che prende in considerazione gli eventuali vantaggi che scaturiscono da una singola azione) il cosiddetto “utilitarismo della regola” (che valuta gli eventuali vantaggi che, in generale, derivano dall’adozione di una regola di comportamento). In base a questa variante, un’azione è buona o cattiva a seconda che si conformi o meno a una regola (criterio deontologico), la quale però è a sua volta buona o cattiva a seconda che contribuisca o meno all’utilità comune (criterio utilitaristico).
ora tocca a voi...
dibattito critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto la guida dell’insegnante, mediante sorteggio dividete la classe in due squadre, assegnando a ciascuna il compito di argomentare in favore o contro la seguente mozione:
Il bene consiste nell’utile PREPAR A ZIONE DEL DIBAT TITO
• Per prepararvi a presentare il punto di vista della vostra squadra, rispondete alle seguenti domande: - in che senso per Hume/Kant si può parlare di morale dell’utile / morale del dovere? - quali sono gli argomenti addotti da Hume/ Kant per sostenere la propria posizione? - quali sono i limiti o le contraddizioni che si possono riscontrare nella posizione di Kant/ Hume? • Per elaborare gli argomenti favorevoli o contrari alla mozione, cercate nel manuale, in biblioteca o in Internet le riflessioni di alcuni (a vostra scelta) dei filosofi o degli indirizzi di pensiero menzionati nella “Questione aperta”, individuando eventuali fatti di cronaca che supportino la posizione della vostra squadra. SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO 1. primo intervento (max 6 minuti per ogni squa-
dra) Un primo studente della squadra favorevole alla mozione riassume il problema ed espone la tesi: Sì, il bene consiste nell’utile. Poi anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il
608
UnitÀ 6 KANT QUESTIONE il bene consiste nell’utile o nel dovere?
primo argomento. Un componente della squadra avversaria espone la tesi: No, il bene non consiste nell’utile, ma nel dovere e anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra; quindi espone il primo argomento. 2. secondo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un secondo studente per ogni squadra difende il primo argomento presentato dalle critiche eventualmente ricevute; quindi confuta il primo argomento avversario ed espone altri argomenti in favore della mozione o contro di essa. 3. terzo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un terzo studente per ogni squadra difende dalle critiche gli argomenti presentati fino a quel momento e confuta le argomentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 minuti per ogni squadra) Un esponente per ciascuna squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
L’OFFICINA DELL’ESAME VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA B
ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO 1 L’Illuminismo e il progresso Jonathan Israel (1946), studioso inglese, ha dedicato la sua attenzione a diversi fenomeni dell’età moderna, come la rivoluzione francese e lo sviluppo della democrazia europea. In Una
rivoluzione della mente, da cui è tratto il testo seguente, ha ricostruito la genesi del pensiero illuminista, distinguendo la corrente radicale da quella moderata.
‘
L’idea, ancora oggi diffusa, che i pensatori illuministi alimentassero l’ingenua convinzione della perfettibilità umana, sembra essere un vero e proprio mito costruito dagli studiosi degli esordi del XX secolo che gli erano avversi. In realtà il progresso illuminista aveva una viva consapevolezza della grande difficoltà insita nella diffusione della tolleranza, nel contenimento del fanatismo religioso e nel miglioramento della condizione umana, dell’ordine e dello stato di salute generale e ha sempre avuto, in misura considerevole, una base empirica. Il suo relativo ottimismo era fondato sull’evidente e crescente capacità dell’uomo di creare ricchezza, inventare tecnologie in grado di accrescere la produzione e di concepire istituzioni legali e politiche stabili, così come, va detto, sulla scomparsa della peste. […] L’ultimo grande filosofo dell’Illuminismo, Immanuel Kant (1724-1804), mentre insegnava all’università di Königsberg (oggi Kalinigrad) in quella che era la Prussia orientale, non aveva alcun dubbio che l’umanità stesse sperimentando il “progresso” e che questo evidente miglioramento fosse indotto dal progresso della “ragione”. Pertanto, mentre il progresso umano, per come lo intendeva, era evidente in tutti gli ambiti – legale, politico, morale, commerciale e tecnologico – erano il progresso della mente e l’impatto della natura (o della provvidenza) sul genere umano che, in primo luogo, guidavano questo processo. […] Dal punto di vista politico, l’obiettivo ultimo del progresso umano sarebbe stato quello di una federazione internazionale dei poteri allo scopo di risolvere le controversie, e di portare, infine, così immaginava, alla “pace perpetua”. Lo scopo finale, o télos del progresso dell’uomo, a suo avviso, era la piena fioritura della razionalità e della capacità morale umana, concepibile soltanto sulla base di una legislazione repubblicana e della pace perpetua. Tutto ciò sarebbe avvenuto, tuttavia, in modo quasi automatico in seguito al lavoro della provvidenza, senza alcun intervento specifico dell’uomo. […] L’idea del progresso dell’Illuminismo, dunque, era invariabilmente intesa come “filosofica”, una rivoluzione della mente. Indubbiamente però era anche economica, tecnologica, politica, medica e amministrativa, oltre a essere legale, morale, educativa ed estetica. Il “progresso” illuminista era dunque sfaccettato e di ampia portata. Più ancora, era intrinsecamente instabile, caratteristica che gli storici non hanno sufficientemente messo a fuoco in passato. Perché è evidente che il progresso illuminista poteva prendere sembianze specificamente cristiane, deiste o ateistiche; poteva essere inteso come qualcosa di adatto a sostenere o ad opporsi all’ordine sociale esistente, come reversibile o irreversibile, voluto da Dio o puramente naturale.
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(J. Israel, Una rivoluzione della mente. L’Illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna, trad. it. di F. Tassini e P. Schenone, Einaudi, Torino 2011, pp. 5-9)
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COMPRENSIONE E ANALISI
PRODUZIONE
1. Perché alle righe 1-2 la «convinzione della perfettibilità umana» è definita «ingenua» e anzi «un vero e proprio mito»? 2. Spiega, con parole tue, in che cosa consiste il «relativo ottimismo» illuminista (r. 7) e su cosa è fondato. 3. Perché, secondo Kant, il progresso dell’essere umano sarebbe stato raggiunto «in modo quasi automatico» (r. 23)? 4. Per quale ragione l’idea del progresso illuminista è definita da Israel «intrinsecamente instabile» (rr. 28-29)?
L’Illuminismo è stato un grandioso tentativo di “ingegneria culturale e sociale”, animato dall’intento di costruire o ricostruire il pensiero e la società attraverso l’analisi attenta della ragione umana e il progresso della conoscenza. Ritieni che la proposta illuministica sia ancora attuale in merito allo scopo che si prefigge e agli strumenti di cui si serve per raggiungerlo? Argomenta il tuo punto di vista con riferimenti espliciti ai tuoi studi e alla tua esperienza personale, e scrivi un testo coerente e coeso che puoi suddividere in paragrafi.
VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C
RIFLESSIONE CRITICA DI CARATTERE ESPOSITIVO-ARGOMENTATIVO SU TEMATICHE DI ATTUALITÀ 2 L’autonomia di giudizio e di azione
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Se in effetti Kant chiama tutto questo movimento critico Aufklärung [Illuminismo], quale sarà secondo lui il ruolo della critica? La mia risposta è semplice, molto semplice: rispetto all’Aufklärung la critica sarà, agli occhi di Kant, quella che dirà al sapere: sai bene fin dove sei in grado di sapere? Ragiona finché vuoi, ma sai bene fin dove puoi ragionare senza pericolo? La critica dirà, in sostanza, che la nostra libertà è messa meno in gioco da ciò che affrontiamo, con più o meno coraggio, che dall’idea che ci facciamo della nostra conoscenza e dei suoi limiti; e che perciò, invece di lasciar dire a un altro “obbedisci”, è nel momento in cui ci saremo fatti un’idea giusta della nostra conoscenza che si potrà scoprire il principio dell’autonomia e che non dovremo più ascoltare l’obbedisci; o meglio, l’obbedisci sarà fondato sull’autonomia stessa. (M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 42)
Scopo della critica kantiana è quello di definire l’ambito dell’umano sapere, così da garantire una base per l’autonomia del soggetto in vista dell’azione libera e limitare l’ingerenza di un’autorità esterna. Come possiamo assicurare un’autonomia di azione e di giudizio ai nostri
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SEZIONE 3 IL SETTECENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
giorni, in cui siamo assediati da innumerevoli informazioni e dall’ingerenza di agenti “nascosti” dietro a seducenti messaggi pubblicitari e propagandistici? Come potrebbe una nuova critica della ragione o una nuova analisi dell’intelletto umano difendere la nostra libertà?
SNODI PLURIDISCIPLINARI
VERSO IL COLLOQUIO 3 Libertà del singolo e appartenenza allo Stato Leggi il percorso delineato di seguito, che attraversa e mette in connessione alcune discipline, e prova a svilupparlo rispondendo in forma orale agli spunti ed ai quesiti proposti. Per elaborare collegamenti interdisciplinari coerenti, preoccupati innanzitutto di formulare un’interpretazione corretta del materiale proposto. Non affidarti a estemporanee associazioni di idee: cerca di evitare fraintendimenti, analizza attentamente lo spunto e collocalo nel suo contesto originario.
PARTIAMO DA UN’IMMAGINE
Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784, Parigi, Museo del Louvre.
STORIA DELL’ARTE
Il dipinto fa riferimento a un episodio della storia romana: all’epoca del regno di Tullo Ostilio, per porre fine alla guerra tra Roma e Alba Longa, secondo un uso dell’epoca si stabilì che le sorti dello scontro venissero decise dall’esito di un duello tra gli Orazi e i Curiazi, rispettivamente tre fratelli romani e tre fratelli albani pronti a dare la vita per la patria. L’opera si colloca nella prima fase della produzione pittorica di Jacques-Louis David (17481825), che negli anni successivi metterà le proprie doti artistiche al servizio della Rivoluzione francese prima e di Napoleone poi, per ritirarsi in esilio volontario in Belgio dopo la restaurazione della monarchia in Francia.
Quale visione politica è sottesa al Giuramento degli Orazi? Il dipinto, talvolta interpretato come un’implicita adesione agli ideali repubblicani, venne commissionato dal re Luigi XVI quale celebrazione delle virtù civili e della fedeltà allo Stato. • David rappresenta il momento in cui gli Orazi giurano di combattere per la salvezza di Roma, pronti a rischiare la propria vita per la patria. Osserva l’architettura e i tre gruppi di figure. Verso quale punto converge la composizione? Come vengono raffigurati i tre fratelli e che cosa caratterizza invece la madre e le sorelle? Rifletti sull’opera nel suo complesso: quale modello di uomo e di cittadino propone?
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• Ricostruisci il contenuto del trattato Della tiran-
PEDAGOGIA
La riflessione sul cittadino e sul suo ruolo nello Stato assume un peso significativo negli sviluppi della pedagogia settecentesca. Gli autori di ispirazione illuminista concepiscono generalmente l’educazione come progressiva emancipazione dell’individuo, che si svincola dal suo originario stato di minorità per acquisire autonoma capacità di giudizio e pieno esercizio della propria libertà. • Scegli un esempio di riforma dei sistemi educativi realizzata in seno al dispotismo illuminato e rileggila nella prospettiva della dialettica tra libertà dell’individuo e appartenenza allo Stato. FILOSOFIA
Nel Contratto sociale Rousseau si scaglia contro ogni forma di tirannia. Come constata amaramente, l’essere umano «è nato libero, e ovunque è in catene»; occorre pertanto trovare «una forma di associazione […] mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a sé stesso, e resti non meno libero di prima». • L’adesione dell’individuo al corpo sociale implica comunque una forma di libertà differente dall’arbitrio che caratterizza lo stato di natura. Leggi il libro II, capitolo V (Il diritto di vita e di morte): secondo Rousseau, perché e a quali condizioni lo Stato può togliere la vita a un cittadino? LE T TER ATUR A ITALIANA
La dicotomia tirannia-libertà attraversa molte delle opere di Vittorio Alfieri (1749-1803). Quasi coetaneo di David, sprezzante critico tanto della monarchia illuminata quanto della Rivoluzione francese, con le sue scelte di vita e con la sua produzione letteraria espresse il rifiuto di ogni dispotismo, a cui contrappose, quasi utopicamente, la libertà individuale dell’artista e dell’eroe.
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SEZIONE 3 IL SETTECENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
nide, soffermandoti in particolare sul libro II. Per quale motivo l’autore condanna il dispotismo illuminato dei regimi a lui contemporanei (cap. 7)? Alfieri non celebra l’eroismo del cittadino pronto a morire per la patria, ma – al contrario – quello dell’individuo pronto a dare la morte al tiranno o a perire per la libertà: argomenta sotto questo profilo la prospettiva dello scrittore confrontandola con quelle che emergono dagli spunti precedenti. LE T TER ATUR A L ATINA
Dopo la tragica esperienza delle guerre civili, Roma assistette all’affermazione del principato: diversi intellettuali di simpatie repubblicane, pur senza rinnegare i propri ideali, accettarono il potere di Augusto quale garanzia della necessaria pacificazione. Si pensi ad esempio a Quinto Orazio Flacco: pur avendo combattuto a Filippi dalla parte dei cesaricidi, entrò nel circolo di Mecenate e si avvicinò all’ideologia augustea. • Leggi l’ode a Cleopatra (I, 37). Già le prime parole (Nunc est bibendum) riecheggiando Alceo suggerivano al lettore colto che sarebbe stata annunciata la morte di un tiranno. Analizza l’ode oraziana e mettila in relazione al contesto nel quale è stata scritta, e con le scelte poetiche e politiche di Orazio. Traccia poi un bilancio del percorso sviluppato attraverso i diversi spunti disciplinari: a tuo avviso, come si possono bilanciare libertà individuale e appartenenza al corpo sociale, autonomia e ordine, esigenze del singolo e spirito di sacrificio?
L’OTTOCENTO Il Romanticismo
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a «splendida aurora» della Rivoluzione francese (per usare un’espressione hegeliana) e la radicale trasformazione socio-economica legata alla rivoluzione industriale dominano la storia europea della prima metà dell’Ottocento. Sconvolta poi dalle conquiste napoleoniche, l’Europa trova un nuovo equilibrio geopolitico con il Congresso di Vienna (1814-1815), che inaugura la cosiddetta “età della Restaurazione”.
Nella prima metà del secolo si afferma e si diffonde in tutto il continente una nuova sensibilità artistica, letteraria e filosofica che va sotto il nome di “Romanticismo”, e che al razionalismo illuministico contrappone l’esaltazione del sentimento e l’attenzione per la storia. Sorto in Germania alla fine del Settecento, il Romanticismo corrisponde in filosofia ai grandi sistemi idealistici di Fichte, Schelling e Hegel.
L’OGGETTO la corona imperiale La cosiddetta “corona di Carlo Magno”, creata da MartinGuillaume Biennais per l’incoronazione di Napoleone (1804) e oggi conservata al Museo del Louvre.
Il 2 dicembre 1804, nella cattedrale parigina di Notre-Dame, Napoleone si auto-proclama imperatore, ponendo egli stesso sul proprio capo una splendida corona creata per l’occasione da un famoso orafo. Irrompendo sulla scena del mondo per esportare gli ideali rivoluzionari francesi, Napoleone si guadagna l’ammirazione di Hegel e di molti intellettuali del tempo. Ben presto, tuttavia, da paladino della libertà si trasforma egli stesso in un dittatore e in un conquistatore, anticipando il disincanto e la delusione che accompagneranno la Restaurazione. Nella corona napoleonica si può dunque scorgere l’«astuzia della storia» di cui parla Hegel: una storia che con Napoleone sembra prendersi gioco degli ideali razionali e libertari degli illuministi, ma che tuttavia si serve proprio di lui per risvegliare nei popoli sottomessi un sentimento di riscossa.
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LA “RIVOLUZIONE” ROMANTICA LA LOTTA CONTRO LA RAGIONE ILLUMINISTICA Le parole di Schiller – la storia del mondo è il tribunale del mondo – sono quanto di più profondo si possa dire. (G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia del diritto, par. 164)
Un’epoca di rivoluzioni L’arco cronologico compreso tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XX è per l’Europa un periodo denso di rivolgimenti storici fondamentali, percorso da quella che può essere considerata un’unica «grande rivoluzione»: dalla Rivoluzione francese alla genesi dello Stato moderno e alla diffusione delle grandi ideologie del primo Novecento (liberalismo, democrazia, socialismo e nazionalismo). Questa «grande rivoluzione» è nello stesso tempo politico-culturale e socio-economica, poiché si accompagna al diffondersi del sistema industriale capitalistico e all’affermarsi della società borghese. In quest’epoca storica si distinguono due periodi: un primo periodo che va dalla Rivoluzione del 1789 ai moti liberali del 1848, e un secondo periodo che va dagli anni Cinquanta fino alla fine del secolo, e che è dominato dallo sviluppo della società industriale. A queste due fasi corrispondono due grandi momenti filosofici: la filosofia della prima metà del secolo esprime la fiducia ottimistica che le élite intellettuali ripongono nella costruzione di nuove forme di vita associata ispirate all’ideale dell’emancipazione dei popoli, alla modernizzazione napoleonica e, soprattutto, al principio di nazionalità che lo stesso Napoleone aveva risvegliato; la riflessione filosofica della seconda metà del secolo è invece orientata verso una mentalità realistica ed empiristica, che troverà la sua espressione più significativa e matura nel positivismo e nell’evoluzionismo ( vol. 3, unità 3).
Dal tribunale della ragione al tribunale della storia Non è facile individuare una “cultura unitaria” che accomuni tutto l’Ottocento ma – con una semplificazione piuttosto consueta – possiamo rintracciarla nella categoria generale del Romanticismo. Questo è una visione del mondo, un atteggiamento mentale che si può individuare non soltanto nella letteratura e nelle arti (dalla pittura alla musica), ma anche nella politica e nella filosofia, dove trova la sua massima espressione nell’idealismo post-kantiano. Antitetica rispetto a quella illuministica, la sensibilità romantica costituisce la risposta culturale agli avvenimenti storici dell’epoca: da una parte si ha infatti la delusione per la Rivoluzione francese (sfociata nel Terrore, nell’imperialismo napoleonico e infine nella Restaurazione); e dall’altra si ha la ripresa dello slancio rivoluzionario con i moti liberali e nazionali della prima metà dell’Ottocento. Gli sviluppi della Rivoluzione francese, in particolare, sono interpretati da molti intellettuali del tempo come la sconfitta del progetto culturale e politico dell’Illuminismo, che aveva affidato alla “luce” della ragione la sua volontà progressista. Innalzata dagli illuministi a giudice della storia, la ragione viene ora portata proprio di fronte al “tribunale della storia”, in un gioco di ruoli invertito.
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L’OTTOCENTO Il RomantIcIsmo
La nuova concezione della storia Si comprende, a questo punto, uno degli aspetti più importanti che caratterizzano la cultura filosofica dell’Ottocento: il nuovo interesse per la storia e il nuovo modo di concepirla. La pretesa illuministica di giudicare il passato (condannandone alcuni momenti e valorizzandone altri) appare assurda, dato che implica il misconoscimento della specificità delle varie epoche, il cui contributo è sempre determinante in relazione alla totalità del corso storico. Nella nuova prospettiva romantica, la storia nel suo complesso è superiore all’arbitrio, alle buone intenzioni e agli ideali dei singoli esseri umani, i quali infatti vengono spesso travolti dalla sua forza. La storia assolve e condanna, abbatte e innalza individui e popoli, tutti ugualmente sottoposti al suo «diritto supremo», per usare un’espressione di Hegel ( unità 8). E di conseguenza la storia passata non è più vista come un insieme di errori, o come qualcosa di irrazionale, ma come un momento imprescindibile di un processo globalmente positivo. Da questa consapevolezza nascono due nuove discipline filosofiche: la storia della filosofia intesa come la ricostruzione progressiva di una verità alla quale ogni autore dà il proprio contributo; e la filosofia della storia, intesa come l’individuazione di un “senso” – cioè di una direzione e di un significato – del corso del mondo. L’Ottocento è infatti il secolo delle grandi filosofie della storia, ovvero di alcune «grandi narrazioni» (come le chiamerà Jean-François Lyotard, 1924-1998) in cui la fede nella provvidenza divina si traduce nella fiducia nel progresso dell’umanità verso una meta finale (libertà, trionfo della scienza, società comunista ecc.).
Dalla ragione al sentimento
sentimento
Anche dalla nuova concezione della storia emerge dunque la caratteristica fondamentale della cultura romantica: la condanna della fredda, universale, astratta ragione illuministica, alla quale si oppone la spontaneità del sentimento, ritenuto capace di indagare i misteri più profondi dell’essere umano. Alcuni romantici propongono proprio il sentimento e l’intuizione mistica su cui si basa la fede quali strumenti («organi») per cogliere in modo immediato l’essenza della natura, della vita e di Dio. Altri (come Schelling) rivendicano il primato conoscitivo dell’arte. Altri ancora (come Hegel), pur condividendo le critiche mosse alla ragione illuministica, ritengono tuttavia che soltanto la ragione possa giungere a una corretta comprensione della realtà, purché si tratti di una ragione storica e dialettica, capace di discernere i diversi aspetti del reale nella loro articolata complessità.
In epoca moderna, la rivalutazione del sentimento aveva trovato la sua prima significativa espressione in Hume, il quale lo aveva indicato come il centro e il motore non soltanto dell’azione, ma anche della valutazione morale ( unità 4, cap. 4). Nella Critica del Giudizio, Kant aveva poi fatto del sentimento una “terza facoltà” – accanto a quella teoretica (l’intelletto) e a quella pratica (la ragione) – deputata a “riflettere” sulla natura, formulando giudizi sulla sua bellezza e sulla sua struttura finalistica ( unità 6, cap. 4). Con il Romanticismo, il termine “sentimento” ritorna ad assumere il significato generale di capacità di “sentire” i moti dell’animo, e in quanto tale ad essere contrapposto alla freddezza calcolatrice della ragione.
Il senso dell’infinito Un altro tema che contraddistingue la sensibilità culturale romantica è la predilezione per l’infinito. Contrariamente a Kant, che aveva costruito in ogni ambito una “filosofia del finito” e “del limite”, i romantici sono mossi da un’intima inquietudine, da una tensione emotiva e intellettuale che li conduce alla ricerca di un “oltre” che sfugge di continuo, poiché si pone al di là dello spazio, del tempo e della caducità umana.
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Nel 1825 Giacomo Leopardi (1798-1837) dedica proprio a questo tema una delle sue liriche più famose, in cui il limite fisico («questa siepe, che da tanta parte / de l’ultimo orizzonte il guardo esclude») sollecita un “salto” verso l’infinito: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo». Nell’orizzonte di questa nuova sensibilità, l’arte è intesa come l’espressione di una libertà creativa illimitata, che può e deve infrangere le regole e i modelli classici dell’equilibrio formale. Ma questo anti-classicismo dei romantici, prima di essere letterario ed estetico, costituisce la tendenza generale di un’intera epoca e trova una sua peculiare manifestazione anche nella filosofia. Concordi nell’assegnare un ruolo primario all’infinito, i pensatori romantici si differenziano per il diverso modo di intenderlo. Il modello prevalente è quello panteistico, secondo il quale il finito va compreso all’interno dell’infinito, come una sua parte o manifestazione transeunte.
La celebrazione degli individui e delle nazioni La cultura romantica è segnata anche dall’affermarsi dell’idea di nazione. All’universalismo e al cosmopolitismo degli illuministi (che avevano proclamato uguali tutti gli uomini in quanto esseri razionali e “cittadini del mondo”), i romantici oppongono infatti il richiamo alla singolarità irriducibile sia degli individui sia delle nazioni, resi unici, rispettivamente, dal carattere e dalla tradizione. Anche nelle forme più esasperate di orgoglio patriottico, per tutto il pensiero romantico quella di “nazione” rimane una categoria culturale e spirituale, da non confondere con quella naturale o biologica di “etnia”. In un libro ormai classico intitolato L’idea di nazione, lo storico Federico Chabod (1901-1960) spiega infatti come, durante il XIX secolo, il sentimento di appartenenza a una comunità legata da una medesima lingua e da medesime tradizioni culturali non sia disgiunto dalla consapevolezza di appartenere alla più vasta comunità umana. Quella ottocentesca è quindi un’idea di nazione lontana dalle pulsioni egoistiche che porteranno ai nazionalismi del Novecento.
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA Königsberg
REGNO DI GRAN BRETAGNA Londra
Berlino
REGNO DI PRUSSIA
Lipsia Jena Parigi
Leonberg
Schelling REGNO DI FRANCIA
Milano
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Stoccarda HEGEL Monaco
Bad Ragaz Ginevra
L’OTTOCENTO Il RomantIcIsmo
Circolo di Jena
Francoforte
Rammenau FICHTE
UNO SGUARDO ALLA SEZIONE L’OTTOCENTO – IL ROmaNTICIsmO La massima espressione filosofica del Romanticismo è l’idealismo, il cui fondatore è Fichte. Reinterpretando il principio kantiano dell’«io penso», Fichte elabora un sistema metafisico fondato sull’attività infinita dell’Io, che assume il ruolo di principio creatore ultimo dell’intera realtà.
UNITÀ 7
IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO Alla fine del Settecento, in Germania comincia a diffondersi una corrente di pensiero che, opponendosi alla celebrazione illuministica e kantiana della ragione, rivaluta il sentimento, l’intuizione, la fede e la poesia, quali strumenti sia della conoscenza sia dell’azione. Nato dalla cosiddetta “filosofia della fede” e dal movimento letterario dello Sturm und Drang, questa corrente viene comunemente denominata “Romanticismo” e in poco tempo si diffonde dal mondo tedesco a tutto il resto d’Europa, pervadendo ogni ambito del sapere e trasformandosi in un’autentica atmosfera culturale.
L’idealismo di Fichte prosegue con la filosofia di Schelling, in cui l’identità tra il soggetto e l’oggetto, o tra lo spirito e la natura, viene sottolineata con maggiore forza, portando alla teorizzazione di un «Assoluto» indifferenziato.
UNITÀ 8 HEGEL
L’idealismo tedesco trova il suo culmine nel sistema di Hegel, il quale interpreta la realtà come una totalità organica e infinita, in cui il finito viene ricompreso come suo momento. A questa realtà onnicomprensiva, il cui divenire è intrinsecamente razionale, Hegel dà il nome di «spirito». Sulla base di queste premesse, Hegel costruisce una grandiosa visione del mondo, della storia e del sapere, in cui ogni momento è visto e interpretato in funzione del cammino percorso dallo spirito per prendere coscienza di sé e della propria identità con la realtà nel suo complesso. VIDEO La filosofia dell’epoca romantica
(1730-1788)
Hamann
(1743-1819)
Jacobi
(1744-1803)
Herder
(1749-1832)
Goethe (1759-1805)
Schiller FICHTE
(1762-1814) (1767-1835)
Humboldt
(1767-1845)
August Wilhelm von Schlegel HEGEL
(1770-1831) (1770-1843)
Hölderlin Novalis
(1772-1801) (1773-1853)
Tieck (1772-1829)
Friedrich von Schlegel
(1775-1854)
Schelling
1700
1750
1800
1850
1900
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7 UNITÀ
IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO
L’unità presenta i tratti generali del Romanticismo e il pensiero dei primi esponenti dell’idealismo. Critici nei confronti del razionalismo illuministico e kantiano, sia i pensatori romantici sia quelli idealisti elaborano una concezione dialettica della ragione, l’idea dello spirito come attività creatrice e la visione della storia come processo di sviluppo dotato di senso. CAPITOLO 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura
Il Romanticismo ha una fase preparatoria nella filosofia tedesca di fine Settecento e nelle riflessioni di alcuni letterati legati al movimento dello Sturm und Drang. Ma la sensibilità romantica vive il suo momento di massima fioritura nei primi decenni dell’Ottocento, quando gli intellettuali di tutta Europa vengono “contagiati” dall’insofferenza per i limiti del finito e dall’aspirazione all’assoluto.
CAPITOLO 2 Fichte IL RACCONTO DI UNA VITA
La massima espressione filosofica della mentalità romantica è l’idealismo, il cui fondatore è Fichte. Allievo di Kant, Fichte supera il principio kantiano dell’«io penso» e i limiti imposti dalla «cosa in sé», giungendo così ad affermare l’infinità dell’«Io», in cui tutto esiste e alla cui libera attività creatrice tutto deve essere ricondotto.
CAPITOLO 3 Schelling
Spingendosi oltre lo stesso Fichte, Schelling concepisce l’infinito, o l’assoluto, come il “luogo” in cui si esprimono in modo indifferenziato soggetto e oggetto, ideale e reale, spirito e natura. La ricerca filosofica di Schelling assume pertanto due direzioni: da una parte egli mostra come la natura sia spirito visibile, dall’altra come lo spirito sia natura invisibile.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda attentamente il video che ti proponiamo e sintetizzane per scritto il contenuto, elencando schematicamente i passaggi e le nozioni fondamentali. Annota anche gli eventuali dubbi o gli spunti di riflessione che il video ti ha suggerito.
IN CLASSE
VIDEO
La nascita dell’idealismo
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Sotto la guida dell’insegnante formate quattro gruppi e, all’interno di ciascuno di essi, confrontate il lavoro svolto a casa, discutendo i dubbi e gli spunti di riflessione che avete individuato.
Elaborate quindi insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - quali sono i motivi più tipici del Romanticismo? - quale rapporto sussiste tra l’idealismo tedesco e la filosofia kantiana? - qual è la “cifra” che caratterizza la filosofia di Fichte e di Schelling, due dei principali rappresentanti dell’idealismo?
CAPITOLO 1 IL ROMANTICISMO TRA FILOSOFIA E LETTERATURA 1. Una definizione preliminare del Romanticismo Con il termine “Romanticismo”, che in origine faceva riferimento al romanzo cavalleresco, ricco di avventure e di amori, si indica il movimento filosofico, letterario e artistico che, nato in Germania negli ultimi anni del Settecento, ha poi raggiunto la massima fioritura in tutta Europa nei primi decenni dell’Ottocento, improntando di sé la mentalità di gran parte del secolo. Tuttavia, la delucidazione critica del concetto di “Romanticismo” risulta piuttosto complessa, forse anche più di quella relativa alle nozioni di “Rinascimento” o di “Illuminismo”, e sembra urtare contro ostacoli insormontabili, che derivano innanzitutto dalla difficoltà di definirne adeguatamente l’ambito storiografico. A questo proposito sono state elaborate due interpretazioni di fondo.
Il Romanticismo come problema critico e storiografico
Secondo una prima lettura, che risale in parte ai romantici stessi, il Romanticismo è un in- Il Romanticismo dirizzo culturale che trova la sua nota qualificante nell’esaltazione del sentimento, e che come esaltazione del sentimento si concretizza in modo specifico nei rappresentanti del “circolo di Jena” ( p. 620). Questo modo di considerare il Romanticismo si è sedimentato anche nell’uso comune, che quasi sempre identifica il termine “romantico” con gli aggettivi “sentimentale”, “poetico” ecc. Tuttavia, quest’accezione ristretta del termine, pur cogliendo un aspetto indubbiamente basilare del movimento, con il tempo ha finito per apparire riduttiva: il suo rischio oggettivo è di privilegiare esclusivamente l’aspetto letterario e artistico del Romanticismo, mettendone in ombra le componenti filosofiche. Per una seconda interpretazione, di origine più recente, il Romanticismo tende invece a Il Romanticismo configurarsi come una temperie o un’atmosfera storica, ovvero come una condizione men- come atmosfera o mentalità tale generale, che si riflette nella letteratura come nella filosofia, nella politica come nella pittura, e di cui fa parte integrante la corrente dell’idealismo post-kantiano. Si guarda, cioè, al Romanticismo in prospettiva storico-culturale, riconoscendo in esso una “costellazione” di idee e di atteggiamenti che sorge in relazione a determinate situazioni socio-politiche (il fallimento della Rivoluzione francese, le vicende napoleoniche, la Restaurazione, i moti nazionali ecc.) e che si nutre di una cultura antitetica rispetto a quella dell’età illuministica. Tant’è vero che, mentre nella prima interpretazione si parla soprattutto e unilateralmente di “scuola romantica”, nella seconda si fa riferimento più in generale a un’“epoca romantica”, a una “civiltà romantica” o una “cultura romantica”. Tuttavia, se si accoglie quest’ultima accezione (che peraltro è il risultato di un lavoro di approfondimento storiografico di oltre un secolo), sembra ancor più difficile elencare i tratti costitutivi del Romanticismo. Al punto che parecchi studiosi vi rinunciano programmaticamente, adducendo come motivo di tale scelta l’impossibilità pratica di racchiudere in una definizione o in una serie di formule l’essenza del Romanticismo, e insistendo – non senza fondate ragioni – sui suoi “mille volti”.
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Ma anche in questo caso si rasenta forse una forma di dogmatismo alla rovescia. Tra la pretesa di sintetizzare in una serie di formule esaustive l’“essenza” del Romanticismo e la rinuncia alla definizione, esiste infatti una terza possibilità: quella di tratteggiare alcune tendenze tipiche della “mentalità” romantica, come faremo nelle prossime pagine. Tra ambivalenze Certo il Romanticismo, come vedremo, è pieno di ambivalenze, poiché in esso coesistono, e atteggiamenti ad esempio, il primato dell’individuo e quello della società, l’esaltazione del passato e l’attesa comuni
messianica del futuro, l’evasione nel fantastico e il realismo, il titanismo e il vittimismo, il sentimentalismo e il razionalismo ecc. Ciò non toglie che tutti questi motivi, pur nella loro antitetica natura, cadano in un medesimo orizzonte complessivo e siano espressione di una sorta di “aria comune” che li pervade, caratterizzandoli in modo inequivocabilmente “romantico”. Pertanto, o si ha la coerenza di espungere il concetto di Romanticismo dal dizionario culturale corrente, considerandolo un’invenzione degli storici, o si deve per forza ammettere che esso sottintende un fondato riferimento ad alcuni atteggiamenti ricorrenti tra i letterati e i filosofi della prima metà dell’Ottocento. Ad esempio, l’esaltazione del sentimento da un lato e la celebrazione idealistica e hegeliana della ragione dialettica dall’altro non sono due posizioni totalmente contrapposte, perché scaturiscono da un analogo atteggiamento, che è tipico della cultura romantica: la polemica contro l’intelletto illuministico. Tant’è vero che entrambe mirano a risolvere il medesimo problema, ovvero il ritrovamento di una via per l’assoluto.
Una ricerca di Ora, è soltanto sulla base della constatazione di tali atteggiamenti ricorrenti che possiamo tratti ricorrenti catalogare alcuni autori come “romantici”, distinguendoli così da quelli di altre età, e che
possiamo dire, ad esempio, che mentre Voltaire e Diderot sono “illuministi”, Novalis, Schelling e Schleiermacher sono “romantici”. Di conseguenza, l’autentico problema storiografico del Romanticismo è forse quello di delineare uno schema tipico-ideale capace di “stringere” o di “raccogliere” alcune note ricorrenti nella pluriforme visione del mondo (Weltanschauung) romantica.
Il rapporto Dopo aver chiarito il concetto sintetico o “globale” di Romanticismo e aver legittimato la tra poesia possibilità di un discorso “aperto” sui suoi caratteri generali, si pone un altro problema: e filosofia
dove vanno cercati quei tratti che caratterizzano la mentalità romantica, o meglio la visione romantica del mondo? Nei filosofi in senso stretto e tecnico, o anche nei letterati? Ovviamente, avendo interpretato il Romanticismo come un’“atmosfera” culturale, in cui circola una comune forma mentis, riteniamo che i tratti in questione debbano essere rintracciati sia nei filosofi sia negli artisti, che li esprimono gli uni in modo più concettuale e sistematico, gli altri in maniera più spontanea e immediata. Del resto, la stretta connessione tra poesia e filosofia è una caratteristica oggettiva del Romanticismo, esplicitamente proclamata e teorizzata da Friedrich von Schlegel:
‘
Tutta la storia della poesia moderna è un continuo commento al breve testo della filosofia […] poesia e filosofia debbono essere unite.
2. Gli albori del Romanticismo: il circolo di Jena I protagonisti Storicamente, il Romanticismo tedesco ha come luogo di nascita la città di Jena e trova i
suoi esponenti di punta in Friedrich von Schlegel (1772-1829), teorico della corrente; in Wilhelm August von Schlegel (1767-1845), fratello maggiore di Friedrich; in Caroline Michaelis (1763-1809), donna di notevole fascino e personalità, moglie del più vecchio dei fratelli Schlegel e, in seguito, di Schelling; e in Friedrich von Hardenberg, detto Novalis
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(1772-1801), una delle menti più rappresentative di tutto il Romanticismo tedesco e poeta d’avanguardia del circolo jenese. Nell’atmosfera intellettuale del circolo di Jena rientra inoltre, nonostante sia rimasto ufficialmente in disparte rispetto a esso, il grande poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843). Nel 1797, nel corso di un’aspra polemica con Schiller, Friedrich von Schlegel si trasferisce a La diffusione Berlino, dove fonda la rivista “Athenaeum”, edita tra il 1798 e il 1800, che rappresenta il pri- delle idee del circolo mo strumento di diffusione delle nuove idee. A Berlino Schlegel entra in contatto con il filosofo Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834) e con la scuola d’arte rappresentata da Johann Ludwig Tieck (1773-1853) e da Wilhelm Heinrich Wackenroder (1773-1798). Gli Schlegel stringono inoltre rapporti con Fichte ( cap. 2), che hanno conosciuto a Jena I contatti con i nel 1796 e di cui subiscono l’influsso filosofico, tanto da attribuirgli la paternità ideale del- filosofi idealisti lo stesso movimento romantico, e con Schelling ( cap. 3), il cui pensiero pare costituire, a un certo punto, la più compiuta incarnazione filosofica delle nuove idee. Lo stesso Hegel ( unità 8), amico negli anni giovanili di Hölderlin e di Schelling, ha occasione di conoscere e approfondire le dottrine estetiche e filosofiche del cenacolo degli Schlegel, che in seguito criticherà, pur essendo inevitabilmente influenzato dal generale clima romantico. Nel 1801, alla morte di Novalis, il gruppo di Jena si scioglie, ma le sue idee si diffondono rapidamente in altri centri della Germania (Monaco, Dresda, Heidelberg ecc.) e all’estero.
)
Per l’esposizione orale
1. Delinea brevemente le principali interpretazioni storiografiche del Romanticismo. 2. Quando e dove nasce il Romanticismo, e chi sono i primi esponenti di questa corrente?
3. Gli atteggiamenti caratteristici del Romanticismo tedesco Dal momento che la Germania costituisce l’anima e il centro (soprattutto filosofico) del Romanticismo europeo, vale la pena di soffermarsi in particolare sul Romanticismo tedesco. Sulla base delle norme metodologiche che abbiamo esposto, nei paragrafi che seguono analizzeremo quindi alcuni tratti che ricorrono con verificabile frequenza nei suoi esponenti, e che pertanto rappresentano le coordinate di fondo dell’intero movimento. Ovviamente (ed è bene precisarlo subito, per evitare possibili equivoci) non è detto che i motivi che elencheremo si trovino tutti, e contemporaneamente, in ciascun autore, ma la presenza anche soltanto di alcuni di essi in un determinato scrittore autorizza a parlare di “aspetti romantici” più o meno accentuati della sua opera.
La ricerca di nuove vie d’accesso alla realtà e all’assoluto Si afferma talvolta, sulla scorta di una lunga consuetudine storiografica, che i romantici ri- Il rifiuto della pudiano la ragione. Poiché questo, come avremo modo di rilevare, non è sempre vero, per ragione illuministica essere più precisi e aderenti al movimento nella sua globalità si dovrebbe dire che i romantici, pur nella varietà delle loro posizioni, sono tutti d’accordo nel respingere la ragione illuministica. Infatti, come si è visto, il Romanticismo nasce proprio con il ripudio di quel tipo di ragione della quale l’Illuminismo aveva fatto la propria bandiera e il proprio strumento interpretativo del mondo. Già incriminata del “bagno di sangue” della Rivoluzione francese e del militarismo napoleonico, la ragione dei philosophes viene anche ritenuta incapace di comprendere la realtà profonda dell’essere umano, dell’universo e di Dio.
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L’esaltazione del sentimento Messa da parte la ragione prevalentemente empiristico-
scientifica dell’Illuminismo e del criticismo (che aveva sbarrato le porte alla metafisica), i romantici cercano altre vie di accesso alla realtà e all’infinito. Le strade percorse, pur all’interno del comune denominatore anti-illuministico, sono però molteplici. Alcuni, soprattutto poeti e artisti, individuano nel sentimento l’organo più funzionale per rapportarsi alla vita e per penetrare nell’essenza più riposta dell’universo. Quella del sentimento è una categoria spirituale che l’antichità classica aveva perlopiù ignorato o disprezzato, e che soltanto il Settecento illuministico aveva cominciato a riconoscere nella sua forza. Nel Romanticismo il sentimento finisce per acquistare un valore predominante, soprattutto in virtù delle idee dello Sturm und Drang, che per primo denuncia l’incapacità della ragione finita dell’uomo, nei limiti a essa imposti da Kant, di cogliere gli aspetti più profondi della realtà. Il sentimento Sebbene il sentimento di cui parlano i romantici sia qualcosa di più profondo e “intellettuale” come organo del sentimento comunemente inteso, e sebbene risulti nutrito e potenziato di “riflessione” e dell’infinito
di filosofia (tant’è vero che il geistiges Gefühl di cui parla Schlegel si può tradurre con “sentimento spirituale”), esso appare come un’ebbrezza indefinita di emozioni, in cui palpita la vita stessa al di là delle strettoie della ragione, che nei suoi confronti scade a pallido riflesso:
‘ ‘ ‘
Il pensiero è soltanto un sogno del sentimento.
(Novalis)
Per queste sue caratteristiche, il sentimento è considerato capace di aprire a nuove dimensioni della psiche e di risalire alle sorgenti primordiali dell’essere. Anzi, il sentimento appare talvolta come l’infinito stesso, o meglio come l’infinito nella forma dell’indefinito. In ogni caso, esso si configura come valore supremo, tant’è che Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – partecipe negli anni giovanili e sotto questo aspetto dell’atmosfera romantica – scrive: Quando in cotesto sentire ti senti veramente felice, / chiamalo pure allora come vuoi: / chiamalo felicità, cuore, amore, Dio. / Per questo io non ho nome alcuno. / Sentimento è (Goethe, Faust, I, vv. 3453-3457) tutto! / La parola è soltanto suono e fumo.
E Hölderlin, racchiudendo in una frase felice la vena anti-razionalistica che serpeggia nel nascente movimento romantico, nel celebre romanzo Iperione esclama: Un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando pensa.
(Hölderlin, Iperione, I, 1)
L’arte come Il culto dell’arte L’esaltazione del sentimento procede parallelamente al culto dell’arte, «sapienza vista come «sapienza del mondo» e «porta aurorale» della conoscenza, ossia come ciò che del mondo»
precede e anticipa il discorso logico e nello stesso tempo lo completa, giungendo là dove questo non può arrivare e configurandosi come ciò da cui nasce e a cui finisce sempre per ritornare la filosofia.
enciclosofia Sturm und Drang Lo Sturm und Drang (letteralmente “tempesta e impeto”, dal titolo di un’opera del 1776 dello scrittore Friedrich Maximilian Klinger) fu un movimento culturale che si sviluppò in Germania tra il 1760 e il 1785. Contraddistinto dal programma di un’integrale rivalutazione, nell’arte e nella vita, degli elementi irrazionali dell’essere umano, lo Sturm und Drang contrappose alla ragione illuministica e kantiana i domini della fede e del sentimento, indicando in essi la via d’accesso a quegli aspetti della realtà ritenuti irraggiungibili con le sole forze della ragione. Sul piano politico il movimento manifestò tendenze anti-stataliste e filo-rivoluzionarie.
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L’artista, e in particolare il poeta, viene considerato come un “esploratore dell’invisibile”, dotato di poteri di intuizione superiori a quelli degli uomini comuni e della ragione logica. Tipiche, in questo senso, alcune affermazioni dei Frammenti di Novalis o di Schlegel:
‘‘ ‘
Il poeta comprende la natura meglio che lo scienziato.
(Novalis)
Il filosofo poeta, il poeta filosofo, è un profeta.
(Schlegel)
Il senso per la poesia ha molto in comune col senso per il misticismo […]. Rappresenta (Novalis) l’irrappresentabile, vede l’invisibile, sente il non sensibile.
Come vedremo, questo concetto dell’arte come intuizione meta-filosofica in grado di attingere le profondità originarie della vita e di possedere l’infinito troverà la sua più nota concettualizzazione in Schelling, che nell’arte individuerà l’organo tramite cui avviene la rivelazione dell’assoluto a sé medesimo. In molti autori il privilegiamento dell’arte comporta anche una preminenza del modello estetico, poiché l’arte, che rappresenta il fulcro di tutte le esperienze romantiche, finisce per configurarsi come la principale chiave di lettura della realtà, che infatti viene interpretata alla luce delle note qualificanti dell’attività artistica: creatività, libertà, organicità, consapevolezza-inconsapevolezza ecc. Pertanto, quando Schelling arriva a dire che l’universo è nient’altro che un’immensa opera d’arte generata da quel «poeta cosmico» che è l’assoluto (di cui il poeta umano è il riflesso), non fa che portare alla sua massima espressione metafisica un pensiero che circolava fin dall’inizio tra i romantici, i quali scoprono nell’arte gli attributi stessi di Dio: l’infinità e la creatività.
L’arte come chiave di lettura della realtà
Ripudiati il principio di imitazione e le regole classicistiche, l’estetica romantica si configu- L’estetica ra così, nel modo più esplicito e impegnato, come un’estetica della creazione, poiché se romantica all’uomo morale si riconosce ancora la necessità di un limite, di un ostacolo, al poeta è attribuita una libertà sconfinata e all’arte una spontaneità assoluta, che ne fa un’attività in perenne divenire, ossia dotata di inesauribile dinamicità creativa:
‘ ‘
La poesia romantica è ancora in divenire […] essa sola è infinita, come essa sola è libera, e riconosce come sua legge prima questa: che l’arbitrio del poeta non soffre legge alcuna. (Schlegel)
Questa valorizzazione dell’arte creativa implica il primato del linguaggio non soltanto La celebrazione poetico, ma anche musicale, visto come “parola magica” in cui si concretizza l’essenza della musica stessa dell’arte. Per quanto concerne la musica, Wackenroder è tra i primi a celebrarne i “miracoli”: La musica mi appare come l’araba fenice, che, leggera e ardita, s’innalza a volo […] e con lo slancio delle ali rallegra gli dèi e gli uomini […] ora l’arte dei suoni è per me proprio come il simbolo della nostra vita: una commovente breve gioia, che s’alza e s’inabissa, non si sa perché; un’isola piccola, lieta, verde, con splendore di sole, con canti e suoni.
E nei romantici successivi la musica diviene la “regina delle arti”, anzi l’arte romantica per eccellenza, poiché, immergendo l’ascoltatore in un flusso indeterminato di emozioni e di immagini, gli fa vivere l’esperienza stessa dell’infinito. Strumento privilegiato di conoscenza, organo dell’infinito, modello di ogni realtà ed espe- L’arte come rienza, libera creatività, parola magica: per il Romanticismo tedesco (e specialmente per gli strumento di salvezza esponenti del circolo di Jena e per Schelling) l’arte è anche un modo per ergersi sopra la caoticità e sopra il dolore del mondo.
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Ciò risulta evidente da un passo poco noto, ma estremamente significativo, di Wackenroder:
‘
Oh, questo interminabile monotono giro di migliaia di giorni e di notti […] tutta la vita dell’uomo, tutta la vita dell’intero universo, non è altro che un interminabile giuoco di scacchi sui due campi: bianco e nero; giuoco nel quale nessuno vince se non l’infausta morte […] tutto questo potrebbe in certe ore far perdere la testa! E invece ci si deve sostenere con braccia coraggiose in mezzo al caos delle rovine, nel quale la nostra vita è sminuzzata, e attaccarci fortemente all’arte, alla grande, alla duratura arte, che, al di sopra di ogni caos, attinge l’eternità – l’arte che dal cielo ci porge una mano luminosa, così che noi stiamo sospesi in ardita posizione, sopra un abisso deserto, fra cielo e terra. (Fantasie sull’arte)
La celebrazione della fede Accanto all’arte e strettamente intrecciata con essa, un’al-
tra esperienza decisiva per i romantici è la religione, concepita anch’essa come via privilegiata per accedere al reale e come forma di sapere immediato, che, andando oltre i confini della ragione illuministico-kantiana, riesce a cogliere il tutto nelle parti, l’assoluto nel relativo, il necessario nel contingente, l’unità nella molteplicità, l’eterno nel tempo. La rivalutazione Tuttavia, mentre alcuni romantici, in virtù della loro interpretazione panteistica dell’infidelle fedi positive nito, si mantengono nell’ambito di una religiosità meta-confessionale, altri si avvicinano
alle religioni positive della tradizione, polemizzando contro l’“astratta” e “impersonale” divinità dell’Illuminismo. Tipico, in questo senso, il caso di Friedrich von Schlegel, che aderisce al cattolicesimo, preferendolo al protestantesimo, anche in virtù del suo apparato esteriore (sfarzo cerimoniale, liturgia ecc.) e del suo bagaglio storico-tradizionalistico.
La teoria del primato conoscitivo dell’arte o della fede, pur essendo la più caratteristica del movimento romantico, non è l’unica, poiché nel Romanticismo, inteso come epoca culturale, troviamo anche filosofi che, pur condividendo le critiche all’intelletto illuministico, ritengono che soltanto un rinnovato esercizio della ragione abbia la possibilità di fornire quelle spiegazioni dell’essere e dell’assoluto che l’intuizione estetica e il rapimento mistico cercano invano. Il caso più eclatante in questo senso è quello di Hegel ( unità 8), che giunge a prendere una drastica posizione polemica contro le varie filosofie del sentimento e della fede, affermando che soltanto mediante la logica e la ragione, e non attraverso le nebulosità del pensiero poetico o mistico, risulta possibile un discorso fondato sull’infinito.
La riaffermazione hegeliana della ragione dialettica
Il senso dell’infinito Una seconda fondamentale nota ricorrente nel Romanticismo tedesco è il senso dell’infinito, o dell’assoluto. La ricerca Contrariamente a Kant, che aveva costruito una filosofia del finito e aveva fatto valere in romantica ogni campo il principio del limite, i romantici cercano ovunque, dal campo dell’arte a dell’infinito
quello dell’amore, l’oltre-limite, ovvero ciò che rifugge dai contorni definiti e si sottrae alle leggi dell’ordine e della misura. Pertanto l’anti-classicismo dei romantici, prima di essere un fatto letterario e un criterio estetico, costituisce una tendenza generale della loro sensibilità e del loro spirito. Un’autentica “ebbrezza dell’infinito” colora di sé le esperienze di questi pensatori, che in genere sono anime assetate di assoluto, bramose di andare oltre lo spazio, il tempo, il dolore, la morte ecc. Tutto questo fa sì che i romantici tendano, da un lato, a infinitizzare determinate esperienze umane, ad esempio la poesia o l’amore, e, dall’altro, ad avvertire fortemente la presenza dell’infinito nel finito. In ogni caso, l’infinito si qualifica come il protagonista principale dell’universo culturale romantico.
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Tutti d’accordo nell’assegnare un ruolo primario all’infinito, i romantici si differenziano Il modello invece per il diverso modo di intenderlo e di concepirne i rapporti con il finito (l’uomo, la panteistico natura, la storia ecc.). Il modello prevalente è quello panteistico. Infatti il sentimento dell’immedesimazione (Einfühlung) tra infinito e finito è tanto forte da far sì che i romantici, almeno all’inizio, tendano a concepire il finito come la realizzazione vivente dell’infinito, sia esso inteso alla maniera di un panteismo naturalistico di stampo spinoziano, che identifica l’infinito con il ciclo eterno della natura, oppure di un panteismo idealistico, che identifica l’infinito con lo spirito, ossia con l’umanità stessa, e che fa della natura un momento della sua realizzazione. Accanto al modello panteistico troviamo anche un’altra concezione dei rapporti tra finito e Il modello infinito, in virtù della quale l’infinito si distingue in qualche modo dal finito, pur rivelan- trascendentistico dosi in esso. In questo caso il finito (l’uomo e il mondo) non appare più come la realtà stessa dell’infinito, ma come la sua manifestazione più o meno adeguata. Pertanto, se il primo modello, sostenendo l’identità tra finito e infinito, è una forma di immanentismo e di panteismo, il secondo modello, affermando la distinzione tra finito e infinito, è una forma di trascendentismo che ammette la trascendenza dell’infinito rispetto al finito e considera l’infinito stesso come un Dio che è al di là delle sue manifestazioni mondane. Ovviamente, mentre il panteismo si accompagna a una religiosità cosmica, diversa dalle fedi positive, il trascendentismo è solito accompagnarsi, perlopiù, all’accettazione di qualche religione storica.
La vita come inquietudine e desiderio La Sehnsucht, l’ironia e il titanismo
Un altro dei motivi ricorrenti della cultura romantica è la concezione della vita come inquietudine, aspirazione, brama, sforzo in- L’irrequietezza brama cessante. I romantici ritengono infatti che l’essere umano sia in preda a un «demone edilainfinito dell’infinito», il quale fa sì che egli – insofferente di ogni limite e mai pago della realtà così com’è – risulti in uno stato di irrequietezza e di tensione perenne, che lo porta a voler sempre trascendere gli orizzonti del finito. Tra le più note esemplificazioni di questo modo di essere vi è lo Streben (lo «sforzo») teorizzato da Fichte ( cap. 2), che vede l’io impegnato in un infinito superamento del finito, ovvero in una battaglia mai conclusa per la conquista della propria umanità. L’espressione Sehnsucht – che si può tradurre in italiano con “desiderio”, “aspirazione La Sehnsucht struggente”, “brama appassionata” – costituisce forse, a detta del germanista Ladislao Mittner (1902-1975), «la più caratteristica parola del Romanticismo tedesco», poiché sintetizza l’interpretazione dell’essere umano come desiderio e mancanza, ossia come desiderio frustrato di qualcosa (l’infinito o la felicità) che sempre sfugge. La Sehnsucht si identifica infatti con quell’aspirazione verso “il più” e “l’oltre” che, non trovando confini né mete precise, si risolve inevitabilmente, come scrive un altro germanista, Sergio Lupi (1908-1970), in un «desiderio di avere l’impossibile, di conoscere il non conoscibile, di sentire il soprasensibile» (Il Romanticismo tedesco, Sansoni, Firenze 1933, p. 52). Tant’è vero che la Sehnsucht – dal verbo sehnen, che significa “desiderare”, e dal sostantivo Sucht, che significa a sua volta “desiderio” – finisce per essere «un desiderio innalzato alla seconda potenza, un desiderio del desiderio e quindi un desiderare che si esaurisce in sé per il piacere del desiderio» (L. Mittner, Ambivalenze romantiche, D’Anna, Messina-Firenze 1954, p. 275, nota). Questo spiega perché la Sehnsucht tenda spesso a capovolgersi nel sentimento della noia, ossia del vuoto o della nullità delle cose e delle esperienze umane.
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La situazione esistenziale implicita nella Sehnsucht o nello schlegeliano Streben nach dem Unbedingten (tensione verso l’assoluto) si accompagna a due tonalità psichiche e a due atteggiamenti ben precisi: l’ironia e il titanismo. L’ironia L’ironia consiste nella “superiore” coscienza del fatto che ogni realtà finita, e quindi
ogni impresa umana, grande o piccola, è nulla di fronte all’infinito. Come tale, l’ironia è una conseguenza diretta del principio romantico secondo cui l’infinito può avere innumerevoli manifestazioni, senza che nessuna gli sia veramente essenziale; essa, infatti, consiste nel non prendere “sul serio” le manifestazioni particolari dell’infinito (la natura, le opere, l’io), proprio perché sono soltanto provvisorie:
‘‘
La filosofia è la vera patria dell’ironia, che potrebbe venir definita bellezza logica. (Schlegel)
La filosofia scioglie ogni cosa, relativizza l’universo. Come il sistema copernicano, essa scardina i punti fissi e rende sospeso nel vuoto ciò che prima posava sul solido. Essa insegna (Novalis) la relatività di tutti i motivi e di tutte le qualità.
Il titanismo Se l’ironia palesa una sorta di filosofico humour, derivante dalla coscienza dei limiti del fi-
nito in quanto tale, il titanismo esprime invece un atteggiamento di sfida e di ribellione, proprio di chi si propone di combattere, pur sapendo che alla fine risulterà perdente e incapace di superare le barriere del finito. Tant’è vero che il titanismo, talora, mette capo al suicidio, visto come atto di sfida estrema verso il destino. Il titanismo è detto anche “prometeismo” perché i romantici lo personificano nel mitico titano greco Prometeo, il quale, avendo rubato il fuoco agli dèi per farne dono agli uomini, e avendo in tal modo infranto l’ordine fatale del mondo, viene condannato da Zeus a rimanere incatenato a una roccia, mentre un’aquila gli divora perennemente il fegato. Mettendo tra parentesi i possibili significati umanistico-illuministici del mito, i romantici tendono a vedere in Prometeo il simbolo della ribellione in quanto tale (si pensi ad esempio alla lirica Prometheus di Goethe e al dramma Prometheus Unbound di Percy Bysshe Shelley). L’atteggiamento opposto (ma complementare) al titanismo è il vittimismo, ossia la tendenza a sentirsi schiacciati da forze superiori (il destino, la società, la natura ecc.).
La tendenza Il desiderio di evasione e la ricerca dell’eccezionalità L’anelito verso l’infinito, all’evasione che è proprio dell’anima romantica, genera anche due altri atteggiamenti tipici del mo-
vimento: la tendenza all’evasione e l’amore per l’eccezionale. I romantici, mal sopportando il finito e disprezzando tutto ciò che è abitudinario e mediocre, aspirano infatti a evadere dal quotidiano e a vivere esperienze fuori della norma, capaci di suscitare emozioni intense e travolgenti. Da ciò la predilezione per tutto ciò che è meraviglioso, atipico, irregolare, lontano, misterioso, magico, fiabesco, primitivo, notturno, lugubre, spettrale ecc., ossia per tutto ciò che, essendo al di là del comune, può offrire sensazioni diverse e sconosciute. Espressione di questo desiderio di fuga e di eccezionalità è l’evasione in mondi remoti nel tempo e nello spazio, che si concretizza ad esempio nel culto dell’Ellade, nella riscoperta del Medioevo e nell’esotismo.
La fuga Ma la fuga più significativa dei romantici è quella verso i mondi del sogno e dell’arte, osnel sogno sia nello spazio senza limite dell’immaginazione e della rêverie (termine francese che
significa appunto “sogno”, “fantasticheria”).
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Non a caso, l’arte romantica si muove generalmente in un’atmosfera rarefatta e quasi trans-materiale, più simile al sogno che alla veglia e tutta immersa in una sorta di bagno di luce.
‘
Sicuri, come il fiore vive di luce, così vivono della bella immagine, paghi, sognando e felici, e di null’altro ricchi, i poeti.
(Hölderlin)
Collegata al motivo dell’evasione è la figura romantica del “viandante” (Wanderer), che in La figura fondo è un’altra manifestazione della Sehnsucht. Differenziandosi dal “viaggiare” cosmopo- del viandante litico e pratico-interessato degli illuministi, curiosi dei costumi dei popoli stranieri e delle loro istituzioni politiche, l’“errare” romantico assume infatti la fisionomia di un vagare inquieto e morboso verso un “non so che” di irraggiungibile e di inevitabilmente illusorio.
La ricerca dell’armonia perduta Un altro tema caratteristico del Romanticismo te-
desco è quello dell’armonia perduta, che scaturisce dal diffuso convincimento, di lontana ascendenza rousseauiana, secondo cui la civiltà e l’intelletto avrebbero sradicato l’essere umano da una situazione di primitiva spontaneità e simbiosi con la natura – nella quale corpo e spirito non erano in lotta e la ragione non si opponeva all’istinto – rendendolo schiavo della società e delle sue convenzioni alienanti. In altre parole, in un’età non ben precisata (posta talora alle origini della storia, oppure in una determinata epoca, ad esempio quella della Grecia classica) l’uomo si sarebbe allontanato da una situazione originaria di contatto con la natura, separandosi così dal fondamento ontologico del suo essere e rendendosi infelice e “inautentico”, e quindi desideroso di ricomporre la scissione uomo-mondo e di ricongiungersi con la madre-natura. Scrive il poeta Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805):
‘
La simbiosi originaria tra gli uomini e la natura
Nella natura irrazionale allora vediamo soltanto una sorella più fortunata che restò indietro nella casa materna, da cui noi, spinti dall’arroganza della nostra libertà, ci slanciammo fuori, verso paesi stranieri. Con doloroso rimpianto bramiamo di ritornare indietro, non appena abbiamo cominciato a provare le angustie della cultura e udiamo, nella lontananza della terra straniera dell’arte, la voce toccante della madre. Fintanto che eravamo semplici figli della natura, eravamo felici e perfetti; diventati liberi, abbiamo perduto l’uno e l’altro stato. (Schiller, Poesia ingenua e sentimentale)
La nota antitesi schilleriana tra «poesia ingenua» (naive Dichtung) e «poesia sentimentale» (sentimentalistische Dichtung) rappresenta proprio una concretizzazione, in ambito estetico, della teoria dell’armonia originaria. La poesia ingenua, infatti, è per Schiller propria degli artisti antichi, che “erano” natura, mentre la poesia sentimentale è propria degli artisti moderni, per i quali la natura è solo oggetto di ricordo, di riflessione e di aspirazione sentimentale: «Il poeta o è natura o la cercherà».
La distinzione tra poesia ingenua e sentimentale
La teoria dell’armonia originaria implica che la storia del mondo proceda da un’armonia Lo sguardo perduta a un’armonia ritrovata, secondo uno schema triadico comprendente un’armonia al futuro iniziale, una scissione intermedia e la ricostruzione futura di un’armonia basata sul recupero del passato. Tale posizione, che anticipa in parte gli schemi della dialettica hegeliana ( unità 8), comporta una concezione della storia come regresso e insieme progresso, anche se l’accento batte più sul futuro che sul passato. La nostalgica mitizzazione del “passato felice”, infatti, non esclude che lo sguardo romantico finisca anch’esso per essere rivolto verso ciò che sarà, piuttosto che verso ciò che è stato.
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La concezione dell’amore L’amore è un altro dei temi prediletti del Romanticismo tedesco, su cui si soffermano tanto i poeti, quanto i filosofi. L’amore come L’esaltazione romantica dell’amore discende soprattutto dalla preferenza accordata al senti«vita della vita» mento e dalla ricerca di un’evasione dal quotidiano. Infatti l’amore appare ai romantici come
il sentimento più forte e come l’estasi suprema, ovvero come la vita della vita stessa.
‘ ‘ ‘
Vita e amore significano la stessa cosa […]. C’è tutto nell’amore: amicizia, cordialità, sensualità e anche passione […] e l’un elemento lenisce e rinforza, anima ed accresce l’altro, viviamo ed amiamo fino all’annientamento. Soltanto l’amore ci rende uomini veri e perfetti, (Schlegel) esso solo è la vita della vita. L’amore è lo scopo finale della storia del mondo, l’amen dell’universo.
(Novalis)
L’amore come La prima caratteristica dell’amore romanticamente inteso è la globalità, ovvero il suo poresperienza si come ricerca di sintesi tra anima e corpo, spirito e istinto, sentimento e sensualità: globale Tutto è anima nell’amore, quando l’amore è tale che anima e corpo vi hanno eguale e reciproca partecipazione. Il desiderio verso l’unità è appagato: l’atto d’amore, pur rimanendo integro, pur non arrestandosi di fronte a nessuna audacia del godimento, non turba le pure regioni dello spirito, ma sale ad esse e non è dallo spirito disgiunto. Non sta a sé, ma è un simbolo di quanto avviene nell’interiore degli individui; l’amplesso dei corpi esprime quello delle anime. (G.V. Amoretti, “Introduzione” a F. Schleiermacher, L’amore romantico, Laterza, Roma-Bari 1928, p. XI) La ricerca La seconda caratteristica dell’amore romantico risiede nella ricerca dell’unità assoluta degli dell’unità amanti, ossia della completa fusione delle anime e dei corpi, in modo tale che «ciò che degli amanti
è due possa diventare uno». Presente nei poeti e negli artisti in generale, quest’aspetto dell’idealizzazione romantica dell’amore è stato espresso da Hegel con le formule più rigorose e significative. Nelle Lezioni di estetica, ad esempio, Hegel scrive:
‘
L’amore è identificazione del soggetto con un’altra persona […] il sentimento per cui due esseri non esistono che in un’unità perfetta e pongono in questa identità tutta la loro anima e il mondo intero. […] Questa rinuncia a se stesso per identificarsi con un altro, quest’abbandono nel quale il soggetto ritrova tuttavia la pienezza del suo essere, costituisce il carattere infinito dell’amore.
L’amore La terza caratteristica dell’amore romantico è la sua tendenza a caricarsi di significati come cifra simbolici e metafisici. I romantici, infatti, pensano che l’amore, pur rivolgendosi a cose e dell’assoluto
a creature finite, scorga in esse manifestazioni o cifre dell’assoluto, sia inteso panteisticamente nella forma dell’Uno-Tutto, sia interpretato trascendentisticamente nella forma di un Dio creatore. Nell’amplesso degli innamorati, espressione del misterioso fondersi di due creature diverse, essi vedono il mistero stesso della vita e il simbolo dell’universale armonia, ovvero della congiunzione tra uomo e natura, tra finito e infinito.
L’ottimismo al di là del pessimismo L’infelicità Considerato sotto certi punti di vista, il Romanticismo sembra segnare il trionfo del pessidel “genio” mismo più esasperato. Infatti nella letteratura romantica dominano gli stati d’animo triromantico
sti e melanconici e abbondano i protagonisti inquieti e delusi, alla ricerca di una felicità mai raggiunta.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura
Del resto (com’è stato più volte rilevato dagli studiosi) il Romanticismo nasce proprio da una coscienza d’infelicità e da un anelito verso l’infinito, ossia da un desiderio di andare oltre gli ostacoli che stringono l’esistenza da ogni parte. Alcuni tra gli stessi geni romantici sono veri e propri “personaggi del dolore”: spiriti eletti e precoci, ma vittime di tragici destini. Wackenroder muore a soli 25 anni; Novalis, ammalato di tubercolosi, scompare a 29 anni, Hölderlin finisce la sua vita rinchiuso in una torre solitaria e in preda alla follia. E molti altri rappresentanti del Romanticismo europeo – da Byron a Shelley – vivono un’esistenza tempestosa e tragica, contribuendo alla convinzione romantica dell’infelicità fatale del genio. Nell’ambito del Romanticismo nasce perfino la voluptas dolendi, ossia l’autocompiacimento della sofferenza, intesa come il prezzo da pagare per entrare nella schiera dei grandi. Diremo dunque, sulla scorta di parecchie storie della letteratura, che i romantici sono sostanzialmente pessimisti? Come si spiega allora la tesi di altrettanto numerose storie della filosofia secondo cui il Romanticismo è sostanzialmente ottimista? L’apparente antitesi tra Romanticismo letterario e Romanticismo filosofico nasce soltanto da una mancata distinzione tra la predisposizione romantica verso gli stati d’animo melanconici (e verso la rappresentazione artistica del dramma della sofferenza) e la visione complessiva del mondo effettivamente professata dai poeti e dai filosofi di quest’età.
La distinzione tra Romanticismo letterario e filosofico
Infatti, sebbene il tema del dolore abbia una grande parte nella letteratura romantica, in La risoluzione realtà il pessimismo – inteso propriamente come concezione globale dell’essere – non è la del negativo nel positivo posizione tipica del Romanticismo, che è invece portato a scoprire, al di là del negativo, la realtà del positivo (cfr. Mario Puppo, Il Romanticismo, Studium, Roma 1975, pp. 147-148). Del resto non potrebbe essere diversamente, date la sua visione provvidenzialistica del reale ( “La nuova concezione della storia”, p. 630) e la sua mentalità a sfondo religioso. In un abbozzo dell’Iperione Hölderlin scrive infatti:
‘ ‘ ‘
Tutto avviene come deve avvenire. Tutto è bene.
(Hölderlin, Iperione, II, 63)
E anche quando manchi un’apertura religiosa (ma è abbastanza raro), o quando questa non sia sufficientemente forte, i romantici tendono a “sublimare” il negativo nella dimensione dell’arte, o in quella della storia e della politica. Di conseguenza, si può dire che nei romantici tedeschi si manifesta sempre una tendenziale risoluzione del negativo nel positivo, in quanto, al di là del caos e del dolore del mondo, essi sono portati a ricercare un senso generale o un piano capace di riscattare il male e di trasformarlo in un momento di un percorso complessivo verso il bene: Che cos’è dunque la morte e tutto il dolore degli uomini? Ah! molte vane parole han fatte gli uomini strani. Scaturisce pur tutto dalla gioia e termina pur tutto nella pace. (Hölderlin, Iperione, finale)
Qualunque sia la via percorsa – panteistica, idealistica, cristiana o semplicemente estetica o L’ottimismo politica – i romantici finiscono così per approdare a una forma di ottimismo cosmico o sto- cosmico o storico rico che nel dolore, nell’infelicità e nel male scorge manifestazioni parziali e necessarie di un tutto che, preso nella sua globalità, è sempre pacificato e felice. Ancora una volta, i versi di Hölderlin riassumono in questo senso tutto lo spirito di un’età, e forse di un secolo: Come le discordie degli amanti sono le dissonanze del mondo. Conciliazione è in mezzo alla (Hölderlin, Iperione, finale) stessa discordia, e tutto ciò ch’è disgiunto si ritrova.
Questo schema mentale, che consiste nel percepire l’armonia oltre la disarmonia, sta alla base delle più disparate esperienze artistiche e filosofiche del Romanticismo tedesco.
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Tuttavia, la celebrazione massima di questo ottimismo romantico si troverà nell’idealismo panlogistico di Hegel ( unità 8), che vedrà nel mondo e nella storia la manifestazione di un’unica infinita Ragione che fa sì che la realtà sia sempre ciò che deve essere, ossia razionalità e perfezione.
)
Per l’esposizione orale
1. Messa da parte la ragione illuministica, i romantici cercano altre vie di accesso alla realtà e all’infinito: prova a indicare le più significative. 2. Illustra le principali interpretazioni della relazione tra infinito e finito che emergono nel Romanticismo tedesco. 3. Definisci i seguenti termini: Sehnsucht, ironia, titanismo, viandante; quindi utilizzali per illustrare la concezione romantica della vita come inquietudine ed evasione. 4. Presenta la concezione dell’amore che si sviluppa e si diffonde nel Romanticismo. 5. In che senso si può parlare di un Romanticismo letterario pessimistico, e di un Romanticismo filosofico ottimistico? SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura italiana
Gli atteggiamenti e i temi fin qui presentati sono tipici del Romanticismo tedesco, ma dalla Germania si diffondono rapidamente in tutta Europa. Nella storia della letteratura italiana, individua almeno due opere in cui si possano ritrovare alcuni dei tratti romantici tipici analizzati in queste pagine: inquadrale nel loro contesto storico-culturale, presentale e commentane i passaggi più significativi.
La nuova concezione della storia Un altro degli aspetti caratterizzanti del Romanticismo tedesco è costituito dall’interesse e dal culto per la storia, che fin dall’inizio tende ad assumere la forma di uno storicismo antitetico all’anti-storicismo illuministico. Il provvidenzia- Mentre per l’Illuminismo il soggetto della storia è l’essere umano, per il Romanticismo è lismo romantico la provvidenza. Gli esiti fallimentari della Rivoluzione francese e dell’impresa napoleoni-
ca avevano infatti contribuito a generare l’idea che a “tirare le fila” della storia non fosse l’uomo, ovvero l’insieme degli individui sociali, bensì una potenza extra-umana e sovraindividuale, concepita come forza immanente o trascendente. La storia finisce allora per apparire come il prodotto di un soggetto provvidenziale assoluto, che si viene progressivamente rivelando o realizzando nella molteplicità degli avvenimenti, dei quali costituisce il momento unificatore e totalizzante. Guardata da questo punto di vista, la storia prende le sembianze di un processo globalmente positivo, in cui non si trova alcunché di irrazionale o di inutile, e in cui ogni regresso è soltanto apparente.
Il rifiuto In base a questa specifica interpretazione della storicità umana in termini provvidenzialistici, della visione l’Illuminismo, per i romantici, appare decisamente anti-storicista, come risulta insostenibile la illuministica della storia pretesa dei philosophes di “giudicare” la storia, rifiutandone alcuni momenti:
in primo luogo perché voler giudicare la storia equivale a intentare un “processo a Dio”, che nella storia si manifesta e si realizza; in secondo luogo perché ogni momento della storia costituisce l’anello necessario di una catena processuale complessivamente positiva; in terzo luogo perché giudicare il passato alla luce dei valori del presente (che per gli illuministi erano gli stessi valori umani: pace, benessere, pubblica felicità, libertà ecc.) significa misconoscere l’individualità e l’autonomia delle singole epoche, che hanno ognuna una specifica ragion d’essere in relazione alla totalità della storia e che perciò si sottraggono a ogni giudizio critico e comparativo.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura
Tutto ciò spiega perché lo storicismo romantico si accompagni, perlopiù, a una forma di tradizionalismo che non soltanto giustifica, ma in qualche modo “santifica” il passato, ritenendolo espressione dell’intervento di Dio nella storia e linfa vitale del presente e del futuro. Anche su questo punto la spaccatura tra Illuminismo francese e Romanticismo tedesco è radicale. L’Illuminismo, che guardava al mondo storico in maniera umanistica e problematica, si era avvalso di una filosofia critica e riformatrice, che voleva liberarsi del passato poiché in esso scorgeva quasi esclusivamente errori, pregiudizi, violenze ecc. Il Romanticismo, che guarda alla storia secondo schemi provvidenzialistici e necessitaristici, si configura invece come una filosofia giustificazionistica e tradizionalistica, che carica di un valore assoluto le istituzioni basilari del passato: la famiglia, i ceti sociali, la monarchia, lo Stato, la Chiesa ecc.
Il giustificazionismo e il tradizionalismo romantico
La nuova concezione della politica Strettamente connessa allo storicismo è la concezione filosofica della politica, anch’essa profondamente diversa da quella degli illuministi e articolata in due fasi distinte. Inizialmente, gli autori del Romanticismo tedesco passano attraverso una fiammata filo- La prima fase: rivoluzionaria e appaiono portatori, come già gli esponenti dello Sturm und Drang, di la celebrazione della rivoluzione istanze individualistiche e anti-statalistiche, che si esprimono talora in forme non solo di radicalismo repubblicano, ma anche di ribellismo anarchico o amorale. Questa fase del Romanticismo tedesco trova un riscontro in quel tema della lotta dell’individuo contro la società che costituisce uno dei motivi ricorrenti della letteratura romantica europea. Tuttavia in una seconda fase – quella più propriamente romantica – gli intellettuali tedeschi, in virtù del loro storicismo provvidenzialistico e tradizionalistico, cominciano a elaborare schemi politici sempre più statalistici e conservatori, nella convinzione, da un lato, che l’individuo sia tale soltanto all’interno di una comunità storica sovra-personale e in virtù della sua appartenenza alle istituzioni tradizionali (la famiglia, lo Stato ecc.), e, dall’altro, che il disordine delle forze umane sia destinato a produrre soltanto anarchia e caos, qualora a porvi ordine non intervengano Dio o la Chiesa da lui istituita. Partito dall’anarchismo dello Sturm und Drang, il Romanticismo perviene dunque al culto dell’autorità, finendo per offrire gli strumenti teorici di una legittimazione delle istituzioni assolutistico-feudali, ed ergendosi contro le tendenze riformatrici e liberaleggianti scatenate in tutta Europa dalla Rivoluzione francese e dalle guerre antinapoleoniche. Questo non significa – si badi bene – che il Romanticismo, anche nella sua seconda fase, possa essere ridotto a ideologia della Restaurazione. Infatti una certa anima individualistica e libertaria del Romanticismo originario continuerà sempre ad essere attiva, coniugandosi, soprattutto al di fuori della Germania, con istanze liberaleggianti.
enciclosofia Restaurazione Il periodo storico successivo al 1814-1815, quando nel Congresso di Vienna le potenze che avevano sconfitto Napoleone si accordarono per ristabilire sul trono i sovrani da lui spodestati, cercando di ricreare l’equilibrio di influenze politiche tra gli Stati europei esistente prima dell’avventura napoleonica. Si avviò così un trentennio di lotta tra le vecchie monarchie “restaurate” e le nuove idee libertarie.
La seconda fase: il ritorno ai valori della tradizione
Il Congresso di Vienna in un’incisione colorata del 1819 circa.
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L’idea di nazione Uno dei concetti più originali e decisivi dello storicismo romantico è quello di “nazione”. e lo «spirito Mentre l’idea settecentesca di “popolo” era definita in termini di volontà e di interessi codel popolo»
muni e concepita come risultato di un contratto e di una libera convenzione, il concetto romantico di nazione risulta definito in termini di elementi come l’etnia, la lingua, il costume, la religione ecc. Pertanto, se il “popolo”, in senso settecentesco, è la coesistenza di individui che vogliono vivere insieme, la “nazione”, in senso ottocentesco, è la coesistenza di individui che devono vivere insieme, nel senso che non possono non farlo senza rinnegare o tradire sé stessi. In tal modo, dalla «volontà generale» di Rousseau si passa al concetto di «spirito del popolo», (Volksgeist), inteso come una sorta di misteriosa “anima popolare”, ossia come un principio creativo inconscio ed extra-razionale, identificato con il cosiddetto «genio della nazione», che sottostà alle molteplici manifestazioni sociali, politiche e culturali di un popolo.
Le differenze Sulla base di questi presupposti, l’universalismo degli enciclopedisti viene accusato di tra Illuminismo anti-storicismo e di astrattismo, e sostituito da uno storicistico e concreto richiamo alla e Romanticismo
pluralità irriducibile delle nazioni e delle espressioni culturali dei popoli: al cosmopolitismo giuridico e politico dell’Illuminismo e di Kant, che proclamava diritti naturali comuni e vagheggiava pacifici organismi internazionali, viene contrapposto un nazionalismo giuridico e politico che esalta il diritto “storico” e la politica “specifica” degli Stati; all’universalismo religioso degli illuministi, che perseguiva l’ideale di una religione naturale e razionale, è contrapposta la molteplicità delle religioni positive; al cosmopolitismo linguistico dell’Illuminismo e al suo progetto di una lingua universale, è contrapposto il nazionalismo linguistico.
La nuova concezione della natura La natura rappresenta un altro grande tema del Romanticismo tedesco. L’amore per la natura e il fascino da essa esercitato, che affondano le loro radici nel clima culturale dello Sturm und Drang e che si alimentano della “riscoperta” di Spinoza, sono infatti tra i dati più caratteristici del movimento. La «danza» Tra i documenti più significativi, utili per introdurci nell’“atmosfera” del neospinozismo della natura romanticheggiante di fine Settecento, spicca un frammento che si trova fra le carte di
Goethe e che si intitola La Natura1:
‘
Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia. – Essa crea eternamente nuove forze: ciò ch’è ora non era ancora, ciò che era non torna; tutto è nuovo, e nondimeno è sempre antico. – Noi viviamo nel mezzo di essa, e le siamo estranei. Essa parla incessantemente con noi, e non ci palesa il suo segreto. Noi operiamo costantemente su di essa, e tuttavia non abbiamo su di essa nessun potere. – Pare che la natura tutto abbia indirizzato verso l’individualità, eppure non sa che farsene degl’individui. Artista incomparabile, senza apparenza di sforzo passa dalle opere più grandi alle minuzie più esatte. E ognuna delle sue opere ha una propria esistenza, ognuna delle sue manifestazioni un proprio concetto; ma nel tempo stesso tutto è uno. – V’è una vita eterna, un divenire e un moto incessante in essa, ma nel suo complesso non si espande. – […] Il suo teatro è sempre nuovo, perché essa crea
1. Il dubbio che questo inno (1781-1782) non sia davvero di Goethe, come si è tradizionalmente creduto, ma appartenga ad altri (ad esempio al pastore e teologo svizzero Georg Christoph Tobler, 1757-1812) non diminuisce il suo valore di testimonianza della “mentalità” del periodo.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura
sempre nuovi spettatori. La vita è la sua più bella invenzione, e la morte è il suo artifizio per avere più vita. – Essa dà bisogni, perché ama il movimento, ed è mirabile vedere con che scarsi mezzi riesca ad ottenere tanto moto. – Essa non ha lingua né parla, ma crea lingue e cuori, mediante i quali parla e sente. La sua corona è l’amore: solo con questo ci si avvicina ad essa. – È intera, e nondimeno è sempre incompiuta. Non conosce passato e futuro; il presente è la sua eternità.
Un altro scritto emblematico del nuovo culto per la natura è un noto passo dell’Iperione (I, 1) La natura come «vertice di Hölderlin, tra i più belli di tutta la letteratura romantica:
‘
O natura santa! Io non so cosa mi avvenga quando alzo i miei occhi dinnanzi alla tua bellezza, ma tutta la gioia del cielo è nelle lacrime che piango innanzi a te, come l’amante alla presenza dell’amata. Tutto il mio essere ammutolisce e si tende, quando il soffio delicato dell’aria gioca sul mio petto. Perduto nell’azzurro sconfinato, io volgo spesso il mio sguardo in alto, verso l’etere e in basso nel sacro mare ed è come se uno spirito affine mi aprisse le braccia, come se il dolore della solitudine si dissolvesse nella vita degli dèi. Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, questo è il cielo dell’uomo. Essere uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto della natura: ecco il vertice dei pensieri e delle gioie, la sacra vetta del monte, il luogo della quiete perenne, dove il meriggio perde la calura e il tuono perde la sua voce; dove il mare ribollente somiglia all’ondeggiare di un campo di spighe.
Questo sentimento di amore per la natura si esprime anche in una nuova concezione di essa, che accomuna filosofi, poeti e uomini di scienza. Da Galileo in poi, la natura era stata prevalentemente considerata come un ordine oggettivo e come un insieme di fenomeni legati tra loro da relazioni di causalità efficiente, e la scienza come un’indagine matematizzante e analitica di tali relazioni. Questo aveva portato a vedere nella natura un sistema di materia in movimento, retto da un insieme di leggi meccaniche che escludevano ogni riferimento a presunti “fini” o “scopi”. I romantici pervengono invece a una filosofia della natura che si presenta: organicistica, perché la natura è considerata una totalità organizzata in cui le parti vivono soltanto in funzione del tutto; energetico-vitalistica, perché la natura è vista come una forza dinamica, vivente e animata; finalistica, perché la natura è pensata come una realtà strutturata secondo fini (immanenti o trascendenti); spiritualistica, perché la natura è considerata intrinsecamente spirituale; dialettica, perché la natura è concepita come organizzata secondo coppie di forze opposte, formate da un polo positivo e uno negativo, e costituenti unità dinamiche.
dei pensieri e delle gioie»
La nuova concezione filosoficoscientifica della natura
Reagendo alla dis-antropomorfizzazione e alla de-spiritualizzazione del cosmo effettuate L’analogia dalla scienza moderna, i romantici ritengono che la natura e l’essere umano posseggano una tra la natura e l’essere umano medesima struttura spirituale, che autorizza un’interpretazione psicologica dei fenomeni fisici e un’interpretazione fisica dei fenomeni psichici. Posta la stretta unità tra uomo e natura, ne consegue infatti che ciò che risulta vero dell’uno deve esserlo anche dell’altra, e viceversa. Inoltre, reagendo alle tendenze analitiche e anti-metafisiche della scienza galileiana, i ro- Il cosmo come mantici, partendo dalla persuasione che «solo il Tutto vive» (come afferma il medico e fi- un tutto vivente losofo Franz von Baader, 1765-1841), sostengono che ogni fondata filosofia della natura deve prendere in considerazione l’ordinamento complessivo del cosmo, poiché soltanto in relazione a esso si possono comprendere le parti nei loro rapporti di coordinazione e subordinazione. Tale convincimento si accompagna anche al recupero di figure metafisiche del passato, come quella dell’«anima del mondo».
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Il rapporto La scoperta della pila da parte di Alessandro Volta e i progressi del chimismo e del macon la scienza gnetismo parvero a un certo punto confermare alcune intuizioni romantiche, ad esempio
ESERCIZI
quelle relative alla “dialetticità” dei fenomeni naturali, facendo sì che pensatori sia speculativi sia sperimentalisti, sia chimici sia occultisti, sia cristiani sia panteisti guardassero tutti alla filosofia romantica della natura con grande interesse. Questo facilitò la diffusione delle nuove idee, che tuttavia, pur non essendo prive di meriti storici oggettivi (relativi alla correzione di certi limiti del meccanicismo, e in particolare della pretesa di “imbrigliare” tutti i fenomeni nei rigidi schemi della meccanica), finirono per apparire “fantastiche” e portatrici di una mentalità qualitativa, sostanzialistica e finalistica antitetica alla strada maestra – matematizzante e fenomenistica – della scienza moderna.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta la nuova visione della storia che emerge nel Romanticismo. 2. Esponi le differenze tra il concetto romantico di “nazione” e l’idea settecentesca di “popolo”. 3. Illustra la nuova concezione della natura tipica della mentalità romantica. SNODI PLURIDISCIPLINARI chimica e fisica
La concezione romantica della natura – di tipo organicistico e dialettico – sembrò confermata dagli studi sui fenomeni chimici ed elettromagnetici. Descrivi le conquiste di Galvani e di Volta in ambito chimico ed elettromagnetico, e mettile in collegamento con la nuova concezione della natura che si afferma in epoca romantica.
enciclosofia pila di Volta Il primo generatore statico di corrente elettrica della storia, realizzato nel 1799 dal chimico e fisico comasco Alessandro Volta (1745-1827) sulla base dei precedenti esperimenti di Luigi Galvani (1737-1798) sull’elettricità. Volta dispose l’uno sull’altro (formando appunto una “pila”) diversi elementi (detti «elementi voltaici», o «celle galvaniche») che per la loro costituzione chimica (un disco di zinco, uno strato di cartone imbevuto di acqua salata come conduttore, un disco di rame e un nuovo strato di cartone) producevano energia elettrica: collegando gli estremi superiore e inferiore della pila a un conduttore elettrico, egli creò dunque un flusso di corrente continua.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura
Alessandro Volta ritratto in un’incisione colorata del XIX secolo; alle sue spalle la pila da lui inventata.
