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Italian Pages [514]
Nicola Abbagnano Giovanni Fornero con la collaborazione di GIANCARLO BURGHI
lafilosofia el’esistenza
dalle origini ad Aristotele
INSIEME VERSO IL
SOSTENIBILITÀ COMPETENZE INCLUSIONE
Nicola Abbagnano Giovanni Fornero con la collaborazione di GIANCARLO BURGHI
lafilosofia el’esistenza dalle origini ad Aristotele
CONFIGURAZIONE COMPLETA DEL CORSO LA FILOSOFIA E L’ESISTENZA 978 88 395 37522
Volume 1A + 1B Dalle origini alla scolastica + L’officina della cittadinanza + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37539
Volume 2A + 2B Dall’Umanesimo a Hegel + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37546
Volume 3A + 3B Da Schopenhauer alle nuove frontiere del pensiero + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37553
Volume 1A + 1B Dalle origini alla scolastica + L’officina della cittadinanza + CLIL Philosophy in English 1 + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37560
Volume 2A + 2B Dall’Umanesimo a Hegel + CLIL Philosophy in English 2 + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37577
Volume 3A + 3B Da Schopenhauer alle nuove frontiere del pensiero + CLIL Philosophy in English 3 + Libro liquido + KmZero
978 88 395 37584
Volume 1 Dalle origini alla scolastica + ITE
978 88 395 37591
Volume 2 Dall’Umanesimo a Hegel + ITE
978 88 395 37607
Volume 3 Da Schopenhauer alle nuove frontiere del pensiero + ITE
LA FILOSOFIA E L’ESISTENZA - EDIZIONE CON CLIL
LE BASI DELLA FILOSOFIA
RISORSE PER IL DOCENTE
• Proposte di programmazione con spunti di connessioni pluridisciplinari e con l’educazione civica • Test d’ingresso • Prove di verifica aggiuntive e relative verifiche equipollenti per la didattica inclusiva • Prove di valutazione delle competenze • Materiali aggiuntivi per la preparazione all’esame di Stato • Verifiche di educazione civica
Coordinamento editoriale: Chiara Sottile, Chiara Fenoglio Redazione e revisione del testo: Elisa Bruno Redazione e revisione delle zone antologiche e di L’officina dell’esame: Chiara Fenoglio Progetto grafico: Elena Marengo con contributo di Cinzia Marchetti per l’inserto “Leggere un classico” Copertina: Elena Marengo Coordinamento grafico: Cinzia Marchetti Rights & Permissions: Beatrice Valli Ricerca iconografica: Ilaria Lazzeri Impaginazione elettronica: Essegi, Torino Controllo qualità: Andrea Mensio Segreteria di redazione: Enza Menel, Silvia Quartieri, Elisabetta Taldone Sono in tutto o in buona parte di Giovanni Fornero i capp. 1, 2 e 3 dell’unità 1 e le unità 2, 3 e 4. Sono di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero i parr. 2 e 3 del cap. 2 e il cap. 4 dell’unità 1. Sono di Giovanni Fornero e Giancarlo Burghi i parr. 3 e 6 del cap. 3 dell’unità 3; i parr. 2 e 3 del cap. 2 e il par. 3 del cap. 3 dell’unità 4. La parte introduttiva “Invito alla filosofia” è di Giovanni Fornero. Sono di Giancarlo Burghi: - le pagine di apertura delle sezioni; - le pagine di “Il racconto di una vita”; - le rubriche “La filosofia che vive”; - la scheda Finalità e intelligenza nella fisica aristotelica (“Filosofia e scienza”); - le schede Il pianto e il riso di Eraclito e Democrito, La “scoperta” dell’aldilà tra arte e filosofia e Platone e Aristotele nell’interpretazione di Raffaello (“Filosofia e arte”); - la scheda L’amicizia da Aristotele a Cicerone (“Filosofia e letteratura”); - le Questioni. Sono di Gaetano Chiurazzi le schede I pitagorici e i numeri irrazionali (“Filosofia e scienza”) e Il tempio greco tra realtà e apparenza (“Filosofia e arte”). Elisa Bruno ha realizzato le attività di “Classe capovolta”, “Educazione civica”, “Per l’esposizione orale”, “Snodi pluridisciplinari”, “Compito di realtà” (in “Filosofia e arte” e nei “Nodi del pensiero”); le rubriche “L’eredità di…”; gli apparati “Sintesi e glossario” e “Mappe”; i percorsi “I nodi del pensiero” (sulla base di materiali preesistenti di Giancarlo Burghi). Chiara Fenoglio ha realizzato le attività di “Guida alla riflessione e alla produzione di un testo”, l’inserto “Leggere un classico” e le Verifiche di unità. Matteo Bergamaschi e Tommaso Lanosa sono autori di “L’officina dell’esame”; da loro è inoltre derivata l’idea della “Riflessione critica” nelle zone “Per l’esposizione orale”. Per gli elementi grafici ricorrenti nelle schede di “Filosofia e scienza” e nei percorsi “I nodi del pensiero”: isoga/Shutterstock, DeAgostini/Getty Images. In copertina: Marina Bertagnin, Bilancia, bronzo, fusione a cera persa. Tutti i diritti riservati © 2021, Pearson Italia, Milano - Torino
978 88 395 37522 A - 978 88 395 37553 A Il presente testo è di proprietà di Pearson Italia la quale non è associata, né direttamente né indirettamente, a eventuali marchi di terzi che venissero richiamati per gli scopi illustrativi ed educativi che ha la pubblicazione. Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org
Stampato per conto della casa editrice presso La Tipografica Varese, Varese, Italia Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8
Anno 21 22 23 24 25 26 27 28
Pearson supports the SDGs. https://www.un.org/sustainabledevelopment/
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Perché la filosofia
e l’esistenza ?
D
a molte ragioni deriva l’idea di intitolare così il nuovo Abbagnano-Fornero. Anzitutto, dalla concezione che già Nicola Abbagnano aveva della storia della filosofia, la cui finalità consisteva a suo avviso nel mostrare «l’essenziale umanità dei filosofi». Egli scriveva infatti che «la connessione tra la filosofia e l’uomo è la prima base dell’indagine storiografica» condotta in un corso di filosofia, la quale «muove dalla convinzione che nulla di ciò che è umano è estraneo alla filosofia». Questo all’insegna della persuasione, tipica dell’impostazione dottrinale del maestro torinese, secondo cui «Trattare oggi della natura della filosofia significa ritenere già fermamente stabilito un punto essenziale: la necessità per l’uomo, per ciò che egli è, per ciò che deve essere, del filosofare. Perché, se la filosofia fosse il giardino di Epicuro, dove si potesse vivere in disparte, al di fuori delle vicende e dei colpi duri, noi dovremmo ritenerla, oggi, indegna di noi. Ma essa non è il giardino di Epicuro. Non è l’aristocratica esercitazione di pochi spiriti oziosi, né la stratosferica regione dove si possa trovare rifugio e conforto per i mali e le delusioni della vita. C’è un senso – ed è un senso assai antico – in cui il filosofare si identifica con l’esistenza stessa dell’uomo e in cui (come Platone voleva) non si può essere uomo senza essere filosofo». L’idea di uno stretto legame tra la filosofia e l’esistenza – e tra le filosofie e i filosofi che le hanno messe a punto – rappresenta una costante dell’Abbagnano-Fornero, che in questo manuale abbiamo voluto ulteriormente evidenziare. Contrariamente a coloro per i quali il filosofo è nient’altro che la sua filosofia,
riteniamo infatti, come scrivevamo fin dalla prima edizione, che «prima delle filosofie vi siano i filosofi, ossia gli individui concreti che le hanno elaborate», e che filosofi e filosofie si muovano non in uno spazio astratto e atemporale, ma in un contesto storico, caratterizzato, oltre che dal rapporto con la società e la politica, da una fitta rete di connessioni con la scienza, la letteratura, l’arte e tutti gli altri settori della cultura. La fedeltà all’idea del radicamento umano e storico della filosofia ci ha spinto in questo nuovo corso a dare forte rilievo, tra le altre cose, alle vite dei grandi filosofi, che sono proposte in una versione completamente inedita, in cui si è privilegiata la modalità piacevole e coinvolgente della narrazione, e in cui sono stati messi in evidenza gli eventi e gli “incontri” (fisici e teorici, tra persone e tra pensieri) che hanno influito sui diversi autori e sulla loro riflessione. La convinzione che il filosofare non sia un’attività avulsa dal reale, ma qualcosa di strutturalmente connesso ai problemi delle varie epoche storiche, ci ha contestualmente portato a prendere in considerazione una serie di tematiche tipiche del mondo di oggi, in particolare quelle che hanno un forte impatto sulla vita personale e sociale degli uomini del nostro tempo, ad esempio la diffusione delle tecnologie digitali o la drammatica esperienza del Covid-19. Tematiche, come si documenta in questo nuovo progetto, che non possono sfuggire all’ambito investigativo e allo sguardo critico e chiarificatore della filosofia. Giovanni Fornero
la filosofia e l’esistenza
Un nuovo manuale per un mondo nuovo Perché questo nuovo manuale di filosofia? Perché in un mondo che cambia rapidamente e che pone di fronte a problemi prima mai affrontati, la disciplina filosofica costituisce l’indispensabile nutrimento del pensiero critico e della capacità di riflessione, utili per interpretare la complessità del reale. In questa prospettiva La filosofia e l’esistenza, nel solco di una tradizione manualistica consolidata che garantisce l’accuratezza dei contenuti, la chiarezza dell’esposizione e il pluralismo dei punti di vista, si arricchisce di significativi elementi di novità.
LA RELAZIONE TRA VITA E PENSIERO • Le aperture di sezione: pagine di contestualizzazione storico-politico-culturale (in cui emerge la
dimensione dell’esistenza collettiva) per introdurre ai caratteri della filosofia in relazione agli eventi che più hanno influito su di essa
• Il racconto di una vita: una narrazione coinvolgente e appassionata delle vicende biografiche (da cui emerge la dimensione dell’esistenza individuale) che più hanno influito sull’elaborazione delle teorie dei filosofi fondamentali (Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Nietzsche, Freud, Heidegger...).
LA DIMENSIONE CIVICA E CIVILE • La filosofia che vive: inserti in cui si affrontano temi di interesse attuale, mostrandone le radici
concettuali nella filosofia oggetto di studio (ad es. Da Socrate alle odierne democrazie; L’attualità della lezione di Erasmo sulla pace; Dal principio responsabilità di Jonas alle politiche mondiali sull’ambiente) e sottolineando i possibili collegamenti con gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile
• L’officina della cittadinanza: un manualetto (allegato al vol. 1) che consente di affrontare i nuclei tematici individuati dalle Linee guida per l’educazione civica (Costituzione, Sviluppo sostenibile, Cittadinanza digitale) in un progetto triennale di 20 lezioni costruite in stretto collegamento con il programma di storia della filosofia.
L’AGGIORNAMENTO DI CONTENUTI E TESTI • Revisione disciplinare e aggiornamento delle interpretazioni, attuati sistematicamente, ma che si concentrano in particolare sulla contemporaneità (ad es. gender studies, etiche ambientaliste e animaliste, filosofia della mente, filosofie digitali, la filosofia di fronte alla pandemia...)
• Revisione e rinnovamento delle zone antologiche di fine capitolo, con testi corredati di parti operative dal titolo Guida alla riflessione e alla produzione di un testo
• Leggere un classico: un classico del pensiero filosofico per ciascuna annualità, proposto in forma di
raccolta antologica, con introduzione all’opera, sintesi dei contenuti, commento analitico ai testi, attività operative finali (Officina del classico) di verifica delle conoscenze e sviluppo delle competenze testuali.
L’ESERCIZIO DEL PENSIERO CRITICO-ARGOMENTATIVO • Questioni: dibattiti intorno a domande rilevanti nella storia del pensiero (Esiste Dio?; La guerra: follia da
evitare o tragica necessità?; Nella vita sociale l’economia è determinante o soltanto rilevante?) in cui si mettono in dialogo due o tre filosofi con punti di vista talora contrapposti, e si propongono attività finali guidate di discussione critica (debate)
• I nodi del pensiero: percorsi tematici su argomenti centrali (e talora ricorrenti) nella filosofia delle
varie epoche (Qual è l’origine del mondo?; Qual è l’origine del potere?; La scienza può raggiungere la verità?), costruiti evidenziando le opinioni e le teorie di differenti filosofi su quel determinato tema/argomento, e provvisti di un laboratorio conclusivo di riflessione e argomentazione (Fare filosofia).
L’INNOVAZIONE DIDATTICA E DIGITALE • Attività didattiche innovative: classi capovolte in apertura di Unità; dibattiti critici (in La filosofia
che vive; nelle Questioni...); compiti di realtà (nelle Verifiche di fine Unità; nelle schede La filosofia e l’arte...); esercizi “plus” per favorire, dove utile, lo sviluppo dell’alto potenziale intellettivo dei ragazzi
• Materiali per l’esame di Stato:
Snodi pluridisciplinari: suggerimenti e attività di collegamento pluridisciplinare con letteratura, scienze, storia ecc. in preparazione al colloquio d’esame L’officina dell’esame: laboratori per allenare gradualmente all’esame – in particolare alla prima prova scritta, tipologia B e/o C, e al colloquio pluridisciplinare
• Nuovo sistema digitale integrativo (
p. seguente).
Il progetto prevede anche un’edizione con volumetti CLIL Philosophy in English per ogni annualità. La filosofia e l’esistenza può essere completato con Le basi della filosofia, tre volumi con lezioni semplificate in carattere ad alta leggibilità costituite da: sintesi espositive (I contenuti essenziali) corredate di audio; mappe concettuali; verifiche.
L’AGENDA 2030 Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che ha posto a tutti gli Stati aderenti 17 obiettivi, ognuno dei quali articolato in specifici traguardi. Forniamo di seguito il prospetto completo degli obiettivi.
Nelle pagine di questo libro si trovano le icone di alcuni di tali obiettivi, laddove i contenuti presentati siano connessi alle linee guida dell’obiettivo riportato o le richiamino espressamente: obiettivo 4 pp. 123, 225 obiettivo 8 p. 430 obiettivo 16 pp. 166, 244, 423
VIDEO
IL PROGETTO PEARSON PER LA DIDATTICA DIGITALE INTEGRATA Una proposta a 360° per supportare docenti e studenti in ogni aspetto della DDI. A partire dal libro di testo, un’ampia offerta di contenuti digitali per svolgere tanto le lezioni in presenza quanto la Didattica a Distanza, organizzati in modo semplice e disponibili per tutte le discipline. E poi, strumenti per l’inclusione, un programma di formazione per i docenti, cicli di videolezioni per gli studenti, percorsi per il ripasso e il potenziamento. KmZero, per una didattica efficace e coinvolgente in classe e a distanza! Trovi tutta l’offerta su pearson.it/kilometrozero
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Per accedere alle risorse su My Pearson Place, lo studente può attivare il codice in copertina su pearson.it/place. Il docente può richiederne l’attivazione all’Agente di zona.
Il digitale di quest’opera Strumenti e modalità di utilizzo per la Didattica Digitale Integrata
Puoi trovare alcuni esempi di utilizzo dei contenuti digitali nel video accessibile inquadrando il QRcode.
Video e videolezioni per la classe capovolta Nelle pagine di apertura di Unità, inquadrando il QRcode di colore verde (che contrassegna le risorse digitali utili per avviare lo studio o la lezione) posto nella zona Classe capovolta, si accede a video o videolezioni che presentano contenuti rilevanti delle teorie dei filosofi. Lo studente può prenderne visione su indicazione del docente, quindi confrontarsi con i compagni per condividere dubbi o riflessioni in vista dello studio analitico dei capitoli.
IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Un faticoso cammino al servizio della città
‘
La giovinezza e il declino della pólis Tramandato dallo storico Diogene Laerzio (III secolo d.C. circa), l’episodio riportato nel riquadro a sinistra mette in luce l’elevatezza e la raffinatezza filosofica di quello che sarebbe diventato il discepolo più celebre di Socrate: Platone. Nato ad Atene (o meglio ad Egina, una piccola isola poco distante dalla città) nel 427 a.C., Platone appartiene a un’illustre famiglia aristocratica, discendente per parte di padre dall’ultimo re ateniese. Il suo vero nome è Aristocle, ma secondo la tradizione viene chiamato “Platone” per via dell’ampiezza della fronte (plátos significava appunto “larghezza”). Da ragazzo, durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), Platone assiste alla mutilazione delle erme (415 a.C.), un atto dissacrante organizzato probabilmente dal partito aristocratico per terrorizzare gli ateniesi protesi alla conquista della Sicilia, e favorire il rovesciamento della democrazia. Con lo stesso sgomento, due anni dopo (413 a.C.) è testimone della distruzione della flotta ateniese da parte di Siracusa, che si impone come nuova potenza navale. Nel 404 a.C. la guerra del Peloponneso si conclude con la sconfitta di Atene da parte di Sparta, e il declino della città diventa sempre più evidente. La responsabilità viene attribuita agli errori militari e politici dei governi democratici e in quello stesso anno si instaura l’oligarchia dei Trenta tiranni ( unità 2, cap. 2, p. 155), alla quale partecipa Crizia, zio di Platone. Nella Lettera VII, una sorta di autobiografia che redigerà all’età di circa settant’anni, Platone commenterà così le vicende politiche ateniesi di questo periodo:
Si narra che Socrate abbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno, che subito mise le ali e volò via e dolcemente cantò, e che il giorno dopo, presentatosi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo uccello era appunto lui. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III, 5)
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di PLATONE
‘
Quando ero giovane mi capitò di pensare, come accade a tanti altri giovani, che mi sarei dedicato alla vita politica non appena fossi divenuto padrone di me stesso. […] Data la mia giovinezza, non c’è da stupirsi se ritenevo che i nuovi governanti [i Trenta tiranni] avrebbero
Audio Il filosofo si racconta Tra i QR di colore blu (per lo studio e l’approfondimento), i contributi audio collocati all’inizio delle biografie dei grandi pensatori favoriscono un esordio coinvolgente e la memorizzazione delle informazioni. Si ricorre infatti all’espediente del racconto in prima persona, da parte di una voce narrante, delle vicende più significative dell’esistenza dei filosofi.
Test di logica Tra i numerosi QR di colore arancio (per esercitarsi e mettersi alla prova), i test di logica propongono esercizi che spaziano dalla logica linguistica alla logica numerica, dal ragionamento critico alla comprensione di brevi testi. La funzione è quella di sviluppare le competenze logico-argomentative anche in vista di eventuali test d’ingresso alle facoltà universitarie a numero chiuso.
SCOPRI ANCHE… Pearson Social Reading with Betwyll ll progetto Pearson Social Reading permette a docenti e studenti di leggere un testo online, commentarlo e discuterne secondo le dinamiche tipiche dei social network. Tramite l’app gratuita lo smartphone si trasforma in uno strumento di apprendimento, per esercitare competenze strategiche di lettura, scrittura e cittadinanza digitale.
Sostenibilità
Competenze
Inclusione
Tre parole chiave per il nostro futuro Il 2030 è la data che l’ONU ha fissato come traguardo per il raggiungimento dei 17 Obiettivi fondamentali che costituiscono l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. L’Agenda supera l’idea che la sostenibilità sia un tema riferito soltanto all’ambiente e amplia la visione integrando sostenibilità ambientale, economica, sociale e istituzionale. Pearson si sente parte attiva e responsabile in tale processo e pensa che al raggiungimento della meta debbano contribuire tutti, ognuno secondo le proprie attitudini e potenzialità: affinché il mondo di domani sia inclusivo è necessario oggi il rispetto delle differenze e la valorizzazione dei talenti in ogni forma. Il sentiero che porta a un mondo sostenibile non è facile da tracciare in una società in continua trasformazione; per percorrerlo conteranno sempre di più le cose che sappiamo e le cose che sappiamo fare, ma soprattutto saranno cruciali le cosiddette soft skills, cioè le competenze relazionali, creative e comunicative. Se saremo cittadini e lavoratori consapevoli, capaci di vivere responsabilmente nella società, molto dipenderà da che cosa abbiamo imparato a scuola. Per questo al centro di tutti i progetti e di tutti i servizi che Pearson propone ci sono le tre parole chiave sostenibilità, competenze e inclusione, sviluppate nell’ambito delle discipline e in percorsi pluridisciplinari anche attraverso attività di laboratorio e risorse multimediali.
È a partire dai banchi di scuola che si costruisce la società del futuro.
Pearson per la sostenibilità Lavoriamo concretamente per ridurre l’impatto ambientale dei nostri prodotti e delle nostre attività • La nostra carta è prodotta sostenendo il ciclo naturale: per ogni albero tagliato, un altro viene piantato • Il cellofan è realizzato con plastiche da recupero ambientale o riciclate • Gli inchiostri sono naturali e atossici
• I nostri libri sono prodotti in Italia: l’impatto del trasporto è ridotto al minimo • Nelle nostre sedi abbiamo attivato un piano pro-ambiente: eliminazione della plastica, limitazione del consumo energetico, riduzione dell’uso di carta, raccolta differenziata potenziata
indice generale INVITO ALLA FILOSOFIA L’imprescindibilità della filosofia: perché non è possibile vivere senza filosofare
1
L’ETÀ ARCAICA La nascita del pensiero filosofico LA SCOPERTA DEL LÓGOS L’ALBA DEL PENSIERO OCCIDENTALE I Greci e l’audacia del dubbio La civiltà delle póleis e del lógos Una ragione figlia della pólis Da una gerarchia di dèi a un’unica legge cosmica
7 8 8 8 9 10
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA UNO SGUARDO ALLA SEZIONE
10 11
UNITÀ 1 L’INDAGINE SULLA NATURA: I PENSATORI PRESOCRATICI
12
CAPITOLO 1
LA GRECIA E LA NASCITA DELLA FILOSOFIA
13
1.
13 13 14 16 16 17 18 19 19 20 21 22
2. 3. 4.
La filosofia: un “parto” del genio ellenico Le ragioni degli orientalisti Le ragioni degli occidentalisti Il contesto storico-culturale in cui nasce la filosofia L’originalità della civiltà greca Il dinamismo della società greca Politica, classi sociali e religione nella vita della pólis I primordi e il retroterra culturale della filosofia greca Le cosmologie mitiche I misteri e l’orfismo Le sentenze morali dei sette savi La riflessione etico-politica dei poeti
IX
5. 6. 7. 8.
Le diverse concezioni della filosofia presso i Greci Le scuole filosofiche greche I periodi della filosofia greca Le fonti per conoscere la filosofia greca
23 24 24 25
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
26 28
TESTI
29 29 29 30
Le origini della filosofia nella curiosità umana T1 La meraviglia come tratto distintivo dei filosofi (Platone, Teeteto) T2 La filosofia si deve alla meraviglia (Aristotele, Metafisica) CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI L’ETÀ ARCAICA Video: La nascita della filosofia nella Grecia arcaica • Carta interattiva • Linea del tempo interattiva Videolezione: I presofisti - La ricerca del principio Esercizi interattivi: La Grecia e la nascita della filosofia • Audiosintesi
CAPITOLO 2
LA RICERCA DEL PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE
31
1. 2.
31 32 33 33 34 35 37 37 38 40 41 41 42 43 43 44 44 45 45
I primi filosofi La scuola di Mileto Talete Anassimandro per saperne di più L’edizione “Diels-Kranz”
3.
Anassìmene Pitagora e i pitagorici La nascita della matematica e la dottrina del numero per saperne di più Le conquiste musicali dei pitagorici
4.
L’opposizione cosmica tra il limite e l’illimitato La crisi dell’aritmo-geometria Le dottrine astronomiche L’antropologia e la morale Eraclito Svegli e dormienti, ovvero filosofi e uomini comuni La dottrina del divenire La dottrina dei contrari La dottrina dell’universo La dottrina della conoscenza
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
47 49
TESTI
50 50 50
Talete T1 L’acqua come principio (da Aristotele, Metafisica)
X
indice generale
Anassimandro T2 L’infinito come principio (da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele) Anassimene T3 L’aria come principio (da Aezio, Raccolta di opinioni filosofiche;
51 51 52
Pitagora e i pitagorici T4 Il numero come principio (da Aristotele, Metafisica) T5 La visione del cosmo (da Aristotele, De caelo) Eraclito T6 Il lógos come principio (Frammento 1) T7 La mutevolezza e la contraddittorietà del reale (Frammenti 12, 49a, 91) T8 La legge del mondo (Frammenti 53, 67, 80) T9 La ricomposizione dei contrari (Frammenti 8, 10, 51, 60)
52 53 53 55 56 56 57 58 58
FILOSOFIA E SCIENZA I PITAGORICI E I NUMERI IRRAZIONALI
60
da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele)
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: I fisici monisti di Mileto; Pitagora e i pitagorici; Eraclito • Audiosintesi
CAPITOLO 3
L’INDAGINE SULL’ESSERE
62
1. 2. 3.
62 62 63 63 64 65 66 66 67 67 67 68 69 70 70 71
4.
La filosofia eleatica Senofane Parmenide Il sentiero della verità Il mondo dell’essere e della ragione Il mondo dell’apparenza e dell’opinione Essere, pensiero e linguaggio La problematica “terza via” di Parmenide Zenone La difesa di Parmenide Gli argomenti contro la pluralità Gli argomenti contro il movimento per saperne di più Le discussioni critiche sull’argomento di Achille e della tartaruga
5.
Melisso Le caratteristiche dell’essere Le differenze rispetto a Parmenide
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
72 74
TESTI
75 75 75 77
Parmenide T1 Al cospetto della dea (Sulla natura) T2 La verità e l’opinione (Sulla natura)
XI
T3 La descrizione dell’essere (Sulla natura) T4 L’illusorietà delle sensazioni (Sulla natura)
78 79
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audiolettura: Parmenide, Al cospetto della dea (da Sulla natura) • Test di logica • Esercizi interattivi: Parmenide e Zenone • Audiosintesi
CAPITOLO 4
I MOLTEPLICI PRINCÌPI DELLA REALTÀ
81
1.
81 81 83 85 86 86 87 88 91 92 93 94
2.
I fisici pluralisti Empedocle Anassagora Democrito e l’atomismo La figura di Democrito L’eredità eleatica La teoria cosmologica per saperne di più La “sfida” dell’infinito
L’importanza di Democrito per la storia della scienza La teoria dell’anima e della conoscenza La dottrina etica e politica L’enciclopedismo democriteo SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
95 97
TESTI
Empedocle T1 I quattro elementi originari (da Aristotele, Metafisica) T2 Il ciclo cosmico (Sulla natura) Anassagora T3 Le particelle alla base di tutte le cose (da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele) Democrito T4 Un universo formato di atomi (da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele) T5 La pluralità dei mondi (da Ippolito, Confutazione di tutte le eresie) T6 La teoria della conoscenza (da Galeno, Gli elementi secondo Ippocrate)
98 98 98 99 100 100 101 101 103 104
FILOSOFIA E ARTE IL PIANTO E IL RISO DI ERACLITO E DEMOCRITO
106
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Esercizi interattivi: I fisici pluralisti • Audiosintesi
XII
VERIFICA DI UNITÀ
108
L’OFFICINA DELL’ESAME
112
indice generale
L’ETÀ CLASSICA 115
La filosofia ad Atene VIVERE NELLA PÓLIS L’ESSERE UMANO COME «ANIMALE POLITICO» Atene e il governo del popolo Il principio dell’isonomìa La nascita della politica Politica e lógos
116 116 117 117 118
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA UNO SGUARDO ALLA SEZIONE
118 119
UNITÀ 2 L’INDAGINE SULL’ESSERE UMANO: I SOFISTI E SOCRATE
120
CAPITOLO 1
I SOFISTI
121
1. La considerazione dei sofisti nella storia 2. Il contesto in cui nasce la sofistica Democrazia, parola e insegnamento 3. I caratteri della sofistica 4. Protagora La dottrina dell’uomo-misura Il relativismo morale e culturale L’utile come criterio di scelta 5. Gorgia L’impensabilità e l’inesprimibilità dell’essere Lo scetticismo La visione tragica della vita 6. La storia e le tecniche per i sofisti 7. I sofisti e la religione 8. Il problema delle leggi Legge e natura Legge e potere LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Nómos e phýsis: da Sofocle alle Dichiarazioni dei diritti umani
121 121 122 123 124 124 126 126 128 128 130 131 132 133 134 134 135 136
9. L’arte della parola 10. Il problema del linguaggio 11. La crisi della sofistica
137 138 139
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
140 142
XIII
TESTI
Protagora T1 L’uomo è misura di tutte le cose (da Platone, Teeteto) Gorgia T2 Le ragioni dell’innocenza di Elena (Encomio di Elena) Antifonte T3 Le leggi della natura e le leggi dell’uomo (Papiro di Ossirinco, XI, 1364)
144 144 144 146 147 149 149
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI L’ETÀ CLASSICA Video: La democrazia ateniese e la filosofia • Carta interattiva • Linea del tempo interattiva Filmato didattico: La figura di Socrate Esercizi interattivi: Protagora; I sofisti • Audiosintesi
CAPITOLO 2
SOCRATE
151
IL RACCONTO DI UNA VITA Un personaggio complesso Le testimonianze sulla vita e sul pensiero
152 152 153 156 158
Il rapporto di Socrate con i sofisti e con Platone La filosofia come ricerca sull’essere umano Il “non sapere” Il dialogo: momenti e obiettivi L’ironia La maieutica La ricerca della definizione Induzione, concetti e verità
159 159 160 161 161 162 163 164
Il fascino della ricerca dialogante DALLA VITA AL PENSIERO L’essere umano come intelligenza libera
1. 2. 3. 4.
LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Da Socrate alle odierne democrazie
5.
6. 7. 8.
XIV
L’etica La virtù come scienza Virtù, felicità e politica I paradossi dell’etica socratica Il demone, l’anima e la religione Il processo e la morte di Socrate Le cause storiche e politiche del processo Il significato filosofico della morte di Socrate Le scuole socratiche
166 167 167 168 169 170 171 172 172 173
L’EREDITÀ DI SOCRATE
174
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
175 177
indice generale
TESTI
La testimonianza di Senofonte T1 L’indagine sull’essere umano (da Senofonte, Memorabili) La testimonianza di Platone T2 L’arte maieutica (da Platone, Teeteto) La morte di Socrate T3 Gli ultimi istanti di vita (da Platone, Fedone)
178 178 178 180 180 181 181
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Audio - Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Socrate • Linea del tempo interattiva: La vita di Socrate • Schemi audiovisivi: La gerarchia dei valori per Socrate; Un confronto tra Socrate e i sofisti • Testi con analisi attiva: Senofonte, Il sapere secondo Socrate (da Memorabili); Platone, L’ironia socratica (da Repubblica); Platone, La virtù è scienza (da Protagora) • Laboratorio sul testo: Platone, Socrate e il “sapere di non sapere” (da Apologia di Socrate) • Audiolettura: Platone, La morte di Socrate (da Fedone) • Esercizi interattivi: Il metodo dialogico; La morale socratica • Audiosintesi
VERIFICA DI UNITÀ QUESTIONE
Anassagora • Democrito • Protagora
185
Esiste Dio?
188
UNITÀ 3 PLATONE
194
IL RACCONTO DI UNA VITA
196 Un faticoso cammino al servizio della città 196 L’INCONTRO Platone e Socrate: la forza di una “vocazione” 197 DALLA VITA AL PENSIERO L’esilio del pensiero: dalla prassi politica alla teoria politica 199 Gli scritti platonici 200
CAPITOLO 1
IL PROGETTO FILOSOFICO E I DIALOGHI GIOVANILI
202
1. 2.
202 203 203 204 205 205 206 209
3.
Una risposta alla crisi della società I tratti generali della filosofia platonica Platone e Socrate Filosofia e mito La difesa di Socrate e la polemica contro i sofisti L’Apologia di Socrate e i primi dialoghi Il Protagora, l’Eutidemo e il Gorgia Il Cratilo e il problema del linguaggio
XV
SINTESI MAPPE
210 211
TESTI
212 212 212 214 214
L’utilità della filosofia per la vita associata T1 Il richiamo della politica e la vocazione filosofica (Lettera VII) La riflessione sul linguaggio T2 La stabilità delle essenze come condizione della conoscenza (Cratilo) CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI
Videolezione: Platone - La scoperta dell’idea • Audio - Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Platone • Linea del tempo interattiva: La vita di Platone Testi con analisi attiva: Platone, Il carattere dialogico della filosofia (da Lettera VII); Platone, Le contraddizioni del relativismo sofistico (da Teeteto) • Audiolettura: Platone, Il richiamo della politica e la vocazione filosofica (da Lettera VII) • Esercizi interattivi: I caratteri della filosofia platonica • Audiosintesi
CAPITOLO 2
DALLE IDEE ALLO STATO: I DIALOGHI DELLA MATURITÀ
217
1.
217 217 218 219 220 221 222 223 223
La teoria delle idee La genesi della teoria L’impianto dualistico Il rapporto tra le idee e le cose Le idee: quali sono Le idee: dove e come esistono Le idee: come si conoscono L’immortalità dell’anima L’anima e il destino: il mito di Er LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Dall’amore per il sapere al diritto all’istruzione
2. 3.
4.
Un antidoto al relativismo sofistico La finalità politica della teoria delle idee La teoria dell’amore e della bellezza Il Simposio Il Fedro La teoria dello Stato e il compito del filosofo Lo Stato ideale La giustizia L’origine delle classi sociali Il “comunismo” platonico Le degenerazioni dello Stato I tratti peculiari dell’aristocraticismo platonico Chi custodirà i custodi? I gradi della conoscenza e il compito dei filosofi per saperne di più Gli oggetti della matematica tra il sensibile e l’ideale
I gradi dell’educazione Il mito della caverna LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Dalla Repubblica di Platone alla società di oggi: il difficile rapporto tra economia e politica
5.
XVI
La concezione platonica dell’arte
indice generale
225 226 227 228 228 230 232 232 232 234 235 236 236 238 238 240 241 242 244 245
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
247 250
TESTI
La teoria della conoscenza T1 Conoscere è ricordare (Menone) Eros e filosofia T2 Il discorso di Socrate-Diotìma: l’amore come demone (Simposio) T3 Le origini di Eros (Simposio) La riflessione sulla giustizia e sul bene T4 Il parallelismo tra lo Stato e l’individuo (Repubblica) T5 L’idea del Bene (Repubblica) Il mito della caverna T6 La caverna, ovvero il mondo della conoscenza sensibile (Repubblica) T7 La liberazione di un prigioniero e il suo viaggio verso la luce (Repubblica) T8 Il ritorno nella caverna (Repubblica)
252 252 252 254 254 256 258 258 260 261 261 263 264
FILOSOFIA E ARTE IL TEMPIO GRECO TRA REALTÀ E APPARENZA
266
FILOSOFIA E ARTE LA “SCOPERTA” DELL’ALDILÀ TRA ARTE E FILOSOFIA
268
SNODI PLURIDISCIPLINARI
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: L’ordine gerarchico delle idee; La tripartizione dell’anima • Filmato didattico: Il mito della caverna • Testi con analisi attiva: Platone, Chi sono i veri filosofi? (da Repubblica); Platone, La condanna della poesia (da Repubblica) • Laboratorio sul testo: Platone, Il mito di Er (da Repubblica) • Questione: L’arte: pericolosa finzione o strumento di liberazione? (Platone, Aristotele) • Audiolettura: Platone, Il discorso di Socrate-Diotìma: l’amore come demone (da Simposio) • Esercizi interattivi: La teoria dell’anamnesi; Lo Stato e le sue degenerazioni; La concezione dell’anima e dell’arte • Audiosintesi
CAPITOLO 3
UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’ESSERE: GLI SCRITTI DELLA VECCHIAIA 1. 2.
3. 4.
5.
I “nuovi” problemi Le nuove riflessioni sul mondo delle idee Il Teeteto: la conoscenza e l’errore Il Parmenide: la sfida della concezione eleatica dell’essere Il Sofista: la nuova concezione dell’essere La dialettica Il metodo dialettico La natura dialettica dell’essere Il Timeo: la visione cosmologica Il mito del demiurgo La visione matematica delle cose La parziale rivalutazione dell’arte La concezione della storia Il Filebo: il bene per l’essere umano
270 270 270 270 271 272 274 275 277 277 277 279 279 280 280
XVII
6.
7.
Il problema delle leggi Il Politico e Le leggi Differenze e analogie tra la Repubblica e le Leggi La nuova concezione della religione Le dottrine non scritte
281 281 283 283 284
L’EREDITÀ DI PLATONE
285
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
286 288
TESTI
289 289 289 292 292
Il superamento del problema del “non essere” T1 Il non essere come essere diverso (Sofista) Il mito del demiurgo T2 L’origine e la natura dell’universo (Timeo) CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI
Schemi audiovisivi: La funzione del demiurgo • Laboratorio sul testo: Platone, La dialettica e il metodo definitorio (da Sofista) • Audioletture: Platone, Il mito della biga alata (da Fedro); Platone, Il mito di Theuth e Thamus (da Fedro) • Test di logica • Esercizi interattivi: Platone e il confronto con l’eleatismo; L’ultimo Platone e il bene per l’uomo • Audiosintesi
VERIFICA DI UNITÀ
294
LEGGERE UN CLASSICO PLATONE FEDRO
298 300 302 304 306 308 311
INQUADRAMENTO DELL’OPERA SINTESI DEI CONTENUTI T1 T2 T3 T4
L’amore come follia Il mito della biga alata Dalla bellezza sensibile a quella ideale Il mito di Theuth e Thamus
314
OFFICINA DEL CLASSICO
QUESTIONE EDUCAZIONE CIVICA
XVIII
Socrate • Platone Il male è frutto di ignoranza o malvagità?
315
I NODI DEL PENSIERO
QUAL È L’ORIGINE DEL MONDO?
320
I NODI DEL PENSIERO
DA DOVE VIENE IL MALE?
324
indice generale
UNITÀ 4 ARISTOTELE IL RACCONTO DI UNA VITA Una vita per la ricerca L’INCONTRO Aristotele e Platone: tra amicizia personale e dissenso intellettuale
DALLA VITA AL PENSIERO Gli anni di ricerca a Mitilene: Aristotele naturalista
Gli scritti aristotelici
328 330 330 331 332 334
CAPITOLO 1
IL PROGETTO FILOSOFICO
337
1.
337 337 338 338 339
2.
L’allontanamento da Platone La diversa concezione del sapere e della realtà I diversi metodi e interessi Le analogie L’enciclopedia delle scienze
SINTESI E MAPPA
340
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Videolezione: Aristotele - La filosofia come meraviglia • Audio - Il filosofo si racconta • Carta interattiva: I luoghi di Aristotele • Linea del tempo interattiva: La vita di Aristotele Esercizi interattivi: La concezione aristotelica del sapere • Audiosintesi
CAPITOLO 2
LE STRUTTURE DELLA REALTÀ: LA METAFISICA
341
1. 2. 3.
341 342 343 343 345 346 347 348 348 349 350 351 352 352 354 354 355 355
4. 5. 6.
7.
La classificazione delle scienze I caratteri generali della metafisica La dottrina dell’essere e della sostanza L’essere e i suoi molti significati Che cosa sono le categorie Che cos’è la sostanza Che cosa sono gli accidenti I princìpi supremi della scienza dell’essere Identità, non contraddizione e terzo escluso La “conferma” del principio fondamentale La dottrina delle quattro cause La dottrina del divenire Le forme del divenire Potenza e atto La materia prima e la forma pura La concezione aristotelica di Dio La dimostrazione dell’esistenza di Dio Gli attributi di Dio
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
357 360
XIX
TESTI
La metafisica: lo studio dell’essere T1 Un inquadramento della metafisica (Metafisica) La metafisica: lo studio della sostanza T2 Le categorie (Analitici Secondi; Metafisica) T3 Materia e forma come possibili accezioni della sostanza (Metafisica) T4 La sostanza come sinolo di materia e forma (Metafisica) T5 La dottrina delle cause (Metafisica) T6 L’essere come potenza e atto (Metafisica) La metafisica: l’indagine su Dio T7 Il motore immobile (Metafisica) T8 Dio come pensiero di pensiero (Metafisica)
362 362 362 364 364 365 367 368 370 371 372 373
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: Le categorie; La dottrina delle quattro cause • Testo con analisi attiva: Aristotele, La filosofia prima come teologia (da Metafisica) • Laboratorio sul testo: Aristotele, Il divenire e il sostrato (da Fisica) • Esercizi interattivi: La sostanza aristotelica; La metafisica e la concezione di Dio • Audiosintesi
CAPITOLO 3
LE STRUTTURE DEL PENSIERO: LA LOGICA
374
1. 2. 3. 4.
374 375 375 377 378 379 380 382 383 384 385 387 387
5.
6. 7.
La concezione aristotelica della logica Il rapporto tra logica e metafisica La logica dei concetti La logica delle proposizioni I diversi tipi di proposizione e i loro rapporti La concezione della verità La logica del sillogismo Le figure del sillogismo I modi del sillogismo Il problema delle premesse La scienza tra esperienza e intuizione La dialettica La retorica
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
389 392
TESTI
394 394 394 396
La logica come base di ogni tipo di indagine T1 I quattro tipi di predicazione (Categorie) T2 Le sostanze prime come uniche vere sostanze (Categorie) CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schema audiovisivo: La funzione del termine medio • Testi con analisi attiva: Aristotele, Le proposizioni (da Dell’espressione); Aristotele, Il sillogismo scientifico (da Analitici secondi) • Questione: La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza? (Platone, Aristotele) • Test di logica • Audiosintesi
XX
indice generale
CAPITOLO 4
IL MONDO NATURALE: LA FISICA E LA PSICOLOGIA
398
1.
398 398 399 399 400 401 403 404 404 404
2.
La fisica I movimenti I luoghi naturali La concezione finalistica della natura L’universo e le sue caratteristiche Lo spazio e il tempo La fisica aristotelica nella storia della scienza La psicologia L’anima e le sue funzioni La teoria della conoscenza
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
407 409
TESTI
La fisica T1 Il movimento (Fisica) T2 La concezione finalistica della natura (Fisica) La psicologia T3 L’anima come causa finale del corpo (Sull’anima)
411 411 411 413 414 414
FILOSOFIA E SCIENZA FINALITÀ E INTELLIGENZA NELLA FISICA ARISTOTELICA
416
SNODI PLURIDISCIPLINARI
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schema audiovisivo: Il movimento per Aristotele • Testi con analisi attiva: Aristotele, Il mondo è finito e unico (da Sul cielo); Aristotele, Il finalismo nella natura (da Sulle parti degli animali) • Esercizi interattivi: L’universo aristotelico; La psicologia di Aristotele • Audiosintesi
CAPITOLO 5
L’AGIRE UMANO: L’ETICA, LA POLITICA E L’ARTE
418
1.
418 418 419
L’etica Il ruolo della ragione nella ricerca del bene I due tipi di virtù LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
La “saggezza” della legge tra giustizia ed equità
La concezione dell’amicizia
423 424
FILOSOFIA E LETTERATURA L’AMICIZIA DA ARISTOTELE A CICERONE
427
2.
428 428 428 431 431 431 434
SNODI PLURIDISCIPLINARI
3.
La politica La concezione dello Stato La riflessione sulle forme di governo L’estetica e la poetica La concezione della bellezza La concezione dell’arte e della tragedia La concezione della musica
XXI
L’EREDITÀ DI ARISTOTELE
435
SINTESI E GLOSSARIO MAPPE
436 438
TESTI
L’etica T1 Le funzioni dell’anima e i tipi di virtù (Etica nicomachea) T2 Le virtù etiche (Etica nicomachea) La politica T3 La necessità della vita associata (Politica) T4 Le condizioni del buon governo (Politica) La poetica T5 La definizione dell’arte (Poetica)
440 440 440 443 445 445 446 448 448
FILOSOFIA E ARTE PLATONE E ARISTOTELE NELL’INTERPRETAZIONE SNODI PLURIDISCIPLINARI DI RAFFAELLO
450
CONTENUTI DIGITALI INTEGRATIVI Schemi audiovisivi: Le virtù etiche; Le forme di governo • Testi con analisi attiva: Aristotele, La scelta morale (da Etica nicomachea); Aristotele, La costituzione migliore (da Politica) • Laboratorio sul testo: Aristotele, La virtù come medietà (da Etica nicomachea) • Audiolettura: Aristotele, La necessità della vita associata (da Politica) • Esercizi interattivi: L’etica e la politica; L’estetica di Aristotele • Audiosintesi
VERIFICA DI UNITÀ QUESTIONE EDUCAZIONE CIVICA
454
Crizia • Aristotele L’essere umano è un “animale sociale”?
L’OFFICINA DELL’ESAME
464
I NODI DEL PENSIERO
NEL DIVENIRE DEL MONDO ESISTE QUALCOSA CHE NON MUTA?
468
I NODI DEL PENSIERO
CHE COS’È LA FELICITÀ?
472
I NODI DEL PENSIERO
QUAL È IL RAPPORTO TRA INDIVIDUO E STATO?
476
I NODI DEL PENSIERO
QUAL È L’ORIGINE DELLA CONOSCENZA?
480
Indice dei NOMI
Indice delle voci di GLOSSARIO Indice delle voci di ENCICLOSOFIA Indice delle SCHEDE e delle RUBRICHE Indice delle ILLUSTRAZIONI
XXII
459
indice generale
484 486 487 488 490
INVITO ALLA FILOSOFIA
L’imprescindibilità della filosofia: perché non è possibile vivere senza filosofare
1. Quali sono i tratti caratteristici della filosofia
Nell’opinione comune la parola “filosofia” evoca talvolta qualcosa di astruso e di lontano dalla vita. In realtà, secondo un’antica tradizione, essa è strettamente intrecciata con l’esistenza umana, al punto che, come affermava Platone, non si può essere uomini senza essere in qualche modo filosofi. «Non ci sarebbe la filosofia dei filosofi – scriveva Nicola Abbagnano – se l’uomo non fosse condotto a filosofare dalla sua vita stessa di uomo». Tant’è che la filosofia, da questo punto di vista, potrebbe essere definita come la vita pensata e problematizzata. Ma che cosa studia la filosofia? A che cosa serve? È inevitabile porsi tali interrogativi, così come è proficuo cercare di fornirvi un abbozzo di risposta. È vero che si può comprendere che cosa sia davvero una disciplina soltanto entrando in contatto con essa, cioè studiandola. Per usare una celebre immagine del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), si può imparare a nuotare soltanto entrando in acqua. Ma ciò non esclude che di ogni disciplina, compresa la filosofia, sia possibile mettere a fuoco – in anteprima – alcuni tratti salienti.
1
La filosofia si nutre di domande La filosofia Un primo carattere basilare della filosofia, che la qualifica fin dalle origini, è che essa si come “gusto” nutre di domande. È un continuo interrogare, una incessante “messa in questione” di della domanda
ciò che a prima vista – per tradizione, autorità o pregiudizio – sembra ovvio. L’etimologia stessa della parola “filosofia”, che significa letteralmente “amore” (philía) del “sapere” (sophía), indica che essa, più che possesso, è ricerca del sapere, e quindi una disciplina che trova nel gusto della domanda il suo spazio vitale. Ma di che tipo sono le domande della filosofia?
Il carattere Tutti noi passiamo la vita a fare e a farci domande: per risolvere problemi, per orientarfondamentale ci nel mondo, per effettuare in modo responsabile le nostre scelte. Ci chiediamo, ad esemdelle domande della filosofia pio, come organizzare con successo i nostri studi, come trovare un lavoro, come comuni-
care in modo efficace con gli altri, come rendere felice la persona che amiamo, come mantenerci in salute, e così via. Le domande della filosofia non sono di questo tipo, poiché non riguardano direttamente il nostro fare quotidiano o la nostra utilità immediata. Esse sono piuttosto domande “di fondo”, che in linea di principio possono concernere qualsiasi aspetto della nostra esperienza.
La “radicalità” Ad esempio, in relazione alla realtà in cui viviamo, le domande di fondo della filosofia delle domande hanno storicamente assunto la forma di interrogativi quali: che cos’è l’essere?, che cos’è il filosofiche
tempo?, esiste Dio? In relazione alla nostra conoscenza, si sono concretizzate in questioni come: da dove derivano i nostri concetti?, in che rapporto stanno la mente e le cose?, quali sono le garanzie di validità del nostro sapere? In relazione al nostro agire, hanno assunto la forma di interrogativi quali: che cos’è il bene?, che cos’è il male?, che cos’è la libertà?, che cos’è la giustizia?, che cos’è la felicità? Le domande della filosofia sono quindi domande che vanno “alla radice”, ossia mettono radicalmente in discussione l’ambito di volta in volta considerato, qualunque esso sia, tanto che anche esperienze esistenziali universali come l’amicizia, l’amore o la sessualità possono divenire oggetto di riflessione filosofica. Mentre comunemente, come avviene ad esempio nella religione e nel diritto, si parla di bene e di male, di giusto e di ingiusto, la filosofia problematizza “alla radice” le nozioni stesse di bene/male, giusto/ingiusto.
La filosofia è “inaggirabile” e coinvolge tutti Queste domande radicali, che costituiscono l’ambito specifico del pensiero filosofico, non sono affatto astratte o inutili. Anzi, in molti casi presentano una tale concretezza e rilevanza che dalla loro risposta possono dipendere il corso di una vita o l’impronta di una società. La filosofia Se, in quanto animali, non possiamo fare a meno di respirare e nutrirci, in quanto come vita animali razionali non possiamo fare a meno di riflettere e filosofare. A rigore, quindi, consapevole
non vale l’antico detto latino secondo cui primum vivere, deinde philosophari (“prima vivere, poi filosofare”). Infatti, se per “vita” non si intende quella puramente biologica (nutrirsi,
2
INVITO ALLA FILOSOFIA L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FILOSOFIA: PERCHÉ NON È POSSIBILE VIVERE SENZA FILOSOFARE
bere, dormire ecc.) ma quella propriamente umana e sociale, vivere è già filosofare: «filosofare significa per l’uomo, in primo luogo, affrontare ad occhi aperti il proprio destino e porsi chiaramente i problemi che risultano dal proprio rapporto con sé stessi, con gli altri uomini e col mondo» (Nicola Abbagnano). Per usare un’espressione risalente ai pensatori greci, la filosofia è vita “da svegli”, cioè da individui che affrontano la loro esistenza non in maniera passiva ma attiva, non in maniera inconsapevole ma consapevole. Al punto che, si potrebbe aggiungere, nell’uomo neppure la vita biologica rimane completamente estranea alla filosofia, perché l’uomo è un essere che, oltre a nutrirsi, può ad esempio chiedersi in modo critico e selettivo che cosa e come sia meglio mangiare (come fanno le filosofie salutiste). In ogni caso, ritenere di vivere senza filosofia è un’ingenuità, poiché la filosofia è qualcosa La filosofia di inevitabile, che coinvolge tutti: essa è “inaggirabile”. Infatti, come non è possibile vi- come visione del mondo vere senza riflettere sulla vita, così non è possibile esistere senza assumere un atteggiamento complessivo di fronte alla realtà, e quindi senza avere una determinata visione del mondo: «Ogni uomo vive in una cultura, in un certo tipo o forma di civiltà, e partecipa agli usi, ai costumi, alle credenze che la costituiscono. E usi, costumi, credenze, delineano nel loro insieme un atteggiamento di fronte al mondo che a sua volta obbedisce a una visione complessiva del mondo stesso» (Nicola Abbagnano). Anche chi dice di non avere una filosofia (o di non averne bisogno) in realtà ne ha già una. E questo non per la semplice ragione formale e dialettica che la rinuncia alla filosofia è già una filosofia, ma per la ragione sostanziale che quella rinuncia è soltanto apparente o fittizia, in quanto ognuno – e questo vale anche ai giorni nostri – possiede una “propria” filosofia, spesso intessuta di idee desunte dai media e dall’ambiente in cui vive. Tanto che la vera alternativa non è tra fare e non fare filosofia, ma tra fare filosofia in modo inconsapevole e irriflesso (come avviene nella vita comune) e fare filosofia in modo consapevole e riflesso (come fanno i filosofi). La filosofia di fatto coinvolge tutti. In essa tutti abitiamo e viviamo. Ogni domanda di fon- Un’indagine do che nasce dalla vita quotidiana è destinata a incontrare in modo implicito o esplicito la che sgorga dalla vita filosofia. Chiedersi perché sia giusto rispettare chi non la pensa come noi, o perché sia giusto pagare le tasse, significa in qualche modo fare filosofia. Certo, la filosofia dei filosofi, a cominciare dal linguaggio tecnico che la contraddistingue, assume alcuni aspetti specialistici e sistematici che ne fanno un’attività specifica e autonoma. Tuttavia, come non c’è problema rilevante della vita che non possa divenire oggetto di approfondimento filosofico, così non c’è problema filosofico, anche quello apparentemente più astruso, che non sgorghi in qualche modo dalla vita. Proprio per la sua imprescindibilità, la filosofia non è una sorta di dipartimento separato e Un’indagine autonomo del sapere, né i filosofi sono una corporazione rinchiusa in un mondo che non interdisciplinare ha nulla a che vedere con gli studiosi delle altre discipline. Infatti, se da un lato i filosofi non possono ignorare quello che accade nelle altre attività umane, a loro volta i matematici, i logici, i fisici, i biologi, gli psicologi, i sociologi, gli antropologi, i medici, i giuristi, i poeti, gli artisti ecc., a certi livelli della loro indagine, non possono fare a meno di incrociare le domande di fondo della filosofia, o di fare loro stessi filosofia.
3
Numerose discipline sono nate dal sapere filosofico, e nessuna disciplina, anche dopo essersi resa storicamente autonoma dalla filosofia, risulta completamente estranea ad essa. Inoltre nessuna disciplina rende inutile il pensiero filosofico. Anche la scienza e la civiltà tecnologica, anziché escludere o “mandare in pensione” la filosofia, suscitano esse stesse pressanti interrogativi di natura filosofica. La filosofia Chiamiamo dunque “filosofia” l’indagine critica e razionale sulle questioni di fondo come dialogo che l’essere umano si pone circa sé medesimo e la realtà circostante. Contestualmente, sempre aperto
chiamiamo “storia della filosofia” sia il “racconto” delle specifiche domande che gli uomini si sono posti dall’antichità fino ai giorni nostri, sia il “racconto” dei corrispettivi tentativi di risposta che i pensatori delle diverse epoche hanno fornito. La filosofia e la storia della filosofia si presentano così come una sorta di colloquio infinito e sempre aperto, costituito da una trama inesauribile di interrogativi, risposte e ulteriori interrogativi.
Le ricadute pratiche della filosofia La libertà di Proprio perché la filosofia è parte integrante della vita e del sapere, essa presenta inevitaopinione e bilmente importanti ricadute pratiche, che in certi casi sono maggiori di quello che ordinadi espressione
riamente si ritiene. Ad esempio, oggi viviamo in società nelle quali – a differenza di quanto avveniva nel passato e accade tuttora in certe aree del mondo – vige quel bene prezioso che l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani chiama «diritto alla libertà di opinione e di espressione». Ora, come avremo modo di verificare nelle varie unità del manuale, alla definitiva affermazione di questa conquista della mente e della civiltà umana ha contribuito in modo cospicuo anche la filosofia.
Le grandi idee e i grandi problemi del mondo di ieri e di oggi
Analogamente, come ha ricordato in più occasioni il giurista, filosofo e politologo Norberto Bobbio (1909-2004), le tre grandi ideologie politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) che hanno condizionato in profondità il mondo moderno – il quale senza di esse non sarebbe quello che è – hanno le loro matrici teoriche nel pensiero di filosofi come John Locke (1632-1704), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Karl Marx (1818-1883). La stessa cosa può dirsi sia per altri importanti movimenti di idee dei giorni nostri (da quello per la parità dei diritti a quello per la pace, da quello per la tutela dell’ambiente a quello per i diritti degli animali), sia per la trattazione di problemi scottanti come l’aborto e l’eutanasia, che hanno suscitato e suscitano dibattiti in cui l’apporto della filosofia è notevole e, in certi casi, determinante. Anche un drammatico evento planetario come la diffusione del Covid-19, che ha profondamente inciso sui nostri modi di essere e sul nostro modo di guardare il mondo, non ha potuto fare a meno di suscitare un insieme di questioni antropologiche ed etiche di natura filosofica. E ciò a conferma dello stretto legame tra vita e filosofia.
L’intreccio Niente di più falso, quindi, della superficiale battuta secondo cui “la filosofia è quella cosa della filosofia con la quale o senza la quale il mondo rimane tale e quale”. Al contrario, è nostra convincon la storia del mondo zione che la filosofia sia quella cosa con la quale o senza la quale il mondo non rima-
ne affatto tale e quale.
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INVITO ALLA FILOSOFIA L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FILOSOFIA: PERCHÉ NON È POSSIBILE VIVERE SENZA FILOSOFARE
Proprio per questo non è possibile sostenere, come affermava Hegel, che la filosofia giunge sempre “a cose fatte” (in quanto forma di riflessione su eventi già accaduti), e quindi troppo tardi per dire come deve essere il mondo. Al contrario, essa è parte costitutiva del farsi della storia del mondo, e i filosofi hanno spesso anticipato idee e modi di vita che hanno preso piede decenni o secoli dopo. Di conseguenza, più che ai filosofi che hanno insistito su una visione contemplativa del- Il ruolo attivo la filosofia, ci sentiamo vicini a quelli che ne hanno sottolineato la funzione attiva. In dei filosofi particolare, più che al modello di Aristotele, propenso a scorgere nella filosofia un’attività di pura contemplazione che, come tale, «non serve a nulla» (in quanto si limita a studiare le realtà più alte, senza perseguire alcun vantaggio pratico), ci sentiamo vicini al modello di Platone. Quest’ultimo, infatti, ha prospettato la filosofia come l’uso del sapere a vantaggio dell’essere umano, sostenendo che il compito del filosofo non si esaurisce nell’attività teorica, ma implica un impegno nella trasformazione del mondo umano, e quindi un proficuo mettere a disposizione della comunità i risultati delle proprie riflessioni.
2. A che cosa serve lo studio della filosofia
Sulla base di quanto si è detto circa l’ineludibilità e l’imprescindibilità della filosofia – che rimanda alla “filosoficità” della stessa esistenza umana – possiamo capire perché sia così importante che questa disciplina costituisca un elemento nella formazione personale di ogni individuo, e venga quindi studiata a scuola. Le ragioni della sua utilità come materia di studio scolastico sono numerose. Qui ci limitiamo a evidenziarne alcune. Innanzitutto, studiando la storia della filosofia si riesce a comprendere meglio la storia Una chiave per complessiva dell’umanità. Infatti, se è vero che ogni filosofia è la filosofia della sua età, capire lo spirito di un’epoca è altrettanto vero che ogni età ha la sua filosofia, la quale, se da un lato è condizionata dalle vicende storiche, dall’altro condiziona essa stessa tali vicende, influendo sulla politica, sul diritto, sull’etica, sulla religione, sull’arte e sulla letteratura del proprio tempo. Di conseguenza, per capire lo spirito di un’epoca è utile – e in certi casi indispensabile – conoscere, tra le altre cose, la filosofia di quell’epoca. Ad esempio, si capisce meglio la civiltà del Rinascimento se si conosce la filosofia rinascimentale e le varie espressioni in cui essa si articola. Come si comprendono meglio certi fenomeni letterari (si pensi al Romanticismo, al verismo o al decadentismo) se si conoscono le filosofie coeve. Lo studio del pensiero dei filosofi, inoltre, non si esaurisce nell’ascolto passivo di idee altrui, ma rappresenta uno stimolo a riflettere in prima persona. E ciò in accordo con la tesi di uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi, Immanuel Kant (1724-1804), secondo il quale, più che imparare la filosofia, bisognerebbe imparare a filosofare: più che apprendere pensieri, bisognerebbe apprendere a pensare. Nella fattispecie, lo studio della filosofia è utile per l’acquisizione di una mentalità critica, che insegni a interrogarsi su tutto senza dare mai nulla per scontato, anzi mettendo costantemente in dubbio le verità di cui ognuno si crede dogmaticamente in possesso.
Uno strumento per educare al pensiero critico
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Di questa mentalità è componente essenziale lo sforzo di ragionare con la propria testa. Tant’è che Kant scorgeva nel motto latino «Sapere aude!», cioè «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!», il simbolo stesso della ragione critica, sostenendo che con la filosofia l’uomo diventa finalmente “maggiorenne” (non in senso anagrafico, ma intellettuale), imparando la difficile arte di pensare in maniera autonoma, abbandonando credenze e convinzioni accolte passivamente dall’esterno. Una “palestra” Mettendoci in contatto con modi completamente differenti di concepire la realtà e obblidi democrazia gandoci a entrare, per così dire, nella mente degli altri, la filosofia può contribuire a pro-
durre una forma mentis pluralistica ed empatica, in grado di “ascoltare” le ragioni del prossimo e di mettere in pratica una cultura del reciproco rispetto. In questo senso – come, tra gli altri, ha riconosciuto recentemente la filosofa statunitense Martha Nussbaum (nata nel 1947) – la filosofia può recare un non trascurabile contributo al rafforzamento della democrazia e alla civile coesistenza fra culture e modi di vita diversi. Pur essendo fondamentali per il futuro delle nazioni, le competenze tecniche e scientifiche non bastano, da sole, a formare cittadini in modo completo e onnilaterale. Occorre anche una componente umanistica, che sia in grado di tener conto di tutti gli aspetti dell’umano e di mantenere vive, insieme con la lezione dei classici, le istanze del pensiero critico. Tanto più che chi non sa riflettere in modo autonomo è facilmente influenzabile e finisce, come la storia e l’attualità ci insegnano, per essere facile preda del qualunquismo o del fanatismo. Certo, la filosofia non è l’unica disciplina e nemmeno l’unica materia scolastica in grado di produrre una mentalità critica, aperta e creativa, come non è l’unica in grado di favorire una mentalità dialogica e democratica. Tuttavia, stimolando a porre domande e abituando a “chiedere ragione” delle affermazioni altrui e a “rendere ragione” delle proprie, è una disciplina che può contribuire in modo eminente alla formazione di una simile forma mentis. Giovanni Fornero
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INVITO ALLA FILOSOFIA L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FILOSOFIA: PERCHÉ NON È POSSIBILE VIVERE SENZA FILOSOFARE
L’ETÀ ARCAICA La nascita del pensiero filosofico
I
ntorno all’VIII secolo a.C. i centri greci economicamente e culturalmente più dinamici sono alcune colonie fondate nella Ionia (regione costiera dell’Asia Minore, nell’attuale Turchia): Mileto, Efeso, Clazomene, Colofone e Samo. Collocate tra Occidente e Oriente, e aperte a contatti con civiltà raffinate e progredite (egiziana, assiro-babilonese, persiana), queste città diventano i centri propulsori di un nuovo sapere, la filosofia, che trova il suo strumento di indagine nel lógos (la ragione) contrapposto al mýthos (il racconto miticoreligioso). Dalle coste ioniche, la filosofia si diffonde poi nell’Italia meridionale (in particolare a Elea, Crotone e Agrigento) e infine ad Atene. Nata da uno sguardo curioso sulla natura, tra il VII e il VI secolo a.C. l’indagine filosofica si concentra sul mondo fisico, interrogandosi sul principio della vita e sull’ordine della realtà.
L’OGGETTO lo gnomòne
Esempio di gnomone in pietra di età romana, I secolo a.C. circa, Tarragona (Spagna).
Il più antico strumento di misurazione del tempo è probabilmente lo gnomone, orologio solare costituito da un’asta opportunamente orientata, la cui ombra proiettata a terra, spostandosi nell’arco del giorno, serviva per segnare le ore. La tradizione attribuisce l’invenzione dello gnomone, o perlomeno la sua introduzione nel mondo occidentale, ad Anassimandro (VII-VI secolo a.C.), matematico e astronomo nato a Mileto e annoverato, insieme con Talete e Anassimene, tra i primi filosofi. Lo gnomone può essere considerato il simbolo di un passo decisivo nella storia culturale dell’Occidente, poiché consente ad Anassimandro di andare oltre la sacralità attribuita ai fenomeni celesti, per elaborare una “teoria” dello spazio e del tempo basata sui movimenti del Sole. La tecnica e il pensiero diventano così strumenti di un’indagine scientifica, che cerca la verità anche al di là di ciò che è immediatamente visibile e percepibile.