SINTESI AUDIOSINTESI
CAPITOLO 1 IL ROMANTICISMO TRA FILOSOFIA E LETTERATURA
Il Romanticismo Le coordinate storiche Il Romanticismo ha origine in Germania alla fine del Settecento e si diffonde in Europa nei primi decenni dell’Ottocento. Alcuni studiosi lo hanno interpretato come un movimento prevalentemente artistico e letterario; altri invece come un’atmosfera storico-culturale generale. In ogni caso, per quanto i prodromi della visione romantica possano essere rintracciati nel movimento dello Sturm und Drang, il Romanticismo in senso stretto nasce con il circolo di Jena, a cui aderiscono, tra gli altri, i fratelli Schlegel, Novalis e Hölderlin.
I temi Pur tra molte ambivalenze, analizzando soprattutto il Romanticismo tedesco, si possono individuare alcuni temi comuni o ricorrenti. Innanzitutto, in polemica con la concezione illuministica, i romantici da un lato propongono una nuova visione del sapere e della realtà fondata sulla ragione dialettica (Hegel), e dall’altro esaltano il sentimento. In tal senso si comprende la grande importanza che essi attribuiscono all’amore, così come la valorizzazione dell’arte, considerata quale via d’accesso privilegiata all’infinito e quale spazio di libertà creativa che si esprime principalmente nella poesia e nella musica. La filosofia romantica si intreccia non soltanto con la poesia e con l’arte, ma anche con la religione, intesa anch’essa come via d’accesso immediata all’assoluto. Proprio il senso dell’assoluto, o dell’infinito, è uno dei tratti più caratteristici nel pensiero dei romantici, che lo identificano con tutto ciò che si sottrae ai limiti e alla razionalità tipici del classicismo. In particolare,
la presenza dell’infinito è colta nel finito, e viene espressa talvolta nella forma di un panteismo naturalistico di stampo spinoziano (che vede la realtà materiale come impregnata dal divino), e talvolta nella forma di un panteismo idealistico (che identifica l’infinito con lo spirito che si realizza nella natura). Alcuni autori, tuttavia, interpretano l’infinito come trascendenza rispetto al finito, ossia come un principio divino che è al di là delle sue manifestazioni mondane. Un altro tema ricorrente è l’interpretazione della vita come desiderio insoddisfatto. Da qui derivano l’ironia, che è la percezione dell’insufficienza del finito rispetto all’infinito, e il titanismo, cioè l’atteggiamento di sfida di chi, pur destinato a soccombere, si getta oltre i propri limiti. L’uomo romantico, inoltre, è spesso paragonato a un viandante in cerca di luoghi esotici o lontani nel tempo, e la filosofia si fa poesia sentimentale, segnata dal rimpianto per una perduta condizione di armonia con la natura. Proprio da questo rimpianto i romantici prendono le mosse per sviluppare una filosofia della storia in cui il corso degli eventi è concepito come orientato dalla provvidenza verso un fine razionale, che consiste nella ricostruzione consapevole dell’armonica condizione originaria e di un passato in cui si riconoscono il fondamento del popolo e della nazione a cui si appartiene. In questo percorso ogni epoca è necessaria: la concezione romantica è quindi tendenzialmente giustificazionista e ottimista. Sul piano politico, nel Romanticismo convivono un’istanza liberale e favorevole alla Rivoluzione francese e una lettura conservatrice del ruolo dello Stato.
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MAPPA
CAPITOLO 1 IL ROMANTICISMO TRA FILOSOFIA E LETTERATURA IL ROMANTICISMO nasce
alla fine del Settecento con il circolo di Jena (fratelli Schlegel, Novalis, Hölderlin) ed è caratterizzato da
esaltazione del sentimento o della ragione dialettica (Hegel) come strumenti per cogliere l’assoluto
valorizzazione dell’arte e dell’amore come vie d’accesso all’infinito
esaltazione della natura e panteismo
concezione della vita come inquietudine e tensione desiderante (Streben, Sehnsucht, ironia, titanismo)
trascendentismo
concezione provvidenzialistica e giustificazionista della storia
tema dell’evasione (viaggio, sogno, esotismo) intesa come
concatenazione di eventi globalmente positiva
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura
CAPITOLO 2 FICHTE
Ho una sola passione, un solo bisogno, un solo sentimento: agire fuori di me. Più agisco, più mi sento felice. ( J.G. Fichte, Lettera a Johanna Rahn del 2 marzo 1790)
A Johann Gottlieb Fichte si deve la nascita dell’idealismo, massima espressione filosofica dell’epoca romantica. Egli infrange i limiti conoscitivi imposti da Kant e inaugura una nuova metafisica dell’infinito, sostituendo all’«io-penso» kantiano (principio del conoscere che si scontrava con l’impossibilità di cogliere il noumeno) un Io infinito, principio sia della conoscenza sia della realtà nella sua interezza. L’obiettivo ultimo della metafisica di Fichte è quello di descrivere e giustificare il libero e responsabile agire umano nel mondo, rendendo conto, da una parte, della tensione infinita che anima l’io e, dall’altra, del contesto finito con cui tale tensione si scontra.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
La missione di una vita: costruire la libertà
‘
Una rivoluzione tra politica e filosofia Con le parole riportate nel riquadro a fianco – tratte da una celebre lettera indirizzata al poeta danese Jens Baggesen (1764-1826) – Fichte sintetizza il senso della propria filosofia. “Libertà”: è questo il principio che orienta la sua esistenza individuale e la sua riflessione filosofica, entrambe tese alla costruzione di un «sistema della libertà». Per quanto possa apparire astratto e distante dalla realtà, il pensiero fichteano ricava il proprio orientamento dalle vicende biografiche del filosofo e dalle sollecitazioni del suo tempo. Fichte è infatti un uomo profondamente radicato nella propria epoca, attento agli eventi politici che sconvolgono l’Europa soprattutto nel ventennio successivo alla Rivoluzione francese (1789). Egli vive dunque in prima persona quella «splendida aurora» (per usare un’espressione del contemporaneo Hegel unità 8) che, inaugurando l’emancipazione dei popoli e la rivendicazione della libertà, condizionerà nei secoli successivi l’intera cultura occidentale. Ma Fichte è convinto che alla rivoluzione politica avvenuta in Francia debba affiancarsi «un’altra rivoluzione di gran lunga più importante»: la rivoluzione filosofica portata avanti dall’idealismo, di cui egli stesso si considera il fondatore. Come i rivoluzionari francesi lottano contro il mondo autoritario dell’antico regime, rivendicando la missione politica di abbatterlo per crearne uno nuovo, così i “rivoluzionari” tedeschi (i filosofi idealisti) lottano contro la convinzione che il mondo sia qualcosa di dato, a cui conformarsi, rivendicando la missione civilizzatrice della libera creatività umana, che può trasformare la realtà rendendola migliore.
Il mio sistema è il primo sistema della libertà; come [la Francia] libera l’uomo dalle catene esterne, così il mio sistema lo libera dalle catene della cosa in sé, dall’influenza esterna, e lo costituisce, nel suo primo principio, come essere indipendente. (J.G. Fichte, Lettera a Jens Baggesen, aprile 1795)
I primi anni e gli studi
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di FICHTE
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Johann Gottlieb Fichte nasce in Sassonia, a Rammenau (vicino a Dresda) il 19 maggio 1762, da una famiglia molto povera. Secondo alcuni biografi, per aiutare il padre tessitore lavora, ancora giovanissimo, come guardiano di oche. Della sua infanzia e della sua adolescenza, trascorse a contatto con la miseria dei villaggi feudali, non si vergognerà mai. Il giovanissimo Fichte presenta particolari doti intellettuali, di cui ben presto si accorge un nobiluomo locale, il barone von Miltitz, che decide di sottrarre il ragazzo alla povertà a cui sembra destinato, finanziando la sua istruzione. Grazie al barone, Fichte studia per cinque anni presso il pastore Krebel, poi (nel 1774) entra nella celebre “Scuola Reale” di Pforta, il cui collegio ginnasiale, ospitato nel più antico monastero della Sassonia, era rinomato per la severità dell’insegnamento e per la ferrea disciplina. Terminata la formazione liceale, nel 1780 comincia a studiare teologia presso le Università di Jena (1780-1781) e poi di Lipsia (1781-1784). Egli stesso racconta la vita inquieta condotta in questo periodo, lottando contro le ristrettezze economiche e seguendo corsi teologici che non lo attraggono particolarmente. Nel 1784 la morte del suo benefattore lo costringe a interrompere gli studi. Abbandonata l’idea di diventare pastore, fino al 1789 Fichte si rassegna a lavori che non ama, tra cui quello di precettore in famiglie tedesche e svizzere. A Zurigo, in particolare, nel settembre UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO IL RACCONTO DI UNA VITA
1788 trova accoglienza nella casa di Hartmann Rahn, un funzionario doganale di grande cultura e sensibilità, e si innamora di sua figlia, Johanna Maria Rahn (nipote tra l’altro del poeta Friedrich Gottlieb Klopstock, 1724-1803), che nel 1793 diventerà sua moglie. Grazie ai Rahn, a Zurigo Fichte ha occasione di entrare in contatto con alcuni celebri intellettuali dell’epoca, tra cui il pastore e filosofo Johann Kaspar Lavater (1741-1801), studioso di fisiognomica, e il pedagogista e filosofo Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827).
L’interesse per Spinoza Sulle letture e sugli interessi filosofici di questo periodo, i biografi si limitano a fare congetture. Pare che Fichte fosse spinoziano e determinista, come sembra confermare una lettera a lui indirizzata dal pastore Fiedler, il quale gli rimprovera di non essersi liberato dell’«idolo della necessità». È probabile che Fichte abbia conosciuto la filosofia di Spinoza non direttamente, ma attraverso le critiche ad essa rivolte da Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819). Nel 1785 questi pubblica le celebri Lettere sulla dottrina di Spinoza, nelle quali mette in guardia i filosofi del suo tempo contro i pericoli del panteismo spinoziano. Jacobi, infatti, è convinto che una filosofia sistematica e rigorosamente razionale come lo spinozismo debba necessariamente finire per essere atea e determinista, negando così non soltanto l’esistenza di un Dio trascendente e personale, ma anche la libertà umana. Senza volerlo, Jacobi provoca nell’ambiente filosofico un rinnovato interesse nei confronti del “maledetto” Spinoza, facendone riemergere il pensiero dalla lunga clandestinità in cui la sua condanna lo aveva gettato nel secolo precedente. Anche Fichte è incuriosito dalle posizioni di Jacobi; anzi, proprio le sue osservazioni sulla libertà diventeranno il punto di partenza di tutta la riflessione fichteana, che sarà volta a un unico obiettivo: “salvare” lo spirito di sistema e il razionalismo spinoziani, sconfiggendone però il determinismo in modo da garantire la libertà umana ( “Dalla vita al pensiero”).
Fichte “contro” Spinoza DALLA VITA AL PENSIERO
Tutta la biografia intellettuale di Fichte può essere interpretata come una sorta di “corpo a corpo” con il seducente pensiero di Spinoza, ovvero come una sfida per trovare il fondamento di un «sistema della libertà» capace di vincere lo spettro del determinismo, che alla libertà non lascia alcuno spazio.
Tra ammirazione e critica Al «principe dei filosofi» – come definisce Spinoza – Fichte riconosce il merito di aver costruito un rigoroso sistema del sapere fondato su un principio supremo e infinito: un principio che non ammette un “altrove”, una trascendenza, un ordine diverso da quello in cui è immersa l’intera realtà. Eppure Fichte rintraccia nel razionalismo spinoziano un residuo di «dogmatismo», perché presuppone un mondo già dato (il «Deus sive Natura»), senza ricercare un suo ulteriore fondamento. L’errore di Spinoza, secondo Fichte, è stato quello di non accorgersi che la natura non sussiste di per sé,
quale aspetto (o «modo») di un’unica realtà divina, ma che esiste soltanto nel pensiero, ossia a partire dall’atto di un «Io» che si impone come il vero e il solo principio del reale.
Dalla natura allo spirito Alla base del proprio sistema metafisico, Fichte porrà quindi l’atto incondizionato di un Io assolutamente libero, capovolgendo in tal modo la prospettiva panteistica di Spinoza (“tutto è natura”) in senso spiritualistico (“tutto è spirito”): se Spinoza aveva concepito la natura come causa e principio di spiegazione dello spirito, Fichte sosterrà invece il contrario, ossia che lo spirito è il principio di spiegazione della natura, nel senso che quest’ultima esiste in virtù e in funzione dell’Io. Così l’ordine necessario della natura non coinciderà più con l’Assoluto, o l’Infinito, o Dio (questi erano i termini spinoziani), ma con l’Uomo, inteso come attività creatrice e libera che opera nella natura.
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La scoperta di Kant Sul tema della libertà e della necessità, nelle università di Jena e di Lipsia frequentate in gioventù Fichte aveva assistito a numerose dispute tra i seguaci di Leibniz e quelli di Spinoza, ma le aveva sempre giudicate sterili, dal momento che non riuscivano a parlare al “cuore” degli uomini, né a migliorarne i costumi. Convinto da sempre che i mali del tempo, soprattutto in Germania, fossero dovuti a una crisi morale e ad una certa “fiacchezza” delle coscienze, Fichte si persuade che il compito della filosofia sia quello di operare una rivoluzione spirituale. Con questa vaga esigenza di rottura e novità, nel 1790 torna a Lipsia, dove continua a mantenersi impartendo lezioni private. Ed è proprio la necessità di spiegare a uno studente il pensiero kantiano a far sì che Fichte entri per la prima volta in contatto diretto con gli scritti di Kant, e più precisamente con la Critica della ragion pratica. L’incontro con quest’opera è per lui una folgorante rivelazione, che gli mostra la via per risolvere il problema della libertà legato allo spinozismo: l’uomo è libero – insegna Kant – grazie alla ragione, la quale, ordinandogli di vincere le pulsioni naturali, lo affranca dal determinismo che governa la natura, rendendolo capace di obbedire solamente a sé stesso. Pieno di entusiasmo, Fichte decide di conoscere Kant di persona. Nel 1791 si reca quindi a Königsberg, con l’intento di far leggere al grande filosofo (che ormai ha sessantasette anni e sta vivendo la fase finale della sua parabola intellettuale) il manoscritto della sua prima opera: il Saggio di una critica di ogni rivelazione. Lo scritto – che riconduce e riduce la religione rivelata ai suoi contenuti razionali – è fedele allo spirito del kantismo, tanto che nel 1792, avendo cominciato a circolare anonimo, viene scambiato per un’opera di Kant. Quando quest’ultimo rivela il nome del vero autore, elogiandolo, Fichte raggiunge improvvisamente la celebrità. Kant lo aiuta anche a trovare un posto come insegnante presso i conti Krockow, nei pressi di Danzica, dove Fichte resterà per due anni ( “L’incontro”).
L’ I N CO N T RO
Fichte e Kant Quello con Kant è il grande “incontro” – filosofico e personale – che segna la riflessione di Fichte. Concentrato sul problema della libertà sollevato da Jacobi riguardo allo spinozismo, Fichte si imbatte nella soluzione leggendo la Critica della ragion pratica. Da quel momento la sua riflessione trova una via sicura lungo la quale svilupparsi. Egli stesso scrive entusiasticamente in una lettera a un amico: Io vivo in un mondo nuovo dacché ho letto la Critica della ragion pratica. Princìpi che credevo inconfutabili mi sono stati smentiti; cose che io non credevo potessero mai essere dimostrate, per esempio il concetto dell’assoluta libertà, del dovere ecc., mi sono state dimostrate, ed io mi sento per ciò assai più contento. È inconcepibile quale rispetto per l’umanità, quale forza, ci dia questo sistema. (Lettera a F.A. Weisshun, agosto/settembre 1790, cit. in J.G. Fichte, Alcuni aforismi su religione e deismo, trad. it. di G. Di Tommaso, Inschibboleth, Roma 2015, pp. 43-44)
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO IL RACCONTO DI UNA VITA
«Devo, dunque posso» (cioè sono libero), afferma Kant. E per Fichte è un’improvvisa “illuminazione”: l’uomo è libero, cioè capace di affrancarsi dal determinismo naturale, perché può piegare la propria natura (i propri desideri e le proprie passioni) alla legge del dovere. Su questa base, Fichte costruirà un sistema che andrà ben oltre il kantismo, perché, come vedremo, finirà per “assorbire” il noumeno (la realtà “in sé”, fenomenicamente determinata in modo necessario dalle leggi naturali) nell’attività libera dell’io. Ma, senza l’influenza determinante di Kant (e senza il dibattito post-kantiano sulla «cosa in sé»), tutto ciò non sarebbe stato possibile.
Fichte “giacobino” Diventato famoso come autore del Saggio di una critica di ogni rivelazione, Fichte si appresta a pubblicarlo, ma le autorità prussiane gli negano il nullaosta, così come pochi mesi più tardi faranno con la seconda parte della Religione nei limiti della semplice ragione di Kant. Per ironia della sorte, ciò accade proprio mentre Fichte è impegnato nella difesa degli editti del governo che limitano la libertà di stampa e istituiscono la censura in materia religiosa. Doppiamente indignato, per sé e per il suo maestro, Fichte abbandona la difesa del regime prussiano e, in polemica con il suo autoritarismo, diventa uno strenuo difensore della libertà politica. Questo cambio di orientamento trova chiara espressione in due scritti pubblicati anonimi nel 1793: la Rivendicazione della libertà di pensiero ( p. 657) e il Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese. In quest’ultimo saggio, in particolare, Fichte celebra la Rivoluzione del 1789 non soltanto come la legittima reazione ai soprusi di un potere assoluto e ottuso, ma anche come un evento epocale, «importante per l’umanità intera». Nonostante l’anonimato dei suoi scritti, viene individuato come il loro autore e additato come giacobino e oppositore del governo. Costretto a lasciare la Prussia, nell’estate del 1793 ritorna a Zurigo (dove era già stato nel 1788) e sposa Johanna Maria Rahn ( p. 639), dalla quale ha un figlio, Immanuel Hermann (1796-1879), futuro filosofo e curatore delle opere paterne.
Il superamento del kantismo Con Kant, oltre Kant: Fichte idealista Durante il suo soggiorno svizzero, Fichte matura un graduale distacco da Kant, di cui pure si considera discepolo e continuatore. Pur dichiarando di voler soltanto chiarificare, spiegare e rendere manifesto il pensiero del maestro, in realtà egli va prendendo progressivamente congedo dal kantismo. Questa evoluzione del pensiero di Fichte è probabilmente determinata dalla conoscenza e dalla frequentazione di alcuni pensatori – in particolare Karl Leonhard Reinhold (17571823), docente presso l’Università di Jena, e Gottlob Ernst Schulze (1761-1833) – che proprio in questi anni stanno mettendo in discussione il carattere finito attribuito da Kant all’«io penso» e la sua distinzione da un’inconoscibile realtà «in sé». Attraverso il confronto con i continuatori e i critici di Kant, Fichte approda all’idealismo, cioè alla convinzione che non esista un mondo già dato, un «noumeno» (conoscibile o inconoscibile), ma che l’intera realtà sia riconducibile all’attività dell’Io.
L’insegnamento a Jena In virtù della popolarità raggiunta partecipando al dibattito sulla «cosa in sé» e grazie all’intervento di Goethe, nel 1794 Fichte ottiene la cattedra di filosofia lasciata libera da Reinhold presso l’Università di Jena, dove insegnerà fino al 1799. Dell’ateneo jenese diviene qualche anno dopo anche rettore, noto per la sua severità. In questi anni Jena può essere considerata la capitale culturale del Romanticismo: lì si riuniscono gli esponenti del “circolo di Jena” ( cap. 1, p. 620), animato dal poeta Novalis e dai fratelli Schlegel; e attorno a Jena gravitano le grandi personalità filosofiche e letterarie del tempo: da Schelling a Hegel ( cap. 3 e unità 8), da Schleiermacher a Goethe, il quale controlla ogni cosa dall’alto della sua carica di ministro della cultura a Weimar, da cui Jena dipende.
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Risalgono a questo periodo le opere a cui Fichte deve la sua fama. Del 1794, in particolare, sono le Lezioni sulla missione del dotto (che raccolgono i testi di alcune sue lezioni pubbliche di grande successo) e i Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, un’ampia esposizione (destinata agli studenti universitari) del suo progetto filosofico.
La polemica sull’ateismo Nel 1799 Fichte è coinvolto nella cosiddetta “polemica sull’ateismo”. Tutto ha inizio con la pubblicazione sul “Giornale filosofico” di Jena (di cui Fichte è condirettore) di due articoli: uno di Friedrich Karl Forberg (1170-1848), intitolato Svolgimento del concetto di religione, e l’altro dello stesso Fichte, intitolato Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, che avrebbe dovuto precisare la posizione ufficiale della rivista sul rapporto tra filosofia e rivelazione. Senza prendere le distanze da Forberg, Fichte nel suo testo identifica Dio con l’ordine morale fondato sulla ragione, affermando che è possibile essere “religiosi” senza credere in Dio, ma semplicemente obbedendo agli imperativi morali che trovano la loro fonte nella ragione umana. Il governo prussiano vieta la stampa del giornale e chiede alle autorità di Weimar di punire Fichte e il direttore del giornale, minacciando, in caso di inottemperanza, di proibire ai sudditi prussiani di frequentare il prestigioso ateneo jenese. A sua volta, il governo di Weimar chiede al senato accademico di Jena di formulare contro Fichte un rimprovero formale, ma il filosofo, venuto a conoscenza di questo progetto, il 22 marzo 1799 scrive una lettera altezzosa a un membro del governo, avvertendo che, se il rimprovero fosse stato formulato, egli si sarebbe congedato dall’Università, seguìto da altri professori. La lettera di Fichte ottiene un effetto negativo: l’Università di Jena (con il parere favorevole di Goethe) lo costringe a dare le dimissioni, sebbene nel frattempo egli abbia lanciato un Appello al pubblico e ottenuto una petizione degli studenti in suo favore. I colleghi rimangono invece al loro posto, mentre la cattedra di Fichte viene assegnata a Schelling, suo giovane allievo. 1760
EVENTI STORICI
VITA DI FICHTE
FILOSOFIA E SCIENZA
1770
1780
1763
1775
Trattato di Parigi: fine della Guerra dei Sette anni
Inizia la Guerra di indipendenza americana
1790
1789 Scoppia la Rivoluzione francese
1762
1774
1780
1785-1789
Nasce a Rammenau
Inizia gli studi liceali presso la scuola reale di Pforta
Intraprende gli studi di teologia
È precettore in Germania e a Zurigo, dove conosce Johanna Rahn, sua futura moglie
1762 1763
1780-1783 1781
Rousseau: Voltaire: Trattato sulla tolleranza Il contratto sociale
Galvani studia Kant: Critica l’elettricità animale della ragion pura
1764
Beccaria: Dei delitti e delle pene
ARTE E LETTERATURA
642
1762
1774
Gluck: Orfeo ed Euridice
Goethe: I dolori del giovane Werther
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO IL RACCONTO DI UNA VITA
1789 Berlino comincia la costruzione della Porta di Brandeburgo
L’ultimo periodo: Fichte nazionalista Lasciata Jena nel luglio 1799, Fichte si reca a Berlino, dove pubblica La destinazione dell’uomo, che rappresenta una rilettura in chiave morale del suo sistema filosofico. In questo periodo prende le distanze da Schelling e modifica alcuni aspetti del proprio pensiero, ai quali dà espressione, tra il 1801 e il 1813, in una serie di nuove esposizioni della dottrina della scienza, estendendone i princìpi agli ambiti dell’etica e della politica. Rimasti inediti, questi scritti verranno pubblicati soltanto dopo la sua morte, grazie al lavoro del figlio Immanuel Hermann. Nel 1805 Fichte torna all’insegnamento, poiché gli viene offerta una cattedra all’Università di Erlangen, nei pressi di Norimberga. Qui tiene lezione soltanto da maggio a ottobre, per poi tornare a Berlino e pubblicare due opere di carattere divulgativo: i Tratti fondamentali dell’epoca presente e l’Introduzione alla vita beata (1806). Nell’ottobre 1806 la città è minacciata dall’avanzata dell’esercito napoleonico, che ha già sconfitto i prussiani a Jena. Fichte si trasferisce allora a Königsberg, dove si sono ritirati anche la corte e il governo prussiani. Ad agosto rientra nuovamente a Berlino, ancora occupata dalle truppe di Napoleone, e qui, a partire dal dicembre 1807, per quattordici domeniche consecutive pronuncia i celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), diventando l’animatore della resistenza tedesca contro l’occupazione francese. Nel 1810 Fichte è nominato professore presso l’Università di Berlino, appena fondata, e decano (cioè preside) della facoltà di filosofia. Nel 1811 viene eletto rettore e ha frequenti conflitti con il senato accademico e con le autorità governative su questioni amministrative. Nel 1812 si dimette dalla carica di rettore e chiede di partecipare alla guerra contro i francesi come cappellano militare, applicandosi anche nelle esercitazioni militari. All’inizio del 1814 viene contagiato da una febbre infettiva contratta dalla moglie, impegnata a curare i soldati feriti in un ospedale militare di Berlino. Mentre Johanna riesce a guarire, Fichte muore: è il 29 gennaio 1814. 1790
1800
1810
1793
1804
Luigi XVI e Maria Antonietta vengono ghigliottinati
Napoleone imperatore
1820
1815 Sconfitto a Waterloo, Napoleone è esiliato a Sant’Elena; si conclude il Congresso di Vienna
1806
1797
I francesi sconfiggono Federico Guglielmo III re di Prussia i prussiani a Jena
1792 1794 Saggio di una critica di ogni rivelazione
1799
1807-1808
Ottiene la cattedra Polemica sull’ateismo: Discorsi di filosofia a Jena; lascia l’Università di Jena alla nazione Fondamenti tedesca dell’intera dottrina 1802 della scienza Rompe con Schelling
1799 1800
Goethe: prima versione del Faust
1798-1802
Muore a Berlino Diventa professore all’Università di Berlino
1811 Diventa rettore dell’Università di Berlino
1807
Volta progetta e Schelling: Sistema costruisce la “pila” dell’idealismo trascendentale
1790
1814 1810
Hegel: Fenomenologia dello spirito
1804
Beethoven compone Foscolo: Le ultime lettere di Jacopo Ortis l’“Eroica” in onore di Napoleone
1819 Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione
1810 Friedrich: Abbazia nel querceto
1800 Novalis: Inni alla notte
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1. L’origine dell’idealismo nel dibattito sulla «cosa in sé» La critica La riflessione di Fichte si innesta su quella dei cosiddetti “critici immediati di Kant”, un della nozione gruppo di pensatori (da Karl Leonhard Reinhold a Gottlob Ernst Schulze, da Salomon ben kantiana di «cosa in sé» Joshua, noto con lo pseudonimo di Maimon per i suoi studi sul filosofo ebraico medievale
Mosè Maimonide, a Jakob Sigismund Beck) che avevano analizzato polemicamente il concetto kantiano di «noumeno» (esistente e tuttavia non conoscibile), giudicandolo filosoficamente inammissibile. Al di là delle posizioni e delle dottrine specifiche, il ragionamento generale a cui i critici immediati di Kant erano pervenuti è il seguente: ogni realtà di cui siamo consapevoli esiste come rappresentazione della coscienza, la quale a sua volta funge da condizione indispensabile del conoscere. Ma se l’oggetto risulta concepibile soltanto in relazione a un soggetto che lo rappresenta, come si può ammettere l’esistenza di una «cosa in sé», ovvero di una realtà non pensata e non pensabile, non rappresentata e non rappresentabile? Evidentemente, in questa prospettiva, la cosa in sé non può configurarsi che come un concetto impossibile.
Il punto di Che questo fosse davvero il punto di vista di Kant appare oggi quasi sicuramente da escluvista kantiano dere. Nella seconda edizione della Critica della ragion pura Kant identifica infatti il fenome-
no non con la «rappresentazione», ma con «l’oggetto della rappresentazione», e parla del noumeno come di un semplice concetto-limite, facendo intendere che il fenomeno non è una rappresentazione o un’idea che giace “dentro” la coscienza, ma un oggetto reale, anche se viene appreso attraverso il corredo mentale delle forme a priori, in virtù delle quali esso risulta appunto un «fenomeno». Ma poiché in Kant questo punto di vista non viene difeso in modo organico ed esplicito, anzi coesiste equivocamente (nella prima edizione della Critica, ma anche nella seconda) con un apparato terminologico di tipo “coscienzialistico” o “mentalistico”, si spiega la lettura offertane dai suoi critici immediati.
Dalla Nonostante le critiche mosse al maestro, i post-kantiani si muovono ancora in un orizzongnoseologia te prevalentemente gnoseologico. Il passaggio a un livello metafisico, che coincide con alla metafisica
la nascita dell’idealismo romantico, è interamente opera di Fichte.
2. La nascita dell’idealismo tedesco I significati del termine “idealismo” L’accezione Nel linguaggio comune si denomina “idealista” colui che ispira il proprio pensiero e il procomune prio comportamento a determinati ideali o valori – etici, religiosi, conoscitivi, politici ecc. –
e che per difenderli può giungere perfino a sacrificare la propria vita (in questo senso, ad esempio, si dice che Mazzini e i mazziniani erano “idealisti”).
Le accezioni In filosofia si parla invece di “idealismo” (in senso lato) a proposito di quelle visioni del filosofiche mondo (come il platonismo e il cristianesimo) che privilegiano la dimensione “ideale”
rispetto a quella materiale e che affermano il carattere spirituale della realtà “vera”. In questo senso il termine “idealismo” fu introdotto nel linguaggio filosofico verso la metà del Seicento, soprattutto in riferimento alla teoria platonica delle idee. Questa accezione, tuttavia, non ebbe molta fortuna, tanto che in filosofia la parola “idealismo” è usata prevalentemente per alludere alle varie forme di idealismo gnoseologico, oppure all’idealismo romantico o assoluto di Fichte, Schelling e Hegel.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
Con l’espressione “idealismo gnoseologico” si indicano tutte quelle prospettive che fi- L’idealismo niscono per ridurre l’oggetto della conoscenza a idea o rappresentazione. In questa gnoseologico accezione, il termine “idealismo” raccoglie tutte quelle dottrine – da Cartesio a Berkeley, da Kant ai neocriticisti – per le quali vale in qualche modo la tesi secondo cui «il mondo è una mia rappresentazione» (come dirà Schopenhauer vol. 3, unità 1, cap. 1). L’espressione “idealismo romantico” indica invece la grande corrente filosofica post- L’idealismo kantiana che si sviluppò in Germania nel periodo romantico e che ebbe ramificazioni nel- romantico o assoluto la filosofia moderna e contemporanea di tutti i Paesi. Dai suoi stessi fondatori (Fichte e Schelling), questo idealismo fu detto «trascendentale», o «soggettivo», o «assoluto»: l’attributo “trascendentale” tende a collegarlo con il punto di vista kantiano, che aveva fatto dell’«io penso» il principio fondamentale della conoscenza; la qualifica di “soggettivo” tende a contrapporlo al punto di vista di Spinoza, che aveva sì ridotto la realtà a un principio unico (la Sostanza divina), ma aveva inteso tale principio in termini di oggetto o di natura; l’aggettivo “assoluto”, infine, mira a sottolineare la tesi che l’io, o lo spirito, è il principio unico di tutto e che fuori di esso non c’è nulla. Ed è proprio di quest’ultima affermazione-chiave dell’idealismo romantico che intendiamo occuparci mostrandone la genesi fichteana e i significati.
L’infinitizzazione dell’io In Kant l’io era qualcosa di finito, in quanto non creava la realtà, ma si limitava a ordinar- Da Kant la secondo le proprie forme a priori. Per questo, sullo sfondo dell’attività dell’io, si stagliava a Fichte il concetto di “cosa in sé”, ossia di una x ignota, che il filosofo della Critica aveva ammesso per spiegare la ricettività del conoscere e la presenza di un “dato” di fronte all’io. I seguaci immediati di Kant, come abbiamo visto, avevano invece messo in discussione la cosa in sé, ritenendola gnoseologicamente inammissibile. Come abbiamo brevemente anticipato, l’idealismo sorge quando Fichte sposta il discorso dal piano gnoseologico (dottrina del conoscere) al piano metafisico (dottrina dell’essere) e abolisce lo “spettro” della cosa in sé, ovvero la nozione di qualsivoglia realtà esterna o estranea all’io. Quest’ultimo diviene così un’entità creatrice (fonte di tutto ciò che esiste) e infinita (priva di limiti esterni), secondo la tesi tipica e fondamentale dell’idealismo tedesco: «tutto è spirito». Per comprendere adeguatamente questa affermazione, che rappresenta il cuore struttura- Lo spirito come le di tutto l’idealismo post-kantiano, bisogna tener presente che con il termine “spirito” razionalità e libertà umana (o con i sinonimi “io”, “assoluto”, “infinito” ecc.) Fichte intende, in ultima istanza, la realtà umana, considerata come attività conoscitiva e pratica e come libertà creatrice1 . Questa puntualizzazione preliminare lascia tuttavia irrisolti due quesiti di base, che tendono ad affacciarsi alla mente di chi affronta per la prima volta lo studio dell’idealismo: in che senso lo spirito, e quindi il soggetto conoscente e agente, rappresenta la fonte creatrice di tutto ciò che esiste? che cos’è dunque, per gli idealisti, la natura o la materia?
1. Quando si afferma che per Fichte e per gli idealisti lo spirito coincide con l’umanità, non si intende quest’ultima come la nostra particolare specie biologica, ma come un’entità autocosciente, razionale e libera, che potrebbe anche esistere in altre zone dell’universo. Per gli idealisti, infatti, vi è spirito là dove esistono intelligenza e libertà.
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La risposta a tali domande risiede innanzitutto nel concetto di “dialettica”, cioè nella convinzione secondo cui, non essendoci mai nella realtà il positivo senza il negativo, lo spirito, per essere tale, ha bisogno di quella sua antitesi vivente che è la natura. Un soggetto senza oggetto, un io senza non-io, un’attività senza ostacolo sarebbero entità vuote e astratte, e quindi impossibili. Di conseguenza, mentre le filosofie naturalistiche e materialistiche avevano sempre concepito la natura come causa dello spirito, asserendo che l’essere umano è un prodotto o un effetto di essa, Fichte capovolge questa prospettiva, dichiarando che è piuttosto lo spirito a essere causa della natura, poiché quest’ultima esiste soltanto per l’io e in funzione dell’io, essendo semplicemente il materiale o la scena della sua attività, ossia il polo dialettico del suo essere. La natura come In altri termini, per Fichte: momento della lo spirito crea la realtà, nel senso che l’uomo rappresenta la ragion d’essere dell’univita dello spirito
verso, che in esso trova appunto il suo scopo; la natura esiste non come realtà a sé stante, ma come momento dialettico necessario della vita dello spirito. Queste due tesi idealistiche di fondo trovano una sorta di esemplificazione artistica nel romanzo incompiuto di Novalis I discepoli di Sais. In quest’opera, ispirata all’antico culto egizio della dea Iside, si narra il cammino di un giovane verso il tempio della dea di Sais, la divinità che nasconde sotto il suo velo il mistero dell’universo. Nelle aggiunte finali si dice: «Accadde ad uno di alzare il velo della dea di Sais. Ma cosa vide? Egli vide – meraviglia delle meraviglie – sé stesso». Secondo l’interpretazione idealistica, la dea velata sarebbe il simbolo del mistero dell’universo, mentre quell’«uno» che giunge a scoprirla sarebbe il filosofo idealista, il quale, dopo una lunga ricerca, si rende conto che la chiave di spiegazione di ciò che esiste, vanamente cercata al di fuori dell’essere umano (ad esempio in un Dio trascendente o nella natura), si trova invece proprio nell’uomo, ovvero nello spirito.
La natura Ma se l’uomo è la ragion d’essere e lo scopo dell’universo (attributi riferiti dalla filo“divina” sofia occidentale alla divinità), allora egli coincide con l’assoluto o con l’infinito, cioè dell’essere umano con Dio stesso, tanto che la figura tradizionale di un Dio trascendente e immutabile
nella sua perfezione è per il primo Fichte soltanto una “chimera”, in quanto presupporrebbe l’esistenza di un positivo senza il negativo. L’unico Dio possibile è lo spirito dialetticamente inteso, ovvero il soggetto che si costituisce tramite l’oggetto, la libertà che opera attraverso l’ostacolo, l’io che si sviluppa attraverso il non-io.
La novità Per la prima volta nella storia del pensiero, con l’idealismo di Fichte ci troviamo pertanto dell’idealismo di fronte a una forma di panteismo spiritualistico (Dio è lo spirito operante nel mondo, fichteano
cioè l’uomo), che si distingue sia dal panteismo naturalistico (Dio è la natura), sia dal trascendentismo di tipo ebraico-cristiano (Dio è Persona esistente fuori dell’universo). Come tale, l’idealismo fichteano è anche una forma di monismo dialettico (esiste un’unica sostanza, cioè lo spirito), che si contrappone a tutti i dualismi metafisici e gnoseologici della storia della filosofia, dai Greci a Kant (spirito e natura, Dio e mondo, soggetto e oggetto, libertà e necessità, fenomeno e cosa in sé…).
)
Per l’esposizione orale
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1. Quali sono le osservazioni mosse al concetto di «cosa in sé» dai seguaci immediati di Kant? 2. Presenta i caratteri generali dell’idealismo romantico iniziato con Fichte, spiegando la concezione secondo cui «tutto è spirito».
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
3. La dottrina della scienza e i suoi princìpi Il principio supremo della conoscenza era stato individuato da Kant nell’«io penso». Dall’io penso Ma l’io penso kantiano era un atto di autodeterminazione esistenziale, che presuppone- all’Io infinito va l’esistenza come già data; esso era quindi attività («spontaneità», aveva detto Kant), ma attività limitata dall’intuizione sensibile e da un’inconoscibile «cosa in sé». Nella loro interpretazione del kantismo, Reinhold, Schulze, Maimon e Beck, come abbiamo visto, avevano dichiarato “chimerica” la nozione di cosa in sé, in quanto esterna alla coscienza e indipendente da essa. Pertanto, questi studiosi avevano cercato di risolvere l’intera realtà nella soggettività dell’io, attribuendo alla sua attività anche la produzione dei “dati” sensibili. Fichte trae per la prima volta le conseguenze di queste premesse: se l’io è l’unico principio non soltanto formale, ma anche materiale del conoscere, ovvero se alla sua attività si deve non soltanto il pensiero della realtà oggettiva, ma la realtà oggettiva stessa, nel suo contenuto materiale, è evidente che esso non può essere soltanto finito, ma dovrà essere postulato, in quanto principio assoluto, anche come Io infinito. Su questo punto di partenza Fichte edifica il proprio sistema di filosofo dell’infinità dell’Io, della sua assoluta attività e spontaneità, e quindi della sua assoluta libertà.
CONCETTI A CONFRONTO
L’IO in KANT
in FICHTE
è finito
è infinito perché
perché
è limitato dalla cosa in sé
tutto esiste nell’Io e per l’Io
è principio formale del conoscere
è principio formale e materiale della realtà
I fondamenti della dottrina della scienza L’ambizione di Fichte è di costruire un sistema grazie al quale la filosofia, cessando di essere semplice ricerca del sapere (in base al suo significato etimologico), diventi finalmente un sapere assoluto e perfetto. Per questo l’idea centrale esposta nei Fondamenti dell’intera dottrina della scienza è quella di una scienza della scienza, cioè di un sapere che metta in luce il principio su cui si fonda la validità di ogni scienza, e che a sua volta si fondi su quello stesso principio. Il principio assoluto individuato da Fichte è l’ Io , che egli concepisce come autocoscienza e L’Io o che presenta nel modo più chiaro nella Seconda introduzione alla dottrina della scienza (1797), l’autocoscienza dove argomenta: noi possiamo dire che qualcosa esiste soltanto rapportandolo alla nostra coscienza, ossia facendone un essere-per-noi. A sua volta, la coscienza è tale soltanto in quanto è coscienza di sé medesima, ovvero autocoscienza. In sintesi: l’essere-per-noi (l’oggetto) è possibile soltanto sotto la condizione della coscienza (del soggetto), e questa, a sua volta, soltanto sotto la condizione dell’autocoscienza. La coscienza è quindi il fondamento dell’essere, mentre l’autocoscienza è il fondamento della coscienza. glossario p. 663
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La «deduzione La prima esposizione della Dottrina della scienza rappresenta il tentativo sistematico di assoluta» «dedurre» dal principio dell’Io, o dell’autocoscienza, il complesso della vita teoretica e pradi Fichte
tica dell’essere umano. La «deduzione operata da Fichte è quindi radicalmente diversa da quella kantiana. Quest’ultima, infatti, era una deduzione trascendentale, o gnoseologica, volta a giustificare la validità delle condizioni soggettive della conoscenza (le categorie); la deduzione di Fichte è invece una deduzione assoluta, o metafisica , che fa derivare dall’Io sia il soggetto sia l’oggetto del conoscere. glossario p. 663 In effetti, la deduzione di Kant metteva capo a una possibilità trascendentale (così era inteso appunto l’io penso) che implicava sempre un rapporto tra l’io e l’oggetto fenomenico, mentre la deduzione di Fichte mette capo a un principio assoluto che, come vedremo tra poco, pone il soggetto e l’oggetto fenomenici in virtù di un’attività creatrice, cioè di un’intuizione intellettuale. La Dottrina della scienza ha appunto lo scopo di dedurre da questo principio l’intero mondo del sapere, e di dedurlo necessariamente, in modo da costituirne il sistema unico e compiuto. Non deduce tuttavia il principio stesso della deduzione, cioè l’Io, andando quindi incontro, come vedremo, al problema della natura di tale Io.
Le caratteristiche dell’Io I princìpi fondamentali della deduzione fichteana sono tre,
L’esistenza di cui il secondo e il terzo sono in qualche modo implicati dal primo. Il primo principio è dell’Io come invece ricavato da una riflessione sulla legge di identità (A = A), che la filosofia tradizioprincipio supremo nale aveva considerato come base universale del sapere. In realtà, osserva Fichte, tale legge
non è il primo principio della scienza, poiché implica un principio ulteriore, o superiore, che è l’Io. Proviamo a seguire il ragionamento di Fichte. La legge di identità stabilisce che, se A è dato, allora A deve essere uguale a sé stesso (A = A, come nel caso di “il triangolo è un triangolo”). La legge di identità assume quindi, in via ipotetica, la presenza o l’esistenza di A. Ma l’esistenza di A dipende dall’Io che la pone, e quindi dall’identità dell’Io con sé stesso (Io = Io), altrimenti il principio logico di identità (A = A) non sarebbe giustificabile. In altri termini: il rapporto di identità di un ente con sé stesso è posto dall’Io, perché è l’Io che giudica di esso. Ma l’Io non può porre quel rapporto se non pone sé stesso, cioè se non si pone come esistente. L’esistenza dell’Io ha dunque la stessa necessità del rapporto puramente logico A = A, in quanto l’Io non può affermare nulla senza affermare in primo luogo la propria esistenza: ( T1 p. 668)
‘ ‘
Non si può pensare assolutamente nulla senza pensare in pari tempo il proprio Io come cosciente di sé stesso; non si può mai astrarre dalla propria autocoscienza. (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza)
L’Io come Il principio supremo del sapere non è dunque quello di identità (che è posto dall’Io) ma l’Io auto-creazione stesso. E l’Io, a sua volta, non è posto da altri, ma si pone da sé: la caratteristica peculiare e intuizione intellettuale dell’Io consiste nell’auto-creatività. Mentre le cose sono quelle che sono in quanto la loro
natura è fissa e predeterminata, l’Io è ciò che esso stesso si fa. Riferendosi all’esperienza diretta di ogni persona, Fichte scrive: Pensaci, costruisci il concetto di te stesso, e nota come fai. Ognuno che fa così troverà che (Seconda introduzione alla dottrina della scienza) l’attività dell’intelligenza costruisce sé stessa.
Tale auto-creazione coincide con l’ intuizione intellettuale che l’Io ha di sé stesso in quanto attività in virtù della quale conoscere qualcosa (sé stessi o gli oggetti) si identifica con il produrre questo qualcosa e con l’esserne implicitamente o esplicitamente consapevoli. Pertanto, se la metafisica classica sosteneva che operari sequitur esse (l’agire
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
segue l’essere), intendendo dire che gli individui agiscono conformemente alla loro natura o al loro essere, la nuova metafisica idealistica capovolge questo assioma e afferma che esse sequitur operari (l’essere segue l’agire), in quanto l’essere dell’Io è il frutto della sua stessa azione, e il risultato della sua stessa libertà. glossario p. 663 Questa prerogativa dell’Io viene denominata da Fichte Tathandlung . Con questo termine L’assolutezza – che insieme con Streben (sforzo) è forse il più caratteristico della Dottrina della scienza – dell’Io egli intende appunto indicare che l’Io è nello stesso tempo attività agente (Tat) e prodotto dell’azione (Handlung). In questo senso l’Io presenta la caratteristica dell’assolutezza, in quanto è assolutamente in-condizionato, cioè non dipende da altro. glossario p. 663 Si noti come Fichte, con questo basilare principio, non faccia che portare alla massima espressione metafisica la visione rinascimentale e moderna dell’uomo come essere che costruisce o inventa sé stesso tramite la propria libertà. Come vedremo, questo concetto tende a ritornare, anche indipendentemente dall’idealismo, in gran parte delle filosofie posteriori, fino ai giorni nostri. E Goethe lo ha restituito con un potente verso del Faust (I, v. 1237): «In principio era l’azione».
I tre princìpi Vediamo dunque i tre principi della dottrina della scienza. Il primo principio stabilisce che «l’Io pone sé stesso». Esso chiarisce quindi che la nozione «L’Io pone generale di “Io” si identifica con quella di un’infinita attività auto-creatrice. ( T1 p. 668) sé stesso» Il secondo principio stabilisce che «l’Io pone il non-io », ovvero che l’Io non soltanto po- «L’Io pone ne sé stesso, ma oppone anche a sé stesso qualcosa che, in quanto gli è opposto, è un il non-io» non-io (oggetto, mondo, natura). Tale non-io è tuttavia posto dall’Io, ed è quindi nell’Io. glossario p. 664 Questo secondo principio – osserva Fichte – a rigore non è deducibile dal primo, «poiché la forma dell’opporre è così poco compresa nella forma del porre, che le è anzi piuttosto opposta». Ciò non toglie, come appare chiaro dall’ultima parte della Dottrina della scienza, che «questo fatto [la posizione del non-io] deve accadere, affinché una coscienza reale sia possibile». Infatti che senso avrebbe un Io senza un non-io, cioè un soggetto senza oggetto, un’attività senza un ostacolo, un positivo senza un negativo? ( T2 p. 671) Il terzo principio stabilisce che l’Io, avendo posto il non-io, si trova ad essere limitato da tale non-io, esattamente come il non-io risulta limitato dall’Io. In altri termini, con il terzo principio perveniamo alla situazione concreta del mondo, in cui abbiamo una molteplicità di io finiti che hanno di fronte a sé una molteplicità di oggetti a loro volta finiti. E poiché Fichte usa l’aggettivo «divisibile» per denominare il molteplice e il finito, egli esprime il terzo principio con la seguente formula: «L’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile».
«L’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile»
I tre principi esposti finora delineano i capisaldi dell’intera dottrina di Fichte, perché Una nuova metafisica stabiliscono: 1. l’esistenza di un Io infinito, inteso come attività assolutamente libera e creatrice; 2. l’esistenza di un io finito (perché limitato dal non-io), cioè di un soggetto empirico (l’essere umano come intelligenza o ragione); glossario p. 664 3. l’esistenza di un non-io, cioè dell’oggetto (mondo o natura) che si oppone all’io finito, ma che è ricompreso nell’Io infinito, dal quale è posto. Questi princìpi costituiscono il nerbo della deduzione idealistica del mondo, ossia di quella spiegazione della realtà alla luce dell’Io che, contrapponendosi all’antica metafisica dell’essere o dell’oggetto, mette capo a una nuova metafisica dello spirito o del soggetto.
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Una metafisica della libertà Per comprendere meglio i motivi profondi per cui Fichte deduce dai tre princìpi l’intero sistema metafisico idealistico, è bene puntualizzare alcuni passaggi.
La natura Innanzitutto, i tre principi non vanno interpretati in modo cronologico, bensì logico, logica dei tre in quanto con essi Fichte non intende dire che prima esista l’Io infinito, poi l’Io che pone il princìpi
non-io e infine l’io finito, ma semplicemente che esiste un Io che, per poter essere tale, deve presupporre di fronte a sé il non-io, trovandosi in tal modo a esistere concretamente sotto forma di io finito. I TRE PRINCÌPI DELLA DOTTRINA DELLA SCIENZA come attività autocreatrice e infinita L’IO PONE SÉ STESSO (TESI)
come condizione incondizionata di sé stesso e della realtà come principio primo del sapere
L’IO PONE IL NON-IO (ANTITESI) L’IO OPPONE NELL’IO ALL’IO DIVISIBILE UN NON-IO DIVISIBILE (SINTESI)
l’Io contrappone a sé stesso, in sé stesso, qualcos’altro da sé
avendo posto il non-io, l’Io si trova a esistere sotto forma di io divisibile (= molteplice e finito) limitato da una serie di non-io altrettanto divisibili (= molteplici e finiti)
La natura finita Su queste basi, l’Io risulta finito e infinito al tempo stesso: finito perché limitato dal e insieme non-io; infinito perché il non-io, cioè la natura, esiste soltanto in relazione all’Io e dentro infinita dell’Io
l’Io, costituendo il polo dialettico o il “materiale” indispensabile della sua attività. Pertanto l’Io infinito (o «Io puro», come Fichte dice talvolta) non è qualcosa di diverso dall’insieme degli io finiti nei quali si realizza (esattamente come l’umanità non è qualcosa di diverso dai vari individui che la compongono), anche se l’Io infinito perdura nel tempo, mentre i singoli io finiti nascono e muoiono.
I rapporti L’Io infinito, più che la sostanza o la radice metafisica degli io finiti, è la loro mèta ideale. tra gli io finiti In altri termini, gli io finiti sono l’Io infinito, o gli io empirici sono l’Io puro, soltanto nel e l’Io infinito
senso che tendono a esserlo. Detto altrimenti: l’infinito, per l’essere umano, anziché consistere in un’“essenza” già data, è un dover essere, o una missione. Queste affermazioni si comprendono meglio se si rammenta che per Io infinito o puro Fichte intende un Io libero, ossia uno spirito vittorioso sui propri ostacoli e quindi privo di limiti («puro» appunto): una condizione che per gli uomini è un ideale. Dire che l’Io infinito è la “missione” dell’io finito significa quindi dire che l’uomo è uno sforzo infinito verso la libertà, ovvero una lotta inesauribile contro il limite, e quindi contro la natura esterna (le cose) e interna (gli istinti irrazionali e l’egoismo). Sotto le rigide formule della Dottrina della scienza, si cela insomma un messaggio tipico del pensiero moderno: il compito proprio dell’essere umano è l’umanizzazione del mondo, ossia il tentativo incessante di “spiritualizzare” le cose e noi stessi, dando origine, da un lato, a una natura plasmata secondo i nostri scopi e, dall’altro, a una società di esseri liberi e razionali.
La missione Ovviamente questo compito si staglia sull’orizzonte di una missione mai conclusa, poiché inesauribile se l’Io, la cui essenza è lo sforzo (lo Streben dei romantici), riuscisse davvero a superare dell’Io
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tutti i suoi ostacoli, allora cesserebbe di esistere e al movimento della vita, che è lotta e opposizione, subentrerebbe la stasi della morte. Al concetto statico di perfezione, tipico della filosofia classica, Fichte sostituisce quindi un concetto dinamico, che pone la perfezione non nella mèta dello sforzo, ma nello stesso sforzo verso l’auto-perfezionamento: «Essere libero – sostiene Fichte – è niente, divenirlo è cosa celeste». I tre princìpi rappresentano anche la piattaforma della deduzione fichteana delle categorie. Infatti il porsi dell’Io (tesi), l’opposizione del non-io all’Io (antitesi) e il limitarsi reciproco dell’io e del non-io (sintesi) corrispondono alle tre categorie kantiane della qualità: affermazione, negazione e limitazione. Dal concetto di un io divisibile e di un non-io divisibile o molteplice (terzo principio) derivano invece le categorie della quantità: unità, pluralità e totalità. E sempre dal terzo principio, in cui sono stabiliti un Io che è il soggetto autodeterminantesi dell’intero processo (sostanza), un non-io che determina (causa), un io empirico che è determinato (effetto) e un reciproco condizionarsi tra io e non-io (azione reciproca), scaturiscono le tre categorie della relazione: sostanza, causa-effetto e azione reciproca.
La deduzione delle categorie kantiane
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 798
Dire che la storia “filosofica” del mondo si articola nei tre momenti dell’auto-posizione dell’Io (tesi), dell’opposizione del non-io (antitesi) e della determinazione reciproca tra io e non-io (sintesi) significa dire che l’Io, per usare una terminologia che avrà grande fortuna con Hegel, presenta una struttura triadica e dialettica , articolata nei tre momenti di tesi-antitesi-sintesi e incentrata sul concetto di una “sintesi degli opposti”. glossario p. 664
La struttura dialettica dell’Io
L’alternativa tra idealismo e dogmatismo Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza, dopo aver affermato che l’idealismo e il dogmatismo sono gli unici due orientamenti filosofici possibili, Fichte cerca di illustrare i motivi che possono indurre a scegliere l’uno o l’altro. Fichte sostiene che la filosofia non è una costruzione astratta, ma una riflessione sull’espe- Le due possibili rienza, che ha come scopo la messa in luce del fondamento dell’esperienza stessa. Ora, vie della filosofia poiché nell’esperienza sono in gioco “la cosa” (l’oggetto) e “l’intelligenza” (l’io o il soggetto), la filosofia può assumere la forma dell’idealismo (che consiste nel puntare sull’intelligenza, facendo una preliminare astrazione dalla cosa) o del dogmatismo (che consiste nel puntare sulla cosa in sé facendo una preliminare astrazione dall’intelligenza). In altri termini, l’ idealismo consiste nel partire dall’io o dal soggetto, per spiegare su questa base la cosa o l’oggetto; viceversa, il dogmatismo consiste nel partire dalla cosa in sé, o dall’oggetto, per spiegare su questa base l’io o il soggetto: glossario p. 664
‘
Il contrasto tra l’idealista e il dogmatico consiste propriamente in ciò: se l’autonomia dell’io debba essere sacrificata a quella della cosa o viceversa.
Secondo Fichte, nessuno di questi due sistemi riesce a confutare direttamente quello opposto, in quanto entrambi non possono fare a meno di presupporre, fin dall’inizio, il valore assoluto del proprio principio (l’io o la cosa in sé). Che cos’è mai, allora, a indurre «un uomo ragionevole» a dichiararsi a favore dell’uno piuttosto che dell’altro? A questo interrogativo Fichte risponde affermando che la scelta tra idealismo e dogmati- La superiorità smo deriva da una differenza di «inclinazione» e di «interesse», ovvero da una presa di etica dell’idealismo posizione in campo etico. Vediamo in che senso. Per Fichte il dogmatismo, che si configura come una forma di realismo in gnoseologia e di naturalismo o di materialismo in metafisica, finisce per rendere nulla o problematica la libertà.
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Scrivi infatti il filosofo:
‘
Ogni dogmatico conseguente [cioè coerente] è per necessità fatalista. Non che contesti, come dato di coscienza, il fatto che noi ci reputiamo liberi […]. Egli non fa che dedurre dal suo principio la falsità di questa attestazione […]. Egli nega del tutto quell’autonomia dell’Io, su cui l’idealista costruisce, e fa dell’Io nient’altro che un prodotto delle cose, un accidente del mondo: il dogmatico conseguente è per necessità anche materialista.
Al contrario, l’idealismo, facendo dell’Io un’attività auto-creatrice, in funzione della quale esistono gli oggetti, finisce per strutturarsi come una rigorosa dottrina della libertà. Queste due filosofie hanno, come corrispettivo esistenziale, due tipi di «umanità». Da un lato vi sono individui che non si sono ancora elevati al sentimento della propria libertà assoluta: trovando sé stessi soltanto nelle cose, tali individui sono istintivamente attratti dal dogmatismo e dal naturalismo, che insegnano loro che tutto è deterministicamente dato e fatalisticamente predisposto. Dall’altro lato vi sono invece individui che, avendo il senso profondo della propria libertà e indipendenza dalle cose, risultano spontaneamente portati a simpatizzare con l’idealismo, che insegna loro come essere uomini sia sforzo e conquista, e come il mondo ci sia non perché passivamente contemplato, ma perché attivamente forgiato dallo spirito. In sintesi:
‘
La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile, che si possa prendere o lasciare a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che l’ha. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato e dalla schiavitù spirituale, non potrà mai elevarsi all’idealismo.
La superiorità Tuttavia, benché Fichte parli in termini di «scelta di fondo», dal contesto del suo sistema si teoretica deduce che l’opzione tra le due filosofie, pur rimandando a una presa di posizione esistendell’idealismo
ESERCIZI
ziale e morale, non sia affatto teoreticamente immotivata. Anzi, tutta la Dottrina della scienza è volta a dimostrare che soltanto muovendo dall’Io si riescono a spiegare in termini di “scienza” sia l’Io sia le cose. In sintesi, l’Io è la realtà originaria e assoluta che può spiegare sia sé stesso, sia le cose, sia il rapporto tra sé stesso e le cose. E proprio questa superiorità – etica e teoretica – dell’idealismo sul dogmatismo spinge Fichte a intraprendere quella via originale del pensiero che è appunto l’idealismo.
)
Per l’esposizione orale
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1. Definisci i seguenti concetti fichteani: Io, o autocoscienza; deduzione assoluta, o metafisica; intuizione intellettuale, Tathandlung, non-io, io divisibile, non-io divisibile; quindi utilizza questi termini ed espressioni per illustrare brevemente i tre princìpi della Dottrina della scienza. 2. Che cosa si intende per Streben e in che senso questo concetto esprime l’essenza stessa dell’Io di Fichte? 3. Spiega che cosa intende Fichte per “idealismo” e “dogmatismo”, e chiarisci i motivi che spingono il filosofo tedesco alla scelta del primo. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Il progetto di Fichte di «dedurre» l’intera realtà dall’Io, cioè da un principio che è pura e infinita intelligenza creatrice, può sembrare astratto e ambizioso, ma l’idea che lo sostiene è assai suggestiva, e si può forse semplificare così: la realtà non esiste che per noi, come oggetto della nostra conoscenza e teatro del nostro agire, affinché in essa possiamo realizzare la nostra natura di soggetti liberi. Che cosa ne pensi, e perché?
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
4. La teoria della conoscenza Dall’azione reciproca dell’io e del non-io nascono sia la conoscenza (la «rappresentazione» della realtà da parte del soggetto), sia l’azione. Per quanto concerne la rappresentazione, nella prospettiva del realismo dogmatico essa è prodotta dall’azione di una cosa esterna sull’io empirico, secondo la convinzione che la cosa sia indipendente dall’io e anteriore a esso. Anche Fichte ritiene che la rappresentazione sia il prodotto di un’attività del non-io sull’io, ma dal momento che il non-io è a sua volta posto o prodotto dall’Io, l’attività che esso esercita deriva in ultima analisi proprio dall’Io, ed è un’attività riflessa che dal non-io rimbalza all’io. Fichte si proclama pertanto realista e idealista al tempo stesso: realista perché alla base della conoscenza ammette un’azione del non-io sull’io; idealista perché ritiene che il non-io sia, a sua volta, un prodotto dell’Io. Tuttavia questa posizione – comunemente nota come “ideal-realismo” – genera alcuni problemi non irrilevanti nell’economia del sistema di Fichte: 1. perché il non-io, pur essendo un effetto dell’Io, appare alla coscienza comune come qualcosa di sussistente di per sé, anteriormente e indipendentemente dall’Io stesso? 2. come si spiega che l’Io sia causa di una realtà di cui non ha esplicita coscienza, e che soltanto la riflessione filosofica, dopo uno sviluppo plurisecolare, sarebbe riuscita a portare alla luce proprio con Fichte? 3. eliminata la consistenza autonoma del non-io, questo non rischia di ridursi a sogno o parvenza?
Una posizione realistica e insieme idealistica
Al primo problema Fichte risponde con la teoria dell’ immaginazione produttiva , che L’immaginazione Kant aveva concepito come la facoltà con cui l’intelletto schematizza il tempo secondo le produttiva categorie. Fichte la intende invece come l’atto attraverso cui l’Io pone o crea il non-io. Mentre in Kant l’immaginazione produttiva si limitava a fornire le condizioni formali dell’esperienza, in Fichte essa produce i materiali stessi del conoscere. glossario p. 664 Per quanto riguarda il carattere inconsapevole dell’immaginazione produttiva, esso deriva dal fatto che la coscienza presuppone sempre una situazione polarizzata, in cui il soggetto ha già davanti a sé l’oggetto. Ma l’immaginazione produttiva è l’atto stesso con cui il soggetto (l’Io infinito) si dispone a creare l’oggetto: essa non potrà quindi che essere pre-conscia, ovvero inconscia. Per quanto riguarda il terzo problema, Fichte ha già risposto asserendo che il non-io, pur essendo un prodotto dell’Io, non è una parvenza ingannatrice, ma una realtà di fronte a cui si trova ogni io empirico. Sul piano teoretico, la ri-appropriazione umana del non-io avviene attraverso una serie di I gradi della gradi della conoscenza, che vanno dalla semplice sensazione alle più alte speculazioni del conoscenza filosofo, mediante una progressiva interiorizzazione dell’oggetto, che alla fine si rivelerà opera del soggetto. Fichte denomina questo processo di graduale riconquista conoscitiva dell’oggetto «storia prammatica dello spirito umano» e lo articola a seconda della facoltà che presiede a ciascun livello: 1. sensazione, in cui l’io empirico avverte fuori di sé l’oggetto, come un dato che gli si oppone; 2. intuizione, in cui permane la distinzione tra soggetto e oggetto, ma il materiale sensibile viene organizzato mediante le forme soggettive dello spazio e del tempo; 3. intelletto, che fissa la molteplicità fluttuante delle percezioni spazio-temporali meTEST DI LOGICA diante rapporti categoriali stabili;
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4. giudizio, che fissa e articola a propria volta la sintesi intellettiva: «se nell’intelletto non
c’è nulla, non c’è giudizio; se non c’è giudizio, nell’intelletto non c’è nulla per l’intelletto, [ossia] non c’è pensiero del pensato come tale»; 5. ragione, che, essendo la facoltà di «astrarre da ogni oggetto in generale», rappresenta il massimo livello conoscitivo raggiungibile dal soggetto, in cui si raggiunge la consapevolezza del fatto che l’oggetto è una produzione del soggetto. la conoscenza è un’azione del non-io sull’io empirico (= realismo)
PER L’IDEAL-REALISMO
il non-io è già un prodotto dell’Io e dell’immaginazione (= idealismo)
per Kant è l’attività a priori che fornisce le condizioni formali dell’esperienza schematizzando il tempo secondo le categorie
L’IMMAGINAZIONE PRODUTTIVA
I GRADI DELLA CONOSCENZA
)
Per l’esposizione orale
per Fichte è l’attività inconscia che crea gli oggetti, ovvero l’attività con cui l’Io, limitandosi, produce i materiali della propria conoscenza
sono
sensazione
registrazione del dato
intuizione
organizzazione spazio-temporale dei dati
intelletto
categorizzazione della molteplicità spazio-temporale
giudizio
articolazione della sintesi intellettiva
ragione
astrazione dagli oggetti in generale
1. Spiega perché la teoria della conoscenza di Fichte può essere definita sia realistica sia idealistica. 2. Definisci il concetto fichteano di «immaginazione produttiva», specificando come si differenzia da quello kantiano. 3. Quali sono i gradi della conoscenza, secondo Fichte, e a quale traguardo pervengono?
5. La morale La caratteristica predominante della filosofia di Fichte è costituita dalla forza che egli attribuisce all’azione morale e dalla conseguente esigenza di fondarla metafisicamente. Nell’ultima fase della sua speculazione la riflessione morale lascerà il posto alla riflessione sulla fede religiosa. Da un capo all’altro del suo pensiero, Fichte mostra quindi la sua personalità etico-religiosa:
‘
Io sono chiamato a rendere testimonianza alla verità […]. Io sono un prete della verità; sono al suo soldo, mi sono obbligato a fare tutto, ad arrischiare tutto, a soffrire tutto per essa. (La missione del dotto)
654
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
Il primato della ragione pratica e i caratteri della moralità Abbiamo visto come per Fichte la conoscenza presupponga l’esistenza di un io (finito) che ha davanti a sé un non-io (finito). Ma qual è il “perché” di tale situazione? In altri termini: perché l’Io pone il non-io, realizzandosi come io conoscente finito? Coerentemente con le premesse del suo sistema, Fichte risponde che il motivo è di natura pratica: l’Io pone il non-io, e quindi esiste come attività conoscente, soltanto per poter agire: «Noi agiamo – scrive il filosofo – perché conosciamo, ma conosciamo perché siamo destinati ad agire». Detto altrimenti: l’io pratico costituisce per Fichte la ragione dell’io teoretico. Con queste affermazioni, Fichte ritiene di avere posto su (più) solide basi quel primato della ragione pratica sulla ragione teoretica che era stato enunciato da Kant. E da queste affermazioni deriva la denominazione di idealismo etico data al pensiero di Fichte, che si può sintetizzare nella doppia tesi secondo cui noi esistiamo per agire e il mondo esiste come teatro della nostra azione. Come afferma Fichte: «Il mio mondo è oggetto e sfera dei miei doveri, e assolutamente nient’altro». glossario pp. 664, 665
L’io pratico come ragion d’essere dell’io teoretico
Ma che cosa significa “agire”? E quando, per Fichte, l’agire assume una connotazione “mo- Il criterio dell’azione rale”? La risposta a queste due domande discende da quanto si è detto finora: morale 1. agire significa imporre al non-io la legge dell’Io, ossia foggiare noi stessi e il mondo alla luce dei nostri liberi progetti razionali; 2. la moralità dell’agire si manifesta quando esso assume la forma del “dovere”, ovvero di un imperativo volto a far trionfare lo spirito sulla materia, sia sottomettendo i nostri impulsi alla ragione, sia plasmando la realtà esterna secondo il nostro volere. Tutto ciò fornisce la spiegazione definitiva del perché l’Io “abbia bisogno” del non-io. Spiegazione che possiamo globalmente sintetizzare in questo modo: per realizzare sé stesso, l’Io, che è costituzionalmente libertà, deve agire, e agire moralmente. Ma, come Kant aveva insegnato, non c’è attività morale laddove non ci sia lotta o sforzo (Streben); e non c’è sforzo laddove non ci sia un ostacolo da vincere. Tale ostacolo è la materia, l’impulso sensibile, il non-io. glossario p. 665 La posizione del non-io è quindi la condizione indispensabile affinché l’Io si realizzi come attività morale. Ma realizzarsi come attività morale significa trionfare sul limite costituito dal non-io mediante un processo di auto-liberazione dell’Io dai propri vincoli: grazie a un tale processo, l’io (empirico) mira a farsi “infinito”, cioè libero da impedimenti esterni.
Il non-io come condizione della moralità dell’Io
Ovviamente l’infinità dell’io, come già sappiamo, non può mai essere del tutto raggiunta; La moralità come compito essa è quindi una mèta, un compito incessante: infinito
‘
L’io non può mai diventare indipendente fino a che dev’essere io; lo scopo finale dell’essere razionale si trova necessariamente nell’infinito, ed è tale che non lo si può raggiungere mai, sebbene ci si debba incessantemente avvicinare ad esso.
Fichte indica così nell’ideale etico il vero significato dell’infinità dell’Io. L’Io è infinito (sia pure tramite un processo esso stesso infinito) poiché si rende tale, svincolandosi dagli oggetti che esso stesso pone. E pone questi oggetti perché senza di essi non potrebbe realizzarsi come attività e libertà. PER L’IDEALISMO ETICO
l’Io determina il non-io
mediante
la libertà e il dovere
realizzandosi come
compito morale infinito e sforzo mai concluso di spiritualizzazione del mondo
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Le condizioni sociali della moralità e la missione del dotto Il fine morale Il dovere morale, secondo Fichte, può essere realizzato dall’io finito soltanto attraverso la della vita sociale collaborazione con gli altri io finiti. Anzi, nell’ultima parte del Sistema della dottrina mo-
rale (1798) Fichte arriva a «dedurre» filosoficamente l’esistenza degli altri io finiti proprio dal principio per cui la sollecitazione e l’invito al dovere possono venire soltanto da esseri che siano, come me, nature intelligenti, ma che siano fuori di me. E, una volta ammessa l’esistenza fuori di me di altri esseri intelligenti, io sono obbligato a riconoscere loro lo stesso scopo della mia esistenza, cioè la libertà. Nella vita sociale, ogni io finito risulta quindi costretto non soltanto a porre alcuni limiti alla propria libertà (limiti sanciti dal contratto da cui si origina lo Stato), ma anche ad agire in modo tale che l’umanità nel suo complesso risulti sempre più libera. Farsi liberi e rendere liberi gli altri in vista della completa unificazione del genere umano: ecco il senso dello Streben sociale dell’io:
‘‘ ‘ ‘
L’uomo ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società; se vive isolato, non è un uomo intero e completo, anzi contraddice sé stesso. Il fine supremo ed ultimo della società è la completa unità e l’intimo consentimento di tutti i suoi membri.
Il dotto come Per realizzare adeguatamente questo scopo, secondo Fichte è necessaria una mobilitazio“maestro” del ne di coloro che ne possiedono la maggior consapevolezza teorica, cioè dei «dotti». Nelle genere umano
Lezioni sulla missione del dotto (1794), Fichte sostiene infatti che:
Il dotto è in modo specialissimo destinato alla società; in quanto tale egli esiste propriamente mediante e per la società […] [egli] deve condurre gli uomini alla coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti per soddisfarli.
Tanto più che in tutti gli uomini esiste un sentimento del vero, ma che da solo non basta, poiché dev’essere saggiato, sviluppato, raffinato, e a questo fine i dotti possono essere di grande aiuto. In altri termini, il dotto, che per Fichte deve essere l’uomo moralmente migliore del suo tempo, deve diventare maestro ed educatore del genere umano. ( T3 p. 672) La “missione” In conclusione – e questa è la proposta di fondo dell’idealismo etico fichteano – il fine suultima premo di ogni singolo essere umano, così come della società tutta intera, e quindi del dell’essere umano dotto che in essa opera, è il «perfezionamento morale di tutto l’uomo»:
Il fine ultimo dell’uomo è quello di sottomettere ogni cosa irrazionale e dominare libero secondo la sola sua legge, fine che non è affatto raggiungibile e che tale deve eternamente rimanere, se l’uomo non deve cessare di essere uomo per diventare Dio. Dallo stesso concetto di uomo ricaviamo che il suo fine è irraggiungibile e la via che porta ad esso infinita. Non è dunque il raggiungimento di questo fine la missione dell’uomo. Ma egli può e deve perpetuamente avvicinarsi ad esso e questo infinito avvicinarsi al fine è la sua missione di uomo, cioè di essere razionale eppur finito, sensibile eppur libero. Quel pieno accordo con se stesso si chiama perfezione nel più alto significato della parola; la perfezione è dunque il più alto e irraggiungibile fine dell’uomo e il perfezionamento all’infinito è la sua missione. (La missione del dotto)
)
Per l’esposizione orale
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1. Spiega in che cosa consiste, secondo Fichte, il primato della ragion pratica su quella teoretica, e precisa qual è il compito morale dell’Io. 2. Qual è per Fichte il dovere morale dell’intero genere umano? 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la «missione» affidata da Fichte ai «dotti»: pensi anche tu che il compito principale degli intellettuali sia quello di perfezionare gli esseri umani dal punto di vista morale? Argomenta la tua risposta.
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
6. Il pensiero politico La filosofia politica di Fichte si sviluppa attraverso fasi diverse, sulle quali esercitano il loro influsso le vicende storiche: dalla Rivoluzione francese (che all’inizio egli difende dagli attacchi del pensiero reazionario) alle guerre napoleoniche e all’invasione della Germania da parte delle truppe francesi (che stimolano un’evoluzione del suo pensiero in senso nazionalistico, con il riconoscimento di una sempre maggior importanza allo Stato e alla vita comunitaria).
Dal contrattualismo all’ideale dell’autarchia Nei due scritti anonimi del 1793 (Rivendicazione della libertà di pensiero e Contributo per La legittimità rettificare il giudizio del pubblico sulla Rivoluzione francese) Fichte mostra di condividere una della rivoluzione visione contrattualistica e anti-dispotica dello Stato, nonché di essere particolarmente sensibile al tema della libertà di pensiero e di espressione. Nel secondo saggio, in particolare, simpatizzando con gli eventi francesi e con posizioni giacobine e rousseauiane (pur filtrate dal pensiero kantiano), Fichte afferma che lo scopo del contratto sociale è l’educazione alla libertà, da cui deriva il diritto alla rivoluzione. Se lo Stato non permette l’educazione alla libertà, si ha infatti il diritto di rompere il contratto sociale e di formarne un altro che possa fornire migliori garanzie, e che sia in grado di assicurare un sistema politico giusto. Un sistema, tra l’altro, in cui la proprietà e la ricchezza siano il frutto del lavoro produttivo («chi non lavora non deve mangiare», dice Fichte). L’anno successivo (1794), nell’abbozzo di discorso politico contenuto nelle Lezioni sulla mis- Lo Stato come sione del dotto, Fichte indica il fine ultimo della vita comunitaria nella «società perfetta», semplice mezzo intesa come comunità di esseri liberi e ragionevoli. In vista di tale fine, lo Stato è per Fichte un semplice mezzo, e per di più indirizzato al «proprio annientamento, in quanto lo scopo di ogni governo è di rendere superfluo il governo» (lezione II). In altri termini, come i genitori devono diventare superflui, adempiendo al compito di formare individui adulti e autonomi, così lo Stato deve rendersi inutile, in favore di una società di persone libere e autonomamente responsabili. E sebbene riconosca che ciò rappresenta più un auspicabile ideale-limite che una realizzabile situazione di fatto, Fichte ritiene che lo Stato non possa fare a meno di proporselo come obiettivo. Nei Fondamenti del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza (1796), in cui si sofferma più organicamente sul problema giuridico-politico, Fichte fa dello Stato il garante del diritto. A differenza della moralità, che è fondata soltanto sulla buona volontà dei singoli, il diritto vale anche senza la buona volontà: esso concerne esclusivamente le manifestazioni esteriori della libertà, cioè le azioni, e implica perciò una costrizione esterna, che la moralità esclude. Proprio in virtù dei rapporti giuridici stabiliti dallo Stato, l’io pone a sé stesso una sfera di libertà che è la sfera delle sue possibili azioni esterne, e si distingue in tal modo da tutti gli altri io, che hanno ognuno la propria sfera. In questo atto esso si pone come persona o individuo. Ora, la persona individuale non può agire nel mondo se il suo corpo non è libero da ogni costrizione, se non può disporre per i suoi scopi di un certo numero di beni, e se la conservazione della sua esistenza corporea non è tutelata. I diritti originari e naturali dell’individuo sono perciò tre: la libertà, la proprietà e l’auto-conservazione. Ma questi diritti non possono essere garantiti se non da una forza superiore, che non può essere esercitata da una sola persona, ma soltanto dalla collettività, cioè dallo Stato. Lo Stato, dunque, non elimina il diritto naturale, ma lo realizza e lo garantisce.
Lo Stato come garante dei diritti individuali naturali
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Contro La prospettiva individualistica, che avvicina Fichte all’ideologia politica liberale, trova un’inil liberismo tegrazione (e una parziale correzione) nello Stato commerciale chiuso (1800). Qui il filosoeconomico
fo afferma che lo Stato non deve limitarsi alla tutela dei diritti individuali originari, ma deve anche rendere impossibile la povertà, garantendo a tutti i cittadini lavoro e benessere. Polemizzando contro il liberismo e il mercantilismo, e difendendo il principio in base al quale in uno Stato secondo ragione ognuno deve essere subordinato al “tutto sociale” e godere con giustizia dei beni della collettività, Fichte perviene così a una forma di statalismo socialistico (perché basato su una regolamentazione statale della vita pubblica) e autarchico (perché autosufficiente sul piano economico), di cui parleremo nelle prossime righe. Il socialismo statalistico di Fichte non implica tuttavia il comunismo, ossia l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il filosofo ritiene infatti che gli strumenti di lavoro (i quali nella sua ottica ancora prevalentemente agricolo-artigianale sono zappe, forconi, martelli, fucine ecc.) debbano appartenere a chi li usa. Pertanto, mentre in Locke il diritto al lavoro è derivato dal diritto di proprietà, in Fichte il diritto alla proprietà è fatto scaturire dal dovere etico del lavoro.
Lo statalismo Fichte dichiara che lo Stato deve incaricarsi di sorvegliare l’intera produzione e distrisocialistico buzione dei beni, fissando ad esempio il numero degli artigiani e dei commercianti in
modo tale che sia matematicamente proporzionato alla quantità dei beni prodotti, e programmando gli orari e i salari di lavoro, i prezzi delle merci ecc.
Lo statalismo Per svolgere il suo compito in tutta libertà ed efficienza, regolando secondo giustizia la diautarchico stribuzione dei redditi e dei prodotti, lo Stato deve organizzarsi come un tutto chiuso,
senza contatti con l’esterno: Fichte sostituisce così l’economia liberale di mercato e il commercio mondiale con un’economia pianificata e con l’isolamento degli Stati. Tale “chiusura commerciale” risulta possibile quando lo Stato, all’interno dei suoi confini, ha tutto ciò che occorre per la produzione di quanto occorre alla vita dei cittadini: laddove qualcosa manchi, lo Stato può avocare a sé il commercio estero e farne un monopolio. Questa autarchia, che abolisce ogni contatto dei cittadini con l’estero (fatta eccezione per gli intellettuali e per gli artisti, che possono muoversi per motivi culturali) presenta anche il vantaggio, secondo Fichte, di evitare gli scontri tra gli Stati, che nascono sempre da contrapposti interessi commerciali.
Tra individualismo Sulla base di quanto detto si vede come nello Stato commerciale chiuso si rispecchi, sia pure e statalismo in forma filosofico-utopistica, un’esigenza storica reale, cioè quella di un intervento attivo
dello Stato nella vita sociale, volto a evitare povertà, disoccupazione e ingiustizie. In que-
I NODI DEL PENSIERO sto senso l’opera fichteana, che risulta un’ibrida mescolanza di individualismo e di Qual è l’origine del potere? p. 802
statalismo, esprime un’inconsapevole e irrisolta sovrapposizione di due concezioni dello Stato: quella liberale classica e quella socialista.
I diritti individuali tutelati dallo Stato
EDUCAZIONE CIVICA
Al di là delle sue oscillazioni tra una posizione individualistica (di stampo liberale) e una posizione statalistica (di stampo socialista), Fichte è convinto che allo Stato spetti il compito fondamentale di tutelare i diritti individuali della libertà, della proprietà e dell’auto-conservazione. • Esamina gli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana: quali sono i diritti individuali inviolabili a cui si fa riferimento? • Negli articoli 1 e 4, la nostra Carta costituzionale richiama esplicitamente anche il diritto/dovere del lavoro, rivelando alcune analogie con il pensiero di Fichte: quali?
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
Lo Stato-nazione e la missione civilizzatrice della Germania L’occupazione napoleonica della Prussia contribuisce a fare in modo che la filosofia politica di Fichte evolva in senso nazionalistico, concretizzandosi (nell’inverno 1807-1808) nei celebri Discorsi alla nazione tedesca, che sono uno dei documenti intellettuali più rilevanti della storia della Germania moderna. Il tema fondamentale dei Discorsi è l’educazione. Fichte ritiene infatti che il mondo mo- L’interesse derno richieda una nuova azione pedagogica, capace di mettersi al servizio non già di pedagogico un’élite, ma della maggioranza del popolo e della nazione, e di trasformare alle radici la struttura psichica, e anche fisica, delle persone. Tuttavia i Discorsi passano ben presto dal piano pedagogico a quello nazionalistico, in La missione del quanto Fichte argomenta che soltanto il popolo tedesco risulta adatto a promuovere la popolo tedesco «nuova educazione», e questo in virtù di ciò che egli descrive come il suo «carattere fondamentale», e che identifica sostanzialmente nella lingua. Infatti i tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto sempre la stessa lingua, che fin dall’inizio si è posta come espressione della vita concreta e della cultura del popolo, a differenza, ad esempio, di quanto è avvenuto in Francia e in Italia, dove i mutamenti linguistici e la formazione dei dialetti hanno provocato una scissione tra il popolo, la lingua e la cultura. Per questo i tedeschi, il cui sangue non è commisto a quello di altre stirpi, rappresentano l’incarnazione dell’Urvolk, cioè di un popolo «primitivo» rimasto integro e puro, e sono gli unici a potersi considerare un popolo, anzi il popolo per eccellenza (tant’è vero che Fichte fa notare come deutsch, preso nel suo senso letterale, significhi originariamente «volgare», o «popolare»). I tedeschi, di conseguenza, sono anche gli unici ad avere una patria nel senso più alto del termine, ovvero a costituire un’unità organica che, al di là dei vari Stati e di tutte le barriere politiche, si identifica con la realtà profonda della nazione. A questo punto il discorso di Fichte si fa decisamente patriottico, auspicando, almeno implicitamente, non già la lotta contro lo straniero, bensì l’avvento di una nuova generazione di tedeschi, educati e rinnovati secondo i princìpi enunciati dal grande pedagogista svizzero Johann Heinrich Pestalozzi. Incanalando nuovamente il discorso patriottico in senso nazionalistico, Fichte proclama poi che soltanto la Germania – sede della Riforma protestante di Lutero («il tedesco per eccellenza») e patria di Leibniz e di Kant, nonché epicentro della nuova arte romantica e della nuova filosofia idealistica – risulta la nazione spiritualmente «eletta» per realizzare «l’umanità fra gli uomini», divenendo per gli altri popoli ciò che il vero filosofo è per il suo prossimo: «sale della terra» e forza trainante:
Una nuova nazione tedesca per una nuova umanità
‘
Il genio straniero sparpaglierà fiori nei sentieri battuti dall’antichità […] lo spirito tedesco, al contrario, aprirà nuove miniere, farà penetrare la luce del giorno negli abissi e farà saltare enormi massi di pensiero, di cui le età future si serviranno per costruire le loro dimore. Il genio straniero sarà […] l’ape che, accorta e industriosa, bottina il miele […]. Ma lo spirito tedesco sarà l’aquila che, con ala possente, eleva il suo corpo pesante e, con un volo vigoroso e lungamente esercitato, sale sempre più in alto per avvicinarsi al sole, la cui contemplazione la incanta. (Discorsi alla nazione tedesca, discorso V, a cura di B. Allason, utet, Torino 1965, pp. 104-105)
enciclosofia Johann Heinrich Pestalozzi Nato a Zurigo nel 1746 da una famiglia di origini italiane, Pestalozzi studiò nella sua città, dove entrò in contatto con le idee di Rousseau. I suoi primi tentativi di fondare un istituto educativo per bambini poveri o abbandonati ebbero breve durata, ma gli permisero di mettere a punto il proprio metodo pedagogico, basato sulla convinzione che l’individuo abbia dentro di sé fin dalla nascita tutte le sue facoltà e che pertanto l’educazione debba favorirne lo sviluppo armonico fin dalla prima infanzia. Nel 1800 Pestalozzi fondò una scuola che fu un punto di riferimento per la cultura dell’epoca, e le sue idee vennero diffuse in tutta Europa da numerosi educatori e pedagogisti. Morì nel 1827.
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E questa missione di guida e di esempio è così importante – sostiene Fichte nella conclusione dell’opera – che, se essa fallisse, l’umanità intera perirebbe:
‘
Non vi sono vie di uscita: se voi cadete, l’umanità intera cade con voi, senza speranza di (Discorsi alla nazione tedesca, discorso XIV, op. cit., p. 269) riscatto futuro.
Il travisamento Per controbilanciare quanto si è detto, può essere utile ricordare che: del senso 1. il primato che Fichte assegna al popolo tedesco non è di tipo politico-militare, ma piutautentico dei tosto di tipo spirituale e culturale; Discorsi
2. Fichte ritiene che il popolo tedesco debba avere come interesse ultimo l’umanità intera; 3. a sua volta, l’umanità ha come fine i valori etici della ragione e della libertà.
Tutto ciò, se da un lato scagiona i Discorsi da un’affrettata – e testualmente scorretta – interpretazione in senso pangermanista o razzista, dall’altro lato non toglie che la loro influenza storica maggiore si sia esercitata proprio in questa direzione. Infatti i Discorsi si trasformarono con il tempo in un testo-chiave non soltanto del patriottismo, ma anche dello sciovinismo tedesco, con la conseguente trasformazione della fichteana «supremazia spirituale» in una supremazia di razza e di potenza: un processo che troverà un tragico epilogo nel nazismo del Terzo Reich. Il diritto come Nel 1812, preparando lezioni e conferenze accademiche presso l’Università di Berlino, condizione Fichte scrive il Sistema della dottrina del diritto, in cui tenta di ricondurre il diritto aldella moralità
la moralità. Mentre nei Fondamenti del diritto naturale del 1796 la sfera del diritto veniva caratterizzata indipendentemente dalla vita morale, nell’opera del 1812 essa risulta ciò che collega la natura alla moralità: il diritto è presentato come la condizione preparatoria della moralità. Se la moralità fosse universalmente realizzata, il diritto sarebbe superfluo; ma poiché non è universalmente realizzata e affinché possa esserlo, bisogna assicurare a ciascun individuo le condizioni della sua realizzazione con una disciplina obbligatoria: questa disciplina è appunto stabilita mediante il diritto. In quest’ultima fase del suo pensiero politico, Fichte tende inoltre ad accentuare la missione educatrice dello Stato e a risolvere l’io empirico nel “noi spirituale” della nazione.
7. La concezione della storia In un’opera del 1806 intitolata Tratti fondamentali dell’epoca presente, Fichte espone una filosofia della storia che riproduce a suo modo e non senza spunti polemici (come spesso accade nelle sue ultime opere) le idee esposte da Schelling nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e nelle Lezioni sull’insegnamento accademico (1803). I due stadi Fichte comincia con il dichiarare che «lo scopo della vita dell’umanità sulla terra è quello fondamentali di conformarsi liberamente alla ragione in tutte le sue relazioni». della storia
Rispetto a questo fine si distinguono nella storia dell’umanità due stadi fondamentali: uno è quello in cui la ragione è ancora incosciente, istintiva, ed è l’età dell’innocenza; l’altro è quello in cui la ragione si possiede interamente e domina liberamente, ed è l’età della giustificazione e della santificazione, il kantiano «regno dei fini». L’intero sviluppo della storia si muove tra queste due epoche ed è il prodotto dello sforzo compiuto dalla ragione per passare dalla determinazione dell’istinto alla piena libertà.
Le epoche Le epoche della storia sono determinate, in modo puramente a priori e indipendentemenstoriche te dall’accadimento dei fatti storici, proprio da questo sforzo:
1. la prima epoca è quella dell’istinto, in cui la ragione governa la vita umana senza consapevolezza, ovvero senza la partecipazione della volontà;
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
2. la seconda epoca è quella dell’autorità, in cui la ragione si esprime in personalità po-
tenti, in uomini superiori che con la forza impongono la ragione a un’umanità incapace di seguirla in modo autonomo; 3. la terza epoca è quella della rivolta contro l’autorità, in cui si giunge alla liberazione dall’istinto, di cui l’autorità stessa è un’espressione. Per impulso della riflessione si risveglia negli esseri umani il libero arbitrio; ma la sua prima manifestazione è una critica di ogni verità e di ogni regola, e un’esaltazione dell’individuo al di sopra di ogni legge; 4. la quarta epoca è quella in cui la riflessione riconosce la propria legge e il libero arbitrio accetta una disciplina universale: è l’epoca della moralità; 5. la quinta epoca è quella in cui la legge della ragione cessa di essere un semplice ideale per divenire interamente reale in un mondo giustificato e santificato, ovvero nell’autentico «regno di Dio». Le prime due epoche sono quelle del dominio cieco della ragione, le ultime due quelle del La collocazione dominio veggente della ragione. In mezzo è l’epoca della liberazione, nella quale la ragione dell’età presente non è più cieca ma non è ancora cosciente. A quest’epoca di mezzo, secondo Fichte, appartiene la sua epoca: il paradiso è perduto, l’autorità è infranta, ma la ragione ancora non domina del tutto. È questa l’età dell’Illuminismo (che Fichte chiama «del volgare intelletto umano»), l’età in cui prevalgono gli interessi individuali e personali, e in cui perciò si fa continuamente appello all’esperienza, perché soltanto l’esperienza esprime questi interessi, chiarendo gli scopi ai quali essi tendono. Come progressivo realizzarsi della ragione nella sua libertà, la storia è lo sviluppo della coscienza, cioè del sapere. E il sapere è l’esistenza, l’espressione, l’immagine compiuta della potenza divina. Considerato nella totalità e nell’eternità del suo sviluppo, il sapere non ha infatti altro oggetto che Dio. Ma per i singoli gradi di questo sviluppo Dio è inconcepibile, e quindi il sapere si frantuma nella molteplicità degli oggetti empirici che costituiscono la natura, oppure nella molteplicità degli eventi temporali che costituiscono la storia. L’esistenza nel tempo appare tale da poter essere diversa, e perciò accidentale; ma questa non è che un’illusione che deriva dall’inconcepibilità dell’Essere divino che ne è il fondamento. L’incapacità umana di concepire Dio condiziona quindi l’infinito progresso della storia. Ma né nella storia né altrove esiste alcunché di accidentale: tutto è necessario e la libertà dell’essere umano consiste nel riconoscere questa necessità.
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Per l’esposizione orale
La storia come sviluppo necessario del sapere
ESERCIZI
1. Presenta sinteticamente le varie fasi della visione politica di Fichte, facendo riferimento in particolare all’evoluzione della sua concezione dello Stato. 2. Quali sono le considerazioni che portano Fichte ad affermare, nei Discorsi alla nazione tedesca, il primato spirituale e culturale della Germania? 3. Presenta le principali tesi di Fichte riguardo alla filosofia della storia. SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
Nelle sue riflessioni in ambito politico, e più precisamente nel suo oscillare tra una visione liberista dello Stato e una visione statalista, Fichte è influenzato dai cambiamenti economico-sociali che si stanno verificando in Europa. Analizza l’affermarsi della società industriale e capitalistica tra fine Settecento e inizio Ottocento, e mettilo in corrispondenza con le riflessioni di Fichte sui compiti di equità che spettano allo Stato.
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l’eredità di FICHTE DA CHI E CHE COSA EREDITA
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CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
da Kant il concetto di “io penso” come principio unitario di conoscenza
Fichte “infinitizza” il concetto kantiano, facendo dell’Io il principio unico e infinito non soltanto della conoscenza, ma dell’intera realtà
dalla logica il principio di identità (A = A) come base del sapere
riflettendo sul principio di identità, Fichte osserva che esso ne implica uno ancora più originario: un principio supremo che si identifica con l’Io stesso (Io = Io), ovvero con una autocoscienza che funge da base e condizione di qualunque conoscenza
da Spinoza il concetto di intuizione intellettuale quale forma suprema di conoscenza
l’intuizione intellettuale di cui parlava Spinoza («amore intellettuale di Dio», mediante il quale l’uomo si scopriva parte di un’unica realtà) diventa in Fichte l’atto originario dell’Io, mediante il quale esso, in quanto unica Realtà, si conosce e nello stesso tempo si auto-produce
dai romantici l’esaltazione della libertà e il tema della tensione all’Assoluto
la libertà e l’assolutezza diventano in Fichte i caratteri peculiari dell’Io, in quanto attività libera, totalmente in-condizionata e in-finita
dai sofisti la dialettica come confronto di tesi diverse
nella legge triadica tesi-antitesi-sintesi – che Fichte individua quale struttura dialettica della realtà, ovvero dell’Io infinito – sembra riecheggiare l’antica arte sofistica di confrontare tra loro tesi diverse, spesso opposte
da Kant il concetto di immaginazione produttiva
quella che in Kant era la facoltà mediante la quale l’intelletto umano “schematizzava” il tempo secondo le categorie diventa in Fichte l’atto attraverso il quale l’Io pone il non-io, ovvero il mondo
da Kant il primato della ragion pratica su quella teoretica
Fichte individua non nella conoscenza, ma nell’azione (strumento di affermazione di libertà) il fine ultimo dell’Io
dai romantici il concetto di sforzo (Streben)
lo sforzo diventa in Fichte lo strumento mediante il quale gli io finiti realizzano la propria natura libera “superando” gli ostacoli posti dal non-io
da Locke la concezione liberale dello Stato
dopo aver inizialmente condiviso l’idea lockeana di uno Stato liberale, finalizzato a tutelare i diritti naturali degli individui (vita, libertà e proprietà privata), Fichte “radicalizza” quest’idea finendo per giungere al concetto opposto di uno “Stato commerciale chiuso”, ovvero di un’organizzazione politica di tipo socialistico e autarchico, che controlla la produzione dei beni e la loro distribuzione tra i cittadini, senza scambi con l’estero
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 FICHTE
mettere in luce il principio primo su cui si fonda ogni scienza. Questo principio è individuato da Fichte nell’
• Io
«il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto l’umano sapere» (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, I, 1), concepito da Fichte come attività produttrice libera e infinita, che sta alla base non soltanto della conoscenza, ma anche della realtà.
L’Io si identifica con
• l’autocoscienza
La nascita dell’idealismo romantico Il fondatore dell’idealismo romantico, o assoluto, è Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), il cui pensiero si innesta sulla riflessione dei cosiddetti “critici immediati di Kant”, i quali avevano criticato il concetto kantiano di “noumeno” o “cosa in sé”. Essi avevano osservato che, se ogni realtà di cui siamo consapevoli esiste (seguendo Kant) come rappresentazione della coscienza, la nozione di noumeno, cioè di una realtà «in sé» che non sia rappresentata né rappresentabile, risulta chimerica, ovvero impossibile. Nel tentativo di risolvere questa difficoltà teorica presente nel pensiero kantiano, Fichte riconosce nello spirito, o nell’Io, non soltanto il centro unificatore di ogni rappresentazione (quale era l’«io penso» kantiano), ma un principio infinito e assoluto, creatore dell’intera realtà. Per Fichte, insomma, «tutto è spirito», e lo spirito è l’essere umano, inteso come attività conoscitiva e pratica, e come entità autocosciente, razionale e liberamente creatrice. La natura, in questa prospettiva, esiste non come realtà autonoma, bensì come momento dialettico e necessario della vita dello spirito. In questo senso lo spirito coincide con Dio: con l’idealismo di Fichte ci si trova perciò di fronte a una forma di panteismo spiritualistico (che identifica Dio con lo spirito operante nel mondo, ovvero con l’«umanità») e di monismo dialettico (che ammette l’esistenza di un’unica sostanza, appunto lo spirito).
La dottrina della scienza Gli assunti teorici Nei Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794), Fichte si propone di costruire una “scienza della scienza”, ovvero una teoria volta a
la consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso: consapevolezza che sta alla base di ogni processo conoscitivo, poiché si può avere coscienza di un oggetto qualsiasi soltanto avendo nello stesso tempo coscienza di sé stessi.
Una volta operata questa sorta di enfatizzazione metafisica dell’Io (che da semplice condizione del conoscere, quale era in Kant, diviene la fonte stessa del reale, cioè Dio), Fichte si trova a dover sviluppare non una deduzione trascendentale delle categorie (come aveva fatto Kant), ma una
• deduzione assoluta, o metafisica
la derivazione sistematica, a partire dall’Io, del complesso della vita teoretica e pratica dell’essere umano, e non delle sole condizioni soggettive della conoscenza (quali erano le categorie kantiane).
Il primo principio di questa deduzione è però indeducibile, nel senso che non può derivare da qualcos’altro che lo preceda: l’Io, pertanto, non è posto da altro, ma si pone da sé. Esso è autocoscienza, ma anche autocreazione, che Fichte descrive parlando di «intuizione intellettuale» e di «Tathandlung»:
• intuizione intellettuale
l’auto-intuizione immediata che l’Io ha di sé stesso in quanto attività auto-creatrice, in virtù della quale conoscere qualcosa (sé stessi o gli oggetti) significa fare o produrre questo qualcosa, ed esserne implicitamente o esplicitamente consapevoli;
• Tathandlung
l’attività dell’Io, che è “azione” (Tat) e insieme il “prodotto dell’azione” (Handlung). In altri termini, l’Io è ciò che esso stesso crea o produce, secondo il principio esse sequitur operari (l’essere segue l’agire).
I tre princìpi fondamentali I princìpi fondamentali della deduzione fichteana sono tre: 1. il primo stabilisce che «l’Io pone sé stesso», secondo quanto già chiarito;
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2. il secondo stabilisce che «l’Io pone il non-io», coerentemente con la seguente definizione di
• non-io
il mondo oggettivo che, pur essendo posto dall’Io e in esso compreso, gli si oppone come un limite, o un ostacolo. In concreto, il non-io per Fichte si identifica con la natura, sia “interna” (il nostro corpo e i nostri impulsi) sia “esterna” (le cose);
3. il terzo principio stabilisce che «l’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile». Con il terzo principio si delinea la situazione concreta del mondo, perché, opponendo a sé stesso il mondo materiale, l’Io si trova a essere limitato dal non-io e si scinde in una molteplicità di soggetti empirici (gli esseri umani, «io divisibili»), che si trovano di fronte una molteplicità di oggetti («non-io divisibili»). All’Io infinito, inteso come principio primo della realtà, e come attività assolutamente libera e creatrice, si affianca così un
• io finito
l’io «divisibile», o «empirico», ovvero il singolo essere umano in quanto condizionato dalla natura (interna ed esterna) e rispetto al quale la “purezza” dell’Io assoluto rappresenta un ideale o una missione.
La vita dell’Io Le caratteristiche fondamentali dell’Io sono l’assolutezza (perché l’Io è per definizione un essere in-condizionato e in-finito che non dipende da altro, ma da cui tutto dipende e da cui tutto viene “abbracciato”) e la libertà (perché l’Io è attività auto-creatrice priva di limiti). La sua vita, tuttavia, non è qualcosa di perfetto e statico: l’Io vive di lotta e opposizione, secondo una struttura triadica che può essere definita
• dialettica
termine tipico della filosofia di Hegel ( unità 8), che tuttavia illustra bene la struttura triadica della vita spirituale descritta da Fichte. Questa si articola in tre momenti (comunemente detti “tesi”, “antitesi” e “sintesi”), secondo il principio di una «sintesi degli opposti per mezzo della determinazione reciproca» (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, II, 4). Gli opposti o i contrari a cui fa riferimento Fichte sono l’Io (la tesi) e il non-io (l’antitesi), mentre la sintesi è la loro reciproca determinazione. Ogni sintesi è poi il punto di partenza di una nuova opposizione.
Le due strade della filosofia Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza (1797) Fichte afferma che gli unici due sistemi filosofici possibili sono l’idealismo e il dogmatismo, così intesi:
• idealismo
la posizione filosofica che spiega la cosa o l’oggetto a partire dall’io o dal soggetto;
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
• dogmatismo
la posizione filosofica che spiega l’io o il soggetto a partire dalla cosa in sé o dall’oggetto.
Per Fichte l’idealismo è da preferire perché, individuando nell’Io un’attività auto-creatrice in funzione della quale esistono gli oggetti, si configura come una dottrina della libertà, mentre il dogmatismo finisce per cadere nel fatalismo e nel determinismo. Secondo Fichte la scelta tra questi due sistemi dipende da quale tipo di essere umano si è, ossia da un’opzione etica di fondo, in quanto l’individuo fiacco e inerte, che tende a trovare sé stesso soltanto nelle cose e non si innalza al sentimento della propria libertà assoluta, sarà spontaneamente portato al dogmatismo e al determinismo scientifico, mentre l’individuo solerte e attivo, che possiede il senso profondo della propria libertà e indipendenza dalle cose, sarà spontaneamente portato all’idealismo.
La teoria della conoscenza Nell’ambito gnoseologico (che è quello che riguarda l’azione del non-io sull’io), Fichte si dichiara sia realista, poiché la conoscenza nasce sempre da un oggetto, sia idealista, poiché tale oggetto è in realtà un non-io creato dall’Io infinito. Tale creazione avviene mediante una facoltà che (riprendendo un’espressione di Kant) Fichte chiama
• immaginazione produttiva
la facoltà o l’atto inconscio attraverso cui l’Io crea («produce») il non-io, ovvero i materiali del conoscere, cioè il mondo oggettivo di cui l’io finito ha coscienza.
A ben vedere, la conoscenza è pertanto un processo o un cammino di progressiva interiorizzazione e riappropriazione dell’oggetto da parte del soggetto, che passa attraverso i seguenti gradi o livelli: sensazione, intuizione, intelletto, giudizio e ragione.
La morale Poiché intende l’azione morale come chiave di interpretazione della realtà, l’idealismo fichteano è stato assimilato a una forma di
• idealismo etico
il pensiero che caratterizza soprattutto la prima fase della riflessione di Fichte, in quanto fa dell’Io il principio da cui tutto deve essere dedotto (idealismo) e indica nell’agire morale il fine ultimo di tale principio (moralismo).
Fichte è dunque un convinto assertore del
• primato della ragione pratica espressione che in Kant si riferiva al fatto che la ragione pratica (cioè la morale) offre agli esseri umani, sotto forma di «postulati», alcune «idee» necessarie per orientare il conoscere e l’agire: la libertà individuale, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. In Fichte l’espressione indica invece il fatto che la conoscenza e l’oggetto della conoscenza esistono soltanto in funzione dell’agire.
Per Fichte, infatti, il motivo per cui l’Io crea il non-io è di carattere pratico-morale: la posizione del non-io, ossia di un “ostacolo” da superare, è la condizione indispensabile affinché l’Io, che è costitutivamente attività creatrice libera, possa realizzare sé stesso. L’Io, insomma, tende ad auto-liberarsi dai propri vincoli, in un processo dialettico infinito che si concretizza nel compito mai concluso di una totale “spiritualizzazione” del mondo, ovvero di una completa vittoria dello spirito sulla materia. Questo “dovere morale” si traduce in uno
• sforzo
(in tedesco Streben) nozione tipicamente romantica che allude a una costante e inappagata tensione verso l’infinito, e che Fichte riferisce all’essenza stessa dell’essere umano, impegnato nel compito mai concluso di auto-liberarsi dai propri ostacoli: «L’io è infinito, ma solo per il suo sforzo; esso si sforza di essere infinito» (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, III, 5).
In tale «sforzo», un ruolo fondamentale è svolto dai «dotti», quali educatori dell’umanità.
La concezione dello Stato e della storia Alla base della filosofia politica di Fichte c’è il progetto della costituzione di una «società perfetta» di esseri liberi e ragionevoli. Tuttavia la concezione fichteana dello Stato si modifica nel tempo, oscillando tra l’ideale di uno Stato contrattualistico e anti-dispotico, che garantisce i diritti naturali inviolabili degli individui (la libertà, la proprietà e la conservazione della propria esistenza), e quello di uno «Stato commerciale chiuso», basato sulla regolamentazione della vita pubblica, nonché della produzione e distribuzione dei beni, e autosufficiente sul piano economico. In ogni caso, il filosofo esalta il primato spirituale e culturale della Germania, riconoscendo alla nazione tedesca la missione di diffondere la libertà e la ragione per il bene di tutta l’umanità. Del resto, secondo Fichte lo scopo della vita dell’umanità sulla terra è proprio quello di conformarsi pienamente e liberamente alla ragione. Da un primo stadio, in cui la ragione è istintiva e inconsapevole, la storia si sviluppa dunque verso uno stadio finale (ideale) in cui la ragione si possiede e si domina completamente. In questo percorso si dipanano le diverse epoche storiche, caratterizzate rispettivamente dall’istinto, dall’autorità, dalla rivolta contro l’autorità, dalla moralità, e infine dalla ragione compiuta, libera e reale.
665
MAPPE
CAPITOLO 2 FICHTE L’IDEALISMO DI FICHTE
riconosce
è una forma di
il principio creatore della realtà nello spirito (l’Io o l’Assoluto)
panteismo spiritualistico
monismo dialettico
il quale è
che vede
per il quale
l’essere umano in quanto attività razionale e libera
Dio come lo spirito operante nel mondo (ovvero come l’essere umano stesso)
«tutto è spirito»
la natura è un momento necessario della vita dello spirito
LA DOTTRINA DELLA SCIENZA individua
l’Io come principio supremo del sapere e di tutta la realtà attraverso una
deduzione metafisica che si articola in tre momenti fondamentali
l’Io pone sé stesso (tesi)
l’Io pone il non-io (antitesi)
l’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile (sintesi)
LE DUE VIE DELLA FILOSOFIA per Fichte sono
il dogmatismo
l’idealismo
il quale
il quale
punta sulla cosa astraendo dall’io
666
parte dall’oggetto per arrivare al soggetto
punta sull’io astraendo dalla cosa
parte dal soggetto per arrivare all’oggetto
rivelandosi
rivelandosi
una filosofia della necessità (che rispecchia un temperamento passivo)
una filosofia della libertà (che rispecchia un temperamento attivo)
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
LA GNOSEOLOGIA DI FICHTE è
realista, in quanto la conoscenza nasce dall’oggetto
idealista, in quanto l’oggetto è il non-io, creato dall’Io attraverso l’immaginazione produttiva
pertanto la conoscenza è vista come
un processo di interiorizzazione e riappropriazione dell’oggetto da parte del soggetto
LA MORALE per Fichte è la
chiave di lettura della realtà
perché
l’Io crea il non-io per poter realizzare sé stesso come attività
in un processo dialettico infinito di
auto-liberazione dai propri vincoli
che coincide con
lo sforzo dell’umanità verso la libertà
IL PENSIERO POLITICO DI FICHTE è guidato dall’ideale di
una «società perfetta» di esseri liberi e ragionevoli
oscilla tra i progetti di
uno Stato contrattualistico e anti-dispotico
uno Stato commerciale chiuso
teorizza
il primato spirituale e culturale e la missione civilizzatrice della Germania
LA STORIA è per Fichte
il progressivo realizzarsi della ragione attraverso le epoche
dell’istinto dell’autorità della rivolta contro l’autorità
della moralità della ragione compiuta
667
CAPITOLO 2 FICHTE
La dottrina della scienza e i suoi princìpi
Fichte si presenta come un erede e un continuatore della filosofia kantiana, di cui accoglie la prospettiva trascendentale, in base alla quale la conoscenza non deve semplicemente rappresentare o descrivere il mondo, ma deve “filtrare” i dati sensibili e organizzarli attraverso le forme a priori. Tuttavia, il filosofo si spinge oltre Kant: la sua «dottrina della scienza» pone infatti la coscienza come fondamento dell’intera realtà e riconduce i princìpi fondamentali di tutte le scienze a un principio unico e incondizionato, l’Io. TESTO
1
L’auto-posizione dell’Io
(Fondamenti dell’intera dottrina della scienza)
IL TESTO NELL’OPERA I Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, pubblicati in forma di dispense per i corsi universitari a Lipsia tra il 1794 e il 1795, contengono la prima e la più celebre esposizione dell’idealismo di Fichte. Sebbene le teorie che vi sono presentate siano state in seguito modificate, questa rimane l’opera fichteana più diffusa e influente, alla quale si deve sostanzialmente la fortuna del filosofo, così come l’idea che di lui si fecero i pensatori suoi contemporanei. Lo scritto è suddiviso in tre parti: Principi dell’intera dottrina della scienza, Fondamento del sapere teorico, Fondamento della scienza pratica. Il testo seguente è tratto dalla prima parte dell’opera e mostra come, nell’indagare il principio primo e incondizionato del sapere, Fichte debba escludere le determinazioni empiriche della coscienza, per volgersi piuttosto a qualcosa che renda possibile l’attività della coscienza stessa. In questo senso, egli ricerca non un “fatto”, ma un “atto” antecedente anche alla distinzione tra soggetto e oggetto. La ricerca di un Sulla via in cui inizia la riflessione, noi dobbiamo partire da una proposizione tale che principio primo ognuno ce la conceda senza contraddirci. Di tali proposizioni ce ne potrebbero bene esse- 2
re anche parecchie. La riflessione è libera e non importa da qual punto essa parta. Noi scegliamo quello, partendo dal quale si arriva più presto al nostro scopo. Appena è accordata questa proposizione, deve essere in pari tempo accordato come atto ciò che noi vogliamo porre a base dell’intera dottrina della scienza; e deve risultare dalla riflessione che esso è accordato come tale insieme con quella proposizione. Poniamo dunque un fatto qualsiasi della coscienza empirica e da esso separiamo l’una dopo l’altra tutte le determinazioni empiriche, fino a che rimanga solo ciò che non si può assolutamente escludere e dal quale non si può separare più nulla.
668
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
4 6 8 10
Il principio di 1. Ciascuno ammette la proposizione: A è A (altrettanto che A = A, poiché questo è il signiidentità: A = A ficato della copula logica); ed invero senza menomamente pensarci su: la si riconosce per 12
pienamente certa e indubitabile. […] 2. Affermando che la proposizione precedente è certa in sé, non si pone che A sia. La proposizione: A è A non è per nulla equivalente a quest’altra: A è, ovvero: c’è un A. […] Ma si ponga: se A è, allora A è. Con ciò non si discute affatto se in generale vi sia o non vi sia A. Non si tratta qui del contenuto della proposizione ma solamente della sua forma […]. Quindi con l’affermazione che la proposizione precedente è assolutamente certa, è posto questo: che tra quel se e questo allora c’è un rapporto necessario; ed è il rapporto necessario tra i due che vien posto assolutamente e senza alcun fondamento. Io chiamo provvisoriamente questo rapporto necessario = X. 3. Ma riguardo alla questione se A medesimo sia o no, con ciò nulla ancora è stato posto. Sorge dunque la domanda: sotto qual condizione dunque A è? a) X almeno è posto nell’Io e dall’Io, poiché è l’Io che giudica nella proposizione precedente […]. b) Se e come A in generale sia posto, noi non sappiamo; ma poiché X deve indicare un rapporto tra una posizione sconosciuta di A ed una posizione assoluta del medesimo A, condizionata dalla prima, così, almeno in quanto vien posto quel rapporto, A è posto nell’Io e dall’Io, come lo è X. […] c) […] La precedente proposizione si può dunque esprimere anche così: Se A è posto nell’Io, allora esso è posto; ovvero – allora è. 4. […] Ciò vuol dire: è posto che nell’Io […] vi è qualcosa che è sempre uguale a sé, sempre uno e identico; l’X assolutamente posto si può anche esprimere così: Io = Io, Io sono Io.
14 16 18 20 22 24 26 28 30 32
Un principio 5. […] Ma la proposizione: Io sono Io ha un significato tutto diverso dalla proposizione: A è 34 più originario: A. Infatti quest’ultima ha un contenuto solo ad una certa condizione. Se A è posto, esso è Io = Io
certamente posto come A, col predicato A. Ma con quella proposizione non è ancora per 36 nulla deciso se esso in generale sia posto e quindi se sia posto con un qualunque predicato. La proposizione: Io sono Io vale invece incondizionatamente ed assolutamente […]. In essa 38 l’Io è posto, non sotto condizione ma assolutamente, col predicato di eguaglianza con se stesso; esso è dunque posto; e la proposizione si può anche esprimere così: Io sono. […] 40
L’Io come 6. Ritorniamo al punto da cui siamo partiti. principio a) Con la proposizione: A = A si giudica. Ma ogni giudizio è secondo la coscienza empirica 42 supremo
(Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, in Dottrina della scienza, a cura di A. Tilgher, revisione di F. Costa, Laterza, Roma-Bari 1971, pp. 76-79)
44 46 48 50 52
TESTI FICHTE
un atto dello spirito umano, poiché esso ha tutte le condizioni dell’atto nell’autocoscienza empirica […]. b) Ora, a fondamento di quest’atto sta qualcosa che non è fondato su nulla di superiore, cioè X = Io sono. c) Perciò questo è il fondamento assolutamente posto e fondato su se stesso – fondamento di un certo agire dello spirito umano (anzi di ogni agire, come tutta la dottrina della scienza ci dimostrerà) e quindi il suo puro carattere, il puro carattere dell’attività in sé fatta astrazione dalle particolari condizioni empiriche di essa. Quindi il porsi dell’Io per se stesso è la pura attività di esso – L’Io pone se stesso ed è in forza di questo puro porsi per se stesso; e viceversa: l’Io è e pone il suo essere in forza del suo puro essere […].
669
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La ricerca di un principio primo (rr. 1-10) In quanto assolutamente primo e assolutamente incondizionato, il principio del sapere e della realtà che Fichte sta ricercando non può essere dimostrato o dedotto, poiché sarebbe in questo caso legato a qualcosa che lo precede. Esso sarà dunque non di-mostrato, ma semplicemente mostrato. Attraverso questo procedimento ostensivo e descrittivo non si tratta di trarre da asserti universali le conseguenze particolari, bensì di far emergere quanto di universale e necessario è già da sempre contenuto in ogni proposizione particolare, in ogni atto conoscitivo. Per questo è sufficiente partire da una qualsiasi proposizione da tutti considerata vera, da un qualunque contenuto empirico della coscienza: eliminando da tale contenuto ogni aspetto empirico o particolare, si mostrerà che esso è vero sulla base di una condizione che lo precede e che, pertanto, si impone come principio incondizionato e assoluto, dal momento che è in grado di dar conto di ogni contenuto della coscienza. Il principio di identità: A = A (rr. 11-33) La mera affermazione del principio di identità, peraltro riconosciuto come indubitabile da chiunque, non risolve affatto il problema ontologico, poiché significa semplicemente che, se A esiste, allora è uguale a sé. La posizione ipotetica del principio di identità cessa di essere tale se la si considera da un altro punto di vista: infatti, se non si può affermare alcunché dell’esistenza assoluta dei contenuti implicati nella formula “A = A”, si può invece affermare la posizione assoluta e necessaria, all’interno dell’Io, del rapporto di identità di un qualunque
oggetto rispetto a sé stesso: cosa che può essere espressa anche dalla proposizione “Io = Io”. Un principio più originario: Io = Io (rr. 34-40) Affermando che l’esistenza dev’essere innanzitutto e in ogni caso almeno esistenza per il pensiero, Fichte ha già operato la riduzione idealistica della realtà all’atto del pensare o, meglio, al “fatto” che l’Io, o il pensiero, esiste, ovvero alla proposizione “Io sono”. Infatti, nonostante la forma apparentemente analoga, la proposizione “A = A” è diversa dalla proposizione “Io = Io”. La prima indica un fatto la cui esistenza è condizionata dalla coscienza che lo pensa e lo pone; la seconda indica qualcosa di incondizionato e primo, nel senso che pone l’atto della coscienza quale condizione dell’esistenza di ogni cosa. L’Io come principio supremo (rr. 41-53) Ritornando provvisoriamente alla proposizione scelta come punto di partenza, ovvero al principio di identità “A = A”, Fichte nota come questo sia già un giudizio, ovvero un atto della nostra coscienza. Ma l’elemento assoluto presente in ogni nostra attività è l’esistenza dell’Io, condizione imprescindibile perché si dia qualcosa in generale. L’Io è un principio trascendentale che prescinde da ogni suo contenuto particolare (che si limita a “ospitare”) e che deve la sua esistenza semplicemente alla sua autoposizione. Se così non fosse, d’altro canto, si sarebbe costretti o a ricorrere a un regressus in infinitum, che renderebbe inintelligibile la serie delle cause, o a ritornare ad ammettere un sostrato indipendente dalla nostra coscienza (come fanno i sostenitori della cosa in sé).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Fichte tutti i contenuti della coscienza empirica rimandano all’Io, che viene inteso non come un centro mentale unificatore, sul modello dell’io penso kantiano, ma come principio della realtà. A tuo avviso, che cosa sta alla base di ciò che pensi, di ciò che conosci, di ciò che esperisci, in pratica di ciò che sei? Rispondi a questa domanda in un testo scritto (max 30 righe), in cui argomenti il tuo punto di vista.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
TESTO
2
L’opposizione del non-io
(Fondamenti dell’intera dottrina della scienza)
Il secondo principio della dottrina della scienza è in qualche modo implicato (ma non dedotto) dal primo, poiché la coscienza che l’Io ha di sé stesso comporta che esso possa distinguersi da ciò che non è, ovvero dal non-io. In questo senso l’autoposizione dell’Io implica l’opposizione del non-io. Il principio 1. Ciascuno riconosce senza dubbio come pienamente certa e indubitata la proposizione: di non- “non-A non è = A” […]. 2 contraddizione
4. Resta del tutto intatta la questione: Vi è dunque e sotto qual condizione della forma del puro atto è posto il contrario di A? È questa condizione che si dovrebbe poter dedurre dalla 4 proposizione: A = A, se la proposizione su enunciata dovesse essa medesima esser dedotta. Ma la proposizione: A = A non può dare affatto una tale condizione, poiché la forma 6 dell’opporre è così poco compresa nella forma del porre, che le è anzi piuttosto opposta. L’atto d’opporre si produce perciò senza alcuna condizione ed assolutamente. Non-A, come 8 tale, è posto assolutamente perché è posto. 5. […] Ogni contrario in quanto contrario è assolutamente in virtù di un atto dell’Io, e per 10 nessun’altra ragione. L’esser opposto in generale è assolutamente posto dall’Io. L’opposizione 9. Nulla è posto originariamente tranne l’Io; questo soltanto è posto assolutamente. Perciò 12 originaria del soltanto all’Io si può opporre assolutamente. Ma ciò che è opposto all’Io è = Non-io. non-io
10. Come è certo che tra i fatti della coscienza empirica si presenta l’incondizionato riconoscimento dell’assoluta certezza della proposizione “non-A non è = A”, altrettanto certo è che all’Io è opposto assolutamente un Non-io. Ora da questo opposto originario deriva tutto ciò che noi sopra abbiamo detto dell’opposizione in generale e perciò vale originariamente che l’opposto originario è assolutamente incondizionato riguardo alla forma e condizionato riguardo alla materia. Così, dunque, sarebbe trovato anche il secondo principio di tutto il sapere umano.
14 16 18 20
La necessità 11. In forza della pura opposizione del Non-io all’Io il contrario di tutto ciò che appartiene della all’Io deve appartenere al Non-io. 22 contraddizione
(Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, in Dottrina della scienza, cit., pp. 84-86)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il principio di non-contraddizione (rr. 1-11) La formula assunta come punto di partenza per la ricerca del secondo principio è il principio di non-contraddizione.
Benché quest’ultimo sia, da un punto di vista logico, equivalente al principio di identità, non è comunque possibile “dedurre” la posizione di non-A dalla posizione
24 26 28 30
TESTI FICHTE
(È opinione comune che il concetto del Non-io sia un concetto discorsivo sorto per astrazione da tutte le cose rappresentate. Ma è facile mettere in chiaro la superficialità di questa spiegazione. Se io voglio rappresentare una cosa qualunque, debbo opporla al rappresentante. Ora può e dev’esserci assolutamente nell’oggetto della rappresentazione un X qualunque per cui esso si manifesta come alcunché da rappresentare e non come il rappresentante: ma che tutto ciò in cui si trovi questo X non sia il rappresentante bensì qualcosa da rappresentare, questo non posso impararlo da nessun oggetto; piuttosto, in generale, un oggetto c’è soltanto se si presuppone quella legge.)
671
di A, dal momento che il ragionamento condotto riguardo all’esistenza di A vale anche per «il contrario di A» (r. 4), cioè per non-A, che, come qualunque altro contrario (o, meglio, come qualunque “oggetto” considerato dalla coscienza), “è” in quanto “è posto” dall’Io. L’opposizione originaria del non-io (rr. 12-20) Il ragionamento utilizzato per il principio di identità è richiamato qui a proposito del principio di non-contraddizione. Così come dalla proposizione “A = A” si perveniva alla proposizione “Io = Io”, allo stesso modo dalla proposizione “non-A non è = A” si perviene qui alla proposizione “non-Io non è = Io”; e così come da “Io = Io” si perveniva a “Io sono”, ovvero alla posizione originaria dell’Io, da “non-Io non è = Io” si perviene qui alla posizione originaria («opposto originario», r. 16) del non-io, ovvero al secondo principio di tutto il sapere. La necessità della contraddizione (rr. 21-30) Le righe tra parentesi (che sono in un certo senso la spiegazione delle righe 21-22) sottolineano come il con-
cetto del non-io non sia inferibile per astrazione dagli oggetti conosciuti dalla nostra coscienza, ma piuttosto “implicato” dallo stesso concetto di Io. Infatti, poiché l’Io non può compiutamente dirsi agente se non possiede un oggetto a cui il proprio atto si riferisce, l’essere dell’Io richiede un’antitesi. In questo senso il procedimento di Fichte è dialettico, poiché lo sviluppo dell’Io richiede la presenza di una forma di contrarietà che non è pura e semplice opposizione, come se derivasse da un principio esterno, bensì una contraddizione necessaria, strutturalmente richiesta (non si tratta di un’anomalia da superare, ma di tappe tutte da attraversare). Sebbene dal punto di vista conoscitivo lo scopo perseguito dall’Io sia quello di eliminare l’alterità del non-io, appropriandosene, dal punto di vista ontologico questa alterità è invece “necessaria” all’Io stesso, il quale, nel momento in cui è autocoscienza, è anche coscienza della propria differenza da qualcos’altro.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Molti filosofi esaminano concetti opposti tra loro (essere e non essere, idee e oggetti sensibili, res cogitans e res extensa ecc.). Rifletti su questa tendenza: quali sono, a tuo giudizio, le ragioni che spingono a evidenziare alcune contrapposizioni e a tentare di conciliarle? Come si può analizzare la distinzione fichteana tra Io e non-io all’interno di questa tradizione? Motiva le tue risposte in un testo scritto (max 25 righe).
Il primato della morale
La dottrina morale di Fichte è incentrata sul carattere derivato che il filosofo attribuisce all’atteggiamento teoretico rispetto a quello pratico: soltanto elevandosi a una considerazione etica della realtà si può cogliere l’assolutezza dell’Io e realizzare così lo scopo ultimo dell’esistenza, cioè la libertà. Figura emblematica a questo proposito è quella del dotto, che si fa maestro del genere umano e contribuisce attivamente al suo perfezionamento morale. TESTO
3
Il dotto e il progresso dell’umanità (La missione del dotto)
IL TESTO NELL’OPERA La missione del dotto è un’opera che raccoglie cinque lezioni tenute da Fichte nel 1794 nell’Università di Jena sulla figura e sui compiti del dotto. Le lezioni vertono, rispettivamente, sulla missione dell’uomo in sé, sulla missione dell’uomo nella società, sulla distinzione delle classi sociali, sulla missione del dotto e sull’esame di alcune affermazioni di Rousseau in merito all’influsso delle arti e delle scienze sul benessere dell’umanità. Nel suo scritto Fichte AUDIOLETTURA esalta la libera circolazione del sapere, l’autonomia dei dotti e la necessità che essi conoscano i problemi del proprio tempo e promuovano la cooperazione tra gli esseri umani, accendendovi il fuoco della passione filosofica.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
Nel testo seguente Fichte sostiene che il dotto, pur avendo una superiore consapevolezza filosofica, non deve restare chiuso nella sua cultura, facendone una vuota dottrina, ma deve mettere il suo sapere a disposizione dell’intero genere umano, per farlo progredire moralmente. L’attitudine La preparazione di tutto quanto occorre per lo sviluppo uniforme di tutte le attitudini al sapere dell’uomo richiede anzitutto la nozione preliminare di tutto il complesso delle sue attitu- 2
dini, la conoscenza scientifica di tutti i suoi istinti e bisogni, la previa valutazione di tutto il suo essere. Ma questa conoscenza completa dell’uomo nella sua interezza si fonda a sua volta su un’attitudine che deve venir sviluppata: poiché esiste effettivamente nell’uomo l’istinto di sapere e in special modo di sapere ciò che gli è necessario. Lo sviluppo di questa attitudine, però, richiede tutto il tempo e tutte le forze di un uomo; e, se vi è un bisogno generale che richiede imperiosamente che una classe speciale nella società si dedichi al suo soddisfacimento, è certamente questo. […] di qui si ricava, allora, la vera missione che è assegnata alla classe colta: essa consiste nel sorvegliare dall’alto il progresso effettivo del genere umano in generale e nel promuovere costantemente questo progresso. […] Egli [il dotto] deve vegliare sui progressi delle altre classi, deve promuoverli; e non dovrebbe progredire egli stesso? Dal suo progredire dipendono tutti i possibili progressi negli altri rami della cultura umana: egli deve essere sempre innanzi agli altri per aprir loro la strada, esplorarla innanzi a loro e fare da guida; e potrebbe desiderare di restare indietro? Da quel momento cesserebbe di essere ciò ch’egli deve essere; e, poiché egli non è null’altro, non rappresenterebbe allora più nulla. […]
4 6 8 10 12 14 16 18
L’importanza Il dotto è per eccellenza destinato alla società: egli, in quanto dotto, assai più che chi apdell’educazione partenga a qualsiasi altra classe sociale, esiste propriamente soltanto in virtù della società 20 22 24 26 28 30 32
La forza Il fine ultimo di ogni singolo individuo, come pure della società intera, e quindi ciò a cui 34 dell’esempio sono rivolte tutte le attività che il dotto esplica a contatto con la società, è l’elevazione mo-
rale dell’uomo tutto intero. […] Ma nessuno è in grado di lavorare con successo per l’ele- 36 vazione morale altrui, se non è egli stesso un uomo moralmente buono. Noi non insegniamo solamente con la parola; insegniamo anche, e in modo assai penetrante, col nostro 38 esempio; e chiunque vive nella società è tenuto verso di essa appunto a dare il suo buon 1. L’allusione forse è a Kant, il quale, a parere di Fichte, non lo aveva riconosciuto come suo “erede”.
TESTI FICHTE
e per il bene della società; egli ha pertanto in special modo il dovere di sviluppare in sé nel più alto grado possibile le attitudini più importanti per la vita sociale, la capacità ricettiva e quella comunicativa. La capacità ricettiva dovrebb’essere in lui già molto notevolmente sviluppata, se egli ha acquistato nella debita misura le dovute cognizioni empiriche. […] Ma egli deve altresì conservarsi questa capacità ricettiva continuando costantemente ad imparare; e deve cercare di guardarsi sempre da quel difetto in cui si cade così spesso, in cui cadono a volte persino i più eminenti tra i pensatori originali, la totale chiusura mentale di fronte alle opinioni e ai modi di pensare altrui1; poiché non vi è nessuno così istruito che non possa sempre imparare qualche cosa di nuovo e talvolta anzi qualche cosa di molto necessario; e di rado qualcuno è così ignorante da non poter insegnare proprio lui al più dotto qualche cosa che quest’ultimo non sapeva. La capacità comunicativa, poi, è sempre necessaria all’uomo di cultura, poiché egli possiede la sua dottrina non per sé solo, ma per la società. […]
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esempio, poiché la forza dell’esempio trae origine anzitutto dal fatto che noi viviamo in so- 40 cietà. […] Il dotto pertanto, considerato dal punto di vista della sua destinazione ultima, dev’essere l’uomo moralmente migliore nel suo tempo; deve rappresentare con la sua per- 42 sona il più alto grado di perfezione morale possibile a raggiungersi fino all’epoca sua. (La missione del dotto, trad. it. di V. E. Alfieri, Mursia, Milano 1987, pp. 119-120, 124, 126, 128-130, 134-135)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’attitudine al sapere (rr. 1-18) Per Fichte ogni essere umano, se da un lato ha un’attitudine fondamentale al sapere, dall’altro deve riservare a tale attitudine una cura esclusiva per poterla sviluppare appieno. Da queste premesse deriva la necessità di creare una classe speciale di dotti, che devono provvedere a stimolare e sorvegliare il progresso dell’umanità perché la loro cultura li rende capaci sia di comprendere sia di guidare gli altri. Il sapere di cui parla Fichte corrisponde alla conoscenza della realtà in rapporto ai nostri problemi e ai nostri bisogni; per questo la filosofia, che è riflessione dell’individuo su sé stesso, è la più alta forma di conoscenza scientifica. Le principali caratteristiche del dotto devono essere la tenacia del volere e il rifiuto dell’inerzia, perché essere dotti, più che uno stato acquisito una volta per tutte, è un dovere da realizzare costantemente. L’importanza dell’educazione (rr. 19-33) Il dotto è tale solamente grazie alla società e quindi è giusto che si prodighi per il bene di quest’ultima. Se egli dovesse soddisfare da sé i propri bisogni (ad esempio producendo alimenti e vestiario), non potrebbe
conseguire la specializzazione che lo fa essere dotto. In virtù della sua missione, il dotto deve possedere le «attitudini più importanti per la vita sociale» (r. 22), che consistono nella capacità di apprendere e di insegnare. Fichte non si riferisce qui a un rapporto puramente scolastico: per lui, la vita stessa è un ininterrotto processo educativo. Anche l’individuo più umile, senza salire in cattedra, può insegnare molte cose a quello più sapiente. Bisogna pertanto evitare la chiusura mentale, che impedisce di imparare e genera un attaccamento irragionevole alle proprie convinzioni, sfociando nel dogmatismo. La forza dell’esempio (rr. 34-43) Quello di Fichte viene spesso definito “idealismo etico” proprio perché considera il perfezionamento morale come il fine ultimo di ciascun individuo, e quindi della società stessa. In quanto maestro e educatore del genere umano, il dotto, per Fichte, deve essere l’uomo migliore del suo tempo dal punto di vista morale. Il suo insegnamento, infatti, passa attraverso non astratte lezioni teoriche, ma la testimonianza vissuta della verità.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI U N TESTO Rifletti sulla frase seguente: «Il dotto […] dev’essere l’uomo moralmente migliore nel suo tempo» (rr. 41-42). Sapere e integrità, a tuo avviso, devono necessariamente coesistere? Il «dotto» può dare un contributo al progresso della società senza necessariamente essere un esemplare di moralità? Esponi la tua opinione personale in un testo scritto (max 30 righe), ricorrendo a esempi concreti.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CApITOLO 2 Fichte
CAPITOLO 3 SCHELLING
1. La vita e le opere Una carriera offuscata dall’“astro” hegeliano Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nasce a Leonberg, nei pressi di Stoccarda, il 21 gen- La formazione e naio 1775. A sedici anni entra nel seminario teologico di Tubinga, dove stringe amicizia l’insegnamento a Jena con Hölderlin e Hegel, che rispetto a lui hanno appena cinque anni in più. In seguito studia matematica e scienze naturali a Lipsia, e per un certo periodo è anche a Jena, dove ascolta le lezioni di Fichte. Nel 1798 (a ventitré anni), grazie all’appoggio di Goethe, Schelling è nominato coadiutore di Fichte presso l’Università di Jena, e l’anno dopo, in seguito alle dimissioni di Fichte, ne prende il posto. A Jena vive gli anni più fecondi della sua vita e ha frequenti contatti culturali con i romantici August Wilhelm von Schlegel, Tieck e Novalis. In questo periodo sposa Caroline Michaelis Schlegel (1803), dopo il divorzio di quest’ultima dal marito August Wilhelm. Nel 1803 Schelling passa a insegnare a Würzburg. Essendo di religione protestante, tut- Da Würzburg tavia, lascia la cattedra appena tre anni dopo, quando Napoleone consegna la città di a Monaco Würzburg al principe cattolico Ferdinando III d’Asburgo-Lorena. Si reca allora a Monaco, dove diventa segretario dell’Accademia di Belle Arti e, in seguito, segretario della classe filosofica dell’Accademia delle Scienze. Nel frattempo rompe l’amicizia con Hegel (che nella prefazione alla Fenomenologia dello spi- L’isolamento rito, pubblicata nel 1807, ha assunto una posizione apertamente polemica rispetto alla filosofia schellinghiana) e assiste con amarezza alla sua ascesa nel panorama filosofico del tempo. Il trionfo di Hegel segna il declino della fortuna di Schelling, inaugurando per quest’ultimo un periodo di vita isolata. Ormai pressoché misconosciuto, Schelling continua i suoi studi e stringe amicizia con Franz von Baader (1765-1841), naturalista e seguace della teosofia. Questi attira la sua attenzione sull’opera del mistico luterano Jakob Böhme (1575-1624), il quale aveva concepito Dio come la negazione di tutto ciò che è finito e mutevole, ovvero come il nulla eterno, il grande mistero, l’eterno abisso dell’essere. Nel 1809 muore Caroline, e tre anni dopo Schelling si risposa con la figlia di un’amica di lei. enciclosofia teosofia Dottrina filosofico-religiosa che ebbe particolare fortuna tra il Cinquecento e la prima metà dell’Ottocento, e che individuava un unico nucleo originario di tutte le religioni in alcune verità note soltanto a un ristretto numero di iniziati, a cui spettava di divulgarle a seconda del momento storico. Le basi teoriche della dottrina teosofica sono da rintracciarsi nel neoplatonismo (tutto procede dall’Uno) e nell’antica sapienza indiana (il ritorno del cosmo all’Uno è regolato dalla legge del «karma», per la quale ogni essere, al termine del proprio ciclo vitale, si reincarna in un altro essere, che si troverà a un livello più o meno elevato nella gerarchia del cosmo a seconda dei comportamenti tenuti nella vita precedente).
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Il ritorno Nel 1820 ricomincia a insegnare a Erlangen, per passare nel 1827 a Monaco. Qui rimane all’insegnamento fino al 1841, quando viene chiamato a succedere a Hegel sulla cattedra di Berlino. Egli e l’opposizione a Hegel tenta così di guidare quella reazione contro l’hegelismo che proprio in quegli anni coCARTA INTERATTIVA
i luoghi di SCHELLING
minciava a profilarsi in Germania. Schelling smette di tenere corsi pubblici nel 1847 e muore il 20 agosto 1854 a Bad Ragaz, in Svizzera, dove si era recato per ragioni di salute.
Gli scritti Le opere Abbondantissima negli anni giovanili (ovvero fino al 1804), la produzione filosofica di principali Schelling diventa in seguito piuttosto scarsa. I suoi scritti principali sono: Idee per una filo-
sofia della natura (1797), Intorno all’anima del mondo (1798), Primo abbozzo di un sistema della filosofia della natura (1799) e Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), che è l’opera più sistematica. A questi saggi vanno aggiunti il dialogo Bruno o il principio divino e naturale delle cose (1802), le Quattordici lezioni sull’insegnamento accademico (1803) e le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809).
Le ultime La pubblicazione delle Ricerche filosofiche segna una battuta d’arresto nella produzione di opere Schelling, il quale nei restanti quarantacinque anni della sua vita dà alle stampe soltanto
quattro brevi scritti. Una parziale ripresa dell’attività si ha con i corsi tenuti a Berlino a partire dal 1841, che rappresentano l’ultima fase del suo pensiero (che Schelling stesso chiamò «positiva»): a questa fase appartengono i saggi Filosofia della mitologia e Filosofia della rivelazione, che saranno pubblicati postumi dal figlio.
2. I caratteri generali del pensiero di Schelling Una filosofia Secondo grande interprete dell’idealismo tedesco, Schelling accoglie il “principio dell’indell’Assoluto finità” che animava il pensiero di Fichte, cercando tuttavia di superare la soggettività che
caratterizzava il suo concetto di “Io”. Egli elabora così un’idea di Assoluto che è nello stesso tempo soggetto e oggetto, spirito e natura, in quanto unità indifferenziata di entrambi. Intorno a questo nuovo concetto di Assoluto – che può essere colto attraverso un “canale” privilegiato, costituito dall’esperienza estetica – ruota tutta la complessa e articolata riflessione filosofica di Schelling, anche quando, nella sua fase più matura, essa tende a sostituire agli interessi naturalistici ed estetici un’attenzione più marcata verso problemi di carattere metafisico-religioso.
I periodi della Lo sviluppo della filosofia di Schelling risulta estremamente complesso ed è tuttora oggetriflessione to di discussioni critiche. In generale, tuttavia, gli studiosi tendono a individuarvi alcune schellinghiana
fasi distinte: 1. un iniziale momento fichteano (1795-1796); 2. la fase della filosofia della natura (1797-1799); 3. il periodo dell’idealismo trascendentale (1800); 4. lo stadio della filosofia dell’identità (1801-1804); 5. il periodo teosofico e della filosofia della libertà; 6. la fase della filosofia positiva e della filosofia della religione.
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3. Oltre Fichte: una nuova concezione dell’Assoluto Il riconoscimento e l’affermazione dell’infinito quale attività assolutamente libera e creatrice, capace di spiegare al tempo stesso l’Io e il non-io, ovvero lo spirito e la natura, avevano determinato il successo della filosofia di Fichte, poiché esprimevano l’aspirazione generale dell’epoca. Mentre la filosofia di Kant era stata una filosofia del finito, che si era mossa (come riconobbe lo stesso Kant) nell’ambito dell’Illuminismo, la filosofia di Fichte si era ormai presentata come una filosofia dell’infinito interno ed esterno all’essere umano, e aveva aperto l’epoca del Romanticismo. Schelling e i romantici vedono chiaramente il nuovo indirizzo o (come essi dicono) la nuova «era» della speculazione filosofica inaugurata da Fichte, e per quanto siano impazienti di dare al principio fichteano nuovi sviluppi incompatibili con la stessa dottrina di Fichte, tuttavia questi sviluppi muoveranno tutti da quel principio che proprio con tale dottrina aveva fatto la sua clamorosa comparsa in filosofia. Fin dalla prima entusiastica accettazione del fichtismo, anche Schelling cerca di piegarlo a L’Assoluto illustrare e difendere gli interessi che più gli stanno a cuore, ovvero quelli naturalistico- di Schelling estetici. Pertanto egli riporta, fin dal principio e con molta più energia di Fichte, l’Io assoluto alla sostanza di Spinoza, vedendo in quest’ultima il principio dell’infinità oggettiva, e nell’Io di Fichte il principio dell’infinità soggettiva. L’intento di Schelling è di unire queste due infinità nel concetto di un Assoluto che non sia riducibile né al soggetto né all’oggetto, in quanto fondamento dell’uno e dell’altro. Ben presto, infatti, egli si accorge che una pura attività soggettiva (l’Io di Fichte) non potrebbe spiegare la nascita del mondo naturale, e che un principio puramente oggettivo (la Sostanza di Spinoza) non potrebbe spiegare l’origine dell’intelligenza e dell’io. Il principio supremo dev’essere quindi un Assoluto , o Dio, che sia insieme soggetto e oggetto, ragione e natura, ovvero che sia l’unità o l’identità indifferenziata di entrambi. glossario p. 692 Se Fichte si era rivolto alla natura soltanto per scorgervi il teatro dell’azione morale, o addi- La nuova rittura per dichiararla (da un punto di vista religioso) «un puro nulla», Schelling si rifiuta di concezione della natura sacrificare in questo modo la realtà del mondo naturale e, insieme, quella dell’arte (che alla natura è strettamente congiunta). La natura, secondo Schelling, ha vita, razionalità e valore in sé stessa. Essa deve quindi avere in sé un principio autonomo che la spieghi in tutti i suoi aspetti. E questo principio deve essere identico a quello che spiega il mondo della ragione e dell’io, e quindi la storia. Tale principio unico deve pertanto riunire insieme soggetto e oggetto; spirito e natura; idealità e realtà; attività razionale e consapevole, e attività irrazionale o inconsapevole. E questi, per Schelling, sono i tratti dell’Assoluto. L’ASSOLUTO DI SCHELLING non è soggetto
non è oggetto bensì unità o identità indifferenziata di
soggetto e oggetto
spirito e natura
ideale e reale
conscio e inconscio
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Le due Il riconoscimento del valore autonomo della natura e la tesi dell’Assoluto come identità o indirezioni differenza di natura e spirito (che rappresentano i due punti-chiave su cui Schelling prende del pensiero schellinghiano le distanze da Fichte) conducono ad ammettere due possibili direzioni della ricerca filosofica:
1. l’una è la filosofia della natura, diretta a mostrare come la natura si risolva nello spirito; 2. l’altra è la filosofia trascendentale, o filosofia dello spirito, diretta a mostrare come lo spirito si risolva nella natura.
I NODI DEL PENSIERO Poiché non c’è una natura che sia puramente natura (cioè pura oggettività) e non c’è uno Che cos’è la sostanza? p. 798
spirito che sia puramente spirito (cioè pura soggettività), l’indagine sulla natura giunge necessariamente allo spirito, e l’indagine sullo spirito giunge necessariamente alla natura.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra sinteticamente la nozione schellinghiana di «Assoluto», mettendola a confronto con l’«Io» di Fichte e con la «sostanza» di Spinoza. 2. Che cosa sono la «filosofia della natura» e la «filosofia trascendentale» di Schelling?
4. La filosofia della natura La filosofia della natura di Schelling è una costruzione tipicamente “romantica”, che prende spunto dai problemi sollevati dalla Critica del Giudizio di Kant (a proposito della finalità degli organismi viventi) e dai Fondamenti dell’intera dottrina della scienza di Fichte. Essa, inoltre, si nutre di suggestioni disparate, provenienti sia dalla scienza dell’epoca (in particolare dalla chimica e dagli studi sull’elettricità e sul magnetismo), sia dalla cultura filosofica del passato (dal pensiero greco e cristiano, dal naturalismo rinascimentale, da Spinoza e da Leibniz).
La struttura finalistica e dialettica del reale I limiti La filosofia della natura di Schelling (esposta in varie opere a cui accenneremo di volta in dei modelli volta) si basa sul rifiuto di entrambi i modelli tradizionali di spiegazione della natura: queltradizionali
lo meccanicistico-scientifico da un lato e quello finalistico-teologico dall’altro. Secondo Schelling, infatti, il primo, parlando in termini di materia, movimento e causa, si trova in difficoltà (come aveva già notato Kant) nello spiegare gli organismi viventi. Il secondo, ricorrendo alla “magia” di un intelletto divino agente dall’esterno del mondo, finisce per compromettere l’autonomia dei fenomeni naturali e delle loro leggi.
La “terza via” A questi due modelli Schelling contrappone il proprio organicismo finalistico e immaschellinghiana nentistico, ossia uno schema secondo cui:
ogni parte del mondo naturale e degli enti che lo abitano ha senso soltanto in relazione al tutto e alle altre parti (organicismo); l’universo non si riduce a una «miracolosa collisione di atomi» poiché, al di là del meccanismo delle sue forze, si manifesta una finalità superiore («oggettiva e reale»), che tuttavia non deriva da un intervento divino esterno, ma è interna alla stessa natura (finalismo immanentistico). Infatti, argomenta Schelling, sebbene in natura esista una connessione preordinata tra parte e tutto, e tra mezzo e fine, tale connessione non è prima conosciuta da una mente e poi realizzata nelle cose (come accade nel caso delle produzioni artificiali degli esseri umani o nell’ipotesi di un Dio-architetto). In altri termini, la natura è un «organismo che organizza sé stesso», e non già «un’opera d’arte il cui concetto stia fuori di essa, nella mente dell’artista» (“Introduzione” a Idee per una filosofia della natura, 1797). ( T1 p. 696)
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Parlare della natura in termini di “organizzazione” e di “scopo” significa però ammettere che essa obbedisce a un «concetto» (come diceva Kant), ovvero a una «programmazione intelligente». Su queste basi Schelling arriva all’idea di uno spirito inconscio, ma immanente alla natura a titolo di “forza” organizzatrice e vivificatrice dei fenomeni. La natura sarebbe insomma animata da un’entità spirituale o da una forza che Schelling, rifacendosi agli antichi, denomina anche anima del mondo . Tale forza è ciò che «sostiene la continuità del mondo organico e inorganico» e che «unisce tutta la natura in un solo organismo universale» in cui ogni cosa, compresa la sfera inorganica, risulta dotata di vita (Intorno all’anima del mondo, 1798). glossario p. 692 Essendo spirito, sia pure inconscio, la natura presenta quindi gli stessi caratteri di fondo dell’Io di Fichte. Essa è infatti un’attività spontanea e creatrice, che si esplica in una serie infinita di creature (Primo abbozzo di un sistema della filosofia della natura, 1799).
La natura come entità spirituale inconscia
E come l’Io fichteano non poteva realizzare sé stesso se non a patto di “dualizzarsi” in soggetto e oggetto, così la natura schellinghiana non può fare a meno di polarizzarsi o dialettizzarsi in due princìpi di base: l’ attrazione e la repulsione . Ogni fenomeno naturale, per Schelling, è infatti l’effetto di una forza limitata e condizionata dall’azione di una forza opposta: ogni prodotto naturale si origina insomma da un’azione e da una reazione, e la natura agisce attraverso la lotta di forze opposte. glossario p. 692 Il funzionamento di queste forze dipende o dalla quantità (massa) o dalla qualità (composizione chimica) dei corpi: nel primo caso si parla di azioni e reazioni di tipo meccanico (derivanti dalla forza attrattiva della gravitazione); nel secondo caso di azioni e reazioni chimiche (derivanti dalla forza attrattiva di quella che Schelling chiama «affinità»).
La natura dialettica del mondo naturale: le forze attrattive e repulsive
Se poi si considera il prodotto dell’azione di queste opposte forze meccaniche e chimiche, I tre “ordini” della natura si possono scorgere tre principali categorie di enti o fenomeni naturali: 1. nel caso in cui le forze siano in equilibrio si hanno i corpi non viventi; 2. nel caso in cui l’equilibrio venga alternativamente rotto e ristabilito si hanno i fenomeni chimici; 3. nel caso in cui l’equilibrio non possa mai essere ristabilito e la lotta delle forze sia permanente si ha la vita (Idee per una filosofia della natura).
Il progressivo emergere dello spirito nella natura Secondo Schelling, i tre fondamentali tipi di fenomeni in cui la natura si manifesta, ovve- I tre principali ro nei quali si concretizza la polarità di attrazione-repulsione, sono il magnetismo, l’elet- tipi di fenomeni naturali tricità e il chimismo: i fenomeni magnetici si basano su quella coesione grazie alla quale le diverse parti dell’universo gravitano le une verso le altre; i fenomeni elettrici su quella polarità dialettica che fa del mondo intero la sede di un’opposizione di forze di segno contrario; i fenomeni chimici si basano su quell’incessante metamorfosi dei corpi che fa dell’universo una grande fucina in cui si fabbricano per sintesi le più svariate realtà. A queste tre forze, nel mondo organico corrispondono la sensibilità, l’irritabilità (che è la proprietà di reagire agli stimoli del mondo esterno) e la riproduzione. Con l’intento di ricostruire una storia unitaria della natura, Schelling articola la storia Le «potenze» dell’universo in tre diversi livelli di sviluppo, o potenze (Deduzione generale del processo della natura dinamico, 1800). glossario p. 692
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In ognuno di questi tre livelli di sviluppo operano e si mescolano sia le forze magnetiche, sia quelle elettriche, sia quelle chimiche. 1. La prima potenza è rappresentata dal mondo inorganico; 2. la seconda potenza è rappresentata dalla luce, in cui la natura si rende visibile a sé stessa; 3. la terza potenza è rappresentata dal mondo organico, in cui la sensibilità è il preannuncio aurorale dell’autocoscienza. Complessivamente considerata, la natura si configura insomma come uno spirito inconscio in cammino verso la coscienza, cioè come un processo in cui si assiste a una progressiva smaterializzazione della materia e un progressivo emergere dello spirito. L’“odissea” Con il suo percorso che va dai minerali agli esseri umani, la natura può quindi essere condello spirito siderata la preistoria dello spirito , ovvero il «passato trascendentale» della coscienza,
oppure ancora (per usare un’immagine che sarà cara al filosofo contemporaneo Ernst Bloch, 1885-1977) come un’«odissea» dello spirito, il quale si cerca attraverso le cose, per giungere finalmente presso di sé con l’uomo. glossario p. 692 Ecco a questo proposito un passo emblematico, tratto dall’introduzione al Sistema dell’idealismo trascendentale, in cui Schelling propone la metafora (di origine leibniziana) di uno spirito “dormiente” nelle cose e destinato a “svegliarsi” con l’essere umano:
‘
I morti e inconsci prodotti della natura non sono se non dei conati falliti della natura per riflettere se medesima; la cosiddetta natura morta è soprattutto un’intelligenza immatura; perciò ne’ suoi fenomeni già traluce, ancora allo stato inconscio, il carattere intelligente. La natura attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente obbietto a se medesima, con l’ultima e la più alta riflessione, che non è altro se non l’uomo, o, più generalmente, ciò che noi chiamiamo ragione; in tal modo per la prima volta si ha il completo ritorno della natura a se stessa, e appare evidente che la natura è originariamente identica a ciò che in noi viene riconosciuto come principio intelligente e cosciente. LA NATURA è
si manifesta come
una totalità spirituale organicisticamente e finalisticamente strutturata
magnetismo
elettricità
chimismo
che si realizza tramite l’opposizione dialettica di
attrazione
repulsione LE POTENZE sono livelli di sviluppo della realtà
mondo inorganico
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
luce
mondo organico
filosofia e scienza
La fisica di Schelling e il pensiero scientifico Schelling definisce la propria filosofia della natura come una fisica speculativa, ovvero L’idea di una una fisica a priori. Ciò non vuol dire, tuttavia, che egli intenda costruire un’immagine fisica a priori della natura che prescinde dall’esperienza. Nel linguaggio di Schelling, infatti, dire che la fisica procede a priori significa dire che essa procede sistematicamente, ossia mostrando come ogni fenomeno naturale testimoniato dall’esperienza faccia parte di una totalità organica da cui necessariamente deriva ed entro cui necessariamente si colloca. Ecco un paio di testi, tratti dall’introduzione al Primo abbozzo di un sistema della filosofia della natura (1799), che possono dissipare ogni equivoco:
‘ ‘
Non solo non sappiamo questo o quello, ma in generale originariamente non sappiamo nulla se non per esperienza e tramite l’esperienza, ed in questo senso tutto il nostro sapere è costituito di proposizioni d’esperienza. Proposizioni che diventano a priori solo in quanto ci si rende conto della loro necessità. Ora, deve però essere in generale possibile conoscere ogni originario fenomeno naturale come assolutamente necessario; se infatti in natura non v’è posto per il caso, nessun originario fenomeno naturale può essere casuale, anzi, già per il fatto che la natura è un sistema, dev’esserci per tutto ciò che in essa accade o si realizza una connessione necessaria.
Schelling non intende dunque presentare la propria fisica speculativa come una deduzione Limiti e meriti “a tavolino”, incurante dell’esperienza, bensì come uno sforzo di tradurre l’a posteriori in della fisica di Schelling a priori, ossia di organizzare sistematicamente e secondo necessità il materiale offerto dall’esperienza e dalla scienza. Un procedimento di questo tipo cela il pericolo di una manipolazione arbitraria dei dati della scienza. Questo è stato appunto il rilievo dei critici e degli scienziati del tempo, che hanno finito per accusare Schelling di essersi sterilmente allontanato dalla metodologia galileiano-newtoniana e di aver costruito una sorta di “romanzo della natura”. Ciò non toglie che la fisica speculativa di Schelling abbia avuto alcuni meriti storici, su cui hanno insistito soprattutto i critici odierni: 1. è riuscita a «stimolare nella gioventù tedesca dell’epoca l’interesse per i fenomeni naturali, specie per quelli allora meno conosciuti, come l’elettricità e il magnetismo, e più ancora per i fenomeni totalmente trascurati dalla scienza illuministica, come il sogno, l’ipnotismo, la telepatia ecc.» (Ludovico Geymonat); 2. ha mostrato i limiti del meccanicismo tradizionale e ha evidenziato l’esigenza di studiare la natura, in particolare il mondo organico, con schemi più appropriati; 3. ha contribuito ad alimentare le ricerche di morfologia comparata; 4. ha contribuito a preparare una generale mentalità “evoluzionistica”. A proposito dell’ultimo punto, è opportuno specificare che, pur parlando di “evoluzione” e Il rapporto con pur concependo la natura in modo “piramidale”, cioè come una gerarchia di livelli che culmi- l’evoluzionismo na nell’essere umano, Schelling non può essere considerato un “evoluzionista”.
enciclosofia morfologia comparata Il termine “morfologia” significa, letteralmente, “studio della forma” (dal greco morphé, “forma”) e in ambito naturalistico indica il ramo della biologia che studia l’aspetto esteriore degli esseri viventi. È detta “comparata” quando procede confrontando la conformazione dei diversi organismi, per coglierne affinità e differenze.
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Le «potenze» o le «epoche» della natura, infatti, non sono gradi o stadi successivi dell’universo, ma momenti ideali (e quindi simultanei) della sua eterna organizzazione dialettica. E la natura e l’uomo non rappresentano due momenti successivi della storia del mondo, ma due momenti ideali di un’unità originaria (l’Assoluto) che è da sempre natura e spirito.
)
Per l’esposizione orale
1. Qual è, secondo Schelling, il compito della filosofia della natura? 2. In che senso la filosofia della natura di Schelling è una forma di “organicismo finalistico e immanentistico”? 3. Esponi la concezione schellinghiana della natura come entità spirituale inconscia utilizzando e spiegando le espressioni seguenti: anima del mondo, attività spontanea e creatrice, attrazione e repulsione, magnetismo, elettricità e chimismo. 4. Spiega che cosa sono per Schelling le «potenze» della natura e in che modo, attraverso di esse, si attui il progressivo “emergere” dello spirito. 5. RIFLESSIONE CRITICA L’idea schellinghiana della natura come «spirito inconscio» ti pare sostenibile, oppure ti sembra esprimere una concezione non scientifica? Per quali ragioni? 6. In che senso Schelling definisce la propria filosofia della natura come una fisica a priori?
5. Il sistema dell’idealismo trascendentale Nel 1800 Schelling pubblica il Sistema dell’idealismo trascendentale, che è uno dei testi più ardui di tutta la filosofia moderna. In quest’opera egli si propone di delineare quella filosofia dello spirito, o filosofia trascendentale , che nel suo grandioso progetto avrebbe dovuto costituire la controparte della filosofia della natura. glossario p. 692 Il compito Abbiamo già detto che per Schelling la filosofia della natura parte dall’oggettivo per dedella filosofia rivarne il soggettivo (o spirito), mostrando il progressivo farsi intelligenza della natura, trascendentale
mentre la filosofia trascendentale parte dal soggettivo per derivarne l’oggettivo, mostrando il progressivo farsi natura dell’intelligenza. In altre parole, se la prima ha il compito di illustrare come la natura si risolva nello spirito e sia, in sé stessa, uno «spirito visibile», la seconda ha il compito di illustrare come lo spirito si risolva nella natura e sia, in sé stesso, una «natura invisibile». Detto in termini kantiani: se la filosofia della natura “risale” dalla materia alla forma, chiarendo come le leggi dell’oggetto siano le leggi stesse del soggetto, la filosofia dello spirito “discende” dalla forma alla materia, chiarendo come le leggi del soggetto siano le leggi stesse dell’oggetto. In altre parole ancora (poiché Schelling esprime il suo pensiero di fondo in svariati modi), se la filosofia della natura parte dal realismo (dall’oggetto, dal reale e dal materiale) per giungere all’idealismo (al soggetto, all’ideale e al formale), la filosofia trascendentale parte dall’idealismo (dal soggetto, dall’ideale e dal formale) per giungere al realismo (all’oggetto, al reale e al materiale):
‘
Come la scienza della natura cava l’idealismo dal realismo, spiritualizzando le leggi naturali in leggi dell’intelligenza, ossia accoppiando al materiale il formale; così la filosofia trascendentale cava il realismo dall’idealismo, in quanto materializza le leggi dell’intelligenza in (Sistema dell’idealismo trascendentale) leggi naturali, ossia aggiunge al formale il materiale.
In sintesi, la filosofia trascendentale ha il compito, analogo a quello affrontato da Fichte nella Dottrina della scienza, di «dedurre» l’oggetto dal soggetto, facendo vedere come le modalità di auto-costituzione dello spirito (cioè le strutture e le leggi del soggetto) siano identiche ai modi di auto-costituzione della natura (cioè alle strutture e alle leggi dell’oggetto).
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Il punto di partenza della deduzione schellinghiana è l’autocoscienza, ovvero la coscien- L’autocoscienza za o il sapere che l’Io ha di sé stesso. L’autocoscienza costituisce il «punto luminoso» di come intuizione intellettuale tutto il sistema del sapere, cioè il principio primo e assoluto da cui la filosofia trascendentale può muovere nelle sue deduzioni. Essa si presenta come un’ intuizione intellettuale mediante la quale l’Io, proprio nel momento in cui conosce o intuisce sé stesso, istituisce o produce sé stesso (e, tramite sé, tutti gli oggetti). Come già per Fichte, anche per Schelling l’autocoscienza coincide dunque con la libera attività auto-creatrice dello spirito. glossario p. 692 Le attività L’autocoscienza si esprime mediante due tipi di attività, una «reale» e una «ideale»: l’attività reale consiste nel fatto che l’Io, nel suo libero e infinito porsi, incontra il limite dell’autocoscienza e risulta quindi limitabile; l’attività ideale consiste nel fatto che l’Io, nel suo infinito intuirsi e autoprodursi, procede oltre ogni limite (presunto) dato e risulta quindi illimitabile. Ovviamente queste due attività si implicano a vicenda, in quanto l’Io può configurarsi come ideale (illimitabile) soltanto in quanto è reale (limitabile), e viceversa. Detto altrimenti, l’Io o l’autocoscienza presenta una struttura interna di tipo dialettico-fichteano, dal momento che si configura come un’attività non-limitabile, ovvero che si esplica soltanto in presenza di un limite che essa stessa pone, e che oltrepassa continuamente. attività reale (l’Io, ponendosi, incontra il limite e risulta limitabile) L’AUTOCOSCIENZA
si articola in attività ideale (l’Io, autoproducendosi, procede oltre ogni limite e risulta illimitabile)
Tracciando una sorta di storia filosofica dell’Io, volta a mostrare come il soggetto giunga Le tre progressivamente a prendere coscienza di sé come attività produttrice e come intelligenza «epoche» dell’Io che determina sé medesima, Schelling distingue tre «epoche» o fasi di sviluppo: 1. la prima epoca è quella della sensazione, in cui l’Io trova dinnanzi a sé un dato che lo limita, e avverte quindi il proprio sentire esclusivamente come un patire; 2. la seconda epoca è quella dell’intuizione produttiva, in cui l’Io, equilibrando il proprio patire con il proprio agire, comincia a prendere coscienza della propria attività e a cogliere sé stesso come “senziente”; 3. se nella seconda epoca l’Io, pur intuendo sé stesso, risulta ancora immerso negli oggetti, nella terza epoca passa alla riflessione, in cui, riflettendo su di sé, si comprende come soggetto differenziato rispetto all’oggetto. La terza epoca si conclude con il passaggio dalla riflessione alla volontà: qui il processo iniziato nella seconda fase perviene al suo culmine, in quanto l’Io, astraendosi del tutto dagli oggetti, si coglie come volontà e spontaneità libera, ovvero come intelligenza auto-determinantesi. Alle tre epoche che vanno dalla sensazione alla riflessione corrisponde l’attività teoretica dell’Io, indagata dalla filosofia teoretica; lo stadio della volontà corrisponde invece all’attività pratica, indagata dalla filosofia pratica.
La filosofia teoretica Analizzando l’attività teoretica dell’Io, Schelling si sforza di mostrare come la seconda e la Il tentativo terza epoca coincidano con la formazione del tempo (senso interno dell’Io), dello spazio di creare un sistema (senso esterno dell’Io) e delle categorie di relazione, qualità, quantità e modalità.
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Egli tenta poi di mostrare come le varie epoche e le varie categorie dell’Io corrispondano ad altrettante «potenze» della natura e ad altrettante categorie della fisica: pertanto mette in corrispondenza, ad esempio, la struttura dialettica e polare dell’Io alla struttura dialettica e polare della materia, che considera dominata (come sappiamo) dalle due opposte forze dell’attrazione e della repulsione. La «produzione inconscia» degli oggetti da parte del soggetto
A parte questi forzati parallelismi, ispirati dall’ideale di una «deduzione» della materia dallo spirito, dal discorso di Schelling emerge un interrogativo di fondo su cui è bene soffermarsi: perché l’oggetto, che risulta una produzione del soggetto, non appare tale nella sensazione? Ovvero: perché la coscienza comune ritiene che gli oggetti appartengano a una dimensione estranea all’Io, ovvero dalla cosiddetta «cosa in sé»? La risposta di Schelling è analoga a quella di Fichte e può essere riassunta così: se il soggetto producesse consapevolmente i propri oggetti, non potrebbe pensarli come cose in sé; poiché invece li pensa come cose in sé, è evidente che ciò avviene perché l’Io li genera inconsciamente mediante la fichteana «immaginazione produttiva», che Schelling denomina, più semplicemente, produzione inconscia . glossario p. 693 In conclusione, si può quindi affermare che il sistema dell’idealismo trascendentale si configura come una sorta di anamnesi filosofica dell’Io, ovvero come una presa di coscienza di quel produrre inconscio dello spirito in cui è da ricercarsi la radice soggettiva degli oggetti. Nella terminologia di Schelling, tale presa di coscienza equivale a spiegare l’«idealità del limite», ossia il fatto che il limite che l’Io conoscente trova davanti a sé è in realtà un prodotto dello spirito stesso.
La filosofia pratica Al culmine dell’attività teoretica, ossia alla conclusione della terza epoca, lo spirito si pone come volontà e diventa oggetto di analisi nella filosofia pratica. Gli ambiti di La volontà si realizza e si esprime attraverso una pluralità di soggetti coscienti e volenti, espressione e prende forma in due ambiti specifici: della volontà
1. nella morale, in cui contano soprattutto la libertà e la spontaneità dell’agire; 2. nel diritto, in cui conta soprattutto la legalità dell’agire, ovvero il suo essere determi-
nato, o necessitato. Nel mondo umano nasce dunque un’antitesi tra libertà e necessità che richiede di essere composta in una sintesi superiore, e una prima composizione di questa antitesi è rappresentata dalla storia dell’umanità. La concezione La filosofia della storia di Schelling parte dal presupposto secondo cui, essendo unico il della storia principio assoluto che agisce sia nella natura sia nella storia umana, anche in quest’ultima
debba ritrovarsi quella commistione di attività consapevole e inconsapevole che si è rintracciata nella natura. La storia, per Schelling, è in effetti sintesi di libertà (consapevolezza) e necessità (inconsapevolezza) poiché, mentre gli uomini credono di operare liberamente, in virtù di una forza superiore accade qualcosa di cui essi non sono consapevoli, e che si presenta in qualità di destino o provvidenza. In altri termini, collocandosi nell’orizzonte del provvidenzialismo romantico, Schelling afferma l’esistenza di un disegno che si va attuando gradualmente nel tempo, e precisa che la storia è come un dramma in cui tutti recitano la loro parte in piena libertà e secondo il proprio capriccio, e al quale soltanto il poeta dà unità di svolgimento. Ma il poeta della storia – l’Assoluto o Dio – non è indipendente dal suo dramma: attraverso la libera azione degli uomini, egli stesso si attua e si rivela, sicché gli uomini sono collaboratori di tutta l’opera e inventori della parte specifica che recitano.
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UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
I tre periodi La rivelazione dell’Assoluto nella storia si articola in tre grandi periodi: 1. il primo periodo è quello in cui l’Assoluto appare sotto forma di destino, cioè di una della storia forza totalmente cieca («a questo periodo della storia, che possiamo chiamare il tragico, appartiene il tramonto dello splendore e delle meraviglie del mondo antico, la caduta di quei grandi imperi dei quali ci è rimasto appena il ricordo»); 2. il secondo periodo è quello in cui ciò che precedentemente appariva come destino si rivela come natura e «legalità meccanica». Tale periodo ha inizio con l’espansione della «repubblica romana», la quale, spinta da una naturale brama di conquista, finisce per essere funzionale a un altro piano della natura, ovvero l’unione di tutti i popoli in uno «Stato universale»; 3. il terzo periodo è quello in cui ciò che precedentemente appariva come destino e come natura si rivela esplicitamente come provvidenza. Quando comincerà questo periodo – scrive Schelling – «non possiamo dirlo». Tuttavia, egli aggiunge, se questo periodo sarà, allora saranno anche Dio e il regno di Dio, ossia la definitiva realizzazione della sintesi tra libertà e necessità, consapevolezza e inconsapevolezza.
In questo «regno» si arriverà anche a quella federazione planetaria e a quella costituzio- La federazione ne giuridica universale sognate da Kant quali garanzie per raggiungere una pace stabile planetaria e duratura («perpetua»): anche per Schelling esse costituiscono, dal punto di vista politico, il fine ultimo della storia.
La teoria dell’arte Nella filosofia teoretica e nella filosofia pratica di Schelling, lo spirito e la natura, il conscio e Il problema della l’inconscio, nonostante la loro puntuale corrispondenza, continuano a configurarsi come conciliazione di spirito e natura due poli distinti, separati da una divaricazione originaria che è quella tra soggetto e oggetto. La storia, a sua volta, non fa che rimandare al futuro, quale meta ultima del cammino dell’umanità, il raggiungimento dell’armonia tra questi due termini. L’unità e la conciliazione tra spirito e natura risulta insomma più postulata, che effettivamente dimostrata. Secondo Schelling l’unica via per risolvere questo nodo consiste nel rintracciare un’attività in cui lo spirito e la natura (ovvero il produrre conscio e quello inconscio) si armonizzino completamente: un’attività, cioè, nella quale si manifesti immediatamente ciò che nella storia si va attuando progressivamente, a titolo di tappa finale di un processo in corso. L’attività che compie tale “miracolo” è l’arte. ( T2 p. 698) Inserendosi nel quadro dell’estetismo romantico, Schelling ritiene che l’arte si configuri come l’organo di rivelazione dell’Assoluto nei suoi caratteri di infinità, e di consapevolezza e inconsapevolezza al tempo stesso. Nella creazione estetica, infatti, l’artista risulta in preda a una forza inconsapevole che lo ispira e lo entusiasma, facendo sì che la sua opera si presenti come la sintesi di un momento inconscio o spontaneo (l’ispirazione) e di un momento conscio e meditato (l’esecuzione cosciente). Inoltre il «genio» concretizza la propria vocazione creativa in forme finite, le quali, essendo rivelazione dell’infinitezza dell’ispirazione, hanno infiniti significati, che l’artista stesso non riesce a penetrare pienamente e che sono suscettibili di una lettura senza fine. L’intero fenomeno dell’arte, che è un produrre spirituale in modo naturale o un produrre naturale in modo spirituale, rappresenta quindi la miglior chiave per intendere la struttura dell’Assoluto come sintesi indifferenziata di natura e spirito:
‘
L’arte come organo di rivelazione dell’Assoluto
l’arte è per il filosofo quanto vi è di più alto, poiché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna ed originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato. (Sistema dell’idealismo trascendentale)
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I NODI Anzi, se l’Assoluto è una sorta di artista cosmico che genera le cose del mondo in modo DEL PENSIERO Che cos’è il bello? p. 806
inconsapevole e consapevole al tempo stesso, caratterizzandosi come una forza infinita che si specifica in infinite figure finite, l’artista umano è colui che incarna e concretizza il modo di essere dell’Assoluto. In altre parole, nella creazione estetica si ripete, per Schelling, il mistero della creazione del mondo da parte dell’Assoluto.
Un idealismo Con questa teoria di Schelling, l’arte viene ad assumere per la prima volta nella storia delestetico la filosofia un significato universale e totale. Kant aveva visto nell’arte un possibile atteg-
giamento dell’essere umano di fronte alla natura; Schiller vi aveva additato l’attività originaria e suprema dell’uomo. Schelling vede in essa l’essenza della vita stessa dell’Assoluto e la radice di ogni realtà. L’esaltazione romantica del valore dell’arte trova quindi in Schelling la più significativa espressione filosofica; e per questo l’idealismo schellinghiano è anche detto idealismo estetico, o oggettivo : “estetico” per il rilievo conferito all’arte; “oggettivo” per l’importanza attribuita alla natura rispetto all’idealismo “soggettivo” di Fichte. glossario p. 693
Il «compito più elevato» della filosofia trascendentale Il problema del Grazie alla sua teoria dell’Assoluto come unità di conscio e inconscio (esemplificata dall’atrapporto tra le tività estetica), Schelling è in grado di risolvere un problema che per lui è «non il primo, rappresentazioni e gli oggetti bensì il più elevato compito della filosofia trascendentale» (Sistema dell’idealismo trascenden-
tale). Tale problema (che abbiamo tralasciato di proposito, per non rendere didatticamente troppo pesante un pensiero già strutturalmente complesso) è il seguente: com’è possibile – secondo quanto insegna la filosofia teoretica – che vi sia un predominio dell’oggetto sul soggetto, e nello stesso tempo – secondo quanto insegna la filosofia pratica – un predominio del soggetto sull’oggetto? In altri termini: «in qual modo – si chiede Schelling – possono ad un tempo le rappresentazioni esser pensate come determinate dagli obbietti, e gli obbietti come determinati dalle rappresentazioni?».
Un’unica attività Per risolvere questo problema Schelling afferma che non si può concepire come il mondo (inconscia e oggettivo possa accomodarsi alle nostre rappresentazioni, e queste al mondo oggettivo, conscia) dello spirito senza ammettere che tra i due mondi, l’ideale e il reale, esista un’«armonia prestabilita».
E tale armonia, a sua volta, non è pensabile se l’attività attraverso la quale si produce il mondo oggettivo non è originariamente identica a quella che si manifesta nel volere:
‘
Ora è senza dubbio un’attività produttiva quella che si manifesta nel volere; ogni libero agire è produttivo, produttivo soltanto con coscienza. Se si pone ora che, siccome le due attività devono essere solo nel principio una sola, quella medesima attività, la quale nel libero agire è produttiva con coscienza, nella produzione del mondo sia produttiva senza coscienza, quell’armonia (Sistema dell’idealismo trascendentale) prestabilita è reale, e la contraddizione è sciolta.
ESERCIZI
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Tradotto in termini più semplici: lo spirito è sempre attività e libertà, ma nel caso della creazione del mondo oggettivo (cioè nell’attività teoretica) esso è produttivo in modo inconscio, mentre nel caso del volere (cioè nell’attività pratica) esso è produttivo in modo conscio. Tant’è vero che, se in sede teoretica l’oggetto condiziona il soggetto, è perché quest’ultimo ha già posto (fichteanamente) l’oggetto. E se in sede pratica il soggetto condiziona l’oggetto, è perché il volere non è che la continuazione e la realizzazione, a livello conscio, della libertà e della creatività dello spirito mediata dalla presenza dell’oggetto (il quale, idealisticamente, esiste soltanto per essere tolto o superato). UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
Ma in quale “luogo” preciso può essere rintracciata questa (postulata) identità tra produttività inconscia e produttività conscia? Come già sappiamo, tale luogo è rappresentato dall’attività estetica, la quale opera senza consapevolezza nel mondo reale o naturale e con consapevolezza nell’essere umano:
‘
Il “miracolo” operato dall’attività estetica
Il mondo ideale dell’arte e quello degli obbietti [la natura] sono perciò i prodotti di una sola e medesima attività; la combinazione dell’uno e dell’altro, senza coscienza, dà il mondo (Sistema dell’idealismo trascendentale) reale; con la coscienza, dà il mondo estetico.