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LA SCOPERTA DEL LÓGOS L’ALBA DEL PENSIERO OCCIDENTALE
I Greci e l’audacia del dubbio
Per gran parte delle antiche civiltà umane – da quella egizia a quella cinese, da quella indiana a quella dei Maya – la Terra aveva un “sopra”, la volta celeste, e un “sotto” su cui appoggiarsi: ad esempio una grande tartaruga sulla schiena di un elefante (come in alcuni miti asiatici), oppure gigantesche colonne (come si legge nella Bibbia). Questa visione mitica non apparteneva agli antichi Greci, per i quali la Terra era piuttosto un enorme sasso galleggiante sotto cui non c’era un sostegno, ma quello stesso cielo infinito e avvolgente che tutti vediamo sopra di noi. Secondo Karl Popper (filosofo del Novecento), l’immagine della Terra che fluttua in uno spazio infinito è «una delle idee più audaci, rivoluzionarie e portentose dell’intera storia del pensiero umano» (Ritorno ai presocratici, in Congetture e confutazioni, trad. it. di G. Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1972, p. 239) ed è attribuibile al filosofo Anassimandro, vissuto a Mileto ventisei secoli fa. Con questa immagine, Anassimandro anticipa in qualche misura le scoperte di Copernico e Galilei, ma soprattutto inaugura quella forma mentis che sarà alla base della ragione (filosofica e scientifica) occidentale. Ma in che cosa consiste esattamente il nuovo modo di pensare inauTutto accade gurato dai Greci? È ancora Karl Popper a suggerire una risposta: secondo il lógos. «L’elemento decisivo è l’atteggiamento critico» (op. cit., p. 235). (Eraclito) Alla sua ipotesi, infatti, Anassimandro perviene ripudiando sia i miti della tradizione sia l’attestazione dei sensi. Egli si affida alla pura theoría (dal verbo theoréin, “vedere”), ovvero a una “visione” della mente suscitata in lui dal suo maestro Talete. Questi riteneva che la Terra galleggiasse sull’acqua, ma per Anassimandro una simile idea, pur risolvendo il problema di quale fosse il “sostegno” della Terra, lógos ne suscitava un altro analogo: che cosa sorregge l’acqua che sorregTradotto comunemente con “ragione” ge la Terra? e “discorso” (in latino ratio e oratio), Anassimandro giunge dunque alla propria teoria analizzando critiil termine lógos deriva dal verbo camente quella del maestro. La cosiddetta “scuola ionica”, cioè la léghein, che originariamente indicava il scuola filosofica fondata a Mileto da Talete, è la prima comunità in“raccogliere”, il “mettere insieme”. Questo tellettuale in cui gli allievi osano criticare i propri maestri, e in cui significato rivela un tratto importante del il dissenso, se esercitato ragionevolmente, è considerato sintomo di lógos, che in quanto discorso “raccoglie” forza intellettuale. Con Anassimandro cominciano a librarsi nello e “mette insieme” le parole secondo un spazio infinito non soltanto la Terra, ma anche l’intelligenza e le idee, preciso ordine sintattico, e in quanto che, affrancandosi dalla tradizione, si rivolgono alla fonte del dubbio ragione “raccoglie” e “mette insieme” per costruire un sapere libero e aperto. idee e concetti secondo un rigoroso ordine logico. Il significato originario di “raccogliere”, ben presto affiancato da quello di “discorrere”, è dunque strettamente connesso all’attività unificatrice del lógos, ovvero di una ragione che connette, sceglie, calcola.
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La civiltà delle póleis e del lógos A questo pensiero critico nato in Grecia (o, meglio, nelle colonie greche della Ionia) si dà comunemente il nome di lógos, che significa “ragione” ma anche “discorso”. Questo doppio significato non è casuale: la nascita del lógos, infatti, si colloca in un preciso contesto socio-politico,
L’ETÀ ARCAICA La nascita deL pensiero fiLosofico
ovvero il sistema delle póleis, le città-Stato in cui la civiltà greca va organizzandosi fin dall’VIII secolo a.C., e nelle quali l’esercizio della vita pubblica coincide appunto con l’uso sia della ragione sia del discorso ( p. 118). Per comprendere pienamente questa affermazione si deve risalire al crollo della civiltà micenea, che decade sotto la spinta di tribù doriche giunte nella Grecia continentale da nord. Con il mondo miceneo scompare un modello di vita sociale di tipo piramidale, al cui vertice si trovava un sovrano considerato semi-divino, suprema autorità politica e religiosa simboleggiata dall’imponente palazzo in cui alloggiava. Con il nuovo sistema greco delle póleis, il potere del monarca miceneo – esercitato nel segreto del palazzo reale e privo di controllo – si frantuma e lascia il posto al dibattito pubblico, che si tiene alla luce del sole nella piazza della città (l’agorá), e a cui partecipano tutti i cittadini civiltà micenea liberi. Le decisioni sulla vita dello Stato non vengono più accettate in virtù del prestigio Intorno alla metà del II millennio a.C. il dominio personale del re, ma devono scaturire dalla del Mediterraneo passa dai Cretesi agli Achei, una libera discussione dei cittadini, superando il popolazione indoeuropea di guerrieri e marinai. In Grecia – e specialmente nella penisola del vaglio della ragione e mostrando così di esPeloponneso – gli Achei fondano diversi Stati, sere “preferibili” rispetto ad altre.
Una ragione figlia della pólis
ognuno gravitante intorno a una città. La più potente fra queste è Micene, da cui deriva il nome “micenea” attribuito alla civiltà achea. I Micenei arrivano gradualmente a controllare non soltanto Creta, ma anche Rodi, le isole dell’Egeo e le coste dell’Asia Minore. È probabilmente in questo contesto che va collocata la “guerra di Troia” narrata nell’Iliade, ovvero il conflitto tra una federazione di prìncipi achei e una città dell’Asia Minore che controllava i commerci verso il mar Nero. Impostasi rapidamente, la civiltà micenea tramonta altrettanto rapidamente fra il XIII e il XII secolo a.C., a causa – sembra – sia di terremoti e carestie, sia di flussi migratori e invasioni, tra cui quella dei Dori provenienti da nord. Si apre così per il mondo greco un periodo di decadenza economica e culturale, che terminerà soltanto nell’VIII secolo a.C.
La relazione fra l’istituzione della pólis e la nascita del lógos è stata sottolineata da uno dei massimi studiosi del mondo greco, lo storico Jean-Pierre Vernant (1914-2007). Nel saggio Le origini del pensiero greco (1962), Vernant mostra che la scomparsa del re-dio e delle caste sacerdotali della civiltà micenea favoriscono un processo di desacralizzazione e laicizzazione non soltanto della vita pubblica, ma anche del sapere: come i cittadini discutono e si confrontano per formulare le leggi migliori per la città, così i filosofi discutono e si confrontano per elaborare le ipotesi migliori sull’ordine del mondo e della natura. In entrambi i casi non si accetta passivamente una legge considerata divina o una verità data una volta per tutte, ma ci si impegna attivamente per giungere a una libera costruzione umana. Criticando la teoria del suo maestro Talete, Anassimandro non fa dunque che trasferire sul piano del sapere quella che era una prassi comune nell’agorá di Mileto. I Greci, insomma, imparano nello stesso tempo a diffidare del potere assoluto del sovrano e del sapere tradizionale dei miti, favorendo in tal modo la nascita di qualcosa di profondamente nuovo sia nella struttura della società sia nella ricerca della conoscenza: in questo senso – osserva Vernant – la ragione greca è «figlia della città».
La Porta dei Leoni presso l’acropoli di Micene (1250 a.C. circa).
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Da una gerarchia di dèi a un’unica legge cosmica Il legame tra la nascita del lógos e l’istituzione della pólis si manifesta anche nel metodo adottato dalla filosofia. Prima dell’avvento dell’indagine filosofica, il sapere era di tipo mitico-religioso, e le antiche teogonie e cosmogonie (cioè le narrazioni mitologiche sull’origine degli dèi e del cosmo) erano “miti della sovranità”, in cui si esaltava la potenza di un dio che, dopo un lungo periodo di scontri, trionfava su un caos di forze avversarie, stabilendo finalmente un ordine cosmico e sociale. Nel momento in cui le città greche scoprono di non aver bisogno di un re-dio quale garante dell’ordine politico, anche la rappresentazione umana della natura si libera dalla “sudditanza” verso un dio-re che impone l’ordine cosmico, e va quindi alla ricerca di spiegazioni razionali sgombre da divinità. Per il lógos il mondo non è più una gerarchia o una successione di dèi dominata da un dio-sovrano, ma è un cosmo sottomesso a un’unica legge che impone a tutte le sue parti lo stesso ordine. Gli uomini, il divino, i fenomeni naturali diventano così le parti di un universo omogeneo, i diversi aspetti di una sola e medesima potenza, che i primi filosofi (come vedremo nel corso dell’unità) indicano con la parola arché, la quale in greco significa sia “principio”, “origine”, sia “comando”, “governo”. A ben vedere, questa nuova immagine del cosmo naturale non è che la proiezione sulla natura della nuova rappresentazione che il cittadino greco ha del cosmo politico a cui appartiene: un ordine non gerarchico, ma di “uguali”. Emblematico è il caso della teoria di Anassimandro di cui abbiamo parlato all’inizio: la Terra è situata al centro di un universo perfettamente circolare e rimane immobile perché non è «sottomessa alla dominazione di alcunché», esattamente come, nella pólis, ciascun individuo si trova al centro di uno spazio politico comune, in cui non è subordinato a nessuno ma è sottomesso alla legge come tutti gli altri.
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA Roma MAGNA GRECIA
Abdera
Metaponto
Parmenide Elea Zenone
Democrito
GRECIA Asso
Crotone scuola pitagorica Delfi Empedocle
Agrigento
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Siracusa
L’ETÀ ARCAICA La nascita deL pensiero fiLosofico
TRACIA
Corinto Micene Sparta
ASIA MINORE
Anassagora
Clazomene
Tebe Atene Siro
Chio Teo Senofane Colofone Efeso Eraclito Samo Pitagora Mileto Melisso
Talete Anassimandro Anassimene Leucippo
UNO SGUARDO ALLA SEZIONE L’ETÀ ARCAICA – LA nAsCITA dEL pEnsIERo fILosofICo Mentre i filosofi della Ionia indagano il principio della natura, nella città di Elea nasce una scuola di pensiero che si concentra sull’essere, inteso come realtà unica, immutabile ed eterna.
UNITÀ 1
L’INDAGINE SULLA NATURA: I PENSATORI PRESOCRATICI Nella dinamica civiltà greca del VII secolo a.C., la nuova organizzazione socio-politica delle póleis favorisce l’affermarsi di un pensiero razionale e critico, capace di affrancarsi dalle narrazioni mitico-religiose della tradizione.
A ritornare allo studio della natura sono i cosiddetti “fisici pluralisti”, così chiamati perché individuano l’origine delle cose non in un principio unico, bensì in una molteplicità di elementi che, unendosi e separandosi, producono l’eterno divenire del mondo.
Primi filosofi sono considerati alcuni pensatori (ionici, pitagorici ed eraclitei) che si interrogano sul principio fisico originario da cui scaturiscono e a cui ciclicamente ritornano tutte le cose.
Talete
VIDEO La nascita della filosofia nella Grecia arcaica
(624/623-548/545)
Anassimandro
(611/610-547/546)
Anassimene
(586/585-528/525) Senofane
(580/565-475?)
Pitagora
(571/570-490 ca.)
Eraclito
(550-480 ca.)
Parmenide
(550-450 ca.) Anassagora
(500/496-428 ca.)
Zenone
(489 ca. - 431)
Melisso
(485/480-V sec.)
Empedocle
(484/481-424/421 ca.)
Leucippo
(480/475-V sec.)
Filolao
(470 ca.- tra fine V e inizio IV sec.)
Democrito
650 a.C.
600
550
500
450
400
(460/459360/350 ca.)
350 a.C.
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1 UNITÀ
L’INDAGINE SULLA NATURA: I PENSATORI PRESOCRATICI
L’unità presenta il pensiero dei cosiddetti “presocratici”, ovvero di un gruppo di filosofi vissuti perlopiù prima di Socrate, che si concentrarono soprattutto sullo studio della natura e della realtà in generale. CAPITOLO 1 La Grecia e la nascita della filosofia
La nascita della filosofia è collocabile intorno al VII-VI secolo a.C. in Grecia, o meglio in alcune colonie greche situate lungo le coste dell’Asia minore, dove la vivace circolazione di merci e persone favorisce il confronto delle idee.
CAPITOLO 2 La ricerca del principio di tutte le cose
A Mileto i cosiddetti “fisici ionici” (Talete, Anassimandro e Anassimene) si interrogano sul principio (arché) di tutte le cose. Di un’altra colonia ionica, Efeso, è nativo Eraclito (VI-V secolo a.C.), per il quale il principio unico che regge la vita dell’universo è il divenire. Al VI secolo a.C. risale anche la fondazione a Crotone della scuola pitagorica, che individua nel numero l’elemento di cui sono fatte tutte le cose.
CAPITOLO 3 L’indagine sull’essere
A Elea, Parmenide elabora un’originale teoria sull’essere (“ontologia”), individuando un legame indissolubile tra il pensiero, il linguaggio e la realtà. Allievi di Parmenide sono Zenone e Melisso, che difendono e reinterpretano le tesi del maestro.
CAPITOLO 4 I molteplici princìpi della realtà Mentre l’indagine eleatica sull’essere volge al termine, alcuni pensatori ritornano a interessarsi in maniera più diretta del mondo naturale. Sono i cosiddetti “fisici pluralisti” (Empedocle, Anassagora e Democrito), per i quali la realtà è costituita da molteplici princìpi (le quattro «radici», i «semi» e gli «atomi») che, unendosi e separandosi incessantemente, determinano il divenire del mondo.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi intitolata I presofisti - La ricerca del principio e sintetizzane per scritto il contenuto, elencando schematicamente i passaggi e le nozioni fondamentali. Annota anche gli eventuali dubbi o gli spunti di riflessione che il video ti ha suggerito.
IN CLASSE VIDEOLEZIONE I presofisti La ricerca del principio
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Sotto la guida dell’insegnante formate quattro gruppi e, all’interno di ciascuno di essi, confrontate il lavoro svolto a casa, discutendo i dubbi e gli spunti di riflessione che avete individuato.
Elaborate quindi insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - in che senso i primi filosofi rivolgono uno sguardo “nuovo” sul mondo? - che cos’è il “principio” ricercato dai primi filosofi? - in che cosa consiste la questione del divenire indagata dai pensatori ionici? sapreste concretizzarla con un esempio (sul modello di quello del fiore citato nel video)?
CAPITOLO 1 LA GRECIA E LA NASCITA DELLA FILOSOFIA
1. La filosofia: un “parto” del genio ellenico La tradizione storiografica concorda nel ritenere che il pensiero filosofico – e, per suo In che senso tramite, il pensiero occidentale nella sua interezza – sia nato in Grecia intorno al VII-VI la filosofia è nata in Grecia secolo a.C. Le ragioni di questa tesi sono molteplici e connesse tra loro, ma possiamo individuarne tre fondamentali. 1. Si è soliti muovere dagli antichi Greci perché si è figli di una cultura e di una tradizione speculativa che affondano le loro radici nel mondo ellenico. 2. I Greci risultano essere gli autori dei primi testi filosofici scritti della civiltà europea. 3. I Greci sono stati i primi a impegnarsi in quel tipo di indagine razionale e critica nella quale ancora oggi individuiamo i tratti salienti di ciò che chiamiamo filosofia . In altre parole, quando si sostiene che la filosofia è “nata” nell’Ellade del VII-VI secolo a.C., non si intende dire che prima di allora l’uomo non avesse elaborato alcuna interpretazione della realtà e di sé stesso, ossia una qualche “visione del mondo”, ma semplicemente che i Greci sono stati il primo popolo occidentale a usare esplicitamente il modo di pensare filosofico, ossia una modalità di pensiero fondata sull’uso libero della ragione e sul confronto delle idee. glossario p. 26 Ciò che si è detto lascia aperta un’interessante questione di fondo. Ammesso che i Greci Orientalisti e siano i padri del pensiero occidentale, la loro filosofia non potrebbe essere un derivato di occidentalisti forme di conoscenza già esistenti in Oriente? Questa è la tesi degli “orientalisti”, i quali, contrapponendosi agli “occidentalisti”, sostengono che i Greci non furono gli inventori della filosofia e della scienza, ma soltanto i divulgatori e gli intermediari di un sapere più antico, che trova le proprie matrici nelle civiltà pre-elleniche orientali.
Le ragioni degli orientalisti In primo luogo, gli orientalisti fanno notare che, prima dell’esordio del pensiero filosofico Le “filosofie” greco, o contemporaneamente a esso, esistevano in Estremo Oriente alcune tra le più dell’Estremo Oriente grandi esperienze filosofico-religiose dell’umanità: l’induismo e il buddismo in India, lo zoroastrismo nell’antica Persia, il taoismo e il confucianesimo in Cina. enciclosofia Ellade In epoca arcaica il nome “Ellade” (in greco Hellás) indicava la Tessaglia, una regione centrale della penisola Ellenica, affacciata sul mar Egeo e orbitante intorno alla città di Larissa, ma già a partire dal VI secolo a.C. fu usato per designare la Grecia in generale.
zoroastrismo Parola che deriva da “Zoroastro” (o Zarathustra), personaggio semi-leggendario al quale si fa risalire una concezione diffusasi nell’antica Persia (l’attuale Iran) intorno al VII secolo a.C., secondo cui il mondo sarebbe il risultato di un intreccio di positivo e di negativo, come un gigantesco campo di battaglia tra un dio del Bene e un dio del Male.
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Tuttavia, diversamente dalla filosofia greca degli inizi, che (come vedremo) ha quale principale oggetto di ricerca la natura e le sue forze, la speculazione orientale – e in particolare il buddismo – concepiva la conoscenza in funzione della salvezza, cioè della “liberazione” dell’uomo dalla realtà dubbia e ingannevole in cui è immerso, foriera di dolore e sofferenza. Una tale liberazione veniva fatta consistere nel ricongiungimento con una Realtà primordiale e assoluta, variamente intesa. La filosofia orientale era dunque concepita come una “via alla salvezza” e il filosofo come un “illuminato” o un “santo”. Le conoscenze In secondo luogo, gli orientalisti sottolineano come alle civiltà pre-greche si possano attritecniche e buire non soltanto rilevanti invenzioni tecniche nel campo della navigazione, dell’agriscientifiche orientali coltura, dell’ingegneria edilizia ecc., ma anche interessanti ricerche di medicina e chirur-
gia, astronomia e matematica. Sappiamo, ad esempio, che già nel XVII secolo gli Egizi avevano cominciato a studiare le malattie classificando i disturbi a seconda dei vari organi interessati, e pervenendo allo schema di diagnosi-prognosi-terapia che ancora oggi costituisce l’ossatura della medicina scientificamente intesa. Nell’astronomia, invece, si erano distinti soprattutto i Caldei (popolazione aramaica stanziatasi intorno all’XI secolo a.C. nella zona meridionale della Mesopotamia, affacciata sul Golfo Persico), i quali già prima del 2000 a.C. avevano iniziato a registrare e ad esplorare con attenzione i fenomeni celesti, studiando soprattutto le eclissi, le forme delle costellazioni, lo zodiaco, i congiungimenti astrali ecc.
I contatti Accanto alla mirabile fioritura filosofico-scientifica delle antiche civiltà orientali, gli orientra l’Ellade talisti ricordano che tra l’Ellade e l’Oriente esistevano intensi rapporti commerciali e cule l’Oriente
turali, e citano come non casuale il fatto che le prime sedi della cultura greca siano state le colonie dell’Asia Minore e delle isole dell’Egeo, dove per motivi geografici, economici e politici era facile venire a contatto con i popoli dell’Oriente mesopotamico, assimilandone idee e costumi. Ad ampliare queste relazioni contribuiva l’attività marinara dei Greci, che toccava tutte quelle parti del bacino mediterraneo (come l’Egitto) che erano sedi di antiche e prestigiose civiltà.
Le ragioni degli occidentalisti Un’ipotesi Alle ragioni degli orientalisti, gli occidentalisti hanno risposto con una fitta serie di argonon suffragata menti, osservando innanzitutto che la tesi di una derivazione orientale della filosofia greca dalle fonti
non si trova in alcun autore dell’età classica. Sebbene si abbiano accenni alle conoscenze aritmetiche, geometriche e astronomiche degli Egizi e dei Caldei, mancano note sulla tradizione filosofica orientale e risulta assente l’idea di una sua influenza su quella greca.
I caratteri Inoltre, anche se si presume la derivazione orientale di qualche dottrina della Grecia antispecifici della ca, ciò non implica l’idea dell’origine orientale della filosofia greca in blocco. Anzi, l’origifilosofia greca
nalità del filosofare ellenico emerge proprio in antitesi alla cultura dell’Oriente. 1. In primo luogo, se la sapienza orientale è di tipo tradizionalistico ed elitario, poiché è privilegio e patrimonio della casta sacerdotale, e dunque ancorata a una tradizione ritenuta sacra e immodificabile, la filosofia greca si presenta invece come un atto di libertà nei confronti della tradizione, del costume e di qualunque credenza accettata passivamente. Ogni uomo, secondo i Greci, può filosofare, in quanto l’essere umano è un “animale ragionevole” e la sua “ragionevolezza” consiste nella possibilità di cercare in modo autonomo la verità (ovviamente qui si parla dei cittadini liberi, poiché agli schiavi la società antica non riconosceva dignità di persone).
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Unità 1 L’IndagInE sULLa natUra: I pEnsatOrI prEsOcratIcI Capitolo 1 la Grecia e la nascita della filosofia
2. Inoltre, mentre il sapere orientale pre-ellenico è immerso in un’atmosfera di tipo re-
ligioso ed è intriso di rappresentazioni fantastiche e mitiche, il filosofare greco tende fin dall’inizio a strutturarsi come un’indagine fondata unicamente sulla forza della ragione e dell’argomentazione, tanto che, soprattutto all’inizio, il suo termine polemico è costituito proprio dall’opinione corrente, dai miti della tradizione e dalla religione. Intesa in questo senso, ossia come indagine razionale libera e critica, la filosofia appare veramente come un prodotto, anzi come il grande “parto”, del genio ellenico. Per quanto riguarda la scienza in senso stretto, oggi si è d’accordo nell’escludere l’idea di I caratteri una nascita “miracolistica” delle varie discipline presso i Greci e nell’ammettere l’esistenza specifici della scienza greca di un evidente legame tra scienza orientale e scienza greca. Appare, infatti, logicamente e storicamente probabile che la civiltà ellenica, affacciatasi più tardi sulla scena della storia, si sia avvalsa delle cognizioni dei suoi vicini più “anziani”. Gli occidentalisti, tuttavia, mettono in luce anche la profonda diversità di indirizzi e di metodi che separa la scienza dei Greci da quella degli altri popoli. In particolare, il tratto differenziale specifico della scienza greca tende a essere individuato nel suo carattere teorico. Mentre gli Egizi e i popoli della Mesopotamia sviluppano le scienze soprattutto per scopi pratici, i Greci tendono a coltivarle principalmente per il desiderio di conoscere e di comprendere il “perché” delle cose. Ad esempio, la leggendaria competenza astronomica dei Babilonesi era prevalentemente di tipo astrologico-oroscopistico e aveva come obiettivo la previsione di eventuali sciagure per Babilonia o per i suoi nemici: per queste ragioni essa era incline a prendere atto dei moti celesti o delle eclissi senza chiedersi la ragione del loro manifestarsi. I primi filosofi greci, invece, si chiesero il perché dei movimenti astrali, la causa delle eclissi, il motivo per cui i corpi celesti restano sospesi nel vuoto ecc. Alla semplice descrizione degli oggetti celesti e dei loro stadi, o all’interpretazione religiosa dei medesimi, essi sostituirono la ricerca di una spiegazione naturale e razionale dei diversi fenomeni.
CONCETTI A CONFRONTO
IL SAPERE in ORIENTE
in GRECIA
si concentra soprattutto sul problema della salvezza dell’uomo
si concentra soprattutto sul problema della natura e dell’essere in generale
è patrimonio esclusivo della casta sacerdotale
è alla portata di tutti gli uomini, in quanto esseri dotati di ragione
è di tipo tradizionalistico, legato a conoscenze ritenute sacre e inviolabili
è di tipo anti-tradizionalistico, legato a un’indagine libera e critica
è intriso di rappresentazioni mitologiche e fantastiche
si basa sulla sola forza della ragione, affrancandosi gradualmente dal mito
ha scopi eminentemente pratici
ha scopi eminentemente teorici
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Analogamente, le celebrate conoscenze matematiche degli Egizi presentavano uno spiccato carattere pratico, pienamente confermato dalla tesi dello storico greco Erodoto (484-425 a.C.) secondo cui la geometria sarebbe nata in Egitto sotto forma di agrimensura, cioè per la necessità di misurare la terra e di spartirla tra i suoi proprietari dopo le periodiche inondazioni del Nilo. Le stesse tecniche matematiche egizie, nonostante il loro carattere avanzato, erano prive di quelle tipiche conquiste greche che sono la formula e la legge, vale a dire dell’elaborazione di regole astratte e generali a cui poter ricondurre gli illimitati casi particolari possibili. Sembra dunque di poter dire che i Greci non si sono limitati a “ricevere” dagli altri popoli nozioni astronomiche, matematiche, mediche ecc., ma hanno dato a tale materiale una forma di scientificità che agli altri era perlopiù sconosciuta. conclusione Quanto si è detto spiega perché, al di là del dibattito tra orientalisti e occidentalisti, e no-
nostante l’interesse per il sapere pre-ellenico e per le grandi filosofie dell’Estremo Oriente, gli storici continuino a ripetere che, così come sono state intese e praticate in Occidente, «la filosofia e la scienza sono nate in Grecia» (Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970, p. 26).
2. Il contesto storico-culturale in cui nasce la filosofia Appurata l’originalità della filosofia e della scienza elleniche, possiamo domandarci: quali sono i fattori che spiegano il sorgere del pensiero greco? A questo interrogativo non si può certo rispondere adducendo una serie di “cause” che avrebbero inevitabilmente prodotto la filosofia, ma soltanto chiarendo alcune delle condizioni politiche, sociali, economiche e culturali che ne hanno favorito e permesso il germoglio e la fioritura. Tali condizioni si assommano nel tipo di civiltà creato dai Greci, che si presentava come del tutto originale rispetto alle culture del vicino e del lontano Oriente.
L’originalità della civiltà greca autorità e Le civiltà pre-greche erano, nella loro quasi totalità, monarchie stataliste e accentratrici, tradizione con potenti caste sacerdotali e guerriere che detenevano le chiavi del potere e del sapere, nelle civiltà pre-greche e che rappresentavano il basilare strumento di dominio di sovrani assoluti venerati come
semi-divinità. Esse presentavano dunque un carattere fondamentalmente autoritario e tradizionalista, e quindi statico, poiché tendevano a sottoporre la loro cultura al minor numero di mutazioni possibile, presentando come sacri i modi di vivere e di pensare dominanti. In questo tipo di società, lo sbocciare di una libera indagine critica e razionale, qual è quella filosofica, avrebbe ovviamente trovato grossi ostacoli.
Il cammino In Grecia la situazione appare diversa: delle póleis innanzitutto, alle antiche monarchie patriarcali erano perlopiù succeduti, fin dai tempi verso la omerici, governi e repubbliche di tipo aristocratico; democrazia
in secondo luogo, al posto di uno Stato accentratore si era costituita una variopinta e frazionata costellazione di città-Stato, o póleis;
enciclosofia póleis Il termine greco póleis (al singolare pólis) significa “città” e viene solitamente tradotto con “città-Stato”, per indicare le particolari forme di organizzazione politica nate in Grecia fin dall’VIII secolo a.C., nelle quali i centri urbani più importanti, unitamente alle campagne e ai villaggi circostanti, costituivano piccoli Stati indipendenti.
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L’acropoli di Corinto, una delle principali póleis dell’età arcaica.
in terzo luogo, le aristocrazie dominanti non erano assimilabili alle caste guerriere o sacerdotali dell’Oriente, poiché quella greca era una civiltà in cui i sacerdoti, nonostante la perdurante importanza della religione, avevano poco potere e scarsa rilevanza. Per tutte queste ragioni, lo sviluppo delle póleis greche non si arrestò, di norma, al predominio dell’oligarchia aristocratica, ma proseguì, sia pure attraverso evoluzioni complesse, verso forme di organizzazione democratica dello Stato, che furono le prime nella storia del mondo. A questa ulteriore e decisiva evoluzione della situazione politica greca – che nei suoi tratti più vistosi avverrà tra il V e il IV secolo a.C. – contribuisce probabilmente un nutrito ceto plutocratico, cioè una classe danarosa (da plútos, “ricchezza”) formatasi attraverso i commerci marittimi, i cui beni erano prevalentemente di tipo mobiliare (merci, navi, servi ecc.) e non agrario (come nel caso della vecchia aristocrazia). Questo ceto, costituito sostanzialmente dalle borghesie commerciali e dall’artigianato cittadino, e in cui talvolta confluiscono esponenti di una nuova aristocrazia più vicina alla mentalità imprenditoriale, finisce per ingaggiare una lotta senza quartiere contro il monopolio della vecchia aristocrazia a base agraria, favorendo il progressivo affermarsi del principio dell’isonomìa e la trasformazione della pólis in una comunità di uomini liberi che decidono autonomamente, mediante pubblici dibattiti, su questioni di interesse generale.
La spinta del ceto commerciante e artigiano
Proprio la discussione e lo scontro critico fra le varie opinioni presuppongono, e nello stesso tempo forgiano, una mentalità che non si accontenta più dell’ossequio passivo e del rispetto cieco per la tradizione e per le sue forme culturali (mito, religione, poesia ecc.), ma che tende a ricercare motivazioni intellettualmente convincenti per la propria condotta e per le proprie idee, distinguendo tra ciò che appare o non appare “ragionevole”. In un tale dinamico ambiente socio-politico, caratterizzato dal cambiamento e dalla messa in discussione dei modelli cristallizzati del passato, la filosofia ha modo di emergere e di rafforzarsi come mai prima, contribuendo essa stessa allo svecchiamento e alla laicizzazione della cultura.
Un atteggiamento critico e dinamico
Il dinamismo della società greca La connessione che abbiamo evidenziato tra pensiero filosofico e società dinamica ci permette anche di capire, come controprova, perché la filosofia si sia sviluppata ad Atene e non, ad esempio, in una società come quella spartana, e perché la filosofia greca sia fiorita nelle colonie, prima ancora che nella madrepatria. Per quanto riguarda il primo punto, una società militarista e autoritaria come quella spar- La vivacità tana, caratterizzata da una ferrea staticità conservatrice, non era certo l’ambiente ideale per delle colonie ioniche la produzione della filosofia. Del resto, almeno in un primo tempo, non lo era neppure Atene, che presentava ancora il volto di un’antica città chiusa nei propri atavici modi di vivere e di pensare, e che appariva ben lontana da quella plastica capacità di rinnovamento che l’avrebbe caratterizzata in seguito. Le colonie ioniche dell’Asia Minore, che avevano raggiunto per prime un certo benessere e avevano dato luogo a una società “mista”, fondata non soltanto sul lavoro della terra ma anche sui traffici commerciali, presentavano invece condizioni economiche, sociali e enciclosofia isonomìa Il principio, nato nell’antica Atene democratica, secondo cui tutti i cittadini, indipendentemente dal ceto di appartenenza, devono essere considerati uguali di fronte alla legge (dal greco ísos, “uguale”, e nómos, “legge”).
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politiche atte a favorire il sorgere di una cultura e di una mentalità più elastiche, propizie alla diffusione della filosofia. Nelle città della Ionia, cioè, si potevano rintracciare quella dinamica circolazione di merci, idee ed esperienze e quelle libere istituzioni che concorsero a determinare, prima ancora che in madrepatria, il tipo di società aperta che abbiamo descritto come specifica della Grecia in rapporto agli altri popoli e come “terreno” atto a stimolare il germoglio della razionalità filosofica. Il successivo Soltanto dopo le guerre persiane, quando ebbe conquistato il potere politico e cominciafiorire di atene to a svecchiare le proprie strutture sociali e culturali, dando luogo a forme istituzionali de-
mocratiche, Atene divenne il cuore della vita intellettuale dell’Ellade, assurgendo contemporaneamente a capitale della libertà greca e della filosofia.
3. politica, classi sociali e religione nella vita della pólis Ciò che si è detto sul genere di civiltà creato dai Greci e sulle strutture della pólis dev’essere integrato da alcune precisazioni, senza le quali ci si potrebbe formare una visione incompleta e distorta della società ellenica, e non si comprenderebbero alcuni caratteri e sviluppi della sua cultura e della sua filosofia. La “politicità” Innanzitutto occorre notare che, mentre un cittadino di oggi vive tutta una serie di espedei cittadini rienze private (familiari, ricreative, religiose…) che hanno poco a che fare con lo Stato, nelgreci
la Grecia antica ogni cosa era legata alla vita della città. Ad esempio, la religione era un affare di Stato e altrettanto valeva per gli spettacoli teatrali e sportivi. L’esistenza del cittadino greco era pertanto fortemente plasmata dalla pólis alla quale apparteneva. Da una tale coincidenza quasi perfetta tra la sfera privata e quella pubblica deriva quell’interesse verso la politica che, come vedremo, animò gran parte delle riflessioni dei primi filosofi.
La politica In secondo luogo, abbiamo già accennato a come la democraticità delle città-Stato greche come trovasse un forte limite nella grande quantità di schiavi e di cittadini stranieri (i “metèci”, privilegio dei cittadini liberi in greco métoikoi) che, pur vivendo entro i confini della pólis, erano privi di diritti politici,
condizione che peraltro caratterizzava anche le donne. I cittadini liberi che potevano partecipare alla gestione democratica della società finivano dunque per essere, di fatto, una minoranza, venendo a costituire una specie di aristocrazia rispetto alla popolazione restante. In altre parole, il dibattito politico era riservato a una fascia ristretta ed elitaria della società, e le mirabili conquiste della filosofia e della scienza rimanevano un privilegio di pochi, anche se, rispetto a quanto avveniva nelle civiltà orientali, interessavano senz’altro una cerchia più ampia di persone.
Le due “anime” Nelle città greche vi era inoltre una tendenziale contrapposizione, ora sotterranea ora della politica aperta, tra due componenti sociali: l’aristocrazia, portatrice di una mentalità più consere della filosofia
vatrice e legata al passato, e il popolo (il démos), formato da cittadini benestanti e portatore
enciclosofia guerre persiane Dette anche “guerre greco-persiane”, la serie di conflitti che tra il 499 e il 479 a.C. videro protagoniste le póleis greche alleate contro i tentativi di espansione della potenza persiana.
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di una mentalità più progressista e aperta al nuovo. Di conseguenza, anche all’interno della filosofia greca è possibile distinguere un filone più legato al démos e al suo atteggiamento progressista (rappresentato, come vedremo, dai primi studiosi della natura) e un filone più legato all’aristocrazia e al suo atteggiamento conservatore (legato a personalità come quelle di Pitagora, Eraclito, Parmenide e Platone). Queste due linee della filosofia greca, più marcate all’inizio, con l’andar del tempo finiranno per contaminarsi a vicenda, perdendo progressivamente la loro primitiva fisionomia e confluendo in filosofie più complesse (ad esempio quella di Aristotele), che ne sintetizzeranno le rispettive istanze. Infine è bene ricordare che la città-Stato greca non era una realtà solamente politica, co- La religiosità me gli Stati moderni, ma anche un’entità religiosa. Infatti, sebbene i sacerdoti non rive- della pólis stissero una grandissima importanza, la religione giocava all’interno della pólis un ruolo basilare. Ogni città si gloriava di un mitico fondatore di origine divina o semi-divina, e possedeva un proprio nume particolare che considerava suo protettore. Inizialmente si riteneva che avessero origine divina anche le leggi, che soltanto più tardi furono riconosciute come opere umane. Nelle città greche, tuttavia, questo aspetto non assunse mai proporzioni tali da bloccare lo sviluppo della libera ricerca filosofico-scientifica.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega in che senso si può affermare che la filosofia è nata in Grecia. 2. Illustra i caratteri specifici del pensiero filosofico greco, confrontandolo con il sapere filosofico-religioso orientale e con le conoscenze scientifiche pre-elleniche. 3. Elenca e commenta i fattori storico-politici che favorirono la nascita della filosofia in Grecia.
4. I primordi e il retroterra culturale della filosofia greca Prima che la filosofia prendesse esplicitamente avvio, la cultura greca aveva già abbozzato alcune riflessioni generali sull’uomo e sulla realtà. Ciò era avvenuto soprattutto nelle cosmologie mitiche, nelle dottrine religiose dette “misteri”, nelle sentenze morali attribuite ai “sette savi” e nella riflessione etico-politica dei poeti. È proprio in queste manifestazioni culturali, molto diverse l’una dall’altra, che si possono rintracciare i primordi del pensiero filosofico.
Le cosmologie mitiche Le narrazioni mitologiche greche avevano per protagonisti uomini, divinità e personaggi fantastici (spesso dalle sembianze in parte umane e in parte animali) le cui complesse vicende, perlopiù collocate in una dimensione temporale remota e primordiale, fornivano una spiegazione (seppure embrionale o intuitiva) dei fenomeni naturali, delle origini dell’universo, del ruolo degli dèi nella vita degli uomini, di ciò che è bene e di ciò che è male. I miti che raccontavano l’origine dell’universo sono detti propriamente “cosmogonie” (dai sostantivi kósmos, “cosmo”, e gónos, “nascita”), mentre quelli che narravano la nascita degli dèi e descrivevano il loro campo di azione sono chiamati “teogonie” (dalla parola theós, “dio”).
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La Teogonia Il più antico esempio scritto di cosmologia mitica greca si deve a Esiodo, poeta vissuto in di Esiodo Beozia (antica regione della Grecia centrale) tra l’VIII e il VII secolo a.C. e autore di una
Teogonia in cui confluirono certamente antiche tradizioni mitologiche. La Teogonia esiodea è un poema di circa 1000 versi, forse incompiuto, in cui si narra l’origine del mondo (che emerge dal caos) e la sua storia attraverso la genealogia degli dèi che si succedettero nel governarlo (Urano, Crono e Zeus). Secondo la testimonianza di Aristotele (filosofo vissuto circa tre secoli più tardi), Esiodo fu il primo a cercare il “principio” delle cose, cioè l’elemento o il “fondo” da cui esse scaturirono, nonché la legge che le governa. Nel suo poema, infatti, si legge:
‘
primissimo fu il caos, poi fu la terra dall’ampio seno […] e l’amore che eccelle fra gli dèi (Teogonia, vv. 166 e ss.) immortali.
Di natura filosofica appare qui il problema dell’origine delle cose e della forza che le produsse. Ma se il problema è filosofico, la risposta è di carattere mitico. Il caos (descritto come «abisso sbadigliante»), la terra, l’amore ecc. sono infatti personificati in entità o divinità mitologiche.
I misteri e l’orfismo Forme di culto Intrise della tradizione mitologica arcaica e testimonianze anch’esse dell’esigenza “filosofica” per iniziati che animava i Greci sono le religioni misteriche, o “misteri”, un insieme di credenze e pra-
tiche rituali diffusesi in Grecia a cominciare dal VI secolo a.C. e spesso legate alla celebrazione del ritmo della natura, con il suo ciclico alternarsi delle stagioni e della vita e della morte. Il nome “misteri” (dal greco mystérion, “cosa chiusa”, “cosa segreta”) deriva dal fatto che si trattava di culti destinati a una ristretta cerchia di “iniziati”, cioè di persone gradualmente introdotte a una sapienza considerata sacra e riservata a pochi. I misteri principali furono il culto di Diòniso, proveniente dalla Tracia (regione della penisola Balcanica attualmente divisa tra la Grecia e la Turchia), il culto di Demètra, i cui riti più famosi erano quelli che si celebravano a Eleusi (città dell’Attica, regione greca situata nell’omonima penisola) e, soprattutto, l’orfismo.
L’orfismo Il nome “orfismo” deriva da Orfèo, leggendario poeta tracio a cui la tradizione attribuiva,
oltre che eccezionali doti di cantore, anche una discesa nel mondo degli inferi, durante la quale gli sarebbe stato svelato il destino dell’anima umana. Anche gli orfici erano dèditi al culto di Dioniso: essi vivevano in vere e proprie comunità religiose, ai cui membri era riservata la conoscenza di quanto rivelato dal fondatore del movimento.
enciclosofia Diòniso Dio del vino e dell’esaltazione orgiastica, figlio di Zeus e di Semele, secondo il mito venne cresciuto dalle Ninfe su un monte boscoso e ricco di sorgenti; dopo avere scoperto e imparato a coltivare la vite, ne donò i frutti agli uomini.
Demètra Sorella di Zeus, Demetra era considerata la dea protettrice dell’agricoltura, poiché aveva donato agli uomini il grano, insegnando loro a coltivarlo. Orfèo Figura leggendaria di poeta e cantore, figlio di Eagro, re della Tracia, e di una delle Muse (probabilmente Calliope); secondo la tradizione sarebbe sceso nell’Ade per tentare di riportare in vita la sua amata sposa Euridice.
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Il dio Dioniso raffigurato su un’anfora attribuita al Pittore di Lisippide (510 a.C. circa), Monaco di Baviera, Staatliche Antikensammlung.
L’importanza dell’orfismo per il successivo sviluppo della filosofia è connessa soprattutto all’ antropologia (letteralmente “discorso sull’uomo”, dal greco ánthropos, “uomo”, e lógos, “discorso”) di cui esso si fece portatore, e all’idea dell’anima come sostanza divina. Gli orfici, infatti, furono i primi a pensare l’uomo come dualità di anima e corpo: la prima concepita come principio divino e immortale, vera essenza dell’essere umano; il secondo come involucro mortale di cui l’anima poteva liberarsi completamente soltanto nel momento della morte, quando finalmente faceva ritorno al mondo divino ed eterno a cui originariamente apparteneva. glossario p. 26 Lo scopo dei riti celebrati dalle comunità orfiche era appunto quello di purificare l’anima degli iniziati dal peso e dalla negatività della vita corporea, in modo da sottrarla alla “ruota” delle nascite, cioè alla trasmigrazione nel corpo di altri esseri viventi (dal verbo latino trans-migrare, letteralmente “passare oltre”, “passare al di là”). In questo senso l’orfismo attuò un vero e proprio capovolgimento della prospettiva antropologica tradizionale: se nella concezione greca precedente, testimoniata soprattutto dai poemi omerici, l’essere umano trovava la sua manifestazione più propria nella fisicità e nella vitalità del corpo, al contrario per gli orfici il corpo non era che la prigione dell’anima, ovvero l’involucro materiale di una “scintilla” divina che preesisteva e sopravviveva al corpo, e che era necessario liberare dalle catene della materia.
L’anima e il corpo nella dottrina orfica
FILOSOFIA E ARTE La Tomba del Tuffatore La “scoperta” dell’aldilà tra arte e filosofia p. 268
In sostanza, all’orfismo si deve l’idea rivoluzionaria secondo cui la realtà è divisa in due L’insegnamento regioni: una inferiore, materiale e mortale; l’altra superiore, spirituale ed eterna, alla “filosofico” dell’orfismo quale non appartengono soltanto gli dèi ma anche quella parte dell’essere umano chiamata “anima”. In questa prospettiva, la vita migliore per l’uomo sarà quindi quella di chi si dedica alla cura dell’anima. L’insegnamento “filosofico” fondamentale dell’orfismo consiste proprio nella concezione dell’attività del pensiero come cammino di vita, cioè come una ricerca che conduce l’uomo alla vita autentica.
Le sentenze morali dei sette savi Accanto al primo balenare della filosofia nei miti cosmogonici e nelle religioni misteriche, troviamo un abbozzo di riflessione morale nelle massime dei “sette savi”. Con questa espressione ci si riferisce a sette figure di “sapienti” vissuti tra il VII e il VI secolo a.C., ai quali la tradizione ha attribuito una serie di brevi sentenze, o “motti”. I sette savi sono variamente enumerati dagli scrittori antichi, ma quattro di essi compaiono in L’elenco dei tutte le liste: Talete di Mileto, Biante di Priene, Pìttaco di Mitilene e Solone, il famoso legisla- sette sapienti tore ateniese ( p. 22). Il primo a elencare tutti i sette sapienti fu il filosofo Platone ( unità 3), che a questi quattro aggiunse Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e Chilone di Sparta. A Talete si attribuisce il motto «Conosci te stesso» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 40), che figurava anche in un’iscrizione del tempio di Apollo a Delfi. A Biante la massima «I più sono malvagi» (ibidem, I, 88). A Pìttaco il motto «Sappi cogliere l’opportunità» (ibidem, I, 79). A Solone le sentenze «Prendi a cuore le cose importanti» e «Nulla di troppo» (ibidem, I, 60; I, 63). A Cleobulo il motto «Ottima è la misura» (ibidem, I, 93). A Misone la massima «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole» (ibidem, I, 108). A Chilone i motti «Bada a te stesso» e «Non desiderare l’impossibile» (ibidem, I, 70). Come si vede, questi motti sono tutti consigli di natura pratica, o morale, e dimostrano che la prima riflessione filosofica si rivolse in Grecia alla concretezza della vita, più che alla contemplazione teorica. Essi preludono a una vera e propria indagine “filosofica” sulla condotta dell’uomo nel mondo. E forse non è un caso che il primo dei sette savi, Talete, sia anche considerato il primo vero rappresentante della filosofia greca ( cap. 2, p. 33).
Un preludio alla riflessione sulla condotta dell’uomo
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La riflessione etico-politica dei poeti Come abbiamo anticipato, anche la poesia contribuì in modo determinante a creare il clima nel quale poté nascere e fiorire la filosofia greca. Nella riflessione morale dei poeti, infatti, erano già presenti quei concetti fondamentali che dovevano servire ai filosofi per l’interpretazione del mondo. Legge Tra le grandi produzioni poetiche dell’antica Grecia spiccano i poemi omerici (l’Iliade e e giustizia l’Odissea), nei quali si trova per la prima volta il concetto di una legge che dà unità al monin Omero e in Esiodo do umano. L’Odissea, in particolare, è tutta dominata dalla fede in una giustizia divina
(ovvero in una legge di cui gli dèi sono custodi e garanti) che determina nelle vicende umane un ordine provvidenziale per il quale il giusto trionfa e l’ingiusto viene punito. Esiodo personifica questa stessa legge nella dea Díke (Giustizia), la quale è figlia di Zeus (la divinità suprema tra gli dèi greci) e siede accanto al padre vigilando affinché siano puniti gli uomini che commettono ingiustizia. Quest’ultima è descritta soprattutto come tracotanza (in greco hýbris), cioè come la presunzione di chi, in preda alla sfrenatezza delle passioni e, in generale, a forze irrazionali, sfida gli dèi ignorandone i comandi.
giustizia Anche Solone (VII-VI secolo a.C.) – che fu non soltanto un grande uomo politico, ma ane misura che un raffinato poeta – canta nei suoi versi la giustizia, facendone il fondamento della viin solone
ta associata. Egli afferma con grande energia l’infallibilità della punizione che colpisce colui che infrange le leggi inviolabili della giustizia, perché anche quando il colpevole riesca a sottrarvisi, questa ricade inevitabilmente sui suoi discendenti. L’apparente disordine delle vicende umane, per il quale il destino avverso sembra colpire senza ragione anche gli innocenti, trova dunque la propria giustificazione nella necessità di restringere entro giusti limiti i desideri smodati, allontanando l’uomo da qualsiasi eccesso. Sicché la legge di giustizia è anche norma di misura, secondo una convinzione assai radicata presso i Greci, che Solone esprime in un famoso frammento:
‘
La cosa più difficile di tutte è cogliere l’invisibile misura della saggezza, la quale sola reca in (frammento 16) sé i limiti di tutte le cose.
dalla vita Prima che la filosofia vera e propria cercasse una legge unitaria sotto la molteplicità diumana spersa dei fenomeni naturali, la poesia greca aveva dunque scoperto una legge unitaria alla natura
sotto le vicende apparentemente disordinate e mutevoli della vita umana associata. Nel prossimo capitolo vedremo appunto come la speculazione dei primi filosofi non abbia fatto che cercare nel mondo della natura quello stesso ordine che i poeti avevano rintracciato nel mondo degli uomini.
)
Per l’esposizione orale
• Elenca le diverse forme della cultura greca arcaica nelle quali si possono rintracciare le radici della filosofia e illustrane i principali temi di riflessione.
enciclosofia Solone Nato ad Atene tra il 640 e il 630 a.C. e morto intorno al 560, Solone era di famiglia nobile. Manifestò doti poetiche fin da giovane, quando – stando alla tradizione – compose un’elegia per spronare gli ateniesi a riconquistare l’isola di Salamina, caduta sotto il controllo di Megara. Il suo nome è però legato soprattutto alla riforma della legislazione ateniese: eletto arconte nel 594 a.C. e incaricato di rinnovare il rigido codice draconiano allora vigente, egli eliminò la schiavitù per debiti e riorganizzò la società e l’accesso alle cariche pubbliche non più su criteri di nascita (che privilegiavano le sole classi nobiliari) bensì di censo. Fu un passo importante verso la democrazia, perché in linea di principio ogni cittadino poteva migliorare la propria condizione economica, e dunque ampliare la propria partecipazione al governo della città.
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Unità 1 L’IndagInE sULLa natUra: I pEnsatOrI prEsOcratIcI Capitolo 1 la Grecia e la nascita della filosofia
5. Le diverse concezioni della filosofia presso i greci In Grecia la parola “filosofia” comparve relativamente tardi. Secondo una tradizione mol- La filosofia to nota, il primo a usarla con un significato specifico fu Pitagora di Samo, vissuto tra il VI come contemplazione e il V secolo a.C. e fondatore di una comunità filosofica a Crotone ( cap. 2, p. 37). Egli paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia (antica città del Peloponneso nord-occidentale), dove alcuni convenivano per affari, altri per partecipare alle gare sportive, altri ancora per divertirsi e, infine, alcuni soltanto per vedere ciò che avveniva. A questi ultimi, secondo Pitagora, sono paragonabili i “filosofi”, i quali si dedicano a una contemplazione disinteressata del mondo e della vita, ben diversa dalle svariate attività in cui si affanna la maggior parte degli esseri umani. In Grecia, però, la filosofia ebbe anche il valore di una saggezza che deve guidare la vita concreta. Proprio a questo tipo di sapere pratico si erano ispirati i sette savi, i quali erano chiamati “sapienti” (in greco sophistéis, “sofisti”) non tanto perché dediti a un’attività contemplativa (come i filosofi secondo Pitagora) quanto, più genericamente, perché impegnati in una ricerca disinteressata, non rivolta a vantaggi personali. Il già citato Erodoto parla di “filosofia” quando fa dire da re Creso a Solone: «Ho udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per vedere molti paesi» (Storie, II, 20); e così lo storico ateniese Tucidide (460-395 a.C.), quando fa dire a Pericle di sé e degli ateniesi: «Noi amiamo il bello con semplicità e filosofiamo senza timidezza» (Guerra del Peloponneso, II, 40). Questo “filosofare senza timidezza” esprime quella libertà della ricerca razionale in cui la filosofia consiste.
La filosofia come saggezza e come ricerca libera
Più tardi la parola “filosofia” ha assunto due significati principali. Il primo e più generale La filosofia è quello (già chiarito) di una ricerca autonoma e razionale, a prescindere dal campo speci- come sapere dei fondamenti fico in cui si svolge: in questo senso, tutte le scienze fanno parte della filosofia. Il secondo, più specifico, è invece quello di una particolare ricerca che ha come oggetto di studio ciò che in qualche modo è fondamentale, o basilare, in relazione alla realtà, alla conoscenza e al comportamento. In questo secondo senso la ricerca filosofica antica si è articolata in tre rami principali: la metafisica , cioè la dottrina delle cause ultime o supreme delle cose; la gnoseologia e la logica , che studiano l’origine e la validità ultima delle nozioni e dei ragionamenti; l’ etica e la filosofia politica , che indagano i motivi e gli scopi ultimi dell’azione individuale e sociale. In sintesi, la filosofia presso i Greci assume il carattere di una ricerca radicale sui fondamenti dell’essere, del conoscere e dell’agire ed è perciò considerata la “regina” del sapere. glossario pp. 26-27
enciclosofia Creso Vissuto nel VI secolo a.C., Creso fu l’ultimo re della Lidia (regione dell’Asia Minore occidentale, situata a est della Ionia), prima che la regione fosse conquistata dall’esercito persiano di Ciro il Grande nel 546 a.C.
Pericle Nato intorno al 495 a.C., Pericle fu un importante militare e uomo politico ateniese. Grazie alla sua lungimiranza, Atene visse il suo periodo più florido: la cosiddetta “età di Pericle”, compresa fra le guerre persiane e la guerra del Peloponneso ( p. 116).
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6. Le scuole filosofiche greche Una vita Fin dall’inizio lo studio della filosofia in Grecia assunse la forma di una ricerca associata, comune dal momento che questo tipo di sapere era trasmesso e sviluppato nelle scuole fondate dai
principali pensatori. Le prime scuole filosofiche, tuttavia, non erano paragonabili ai centri di studio o alle università attuali. Almeno fino ad Aristotele (IV secolo a.C.), una scuola non riuniva i suoi allievi soltanto per le esigenze di un insegnamento regolare: gli scolari, piuttosto, erano detti “compagni” in quanto si radunavano a vivere una “vita comune” e stabilivano tra loro, oltre che una solidarietà di pensiero, anche una comunanza di costumi e abitudini, in uno scambio continuo di dubbi, difficoltà e spunti per la ricerca.
Una ricerca Fatta eccezione per la scuola pitagorica (alla quale abbiamo già accennato e di cui parlecomune remo più diffusamente nel prossimo capitolo), tutte le scuole fondate dalle grandi perso-
ESERCIZI
nalità della filosofia greca furono centri di ricerca vivaci e fecondi, nei quali l’opera delle figure minori venne a sommarsi a quella dei maestri, contribuendo così a costituire e ampliare il patrimonio dottrinale comune. Questo carattere comunitario della filosofia greca non è accidentale. La ricerca filosofica non chiudeva, secondo i Greci, l’individuo in sé stesso, ma anzi esigeva una concordanza di sforzi e una comunicazione incessante tra coloro che facevano del sapere lo scopo fondamentale della propria vita, determinando tra loro una solidarietà salda ed effettiva.
7. I periodi della filosofia greca Seppure con un certo margine di approssimazione, nella filosofia greca è possibile distinguere un certo numero di periodi, ognuno determinato dal problema intorno al quale viene di volta in volta a gravitare la ricerca: cosmologico, antropologico, ontologico, etico, religioso. I periodi e Il periodo cosmologico, che comprende le scuole presocratiche (a eccezione dei sofisti), i problemi è dominato dal problema di rintracciare l’unità che garantisce l’ordine del mondo e la possibilità della conoscenza umana. Il periodo antropologico, che comprende i sofisti e Socrate, è dominato dal problema dell’uomo. Il periodo ontologico, che comprende Platone e Aristotele, è dominato dal problema dell’essere (o della realtà in generale) e del suo rapporto con l’uomo. Questo periodo, che è quello della piena maturità del pensiero greco, ripropone nella loro sintesi i problemi dei due periodi precedenti. Il periodo etico, che comprende l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo, è dominato dal problema della condotta dell’uomo. Il periodo religioso, che comprende le scuole neoplatoniche e altre affini, è dominato dal problema di trovare per l’uomo la strada del ricongiungimento con Dio, considerata come l’unica via di salvezza. Questi periodi non rappresentano rigide partizioni cronologiche: servono soltanto a dare un quadro complessivo e riassuntivo della nascita, dello sviluppo e infine della decadenza della ricerca filosofica nella Grecia antica.
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Unità 1 L’IndagInE sULLa natUra: I pEnsatOrI prEsOcratIcI Capitolo 1 la Grecia e la nascita della filosofia
8. Le fonti per conoscere la filosofia greca Le fonti attraverso le quali conosciamo la filosofia greca antica sono fondamentalmente di due tipi: 1. le opere e i frammenti direttamente risalenti ai filosofi. Platone è il primo di cui ci siano rimaste le opere intere; abbiamo poi molte opere di Aristotele, mentre di tutti gli altri non ci sono rimasti che frammenti più o meno estesi; 2. le testimonianze degli scrittori posteriori. Le Gli autori fondamentali dai quali si attingono le testimonianze sono: i già citati Platone e Aristotele, le cui opere contengono preziosi cenni alla filosofia pre- testimonianze principali cedente. Aristotele, in particolare, nel libro I della Metafisica ci ha lasciato il primo saggio di storiografia filosofica; inoltre in tutti i suoi scritti si trovano frequenti riferimenti ad altre dottrine; i dossografi (o “doxografi”, letteralmente “scrittori di opinioni”, dal greco dóxa, “opinione”, e graphía, “scrittura”), cioè quegli scrittori, perlopiù appartenenti al tardo periodo della filosofia greca, che hanno riportato le opinioni dei vari filosofi.
Il primo tra i dossografi, che costituisce anche la fonte di quasi tutti gli altri, è Teofrasto (IV-III secolo a.C.), allievo di Aristotele e suo primo successore nella scuola da lui fondata ( unità 4, p. 333). A Teofrasto si devono diversi trattati di carattere scientifico, ma soprattutto le Opinioni fisiche, di cui ci rimangono un capitolo e altri frammenti, a loro volta riportati nel Commentario del filosofo bizantino Simplicio (V-VI secolo d.C.) alla Fisica di Aristotele. Tra le raccolte dossografiche, per la ricostruzione del pensiero greco antico si sono inoltre rivelate di importanza capitale le Vite e dottrine dei filosofi dello scrittore greco Diogene Laerzio, vissuto intorno alla prima metà del III secolo d.C. Composta da dieci libri e giunta a noi completa, l’opera è la storia delle diverse scuole filosofiche, registrata secondo il metodo delle cosiddette successioni e articolata in due dossografie distinte: l’una biografica e aneddotica (che si concentra sulle vite dei pensatori e su alcuni aneddoti che aiutano a comprenderne la personalità filosofica), l’altra espositiva (dedicata all’esposizione delle teorie). Di queste due parti, quella biografica, pur essendo costituita da un insieme di notizie accumulate senza un ordine rigoroso, contiene informazioni particolarmente preziose.
)
Per l’esposizione orale
Il primo dossografo: teofrasto
Le Vite di diogene Laerzio
1. Come nasce e quali significati assume il termine “filosofia”? 2. Elenca i periodi principali in cui si articola la filosofia greca antica, specificando il tema centrale dibattuto in ciascuno di essi. 3. Elenca le principali fonti attraverso cui conosciamo la filosofia greca antica.
enciclosofia successioni L’uso del termine “successioni” per indicare un particolare metodo di esposizione della storia della filosofia deriva da Sozione di Alessandria (I secolo d.C.), il quale in un’opera intitolata appunto Successioni (Diadochái) – o, secondo alcuni, Successioni dei filosofi (Diadochái ton philósophon) – inaugurò la serie delle trattazioni biografiche dei filosofi, i quali venivano presentati innanzitutto raggruppati per scuole, quindi per successioni di capi-scuola, infine per discepoli.
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 1 LA GRECIA E LA NASCITA DELLA FILOSOFIA
Il retroterra culturale della filosofia Prima della filosofia, la cultura greca aveva già prodotto diverse forme di riflessione sul mondo e sull’uomo: le cosmologie mitiche, che narravano in forma mitologica la nascita del cosmo e le leggi divine che lo regolano; le religioni misteriche, che con le loro credenze e i loro riti indicavano all’uomo la via della salvezza. Tra i cosiddetti “misteri”, riveste particolare importanza l’orfismo, poiché sviluppa una complessa concezione dell’uomo, ovvero una
• antropologia
letteralmente, “discorso sull’uomo” (dal greco ánthropos, “uomo”, e lógos, “discorso”); il ramo della filosofia che indaga la natura dell’essere umano e le sue diverse componenti.
La nascita del pensiero filosofico Intorno all’VIII secolo a.C., mentre le civiltà del vicino e del lontano Oriente sono prevalentemente organizzate come monarchie accentratrici e conservatrici, la Grecia si presenta come una “costellazione” di cittàStato, o póleis, ovvero di città dotate di un proprio governo autonomo, al quale i “cittadini”, diversamente dai “sudditi” orientali, possono in certa misura prendere parte. In questo contesto storico-politico, tra il VII e il VI secolo a.C. nasce una nuova forma di conoscenza, detta
• filosofia
letteralmente, “amore del sapere” (dal greco philéin, “amare”, e sophía, “sapienza”); l’espressione indica un’indagine razionale e critica intorno agli interrogativi fondamentali che l’uomo si pone su sé stesso e sulla realtà che lo circonda.
Così intesa, la filosofia nasce differenziandosi nettamente dalla sapienza orientale: mentre quest’ultima era strettamente legata alla religione e alla tradizione, il pensiero filosofico si sviluppa come ricerca libera e indipendente rispetto alle credenze e alle usanze consolidate, al sentire comune e al potere politico e religioso. Più precisamente, la filosofia nasce nelle colonie greche della Ionia, che sono particolarmente dinamiche e aperte allo scambio commerciale e culturale. Ben presto, però, si diffonde anche nell’Italia meridionale e nella madrepatria (in particolare ad Atene), incentivata dal graduale instaurarsi, nelle città-Stato greche, di forme di governo tendenzialmente democratiche, che, favorendo la partecipazione di tutti cittadini alla vita pubblica, offrono maggiori possibilità di mettere in discussione i modelli culturali del passato.
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L’antropologia orfica capovolge la tradizionale visione dell’essere umano, concependolo come formato da una parte spirituale, l’anima, che si trova prigioniera nella materia del corpo, da cui deve liberarsi. Con l’orfismo si comincia a considerare il pensiero come forma di vita autentica; i motti dei “sette savi”, cioè brevi sentenze morali destinate a orientare la vita pratica; la riflessione etico-politica dei poeti, i quali avevano elaborato molti dei concetti basilari (primo fra tutti quello di una giustizia divina) che più tardi sarebbero stati utilizzati dai filosofi per l’interpretazione del mondo.
Gli ambiti della ricerca filosofica In Grecia il termine “filosofia” (usato per la prima volta tra il VI e il V secolo a.C. da Pitagora di Samo) ha sostanzialmente due accezioni: contemplazione disinteressata del mondo e della vita, oppure saggezza pratica che deve guidare la vita concreta. In seguito la parola acquisirà i due principali significati di ricerca razionale autonoma e critica (a prescindere dall’ambito di applicazione) e di indagine sui “fondamenti” dell’essere, del conoscere e dell’agire. In questo secondo senso, nel sapere filosofico si possono distinguere tre rami principali:
•
metafisica (dal greco metá ta physiká, “dopo la fisica” o “al di là della fisica”) quella parte della filosofia che si interroga sulle strutture ultime e sulle cause supreme
Unità 1 L’IndagInE sULLa natUra: I pEnsatOrI prEsOcratIcI Capitolo 1 la Grecia e la nascita della filosofia
•
delle cose. All’inizio la metafisica prese le sembianze della cosmologia (dal greco kósmos, “universo”, e lógos, “discorso”), ossia di un’indagine intorno all’universo naturale e ai princìpi che lo costituiscono. In seguito, soprattutto con Aristotele ( unità 4), si presentò nelle vesti dell’ontologia (dal greco on, óntos, participio presente di éinai, “essere”), ossia di una trattazione intorno all’essere o alla realtà in generale; gnoseologia (dal greco gnósis, “conoscenza”, e lógos, “discorso”) quella parte della filosofia che si occupa dei problemi relativi alla genesi, alla natura e alla validità della conoscenza. Connessa alla gnoseologia è la logica (dal greco lógos, “discorso”, ma anche “ragione”, “pensiero”), la quale, almeno nell’accezione antica del termine, si occupa delle regole del discorso e delle modalità attraverso cui formuliamo i nostri ragionamenti;
• etica
(dal greco éthos, “costume”, “abitudine”) quella parte della filosofia che studia il comportamento umano e le norme a cui esso obbedisce, sia descrivendo come di fatto agiamo, sia prescrivendo come dovremmo agire. Viene detta anche “morale” (dal latino mos, “costume, “modo di vita”). Connessa all’etica è la filosofia politica, che si occupa (anch’essa in modo descrittivo o prescrittivo) dei problemi relativi alla vita associata.