)
Per l’esposizione orale
1. Qual è, per Schelling, il compito della filosofia trascendentale? 2. Spiega in che cosa consiste secondo Schelling l’attività dell’autocoscienza e presenta sinteticamente le tre fasi dello sviluppo dell’Io. 3. Esponi la concezione schellinghiana della storia. 4. Che cos’è l’arte per Schelling? SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura
Nella sua celebrazione dell’arte, Schelling mostra di essere profondamente influenzato dallo spirito romantico del suo tempo. Individua almeno due opere (in prosa o in versi, italiane o straniere) di scrittori romantici in cui ci si soffermi sulla figura dell’artista: quali tratti gli vengono attribuiti? Quali funzioni? Riesci a trovare dei collegamenti fra tali descrizioni e la concezione schellinghiana dell’arte?
6. La filosofia dell’identità La filosofia della natura e la filosofia della storia schellinghiane hanno come presupposto Un capovolgila teoria dell’Assoluto come identità o indifferenza di soggetto e oggetto. A prima vista, mento di prospettiva sembra pertanto che quella fase del pensiero di Schelling (1801-1804) che egli stesso denomina filosofia dell’identità , o dell’indifferenza, dell’«unitotalità», sia una ripresa o una continuazione dell’idealismo trascendentale (1800-1801). glossario p. 693 In realtà, la filosofia dell’identità mette capo a una prospettiva nuova, che a sua volta pone le basi dei successivi sviluppi del pensiero schellinghiano. Infatti, mentre in precedenza Schelling era partito dalla natura e dallo spirito (cioè dal finito e dal relativo) per giungere all’Assoluto o all’infinito, adesso intende muovere dall’Assoluto o dall’infinito per discendere al finito e al relativo, convinto che la vera difficoltà non sia quella di cercare l’unità (divina) negli opposti sensibili, ma di dedurre gli opposti dall’unità (divina). In altre parole, Schelling si trova di fronte all’antico problema di spiegare come dall’Uno Un problema discendano i molti, ovvero da Dio derivi il mondo e dall’eterno nasca il tempo. E questo antico problema fa tutt’uno con un altro problema che sarà evidenziato dalla critica di Hegel, e che consiste nello spiegare come da un Assoluto indifferenziato e identico in sé stesso possano sgorgare la molteplicità e la differenziazione delle cose. Gli scritti in cui Schelling, oltre a ribadire il punto di vista dell’identità, comincia ad accennare a questi problemi sono principalmente le due Esposizioni del sistema (del 1801 e del 1802) e, soprattutto, il dialogo Bruno o il principio divino e naturale delle cose (1802). In quest’ultimo scritto, in particolare, Schelling afferma che dall’infinito al finito non si La parziale può avere alcun passaggio, se non a patto di ammettere che il finito, in qualche modo, soluzione di Schelling è già in Dio. Ma il finito può essere nell’Assoluto soltanto in modo infinito ed eterno, ossia soltanto sottraendosi ai limiti dello spazio e del tempo. Ed è quanto Schelling sostiene, dichiarando che il finito è presente in Dio sotto forma di un sistema di idee.
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Con questa teoria, Schelling lascia però senza soluzione il problema del perché l’infinito sistema di idee divine si specifichi nella molteplicità delle creature finite e viventi. Anche il fatto che in Dio esista una molteplicità (anzi, un’infinità) di idee non spiega ancora come mai queste ultime si specifichino a loro volta nelle cose. Si tratta dello spinoso problema del “salto” dall’essenza all’esistenza. La questione risulta tanto più complessa se si pensa che Schelling rifiuta la soluzione creazionistica di tipo ebraico-cristiano (secondo cui il passaggio dalle idee alle cose è dovuto a un fiat creatore di Dio) poiché una risposta di questo genere, a suo parere, elude o si limita a “spostare” il problema.
Verso la filosofia Questi interrogativi metafisici, nel momento in cui portano Schelling a indagare sui più della libertà oscuri misteri di Dio e del mondo, lo conducono anche a una svolta decisiva di pensiero,
che alcuni studiosi hanno giudicato coerente con le premesse iniziali del suo sistema, mentre altri hanno considerato più o meno antitetica rispetto a esse. Si ripropone così anche per Schelling il problema delle “due filosofie” di cui si è parlato a proposito di Fichte.
7. La filosofia della libertà Gli scritti principali della nuova fase del pensiero schellinghiano, quella cosiddetta “teosofica” o della “filosofia della libertà”, sono Filosofia e religione (1804) e Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). Il finito come La prima opera, che riprende il nucleo di questioni sollevate dal dialogo su Giordano Bruno, «caduta» afferma decisamente che dall’infinito al finito e dall’Assoluto al relativo non vi può es-
sere passaggio, ma soltanto «rottura», «salto» e «caduta». Ma come si spiega tale rottura? Recuperando alcuni schemi tratti dalla religione ebraico-cristiana, Schelling afferma che essa deriva dalla libertà umana, la quale, scegliendo il male, provoca il distacco del finito dall’Assoluto, e dà avvio a un processo cosmico che contempla una caduta e una redenzione.
Una soluzione In questo modo, tuttavia, Schelling non fa che presupporre già l’esistenza del finito, della che porta a libertà e del male, ossia di ciò che vorrebbe spiegare. Infatti, come si giustifica a sua volnuovi interrogativi ta la possibilità metafisica di tali realtà? A questo punto, di fronte a Schelling si pongo-
no ormai con tutta chiarezza tre interrogativi di fondo: 1. da dove deriva la possibilità ontologica del finito, cioè del mondo? 2. da dove la possibilità ontologica del male? 3. da dove la possibilità ontologica della libertà?
I limiti di A queste domande hanno cercato di rispondere il teismo creazionista (con la teoria di un creazionismo, Dio personale e creatore), l’emanatismo di stampo neoplatonico (con la teoria di un Dio emanatismo e panteismo super-essente da cui emana l’universo) e il panteismo tradizionale (con la teoria dell’iden-
tità Dio-mondo), ma le loro risposte appaiono a Schelling tutte ugualmente impotenti e inutilizzabili. il teismo, pensando Dio come un atto puro, e quindi come una perfezione statica, non riesce a spiegare perché l’Assoluto, essendo originariamente perfetto, possa dar vita all’imperfetto, ossia perché dall’unità e dalla pace divine sgorghi, sia pure attraverso un libero fiat, un mondo molteplice e in divenire. Inoltre, riducendo il male a non-essere, il teismo non riesce a giustificare la possibilità e lo “spessore” del male nel mondo, e la conseguente libertà umana di sceglierlo; l’emanazionismo neoplatonico, a sua volta, non fa che imbattersi negli stessi inconvenienti del creazionismo;
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analogamente, il panteismo classico (e qui Schelling ha presente soprattutto Spinoza, di cui fu appassionato studioso) non riesce a spiegare il salto dall’infinito al finito, né l’esistenza del male, che è costretto a ridurre a mera apparenza. Schelling ritiene pertanto di dover imboccare una via diversa, che, pur non dissolvendo Dio nel mondo (poiché, se il mondo è tutto in Dio, questo non significa che Dio sia tutto nel mondo), possa mostrare che Dio non sarebbe tale senza il mondo. Nelle Ricerche egli elabora dunque una prospettiva nuova rispetto a quella della «caduta», affermando che se il concetto di Dio come identità statica e perfezione già tutta realizzata non riesce a dar ragione del finito e del male, non rimane altra soluzione che quella di cambiare radicalmente il concetto stesso dell’Assoluto, interpretando Dio come una realtà in divenire e come sede di una contrapposizione dialettica di contrari. In concreto, Schelling ritiene che in Dio sussista una serie di opposti – irrazionalità e razionalità, necessità e libertà, egoismo e amore ecc. – i quali danno luogo a un processo che ha per teatro il mondo e che consiste in un progressivo trionfo del positivo sul negativo.
La realtà dinamica e dialettica di Dio
In altri termini, come negli esseri umani esistono da un lato un volere inconscio e irrazio- Un «Dio nale, e dall’altro un volere permeato di ragione, così in Dio si trovano da un lato un fon- che diviene» do abissale inconsapevole, un’oscura brama o desiderio d’essere (che Schelling, sulle orme di Böhme, denomina «substrato», «natura» o «abisso») e dall’altro una ragione consapevole (che Schelling denomina «l’essere»). Ma come nell’uomo lo spirito affiora dalla vittoria sull’impulso, o come la luce si afferma in virtù del dissolvimento delle tenebre, o come, in generale, il positivo si rivela soltanto in rapporto al negativo, così in Dio «l’essere» o la ragione consapevole emerge dalla «natura» irrazionale, che è appunto il fondamento a partire dal quale Dio si fa Dio. In tal modo l’Assoluto schellinghiano cessa di essere un atto puro, o un primo motore immobile, per configurarsi come un Dio vivente, ossia come un Dio che diviene , e non come un Dio che è. In tal modo Dio si rivela a sé stesso, facendosi persona, tramite una progressiva vittoria della razionalità sull’irrazionalità, della libertà sulla necessità, dell’amore sull’egoismo, ossia mediante un processo cosmico coincidente con la storia stessa del mondo, che non è altro che una vivente “teofania” (manifestazione di Dio). glossario p. 693 Secondo Schelling, soltanto questa concezione dinamica di Dio può spiegare l’origine e il La necessità mondo destino del mondo e del finito. Infatti la creazione – che sgorga dal volere inconscio di Dio del e del male e dal suo oscuro «desiderio d’essere», e che trova la sua redenzione nella graduale realizzazione e rivelazione di Dio a sé stesso – rappresenta un momento necessario della vita divina, che non può fare sé stessa se non facendo al tempo stesso il mondo. Questa idea presenta inoltre il vantaggio di spiegare l’origine e la possibilità del male senza attribuirne la causa a Dio. Alla tesi polemico-ironica del medico e filosofo Adam Karl August Eschenmayer (1768-1852), secondo cui l’Assoluto schellinghiano sarebbe un misto di Dio e di Satana, Schelling ribatte che tra l’aspetto inconscio e abissale di Dio e il suo essere razionale (e quindi tra necessità e libertà, egoismo e amore, desiderio e intelletto) non vi è antitesi irrisolta, bensì armonica compenetrazione, in quanto il primo è semplicemente la condizione del trionfale esplicarsi del secondo:
‘
Infatti ogni essere può rivelarsi solo per mezzo del suo contrario; l’amore solo nell’odio, l’unità solo nella lotta. Se non ci fosse separazione dei princìpi, l’unità non potrebbe mostrare la sua onnipotenza; se non ci fosse la discordia, l’amore non potrebbe diventare reale. (Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana)
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Il ruolo Nella teofania cosmica di Schelling, la vera possibilità del male sorge però soltanto in redell’essere lazione all’essere umano, allorquando egli, con la sua libertà, turba il piano divino e alteumano
ra perversamente l’ordine e il corso dell’essere «tra-scegliendo» il negativo, ossia separando il bene dal male, isolando il finito dall’infinito e ribellandosi a Dio. Ma anche in questa «caduta» l’essere umano sente il richiamo della redenzione, ovvero il bisogno di far coincidere il proprio destino con quello di Dio, che è un’eterna vittoria del positivo sul negativo o, in termini religiosi, della luce sulle tenebre.
8. La filosofia positiva Dopo la pubblicazione delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809), Schelling si chiude in uno sdegnoso mutismo, assistendo rassegnato al trionfo di Hegel, il quale, identificando risolutamente la realtà con la ragione, va ormai sviluppando su questo principio tutte le parti di un sistema metafisico organizzato e compiuto. Nel 1834, ovvero tre anni dopo la morte di Hegel, il silenzio di Schelling finalmente si interrompe con la pubblicazione di uno scritto occasionale: una breve prefazione alla traduzione tedesca dei Frammenti filosofici di Victor Cousin. In questo scritto si annuncia il nuovo indirizzo della filosofia di Schelling che egli stesso chiamerà «positiva» e che esporrà nei corsi tenuti presso l’Università di Berlino. La critica al Schelling non era mai giunto a identificare (come Hegel) il reale con il razionale. Anche razionalismo designando l’Assoluto con il nome di «Io» o di «Ragione», aveva sempre incluso in esso un hegeliano
riferimento alla realtà, all’oggetto, all’esistente come tale, e l’aveva perciò sempre riconosciuto come indifferenza di idealità e di realtà. La dottrina di Hegel gli appare quindi come una caricatura, un’esagerazione unilaterale del suo sistema: distruggendo la distinzione tra il razionale e il reale, Hegel mette il razionale al posto del reale, riconducendo indebitamente tutto al concetto, e pretendendo di derivare dal concetto (nella sua astrattezza) tutta la realtà, dall’esistenza del mondo a quella di Dio. Per Schelling questo procedimento è impossibile, perché un conto sono le condizioni (negative) della pensabilità logica del reale, e un altro conto sono le condizioni (positive) della sua esistenza. Ecco perché egli distingue una filosofia «negativa», che si limita a studiare l’essenza o la possibilità logica delle cose (cioè il quid sit), da una filosofia «positiva», che concerne invece la loro esistenza o realtà effettiva (cioè il quod sit).
L’impotenza L’esigenza di passare dall’ambito del «puro possibile» a quello del «puro esistente» (cioè da e il silenzio una filosofia negativa a una filosofia positiva) comporta che la ragione si ritrovi improvvidella ragione
samente “al di là del pensiero”, priva dei soli strumenti con i quali è in grado di operare, ovvero i concetti. Di fronte alla «nuda realtà» – che sfugge a ogni mediazione e deduzione concettuale, risultando opaca e impermeabile alla forza del pensiero –, la ragione è disorientata e «attonita», come strappata a sé stessa, del tutto impotente: «non è più nulla, non può più nulla» (Filosofia della rivelazione, 164).
enciclosofia Victor Cousin Professore di filosofia a Parigi e curatore di un’importante edizione delle opere di Cartesio, Victor Cousin (1792-1867) fu uno dei protagonisti della vita culturale francese nel periodo della Restaurazione. Fu contrario all’Illuminismo sensistico, e favorevole invece allo studio dell’interiorità.
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Victor Cousin in un ritratto fotografico di Nadar, 1865 ca.
La ragione, pertanto, ammutolisce: se nella tradizione neoplatonica il silenzio era quello del pensiero umano di fronte all’ineffabile divinità che sfugge alla “cattura” del discorso (lógos), per Schelling il silenzio è quello della ragione di fronte al «puro esistente», che, refrattario al concetto, non si lascia «dedurre», non trova spiegazione logica, e che dunque deve essere ricondotto alla libera, contingente e imprevedibile scelta di Dio. Come paralizzata, la ragione non può che piegarsi all’evidenza dei “fatti”, e riconoscere che «ci sono innumerevoli cose che la trascendono». La filosofia positiva che Schelling mette a punto nell’ultima fase del suo pensiero prende Tra mitologia le mosse proprio da questo “scacco” della ragione di fronte all’esistenza. Quest’ultima, co- e rivelazione me abbiamo anticipato, è fatta derivare da Schelling dalla libera e imprevedibile volontà di Dio, e in virtù di questa sua radicale contingenza non può essere logicamente dedotta, ma soltanto fattualmente indotta. In altri termini, poiché l’esistenza non può essere “costruita” dalla ragione (come pretenderebbe Hegel), al filosofo spetta il più modesto compito di constatare e interpretare speculativamente la rivelazione che Dio fa di sé stesso attraverso il mondo. E poiché Dio si manifesta dapprima nei suoi caratteri naturali e necessari (come accade nella religione naturale o nella mitologia) e poi nei suoi caratteri personali e liberi (come accade nella religione rivelata), la filosofia positiva finisce per articolarsi, secondo il titolo delle due ultime opere di Schelling, in una filosofia della mitologia e in una filosofia della rivelazione.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa intende Schelling con l’espressione «filosofia dell’identità». 2. A quali interrogativi si propone di rispondere Schelling con la sua «filosofia della libertà»? 3. Riassumi la teoria del «Dio che diviene», spiegando perché la storia del mondo sia considerata da Schelling come una “teofania” vivente. 4. In che cosa consiste la «filosofia positiva» e qual è il suo compito, secondo Schelling? 5. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la suggestiva immagine schellinghiana di una ragione «attonita» di fronte alla «nuda realtà», ovvero di fronte al mistero dell’esistenza del mondo e dell’umanità. Condividi l’idea che un tale «stupore della ragione» (secondo una fortunata espressione di Luigi Pareyson) non possa che portare alla fede religiosa? Perché?
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 SCHELLING
La concezione dell’Assoluto Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling (1775-1854) individua il principio supremo della realtà, che coincide con Dio, in quello che egli chiama
• Assoluto
il principio infinito creatore della realtà, che non può essere ridotto né alla pura attività soggettiva (l’Io di Fichte), né alla pura oggettività (la Sostanza di Spinoza): esso è piuttosto unità o identità indifferenziata di soggetto e oggetto, spirito e natura, attività razionale e attività inconsapevole, idealità e realtà.
Con questa concezione e con il riconoscimento del valore autonomo della natura, Schelling prende le distanze dal pensiero di Fichte e prospetta due possibili direzioni della ricerca filosofica: 1. la filosofia della natura, volta a mostrare come la natura sia in realtà spirito; 2. la filosofia dello spirito, o filosofia trascendentale (v.), volta a mostrare come lo spirito sia anche natura.
La filosofia della natura Rifiutando i due modelli esplicativi tradizionali della natura (cioè il meccanicismo deterministico tipico della scienza, e il finalismo di impostazione teologica), Schelling propone una visione organicistica, ovvero una concezione della natura come sistema organico, in cui ogni parte ha senso soltanto in relazione al tutto e alle altre parti. Quello di Schelling, tuttavia, è un organicismo finalistico e immanentistico, incentrato sull’idea che il mondo sia organizzato secondo una finalità che gli è intrinseca. La natura è dunque considerata come un «organismo che organizza sé stesso», in virtù di una forza spirituale immanente, che Schelling denomina
• anima del mondo
lo spirito inconscio, o l’entità spirituale inconscia, che funge da principio strutturante e vivificatore dei fenomeni. Schelling la definisce come «ciò che sostiene la continuità del mondo organico e inorganico, e unisce tutta la natura in un solo organismo universale».
692
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
Così intesa, la natura si presenta come un’attività spontanea e creatrice, che si esplica concretamente in virtù dell’azione di due forze:
• attrazione
e repulsione le due opposte forze che, “lottando” tra loro, determinano tutti i fenomeni naturali.
La polarità di attrazione e repulsione si concretizza, secondo Schelling, in tre principali tipi di fenomeni: quelli magnetici, quelli elettrici e quelli chimici, che si mescolano tra loro producendo l’immenso e complesso sistema della natura. Quest’ultimo si articola secondo tre livelli fondamentali, ovvero secondo tre
• potenze
i tre grandi livelli di sviluppo della natura, che Schelling individua nel mondo inorganico, nella luce e nel mondo organico.
In generale, la natura è dunque vista come spirito inconscio in cammino verso la coscienza, ovvero come la
• preistoria dello spirito
la natura, intesa da Schelling come il «passato trascendentale» dell’Io, ovvero come uno spirito “dormiente” nelle cose e destinato a “svegliarsi” con gli esseri umani.
La filosofia dello spirito Nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), Schelling intende dimostrare che, se la natura è spirito visibile, lo spirito a sua volta è natura invisibile. È questo, come abbiamo anticipato, l’obiettivo della
• filosofia
dello spirito, o filosofia trascendentale il momento della ricerca filosofica – opposto ma complementare a quello della filosofia della natura – che parte dal soggetto, dall’ideale e dal formale, per farne scaturire l’oggetto, il reale e il materiale, mostrando in tal modo come lo spirito si risolva nella natura.
Si tratta insomma di mostrare il progressivo farsi natura dello spirito, ossia di «dedurre» l’oggetto dal soggetto. A questo fine, Schelling individua quale punto di partenza l’autocoscienza, cioè la coscienza che l’Io ha di sé stesso. Tale autocoscienza si presenta come una
• intuizione intellettuale
forma di autocoscienza in virtù della quale l’Io si coglie come oggetto conosciuto e, insieme, come soggetto che produce o istituisce sé stesso. Nell’intuizione intellettuale, pertanto, il soggetto e oggetto, l’intuente e l’intuito coincidono.
L’autocoscienza dell’Io si esprime poi in due tipi di attività: un’attività «reale», in cui l’Io, nel suo libero e infinito porsi, incontra il limite (gli oggetti apparentemente “esterni”), risultando così limitabile; e un’attività «ideale»,
in cui l’Io, autoproducendosi e scoprendosi soggetto producente (cioè fonte di ciò che appare “oggetto”), supera ogni limite, risultando così illimitabile.
La filosofia teoretica Una volta chiarita la struttura dialettica dell’Io, Schelling ne descrive l’attività, specificando che lo spirito si sviluppa attraverso tre «epoche», muovendo dalla sensazione (in cui è soltanto passivo rispetto agli oggetti) all’intuizione produttiva (in cui si intuisce come attivo), quindi alla riflessione (in cui si comprende come soggetto differenziato rispetto agli oggetti). Queste tre epoche costituiscono l’attività teoretica dell’Io, e culminano nel passaggio dalla riflessione alla volontà (ovvero all’attività pratica), in cui l’Io si coglie come intelligenza che si auto-determina. Attraverso tale processo, il soggetto scopre insomma, gradualmente, di essere esso stesso la fonte degli oggetti “esterni”. E ciò avviene grazie a quella che Schelling chiama
• produzione inconscia
l’attività irriflessa (corrispondente all’«immaginazione produttiva» di Fichte) mediante la quale il soggetto pone gli oggetti che alla coscienza comune appaiono come «cose in sé».
La filosofia pratica Come si è detto, con la volontà si passa all’attività pratica dello spirito, che si sviluppa lungo un’antitesi di fondo, cioè quella tra la libertà dell’ambito morale e la necessità dell’ambito giuridico. La sintesi tra questi due poli, secondo Schelling, si ha nella storia, che mostra come l’essere umano sia libero rispetto al proprio agire, ma necessitato rispetto a un disegno provvidenziale globale. La storia, più precisamente, è per Schelling un processo di rivelazione dell’Assoluto che si articola in tre fasi: nella prima l’Assoluto si mostra come destino; nella seconda come «legalità meccanica» del mondo naturale; nella terza come provvidenza. Un altro ambito di rivelazione dell’Assoluto è quello dell’arte: nella creazione estetica si ha infatti la sintesi del momento irriflesso (o naturale) dell’ispirazione e di quello cosciente (o razionale) dell’esecuzione. Per questo l’arte è considerata da Schelling l’«organo» della filosofia, ossia l’attività privilegiata grazie alla quale si può cogliere l’Assoluto nella sua unità (o identità) di spirito e natura. In virtù dell’importanza attribuita da Schelling all’arte, il suo sistema filosofico è noto anche come
• idealismo estetico, o oggettivo
l’idealismo schellinghiano, in quanto imperniato sull’idea dell’arte quale «organo» di rivelazione dell’Assoluto (estetico), e sulla rivalutazione della natura (oggettivo) rispetto all’idealismo soggettivo di Fichte.
La filosofia dell’identità All’elaborazione del «sistema dell’idealismo trascendentale» segue la fase della cosiddetta
• filosofia dell’identità
in generale, la teoria schellinghiana dell’Assoluto come identità di soggetto e oggetto, spirito e natura, conscio e inconscio. Più in particolare, tuttavia, l’espressione indica il sistema abbozzato da Schelling tra il 1801 e il 1804, che ruota intorno al problema di come si possano derivare il finito e il relativo partendo dall’infinito e dall’Assoluto.
In questa fase del suo pensiero, Schelling risolve (provvisoriamente) il problema affermando che il finito è presente in Dio nella forma di un sistema di idee.
La filosofia della libertà Nella fase della cosiddetta «filosofia della libertà», Schelling spiega il passaggio dalle idee divine alle cose, o dall’infinito al finito, come una «rottura», una «caduta», un «salto» che è frutto della libertà umana, la quale sceglie il male provocando il distacco del finito dall’Assoluto. Dovendo giustificare la possibilità metafisica della libertà e del male (da cui deriva la «caduta» umana), Schelling elabora un’originale idea dell’Assoluto come
• Dio che diviene
la concezione dinamica di Dio elaborata da Schelling nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809), in cui l’Assoluto è descritto come realtà “in divenire”, che ospita in sé una serie dialettica di contrari – irrazionalità e razionalità, necessità e libertà, egoismo e amore ecc. – i quali danno luogo a un processo cosmico orientato al progressivo trionfo del positivo sul negativo.
La filosofia positiva Nell’ultima fase del suo pensiero Schelling sottolinea la distinzione tra una filosofia «negativa», che si limita a studiare l’essenza o la possibilità logica delle cose, e una filosofia «positiva», che invece studia la loro esistenza o realtà effettiva. Passando dalla filosofia negativa a quella positiva, la ragione si ritrova “al di là del pensiero”, attonita di fronte alla «nuda realtà», che non riesce a «dedurre» da alcun principio. Il suo compito diventa allora quello di affidarsi alla rivelazione che Dio stesso fa di sé nel mondo, interpretandola speculativamente attraverso una filosofia della mitologia e una filosofia della rivelazione.
693
MAPPE
CAPITOLO 3 SCHELLING LA FILOSOFIA DELLA NATURA mostra che
la natura è spirito visibile ossia
un organismo che organizza sé stesso
un’attività spontanea e creatrice
spirito che “emerge” dal fondo oscuro e inconscio della natura
in virtù di
che si dispiega attraverso
attraverso
un’anima del mondo (principio finalistico immanente)
l’attrazione e la repulsione (magnetismo, elettricità, chimismo)
tre diverse potenze: mondo inorganico luce mondo organico
LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO mostra che
parte dal
lo spirito si concretizza nella natura
principio dell’autocoscienza intuizione intellettuale con cui l’Io, mentre si conosce, si autoproduce come oggetto da conoscere (attività reale e ideale) comprende
la filosofia teoretica
la filosofia pratica
la teoria dell’arte
che chiarisce
che analizza
che intende
il percorso conoscitivo dello spirito
il porsi e riconoscersi dello spirito come volontà (culmine della terza «epoca» dello spirito)
l’arte come strumento di rivelazione dell’Assoluto
attraverso
e si articola in
in quanto sintesi di
tre «epoche»: sensazione intuizione produttiva riflessione
694
morale (sfera della libertà dell’agire)
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
filosofia del diritto (sfera della legalità e della necessità)
filosofia della storia (sintesi di libertà e necessità)
natura (l’opera d’arte nella sua materialità)
spirito (il significato spirituale dell’opera d’arte)
LA FILOSOFIA DELL’IDENTITÀ affronta il problema della
derivazione dall’Assoluto del finito, o relativo e conclude che
il finito è presente in Dio nella forma di un sistema di idee
LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ spiega
intende
il passaggio dall’infinito al finito come rottura, salto e caduta
l’Assoluto, o Dio, come realtà in divenire ossia come
contrapposizione dialettica di irrazionalità e razionalità che si esprime nella
progressiva affermazione del positivo sul negativo nella storia del mondo
LA FILOSOFIA POSITIVA studia
constata e interpreta
l’esistenza o la realtà effettiva delle cose
la rivelazione che Dio fa di sé nel mondo
ritrovandosi
attraverso
al di là del pensiero (cioè dei concetti)
la filosofia della mitologia
la filosofia della rivelazione
695
CAPITOLO 3 SCHELLING
La filosofia della natura
Il distacco intellettuale di Schelling da Fichte si compie tra il 1797 e il 1798, quando Schelling pubblica Idee per una filosofia della natura e Intorno all’anima del mondo. In queste opere, infatti, è ormai esplicita la scelta di restituire alla natura il valore sottrattole da Fichte, concependola come «spirito visibile» e inconscio. TESTO
1
L’identità di spirito e natura
(Idee per una filosofia della natura)
IL TESTO NELL’OPERA Nella primavera del 1797 viene pubblicato Idee per una filosofia della natura, l’opera di riferimento della seconda fase del pensiero di Schelling. In questo scritto la natura viene presentata come un organismo senziente che si auto-produce razionalmente in una sequenza di gradi via via più complessi, pur in assenza di finalità esplicite. È l’essere umano, con il suo agire, a introdurre il finalismo nel mondo della necessità naturale. Anche Schelling, come Fichte, accoglie la lezione di Kant secondo il quale ogni forma di conoscenza della realtà esterna non deriva dalla mera esperienza, bensì dall’attività sintetica del soggetto. Tuttavia, egli non condivide l’affermazione fichteana della libertà dell’essere umano contro ogni forma di determinismo e il conseguente annientamento di tutto quanto si opponga a questa libertà, in primo luogo la natura. Come si legge nel testo presentato di seguito, Schelling deve pertanto andare contro Fichte, pur senza smarrirne le conquiste idealistiche. I limiti del Il dogmatico, che presuppone tutto come già originariamente esistente fuori di noi (e non meccanicismo come qualcosa che si fa e sorge da noi), deve per lo meno assumersi l’impegno di spiegare 2
ciò che è fuori di noi in base a cause che siano anch’esse esterne. Ciò gli riesce finché si mantiene in seno al rapporto di causa ed effetto, per quanto non riesca mai a rendere comprensibile come a sua volta sia sorto questo rapporto di causa ed effetto. Non appena egli si innalza al di sopra del singolo fenomeno, tutta la sua filosofia crolla: i limiti del meccanicismo sono anche i limiti del suo sistema. Ora, il meccanicismo è però lungi dal costituire da solo la natura. Infatti non appena entriamo nel campo della natura organica, ogni collegamento meccanico di causa ed effetto vien meno. Ogni prodotto organico sussiste per se stesso, la sua esistenza non dipende da un’altra esistenza. Ora, la causa non è però mai identica all’effetto: un rapporto di causa ed effetto è possibile solo fra cose affatto diverse. L’organismo, invece, produce se stesso: ogni singola pianta non è che il prodotto di un individuo della sua specie, e così ogni singolo
696
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
4 6 8 10 12
organismo produce e riproduce all’infinito soltanto il proprio genere. Nessun organismo quindi procede in avanti, ma ritorna sempre in se stesso all’infinito. Pertanto un organismo come tale non è né causa né effetto di una cosa fuori di esso, e quindi non è una cosa che possa inserirsi nel nesso di causa ed effetto. Ogni prodotto organico porta in se stesso la ragione della propria esistenza, giacché è causa ed effetto di se stesso. […] La prima cosa, dunque, che voi ammettete è questa: ogni concetto di finalismo può sorgere soltanto in un intelletto, e solo in relazione a un tale intelletto una cosa può essere definita conforme a scopi.
14 16 18 20
Il finalismo Egualmente siete non meno costretti ad ammettere che il finalismo dei prodotti naturali 22 della natura risiede in essi stessi, che esso è oggettivo e reale, che dunque non appartiene alle vostre rap-
presentazioni arbitrarie, ma a quelle necessarie. […] l’organismo vivente dev’esser prodotto dalla natura, ma in questo prodotto naturale deve dominare uno spirito ordinatore e unificatore; e questi due princìpi devono essere in esso non separati, ma intimamente uniti: nell’intuizione essi non si devono poter distinguere, fra di essi non dev’esserci né un prima né un dopo, ma assoluta contemporaneità e reciprocità d’azione. […] Che cos’è dunque quel legame segreto che unisce il nostro spirito con la natura, o quell’organo nascosto mediante il quale la natura parla al nostro spirito o il nostro spirito alla natura? Vi facciamo subito grazia di tutte le vostre spiegazioni circa il modo in cui una tale natura conforme a scopi sia divenuta reale fuori di noi. Infatti spiegare questa finalità dicendo che un intelletto divino ne è l’autore, non è filosofare, ma fare delle pie considerazioni. Con ciò non ci avete dato una spiegazione alcuna: noi vogliamo infatti sapere non come una tale natura sia sorta fuori di noi, ma come sia venuta in noi anche solo l’idea di una tale natura; e vogliamo sapere non tanto come noi l’abbiamo arbitrariamente prodotta, ma come e perché essa originariamente e necessariamente sta a fondamento di tutto ciò che la nostra specie ha da sempre pensato sulla natura. […] La natura dev’essere lo spirito visibile, lo spirito la natura invisibile. Qui dunque, nell’assoluta identità dello spirito in noi e della natura fuori di noi, si deve risolvere il problema di come sia possibile una natura fuori di noi.
24 26 28 30 32 34 36 38 40 42
(Idee per una filosofia della natura, “Introduzione”, in L. Pareyson, Schelling. Presentazione e antologia, Marietti, Torino 1975, pp. 140-146)
I limiti del meccanicismo (rr. 1-21) Il dogmatismo realistico, già stigmatizzato da Fichte, viene sottoposto a una severa critica anche da Schelling: esso non soltanto non è in grado di giustificare l’esistenza della realtà esterna (ancora una volta si tratta della polemica idealistica contro l’esistenza della cosa in sé), ma neppure gli strumenti esplicativi di cui si serve. Se il principio di causalità alla base della prospettiva meccanicistica è sufficiente per rendere conto degli enti naturali inorganici, non riesce invece a spiegare il fenomeno della vita. Gli organismi, infatti, non possono costituire l’uno la causa dell’altro, ma sembrano piuttosto enti isolati, ognuno recante in sé il proprio principio. Questa difficoltà si può superare con un
modello di spiegazione finalistico, il quale però implica l’ammissione di un intelletto che riconosca, come dall’esterno, l’organizzazione gerarchica della natura. Il finalismo della natura (rr. 22-42) Il principio unitario intelligente che ordina il mondo naturale secondo una logica finalistica non può essere il nostro io (perché in tal caso sarebbe soggettivo e arbitrario), ma deve piuttosto essere estraneo ad esso e, quindi, estraneo alla coscienza: esso è dunque una produttività inconscia. Rispetto a Kant, che aveva posto la natura sotto le leggi dell’intelletto e non le aveva riconosciuto alcun rilievo teleologico, Fichte rappresentava già un progresso, poiché nella natura scorgeva almeno il mezzo della moralità; Schelling, tuttavia, intende superare
TESTI SCHELLING
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
697
anche Fichte, facendo della natura la condizione preliminare (inconscia) dello spirito (conscio). Per questo il principio della realtà non può essere che unico, contemporaneamente interno ed esterno alla natura, a seconda che se ne abbia o meno coscienza. Del resto, le teorie di cui Schelling dispone sono quella mecca-
nicistica da un lato e quella vitalistica dall’altro; ma entrambe hanno il difetto di produrre una cesura tra quanto è vivo e quanto non lo è. Per questo Schelling approda all’idea di una «assoluta identità» (rr. 40-41) tra spirito e natura, ovvero all’idea della natura organizzata per intero in base a un unico principio.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Schelling afferma l’assoluta identità di spirito e natura: a tuo parere, quale relazione sussiste tra mondo e coscienza, tra corpo e pensiero, tra materiale e immateriale? Concordi con la riflessione di Schelling, per il quale la natura è «spirito visibile» (r. 40)? Argomenta la tua risposta in un testo scritto (max 30 righe).
L’idealismo trascendentale
Mentre nella fase della “filosofia della natura” Schelling descrive il modo in cui la natura diventa spirito o intelligenza, in quella successiva delinea il modo in cui lo spirito o intelligenza si fa natura. Egli parla a questo proposito di “idealismo trascendentale” perché intende mostrare, kantianamente, che le leggi del soggetto sono le stesse che regolano l’oggetto. TESTO
2
L’arte come «organo» della filosofia (Sistema dell’idealismo trascendentale) IL TESTO NELL’OPERA Nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) Schelling rielabora tutta la sua riflessione precedente in una trattazione di assoluta organicità. L’opera è infatti il risultato di una “sintesi” tra due itinerari filosofici: la filosofia della natura – che muove dall’oggettivo per giungere al soggettivo – e la filosofia trascendentale – che tenta di dare una spiegazione dell’oggettivo a partire dall’elemento soggettivo del sapere, ossia dall’Io. Nello scritto viene ripercorsa la storia dell’autocoscienza, che si eleva progressivamente fino all’Assoluto. La chiave di volta dell’intero sistema è l’arte, che permette di cogliere l’unione e l’identità originarie di soggettivo e oggettivo, al di fuori dell’astrattezza dei concetti. L’opera di Schelling, infatti, si conclude soltanto dopo avere posto i capisaldi di un’autentica filosofia dell’arte. L’attività teoretica raggiunge il suo culmine quando l’Io si coglie come intelligenza capace di autodeterminarsi indipendentemente dagli oggetti. In ciò consiste il passaggio dall’attività teoretica all’attività pratica, che a sua volta si articola nei gradi successivi della morale, del diritto e della storia. Ma anche nella storia i due poli dello spirito e della natura, del soggetto e dell’oggetto, continuano a rimanere di fatto distinti. La completa armonia di spirito e natura è invece effettivamente attinta nell’attività artistica, alla quale Schelling riconosce la capacità di cogliere l’Assoluto.
L’intuizione L’intuizione postulata deve riunire quanto esiste separatamente nel fenomeno della liberestetica tà e nell’intuizione del prodotto naturale: identità del conscio e del privo di coscienza nell’io, e 2
coscienza di tale identità. Il prodotto di questa intuizione confinerà quindi, per un lato, col prodotto della natura, per altro lato, col prodotto della libertà, e dovrà riunire in sé i carat- 4 teri di entrambi. […] Il prodotto postulato è nient’altro che il prodotto del genio, ovvero, essendo il genio pos- 6 sibile soltanto nell’arte, il prodotto artistico. […]
698
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO CapITolo 3 Schelling
La natura per Se l’intuizione estetica è unicamente quella intellettuale divenuta oggettiva, è evidente che 8 il filosofo l’arte sia l’unico vero ed eterno organo della filosofia e insieme l’unico documento che rende e per l’artista
testimonianza sempre e incessantemente a ciò che la filosofia non può esporre esternamente, e cioè il privo di coscienza nell’agire e nel produrre, e la sua identità originaria con il conscio. Appunto perciò l’arte è per il filosofo quel che vi è di supremo, perché gli apre per dir così il sancta sanctorum1 ove in eterna e originaria unione, quasi in un’unica fiamma, arde ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò che nella vita e nell’agire, come nel pensiero, deve eternamente fuggirsi. La visione della natura che il filosofo si costruisce artificiosamente è per l’arte quella originaria e naturale. […]
10 12 14 16
Mondo reale e Ogni splendido dipinto nasce, per dir così, al levarsi dell’invisibile sipario che separa il mondo ideale mondo reale da quello ideale, e non è altro che l’apertura attraverso cui ci vengono incon- 18 nell’opera d’arte
tro nella loro pienezza quelle figure e quelle regioni del mondo fantastico che soltanto imperfettamente tralucono nel mondo reale. Per l’artista la natura non è più di quel che è per 20 il filosofo, cioè solamente il mondo ideale che appare tra permanenti limitazioni, soltanto il riflesso imperfetto di un mondo che esiste non fuori di lui, ma in lui. 22 (Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi, Rusconi, Milano 1997, pp. 551, 557, 579)
1. La locuzione latina (che letteralmente significa “le cose sante tra le sante”) nell’Antico Testamento si riferisce alla parte più interna e sacra del tempio di Gerusalemme, dov’è collocata l’arca dell’alleanza. Per estensione, essa indica un luogo riservato ed esclusivo, a cui hanno accesso pochi iniziati e privilegiati.
L’intuizione estetica (rr. 1-7) Schelling sta ricercando una particolare forma di intuizione intellettuale, o trascendentale, in cui l’unione del soggetto con il proprio oggetto sia effettiva, ovvero sensibile, e non soltanto riflessa, o teorica. Il prodotto di una tale intuizione (che si trova, per così dire, “a metà” tra l’attività teoretica e l’attività pratica dell’Io) dovrà quindi presentare nel contempo le caratteristiche di un oggetto naturale (sottoposto al determinismo che regola la natura) e quelle di un’azione libera dell’Io. La natura per il filosofo e per l’artista (rr. 8-16) Il “luogo” in cui il determinismo della natura si concilia con il libero agire dell’Io è la produzione artistica e l’intuizione estetica, che altro non è se non l’“oggettivizzazione” dell’intuizione intellettuale. In altre parole, ciò che l’arte attua è ciò a cui da sempre la filosofia mira: la comprensione dell’Assoluto. La filosofia comprende mediante la ragione che l’Assoluto è ragione e non-ragione, intende in modo del tutto conscio che
l’Assoluto è sintesi di conscio e inconscio: in tal modo, però, la sua comprensione è unilaterale e non assomiglia affatto al suo oggetto. Nell’arte, per contro, l’artista fa vivere l’Assoluto stesso, poiché nell’atto della creazione egli è in piccolo ciò che l’Assoluto è in misura infinita: egli non comprende, ma è la sintesi di conscio e inconscio, non la intende, ma concretamente la realizza. In questo senso, la conoscenza filosofica è riproduzione, mentre l’arte è produzione. Mondo reale e mondo ideale nell’opera d’arte (rr. 1722) Nell’opera d’arte si incontrano, in una conciliazione concretamente realizzata, il mondo reale, o naturale, e il mondo ideale che si intravede al di là di quello. L’operazione compiuta dall’artista è dunque la stessa del filosofo, ma a un livello più alto, in quanto l’artista “produce effettivamente” il proprio oggetto. L’arte, in questo senso, è per Schelling la forma somma di conoscenza, l’attività umana che più di ogni altra ha a che fare con la verità.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Spiega in un testo scritto (max 20 righe) che cosa intende Schelling con le espressioni seguenti: «è evidente che l’arte sia l’unico vero ed eterno organo della filosofia» (rr. 8-9) e «Ogni splendido dipinto nasce […] al levarsi dell’invisibile sipario che separa il mondo reale da quello ideale» (rr. 17-18).
TESTI SCHELLING
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
699
VERIFICA
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO FLASHCARD
CAPITOLO 1 Il Romanticismo tra filosofia e letteratura 1 La cultura romantica si caratterizza per:
3 La filosofia politica del Romanticismo si basa:
A una visione pluriforme del mondo
A sul cosmopolitismo giuridico e politico
B l’esaltazione della ragione dei philosophes
B su schemi provvidenzialistici e tradizionalistici
C uno scollamento tra arte e filosofia
C su istanze di rinnovamento radicale
D l’univocità dei motivi ispiratori
D sull’ideologia della Restaurazione europea
2 In riferimento al Romanticismo tedesco, la parola Sehnsucht indica: A la curiosità per tutto ciò che appare “diverso” B lo sguardo proiettato verso il futuro C il desiderio del desiderio D la simbiosi con la natura
4 In che senso quella romantica, diversamente da quella kantiana, può essere definita una “filosofia (max 10 righe) dell’infinito”?
5 Spiega in che cosa consistono le difficoltà relative alla definizione critica e storiografica del Romanti(max 15 righe) cismo.
CAPITOLO 2 Fichte 6 Nella dottrina di Fichte l’Io pone il non-io perché:
9 Perché la gnoseologia di Fichte è, al tempo stesso, realista e idealista?
A è insoddisfatto di sé stesso B il non-io gli impone di venire all’essere C diversamente non potrebbe spiegare sé stesso D soltanto così può realizzarsi come attività
morale
10 In che senso in Fichte si può parlare di un “primato della ragion pratica”?
A il giudizio
C l’intelletto
B la ragione
D l’intuizione
8 Quali sono i princìpi alla base della dottrina della scienza di Fichte?
(max 6 righe)
11 In che cosa consiste la «missione» del popolo tedesco per Fichte?
7 Per Fichte il più alto grado della conoscenza è:
(max 6 righe)
12
(max 6 righe)
attività PLUS Esponi la teoria dello Stato di Fichte, facendone emergere la doppia ispirazione, liberista e socialista, e mettendola a confronto con i princìpi alla base del contrattualismo e del giusnaturalismo.
(max 20 righe)
(max 6 righe)
CAPITOLO 3 Schelling 13 Schelling spiega la natura ricorrendo: A al modello meccanicistico, impiegato
dalla scienza B all’emanazionismo neoplatonico C a un organicismo di tipo finalistico e immanentistico D al panteismo di Spinoza
700
UNITÀ 7 IL ROMANTICISMO E L’IDEALISMO VERIFICa
14 Per Schelling l’arte è: A la forma originaria e suprema
dell’essere umano B la radice di ogni realtà C un’attività del tutto inconscia D una disciplina subordinata alla filosofia
15 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla filoso-
16 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
fia di Schelling, sono vere o false. a. L’assoluto è insieme soggetto e oggetto,
attività razionale e attività inconsapevole b. Si ha la vita quando le opposte forze
della natura sono in equilibrio c. Il soggetto produce consapevolmente
i propri oggetti d. Nell’arte si armonizzano
completamente spirito e natura e. Il passaggio dalle idee alle cose è
dovuto a un fiat creatore di Dio f. La possibilità del male nel mondo dipende
esclusivamente dall’essere umano
la mappa riportata sotto. V
F
tramonto • repubblica • provvidenza • periodi • pace • natura • legalità • federazione • destino • antichità
V
F
17 Perché a proposito di Schelling si parla di idealismo “estetico”?
V
F F
V
F
V
F
VERSO LE OLIMPIADI DI FILOSOFIA L’eroe romantico
18 Come avviene, per Schelling, il distacco del finito dall’assoluto?
V
attività PLUS
‘
[…] ciò che del Romanticismo sopravvive meglio oggi – e gode anzi di ottima salute – sono le vite dei suoi autori. A distanza di due secoli, abbiamo ora il diritto di chiederci se il grande capolavoro del Romanticismo non sia stata appunto la mole delle sue opere […] ma la sua involontaria autobiografia, l’epopea narrativa che esso ha fatto dei propri protagonisti: la creazione cioè di un vero e proprio Modello di Uomo Europeo. Viene da chiedersi se il Romanticismo, nel corso di questi due secoli, obliterando la sua natura letteraria – facendo cioè della letteratura un uso tutto sommato strumentale – non si sia trasformato nella più vittoriosa delle pose, nel più logorato fra i modelli. […] ciò che di un autore come Foscolo continua a esercitare un’indiscutibile fascinazione […] non è certo il culto laico dovuto ai morti espresso nei Sepolcri o l’inafferrabile levità neoclassica delle Grazie, ma le accensioni patetico-sentimentali tutte autobiografiche dell’Ortis, […] confermate da una vita altrettanto rocambolesca: spese scriteriate e soggiorni in prigione, amori clandestini e matrimoni acrobaticamente mancati […]. Questo non ci urta, e anzi ci trova compiacenti, perché l’orizzonte sentimentale di Foscolo forse è ancora il nostro. (F. Sinisi, Splendore e miseria dell’Eroe Romantico, in www.doppiozero.com, 27 giugno 2018)
A partire dalla citazione riportata, elabora un saggio filosofico (max 15 000 caratteri spazi inclusi), asse-
(max 6 righe)
19
(max 10 righe)
attività PLUS La filosofia della natura di Schelling attinge a diverse fonti di ispirazione: individuale ed evidenzia lo specifico contributo di ciascuna alla teoria (max 20 righe) del filosofo.
COMPETENZE Comunicare in forma scritta | Elaborare le informazioni | Sviluppare la riflessione personale e il giudizio critico | Argomentare una tesi
gnandogli un titolo specifico e curando gli aspetti seguenti: problematizzazione, argomentazione, contestualizzazione, attualizzazione.
FASE 1 organizza i tuoi pensieri Per organizzare i pensieri può essere utile riassumere la tua posizione rispetto alla traccia (o topic) in una frase, che puoi impiegare come punto di partenza (o principio guida) del tuo saggio. Che cosa pensi a proposito della tesi espressa dall’autore dell’articolo sul Romanticismo? FASE 2 struttura il saggio Segui una scaletta precisa per dare al tuo saggio una struttura chiara e logica. Un modello potrebbe essere il seguente: 1. introduzione (esponi brevemente il tuo parere sulla traccia e presenta i principali argomenti che intendi esporre) - 2. primo argomento - 3. controargomento (discuti le possibili obiezioni al tuo argomento e indica i motivi per cui rifiuti tali obiezioni) 4. secondo argomento - 5. controargomento - 6. conclusione (riepiloga i punti chiave della tua esposizione e riafferma la tua tesi). FASE 3 scrivi il saggio Ora passa alla stesura del saggio, dimostrando di avere compreso il topic, di saperlo contestualizzare e di sapere argomentare le tue opinioni. Ricordati di analizzare la riflessione proposta nell’articolo anche alla luce di quanto hai studiato sul Romanticismo in ambito filosofico, artistico e letterario.
701
8 UNITÀ
HEGEL
Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, “Prefazione”)
702
Massimo esponente dell’idealismo tedesco, Hegel dedica ogni suo sforzo al tentativo di superare la distinzione tra soggetto e oggetto, per costruire un sistema filosofico capace di attingere il punto di vista della totalità. Quest’ultima viene identificata con lo «spirito», inteso come ragione che si manifesta e si costruisce nel tempo e nella storia, attraverso momenti differenti ma tutti ugualmente necessari. All’intuizione e al sentimento – che per i romantici costituivano la via privilegiata per cogliere l’Assoluto – Hegel sostituisce dunque la fatica del concetto, cioè lo sforzo di un’analisi razionale volta a mettere in luce la struttura profonda della realtà.
N
ell’unità affrontiamo il pensiero di Hegel, il quale, portando l’idealismo tedesco al suo momento più significativo e compiuto, sviluppa un sistema metafisico complesso e articolato, nel tentativo di rendere conto del reale nella sua interezza. IL RACCONTO DI UNA VITA
La costruzione del «regno del pensiero» Le opere
CAPITOLO 1 Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
Hegel considera la realtà come un tutto organico, le cui singole manifestazioni sono parti di un’unica entità assoluta e infinita: lo spirito, che si realizza nel divenire del mondo. Da questa risoluzione del finito nell’infinito scaturisce il principio teorico fondamentale del sistema hegeliano: l’identità di reale e razionale.
CAPITOLO 2
La Fenomenologia dello spirito
Nella Fenomenologia dello spirito Hegel elenca le tappe attraversate dalla coscienza umana per giungere a comprendere che tutto è spirito. Proprio perché tutto è spirito, tale cammino coincide con quello che lo spirito stesso deve percorrere per giungere ad auto-comprendersi. Hegel lo descrive come una ricerca nostalgica, che conduce la coscienza a riconoscersi dapprima nella realtà sensibile, quindi in sé stessa in quanto autocoscienza, infine in quel medesimo Assoluto a cui aspirava, che si rivela pertanto come nulla di “altro” da sé.
CAPITOLO 3 L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Identificato lo spirito con la ragione, ovvero con l’Idea, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio Hegel ne segue lo sviluppo nei suoi tre momenti strutturali: Idea in sé e per sé (tesi), Idea fuori di sé (antitesi), Idea che torna in sé (sintesi). Dal punto di vista del sapere umano, tali momenti corrispondono agli ambiti della logica, della filosofia della natura e della filosofia dello spirito.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi intitolata Hegel - Lo spirito come storia, quindi prendi nota dei suoi passaggi principali e di eventuali dubbi o possibili spunti di riflessione che essa ti abbia suggerito.
IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante dividete la classe in piccoli gruppi e, all’interno di ciascuno di essi, confrontate il lavoro svolto a casa, cercando di chiarire i dubbi e di sviluppare gli spunti di riflessione.
Elaborate infine un testo scritto comune (che ogni gruppo, a turno, leggerà al resto della classe) rispondendo alle seguenti domande: - quali sono i caratteri fondamentali della definizione hegeliana dello spirito? - in che senso, nella concezione della realtà, Hegel parte da Spinoza, ma per superarlo? - come si può chiarire la nozione di “sostanza etica” che Hegel fa coincidere con quella di spirito?
VIDEOLEZIONE
Hegel Lo spirito come storia
703
IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
La costruzione del «regno del pensiero»
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Un filosofo della storia Stando alla biografia dello storico contemporaneo Horst Althaus, quelle riportate nel riquadro a fianco sono alcune delle parole pronunciate nel 1831 a Berlino da Friedrich Förster, discepolo di Hegel, in occasione del funerale del maestro. Con un paragone audace, Förster avvicina il «regno del pensiero» costruito da Hegel al regno di Cristo e, in un crescendo di enfasi retorica, prosegue accostando le conquiste filosofiche hegeliane e quelle militari di Alessandro Magno. Nelle parole di Förster, per quanto scaturite dalla commozione della celebrazione funebre, traspaiono non soltanto la devozione e l’ammirazione che l’Università di Berlino nutriva per Hegel, ma anche la consapevolezza che tutti i filosofi successivi avrebbero dovuto “fare i conti” con la sua riflessione. In effetti Hegel dà voce e veste filosofica all’inquietudine e all’ansia di trasformazione di un’intera epoca, contrassegnata, a partire dalla Rivoluzione francese (1789), da mutamenti storici cruciali e drammatici. L’intera filosofia hegeliana può essere intesa come il tentativo di comprendere le vicende storiche del tempo. Da qui deriva quell’intima unità di realtà e pensiero, storia e filosofia, che costituisce la peculiarità del sistema di Hegel, il quale è davvero «il proprio tempo appreso con il pensiero», secondo la definizione che egli stesso dà, in generale, di ogni filosofia.
Certo non si leverà nessun Pietro che abbia la presunzione di nominarsi suo vicario, ma il suo regno, il regno del pensiero, si estenderà sempre di più, non senza venir contestato, ma irresistibilmente. (H. Althaus, Vita di Hegel. Gli anni eroici della filosofia)
Gli studi ginnasiali a Stoccarda Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce il 27 agosto 1770 a Stoccarda, capitale del Granducato del Württemberg. Questo era uno dei numerosi piccoli Stati in cui allora era frammentata la Germania, che a sua volta faceva parte di quel Sacro romano impero che sarebbe scomparso di lì a poco con le conquiste napoleoniche. Il piccolo Georg nasce dunque, e cresce, in un mondo che sta tramontando. Egli compie i suoi primi studi nel Ginnasio Reale di Stoccarda, una scuola umanisticoreligiosa in cui studia le lingue e gli autori classici, oltre che la Bibbia. All’età di undici anni perde la madre per una malattia che egli stesso aveva contratto, ma da cui si era salvato, ed è forse questo duplice trauma a lasciargli come residuo una sorta di difficoltà nel parlare che renderà faticosa la sua attività di docente. Le informazioni sull’adolescenza di Hegel derivano da un diario da lui stesso redatto tra il 1785 e il 1787, in cui è descritta (in tedesco e in latino) la vita di un giovane borghese che frequenta concerti e feste, e legge libri di ogni genere, ma soprattutto di carattere storico.
Gli studi universitari a Tubinga CARTA INTERATTIVA
i luoghi di HEGEL
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Nell’ottobre 1788 Hegel si iscrive all’Università di Tubinga per studiare filosofia e teologia: vi accede come borsista del celebre “Stift”, una sorta di seminario statale destinato alla formazione del clero protestante. Nel collegio dello Stift, Hegel condivide la stanza UnitÀ 8 HEGEL iL RACCOntO Di UnA VitA
con Hölderlin, suo coetaneo e futuro poeta romantico ( unità 7, cap. 1), e con Schelling, più giovane di cinque anni ( unità 7, cap. 3): con loro stringe una profonda amicizia, condividendo l’entusiasmo per la Rivoluzione francese. Secondo una tradizione forse leggendaria, il 14 luglio 1789, alla notizia della presa della Bastiglia, i tre amici piantano nei pressi del collegio un “albero della libertà” (simbolo della Rivoluzione), intorno al quale danzano cantando la “Marsigliese” (l’inno dei ribelli francesi, che Schelling aveva tradotto in tedesco), suscitando l’ira del reazionario duca del Württemberg ( “Dalla vita al pensiero”, p. 708). Durante gli anni universitari Hegel legge molto, concentrandosi non tanto sulle opere relative ai corsi che sta seguendo, quanto su scritti “eterodossi”, quali erano considerate, ad esempio, le Lettere sulla dottrina di Spinoza (1785) con cui Friedrich Heinrich Jacobi (17431819) aveva avviato un dibattito sul panteismo. In uno scambio epistolare tra Hegel e Schelling, entrambi i giovani si professano “spinozisti”, cioè non persuasi dell’esistenza di una divinità personale e trascendente come quella cristiana. Come studente Hegel è brillante, gioviale e vitale. Gioca a carte, frequenta le taverne e spesso salta le lezioni per dormire più a lungo. Queste sue sregolatezze non sfuggono ai sorveglianti del seminario, che lo richiamano più volte giungendo addirittura, nel 1791, a rinchiuderlo per un paio d’ore nel carcere studentesco. Il 1791 rappresenta per Hegel l’anno della massima inquietudine giovanile anche dal punto di vista sentimentale: egli si innamora infatti della figlia di un defunto professore di teologia (Auguste Hegelmaier), che gestisce l’osteria in cui si riuniscono gli studenti universitari. L’anno precedente (1790) Hegel aveva conseguito il titolo di magister philosophiae con una dissertazione in cui si era misurato con la filosofia di Kant, e nel 1793 sostiene l’esame per proseguire la sua formazione negli studi teologici e diventare pastore, ma ben presto abbandonerà questa strada, come faranno anche Hölderlin e Schelling.
Il ruolo di precettore a Berna e Francoforte, e i primi scritti Nel 1793 Hegel si trasferisce a Berna e, come molti giovani istruiti del tempo, lavora come precettore presso una famiglia aristocratica. Al periodo bernese risale la stesura di alcuni testi (che verranno pubblicati postumi, con il titolo Scritti teologici giovanili) su argomenti prevalentemente teologico-religiosi, in cui Hegel si mostra attento alla storia greca, ebraica e cristiana, e alla religione come espressione della vita dei popoli. Nell’estate del 1796, accompagnato da tre precettori sassoni, il venticinquenne Hegel compie un viaggio sulle Alpi svizzere e ne traccia un resoconto nel Diario di viaggio sulle Alpi bernesi. Da queste pagine traspare un sentimento di indifferenza, quasi di avversione, nei confronti della natura ( “Dalla vita al pensiero”, p. 706). Nonostante i frequenti contatti epistolari con Hölderlin e Schelling, a Berna Hegel si sente isolato e frustrato; nel gennaio 1797 accetta quindi di buon grado una nuova sistemazione a Francoforte (ottenuta con l’aiuto di Hölderlin) presso una facoltosa famiglia di commercianti. Francoforte è una città economicamente vivace e cosmopolita, molto diversa dall’angusta Berna: qui Hegel – che può ricongiungersi con Hölderlin e intrattenere con lui lunghe discussioni di attualità, filosofia e poesia – si avvicina allo studio dell’economia politica e del diritto, e scrive un saggio sul sistema elettorale del Württemberg e uno sulla Costituzione della Germania. Intanto partecipa a feste da ballo, fiuta tabacco, gioca a carte e riscuote la simpatia dei coetanei per la sua giovialità, mentre Hölderlin, a causa di una tragica vicenda amorosa, sprofonda nell’abisso della follia.
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L’insegnamento universitario a Jena Nel gennaio 1799 il padre di Hegel muore, lasciando in eredità al figlio un piccolo patrimonio che gli permette di abbandonare la professione di precettore per dedicarsi a tempo pieno agli studi e prepararsi alla carriera accademica. Il giovane aspira a una cattedra di filosofia a Jena, dove si trasferisce nel gennaio 1801. Jena era all’epoca il maggiore centro culturale della Germania, sede della scuola romantica (con i fratelli Schlegel, Novalis, Tieck ecc.) e capitale della filosofia kantiana e post-kantiana grazie all’insegnamento accademico di Reinhold prima (1787-1794) e di Fichte poi (1794-1799). Da due anni (cioè dal 1798), a Jena insegnava anche Schelling, l’antico compagno dello Stift, che introduce Hegel nel mondo universitario. Nel 1801 Hegel pubblica il suo primo libro di argomento schiettamente filosofico: Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, nel quale si pronuncia in favore dell’idealismo schellinghiano e prende le distanze dalla filosofia di Fichte, che nel frattempo era stato rimosso dall’insegnamento con l’accusa di ateismo e giacobinismo. Nello stesso anno consegue l’abilitazione all’insegnamento universitario e inizia un ciclo di lezioni come libero docente non retribuito. Nel mondo accademico Hegel si segnala perché insegna ex dictatis, cioè basandosi su appunti personali e non su manuali istituzionali e collaudati come si faceva di consueto.
Il primato dello spirito sulla natura DALLA VITA AL PENSIERO
L’indifferenza per il «sublime» kantiano Nel visitare le Alpi svizzere, il giovane Hegel non mostra alcun coinvolgimento emotivo di fronte a quella poderosa bellezza naturale che aveva invece attirato l’attenzione dei poeti romantici e, prima ancora, di Kant. Questi aveva ricondotto l’esperienza della grandezza e della potenza della natura al «sublime», ovvero a un sentimento di dispiacere e piacere insieme, provati dall’essere umano, rispettivamente, per la propria piccolezza e fragilità di fronte al cosmo, e per la propria dignità e libertà di soggetto spirituale e morale. Nel Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, invece, non emerge alcuna ammirazione per la “sublimità” delle montagne, che anzi lasciano Hegel indifferente, e perfino annoiato: La ragione, pensando alla durata di queste montagne o al tipo di sublimità che si ascrive loro, non trova nulla che le si imponga e le strappi stupore e meraviglia. La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, dell’è così. (Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, trad. it. di T. Cavallo, Ibis, Como-Pavia 1990, p. 65)
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UnitÀ 8 HEGEL iL RACCOntO Di UnA VitA
L’interesse per una natura “antropizzata” Hegel non mostrerà mai, neppure negli anni della maturità, un particolare interesse per il tema del sublime. E la “filosofia della natura” costituirà la parte meno coinvolgente e meno interessante del suo sistema, in linea con la convinzione che il mondo naturale esista soltanto per lo spirito, quale scenario o orizzonte per la realizzazione della sua creatività e libertà. In effetti, già durante il suo viaggio giovanile sulle Alpi Hegel cerca nella natura le tracce dello spirito, i segni dell’opera dell’uomo, del suo lavoro. Se volessimo usare un linguaggio moderno, potremmo dire che egli mostra interesse per l’“antropizzazione” della natura, ovvero per l’intervento con cui gli esseri umani cercano di adattare l’ambiente naturale alle loro esigenze. Ecco perché, nel suo diario, registra lo stupore e l’ammirazione provati di fronte agli usi dei montanari, i quali posano pesanti pietre sui tetti per tenerli saldi durante le tempeste, e sfruttano anche i più piccoli «fazzoletti di terra» lungo i fianchi delle montagne per farvi pascolare le capre. Lo sguardo del giovane Hegel (come quello dello Hegel maturo) si volge quindi all’uomo nella natura, e non alla natura in sé.
Così, mentre le lezioni di Schelling sono coinvolgenti, seduttive e teatrali, quelle di Hegel risultano improvvisate e incerte, prive di efficacia retorica e spesso oscure nei contenuti. In questi anni Hegel stringe amicizia con il collega Friedrich Immanuel Niethammer (1766-1848) e collabora con Schelling (tra il 1802 e il 1803) alla fondazione e alla pubblicazione del “Giornale critico della filosofia”, per il quale scrive alcuni saggi importanti. Tra il 1803 e il 1806 redige gran parte dei cosiddetti “abbozzi di sistema”, appunti e manoscritti che confluiranno nel suo sistema filosofico maturo, e che saranno pubblicati postumi.
I francesi a Jena: un punto di svolta Mentre riprende la guerra tra la Francia napoleonica e la Prussia, l’esistenza di Hegel si fa precaria: l’eredità paterna si sta esaurendo e Hegel è assillato, oltre che dai problemi economici, anche dalla necessità di ultimare la Fenomenologia dello Spirito, a cui sta lavorando da tempo e che è in fase di pubblicazione. Diversi anni dopo, ricordando questo difficile periodo, in una lettera a un amico parlerà di un’«ipocondria fino all’esaurimento delle forze», ma anche di un momento di «svolta»:
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Certo ogni uomo ha conosciuto una tale svolta nella sua vita, il punto oscuro della concentrazione della sua natura, che egli deve attraversare perché ne venga assicurato e confermato nella certezza di sé stesso, [...] nella certezza di una più nobile esistenza interiore. (Lettera a Windischmann del 27 maggio 1819, in Epistolario, II, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1998, p. 91)
Hegel reagisce a questa crisi immergendosi nello studio, convinto che soltanto il sapere possa liberare l’essere umano dal «labirinto dell’anima». Nel momento della difficoltà e del dolore, la “salvezza” non gli giunge dunque dalla religione, ma dalla dedizione al lavoro e dall’esercizio del pensiero. Proprio mentre sta completando la Fenomenologia dello spirito, le truppe napoleoniche entrano in Jena. È il 13 ottobre 1806, cioè la vigilia della battaglia in cui i francesi sconfiggeranno i prussiani, e Hegel scrive all’amico Niethammer:
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Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – passare a cavallo per la città per andare in ricognizione: è davvero una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, stando su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina. (Lettera a Niethammer del 13 ottobre 1806, in Epistolario, II, cit., p. 233)
Al di là dell’enfasi retorica con cui Hegel riferisce di aver visto Napoleone, il momento storico è cruciale: il 12 luglio 1806 Napoleone istituisce la Confederazione del Reno e mette fine al Sacro romano impero. Per quanto Hegel non lo rimpianga, e non avverta il successo napoleonico come un’offesa al nazionalismo tedesco, per lui sono comunque giorni drammatici. Proprio a causa dell’occupazione francese, mentre un’intera epoca del mondo va scomparendo, deve abbandonare la sua casa, con la cui proprietaria e governante (Cristiana Carlotta Burckhardt) ha una relazione amorosa dalla quale è appena nato un figlio (Georg Ludwig). Senza soldi, senza un mestiere sicuro, con un figlio naturale a cui non è in grado di provvedere, Hegel decide di lasciare Cristiana. Nel gennaio 1807 consegna finalmente all’editore l’introduzione della Fenomenologia dello Spirito (che viene pubblicata nell’aprile dello stesso anno) e trova una nuova occupazione a Bamberga, in Baviera, come redattore della gazzetta locale.
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L’insegnamento ginnasiale a Norimberga A causa di un contrasto con la censura, nel 1808 Hegel lascia anche Bamberga e si trasferisce a Norimberga, dove, grazie all’intervento di Niethammer, diventa preside e professore nel ginnasio cittadino. Il 15 settembre 1811 Hegel sposa l’aristocratica Maria von Tucher, dalla quale ha due figli: Karl e Immanuel (1814-1891). Nonostante le difficoltà della vita familiare, Hegel vive un momento intellettualmente produttivo: tra il 1812 e il 1816 escono infatti i tre volumi della Scienza della logica, grazie ai quali ottiene un notevole successo nel mondo accademico. Il 1812 è l’anno della disfatta di Napoleone nella campagna di Russia. Il 6 aprile 1814 Napoleone abdica e si consegna agli inglesi. Hegel vive con delusione e sconcerto questi eventi, che pure aveva previsto sulla base della convinzione che «il romanzo della rivoluzione» avrebbe trovato il proprio compimento non in Francia (cioè nella prassi rivoluzionaria), ma in Germania, «nel pensiero» dell’idealismo. Circondato da amici e colleghi che vorrebbero tornare indietro sul quadrante della storia, “restaurando” il mondo precedente a Napoleone e al 1789, egli spera invece che le riforme introdotte in Germania da Napoleone non siano cancellate ( “Dalla vita al pensiero”).
Hegel, la Rivoluzione francese e Napoleone DALLA VITA AL PENSIERO
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L’esigenza di una riforma morale e politica Il giovane Hegel viene educato secondo l’ideale tedesco della Bildung (“educazione”), un termine complesso con cui ci si riferiva alla cultura illuministica quale strumento per formare una persona “colta”, o “illuminata”, cioè guidata dalla ragione, consapevole, libera (dai pregiudizi e dalle imposizioni delle autorità) e dotata di una raffinata e non esteriore coscienza religiosa: quella propria del luteranesimo. Ed è proprio per inseguire questo ideale luterano e illuministico che Hegel aveva scelto di studiare a Tubinga: voleva diventare “pastore”, vale a dire educatore del popolo, capace di “illuminare” le coscienze. Con l’entusiasmo tipico dei giovani, Hegel spera in un rinnovamento morale e politico della nazione tedesca, in un “nuovo ordine” fondato sull’impegno di uomini colti, che dirigano con sapienza gli affari pubblici, prendendo il posto di una classe aristocratica che si sta dimostrando ignorante, vuota e parassitaria, e liberandosi degli elementi oppressivi dell’ortodossia religiosa. Questo vago ideale di riforma politica, morale e religiosa sembra prendere corpo con la Rivoluzione francese, UnitÀ 8 HEGEL iL RACCOntO Di UnA VitA
che agli occhi di Hegel (come a quelli di molti intellettuali tedeschi del tempo) appare come un evento epocale, che può traghettare non soltanto la Francia, ma anche la Germania dall’ancien régime al mondo “moderno”, fondato sulla fiducia nella ragione e sulla conquista della libertà.
Tra rivoluzione politica e spirituale È proprio a Tubinga, riflettendo sugli eventi francesi, che Hegel comincia a delineare quella che sarà la sua concezione della storia come progressiva conquista della libertà, iniziata con la pólis greca, culminante nella Rivoluzione del 1789 e destinata a compiersi pienamente grazie al ruolo trainante svolto dalla Germania con la rivoluzione filosofica attuata da Kant e dall’idealismo. Innestandosi sulla rivoluzione politica attuata in Francia, la «rivoluzione spirituale tedesca» potrà finalmente guidare l’umanità alla costruzione di una nuova società, in cui i diritti dei popoli non siano più «calpestati nella polvere»: Dal sistema kantiano e dal suo sommo compimento attendo in Germania una rivoluzione che partirà da princìpi già esistenti, i quali, dopo
Il nuovo insegnamento universitario a Heidelberg e Berlino Grazie alla fama raggiunta con la Scienza della logica, nel 1816 Hegel è nominato professore presso l’Università di Heidelberg, dove le sue lezioni registrano inizialmente una scarsa affluenza di studenti. Egli ha tuttavia raggiunto una rassicurante stabilità professionale e familiare, che lo induce, in accordo con la moglie, ad accogliere in famiglia il figlio naturale Georg Ludwig. Nel 1817 esce l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che è la più compiuta esposizione del sistema hegeliano. Nel dicembre dello stesso anno il barone Karl von Stein – incaricato dal governo prussiano di riorganizzare l’istruzione pubblica – offre a Hegel, di cui è ammiratore, la cattedra di filosofia che era stata di Fichte presso l’Università di Berlino. Hegel comincia i suoi corsi il 22 ottobre 1818, con una celebre lezione inaugurale in cui esalta il momento cruciale che la Germania sta vivendo, e il fondamentale ruolo che spetta all’Università berlinese per coltivare il «libero regno del pensiero». Hegel insegnerà a Berlino fino alla morte, ottenendo una popolarità senza precedenti e attirando studenti da tutta Europa. Le sue lezioni sono autentici eventi cittadini, a cui assistono non soltanto studenti, ma anche funzionari di Stato, diplomatici, militari e religiosi di ogni confessione. Nel 1829 diventa anche rettore dell’Università.
una generale rielaborazione, richiedono soltanto di essere applicati a tutto l’attuale sapere. […] Credo che non ci sia miglior segno del tempo di questo: che l’umanità è rappresentata come degna di stima in sé stessa […]. I filosofi dimostrano questa dignità, i popoli impareranno a sentirla e non si accontenteranno più di esigere i loro diritti finora calpestati nella polvere, ma essi stessi li riprenderanno, se ne approprieranno. (Lettere a Schelling del gennaio 1795 e del 16 aprile 1785, in Epistolario, I, cit., p. 111 e pp. 117-118)
Un entusiasmo mai rinnegato Questo giovanile entusiasmo per la Rivoluzione francese non diminuirà neppure dopo l’evoluzione nel Terrore giacobino, né dopo l’epilogo della parabola napoleonica. Negli anni della maturità, Hegel dichiarerà infatti: Da che il sole splende sul firmamento e i pianeti girano intorno ad esso, non si era mai visto che l’uomo si basasse sulla sua testa, cioè sul pensiero, e costruisse la realtà conformemente ad esso. Anassagora era stato il primo
a dire che il Noús [l’Intelligenza] governa il mondo; ma solo ora l’uomo è pervenuto a riconoscere che il pensiero deve governare la realtà spirituale. Questa [la Rivoluzione francese] fu dunque una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno celebrato concordi quest’epoca. Dominò in quel tempo una nobile commozione, il mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito, come se allora fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino con il mondo. (Lezioni sulla filosofia della storia, IV, trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 205)
Nonostante i limiti che essa può aver dimostrato, per Hegel non è più possibile prescindere dalla Rivoluzione francese e dalle sue conquiste, che Napoleone ha cercato di “esportare” in tutta Europa. Si tratta, caso mai, di difenderle dalle contese politiche e dal flusso degli eventi. E la dottrina hegeliana dello Stato vorrà appunto essere l’effettiva, compiuta realizzazione di quella libertà che gli eventi rivoluzionari francesi e l’avventura napoleonica avevano cominciato a costruire.
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Nell’agosto 1831 Berlino è colpita da un’epidemia di colera che costringe la famiglia Hegel a trasferirsi nel sobborgo di Kreuzberg. A ottobre Hegel rientra in città, convinto che il pericolo sia passato. In realtà le sue condizioni di salute peggiorano e, forse proprio a causa del colera, il 14 novembre 1831 muore.
Le opere Gli scritti giovanili Nelle opere composte tra il 1793 e il 1800 – ma pubblicate soltanto all’inizio del XX secolo in una raccolta intitolata Scritti teologici giovanili – Hegel rivela un prevalente interesse religioso-politico, che nelle grandi opere della maturità si trasformerà in un interesse prevalentemente storico-politico. I titoli principali della raccolta sono Religione popolare e cristianesimo, La vita di Gesù, La positività della religione cristiana e Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. A questi scritti si deve aggiungere un primo abbozzo di sistema, composto a Jena nel 1800 e comprendente una Logica e metafisica, una Filosofia della natura e un Sistema della moralità. Al 1801 risale invece il primo scritto filosofico: Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling.
1770
1780
1775
EVENTI STORICI
1787 1789
Inizia la Guerra di indipendenza americana
VITA DI HEGEL
1770
ARTE E LETTERATURA
1793
1788 Intraprende gli studi di filosofia e teologia a Tubinga
1776 Smith: Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni
1774 Goethe: I dolori del giovane Werther
1800
Viene promulgata Scoppia la Luigi XVI e Maria la Costituzione Rivoluzione Antonietta sono degli Stati Uniti francese ghigliottinati d’America
Nasce a Stoccarda
FILOSOFIA E SCIENZA
1790
1793
1799
È precettore a Berna e poi a Francoforte
Muore il padre
1781
1794
Kant: Critica della ragion pura
1800
Fichte: Fondamenti Schelling: Sistema dell’intera dottrina dell’idealismo della scienza trascendentale
1789 1790
1793
1798
A Berlino comincia la Goethe: David: La morte Goya: costruzione della prima di Marat Capricci Porta di Brandeburgo versione del Faust
1791 Mozart: Il flauto magico; Requiem in re minore
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UnitÀ 8 HEGEL iL RACCOntO Di UnA VitA
Le opere della maturità La prima grande opera di Hegel è la Fenomenologia dello spirito (1807), nella cui prefazione (1806) il filosofo dichiara il suo distacco dalla dottrina di Schelling. Durante il suo soggiorno a Norimberga Hegel pubblica invece la Scienza della logica, le cui tre parti appaiono, come si è detto, tra il 1812 e il 1816. Nel 1817, a Heidelberg, dà alle stampe l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Nelle due successive edizioni dell’opera (1827 e 1830) Hegel stesso aumenterà di molto la mole dello scritto. Un’ulteriore edizione in tre volumi (conosciuta con il nome di Grande Enciclopedia) sarà realizzata dagli allievi dopo la morte del maestro, tra il 1840 e il 1845, con l’aggiunta di lunghe annotazioni ricavate dai suoi appunti o dalle sue lezioni.
Gli scritti berlinesi Negli anni trascorsi a Berlino Hegel pubblica quella che per molti aspetti può essere considerata la sua opera più significativa, ovvero i Lineamenti di filosofia del diritto (1821). Dopo la sua morte, gli scolari raccoglieranno, ordineranno e pubblicheranno i suoi corsi universitari, organizzandoli nelle seguenti raccolte: Lezioni sulla filosofia della storia, Estetica, Lezioni sulla filosofia della religione, Lezioni sulla storia della filosofia, a cui si aggiungeranno le Lezioni di filosofia del diritto, pubblicate successivamente.
1800
1810
1820
1804 1806
1821
Napoleone si I francesi sconfiggono auto-incorona i prussiani a Jena imperatore
1801
1830
1807
1830 1832
Muore Napoleone
1812
Si abilita Fenomenologia Scienza all’insegnamento dello spirito della universitario logica a Jena
Moti rivoluzionari Moti liberali a Parigi contro nello Stato Carlo X pontificio
1816
1821
1829-1830
Professore all’Università di Heidelberg
Lineamenti di filosofia del diritto
Rettore dell’Università di Berlino
1837 In Inghilterra sale al trono la regina Vittoria
1831
1817
Muore a Berlino
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
1802-1803
1840
1818
Collabora con Schelling al “Giornale critico della filosofia”
Professore all’Università di Berlino
1818 Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione
1800
1810
Novalis: Inni alla notte
Friedrich: Abbazia nel querceto
1802
1825
1830
Inaugurata la prima linea ferroviaria in Inghilterra
Comte: primo volume del Corso di filosofia positiva
1827 Manzoni: prima edizione dei Promessi sposi
1830 Delacroix: La Libertà che guida il popolo
Foscolo: Le ultime lettere di Jacopo Ortis
1804 Beethoven: “Eroica”
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CAPITOLO 1 LE OPERE GIOVANILI E I FONDAMENTI DEL SISTEMA 1. I temi delle opere giovanili L’importanza degli scritti giovanili di Hegel è stata messa in luce soltanto a partire dal XX secolo, quando se ne è compresa l’imprescindibilità per cogliere pienamente la personalità dell’autore e il percorso di formazione della sua filosofia. In tali scritti l’argomento dominante è teologico, ma è presente anche un netto legame con la politica. Hegel, infatti, approfondisce un tema strettamente connesso con la Rivoluzione francese: il tema della rigenerazione morale e religiosa dell’essere umano come fondamento della rigenerazione politica.
Dal rinnovamento delle coscienze al rinnovamento della società Tra religione Hegel è convinto che non si possa realizzare alcuna autentica rivoluzione politica, se non e politica basandola su una rivoluzione del «cuore», cioè su quella che oggi chiameremmo una
“rivoluzione culturale”, ovvero una rigenerazione della persona nella sua vita interiore e del popolo nella sua cultura. Hegel, del resto, aveva ricevuto un’educazione profondamente ancorata alla teologia del suo tempo, e contemporaneamente aveva letto con passione, in privato, il progetto di rivoluzione culturale e politica delineato dall’Emilio e dal Contratto sociale di Rousseau, nonché Nathan il saggio di Lessing e le opere di Spinoza, tornate in quegli anni al centro del dibattito filosofico. Inoltre si deve tenere presente che nei Paesi tedeschi, che erano stati investiti dal movimento della Riforma protestante, la religione e la politica erano saldamente connesse, poiché le Chiese riformate e i principati tedeschi costituivano un insieme politico-religioso omogeneo.
Tra interiorità Nelle poche pagine di argomento specificamente politico scritte dal giovane Hegel prima ed esteriorità del trasferimento a Jena (i frammenti Sui rapporti interni del Württemberg e sulla Costitu-
zione della Germania, che il filosofo completerà proprio a Jena), l’idea di fondo è che l’aspirazione dei popoli alla libertà e ad una vita migliore debba potersi realizzare grazie ad una riforma che spazzi via il vecchio impianto sociale, fondato sull’immobilità delle classi e sulla supremazia del potere nobiliare. Perché questo accada, è necessario che l’ansia di libertà del popolo, così forte nel mondo interiore degli uomini, produca un nuovo ordine giuridico esteriore, e cioè si incarni in istituzioni sociali nuove, fondate sull’uguaglianza.
enciclosofia Nathan il saggio Celebre dramma scritto dal filosofo e scrittore illuminista Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) e pubblicato nel 1779. L’opera narra gli incontri e le conversazioni tra un ricco mercante ebreo (Nathan), un sultano islamico (Saladino) e un cavaliere templare, lasciando trasparire i temi del relativismo delle credenze religiose e, di conseguenza, della tolleranza e del confronto tra culture.
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UnitÀ 8 HEGEL CApitOLO 1
Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
Hegel è dunque convinto che la rivoluzione nelle istituzioni possa avvenire soltanto come conseguenza esteriore di una maturazione della coscienza del popolo. Nei frammenti più ampi (e in lettere private) Hegel chiarisce in modo più specifico il nes- Una nuova so tra religione e politica. Perché giungano «tempi migliori», occorre una nuova forma di religione religione, che permetta a ciascuno di sentirsi partecipe, con la propria vita interiore, della vita dello spirito divino. Quest’ultimo, infatti, si incarna nella storia non attraverso leggi e precetti morali, ma attraverso la stessa vita degli uomini, e quando i cittadini avranno imparato a vivere la religione come «comunanza dei cuori», ovvero quando ciascuno saprà riconoscere nella vita interiore del proprio prossimo il riflesso dell’unica vita di Dio, soltanto allora potrà nascere un nuovo ed egualitario ordine politico.
L’analisi critica del cristianesimo e dell’ebraismo Nelle due opere intitolate La vita di Gesù e La positività della religione cristiana (composte a Berna tra il 1795 e il 1797) Hegel enuclea alcuni temi-chiave del proprio pensiero successivo, nonché il passaggio da una prospettiva kantiana (espressa nel primo dei due scritti) a una prospettiva “post-kantiana” (presente nel secondo). Sebbene nella Vita di Gesù Hegel mostri di condividere la concezione kantiana della reli- Oltre il dualismo gione come adesione interiore ai princìpi razionali della morale, nella Positività della kantiano tra ragione e natura religione cristiana già si intravede il nucleo della critica hegeliana al kantismo. Nella morale di Kant, intesa come “lotta” tra dovere (razionale) e inclinazione (naturale), Hegel scorge infatti un pericoloso dualismo tra ragione e natura, che finisce per trasformare la morale kantiana dell’intenzione in un legalismo esteriore che opprime e lacera l’essere umano. Da questo punto di vista, Kant appare a Hegel molto vicino alle Chiese cristiane che si sono affermate dopo Gesù: contro di esse Hegel polemizza duramente, accusandole di aver smarrito il senso profondo del messaggio di Cristo. Questi aveva predicato il superamento della vecchia legge (esteriore) espressa nell’Antico Testamento, fatta di rigidi precetti e comandi a cui si doveva sottostare, in favore di una nuova legge dell’amore, della fratellanza e della comunanza dei cuori, alla quale l’uomo è chiamato ad aderire nel profondo del proprio cuore. Le Chiese hanno invece costruito una religione “positiva”, cioè fatta di criteri di verità “oggettivamente” fissati (i dogmi), di leggi morali codificate in maniera rigida e di precetti da osservare indipendentemente dai propri convincimenti interiori. Sommerso da questo carico di istituzioni e comandi “positivi”, il sentimento profondo del divino, che non può essere vissuto se non soggettivamente, è via via scomparso.
La critica alle religioni cristiane “positive”
A Francoforte, tra il 1798 e il 1799, Hegel scrive la più complessa e matura delle sue opere La critica alla giovanili: Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in cui riprende e chiarisce i temi visione ebraica della natura già presenti nella Positività della religione cristiana. Attraverso una riflessione filosofica sulla Bibbia, il testo ripercorre la storia del popolo ebraico, a partire dal diluvio universale fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e alla diàspora. In pagine di grande efficacia, ma estremamente dure nella forma e nel contenuto, Hegel nota come il racconto biblico del diluvio universale sia il simbolo di una profonda “scissione” tra il popolo ebraico e la natura: sentendosi minacciati da quest’ultima, gli Ebrei hanno reagito con la fede nella potenza del loro Dio, ovvero in un atteggiamento di “innaturale” allontanamento da tutto ciò che invece è parte integrante della vita umana. Più precisamente, secondo Hegel gli Ebrei hanno interpretato il diluvio come un tradimento della natura nei confronti dei suoi figli, e hanno quindi finito per concepire Dio come
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un Signore salvifico e trascendente, che interviene su una realtà naturale che gli è non soltanto sottomessa, ma anche “estranea”; essi insomma hanno pensato Dio (che è tutto) come contrapposto all’uomo e alla natura (che senza di Lui sono niente). La critica Riponendo la loro salvezza in questo lontano Dio trascendente, di cui si ritengono il all’isolamento “popolo eletto”, gli Ebrei hanno di fatto scelto di vivere non soltanto in inimicizia con la ebraico
natura, ma anche in ostilità con gli altri uomini. Il Dio degli Ebrei è infatti un Signore geloso, che pretende dal “suo” popolo una dedizione totale e una fedeltà esclusiva, impedendogli pertanto ogni rapporto di amicizia con gli altri popoli. Vi sono stati, in verità, momenti in cui gli Ebrei, con i popoli vicini, «insieme godevano del sole, insieme guardavano la luna e le stelle», ricostruendo cioè un tessuto di serena reciproca fiducia all’interno di una natura pacificata. Ogni volta, però, questo atteggiamento è stato visto come una forma di idolatria e di “tradimento” nei confronti dell’unico vero Dio, e il popolo ebraico è ritornato alla sua antica scelta. Gli Ebrei sono dunque vittime di un «destino» infelice che essi stessi hanno in qualche modo provocato.
Il messaggio di Gesù e lo «spirito di bellezza» dei Greci La “scissione” ebraica rispetto a una natura avvertita come minacciosa, a popoli considerati nemici, e ad un Dio trascendente sentito lontano e irraggiungibile, viene radicalmente messa in discussione dal messaggio di Gesù di Nazareth. La vicinanza Gesù, come si è detto, annuncia agli uomini la nuova legge dell’amore, che invita al sutra messaggio peramento di ogni ostilità in nome della profonda unità che lega tutti gli esseri viventi cristiano e mentalità greca in quanto partecipi di un’unica e medesima vita divina. Da questo punto di vista, la figura
di Gesù è assai vicina al mondo greco, la cui mentalità è diametralmente opposta rispetto a quella ebraica. I Greci, infatti, vivevano il loro rapporto con la natura in totale armonia, coltivando quello che Hegel chiama «spirito di bellezza» e godendo di un sereno accordo con essa: la loro morale rispettava i naturali desideri umani e i loro dèi erano spesso la personificazione delle forze della natura, nella quale l’uomo greco viveva profondamente immerso. Se l’ebraismo rappresenta il momento della scissione, della separazione, e dunque dell’infelicità, la grecità incarna quindi il momento dell’armonia, e dell’armonia non soltanto tra l’uomo e la natura, ma anche tra l’uomo e Dio, e soprattutto tra gli uomini tra loro. La religione greca, infatti, era una religione della città, un fatto pubblico che, in quanto tale, non separava l’individuo dal cittadino, ma anzi era un potente fattore di coesione sociale. L’unità priva di scissioni della civiltà greca desta insomma l’ammirazione del giovane Hegel, il quale in questo periodo è convinto che la perfetta armonia del mondo greco (smarrita dal mondo moderno) costituisca il nucleo e l’essenza dell’eticità.
La “sconfitta” Per quanto il messaggio cristiano originario si riavvicinasse all’ideale dell’armonia e allo del messaggio «spirito di bellezza» del mondo greco, la storia insegna che tanto i Greci quanto Gesù greco e cristiano
sono stati “sconfitti”. Da un lato, l’armonia e l’amicizia tipiche della grecità sono state superate dalle nuove esperienze della civiltà moderna: si pensi alla scissione tra individuo e individuo tipica del liberalismo, in cui ciascuno si comporta come un atomo isolato e teso al proprio utile. Dall’altro lato, Gesù è stato ucciso dal suo stesso popolo, che non ne ha compreso l’annuncio rivoluzionario. E benché sia morto perdonando i propri uccisori, cioè testimoniando la possibilità di un amore senza condizioni, rivolto anche ai propri nemici, le Chiese cristiane ne hanno comunque tradito il messaggio più autentico e profondo.
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Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
Oltre Kant: la nuova religione dell’amore A questo punto risulta forse più chiara la critica di Hegel alla morale kantiana. In un saggio I limiti della intitolato Fede e sapere, pubblicato nel 1802 sul “Giornale critico della filosofia”, Hegel polemiz- morale kantiana za contro la ragione illuministica di Kant, che si fonda su una lacerazione dualistica tra l’uomo e Dio, ovvero tra l’intelletto umano finito e un infinito concepito come «qualcosa d’incomprensibile e inconoscibile». Kant ha certamente il merito di avere “liberato” la religione dai suoi elementi esteriori, riconducendola a una morale interiore e razionale; ma la morale kantiana, a ben vedere, è assimilabile alla religione degli Ebrei: così come quest’ultima è una religione “dell’infelicità”, in cui gli uomini adorano e temono un «Dio straniero», un «oggetto altissimo» a cui aspirano invano, con inquietudine e angoscia, analogamente l’uomo kantiano è lacerato tra una ragione che spera nell’infinito e un infinito che non può essere raggiunto, tra una ragione che impone il dovere e l’inclinazione sensibile che induce al piacere. Si tratta allora di spingersi oltre Kant, recuperando uno «spirito di bellezza» e di armonia La «conciliazione» simile a quello greco, e riaffermando la legge cristiana (originaria) dell’amore universale. La tra il finito e l’infinito nuova religione auspicata da Hegel dovrà dunque superare la scissione kantiana, in una «conciliazione» che potrà avvenire soltanto attraverso il recupero della figura di Gesù, profeta dell’amore quale forza unificante tra uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra dovere razionale e natura sensibile, tra finito e infinito: l’amore va oltre la fredda legge razionale opposta da Kant al sentimento, e rivela una forza “dialettica” capace di conciliare gli opposti. Nella fase matura del suo pensiero Hegel preferirà riporre la propria fiducia nella filosofia, Verso il primato più che nella religione. Egli, infatti, indicherà il compito della filosofia proprio nell’attinge- della filosofia sulla religione re concettualmente quella «conciliazione» tra umano e divino, tra finito e infinito, che negli anni giovanili affida alla religione (per quanto a una religione nuova e matura). La ricerca hegeliana, quindi, muterà profondamente direzione, nella convinzione che la rivoluzione dello spirito dell’uomo e dei popoli non debba nascere dalla religione, ma scaturisca dall’evoluzione storica e dalla ricerca filosofica, la quale sola è capace di pensare scientificamente, cioè secondo la sua intima necessità, il corso del mondo.
)
Per l’esposizione orale
1. Presenta brevemente le principali tematiche degli scritti giovanili di Hegel. 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS La ricostruzione hegeliana della storia della religione e della morale occidentali è imperniata sulle nozioni di finito e infinito, le cui manifestazioni, a partire da un’originaria condizione di unità e armonia, sarebbero poi state indebitamente scisse e distinte dal pensiero umano. Ti pare condivisibile l’idea che il cuore del messaggio religioso e morale debba essere l’annuncio di una possibile “riconciliazione” tra queste due dimensioni? Pensi anche tu che, al di là delle diverse “immagini” attribuitegli dalle varie religioni, Dio non sia che l’infinito, o l’assoluto? Argomenta le tue risposte.
2. I fondamenti del sistema hegeliano Prima di addentrarci nel complesso sistema filosofico costruito da Hegel negli anni della maturità, è indispensabile chiarire i princìpi di fondo del suo idealismo , che si differenzia sia da quello di Fichte sia da quello di Schelling. Tali princìpi sono: glossario p. 725 1. la risoluzione del finito nell’infinito; 2. l’identità tra ragione e realtà; 3. la funzione giustificatrice della filosofia.
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Il rapporto tra finito e infinito L’infinito come L’espressione “risoluzione del finito nell’infinito” allude al fatto che per Hegel la realtà unica realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario, di cui tutto ciò che
esiste è una parte o una manifestazione. Tale organismo, non avendo nulla al di fuori di sé e rappresentando la ragion d’essere di ogni realtà, coincide con l’ Assoluto , ovvero con l’infinito, mentre i vari enti del mondo, che ne sono manifestazioni, coincidono con il finito. Pertanto il finito come tale non esiste, perché ciò che noi chiamiamo “finito” non è altro che un’espressione parziale dell’infinito. Come la parte non può esistere se non in connessione con il tutto, in rapporto al quale soltanto ha vita e senso, così il finito esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito. Detto altrimenti: il finito, in quanto reale, è lo stesso infinito. glossario p. 725
L’infinito come L’hegelismo si configura quindi come una forma di monismo panteistico, cioè come una soggetto e non teoria che vede nel mondo (ossia nel finito) la manifestazione o la realizzazione di Dio (oscome sostanza
sia dell’infinito). A questo punto l’hegelismo potrebbe sembrare una forma di spinozismo. In verità, la differenza tra il sistema di Hegel e quello di Spinoza è notevole. Mentre per Spinoza l’Assoluto è una sostanza statica che coincide con la natura, per Hegel si identifica invece con un soggetto spirituale in divenire, del cui processo di realizzazione tutto ciò che esiste è un “momento”, o una “tappa”. In altre parole, dire che la realtà non è sostanza ma soggetto significa dire, secondo Hegel, che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, bensì un processo di autoproduzione che soltanto alla fine (cioè con l’uomo, o con lo spirito) e con le attività più alte (arte, religione e filosofia) giunge a rivelarsi per quello che è veramente:
‘
Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità. (Fenomenologia dello spirito, “Prefazione”)
IL FINITO E L’INFINITO COINCIDONO
manifestazione in quanto
il finito
è momento necessario
dell’infinito (Assoluto, Dio, spirito)
L’infinito, o Dio, è un soggetto spirituale in divenire, che si realizza progressivamente in tutti i suoi momenti e che soltanto alla fine, cioè nell’uomo, acquista piena coscienza di sé
Il rapporto tra ragione e realtà Il reale come Il secondo principio fondamentale del sistema hegeliano – ovvero l’identità tra ragione e razionale realtà, o tra pensiero ed essere – è immediatamente suggerito dal fatto che il soggetto spi-
rituale infinito che sta alla base di tutto ciò che esiste viene denominato da Hegel Idea , o ragione . glossario p. 725 Tuttavia, Hegel esprime il secondo principio del suo sistema anche esplicitamente, mediante un celebre aforisma che è contenuto nella prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, e che riassume il senso stesso dell’hegelismo: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale».
L’analisi Con la prima parte dell’aforisma («ciò che è razionale è reale»), Hegel intende dire che la dell’aforisma razionalità non è pura idealità, astrazione, schema, dover essere, ma è la forma di ciò che
esiste, poiché la ragione “governa” il mondo e lo costituisce.
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Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
Con la seconda parte, Hegel intende invece affermare che la realtà non è una materia caotica, ma il dispiegarsi di una struttura razionale (l’Idea, o la ragione), che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo consapevole negli esseri umani. Con l’aforisma nella sua interezza, Hegel non esprime pertanto la semplice possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, bensì la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e razionalità. In questo modo la sua dottrina si configura come una forma di panlogismo . glossario p. 725 L’identità tra reale e razionale implica anche l’identità tra essere e dover essere, in quanto L’identità ciò che è risulta anche ciò che razionalmente deve essere. Tant’è vero che le opere di He- tra essere e dover essere gel sono costellate di osservazioni ironiche a proposito del concetto del dover essere che non è, ovvero dell’ideale che non è reale. Per Hegel il mondo, in quanto è – e così com’è –, è razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale che si manifesta e si sviluppa attraverso una serie di momenti necessari, i quali non possono essere diversi da come sono. Da qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, troviamo ovunque una rete di connessioni necessarie e di passaggi obbligati che costituiscono l’articolazione vivente di un’unica Idea o ragione. In altri termini: secondo uno schema tipico della filosofia romantica, Hegel ritiene che la realtà costituisca una totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi”, o “momenti”, ciascuno dei quali rappresenta il risultato di quelli precedenti e il presupposto di quelli successivi.
L’IDEA O LA RAGIONE (OVVERO LO SPIRITO)
è
identità totale, processuale e necessaria
ragione e realtà (= la ragione non è un’astrazione, ma la forma della realtà, la quale è sviluppo necessario dell’Idea) tra essere e dover essere (= ciò che esiste è ciò che razionalmente deve essere)
La funzione della filosofia In coerenza con l’orizzonte teorico fin qui delineato – che si fonda sulle categorie di totalità e di necessità – Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel prendere atto della realtà e nel comprendere le strutture razionali che la costituiscono: «Comprendere ciò che è è il compito della filosofia, poiché ciò che è è la ragione». In effetti, la filosofia non può dire e chiarire se non «ciò che è», constatando qualcosa di già La filosofia compiuto, perché a dire come il mondo dev’essere, essa arriva sempre troppo tardi, ovvero come «nòttola di Minerva» quando un’epoca storica sta ormai volgendo al termine e cedendo il passo a un’altra. La filosofia – afferma Hegel con un paragone famoso – è come la nòttola di Minerva, la quale «inizia il suo volo sul far del crepuscolo» (Lineamenti di filosofia del diritto, “Prefazione”), cioè (fuor di metafora) quando la realtà è già bell’e fatta. Per questo il sapere filosofico non può fare altro che «mantenersi in pace con la realtà», e rinunciare alla pretesa assurda di determinarla o guidarla. Esso deve soltanto portare nella forma del pensiero, cioè elaborare in concetti, il contenuto reale che l’esperienza le offre, dimostrandone l’intrinseca razionalità. enciclosofia nòttola di Minerva La «nòttola» (cioè la civetta, dal latino noctua, che a sua volta deriva dal sostantivo nox, noctis, “notte”) è un rapace notturno che diverse tradizioni popolari considerano presagio di sfortuna e di morte. Nell’antica Grecia era l’animale sacro ad Atena, dea della sapienza.
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La giustificazione Questi chiarimenti delineano il tratto fondamentale della filosofia e della personalità di razionale della Hegel. L’autentico compito che Hegel intende attribuire alla filosofia (e che cerca di realizrealtà storica
zare con la propria filosofia) è la giustificazione razionale della realtà, della presenzialità, del fatto. E questo compito è stato da lui affrontato con maggiore energia proprio laddove esso sembrava più rischioso, cioè nei confronti della realtà storica e politica:
‘
Su diritto, eticità, Stato la verità è altrettanto antica, quanto apertamente esposta e nota nelle pubbliche leggi, nella pubblica morale e religione. Di che cosa abbisogna ulteriormente questa verità, in quanto lo spirito pensante non è pago di possederla così a portata di mano, se non anche di comprenderla, e di conquistare al contenuto già in sé stesso razionale anche la forma razionale, (Lineamenti di filosofia del diritto) affinché esso appaia giustificato per il pensiero libero?
)
Per l’esposizione orale
1. Quale relazione sussiste, per Hegel, tra finito e infinito? 2. Precisa il significato dell’affermazione hegeliana «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». 3. Spiega qual è, secondo Hegel, il compito della filosofia.
3. I momenti dell’Assoluto e la divisione del sapere I tre momenti Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso i tre momenti dell’Idea «in dell’Assoluto sé e per sé» (tesi), dell’Idea «fuori di sé» (antitesi) e dell’Idea che «ritorna in sé» (sintesi):
1. l’ Idea in sé e per sé, o Idea pura , è l’Idea, o la ragione, considerata in sé stessa, cioè a prescindere dalla sua concreta realizzazione nel mondo. Da questo angolo prospettico, secondo un noto paragone teologico proposto dallo stesso Hegel, l’Idea è assimilabile a Dio «prima della creazione della natura e di uno spirito finito», ovvero, in termini meno equivocanti (visto che l’Assoluto hegeliano è un infinito immanente, che non crea il mondo, ma è il mondo), essa è assimilabile al “programma” (in senso informatico) o all’ossatura logico-razionale della realtà; glossario p. 726 2. l’ Idea fuori di sé , o Idea «nel suo esser altro», è la natura, che Hegel concepisce come l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea pura nelle realtà spazio-temporali del mondo; glossario p. 726
3. l’ Idea che ritorna in sé è invece lo spirito, cioè l’Idea che, dopo essersi fatta natura, torna «presso di sé» (bei sich) nell’essere umano.
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glossario p. 726
TESI
ANTITESI
L’Idea in sé e per sé: l’Idea in sé stessa, a prescindere dalla sua realizzazione nella natura e nello spirito
L’Idea fuori di sé: l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali (= la natura)
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SINTESI L’Idea che ritorna in sé: l’Idea che, dopo essersi fatta natura, acquista coscienza di sé nell’essere umano (= lo spirito)
Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
Ovviamente questi tre momenti non devono essere intesi in senso cronologico (come se prima ci fosse l’Idea in sé e per sé, poi la natura e infine lo spirito), ma in senso ideale. Infatti ciò che concretamente esiste nella realtà è lo spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il “programma” logico rappresentato dall’Idea pura (la tesi). A questi tre momenti strutturali dell’Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in cui I tre ambiti del sapere si divide il sapere filosofico: 1. la logica, che è «la scienza dell’Idea in sé e per sé» (Enciclopedia, par. 18), cioè dell’Idea considerata nel suo essere implicito (= in sé ) e nel suo graduale esplicarsi (= per sé ), a prescindere, però, dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito; glossario p. 726
2. la filosofia della natura, che è «la scienza dell’Idea nel suo alienarsi da sé» (ibidem); 3. la filosofia dello spirito, che è «la scienza dell’Idea che dal suo alienamento ritorna in sé» (ibidem).
IL SAPERE FILOSOFICO comprende
l’essere la logica = studia l’Idea in sé e per sé
cioè
l’essenza il concetto la meccanica
la filosofia della natura = studia l’Idea fuori di sé
cioè
la fisica inorganica la fisica organica antropologia lo spirito soggettivo
fenomenologia psicologia
la filosofia dello spirito = studia l’Idea che ritorna in sé
diritto cioè
lo spirito oggettivo
moralità eticità arte
lo spirito assoluto
religione filosofia
4. La legge del pensiero e della realtà: la dialettica Come si è visto, l’Assoluto per Hegel è fondamentalmente “divenire”. La legge che regola tale divenire è la dialettica , che costituisce al tempo stesso la legge (ontologica) che regola lo sviluppo della realtà e la legge (logica) che scandisce la comprensione della realtà. glossario p. 726
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Della dialettica, Hegel non ha offerto una teoria sistematica, poiché si è perlopiù limitato a utilizzarla nei vari settori della filosofia. Ciò non esclude che sia possibile fissarne qualche tratto generale. I tre momenti Nel paragrafo 79 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio Hegel distingue tre del pensiero momenti o aspetti del pensiero:
1. il momento astratto o intellettuale; 2. il momento dialettico o negativo-razionale; 3. il momento speculativo o positivo-razionale.
Il momento Il momento astratto o intellettuale consiste nel concepire l’esistente sotto forma di una molastratto o teplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In altri termini, il momenintellettuale
to intellettuale è quello in cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerarle nelle loro differenze reciproche e secondo i princìpi di identità e di non-contraddizione (per i quali ogni cosa è uguale a sé stessa e diversa dalle altre).
Il momento Il momento dialettico o negativo-razionale consiste nel mostrare come le determinazioni dialettico del momento astratto siano unilaterali ed esigano di essere messe “in movimento”, o negativorazionale ovvero di essere poste in relazione con altre determinazioni. Vediamo in che senso.
Ogni determinazione sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è bisogna implicitamente chiarire ciò che essa non è (già Spinoza aveva sentenziato che «omnis determinatio est negatio»). Nel momento dialettico è quindi necessario procedere oltre i princìpi di identità e non-contraddizione, e mettere le varie determinazioni in rapporto con le determinazioni opposte. Ad esempio, il concetto di “uno”, non appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti”, con il quale manifesta uno stretto legame. Lo stesso vale per ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale il disuguale, il bene il male ecc.
Il momento Il terzo momento, quello speculativo o positivo-razionale, consiste invece nel cogliere speculativo l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali determinazioni o positivorazionale sono aspetti unilaterali di una realtà più alta, che li ri-comprende o li sintetizza entrambi
(si scopre, ad esempio, che la realtà autentica non è né l’unità in astratto, né la molteplicità in astratto, bensì un’unità che vive attraverso la molteplicità).
Le modalità Dalla distinzione appena esposta dei tre momenti del pensiero si può ricavare la concezioconoscitive ne hegeliana delle modalità fondamentali del nostro pensiero.
1. L’ intelletto è un modo di pensare “statico”, che “immobilizza” gli enti considerandoli
soltanto nella loro reciproca esclusione. glossario p. 726 2. La ragione è invece un modo di pensare “dinamico”, capace di cogliere la concreta mobilità del reale dietro la fissità imposta dalle determinazioni intellettuali. glossario p. 726 A sua volta, come abbiamo visto, la ragione può essere «dialettica» o «speculativa»: la prima nega le determinazioni astratte dell’intelletto, mettendole in relazione con le determinazioni opposte; la seconda coglie l’unità, o la sintesi, degli opposti. Nella prospettiva hegeliana, pertanto, se l’intelletto è l’«organo» del finito, la ragione è l’«organo» dell’infinito, cioè lo strumento mediante il quale il finito (il parziale e l’astratto) viene risolto nell’infinito. Tuttavia, come nota Guido De Ruggiero, «intelletto, ragione negativa e ragione positiva sono distinzioni che non vanno intese come facoltà mentali diverse. Si tratta, in fondo, [sempre] della stessa ragione, [ma considerata] in differenti fasi o funzioni. L’intelletto non è che la ragione che, dimenticando il suo compito più alto, s’irrigidisce nelle distinzioni».
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Tesi, Globalmente e sinteticamente considerata, la dialettica consiste quindi: e 1. nell’affermazione (o «posizione») di un concetto astratto e de-terminato, che funge da antitesi sintesi tesi; 2. nella negazione di questo concetto come limitato o finito, e nel passaggio a un concetto opposto, che funge da antitesi; 3. nell’unificazione dell’affermazione e della negazione in una sintesi comprensiva di entrambe.
A ben vedere, la sintesi si configura dunque come una ri-affermazione potenziata Il «superamento» dell’affermazione iniziale (tesi), ottenuta mediante la negazione della negazione in- dialettico termedia (antitesi). Per indicare tale “ri-affermazione”, Hegel utilizza il termine tecnico Aufhebung , che esprime l’idea di un “superamento” (tale è il suo significato letterale) che è un togliere e un conservare insieme: togliere l’opposizione tra tesi e antitesi, e conservare la verità della tesi e dell’antitesi, nonché della loro lotta. glossario p. 726 Con la nozione di Aufhebung, Hegel allude insomma a un progresso che accoglie in sé quello che c’è di vero nei momenti della tesi e dell’antitesi, e lo porta alla sua migliore e più alta espressione. In questo senso la dialettica non comprende soltanto il secondo momento (quello negativo-razionale, che Hegel chiama «dialettico» in senso stretto), ma corriESERCIZI sponde alla totalità dei tre momenti elencati.
TESI affermazione
ANTITESI SINTESI
negazione
ri-affermazione (negazione della negazione; riaffermazione potenziata del positivo mediante la negazione del negativo) o Aufhebung (superamento che abolisce e nello stesso tempo conserva la tesi, l’antitesi e la loro lotta)
Il procedere dialettico del pensiero non fa che illustrare il principio fondamentale della La dialettica filosofia hegeliana: la risoluzione del finito nell’infinito. La dialettica, infatti, ci mo- come “crisi del finito” stra come ogni finito, cioè ogni “spicchio” di realtà, non possa esistere in sé stesso (poiché in tal caso sarebbe un assoluto, ovvero un infinito autosufficiente), ma soltanto in un complesso contesto di rapporti.
)
Per l’esposizione orale
1. In riferimento alla filosofia di Hegel, definisci le seguenti espressioni: Idea in sé e per sé, Idea fuori di sé, Idea che ritorna in sé, logica, filosofia della natura, filosofia dello spirito; quindi utilizzale per illustrare il processo dinamico dell’Assoluto e la partizione hegeliana del sapere. 2. Spiega in che cosa consiste la “dialettica” per Hegel e di quali momenti si compone. 3. Che cosa significa Aufhebung e perché Hegel sceglie questo termine per designare la sintesi dialettica? 4. Chiarisci quale differenza intercorre, secondo Hegel, tra ragione e intelletto.
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5. La critica hegeliana alle filosofie precedenti Dopo aver esposto “in positivo” i capisaldi dell’hegelismo, è venuto il momento di illustrarli “in negativo”, ossia di vedere, storicamente, a quali filosofie la riflessione di Hegel si contrapponga.
Hegel e gli illuministi Una diversa Innanzitutto, l’hegelismo implica (come risulta soprattutto dai Lineamenti di filosofia del diritconcezione to e dalle Lezioni sulla filosofia della storia) un oggettivo rifiuto del modo illuministico di della storia
rapportarsi al mondo e alla storia. Gli illuministi, infatti, facendo della ragione il “giudice” della storia, ritenevano che il reale non fosse razionale, dimenticando così che la vera ragione (lo spirito) è proprio quella che prende corpo nella storia, e che abita in tutti i suoi momenti.
Una diversa La ragione degli illuministi, per Hegel, esprime soltanto le esigenze e le aspirazioni concezione degli individui. Essa è quindi una ragione finita e parziale, ovvero un «intelletto astratto» della ragione
che pretende di dare lezioni alla realtà e alla storia stabilendo come dovrebbero essere, mentre la realtà è sempre necessariamente ciò che deve essere:
‘
La separazione della realtà dall’Idea è cara specialmente all’intelletto, che tiene [considera] i sogni delle sue astrazioni come qualcosa di verace, ed è tutto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri: quasi che il mondo avesse aspettato quei dettami per apprendere come dev’essere e non è; che, se poi fosse come dev’essere, dove se ne andrebbe la saccenteria di quel dover essere? (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 6)
Hegel e Kant La critica L’avversione di Hegel per l’Illuminismo si accompagna alla sua tenace opposizione a Kant. al dualismo Questi aveva voluto costruire una filosofia del finito, della quale faceva parte integrante tra realtà e ragione l’antitesi tra l’essere e il dover essere, ovvero tra la realtà e la ragione:
in campo gnoseologico, le idee della ragione erano per Kant meri ideali, idee “regolative” che spingevano la ricerca scientifica all’infinito, verso una compiutezza e una sistemazione irraggiungibili; in campo morale, analogamente, la «santità» (la perfetta adesione del volere alla legge morale) era il termine inattingibile di un infinito processo di adeguamento della volontà alle leggi della ragione. In sostanza, in Kant l’essere (la realtà) non si adeguava mai al dover essere (alla razionalità), mentre per Hegel questo adeguamento è non soltanto possibile, ma necessario.
La critica A Kant, Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà e i limiti del conoall’“astrattezza” scere prima di procedere concretamente a conoscere, ovvero a priori e in astratto. Egli askantiana
simila questa pretesa all’assurdo «proposito di quel tale Scolastico, d’imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua» (Enciclopedia, par. 10).
Hegel e i romantici Hegel critica severamente anche le posizioni degli intellettuali romantici, dei quali nel periodo francofortese (1797-1800) aveva subito l’influenza, soprattutto grazie alla stretta amicizia con Hölderlin.
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UnitÀ 8 HEGEL CApitOLO 1
Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
Schematizzando, si può dire che il dissenso di Hegel nei confronti dei romantici verte Le critiche di Hegel essenzialmente su due punti: ai romantici 1. in primo luogo, Hegel contesta il primato del sentimento, dell’arte e della fede, sostenendo che l’Assoluto non può che essere oggetto della filosofia, ovvero di una forma di sapere razionale e mediato dai concetti; 2. in secondo luogo, Hegel contesta gli atteggiamenti individualistici di alcuni romantici, affermando che l’intellettuale non deve narcisisticamente ripiegarsi sul proprio io o invocare le «leggi del cuore», ma deve osservare con attenzione l’oggettivo «corso del mondo», cercando di integrarsi nelle istituzioni socio-politiche del proprio tempo. In realtà Hegel, pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, risulta profondamente partecipe del clima culturale del Romanticismo, del quale condivide non soltanto numerosi motivi particolari (la creatività dello spirito, lo sviluppo provvidenziale della storia, la spiritualità incosciente della natura ecc.), ma anche e soprattutto il tema dell’infinito, per quanto (come si è visto) ritenga che a esso si acceda speculativamente, e non attraverso vie “immediate” o “intuitive”. Rigorosamente parlando, la filosofia di Hegel non costituisce quindi un “superamento” del Romanticismo, ma soltanto il diverso esito di una certa direzione di sviluppo della cultura romantica.
La partecipazione di Hegel al clima culturale romantico
Hegel e Fichte I rilievi che Hegel muove a Fichte sono fondamentalmente due. In primo luogo, nel saggio La critica Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801), Hegel accusa Fichte di al dualismo fichteano proporre una visione non autenticamente soggettivistica, incapace cioè di assimilare adeguatamente l’oggetto al soggetto. Fichte, cioè, avrebbe in un certo senso violato il dogma idealistico “tutto è spirito”, o “tutto è soggetto”, considerando l’oggetto (la natura) come un semplice ostacolo “esterno” all’Io, con il rischio di ricadere in un nuovo dualismo di tipo kantiano tra spirito e natura, e tra libertà e necessità. In secondo luogo, Hegel accusa Fichte di aver ridotto l’infinito a semplice meta ideale La critica al dell’io finito, costringendo quest’ultimo, per adeguarsi all’infinito e ricongiungersi con es- «cattivo infinito» so, a lanciarsi in un progresso che non può mai raggiungere il proprio termine. A questo progresso all’infinito Hegel si riferisce come a un falso o «cattivo infinito», ovvero come a un infinito negativo, che non supera veramente il finito perché lo fa continuamente risorgere, e che esprime soltanto l’esigenza astratta del suo superamento. Dal punto di vista di Hegel, la filosofia di Fichte è quindi ancora incapace di attingere quella VIDEO piena coincidenza tra finito e infinito, razionale e reale, essere e dover essere, che costitui- Le diverse forme sce la sostanza dell’idealismo. dell’idealismo
Hegel e Schelling Alle critiche hegeliane non si sottrae neppure il pensiero di Schelling, al quale Hegel rim- La critica provera di aver concepito l’Assoluto in modo a-dialettico, cioè come un’unità indifferen- alla nozione di Assoluto ziata e statica da cui la molteplicità e la differenziazione delle cose derivano in modo inspiegabile. Nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, nella nozione schellinghiana dell’Assoluto come identità indifferenziata, Hegel ravvisa un «abisso vuoto» in cui si perdono tutte le determinazioni concrete della realtà, tanto che si può paragonare un tale Assoluto a una nera notte «nella quale – come suol dirsi – tutte le vacche sono nere».
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In altri termini, per Hegel l’Assoluto di Schelling è un’unità astratta che, essendo priva di vita, risulta incapace di rendere ragione della dinamicità e della molteplicità della realtà concreta.
CONCETTI A CONFRONTO
L’ASSOLUTO in SCHELLING
)
Per l’esposizione orale
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in HEGEL
è Dio, principio creatore della realtà
è Dio, principio immanente della realtà
è infinito e in esso coincidono tutti gli opposti
è infinito e in esso si risolve ogni realtà finita
è identità di soggetto e oggetto, spirito e natura, libertà e necessità, idealità e realtà
è soggetto che produce sé stesso come oggetto e poi ritorna in sé
1. Per quali motivi Hegel critica la ragione illuministica e la filosofia del finito di Kant? 2. Esponi la polemica hegeliana contro il «cattivo infinito» di Fichte. 3. Presenta la critica di Hegel alla concezione schellinghiana dell’Assoluto.
UnitÀ 8 HEGEL CApitOLO 1
Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 1 LE OPERE GIOVANILI E I FONDAMENTI DEL SISTEMA
I fondamenti del sistema hegeliano La risoluzione del finito nell’infinito Nelle opere della maturità, e in particolare nella Fenomenologia dello spirito e nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Hegel specifica i tratti fondamentali del proprio
• idealismo
nell’accezione hegeliana, la teoria dell’idealità del finito, ossia la convinzione che il finito non sia un «vero essere», ma si risolva nell’infinito.
Più precisamente, Hegel identifica l’intera realtà con
• l’Assoluto
lo spirito, la ragione (v.), l’Idea (v.), cioè Dio, idealisticamente e panteisticamente inteso come realtà infinita, immanente nel mondo, che si-famediante-il-finito.
I temi delle opere giovanili Gli scritti giovanili di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) sono imperniati sul motivo della rigenerazione morale e religiosa come fondamento di una possibile rinascita politica. Ricostruendo la storia del cristianesimo, Hegel osserva che l’ebraismo ha operato una profonda scissione tra l’essere umano e la natura, e tra il «popolo eletto» e gli altri popoli, incrinando l’armonia e lo «spirito di bellezza» che permeavano invece il mondo greco e la sua religiosità. Predicando la legge dell’amore universale e incondizionato, Gesù di Nazareth ha cercato di superare le scissioni e le divisioni introdotte dall’ebraismo, ma il suo annuncio è stato tradito dalle religioni positive, che hanno sostituito ai convincimenti interiori della fede autentica una serie di dogmi da accettare passivamente e di precetti ai quali adeguare il comportamento esteriore. La vera religione è distante, secondo Hegel, anche dalla morale kantiana: da una parte, Kant ha il merito di aver ricondotto la religione a una morale razionale e dell’intenzione, dall’altra parte ha mantenuto il dualismo insanabile tra le inclinazioni naturali degli esseri umani e la legge razionale del dovere, che di fatto è un ideale irraggiungibile. A tutte queste manifestazioni di dualismo e separazione, il giovane Hegel contrappone l’esigenza di una nuova forma di religione improntata alla «conciliazione» degli uomini tra loro, degli uomini con la natura, e degli uomini con la divinità: in sostanza, una riunificazione di finito e infinito.
L’Assoluto è dunque l’infinito, ossia una totalità autosufficiente in cui ogni realtà finita si risolve. Ed è un soggetto spirituale che si auto-produce, ovvero non una sostanza statica (quale era l’Assoluto di Spinoza), ma una realtà in divenire. Su queste basi, il finito è visto da Hegel come un momento necessario dell’infinito, che infatti si realizza attraverso una serie di tappe progressive e necessarie, raggiungendo la piena coscienza di sé come spirito soltanto alla fine del percorso. La filosofia di Hegel si configura pertanto come una forma di panteismo idealistico e dinamico.
L’identità tra realtà e ragione Un secondo fondamentale tratto dell’idealismo hegeliano è l’identità di realtà e razionalità, che Hegel suggerisce fin dalla scelta dei termini con cui denomina la realtà:
• Idea
(in tedesco Idee) in generale, l’Assoluto, concepito come ragione (v.) in atto, ovvero come unità dialettica di pensiero ed essere, concetto e cosa, ragione e realtà, soggetto e oggetto, infinito e finito;
• ragione
(in tedesco Vernunft) la realtà in quanto Idea (v.), ossia in quanto unità dinamica di pensiero ed essere.
Su queste basi si può sostenere che l’hegelismo si configura come una forma di
• panlogismo
(dal greco pan, “tutto”, e lógos, “ragione”) termine coniato dal filosofo tedesco Johann Eduard Erdmann (1805-1892) per indicare la dottrina hegeliana dell’identità tra reale e razionale, riassunta nel celebre aforisma «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (Lineamenti della filosofia del diritto, “Prefazione”). Tale aforisma afferma, da una parte, che la razionalità non è pura idealità, né uno “schema” del reale, né il suo “dover essere”, ma la sostanza stessa di tutto ciò che esiste («ciò che è razionale è reale»),
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e, dall’altra parte, che la realtà non è una materia caotica, ma coincide con il dispiegarsi di una struttura razionale («ciò che è reale è razionale»).
La funzione della filosofia Il terzo carattere essenziale dell’idealismo di Hegel è legato al ruolo da lui attribuito alla filosofia, la quale non può fare altro che prendere atto della realtà e comprenderne le strutture razionali e necessarie che ne regolano il dispiegarsi. Per questa sua convinzione, Hegel è considerato fondamentalmente giustificazionista, poiché di fronte alla realtà e alla storia assume un atteggiamento di sostanziale accettazione, sulla base dell’idea della razionalità e necessità del mondo.
I tre momenti dell’Assoluto e del pensiero Hegel ritiene che l’Assoluto, o l’Idea, si manifesti e si sviluppi passando attraverso tre momenti:
• Idea in sé e per sé, o Idea pura
l’«Idea» (Idee) in senso stretto, cioè l’Assoluto considerato in sé stesso, ovvero a prescindere dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito. L’Idea pura è l’oggetto specifico della logica e si identifica con l’ossatura logicorazionale della realtà;
• Idea fuori di sé
la «natura» (Natur), ossia l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea pura nelle realtà spazio-temporali: Hegel parla dell’Idea «nella forma dell’esser altro» (Enciclopedia, par. 247). L’Idea fuori di sé è oggetto della filosofia della natura;
• Idea che ritorna in sé
lo «spirito» (Geist), ovvero l’Idea che, dopo essersi alienata nella natura, «ritorna in sé» nell’essere umano. L’Idea ritornata in sé è l’oggetto della filosofia dello spirito. Si noti che Hegel attribuisce un particolare significato alle espressioni:
• in sé
(in tedesco an sich) tutto ciò che è astratto, immediato, implicito, possibile, privo di sviluppo e di relazioni, inconsapevole;
• per sé
(in tedesco für sich) tutto ciò che è concreto, mediato, esplicito, attuale, effettuale, relazionato, consapevole.
Poiché l’Assoluto è «quel che è in verità» «soltanto alla fine» del suo percorso, Hegel vede nello spirito (cioè nell’Idea che «ritorna in sé») lo scopo e il senso ultimo della realtà. Alla struttura triadica dello sviluppo dell’Assoluto, o dello spirito, corrisponde la struttura triadica dello
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UnitÀ 8 HEGEL CApitOLO 1
sviluppo del pensiero, a cui comunemente si dà il nome
• dialettica
in Platone, la scienza delle idee che procede secondo il metodo dicotomico; in Aristotele, il procedimento dimostrativo che parte da premesse probabili, cioè generalmente ammesse ma non necessariamente vere; negli stoici e negli studiosi medievali, la logica; in Kant, l’arte di costruire ragionamenti capziosi, basati su premesse che sembrano probabili, ma che in realtà non lo sono; in Fichte, «la sintesi degli opposti per mezzo della determinazione reciproca». In Hegel la dialettica è nello stesso tempo la legge (ontologica) di sviluppo e la legge (logica) di comprensione della realtà. Essa si articola: 1. nell’affermazione di un concetto «astratto e limitato» che funge da tesi; 2. nella negazione di tale concetto e nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi; 3. nell’unificazione dell’affermazione e della negazione in una sintesi superiore e comprensiva di entrambi i momenti precedenti.
Il terzo momento dialettico è chiamato da Hegel
• Aufhebung
(letteralmente “superamento”) il momento sintetico della dialettica, che abolisce e nello stesso tempo conserva ciascuno dei momenti precedenti, pervenendo a una ri-affermazione potenziata dell’affermazione iniziale, ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia.
I tre momenti dialettici (tesi, antitesi e sintesi) sono definiti da Hegel, rispettivamente, «astratto o intellettuale», «dialettico o negativo-razionale», «speculativo o positivo-razionale», secondo le seguenti definizioni dell’«intelletto» e della «ragione»:
• intelletto
un modo di pensare «statico» e «astratto» che, attenendosi ai princìpi di identità e di non-contraddizione, fissa gli enti nelle loro determinazioni rigide, considerandoli come reciprocamente escludentisi;
• ragione
un modo di pensare che, fluidificando la fissità e la rigidezza delle determinazioni intellettuali, riesce a cogliere la concretezza vivente del reale.
Alla ragione così intesa (cioè alla ragione contrapposta all’intelletto) si devono quindi il secondo e il terzo momento della triade dialettica: quello «negativo-razionale», che consiste appunto nel negare le determinazioni astratte operate dall’intelletto e nel metterle in rapporto con le determinazioni opposte; e quello «positivo-razionale», che consiste nel cogliere l’unità delle opposte determinazioni intellettuali e il positivo che emerge dalla loro composizione sintetica. La ragione speculativa è quindi l’«organo» capace di cogliere (e compiere) la risoluzione del finito nell’infinito.
Le opere giovanili e i fondamenti del sistema
MAPPE
CAPITOLO 1 LE OPERE GIOVANILI E I FONDAMENTI DEL SISTEMA
GLI SCRITTI GIOVANILI DI HEGEL vertono sulla
rigenerazione morale e religiosa dell’essere umano che deve essere il fondamento di
che deve realizzarsi attraverso
una possibile rigenerazione politica
l’unione e la conciliazione tra
gli uomini
gli uomini e Dio
gli uomini e la natura
LE TESI DI FONDO DEL SISTEMA HEGELIANO sono
la risoluzione del finito nell’infinito
l’identità tra ragione e realtà
la funzione giustificatrice della filosofia
che si compie poiché
che si realizza attraverso
la quale
l’infinito (o Dio, o l’Assoluto) è un soggetto spirituale in divenire che si realizza progressivamente in tutti i suoi momenti finiti
un processo triadico: tesi (l’Idea in sé e per sé) antitesi (l’Idea fuori di sé) sintesi (l’Idea che ritorna in sé)
prende atto della realtà e ne descrive la struttura razionale
scandito dalla
dialettica: legge ontologica di sviluppo della realtà legge logica di comprensione della realtà
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CAPITOLO 2 LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
1. I caratteri generali della fenomenologia hegeliana Le due Nelle opere di Hegel, il principio della risoluzione del finito nell’infinito, o dell’identità prospettive di reale e razionale, viene illustrato in due modi diversi, corrispondenti a due differenti dell’analisi di Hegel prospettive:
1. da un lato Hegel considera la lunga vicenda storica della coscienza umana che, par-
tendo dall’alba della civiltà greca, arriva con la modernità alla consapevolezza di tale risoluzione o identità. Questa vicenda storica altro non è che il “viaggio” percorso dallo spirito attraverso la coscienza umana per giungere a comprendere sé stesso quale Assoluto; 2. dall’altro lato Hegel analizza il principio della risoluzione del finito nell’infinito quale appare in atto in tutte le determinazioni fondamentali della realtà. Questa seconda prospettiva è di tipo sincronico (dal greco sýn, “con”, e krónos, “tempo”), perché prende in esame l’eterna coesistenza nella realtà dei tre “momenti” dell’Idea in sé e per sé (il lógos), dell’Idea fuori di sé (la natura) e dell’Idea che ritorna in sé (lo spirito). Essa è offerta da Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), dove si delinea il cosiddetto “sistema dell’Assoluto” attraverso le tre discipline che se ne occupano: la scienza della logica, la filosofia della natura e la filosofia dello spirito. La prima prospettiva è invece di tipo diacronico (dal greco diá, “attraverso”, e krónos, “tempo”), poiché dà luogo a un’analisi di tipo storico-cronologico, e trova espressione nella Fenomenologia dello spirito (1807). Il significato In generale, il termine fenomenologia (dal greco phainómenon, “fenomeno”, e lógos, del termine “discorso”) indica la descrizione o la scienza di ciò che appare (secondo il significato del “fenomenologia”
verbo greco pháinomai, “appaio”). Ma poiché nel sistema hegeliano l’intera realtà è spirito, la fenomenologia è la dottrina che descrive l’apparire dello spirito a sé stesso, ovvero il suo pervenire alla consapevolezza di essere tutta la realtà, cioè l’Assoluto quale identità di reale e razionale, finito e infinito. glossario p. 739
Un viaggio È evidente che la descrizione diacronica della via percorsa dallo spirito infinito per giundescritto gere a riconoscere la propria infinità nelle manifestazioni finite della realtà fa anch’essa attraverso «figure» tipiche parte della realtà. Per questo motivo Hegel presenta tale ricostruzione due volte, ovvero
sia nella Fenomenologia dello spirito sia nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, dove essa compare come parte del sistema dell’Assoluto, e precisamente come parte della filosofia dello spirito.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
Questa scelta può ingenerare confusione, la quale tuttavia può essere subito eliminata se si tiene presente l’intento esplicito della Fenomenologia, che è quello di narrare le vicende dello spirito, inteso come principio infinito, nelle sue prime apparizioni, o nei suoi primi barlumi. Nella Fenomenologia Hegel descrive dunque il progressivo affermarsi e “conoscersi” dello spirito, e lo fa attraverso una serie di figure , cioè di tappe ideali che nel corso della storia hanno trovato un’esemplificazione tipica, e che esprimono i settori più disparati della vita umana: dalla conoscenza alla società, dalla religione alla politica ecc.). Le «figure» hegeliane possono quindi essere considerate come momenti della progressiva conquista della verità da parte dell’essere umano. glossario p. 739 Sulla base di quanto detto fin qui, si comprende in che senso la fenomenologia sia una sor- Un “romanzo” ta di storia romanzata della coscienza, la quale, attraverso erramenti, contrasti, scissioni della coscienza e, quindi, infelicità e dolore, esce dalla sua individualità, raggiunge l’universalità e si riconosce come ragione che è realtà e realtà che è ragione. Da questo punto di vista, l’intero ciclo della fenomenologia si può trovare riassunto in una delle sue figure, che non per nulla è diventata la più popolare: quella della «coscienza infelice» (di cui parleremo nelle prossime pagine), ovvero della coscienza che non sa di essere tutta la realtà, e si ritrova pertanto dilaniata internamente da differenze, opposizioni e conflitti ai quali può sottrarsi soltanto arrivando alla coscienza di essere tutto. E si comprende a questo punto anche lo scopo introduttivo e pedagogico attribuito da La funzione introduttiva Hegel alla fenomenologia dello spirito:
e pedagogica svolta dalla Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, anche secondo fenomenologia il contenuto, ma come figure dello spirito già deposte, come gradi di una via già tracciata e spianata. Similmente noi, osservando come nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età teneva all’erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e perfino giochi da ragazzi, riconosceremo nel progresso pedagogico, quasi in proiezione, la storia della civiltà. (Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. 1, pp. 22-23)
‘
In altri termini, poiché non c’è modo di elevarsi alla filosofia come scienza se non mostrandone il divenire, la fenomenologia, come divenire della filosofia, prepara e introduce il singolo alla filosofia, aiutandolo a riconoscersi e a risolversi nello spirito universale. La Fenomenologia dello spirito si divide in due parti: 1. una prima parte comprendente i tre momenti della coscienza (tesi), dell’autocoscienza (antitesi) e della ragione (sintesi); 2. una seconda parte comprendente le tre sezioni dedicate allo spirito (tesi), alla religione (antitesi) e al sapere assoluto (sintesi).
Le tappe della fenomenologia e l’articolazione dell’opera
2. La coscienza Nelle prossime pagine ripercorreremo le tappe salienti della prima parte della Fenomenologia, vedendo come nella fase della coscienza predomini l’attenzione verso l’oggetto; nella fase dell’autocoscienza l’attenzione verso il soggetto; e nella fase della ragione si arrivi a riconoscere l’unità profonda di soggetto e oggetto, di io e mondo, di interno ed esterno, giungendo in tal modo a sintetizzare i momenti della coscienza e dell’autocoscienza.
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La prima tappa della fenomenologia dello spirito è dunque la coscienza, intesa come ciò che si rapporta a un oggetto, ovvero a qualcosa di percepito come “esterno” e “altro” da sé. La coscienza si articola a sua volta nei tre momenti della «certezza sensibile», della «percezione» e dell’«intelletto». La certezza A una prima considerazione, la «certezza sensibile» (cioè la conoscenza che deriva dalla sensibile testimonianza diretta dei sensi) appare come la forma di conoscenza più ricca e più sicura;
in realtà è la più povera, poiché rende certi soltanto di una cosa singola, ovvero, ad esempio, di questo albero o di questa casa in quanto presenti qui e ora davanti a me, e non, come potrebbe sembrare, dell’albero o della casa in quanto tali. Pertanto, quella che a prima vista può sembrare una forma di conoscenza completa e attendibile è, in realtà, la forma di conoscenza più astratta e indeterminata. Svelando i limiti di questo primo grado di esperienza conoscitiva, Hegel intende criticare tutte le forme di sapere immediato. La certezza sensibile, infatti, non può pensare o dire il proprio oggetto, perché pensandolo o nominandolo dovrebbe introdurre una mediazione (è un albero e non è una casa); essa si limita invece a sentirlo nella sua unicità e immediatezza irrelata e, dunque, ineffabile. E, proprio in quanto pretende di risolversi interamente nell’oggetto, di essere pura «ostensione» della cosa (dal verbo latino ostendo, “mostro”), prima di ogni giudizio e di ogni pensiero che la determinino, la certezza sensibile attinge un generico “questo”: la pretesa di massima determinatezza e concretezza trapassa così nell’indeterminatezza, nell’universale più astratto, in un nulla di determinato. Da questo punto di vista, l’analisi della certezza sensibile riproduce l’inizio della logica hegeliana ( cap. 3, p. 747), in cui l’essere in quanto assolutamente indeterminato si scopre identico al nulla. Dunque la certezza sensibile si nega, si confuta da sé, trapassa in altro, poiché proprio nella sua immediatezza si profila la dualità o la mediazione tra ciò che è in sé e ciò che è per la coscienza: il “questo”, infatti, non dipende dalla cosa, ma dall’io che la considera, dal momento che ciò che “qui e ora” e “per me” è una certa cosa, in un altro luogo, in un altro momento e per un altro soggetto potrebbe essere un’altra cosa. Per questo la certezza sensibile si rivela alla fine come una forma elementare di relazione dialettica tra soggetto senziente e oggetto sentito.
La percezione Il passaggio dal sapere immediato della certezza sensibile al sapere mediato si realizza con
la «percezione», la quale esplicita quella distinzione tra soggetto che percepisce e oggetto percepito che era implicitamente presente nella certezza sensibile. Nella percezione il generico “questo”, che si cercava di afferrare con i sensi, diventa la “cosa”, percepita dall’io come sostrato o sostanza a cui ineriscono diverse proprietà. Rifacendosi all’analisi critica dell’idea di sostanza sviluppata dall’empirismo, Hegel afferma che gli oggetti non sono che insiemi di proprietà “unificate” o “collezionate” dalla coscienza. E nella molteplicità delle sue qualità (bianco, cubico, sapido ecc.), l’oggetto non può essere percepito come uno, se l’io non riconosce che l’unità dell’oggetto è da lui stesso stabilita. In tal modo l’oggetto si risolve interamente nel soggetto. La coscienza dell’oggetto è coscienza di sé quale centro unificatore dei dati dell’esperienza. Dalla percezione si passa così all’intelletto.
L’intelletto L’«intelletto», per Hegel, consiste infatti nella capacità di cogliere gli oggetti non come
tali, ovvero non in base alle qualità sensibili che sembrano costituirli, ma come “fenomeni”, cioè come risultati di una «forza» che agisce sul soggetto secondo una legge determinata. Accogliendo la lezione kantiana, Hegel ritiene che l’essenza vera dell’oggetto, che è ultrasensibile, non si possa cogliere mediante l’intelletto. Pertanto, poiché il fenomeno è
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
soltanto nella coscienza, e poiché ciò che è al di là del fenomeno o è un nulla o è qualcosa per la coscienza, la coscienza risolve a questo punto l’intero oggetto in sé stessa, diventando coscienza di sé, o autocoscienza.
)
Per l’esposizione orale
1. Indica le due diverse prospettive attraverso le quali Hegel affronta il problema della risoluzione del finito nell’infinito. 2. Spiega il significato hegeliano del termine “fenomenologia”. 3. In che cosa consistono le diverse «figure» della Fenomenologia dello spirito? 4. Esponi sinteticamente le tre figure della certezza sensibile, della percezione e dell’intelletto.
3. L’autocoscienza Abbiamo detto che, con l’autocoscienza, l’attenzione si sposta dall’oggetto al soggetto, ovvero all’attività dell’io, considerato nei suoi rapporti non soltanto con le cose, ma anche con gli altri. Nella sezione dedicata all’autocoscienza, pertanto, l’analisi di Hegel non si muove più in un ambito astrattamente ed esclusivamente gnoseologico, ma concerne settori più vasti, come la società, la storia della filosofia e la religione. L’attività dell’io, o dell’autocoscienza, si esprime innanzitutto come «appetito», cioè come de- Dall’«appetito» siderio di appropriarsi degli oggetti esterni (ad esempio cibandosi). Tuttavia, questo desiderio al bisogno di riconoscimento di “assimilazione” dell’oggetto al soggetto si rivela ben presto insufficiente e illusorio, perché l’autocoscienza, per avere la certezza di essere tale, necessita non tanto di oggetti, quanto di altre autocoscienze. In altri termini, secondo Hegel l’essere umano è autocoscienza (cioè un essere libero e pensante) soltanto nella misura in cui riesce a farsi riconoscere come tale da un’altra autocoscienza. Per questo non può limitarsi a cercare negli oggetti sensibili l’appagamento dei propri desideri e appetiti, ma ha costitutivamente bisogno degli altri uomini:
‘
L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza. (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 151)
La figura del “servo-signore” Il riconoscimento tra autocoscienze non può dunque avvenire se non attraverso un momento di lotta e di sfida, che Hegel analizza elaborando una delle figure più celebri di tutta la Fenomenologia: quella del “servo-signore”. Rapportandosi agli altri, l’io segue il proprio desiderio di affermazione, e in tal modo si L’asservimento di trova coinvolto in un vero e proprio conflitto, nel quale ogni autocoscienza è pronta a tut- un’autocoscienza all’altra to, anche a rischiare la vita. Il conflitto per affermare la propria indipendenza, tuttavia, non si conclude con la morte delle autocoscienze contendenti (poiché in tal caso verrebbe meno la possibilità del riconoscimento), ma con la subordinazione dell’una all’altra, ovvero nel rapporto servo-signore. Il signore, o il padrone, è colui che, pur di affermare la propria indipendenza, ha messo valorosamente a repentaglio la propria vita fino alla vittoria, mentre il servo, o lo schiavo, è colui che, a un certo punto, pur di avere salva la vita, ha preferito rinunciare alla propria indipendenza e ha scelto la schiavitù. Con una penetrante analisi, Hegel osserva però che la dinamica del rapporto servo-signore L’inversione (che corrisponde storicamente alle grandi civiltà del mondo antico, basate sulla schiavitù) dialettica dei ruoli è destinata – dialetticamente – a mettere capo a una paradossale inversione di ruoli, ossia
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a una situazione in cui il signore diviene servo del servo, e il servo signore del signore. Infatti il signore, che inizialmente si è imposto con la forza affermando la propria indipendenza, successivamente, nella misura in cui si limita a godere passivamente del lavoro dei servi, finisce per dipendere da loro. Invece il servo, che inizialmente si è trovato a dipendere dal signore, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, finisce per rendersi indipendente da lui: ( T1 p. 741)
‘ ‘
come la signoria mostrava che la propria essenza è l’inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere [cioè si mostrava dipendente], così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò ch’essa è immediatamente […] e si volgerà nell’indipendenza vera. (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 161)
Il valore Con il lavoro, inoltre, il servo imprime alle cose una forma, dando luogo a un’opera che performativo mane e che ha una propria indipendenza e autonomia rispetto al soggetto che la produce. del lavoro
L’opera prodotta rappresenta così il riflesso nelle cose della raggiunta indipendenza e autonomia del servo rispetto agli oggetti. In altre parole, formando le cose, il servo forma sé stesso, nel senso che ritrova sé stesso nella propria opera, giungendo così a intuirsi come essere indipendente. Detto nei termini (non facili) di Hegel:
OFFICINA CITTADINANZA Valore del lavoro p. 130
Il lavoro […] è un appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane; e ciò perché proprio [rispetto] a chi lavora l’oggetto ha indipendenza. Tale medio negativo o l’operare formativo costituiscono in pari tempo la singolarità o il puro esserper-sé della coscienza che ora, nel lavoro, esce fuori di sé nell’elemento del permanere; così, quindi, la coscienza che lavora giunge all’intuizione dell’essere indipendente come di sé stessa. (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, pp. 162-163)
Lo stoicismo e lo scetticismo L’astratta Il raggiungimento dell’indipendenza dell’io (del servo) nei confronti delle cose trova la sua libertà manifestazione filosofica nello stoicismo, ovvero in una visione del mondo che celebra degli stoici
l’autosufficienza e la libertà del saggio nei confronti di ciò che lo circonda. Ma nello stoicismo l’autocoscienza, che pretende di svincolarsi dai condizionamenti della realtà (passioni, affetti, ricchezze ecc.), ritenendo di essere libera trovandosi sia «sul trono» sia «in catene», raggiunge soltanto un’astratta libertà interiore, poiché la realtà esterna non è affatto negata, e i suoi condizionamenti permangono.
Il mondo La pretesa di mettere completamente “tra parentesi” quel mondo esterno da cui lo stoico “tra parentesi” si sente indipendente (e che tuttavia lascia sussistere) appartiene invece allo scetticismo, degli scettici
ossia a una visione del mondo che sospende l’assenso su tutto ciò che è comunemente ritenuto vero e reale. Hegel dice in questo senso che lo scetticismo è «per sé», ossia in modo consapevole, ciò che lo stoicismo è «in sé», ossia in modo inconsapevole, esattamente come lo stoicismo è «per sé» ciò che la servitù è «in sé».
La contradditto- Tuttavia, in virtù del suo esasperato atteggiamento negativo verso l’alterità, lo scetticirietà e la smo dà luogo a una situazione contraddittoria e insostenibile, che si manifesta nella scissioconflittualità dello scetticismo ne tra una coscienza che vorrebbe innalzarsi al di sopra degli aspetti accidentali e non au-
tentici della vita, mentre di fatto dipende proprio da quegli aspetti inessenziali e non veri:
‘
[la coscienza scettica] profferisce l’assoluto dileguare; ma il profferire è; […] profferisce la nullità del vedere, dell’udire ecc., ed è proprio lei che vede, ode ecc.; profferisce la nullità delle essenze etiche, e ne fa le potenze del suo agire. Il suo operare e le sue parole si contraddicono (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 173) sempre.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
Contro lo scetticismo, Hegel si rifà quindi all’argomento tradizionale secondo cui lo scettico si auto-contraddice, perché da un lato dichiara che tutto è vano e non-vero, mentre dall’altro pretende di dire qualcosa di reale e di vero. Un paradosso che è tanto più grave se si pensa che la coscienza di cui parla lo scettico è una coscienza singola, che non può fare a meno di entrare in urto con altre coscienze singole:
‘
In effetti il suo chiacchierare è un litigio da ragazzi testardi, dei quali l’uno dice A quando l’altro dice B, per dir B quando l’altro dice A; e così ciascuno, restando in contraddizione con sé stesso, si paga la soddisfazione di restare in contraddizione con gli altri. (ibidem)
La figura della coscienza infelice Attraversata dalla contraddizione tra la negazione della verità e l’affermazione di una verità (quella che, appunto, afferma che non c’è niente di vero), la coscienza scettica trapassa nella figura hegeliana che forse ha avuto più fortuna: quella della coscienza infelice , nella quale alcuni critici hanno visto la chiave di volta dell’intera Fenomenologia dello spirito. glossario p. 739 Nella figura della coscienza infelice, la contraddizione tipica dello scetticismo diviene L’infelicità esplicita (o «per sé»), assumendo la forma di una separazione radicale tra l’essere umano degli scettici e Dio. ( T2 p. 743) Per capire questo passaggio bisogna tener presente che lo scetticismo a cui Hegel si riferisce è anche quello religioso di Pascal o del libro biblico dell’Ecclesiaste, secondo cui «tutto è vanità». Lo scettico che non crede in nulla e che nichilisticamente nega consistenza a questa vita è in realtà intimamente religioso, perché sulla nullità della creatura basa la credenza nell’infinità di Dio. Ora, questa opposizione tra uomo e Dio, tra finito e infinito, corrisponde alla “collocazione” della verità, della consistenza e del senso in un “oltre” inattingibile, e pertanto produce nella coscienza una lacerazione che genera infelicità. La separazione tra uomo e Dio che caratterizza la coscienza infelice si manifesta in primo Il Dio-padrone luogo sotto forma di antitesi tra l’«intrasmutabile» (il divino, o l’infinito) e il «trasmutabile» dell’ebraismo (l’umano, o il finito). Questa è la situazione propria dell’ebraismo, nel quale l’essenza – cioè l’Assoluto, la realtà vera – è sentita come lontana dalla coscienza individuale, e assume le sembianze di un Dio trascendente, padrone assoluto della vita e della morte, ovvero di un Signore inaccessibile di fronte a cui l’essere umano si trova in uno stato di totale dipendenza. Per certi versi, la coscienza infelice ebraica rappresenta la traduzione in chiave religiosa della situazione sociale espressa dal rapporto servo-signore. Successivamente, l’intrasmutabile assume la figura di un Dio incarnato. È questa la si- Il Dio lontano cristianesimo tuazione propria del cristianesimo medievale, il quale, anziché considerare Dio come un del medievale padre o come un giudice lontano, lo presenta sotto forma di una realtà “effettuale” (Gesù). La pretesa di cogliere l’Assoluto in una “presenza” particolare e sensibile è però destinata al fallimento: un fallimento che Hegel esemplifica emblematicamente con le crociate, nelle quali l’inquieta ricerca di Dio si conclude con la scoperta di un sepolcro vuoto. Di fronte alla coscienza, Gesù continua a rimanere qualcosa di diverso e di separato. Tanto più che egli, in quanto incarnazione di un Dio trascendente, esprime pur sempre «il momento dell’al di là» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 178), e in quanto Dio incarnato, cioè vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur sempre lontano per i posteri: «accade necessariamente ch’esso sia dileguato nel tempo e nello spazio, e che sia stato lungi e senz’altro lungi rimanga» (ibidem).
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Con il cristianesimo, la coscienza continua quindi a essere «infelice», e Dio continua a configurarsi come un «irraggiungibile al di là che sfugge», anzi, che è «già sfuggito nell’atto in cui si tenta d’afferrarlo» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 180). Le pratiche del Manifestazioni dell’infelicità cristiano-medievale sono le sotto-figure della devozione, cristianesimo dell’operare e della mortificazione di sé. medievale
VIDEO Le figure dell’auto coscienza
La «devozione» è quel pensiero a sfondo sentimentale e religioso che non si è ancora elevato al concetto, ovvero alla coscienza speculativa dell’unità tra finito e infinito. Come scrive Hegel (con una sorta di prosa poetica volta a ricreare un’atmosfera medievale dalle tinte romantiche), il pensare della devozione «resta un vago brusio di campane o una calda nebulosità, un pensare musicale che non arriva al concetto». L’«operare» della coscienza pia è il momento in cui la coscienza, rinunciando a un contatto immediato o mistico con Dio, si esprime orientandosi verso il mondo e non più verso Dio, traendo dal lavoro il proprio godimento (il riferimento è forse all’ora et labora del monachesimo benedettino). Tuttavia, anche in questo caso la coscienza non può fare a meno di avvertire che il frutto del proprio lavoro è anch’esso un dono di Dio. Anzi, essa avverte come dono di Dio anche le proprie forze e le proprie capacità, che le sembrano concesse dall’alto «affinché ne faccia uso». In tal modo essa si umilia ulteriormente, riconoscendo che, in ultima analisi, ad agire è sempre e soltanto Dio. La vicenda della coscienza cristiano-medievale prosegue e si esaspera con la «mortificazione di sé», in cui si ha la più completa negazione dell’io in favore della divinità. Hegel si riferisce all’ascetismo e alle sue pratiche di umiliazione della carne, che sono sintomo di una personalità tanto misera quanto infelice e «limitata a sé e al suo fare meschino», ovvero a una personalità «che non riesce se non a covare sé stessa» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 186).
Dalla coscienza Il punto più basso toccato dal singolo – che cerca una possibilità di contatto tra sé e l’imalla ragione mutabile nel ruolo mediatore della Chiesa – è destinato a trapassare dialetticamente nel
punto più alto allorquando la coscienza, nel suo vano sforzo di riunirsi a Dio, si rende conto di essere lei stessa Dio, ovvero l’universale, o il soggetto assoluto. È il passaggio dall’autocoscienza alla ragione, che Hegel, dal punto di vista storico, non colloca nel Medioevo, ma nel Rinascimento e nell’età moderna.
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Per l’esposizione orale
1. Riassumi la figura del servo-signore, soffermandoti sull’inversione dialettica dei ruoli e sulla funzione del lavoro. 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Rifletti sull’analisi hegeliana della condizione del «signore»: pensi anche tu che la presunta indipendenza e libertà da alcuni tipi di attività (ad esempio il lavoro manuale) possa alla fine trasformarsi in una dipendenza da chi svolge proprio quelle attività? Supporta le tue considerazioni, possibilmente, con esempi concreti. 3. Spiega in che cosa consiste la libertà astratta dello stoicismo. 4. Qual è, per Hegel, la contraddizione profonda dello scetticismo? 5. Esponi la figura della «coscienza infelice». SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura italiana
La figura hegeliana della coscienza infelice si impernia sulla scissione tra l’essere umano e l’Assoluto, o Dio, ovvero tra il senso della vita terrena e un presunto e inconoscibile senso della realtà nel suo complesso. Analizza il sonetto di Foscolo Che stai? già il secol l’orma ultima lascia, in cui l’autore traccia una sorta di bilancio della propria esistenza: al di là della prospettiva laica che caratterizza l’opera foscoliana, quali analogie rilevi tra l’infelicità descritta nel componimento e quella della coscienza di Hegel? Quali sono le scissioni dell’anima di Foscolo, e a che cosa si rivolge la sua ricerca di senso?
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4. La ragione Superando la condizione di «coscienza infelice», l’autocoscienza diventa dunque ragione, assumendo in sé ogni realtà. Mentre nei momenti precedenti la realtà del mondo le appariva come qualcosa di estraneo e di opposto (le appariva, cioè, come la negazione di sé), ora invece può sopportarla, perché sa che nessuna realtà è qualcosa di diverso da sé stessa. In questo senso la ragione è definita da Hegel come la «certezza di essere ogni realtà» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 190).
La ragione osservativa Per diventare verità, la certezza della ragione di essere tutta la realtà deve però trovare una Le tappe giustificazione; e il primo passo in tale direzione è costituito da un «inquieto cercare», dell’osservazione della natura che inizialmente si rivolge al mondo della natura come se fosse “altro” da sé. È questa la fase del naturalismo rinascimentale e dell’empirismo, in cui la coscienza crede di cercare l’essenza delle cose, mentre non cerca che sé stessa. L’osservazione della natura parte dalla semplice descrizione dei fenomeni, si approfondisce con la ricerca delle loro leggi e con il metodo sperimentale, si trasferisce poi nel dominio del mondo organico, per passare infine all’ambito della coscienza con la psicologia. Hegel esamina a questo proposito due sedicenti scienze dei suoi tempi: la fisiognomica di Johann Lavater (1741-1801), che pretendeva di determinare il carattere di una persona attraverso i tratti della sua fisionomia, e la frenologia di Franz Gall (1758-1828), che riteneva di poter risalire alla personalità di un individuo dalla forma del suo cranio. Nelle ricerche naturalistiche e scientifiche (o presunte tali) la ragione, pur cercando appa- Dall’osservazione rentemente altre cose, cerca in realtà sé stessa, ovvero cerca di riconoscersi nella realtà all’azione oggettiva che le sta davanti. Ma, in questa esasperata ricerca di sé in qualcosa di “esterno”, arriva al punto di proclamare che «l’essere dello spirito è un osso» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 287), sperimentando così la propria crisi, e riconoscendosi di nuovo come qualcosa di distinto dal mondo. In questo momento critico si colloca il passaggio dialettico dalla ragione osservativa alla ragione attiva, ossia a una ragione la quale comprende che l’unità dell’io con il mondo non è qualcosa di dato, che ci si possa limitare a osservare o contemplare, ma qualcosa che deve essere realizzato.
La ragione attiva La ragione attiva è definita da Hegel come «l’attuazione dell’autocoscienza razionale mediante sé stessa»; in questa fase «non più la coscienza si vuole immediatamente trovare, ma anzi vuol produrre sé stessa mediante la sua attività» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 289). Tuttavia tale progetto, finché assume la forma di uno sforzo individuale, cioè di un’iniziativa che scaturisce dalla singola coscienza, è destinato anch’esso a fallire, come testimoniano le tre figure della ragione attiva che ora analizzeremo. La prima figura, che Hegel denomina «il piacere e la necessità», è quella in cui l’indivi- Tra ricerca duo, faustianamente deluso dalla scienza e dall’indagine naturalistica, si “getta” nella vita del piacere e destino e va alla ricerca del proprio godimento:
‘
Le ombre della scienza, delle leggi, dei princìpi […] scompaiono come inerte nebbia […]. L’autocoscienza prende la vita a quel modo che vien colto un frutto maturo, verso il quale si stende la mano proprio mentr’esso par che si offra. (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 302)
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Nella ricerca del piacere l’autocoscienza incontra però la necessità del destino, che, incurante delle sue personali esigenze di felicità, la travolge inesorabilmente. «Egli prendeva la vita, ma con ciò afferrava piuttosto la morte», scrive Hegel (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 305), evidenziando il limite e la finitudine dell’individuo. La lotta per L’autocoscienza cerca allora di opporsi al corso ostile del mondo appellandosi ai sentimeni propri ideali ti e ai moti del proprio animo (e qui Hegel allude probabilmente al filone sentimentalistico
che va da Rousseau ai romantici). Nasce in questo modo la seconda figura della ragione attiva, che Hegel denomina «la legge del cuore e il delirio della presunzione», nella quale l’individuo lotta per quelli che avverte come ideali irrinunciabili, cercando di identificare e di abbattere i responsabili dei mali nel mondo («preti fanatici, despoti corrotti»). Così facendo, tuttavia, egli entra in conflitto con gli altri individui, convinti anch’essi di essere portatori del solo vero progetto di miglioramento della realtà:
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La coscienza che propone la legge del suo cuore, avverte dunque resistenza da parte di altri, perché essa contraddice alle leggi altrettanto singole del cuore loro. (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 315)
Il tentativo di Ai vari fanatismi di parte, la ragione contrappone allora la virtù, ossia un agire in grado di pro“moralizzare” cedere oltre l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Nasce in tal moil mondo
do la terza figura della ragione attiva, che Hegel denomina «la virtù e il corso del mondo». Ma il contrasto tra la virtù (che è il bene astrattamente vagheggiato dall’individuo nella sua speranza di «reinvertire l’invertito corso del mondo») e la realtà concreta non può che concludersi con la sconfitta del «cavaliere della virtù» e dei suoi donchisciotteschi propositi di moralizzazione dell’esistente. Come esempio di tale sconfitta, Hegel cita Robespierre e il periodo del Terrore, condividendo in ciò la critica di Burke e dei romantici, che vedevano nel fallimento della Rivoluzione francese espresso nel Terrore il fallimento della stessa ragione illuministica e dei suoi ideali astratti e a-storici. La critica hegeliana alla prospettiva illuministica, del resto, risulta perfettamente comprensibile se si ricorda che per Hegel la ragione non è “esterna” alla realtà, non è il suo “dover essere”, né il “giudice” della storia, ma è la realtà stessa.
L’individualità in sé e per sé Alle sezioni della ragione osservativa e della ragione attiva Hegel fa seguire una terza sezione che denomina «l’individualità che è a sé stessa reale in sé stessa e per sé stessa». In questa sezione egli mostrerà come l’individualità giunga gradualmente alla propria realizzazione, ma, proprio in quanto individualità, rimanga astratta e inadeguata. Il presunto La prima figura della sezione è quella che Hegel denomina «il regno animale dello spidovere rito e l’inganno, o la cosa stessa». Con questa formula egli intende dire che agli sforzi e assoluto dei propri compiti alle ambizioni universalistiche della virtù subentra l’atteggiamento di un’onesta dedizio-
ne ai propri compiti particolari (familiari, professionali ecc.). Ma alla base di questo «regno animale» dello spirito – «animale» perché la vita dello spirito viene completamente risolta nella cura dei propri compiti o affari – si cela un «inganno», poiché l’individuo tende a spacciare la propria opera come «la cosa stessa», cioè come il dovere morale in assoluto, mentre essa esprime soltanto il proprio interesse.
La presunta La seconda figura è quella della «ragione legislatrice». Infatti l’autocoscienza, avvertendo universalità l’inganno di cui è vittima e autrice al tempo stesso, cerca in sé stessa delle leggi che valdelle proprie leggi morali gano per tutti.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
Queste leggi universali, tuttavia, in virtù della loro origine individuale, si rivelano autocontraddittorie. Ad esempio, la massima secondo cui «ognuno ha il dovere di dire la verità» non tiene presente il fatto che la verità, per l’individuo, si traduce nella «cognizione e persuasione ch’egli a volta a volta ne ha» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 350), in modo tale che «l’universalmente necessario, il valevole in sé, che la proposizione voleva esprimere, si è piuttosto invertito in una completa accidentalità» (ibidem). Tali contraddizioni spingono l’autocoscienza a farsi «ragione esaminatrice delle leggi», L’esame cioè a cercare di formulare delle leggi morali che siano valide assolutamente, e non soltan- razionale delle leggi morali to in relazione a sé stessa. Tuttavia, nella misura in cui sottomette (razionalisticamente e illuministicamente) le leggi al proprio esame, la ragione è costretta a porsi al di sopra delle leggi, e quindi a ridurne l’intrinseca validità e incondizionatezza:
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Se chiedo del loro nascimento e le limito al punto della loro origine, io son già oltre di loro; ché io sono ormai l’universale, ma esse il condizionato e limitato. Se debbono legittimarsi al mio sguardo, io ho già smosso il loro incrollabile esser-per-sé e le considero come qualcosa che per me forse è vero, forse non vero. (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 360)
Con le figure che abbiamo analizzato fino ad ora, Hegel intende farci capire che, se ci si pone dal punto di vista dell’individuo, si è inevitabilmente condannati a non raggiungere mai l’universalità. Quest’ultima si trova soltanto nella fase dello spirito (che sarà il primo momento della seconda parte della Fenomenologia), ovvero di ciò che Hegel, a partire dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, chiamerà «spirito oggettivo» ed «eticità», intendendo indicare con queste espressioni la ragione che si realizza concretamente nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e, soprattutto, nello Stato: glossario p. 739
‘
La necessità di passare dall’individuo allo «spirito»
l’intelligente ed essenziale far del bene è […] l’intelligente, universale operare dello Stato – operare al cui paragone l’operare del singolo come singolo diviene qualcosa di così meschino (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 352) che non vale quasi la pena di parlarne.
Hegel è talmente convinto di ciò, da ritenere che anche le leggi etiche che appaiono più condivisibili e universali (come “dire la verità”, o “amare il prossimo”) risultano pure astrazioni, se manca lo Stato a determinarne il contenuto. In altri termini, per Hegel la vera ragione, la ragione “reale”, non è quella individuale, ma quella dello spirito, o dello Stato, che sono “sostanza” proprio nel significato etimologico del termine (sub-stantia), ovvero «sostrato che regge e rende possibile ogni atto della vita individuale» (Gianni Vattimo). E proclamare (come fa Hegel) che noi siamo sempre «dentro la sostanza etica» (Fenomenologia dello spirito, cit., vol. 1, p. 361) equivale a sostenere che l’individuo risulta fondato dalla realtà storico-sociale, e non viceversa. Se per Spinoza l’individuo finito doveva essere compreso dentro la sostanza naturale, per Hegel ciò che “sta sotto” e “sostiene” gli individui è l’insieme delle istituzioni sociali, le quali appunto “sostanziano” la loro vita. Considerato di per sé, l’individuo è sempre soltanto un’astrazione, cioè qualcosa che “estraiamo” e “isoliamo” da una totalità. E questa totalità è il contesto concreto in cui ogni essere umano vive, realizzando (cioè “rendendo reali”) le proprie aspirazioni interiori. La «sostanza etica» è certamente qualcosa di dato, che “sta lì” (ciascuno di noi si trova “gettato” in un mondo che lo precede), ma che, a differenza della natura (di cui non possiamo cambiare le leggi), possiamo sentire nostro, in quanto è stato prodotto dall’umanità che ci ha preceduto.
La «sostanza etica» come fondamento dell’individuo
ESERCIZI
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I NODI Questo significa che per Hegel essere uomini vuol dire riconoscersi nella realtà spiriDEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 798
tuale a cui si appartiene (lo «spirito del popolo»), e proprio questo riconoscimento costituisce l’approdo del percorso fenomenologico. Con la nozione di “spirito” siamo già passati alla seconda parte della Fenomenologia, le cui sezioni (lo spirito, la religione, il sapere assoluto) anticipano contenuti che Hegel tratterà in modo approfondito nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio ( cap. 3). A questo punto, è utile offrire un quadro delle figure esaminate finora. LA PRIMA PARTE DELLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
analizza
certezza sensibile la coscienza (tesi)
percezione intelletto
l’autocoscienza (antitesi)
indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza (signoria e servitù)
liberazione
ragione osservativa
la ragione (sintesi)
)
Per l’esposizione orale
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paura della morte servizio lavoro stoicismo scetticismo coscienza infelice (ebraismo, cristianesimo medievale) osservazione della natura osservazione dell’autocoscienza nel suo rapporto con l’effettualità esterna (leggi logiche e psicologiche) osservazione dell’autocoscienza nel suo rapporto con l’effettualità immediata (fisiognomica e frenologia)
ragione attiva
il piacere e la necessità la legge del cuore e il delirio della presunzione la virtù e il corso del mondo
individualità in sé e per sé
il regno animale dello spirito la ragione legislatrice la ragione esaminatrice delle leggi
1. Che cosa analizza Hegel nella sezione della Fenomenologia dello spirito dedicata alla ragione osservativa? 2. Spiega che cos’è per Hegel la ragione attiva e illustra le figure nelle quali si manifesta. 3. Chiarisci che cosa intende Hegel con l’espressione «individualità in sé e per sé» e illustra le figure nelle quali si manifesta.
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
La fenomenologia La Fenomenologia dello spirito (1807) è una sorta di storia romanzata in cui Hegel descrive il percorso compiuto dalla coscienza umana per giungere a riconoscersi come coscienza infinita e universale, ovvero come «spirito» (v.), secondo il seguente significato di
• fenomenologia
letteralmente, la disciplina che studia il “fenomeno”, ovvero “ciò che appare” (dal verbo greco pháinomai, “appaio”). Il termine denota in Hegel il progressivo apparire o manifestarsi dello spirito (che è tutta la realtà) a sé stesso.
La «fenomenologia dello spirito» coincide con il «divenire della scienza o del sapere» e si configura come la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre i gradi di formazione dello spirito universale, quali tappe di una via già tracciata. L’affermazione progressiva dello spirito è descritta nella Fenomenologia attraverso una serie di
• figure
descrizioni di momenti emblematici (né totalmente ideali, né totalmente storici) in cui Hegel individua le tappe fondamentali della vita dello spirito.
Coscienza, autocoscienza e ragione La prima parte della Fenomenologia dello spirito comprende i momenti della coscienza, dell’autocoscienza e della ragione. 1. Nella sezione dedicata alla coscienza è analizzata la conoscenza degli oggetti: lo spirito muove dalla figura della certezza sensibile, passa al momento della percezione e approda all’intelletto, riconoscendo la fenomenicità della conoscenza, ovvero della risoluzione degli oggetti nella soggettività della coscienza. 2. Con l’intelletto, la coscienza passa alla sezione dell’autocoscienza, la cui vita si articola nei tre momenti dell’appetito (materiale), del conflitto tra autocoscienze e nel successivo asservimento dell’una all’altra
(figura “servo-signore”), e infine nel passaggio dallo stoicismo allo scetticismo. Nell’analisi del rapporto servo-signore, Hegel osserva che il servo diventa dipendente dal signore, ma attraverso il servizio e il lavoro finisce per rovesciare la propria situazione, diventando un’autentica autocoscienza e rendendosi indipendente sia dalle cose che egli stesso produce, sia dal signore, che invece comincia a dipendere da lui per il suo sostentamento. La raggiunta indipendenza dell’io (del servo) trova la sua manifestazione filosofica nello stoicismo, che esalta la libertà del saggio rispetto a tutto ciò che lo circonda, ma è soltanto con lo scetticismo che si arriva all’assoluta negazione dell’alterità. Intimamente scisso tra l’affermazione della vanità e della relatività del tutto, e la pretesa di dire qualcosa di assolutamente vero, lo scetticismo trapassa nella figura della
• coscienza infelice
la figura con cui Hegel allude alla coscienza (tipica del cristianesimo medievale) che non sa di essere tutta la realtà, e che perciò si sente scissa e internamente dilaniata tra la propria finitudine e l’infinito, quale verità trascendente e inattingibile a cui tuttavia essa aspira.
Per Hegel la coscienza infelice – segnata dalla lacerante opposizione tra uomo e Dio, tra finito e infinito – è un simbolo dell’intera Fenomenologia. 3. Dalla coscienza infelice si passa alla ragione, cioè al momento in cui la coscienza riesce finalmente a cogliere in sé stessa la sintesi di soggetto e oggetto, diventando soggetto assoluto. Le tappe di questo percorso sono individuate da Hegel nella ragione osservativa, nella ragione attiva e, infine, nell’individualità in sé e per sé, in cui la conflittualità tra la legge morale individuale e la realtà conduce alla comprensione che l’autentica moralità non è quella dell’uomo singolo, ma quella dell’individuo inserito nel contesto (nella «sostanza etica») dello Stato. Con il dileguare della figura dell’individualità in sé e per sé si entra nel regno dello
• spirito
(nella sua accezione più ristretta) la “sostanza” o il “sostrato” del mondo e della storia, cioè la realizzazione concreta della ragione umana nelle istituzioni storico-politiche di un popolo, ovvero nello Stato.
Con questa nozione di spirito – che prende anche il nome di «spirito oggettivo» e di «eticità» – Hegel suggerisce che non sono gli individui a “fare” la storia ma, al contrario, che è la realtà storico-sociale a “sorreggere” e rendere possibile ogni atto individuale, “facendo” e “fondando” gli individui.
739
MAPPE
CAPITOLO 2 LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
LA FENOMENOLOGIA è
la descrizione (diacronica) del percorso che lo spirito infinito ha seguito per riconoscersi nella sua infinità attraverso le sue manifestazioni finite
la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre i gradi di formazione dello spirito universale
e si sviluppa in una serie di
figure, cioè tappe ideali dello spirito che hanno trovato esemplificazione nel corso della storia
LA PRIMA PARTE DELLA FENOMENOLOGIA comprende
740
il momento della coscienza
il momento dell’autocoscienza
il momento della ragione
in cui
in cui
in cui
la coscienza si rapporta a un oggetto
l’attenzione si sposta sul soggetto
la coscienza coglie l’unità di soggetto e oggetto
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
CAPITOLO 2 LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO Le «figure» dello spirito
Hegel definisce la sua fenomenologia come «la storia romanzata della coscienza che via via si riconosce come spirito». La coscienza giunge per gradi a “sapersi”, svelandosi a sé stessa in una serie di “tappe” ideali ma anche storiche. Si tratta delle cosiddette «figure», tre delle quali – «certezza sensibile», «servitù e signoria» e «coscienza infelice» – sono esemplificate dai testi che seguono. TESTO
1
Servitù e signoria (Fenomenologia dello spirito) IL TESTO NELL’OPERA Nella Fenomenologia dello spirito (1807) Hegel narra il cammino compiuto dalla coscienza umana per elevarsi al sapere assoluto. L’articolazione interna dell’opera è molto complessa: si possono distinguere due parti, ognuna delle quali è incentrata su una triade dialettica. Nella prima, lo spirito attraversa tre momenti: la coscienza, in cui il soggetto è convinto che la verità sia fuori di sé, l’autocoscienza, in cui prevale la convinzione che l’io sia il criterio della verità, e la ragione, in cui viene superata l’opposizione fra soggetto e oggetto. La seconda parte è scandita da altri tre momenti: lo spirito, in cui la coscienza esce dalla propria individualità e si apre agli altri, la religione, in cui l’identità di finito e infinito si presenta in forma mitologica, e il sapere assoluto, in cui lo spirito diventa pienamente consapevole di sé. Di volta in volta la coscienza riconosce l’inadeguatezza del proprio punto di vista, per giungere infine a scoprire di essere in un rapporto di identità e unità con la stessa realtà. In tale prospettiva, la Fenomenologia dello spirito ripercorre il passaggio dal conoscere finito al conoscere infinito. Nella sezione dedicata all’autocoscienza troviamo la figura della «servitù» e della «signoria», che ha la sua manifestazione storica peculiare nel rapporto tra il servo e il signore nel mondo antico. Nel cammino dello spirito verso la conoscenza di sé, essa rappresenta l’incontro conflittuale fra le autocoscienze e mostra una contraddittorietà interna che ne provocherà il rovesciamento.
Il rapporto Il signore è la coscienza che è per sé; ma non più soltanto il concetto della coscienza per sé, tra signore anzi [bensì] coscienza che è per sé, la quale è mediata con sé da un’altra coscienza, cioè da 2 e servo
una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente, o con la cosalità in genere. […] 4 Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l’indipendente essere, ché proprio a questo è legato il servo; questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella 6 lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; giacché egli nella lotta mostra che questo 8
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essere gli valeva soltanto come un negativo; siccome il signore è la potenza che domina l’essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull’altro individuo, così, in questa di- 10 sposizione sillogistica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Parimenti, il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata attraverso il servo. 12 Il rapporto Anche il servo, in quanto autocoscienza in genere, si riferisce negativamente alla cosa e la del signore toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo indipendente; epperò [e perciò], col suo negarla, 14 con la natura
non potrà mai distruggerla completamente; ossia il servo col suo lavoro non fa che trasformarla. Invece, per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura nega- 16 zione della cosa stessa: ossia il godimento […]. Non poté riuscire all’appetito per l’indipendenza della cosa; ma il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, si 18 conchiude così soltanto con la dipendenza della cosa, e puramente la gode; peraltro il lato dell’indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora. 20
L’inessenzialità In questi due momenti per il signore si viene attuando il suo esser-riconosciuto da un’altra della coscienza coscienza; questa infatti si pone in essi [questi] momenti come qualcosa di inessenziale; 22 servile
si pone una volta nell’elaborazione della cosa, e l’altra volta nella dipendenza da un determinato esserci; in entrambi i momenti quella coscienza non può padroneggiare l’essere e 24 arrivare alla negazione assoluta. […]
Il rovesciamento La coscienza inessenziale [del servo] è quindi per il signore l’oggetto costituente la verità 26 del rapporto tra della certezza di se stesso. È chiaro però che tale oggetto non corrisponde al suo concetto; signore e servo
è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo compimento, gli è divenuta tutt’altra cosa che una coscienza indipendente; non una tale coscienza [indipendente] è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è dunque certo dell’esser-per-sé come verità, anzi la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale e l’inessenziale operare di essa medesima. La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa dapprima appare fuori di sé e non come la verità dell’autocoscienza. Ma come la signoria mostrava che la propria essenza è l’inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò ch’essa è immediatamente; essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in sé, e si volgerà nell’indipendenza vera.