I periodi della filosofia greca antica e le fonti per conoscerla La ricerca filosofica sorge come una forma di ricerca associata, condotta all’interno di scuole i cui componenti condividono non soltanto il sapere, ma anche la vita di tutti i giorni. Inoltre, nella storia della filosofia greca antica è possibile distinguere diversi periodi, ciascuno contraddistinto dal problema centrale affrontato: periodo cosmologico - ricerca del principio unitario del mondo; periodo antropologico - problema dell’uomo; periodo ontologico - le grandi filosofie di Platone e di Aristotele, interessate, oltre che all’uomo, al problema dell’essere e della realtà; periodo etico - problema della condotta umana; periodo religioso - problema della salvezza umana e di Dio. Le informazioni sul pensiero antico ci derivano in primo luogo dalle opere che ci sono pervenute, o dai frammenti di esse. In alternativa, la storia della filosofia greca si può ricostruire a partire dalle testimonianze di Platone e Aristotele, oppure dei cosiddetti “dossografi”, che (perlopiù nella tarda antichità) hanno riportato le “opinioni” (in greco dóxai) dei diversi pensatori. Tra le dossografie, è fondamentale la raccolta delle Vite e dottrine dei filosofi di Diogene Laerzio (prima metà del III secolo d.C.).
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MAPPE
CAPITOLO 1 LA GRECIA E LA NASCITA DELLA FILOSOFIA LA FILOSOFIA
nasce in Grecia
si differenzia dalla sapienza orientale (religiosa e tradizionalistica)
è favorita dalla tendenziale democraticità delle póleis greche
e precisamente nelle
in quanto
nelle quali
colonie della Ionia, dinamiche e aperte alla circolazione delle idee
ricerca razionale, libera e critica
i cittadini partecipano alla vita pubblica
la discussione facilita il confronto razionale
IL RETROTERRA CULTURALE DELLA FILOSOFIA comprende
le cosmologie mitiche
le religioni misteriche, e in particolare l’orfismo
i motti dei sette savi
la riflessione etico-politica dei poeti
che
che cominciano a considerare
che sono
i quali elaborano
narrano l’origine e la vita del cosmo
il pensiero come forma di vita autentica
consigli per la vita pratica
alcuni concetti fondamentali per la successiva interpretazione del mondo
I PERIODI DELLA FILOSOFIA GRECA
LE FONTI PER CONOSCERE LA FILOSOFIA GRECA
sono
sono
il periodo cosmologico il periodo antropologico il periodo ontologico
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il periodo etico il periodo religioso
Unità 1 L’IndagInE sULLa natUra: I pEnsatOrI prEsOcratIcI Capitolo 1 la Grecia e la nascita della filosofia
le opere o i frammenti degli stessi filosofi
le testimonianze sul pensiero dei filosofi: opere di Platone e Aristotele dossografie della tarda antichità
CAPITOLO 1 LA GRECIA E LA NASCITA DELLA FILOSOFIA
Le origini della filosofia nella curiosità umana
Nell’indagare i fattori che determinarono la nascita della filosofia, i due maggiori pensatori dell’antica Grecia – Platone (427-347 a.C.) e Aristotele (384-322 a.C.) – individuano lo stesso elemento fondamentale: la «meraviglia» dell’uomo di fronte alla realtà che lo circonda. Soltanto da questo atteggiamento iniziale di stupore può nascere la curiosità che induce alla ricerca del “come” e del “perché” delle cose. TESTO
1
La meraviglia come tratto distintivo dei filosofi (Platone, Teeteto) Il primo a individuare nella meraviglia l’atteggiamento più caratteristico di chi si appresta a «filosofare» è Platone, al quale si devono poche ma chiare e suggestive righe su questo tema.
Il «comincia- È proprio del filosofo […] essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosomento» del fare che questo essere pieno di meraviglia. 2 «filosofare» (Platone, Teeteto, 155d, trad. it. di M. Valgimigli, in Platone, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1983, vol. 2)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il «cominciamento» del filosofare (rr. 1-2) La meraviglia è il sentimento che per Platone muove (e deve sempre muovere) il filosofo. Stupirsi di fronte alle cose del mondo è la condizione necessaria per cominciare a riflettere sulla loro natura e sulle loro cau-
se; e un tale stupore non deve mai essere abbandonato, poiché soltanto colui che non ritiene di possedere già la verità si pone nell’atteggiamento più corretto per avviare un cammino di ricerca, senza accontentarsi mai di quanto già conosce.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO In quanto “amanti del sapere”, i filosofi (philósophoi) sono persone che, spinte dal desiderio di conoscere, si dedicano all’indagine razionale. Condividi l’idea – espressa in queste righe di Platone – che la meraviglia costituisca il punto di partenza (il «cominciamento») di una tale predisposizione alla ricerca? Motiva la tua risposta. (max 20 righe)
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TESTO
2
La filosofia si deve alla meraviglia (Aristotele, Metafisica) Concorde con Platone, anche Aristotele parla della meraviglia come dell’atteggiamento che fu all’origine della filosofia, intesa in un primo momento come ricerca di soluzioni ai problemi concreti posti dalla vita, e in un secondo momento come indagine sui fenomeni naturali, per divenire in ultimo ricerca libera e disinteressata, ovvero un sapere fine a sé stesso.
Il ruolo della […] gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: meraviglia mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, 2 nella filosofia e nel mito progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i proble-
mi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la 4 generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui 6 che ama il mito è, in un certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di 8 cose che destano meraviglia.
La filosofia Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono come il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso 10 conoscenza fine a sé stessa in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava al-
la vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di 12 conoscenza. È evidente, dunque, che noi la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, an- 14 zi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a sé stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a sé stessa. 16 (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. it. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il ruolo della meraviglia nella filosofia e nel mito (rr. 1-8) Il meravigliarsi di fronte a ciò che accade è per Aristotele l’atteggiamento indispensabile per cominciare a indagare: lo fu all’inizio della storia dell’umanità, quando i problemi posti dalla vita concreta costrinsero gli esseri umani a osservare la natura per scoprirne i segreti e sopravvivere; e lo fu in seguito, quando l’uomo si volse ad analizzare anche i fenomeni naturali più lontani, finendo per riflettere su temi a prima vista insondabili, come l’origine dell’universo e della vita. Aristotele nota che la filosofia e il mito nascono entrambi dallo stupore suscitato da ciò che non si conosce, che è condizione preliminare di qualunque ricerca. La differenza sta negli strumenti utilizzati: la fantasia nel caso del mito e la ragione nel caso della filosofia.
La filosofia come conoscenza fine a sé stessa (rr. 9-16) Nella seconda parte del brano è racchiusa la concezione aristotelica della filosofia come “contemplazione”, cioè come ricerca e “visione” disinteressata del sapere. La ricerca filosofica, quale ai tempi di Aristotele si era ormai sviluppata come forma di conoscenza specifica, non deve più occuparsi di problemi materiali, che sono già stati risolti: essa, quindi, non ha fini pratici e non porta ad alcun vantaggio concreto, se non a realizzare pienamente la natura razionale dell’essere umano. Proprio questo non volgersi al raggiungimento di un qualche fine specifico fa della filosofia la forma più alta di sapere, l’unica autenticamente “libera”.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Dal testo emerge la concezione aristotelica della filosofia come “contemplazione”, ovvero come ricerca disinteressata. Condividi l’idea che la conoscenza, per essere autentica, debba essere perseguita per sé stessa, e non in vista di altri fini? Argomenta la tua opinione. (max 20 righe)
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Unità 1 L’IndagInE sULLa natUra: I pEnsatOrI prEsOcratIcI Capitolo 1 la Grecia e la nascita della filosofia
CAPITOLO 2 LA RICERCA DEL PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE
1. I primi filosofi Nella storiografia tradizionale i primi filosofi sono chiamati “presocratici”. Più che un si- Presocratici gnificato cronologico, questo termine possiede una valenza concettuale, poiché denota un o presofisti? gruppo eterogeneo di pensatori, perlopiù anteriori a Socrate ( unità 2, cap. 2), i quali – a differenza di quest’ultimo, che studierà soprattutto l’essere umano – si occupano principalmente del problema della natura e della realtà. Tuttavia, i primi a spostare il centro della riflessione filosofica dall’universo all’uomo saranno in realtà i “sofisti” ( unità 2, cap. 1), alcuni dei quali sono attivi già prima di Socrate. Perciò coloro che per lunga consuetudine vengono denominati “presocratici” risultano, di fatto, “presofisti”. In questo manuale abbiamo quindi privilegiato quest’ultima denominazione, alternandola talvolta al più consueto “presocratici”, ma sottintendendo sempre l’equazione “presocratici = presofisti”. Attivi a partire dal VI secolo a.C., i presofisti non costituiscono un insieme compatto di fi- Le scuole e le correnti losofi, ma si dividono in numerose scuole e tendenze: i fisici ionici, appartenenti alla scuola di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene; i pitagorici, appartenenti alla scuola fondata da Pitagora a Crotone; gli eraclitei, seguaci di Eraclito di Efeso; gli eleati, cioè gli appartenenti alla scuola di Elea, seguaci di Parmenide; i fisici pluralisti, o fisici posteriori: Empedocle, Anassagora e Democrito. Dal punto di vista geografico, i presofisti operano in un primo tempo nelle colonie greche I luoghi della Ionia (fisici ionici ed eraclitei) oppure nella Magna Grecia (pitagorici ed eleati). Più e i temi tardi, con Anassagora, la filosofia fa il suo ingresso in Atene, dove fioriranno le massime personalità filosofiche della Grecia antica. Cronologicamente, gli ultimi presofisti (Anassagora e Democrito) risultano contemporanei dei sofisti e di Socrate (V secolo a.C.). Come si è detto, la caratteristica saliente di questi pensatori – che li distingue concettualmente, più che cronologicamente, dai sofisti e da Socrate – è la tendenza a concentrarsi sul problema della realtà. Ciò non esclude un certo interesse per le tematiche legate all’uomo e al suo mondo ma, se il carattere di una filosofia è determinato dal problema fondamentale di cui essa si occupa, indubbiamente i temi dominanti della filosofia presocratica sono quello cosmologico (relativo al cosmo o all’universo) e quello ontologico (relativo all’essere o alla realtà in generale). enciclosofia Magna Grecia Le zone dell’Italia meridionale (perlopiù collocate nelle attuali Basilicata, Calabria, Campania e Puglia) che fin dall’VIII secolo a.C. furono colonizzate dai Greci. L’espressione, di origine latina, significa letteralmente “Grande Grecia” e corrisponde al greco Megále Hellás, con cui probabilmente i coloni alludevano all’allargamento dei confini rispetto a quelli della madrepatria.
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2. La scuola di Mileto Un popolo di Nel VI secolo a.C. si sviluppa nella Ionia (regione meridionale e costiera dell’Asia Minore, intraprendenti così chiamata perché era stata colonizzata dalla stirpe greca degli Ioni) una fiorente civiltà, mercanti
che ha i suoi centri più importanti in Mileto, Efeso, Colofone, Clazomene, Samo e Chio. In queste città una classe intraprendente di mercanti – in cerca sia di materie prime con cui alimentare i suoi traffici, sia di nuovi sbocchi commerciali – aveva costruito una flotta mercantile il cui spazio di manovra si estendeva dal mar Nero all’Egitto, dal Caucaso alla Francia meridionale, dalla Sicilia alla Spagna. La pressione demografica aveva poi favorito l’emigrazione in altre terre, e nuove colonie ioniche erano sorte in Sicilia, nella Magna Grecia (Elea e Crotone) e sulle coste del mar Nero.
Una nuova Come si è già accennato nel capitolo precedente, è proprio in questo mondo – nel quale le cultura per diverse attività umane avevano compiuto un rimarchevole passo in avanti – che si viene a nuovi intellettuali creare un genere di civiltà favorevole alla ricerca filosofica.
Il rapido affermarsi di forme politiche tendenzialmente democratiche, il rigoglioso sviluppo delle tecniche, i contatti con le civiltà del vicino Oriente, l’allargarsi degli orizzonti della mentalità della popolazione, sempre più abituata all’estrema varietà delle usanze e delle credenze, sono tutti fattori che, sommandosi tra loro, contribuiscono all’elaborazione di una nuova cultura, impegnata a liberarsi dalle credenze magiche, mitiche e religiose, e tesa a un’osservazione più attenta e razionale dei fenomeni naturali. In questo contesto culturale emergono anche nuove figure di intellettuali, che riuniscono in sé i tratti dei filosofi, degli scienziati e dei tecnici.
La ricerca Il pensiero dei primi filosofi si incentra soprattutto sul problema della natura , o phýsis, della sostanza termine greco da cui deriva l’appellativo di “fisici” con cui si è soliti designare i pensatori primordiale
ionici. Di fronte allo spettacolo del mondo, costituito da una molteplicità di cose in continuo mutamento, gli ionici si persuadono che, al di là di ciò che appare, sia rintracciabile una realtà unica ed eterna, di cui ciò che esiste è una manifestazione passeggera. Per tale realtà scelgono il nome arché , ossia “principio”, intendendo con questo termine sia la materia originaria da cui tutte le cose derivano, sia la forza che le ha generate e che le anima, sia la legge che spiega la loro nascita e la loro morte. glossario p. 47 Sulla base di questi presupposti si comprendono il monismo, l’ilozoismo e il panteismo che caratterizzano questi primi filosofi: monismo (dal greco mónos, “solo”, “unico”), poiché dietro il divenire del mondo essi riconoscono un unico principio; ilozoismo (dal greco hýle, “materia”, e zóon, “vivente”), poiché ritengono che la materia primordiale sia dotata di una forza intrinseca, che la fa muovere; panteismo (dal greco pan, “tutto”, e theós, “Dio”), poiché tendono a identificare il principio eterno del mondo con la divinità.
)
Per l’esposizione orale
1. Definisci i seguenti termini: arché, monismo, ilozoismo, panteismo. 2. In quale tipo di ricerca si impegnano i pensatori della scuola di Mileto?
enciclosofia Mileto Fondata intorno alla metà dell’XI secolo a.C., l’antica città di Mileto sorgeva non lontano dalla foce del fiume Meandro, sul mar Egeo. Nel VI secolo a.C. divenne un fiorente centro economico e culturale, ma all’inizio del V secolo a.C. fu saccheggiata e in gran parte distrutta dai Persiani. Una volta ricostruita, dopo alterne vicende conobbe un nuovo periodo di sviluppo economico sotto Roma, per poi cominciare una lenta decadenza nel VI secolo d.C. Nel X secolo d.C. fu devastata da un terremoto; i suoi resti archeologici sono visitabili ancora oggi nei pressi della città di Balat, nell’odierna Turchia.
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Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
Talete Il fondatore della scuola ionica è Talete di Mileto, che vive tra la fine del VII secolo a.C. e la prima metà del VI. Talete fu uomo politico, astronomo, matematico e fisico, oltre che filosofo. Come uomo po- Vita e litico, secondo quanto narra Erodoto, spinse i Greci della Ionia a unirsi in uno Stato fede- aneddoti rativo con capitale Teo. Come astronomo predisse un’eclisse solare (probabilmente quella del 28 maggio 585 a.C.). Come matematico formulò vari teoremi di geometria. Come fisico scoprì le proprietà del magnete. Ebbe fama di sapiente continuamente assorto nella speculazione: l’immagine è testimoniata da un aneddoto riferito da Platone, secondo cui Talete, osservando il cielo, cadde in un pozzo, suscitando il riso di una serva che, passando di lì, aveva assistito alla scena. Un altro aneddoto riferito da Aristotele tende invece a mettere in luce la sua abilità di uomo d’affari: prevedendo un abbondantissimo raccolto di olive, Talete prese in affitto tutti i frantoi della zona, per poi subaffittarli a un prezzo molto più alto, e talvolta agli stessi proprietari. Si tratta probabilmente di aneddoti spuri, non autentici, riferiti a Talete più come simbolo dell’uomo saggio che come persona reale. Il secondo aneddoto, in particolare (come lo stesso Aristotele osserva), mira a dimostrare che la scienza non è inutile, sebbene di regola gli scienziati non se ne servano (come potrebbero) per arricchirsi. Pare che Talete non abbia lasciato scritti filosofici; la conoscenza della sua dottrina fonda- La dottrina mentale si deve ad Aristotele, il quale scrive:
‘
Talete dice che il principio è l’acqua, perciò anche sosteneva che la Terra sta sopra l’acqua; prendeva forse argomento dal vedere che il nutrimento d’ogni cosa è umido e persino il caldo si genera e vive nell’umido; ora ciò da cui tutto si genera è il principio di tutto. Perciò si appigliò a tale congettura, ed anche perché i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è nelle cose umide il principio della loro natura. (Aristotele, Metafisica, I, 3, 983b, 20)
È sempre Aristotele a testimoniare come la credenza secondo cui l’acqua è il principio della vita e del mondo fosse antichissima: già nei poemi omerici, ad esempio, Oceano e Teti compaiono quali princìpi della generazione. A ben guardare, quindi, la dottrina che Aristotele presenta come propria di Talete è una sola, cioè l’idea che «la Terra sta sopra l’acqua»: in questo senso l’acqua è sostanza , ovvero “ciò che sta sotto” e “sostiene”, secondo il significato letterale del termine. L’argomento della generazione dall’umido è invece addotto soltanto come probabile ed è forse una congettura dello stesso Aristotele. ( T1 p. 50) Inoltre, sembra che Talete abbia affermato che «tutto è pieno di dèi», volendo probabilmente esprimere una visione panteistica e ilozoistica delle cose. glossario p. 47
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine della conoscenza? p. 480
Anassimandro Concittadino e contemporaneo di Talete, Anassimandro nasce tra il 611 e il 610 a.C., e muore tra il 547 e il 546. Anch’egli uomo politico e astronomo, è il primo autore greco di cui ci siano pervenuti gli scritti filosofici; la sua opera in prosa Sulla natura segna una tappa notevole nella speculazione cosmologica degli ionici. enciclosofia Oceano e Teti Nella mitologia greca Oceano era uno dei Titani, figli delle divinità primordiali Urano (il Cielo) e Gea (o Gaia, la Terra). Identificato con la grande massa d’acqua che riempiva lo spazio prima dell’emergere delle terre, era sia fratello sia sposo di Teti (o Tetide), che a sua volta era una delle Titànidi, figlie anch’esse di Urano e di Gea. Secondo il mito, dall’unione di Oceano e Teti scaturirono i mari, le sorgenti e tutti i corsi d’acqua, grandi e piccoli.
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L’infinito come arché
Anassimandro è il primo a dare alla sostanza unica primordia-
L’ápeiron le il nome “principio” (arché). Tuttavia, secondo la tradizione storico-filosofica più conso-
lidata, egli individua l’arché non nell’acqua o nell’aria o in un altro particolare elemento fisico, ma nell’ ápeiron , ovvero in qualcosa di infinito e indeterminato, dal quale tutte le cose traggono origine e nel quale tornano a dissolversi quando si conclude il ciclo che una legge necessaria ha stabilito per esse. glossario p. 47 L’ápeiron di Anassimandro (sulla cui precisa fisionomia gli interpreti continuano a discutere) abbraccia e governa ogni cosa, ed è «immortale e indistruttibile», quindi divino. Inoltre sembra che non vada concepito come una “miscela” dei vari elementi corporei, in cui tali elementi sarebbero compresi ognuno con le proprie qualità determinate, ma piuttosto come una materia informe, all’interno della quale gli elementi non sono ancora distinti e che perciò, oltre che “in-finita”, è anche “in-definita”. ( T2 p. 51)
La derivazione Anassimandro si pone anche il problema del processo attraverso il quale le cose derivano delle cose dalla sostanza primordiale, identificandolo nella separazione. Egli è convinto, infatti, dall’ápeiron
che la sostanza infinita sia animata da un eterno movimento, in virtù del quale i contrari (caldo e freddo, secco e umido ecc.) si separano in essa e da essa, dando gradualmente origine a tutte le cose.
La “colpa” Per mezzo del processo di separazione dall’ápeiron, si generano infiniti mondi, che si degli esseri succedono l’uno all’altro secondo un ciclo eterno. Per ogni mondo, così come per ogni e la giustizia cosmica cosa che lo abita, è segnato da sempre il tempo della nascita, della durata e della fine,
ovvero del suo ritorno nella materia indistinta da cui proviene. Questo significa che esiste una legge che impone un limite alla vita del mondo e delle cose, e questo limite, per Anassimandro, è la punizione per un’ingiustizia commessa. Afferma infatti Anassimandro:
‘
Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro (Anassimandro, frammento 1) ingiustizia.
per saperne di più L’edizione “Diels-Kranz” Le testimonianze sulle dottrine dei filosofi greci precedenti a Socrate e i loro frammenti si trovano riuniti nella raccolta I presocratici. Testimonianze e frammenti, pubblicata per la prima volta nel 1903 ad opera del filologo tedesco Hermann Diels (1848-1922) e in seguito aggiornata da Walther Kranz (1884-1960). I testi contenuti in questa raccolta sono solitamente indicati mediante una sequenza di lettere e numeri così formata: la sigla D (che sta per “Diels”) oppure, più spesso, la sigla DK (che sta per “Diels-Kranz”), seguita da un numero che indica il capitolo, a sua volta seguito dalla lettera A (nel caso di una testimonianza) o dalla lettera B (nel caso di un frammento) e da un ultimo numero che indica la testimonianza o il frammento specifici. Ad esempio, la sigla DK 22 B 53 indica il frammento 53 che si trova nel ventiduesimo capitolo (ovvero il capitolo su Eraclito) della raccolta di Diels e Kranz. Spesso, per brevità, soprattutto quando si tratta di frammenti, si possono omettere le varie sigle e si può indicare soltanto il numero finale (come nel caso del primo frammento di Anassimandro citato qui sopra, identificabile anche con la formula “DK 12 B 1”).
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Ritratto fotografico di Hermann Diels, anni Dieci circa.
Ma qual è l’ingiustizia (adikía) che tutti gli esseri devono espiare? Probabilmente è legata alla loro stessa costituzione, cioè alla loro nascita, che nessuno di essi può evitare, così come non può sottrarsi alla pena che ne deriva. Abbiamo visto, infatti, che la nascita per Anassimandro è una separazione dalla sostanza infinita. Evidentemente questa separazione costituisce una rottura dell’unità che è propria dell’infinito: è il subentrare della diversità, e quindi del contrasto, là dove c’erano omogeneità e armonia. Con la separazione si determina la condizione propria degli esseri finiti, che sono molteplici, diversi e contrastanti tra loro, e di conseguenza inevitabilmente destinati a scontare con la morte la loro stessa nascita e a ritornare all’unità. La legge di giustizia che Solone riteneva dominare il mondo umano, legge che punisce la prevaricazione e la prepotenza, diventa in Anassimandro legge cosmica, che regola il ciclico nascere e morire delle cose e dei mondi. Le tesi di Anassimandro, rivoluzionarie rispetto al sapere L’infinità del tempo, sono espressione di una personalità filosofica eccezionale. Per rendercene me- dei mondi glio conto, consideriamo innanzitutto l’idea dell’infinità dei mondi, a cui il filosofo perviene a partire dalla natura della sostanza primordiale. Si è visto che, per Anassimandro, infiniti mondi si succedono secondo un ciclo eterno; ma i mondi sono infiniti anche contemporaneamente nello spazio, o soltanto nel loro succedersi nel tempo? In realtà è difficile negare che Anassimandro abbia ammesso l’infinità di mondi anche nello spazio, poiché, se l’infinito (l’ápeiron) abbraccia tutti i mondi e se dall’infinito i mondi “si staccano”, esso deve essere pensato “al di là” non di un solo mondo che ciclicamente nasce e muore, ma di altri e altri ancora.
I mondi, la Terra e l’uomo
Anassimandro concepisce in modo originale anche la forma della Terra, descrivendola come un cilindro che si libra nel mezzo del mondo senza essere sostenuto da nulla, perché, trovandosi a uguale distanza rispetto a ognuna delle parti del mondo, non è sollecitato a muoversi da alcuna di esse. Quanto agli uomini, Anassimandro pensa che non siano esseri originari, nati insieme con la natura. Infatti non sanno nutrirsi da sé, e quindi non avrebbero potuto sopravvivere se fossero nati la prima volta come nascono ora. Essi devono dunque aver tratto la loro origine da altri animali: nacquero dentro i pesci e, dopo essere stati nutriti, una volta divenuti capaci di proteggersi da sé, furono gettati fuori, abbandonarono l’acqua e divennero esseri terrestri.
La forma della terra e l’origine degli uomini
Tutte queste sono teorie primitive, ma che manifestano l’esigenza di cercare una spiegazione puramente naturalistica del mondo, tant’è che nella tesi sull’origine degli uomini alcuni interpreti hanno intravisto una suggestiva anticipazione dell’ipotesi evoluzionistica formulata dalla scienza moderna.
Una spiegazione naturalistica del mondo
Anassìmene Anassimene di Mileto, più giovane di Anassimandro e forse suo discepolo, raggiunge l’apice del suo pensiero probabilmente verso il 546-545 a.C. e muore intorno al 528-525. Come Talete, anche Anassimene riconosce come principio una materia determinata, l’aria, L’aria come ma a tale materia attribuisce i caratteri del principio di Anassimandro: l’infinità e il mo- arché vimento incessante. Inoltre, egli vede nell’aria anche la forza che anima il mondo:
‘
Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo intero. (Anassimene, frammento 2)
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Il mondo di Anassimene è come un animale gigantesco che respira, e il respiro è la sua vita e la sua anima. Dall’aria nascono tutte le cose che sono, che furono e che saranno, e anche gli dèi e le cose divine. L’aria è il principio del movimento e di ogni mutamento. La rarefazione e Anche Anassimene descrive il modo in cui dall’aria nascono e si trasformano gli elementi la condensazione e le cose: esso consiste nel doppio processo della rarefazione e della condensazione. Ra-
ESERCIZI
refacendosi, l’aria diventa fuoco; condensandosi, diventa vento, poi nuvola e, condensandosi ancora, acqua, terra e infine pietra. Anche il caldo e il freddo sono dovuti allo stesso processo: la condensazione produce il freddo, la rarefazione il caldo. Come Anassimandro, anche Anassimene ammette il nascere e il divenire ciclico del mondo, e quindi il suo dissolversi periodico nel principio originario e il suo periodico rigenerarsi da esso. ( T3 p. 52)
CONCETTI A CONFRONTO
L’ARCHÉ in TALETE è l’acqua
in ANASSIMANDRO
in ANASSIMENE
è l’ápeiron
è l’aria
che è sostanza (nel senso che “sta sotto” o “sostiene” la Terra)
che è principio infinito e indeterminato
forza che anima il mondo
materia indistinta
materia infinita in moto perenne
da cui le cose derivano per separazione
)
Per l’esposizione orale
che è
da cui le cose derivano per condensazione e rarefazione
• Esponi i risultati a cui pervengono i pensatori milesii, chiarendo per ciascuno di essi quale sia il principio e illustrando il procedimento mediante il quale le cose ne derivano. SNODI PLURIDISCIPLINARI scienze naturali
La cosmologia di Anassimandro è considerata rivoluzionaria per molti aspetti. In particolare, si è evidenziata l’importanza della teoria della Terra “galleggiante” al centro del mondo, proposta da Anassimandro in sostituzione dell’idea di una Terra piatta sormontata dal cielo. Per quanto di tipo geocentrico, questa visione cosmologica è stata paragonata, per la sua importanza nella storia del pensiero scientifico, alla rivoluzione copernicana. In che cosa le teorie di Anassimandro e di Copernico appaiono “contro-intuitive”, ovvero contrarie al senso comune? In che senso mettono in evidenza come la scienza spesso riveli che “la realtà non è come appare”? (5 minuti)
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3. Pitagora e i pitagorici La tradizione ha presentato Pitagora come una sorta di mago, o profeta, un operatore di Le poche miracoli a cui ha attribuito una sapienza nascosta, che egli avrebbe riservato ai membri notizie biografiche della sua scuola e che avrebbe appreso dal dio Apollo, suo protettore, per bocca di Temistoclea, una sacerdotessa di Delfi. In realtà, se si prescinde dagli elementi leggendari, ciò che sappiamo di Pitagora è piuttosto poco. Egli nacque a Samo (isola greca dell’Egeo orientale) probabilmente nel 571-570 a.C. e si trasferì in Magna Grecia (Italia meridionale) nel 532-531, dove morì intorno al 490. In Italia, e precisamente a Crotone, Pitagora fondò una scuola che fu anche un’associazione politica e religiosa (o una vera e propria setta), e le cui idee si diffusero ben presto in tutte le città greche dell’Italia meridionale, dove spesso i pitagorici assunsero il potere e lo esercitarono in senso aristocratico. Molto probabilmente Pitagora non scrisse nulla. La sola dottrina filosofica che gli si può con certezza attribuire è quella della metempsicosi , cioè della trasmigrazione delle anime, dopo la morte, in corpi di altri uomini o di animali. Ricollegandosi all’orfismo, infatti, Pitagora considera il corpo come una prigione per l’anima e la vita corporea come una punizione per una colpa originaria ( p. 42). La via per liberare l’anima dal corpo è per lui la filosofia: la conoscenza viene così ad assumere il valore di un mezzo per condurre l’anima alla salvezza. glossario p. 48
Le credenze orfiche e la filosofia come salvezza
In virtù del suo fine morale, la filosofia pitagorica esigeva, da un lato, l’esercizio della ra- La scuola gione nel perseguimento del sapere, e dall’altro una serie di riti purificatori: oltre a prati- pitagorica e le sue vicende care la scienza, nelle comunità fondate da Pitagora si seguiva quindi un certo numero di regole ascetiche, vivendo, come sembra, in una condizione di comunione dei beni. Inoltre, poiché Pitagora era considerato il depositario di una sapienza divina, era vietato apportare qualsiasi modifica alla sua dottrina, la quale era ritenuta vera per il solo fatto che veniva trasmessa da lui: un principio che nei secoli successivi sarà sintetizzato nell’espressione latina ipse dixit (letteralmente, “egli lo disse”). Quando nelle città greche dell’Italia meridionale si determinò un movimento democratico che distrusse le istituzioni aristocratiche fondate dai pitagorici, questi ultimi furono massacrati o costretti a fuggire e a trovare riparo al di fuori della Magna Grecia, e le sedi delle loro scuole vennero incendiate.
La nascita della matematica e la dottrina del numero Ai pitagorici si deve la nascita della matematica come disciplina scientifica. Infatti, anche se fos- Una dottrina se veritiera la tradizione secondo cui Pitagora avrebbe desunto l’ispirazione delle proprie dottri- scientifica ne matematiche dagli Egizi e da altri popoli orientali, presso i quali si sarebbe intrattenuto durante i suoi viaggi, egli non poteva apprendere da questi se non le semplici nozioni geometriche proprie di un agrimensore e una certa abilità nel calcolo. I pitagorici cominciarono invece a trattare la matematica (che proprio ai pitagorici deve il suo nome) come una vera e propria scienza, elaborandone concettualmente gli elementi fondamentali (quantità, punto, linea, superficie, angolo, corpo) e facendo astrazione da tutte le applicazioni pratiche. Essi, inoltre, stabilirono quel carattere rigoroso della dimostrazione che divenne poi la norma della matematica greca, e che in seguito costituì l’ideale di ogni disciplina che si volesse organizzare scientificamente. È assai difficile indicare oggi quali siano state precisamente le dottrine matematiche dei pitago- Il numero rici, come è difficile dire quale parte abbiano avuto nella formazione di quel corpo di conoscen- come sostanza ze che Euclide, alcuni secoli dopo (IV-III secolo a.C.), avrebbe ricapitolato e ordinato nei suoi Elementi. Quello che è certo è che la filosofia dei pitagorici è un riflesso della loro matematica.