(Fenomenologia dello spirito, B. Autocoscienza, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. 1, pp. 159-191)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il rapporto tra signore e servo (rr. 1-12) La coscienza “signorile” è coscienza attuata, realizzata mediante il riconoscimento di un’altra autocoscienza, cioè quella “servile”, la quale invece costituisce ancora un tutto (una “sintesi”) con la natura o con le cose («con un essere indipendente o con la cosalità in genere», rr. 3-4). La coscienza signorile non è più, dunque, «soltanto il concetto della coscienza per sé» (r. 1), cioè la mera coscienza astratta che, prima del conflitto con un’altra autocoscienza, avvertiva come propria essenza soltanto l’io: essa è ormai coscienza «per sé» (r. 2) a tutti gli effetti, essendo ormai «mediata»
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
(r. 2) dalla coscienza servile. Prima ancora che del signore, il servo è dipendente dalle cose («l’indipendente essere», r. 5) e dalla vita animale, che infatti nella lotta non ha avuto il coraggio di rischiare e che rappresenta tuttora la sua «catena» (r. 6). Al contrario, il signore si è rivelato al di sopra sia delle cose sia della vita animale, che ha mostrato di considerare come puro «negativo» (r. 9), ovvero come uno strumento per la propria autoaffermazione. Pertanto, sillogisticamente, poiché il signore padroneggia la vita, e questa a sua volta padroneggia il servo, il signore padroneggia il servo.
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Il rapporto del signore con la natura (rr. 13-20) Anche il servo – in quanto autocoscienza «in genere» (r. 13), che prescinde cioè dalla sua relazione con la coscienza signorile – si rapporta alle cose come a semplici oggetti “negativi”, utili a soddisfare i suoi bisogni (l’«appetito», r. 17). Tuttavia, le cose e la vita animale mantengono per lui – in quanto autocoscienza considerata nella sua specifica relazione con il signore – il valore di qualcosa di «indipendente» (r. 14), che egli non può “annientare” o “consumare”, ma soltanto “trasformare” mediante il lavoro. Grazie alla mediazione del servo, la relazione del signore con le cose può invece essere di «pura negazione» (rr. 1617), nel senso che egli può limitarsi a “godere” di esse. L’inessenzialità della coscienza servile (rr. 21-25) L’auto-riconoscimento della coscienza signorile avviene quindi attraverso un’autocoscienza «inessenziale» (r. 22), ovvero dipendente. Questa è la coscienza servile, la quale infatti: 1. dipende (come abbiamo visto)
dalle cose, che si limita a elaborare, senza giungere a negarle del tutto; 2. dipende dal signore, che percepisce come «determinato esserci» (rr. 23-24), cioè qualcosa di esterno che la sovrasta. Il rovesciamento del rapporto tra signore e servo (rr. 26-38) La specifica modalità di attuazione della coscienza signorile implica che la sua «verità» (r. 26) risieda in una coscienza “inessenziale” sia per il suo modo di porsi rispetto al signore e alle cose, sia in quanto oggetto meramente negativo della necessità di auto-riconoscimento del signore. In questo tratto risiede la discrepanza dell’autocoscienza signorile rispetto al proprio concetto: nel momento stesso in cui si compie, ergendosi a sovrastare l’autocoscienza servile, l’autocoscienza signorile scopre di essere una coscienza ancora “dipendente”, la cui verità risiede proprio in quell’autocoscienza servile attraverso la quale essa in precedenza si era (illusoriamente) riconosciuta per sé.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Hegel afferma che il signore mostra di possedere, in realtà, una coscienza dipendente, mentre il servo giunge all’intuizione di essere indipendente. Sei d’accordo con la riflessione hegeliana? In che cosa consistono, secondo il tuo parere, la vera libertà e l’indipendenza? Motiva la tua risposta in un testo scritto (max 25 righe).
TESTO
2
AUDIOLETTURA
La coscienza infelice
(Fenomenologia dello spirito)
Sempre nell’ambito dell’autocoscienza si trova la figura della «coscienza infelice», una delle più note e suggestive dell’intera Fenomenologia. Essa contiene il tema centrale dell’opera, il “motore” dell’evolversi dello spirito, cioè lo stato di scissione e di lacerazione come “molla” per il passaggio a uno stato successivo.
L’intima Questa coscienza infelice scissa entro se stessa è così costituita che, essendo tale contraddiscissione zione della sua essenza una coscienza, la sua prima coscienza deve sempre avere insieme 2 4 6 8 10
La lotta – Essendo essa da prima solo l’unità immediata di entrambe le autocoscienze, ma non esinteriore sendo entrambe per lei lo stesso; per lei anzi essendo opposte; l’una, quella semplice e in- 12
trasmutabile, le è l’essenza; mentre l’altra, quella che si trasmuta per molte guise, le è l’Inessenziale. Ambedue sono per essa essenze reciprocamente estranee; essa stessa, essendo la 14
TESTI HEGEL
anche l’altra; e in tal modo, mentre essa ritiene di aver conseguita la vittoria e la quiete dell’unità, deve immediatamente venir cacciata da ciascuna [delle due coscienze]. Ma il suo vero ritorno in se stessa, o la sua conciliazione con sé, rappresenterà il concetto dello spirito, che, ormai vitale, è entrato nella sfera dell’esistenza: e ciò perché essa in lei, come una coscienza indivisa, è nel medesimo tempo coscienza duplicata; essa stessa è l’intuirsi di un’autocoscienza in un’altra; essa stessa è l’una e l’altra autocoscienza, e l’unità di entrambe le è anche l’essenza; ma essa per sé non è ancora questa essenza medesima; essa per sé non è ancora l’unità di tutte e due le autocoscienze.
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coscienza di questa contraddizione, si pone dal lato della coscienza trasmutabile ed è a se stessa l’Inessenziale; ma come coscienza dell’intrasmutabilità o dell’essenza semplice deve 16 in pari tempo procedere a liberarsi dell’Inessenziale, vale a dire a liberare sé da se stessa. […] 18 La riunificazione Noi assistiamo così alla lotta contro un nemico, contro il quale la vittoria è piuttosto una
sottomissione: aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario. 20 […] – Ma in questo movimento la coscienza duplicata fa esperienza appunto di quello scaturire 22 della singolarità nell’intrasmutabile e dell’intrasmutabile nella singolarità. Si attua per essa la singolarità in genere nell’essenza intrasmutabile, e si attua in pari tempo la sua in lei. Giac- 24 ché la verità di siffatto movimento è appunto l’esser-uno di questa coscienza duplicata. (Fenomenologia dello spirito, B. Autocoscienza, cit., vol. 1, pp. 174-176)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’intima scissione (rr. 1-10) La coscienza infelice rappresenta il risultato dell’interna scissione della coscienza scettica, lacerata dalla negazione di ogni verità e dalla simultanea, contraddittoria affermazione della verità secondo cui “niente è vero”. Sperimentando questa divisione, la coscienza si scopre “duplice”, come se al proprio interno avvenisse un reciproco «intuirsi» (r. 7) di due diverse autocoscienze. In realtà si tratta di una sola autocoscienza, la cui essenza è l’«unità di tutte e due le autocoscienze» (r. 10); ma la piena consapevolezza di questa essenza unitaria sarà raggiunta soltanto con il passaggio allo spirito. La lotta interiore (rr. 11-18) Si ribadisce qui che l’unità delle due autocoscienze all’interno della coscienza infelice, pur essendo reale, non è ancora “saputa”, ma è una «unità immediata» (r. 11), che ancora percepisce le parti che la costituiscono come opposte ed estranee l’una all’altra: da un lato l’autocoscienza che si vive come essenza «intrasmutabile» (rr. 12-13),
cioè sempre uguale a sé stessa; dall’altro l’autocoscienza che si vive come «trasmutabile» (r. 15), cioè continuamente mutevole nelle sue volizioni e nei suoi pensieri. La riunificazione (rr. 19-25) La percezione in sé di due autocoscienze si trasforma nella loro reciproca «lotta» (r. 19), che non può essere risolta, perché nel momento stesso in cui una delle due sconfigge l’altra percependosi come “essenziale”, ciò accade proprio in relazione a qualcosa di “inessenziale”. In questo senso per Hegel «aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario» (r. 20). Proprio nell’esperienza di questa lotta irrisolvibile tra la coscienza intrasmutabile e quella trasmutabile (ovvero tra l’essenziale e l’inessenziale), l’autocoscienza coglie finalmente la propria essenza unitaria, scoprendo che, in generale, la «singolarità» (r. 23), cioè la coscienza particolare, mutevole, è parte di ciò che è intrasmutabile.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Rifletti sull’attualità di quella che viene considerata la figura più celebre della Fenomenologia dello spirito. Nella nostra società, secondo te, la ragione tende a includere, come accade nella dialettica hegeliana, o piuttosto a inglobare? Rispondi in un testo scritto (max 30 righe), in cui argomenti il tuo punto di vista e lo supporti con esempi concreti.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 2 la Fenomenologia dello spirito
CAPITOLO 3 L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO 1. La logica Il sistema hegeliano, come abbiamo detto nel capitolo precedente, si articola nelle tre sezioni della logica, della filosofia della natura e della filosofia dello spirito. Alla logica, in particolare, Hegel dedica la seconda delle sue opere fondamentali, la Scienza della logica (1812, 1816), i cui contenuti vengono poi ricapitolati nella prima parte dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. La logica è definita da Hegel come la «scienza dell’Idea pura, cioè dell’Idea nell’elemento L’oggetto astratto del pensiero» (Enciclopedia, par. 19). Essa prende in considerazione la struttura pro- della logica grammatica, o l’impalcatura logico-razionale, del mondo. Hegel, infatti, distingue la filosofia (che si occupa di «oggetti concreti» come la natura, le produzioni dello spirito ecc.) dalla logica, che di tali oggetti considera la «struttura completamente astratta». glossario p. 774 Tale struttura si specifica in un sistema organico e dinamico di «concetti», o «categorie» (Hegel usa preferibilmente il primo termine), che, come vedremo meglio tra poco, esprimono l’essenza dell’intera realtà.
I fondamenti della logica hegeliana Per comprendere questa sezione del sistema hegeliano bisogna tenere presente che per La concezione Hegel il pensiero, che è l’oggetto della logica, non è una “facoltà” dell’individuo, ma quanto hegeliana del pensiero di più oggettivo e universale esista. In questa direzione si era mosso anche Kant, rintracciando nel pensiero (nelle categorie) le condizioni dell’oggettività. Ma la logica hegeliana si spinge oltre: assumendo come punto di partenza l’equazione idealistica tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere, forma e contenuto, essa indaga il pensiero in quanto “realtà” in senso forte, vale a dire in quanto fondamento di tutto ciò che può presentarsi alla coscienza come suo “oggetto”. In altre parole, i concetti di cui tratta la logica di Hegel non sono pensieri soggettivi, rispetto ai quali la realtà possa rimanere esterna e contrapposta, ma pensieri oggettivi, che esprimono la realtà stessa nella sua essenza. ( T1 p. 778) Lo stretto rapporto della logica hegeliana con la realtà emerge anche da un altro aspetto: Dall’esperienza per Hegel le «rappresentazioni», in quanto contenuti della coscienza, costituiscono una alle rappresentazioni, ai concetti prima interiorizzazione degli oggetti che, tramite esse, vengono “incorporati” nel soggetto. Il pensiero, dunque, non opera sulle cose, cioè sugli oggetti esteriori, ma assume come sua materia le rappresentazioni, che interiorizza sempre di più, innalzandole a un livello via via superiore di astrazione per elevarle alla purezza del «concetto». Quelli della logica hegeliana, pertanto, più che concetti puri (quali erano quelli indagati dalla logica trascendentale di Kant), sono concetti purificati, nel senso che sono enucleati da concrete esperienze storico-fenomenologiche.
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Del resto, se per Kant la ragione era una facoltà soggettiva, dotata di un corredo stabile e perenne di forme vuote (da “riempire” con i dati dell’esperienza), per Hegel essa è invece la razionalità stessa del reale nel suo svolgimento, e quindi le sue categorie si “sprigionano” dalla realtà stessa: sono la realtà che si comprende nell’elemento del puro pensiero. Il rapporto tra Sulla base di quanto detto, è facile comprendere in che senso le figure della Fenomenofenomenologia logia (che abbiamo analizzato nel capitolo precedente) e le categorie della Logica abbiae logica
no lo stesso contenuto, ma si pongano a un livello di astrazione diverso. Così come il parlare concreto precede e rende possibile l’individuazione delle regole grammaticali, che costituiscono la condensazione di certe esperienze linguistiche, allo stesso modo le categorie logiche sono presenti e operanti nelle mutevoli esperienze storiche dell’umanità, dalle quali derivano. Ad esempio, il concetto di “essere” non è una determinazione innata della ragione umana, ma la cristallizzazione, nell’elemento astratto del pensiero, dell’esperienza filosofica dell’eleatismo, la quale poi viene inclusa nell’orizzonte perenne del pensiero umano; analogamente, la nozione di “causa” trova un’eminente manifestazione storica nella rivoluzione scientifica; e così via. Per questo Hegel afferma che la logica presuppone il lungo cammino della cultura umana:
‘
In effetti il bisogno di occuparsi di puri pensieri presuppone un lungo cammino, che lo spirito umano deve aver percorso. È, per così dire, […] un bisogno che nasce dalla mancanza d’ogni bisogno, cui lo spirito deve essere giunto […]. Nelle tranquille regioni del pensiero che è giunto a sé stesso, ed è soltanto in sé, tacciono gli interessi che muovono la vita dei popoli e degli individui. (Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari 1981, vol. 1, p. 12)
La concezione Ora si comprende meglio in che senso i concetti o le categorie di Hegel siano nello steshegeliana so tempo determinazioni del pensiero e della realtà in sé, che hanno una loro specifidelle categorie cità nei confronti sia delle categorie aristoteliche sia di quelle kantiane. glossario p. 774
In Aristotele, infatti, le categorie erano in primo luogo determinazioni della realtà oggettiva (dell’essere), che in secondo luogo si riflettevano nel pensiero. In Kant esse erano in primo luogo forme soggettive della mente umana, e in secondo luogo elementi costituitivi dell’oggettività fenomenica (ossia della realtà “rappresentata” dal soggetto conoscente). Invece per Hegel i concetti sono in primo luogo determinazioni creative del pensiero, che in secondo luogo si estrinsecano nella realtà. Perciò essi non hanno origine nell’oggetto, bensì nel pensiero; ma poiché per l’idealismo hegeliano il pensiero è la realtà, di fatto essi sono anche determinazioni del reale.
Lo stretto Se la rappresentazione si fonda sulla distinzione tra un dato inerte (l’oggetto) e una funrapporto zione attiva (il soggetto), il «pensiero puro» della logica hegeliana supera questa distinziotra pensiero e libertà ne: esso dunque non ha alcun oggetto intuitivo o rappresentativo di fronte a sé, ma non
per questo (e in ciò consiste l’elemento di novità che Hegel pretende di far valere) è una forma vuota che si muove fra astratte tautologie. In quanto capace di autodeterminarsi – cioè di produrre dentro di sé e da sé, con «immanente plasticità», la ricchezza dei suoi contenuti –, il pensiero logico è per Hegel il modello stesso della «libertà», che si definisce proprio come «auto-determinazione». Dopo il lungo e faticoso cammino della Fenomenologia, con cui la coscienza si è liberata dal presunto limite della cosa in sé e dell’alterità dell’oggetto, il «sapere puro» della logica è pensiero che si muove (liberamente) nel proprio substrato: i pensieri. È il mondo della verità – superiore a quello della coscienza soggettiva – che si dispiega in una totalità sistematica, in cui i pensieri “discorrono” tra loro in una libera auto-produzione o in un libero auto-movimento.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Allo scopo di evidenziare meglio il suo modo di intendere il rapporto pensiero-essere, concetto-realtà, nell’Enciclopedia Hegel passa in rassegna le principali posizioni che il pensiero logico può assumere (e storicamente ha assunto) rispetto all’oggettività del reale: 1. la prima posizione analizzata corrisponde al procedere ingenuo secondo cui da una parte c’è il pensiero e dall’altra ci sono le cose, e secondo cui il pensiero, mediante la riflessione, può conoscere «ciò che gli oggetti veramente sono» (Enciclopedia, par. 26). È questa la posizione della «vecchia metafisica dogmatica», la quale considerava «le determinazioni del pensiero come le determinazioni fondamentali delle cose» (Enciclopedia, par. 28); 2. la seconda posizione è quella dell’empirismo, il quale, elevando il contenuto della percezione a rappresentazione, fa di quest’ultima la norma e la misura dell’oggettività, riducendo tuttavia la realtà profonda delle cose a una x che il pensiero non può penetrare, e ritrovandosi in tal modo costretto a cadere nello scetticismo. Di questa vicenda è documento emblematico il kantismo (che costituisce un’evoluzione e al tempo stesso un approfondimento dell’empirismo), il quale, dopo aver fatto dell’«io penso» il legislatore della natura, lascia sussistere, sullo sfondo, il mistero della cosa in sé; 3. la terza posizione è quella della filosofia della fede, a cui Hegel attribuisce il merito di aver sottolineato l’esigenza di “saltare” (contro ogni scetticismo) dal pensiero all’essere, ma anche il demerito di aver ritenuto che ciò è possibile mediante il sentimento o la fede. È proprio in alternativa a queste posizioni che Hegel fa valere la concezione di un pensiero che non sia astrattamente separato dalle cose, ma si identifichi con l’essenza stessa del reale, e sia oggetto di un sapere razionale e speculativo.
Le varie posizioni del pensiero rispetto all’oggettività
Da quanto si è detto finora, risulta evidente che la logica (lo studio del pensiero) e la L’identità metafisica (lo studio dell’essere) sono per Hegel la stessa cosa. Tant’è vero che nella lo- tra logica e metafisica gica di Hegel confluisce non soltanto gran parte della tradizione logica greca e moderna, ma anche gran parte del pensiero metafisico e teologico dell’Occidente. Del resto Hegel, pur contestando gli aspetti dogmatici e intellettualistici della metafisica, ha un alto concetto di essa, fino ad arrivare a sostenere, anti-kantianamente, che «un popolo senza metafisica è come un tempio senza altare».
)
Per l’esposizione orale
1. Qual è l’oggetto della logica hegeliana? 2. Quale rapporto c’è tra la Fenomenologia dello spirito e la logica di Hegel? 3. Presenta la riflessione di Hegel sul rapporto tra pensiero e realtà; quindi spiega perché, secondo il filosofo tedesco, la logica coincide con la metafisica.
L’articolazione della logica hegeliana In concreto, la logica hegeliana si divide in logica dell’essere, logica dell’essenza e logica del concetto, e procede mostrando come, partendo dai concetti più poveri e astratti (essere, nulla e divenire), sotto l’assillo di una ragione dialettica che svela la parzialità di tali concetti e il loro inevitabile trapassare in altre categorie, si giunga a concetti via via più ricchi e concreti, fino a quel concetto di tutti i concetti, o a quella categoria di tutte le categorie, che è l’Idea.
La logica dell’essere La logica dell’essere si divide in logica della qualità (che è la categoria più immediata attraverso cui si colgono le cose), della quantità (che consiste nel superare le determinazioni qualitative mediante quelle quantitative) e della misura (sintesi della qualità e della quantità). glossario p. 774
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La prima di queste categorie (qualità) si articola a sua volta in alcune sotto-categorie, la prima delle quali corrisponde al concetto di essere (puro, o indeterminato), che costituisce pertanto il punto di partenza dell’intera logica hegeliana. Essere, nulla, Quello di “essere” – inteso come assolutamente indeterminato, privo di ogni possibile divenire: il contenuto – è il concetto più vuoto e astratto che esista. In questa “astrazione”, cioè in «cominciamento» del pensiero questa totale assenza di determinazioni, l’essere è identico al nulla; ma lo stesso nulla, per
quanto pretenda di essere un vuoto assoluto, nel momento stesso in cui “cade” nel pensiero, è incluso nell’orizzonte dell’essere, dal momento che il pensiero (come aveva già compreso Parmenide) è sempre pensiero di qualcosa che è. Così, se l’essere assolutamente indeterminato è nulla, reciprocamente il nulla è essere: il concetto di questa identità, o meglio di questa unità dialettica tra essere e nulla, è il divenire, che già gli antichi definivano come passaggio dall’essere al nulla e viceversa. Il «cominciamento» del pensiero, pertanto, per Hegel non è né l’essere, né il nulla – i quali finiscono per “dileguare” subito l’uno nell’altro – ma il «divenire», cioè il movimento logico che li pone in relazione. Quel che Hegel intende dire è che l’«immediato» o l’«astratto», cioè un termine isolato e irrelato, è impensabile: fin dalla sua esperienza originaria, il pensiero esige mediazione, relazione, “movimento”. Più che il pensato, inteso come dato immediato e statico, “in principio” c’è dunque il pensare, quale attività capace di cogliere la trama di relazioni che lega i concetti.
Il divenire La triade essere-nulla-divenire, a ben vedere, rappresenta una sorta di alba del pensiero come pensiero che cerca la sua luce. Queste prime tre categorie, infatti, non sono veri pensieri, perché so“senza oggetto”
no «ineffabili». Hegel afferma che appartengono all’«opinione»: «si opina» la differenza tra essere e nulla, ma questa non può essere veramente pensata. Dunque è vero che, in un certo senso, il divenire è il primo «pensiero concreto» (rispetto all’essere e al nulla, che hanno un’esistenza astratta), ma Hegel dice anche che esso «è qualcosa di evanescente, quasi un fuoco che si estingue in sé stesso, in quanto consuma il proprio materiale» (Enciclopedia, par. 89). Del resto, se è impensabile e «opinabile» la differenza tra essere e nulla, deve essere impensabile anche il divenire, che dovrebbe esprimere proprio quella differenza. Ci troviamo in tal modo di fronte a una «monotriade ineffabile» (Francesco Valentini), cioè di fronte a qualcosa che, in un certo senso, precede il pensare, il quale esige sempre un oggetto determinato e per questo “dicibile”. Il divenire, in questo senso, rappresenta il movimento ancora indeterminato del pensiero, che non ha un oggetto propriamente detto.
L’essere Il passaggio all’essere determinato costituisce un momento particolarmente importante determinato nella logica hegeliana, poiché esprime il trasformarsi del pensiero come possibilità (ov-
vero dell’attività del pensare come condizione ultima di qualunque oggetto pensato) in un pensiero specifico (ovvero “rappreso” e “immobilizzato”, per quanto in modo soltanto transitorio, attorno a un oggetto). Chiariamo come avviene per Hegel questo passaggio. Se pensiamo l’essere come assolutamente indeterminato, mettiamo comunque in atto una qualche determinazione, dal momento che lo “definiamo” come indeterminato, distinguendolo dal suo opposto (il determinato). Il pensiero, in questo modo, per quanto sia un processo incessante, «precipita in un risultato calmo», cioè nella “quiete” della determinazione. Ogni ente, nel momento in cui viene incluso nel pensiero, assume per ciò stesso un’interna qualificazione o «quiddità», senza la quale resterebbe indeterminato (non pensato). Ecco perché questa sezione della logica dell’essere va sotto il titolo generale di «qualità».
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Ma anche la stabilità e la quiete conseguite dal pensiero «nella determinazione dell’essere» sono attraversate dalla forza mediatrice e dinamica della dialettica. Qui, infatti, si ripresenta l’opposizione tra essere e nulla, dal momento che la determinazione di «qualcosa» (Etwas) coincide sempre con la negazione di «qualcos’altro» (Anderes); come già Platone aveva chiarito nel Sofista, ciascuna cosa è quella che è (una determinata cosa) in quanto non è un’altra, la quale la definisce proprio in quanto esclusa. Nello sdoppiamento dell’essere determinato in questo e altro si genera quel processo che Hegel chiama «cattiva infinità». Ogni finito, in quanto insufficiente, manchevole, tende a qualcos’altro che non è. Esso, dunque, è determinato, ha un limite che lo definisce, ma contemporaneamente è indeterminato, indefinito, nel senso che deve cedere il posto ad altro, e questo ad altro ancora e così via, in un processo infinito rappresentabile da una retta che si estende illimitatamente. Questo significa che, se pensato a fondo, alla fine anche l’essere determinato (come l’essere indeterminato) dilegua, scompare, è inafferrabile; non riesce a permanere nella sua identità con sé stesso, dovendo diventare altro da quello che è. La consapevolezza di questa insufficienza del finito, che produce in sé la sua negazione, o il suo superamento, è per Hegel il cuore stesso dell’idealismo:
La dialettica dell’essere determinato: la «cattiva infinità»
‘
L’idealismo della filosofia non consiste che nel rifiuto di riconoscere il finito come vero (Scienza della logica, cit., vol. 1, p. 145) essere.
Con questa analisi Hegel intende mostrare che il tentativo del pensiero di concepire deter- Qualità, minazioni oggettive fisse e durevoli è destinato a fallire, dal momento che determina- quantità e misura re un oggetto con le sue supposte qualità non è sufficiente per differenziarlo dagli altri oggetti determinati dalle stesse qualità. Interviene pertanto, a questo punto, la categoria della «quantità», con cui si distinguono gli oggetti numerandoli: a separare un oggetto da un altro sarà dunque un numero. Ma, se è vero che un oggetto numerato è diverso da un altro, questa differenziazione non deriva dalla natura dell’oggetto, ma da un’operazione aritmetica “esterna”, le cui regole non hanno alcuna “ragione” nell’oggetto. Si tratta di vedere, allora, se è possibile rintracciare differenze quantitative (cioè numeriche) che siano anche differenze qualitative, ovvero che qualifichino gli oggetti. Questa sintesi di quantità e qualità è data dalla «misura» (cioè dalla misurazione delle diverse qualità), che Hegel chiama anche «quantità qualitativa» e che identifica le diverse cose. Senonché – e qui emerge l’avversione di Hegel per le scienze matematiche e per la logica della misurazione – non esiste una misurazione «assoluta», cioè capace di cogliere ciò che le cose sono in sé stesse. Il filosofo perviene dunque a una conclusione negativa: l’oggetto non può mai essere definito mediante le sue sole proprietà «oggettive» o «immediate» (qualitative o quantitative). Pertanto non c’è altra via che andare attorno all’oggetto, riflettendo su di esso. Cambia, così, il “piano” del pensiero, che si sposta dall’oggetto alla sua «essenza», o «verità», producendo uno sdoppiamento tra l’esistenza immediata dell’oggetto e la sfera soggettiva, all’interno della quale si svela la sua natura.
La necessità di riflettere sull’essenza degli oggetti
Se la logica dell’essere, mediante le sue categorie, considera gli oggetti (o l’essere) nel loro isolamento, cioè fuori da ogni relazione, la logica dell’essenza, o della riflessione , può considerarsi una sorta di approfondimento, o di interiorizzazione, mediante cui l’essere stesso, riflettendo su di sé, scopre – dentro o oltre sé – le proprie “radici”, o il proprio fondamento. glossario p. 774 Il carattere tipico di questa sezione della logica hegeliana è proprio questa dualità o separazione tra l’oggetto e la sua verità, la quale si trova in una «spiegazione» che contempla l’oggetto dall’«esterno»: «la verità dell’essere è l’essenza», afferma Hegel.
La logica dell’essenza
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Le principali Il termine “riflessione” chiarisce bene la situazione dialettica in cui, in questa sezione, si tappe della trova la conoscenza. La riflessione, infatti, è un processo che si instaura tra due elementi logica della riflessione che sono contemporaneamente identici e diversi.
La maggior parte delle filosofie del passato, secondo Hegel, è riconducibile a questa logica della riflessione: si pensi al platonismo, in cui l’essenza è l’«idea», la quale a sua volta non è che lo “specchiarsi” (il “riflettersi”, appunto) della realtà nel pensiero e il suo porsi come apparenza opaca di una verità che la trascende. Lo stesso empirismo, secondo Hegel, è governato da una logica riflessiva, in quanto chiarisce che le strutture del mondo oggettivo (il tempo, lo spazio e la causalità) derivano da strutture conoscitive soggettive (associazione di idee, credenze ecc.). La logica della riflessione giunge poi al suo culmine con Kant, il quale scopre che il principio dell’oggettività sta nel soggetto conoscente, nelle «leggi del pensiero», da cui il mondo oggettivo dipende.
Lo sdoppiamento La logica dell’essenza, o della riflessione, indaga pertanto i diversi modi in cui l’oggetto si delle «cose» pone come «fenomeno», ovvero come manifestazione non essenziale di una verità che è
altrove, “dietro” o “dentro” l’oggetto stesso. Così, a differenza dell’«essere determinato» della prima sezione della logica, la «cosa» (Ding) della logica dell’essenza non sarà semplicemente “qualcosa” che è diverso da “qualcos’altro”, ma subirà uno sdoppiamento in sé stessa: da una parte ci sarà infatti la cosa in quanto dipendente da una «ragione» (Grund) che ne giustifica l’esistenza e ne costituisce il fondamento nel pensiero; dall’altra ci sarà la cosa in quanto distinta in un sostrato e nelle proprietà che ad esso ineriscono.
Essenza, Per esprimere tutto ciò, Hegel articola la logica dell’essenza in tre momenti: fenomeno e 1. lo studio dell’essenza, quale «verità» o «ragione» (la radice, o il fondamento) dell’esirealtà in atto
stenza di un oggetto;
2. lo studio dell’esistenza, o del «fenomeno», quale manifestazione “esterna” dell’essenza di un oggetto;
3. lo studio della «realtà in atto», o «realtà effettiva», quale unità e sintesi dialettica di essenza ed esistenza, interno ed esterno.
Con la nozione di «realtà in atto» presentata alla fine della logica dell’essenza, Hegel mostra come la verità non risieda in nessuna delle due fasi del pensiero logico già analizzate (l’essere e l’essenza), ma nella relazione che le unisce, cioè in quella processualità dialettica che è la novità decisiva apportata dalla logica della riflessione. Quest’ultima, infatti, ha svelato che le esistenze immediate sono in realtà processi, o mediazioni (tra essenza ed esistenza), e quindi che l’intera realtà ha un carattere dinamico e relazionale. In altre parole, mediante la nozione di «realtà in atto» i due poli della logica della riflessione (essenza ed esistenza) sono ricondotti a un fondamento unitario che si colloca, per così dire, a un livello superiore, quale terzo elemento che li comprende in sé come suoi momenti: tale è il concetto.
La logica del concetto
Dalla I concetti considerati nella logica del concetto, o della comprensione non sono più quelli riflessione alla dell’intelletto, ovvero entità distinte dalla realtà e opposte a essa, ma sono i concetti della racomprensione
gione, che, come sappiamo, per Hegel è «lo spirito vivente della realtà». La logica del concetto inaugura pertanto un piano ulteriore rispetto a quello del pensiero che riflette su un oggetto. Poiché l’oggetto «in sé» si è risolto nella riflessione, questa prende il posto dell’oggetto. Ed essendo essa pensiero, soggetto e oggetto si identificano: il pensiero scopre sé stesso come proprio oggetto. L’«oggettività» del mondo diventa l’accordo, la coerenza di tutte le determinazioni del pensiero. glossario p. 774
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
In un certo senso, il concetto hegeliano è il «soggetto trascendentale» di Kant, inteso però non come semplice facoltà conoscitiva, ma come un processo nel quale il pensiero determina sé stesso, ponendosi come spontaneità creatrice ovvero come totalità che tutto comprende nella forma del pensiero. In effetti, la parola “comprensione” sarebbe forse la migliore traduzione del termine tedesco Begriff utilizzato da Hegel e normalmente tradotto con “concetto”. Nell’articolarsi triadico della logica del concetto, quest’ultimo è in primo luogo «concetto soggettivo», o «puramente formale»; poi «concetto oggettivo», quale si manifesta negli aspetti fondamentali della natura; infine è «Idea», unità del soggettivo e dell’oggettivo, ragione autocosciente. 1. Il concetto soggettivo si determina dapprima nei suoi tre aspetti di universalità, particolarità, individualità; poi si esprime e si articola nel giudizio; e infine si organizza nel sillogismo, il quale manifesta, da un punto di vista formale, la razionalità del tutto. Ogni cosa è sillogismo perché ogni cosa è razionale; ma di questa razionalità il sillogismo palesa unicamente l’aspetto formale e soggettivo, che trova concretezza e attuazione soltanto passando nel concetto oggettivo. 2. Il concetto oggettivo comprende le categorie fondamentali della natura: meccanicismo, chimismo e teleologia, la quale ultima è la categoria fondamentale della natura organica. 3. L’Idea, infine, è l’ultima e la più elevata categoria della logica:
‘
Concetto soggettivo, concetto oggettivo e Idea
L’Idea può essere concepita come la ragione (questo è il proprio significato filosofico di ragione); inoltre come il soggetto-oggetto, come l’unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo. (Enciclopedia, par. 214)
qualità logica dell’essere (il pensiero nella sua immediatezza)
essere essere determinato essere per sé
essere nulla divenire
quantità misura essenza
LA LOGICA
si divide in
logica dell’essenza (il pensiero che riflette su sé stesso)
esistenza o fenomeno realtà in atto
logica del concetto (il pensiero che comprende sé stesso come totalità)
concetto soggettivo
concetto come tale giudizio sillogismo
concetto oggettivo
meccanicismo chimismo teleologia
Idea
vita conoscenza idea assoluta
universale particolare individuale
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Vita, L’Idea è dunque la totalità della realtà, in tutta la ricchezza delle sue determinazioni e reconoscenza e lazioni intrinseche. Idea assoluta
VIDEO L’idea e le sue articolazioni
Nella sua forma immediata l’idea è la vita, cioè un’anima realizzata in un corpo; ma nella sua forma mediata, e tuttavia finita, è la conoscenza, nella quale il soggettivo e l’oggettivo appaiono distinti (giacché il conoscere si riferisce sempre a una realtà considerata diversa da sé) e tuttavia uniti (giacché il conoscere si riferisce sempre a una realtà di cui esso stesso fa parte). Il contrasto tra il soggettivo e l’oggettivo costituisce appunto la finalità (la “molla”) della conoscenza, che può assumere o la forma teoretica, nella quale la spinta è data dalla ricerca della verità, o la forma pratica (il volere), in cui la spinta è data dalla ricerca del bene. Al di là della vita e della conoscenza, e come loro unità, c’è l’Idea assoluta, cioè l’Idea che si riconosce nel sistema totale della logicità. Essa è l’identità dell’Idea teoretica e dell’Idea pratica, ed è vita che però ha superato ogni immediatezza e ogni finitudine. «Tutto il resto – dice Hegel – è errore, torbidezza, opinione, sforzo, arbitrio e caducità». In altri termini, l’Idea nella sua forma assoluta non è altro che la logica stessa di Hegel, nella totalità e nell’unità delle sue determinazioni.
)
Per l’esposizione orale
1. Quali sono le partizioni fondamentali della logica hegeliana? 2. Per quale ragione la logica dell’essere e la logica dell’essenza devono essere entrambe superate? 3. Chiarisci che cosa intende Hegel con il termine «concetto» (Begriff).
2. La filosofia della natura Il testo fondamentale in cui Hegel espone la propria filosofia della natura è la seconda parte dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Il rapporto Hegel definisce la filosofia della natura come la «considerazione teoretica, e cioè pentra la filosofia sante, della natura» (Enciclopedia, par. 246). Il suo oggetto di studio, come sappiamo, è della natura e la scienza l’Idea nella sua estrinsecazione spazio-temporale, e i suoi ambiti sono la meccanica, la fisica inorganica (cioè la chimica) e la fisica organica (cioè la biologia). glossario p. 774
Pur ammettendo che la filosofia della natura debba avere quale suo presupposto e condizione la «fisica empirica» (come egli la chiama), Hegel è convinto che quest’ultima debba limitarsi a fornire il “materiale” e a fare un lavoro preparatorio, di cui poi la filosofia naturale può liberamente avvalersi per mostrare la necessità con cui le determinazioni naturali si concatenano in un sistema concettuale e metafisico organico. Presi isolatamente, i risultati dell’indagine empirica non costituiscono dunque, secondo Hegel, un effettivo sviluppo della conoscenza.
Il carattere Secondo Hegel (che da questo punto di vista si ispira più a Fichte che a Schelling) la natu“negativo” ra è «l’Idea nella forma dell’essere altro», e come tale è essenzialmente esteriorità. Condella natura
siderata in sé, cioè nell’Idea, essa è divina; ma se si considera il modo in cui essa è o esiste, allora il suo essere non corrisponde al suo concetto, ed essa si presenta quindi come una contraddizione insoluta. Il carattere proprio della natura è infatti quello di essere negazione, «non ens» (“non ente”). Essa è quindi la decadenza dell’Idea da sé stessa, perché l’Idea nella forma dell’esteriorità è inadeguata a sé stessa. Tant’è vero che Hegel parla di una «impotenza della natura», alludendo con questa espressione alla «cattiva infinità» del mondo naturale, il quale
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è caratterizzato da una sostanziale immobilità, se si pensa che tutti i cambiamenti che si producono in esso (compresa la vita degli organismi viventi e degli uomini) lo lasciano sempre identico a sé stesso. Nel sistema hegeliano, il passaggio dall’Idea alla natura costituisce però un autentico rompicapo critico, poiché da un lato Hegel lo presenta come una sorta di caduta dell’Idea, ma dall’altro lo descrive come un suo potenziamento. In altre parole, dalle pagine hegeliane sembra emergere che nella natura ci sia qualcosa di meno dell’Idea, ma anche qualcosa di più. Di che cosa precisamente si tratti, e come questo qualcosa possa trovarsi nella natura, non è affatto chiaro. Una cosa è invece certa, ossia che per Hegel risulta assurdo voler conoscere Dio a partire dalle entità naturali, poiché anche le più basse manifestazioni dello spirito servono meglio a questo scopo.
CONCETTI A CONFRONTO
LA NATURA in FICHTE
in SCHELLING
Il problema del passaggio dall’Idea alla natura
in HEGEL
è il non-io che si oppone all’io finito e lo limita
è attività spontanea e creatrice, che agisce attraverso la lotta di forze opposte
è l’Idea nella forma dell’essere altro, ossia è il momento della “negazione” dell’Assoluto
è posta o creata dall’Io infinito e viene ricompresa in esso, esistendo soltanto in relazione a quest’ultimo
si risolve nello spirito ed è, essa stessa, spirito
è l’Idea che “decade” da sé per poi essere ricompresa in sé
Il concetto di “natura” ha tuttavia una funzione-chiave nel sistema e nella teoria di Hegel, La natura come che non è possibile eliminare senza eliminare il sistema o la teoria nella sua interezza. In “pattumiera” del sistema base al principio dell’identità di realtà e ragione, Hegel deve infatti giustificare e risolvere nella ragione tutti gli aspetti della realtà. Pertanto egli respinge fuori della realtà (e quindi nell’apparenza) ciò che è finito, accidentale, contingente, legato al tempo e allo spazio, e la stessa individualità in ciò che ha di proprio e di irriducibile alla ragione. Ma se tutti questi elementi, almeno come apparenza, sono reali, dovranno pur trovare un qualche posto, una qualche giustificazione, sia pure a mero titolo di apparenza; ed Hegel li colloca e li giustifica appunto nella natura, che da questo punto di vista si configura come una sorta di “pattumiera” del sistema. Come abbiamo anticipato, gli ambiti fondamentali della filosofia della natura sono la mec- Le partizioni della filosofia canica, la fisica e la fisica organica: della natura 1. la meccanica considera il mondo naturale nei suoi elementi puramente esteriori, analizzando quindi lo spazio e il tempo, la materia e il movimento, e le leggi della gravitazione («meccanica assoluta»); 2. la fisica inorganica (oggi diremmo la “chimica”) studia l’«individualità universale» (cioè gli elementi della materia), l’«individualità particolare» (cioè le proprietà fondamentali della materia, come il peso specifico, la coesione, il suono, il calore ecc.) e l’«individualità totale» (cioè le proprietà magnetiche, elettriche e chimiche della materia); 3. la fisica organica (oggi diremmo la “biologia”) studia invece le formazioni geologiche (in quanto determinanti per l’esistenza degli organismi), la vita dei vegetali e la vita ESERCIZI animale, che culmina nella vita consapevole dell’essere umano.
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spazio e tempo meccanica
materia e movimento meccanica assoluta individualità universale
LA FILOSOFIA DELLA NATURA
comprende
fisica inorganica
individualità particolare individualità totale
natura geologica fisica organica
natura vegetale organismo animale
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega perché la filosofia della natura è definita da Hegel come la «scienza dell’Idea nel suo alienarsi da sé». 2. Quale concezione della natura emerge dal sistema hegeliano? 3. RIFLESSIONE CRITICA Condividi la svalutazione della natura che caratterizza la riflessione di Hegel (come già quella di Fichte)? Pensi anche tu che la più insignificante manifestazione dello spirito sia comunque superiore al più bello, grandioso e potente dei fenomeni naturali? Motiva la tua risposta. 4. Presenta le principali articolazioni della filosofia hegeliana della natura.
3. La filosofia dello spirito Hegel definisce la filosofia dello spirito come «la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e difficile» (Enciclopedia, par. 377). Essa consiste infatti nello studio dell’Idea che, dopo essersi estraniata da sé nella natura, in quanto natura (cioè come esteriorità e spazialità) svanisce, per farsi soggettività e libertà, cioè auto-creazione e auto-produzione. glossario p. 775
I momenti Lo sviluppo dello spirito analizzato da Hegel in questa sezione del sistema avviene attradello sviluppo verso tre momenti principali: dello spirito
1. lo «spirito soggettivo», che è lo spirito individuale nell’insieme delle sue facoltà; 2. lo «spirito oggettivo», che è lo spirito sovra-individuale o sociale; 3. lo «spirito assoluto», che è lo spirito che sa e conosce sé stesso nelle forme dell’arte, della religione e della filosofia.
La struttura Nel suo sviluppo, anche lo spirito procede per gradi, esattamente come fa la natura pasdialettica sando dagli enti organici a quelli organici, e da questi in generale (vegetali, animali e dello sviluppo dello spirito umani) al loro grado più altro (gli esseri umani in quanto organismi inscindibili e consa-
pevoli). Tuttavia, diversamente da quanto accade nella natura (nella quale i diversi gradi
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sussistono l’uno accanto all’altro), nello spirito ciascun grado è compreso e risolto nel grado superiore, il quale a sua volta è già presente nel grado inferiore (ad esempio, l’individuo non esiste accanto alla società, ma è compreso nella società, la quale, reciprocamente, è già presente nell’individuo fin dall’inizio).
4. Il primo grado dello spirito: lo spirito soggettivo Lo spirito soggettivo , come abbiamo brevemente anticipato, è lo spirito individuale, che Hegel considera nel suo lento e progressivo emergere dalla natura attraverso un processo che va dalle forme più elementari di vita psichica alle più elevate attività conoscitive e pratiche. glossario p. 775 La filosofia dello spirito soggettivo si divide pertanto in tre parti: l’antropologia, la fenomenologia e la psicologia. L’antropologia studia lo spirito come anima, la quale si identifica con quella fase aurorale L’antropologia della vita cosciente che rappresenta una sorta di dormiveglia dello spirito. In altri termini, per Hegel l’anima (che si articola in anima «naturale», «senziente» e «reale») comprende «tutto quel complesso di legami tra spirito e natura che nell’uomo si manifesta come carattere, come temperamento, come le varie disposizioni psico-fisiche connesse alle diverse età della vita e alle differenze di sesso; è la vita del sonno e della veglia, dello sviluppo mentale regolare o delle sue deviazioni nella pazzia; è la vita psichica infine che culmina nell’abitudine» (Valerio Verra). A proposito delle diverse età della vita, nel paragrafo 396 dell’Enciclopedia Hegel (con un discorso che costituisce un significativo documento del suo atteggiamento globale verso la realtà) afferma che l’infanzia (tesi) è il momento in cui l’individuo si trova in armonia con il mondo circostante; la giovinezza (antitesi) è il momento in cui l’individuo, con i suoi ideali e le sue speranze, entra in contrasto con il proprio ambiente; la maturità (sintesi) è anima naturale antropologia
anima senziente anima reale coscienza
LO SPIRITO SOGGETTIVO
è studiato da
fenomenologia
autocoscienza ragione spirito teoretico
psicologia
spirito pratico spirito libero
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il momento in cui l’individuo, dopo l’urto adolescenziale con il mondo, si riconcilia con esso, giungendo al «riconoscimento della necessità oggettiva e della razionalità del mondo già esistente e fatto». La fenomenologia La fenomenologia studia lo spirito in quanto coscienza, autocoscienza e ragione, secondo
lo sviluppo che abbiamo già analizzato nella Fenomenologia dello spirito ( p. 728).
La psicologia La psicologia, infine, studia lo spirito in senso stretto, cioè in quelle sue manifestazioni
universali che sono l’attività teoretica, l’attività pratica e la volontà libera. Nella psicologia Hegel analizza quindi: lo «spirito teoretico», inteso come la totalità di quelle manifestazioni (intuizione, rappresentazione, pensiero) che costituiscono il processo concreto attraverso il quale la ragione trova sé stessa nei propri contenuti; lo «spirito pratico», inteso come l’unità di quelle manifestazioni (sentimento, impulsi, ricerca della felicità) attraverso le quali lo spirito giunge al pieno possesso di sé, cioè diventa libero, determinandosi indipendentemente dalle condizioni accidentali e limitatrici nelle quali l’individuo vive; lo «spirito libero», inteso come volontà di libertà, divenuta per lo spirito essenziale e costitutiva.
)
Per l’esposizione orale
1. Quali sono i caratteri peculiari della filosofia dello spirito hegeliana? 2. Spiega che cosa intende Hegel con l’espressione «spirito soggettivo» e indica come si articola la sua analisi dello spirito soggettivo.
5. Il secondo grado dello spirito: lo spirito oggettivo I momenti Lo «spirito libero», ossia la volontà di libertà, trova la sua piena realizzazione soltanto neldello spirito la sfera dello spirito oggettivo , che corrisponde alla sezione storicamente più importante oggettivo
del pensiero hegeliano. Lo spirito oggettivo è l’insieme delle istituzioni sociali concrete, cioè quell’insieme di determinazioni sovra-individuali che Hegel raccoglie sotto il concetto di “diritto” in senso lato (poiché, come vedremo tra poco, egli usa il termine “diritto” anche in un’accezione più ristretta e propria). Tali manifestazioni si articolano in tre momenti: glossario p. 775 1. il diritto astratto; 2. la moralità; 3. l’eticità.
Il diritto astratto Il diritto astratto, o diritto formale – che coincide con quello che oggi chiamiamo diritto privato e con una parte di quello penale – riguarda la manifestazione esteriore della libertà delle persone, le quali vengono concepite come soggetti puri o astratti di diritto, ovvero come soggetti forniti di sole proprietà giuridiche, indipendentemente dalle loro personalità e dalle condizioni concrete che li diversificano. glossario p. 775 Proprietà, contratto e diritto contro il torto
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In quanto soggetto giuridico, la persona si esprime innanzitutto attraverso le «cose esterne», ovvero attraverso le sue “proprietà”, che Hegel definisce come la «sfera esterna» del libero volere. La proprietà diviene però effettivamente tale soltanto in virtù di un reciproco riconoscimento tra le persone, ossia tramite l’istituto giuridico del «contratto». UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Ovviamente, l’esistenza del diritto rende possibile l’esistenza del suo contrario, cioè il torto (o l’illecito), che nel suo aspetto più grave è il delitto. Ma la colpa richiede una sanzione, o una pena, che si configura dialetticamente come un ripristino del diritto violato (secondo lo schema: diritto = tesi, delitto = antitesi, pena = sintesi). In quanto ri-affermazione potenziata del diritto, ovvero in quanto negazione del delitto, che a sua volta è una negazione del diritto, la pena appare quindi, agli occhi di Hegel, come una necessità oggettiva del nostro razionale e giuridico vivere insieme (tant’è vero che, sviluppando la teoria fichteana secondo la quale la pena consente la riaffermazione del «cittadino» nel criminale, Hegel giunge a scrivere che grazie alla pena il delinquente risulta «onorato come essere razionale»). Tuttavia, perché la pena sia una punizione efficace e formativa (e non si tramuti in vendet- Il passaggio ta), occorre che sia riconosciuta interiormente dal colpevole, e questa esigenza, oltre- dialettico alla moralità passando l’ambito del diritto, rimanda dialetticamente alla sfera della moralità.
La moralità La moralità per Hegel è la sfera della volontà soggettiva quale si manifesta nell’azione. glossario p. 775
L’azione ha un valore morale soltanto quando sgorga da un proponimento del soggetto, Proponimento, tant’è che il soggetto riconosce come proprie soltanto le azioni che rispondono a un suo intenzione e bene astratto deliberato e responsabile proposito (Enciclopedia, par. 504; Lineamenti, parr. 115-118). In quanto procede da un essere pensante, il proponimento prende la forma dell’intenzione. Quando poi l’intenzione si solleva all’universalità, il fine della volontà diventa il bene in sé e per sé. Ma il bene, in questo caso, è ancora un’idea astratta, che attende di passare all’esistenza per opera di una volontà soggettiva che è altrettanto astratta, poiché ha soltanto l’intenzione di compiere il bene. In altri termini, il dominio della moralità è ancora caratterizzato da una separazione tra la soggettività che vuole realizzare il bene, e il bene che deve essere realizzato. Quest’ultimo assume inevitabilmente l’aspetto di un dover essere, ovvero – come scrive Hegel – di un «essere assoluto, che tuttavia insieme non è» (Enciclopedia, par. 511). Hegel intende dire che, per un verso, la morale esige la realizzazione del dovere (cioè del bene), ma per un altro verso tale realizzazione è irraggiungibile, in quanto, intesa come intenzione di compiere il bene, la moralità implica sempre un limite da superare (un’incessante “lotta” contro l’inclinazione sensibile), configurandosi come compito infinito e sforzo senza fine. Questa insolubile contraddizione tra essere e dover essere è tipica della morale kantiana, che Hegel critica non soltanto per la sua nozione di «santità» (perfetta, e perciò impossibile, adesione della volontà alla legge morale), ma anche per la sua formalità e astrattezza, cioè per la sua mancanza di contenuti concreti. Prescrivendo soltanto la forma dell’azione, e non il suo contenuto, l’imperativo categorico kantiano rischia infatti di essere strumento di immoralità, poiché, se si assume come criterio morale l’intenzione invisibile del soggetto che compie l’azione, «ogni illecito e immorale modo d’agire può […] venir giustificato». In altre parole, senza un’indicazione concreta riguardo a che cosa sia autenticamente bene, la «coscienza buona» può degradarsi e dissolversi in «cattiva coscienza»:
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I limiti della morale kantianamente intesa
La coscienza morale come soggettività formale è puramente e semplicemente questo, esser sul punto di rovesciarsi nel male; nella certezza di sé stessi […] hanno entrambi, la moralità e il male, la loro comune radice. (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 139, ann., trad. it. di F. Messineo, Laterza, Bari 1954)
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La critica alla morale del cuore, all’ironia romantica e all’anima bella
Accanto alla morale kantiana, sono manifestazioni emblematiche di questo soggettivismo astratto – che mina la morale alle sue stesse fondamenta, rendendola una sorta di impresa donchisciottesca – le diverse forme di «morale del cuore» (che Hegel ha già analizzato nella Fenomenologia dello spirito cap. 2, p. 736), che fanno consistere il bene nelle inclinazioni arbitrarie o nelle intenzioni velleitarie del soggetto. Lo stesso scarto tra la presunzione dell’io che si crede il tribunale del mondo e la realtà effettiva, cioè tra l’ideale e il reale, si ritrova nell’ironia romantica, la quale, non prendendo “sul serio” la realtà, finisce per abbassare la legge etica a «trastullo» dell’io, facendo del soggetto il signore del bene e del male. La morale, per Hegel, è in ultima analisi riconducibile proprio a questo “giocare” con la propria coscienza, che può fare il male sulla base di sofistici ragionamenti sulla nobiltà delle sue intenzioni, o addirittura spacciando il male per bene («di buone intenzioni è lastricato l’inferno», ricorda il detto popolare richiamato dallo stesso Hegel).
L’eticità La separazione tra la soggettività e il bene astratto tipica della moralità viene annullata e risolta nell’ eticità , nella quale il bene si attua concretamente e diviene esistente. glossario p. 775
La concretezza Mentre la moralità è la volontà soggettiva (cioè interiore e privata) del bene, l’eticità è la della sfera etica moralità sociale, ovvero la realizzazione concreta del bene nelle forme istituzionali del-
la famiglia, della società civile e dello Stato (che analizzeremo nelle prossime pagine). A questo proposito è interessante notare che il termine “eticità” (Sittlichkeit), che Hegel oppone a “moralità” (Moralität), deriva dalla parola “costume” (éthos in greco, Sitte in tedesco). Con questa scelta terminologica, il filosofo sottolinea che ogni individuo, nascendo, si trova collocato in una sorta di dimora precostituita, in un orizzonte storico-culturale che orienterà le sue scelte. Questo significa che la coscienza individuale non può (e non deve) operare in modo autonomo, poiché è calata in un tessuto di relazioni interpersonali e di valori consolidati che è tenuta a rispettare: in questo senso il “bene” è concreto e determinato, fatto di regole comportamentali condivise che l’individuo acquisisce in modo per così dire naturale e istintivo, come una sorta di «abito morale» aristotelico, o di «seconda natura» di cui si riveste mediante la consuetudine. ( T2 p. 780)
L’eticità Questa dimensione sovra-individuale dell’éthos era chiaramente presente nella «bella etidegli antichi cità» greca, che concepiva la vita dell’individuo come indissolubilmente legata a quella dele dei moderni
la pólis. Secondo Hegel, però, l’unità immediata, naturale e felice tra individuo e Stato, propria dell’eticità greca, si è tragicamente spezzata nel mondo cristiano e moderno, in cui all’organicismo della città antica è subentrato l’individualismo liberale borghese, cioè la rivendicazione dei diritti naturali dell’individuo prima e indipendentemente da quelli stabiliti dallo Stato. Il passaggio alla moralità moderna ha, da un lato, un valore positivo, perché nel mondo greco l’unità dell’individuo e della comunità era vissuta in maniera ingenua e inconsapevole; ma dall’altro ha una connotazione negativa, poiché è opera dell’intelletto astratto, ovvero di quella facoltà conoscitiva che, anziché cogliere la realtà nella sua totalità unitaria e concreta, introduce una serie di opposizioni e scissioni (tra individuo e Stato, particolare e universale). Per questo motivo Hegel propone un’«eticità dei moderni», che recuperi l’antica unità di individuo e cittadino, ma nella forma non dell’immediatezza e della naturalità, bensì della libertà.
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A questo punto è facile comprendere in che senso l’eticità hegeliana costituisca la sintesi L’eticità come tra il diritto astratto (coercizione giuridica “esteriore”) e la moralità (sterile inseguimento sintesi di diritto e moralità “interiore” di un bene astratto). In quanto moralità sociale concreta, cioè attuata visibilmente nel mondo, essa rappresenta infatti il superamento di quella spaccatura tra interiorità ed esteriorità che è propria della morale del dovere. Questo significa che, configurandosi come una sorta di morale che ha assunto le forme del diritto (cioè dell’esteriorità istituzionale) o di diritto che ha assunto le forme della morale (cioè del perseguimento del bene universale), l’eticità risulta in grado di superare le opposte unilateralità sia del diritto sia della morale. Il primo momento dell’eticità (terza e ultima fase della vita dello spirito, sorta come sintesi dialettica del diritto astratto e della moralità) è la famiglia, nella quale il rapporto naturale tra i sessi assume la forma di una «unità spirituale» fondata sull’amore e sulla fiducia. La famiglia si articola nel matrimonio, nel patrimonio e nell’educazione dei figli (educazione che Hegel definisce come una loro «seconda nascita»). Una volta cresciuti e divenuti personalità autonome, i figli escono dalla famiglia originaria per dare origine a nuove famiglie, ciascuna delle quali ha interessi propri. In tal modo si passa al secondo momento dell’eticità.
La famiglia
La società civile Con la formazione di nuovi nuclei familiari il sistema unitario e concorde
della famiglia (tesi) si frantuma nel sistema “atomistico” e conflittuale della società civile (antitesi), che si identifica sostanzialmente con la sfera economico-sociale e giuridico-amministrativa del vivere insieme, ovvero con un luogo in cui si scontrano, ma anche si incontrano, diversi interessi particolari e indipendenti, i quali si trovano a dover coesistere tra loro.
Al di là delle presentazioni riduttive di Hegel, è bene tener presente che la società civile, pur rappresentando «il campo di battaglia dell’interesse privato e individuale di tutti contro tutti» (Lineamenti, par. 289), cioè il momento antitetico o negativo dell’eticità, è pur sempre parte dell’eticità, nonché la “molla” che spinge a passare alla fase dello Stato. Inoltre non bisogna dimenticare che la società civile non si riduce alla sola “base economica”, in quanto il sistema economico moderno presuppone, secondo Hegel, una serie di meccanismi giuridico-amministrativi che fanno parte integrante della vita sociale. I momenti in cui si articola la società civile sono: 1. il sistema dei bisogni; 2. l’amministrazione della giustizia; 3. la polizia e le corporazioni.
Il valore e i momenti della società civile
L’espressione «sistema dei bisogni» si riferisce al fatto che gli individui, dovendo soddisfa- Il sistema re le proprie necessità mediante la produzione della ricchezza e la divisione del lavoro, dei bisogni danno origine a differenti classi sociali:
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Dove si ha la società civile, e quindi lo Stato, hanno luogo le classi nella loro distinzione; giacché la sostanza universale, in quanto vivente, non esiste se non si particolarizza (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 527) organicamente.
Più precisamente, Hegel distingue tre classi, o ceti (Stände): la classe «sostanziale» o «naturale» degli agricoltori (che «ha il suo patrimonio nei prodotti naturali di un terreno che essa lavora»); la classe «formale» degli artigiani, dei «fabbricanti» e dei commercianti («che ha per OFFICINA sua occupazione il dar forma al prodotto naturale»); CITTADINANZA la classe «universale» dei pubblici funzionari (che «ha per sua occupazione gli interes- Valore del lavoro si universali della situazione sociale»). p. 131
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L’amministrazione Il complesso «sistema dei bisogni» e la ripartizione delle funzioni sociali nelle diverse clasdella giustizia si richiede l’amministrazione della giustizia, la quale concerne la sfera delle leggi e della
loro tutela giuridica, identificandosi sostanzialmente con ciò che oggi chiamiamo “diritto pubblico”.
La polizia e le Alla sicurezza sociale provvedono invece la polizia e le corporazioni. Nel sistema hegecorporazioni liano le corporazioni di mestiere rivestono un ruolo particolare, poiché attuano una sorta
di unità tra la volontà del singolo e quella della categoria lavorativa a cui quel singolo appartiene. Questa circostanza obbliga l’individuo a uscire «fuori dal suo interesse singolo e privato» (Enciclopedia, par. 534), prefigurando in tal modo – sia pure in forma relativa e imperfetta – il momento dell’universalità statale. In altre parole, le corporazioni fungono da cerniera dialettica tra la società civile e lo Stato.
L’importanza L’idea di porre, tra l’individuo e lo Stato, quella sorta di terzo termine che è la società dell’analisi civile è stata ritenuta una delle maggiori intuizioni di Hegel. Questa idea sarà largahegeliana della società civile mente utilizzata dagli studiosi di problemi economici e sociali, e troverà uno dei suoi in-
terpreti più originali in Marx ( vol. 3, unità 2, cap. 2). Tra le altre intuizioni hegeliane che sono state apprezzate soprattutto dai marxisti vi sono l’importanza attribuita al lavoro e all’economia politica, la constatazione che il mondo moderno produce ricchezza e simultaneamente miseria, e la consapevolezza degli aspetti alienanti e frustranti che scaturiscono dalla divisione e dalla meccanizzazione del lavoro.
Una sintesi Lo Stato Lo Stato rappresenta il momento culminante (sintesi) dell’eticità, ovvero la di famiglia e ri-affermazione dell’unità della famiglia (tesi) al di là della dispersione della società società civile
civile (antitesi). Lo Stato – che per Hegel è una sorta di famiglia in grande, nella quale l’éthos di un popolo esprime consapevolmente sé stesso – sta infatti alla società civile come l’universale (la ricerca del bene comune) sta al particolare (la ricerca dell’utile privato). Di conseguenza, lo Stato non implica una soppressione della società civile (che è un momento necessario, e quindi ineliminabile, della vita dello spirito), ma uno sforzo di indirizzarne i particolarismi verso il bene collettivo:
‘
Lo Stato è la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile; la medesima unità, che è nella famiglia come sentimento dell’amore, è l’essenza dello Stato. (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 535)
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la sostanza? p. 798
La famiglia è una totalità organica che, fondandosi sull’unione sessuale e sul sentimento, in una certa misura è ancora “natura”, e dissolve in una unità indistinta le differenze individuali. La società civile introduce invece l’elemento della soggettività, della separazione, ma perde quello dell’organicità. Nello Stato si ha finalmente la congiunzione dell’organicità (l’individuo, nello Stato, non vive contrapposto agli altri, come nel «sistema atomistico» della società civile, ma opera come momento di un “corpo” o di un “organismo” unitario) con la consapevolezza soggettiva (il cittadino è consapevole di essere parte del tutto).
Il rapporto Come abbiamo visto, Hegel definisce lo Stato «sostanza etica consapevole di sé», poitra lo Stato ché, in quanto autocoscienza e volontà di un popolo, esso è il vero soggetto del bene e del e il singolo
male, ciò che sostiene (“sta sotto”) le scelte del singolo, condizionandole e orientandole. Il punto di vista morale e soggettivo su ciò che si deve e non si deve fare è sempre compreso “dentro” le istituzioni dello Stato, le quali, educando il cittadino al rispetto delle leggi, conferisce un contenuto effettivo agli astratti obblighi della morale ( “La filosofia che vive”, p. 761). Questa concezione dello Stato è condensata nell’espressione Stato etico , con la quale si indica una concezione dello Stato come incarnazione suprema della moralità sociale e del bene comune. glossario p. 775
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
EDUCAZIONE CIVICA
SVILUPPO SOSTENIBILE
LA FILOSOFIA CHE VIVE Dall’«eticità» di Hegel al valore delle istituzioni nelle odierne democrazie
La nozione hegeliana di «eticità» Nella sua analisi della coscienza soggettiva, Hegel critica esplicitamente le velleità del singolo soggetto morale, poiché può accadere che questi – sentendosi depositario del bene e del male, e appellandosi alla «buona coscienza» e alla moralità delle proprie intenzioni – legittimi il male spacciandolo per bene. Ciò non significa però che il bene, sottratto all’interiorità della coscienza, debba ridursi a «esteriorità legale», cioè al semplice rispetto delle leggi, dei costumi e delle tradizioni consolidate. La soluzione hegeliana è nota: si tratta di superare l’opposizione tra coscienza morale e legalità, per ri-comprenderle entrambe nella superiore unità e concretezza dell’«eticità». La “banalità” del comportamento morale Se intesa correttamente, la prospettiva hegeliana offre interessanti (e sempre attuali) spunti di riflessione. Prendiamo il caso della corruzione: dove trovare un argine efficace contro il perdurante dilagare di questo fenomeno? È evidente che né le leggi né la paura della pena per la loro trasgressione sono sufficienti, così come non basta un generico appello alla “coscienza” dei politici e dei cittadini. Contro questo male, Hegel avrebbe rintracciato un presidio nell’«éthos oggettivo», o pubblico, cioè nella forza delle istituzioni, intese come «potenze etiche che reggono la vita degli individui». L’«eticità», infatti, è per Hegel ciò che era per Aristotele: una sorta di seconda natura acquisita mediante la familiarità con le regole, la quale, sostituendosi all’egoismo delle inclinazioni naturali, finisce per orientare il comportamento come se fosse un istinto. Da questo punto di vista l’eticità hegeliana può essere paragonata a un bene “banale”, compiuto in virtù non di scelte eroiche, ma di una “tranquilla” abitudine quotidiana ad appoggiarsi a qualcosa di consolidato e rassicurante: Che cosa l’uomo debba fare, quali sono i suoi doveri che egli deve adempiere per essere virtuoso, è facile a dire
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DIBATTITO CRITICO
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Pace, giustizia e istituzioni forti
in una comunità etica – non c’è nient’altro da fare, da parte sua, se non ciò che a lui, nei suoi rapporti, è tracciato, è enunciato e noto. (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 150, annotazione, p. 136)
L’importanza della fiducia nelle istituzioni A ben vedere, la lezione hegeliana sembra particolarmente adatta alle odierne società democratiche, la cui vita non può essere ridotta al rispetto passivo, da parte dei cittadini, di un insieme di regole esteriori o procedurali, né al puro controllo della legalità da parte della magistratura. In quanto “governo del popolo”, la democrazia esige che i cittadini condividano i valori della comunità e diventino parte integrante delle istituzioni; esige, cioè, la fiducia (ottenuta con la consuetudine) in tutto ciò che le istituzioni stesse esprimono: un lungo cammino e una lunga esperienza storica grazie ai quali sono state messe a punto le migliori regole possibili della vita associata. È quanto afferma uno dei più importanti giuristi italiani, Gustavo Zagrebelsky (nato nel 1943), il quale osserva che le istituzioni hanno per l’individuo un carattere non soltanto costrittivo e limitante, ma anche «liberante», o «emancipante», nel senso che gli consentono di abbandonarsi con fiducia (quasi istintivamente, senza «calcoli» o ragionamenti) alle loro indicazioni, senza doversi preoccupare di dimostrarne la validità: L’istituzione è emancipante perché solleva gli individui come singoli da una quantità di oneri di calcolo che avvilupperebbero l’esistenza con limitazioni, incertezze e paure paralizzanti. […] Chi agisce automaticamente e conformemente a ciò che, secondo l’istituzione, ci si aspetta da lui […] non opera come se fosse la prima volta, ma usufruisce di un’esperienza consolidata che normalmente consente di raggiungere lo scopo, uno scopo che, altrimenti, sarebbe probabilmente fuori della sua portata. (Intorno alla legge, Einaudi, Torino 2009, pp. 396-397)
Come si può costruire un’etica pubblica che orienti il comportamento di cittadini e governanti, e che ad esempio sia capace di contrastarne la corruzione? INDICAZIONI OPERATIVE Prendendo spunto dalla riflessione di Hegel e di Zagrebelsky, avviate una discussione per individuare possibili strumenti concreti volti a diffondere la fiducia nelle istituzioni e una più convinta partecipazione alla vita pubblica, contrastando i fenomeni degenerativi a cui la convivenza democratica può andare soggetta, quando si affidi alla sola forza delle leggi o alla sola “buona coscienza” dei singoli. QUESTIONE
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Il rifiuto del Il modello hegeliano dello Stato etico si differenzia nettamente dal modello politico elabomodello liberale rato da autori come Locke e Kant, ossia dalla teoria liberale dello Stato come strumento
volto a garantire la sicurezza e i diritti degli individui. Secondo Hegel, infatti, il liberalismo comporta una confusione tra società civile e Stato, ovvero una sorta di riduzione dello Stato a semplice tutore dei particolarismi della società civile:
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Se lo Stato vien confuso con la società civile e la destinazione di esso viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quale essi sono uniti. (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 258)
Il rifiuto Lo Stato di Hegel si differenzia anche dal modello democratico di Rousseau, ovvero dalla del modello concezione secondo cui la sovranità risiede nel popolo. A ben vedere – scrive infatti Hegel – democratico
la nozione di sovranità popolare «appartiene ai confusi pensieri» (Lineamenti, par. 279), in quanto il popolo, al di fuori dello Stato, è soltanto una moltitudine informe: I molti come singoli, la qual cosa si intende volentieri per popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto come una moltitudine – una massa informe. (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 303)
La prospettiva A questo tipo di «astrazioni» (liberale e democratica), Hegel contrappone l’idea che la soorganicistica vranità dello Stato derivi dallo Stato medesimo, il quale ha dunque in sé stesso, e non al
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere? p. 802
di fuori di sé, la propria ragion d’essere e il proprio scopo. Il che equivale a dire che lo Stato non è fondato sugli individui, ma sull’idea di Stato, ossia sul concetto di un bene universale. Il presupposto teorico della polemica anti-liberale e anti-democratica di Hegel è perciò la concezione organicistica dello Stato, secondo cui non sono tanto gli individui a fondare lo Stato, quanto lo Stato a fondare gli individui, sia dal punto di vista storico-temporale (lo Stato viene cronologicamente “prima” degli individui, che nascono già “calati” in esso), sia dal punto di vista ideale e assiologico (lo Stato è “superiore” agli individui, esattamente come il tutto è superiore alle parti che lo compongono). glossario p. 775
Il rifiuto del L’ottica organicistica si accompagna al rifiuto del modello contrattualistico, ovvero delle contrattualismo teorie che vorrebbero far dipendere la vita associata da un contratto che scaturisce dalla e del giusnaturalismo volontà arbitraria degli individui. Simili teorie, per Hegel, rappresentano un insulto
all’«assoluta autorità e maestà» dello Stato, e un attentato al «diritto supremo» che esso possiede nei confronti dei cittadini. Hegel contesta anche il giusnaturalismo, ossia l’idea che esistano dei diritti individuali prima e oltre lo Stato, affermando che «la società è la sola condizione in cui il diritto ha la sua realtà» (Enciclopedia, par. 502).
La superiorità Tuttavia (come ha osservato Norberto Bobbio nei suoi Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981), delle leggi Hegel condivide con il giusnaturalismo sia la tendenza a fare dello Stato il punto cul-
minante del processo storico, sia la tesi della supremazia della legge, concepita come la più alta manifestazione di una volontà razionale. Lo Stato hegeliano, infatti, pur essendo assolutamente sovrano, non è però uno Stato dispotico, ossia illegale, in quanto Hegel, conformemente a una tradizione che va da Hobbes a Rousseau, ritiene che lo Stato debba operare soltanto attraverso le leggi e nella forma delle leggi. E ciò in omaggio al principio secondo cui a governare non devono essere gli uomini, ma le leggi (Lineamenti, par. 278). Di conseguenza, lo Stato hegeliano si configura come «quello che la giurisprudenza tedesca chiamò più tardi un Rechtstaat» (George Holland Sabine), ovvero uno Stato di diritto, fondato sul rispetto delle leggi e sulla salvaguardia della libertà “formale” dell’individuo e della sua proprietà.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Coerentemente con la sua prospettiva storicistica (di cui parleremo più nel dettaglio nelle L’origine della prossime pagine), Hegel sostiene inoltre che la costituzione , cioè «l’organizzazione dello costituzione Stato», non è il frutto di un’elucubrazione a tavolino, ma qualcosa che sgorga necessariamente dalla vita collettiva e storica di un popolo: glossario p. 775
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Ciò che si chiama fare una costituzione non è mai […] accaduto nella storia; come non si è mai fatto un codice: una costituzione si è soltanto svolta dallo spirito. (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 540) ogni popolo ha quindi la costituzione che gli è adeguata. (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 274)
Tant’è vero – esemplifica Hegel – che, se si vuole imporre a priori una costituzione a un popolo (come fece ad esempio Napoleone con gli spagnoli), inevitabilmente si fallisce, anche nel caso in cui la costituzione proposta sia migliore di quella esistente. Hegel identifica la costituzione «razionale» con la monarchia costituzionale moderna, La miglior di ossia con un organismo politico che prevede una serie di poteri distinti, ma non divisi forma costituzione tra loro. I poteri analizzati da Hegel sono tre: legislativo, governativo e principesco (manca, come si può notare, il potere giudiziario, dal momento che per Hegel l’amministrazione della giustizia fa parte, come abbiamo visto, della società civile). Il potere legislativo consiste nel «potere di determinare e di stabilire l’universale» e «concerne le leggi come tali». A tale potere concorre «l’assemblea delle rappresentanze di classi», che trova la propria espressione in una Camera alta e in una Camera bassa. Si noti che, pur insistendo sull’importanza mediatrice dei ceti – che «stanno tra il governo in genere da un lato, e il popolo dissolto in individui e sfere particolari dall’altro» (Lineamenti, par. 302) – Hegel si mostra diffidente nei confronti del loro agire politico, ritenendo che questi, per loro natura, siano inclini a far valere gli interessi privati «a spese dell’interesse generale». Inoltre, esplicitando ancora una volta la propria lontananza dal pensiero democratico, Hegel annovera tra quelle che chiama «storte e false» opinioni correnti l’idea che «i deputati del popolo o magari il popolo debba intendere nel miglior modo quel che torni al suo meglio»; egli giunge perfino ad affermare che i membri del governo «possono fare ciò che è il meglio senza i ceti», in quanto essi possiedono una «profonda conoscenza e intellezione» dei bisogni e degli affari dello Stato, mentre il popolo «non sa ciò che vuole» (Lineamenti, par. 301). Coerentemente con queste premesse, Hegel dichiara che l’assemblea dei ceti costituisce soltanto una parte, quella meno determinante, del potere legislativo, poiché a quest’ultimo concorrono anche, in funzione preminente, gli altri due poteri di cui dobbiamo ancora parlare: quello governativo e quello principesco.
Il potere legislativo e la mediazione dei ceti
Il potere governativo, o esecutivo, comprende in sé i poteri giudiziari e di polizia operanti Il potere a livello di società civile, e consiste nella «sussunzione delle sfere particolari e dei casi sin- governativo goli sotto l’universale» (Lineamenti, par. 273). Ciò significa che chi governa deve compiere lo sforzo di tradurre in atto, in riferimento ai casi specifici, l’universalità delle leggi. A questo compito sono adibiti i funzionari dello Stato. Il potere del principe rappresenta l’incarnazione stessa dell’unità dello Stato, cioè il mo- Il potere mento in cui la sovranità si concretizza in un’individualità reale, alla quale spetta la deci- principesco, o monarchico sione definitiva sugli affari della collettività: «la personalità dello Stato è reale soltanto se intesa come una persona, il monarca» (Lineamenti, par. 279, “Aggiunta”). Al di là dell’enfasi che Hegel pone sulla figura-simbolo del monarca, la funzione di quest’ul- La monarchia timo sembra tuttavia consistere, in ultima istanza, nel «dire sì, e mettere il puntino sull’i» costituzionale hegeliana (Lineamenti, par. 280).
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Pertanto, «il vero potere politico, nel modello costituzionale hegeliano, è il potere del governo […]. Vera classe politica sono i ministri e i pubblici funzionari» (cfr. Michelangelo Bovero, Hegel e il problema politico moderno, Franco Angeli, Milano 1985, p. 47). Questo sembra confermato dal fatto che per Hegel la monarchia costituzionale: rappresenta la «costituzione della ragione sviluppata, rispetto alla quale tutte le altre appartengono a gradi più bassi» (Enciclopedia, par. 542); risolve organicamente in sé stessa tutte le forme classiche di governo, cioè la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia: «il monarca è uno; con il potere governativo intervengono alcuni e con il potere legislativo interviene la pluralità in genere» (Lineamenti, par. 273). Lo Stato come È bene infine osservare che il pensiero politico hegeliano mette capo a un’esplicita diviDio visibile nizzazione dello Stato: «L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato» (Lineamenti di filosofia del
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diritto, par. 258, “Aggiunta”). Alcuni studiosi, per difendere Hegel dall’accusa di “statolatria”, hanno cercato di minimizzare, anzi di rettificare le affermazioni testuali del filosofo, ricordando che, stando alle premesse del suo pensiero, Dio, in senso stretto, non si identifica con lo Stato, ma con lo spirito assoluto, il quale (come vedremo nelle prossime pagine) attraverso l’arte e la religione culmina nella filosofia. Ciò è in parte vero, anche se non bisogna dimenticare che l’arte, la religione e la filosofia esistono soltanto nello Stato e in virtù dello Stato, il quale rappresenta quindi, proprio come scrive Hegel, «l’ingresso» concreto e visibile di Dio (dello spirito) nel mondo.
L’autonomia Come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può trovare un limite o un impedello Stato dimento alla sua azione nelle leggi morali. Infatti, scrive Hegel, «il benessere di uno Stato dalla morale
ha una giustificazione del tutto diversa che non abbia il benessere dell’individuo» e non può dipendere da quei «pensieri universali» che vanno sotto il nome di «princìpi morali» (Lineamenti, par. 337).
L’assenza di un diritto internazionale e la giustificazione della guerra
QUESTIONE La guerra: follia da evitare o tragica necessità? (Kant, Hegel) p. 788
Per quanto riguarda il diritto esterno (che concerne quella che oggi chiameremmo “politica estera”), Hegel dichiara che non esiste un organismo superiore al quale spetti il compito di regolamentare i rapporti internazionali e di risolvere i conflitti tra gli Stati. Il solo giudice o arbitro di questi grandi eventi è lo spirito universale, cioè la «storia del mondo», che (come vedremo meglio nel prossimo paragrafo) è la razionalità stessa nel suo dispiegarsi storico. E la storia del mondo ha come suo momento strutturale la guerra. Muovendosi in un orizzonte di pensiero completamente diverso dal cosmopolitismo pacifista e illuminista di Kant, Hegel attribuisce alla guerra non soltanto un carattere di necessità e inevitabilità (allorquando non vi siano le condizioni per un accomodamento delle controversie tra Stati), ma anche un alto valore morale. Con un paragone famoso, egli afferma infatti che, come «il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine in cui sarebbe ridotto da una quiete durevole», così la guerra preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace durevole o «perpetua» (Lineamenti, par. 324).
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Per l’esposizione orale
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1. Che cosa intende Hegel con l’espressione «spirito oggettivo»? 2. Che cos’è il «diritto astratto» e quali sono le sue articolazioni? 3. Spiega che cos’è per Hegel la «moralità» e chiarisci in che senso egli consideri la morale come caratterizzata da formalità e astrattezza. 4. Riassumi le caratteristiche dei primi due momenti dell’eticità (famiglia e società civile). 5. Presenta la concezione hegeliana dello Stato e precisa in che senso possa essere definita “organicistica”.
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
6. La «storia del mondo» e la sua razionalità Hegel è consapevole che la storia possa apparire, a uno sguardo superficiale, un tessuto di La razionalità fatti contingenti, insignificanti e mutevoli, dominato dal disordine, dalla distruzione e dal della storia male. Ma questa apparente assenza di un piano razionale o divino complessivo è caratteristica soltanto dell’intelletto finito, cioè del punto di vista dell’individuo, il quale misura la storia in base ai suoi ideali personali, per quanto rispettabili, e non sa elevarsi al punto di vista puramente speculativo della ragione assoluta. In realtà – afferma Hegel – «il grande contenuto della storia del mondo è razionale, e razionale dev’essere: una volontà divina domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran contenuto». Questa visione è confermata dalla fede religiosa nella provvidenza, cioè dall’idea che il mondo e il suo corso storico rispondano a un progetto divino; tuttavia la nozione di “provvidenza” è generica e spesso adombra la convinzione che la ragione umana non sia in grado di comprendere il disegno generale che governa la realtà. Pertanto, secondo Hegel, occorre portare tale credenza religiosa alla forma di un sapere filosofico che sia capace di riconoscere le “vie” della provvidenza divina, cioè che sia in grado di determinare il fine, i mezzi e i modi della razionalità storica. Il fine della storia del mondo è che «lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramen- Il fine te, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente, manifesti oggettiva- della storia mente sé stesso». glossario p. 775 Questo spirito che si manifesta e si realizza in un «mondo esistente» è ciò che Hegel chiama «spirito del mondo», il quale si incarna negli spiriti di quei popoli che si succedono alla guida della storia, determinandone lo sviluppo. Il disegno provvidenziale della storia si rivela infatti nella vittoria conseguita, di volta in volta, da un certo popolo, il quale è vittorioso perché esprime meglio degli altri il più alto concetto dello spirito. I mezzi della storia del mondo sono dunque i popoli, ma anche gli individui. E poiché lo I mezzi spirito del mondo è sempre lo spirito di un popolo determinato, l’azione dell’individuo della storia sarà tanto più efficace quanto più sarà conforme allo spirito del popolo a cui appartiene:
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Ogni individuo è figlio del suo popolo, in un momento determinato dello sviluppo di questo popolo. Nessuno può saltare oltre lo spirito del suo popolo più di quanto possa saltar via dalla terra. (Lezioni sulla filosofia della storia, I, trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 113)
Poiché la storia è sia conservazione sia progresso, essa troverà i suoi strumenti sia in indivi- Gli eroi dui conservatori sia in individui lungimiranti e rivoluzionari. Questi ultimi sono i gran- della storia di «eroi» della storia del mondo (come Alessandro, Cesare, Napoleone), di cui Hegel dice: sono i veggenti: sanno quale sia la verità del loro mondo e del loro tempo, quale sia il concetto, l’universale prossimo a sorgere; e gli altri si riuniscono intorno alla loro bandiera, perché essi esprimono ciò di cui è giunta l’ora […]. Gli altri debbono loro obbedire, perché lo (Lezioni sulla filosofia della storia, IV, cit., p. 899) sentono.
Soltanto a questi eroi «veggenti» Hegel riconosce il diritto di combattere contro lo stato di cose presente, e di lavorare per cambiare l’avvenire. Il segno del loro destino eccezionale è il successo: resistervi è impresa vana. In apparenza, gli eroi della storia del mondo non fanno che seguire i propri ideali e la pro- L’astuzia pria ambizione; ma si tratta – dice Hegel – di un’ astuzia della ragione , la quale si serve della ragione delle passioni degli individui come di mezzi per attuare i propri fini. glossario p. 776
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Hegel è quindi ben lontano dal condannare le passioni, anzi afferma che «nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione». Ma è anche convinto che le passioni individuali siano semplici strumenti di cui la storia si serve per giungere a traguardi ben diversi da quelli a cui esse sembrano tendere. Tant’è vero che gli individui, per quanto eccezionali, sono comunque destinati a perire, quando prima non siano condotti alla rovina dal loro stesso successo: ciò accade perché l’Idea universale che aveva provocato quel successo ha già raggiunto il proprio fine ( “Filosofia e Letteratura”, p. 767). I tre momenti Abbiamo detto che il fine della storia è la realizzazione (l’oggettivazione) dello spirito nel della storia mondo esistente; ma lo spirito è essenzialmente libertà: quindi il fine ultimo della storia del mondo
ESERCIZI
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del mondo è la realizzazione della libertà dello spirito. E poiché sappiamo che per Hegel questa libertà si concretizza nello Stato, il fine supremo della storia è la forma più perfetta dello Stato. Da questo punto di vista, la storia del mondo è una successione di forme statali che costituiscono momenti di un divenire assoluto. I tre momenti di tale successione sono la civiltà orientale, la civiltà greco-romana e la civiltà germanica, che costituiscono le tre grandi tappe della realizzazione della libertà dello spirito nella storia. Nel mondo orientale uno solo è libero (il sovrano); nel mondo greco-romano alcuni sono liberi (i nobili); nel mondo cristiano-germanico tutti gli uomini sanno di essere liberi. Infatti la monarchia costituzionale moderna, abolendo i privilegi dei nobili e parificando i diritti di tutti i cittadini, rende libero l’essere umano in quanto essere umano. Ovviamente questa libertà (che accomuna tutti gli uomini nel riconoscimento della loro comune dignità) secondo Hegel si può realizzare soltanto nello Stato etico ( p. 760), che risolve l’individuo nell’organismo universale della comunità, e non certo in uno Stato di tipo liberale in cui il singolo pretenda di far valere il proprio arbitrio e i propri interessi particolari. Hegel afferma infatti:
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il diritto, la morale, lo Stato, e solo essi sono la positiva realtà e soddisfazione della libertà. (Lezioni sulla filosofia della storia) L’arbitrio del singolo non è libertà.
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Per l’esposizione orale
1. Illustra la concezione hegeliana della storia, spiegando in che senso essa debba ritenersi provvidenzialistica. 2. Spiega che cosa intende Hegel parlando di «astuzia della ragione». 3. Indica qual è, secondo Hegel, il fine della storia e attraverso quali momenti si realizza. SNODI PLURIDISCIPLINARI storia
L’eroe per Hegel è un individuo “veggente”, poiché ha lo sguardo rivolto in avanti, a un futuro da costruire. È anche un “rivoluzionario”, poiché con la sua opera riesce a imprimere un’accelerazione al corso della storia, modificando lo stato di cose esistente per raggiungere un livello più alto nella progressiva realizzazione della razionalità nel mondo. Infine è una “guida”, a cui gli altri esseri umani obbediscono poiché riconoscono la sua particolare capacità. Tra le figure storiche che hai incontrato nel tuo corso di studi, ce n’è qualcuna che risponde a questa descrizione dell’eroe? Hegel cita grandi condottieri come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone: pensi di poter aggiungere qualcun altro a questo elenco? Eventualmente, includeresti tra gli “eroi” della storia anche personaggi appartenenti ad altri ambiti, ad esempio al mondo del sapere e della scienza? Motiva le tue risposte.
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FILOSOFIA E LETTERATURA SNODI PLURIDISCIPLINARI
NAPOLEONE PER HEGEL E PER MANZONI
E sparve, e i dì nell’ozio / chiuse in sì breve sponda, segno d’immensa invidia / e di pietà profonda, d’inestinguibil odio / e d’indomato amor. […] (Il cinque maggio, vv. 1-12, 31-36, 55-60)
Gli individui e il disegno della storia Un «eroe» dal grande fascino Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la personalità carismatica di Napoleone, unita alle sue numerose vittorie militari, colpì gli animi di numerosi intellettuali. Anche Hegel subì il fascino di questo personaggio, che definì «anima del mondo» e che vide come uno dei massimi «eroi» della storia. Più giovane di Hegel di appena quindici anni, anche Alessandro Manzoni (1785-1873) celebrò la “gloriosa” parabola di Napoleone, dedicandogli una delle sue Odi più famose, Il cinque maggio, il cui titolo ricorda la data di morte del condottiero: il 5 maggio 1821. Eccone alcune delle strofe più note.
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Ei fu. Siccome immobile, / dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore / orba di tanto spiro, così percossa, attonita / la terra al nunzio sta, muta pensando all’ultima / ora dell’uom fatale; né sa quando una simile / orma di pié mortale la sua cruenta polvere / a calpestar verrà. […] Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo / Fattor, che volle in lui del creator suo spirito / più vasta orma stampar. […]
LABORATORIO
Colpiti e affascinati entrambi dalla figura di Napoleone, il filosofo Hegel e il letterato Manzoni guardano ad essa come a uno strumento, un mezzo della storia. • Per Hegel la storia è un processo necessario in cui è lo spirito stesso, la ragione, a dispiegarsi, per giungere progressivamente alla consapevolezza di costituire la realtà in ogni suo aspetto. In tale processo gli «eroi», pur celebrati da Hegel per la loro capacità di trascinare i popoli e cambiare l’assetto del mondo, non sono che strumenti, “pedine” al servizio di una ragione infinita che se ne serve “astutamente” per i propri scopi, per poi disfarsene. • Anche per Manzoni la storia risponde a un disegno complessivo: quello della provvidenza divina, che dà senso alla vita di ogni individuo. Il significato dell’esistenza dei grandi personaggi storici, tuttavia, si svela soltanto «ai posteri», che sono in grado di coglierlo grazie alla distanza del tempo. Nella sua generalità, l’ordine provvidenziale rimane però impenetrabile alla ragione umana, cosicché ad assumere importanza, per il Manzoni del Cinque maggio, non è tanto il senso complessivo della parabola napoleonica, quanto l’esistenza dell’uomo o dell’individuo Napoleone: il suo trovarsi anch’egli, alla fine, di fronte alla morte, ovvero di fronte all’eterno, «dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò» (v. 96).
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la letteratura | Riflettere
e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
PER RIFLETTERE, ARGOMENTARE E DIBATTERE
1. Ripercorri le strofe dell’ode manzoniana; quindi realizza una presentazione multimediale di almeno quattro slide – possibilmente corredata di schemi, immagini ecc. – in cui confronti la concezione della storia che emerge dal Cinque maggio con quella di Hegel, mettendone in evidenza analogie e differenze, con particolare attenzione al ruolo giocato dai singoli individui e dalle loro passioni. 2. Sotto la guida dell’insegnante, dividetevi in gruppi di 4-5 studenti, e all’interno di ciascuno di essi rispondete alle domande che seguono, argomentando le vostre posizioni.
• Pensate che i progetti dei singoli individui, con i loro interessi e le loro passioni, contribuiscano alla realizzazione di un disegno complessivo che supera (e talvolta contraddice) le loro intenzioni? • Quale valore attribuite alle passioni umane? Ritenete che siano importanti “molle” dell’agire e della storia, o che non siano che vani moti dell’animo, destinati a perire insieme con gli individui? Al termine del lavoro in gruppo allargate il dibattito all’intera classe, in modo da confrontare le diverse posizioni emerse e individuare quelle più comuni e condivise.
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7. Il terzo e ultimo momento dello spirito: lo spirito assoluto Lo spirito assoluto è il momento in cui l’Idea giunge alla piena coscienza della propria infinità o assolutezza, cioè alla coscienza del fatto che tutto è spirito, e che non vi è nulla al di fuori dello spirito. glossario p. 775 I momenti Questo assoluto auto-sapersi dell’Assoluto non è qualcosa di immediato, ma il risultato di dello spirito un processo dialettico articolato nei tre momenti dell’arte, della religione e della filosofia. assoluto
Queste attività non si differenziano quindi per il loro contenuto, che è identico (l’Assoluto, o Dio), ma soltanto per la forma utilizzata per conoscerlo ed esprimerlo: 1. l’arte conosce l’Assoluto nella forma dell’intuizione sensibile; 2. la religione nella forma della rappresentazione; 3. la filosofia nella forma del puro concetto.
L’arte L’arte rappresenta per Hegel il primo gradino attraverso cui lo spirito acquista coscienza di sé stesso. Più nel concreto: con l’arte, l’essere umano diventa consapevole di sé o di alcuni caratteri della propria esistenza mediante forme sensibili (figure, parole, musica ecc.) La fusione Nell’arte lo spirito vive in modo immediato e intuitivo quella fusione tra soggetto e oggetto, tra spirito spirito e natura, che la filosofia idealistica teorizza concettualmente. Ciò accade perché e natura
nell’esperienza del bello artistico (ad esempio di fronte a una statua greca) spirito e natura vengono recepiti come un tutt’uno: l’opera d’arte (l’oggetto) è infatti natura spiritualizzata, cioè la manifestazione sensibile di un messaggio spirituale; e l’idea espressa dall’opera d’arte (il soggetto) è spirito naturalizzato, ovvero concetto incarnato e reso visibile.
I tre momenti I tre momenti dialettici in cui Hegel articola l’arte sono l’arte simbolica, l’arte classica e l’ardell’arte te romantica. L’ arte simbolica è quella tipica delle grandi civiltà orientali e pre-elleniche,
ed è caratterizzata dallo squilibrio tra contenuto e forma, ossia dall’incapacità di esprimere mediante forme sensibili un messaggio spirituale che coincide con l’Assoluto e che non è ancora colto adeguatamente. Espressioni viventi di questo squilibrio e di questa incapacità sono il ricorso al simbolo (realtà materiale che “rinvia” a significati astratti) e la tendenza allo sfarzoso e al bizzarro, che testimoniano appunto l’immaturità e il travaglio di questo primo momento dell’arte. glossario p. 776 L’ arte classica (tipica del mondo greco) è invece caratterizzata da un armonico equilibrio tra contenuto spirituale e forma sensibile. Tale equilibrio trova la sua massima espressione nella figura umana, che è la sola forma sensibile in cui l’arte riesce a rappresentare e a manifestare compiutamente lo spirito. L’arte classica rappresenta quindi il culmine della perfezione artistica. glossario p. 776 L’ arte romantica , propria dell’Europa cristiana medievale e moderna, è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra contenuto spirituale e forma sensibile: lo spirito acquista coscienza di come qualsiasi forma sensibile sia in realtà insufficiente a esprimere in modo compiuto l’interiorità spirituale (che è infinita), e preferisce volgersi alla filosofia, oppure trasformare l’arte stessa in una sorta di filosofia, facendo traboccare il contenuto dalla forma. A differenza di quanto accadeva nell’arte simbolica (nella quale il messaggio spirituale era così povero da non trovare la sua espressione figurativa adeguata), nell’arte romantica è così ricco da trovare inadeguata ogni figurazione sensibile. glossario p. 776
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Il passaggio dall’arte simbolica a quella classica, e da questa all’arte romantica, corrisponde La progressiva per Hegel a un processo di graduale smaterializzazione e spiritualizzazione subìto dall’e- smaterializzazione dell’arte spressione artistica attraverso i secoli. Infatti: la forma artistica tipica dell’arte simbolica è l’architettura, in cui la materia è fortemente presente nelle enormi proporzioni delle costruzioni, anche se viene “nobilitata” dalla simmetria delle parti; nell’arte classica si privilegia la scultura, espressione di un perfetto equilibrio tra l’elemento materico e il contenuto spirituale espresso dall’armonia delle forme; l’arte romantica, infine, di fronte a un elemento spirituale non più “contenibile” nella tridimensionalità delle costruzioni e delle sculture, si volge alla pittura e, soprattutto, alla musica e alla poesia, in una graduale e inesorabile VIDEO rarefazione dell’elemento materiale, che si assottiglia sempre di più fino ad arrivare (con il I momenti della storia suono musicale o poetico) a liberarsi dell’elemento spaziale (ancora presente nella pittura). dell’arte Si comprende allora in che senso Hegel parli di una “crisi” moderna dell’arte. I bei giorni dell’arte greca sono tramontati. Nessuno vede ormai nelle opere d’arte l’espressione più elevata dell’Idea; si rispetta l’arte e la si ammira, ma per riconoscerne la funzione e la collocazione la si sottopone all’analisi del pensiero. L’artista stesso non può sottrarsi all’influsso della cultura razionale, dalla quale dipende in ultima analisi il giudizio sulla sua opera: «Sotto tutti questi rapporti – dice Hegel – l’arte è e rimane per noi, quanto al suo supremo destino, una cosa del passato». Questa «morte dell’arte» non va tuttavia interpretata come un suo funerale di fatto, ma come una sua inadeguatezza a esprimere la profonda spiritualità moderna. Secondo Hegel, infatti, ciò che è svanito e non può più tornare è quella considerazione che faceva dell’arte la più alta e compiuta manifestazione dell’Assoluto. Non può più tornare, cioè, la forma classica dell’arte. Ma l’arte è e rimane una categoria dello spirito assoluto.
La crisi e la «morte dell’arte»
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è il bello? p. 806
La religione Nella religione – che è il secondo momento dello spirito assoluto – l’Assoluto si manifesta I limiti del nella forma della rappresentazione , che sta a metà strada tra l’intuizione sensibile dell’ar- “pensiero” religioso te e il concetto della filosofia. Hegel afferma infatti che «le rappresentazioni in genere possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti» (Enciclopedia, par. 3). Questo significa che la religione, in quanto speculazione teologica, è certamente pensiero, ma pensiero ancora affetto da un elemento sensibile. glossario p. 776 In effetti, la teologia non esprime Dio, o l’Assoluto, in una forma materiale (come l’arte), ma neppure in termini puramente concettuali (come fa la filosofia). Essa è «pensiero di Dio» (cogitatio Dei), ma il genitivo ha in questa formula un valore oggettivo, poiché Dio è un oggetto che la mente umana si “rappresenta”, cioè si pone davanti come se fosse una “cosa” separata da sé stessa e dal mondo. Non essendo in grado di “pensare” adeguatamente Dio, la teologia finisce così per arenarsi di fronte a un presunto mistero dell’Assoluto, facendone un oggetto di fede. Inoltre la rappresentazione religiosa o teologica, diversamente dal pensiero razionale, procede in modo a-dialettico, intendendo le proprie determinazioni come giustapposte, quasi fossero reciprocamente indipendenti. Nel dogma cristiano della creazione, ad esempio, Dio è concepito come separato da ciò che crea. In realtà la narrazione religiosa della creazione è semplicemente la metafora (la rappresentazione) di una verità filosofica, e cioè di quella che afferma che la natura è soltanto un momento dialettico dell’unica vita dello spirito, il quale “si fa” natura. Analogamente, l’idea che ci sia un Dio provvidente che regge il mondo non è che una metafora (una rappresentazione) della verità filosofica secondo cui il mondo, o la realtà, ha una sua intrinseca razionalità. E così via.
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Nella religione, infine, l’Assoluto è rappresentato in forma storica, cioè attraverso una serie di “eventi” (creazione, incarnazione, redenzione ecc.) la cui verità è accettata sulla base di una presunta “rivelazione” divina. La filosofia, invece, attinge la verità e vi si rapporta non come a un fatto storico e contingente, ma come a un concetto eterno e necessario. I compiti della Nelle Lezioni sulla filosofia della religione Hegel affronta il problema del rapporto tra la relifilosofia della gione e la filosofia della religione, affermando che quest’ultima non deve creare una religioreligione e della religione ne (ad esempio la religione naturale o razionale degli illuministi), ma semplicemente rico-
noscere la religione che c’è già, ovvero una religione determinata, positiva e presente, che per Hegel è quella cristiana. E se l’oggetto della filosofia della religione è la religione, l’oggetto della religione è invece Dio, mentre il suo soggetto è la coscienza umana indirizzata a Dio, e il suo termine o scopo ultimo è l’unificazione di Dio e della coscienza, cioè la coscienza riempita e penetrata da Dio.
Le tappe Come l’arte e come ogni espressione dello spirito, anche la religione presenta diversi gradi dello sviluppo di sviluppo, che coincidono con quelli dell’idea di Dio nella coscienza umana. della religione
1. Nel primo stadio di questo sviluppo troviamo la religione naturale, in cui Dio appare
ancora “sepolto” nella natura. Le forme più basse di religione naturale sono la stregoneria e il feticismo delle tribù primitive dell’Asia e dell’Africa; le forme più alte sono quelle in cui Dio è descritto come la potenza o la sostanza assoluta dei fenomeni naturali: tali sono le religioni panteistiche dell’Estremo Oriente (cinese, indiana, buddista). 2. Nel secondo stadio troviamo le religioni naturali che trapassano in religioni della libertà, cioè quelle religioni che già preludono a una concezione di Dio come spirito libero, ma che si muovono ancora in un orizzonte naturalistico (come accade nelle antiche religioni della Persia, della Siria e dell’Egitto). 3. Nel terzo stadio troviamo le religioni dell’individualità spirituale (giudaica, greca, romana), in cui Dio appare in forma spirituale (o in sembianze umane). 4. Nel quarto stadio troviamo la religione assoluta, cioè la religione cristiana, in cui Dio o l’Assoluto si rivela per quello che è, cioè puro spirito infinito:
‘
Trovare questa definizione [l’Assoluto è spirito] e comprenderne il significato e il contenuto: tale, si può dire, è stata la tendenza assoluta di ogni cultura e filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo. La parola e la rappresentazione dello spirito è stata trovata presto; ed è il contenuto della religione cristiana far conoscere Dio come spirito. (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 384)
La “risoluzione” Per Hegel, il cristianesimo è dunque la religione più alta, cioè quella che si avvicina di più, della religione con i suoi dogmi, alle verità della filosofia. Ad esempio, Gesù, in quanto Dio-uomo, esprinella filosofia
me l’identità di infinito e finito; l’unità di Padre, Figlio e Spirito Santo nella Trinità esprime la triade dialettica di Idea, natura e spirito. Anche il cristianesimo, tuttavia, presenta pur sempre quegli stessi limiti che sono propri di ogni religione in quanto mera rappresentazione (e non comprensione razionale) della verità dell’Assoluto. Per questo, secondo Hegel, l’unico sbocco coerente della religione cristiana è la filosofia, che ci parla anch’essa di Dio e dello spirito, ma non più nella forma inadeguata della rappresentazione, bensì in quella adeguata del concetto. L’obiettivo ultimo della riflessione hegeliana sulla religione è pertanto quello di “comprenderla” – cioè di risolverla senza residui – nella filosofia, la quale ne costituisce il superamento e al tempo stesso l’«inveramento», nel senso che assume e conserva tutti i suoi contenuti, esprimendoli però nella razionalità trasparente del concetto.
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UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
Nonostante richieda di essere inverata dal sapere filosofico, la religione per Hegel è pur sempre L’importanza un momento necessario della vita dello spirito; anzi, essa è lo strumento grazie al quale tutti della religione gli uomini (e non soltanto quelli inclini alla filosofia) possono entrare in rapporto con la verità e apprendere che “tutto è spirito”, che “la realtà è razionale” e così via. La religione, in altre parole, svolge una funzione educativa e preparatoria a una vita condotta secondo ragione. Inoltre, così come la religione e la teologia devono essere inverate (cioè conservate e allo stesso tempo superate) nella filosofia, nello stesso modo la prassi religiosa deve essere risolta nell’agire politico dell’uomo moderno. Il cristianesimo, infatti, per Hegel ha contribuito in modo fondamentale alla formazione dell’uomo moderno: le stesse regole della civiltà moderna sono il frutto di una secolarizzazione e di una laicizzazione delle prescrizioni religiose cristiane.
La filosofia Passando dalla religione (cristiana) alla filosofia, che è l’ultimo momento dello spirito assoluto, l’Idea giunge alla piena e concettuale coscienza di sé stessa, chiudendo il ciclo cosmico e il sistema hegeliano dell’Assoluto. Come ormai sappiamo, la filosofia ha lo stesso contenuto ed esprime la stessa verità della religione (cioè l’Assoluto); anch’essa, come la religione, è dunque «pensiero di Dio», ma con la differenza che questa volta il genitivo ha valore soggettivo: la filosofia è autocoscienza divina, «ragione di Dio», cioè comprensione che Dio o l’Assoluto ha di sé stesso. Manifestandosi all’uomo nella filosofia, l’Assoluto si svela dunque a sé stesso, e in questo senso la filosofia è auto-rivelazione totale di Dio, la sua trasparente manifestazione nella forma limpida e chiara del concetto. ( T3 p. 782)
La filosofia come autorivelazione dell’Assoluto
Anche la filosofia, come l’intera realtà, per Hegel è una formazione storica, ossia una to- La filosofia come talità processuale che si è sviluppata attraverso una serie di gradi o momenti necessari. percorso verso l’idealismo I vari sistemi filosofici che si sono succeduti nel tempo non devono quindi essere considerati come un insieme disordinato e accidentale di opinioni che si escludono e si distruggono a vicenda. Al contrario, ognuno di essi costituisce una tappa necessaria del “farsi” della verità: una tappa che supera quella precedente ed è superata da quella seguente, in un percorso che si conclude con l’idealismo. La filosofia, insomma, per Hegel non è altro che l’intera storia della filosofia, la quale inizia con il pensiero greco (Hegel accenna alle filosofie orientali, ma ritiene di doverle escludere dalla vera e propria tradizione filosofica) e termina con i sistemi di Fichte e di Schelling, per concludersi e giungere veramente a compimento soltanto con l’idealismo ESERCIZI assoluto da lui stesso elaborato:
‘
La filosofia, che è ultima nel tempo, è insieme il risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di tutte: essa è perciò – beninteso, se è davvero una filosofia – la più (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 13) sviluppata, ricca e concreta.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa intende Hegel con l’espressione «spirito assoluto». 2. Riassumi la riflessione hegeliana sull’arte e sui momenti in cui essa si articola. 3. Presenta la concezione hegeliana della religione e la sua articolazione storica. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Che cosa pensi dell’idea che l’arte, la religione e la filosofia abbiano in fondo lo stesso contenuto, che esprimono però in forme diverse? Argomenta la tua risposta. 5. Spiega perché per Hegel la filosofia coincide con la storia della filosofia.
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l’eredità di HEGEL DA CHI E CHE COSA EREDITA
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CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
da Fichte e da Schelling l’identificazione idealistica della realtà con l’infinito, o con l’Assoluto, identità inscindibile di soggetto e oggetto
l’Io infinito di Fichte e l’Assoluto di Schelling assumono in Hegel i tratti dello spirito, che nella sua accezione propria è inteso come «spirito oggettivo», ovvero come la “sostanza” intersoggettiva e storico-politica che “sorregge” l’azione degli individui
da Spinoza l’idea della razionalità del reale
ponendosi, come Spinoza, sulla scia del razionalismo cartesiano, Hegel identifica tutto ciò che è reale con qualcosa di razionale, ovvero con un momento di una totalità processuale necessaria
da Fichte l’immagine “negativa” della natura
come per Fichte la natura era il mero “teatro” dell’azione dell’Io (una sorta di “ostacolo” che lo stesso Soggetto infinito produceva al fine di superarlo), così la natura costituisce per Hegel il momento “negativo” della struttura dialettica del reale e del pensiero; essa è l’idea fuori di sé, concretizzata e “irrigidita” in un mondo percepito come “esterno” e “oggettivo”, sebbene non sia che una creazione dello spirito
da Fichte la struttura triadica del procedere dell’Io
Hegel trasforma i tre momenti della vita dell’Io individuati da Fichte in un processo dialettico che costituisce nello stesso tempo la legge del pensiero e della realtà, e che si articola nel porre un elemento (tesi), nel negarlo (antitesi) e nel superare questa negazione pervenendo a una sintesi superiore, che riassorbe in sé la tesi iniziale, ma in una modalità più matura e consapevole
da Kant la distinzione tra intelletto e ragione
per Hegel l’intelletto è una modalità del pensiero che “immobilizza” gli enti mediante la loro definizione e reciproca esclusione, mentre la ragione è un modo di pensare che coglie l’unità e la dinamicità del reale dietro la fissità delle determinazioni intellettuali
dall’ultimo Platone la concezione dialettica della realtà
con l’ultimo Platone Hegel condivide l’idea che la realtà sia essere in movimento, ovvero, secondo il filosofo tedesco, spirito che agisce e si conosce, in un processo dinamico e vitale
da Kant l’attenzione per il “fenomeno”
se in Kant il “fenomeno” era la realtà sensibile quale appare al soggetto conoscente attraverso le sue forme a priori, in Hegel è “ciò che appare” allo spirito; e, poiché lo spirito è la stessa realtà, la “fenomenologia” dello spirito è il racconto del percorso mediante il quale esso giunge ad autoconoscersi
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
dai romantici l’idea della tensione all’infinito che anima il finito
l’idea romantica della tensione all’infinito si ritrova rappresentata in maniera suggestiva nella «figura» hegeliana della «coscienza infelice», dilaniata al suo interno dalla percezione di un Assoluto che sente ancora come “altro” da sé, ma che intuisce come la “vera” realtà e a cui non può non aspirare
da Aristotele e da Kant la nozione di “categoria”
le categorie aristoteliche (determinazioni generalissime dell’essere e, quindi, del pensiero) e kantiane (concetti puri dell’intelletto mediante i quali ci si rappresenta la realtà) diventano in Hegel “pensieri oggettivi”, ovvero determinazioni del pensiero e, quindi, della realtà (poiché questa non è che pensiero)
da Aristotele la concezione del bene come concreto e determinato
per esprimere l’idea del bene come concreto “abito” morale (opposto all’astratto dovere kantiano), Hegel parla dell’«eticità» (distinta dalla «moralità») quale ambito storico, sociale e culturale che orienta le scelte degli individui
da Platone la concezione organicistica dello Stato
ben lontano dalla visione contrattualistica, Hegel ritiene che lo Stato sia il punto culminante del (necessario) processo storico in cui si concretizza la vita dello spirito; esso dunque “precede” i singoli cittadini, i quali ne sono “parti” subordinate, come gli organi sono subordinati all’organismo
dai filosofi illuministi e cristiani la concezione della storia
la “fede” illuministica nel progresso e la concezione provvidenzialistica del cristianesimo si trasformano in Hegel nell’idea della razionalità profonda del divenire storico, che altro non è se non lo sviluppo dello spirito che “si fa” e “si sa”
da Schelling la concezione dell’arte come «organo» dell’Assoluto
anche in Hegel l’arte costituisce una via attraverso cui l’Assoluto coglie sé stesso: è la prima delle tre modalità (arte, religione e filosofia) mediante le quali lo «spirito assoluto» si auto-conosce
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 3 L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO
• logica dell’essenza, o della riflessione
la sezione della logica hegeliana che studia l’auto-ripiegarsi e l’auto-riflettersi dell’essere su sé stesso: da questa operazione scaturisce quell’essere mediato e approfondito che è l’«essenza», definita da Hegel come «la verità dell’essere», il suo «fondamento» che sta oltre le cose. Alla categoria dell’essenza seguono quelle dell’esistenza (o del fenomeno) e quella della realtà in atto, che è la sintesi dell’essenza e dell’esistenza, ovvero dell’interno e dell’esterno della cosa;
• logica del concetto, o della comprensione
La logica Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817) Hegel espone il proprio sistema dell’Assoluto, articolandolo nelle tre macro-sezioni della logica, della filosofia della natura e della filosofia dello spirito. In particolare, dall’opera emerge la seguente concezione della
• logica
la scienza dell’Idea «pura», o dell’Idea «in sé e per sé», cioè lo studio dell’Idea considerata nel suo originario essere implicita e nel suo graduale esplicarsi, ma a prescindere dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito.
Così concepita, la logica esamina l’impalcatura originaria del mondo, o la struttura razionale della realtà, la quale si esplica in un sistema organico e dinamico di
• concetti, o categorie
le più generali determinazioni del pensiero e della realtà, che in quanto tali non sono assimilabili a pensieri soggettivi (rispetto ai quali la realtà possa dirsi estranea e contrapposta), ma piuttosto a pensieri oggettivi, che esprimono la realtà stessa nella sua essenza.
In virtù di questa concezione delle categorie e dell’equazione “ragione = realtà”, la logica hegeliana (che studia il pensiero) equivale alla metafisica (che studia l’essere). Essa si articola in tre grandi sezioni:
• logica dell’essere
la sezione della logica hegeliana che prende le mosse dal concetto più vuoto e astratto, quello dell’essere assolutamente indeterminato, privo di contenuti, al quale si contrappone l’essere determinato, ovvero specificato dal pensiero. La specificazione dell’essere mediante il pensiero avviene attraverso le tre categorie della qualità, della quantità e della misura;
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la sezione della logica hegeliana che studia come l’essere, dopo essersi auto-riflesso nell’essenza, si ponga come soggetto, o spirito. In altri termini, il concetto di cui parla Hegel non è il concetto dell’intelletto, diverso dalla realtà e opposto a essa, ma il concetto della ragione, ossia «lo spirito vivente della realtà» (Enciclopedia, par. 162). La logica del concetto studia dapprima il concetto soggettivo (cioè la soggettività in sé o il concetto quale si manifesta in sé stesso, nel giudizio e nel sillogismo), poi il concetto oggettivo (cioè la soggettività oggettivata, quale si manifesta negli aspetti fondamentali della natura) e infine l’Idea che, come sappiamo, è l’unità di soggetto e oggetto, ideale e reale, vita e conoscenza, ovvero l’Assoluto in atto.
La filosofia della natura Nella seconda macro-sezione dell’Enciclopedia, Hegel espone le tesi fondamentali della
• filosofia della natura
la «considerazione teoretica, e cioè pensante, della natura» (Enciclopedia, par. 246), ovvero lo studio dell’Idea nella sua estrinsecazione spazio-temporale.
La filosofia della natura studia insomma l’Idea che esce da sé, negandosi e alienandosi nella materialità. La natura, per Hegel, accoglie quindi in sé tutti gli aspetti della realtà che appaiono finiti, contingenti, legati allo spazio e al tempo: vi sono inclusi gli individui umani, in ciò che essi hanno di fisico, o irriducibile alla ragione. La filosofia hegeliana della natura si divide in meccanica, fisica inorganica (o chimica) e fisica organica (o biologia), e in ulteriori sotto-sezioni che analizzano le nozioni e le tesi fondamentali delle discipline scientifiche del tempo, inquadrandole in una visione finalistica, gerarchica e necessaria del mondo naturale.
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
La filosofia dello spirito La terza macro-sezione dell’Enciclopedia è dedicata alla
• filosofia dello spirito
«la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e difficile» (Enciclopedia, par. 377), ovvero lo studio dell’Idea che ritorna in sé dopo essersi estraniata nella natura, e che si riconosce nella realtà.
La filosofia dello spirito si articola a sua volta in tre parti, rispettivamente dedicate a:
• spirito soggettivo
lo spirito individuale, considerato nel suo lento emergere dalla natura e nel suo progressivo affermarsi come libertà. Lo spirito soggettivo si articola in: anima (oggetto dell’antropologia), coscienza (oggetto della fenomenologia) e spirito in senso stretto (oggetto della psicologia, che studia l’essere umano come conoscenza, azione e libertà);
• spirito oggettivo
lo spirito fattosi “mondo”, ovvero l’Idea oggettivata in quell’insieme di determinazioni sovra-individuali che sono le istituzioni sociali;
• spirito assoluto
lo spirito, o l’Idea, che ha raggiunto la piena coscienza della propria infinità o assolutezza, cioè del fatto che tutto è spirito e non c’è nulla al di fuori dello spirito.
Lo spirito oggettivo Lo spirito oggettivo si manifesta in tre momenti principali:
• diritto astratto, o diritto formale (abstrakte Recht) la sfera della libertà esteriore delle persone, considerate come soggetti giuridici puri, o astratti, la cui azione deve soggiacere alle leggi dello Stato; • moralità
(Moralität) la sfera della volontà soggettiva e dell’azione che ne consegue. Nella concezione hegeliana, la moralità è caratterizzata dall’opposizione tra l’essere concreto e un astratto dover essere, ovvero tra la soggettività che vuole realizzare il bene, e il bene che deve essere realizzato. In questa visione è implicita la polemica di Hegel contro la morale kantiana, che Hegel critica per la sua impossibilità di realizzarsi completamente e per la sua mancanza di contenuti concreti;
• eticità
(in tedesco Sittlichkeit, da Sitte, “costume”, corrispondente al greco éthos) la sfera della moralità sociale, vale a dire la realizzazione del bene in quelle forme istituzionali che sono la famiglia, la società civile e lo Stato. L’eticità è la più alta manifestazione dello spirito oggettivo, che supera l’unilateralità del diritto e della moralità, ricomprendendo in sé entrambi questi momenti.
In quanto momento più alto dell’eticità, lo Stato è anche il punto di arrivo dello spirito oggettivo, nel quale si superano i particolarismi in vista del bene comune. Hegel propone una concezione della comunità statale come
• Stato etico
lo Stato concepito come incarnazione suprema dell’eticità sociale e del bene comune.
Questa concezione si differenzia storicamente da quella liberale e da quella democratica, e si configura nella riflessione di Hegel come una forma di
• organicismo politico
la prospettiva anti-individualistica che è propria della filosofia politica di Hegel, in cui lo Stato è visto come «un’unione e non un’associazione, un organismo vivente e non un prodotto artificiale, una totalità e non un aggregato, un tutto superiore e anteriore alle sue parti, e non una somma di parti indipendenti tra loro» (N. Bobbio).
In virtù di questa prospettiva, Hegel ritiene che non sia l’individuo a fondare lo Stato, ma lo Stato a fondare l’individuo. Nela sua analisi, il filosofo tedesco affronta anche il tema della
• costituzione
«l’organizzazione dello Stato» (Lineamenti, par. 271; Enciclopedia, par. 539), che non deriva da una pianificazione astratta, ma scaturisce necessariamente dalla vita storica di un popolo.
Hegel identifica la costituzione migliore, o «razionale», con la monarchia costituzionale moderna, ossia con un organismo che contempla tre poteri tra loro distinti, ma non divisi: il potere legislativo, il potere governativo e il potere principesco.
La concezione della storia In quanto Stato, lo spirito oggettivo si manifesta nei tre momenti del diritto interno, del diritto esterno e della
• storia del mondo
(in tedesco Weltgeschichte) «lo svolgimento dell’Idea universale dello spirito» (Enciclopedia, par. 536), ovvero il manifestarsi o l’oggettivarsi dell’Idea nel mondo storico, secondo una serie di gradi razionali e necessari che obbediscono a un piano provvidenziale immanente, volto alla realizzazione dello Stato etico.
Più precisamente, la storia ha come soggetto lo «spirito del mondo», a sua volta incarnato nei vari «spiriti dei popoli» (Volksgeister), e si concretizza in una successione di forme statali che tendono alla realizzazione della libertà. I tre momenti fondamentali di tale successione sono: il mondo orientale (dove uno solo è libero),
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il mondo greco-romano (dove alcuni sono liberi) e il mondo cristiano-germanico (dove tutti sono liberi, ossia soggetti di diritto). Per realizzare i propri fini, lo spirito del mondo si serve dei popoli e degli individui, mettendo in atto quella che Hegel chiama
• astuzia della ragione
(in tedesco List der Vernunft) il concetto più caratteristico della filosofia hegeliana della storia, con cui Hegel suggerisce che l’Idea universale fa agire gli uomini (e soprattutto gli «eroi», ovvero i personaggi più grandi e rivoluzionari) sfruttando le loro passioni, che essi si illudono di soddisfare, mentre in realtà stanno lavorando per il piano complessivo dello spirito.
Lo spirito assoluto Lo spirito assoluto è il punto culminante analizzato nella filosofia dello spirito, ovvero il momento in cui l’Idea giunge alla piena coscienza del fatto che tutto è spirito, e quindi alla consapevolezza di essere, essa stessa, l’intera realtà. Lo spirito assoluto comprende l’arte, la religione e la filosofia. L’arte è in Hegel il momento in cui lo spirito acquista coscienza di sé nella forma dell’intuizione sensibile (figure, parole, musica ecc.), vivendo in modo immediato e intuitivo quella fusione tra soggetto e oggetto, spirito e natura, che la filosofia teorizza con la mediazione dei concetti. Hegel individua nelle forme d’arte realizzate nella storia dell’umanità tre grandi momenti:
• arte simbolica
l’arte tipica dell’Oriente e dell’antico Egitto, caratterizzata da un contenuto concettuale inadeguato (l’Assoluto non ancora pienamente colto) e, di conseguenza, da una forma sensibile altrettanto inadeguata, che sfrutta simboli, rappresentazioni bizzarre o le grandi proporzioni delle opere architettoniche;
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• arte classica
l’arte tipica dell’antica Grecia, in cui si ha perfetta coerenza tra il contenuto concettuale e la forma sensibile (perlopiù sculture di figure umane);
• arte romantica
l’arte tipica dell’Europa cristiana e moderna, in cui l’equilibrio tra il contenuto e la forma torna a infrangersi, poiché l’estrema ricchezza del primo (lo spirito che si svela come infinito) non può trovare alcuna forma sensibile capace di rappresentarlo o esprimerlo.
Se nell’arte l’Assoluto è oggetto di intuizione sensibile, nella religione è oggetto di
• rappresentazione
modalità di espressione o manifestazione dello spirito che si trova a metà strada tra quella intuitivo-sensibile dell’arte e quella concettuale della filosofia. Nella rappresentazione religiosa l’Assoluto (o Dio) viene colto ed espresso in modo a-dialettico (per determinazioni giustapposte) e storico (come serie di “eventi” la cui verità è accettata sulla base di una rivelazione).
Lo sviluppo della coscienza religiosa inizia con le religioni naturali e culmina nel cristianesimo, religione «assoluta» in cui Dio appare finalmente come puro spirito, sebbene ancora nella forma imperfetta della rappresentazione. La religione cristiana deve quindi essere risolta nella filosofia, che esprime l’Assoluto in modo speculativo, cioè attraverso i concetti. La filosofia, in sostanza, è l’Idea giunta alla piena coscienza razionale di sé stessa, è la comprensione vera, assoluta e intera del processo dialettico con cui il razionale si è fatto reale. In quanto tale, la filosofia coincide con la storia della filosofia, che attraverso le sue tappe storiche è giunta finalmente a compimento con l’idealismo assoluto di Hegel.
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
MAPPE
CAPITOLO 3 L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO LA LOGICA analizza
la struttura logico-razionale del mondo e si articola in
logica dell’essere qualità quantità misura
logica dell’essenza essenza esistenza (o fenomeno) realtà in atto
logica del concetto concetto soggettivo concetto oggettivo Idea
LA FILOSOFIA DELLA NATURA analizza
l’Idea che si è estraniata da sé stessa, oggettivandosi nello spazio e nel tempo e si articola in
meccanica
fisica inorganica (o chimica)
fisica organica (o biologia)
LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO descrive
l’Idea che, dopo essersi estraniata da sé, sparisce come esteriorità per farsi soggettività e libertà sviluppandosi come
spirito soggettivo
spirito oggettivo
spirito assoluto
lo spirito individuale nel suo lento emergere dalla natura
lo spirito sovra-individuale o sociale, nelle sue manifestazioni concrete
l’Idea giunta alla piena coscienza della propria infinità o assolutezza
anima (antropologia) coscienza (fenomenologia) spirito (psicologia)
diritto moralità eticità
arte religione filosofia
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CAPITOLO 3 L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO
La logica
La logica, in quanto studio dell’idea in sé, o dell’«idea pura», costituisce il primo momento del sistema hegeliano, anzi è il suo nucleo vitale e la sua parte più innovativa. Hegel se ne occupa sia nella Scienza della logica sia nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. TESTO
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La logica come scienza del «pensare oggettivo»
(Scienza della logica)
IL TESTO NELL’OPERA La Scienza della logica viene pubblicata in due momenti, nel 1812 e nel 1816, e ripubblicata nel 1831. L’opera si suddivide in logica oggettiva, a sua volta articolata in dottrina dell’essere e dottrina dell’essenza, e logica soggettiva, ossia dottrina del concetto. La dottrina dell’essere è costituita di tre parti: qualità (l’essere come determinatezza in quanto tale), quantità (l’essere come determinatezza superata), misura (l’essere come quantità determinata qualitativamente). Anche la dottrina dell’essenza si compone di tre parti: l’essenza in quanto appare in sé stessa, l’essenza in quanto esce fuori di sé, l’essenza in quanto unità di essenza e fenomeno nella realtà effettiva. La dottrina del concetto, infine, è ripartita in soggettività, oggettività e idea. Nel testo che segue, tratto dall’“Introduzione”, Hegel chiarisce che la logica non è un mero “strumento” (órganon) formale, da utilizzare nell’accostarsi a un oggetto “esterno” e “dato”, ma una vera e propria forma di sapere, una «scienza» il cui oggetto è lo stesso soggetto del pensiero: l’idea che pensa e conosce sé stessa. In questo senso la logica presuppone il percorso descritto nella Fenomenologia dello spirito, attraverso il quale la coscienza ha acquisito la consapevolezza di costituire essa stessa la realtà. Il contenuto Quando si prende la logica come scienza del pensare in generale, s’intende con ciò che della logica questo pensare sia la semplice forma di una conoscenza, che la logica astragga da ogni con- 2
tenuto, e che il cosiddetto secondo elemento che apparterrebbe ad una conoscenza, vale a dire la materia, debba esser dato da un’altra parte, per modo che la logica, come quella da cui questa materia sarebbe affatto indipendente, non possa dare altro che le condizioni formali di una vera conoscenza, non già contenere essa stessa una verità reale, e possa esser soltanto la via per giungere a questa, appunto perché l’essenziale della verità, il contenuto, rimarrebbe fuori di essa. Ora, prima di tutto, è già fuor di proposito il dire che la logica astragga da ogni contenuto, che insegni soltanto le regole del pensare, senza entrare a considerare il pensato e senza
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poter tener conto della sua natura. Poiché, infatti, la logica deve aver per oggetto il pensare e le regole del pensare, ha anzi in cotesto il suo particolare contenuto; ha in cotesto an- 12 che quel secondo elemento della conoscenza, una materia, della cui natura si occupa. […] Il legame con la Il concetto della scienza pura e la sua deduzione vengon dunque presupposti nella presen- 14 fenomenologia te trattazione, in quanto che la Fenomenologia dello spirito non è appunto altro che la dedudello spirito
zione di tal concetto. Il sapere assoluto è la verità di tutte le guise [forme] di coscienza, per- 16 ché, come risultò da quel suo svolgimento, solo nel sapere assoluto si è completamente risoluta la separazione dell’oggetto dalla certezza di sé, e la verità si è fatta eguale a questa 18 certezza, così come questa alla verità.
Il «regno del La scienza pura presuppone perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza. Essa 20 puro pensiero» contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppur la cosa in se stessa in
quanto è insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è pura autocoscienza che si sviluppa, ed ha la forma del Sé, che quello che è in sé e per sé è concetto saputo, e che il concetto come tale è quello che è in sé e per sé. Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. […] La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito.
22 24 26 28
(Scienza della logica, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 24, 30-31)
Il contenuto della logica (rr. 1-13) Hegel respinge l’ipotesi del carattere formale della logica e afferma che, lungi dall’essere priva di contenuto, la logica, comunque venga intesa, ha per oggetto proprio il pensiero, le «regole del pensare» (r. 12). A maggior ragione, dunque, ciò sarà vero nella prospettiva idealistica, che, facendo coincidere il pensiero (o il soggetto pensante) con la realtà, identifica il «contenuto» (r. 2) della logica con la sua «materia» (r. 3). Quest’ultima non è affatto “esterna” al soggetto che conosce, ma coincide con esso, ovvero con l’idea, che è soggetto del pensare avente sé stesso come oggetto. Del resto, è il carattere pienamente attivo dell’idea postulato dall’idealismo a impedire a quest’ultima di assumere un oggetto come “dato” dall’esterno. Il legame con la fenomenologia dello spirito (rr. 1419) Il passaggio dalla certezza alla verità, definita qui anche «certezza di sé» (r. 18), corrisponde alla fase finale di un percorso che culmina con l’identità tra sapere soggettivo e sapere oggettivo. È in tale identità che la certezza dell’individuo trova fondamento e diviene vero sapere, ma è evidente che questo approdo presuppone il cammino di acculturazione della coscienza che ha avuto luogo nella Fenomenologia. Se nella Fenomenologia Hegel ha narrato il processo attraverso il quale si arriva, diacronicamente, al sapere
assoluto, nella Scienza della logica ne descrive sincronicamente la struttura. Per questo la fenomenologia parte dal dualismo soggetto-oggetto percepito dalla coscienza naturale (la più ingenua, descritta nella figura della «certezza sensibile») e lo riconduce a unità, mentre la logica muove dalla loro identità e ne dispiega l’itinerario attraverso le loro innumerevoli scissioni, per poi raggiungere di nuovo l’unità (nell’idea), ma questa volta arricchita di tutto quanto l’itinerario. Così, mentre nella Fenomenologia è protagonista la coscienza individuale che pensa l’idea, nella Scienza della logica è protagonista l’idea che pensa sé stessa. Il «regno del puro pensiero» (rr. 20-29) Definendo la logica come «scienza pura» (r. 20), Hegel allude dunque alla sua «liberazione» (r. 20) dall’opposizione tra la coscienza e il suo oggetto. In questo senso va letta l’identificazione del «puro pensiero» (r. 22) con «la cosa in se stessa» (r. 21), della logica come scienza con lo sviluppo dell’autocoscienza, e del «concetto saputo» (r. 23) con ciò «che è in sé e per sé» (r. 24). Ribadita ancora una volta l’esistenza di un contenuto della logica, e di un contenuto che coincide sia con il pensiero sia con la realtà («pensare oggettivo», r. 25), Hegel identifica tale “oggetto” con la verità «com’essa è in sé e per sé senza velo» (r. 27), attribuendo così
TESTI HEGEL
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
779
al suo discorso una coloritura metafisica o teologica. La verità «senza velo» è infatti l’idea che non si è ancora “alienata” nella natura, è l’Assoluto nella sua “purezza”: il “pensiero” di Dio («la esposizione di Dio», r. 28), ovvero, per usare un linguaggio platonicocristiano, il mondo delle forme o degli archetipi con
cui Dio ha creato il mondo e che rappresenta la sua struttura o impalcatura razionale. L’oggetto della logica è dunque l’«eterna essenza» (r. 28) di Dio prima della creazione, cioè prima di un processo che, lungi dal “corromperlo”, lo arricchirà conferendogli il massimo della realtà possibile.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO I concetti della logica, secondo Hegel, costituiscono la trama metafisica della realtà; per questo egli polemizza con Kant, che li concepisce come funzioni soggettive, destinate a sintetizzare le intuizioni sensibili. Rifletti sulla logica come disciplina e spiega in un testo scritto (max 25 righe) se ti trovi maggiormente d’accordo con la prospettiva idealistica (Hegel) o con quella critica (Kant).
La filosofia dello spirito
Dopo essersi “estraniata” nell’esteriorità e nella spazialità della natura, l’idea rientra in sé, divenendo soggettività libera: è l’argomento della “filosofia dello spirito”, che rappresenta il momento più alto del sistema hegeliano e che è a sua volta scandita in tre tappe: spirito soggettivo, spirito oggettivo e spirito assoluto. Al secondo di questi momenti, ovvero a quello in cui lo spirito si manifesta nella concretezza delle istituzioni sociali, si riferisce il primo dei testi che seguono, mentre il secondo è relativo allo spirito assoluto. TESTO
2
I tre momenti dell’eticità (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) IL TESTO NELL’OPERA L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio viene pubblicata una prima volta nel 1817, successivamente nel 1827 in una versione ampliata e nel 1830 nella forma definitiva. Il termine “enciclopedia” non deve far pensare a una raccolta di informazioni, ma a un sistema organico e unitario di conoscenze. Questo sistema si articola in tre parti: la scienza della logica (l’idea in sé e per sé), la filosofia della natura (l’idea nella sua alterità), la filosofia dello spirito (l’idea che dall’alterità ritorna in sé). Nel testo che segue Hegel espone le articolazioni dello spirito oggettivo. Esse sono: il «diritto astratto», che riguarda le manifestazioni esteriori della libertà dell’individuo, la «moralità», che concerne la volontà soggettiva e il comportamento che ne consegue, e l’«eticità», che si identifica con il perseguimento concreto del bene nelle istituzioni della famiglia, della società civile e dello Stato.
La famiglia a) La famiglia.
§ 518 Lo spirito etico, nella sua immediatezza, contiene il momento naturale, che cioè l’indi- 2 viduo ha la sua esistenza sostanziale nella sua universalità naturale, nel genere. Questa è la relazione dei sessi, ma elevata a determinazione spirituale; – è l’accordo dell’amore e la 4 disposizione d’animo della fiducia; – lo spirito, come famiglia, è spirito senziente. […]
La società b) La società civile. 6 civile § 523 La sostanza che, in quanto spirito, si particolarizza astrattamente in molte persone (la
famiglia è una sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sé in libertà indipen- 8 dente e come esseri particolari, – perde il suo carattere etico; giacché queste persone in quanto
780
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo l’unità assoluta, ma la loro propria par- 10 ticolarità e il loro essere per sé: donde nasce il sistema dell’atomistica. La sostanza diventa per questa guisa nient’altro che una connessione universale e mediatrice di estremi indi- 12 pendenti e dei loro interessi particolari; la totalità sviluppata in sé di questa connessione è lo Stato, come società civile, o come Stato esterno. […] 14 Lo Stato c) Lo Stato.
§ 535 Lo Stato è la sostanza etica consapevole di sé, – la riunione del principio della famiglia 16 e della società civile; la medesima unità, che è nella famiglia come sentimento dell’amore, è l’essenza dello Stato; la quale però, mediante il secondo principio del volere che sa ed è 18 attivo da sé, riceve insieme la forma di universalità saputa. Questa, come le sue determinazioni che si svolgono nel sapere, ha per contenuto e scopo assoluto la soggettività che sa; 20 cioè vuole per sé questa razionalità. […]
Il fine dello ) Diritto interno dello Stato. 22 Stato e il suo § 537 L’essenza dello Stato è l’universale in sé e per sé, la razionalità del volere. Ma, come «diritto interno»
tale che è consapevole di sé e si attua, essa è senz’altro soggettività; e, come realtà, è un individuo. La sua opera in genere, – considerata in relazione con l’estremo dell’individualità come moltitudine degli individui, – consiste in una doppia funzione. Da una parte, deve mantenerli come persone, e, per conseguenza, fare del diritto una realtà necessaria; e poi promuovere il loro bene, che dapprima ciascuno cura per sé, ma che ha un lato universale: proteggere la famiglia e guidare la società civile. Ma, dall’altra parte, deve ricondurre entrambi, – e l’intera disposizione d’animo e attività dell’individuo, come quello che aspira ad essere un centro per sé, – nella vita della sostanza universale; e, in questo senso, come potere libero, deve intervenire nelle sfere subordinate e conservarle in immanenza sostanziale.
24
26 28 30 32
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, a cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1971, pp. 462-465, 473-478)
La famiglia (rr. 1-5) La famiglia costituisce la prima forma sociale in cui l’essere umano si trova a vivere, superando la propria particolarità di individuo in modo per così dire spontaneo o immediato. Oltre a essere caratterizzata da «immediatezza» (r. 2), la famiglia è anche un nucleo «naturale» (r. 2), dal momento che per Hegel si fonda sulla differenza tra i sessi. Immediatezza e naturalità sono in qualche modo nobilitate dall’«amore» (r. 4) e dalla «fiducia» (r. 5), che, elementi imprescindibili per la costituzione di legami interpersonali stabili, la elevano a una forma di unione spirituale che deve essere oggetto di una scelta consapevole (Hegel parla di «spirito senziente», r. 5). La società civile (rr. 6-14) Dopo aver analizzato (nei paragrafi qui omessi) i tre momenti fondamentali della famiglia (matrimonio, patrimonio, educazione dei figli), Hegel passa alla società civile, nella quale va perduta (o “negata”) quell’«unità» (r. 10) tra persone diverse che si era raggiunta nella famiglia. Il legame che unisce gli individui in una medesima società civile è di tipo utilitaristico: ciascuno persegue i propri interes-
si, contribuendo alla costruzione di un’entità “atomistica”, frantumata, fatta di elementi posti l’uno accanto all’altro, ma inconsapevoli di essere parti (o, meglio, membri) di un medesimo organismo. In questo senso Hegel afferma che nella società civile lo spirito «perde il suo carattere etico» (r. 9), che recupererà soltanto “rientrando in sé” nella dimensione dello Stato. Lo Stato (rr. 15-21) Nello Stato, che, in quanto ultimo stadio dell’eticità, è definito come «sostanza etica consapevole di sé» (r. 16), si perviene a un’unificazione reale e profonda degli individui, i quali diventano coscienti dei loro reciproci legami sostanziali. In altre parole, l’unità sostanziale della famiglia, frantumata nei particolarismi della società civile, nello Stato viene riaffermata, ma a un livello più elevato o più ampio, in cui la dimensione dell’universalità assume la forma di una «universalità saputa» (r. 19), o consapevole. Il fine dello Stato e il suo «diritto interno» (rr. 2232) Dalla definizione dello Stato appena fornita discende il primo dei suoi tre elementi costitutivi: il «diritto interno» (a cui Hegel farà seguire il «diritto
TESTI HEGEL
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
781
esterno» e la «storia del mondo»). Alla legislazione interna spetta il duplice compito di preservare i cittadini nella loro particolarità di persone libere, ma nello stesso tempo di promuovere il loro bene inducendoli a superare prospettive e bisogni particolari, e a riconoscere (nella famiglia e nella società civile) la rete universale di cui sono membri insostituibili. In questo senso lo Stato supera, ma non elimina, la famiglia e la società civile, che anzi è tenuto a tutelare come i propri elementi costitutivi fondamentali. Il passaggio dalla società civile allo Stato implica non
soltanto l’imposizione di leggi e norme che tutelino “esteriormente” i cittadini nella trama delle loro reciproche relazioni, ma anche il dovere di portare ogni individuo alla consapevolezza di essere egli stesso parte della «sostanza universale» (r. 31) e, in quanto tale, membro di un organismo unitario. In questo senso lo Stato riconduce le volontà particolari a un “volere universale” (il «potere libero» statuale, rr. 31-32) che gode, nei loro confronti, di un effettivo primato, in quanto soltanto in esso l’individuo supera la propria particolarità e astrattezza.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Per Hegel nello Stato la volontà del singolo è indirizzata al bene collettivo. Fai riferimento allo scenario politico, socio-economico e sanitario che si è profilato in seguito alla pandemia di Covid-19, la malattia virale respiratoria che si è diffusa su scala mondiale all’inizio del 2020: secondo te, nelle fasi più acute dell’emergenza, individuo e istituzioni pubbliche si sono dimostrati dialetticamente armonizzati, come sostiene Hegel? perché? (max 30 righe)
TESTO
3
La filosofia come sintesi di arte e religione (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
La filosofia dello spirito assoluto (terzo e ultimo momento della filosofia dello spirito in generale) presenta un apparente contrasto fra la natura troppo rigida dello schema dialettico e l’impressionante ricchezza delle osservazioni particolari sull’arte, sulla religione e sulla filosofia. Contrasto che si attenua se si considera che quelle stesse osservazioni non avrebbero potuto sussistere in modo tanto organico senza un criterio unitario di riferimento e una conseguente disposizione sistematica. Il punto più alto dello sviluppo dello spirito assoluto è costituito dalla filosofia, la quale rappresenta la sintesi dialettica dell’arte e della religione, ossia la modalità mediante la quale l’assoluto arriva alla piena coscienza di sé come unica realtà. Il rapporto § 572 Questa scienza è l’unità dell’arte e della religione. La maniera intuitiva dell’arte, che tra filosofia, è estrinseca nel rispetto della forma, la produzione soggettiva di essa e quel suo fraziona- 2 arte e religione
re il contenuto sostanziale in molte figure indipendenti, è unificato nella totalità della religione; e il procedere sparpagliato di questa, che si svolge nella rappresentazione, e il suo 4 mediare nella rappresentazione ciò che ha svolto, non è soltanto raccolto in un tutto, ma anche è riunito nella intuizione semplice e spirituale, ed ivi è elevato a pensiero consapevole 6 di sé. Questo sapere è, dunque, il concetto dell’arte e della religione, conosciuto dal pensiero: nel qual concetto quello che v’ha nel contenuto di diverso è conosciuto come necessa- 8 rio, e questo necessario è conosciuto come libero.
L’adeguamento § 573 La filosofia si determina, per conseguenza, come una conoscenza della necessità del 10 della forma contenuto della rappresentazione assoluta, e della necessità di entrambe le forme, cioè, da al contenuto
una parte, della intuizione immediata e della sua poesia, e della rappresentazione, che fa 12 soltanto un presupposto, della rivelazione oggettiva ed estrinseca; dall’altra, dapprima, del profondarsi in sé soggettivo, poi del movimento soggettivo e della identificazione della 14 fede con l’oggetto presupposto. Questa conoscenza è, dunque, il riconoscimento di questo contenuto e della sua forma, liberazione dalla unilateralità delle forme ed elevazione di 16
782
UnitÀ 8 HEGEL Capitolo 3 l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
esse nella forma assoluta, che si determina da se stessa come contenuto e resta identica col contenuto ed è in esso stesso la conoscenza di quella necessità in sé e per sé. Tale movi- 18 mento, che è la filosofia, si trova già compiuto, in quanto la filosofia attinge alla fine il suo 20 proprio concetto, cioè guarda indietro soltanto al suo proprio sapere. La conclusione § 574 Questo concetto della filosofia è l’Idea che pensa se stessa, la verità che sa, la logicità, del percorso col significato che essa è l’universalità convalidata dal contenuto concreto come dalla sua 22 di sviluppo
realtà. La scienza è, per tal guisa, tornata al suo cominciamento; e la logicità è il suo risultato come spiritualità: dal giudizio presupponente, in cui il concetto era solo in sé e il comin- 24 ciamento alcunché d’immediato, e quindi dall’apparenza, che aveva colà, la spiritualità si è 26 elevata al suo puro principio come a suo elemento. (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., pp. 550-551, 564-565)
Il rapporto tra filosofia, arte e religione (rr. 1-9) Con la filosofia si completa la triade dialettica dello spirito assoluto e si superano i limiti (richiamati in queste righe) tanto dell’arte, quanto della religione, le quali intendevano ed esprimevano l’assoluto in modi inadeguati. Nella speculazione filosofica, infatti, il concetto viene finalmente colto in misura piena e perfetta, così che nulla rimane “esterno” o “ignoto” al «pensiero consapevole di sé» (rr. 6-7). L’oggetto della filosofia è il medesimo dell’arte e della religione; e se a prima vista esso appare diverso, tale diversità viene riassorbita nel momento stesso in cui se ne riconosce l’assoluta necessità. Una necessità che, peraltro, non è “esterna” o “imposta” al soggetto, ma, anzi, nel soggetto trova il proprio fondamento, e perciò si converte in libertà. L’adeguamento della forma al contenuto (rr. 1020) Questo difficile paragrafo specifica l’ambito proprio della filosofia mettendolo a confronto con quello della religione. Partendo dal presupposto (ormai chiaro) che religione e filosofia possiedono il medesimo oggetto, si chiarisce qui ulteriormente che la filosofia costituisce l’inveramento dei gradini precedenti, i quali, in quanto la preparano e la rendono possibile, sono a essa necessari. Hegel allude alla progressiva adeguazione (nell’arte e nella religione) della forma al contenuto: adeguazione che da ultimo si ottiene nella filosofia, nella quale i due elementi trovano finalmente la loro piena coincidenza. La filosofia necessita dunque dei momenti che la precedono, esattamente come per giungere all’ultimo
gradino di una scala servono i gradini intermedi, ma li colloca al loro giusto posto e pertanto essi non sono più presupposti da essa come momenti autonomi assorbiti in qualche modo nel momento successivo, ma diventano suoi effettivi componenti (rr. 15-18). La conclusione del percorso di sviluppo (rr. 2126) La filosofia non è che la raggiunta identità dell’idea che pensa e dell’idea che è pensata: non a caso Hegel pone a conclusione dell’Enciclopedia il passo del libro XII della Metafisica aristotelica in cui si parla della divinità come «pensiero di pensiero», ovvero come perfetta identità di soggetto e oggetto (rr. 21-23). Si chiude così il grande circolo dell’Enciclopedia: il sapere ritorna su di sé e l’itinerario dell’idea si conclude. Essa ha guadagnato ormai il sapere assoluto, è perfettamente adeguata al proprio oggetto: questo non significa che non abbia più nulla da fare, che il movimento si fermi (come alcuni interpreti hanno inteso), ma soltanto che l’inadeguatezza tra il sapere e l’essere è venuta meno. Tutto può ancora accadere, ma tutto ciò che accadrà verrà inteso appieno dall’idea. Il «giudizio presupponente» (r. 24) è quello costretto ad ammettere un qualcosa di dato, cioè di non pienamente giustificabile, di “opaco” al concetto; ora, invece, nulla più dev’essere presupposto, perché tutto quello che c’è e ci sarà si presenta come assolutamente trasparente al concetto. Siamo dunque tornati alla logica, almeno in quanto in essa l’idea si esprimeva liberamente, ma ora il risultato è arricchito da tutte le mediazioni che hanno avuto luogo.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Hegel ritiene che la filosofia colga attraverso il pensiero «il concetto dell’arte e della religione» (r. 7). Concordi con l’interpretazione hegeliana, secondo la quale l’arte e la religione sono saperi ancora incompleti? Argomenta la tua risposta in un testo scritto (max 30 righe).
TESTI HEGEL
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
783
VERIFICA
UNITÀ 8 HEGEL FLASHCARD
CAPITOLO 1 Le opere giovanili e i fondamenti del sistema 1 Per Hegel la realtà:
d. La filosofia ha il compito di attingere
A è una materia caotica
concettualmente l’unità di finito e infinito
B è pura idealità C ha una struttura razionale
sostanze autonome
2 Nella dialettica hegeliana, è il momento in cui il pensiero coglie l’unità delle determinazioni opposte: A il momento astratto o intellettuale B il momento negativo-razionale C il momento dialettico in senso stretto D il momento speculativo o positivo-razionale
F
4 Utilizza le espressioni elencate di seguito per comessere umano • estrinsecazione • fuori di sé • in sé • idea pura • natura • per sé • realizzazione • spirito
5 Quale differenza sussiste, per Hegel, tra intelletto e ragione?
(max 6 righe)
6 Che cosa indica Hegel con il termine Aufhebung?
ro del giovane Hegel, sono vere o false.
(max 6 righe)
a. Il miglioramento della società è
favorito dall’egemonia del potere nobiliare
V
F
V
F
V
F
b. Il divino può essere colto soltanto da c. L’ebraismo è contrassegnato dalla
[mappa esercizio 4]
V
pletare la mappa riportata sotto.
3 Indica se le affermazioni seguenti, riferite al pensie-
scissione tra individuo e natura
F
e. La realtà è un insieme complesso di
D ha una struttura inconsapevole
una religione “positiva”
V
7 Spiega il significato che nella dialettica hegeliana rivestono finito e infinito, e chiarisci il loro reciproco (max 15 righe) legame.
8 Esponi sinteticamente i rapporti che il sistema hegeliano intrattiene, rispettivamente, con gli illuministi, (max 20 righe) con Kant e con i romantici.
IL DISPIEGARSI DELL’ASSOLUTO passa attraverso
784
l’. . . . . . . . . . . . . . . . . .
la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
lo . . . . . . . . . . . . . . . . . .
che prescinde dalla
che consiste nella
che prevede
concreta . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’idea nel mondo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’idea nelle
realtà spazio-temporali del mondo
il ritorno dell’idea presso di sé, nell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . , dopo essersi fatta natura
l’idea in sé e . . . . . . . . . . . . . . . . . .
l’idea . . . . . . . . . . . . . . . . . .
l’idea che ritorna . . . . . . . . . . . . . . . . . .
UnitÀ 8 HEGEL VERiFiCa
CAPITOLO 2 La Fenomenologia dello spirito 9 Per Hegel, nella percezione:
d. Soltanto quella degli stoici è autentica
libertà dal mondo esterno
A la distinzione fra soggetto e oggetto si fa
esplicita B la pretesa di massima concretezza trapassa nell’universale più astratto C l’oggetto viene interamente risolto nella coscienza D gli oggetti sono colti come fenomeni
F
V
F
V
F
e. Nell’ascetismo l’autocoscienza matura
la certezza di essere ogni realtà f. La ragione si realizza concretamente
non nell’individuo, ma nelle istituzioni storico-politiche
10 Il riconoscersi reciproco delle autocoscienze, per Hegel, avviene attraverso: A l’amore B il conflitto
V
13 Utilizza i termini elencati di seguito per completare la mappa riportata sotto. assoluto • coesistenza • coscienza • finito • infinito • lógos • natura • viaggio
C il lavoro D la natura
14 Collega le figure della ragione (colonna di sinistra) con
11 È uno dei momenti in cui Hegel articola la ragione:
le azioni che in esse compie l’individuo (colonna di destra).
A la certezza sensibile B l’intelletto
a. il piacere
C l’individualità in sé e per sé
e la necessità
D la coscienza infelice
b. la legge del cuore
12 Indica se le affermazioni seguenti, riferite alla Fenomenologia dello spirito, sono vere o false.
d. il regno animale
a. Lo spirito appare progressivamente a sé
stesso attraverso una serie di figure
V
F
dello spirito
V
F
e. la ragione legislatrice
b. Nella fase della coscienza predomina
l’attenzione verso il soggetto
V
2. si pone al di sopra delle leggi 3. cerca di opporsi al corso ostile del mondo 4. cerca in sé stesso leggi valide per tutti 5. va oltre l’immediatezza delle inclinazioni
f. la ragione esaminatrice delle leggi
c. Mediante l’angoscia della morte
l’individuo conquista la propria autocoscienza
c. la virtù e il corso del mondo
1. si dedica ai propri compiti particolari
6. va alla ricerca del godimento
F
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
[mappa esercizio 13]
si basa sul
principio della risoluzione del . . . . . . . . . . . . . . . . . . nell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . che può essere interpretato come
il . . . . . . . . . . . . . . . . . . percorso dallo spirito attraverso la . . . . . . . . . . . . . . . . . . umana per giungere a comprendere sé stesso come . . . . . . . . . . . . . . . . . .
l’eterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . nel reale dei tre momenti del . . . . . . . . . . . . . . . . . . , della . . . . . . . . . . . . . . . . . . e dello spirito
prospettiva diacronica
prospettiva sincronica
785
15 In che cosa consiste la dinamica del rapporto servosignore?
17 Esponi sinteticamente la figura della coscienza infelice e spiega perché può essere considerata la cifra (max 15 righe) dell’intera Fenomenologia.
(max 10 righe)
16 Quali sono le caratteristiche della ragione osservativa? (max 6 righe)
18
attività PLUS Ripercorri l’itinerario compiuto dalla coscienza nella prima parte della Fenomenologia dello spirito, facendo emergere la processualità dialettica (max 20 righe) che lo caratterizza.
CAPITOLO 3 L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 19 L’oggetto della logica per Hegel è costituito:
22 Utilizza le espressioni elencate di seguito per completare il testo riportato sotto, relativo alla concezione hegeliana della religione.
A dai contenuti della coscienza B dalle forme astratte del pensiero
spirito infinito • sostanza • natura • libertà • individualità • feticismo • spirito libero
C dalle determinazioni innate della ragione D dai concetti puri
20 Hegel concepisce la natura come:
Nel primo stadio dello sviluppo dell’idea di Dio troviamo la religione naturale, in cui Dio appare ancora “sepolto” nella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le forme più basse di questa religione sono la stregoneria e il . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ; le forme più alte sono quelle panteistiche, in cui Dio appare come la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dei fenomeni. Nel secondo stadio troviamo le religioni della . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , che già preludono alla visione di Dio come . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , ma che si muovono ancora in un orizzonte naturalistico. Nel terzo stadio troviamo le religioni dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . spirituale, in cui Dio appare in forma spirituale o in sembianze umane. Nel quarto stadio troviamo la religione assoluta, in cui Dio si rivela per quello che è, cioè puro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A la “pattumiera” del sistema B una manifestazione del divino C l’inveramento dell’idea D la più concreta delle realtà
21 Per Hegel lo Stato rappresenta: A uno strumento volto a garantire i diritti
individuali B la negazione della libertà dello spirito C l’incarnazione suprema del bene comune D il sistema dei bisogni individuali e degli interessi particolari
23 Completa la mappa riportata sotto scrivendo i termini mancanti. [mappa esercizio 23]
NELLO SPIRITO .................. L’IDEA giunge alla
piena coscienza della propria . . . . . . . . . . . . . . . . . . attraverso
786
l’arte
la religione
la filosofia
che conosce l’assoluto nella forma
che conosce l’assoluto nella forma
che conosce l’assoluto nella forma
dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . sensibile
della . . . . . . . . . . . . . . . . . .
del puro . . . . . . . . . . . . . . . . . .
UnitÀ 8 HEGEL VERiFiCa
24 Collega i momenti dello spirito oggettivo (colonna di
e. Non sono tanto gli individui a fondare
lo Stato, ma lo Stato a fondare gli individui
sinistra) con le loro rispettive manifestazioni (colonna di destra). a. diritto astratto
1. il bene e il male
c. eticità
F
V
F
f. Il modo tipicamente religioso di
pensare Dio è il sentimento
2. la famiglia b. moralità
V
3. la proprietà
26 In che cosa consiste la logica del concetto per Hegel?
4. la società civile 5. il contratto
(max 6 righe)
6. l’intenzione
27 Quale differenza sussiste tra moralità ed eticità nel
25 Indica se le affermazioni seguenti, riferite all’Enciclo-
sistema hegeliano?
(max 6 righe)
pedia delle scienze filosofiche in compendio, sono vere o false.
28 Come si manifesta, per Hegel, la razionalità della sto-
a. Il primo pensiero concreto è quello
29 Quale rapporto intercorre tra religione e filosofia nel
di “essere”
V
F
V
F
V
F
b. L’idea è la totalità della realtà in tutta
la ricchezza delle sue determinazioni
ria nel corso degli eventi? sistema hegeliano?
d. Antropologia, fenomenologia e
psicologia rientrano nello spirito soggettivo
V
F
AVANGUARDIE EDUCATIVE COMPITO DI REALTÀ Produrre un testo in vista di una pubblicazione scolastica Immaginate che la vostra scuola si faccia promotrice di una pubblicazione finalizzata a mettere in luce il talento dei propri studenti. Alla vostra classe viene assegnato il compito di produrre un testo originale relativo alla Fenomenologia dello spirito.
FASE 1 Suddividetevi in 4 gruppi e scegliete il tipo di testo su cui lavorare: si tratterà di un romanzo? oppure sarà una sceneggiatura teatrale? opterete per la poesia? oppure vi cimenterete in un fumetto? Le quattro tipologie di testo selezionate (o eventualmente assegnate mediante sorteggio) devono essere tutte diverse tra loro. Dovrete raccontare, ogni gruppo a proprio modo, la storia della coscienza che matura fino a raggiungere il compimento nel sapere assoluto, dando corpo con creatività alle figure ideate da Hegel.
(max 10 righe)
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attività PLUS Analizza la dottrina logica di Hegel, facendone emergere alcuni degli aspetti più originali (max 15 righe) rispetto alla tradizione.
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attività PLUS Esponi la concezione dello Stato elaborata da Hegel, facendo dialogare idealmente il filosofo, a tua scelta, con Kant o con Rousseau.
c. La natura è attività spontanea e
creatrice
(max 6 righe)
(max 20 righe)
COMPETENZE Progettare | Collaborare e partecipare |
Pensiero creativo | Pensiero critico | Comunicare
FASE 2 pianificare / creare Ciascun gruppo pianifica il più accuratamente possibile la storia, redigendo una scaletta dei vari momenti che la costituiscono. Suggeriamo di non dilungarvi eccessivamente e di focalizzarvi sui passaggi principali della dottrina hegeliana e sulle figure più emblematiche. Quindi passate alla stesura e alla realizzazione. Il gruppo che ha optato per il fumetto deve fare in modo che disegni e testi siano armonici. FASE 3 valutare Condividete il vostro lavoro con il resto della classe, consegnandone una copia cartacea o digitale a ciascun gruppo. Quindi stabilite insieme, mediante una votazione pubblica, il prodotto che, a giudizio della maggioranza, è più indicato per la pubblicazione promossa dalla scuola.
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QUESTIONE
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
EDUCAZIONE CIVICA
La guerra: follia da evitare o tragica necessità
Kant
Hegel
SVILUPPO SOSTENIBILE Pace, giustizia e istituzioni solide
La celebrazione futurista della guerra Nel 1909 lo scrittore e poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) pubblica il Manifesto del Futurismo, dove afferma a chiare lettere «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore» (da “Le Figaro”, 20 febbraio 1909). E cinque anni dopo, ancora più esplicitamente, sempre Marinetti proclama: «La guerra […] è una legge della vita. Vita = aggressione. Pace universale = decrepitezza e agonia delle razze. […] Soltanto la guerra sa svecchiare, accelerare, aguzzare l’intelligenza umana, alleggerire ed aerare i nervi» (In quest’anno futurista, Milano, 29 novembre 1914).
Per quanto possa sembrare sconcertante, gli esponenti del futurismo, uno dei più originali movimenti culturali del primo Novecento, concepivano la guerra come la manifestazione di una conflittualità benèfica che permea tutte le cose. Pur con le sue asprezze, nella visione futurista la guerra esercita una sorta di potere chirurgico, capace di liberare l’umanità delle sue parti malate, “svecchiandola” e restituendole energia vitale. In questa prospettiva – che richiama quella antica di Eraclito – il conflitto e la guerra sono il vero motore della vita e della storia, un “male necessario” che, dietro la sua negatività immediata, nasconde una profusione salutare di energie, un’esplosione di creatività, ingegno e slancio liberatorio.
ALCUNI DATI PER AVVIARE LA RIFLESSIONE «Non v’è bellezza, se non nella lotta»: così affermavano i futuristi. A questo bellicismo appassionato essi ispirarono molte opere pittoriche, raffigurando la guerra come una “danza” di forme e di colori, ottenuta mediante una sorta di caleidoscopica scomposizione della luce o mediante il ritmico e “travolgente” ritornare di linee e moduli grafici. È il caso del dipinto qui riprodotto, realizzato da Umberto Boccioni nel 1915 (all’inizio della Prima guerra mondiale) e intitolato Carica di lancieri.
Umberto Boccioni, Carica di lancieri, 1915, Milano, Museo del Novecento.
788
LE PROSPETTIVE IN CAMPO Al di là delle celebrazioni dei futuristi italiani (che presto avrebbero perso il loro entusiasmo, a causa del tragico evolversi del primo conflitto mondiale), il Novecento ha gettato sulla guerra anche uno sguardo severo e critico, interpretandola spesso – soprattutto dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale e di Auschwitz – come una tragica follia, come qualcosa di indegno e disgustoso, da bandire per sempre dal modo di relazionarsi degli esseri umani. Esistono dunque due principali prospettive, dalle quali è possibile guardare alla guerra:
la guerra come male superabile Secondo un primo punto di vista, la guerra non è un comportamento naturale necessario (come è stata a lungo considerata), ma un prodotto culturale, ovvero il frutto di una visione (del mondo e della storia) che può essere cambiata. Quale modalità malata e irrazionale di rapporto tra i popoli, la guerra non soltanto si può evitare, ma deve anche essere definitivamente superata attraverso l’esercizio della ragione e del diritto. la guerra come male storico inevitabile Secondo un altro punto di vista, la guerra è invece un momento naturale e necessario della storia, che se ne serve come di un mezzo per procedere verso una mèta finale che alla ragione finita degli esseri umani sfugge. Per quanto atroce possa sembrarci, secondo questa prospettiva la guerra è dunque una fatalità che non si può evitare.
LA QUESTIONE FILOSOFICA L’interrogativo sulla guerra e, più in generale, sul conflitto e sul suo carattere razionale o irrazionale percorre da sempre la riflessione dei filosofi. In epoca moderna, le due posizioni più significative su questo tema sono state quelle di Kant e di Hegel, i quali hanno affrontato una questione che, nei suoi aspetti teorici, può essere sintetizzata così:
La guerra: follia da evitare o tragica necessità?
prospettiva razionalistico-pacifista
prospettiva razionalistico-giustificazionista
La guerra non è affatto un elemento necessario della natura umana; pertanto, grazie alla ragione, i popoli possono evitare di farvi ricorso. Per affrancarsi da un’istintiva e irrazionale condizione di «guerra di tutti contro tutti», bisogna costituire una «federazione mondiale» tra Stati, che possa risolvere in modo pacifico le possibili vertenze tra i diversi Paesi. La pace, insomma, non è utopia, ma un realistico compito della ragione.
L’idea della pace tra i popoli è utopistica e astratta, perché, come aveva ben compreso Eraclito, dove c’è vita, c’è sempre anche conflitto. La guerra, pertanto, è una necessità intrinseca della vita degli uomini e del mondo: essa non soltanto è inevitabile, ma entro certi limiti è anche benefica per il progresso morale e civile dei popoli.
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QUESTIONE
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Kant il razionalismo pacifista L’idea che la guerra si possa eliminare trova una formulazione esemplare, per chiarezza e rigore, nello scritto di Kant intitolato Per la pace perpetua (1795). L’opera viene composta da Kant sulla falsariga di un trattato di pace del suo tempo, articolato in «articoli preliminari», «articoli definitivi» e addirittura in alcune clausole segrete. La concezione Nello scritto kantiano la parola “pace” non indica, come nel linguaggio diplomatico della sua epoca, la sospenpositiva sione momentanea delle ostilità (pace “negativa”, o tregua), bensì «la fine di tutte le guerre e per sempre» della pace
(pace “positiva”). A questa concezione della pace allude anche l’espressione «pace perpetua» che ricorre nel titolo, la quale evoca una condizione che, se si guarda alla storia, non appare né facile né naturale. Essa si presenta piuttosto come uno «schema utopico» prescritto dalla ragione pratica: un «ideale regolativo» a cui l’essere umano deve tendere mediante la realizzazione di un nuovo ordine giuridico e politico.
Il contratto e Secondo Kant, tra gli Stati vige una condizione di violenza e di egoismo paragonabile a quella che la federazione Hobbes aveva descritto come vigente tra gli individui nello «stato di natura», cioè prima della costituziotra gli Stati
ne del «potere comune» e sovra-individuale dello Stato. Il requisito essenziale affinché le nazioni possano uscire da una tale condizione di guerra è dunque il seguente:
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rinunciare, come i singoli uomini, alla loro libertà selvaggia (priva di leggi), sottomettersi a leggi coercitive pubbliche e formare così uno Stato di popoli [civitas gentium] che crescerebbe sempre di più, fino ad abbracciare tutti i popoli della terra. (Per la pace perpetua, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 1997, p. 87)
Animato da un’incrollabile fede nella ragione, convinto che la storia umana progredisca verso il meglio, Kant ritiene che l’amara esperienza delle guerre possa spingere i diversi Stati a rinunciare ai loro eserciti nazionali permanenti, cioè all’uso della forza, e a stipulare un «contratto sociale originario» volto alla fondazione di una «federazione di popoli»: quella stessa insocievolezza, che obbligava gli uomini a darsi una costituzione, è di nuovo la causa per cui ogni comunità nei rapporti esterni, cioè come Stato in rapporto a Stati, si mantiene in libertà illimitata e quindi deve aspettarsi dagli altri i mali che opprimevano i singoli uomini e li costrinsero a entrare in uno stato civile regolato dal diritto. La natura pertanto si è valsa della discordia degli uomini […] come di un mezzo per trarre dal loro inevitabile antagonismo una condizione di pace e sicurezza; cioè essa, mediante la guerra, mediante gli armamenti sempre più estesi […], spinge a fare quello che la ragione, anche senza così triste esperienza, avrebbe potuto suggerire: cioè di uscire dallo stato eslege [“esterno” alla legge] di barbarie ed entrare in una federazione di popoli, nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da quella grande federazione dei popoli, da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune. (Idea di una storia universale, in I. Kant, Scritti politici, trad. it. di G. Solari e G. Vidari, utet, Torino 1965, p. 131)
Kant indica la via per arrivare a questa «federazione di popoli» mediante sei «articoli preliminari», che corrispondono alle condizioni necessarie per eliminare le principali cause delle guerre, e tre «articoli definitivi», che individuano i requisiti necessari per una pace durevole. Il primo articolo Nell’illustrare il contenuto del primo articolo definitivo («La costituzione civile di ogni Stato deve esdefinitivo sere repubblicana»), il filosofo afferma che un governo repubblicano (cioè fondato sulla sovranità po-
polare) garantisce meglio la «libertà» all’interno e la «pace» all’esterno:
‘
In uno Stato a costituzione repubblicana, la decisione di intraprendere o meno la guerra può avvenire soltanto sulla base dell’assenso dei cittadini; in tale contesto, dunque, è fin troppo naturale che essi riflettano a lungo prima di iniziare un gioco così pericoloso […].
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UnitÀ 8 HEGEL QUESTIONE la guerra: follia da evitare o tragica necessità?
In una costituzione nella quale i sudditi non sono cittadini – dunque in una costituzione non repubblicana – fare la guerra è invece la cosa più facile del mondo, poiché il sovrano non è un membro dello Stato, ma ne è il proprietario, e […] può dunque decidere la guerra come fosse una sorta di partita di piacere. (Per la pace perpetua, cit., p. 73) Il secondo articolo Quello di Kant, però, più che un generico pacifismo democratico (che riconduce la causa prima delle guerdefinitivo re al carattere dispotico dei governi) è un concreto pacifismo giuridico, come emerge dal secondo articolo
definitivo («Il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di Stati liberi»). La vera causa della guerra, infatti, secondo Kant non sta nel fatto che il potere sovrano stia nelle mani di alcuni (sovrani dispotici) piuttosto che di altri (che potrebbero essere più moderati), ma sta nella sovranità statale in quanto tale, cioè nell’assoluta libertà che ogni Stato ha nei confronti degli altri Stati. In assenza di un potere sovranazionale e di un monopolio internazionale della forza, ogni Stato è legittimato a usare qualsiasi mezzo per far valere il proprio diritto, o anche soltanto per far valere il proprio potere. Quindi non è sufficiente che gli Stati diventino repubblicani: è anche necessario che essi trasferiscano la propria sovranità a un potere sovranazionale, “superando” in qualche modo la forma stessa dello Stato nazionale. «Il ragionamento che sta alla base di questa teoria – osserva il filosofo e politologo Norberto Bobbio (19092004) – è di una semplicità e anche di un’efficacia esemplari: allo stesso modo che agli uomini nello stato di natura sono state necessarie prima la rinuncia da parte di tutti all’uso individuale della forza e poi l’attribuzione della forza di tutti ad un potere unico destinato a diventare il detentore del monopolio della forza, così agli Stati, ripiombati nello stato di natura attraverso quel sistema di rapporti minacciosi e precari che è stato chiamato l’equilibrio del terrore, occorre compiere un analogo passaggio dalla situazione attuale di pluralismo di centri di potere [...] alla fase di concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo, che abbia nei confronti dei singoli Stati lo stesso monopolio della forza che ha lo Stato nei riguardi dei singoli» (Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 84-85). Il terzo articolo La terza pre-condizione necessaria per la «pace perpetua» (terzo articolo definitivo) consiste, secondo definitivo Kant, nella maturazione della consapevolezza che il mondo è una sorta di casa comune in cui l’uma-
nità deve imparare a «socializzare in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra»:
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Qui, come nei precedenti articoli, non è questione di filantropia, ma di diritto, e in tal senso ospitalità significa diritto di ogni straniero a non essere trattato ostilmente quando arriva in un territorio altrui. Può esserne allontanato, se con ciò non gli si reca nessun danno; ma non si deve agire ostilmente contro di lui, finché si comporta in modo pacifico. [...] A causa della forma sferica della superficie [terrestre], infatti, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, e sono quindi costretti in definitiva a sopportarsi gli uni accanto agli altri, senza che nessuno abbia però originariamente più diritto di un altro su una porzione della terra.
Hegel
(Per la pace perpetua, cit., p. 91)
il razionalismo giustificazionista
La distinzione fra Per Hegel la proposta “pacifista” di Kant si fonda su un presupposto errato: il misconoscimento di una diritto «interno» strutturale e ineliminabile differenza tra l’ambito del «diritto statale interno» e quello del «diritto stataed «esterno»
le esterno». Nel campo del diritto interno, infatti, i conflitti tra gli individui possono e devono essere risolti con mezzi legali, dal momento che esistono un potere comune e un monopolio della forza riconosciuti; invece nel campo del diritto esterno (o internazionale) le controversie tra gli Stati possono essere legittimamente risolte anche con la forza, ogni volta che la diplomazia fallisca nella loro composizione pacifica.
Il limite della Questa differenza tra una sfera “interna” e una sfera “esterna” allo Stato, in qualche modo riconosciuta prospettiva anche da Kant, per Hegel è una condizione necessaria e insuperabile: per quanto moralmente esecrabikantiana
le, la guerra è una forma di autodifesa legittima e naturale, alla quale ogni Stato, in assenza di un potere sovranazionale che ne limiti i diritti, può e deve ricorrere.
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QUESTIONE Del resto l’ideale kantiano di una «federazione di Stati» capace di dirimere le controversie internazionali, per quanto costituisca un buon proposito morale, non può trovare fondamento nella realtà dei fatti, dal momento che qualunque organismo “superiore” a quello statale sarebbe a sua volta l’espressione di «volontà sovrane particolari»
‘
La concezione kantiana di una pace perpetua grazie a una federazione di Stati, la quale appianasse ogni controversia e, come un potere riconosciuto da ciascun singolo Stato, componesse ogni discordia, e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia degli Stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità. (Lineamenti della filosofia del diritto, par. 333, annotazione, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987)
La guerra come Qual è, allora, il vero giudice delle contese fra Stati? Per Hegel non c’è dubbio: è lo «spirito del mondo», male necessario cioè la storia in cui gli Stati nazionali nascono, crescono e si urtano violentemente: sono gli eventi a
stabilire quale Stato, di volta in volta, debba avere la meglio sugli altri. In questa prospettiva la guerra non soltanto è inevitabile, ma anche, in una certa misura, benèfica, perché si configura come «un bene-mezzo per il raggiungimento di un bene-fine» (Norberto Bobbio, op. cit.) che consiste nel progresso morale e civile dei popoli:
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La guerra ha il superiore significato che grazie ad essa [...] la salute etica dei popoli viene mantenuta nella sua indifferenza di fronte al rinsaldarsi delle determinatezze finite, come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole, come i popoli da una pace durevole o addirittura perpetua. (Lineamenti della filosofia del diritto, cit., par. 324, annotazione)
In quanto fuoco rigeneratore e incendio che distrugge e purifica, la guerra simboleggia per Hegel la forza stessa della dialettica e dello spirito universale, che travolge e “consuma” il finito in vista della realizzazione di una sempre maggiore libertà.
una questione aperta
Nessuna questione incombe in modo così drammatico sulla scena del mondo di ogni tempo come quella della guerra e della pace: la storia ha dato ragione a Kant e alla sua fiducia illuministica nella pace, oppure all’amaro realismo di Hegel, che nel conflitto vedeva una necessità insuperabile?
A ben vedere, quella tra Kant e Hegel non è una vera alternativa. Per Kant, infatti, la pace costituisce un «ideale della ragion pratica», a cui dobbiamo aspirare e tendere anche se non sappiamo se sia raggiungibile. Per Hegel, invece, sperare nella pace è legittimo, ma è tipico di un razionalismo astratto. La ragione non ha il compito di prescrivere o auspicare il «dover essere», ma di comprendere «ciò che è»: così, se Kant guarda al futuro e traccia un compito morale che, per quanto irrealizzabile nella sua idealità, segna comunque una “direzione” per la vita umana, dal canto suo Hegel rimane fedele all’idea che «la filosofia è il tempo presente appreso con il pensiero». Egli rinuncia pertanto a qualsiasi slancio utopistico e si limita a constatare i fatti. E, stando ai fatti, la guerra è inevitabile. L’opposizione tra Kant e Hegel, del resto, è ben comprensibile se si considera che entrambi gli autori rintracciano le cause della guerra (nel loro tempo) nello Stato nazionale moderno, con la differenza che per Kant tale assetto politico può essere superato con la costruzione di una «federazione» tra Stati, mentre per Hegel esso è l’approdo ultimo della razionalità storica, e quindi deve essere mantenuto. Anche la storia contemporanea, pur nella sua complessità, si è misurata e continua a misurarsi con il problema della guerra, e lo fa, a ben vedere, proprio nei termini esposti da Kant e da Hegel. Sulla scena del mondo, infatti, nel rapporto tra gli Stati la guerra è di fatto rimasta (come previsto da Hegel)
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UnitÀ 8 HEGEL QUESTIONE la guerra: follia da evitare o tragica necessità?
un orizzonte insuperato, e uno strumento concreto per risolvere (o tentare di risolvere) le controversie internazionali. Nello stesso tempo, però, con la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea l’Occidente ha cercato (kantianamente) la via della pace in forme istituzionali federative, al fine di superare l’orizzonte chiuso e conflittuale dello Stato nazionale. E proprio l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha siglato, il 25 settembre 2015, l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, includendo la «Pace» (insieme con «Persone», «Pianeta» e «Prosperità») fra i macro-obiettivi citati nel Preambolo del documento:
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Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile.
ora tocca a voi...
dibattito critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto la guida dell’insegnante, mediante sorteggio dividete la classe in due squadre, assegnando a ciascuna il compito di argomentare in favore o contro la seguente mozione:
La guerra è una follia da evitare PREPAR A ZIONE DEL DIBAT TITO
• Per prepararvi a presentare il punto di vista della vostra squadra, rispondete alle seguenti domande: - in che senso a proposito di Kant si può parlare di un razionalismo pacifista, e a proposito di Hegel di un razionalismo giustificazionista? - quali sono gli argomenti addotti da Kant/ Hegel per sostenere che la guerra si può/non si può evitare? - perché, secondo Kant, la pace richiede l’istituzione di una «federazione di popoli»? - perché, secondo Hegel, nessun organismo sovranazionale potrebbe garantire la pace? - in che senso il razionalismo di Kant/Hegel può essere definito utopistico/realistico? • Per elaborare gli argomenti favorevoli o contrari alla mozione, cercate nel manuale, in biblioteca o in Internet le riflessioni di alcuni filosofi e storici (max tre) sul tema in questione, individuando nella storia del Novecento gli avvenimenti che possono supportare la posizione della vostra squadra. Consultate anche le Carte costituzionali dei Paesi occidentali e l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO 1. primo intervento (max 6 minuti per ogni squa-
dra) Un primo studente della squadra favorevole
alla mozione riassume il problema ed espone la tesi: Sì, la guerra è una follia che può essere evitata grazie all’esercizio della ragione. Poi anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il primo argomento. Un componente della squadra avversaria espone la tesi: Per quanto la guerra sia devastante, è una manifestazione storica naturale e necessaria, che in quanto tale difficilmente può essere evitata, e anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra; quindi espone il primo argomento. 2. secondo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un secondo studente per ogni squadra difende il primo argomento presentato dalle critiche eventualmente ricevute; quindi confuta il primo argomento avversario ed espone altri argomenti in favore della mozione o contro di essa. 3. terzo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un terzo studente per ogni squadra difende dalle critiche gli argomenti presentati fino a quel momento e confuta le argomentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 minuti per ogni squadra) Un esponente per ciascuna squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
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L’OFFICINA DELL’ESAME VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA B
ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO 1 La fine della storia e il destino dell’essere umano Di origini russe, Alexandre Kojève (1902-1968) è stato un grande interprete di Hegel. Le lezioni da lui tenute sulla Fenomenologia dello Spirito, nell’École pratique des hautes études di Parigi, a partire dal 1933 sono confluite nell’Introduzione alla lettura di Hegel, da cui è tratto il testo seguente. Kojève affronta qui la problematica della fine della storia, cioè di quella condizione in cui il divenire dello Spirito si arresta in quanto è giunto al sapere assoluto. Nella condizione
post-storica non si verifica più la continua negazione, il progressivo superamento del dato verso forme di sapere e di esistenza più avanzate, e in tal modo si supera la condizione umana per come si è manifestata fino a questo momento. Kojève si interroga proprio sul futuro dell’essere umano una volta che il percorso della storia sia giunto al suo compimento, su un suo eventuale ritorno a una condizione «animale» (non più «spirituale»).