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La tesi pitagorica fondamentale è che la sostanza di tutte le cose è il numero. Anziché nell’acqua di Talete, nell’aria di Anassimene o in altri elementi materiali, i pitagorici individuano il principio di cui le cose sono costituite nei numeri. Ma qual è il significato preciso di questa affermazione? ( T4 p. 53) Il numero Il numero è concepito dai pitagorici come un insieme di unità, e l’unità è concepita come come entità identica al punto geometrico. Ad esempio, il 10, considerato il numero perfetto, è rapprefisica
sentato come un triangolo equilatero che ha il numero 4 per lato e costituisce la sacra figura della tetraktýs: 1 2 3 4 10
Aritmetica e geometria vengono in questo modo a fondersi e finiscono per essere considerate pressoché identiche: ogni numero è nello stesso tempo una figura geometrica, e ogni figura geometrica è un numero, poiché la figura geometrica altro non è che una disposizione, un ordinamento di punti nello spazio, e il numero esprime la misura di questo ordinamento. L’ordine L’idea che sta alla base del principio pitagorico secondo cui le cose sono “fatte” di numeri è misurabile dunque quella di un ordine misurabile del mondo. Affermare che le cose sono costituite del mondo
da numeri, e che quindi tutto il mondo è fatto di numeri, significa infatti affermare che la vera natura del mondo, come delle singole cose, consiste in un ordinamento geometrico esprimibile in numeri, e quindi misurabile.
per saperne di più Le conquiste musicali dei pitagorici La nozione pitagorica di “armonia” Presso la scuola pitagorica lo studio della musica era assimilato allo studio dell’armonia, termine che in greco (harmonía) significava “accordo”, “giusta mescolanza”, e che per i pitagorici indicava l’ordine o la regola numerica che teneva insieme le parti di un tutto. Poteva trattarsi di una sequenza di suoni, ma anche delle parti di un organismo, del mondo fisico nel suo complesso o di un’organizzazione sociale: la nozione di “armonia” andava ben al di là dell’ambito musicale, e di conseguenza la musica non era soltanto una pratica o una tecnica per produrre suoni e melodie, ma coincideva con la filosofia, intesa come il sapere nel suo complesso. Più precisamente, i suoni musicali non erano considerati semplici vibrazioni sonore, bensì l’espressione di quell’ordine matematico che costituiva il sostrato del mondo: il rapporto numerico tra i suoni che compongono una melodia o un accordo era l’ordine cosmico diventato “udi-
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bile”, e la musica era la disciplina che rivelava le leggi (le proporzioni matematiche) che presiedono all’armonia dell’universo, consentendo agli esseri umani di conoscere le sfere celesti («i numeri sono i musicisti del cielo», diceva Pitagora) e il suono da esse prodotto. Ma come giunsero i pitagorici a questa concezione della musica?
La “logica” dei suoni Secondo la leggenda, Pitagora, nell’udire i suoni prodotti dai colpi di martello sferrati da alcuni fabbri sulle incudini, si rese conto che certe loro combinazioni risultavano più gradevoli di altre, poiché creavano “consonanze” (symphoníai). Pitagora osservò che l’armonia di tali suoni non dipendeva dalla forza impressa dai fabbri, né dalla forma dei martelli usati, ma piuttosto dal peso (quantitativamente determinabile) di questi ultimi. Ne ricavò la convinzione che la regola (il lógos) che governa il rapporto armonico tra i suoni dovesse essere di tipo matematico, o numerico, e riuscì a determinarla mediante uno strumento musicale di sua invenzione: il monocordo.
Mediante il numero , secondo i pitagorici, è possibile spiegare le cose più disparate della nostra esperienza: dal movimento degli astri al succedersi delle stagioni, dal ciclo della vegetazione alle armonie musicali. glossario p. 47 Nell’identificazione pitagorica del principio con il numero, sembra avere rivestito un ruolo La musica particolarmente significativo la musica. In un’esecuzione musicale, infatti, sia la melodia, e l’armonia cioè la successione delle note, sia l’armonia, cioè l’esecuzione contemporanea di suoni diversi, risultano piacevoli all’orecchio soltanto se le note vengono eseguite secondo un ordine determinato, che può essere tradotto in forma di rapporti matematici. Il pitagorico Filolao di Crotone (V-IV secolo a.C.) definisce esplicitamente l’ armonia come ciò che esiste di più bello, in quanto «unità del molteplice composto» e «concordanza delle discordanze» (DK 44 B 4 e 11). glossario p. 48 Per i pitagorici la musica non è soltanto un piacere per l’orecchio o una forma d’arte, ma La musica anche un aspetto della cosmologia: essi sono convinti, infatti, che le sfere celesti, muoven- e la bellezza del cosmo dosi, producano una splendida melodia, la più bella che si possa immaginare. L’uomo è da sempre immerso in tale insieme di suoni: per questo non lo avverte e crede di udire soltanto silenzio; ma se questa armonia delle sfere cessasse, soltanto allora ci si renderebbe conto di che cosa sia davvero il silenzio. Per i pitagorici, quindi, anche ciò che può sembrare lontano dal numero risulta riconducibile a una struttura quantitativa e misurabile. In questo sta la loro grande importanza per la storia del pensiero: nell’essere stati i primi a ricondurre ogni aspetto del mondo a una serie di rapporti tra numeri, ovvero a un ordine misurabile nel quale è riconoscibile, da un lato, il carattere che fa della natura qualcosa di oggettivo (cioè di veramente reale e indagabile da parte del pensiero umano) e, dall’altro, ciò che dà al mondo la sua unità, la sua armonia e, quindi, anche la sua bellezza. Considerato come un tutto armonico e ben organizzato, l’universo dei pitagorici è un cosmo (in greco kósmos), termine che in origine significava “ordine” e che proprio la scuola pitagorica attribuisce per la prima volta al mondo nel suo complesso.
Questo consisteva in una cassa di risonanza sulla quale era tesa una corda: fissata alle due estremità era appoggiata su un sostegno mobile (il cosiddetto “ponticello”, che ancora oggi è presente, sebbene fisso, negli strumenti a corda), il quale la suddivideva in due segmenti di lunghezza variabile. Pizzicando o percuotendo uno dei due segmenti della corda, si ottenevano suoni diversi, tanto più acuti quanto più corto era il segmento. Pitagora stabilì che due suoni erano tra loro “consonanti”, cioè armonici e gradevoli se prodotti simultaneamente o in sequenza, in quattro casi: quando derivavano da corde di lunghezza uguale (rapporto di 1:1), oppure da corde lunghe l’una la metà dell’altra (rapporto di 1:2), oppure l’una i due terzi dell’altra (rapporto di 2:3) o, infine, l’una i tre quarti dell’altra (rapporto di 3:4). Usando il linguaggio musicale odierno, possiamo osservare che i suoni così prodotti sono rispettivamente: 1. due suoni all’unisono, cioè due suoni uguali;
2. due suoni separati da un intervallo di ottava (come due note “do” distanti tra loro 8 note); 3. due suoni separati da un intervallo di quinta giusta (come le note “do” e “sol”, che distano tra loro 5 note, equivalenti a 7 semitoni); 4. due suoni separati da un intervallo di quarta giusta (come le note “do” e “fa”, che distano tra loro 4 note, equivalenti a 5 semitoni). Pertanto si può affermare che a Pitagora si deve la prima scala musicale della storia, ovvero la prima successione armonica e codificata di suoni.
La valenza morale della musica Accanto agli aspetti metafisici e matematici dei suoni, la scuola pitagorica sottolineò anche la valenza morale e pedagogica delle composizioni musicali. Queste, infatti, essendo espressioni di ordine e armonia, erano considerate capaci di agire positivamente sui turbamenti dell’anima, riportando equilibrio nel caos dei sentimenti e della volontà.
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L’opposizione cosmica tra il limite e l’illimitato Pari e dispari, Se la sostanza delle cose è il numero, le opposizioni tra le cose sono riconducibili a oppoovvero sizioni tra numeri. Ora, in questo ambito l’opposizione fondamentale è quella tra pari e illimitato e limitato dispari, che per i pitagorici si riflette in tutte le cose, anche nel mondo nella sua totalità,
dividendo ogni categoria di cose esistenti e il mondo stesso in due parti, l’una corrispondente al pari, l’altra al dispari. Il pari è, nella sua essenza, un’entità illimitata, ossia non compiuta e non terminata. Il dispari è invece un’entità limitata, ovvero terminata e compiuta. Ciò appare chiaramente dalle figure seguenti: 2
4
6
3
5
7
Come si può notare, le serie parallele di punti di cui sono costituiti i numeri pari non trovano un termine che completi la figura e ne chiuda lo spazio interno, tanto che sembrano poter procedere indefinitamente, cosa che non accade per i numeri dispari. L’imperfezione Secondo un modo di pensare tipicamente greco, i pitagorici associavano l’illimitato all’indell’infinito determinato o all’incompleto, e quindi a qualcosa di difettoso, mentre facevano corri-
spondere il limitato al determinato o al compiuto, e quindi a qualcosa di perfetto. Questo schema concettuale – che in una certa misura è presente anche nel nostro linguaggio comune, come quando parliamo di un lavoro “finito” per alludere a un lavoro accurato, o di un’opera d’arte “compiuta” per riferirci a una creazione artistica portata alla sua forma perfetta – spiega anche perché i pitagorici vedessero nel limite il principio attivo e determinante delle cose, e nell’illimitato l’elemento passivo e bisognoso di determinazione. La stessa vicenda dell’universo appariva ai loro occhi come un processo di eterno trionfo del limite sull’illimitato, dell’ordine sul disordine, della forma sul caos.
Le opposizioni All’opposizione tra limitato e illimitato, ovvero tra dispari e pari, i pitagorici accostano poi alfondamentali tre coppie di opposti (tutte riconducibili alla prima), nelle quali l’ordine, il bene e la perfezione
stanno sempre dalla parte del dispari e del limite, mentre il disordine, il male e l’imperfezione sono dalla parte del pari e dell’illimitato. Si avevano così dieci opposizioni fondamentali: 1. limitato-illimitato 6. quiete-movimento 2. dispari-pari 7. retta-curva 3. unità-molteplicità 8. luce-tenebre 4. destra-sinistra 9. bene-male 5. maschio-femmina 10. quadrato-rettangolo Nel mondo tutti questi opposti sono conciliati da un principio di armonia universale, il cui modello è costituito dai perfetti rapporti numerici esistenti tra i suoni degli accordi musicali. ( T4 p. 53)
Una filosofia Sulla base di quanto detto, si può considerare la dottrina pitagorica come una forma dualistica di dualismo , poiché spiega la realtà sulla base di una contrapposizione fondamentale tra
due princìpi opposti (il dispari e il pari), che si concretizza nella “lotta” del limite contro l’illimitato. glossario p. 48
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filosofia e scienza
La crisi dell’aritmo-geometria Secondo la tradizione, il tentativo di trovare il rapporto numerico tra la misura della dia- La scoperta gonale di un quadrato e quella del suo lato portò i pitagorici alla scoperta dei cosiddetti dei numeri irrazionali numeri “irrazionali”, cioè di quei numeri che non sono esprimibili mediante frazioni (rapporti tra numeri interi). Cercando il numero per il quale la misura del lato di un quadrato deve essere moltiplicata per ottenere la misura della diagonale, i pitagorici si imbatterono infatti in √2, il cui valore (1, 41421356…) non corrisponde ad alcuna frazione. La scoperta dell’esistenza di grandezze “incommensurabili” (quali sono appunto la diagonale e il lato del quadrato) fu drammatica, e considerata talmente “scandalosa” da essere tenuta nascosta per molto tempo, fino a quando, sempre secondo la tradizione, non fu svelata ad estranei dal pitagorico Ippaso di Metaponto (seconda metà del V secolo a.C.), il quale, una volta scoperto, fu cacciato dalla scuola. Alcune leggende raccontano che i suoi compagni gli eressero una tomba mentre era ancora in vita, e che Zeus lo fece perire in mare in un naufragio. Questa fioritura di aneddoti conferma come la scoperta dei numeri irrazionali avesse scosso nelle fondamenta non soltanto la matematica, ma anche la metafisica dei pitagorici, e come si fosse prodotta una crisi in seguito alla quale l’aritmetica si sarebbe separata dalla geometria. Il pensiero greco si era drammaticamente imbattuto nei problemi dell’infinito matematico: una ferita che sarebbe stata riaperta nel V secolo a.C. da Zenone di Elea ( cap. 3, p. 67), che con i suoi “paradossi” avrebbe evidenziato altre difficoltà logiche connesse al rapporto tra il finito (geometrico) e l’infinito (aritmetico).
Il problema dell’infinito
FILOSOFIA E SCIENZA I pitagorici e i numeri irrazionali p. 60
Le dottrine astronomiche In astronomia, i pitagorici sostennero per primi la sfericità della Terra e dei corpi celesti I corpi celesti in genere. A questa convinzione furono condotti dall’idea secondo cui la sfera è la più perfetta tra le figure solide, perché, avendo tutti i suoi punti equidistanti dal centro, è l’immagine stessa dell’armonia. Essi ebbero anche altre geniali intuizioni, che li fanno riconoscere come i più antichi precur- Le teorie sori della cosmologia moderna. In particolare, il già citato Filolao fu il primo ad abbandonare di Filolao l’ipotesi (che si presenta come la più ovvia interpretazione delle apparenze sensibili) della Terra come centro fisso del mondo, e a ipotizzare che essa e tutti gli altri corpi celesti si muovessero piuttosto intorno a un fuoco centrale (detto hestía, “focolare”), che ordinava e plasmava la materia illimitata circostante, dando origine al mondo. Più precisamente, Filolao riteneva che intorno al fuoco centrale si muovessero, da occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, che era il più lontano dal centro, e poi, a distanza sempre minore, i cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere), il Sole (che come una grande lente raccoglieva e rifletteva intorno a sé i raggi del fuoco centrale), la Luna, la Terra e l’Anti-Terra, un pianeta di cui Filolao ipotizzò l’esistenza per completare il sacro numero di dieci. Nel movimento dei corpi celesti intorno alla luce prodotta dal fuoco centrale i pitagorici individuavano la causa dell’alternarsi del giorno e della notte. ( T5 p. 55) Un altro membro della scuola pitagorica, Ecfanto di Siracusa, fu il primo a riconoscere la Verso l’ipotesi rotazione della Terra intorno al proprio asse, che egli immaginava disposto nella direzione eliocentrica del fuoco centrale e dell’Anti-Terra. E si dice che un altro pitagorico, Enoclide, abbia riconosciuto l’obliquità dell’eclittica rispetto all’equatore celeste.
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L’ipotesi pitagorica del movimento della Terra si trasformerà in una vera e propria ipotesi eliocentrica nel III secolo a.C., quando Aristarco di Samo ( vol. 1B, unità 5, cap. 1) collocherà il Sole al posto del fuoco centrale. La voce di Aristarco sarà poi sommersa dall’imperante teoria geocentrica aristotelico-tolemaica ( unità 4, p. 400), per ritornare alla ribalta soltanto nel XVI secolo, grazie all’opera dell’astronomo polacco Niccolò Copernico (Mikołaj Kopernik, 1473-1543).
L’antropologia e la morale L’anima come Al pitagorismo vengono ricondotte teorie antropologiche diverse. Da un lato, sembra che armonia anche per l’interpretazione dell’uomo e del suo mondo i pitagorici si siano avvalsi delle lo-
ro idee matematiche, che li avrebbero portati a considerare l’anima umana come “armonia”, in quanto risultante dalla composizione armonica degli elementi che costituiscono il corpo, così come l’armonia musicale risulta dalla composizione armonica degli elementi che costituiscono lo strumento musicale. Di questa dottrina si trova traccia nel Fedone di Platone, dove essa viene esposta da Simmia, scolaro di Filolao.
Il dualismo Accanto a questa teoria, che non è confermata da tutti i dossografi (Aristotele, ad esempio, anima-corpo non vi fa cenno), se ne trova attestata un’altra ben diversa, completamente incentrata sulla
ESERCIZI
idea di derivazione orfica del corpo come prigione dell’anima ( p. 37). Non a caso furono i pitagorici – per i quali le parole esprimevano in qualche misura il significato profondo delle cose – a richiamare l’attenzione sulla vicinanza tra il termine sóma, “corpo”, e il termine séma, “tomba”: il corpo era per loro la tomba dell’anima, dove quest’ultima si trovava imprigionata per espiare la propria colpa. Tale colpa attribuita all’anima non era intesa come una violazione particolare commessa volontariamente da un singolo essere, ma come una sorta di “ingiustizia cosmica”, simile a quella che le cose necessariamente commettevano l’una nei confronti dell’altra nella dottrina di Anassimandro ( p. 34). In ogni caso, questa visione antropologica tragicamente dualistica, secondo la quale l’uomo è diviso tra una parte nobile, l’anima, e una vile, il corpo, connoterà un ampio settore della filosofia greca, giungendo fino a Platone. Essa condurrà inoltre a svilire il ruolo della conoscenza sensibile e lascerà tracce profonde nell’impianto razionalistico dell’etica di innumerevoli pensatori.
La giustizia Per quanto riguarda la morale, anche in questo campo i pitagorici ricorsero alla dottrina come armonia dell’armonia. Ad esempio, associarono il numero 4 o il 9 (ovvero due numeri quadrati,
ottenuti moltiplicando il 2 e il 3 per sé stessi) alla giustizia, poiché questa consiste nel remunerare meriti uguali con uguali compensi e colpe uguali con uguali pene.
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Per l’esposizione orale
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1. Spiega il valore assunto nella riflessione pitagorica dai seguenti concetti: numero, armonia, cosmo. 2. Spiega che cosa comportò per il pitagorismo la scoperta dei numeri irrazionali. 3. Illustra le principali dottrine astronomiche dei pitagorici, sottolineandone gli aspetti di modernità. 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera l’idea pitagorica dell’anima come risultante dell’armonia tra le varie parti del corpo. In un certo senso sembra anticipare l’odierna concezione olistica della salute come condizione complessiva di benessere psico-fisico: qual è la tua opinione al riguardo? Argomenta la tua risposta.
Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
4. eraclito Di Eraclito, che nacque e visse nella colonia ionica di Efeso tra il VI e il V secolo a.C., sappiamo pochissimo. La sua biografia si perde nella leggenda. Sembra che fosse di nobili natali e di fiere tendenze aristocratiche, tanto da far assumere alla sua filosofia un tono talvolta altezzoso, che la distingue da quella dei pensatori precedenti e che rivela come egli, pur vivendo in una roccaforte di democratici, appartenesse a un indirizzo politico avverso al démos e alla sua cultura. Tutto dedito alle sue ricerche, Eraclito scrisse un’opera in prosa – che fu poi indicata con il titolo Sulla natura – costituita da aforismi e sentenze brevi e taglienti, la cui enigmaticità spiega l’appellativo di “oscuro” con cui il filosofo fu soprannominato dalla tradizione.
Un pensatore “oscuro”
FILOSOFIA E ARTE Il pianto e il riso di Eraclito e Democrito p. 106
Svegli e dormienti, ovvero filosofi e uomini comuni Alla base del pensiero di Eraclito vi è la contrapposizione tra la filosofia, da lui identifica- Verità e ta con la conoscenza della verità, e la mentalità comune, da lui ritenuta fonte di errore. illusione Eraclito pensa infatti che la maggioranza degli uomini, «i più», vivano come immersi in un sogno, in un’illusione, incapaci di comprendere le autentiche leggi del mondo. A questi «dormienti», cioè ai non-filosofi, egli contrappone gli uomini «svegli», i filosofi, i quali, andando al di là delle apparenze immediate, sanno cogliere il nòcciolo segreto delle cose. Alcuni studiosi hanno identificato la distinzione eraclitea tra «i più» e i filosofi con la contrapposizione fra il popolo e gli aristocratici, proponendo un’interpretazione globale di Eraclito come ideologo dell’aristocrazia e in lotta con la democrazia. Altri, contestando questo punto di vista come non sufficientemente suffragato dai testi, hanno letto la contrapposizione eraclitea in senso puramente filosofico e non sociologico, riferendola esclusivamente al contrasto fra la conoscenza autentica (propria dei filosofi) e la conoscenza illusoria (di cui si accontentano gli uomini comuni). Con più verosimiglianza, si può forse dire che l’antitesi in questione, pur avendo un significato fondamentalmente filosofico, risulta esasperata dalla mentalità e dalle tendenze aristocratiche di Eraclito, delle quali tuttavia, in concreto, sappiamo ben poco. ( T6 p. 56) Filosofo vero, per Eraclito, è dunque colui che, abbandonando l’ingannevole mondo delle I tratti idee comuni e delle false evidenze di cui si nutrono «i più», sa riflettere in solitudine, dell’autentico filosofo scandagliando con acume la propria anima, la quale, essendo senza confini, offre il campo a una ricerca senza fine: «Io ho indagato me stesso» (frammento 101); «Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione» (frammento 45). Filosofo vero, inoltre, è colui che, a differenza degli antichi maestri di sapienza (Omero, Pitagora ecc.) e della loro “multi-scienza” – tesa ad accumulare dati su dati, ma ferma a vagare sulla superficie delle cose –, possiede una visione profonda del mondo. Filosofo vero è poi chi sa elevarsi a una veduta complessiva dell’essere, ponendosi in antitesi rispetto ai cultori delle discipline particolari e delle tecniche, prigionieri di un’ottica parziale. Filosofo vero, infine, è chi risulta in grado di individuare una propria condotta di vita indipendente dai gusti e dalle predilezioni degli uomini volgari: «Se la felicità s’identifica con i piaceri del corpo, diremo felici i buoi, quando trovano piante leguminose da mangiare» (frammento 4); «Rispetto a tutte le altre, una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria immortale rispetto alle cose passeggere: i più invece pensano solo a saziarsi come bestie» (frammento 29); «Uno val per me diecimila, se è il migliore» (frammento 49).
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La dottrina del divenire L’incessante Eraclito è passato alla tradizione come “il filosofo del divenire”, in quanto descrive il mondivenire di do come un flusso perenne in cui «tutto scorre» (in greco pánta réi), analogamente a tutta la realtà
quanto fa la corrente di un fiume, le cui acque non sono mai le stesse:
‘
Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone di (Eraclito, frammento 91) nuovo, tutto viene e va.
La forma dell’essere, per Eraclito, è dunque il divenire , poiché ogni cosa che esiste è soggetta allo scorrere del tempo e alla trasformazione, e anche ciò che sembra statico e fermo è in realtà dinamico. ( T7 p. 57) glossario p. 48 Una questione Per lo scarso numero di frammenti di Eraclito che testimoniano la concezione di un incescontroversa sante divenire della realtà, alcuni critici sono giunti alla conclusione che la dottrina del
“tutto scorre” non sarebbe propria di questo filosofo (tanto più che l’espressione pánta réi non si trova nei suoi frammenti) ma soltanto dei suoi discepoli. Tuttavia, poiché l’interpretazione classica è quella storicamente accettata dagli stessi filosofi greci posteriori a Eraclito, in mancanza di argomenti decisivi in contrario continueremo ad attenerci a essa, ritenendo poco utile, oltre che inverificabile, distinguere tra il maestro e i suoi allievi.
Il fuoco come arché La concezione della realtà come perpetuo fluire si concretizza nella tesi secondo cui il
I NODI principio di tutte le cose è il fuoco, elemento mobile e distruttore per eccellenza, che ben DEL PENSIERO simboleggia la visione eraclitea del cosmo come energia in perpetua trasformazione. Per Nel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta? p. 469
Eraclito, tutto ciò che esiste proviene dal fuoco e ritorna al fuoco, secondo il duplice processo della «via all’in giù» (il fuoco, condensandosi, diventa acqua e poi terra) e della «via all’in su» (la terra, rarefacendosi, si fa acqua e poi fuoco).
La dottrina dei contrari La parte più originale del pensiero eracliteo – per la quale disponiamo anche dei frammenti più significativi – è la dottrina dell’unità dei contrari. La vita come Molti – dice Eraclito – ritengono che un opposto possa esistere senza il suo corrisponopposizione dente (ad esempio, che il bene possa esistere senza il male), oppure che la vita possa esdi contrari
I NODI DEL PENSIERO Da dove viene il male? p. 325
sere considerata un porto tranquillo, dalle acque quiete. Filosoficamente parlando, però, questa è una credenza illusoria, poiché la legge segreta del mondo, di cui Eraclito vuol essere lo scopritore e il banditore, risiede proprio nella stretta connessione dei contrari. In quanto opposti, i contrari lottano tra loro – poiché «L’uno vive la morte dell’altro, come l’altro muore la vita del primo» – ma nello stesso tempo non possono stare l’uno senza l’altro, in quanto sussistono soltanto l’uno in virtù dell’altro (ad esempio, la sazietà in virtù della fame, la salute in virtù della malattia, la giustizia in virtù dell’offesa ecc.). ( T9 p. 58)
Il lógos, Ciò che a prima vista può sembrare disordine e irrazionalità, ossia la lotta delle cose tra legge loro, a uno sguardo più profondo manifesta dunque una propria razionalità, consistente profonda del reale appunto nel fatto che un opposto non può esistere indipendentemente dall’altro. Anzi,
Eraclito è talmente persuaso della “logicità” dell’universo da definire la legge dell’interdipendenza e inscindibilità degli opposti con il termine lógos , “ragione”, e da denominare indifferentemente il principio dell’universo come fuoco o come lógos, intendendo con il primo il principio fisico che costituisce le cose e con il secondo la legge universale che le governa. glossario p. 48
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Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
La scoperta dell’unità degli opposti – che è la legge stessa della vita – porta Eraclito a ri- La vita come tenere che l’armonia del mondo non risieda nella conciliazione dei contrari, ossia nel conflitto raggiungimento di una “morta quiete”, bensì nel mantenimento del conflitto. La vita è lotta e opposizione, e la sua essenza risiede proprio nel conflitto, senza il quale non ci sarebbe l’essere. Contro Omero, che aveva detto: «Possa la discordia sparire tra gli dèi e gli uomini», Eraclito obietta: «Omero non s’accorge che egli prega per la distruzione dell’universo, perché se la sua preghiera fosse esaudita, tutte le cose perirebbero», in quanto «Pólemos [la guerra, il conflitto] è padre di tutte le cose, di tutte re» (DK 22 B 53). ( T8 p. 58)
La dottrina dell’universo La grandiosa visione cosmologica di Eraclito sfocia nell’identificazione panteistica dell’universo Il panteismo con Dio, inteso come unità di tutti i contrari, mutamento continuo e fuoco generatore. In un celebre frammento che può essere considerato la sintesi del suo pensiero, Eraclito sentenzia infatti:
‘ ‘
La divinità è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Ed essa muta come il Fuoco. (Eraclito, frammento 67)
Questo “Dio-Tutto”, che comprende in sé ogni cosa, costituisce una realtà increata che esi- La visione ciclica ste da sempre e per sempre:
dell’universo
Il nostro mondo, che è lo stesso per tutti, nessuno degli dèi o degli uomini l’ha creato, ma fu sempre, è e sarà fuoco eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine (Eraclito, frammento 30) regolare si spegne.
In queste righe è riconoscibile un abbozzo di visione ciclica del mondo, secondo la quale la vita dell’universo è un eterno alternarsi di produzione e distruzione. In altre parole, per Eraclito il mondo ritorna, dopo un certo periodo, al caos primitivo, da cui emergerà di nuovo per ricominciare il suo corso sempre uguale. Questa concezione – embrionalmente presente, oltre che in Eraclito, anche nell’orfismo, in Anassimandro e nel pitagorismo – sarà ripresa da Empedocle ( cap. 4, p. 81) e troverà ulteriori sviluppi soprattutto nel pensiero degli stoici ( vol. 1B, unità 5, cap. 3).
IL FUOCO O IL LÓGOS
è
una realtà eterna e divina
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del mondo? p. 321
nella lotta fra contrari che regola la vita delle cose che si realizza nel ciclico alternarsi di produzione e distruzione del mondo
La dottrina della conoscenza Come si è già detto, Eraclito rivolge una critica radicale ai «dormienti», cioè agli uomini che La critica ai si fermano alle apparenze e che non indagano a fondo la natura delle cose, restando così «dormienti» esclusi dalla comprensione dell’autentica legge del tutto (il lógos), cioè l’armonica unità dei contrari. Soltanto chi è in grado di uscire dal “dormiveglia” quotidiano può intendere davvero quelle leggi oggettive del mondo che, una volta scoperte, si impongono a ogni mente pensante:
‘
Chi vuol parlare con intelligenza deve farsi forte di ciò che è comune a tutti. (Eraclito, frammento 114)
ESERCIZI
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La fiducia Tuttavia, Eraclito ha una visione piuttosto semplice della conoscenza. Egli crede nella nell’esperienza sostanziale affidabilità dell’esperienza immediata e nella veridicità delle informazioni sensibile
I NODI DEL PENSIERO Qual è l'origine della conoscenza? p. 481
che ci vengono fornite dai sensi. Così finisce per affermare di preferire «le cose di cui c’è vista, udito ed esperienza» (DK 22 B 55) o per dichiarare che «il Sole ha la larghezza di un piede umano» (DK 22 B 3). Tutto ciò può sembrare quasi un passo indietro rispetto agli ionici e ai pitagorici, i quali si affidavano sia all’esperienza, ovvero al rilevamento dei dati empirici (dal greco empeiría, “esperienza”), sia alla ragione e alla sua capacità di andare oltre i dati particolari e limitati rilevati; tuttavia costituisce anche un possibile antidoto contro quella radicale negazione del valore dell’esperienza sensibile che caratterizzerà (come vedremo nel prossimo capitolo) la scuola eleatica.
)
Per l’esposizione orale
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1. Illustra i passaggi fondamentali della dottrina eraclitea, usando i seguenti concetti: divenire, contrari, lógos. 2. Spiega in che senso l’armonia dell’universo coincide, per Eraclito, con il mantenimento del conflitto. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la distinzione tra «svegli» (i filosofi) e «dormienti» (le persone comuni). Al di là delle sue diverse interpretazioni possibili, essa nasconde l’invito a “filosofare”, intendendo con questo termine il voler approfondire ogni questione, con mente libera da preconcetti e atteggiamento critico. Ritieni utile essere “filosofi” oggi? Puoi fare un esempio, tratto dalla tua esperienza concreta, di atteggiamento “filosofico”?
Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 2 LA RICERCA DEL PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE La scuola di Mileto I primi a poter essere considerati filosofi sono alcuni pensatori vissuti nelle colonie greche della Ionia, e più precisamente a Mileto, dove nasce una scuola concentrata sullo studio della
• natura
termine derivante dalla radice latina gna-, che indica la “generazione” e da cui proviene anche il verbo nasci, “nascere”. La parola greca per indicare la natura era phýsis, che deriva dal verbo phýo, “genero”. Parlando di “natura” i pensatori ionici intendevano quindi tutto ciò che è soggetto a nascita, cioè l’insieme di tutto ciò che esiste o che accade, ma anche l’elemento che ne è alla base, ovvero “la natura della natura”, il suo intrinseco principio di vita e di movimento.
Il principale impegno teorico dei primi filosofi è proprio questo: la ricerca del principio che consente di spiegare l’origine e le manifestazioni di tutta la realtà esistente. A tale principio essi danno il nome di
• arché
parola che sembra sia stata introdotta in filosofia dal pensatore ionico Anassimandro (v. oltre), per indicare l’elemento da cui tutto prende origine e in virtù del quale tutto si mantiene in vita. L’arché è per gli ionici sia la materia di cui sono fatte le cose, sia la forza che le genera, sia la legge che le governa e le rende intelligibili alla mente umana.
Talete Il fondatore della scuola di Mileto è Talete. Egli individua l’arché nell’acqua, alla quale attribuisce il ruolo di
• sostanza
letteralmente, “ciò che sta sotto” (dal latino substantia, composto dalla preposizione sub, “sotto”, e dal verbo stare, “stare”, “trovarsi”). Sebbene nato in epoca medievale, il termine latino substantia ricalca il greco antico hypokéimenon, che aveva lo stesso significato e che i filosofi alternavano a ousía, a sua volta corrispondente al latino essentia, “essenza”.
L’acqua, per Talete, è “sostanza” di tutte le cose sia perché costituisce il principio della vita e del mondo, sia perché è l’elemento fisico che sostiene la Terra.
Anassimandro Allievo di Talete è Anassimandro, per il quale l’arché è invece una sorta di materia primordiale indistinta, a cui egli dà il nome di
• ápeiron
termine che significa sia “infinito” sia “indeterminato” (dal prefisso a-, “non”, “senza”, e dal sostantivo péras, “limite”). Anassimandro lo usa per indicare il principio di tutte le cose, intendendolo non come una miscela di elementi corporei diversi, ma piuttosto come una materia in cui tali elementi non sono ancora distinti l’uno dall’altro, e che perciò, oltre che infinita (nel senso di illimitata), è anche indefinita, o indeterminata. Dall’ápeiron, gli elementi che danno vita al mondo emergono mediante un processo di differenziazione dei contrari.
Anassimene Il terzo grande pensatore della scuola di Mileto è Anassimene, il quale individua l’arché nell’aria, forza infinita e in perenne movimento che anima il mondo e che determina la nascita e la trasformazione di tutte le cose attraverso il doppio processo della rarefazione e della condensazione.
La scuola pitagorica La ricerca dell’arché impegna anche la scuola fondata da Pitagora a Crotone. Qui si perviene a un’idea completamente diversa da quella elaborata dai pensatori ionici: osservando che ogni cosa è misurabile, e che il cosmo rivela un ordine matematico, i pitagorici identificano il principio della realtà non con un elemento materiale, bensì con il
• numero
termine con cui oggi si intende comunemente un astratto contenuto della mente, mentre per i pitagorici indicava qualcosa di concreto, che essi ponevano alla base della costituzione di tutti i corpi fisici. A ogni numero facevano corrispondere una figura geometrica: all’1 il punto, al 2 la linea, al 3 il triangolo («figura piana primissima»), al 4 il tetraedro («figura solida primissima» ed elemento base di ogni corpo fisico). Al di là di questa identificazione, affermando che il numero è il principio di tutte le cose, e quindi che il mondo è “fatto di numeri”, i pitagorici intendevano sostenere che la natura autentica e profonda del mondo consiste in un ordinamento geometrico esprimibile numericamente, cioè nel suo essere misurabile.
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Non a caso, al centro degli studi della scuola di Crotone si trova la matematica, che proprio grazie ai pitagorici si configura per la prima volta come disciplina scientifica. Ma, al di là delle teorie matematiche in senso stretto (che è difficile ricostruire), la dottrina pitagorica del numero è una forma di
• dualismo
termine usato per la prima volta nel Settecento, per designare una teoria che vede nella realtà il risultato dell’azione di due princìpi opposti e irriducibili l’uno all’altro. Nel caso dei pitagorici, tali princìpi sono il dispari e il pari, corrispondenti al limite (ovvero a ciò che è determinato e compiuto, e quindi buono) e all’illimitato (ovvero a ciò che è indeterminato e incompleto, e quindi cattivo).
Alla matematica è collegata la musica, a cui i pitagorici danno un notevole impulso studiando i rapporti numerici che devono sussistere tra le note di una melodia o di un accordo perché questi risultino piacevoli. A tale piacevolezza, derivante da un insieme “ordinato” di suoni, essi danno il nome di
• armonia
(in greco harmonía, “accordo”, “giusta mescolanza”) al di là della specifica accezione musicale, nei pitagorici corrisponde all’idea di un ordine finalisticamente organizzato – e numericamente esprimibile – che presiede alle parti di un tutto. Un tale ordine non esclude le opposizioni, anzi le implica, configurandosi come la loro superiore mediazione o conciliazione.
Il concetto di “armonia” è alla base di ogni ambito dell’indagine pitagorica: dalla cosmologia (l’universo è un tutto armonicamente ordinato, ma anche un insieme di sfere celesti che si muovono producendo una meravigliosa melodia) all’etica (la giustizia coincide con un’equa o armonica distribuzione di compensi o punizioni a seconda dei meriti o delle colpe), all’antropologia (l’anima umana è la risultante della composizione armonica degli elementi che formano il corpo). E proprio la concezione dell’essere umano è particolarmente interessante: accogliendo la lezione dell’orfismo, i pitagorici ritengono che, a causa di un’ingiustizia cosmica, l’anima si trovi “imprigionata” nella materia del corpo, dalla quale può “purificarsi” con una condotta di vita ascetica, nell’attesa di liberarsene definitivamente nel momento della morte.
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Di derivazione orfica è anche la dottrina della
• metempsicòsi
letteralmente, “trasferimento dell’anima” (in greco metempsýchosis, dalla preposizione metá, “oltre”, “attraverso”, e dal sostantivo psyché, “anima”). Il termine indica la dottrina della “trasmigrazione delle anime”, secondo cui nel momento della morte l’anima lascia il proprio corpo per trasferirsi (“trasmigrare”) in un altro, fino a quando non si sia del tutto purificata e affrancata dalla materia.
I pitagorici vantano importanti intuizioni anche nel campo dell’astronomia: si pensi all’idea della sfericità dei corpi celesti e alla teoria secondo cui i pianeti ruotano attorno a un “fuoco” centrale.
Eraclito Una soluzione ancora diversa al problema dell’arché è offerta da Eraclito di Efeso. Egli distingue tra l’opinione comune, che è fonte di errore, e la filosofia, che è l’unica via che porta a scorgere la verità al di là delle apparenze, e a riconoscere il
• lógos
(dal verbo léghein, “raccogliere”, “tenere insieme”) termine che indica sia il discorso (che “unisce” tra loro parole e concetti) sia la legge che presiede ai diversi aspetti del reale (“tenendoli uniti” nonostante le loro differenze).
Più precisamente, per Eraclito la legge profonda che governa la realtà coincide con il
• divenire
l’essenza del mondo, la legge immutabile che regge tutte le cose, le quali incessantemente e ciclicamente sono soggette a mutamento, come le acque di un fiume.
Osservando il divenire del mondo, Eraclito vi riconosce i tratti del conflitto (Pólemos) e dell’opposizione fra contrari (giorno e notte, luce e ombra, salute e malattia ecc.), i quali non possono esistere l’uno senza l’altro e, pur restando sempre in lotta tra loro, si armonizzano senza “appiattirsi” nella reciproca conciliazione. Questa è dunque la legge del mondo, che permane sempre identica, celata dal perenne trasformarsi delle cose e talvolta identificata da Eraclito con il fuoco, elemento mobile e distruttore per eccellenza.
Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
MAPPE
CAPITOLO 2 LA RICERCA DEL PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE LA SCUOLA DI MILETO è rappresentata da
Talete
Anassimandro
Anassimene
per il quale
per il quale
per il quale
il principio è l’acqua
il principio è l’ápeiron
il principio è l’aria
che è
che è
da cui le cose derivano per
la sostanza del mondo
materia infinita e indeterminata
separazione dei contrari
da cui le cose derivano per
che è
materia infinita forza che anima il mondo
“sta sotto” la Terra, sostenendola
rarefazione e condensazione
PITAGORA E I PITAGORICI si occupano di
matematica
filosofia
astronomia
antropologia
etica
che
concependo
intuendo
concependo
concependo
la sfericità dei corpi celesti il movimento dei corpi celesti attorno a un “fuoco” centrale
il corpo come prigione dell’anima l’anima come armonia tra gli elementi del corpo
la giustizia come armonia
fondano come disciplina scientifica
il numero come arché il cosmo come ordine e armonia tra limite e illimitato (dispari e pari)
ERACLITO distingue tra
filosofia
opinione comune
che riconosce
che è
la legge segreta del mondo (il lógos)
fonte di errore
nell’incessante divenire dell’universo
nella lotta e nell’unità dei contrari
nel fuoco, simbolo di perenne trasformazione
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CAPITOLO 2 LA RICERCA DEL PRINCIPIO DI TUTTE LE COSE
talete
Del pensiero di Talete conosciamo così poco che alcuni studiosi hanno ritenuto più corretto far cominciare la filosofia con Anassimandro. Noi ci atteniamo alla visione tradizionale, che del resto è suffragata da un certo numero di testimonianze affidabili. Tra queste spicca quella di Aristotele (384-322 a.C.), che per primo identificò l’indagine dei filosofi presofisti con la ricerca del principio materiale da cui tutte le cose derivano e che permane al di là del mutare di tutte le cose. TESTO
1
L’acqua come principio (testimonianza da Aristotele, Metafisica) In questo passo Aristotele offre una preziosa chiave interpretativa per ricostruire il pensiero di Talete.
La supposizione Ci dev’essere una qualche sostanza, o una o più di una, da cui le altre cose vengono all’esidi talete stenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non di- 2
cono tutti lo stesso; Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo 4 che il nutrimento di tutte le cose è l’umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio); di qui dunque egli ha tratto forse tale 6 supposizione, e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide. 8
Un’idea Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi, molto anteriori all’attuale generazioantichissima ne e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che 10
Oceano e Tetide sono gli autori della generazione [delle cose].
(DK 11 A 12, trad. it. di R. Laurenti, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1969)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La supposizione di Talete (rr. 1-8) Aristotele sembra sottolineare il metodo empirico utilizzato da Talete, ma anche il carattere teorico della sua ricerca. Talete, infatti, parte dall’osservazione di un dato di
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fatto – dove c’è vita, c’è acqua –, per poi estenderne la portata fino a formulare un principio metafisico, asserendo che le cose non soltanto necessitano dell’acqua per vivere, ma sono esse stesse acqua. Si tratta di una
Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
generalizzazione di tipo teorico o speculativo, ossia di un’affermazione che va oltre ciò che risulta immediatamente constatabile. È interessante osservare che l’acqua a cui Talete fa riferimento è materiale e concreta: non si tratta di un elemento primigenio, dotato di una dignità peculiare rispetto a quella che caratterizza l’acqua di cui tutti facciamo esperienza nella quotidianità, bensì proprio di quest’ultima, con cui ci laviamo e che beviamo. In quanto arché, tuttavia, essa possiede una funzione che eccede l’ambito dell’immediatezza sensibile e che la rende fonte originaria non soltanto dei fiumi e dei mari, ma anche di tutte le cose che esistono, comprese quelle che non sono liquide. Un’idea antichissima (rr. 9-11) Il mito di Oceano e Tetide (o Teti, secondo la denominazione più diffusa) è uno dei più antichi racconti cosmogonici (ossia sulla
nascita dell’universo), attestato anche da Omero (Iliade, XIV, 201). Il fatto che Aristotele lo richiami ci dà indicazioni sui rapporti tra la nascente filosofia e il mito, che viene considerato una forma di conoscenza per nulla superata, ma che, al contrario, contribuisce a indirizzare rettamente il pensiero. La novità introdotta dall’atteggiamento filosofico è che il sapere mitologico non è più accolto come indiscutibile, ma sopravvive nella misura in cui l’esperienza e, soprattutto, la ragione lo confermano e lo autorizzano. Non è un caso che la filosofia, ai suoi albori, sia apparsa come un tentativo di razionalizzare e laicizzare il mito, eliminandone gli aspetti di credenza religiosa. La religione, in questa fase, è un ambito ancora “esterno” rispetto alla ragione, il cui spazio andrà fatalmente restringendosi con il progresso della conoscenza.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Talete si propone di individuare un principio unico e permanente da cui le cose mutevoli derivano. Rifletti sull’attualità di questa ricerca e sulla possibilità di trovare un’arché della natura; quindi esponi e argomenta la tua opinione in proposito (max 20 righe).
Le notizie che ci sono giunte intorno alla figura di Anassimandro ci descrivono uno scienziato impegnato a individuare strumenti per misurare lo spazio e il tempo, al fine di riuscire in qualche modo a dominarli. Probabilmente fu proprio la sua attenzione per queste dimensioni, che in qualche modo trascendono i singoli enti concreti, a condurlo a elaborare l’idea che il principio di tutte le cose non fosse un elemento materiale, ma lo sfondo indefinito da cui, con un processo di determinazione sempre crescente, emersero sia i quattro elementi fondamentali (acqua, aria, terra e fuoco), sia le cose che da essi derivano e di cui è composto il mondo della nostra esperienza. TESTO
2
L’infinito come principio
(testimonianza da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele)
Quella che segue è una testimonianza di Simplicio, filosofo e matematico attivo nel VI secolo d.C. Nelle righe qui riportate egli descrive il modo in cui Anassimandro concepiva il principio della realtà. L’ápeiron Tra quanti affermano che [il principio] è uno, in movimento e infinito, Anassimandro, fi-
glio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed ele- 2 mento degli esseri è l’infinito [ápeiron], avendo introdotto per primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l’acqua, né un altro dei cosiddetti elementi, ma 4 un’altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono
TESTI ANASSIMANDRO
anassimandro
51
[…]. È chiaro che, avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne 6 giusto di non porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi. La nascita Secondo lui, quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’ele- 8 delle cose mento, ma per distacco dei contrari [dall’infinito] a causa dell’eterno movimento. (DK 12 A 9, trad. it. di R. Laurenti, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’ápeiron (rr. 1-7) Secondo il ragionamento attribuito da Simplicio ad Anassimandro, se il principio della realtà fosse uno dei quattro elementi fisici, esso prenderebbe in qualche modo il sopravvento su tutti gli altri, distruggendo la vita del cosmo. A nessuno di essi, dunque, può essere attribuito un ruolo predominante rispetto agli altri e il principio dev’essere rintracciato in «qualcos’altro oltre questi» (r. 7). In altre parole, l’esperienza ci insegna che la vita consiste nell’alternarsi di condizioni, stati ed elementi diversi e contrari fra loro: se uno di essi si affermasse come
definitivo, cesserebbe quel divenire che è la vita stessa; dal momento che ciò è assurdo, nessun elemento in particolare può essere riconosciuto come il principio da cui derivano tutti gli altri. La nascita delle cose (rr. 8-9) L’idea che la genesi delle cose sia realizzata «per distacco» (r. 9) è uno degli aspetti di maggiore originalità nel pensiero di Anassimandro, secondo il quale la formazione del cosmo si deve alla separazione o determinazione dei contrari dall’infinito e indeterminato. A questa fase seguirà il movimento dei contrari stessi, che produce la vita.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO A differenza di altri pensatori suoi contemporanei, Anassimandro elegge a principio di tutte le cose non uno dei quattro elementi primordiali del cosmo (acqua, aria, terra e fuoco), ma l’ápeiron indeterminato. Perché, secondo Anassimandro, ciò che è particolare e definito non può essere il sostrato della realtà? Condividi questo punto di vista? Argomenta la tua risposta (max 20 righe).
anassimene
Richiamando il ragionamento di Talete, anche Anassimene individua l’arché in un elemento fisico: egli è convinto che si tratti dell’aria, essenziale alla vita dell’essere umano. TESTO
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L’aria come principio (testimonianze da Aezio, Raccolta di opinioni filosofiche; Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele)
I passi seguenti sono, rispettivamente, un frammento di Anassimene riportato dal dossografo greco Aezio (I-II secolo a.C.) e la testimonianza di Teofrasto (a sua volta riferita da Simplicio nel VI secolo d.C.) sulla sua concezione e sul percorso seguito per delinearla. Il soffio vitale Come l’anima nostra – egli dice – che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e l’aria abbrac-
ciano tutto il mondo.
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L’originarsi Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch’egli dice che del mondo una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro [Anassimandro], ma non inde- 4 dall’aria
terminata come [afferma] quello, bensì determinata – la chiama aria. L’aria differisce nelle
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Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi [o assottigliandosi] diventa fuoco, 6 condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppone eterno il movimento mediante il quale 8 si ha la trasformazione. (DK 13 B 2; DK 13 A 5, trad. it. di R. Laurenti, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il soffio vitale (rr. 1-2) Il breve frammento di Anassimene riportato da Aezio fa riferimento, in modo assai suggestivo, all’aria che gli esseri umani respirano per vivere: come la nostra vita è assimilabile al respiro, e la nostra morte al cessare di questo, così è anche per il mondo intero, tenuto insieme o “abbracciato” dall’aria. È presente qui la concezione dell’anima come pnéuma, ovvero come “soffio” che vivifica la materia del corpo. L’originarsi del mondo dall’aria (rr. 3-9) Teofrasto descrive la concezione di Anassimene per somiglian-
za e differenza rispetto a quella del suo maestro Anassimandro. Il principio di tutte le cose, sostegno («sostrato», r. 4) eterno e indiveniente al loro divenire, è per entrambi unico e infinito, ma per Anassimandro si tratta di qualcosa di indeterminato, mentre per Anassimene (che in questo senso ritorna sulle tracce di Talete) è uno dei quattro elementi fisici. La seconda parte della testimonianza chiarisce i due processi di condensazione e rarefazione mediante i quali, rispettivamente, tutte le cose esistenti si generano dall’aria e ad essa ritornano.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Anassimene riconduce l’origine del cosmo ai processi di rarefazione e condensazione dell’aria. Quali elementi della sua spiegazione, a tuo avviso, hanno una connotazione “scientifica”? Quali, invece, ti sembrano frutto di una teoria per certi aspetti “ingenua”, considerate le scarse nozioni dell’epoca? Rispondi in un testo in cui argomenti il tuo punto di vista (max 20 righe).
Pitagora e i pitagorici
Essendo velleitario ogni tentativo di operare una netta distinzione tra le diverse fasi del pitagorismo antico, in questa raccolta antologica tratteremo il movimento pitagorico come un tutt’uno, adeguandoci alla scelta storiografica di Aristotele.
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Il numero come principio (testimonianza da Aristotele, Metafisica) Nel I libro della Metafisica, da cui è tratto il testo che segue, Aristotele usa l’espressione «quelli che son detti pitagorici» per indicare il gruppo di pensatori seguaci di Pitagora che tra la fine del VI secolo a.C. e l’inizio del IV furono uniti non soltanto da un comune lavoro di ricerca filosofica e scientifica, ma anche dall’adesione a precetti di carattere morale e religioso. Ai pitagorici Aristotele attribuisce l’identificazione del principio di tutte le cose con il numero.
Le cose e Al tempo di costoro, e prima di costoro1 , si dedicarono alle matematiche e per primi le fei numeri cero progredire quelli che son detti pitagorici. 2
1. Leucippo e Democrito, di cui parleremo nel capitolo 4.
TESTI PITAGORICI
TESTO
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Questi, dediti a tale studio, credettero che i princìpi delle matematiche fossero anche i princìpi di tutte le cose che sono. Or poiché princìpi delle matematiche sono i numeri, e nei numeri essi credevano di trovare, più che nel fuoco e nella terra e nell’acqua, somiglianza con le cose che sono e divengono (giudicavano, per esempio, che giustizia fosse una determinata proprietà dei numeri, anima e mente un’altra, opportunità un’altra; e similmente, per così dire, ogni altra cosa), e poiché inoltre vedevano espresse dai numeri le proprietà e i rapporti degli accordi armonici, poiché insomma ogni cosa nella natura appariva loro simile ai numeri, e i numeri apparivano primi tra tutto ciò ch’è nella natura, pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono, e che l’intero mondo fosse armonia e numero. E tutte le proprietà che potevano mostrare, nei numeri e negli accordi musicali, corrispondenti alle proprietà e alle parti del cielo, e in generale a tutto l’ordine cosmico, le raccoglievano e gliele adattavano. Che se qualche cosa mancava, si sforzavano d’introdurla, perché la loro trattazione fosse compatta.
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Il pari e […] Elementi del numero ponevano il pari e il dispari, l’uno pensato come infinito e l’altro il dispari come limitato; l’unità la consideravano derivante da entrambi (dicevano quindi che essa è 16
[insieme] pari e dispari); e dall’unità pensavano che nascesse il numero e che nei numeri consistesse, come ho detto, tutto il mondo. 18
Le dieci Altri pitagorici dicevano che i princìpi sono dieci, quelli che secondo la serie son detti: liopposizioni mite e illimitato, dispari e pari, uno e molteplice, destro e sinistro, maschio e femmina, fer- 20 fondamentali
mo e mosso, dritto e curvo, luce e tenebre, buono e cattivo, quadrato e rettangolare.
(DK 58 B 4; DK 58 B 5, trad. it. di A. Maddalena, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Le cose e i numeri (rr. 1-14) L’espressione «quelli che son detti pitagorici» (r. 2) va intesa, come abbiamo accennato nelle righe introduttive, come termine tecnico volto a indicare un gruppo, laddove fino a quel momento il testo aristotelico da cui il brano è tratto ha preso in considerazione soltanto figure ben individuate di pensatori. L’idea di fondo attribuita da Aristotele ai pitagorici è che i numeri siano i costituenti ultimi della realtà, esattamente come i mattoni lo sono di un edificio. Ai numeri, infatti, sono riconducibili tutte le figure geometriche, e queste a loro volta costituiscono i corpi, identificandone i limiti e la forma. In altre parole, secondo i pitagorici i numeri non sono semplicemente la formulazione o l’espressione astratta di una certa sostanza o di un certo principio, ma sono essi stessi sostanza e principio, immanenti alle cose e con queste coincidenti. La testimonianza aristotelica è peraltro caratterizzata da alcune ambiguità, poiché i numeri vi sono presentati sia come materia di cui sono fatte le cose, sia come espressione della loro forma, ovvero sia come immediati componenti materiali della realtà, sia come princìpi della sua intelligibilità. Ma questo è un fatto abbastanza naturale nel mondo antico, incapace di distinguere (come a noi moderni
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sembra invece naturale e ovvio) tra quanto è astratto e quanto è concreto. Secondo Aristotele, l’identificazione dell’arché con il numero deriverebbe soprattutto dall’osservazione empirica: i pitagorici, cioè, si sarebbero convinti dell’essenza numerica della realtà constatando il carattere ritmico e regolare dei fenomeni naturali e cosmici, nonché riflettendo sui rapporti numerici sussistenti tra i suoni negli accordi armonici. Il pari e il dispari (rr. 15-18) Il testo prosegue presentando la celebre distinzione pitagorica tra il pari (pensato come illimitato) e il dispari (inteso come limitato) e la loro derivazione dall’unità, detta anche “parimpari” («pari e dispari» in questa traduzione). Il “parimpari” rappresentava nel pensiero pitagorico il punto di partenza per la generazione di tutti gli altri numeri, ovvero del cosmo e di tutte le cose che lo costituiscono. Le dieci opposizioni fondamentali (rr. 19-21) Con l’espressione «altri pitagorici» (r. 19) Aristotele si riferisce a una fase più tarda del pitagorismo: la tavola delle opposizioni è infatti attribuita, se non a Filolao, comunque a pensatori della sua generazione (siamo nella seconda metà del V secolo a.C.). In ogni caso, tutti
Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
i pitagorici erano concordi nel derivare la totalità dei fenomeni dall’opposizione tra il pari e il dispari, che generava una serie di contrari fondamentali. Le dieci coppie qui enunciate, sebbene siano elencate secondo
un ordine casuale, ci mostrano che il numero era caricato di connotati qualitativi e che, anzi, assumeva una serie di significati ben precisi, spesso riflettendo le convinzioni e i pregiudizi tipici della mentalità arcaica.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Immagina di dover sostenere la teoria dei pitagorici secondo la quale il mondo è «armonia e numero» (r. 10): attingendo alle conoscenze scientifiche che hai sviluppato nel corso degli studi ed eventualmente alla tua esperienza della realtà, riporta alcune evidenze che la possano suffragare (max 30 righe).
TESTO
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La visione del cosmo
(testimonianza da Aristotele, De caelo)
Il breve passo che segue, tratto ancora da Aristotele, presenta un aspetto fondamentale del cosmo delineato dai pitagorici (in particolare da Filolao), i quali al centro dell’universo ponevano un «fuoco» intorno al quale si muovevano la Terra e gli altri corpi celesti. contro il Essi [i pitagorici] dicono che nel centro è il fuoco, che la Terra è un astro e che essa, rotangeocentrismo do intorno alla parte centrale, dà origine al giorno ed alla notte. 2 L’anti-terra Poi, di contro a questa [la Terra], dicono che c’è una seconda Terra, ch’essi chiamano Anti-
Terra; e questo affermano non già ricercando le cause e le ragioni dei fenomeni, ma forzan- 4 do il significato dei fenomeni e cercando d’accordarli con alcune loro ragioni e opinioni preconcette. 6 (DK 58 B 37, trad. it. di A. Maddalena, in op. cit.)
Contro il geocentrismo (rr. 1-2) L’universo pitagorico aveva la forma di una sfera, al centro della quale risiedeva il fuoco; attorno al fuoco ruotavano, procedendo da occidente a oriente, i corpi celesti, tra i quali la stessa Terra, la cui rotazione attorno alla luce generata dal fuoco centrale produceva l’alternarsi del giorno e della notte. L’Anti-Terra (rr. 3-6) Per i pitagorici i corpi celesti ruotanti attorno al fuoco dovevano essere dieci (sebbene dalle osservazioni risultassero essere nove,
compresa la Terra) perché l’ordine del cosmo doveva riflettere la perfezione del numero 10. Per questo i pitagorici ipotizzarono l’esistenza di un’Anti-Terra, invisibile dalla Terra stessa. Aristotele (convinto sostenitore di una concezione geocentrica che per secoli avrebbe impedito all’eliocentrismo di affermarsi) critica questa dottrina, colpevole a suo avviso di “inventare” un pianeta per far corrispondere l’immagine dell’universo a credenze di carattere magico e religioso.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Aristotele afferma che i pitagorici ammettono l’esistenza dell’Anti-Terra «forzando il significato dei fenomeni» (rr. 4-5) per accordarli alla loro teoria. Si tratta di un atteggiamento che può caratterizzare tanto lo specialista quanto l’uomo comune, i quali, a volte, per non abbandonare una convinzione, selezionano i fatti, ignorandone alcuni a vantaggio di altri, oppure enfatizzano aspetti secondari lasciando in ombra quelli più essenziali. Rifletti su questo argomento in un testo scritto (max 30 righe), richiamandoti anche alla contemporaneità e riportando, se possibile, alcuni esempi.
TESTI PITAGORICI
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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eraclito
La comprensione del pensiero di Eraclito è resa assai difficile dalla condizione in cui i suoi testi ci sono pervenuti e dal fatto che non sappiamo neppure se essi appartenessero a opere sistematiche (redatte cioè in forma di trattati) o a raccolte di aforismi (come sembrano testimoniare la pregnanza e l’efficacia dei frammenti). Ne presentiamo alcuni che ci paiono particolarmente significativi. TESTO
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Il lógos come principio
(DK 22 B 1)
IL TESTO NELL’OPERA Eraclito è autore di uno scritto intitolato Sulla natura, di cui si conserva un centinaio di frammenti. Molti studiosi hanno a lungo cercato di ricostruire lo schema originario dell’opera, ma senza successo, tanto che il filologo tedesco Hermann Diels ( p. 34) ha deciso di raggruppare i frammenti secondo gli autori che li hanno tramandati e disponendo questi ultimi in ordine alfabetico. Quello che proponiamo di seguito è, verosimilmente, il passo che apriva il trattato eracliteo. Esso ci è stato trasmesso, seppure in formulazioni non del tutto identiche, da parecchie fonti e annuncia l’esposizione del lógos, ovvero di quella legge razionale che per Eraclito costituisce la natura profonda delle cose. L’intelligenza Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoldelle cose tato, sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo 2
lógos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali 4 sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è.
Il “sonno” Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono dei più coscienti di ciò che fanno dormendo. 6 (DK 22 B 1, trad. it. di G. Giannantoni, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’intelligenza delle cose (rr. 1-4) Il principio di tutte le cose è indicato da Eraclito con un termine (lógos) che sembra alludere alla dimensione del concetto e della parola, piuttosto che alla materialità di un elemento fisico, secondo una tendenza già riscontrata in Anassimandro. Questo non è casuale, dal momento che Eraclito è convinto che la natura profonda della realtà non sia rivelata dall’esperienza ordinaria, ma richieda l’impegno della ricerca razionale. Si noti, all’inizio del passo, la collocazione ambigua dell’avverbio «sempre» (aeí), che può essere riferito sia a quanto precede (sottolineando l’eternità del lógos), sia a quanto segue (sottolineando l’eterna difficoltà umana di riconoscere il principio della realtà). Questa ambiguità, già riscontrata da Aristotele, potrebbe essere stata voluta dallo stesso Eraclito. L’eternità del lógos è comunque indiscutibile, mentre
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il trattato eracliteo era volto proprio a far sì che gli esseri umani “avessero intelligenza” della legge profonda delle cose. L’espressione «distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è» (r. 4) allude al metodo di indagine eracliteo. La realtà, infatti, non è un aggregato casuale, ma un sistema organizzato e organico nel quale è necessario individuare, sotto la molteplicità degli oggetti e degli eventi apparentemente scomposti, la regola che li governa e che li rende un tutto armonico. Questa regola (il lógos, appunto) non è però evidente («la natura delle cose ama celarsi», dice Eraclito, e «l’armonia nascosta vale più di quella che appare») e per coglierla è necessaria un’adeguata analisi filosofica, di tipo prettamente speculativo. Il “sonno” dei più (rr. 5-6) Sebbene alcuni uomini (i filosofi) tentino di scoprire e comprendere il lógos
Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
nei loro pensieri (formulati poi in «parole» e realizzati in «opere» concrete), di fatto non riescono a esserne pienamente consapevoli. Tutto ciò che accade non è che un riflesso, o un effetto, del lógos, ma questo non significa che per gli esseri umani sia facile
rendersene conto; soltanto la filosofia può consentirci di abbandonare le apparenze svelandoci l’autentico principio dell’essere, distinguendoci così da quegli «altri uomini» a cui «rimane celato ciò che fanno da svegli» (r. 5).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Prima dell’indagine filosofica e senza di essa, in base alle parole di Eraclito, la ricerca è improduttiva e l’essere umano è come sprofondato nel sonno. Chi filosofa, infatti, sta in ascolto del lógos, a differenza di coloro che conoscono un gran numero di cose, ma non la legge che le governa: «Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato, sia subito dopo averlo ascoltato» (rr. 1-2). Dopo avere riflettuto sul passo di Eraclito, riporta in un testo scritto (max 20 righe) le aspettative che hai finora maturato nei confronti della filosofia.
TESTO
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La mutevolezza e la contraddittorietà del reale (DK 22 B 12; DK 22 B 49a; DK 22 B 91) Quelli che seguono sono due dei celebri frammenti sui fiumi, nei quali si è letta la dottrina eraclitea del divenire cosmico. In realtà, nel secondo frammento si trova anche l’affermazione della contraddittorietà del reale.
Il perpetuo Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stessi fiumi. fluire dell’acqua dei fiumi Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.
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Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte. (DK 22 B 12; DK 22 B 49a; DK 22 B 91, trad. it. di G. Giannantoni, in op. cit.)
Il perpetuo fluire dell’acqua dei fiumi (rr. 1-3) I tre frammenti espongono in maniera suggestiva l’idea che la realtà sia caratterizzata da un eterno fluire e che proprio in questa caratteristica consista la sua unitarietà di fondo. Sebbene una concezione dinamica dell’arché sembri accomunare molti dei primi pensatori, a cominciare dagli ionici, non siamo in grado di delineare con precisione la forma che questa dottrina assunse in Eraclito, data la scarsa documentazione di cui disponiamo in proposito. Nel secondo fram-
mento, comunque, si fa senz’altro riferimento esplicito non soltanto alla mobilità del reale, ma anche alla sua intima contraddittorietà. Il fiume in cui ci bagniamo ci appare sempre il medesimo, ma lo scorrere delle sue acque fa sì che esso non sia tale: per questo Eraclito può affermare che in uno stesso fiume «scendiamo» e insieme «non scendiamo». Inoltre anche noi, durante l’immersione, siamo soggetti al divenire, e nel passaggio da un istante all’altro non siamo più gli stessi, pur essendo sempre noi.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Rifletti sul concetto di “trasformazione” nei termini enunciati da Eraclito e prova a riformularlo in un testo (max 20 righe), supportandolo con esempi tratti dalla realtà esterna e dall’analisi dei tuoi stati interiori.
TESTI ERACLITO
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
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TESTO
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La legge del mondo (DK 22 B 53; DK 22 B 67; DK 22 B 80) I frammenti che seguono mettono in evidenza l’idea di Eraclito secondo cui il conflitto che oppone i contrari è il principio stesso della vita, nonché la struttura delle cose.
La vita è Pólemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri conflitto come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi. 2
Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come [il fuoco], quando si mescola ai profumi e prende nome dall'aroma di ognuno di essi. 4 La “bontà” Bisogna però sapere che la guerra è comune [a tutte le cose], che la giustizia è contesa e che del conflitto tutto accade secondo contesa e necessità. 6 (DK 22 B 53; DK 22 B 67; DK 22 B 80, trad. it. di G. Giannantoni, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La vita è conflitto (rr. 1-2) Il lógos, legge profonda del mondo, acquista in questo frammento i tratti di Pólemos, mitologico dio della guerra: la regola costitutiva delle cose, che ne determina il comportamento e ne governa le reciproche relazioni, è il conflitto, rintracciabile sia tra una cosa e l’altra, sia all’interno di ogni singola cosa. Nella visione di Eraclito la legge che regola l'universo è quella della interdipendenza dei contrari: come il fuoco si con-fonde con gli aromi delle cose a cui si mescola di volta in volta, così la divinità è incapace di differenze.