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La scomparsa dell’Uomo alla fine delle Storia non è dunque una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale che è in accordo con la Natura o con l’Esseredato. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto, cioè l’Azione negatrice del dato e l’Errore, o in generale il Soggetto opposto all’Oggetto. […] Il che praticamente vuol dire: la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente. E anche la scomparsa della Filosofia; infatti, l’Uomo, non cambiando più se stesso in maniera essenziale, non ha più ragione di cambiare i princìpi (veri) che stanno alla base della sua conoscenza del Mondo e di sé. […] Se l’Uomo ri-diventa un animale, anche le sue arti, i suoi amori e i suoi giochi devono ri-diventare puramente “naturali”. Bisognerebbe dunque ammettere che, dopo la fine della Storia, gli uomini costruiranno i loro edifici e le loro opere d’arte come gli uccelli costruiscono i propri nidi e i ragni tessono le proprie tele, eseguiranno concerti musicali alla maniera delle rane e delle cicale, giocheranno come giocano i giovani animali e si daranno all’amore come fanno le bestie adulte. Ma allora non si può dire che tutto questo “rende l’Uomo felice”. Bisognerebbe dire che gli animali post-storici della specie Homo sapiens (che vivranno nell’abbondanza e in piena sicurezza) saranno contenti in funzione del loro comportamento artistico, erotico e ludico, visto che, per definizione, essi se ne accontenteranno. Ma c’è di più. “L’annientamento definitivo dell’Uomo propriamente detto” significa anche la scomparsa del Discorso (Lógos) umano in senso proprio. Gli animali della specie Homo sapiens reagirebbero con riflessi condizionati a segnali acustici o mimici e così i loro cosiddetti “discorsi” sarebbero simili al presunto “linguaggio” delle api. […] Sono stato indotto a concluderne che l’American way of life1 era il genere di vita proprio del periodo post-storico, dal momento che l’attuale presenza degli Stati Uniti del Mondo prefigura il futuro “eterno presente” dell’umanità tutta intera. Così, il ritorno dell’Uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da venire, bensì come una certezza già presente. (A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G. F. Frigo, Adelphi, Milano 2010, pp. 541-543) 1. L’espressione, che in italiano significa “stile di vita all’americana”, si riferisce all’éthos nazionalista proprio degli Stati Uniti degli anni Venti e Trenta dello scorso secolo, incentrato sui princìpi di vita, libertà e ricerca della felicità.
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SEZIONE 4 L’OTTOCENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
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COMPRENSIONE E ANALISI
PRODUZIONE
1. In che cosa consiste, dal punto di vista di Kojève, «La scomparsa dell’Uomo alla fine delle Storia» (r. 1)? Perché non costituirebbe una catastrofe naturale o biologica? 2. Che cosa significa che, con la fine della storia, «l’Uomo ri-diventa un animale» (r. 9)? 3. Perché, secondo l’autore, lo stato post-storico non sarà in grado di rendere felice l’essere umano? 4. Prova a spiegare in che senso a Kojève l’American way of life può sembrare «il genere di vita proprio del periodo post-storico» (rr. 22-23).
Il concetto di fine della storia ben si adatta alla sensazione che l’essere umano abbia ormai raggiunto il limite estremo del proprio sviluppo spirituale, che il progresso delle scienze e delle tecniche non sia capace di apportare un’autentica novità, tanto che non ci resterebbe se non l’abbandono a forme di consumo più animali che propriamente umane. Condividi una simile lettura della filosofia hegeliana? In quale modo l’essere umano potrebbe superare la presente situazione che lo riduce a spettatore e consumatore? Rispondi alle domande attingendo alle tue conoscenze personali e al tuo percorso formativo; organizza la tua tesi e gli argomenti individuati al suo supporto in un testo coerente e coeso, che puoi suddividere in paragrafi.
VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C
RIFLESSIONE CRITICA DI CARATTERE ESPOSITIVO-ARGOMENTATIVO SU TEMATICHE DI ATTUALITÀ 2 L’abisso della libertà
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Con l’atto libero della sua caduta l’uomo è risalito al cuore stesso della realtà e vi si è inserito con volontà di decisione. Il suo intervento ha avuto l’effetto di rimettere in questione il modus operandi divino, contestare la procedura degli atti originari, riaprire il gioco dei rapporti fra positivo e negativo. Il suo segreto intento era quello di sostituire la propria libertà a quella divina negli atti originari dell’irruzione di Dio nell’esistenza e della creazione divina del mondo. Questo è il significato profondo dell’espressione di Isaia ripresa da Schelling: l’uomo è giunto a «scuotere le fondamenta della terra» (Is. 24, 18). (L. Pareyson, Luigi, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 2000, p. 189)
La libertà costituisce uno dei tratti più affascinanti dello spirito umano: senza di essa, scompare quanto l’individuo ha di più proprio, si eclissa la sua stessa “spiritualità”. Eppure, la libertà umana si situa sempre in bilico tra positivo e negativo, e arriva ad affacciarsi sull’abisso: è possibilità di realizzare il bene, di affermare l’individuo, ma anche di sprofondare nella malvagità. Esponi
le tue riflessioni a proposito della natura ambigua della libertà, facendo riferimento alle tue conoscenze sul Romanticismo tedesco: puoi richiamarti, ad esempio, all’atteggiamento di sfida e di ribellione proprio del titanismo e del prometeismo, oppure alla filosofia di Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, che immagina bene e male coesistenti originariamente in Dio.
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SNODI PLURIDISCIPLINARI
VERSO IL COLLOQUIO 3 Il singolo e la storia Leggi il percorso delineato di seguito, che attraversa e mette in connessione alcune discipline, e prova a svilupparlo rispondendo in forma orale agli spunti ed ai quesiti proposti. Quando elabori un percorso interdisciplinare, non limitarti a considerare il documento proposto come un mero spunto al quale “agganciare” via via i diversi contenuti disciplinari: cerca – dove possibile – di istituire un confronto tra il materiale di partenza e ciascun argomento affrontato.
PARTIAMO DA UNA CITAZIONE
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La storia filosofica non comprende soltanto il principio di un popolo nelle sue disposizioni e vicissitudini, e sviluppa i dati a partire da questo principio, ma tratta soprattutto dello Spirito universale del mondo, per come esso ha svolto in un’intima connessione i diversi gradi della sua formazione attraverso la storia delle nazioni apparse separatamente e i loro destini. Questa storia presenta lo Spirito universale come la sostanza che si manifesta nei suoi accidenti. (G.W.F. Hegel, Propedeutica filosofica, trad. it. di N. Cantatore e G. Guerra, Antonio Tombolini Editore, Loreto 2017, p. 242)
FILOSOFIA La filosofia della storia di Hegel costituisce un grandioso tentativo di rileggere la totalità degli avvenimenti umani nella cornice del processo di autorealizzazione dell’assoluto come Spirito. Come la filosofia della natura non si pone in alternativa all’indagine scientifica sulla realtà fisica e biologica ma riflette sui risultati delle singole discipline per afferrare l’orientamento teleologico della natura nel suo complesso, così la filosofia della storia coglie la direzione e il senso di quegli avvenimenti che agli occhi dello storico o del cronista potrebbero apparire semplicemente un caotico e inintelligibile susseguirsi di vicende particolari. • Leggi la citazione proposta e interpretala alla luce della riflessione hegeliana sulla storia: che cosa significa che nella storia lo Spirito si presenta «come la sostanza che si manifesta nei suoi accidenti»? Confronta poi la prospettiva di Hegel con quella di Giambattista Vico: in quale misura lo Spirito universale è analogo alla Provvidenza? Che cosa invece li distingue?
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SEZIONE 4 L’OTTOCENTO L’OFFICINA DELL’ESAME
STORIA Agli occhi di Hegel, lo scopo della storia è la progressiva realizzazione dello Spirito come razionalità e libertà. Ai diversi periodi della storia mondiale corrisponde pertanto il graduale passaggio dalla libertà di uno solo alla libertà di tutti. Le considerazioni di Hegel si iscrivono nel dibattito culturale e politico dell’età della Restaurazione: sconfitto Bonaparte, gli Stati europei (e quelli tedeschi in particolare) devono fare i conti con l’eredità della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. • Analizza lo sviluppo degli avvenimenti storici ai quali assiste l’Europa tra il 1789 e il 1831, anno della morte di Hegel: quali sono gli effetti di lungo periodo della Rivoluzione francese sull’evoluzione dell’ordinamento giuridico degli Stati? Con l’aiuto del tuo manuale di storia, ricostruisci il quadro del dibattito politico sviluppatosi in seno al Romanticismo facendo riferimento sia ai pensatori più conservatori sia alle correnti di orientamento liberale e democratico: quali punti di contatto e quali divergenze individui tra queste posizioni e la visione di Hegel?
LE T TER ATUR A ITALIANA Nel panorama letterario italiano, Ugo Foscolo si distingue come osservatore attento e partecipe degli eventi successivi alla Rivoluzione francese. Inizialmente infiammato dalla prospettiva di una libertà che sembra a portata di mano, dopo il Trattato di Campoformio vede frustrate le proprie aspirazioni. Con il tempo, alla tragica disillusione espressa nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis subentra l’ironia distaccata e scettica della Notizia intorno a Didimo Chierico; malgrado ciò, la lettura foscoliana degli avvenimenti storici rimane caratterizzata da un pessimistico disincanto. • Leggi la missiva da Ventimiglia contenuta nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (parte II, 19 e 20 febbraio 1799): il protagonista, contemplando il paesaggio roccioso e aspro, riflette sulle proprie vicende e delinea una sorta di tragica filosofia della storia. Quale legge governa gli avvenimenti e quale parte hanno le scelte individuali secondo Ortis? Verso la conclusione della missiva, Jacopo si rivolge retoricamente alla Natura biasimandola per il «dono […] funesto della ragione»: a partire da queste osservazioni, costruisci un confronto tra la posizione di Foscolo e quella di Hegel.
LE T TER ATUR A INGLESE La riflessione sull’origine dei popoli, tipica dei Romantici, e il conseguente interesse per le tradizioni sono per certi aspetti affini alla nozione hegeliana di “spirito oggettivo” e rimandano a una visione delle nazioni come entità collettive, dotate di caratteri propri che si manifestano nelle diverse forme della vita associata. Nella medesima temperie culturale emergono tuttavia alcune istanze apparentemente in contrasto con l’esaltazione della nazione come comunità di lingua e di stirpe: l’interesse per gli emarginati, i ribelli e gli outsider, assieme al rifiuto del conformismo e della vita urbana, allude all’irriducibilità dei singoli rispetto al contesto storico e sociale. • Rintraccia nel panorama della poesia romantica inglese alcuni esempi di celebrazione di individualità straordinarie e refrattarie alle convenzioni. Puoi fare riferimento, ad esempio, alla produzione di William Wordsworth oppure alla vita e all’opera di Lord Byron.
Prova tu Individua altri possibili collegamenti con la citazione proposta. Puoi fare riferimento alle opere d’arte, alla produzione letteraria e alle teorie pedagogiche di matrice romantica. Fissa la tua attenzione sulle direzioni nelle quali si sviluppa la riflessione sulla storia, sulla nazione e sul ruolo del singolo, mettendo poi in relazione il risultato di questa ricerca con le parole di Hegel.
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I NODI DEL PENSIERO CHE COS’È LA SOSTANZA?
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La critica degli empiristi – e in particolare di Hume – alla nozione di “sostanza” ( p. 374) viene accolta da Kant, il quale con la sua filosofia trascendentale suscita un dibattito che aprirà la via all’idealismo, ovvero alla convinzione che autentica sostanza sia lo spirito, inteso come totalità infinita che comprende in sé ogni aspetto della realtà.
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1 Bruno
KANT
La sostanza è una forma pura, cioè una funzione unificatrice dell’esperienza
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Il concetto di sostanza si riferisce sempre a intuizioni, che in me non possono essere altrimenti che sensibili, e però [perciò] sono del tutto fuori del campo dell’intelletto e del suo pensiero. (I. Kant, Critica della ragion pura, “Dialettica trascendentale”, II, I)
Come per gli empiristi, anche per Kant la sostanza non è una “cosa” (res), non è qualcosa di dato, ma una collezione di dati empirici. Essa, in altre parole, è soltanto una funzione sintetica della nostra mente, la quale unifica i dati percettivi: come quando, ad esempio, dalle sensazioni di giallo, durezza e lucentezza ci formiamo l’idea di un “sostegno” unico di queste proprietà, al quale diamo il nome “oro”. Così intesa, la sostanza è una delle «categorie» o «concetti puri» con cui l’intelletto organizza e unifica il molteplice delle intuizioni sensibili.
2 Cartesio
3 Spinoza
4 Leibniz
5 Hume
Il problema della sintesi o dell’unificazione del molteplice fornito dalle sensazioni diventa, in Kant, il problema della sintesi dell’esperienza stessa, nel senso che non chiama in causa soltanto i singoli aspetti dell’esperienza, ma l’esperienza nel suo complesso. Le singole categorie dell’intelletto, infatti, rendono possibili esclusivamente sintesi parziali, nel senso che ci consentono di collegare alcune rappresentazioni in un nesso causale, nell’idea di una sostanza ecc. Deve però esistere un’attività unificatrice originaria che consenta di organizzare queste sintesi parziali in una sintesi complessiva. In effetti, l’esperienza di un mondo è tale se siamo in grado di indicare un principio che la “lega” tutta insieme, se cioè ne abbiamo una coscienza permanente e continua. Questa consapevolezza di sé quale orizzonte unitario delle diverse rappresentazioni è definita da Kant «io penso», o «autocoscienza», poiché grazie ad essa siamo in grado di avere coscienza di noi stessi come centro unificante dell’esperienza. In altre parole: io posso fare molte esperienze, ma posso dire che sono tutte mie esperienze soltanto se le riferisco tutte a me stesso, essendo io quell’elemento formale, comune e costante che le tiene insieme, facendo dell’esperienza una esperienza. L’«io penso», tuttavia, per Kant non è una “cosa”, cioè non è una «sostanza pensante» come per Cartesio, bensì una funzione, un atto. Esso è l’attività di unificare l’esperienza secondo concetti o funzioni a priori dell’intelletto, e in quanto tale non può essere oggetto di conoscenza, cioè non può far parte a sua volta di un’esperienza, essendo una rappresentazione pura (una forma) dell’intelletto.
7
FICHTE
La sostanza è l’Io, Soggetto infinito
‘
In quanto l’Io si pone come infinito, la sua attività (di porre) cade sull’Io stesso, e su nient’altro che l’Io. (J.G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, parte terza, par. 5)
Sulla strada aperta da Kant procede Fichte. Se la metafisica tradizionale aveva “sostanzializzato” o “reificato” l’io (interpretandolo come anima sostanziale e immortale), Kant – riprendendo la critica empiristica alla nozione di sostanza – lo aveva invece concepito come attività o funzione che rende possibile l’unificazione dei dati dell’esperienza («io penso»). Estremizzando questa posizione, Fichte infinizza l’Io, giungendo a concepirlo come attività originaria infinita, e facendone non soltanto la condizione del conoscere soggettivo, ma il principio stesso del mondo. L’Io fichteano, infatti, non è una “cosa” per la quale valga il principio di identità (A = A): esso è piuttosto attività libera, forza creatrice che pone sé stessa e oppone a sé il mondo. In questa prospettiva tutto è spirito, tutto è compreso nell’Io: non c’è una natura data, originaria, “sostanziale”; non c’è un oggetto che sta di fronte al soggetto umano che la conosce. Il mondo è piuttosto “non-io”, ovvero ciò che, opponendosi all’Io come suo limite, ne rende possibile la libertà, svelandosi come l’occasione e il teatro della sua azione. Più che sostanza degli io finiti, l’Io infinito è quindi Soggetto spirituale e mèta ideale dell’infinito sforzo dell’essere umano verso la libertà.
6 Kant
7 Fichte
8 Schelling
9 Hegel
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8
SCHELLING
La sostanza è l’Assoluto, unità indistinta di soggetto e oggetto
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L’io penso, io sono, è, a partire da Cartesio, l’errore fondamentale di ogni conoscenza; il pensiero non è il mio pensiero, e l’essere non è il mio essere, poiché ogni cosa è soltanto di Dio o del Tutto. (F. Schelling, Aforismi introduttivi sulla filosofia della natura, VII, 148)
Interpretando il non-io come una creazione dell’Io, Fichte in un certo senso finiva per svalutare la natura nella sua specificità e autonomia, indicando nello spirito il principio di tutta la realtà. Riprendendo motivi spinoziani, Schelling intende invece tanto l’Io, o il soggetto, quanto il non-io, o la natura, come due diversi aspetti di un’identica realtà assoluta. L’Assoluto schellinghiano è dunque qualcosa che idealmente precede la stessa distinzione tra Io e non-io, tra spirito e natura, proprio come la sostanza infinita di Spinoza era il fondamento tanto del pensiero quanto dell’estensione («attributi» della sostanza). Se l’Assoluto è identità indifferenziata di natura e spirito, allora la medesima realtà si manifesta e può essere conosciuta nel suo aspetto spirituale o in quello naturale. In questo senso la filosofia della natura di Schelling parte dall’oggetto (la natura), mostrando che non è altro che «spirito visibile», mentre la filosofia dello spirito parte dal soggetto (lo spirito) mostrando che non è altro che «natura invisibile».
9
HEGEL
La sostanza è lo spirito
‘
I NODI DEL PENSIERO CHE CoS’È la SoStanZa?
Tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non [soltanto] come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto. (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, “Prefazione”)
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Hegel segna un’ulteriore tappa sulla via tracciata da Spinoza, da Fichte e da Schelling, i quali avevano identificato la realtà, rispettivamente, con la sostanza divina unica e infinita, con il Soggetto infinito, e con l’Assoluto. Nello stesso tempo, tuttavia, se ne allontana, affermando che il reale («il vero») deve essere inteso «non [soltanto] come sostanza», ma «altrettanto decisamente come soggetto». Con queste parole egli intende riferirsi allo «spirito», concepito sia come sostanza (“sostrato”) in cui si radica la vita degli individui, sia come soggetto attivo e dinamico, libero “costruttore” del mondo e della storia nel suo razionale dispiegarsi. La sostanza hegeliana consiste dunque nelle concrete formazioni culturali in cui si è oggettivata la libertà dello spirito. Si tratta della realtà o del contesto in cui l’individuo finito vive e trova il suo sostegno: «un io che è un noi e un noi che è io». In questo senso la sostanza non
1 Bruno
2 Cartesio
3 Spinoza
4 Leibniz
5 Hume
è una realtà metafisica, né tanto meno la realtà naturale, ma è l’«eticità», o la «sostanza etica», cioè l’insieme delle istituzioni e delle creazioni spirituali di un popolo, in una parola la cultura che accomuna gli individui che vi appartengono e che sostanzia la loro vita, ponendosi come il sostrato in cui essi sussistono, pensano e agiscono. Così, se per Spinoza, per Fichte e per Schelling l’individuo doveva riconoscersi come un momento finito dell’Infinito (sostanza, Soggetto o Assoluto), per Hegel l’individuo si scopre momento accidentale della realtà culturale e storica a cui appartiene, la quale costituisce l’orizzonte del suo volere e della sua libertà.
FARE FILOSOFIA COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE Competenza imprenditoriale | Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali | Competenza digitale
Immagina di dover allestire una mostra sul tema: “La sostanza e il soggetto tra filosofia, letteratura e arte”, con particolare riferimento all’epoca moderna, e specialmente (in ambito filosofico) agli autori analizzati nelle due parti di questo “Nodo del pensiero” ( p. 374). • Innanzitutto scegli un’idea-chiave, un concetto-cardine attorno al quale possa ruotare il percorso espositivo (potrebbe trattarsi, ad esempio, della nozione di sostanza/soggetto come punto fermo o principio stabile “sotto”
6 Kant
7 Fichte
il divenire della realtà e della storia); quindi individua i filosofi a cui fare riferimento, e una o più metafore o immagini che a tuo avviso esprimono l’idea-chiave scelta (ad esempio la terraferma nel mare in tempesta, le radici di un albero ecc.). • Decidi infine lo sviluppo del percorso espositivo, indicando l’ordine e la natura degli elementi che lo costituiranno (tabelloni con testi, fotografie di opere d’arte, audio di passi letterari ecc.).
8 Schelling
9 Hegel
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I NODI DEL PENSIERO QUAL È L’ORIGINE DEL POTERE?
Interpretato da Hobbes e da Locke in prospettiva, rispettivamente, assolutistica e liberale ( p. 370), il modello contrattualistico viene ripreso e portato al suo momento culminante sia da Rousseau sia da Kant, che lo assorbono nelle loro (pur diverse) teorie democratiche. Con il successivo idealismo tedesco, la parabola della visione contrattualistica comincia la sua fase discendente, giungendo con Hegel al suo epilogo.
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ROUSSEAU
Il potere deriva da un patto che fonda un «io comune»
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In forza del contratto sociale l’uomo perde la sua libertà naturale e un diritto senza limiti su tutto ciò che lo attira e che può raggiungere; guadagna [invece] la libertà civile e la proprietà di tutto quanto possiede. (J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, I, VIII)
Il modello giusnaturalistico-contrattualistico, adottato con esiti diversi da Hobbes e da Locke, trova un’originale interpretazione in Rousseau. Per il pensatore ginevrino lo stato di natura non è una condizione di guerra (come riteneva Hobbes), né una condizione sociale fondata sul riconoscimento della legge di natura (come riteneva Locke), ma una condizione di innocenza ferina, in cui l’essere umano, bastando a sé stesso, non conosce socialità o dipendenza dall’altro, ma vive in uno stato di uguaglianza, libertà e felicità. Da questa sorta di “paradiso”, attraverso la civilizzazione e l’introduzione della proprietà privata, si passa secondo Rousseau a una situazione di reciproco asservimento, di disuguaglianza e di infelicità, sancita da un «patto iniquo» che genera uno Stato ingiusto.
1 Machiavelli
2 Grozio
3 Hobbes
4 Locke
L’unica via per conciliare l’uguaglianza e la libertà di cui gli individui godevano nello stato di natura con la vita in una società artificiale che implica la sottomissione a un’autorità, consiste in un «contratto sociale» capace di fondare uno Stato equo. Per Rousseau si tratta di un patto con cui gli individui rinunciano a tutti i loro diritti (come voleva Hobbes) per trasferirli però non a un sovrano avvertito come “altro” e “superiore”, ma alla comunità stessa, cioè a un governo che sia espressione di un «io comune», ovvero della «volontà generale». Tutto ciò è possibile, secondo Rousseau, soltanto se tutti i cittadini partecipano alle decisioni pubbliche, secondo il modello della democrazia diretta.
6
KANT
Il potere deriva da un patto finalizzato alla realizzazione dei singoli
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Lo stato civile […] è fondato sui seguenti princìpi a priori: 1. la libertà di ogni membro della società, in quanto uomo; 2. l’uguaglianza di esso con ogni altro, in quanto suddito; 3. l’indipendenza di ogni membro di un corpo comune, in quanto cittadino. (I. Kant, Sopra il detto comune “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”)
Kant accoglie la riflessione politica di Hobbes, Locke e Rousseau, sintetizzando le teorie di questi pensatori in una prospettiva contrattualistica e democratica. Egli ritiene infatti che la società civile sia una costruzione della ragione umana, finalizzata ad eliminare o almeno a ridurre i rischi dello stato di natura (Hobbes); che lo Stato sia tenuto a garantire i diritti naturali inalienabili di ciascun individuo (Locke); e che la migliore forma di organizzazione politica sia quella in cui i cittadini si riconoscono in una volontà collettiva, alla quale si sottomettono spontaneamente perché essa è l’espressione della loro stessa volontà (Rousseau). Su queste basi, Kant può essere considerato come uno dei maggiori difensori del liberalismo moderno. Egli è convinto che la libertà sia il fine ultimo dello Stato, il cui compito specifico, ridotto all’essenziale, consiste infatti nel porre i cittadini in condizione di perseguire come meglio credono i loro fini etici, religiosi ed economici, realizzando in tal modo i loro progetti di vita.
7
FICHTE
Il potere deriva da un patto finalizzato alla libertà e al benessere dei singoli
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Il vero scopo dello Stato è di aiutare ciascuno a raggiungere quello a cui, come partecipe dell’umanità, ha diritto. (J.G. Fichte, Lo Stato secondo ragione o lo Stato commerciale chiuso)
Su presupporti contrattualistici si basa anche la riflessione politica di Fichte, il quale vede nello Stato il risultato di un patto sociale: un’organizzazione fondata sul libero volere degli individui. Così inteso, lo Stato è per Fichte (come per Kant) uno strumento di libertà,
5 Rousseau
6 Kant
7 Fichte
8 Hegel
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un mezzo di cui gli esseri umani si servono per realizzarsi come soggetti liberi e responsabili, tanto che, in linea di principio, esso tende a diventare superfluo, o inutile, nel momento in cui i singoli abbiano raggiunto la loro piena maturità. Come Locke, Rousseau e Kant, anche Fichte vede lo Stato come il garante di alcuni diritti originari che appartengono per natura a ciascun individuo: il diritto alla libertà, quello all’autoconservazione e quello alla proprietà. Al fine di garantire questi diritti, lo Stato può legittimamente ricorrere alla forza. Questa prospettiva liberale e individualistica viene con il tempo parzialmente corretta da Fichte attraverso l’idea che lo Stato debba garantire a tutti i cittadini lavoro e benessere, e che a questo fine esso possa e debba regolamentare la vita economica e sociale, intervenendo nella gestione dei beni privati e delle attività produttive. Si assiste così nel pensiero fichteano a un graduale spostamento verso posizioni statalistiche che avranno in Hegel il loro maggior esponente.
8
HEGEL
Il potere dello Stato deriva dall’evoluzione storica della ragione
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I NODI DEL PENSIERO QUal È l’oRiGinE DEl potERE?
Solo nello Stato l’uomo ha esistenza razionale. […] Tutto ciò che l’uomo è, lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza. (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, 90.91)
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Hegel rappresenta il compimento e la dissoluzione a un tempo del giusnaturalismo e del contrattualismo tipici del pensiero politico moderno. Di tali dottrine, infatti, da una parte egli critica alcuni elementi essenziali, ovvero l’idea dell’esistenza di diritti naturali individuali e la concezione dello Stato come “artefatto”, cioè come costruzione umana che deriva da un contratto tra individui. D’altro canto, della riflessione politica precedente Hegel riprende alcuni aspetti, pur trasfigurandoli nella complessità del suo sistema. L’atomismo individualistico proprio dello stato di natura descritto dai giusnaturalisti ricompare, ad esempio, nella «società civile» hegeliana, che, in quanto dominio del conflitto tra singoli, si contrappone allo Stato. Inoltre, in opposizione alla prospettiva razionalistica e individualistica del giusnaturalismo, Hegel adotta una prospettiva naturalistica (secondo cui lo Stato è una «totalità vivente», evoluzione naturale della famiglia e della società civile) e storica (secondo cui lo Stato esprime lo «spirito di un popolo»); tuttavia lo storicismo hegeliano persegue lo stesso scopo del giusnaturalismo, ossia la giustificazione razionale dello Stato, ovvero di una manifestazione della ragione (storica) che costituisce il punto di arrivo della vicenda politica e culturale dell’intero Occidente. Pertanto si può affermare che anche per Hegel (come per Hobbes e per i giusnaturalisti), lo Stato è la forma più alta di razionalità realizzata nella storia. Dati questi presupposti, si comprende in che senso, per Hegel, soltanto nello Stato l’essere umano possa pervenire a un’esistenza autenticamente libera e conforme a ragione. La comunità statale è infatti da intendere come «sostanza etica», cioè come l’orizzonte di costumi, valori e tradizioni che orientano e “sostengono” la vita del singolo, e non come semplice autorità che si esprime nella forza della legge.
1 Machiavelli
2 Grozio
3 Hobbes
4 Locke
DALLA FILOSOFIA ALLA STORIA DEL NOVECENTO
Individuo o Stato? Il 16 marzo 1978 il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro (1916-1978), statista di fama internazionale, fu sequestrato da alcuni esponenti delle Brigate Rosse (organizzazione terroristica di estrema sinistra), che uccisero gli uomini della sua scorta. La detenzione del politico in quella che i brigatisti definirono «prigione del popolo» durò 55 interminabili giorni, ed è considerata una delle pagine più buie degli “anni di piombo”, ovvero di un periodo (più o meno coincidente con gli anni Settanta del secolo scorso) in cui nel nostro Paese l’opposizione politica tra la destra e la sinistra assunse toni estremi, trasformandosi in lotta armata e concretizzandosi in una serie di tragici attentati compiuti da entrambe le fazioni. Dopo il sequestro di Moro, i brigatisti chiesero il riconoscimento politico del loro movimento e la liberazione di alcuni loro compagni sotto processo a Torino, minacciando, se le richieste non fossero state soddisfatte, di uccidere il prigioniero. Ai vertici dello Stato si aprì così un partecipato e sofferto dibattito: la Democrazia cristiana e il Partito comunista suggerirono di rifiutare ogni compromesso con i terroristi (via della “fermezza”), mentre il Partito socialista propose la via della trattativa, ponendosi a capo del cosiddetto “fronte umanitario”. Alla fine prevalse la via della fermezza e il 9 maggio Aldo Moro fu ucciso. Ai funerali non partecipò la famiglia, in segno di polemica contro il governo e contro le istituzioni, accusate di aver sacrificato la vita di un uomo alla cosiddetta “ragion di Stato”. La cruciale questione teorica sottesa al caso Moro attraversa l’intera filosofia politica moderna, e può essere riassunta schematicamente in questi termini: lo Stato vale più dell’individuo, oppure l’individuo vale più dello Stato? L’individuo è detentore di diritti naturali (tra cui quello alla vita) che lo Stato deve garantire e tutelare, oppure il solo diritto legittimo è il diritto positivo, mediante il quale lo Stato garantisce la legalità e l’ordine pubblico?
FARE FILOSOFIA PER APPROFONDIRE E RIFLETTERE COMPETENZE Competenza alfabetica funzionale | Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali
Nella vicenda appena ricordata del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro emerge il profilo aspro, e in un certo senso terribile, del potere, che, al fine di poter garantire la sicurezza e gli interessi dei cittadini, sembra essere chiamato innanzitutto a conservare sé stesso.
5 Rousseau
6 Kant
• Rifletti su questo aspetto, cercando di individuare, per ciascuno degli autori analizzati in queste pagine, la risposta data all’interrogativo “vale di più lo Stato o l’individuo?”. • Esponi poi in un testo scritto (max 20 righe) la tua personale risposta, argomentandola opportunamente.
7 Fichte
8 Hegel
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I NODI DEL PENSIERO CHE COS’È IL BELLO?
Superando progressivamente l’identificazione medievale del bello con il vero e con il bene, i pensatori umanisti avevano iniziato a riconoscere l’autonomia e il valore della bellezza e dell’arte. Su queste basi comincia a svilupparsi una nuova disciplina: l’estetica, che da “dottrina della sensibilità” (quale è per Kant) si trasforma nell’Ottocento in “dottrina della bellezza”.
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VICO
Il bello è l’oggetto della fantasia
‘
La fantasia è tanto più robusta quanto è più debole il raziocinio. (G. Vico, Scienza nuova, XXXVI)
In quella che è considerata l’epoca della ragione cartesiana, Giambattista Vico è tra i pochi filosofi a seguire l’orientamento della riflessione umanistico-rinascimentale sulla bellezza, riconoscendo dignità e autonomia a un ambito dell’attività umana distinto da quello astratto e universale della conoscenza. Come nella storia dell’individuo l’atteggiamento fantastico e immaginativo di fronte alla realtà precede quello logico e conoscitivo, così, secondo Vico, nella storia dell’umanità la prima forma di “sapienza” trova il suo fondamento nella fantasia, intesa come modalità pre-logica di rapportarsi al mondo. Il principale prodotto della fantasia è la poesia, e il poeta è, letteralmente, “colui che crea” (da póiesis, “creazione”). Egli non ha ricevuto la sapienza da qualche misteriosa fonte, ma è capace di parlare e raccontare operando non con concetti, bensì con i cosiddetti «universali fantastici». Questi sono immagini che, prima e indipendentemente dai concetti astratti, assommano in sé tutti gli attributi legati all’idea
1
Vico
2
Kant
che l’immagine vuole esprimere. Grazie alla fantasia, per Vico la realtà viene dunque trasfigurata e compresa attraverso immagini che hanno sì un valore universale, ma soprattutto sono immagini belle, che “parlano” al sentimento e non all’intelletto. Per tutte queste ragioni, il filosofo italiano Benedetto Croce (1866-1952) indicherà in Vico il pensatore che per primo ha sostenuto la piena autonomia della poesia e dell’arte in genere, quali forme di produzione del bello.
2
KANT
Il bello è l’oggetto di un piacere disinteressato
‘
Non si può dare alcuna regola oggettiva del gusto, che determini per mezzo di concetti che cosa sia bello. (I. Kant, Critica del Giudizio, par. 17)
Portando a compimento il processo di autonomizzazione della riflessione sul bello iniziata con l’Umanesimo e approfondita da Vico, Immanuel Kant si pone come il vero fondatore della dottrina filosofica dell’arte e della bellezza. Il bello, per Kant, è un valore in sé. Quando diciamo che una cosa è “bella”, non intratteniamo con quella cosa un rapporto conoscitivo, né la sottoponiamo a una valutazione di tipo morale o utilitaristico. L’origine del «giudizio estetico», o del «giudizio di gusto» (che va distinto dal giudizio conoscitivo dell’intelletto e dal giudizio morale), è rintracciabile in una facoltà autonoma: il «sentimento», che è capace di cogliere «ciò che piace universalmente e senza concetto». Per fissarne ancora meglio il carattere autonomo e indipendente da altre categorie, Kant distingue il piacere che deriva dall’esperienza della bellezza sia da quello che deriva dall’utilità sia da quello che deriva dal bene. Oltre al bello, infatti, a procurare piacere può essere sia ciò che è utile sia ciò che è buono: nel primo caso si giudica piacevole l’oggetto di un desiderio utilitaristico (ad esempio un campo di grano, in virtù del guadagno che può derivare dal possederlo); nel secondo caso si giudica piacevole l’oggetto di un “desiderio” della ragione, la quale indica quell’oggetto alla volontà come fine degno di essere perseguito. Ma il bello si differenzia sia dall’utile sia dal buono perché non risponde né a un “interesse” materiale o dei sensi, né a un “interesse” della ragione. Esso, al contrario, è l’oggetto di un piacere “disinteressato”, il frutto di un godimento che concerne soltanto la sua immagine o la sua rappresentazione.
3
SCHELLING
Il bello è il “luogo” in cui si rivela l’Assoluto
‘
L’arte [apre al filosofo] il sancta sanctorum ove in eterna e originaria unione, quasi in un’unica fiamma, arde ciò che nella natura e nella storia è separato. (F. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale)
Schelling sviluppa gli elementi “romantici” presenti nella terza Critica kantiana e, con il suo idealismo “estetico”, evidenzia l’importanza dell’arte e della bellezza. Egli sottolinea infatti i limiti della ragione illuministica e rintraccia nel sentimento e nell’emozione che
3
Schelling
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Hegel
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contraddistinguono la creazione e la fruizione artistica una via di accesso privilegiata per la conoscenza dell’autentica realtà. Vera “sapienza del mondo” e fonte primaria di conoscenza, la creazione del bello precede infatti il discorso logico e si spinge là dove questo mostra i suoi limiti. L’arte assume così, in Schelling, i tratti di un autentico «organo» attraverso il quale l’Assoluto si rivela e si auto-comprende quale identità di natura (spirito inconscio) e spirito (natura conscia). Le opere belle sono infatti oggetti finiti, che tuttavia rimandano all’infinito. Esse, inoltre, in quanto sintesi di un momento inconsapevole (l’ispirazione) e di un momento consapevole (la produzione concreta e cosciente dell’oggetto artistico), costituiscono il mezzo attraverso il quale l’artista sperimenta direttamente il modo di essere dell’Assoluto, elevandosi a una forma di conoscenza, o meglio di “intuizione”, della verità che supera quella teoretica.
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HEGEL
Il bello è una forma di rivelazione della verità
‘
l’arte […] presenta alla coscienza la verità sotto […] una forma sensibile che ha in questa sua apparenza un senso ed un significato più alti, più profondi. (G.W.F. Hegel, Estetica)
I NODI DEL PENSIERO CHE CoS’È il BEllo?
Sebbene – in polemica con Schelling – Hegel riaffermi la superiorità della filosofia sull’arte, egli attribuisce alla bellezza un ruolo centrale nella vita dello spirito. L’arte, infatti, rappresenta il primo momento dello «spirito assoluto», vale a dire dell’assoluto che conosce sé stesso. Il fine dell’arte, secondo Hegel, non è né l’imitazione della natura, né l’ammaestramento o il perfezionamento morale degli esseri umani: il vero scopo dell’arte è «rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile». In altre parole, nella bellezza delle opere d’arte si ha la manifestazione sensibile della verità, l’«apparire sensibile dell’Idea». In questo senso l’opera d’arte è essenzialmente mediazione e conciliazione tra spirito e materia: non è ancora puro pensiero, cioè concetto filosofico, ma, nonostante la sua dimensione sensibile, non è più semplice esistenza materiale, come quella che caratterizza le pietre e gli organismi vegetali e animali. Anche per questo il “bello artistico” è superiore al “bello naturale”. L’essenza della bellezza risiede nell’arte in quanto prodotto dello spirito: «l’opera d’arte è tale solo in quanto, originata dallo spirito, appartiene al campo dello spirito, ha ricevuto il battesimo di spirituale e manifesta solo ciò che è formato secondo la risonanza dello spirito». Di qui deriva la legittimazione hegeliana dello statuto filosofico dell’estetica: essendo l’arte manifestazione dello spirito, nel pensare l’arte lo spirito pensa sé stesso in una delle proprie forme, e questo pensarsi dello spirito è esattamente il compito peculiare della filosofia.
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Vico
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Kant
DALLA FILOSOFIA ALL’ARTE
La bellezza allo specchio Spesso accade che un prodotto artistico venga apprezzato per il suo realismo, come se la bellezza di un’opera d’arte risiedesse nella sua capacità di rappresentare il mondo reale. E, a ben vedere, questa sembra essere anche la concezione dell’arte sottesa alle riflessioni sia di Schelling sia di Hegel, per i quali nel bello artistico si rivela la realtà autentica, ovvero l’Assoluto o lo spirito. Tra realismo (inteso in senso stretto, cioè come capacità di restituire nel modo più fedele possibile il mondo concreto, in tutti i suoi particolari) e allusione simbolica a qualcosa di più “profondo” e “vero” sembrano muoversi i lavori di Caravaggio (Michelangelo Merisi, 1571-1610). A colpire la nostra immaginazione e ad emozionarci è in particolare Narciso, suggestivo dipinto in cui la bellezza non è soltanto quella dell’opera, che rapisce lo spettatore, ma anche quella (universale o concettuale) incarnata dal soggetto raffigurato. Celebre personaggio della mitologia greca, Narciso è un bellissimo giovane figlio di una ninfa e di una divinità fluviale. Inconsapevole della propria bellezza, la scopre un giorno per caso, quando, andando a caccia per i boschi, si china a terra e si vede riflesso in un corso d’acqua, innamorandosi della propria immagine. Caravaggio ritrae il giovane intento a specchiarsi e a contemplarsi. L’effetto è quello di una scena doppia, perfettamente speculare, in cui ci sono il Narciso “reale” e il Narciso “riflesso”: l’opera apre così a chi guarda una serie di significati e allusioni che vanno oltre la raffigurazione realistica (tipica di tutte le opere del Caravaggio), e che ripropone anche a noi l’antica domanda: che cos’è la bellezza?
Caravaggio, Narciso, 1597-1599, olio su tela, Roma, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica.
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Schelling
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Hegel
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Indice dei NOMI Il neretto indica le pagine in cui l’autore è trattato analiticamente e la relativa sezione antologica.
A
Abbagnano, Nicola, 482 Achillini, Alessandro, 25 Agostino Aurelio (Agostino d’Ippona), 16, 30, 31, 54, 115, 149, 164, 177, 178, 196, 197, 332, 404, 405 al-Khuwarizmi, 156 Alessandro di Afrodisia, 22 Alessandro Magno, 704 Alfieri, Vittorio, 612 Althaus, Horst, 704 Amoretti, Giovanni Vittorio, 628 Anna Bolena d’Inghilterra, 41 Anselmo d’Aosta, 152, 166, 247, 251, 507 Anthony Ashley Cooper, 421 Antiseri, Dario, 532 Archimede di Siracusa, 67, 91, 173
Aristotele, 23-27, 46, 50, 64, 68, 70, 76, 82, 83, 87, 94-97, 99, 100, 118, 120, 139, 161, 279, 280, 290, 307, 315, 326, 328, 362, 363, 370, 375, 495, 520, 522, 528, 594, 726, 761, 773 Arminio (Jacob Harmenszoon), 304
Arnauld, Antoine, 150, 153, 177 Arouet, François-Marie vedi Voltaire Ashley Cooper, Anthony (primo conte di Shaftesbury), 301, 302, 304
Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano (imperatore romano), 9, 39 Averroè, 22, 23 Avery, Oswald Theodore, 121
B
Baader, Franz von, 633, 675 Bacon, Nicholas, 79 Bacone, Francesco (Francis Bacon), 15, 65, 79-90, 102, 104, 272, 273, 307, 381, 387, 400, 410
Bacone, Ruggero, 307
810
Baggesen, Jens, 638 Barberini, Maffeo, 92 Bayle, Pierre, 190, 406, 412, 415, 422, 423, 427, 432 Beaumont, Christophe de, 440 Beccaria, Cesare, 405, 380 Beck, Jacob Sigismund, 644, 647 Beeckman, Isaac, 140 Bellarmino, Roberto, 35, 92, 93, 108-110, 112 ben Joshua, Salomon (Maimon), 644, 647 Berkeley, George, 134, 310, 333-340, 342, 520, 645 Bernard, Abrahm, 435 Bernard, Suzanne (madre di Jean-Jacques Rousseau), 434 Bernardo di Chartres, 15 Bernini, Gian Lorenzo, 132 Berti, Enrico, 532 Bloch, Ernst, 680 Blumenberg, Hans, 120, 121 Bobbio, Norberto, 284, 287, 586, 587, 762, 775, 791, 792 Boccioni, Umberto, 788 Bodei, Remo, 232 Bodin, Jean, 371 Böhme, Jacob, 675, 689 Boncinelli, Edoardo, 231 Bonnot, Étienne, 424 Borowski, Ludwig Ernst, 472 Borromini, Francesco, 132 Bosschaert, Johannes, 232 Botero, Giovanni, 371 Bovero, Michelangelo, 764 Boyle, Robert, 301, 309 Brahe, Tycho, 72, 75, 77 Bramhall, John, 274, 277, 279 Brueghel, Jan (detto il Vecchio), 232
Bruni, Leonardo, 16, 21 Bruno, Giordano, 3, 11, 15, 29, 46, 47-53, 55, 57, 69, 73-75, 77, 99, 109, 204, 214, 217, 374, 688 Buffon, Georges-Louis Leclerc de, 421, 424 Burckhardt, Cristiana Carlotta, 707
Burckhardt, Jacob, 11 Burdach, Konrad, 11, 19 Burke, Edmund, 565, 570, 595, 736 Busby, Richard, 300 Byron, George Gordon, 629
C
Caccini, Tommaso, 108, 115 Caius Maecenas, 9 Calamandrei, Piero, 320 Calderón de la Barca, Pedro, 369
Calvino, Giovanni (Jean Cauvin), 34, 36 Calvino, Italo, 417 Campanella, Tommaso, 11, 15, 46, 53-56, 58, 109, 114 Caravaggio (Michelangelo Merisi detto il), 132, 809 Carcavy, Pierre de, 105 Cardano, Girolamo, 91 Carlo di Borbone, 399 Carlo I Stuart, 270, 272, 273, 300, 314
Carlo II Stuart, 274, 301-303, 305 Carlo Ludovico (principe elettore del Palatinato), 195 Cartesio (René Descartes), 18, 46, 131-134, 137-176, 177, 192, 194, 196, 198-201, 205, 206, 217, 222, 223, 226, 228, 238, 243, 247, 257, 269, 278, 288, 300, 307-309, 321, 364, 365, 369, 375, 381, 400, 401, 406, 443, 498, 525, 645, 690, 799 Cassirer, Ernst, 473 Castelli, Benedetto, 93, 108, 115 Caterina d’Aragona, 41 Caterina II di Russia, 378, 399 Cavendish, William, 272 Celeste, Maria, 92 Cervantes, Miguel de, 132 Chabod, Federico, 616 Chalmers, Alan, 362 Chambers, Ephraim, 420 Chiodi, Pietro, 480, 482, 484, 504, 532, 544 Cicerone, Marco Tullio, 16, 48
Cint, Federico, 32 Clarke, Samuel, 529 Clavio, Cristoforo, 99 Cocceius, Johannes, 143 Colli, Giorgio, 504 Colombo, Cristoforo, 3, 54, 138 Condillac, Étienne Bonnot de, 424-425, 427, 436, 455 Conway, Francis Seymour (conte di Hertford), 341 Cooper, Anthony Ashley, 301, 303 Copernico, Niccolò (Mikołaj Kopernik), 3, 24, 63, 69, 71, 7275, 77, 92, 99, 108, 123, 138, 489, 511, 518, 528 Cosimo II de’ Medici, 21, 91, 93, 99, 115 Cousin, Victor, 690 Cristina di Lorena, 93, 102, 115 Cristina di Svezia, 143 Cristo vedi Gesù Cristo Croce, Benedetto, 807, 320 Cromwell, Oliver, 273, 274, 300302
Cudworth, Damaris (Lady Masham), 306 Cudworth, Ralph, 306 Cusano, Niccolò, 23-24, 27, 29, 51, 57, 99
D d’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, 381, 421, 423, 427 Damasio, Antonio, 175 Dante Alighieri, 392 David, Jacques-Louis, 611 Davis, Philippe J., 163 Delatour Depil, Louise-Éléonore (Madame de Warens), 435-437 De Ruggiero, Guido, 538, 720 Democrito, 74, 76, 77, 119, 155, 164, 804 Descartes, René vedi Cartesio d’Holbach, Paul Henri Dietrich, 426, 427 Diderot, Denis, 377, 382, 420, 421-422, 423, 427, 429, 436, 441, 607, 620 Dini, Piero, 93 Diodato, Roberto, 233
E
Einstein, Albert, 76, 97, 101, 122 El Greco (Domínikos Theotokópoulos), 132 Elisabetta del Palatinato, 143
Elisabetta I d’Inghilterra, 79, 143 Émilie, Gabrielle, marchesa du Châtelet (Madame du Châtelet), 415
Enrico III di Francia, 48 Enrico VIII d’Inghilterra, 41 Epicuro, 390 Épinay, Denis d’, 439 Eraclide Pontico, 72 Eraclito, 788, 789 Erasmo da Rotterdam (Geert Geertz), 17, 30-33, 34, 36, 41 Erdmann, Johann Eduard, 725 Ernesto Augusto di BrunswickLüneburg, 235 Erodoto, 388 Erone di Alessandria, 67 Eschenmayer, Adam Karl August, 689
Euclide, 76, 91, 197, 222, 272, 494
F
Federico da Montefeltro, 130 Federico Guglielmo I di Prussia, 471
Federico Guglielmo II di Prussia, 474, 580 Federico Guglielmo III di Prussia, 474, 580 Federico II di Prussia (“il Grande”), 378, 399, 423, 440, 471, 472, 474
Federico V (elettore palatino), 143
Ferdinando I de’ Medici, 102 Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, 675
Ferrone, Vincenzo, 382 Fichte, Johann Gottlieb, 498, 503, 617, 618, 621, 625, 637-674, 677-679, 682-684, 686, 688, 689, 692, 693, 696, 697, 709, 715, 716, 723, 726, 752, 753, 771, 772, 799, 800, 801, 803, 804
Ficino, Marsilio, 2, 9, 25, 27, 29 Filmer, Robert, 303, 314 Flegel, Georg, 232 Forberg, Friedrich Karl, 642 Förster, Friedrich, 704 Foscarini, Paolo Antonio, 110 Foscolo, Ugo, 797 Foucault, Michel, 610 Freud, Sigmund, 120 Fried, Erich, 262
G
Galeno, 155 Galilei, Galileo, 1, 3, 24, 46, 6365, 69, 72, 75, 79, 89-121, 122, 129-131, 133, 141, 142, 155, 163, 164, 204, 205, 217, 272, 273, 288, 309, 321, 364, 366, 400, 401, 410, 520, 633 Gall, Franz Joseph, 735 Galvani, Luigi, 634 Gargiulo, Alfredo, 557 Garin, Eugenio, 3, 11, 12, 19, 142 Gassendi, Pierre, 150, 153, 239 Geertz, Geert vedi Erasmo da Rotterdam Gentile, Giovanni, 504 Gesù Cristo, 29, 30-35, 49, 331, 432, 583, 704, 713, 714, 725, 733, 770 Gesù di Nazareth vedi Gesù Cristo Geulincx, Arnold, 161 Geymonat, Ludovico, 97, 681 Giacomo I Stuart, 79, 143 Giacomo II d’Inghilterra, 305 Giansenio, Cornelio, 177 Gilbert, William, 82 Giorello, Giulio, 231 Giovanni Evangelista, 10, 582 Giovanni Federico di Lüneburg, 235 Giovanni Paolo II (papa), 110, 111 Girardin, René de, 441 Giulio II (papa), 30 Giuseppe II d’Austria, 378, 399 Giustiniano (imperatore bizantino), 2 Givone, Sergio, 557 Goethe, Johann Wolfgang von, 622, 626, 632, 641, 642, 649, 675 Gomar, Franz, 304 Grassi, Orazio, 92 Green, Joseph, 472 Grossatesta, Roberto, 24 Grozio, Ugo (Huig van Groot), 40-41, 43, 280, 288, 315, 321, 353, 371, 372 Guerra, Augusto, 587 Guglielmo III d’Orange, 305
H
Hall, Alfred Rupert, 63 Hannah Debora (madre di Spinoza), 191 Hardenberg, Friedrich Leopold von (Novalis), 620-622, 626, 628, 629, 635, 641
811
Harmenszoon, Jacob (Arminio), 304 Harrod, Roy Forbes, 608 Hartmann, Nicolai, 583 Haynes, John-Dylan, 230, 231 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 138, 267, 607, 613-615, 617, 621, 624, 628, 630, 635, 641, 644, 646, 651, 664, 675, 676, 687, 690, 691, 702-787, 789, 791, 792, 800-802, 808, 809 Hegelmaier, Auguste, 705 Helvétius, Claude-Adrien, 426, 427 Herder, Johann Gottfried, 470 Hermann, Immanuel, 641, 643 Hersch, Reuben, 163 Hobbes, Francis, 271 Hobbes, Thomas, 132, 150, 214, 219, 269-298, 300, 314-317, 321, 323, 355, 372, 373, 390, 393, 430, 459, 463, 591, 762, 790, 802-804 Hölderlin, Friedrich, 621, 622, 627, 629, 633, 635, 675, 705 Hosemann, Andreas, 71 Houdetot, Sophie d’, 438 Hume, David, 132, 134, 267, 307, 341-358, 366, 376, 441, 484487, 493, 500, 541, 605, 607, 798 Huygens, Christiaan, 97
I
Ignazio di Loyola, 35 Innocenzo X (papa), 177 Israel, Jonathan, 609
J Jachmann, Reinhold Bernhard, 470, 472, 474 Jacobi, Friedrich Heinrich, 639, 640, 705 Jacqueline (sorella di Pascal), 177 Jansen, Cornelis, 177
K
Kamen, Henry, 132 Kant, Immanuel, 153, 308, 366, 378, 379, 381, 383, 456, 459, 468-598, 604, 606, 611, 615, 618, 622, 624, 632, 637, 640, 644-648, 653, 655, 659, 662665, 668, 673, 677, 685, 686, 696, 697, 705, 706, 708, 713, 722, 725, 726, 751, 762, 764, 765, 768, 772, 773, 779, 780, 789, 790-792, 798, 799, 802804, 806, 807
812
Keplero, Giovanni (Johannes Kepler), 24, 69, 72-73, 75, 77, 91, 123 Klopstock, Friedrich Gottlieb,
Lupi, Sergio, 625 Lutero, Martin (Martin Luther), 3, 10, 33-34, 35, 36, 178, 659 Lyotard, Jean-François, 615
Knox, Ronald, 337 Knutzen, Martin, 471 Kojève, Alexandre, 794 Koyré, Alexandre, 97 Krebel, Gotthold Leberecht, 638 Kristeller, Paul Oskar, 11 Kuhn, Thomas Samuel, 128
M
639
L
La Mettrie, Julien Offroy de, 425 Lady Masham (Damaris Cudworth), 306 Lambercier, Gabrielle, 435 Lambercier, Jean-Jacques, 435 Laplace, Pierre-Simon de, 471 Lavater, Johann Kaspar, 639, 735 Le Breton, André, 420 Leclerc, Jean, 301 Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 131, 132, 134, 191, 234-262, 348, 353, 376, 401, 402, 415, 417, 471, 518, 525, 582, 594, 659
León, Mosè de, 191 Leonardo da Vinci, 66, 99 Leopardi, Giacomo, 616 Lessing, Gotthold Ephraim, 712 Levasseur, Thérèse, 436, 438, 440, 441
Libet, Benjamin, 229, 230 Limborch, Philipp van, 304, 305, 330
Locke, John, 131-134, 161, 235, 245, 280, 299-332, 334, 335, 339, 376, 381, 400, 401, 404, 405, 407, 408, 415, 418, 421, 423-426, 444, 452, 459, 464, 481, 530, 591, 595, 596, 658, 662, 762, 802-804 Lorini, Niccolò, 108 Lovejoy, Arthur, 73 Löwith, Karl, 204 Loys, Sébastien Isaac de, 435 Lucrezio Caro, Tito, 74 Ludwig, Georg, 707, 709 Luigi XIII (re di Francia), 53 Luigi XIV (re di Francia), 234, 286, 406
Luigi XV (re di Francia), 420 Luigi XVI (re di Francia), 475 Lullo, Raimondo (Ramón Llull), 48
Mably, Gabriel Bonnot de, 436 Machiavelli, Niccolò, 3, 11, 38-40, 42, 43, 279, 370-372, 390 Madame d’Épinay (Louise Tardieu d’Esclavelles), 438, 439 Madame de Pompadour (JeanneAntoinette Poisson), 420 Madame de Warens (LouiseÉléonore Delatour Depil), 435437
Madame du Châtelet (Gabrielle Émilie), 415 Maimon (pseudonimo di Salomon ben Joshua), 644, 647 Maimonide, Mosè, 644 Malebranche, Nicolas de, 333, 518 Malesherbes, Chrétien-Guillaume de Lamoignon de, 442 Mancuso, Vito, 231 Manzoni, Alessandro, 767 Maometto II, 8 Maria II Stuart, 305 Maria Teresa d’Austria, 399 Marinetti, Filippo Tommaso, 788 Marx, Karl, 7, 760 Masham, Francis, 306 Mazzarino, Giulio, 406 Mendelssohn, Moses, 478 Mersenne, Marin, 142, 272, 273 Meslier, Jean, 403 Michaelis, Caroline, 620 Merisi, Michelangelo (detto il Caravaggio), 132, 809 Mill, John Stuart, 607 Miltitz, Ernst Haubold von, 638 Mirabaud (pseudonimo di Paul Henri Dietrich, barone d’Holbach), 426 Mittner, Ladislao, 625 Mocenigo, Giovanni, 48 Montaigne, Michel Eyquem de, 17-18, 19, 164 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di, 377, 383, 409, 413-414, 421, 427, 429, 431, 450, 452, 453, 475, 596 Montmorency, François-Henri de, 439
Moro, Aldo, 805
Moro Tommaso (Thomas More), 41-42, 43, 79 Morteira, Saul Levi, 191 Mura, Virgilio, 271
N
Napoleone Bonaparte, 611, 613, 614, 631, 643, 767, 796 Newton, Isaac, 68, 77, 96, 98, 111, 158, 234, 236, 237, 249, 302, 306, 307, 400, 401, 408, 410, 415, 421, 443, 471, 530, 531, 594
Nicole, Pierre, 161 Niethammer, Friedrich Immanuel, 707, 708 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 173, 583 Nifo, Agostino, 25 Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg), 620622, 626, 628, 629, 635, 641
O
Ockham, Guglielmo di, 24, 33, 34, 66, 99, 307, 321, 339 Omero, 392 Orazio (Quinto Orazio Flacco), 379, 398 Osiander, Andrea, 71, 77 Ovidio (Publio Ovidio Nasone), 142
P
Pacioli, Luca, 130 Paolo di Tarso, 10, 33 Paolo III (papa), 92 Paolo V (papa), 108 Parmenide di Elea, 748 Pascal, Blaise, 18, 131, 177-188, 416, 733 Pestalozzi, Johann Heinrich, 639, 659
Petrarca, Francesco, 16 Pico della Mirandola, Giovanni, 4, 12, 29 Piero della Francesca, 130 Pitagora di Samo, 83 Platone, 2, 9, 23, 24, 27, 29, 50, 56, 79, 83, 120, 126, 164, 328, 388, 389, 452, 542, 543, 595, 726, 773 Plotino, 25, 27, 52 Poisson, Jeanne-Antoinette, marchesa di Pompadour (Madame de Pompadour), 420 Pomponazzi, Pietro, 25-26, 27
Pomponio Leto, Giulio, 9 Pontano, Giovanni, 9 Popper, Karl Raimund, 489 Poupard, Paul, 111 Prado, Daniel de, 192 Prado, Juan de, 192 Puppo, Mario, 629
Q
Quesnay, François, 409
R
Rahn, Hartmann, 639 Rahn, Johanna Maria, 639, 641, 643 Reale, Giovanni, 532 Reinhold, Karl Leonhard, 641, 644, 647, 706 Rembrandt Harmenszoon van Rijn, 132 Reuter, Anna Regina, 470 Revius, Jacobus (Jacob van Reefsen), 159 Ricci, Ostilio, 91 Richelieu (Armand-Jean du Plessis, cardinale) 406 Rizzolatti, Giacomo, 294 Robespierre, MaximilienFrançois-Isidore de, 586, 736 Rocca, Domenico, 385 Rohan-Chabot, Guy-Auguste de, 415
Ronchi, Vasco, 98 Rorty, Richard, 368 Rosenkreuz, Christian, 234 Rossi, Ernesto, 589 Rousseau, Isaac, 434 Rousseau, Jean-Jacques, 280, 281, 341, 383, 408, 433-464, 541, 586, 591, 593, 595, 596, 612, 632, 659, 672, 736, 762, 802-804 Russell, Bertrand, 190, 337, 362, 363
S
Sabine, George Holland, 762 Sacchetto, Mauro, 496 Salutati, Coluccio, 16 Scheiner, Cristoph, 99 Scheler, Max, 583 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 200, 203, 615-618, 620, 621, 623, 641-645, 660, 675699, 705-707, 715, 723, 724, 752, 753, 771-773, 780, 800, 801, 807-809
Schiller, Johann Christoph Friedrich, 621, 686 Schlegel, August Wilhelm von, 620, 675, 706 Schlegel, Friedrich von, 620-623, 626, 628, 635, 641, 706 Schlegel, Michaelis Caroline, 675 Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst, 620, 621, 628, 641 Schopenhauer, Arthur, 645 Schultz, Franz Albert, 471 Schulze, Gottlob Ernst, 641, 644, 647
Secondat, Charles-Louis de vedi Montesquieu Seneca, Lucio Anneo, 582 Shaftesbury, primo conte di (Anthony Ashley Cooper), 301, 302, 304 Shelley, Percy Bysshe, 626, 629 Simplicio, 22 Socini, Fausto, 305 Socini, Lelio, 305 Sofia Dorotea di Hannover, 471 Sorgi, Giuseppe, 361 Spener, Philipp Jakob, 470 Spinelli, Altiero, 589 Spinoza, Baruch, 15, 132, 134, 177, 189-227, 228-230, 236, 238, 249, 288, 375, 401, 402, 422, 518, 632, 640, 645, 647, 662, 689, 690, 692, 695, 720, 725, 737, 772, 800, 801 Spinoza, Michael, 191 St. Clair, James, 341 Stein, Karl von, 709 Stillingfleet, Edward, 306, 329 Swedenborg, Emanuel, 472, 477 Swift, Jonathan, 416
T Tardieu d’Esclavelles, Louise (Madame d’Épinay), 438, 439 Tartaglia, Niccolò, 91 Telesio, Bernardino, 9, 11, 15, 46-47, 49, 53-55, 57 Terenzio Afro, Publio, 192 Theotokópoulos, Domínikos (El Greco), 132 Thomas, David, 271, 301 Tieck, Johann Ludwig, 621, 675, 706
Tobler, Georg Christoph, 632 Togliatti, Palmiro, 320 Tolomeo, Claudio, 72, 73, 76, 77 Tolomeo, Leonico, 25
813
Tommaso d’Aquino, 21, 22, 31, 68, 133, 178, 246, 520 Torricelli, Evangelista, 97 Tucher, Immanuel von, 708 Tucher, Karl von, 708 Tucher, Maria von, 708 Tucidide, 272 Turgot, Robert-Jacques, 421, 442
U
Urbano VIII, 53, 92, 109 Uriel da Costa, 192
V
Valentini, Francesco, 748 Valla, Lorenzo, 16 Van den Enden, Franciscus, 192
van Dyck, Floris, 232 van Limborch, Philip, 304, 330 Vattimo, Gianni, 737 Velázquez, Diego, 132 Vermeer, Jan, 132 Vernia, Nicoletto, 25 Verra, Valerio, 557, 755 Vico, Giambattista, 383, 385-397, 595, 806, 807 Voigt, Georg, 11, 19 Volta, Alessandro, 634 Voltaire (pseudonimo di FrançoisMarie Arouet), 123, 307, 383, 403, 404, 408, 415-420, 421, 423, 426, 431, 438, 440, 620 von Boyneburg, Johann Christian,
W Wackenroder, Wilhelm Heinrich, 621, 623, 629 Weber, Max, 607 Williams, Bernard, 603, 604 Witt, Johan de, 194 Wojtyła, Karol (papa Giovanni Paolo II), 110, 111 Wundt, Wilhelm, 390, 394
Z
Zagrebelsky, Gustavo, 761 Zurbarán, Francisco de, 132 Zwingli, Huldrych, 34, 36
234
Vries, Simon de, 194
Indice delle voci di GLOSSARIO A
abitudine 352 affetti 219 amore di sé 458 amore intellettuale di Dio 219 analitica trascendentale 512 anima del mondo 692 antinomia etica, o antinomia 548 della ragion pratica appercezione 250 appetizione 250 armonia prestabilita 250 arte classica 776 arte romantica 776 arte simbolica 776 assolutismo 290 Assoluto 692, 725 astuzia della ragione 776 attrazione 692
814
attributi Aufhebung autocoscienza autonomia azioni e passioni
B bellezza aderente bellezza libera bello bene bene supremo
C categorie cogito concetti concetti, o categorie conoscenza dimostrativa
218 726 663 548 219
569 570 569 289 548
512 165 512 774 323
conoscenza intuitiva conoscenza probabile contratto, o patto contratto originario contratto sociale contrattualismo conversione corsi e ricorsi coscienza infelice costituzione credenza critica criticismo cuore
322 323 290 596 459 43 596 394 739 775 352 482 482 187
D deduzione assoluta, o metafisica 663 dialettica 664, 726
dialettica trascendentale 512 Dio 339 Dio che diviene 693 diritto 596 diritto astratto, o diritto formale 775 diritto di tutti su tutto 290 diritto naturale 43, 323 diritto positivo 43 divertissement 187 dogmatismo 664 dovere 547 dualismo ontologico 166 dubbio iperbolico 165 dubbio metodico 165
E educazione negativa eroico furore esperienza esperimento esprit de finesse esprit de géométrie esse est percipi estetica trascendentale eterogenesi dei fini etica dell’intenzione eticità
459 57 113 113 187 187 339 512 394 547 775
F
fenomeno 511 fenomenologia 739 figure 739 filologia 19 filosofia del limite 482 filosofia dell’identità 693 filosofia della natura 774 filosofia dello spirito 775 filosofia dello spirito, o filosofia trascendentale 692 forma 87, 511 formalismo etico 547 forza viva 249
G genio geometrismo morale geometrismo politico
570 219 289
giudizi analitici a priori 511 giudizi determinanti 569 giudizi estetici, o giudizi di gusto 569 giudizi riflettenti 569 giudizi sintetici a posteriori 511 giudizi sintetici a priori 511 giudizi teleologici 569 Giudizio 569 governo 459 grande rivoluzione 458 guerra di tutti contro tutti 290 «guise» della mente 393
I
Idea 725 Idea che ritorna in sé 726 Idea fuori di sé 726 Idea in sé e per sé, o Idea pura 726 idealismo 664, 725 idealismo estetico, o oggettivo 693 idealismo etico 664 idee 165, 352 idee astratte, o generali 352 idee complesse 322, 352 idee di modo, o modi 322 idee di relazione, o relazioni 322 idee di sensazione e idee di riflessione 322 idee di sostanza, o sostanze 322 idee generali 322 idee semplici 322 idee trascendentali 513 idoli 87 il migliore di tutti i mondi possibili 251 immaginazione 352 immaginazione produttiva 513, 664 imperativi 546 imperativi ipotetici 546 imperativo categorico 546 impressioni 352 in sé 726 intelletto 512, 726
intuizione 512 intuizione intellettuale 663, 692 intuizioni empiriche 512 intuizioni pure 512 Io 663 io finito 664 io legislatore della natura 513 io penso 513 istanza cruciale 87 istanze prerogative 87
L
legalità e moralità 547 legge 546 legge della continuità della natura 249 legge naturale 290, 323 liberalismo 323 libertà 289 logica 774 logica del concetto, o della comprensione 774 logica dell’essenza, o della riflessione 774 logica dell’essere 774
M male male radicale massime materia materia e forma materia prima materia seconda materie di fatto meccanicismo metodo modi monade morali eteronome moralità
N natura naturante natura naturata necessarie dimostrazioni, nominalismo non-io noumeno, o cosa in sé
289 596 546 511 547 250 250 353 166 165 218 250 548 775
218 218 112 339 664 511
815
O
produzione inconscia proprietà oggettive e soggettive
ordinamento cosmopolitico 597
organicismo politico
775
P
panlogismo 725 panpsichismo 57 panteismo 57, 218 paradosso della ragion 548 pratica parallelismo psico-fisico 218 patto iniquo 458 per sé 726 percezione 250 percezioni 352 piccole percezioni 250 postulati della ragion pura pratica 548 potenze 692 preistoria dello spirito 692 prima rivoluzione 458 primato della ragione pratica 665 princìpi dell’intelletto puro 513 principio di associazione 352 principio di identità degli indiscernibili 250 principio di ragion sufficiente 249
693 113
R
ragione 512, 725, 726 rappresentazione 776 regno dei fini 547 relazioni tra idee 353 repulsione 692 res cogitans 166 res extensa 166 rigorismo 547 Rinascimento 19 rispetto per la legge 547 rivoluzione copernicana 511
S saggezza schema trascendentale scienza nuova sensata esperienza sensibilità sentimento sforzo simpatia sommo bene sostanza sostanza individuale sovranità sovrano
spirito spirito assoluto spirito oggettivo spirito soggettivo stato di natura Stato etico storia del mondo storia ideale eterna sublime
739 775 775 775 290, 458
T Tathandlung tavole teodicea trascendentali
U 166 513 393 112 512 569 665 353 548 218 249 459 290
Umanesimo universali fantastici uomo naturale Utopia
V verità di fatto verità di ragione verum ipsum factum virtù volontà volontà buona volontà generale
775 775 393 570
663 87 251 512
19 394 458 43
249 249 393 219 546 547 459
Indice delle voci di ENCICLOSOFIA A abate Mably Alessandro di Afrodisia algebra arte lulliana della memoria Atlantide
816
436 22 156 48 79
B borghesia
C caduta di Costantinopoli censori Commonwealth
7
Cosimo de’ Medici Cristina di Svezia
E 8 39 273
Edward Stillingfleet Elisabetta del Palatinato Enrico VIII
21 143
306 143 41
epìfisi Erone Federico II
G gesuiti Gloriosa rivoluzione gran pensionario d’Olanda grand tour Guerra dei trent’anni
H Huldrych Zwingli
I I viaggi di Gulliver Invincibile Armata isocronismo delle oscillazioni pendolari
155 67 471
35 305 194 272 140
34
416 270 91
J
Johann Heinrich Pestalozzi 659
K Kabbalah
191
L
138 306
La Flèche lady Masham
M
principe elettore princìpi della dinamica
Q quaccheri
madame d’Épinay madame de Pompadour madame de Warens madame du Châtelet Malesherbes mecenate morfologia comparata
439 420 435 415 442 9 681
R Restaurazione rimostranti Robert Filmer Rosacroce Royal Society
S
N
712 91 717
Nathan il saggio Niccolò Tartaglia nòttola di Minerva
P padre Mersenne pietismo pila di Volta pompa ad aria Port-Royal prima rivoluzione inglese
142 470 634 97 161 270
Sant’Uffizio Sturm und Drang
T Talmud teosofia tribuni della plebe
V Victor Cousin
234 96
415
631 304 314 234 302
92 622
191 675 39
690
Indice delle SCHEDE e delle RUBRICHE LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
L’attualità della lezione di Erasmo sulla pace, 32 Dal giuspositivismo di Hobbes allo statuto dei diritti umani, 287 Locke e il principio della laicità dello Stato, 320 L’éthos democratico da Rousseau alla Costituzione italiana, 452 L’attualità del progetto cosmopolitico di Kant, 589 Dall’«eticità» di Hegel al valore delle istituzioni nelle odierne democrazie, 761
EDUCAZIONE CIVICA L’autonomia della scienza, 95 Il principio della separazione dei poteri, 414 I diritti individuali tutelati dallo Stato, 658
PER SAPERNE DI PIÙ Il rapporto del Rinascimento con il Medioevo, 8 Le tesi cosmologiche di Bruno e la scienza contemporanea, 76 Il valore del cannocchiale per la storia della scienza, 98 Leibniz e il calcolo infinitesimale, 236
817
L’EREDITÀ DI… Cartesio, 164 Spinoza, 217 Hobbes, 288 Locke, 321 Kant, 594 Fichte, 662 Hegel, 772
L’officina dell’ESAME verso la prima prova - tipologia b
La scienza e le sue “rivoluzioni”, 128
verso il colloquio
La matematica come linguaggio nel quale è scritto l’universo, 129 verso la prima prova - tipologia c
La concezione della mente umana, 368
verso il colloquio
FILOSOFIA E LETTERATURA SNODI PLURIDISCIPLINARI
La sfida del male da Voltaire a oggi, 417 Napoleone per Hegel e per Manzoni, 767
Apparenza e realtà, 368
verso la prima prova - tipologia b
L’Illuminismo e il progresso, 609
verso la prima prova - tipologia c
L’autonomia di giudizio e di azione, 610
FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
Dal libro della natura al dna: Galilei e la scienza come decodifica, 120 Newton e la nascita della fisica classica, 122 Dal reale al virtuale: Cartesio e la matematizzazione del mondo, 162 Da Spinoza alle neuroscienze: l’illusione della libertà, 228 Spazio e tempo fra scienza e filosofia, 528
FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
Spinoza e la pittura fiamminga del Seicento, 232 L’infinito e il sublime tra arte e filosofia, 578
QUESTIONI La ragione può vincere le passioni?, 262 La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, 362 EDUCAZIONE CIVICA Il bene consiste nell’utile o nel dovere?, 603 EDUCAZIONE CIVICA La guerra: follia da evitare o tragica necessità?, 788
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del potere?, 370, 802 Che cos’è la sostanza?, 374, 798 Che cos’è il bello?, 806
818
verso il colloquio
Libertà del singolo e appartenenza allo Stato, 611 verso la prima prova - tipologia b
La fine della storia e il destino dell’essere umano, 794 verso la prima prova - tipologia c L’abisso della libertà, 795 verso il colloquio
Il singolo e la storia, 796
Didattica INNOVATIVA
Classe capovolta, 6, 62, 136, 268, 384, 469, 618, 703 Compito di realtà, 61, 233, 373, 579, 787, 801 Dibattito critico, 32, 261, 267, 367, 452, 602, 608,
761, 793
Indice delle ILLUSTRAZIONI p. 1: Artista anonimo dell’Italia centrale, La città ideale, fine XV secolo, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. p. 7: Benozzo Gozzoli, Il corteo dei Magi, 1459, affresco, particolare, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Cappella dei Magi. p. 21: da sinistra: gli umanisti Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Angelo Poliziano ritratti da Cosimo Rosselli nell’affresco Il miracolo del sacramento, XV secolo, Firenze, Chiesa di Sant’Ambrogio. p. 29: Anonimo, La candela è accesa (I riformatori protestanti), XVII secolo, Utrecht (Olanda), Museum Catharijneconvent. p. 38: Cesare Borgia, detto il Valentino, e Niccolò Machiavelli in conversazione con il cardinale Pedro Luis Borgia e il segretario don Micheletto Corella, XVI secolo, particolare, Collezione privata. p. 45: Garofalo (Benvenuto Tisi), Scena di vita di corte, 1503-1506, affresco dal soffitto della Sala del Tesoro, particolare, Ferrara, Palazzo Costabili. p. 63: Raffigurazione del sistema eliocentrico copernicano tratto dall’Harmonia Macrocosmica di Andreas Cellarius, 1660. p. 79: Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori, 1533, particolare, Londra, National Gallery. p. 89: Francesco Boschi, Ritratto di Galileo Galilei, 1640-1642, Versailles, Museo del Castello. p. 89: Giuseppe Bertini, Galileo mostra il cannocchiale al doge di Venezia Leonardo Donati, 1858, affresco, particolare, Biumo di Varese, Villa Ponti. p. 121: Elaborazione grafica sul tema del dna. p. 131: Particolare dell’interno della cupola della chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza (Roma), progettata da Francesco Borromini tra il 1642 e il 1660. p. 137: Frans Hals, Ritratto di René Descartes, 1649 circa, Parigi, Museo del Louvre. p. 137: Louis-Michel Dumesnil il Giovane, La regina Cristina di Svezia in conversazione con Cartesio, XVIII secolo, particolare, Versailles, Museo del Castello. p. 177: L’abbazia di Port-Royal in una stampa del XVII secolo. p. 189: Anonimo, Ritratto di Baruch de Spinoza, 1665 circa, Wolfenbüttel (Germania), Herzog August Bibliothek. p. 189: Gerrit Adriaensz Berckheyde, Piazza Dam ad Amsterdam, 1668, particolare, Anversa, Museo Reale di Belle Arti. p. 228: Tessere del domino. p. 230: Composizione fotografica sul tema del pensiero e della scelta. p. 234: Il castello e i giardini di Herrenhausen, sede della corte di Hannover presso la quale il filosofo Leibniz soggiornò e visse a lungo. p. 269: John Michael Wright, Ritratto di Thomas Hobbes, XVII secolo, Londra, National Portrait Gallery. p. 269: Scuola olandese, Londra da Southwark, 1630 circa, Londra, Museum of London. p. 287: Illustrazione sul tema dei diritti umani.
p. 299: Michael Dahl, Ritratto di John Locke, 1696 circa, Londra, National Portrait Gallery. p. 299: Dirck Stoop, Il corteo di Carlo II dalla Torre di Londra fino a Westminster, 23 aprile 1661, XVIII secolo, particolare, Londra, Museum of London. p. 320: Ciondolo con simboli delle principali religioni: da sinistra, la mezzaluna islamica, la stella di David ebraica, il Dharmachakra buddista, l’Om induista e la croce cristiana. p. 333: John Smibert, Il gruppo delle Bermuda (George Berkeley e il suo entourage), 1728-1739, particolare, New Haven (CT), Yale University Art Gallery. p. 341: Una veduta del centro di Edimburgo a fine Settecento, XIX secolo, Edimburgo, City of Edinburgh Museums and Art Galleries. p. 370: John Singleton Copley, Carlo I chiede l’arresto di cinque membri del Parlamento nel gennaio 1642, XVIII secolo, Boston, Boston Public Library. p. 374: Philips Koninck, Paesaggio panoramico, 1665, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum. p. 377: Particolare di una carta da parati francese, XVIII secolo. p. 385: Gaspare van Wittel (Vanvitelli), Veduta del porto di Napoli, XVIII secolo, particolare, Collezione privata. p. 398: Pietro e Alessandro Longhi, La colazione in villa, XVIII secolo, particolare, Venezia, Casa di Carlo Goldoni. p. 412: Adolph Friedrich von Menzel, La tavola rotonda di Federico II a Sanssouci, 1849-1850 (copia dell’originale, scomparso nel 1945), particolare, Berlino, Alte Nationalgalerie. p. 433: Maurice Quentin de la Tour, Ritratto di JeanJacques Rousseau, 1753, Ginevra, Museo di Arte e Storia. p. 433: Place de la Fusterie e il tempio calvinista omonimo, a Ginevra, in un acquerello di Christian Gottlob Geissler, XVIII secolo. p. 468: Ritratto di Immanuel Kant, 1760 circa. p. 468: La casa di Kant a Königsberg in un’incisione colorata del XIX secolo. p. 479: Veduta di Königsberg in un’incisione del XVIII secolo. p. 484: Ernst Rietschel, Storia culturale dell’umanità: la scienza e l’arte moderna, 1836-1839, rilievo in gesso, particolare. La formella (al centro della quale è ritratto Kant) fa parte di un ciclo di dodici opere realizzate per la sala dell’Augusteum dell’Università di Lipsia. p. 532: Emil Doerstling, Kant e i suoi compagni a tavola, 1900, particolare. p. 557: Adolph Friedrich von Menzel, Concerto per flauto di Federico il Grande a Sanssouci, 1850-1852, particolare, Berlino, Alte Nationalgalerie. p. 580: Veduta della cattedrale e dell’antica Università di Königsberg in un’incisione del XVIII secolo. p. 613: Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio (o Il naufragio della speranza), 1823-1824, particolare, Amburgo, Kunsthalle. p. 619: Joseph Mallord William Turner, Sheerness vista dal Nore, 1808, particolare, Houston (Texas), Museum of Fine Arts.
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p. 637: Ritratto di Johann Gottlieb Fichte, XIX secolo, incisione. p. 637: Veduta della città di Jena, XVIII secolo, incisione. p. 675: Domenico Quaglio il Giovane, Monaco: Residenzstrasse verso Max-Joseph-Platz nel 1826, 1826, particolare, Monaco, Neue Pinakothek. p. 702: Jakob Schlesinger, Ritratto di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, 1831, Berlino, Alte Nationalgalerie. p. 702: Édouard Detaille, La sera della battaglia di Jena, 1894, particolare Parigi, Musée de l’Armée. p. 712: La facciata neoclassica dell’Altes Museum (Berlino) in un’incisione colorata della metà del XIX secolo.
p. 728: Veduta di Berlino negli anni Trenta del XIX secolo: a destra il palazzo reale, residenza dei sovrani di Prussia. p. 745: L’edificio dell’Università di Heidelberg, dove Hegel insegnò tra il 1816 e il 1818, in una litografia del tardo XIX secolo. p. 798: William Turner, Tempesta di neve, 1842, Londra, Tate Gallery. p. 802: Auguste Couder, L’apertura degli Stati generali a Versailles il 5 maggio 1789, 1839, Versailles, Museo del Castello. p. 806: Johann Zoffany, La Tribuna degli Uffizi, 1772-1778, Londra, Royal Collection Trust.
Referenze iconografiche p. 1: Wikimedia Commons; p. 1 basso: SSPL / Getty Images; p. 2: Wikimedia Commons; p. 7: Adam Eastland / Alamy Stock Photo; p. 21 alto: De Agostini Picture Library / G. Nimatallah / Bridgeman Images; p. 21 basso: World History Archive / Alamy Stock Photo; p. 29: Wikimedia Commons; p. 38: Mondadori Portfolio; p. 45: Wikimedia Commons / Google Art Project; p. 48: Wikimedia Commons; p. 63: Wikimedia Commons; p. 79: The Picture Art Collection / Alamy Stock Photo; p. 89: The Picture Art Collection / Alamy Stock Photo; p. 89 centro: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 92: Wikimedia Commons; p. 96: Wikimedia Commons; p. 99: The Granger Collection / Alamy Stock Photo; p. 121: Lonely / Shutterstock; p. 131: Ivan Vdovin / Alamy Stock Photo; p. 131 basso: Wikimedia Commons; p. 137: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 137 centro: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 138: frédéric araujo / Alamy Stock Photo; p. 140: Niday Picture Library / Alamy Stock Photo; p. 143: Wikimedia Commons; p. 177: Prisma Archivo / Alamy Stock Photo; p. 189: Wikimedia Commons; p. 189 centro: GL Archive / Alamy Stock Photo; p. 194: Wikimedia Commons; p. 228: patpitchaya / Shutterstock; p. 229: lightwise / 123rf; p. 230: Sergey Nivens / 123rf. com; p. 232: akg-images / Mondadori Portfolio; p. 233: Wikimedia Commons / Google Art Project; p. 234: Art Collection 3 / Alamy Stock Photo; p. 237: GL Archive / Alamy Stock Photo; p. 269: Ian Dagnall / Alamy Stock Photo; p. 269 centro: Art Collection 2 / Alamy Stock Photo; p. 270: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 287: Cienpies Design / Alamy Stock Vector; p. 299: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 299 centro: Ian Dagnall / Alamy Stock Photo; p. 305: Wikimedia Commons; p. 320: Godong / Alamy Stock Photo; p. 333: Wikimedia Commons / Yale University Art Gallery; p. 341: Wikimedia Commons; p. 370 sinistra: PRISMA ARCHIVO / Alamy Stock Photo; p. 370 destra: Bridgeman Images; p. 374: Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program; p. 377: AKG-Images / Mondadori Portfolio; p. 377 basso: PRISMA ARCHIVO / Alamy Stock Photo; p. 378: Wikimedia Commons; p. 380: Science History Images / Alamy Stock Photo; p. 385: The Picture Art Collection / Alamy Stock Photo; p. 398: Leemage / Mondadori Portfolio; p. 412: Mondadori Portfolio / Album / Oronoz; p. 420: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 433: DeAgostini / Getty Images; p. 433 centro: Science History Images / Alamy Stock Photo; p. 442: Wikimedia Commons; p. 452: Andreas Solaro / AFP / Getty Images; p. 468: Wikimedia Commons; p. 468 centro: GL Archive / Alamy Stock Photo; p. 470: Wikimedia Commons; p. 471: Wikimedia Commons; p. 479: INTERFOTO / Alamy Stock Photo; p. 484: akg-images / Mondadori Portfolio; p. 529: Flashinmirror / Shutterstock; p. 530: solarseven / 123rf; p. 531: agsandrew / Shutterstock; p. 532: Science History Images / Alamy Stock Photo; p. 557: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 578: Wikimedia Commons / Google art Project; p. 579: The Picture Art Collection / Alamy Stock Photo; p. 580: Granger Historical Picture Archive / Alamy Stock Photo; p. 589: Peter Cavanagh / Alamy Stock Photo; p. 613: Wikimedia Commons; p. 613 basso: Erich Lessing / Album / Mondadori Portfolio; p. 619: Wikimedia Commons / Google Art Project; p. 631: PRISMA ARCHIVO / Alamy Stock Photo; p. 634: Science History Images / Alamy Stock Photo; p. 637: Alamy Stock Photo; p. 637 centro: age fotostock / Alamy Stock Photo; p. 675: Wikimedia Commons; p. 690: Wikimedia Commons; p. 702: Wikimedia Commons; p. 702 centro: Peter Horree / Alamy Stock Photo; p. 712: INTERFOTO / Alamy Stock Photo; p. 728: Wikimedia Commons; p. 745: Wikimedia Commons; p. 788: Wikimedia Commons; p. 798: The Artchives / Alamy Stock Photo; p. 802: Heritage Image Partnership Ltd / Alamy Stock Photo; p. 806: Google Art Project / Wikimedia Commons; p. 809: Wikimedia Commons
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