La “bontà” del conflitto (rr. 3-6) Il conflitto che regna nel mondo non è prevaricazione, violenza distruttiva, bensì la struttura delle cose: il contrasto è fisiologico all’essere. Che tutto sia e non sia, ovvero si trovi costantemente aperto alla contraddizione, implica una dinamicità del reale, un continuo divenire magari non evidente, ma essenziale e ineliminabile, pena l’annullamento della realtà stessa.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Contraddizione, dinamismo, opposizione, conflitto: sono questi gli aspetti che per Eraclito ha la realtà. Ricollegandoti anche ai frammenti sui fiumi (p. 57), prova a spiegare che cosa potrebbero rappresentare per il filosofo l’inerzia e la pace (max 20 righe).
TESTO
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La ricomposizione dei contrari (DK 22 B 8; DK 22 B 10; DK 22 B 51; DK 22 B 60) I frammenti che seguono integrano i precedenti: se in quelli si spiegava la struttura oppositiva della realtà, in questi Eraclito mostra l’unità e l’armonia che soggiacciono all’opposizione.
L’armonia L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia. degli opposti L’unità Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da 2 degli opposti tutte le cose l’uno, e dall’uno tutte le cose.
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Unità 1 L’IndagIne sULLa natUra: I PensatorI PresocratIcI Capitolo 2 la ricerca del principio di tutte le cose
Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, 4 come quella dell’arco e della lira. Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù.
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(DK 22 B 8; DK 22 B 10; DK 22 B 51; DK 22 B 60, trad. it. di G. Giannantoni, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’armonia degli opposti (r. 1) Il primo frammento è stato assai discusso dai critici, alcuni dei quali ne hanno messo in dubbio la genuina matrice eraclitea. Tuttavia, esso pare esprimere una tesi originale di Eraclito: è vero che i contrari lottano e si escludono reciprocamente, ma se il loro conflitto si osserva da un altro punto di vista, si scopre la segreta armonia che li lega. L’«opposto concorde» (r. 1) è il fondamento unitario dell’intera realtà.
L’unità degli opposti (rr. 2-6) I frammenti restanti propongono esempi di coppie di opposti e alcune immagini utili a chiarire la natura dell’unità dei contrari: questi, anziché lottare per la reciproca eliminazione, si richiamano a vicenda, attirandosi l’uno con l’altro e accordandosi tra loro.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI ERACLITO
attività PLUS Eraclito parla di «armonia contrastante, come quella dell'arco e della lira» (rr. 4-5): è dal suo opposto che ogni realtà trae la propria definizione, il proprio senso e la propria esistenza. Ti sei mai chiesto che cosa mai sarebbero, ad esempio, la luce senza il buio, il suono senza il silenzio? Elabora questo concetto in un testo scritto (max 30 righe) in cui, prendendo le mosse dalla teoria di Eraclito, esponi anche le tue considerazioni al riguardo.
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
I PITAGORICI E I NUMERI IRRAZIONALI
Ai pitagorici si deve una delle più grandi conquiste dell’umanità, cioè la fondazione scientifica della matematica. E pitagorica è anche l’idea della struttura matematica del mondo: idea che nel XVII secolo si rivelerà centrale per la nascita della scienza moderna. Secondo la tradizione, fu proprio quest’ultima prospettiva
Una nuova idea di “verità” I pitagorici intendevano i numeri come entità corporee, cioè come vere e proprie “cose” dotate di grandezza:
‘
I pitagorici costruiscono tutto quanto l’universo con i numeri: e questi sono non pure unità, ma unità dotate di grandezza. (Aristotele, Metafisica, XIII, 6, 1080b 1622)
I numeri dei pitagorici erano quindi gli elementi ultimi e indivisibili di cui erano costituiti tutti i corpi. Non a caso, coincidevano fondamentalmente con i numeri interi positivi, ovvero con quelli che noi oggi chiamiamo “numeri naturali” (l’1, il 2, il 3 ecc.) ed escludevano lo zero, che, in quanto “entità nulla”, era per gli antichi inimmaginabile. Questa idea va incontro a una difficoltà in cui gli stessi pitagorici non poterono evitare di imbattersi. Come è noto, infatti, a Pitagora si attribuisce il famoso teorema per cui, in un triangolo rettangolo, l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Sulla base di questo teorema, i pitagorici cercarono di individuare il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato, scoprendo che esso non corrispondeva né a un numero intero, né a una frazione tra numeri interi, bensì a √2, il cui valore non può essere calcolato se non per approssimazioni via via maggiori, tendenti all’infinito (1,414213562373...). La scoperta dell’esistenza di due grandezze tra loro
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– secondo cui il cosmo e la sua vita sono retti da leggi esprimibili in termini di rapporti numerici – a rappresentare sia il limite del pensiero pitagorico (e la causa contingente dello scioglimento della scuola), sia la ragione della sua imprescindibilità per il pensiero scientifico successivo.
incommensurabili (la diagonale e il lato del quadrato, appunto) causò la fine della concezione pitagorica del numero e aprì le porte al concetto di infinito e al metodo dimostrativo. Ma, se l’ammissione dell’infinito, o della divisibilità all’infinito (rappresentata da tutte le cifre che in √2 vengono dopo la virgola), fu uno dei maggiori ostacoli che il pensiero greco si trovò ad affrontare, la dimostrazione divenne invece un caposaldo della riflessione filosofica e scientifica (si pensi agli Elementi del matematico Euclide). E proprio l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato costituì il primo grande esempio di “verità” che si è costretti ad accettare in base a pure argomentazioni. In altre parole: prima della dimostrazione dell’esistenza delle grandezze incommensurabili, la verità era concepita come qualcosa che doveva essere in accordo con l’esperienza dei sensi (in particolare della vista); in seguito si fece invece strada l’idea che non fosse necessario “vederla”, ma soltanto farla scaturire da un “ragionamento”.
Una nuova idea di “ragione” La scoperta delle grandezze incommensurabili portò con sé anche la radicale trasformazione del concetto di “ragione”. Secondo i pitagorici la realtà era razionale in quanto esprimibile mediante numeri interi o rapporti tra numeri interi (ancora oggi sono detti “razionali” quei numeri che possono essere espressi mediante frazioni di interi). Le grandezze incommensurabili costituivano quindi un vero e proprio scandalo: i pitagorici
decisero di definirle “irrazionali”, in greco á-loga, cioè “prive di lógos” (di ragione), distinguendole dai numeri, i quali non potevano che essere razionali. La differenza tra i numeri (sempre razionali) e le grandezze (che potevano non esserlo) divenne così la differenza tra le quantità discrete oggetto dell’aritmetica e le quantità continue oggetto della geometria. L’ammissione del concetto di “numero irrazionale” cominciò a farsi strada soltanto con il matematico pitagorico Teodoro di Cirene (nato intorno al 465 a.C.), seguito dal filosofo ateniese Teeteto (415-369 a.C. circa) e dall’astronomo Eudosso di Cnido (409-356 a.C.). Fu per la matematica una vera e propria rivoluzione: da quel momento non si definì più il rapporto (ratio) a partire dai numeri (interi), ma viceversa il numero fu definito (razionale o irrazionale) a partire dal rapporto. A questo proposito l’epistemologo parigino Gilles Gaston Granger (1920-2016) ha scritto:
‘
Da allora l’irrazionalità non appare più come un ostacolo, ma come la più generale condizione della relazione tra grandezze […]. L’uso ordinario e filosofico ha mantenuto la parola “irrazionale”, ampliandone tuttavia il significato al di là della situazione originaria di non rappresentabilità per mezzo di un lógos tra numeri interi. (G.G. Granger, L’irrationnel, Odile Jacob, Paris 1998, p. 49, trad. nostra)
Così la scoperta dei numeri irrazionali, motivo della più grande crisi della scuola pitagorica (e, in generale, del pensiero antico), si rivelò attraverso i secoli il fattore della sua maggiore gloria.
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
1. Insieme con i numeri irrazionali, nella matematica ha fatto irruzione l’infinito, o meglio l’idea della divisibilità all’infinito. Questo risultato fu accettato con difficoltà dai Greci antichi, che faticavano a staccarsi dall’immagine di un mondo fatto di “individui” (in latino individuum significa appunto “non-divisibile”), sia a livello fisico (pensiamo agli atomi) sia a livello personale. • Se tutto è divisibile all’infinito, che ne è dell’identità di cose e persone? Ritieni che ci sia un “punto” ultimo al quale la divisibilità del reale deve necessariamente arrestarsi? Perché? 2. La dimostrazione matematica (come quella pitagorica dell’esistenza dei numeri irrazionali) è l’esempio più significativo di un modo di procedere che, scontrandosi con credenze consolidate, costringe a rivederle e a correggerle. In questo senso la preziosa lezione che i pitagorici hanno consegnato alla posterità come una conquista definitiva e irrinunciabile è l’idea che la scienza impara dalle sue stesse crisi. • Sei d’accordo con questa affermazione, oppure ritieni che la scienza si distingua dalle altre forme del sapere proprio perché ha a che fare con la “verità”?
PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA in libreria • Giulio Preti, Storia del pensiero scientifico, Mondadori, Milano 1975 • Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore, trad. it. di A. Bramati, Bruno Mondadori, Milano 2002 in rete • Mattia Tallone, I pitagorici e la scoperta dei numeri irrazionali (http://www.scuola.rai.it/ lezione/i-pitagorici-e-la-scoperta-dei-numeriirrazionali/3839/default.aspx)
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CAPITOLO 3 L’INDAGINE SULL’ESSERE
1. La filosofia eleatica Oltre la natura, Con l’eleatismo, che si sviluppa nelle colonie greche dell’Italia meridionale e che prende il nel cuore nome dalla città di Elea, il pensiero filosofico si trova in una “atmosfera” diversa rispetto dell’essere
a quella ionica. Infatti, mentre gli ionici ricercavano un principio o una sostanza fisica capace di spiegare la molteplicità delle cose e il mutamento della natura, gli eleati pretendono di andare oltre la superficie dell’esperienza sensibile, per giungere a svelare un essere unico, eterno e immutabile di fronte al quale il nostro mondo è mera apparenza ingannevole. Le cose, in altre parole, per gli eleati non sono così come i sensi e l’esperienza le manifestano, ma come la ragione le pensa secondo una logica rigorosa.
2. Senofane Secondo la tradizione, l’iniziatore dell’eleatismo fu Senofane di Colofone (antica città della Ionia situata pochi chilometri a nord di Efeso). Oggi, tuttavia, molti studiosi non concordano con questa tesi e alcuni tendono ad annoverare Senofane tra i pensatori ionici. Nato probabilmente tra il 580 e il 565 a.C., egli visse a lungo, girovagando per i paesi della Grecia e della Magna Grecia. Compose varie opere in versi, nelle quali alternò parti più poetiche a riflessioni teologiche e filosofiche. La critica Uno dei tratti più originali del pensiero di Senofane è la critica risoluta contro l’antropodell’antropo- morfismo religioso tipico delle credenze comuni dei Greci: «i mortali – egli afferma – cremorfismo religioso dono che gli dèi siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come il loro» (fram-
mento 14). Perciò – prosegue – gli Etiopi immaginano i loro dèi «camusi e neri», mentre i Traci descrivono le loro divinità con occhi azzurri e capelli rossi (frammento 16). Addirittura, «se i buoi e i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato» (frammento 15).
Elea
Fondata da alcuni coloni ionici nella seconda metà del VI secolo a.C., l’antica città di Elea (ribattezzata Vélia dai Romani) sorgeva sulle coste dell’attuale Campania, in provincia di Salerno, a sud di Paestum (“Poseidonia” per i Greci), dove ancora oggi se ne possono visitare i resti archeologici. Divenuta ben presto un fiorente centro economico e culturale, rimase tale fino al I-II secolo d.C., quando il terreno paludoso, estendendosi, costrinse gli abitanti ad abbandonarla.
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Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
Senofane è convinto che queste credenze siano state incoraggiate da Omero e da Esiodo, i quali nelle loro opere hanno attribuito agli dèi non soltanto sembianze umane, ma anche furti, adulteri e reciproci inganni, cioè azioni che sono oggetto di vergogna e di biasimo perfino tra gli uomini. La critica dell’antropomorfismo religioso costituisce in Senofane il punto di partenza per un dio-tutto affermare che in realtà c’è una sola divinità, che non somiglia agli esseri umani «né per unico ed eterno aspetto […] né per intelligenza» (frammento 23). Essa si identifica piuttosto con l’universo, essendo un dio-tutto il cui attributo principale è l’eternità: non nasce e non muore ed è sempre lo stesso. Se nascesse, infatti, significherebbe che prima non era; ma ciò che non è non può nascere, né può far nascere nulla.
)
Per l’esposizione orale
1. Indica il principale oggetto indagato dagli eleati, spiegando che cosa lo distingua da quanto ricercato dagli ionici. 2. Illustra la critica di Senofane all’antropomorfismo religioso.
3. parmenide Il fondatore della scuola eleatica è Parmenide. Nato a Elea, egli visse in un periodo compreso tra il 550 e il 450 a.C. ed espose il proprio pensiero in un’opera in versi che fu poi indicata con il titolo Sulla natura. Nel proemio del poema (del quale ci restano soltanto 154 versi), Parmenide immagina una verità di trovarsi su un carro trainato da focose cavalle, in compagnia delle figlie del Sole, e di per pochi essere portato al cospetto di una dea, la quale gli rivela «il solido cuore della ben rotonda Verità» (frammento 1). I toni ispirati e oracolari che caratterizzano l’opera del filosofo di Elea testimoniano, da un lato, quell’indissolubile unione di poesia e filosofia che si ritrova in molti autori antichi e, dall’altro, la probabile appartenenza di Parmenide a un ambiente di tipo aristocratico, che considerava il sapere patrimonio di pochi eletti. ( T1 p. 75)
Il sentiero della verità Secondo Parmenide, di fronte all’uomo si aprono sostanzialmente due vie: il sentiero della verità, basato sulla ragione, che ci porta a conoscere l’essere vero; il sentiero dell’opinione, basato sui sensi, che ci porta a conoscere l’essere apparente. Il filosofo deve ovviamente imboccare la via della verità e della ragione; ma che cosa si scopre percorrendo questa strada? Parmenide risponde che la ragione ci dice fondamentalmente una cosa: l’essere è e non Soltanto può non essere, mentre il non essere non è e non può essere. Il filosofo intende affer- l’essere è mare che soltanto ciò che “è” esiste e può porsi come oggetto del pensiero e del discorso, mentre ciò che “non è”, per definizione, non esiste e non può essere pensato né detto. Infatti per pensare dobbiamo pensare che qualcosa “è”, cioè che è presente al pensiero, mentre ciò che “non è” risulta impensabile e inesprimibile.
‘
È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è; il nulla non è. (frammento 6)
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‘‘
Mai questo può venir imposto, che le cose che non sono siano: ma tu da questa via di ricerca (frammento 7) allontana il pensiero. La stessa cosa è pensare e pensare che qualcosa è, giacché non troverai il pensare senza (frammento 3) l’essere [l’“è”] in cui è espresso […].
La tesi di Parmenide «l’essere è; il nulla non è» presuppone la validità di due princìpi logici che verranno teorizzati e codificati soltanto più tardi: il principio di identità, per il quale ogni cosa è sé stessa, e il principio di non-contraddizione, per il quale è impossibile che una stessa cosa sia e nello stesso tempo non sia ciò che è. ( T2 p. 77) La nascita Come si vede nei frammenti sopra riportati, con Parmenide il termine essere , da semplidell’ontologia ce forma verbale avente perlopiù la funzione di copula tra un soggetto e un predicato, di-
venta un sostantivo neutro che allude a un concetto astratto. Ciò avviene grazie all’articolo determinativo (in greco to), che, preposto a un nome, a un aggettivo o ad un verbo, li trasforma in altrettante “nozioni”. Ad esempio, l’aggettivo “bello”, da proprietà o attributo di un ente specifico, in virtù dell’articolo diventa “il bello”, cioè “la bellezza”; genesi analoghe hanno avuto nozioni filosofiche come “il bene”, “il giusto” ecc. glossario p. 72 Tornando a Parmenide, con le espressioni “l’essente” (to on) o “l’essere” (to éinai), egli non intende riferirsi a questa o a quella realtà particolare, ovvero ai singoli enti (ta ónta), bensì alla realtà in generale. In altre parole, con Parmenide prende avvio quel ramo fondamentale del pensiero filosofico che verrà chiamato ontologia , cioè “discorso sull’essere”, ovvero lo studio dell’essere nelle sue caratteristiche universali. glossario p. 72
Il mondo dell’essere e della ragione gli attributi Dalla tesi secondo cui il non essere non esiste (ovvero dall’impossibilità linguistica e ondell’essere tologica del non essere) Parmenide ricava, mediante una logica rigorosa, una serie di attri-
buti dell’essere vero, o autentico: l’essere è ingenerato e imperituro, perché se nascesse o perisse implicherebbe il non essere (in quanto nascendo verrebbe dal nulla e morendo si dissolverebbe nel nulla); di conseguenza l’essere è eterno, poiché se fosse immerso nel tempo implicherebbe un passato in cui “non era” e un futuro in cui “non è” ancora. Esso è invece un presente eterno, a cui non compete né l’era né il sarà, ma soltanto l’è (in Parmenide troviamo la prima concettualizzazione filosofica dell’eternità intesa non come durata temporale infinita, ma come qualcosa che è al di là del tempo); l’essere, inoltre, è immobile e immutabile, perché se si muovesse o mutasse implicherebbe di nuovo il non essere, in quanto si troverebbe in una serie di stati o di situazioni in cui prima non si trovava; l’essere è quindi unico e omogeneo, perché se fosse molteplice o in sé differenziato implicherebbe degli “intervalli” di non essere; infine, l’essere è finito, poiché, secondo la mentalità greca, la finitezza è sinonimo di compiutezza e perfezione. Per rappresentare la compiutezza dell’essere Parmenide usa l’immagine della sfera, intesa appunto come una sorta di “pieno assoluto”, da cui risulta assente il non essere. ( T3 p. 78)
La necessità A questo punto appare evidente come, con la forza della logica, Parmenide abbia definito dell’essere gli attributi filosofici di un essere ontologicamente perfetto. In tutti i suoi aspetti, l’esse-
re parmenideo si configura come una realtà necessaria, ossia come qualcosa che non può non essere o essere diverso da com’è. Per esprimere questa necessità dell’essere, Parmenide ricorre ai concetti di “giustizia” e di “destino”.
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Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
Scrive infatti il filosofo:
‘
La giustizia non allenta le sue catene e non lascia che qualcosa nasca o venga distrutto, ma mantiene fermamente tutto ciò che è. […] Nulla c’è né ci sarà al di fuori dell’essere, giacché (frammento 8) il destino l’ha incatenato in modo che esso rimanga intero ed immobile.
Che cos’è allora questo essere vero e necessario che Parmenide ritiene di aver portato alla L’essere come luce della filosofia? Purtroppo, sulla base dei pochi frammenti che ci sono rimasti, non assoluto possiamo dirlo con esattezza. Per alcuni interpreti l’essere parmenideo è una realtà metafisica o teologica, per altri una realtà fisica e corporea (coincidente con la sfera di cui parla il filosofo), per altri ancora una costruzione logico-grammaticale. Al di là delle varie possibili interpretazioni, una cosa è comunque certa, ovvero che un tale essere possiede tutte quelle determinazioni (ingenerato, imperituro, eterno, immobile, unico, necessario ecc.) che in seguito saranno riferite all’Assoluto, sia nel caso in cui quest’ultimo venga concepito come una divinità trascendente, sia nel caso in cui venga pensato come la natura stessa.
Il mondo dell’apparenza e dell’opinione Una volta stabilite le caratteristiche dell’essere assoluto, Parmenide deve affrontare il pro- La realtà blema di come vada inteso il mondo in cui viviamo, cioè quella zona della realtà che, se- sensibile come illusione condo la testimonianza dei nostri sensi, presenta attributi diametralmente opposti a quelli dell’essere vero, essendo generata, peritura, temporale, mutevole e molteplice. Con ferrea consequenzialità, il filosofo di Elea afferma che il nostro mondo implica il non essere, e dunque, filosoficamente parlando, è pura apparenza o illusione:
‘
saranno tutte soltanto parole quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare il luminoso colore. (frammento 8)
In che senso, per Parmenide, il mondo si riduca a una serie di nomi vani («soltanto parole») non risulta del tutto chiaro, tanto che anche su questo punto i critici sono in disaccordo tra loro. Certo è che nella seconda parte del suo poema, dopo una prima parte dedicata alla verità , ovvero alla descrizione dell’essere autentico, il filosofo espone, presentandola come opinione , una spiegazione verosimile del mondo dell’esperienza sensibile e dell’apparenza. Questa consiste (come vedremo meglio tra poco) in una teoria fondamentalmente dualistica, secondo la quale il mondo sarebbe generato e governato da due princìpi opposti e in perenne contrasto tra loro: la luce e la notte. glossario p. 72 ( T4 p. 79)
I NODI DEL PENSIERO Nel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta? p. 469
CONCETTI A CONFRONTO
IL DIVENIRE in ERACLITO
una spiegazione verosimile del mondo dei sensi
in PARMENIDE
è la forma irrinunciabile dell’essere (ogni cosa è necessariamente soggetta a mutamento)
è pura apparenza (fallace e illusoria)
si manifesta come opposizione e reciproca implicazione tra contrari
non esiste, perché, se esistesse, renderebbe ammissibile il non essere
coincide con la legge immutabile della realtà
nasconde l’immutabilità dell’essere vero
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Essere, pensiero e linguaggio L’identificazione Il frammento 8 riportato a p. 65 suggerisce un’altra importante considerazione. Abbiamo tra ontologia già visto come Parmenide fondi l’intera sua dottrina sull’affermazione che l’essere si può e logica
pensare e dire, mentre il non essere non si può né pensare né dire. Questo significa che per lui (come per tutta la mentalità greca arcaica) la sfera dell’essere e quella del pensiero (o della conoscenza) formano un tutt’uno con quella linguistica: ontologia, logica e linguaggio risultano pertanto indissolubilmente connessi. D’altro canto, l’ontologia parmenidea nasce proprio dalla considerazione dei significati della parola “è”, l’unica che, nel momento stesso in cui viene pronunciata, afferma anche l’esistenza di un contenuto nella mente.
La dipendenza Questa identificazione senza residui tra l’essere, il pensiero e il linguaggio fa evidentemente del linguaggio pensare a una concezione “naturalistica” del linguaggio stesso, secondo cui esso non dal pensiero
può che riflettere la realtà, mentre ciò che non è reale non è passibile di alcuna formulazione verbale. Ma poi, come abbiamo letto nel frammento 8, il filosofo aggiunge che la molteplicità ha nomi contraddittori, che in qualche modo ne annientano l’esistenza: le molteplici cose del mondo a cui gli uomini («i mortali») hanno attribuito un nome sono in realtà cose insussistenti, suoni a cui non corrisponde nulla di reale («tutte soltanto parole»). In questo senso il linguaggio appare come una costruzione umana artificiosa, una convenzione priva di spessore ontologico. Questo significa che, in realtà, Parmenide è perfettamente in grado di distinguere il piano dell’essere da quello del linguaggio, e che in ultima analisi sceglie di far dipendere la verità del linguaggio da quella del pensiero.
La problematica “terza via” di Parmenide tre vie per la A questo punto sembrerebbe di poter affermare che le vie prospettate da Parmenide, più conoscenza che due, siano tre:
la via dell’assoluta verità, che dice soltanto l’essere; la via dell’opinione ingannevole, che dice anche il non essere; la via dell’opinione plausibile, che offre una spiegazione verosimile della realtà percepita con i sensi. Ma com’è possibile parlare di un’opinione “plausibile”, vale a dire di un’opinione in grado di non scontrarsi con il principio di non-contraddizione?
una possibile Lo storico della filosofia Giovanni Reale (1931-2014) osserva: «Le tradizionali cosmogonie interpretazione erano state costruite facendo leva sulla dinamica degli opposti, e di questi uno era stato
TEST DI LOGICA
concepito come positivo e come essere, l’altro come negativo e come non essere. Ora, secondo Parmenide l’errore sta nel non aver capito che gli opposti devono pensarsi come inclusi nella superiore unità dell’essere: gli opposti sono ambedue “essere”. E così Parmenide tenta una deduzione dei fenomeni partendo dalla coppia di opposti “luce” e “notte”, ma proclamando che con nessuno dei due c’è il nulla, ossia che entrambi sono essere».
L’OPINIONE (in greco dóxa)
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fallace
quando
ammette la possibilità del non essere, violando il principio di non-contraddizione
plausibile
quando
esclude la possibilità del non essere, riconducendo gli opposti alla superiore unità di un unico autentico essere
può essere
Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
A questa (ingegnosa) lettura, finalizzata a fornire una patente di legittimità alla dóxa plausibile, i seguaci dell’interpretazione tradizionale obiettano che dal punto di vista di Parmenide l’unico discorso filosoficamente fondato è quello della verità (cioè dell’essere), in quanto la dóxa, anche se plausibile (o verosimile), rimane pur sempre dóxa, ovvero un discorso privo del valore di verità incontrovertibile, dal momento che ha per oggetto la mera apparenza sensibile.
)
Per l’esposizione orale
La lettura tradizionale
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine della conoscenza? p. 481
1. In riferimento al pensiero di Parmenide, definisci i seguenti concetti: verità, opinione, essere, non essere. 2. Spiega che cosa affermano i princìpi di identità e di non-contraddizione e quale ruolo giocano nella dottrina parmenidea. 3. Elenca e illustra i principali caratteri che Parmenide attribuisce all’essere. 4. Spiega come, nella dottrina di Parmenide, possa essere inteso il mondo sensibile.
4. Zenone Zenone di Elea fu scolaro e amico di Parmenide, di cui era più giovane di circa venticinque anni: la sua nascita deve perciò essere collocata verso il 489 a.C. Sappiamo di lui che morì coraggiosamente, nel 431, sotto la tortura inflittagli per aver cospirato contro un tiranno.
La difesa di Parmenide Secondo Platone, il pensiero di Zenone è una sorta di «rinforzo» della filosofia parmenidea. il metodo Agli avversari di Parmenide – i quali affermano che, se la realtà fosse unica (come Parmeni- “per assurdo” de ritiene), ci si ritroverebbe imprigionati in molte e ridicole contraddizioni – Zenone risponde che, se si ammette che la realtà è molteplice e mutevole, si va incontro a contraddizioni anche peggiori. Pertanto, al fine di confermare le tesi di Parmenide, Zenone mostra la contraddittorietà e l’insostenibilità delle dottrine che ammettono la molteplicità e il mutamento. Il metodo utilizzato da Zenone è detto riduzione all’assurdo e consiste nell’ammettere in via d’ipotesi l’affermazione dell’avversario per ricavarne conseguenze paradossali, che la confutano. In altre parole, Zenone assume ipoteticamente che la realtà sia molteplice e mutevole, per poi dimostrare logicamente l’assurdità di questa ipotesi. Ma a chi devono essere attribuite le tesi confutate da Zenone? glossario p. 73 Ad ammettere la molteplicità erano senz’altro i pitagorici, i quali, come sappiamo, indivi- gli avversari duavano la sostanza delle cose nei numeri. Tuttavia anche Anassagora, pensatore originario di Clazomene (città ionica) e contemporaneo di Zenone, con la sua dottrina dei «semi» o delle «omeomerie» ( cap. 4, p. 83) affermava l’esistenza del molteplice. È probabile, perciò, che Zenone abbia inteso confutare la molteplicità dell’essere nel suo significato più generale ed esteso, coinvolgendo ogni dottrina che la ammettesse, e non soltanto il pitagorismo.
Gli argomenti contro la pluralità Contro l’idea della pluralità delle cose, Zenone osserva che, se le cose fossero molte, il loro Se le cose numero sarebbe a un tempo finito e infinito: finito, perché esse non potrebbero essere fossero molte... né più né meno di quante sono; infinito, perché nello spazio che separa due cose ce ne sarebbe sempre una terza (dal momento che il nulla non potrebbe esserci, in quanto non esistente), e tra questa e le altre due ce ne sarebbero altre ancora, e così via all’infinito. Affermare che le cose sono molteplici significa perciò chiudersi in una contraddizione.
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Se le cose Un’analoga contraddizione si incontra se si ammette che ogni cosa è costituita da molte fossero unità: se queste unità non hanno grandezza, anche le cose da esse composte non avranno divisibili...
grandezza; se invece le unità hanno una certa grandezza, allora le cose avranno una grandezza infinita, in quanto composte (per l’argomento contro la molteplicità appena presentato) da infinite unità.
Gli argomenti contro il movimento Lo stadio Gli argomenti più famosi di Zenone sono però quelli diretti contro il movimento. Il primo
di essi è detto “dello stadio”: non si può arrivare all’estremità di uno stadio partendo dalla estremità opposta, giacché bisognerebbe arrivare prima alla metà di esso e prima ancora alla metà di questa metà, e così via all’infinito; ma non è possibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio.
achille e Il secondo argomento è detto “di Achille e della tartaruga”. Una tartaruga che parta con un la tartaruga passo di vantaggio rispetto al “piè veloce” Achille non sarà mai raggiunta da quest’ultimo.
Prima di riuscire a raggiungerla, infatti, l’eroe dovrà arrivare alla posizione occupata precedentemente dalla tartaruga, che nel frattempo si sarà spostata, sia pure di pochissimo: pertanto la distanza tra Achille e la tartaruga non si ridurrà mai a zero. Di questo argomento è possibile fornire un’esposizione matematica. Supponiamo che 1 sia la distanza iniziale tra il punto A (Achille) e il punto T (la tartaruga) e che tra la velocità di A e quella di T esista un rapporto di 100:1. Ora, quando A avrà percorso il tratto 1, T sarà avanzato di 1/100, e quando A avrà percorso il tratto (1 + 1/100), T sarà avanzato di 1/100 + (1/100 di 1/100), e così via.
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Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
La distanza tra A e T potrà dunque diminuire progressivamente, ma non potrà mai ridursi a zero, perché, per quanto minima, sarà sempre costituita di parti: per raggiungere il punto T, il punto A dovrebbe completare l’incompletabile, cioè la serie illimitata di 1 + 1/100 + (1/100 di 1/100) + (1/100 di 1/100 di 1/100), e così via all’infinito ( “Per saperne di più”). Il terzo argomento di Zenone contro il movimento è quello detto “della freccia”. Una frec- La freccia cia che ci appaia in movimento è in realtà immobile: essa, infatti, in un determinato istante occupa uno spazio determinato pari alla sua lunghezza, il che significa che è ferma; ma poiché il tempo in cui essa si muove è fatto di molteplici istanti, per ognuno di questi istanti, e quindi per tutti, la freccia sarà immobile. Il presupposto concettuale di questo argomento, secondo Aristotele, è l’inverso del presupposto del secondo, in quanto consiste nella tesi dell’esistenza di istanti indivisibili. Ma anche in questo caso il movimento risulta impossibile, poiché da una somma di posizioni immobili e di istanti fermi in sé stessi non può risultare qualcosa di diverso, cioè il movimento. Il quarto argomento, più complesso, è quello “delle masse nello stadio”. Esso afferma che, Le masse in uno stadio, un punto mobile si sposta con una certa velocità e simultaneamente con nello stadio una velocità doppia, a seconda che sia rapportato a un punto immobile oppure a un punto che si muove alla sua stessa velocità ma in senso contrario. Si genera in tal modo l’assurdo logico secondo cui “la metà del tempo è uguale al doppio”.
per saperne di più Le discussioni critiche sull’argomento di Achille e della tartaruga Il presupposto concettuale (e la forza logica) dell’argomento di Achille e della tartaruga consiste nella tesi secondo cui, posta l’infinita divisibilità dello spazio, un corpo che si muove in esso non potrà mai raggiungere la propria mèta, poiché, dovendo superare gli infiniti punti di cui qualunque distanza è costituita, dovrà impiegare un tempo infinito.
La soluzione di Aristotele Aristotele cercherà di risolvere il problema distinguendo tra il piano della realtà e quello del pensiero: nella realtà esiste soltanto il finito, mentre l’infinito è la possibilità mentale di aumentare indefinitamente, o di diminuire indefinitamente, una qualsiasi quantità data. Se nella realtà esistono soltanto distanze finite, un corpo in movimento può dunque raggiungere la propria mèta, poiché completerà in un tempo finito l’intervallo (finito) da percorrere. Se è vero che un tratto finito AB di lunghezza 1 può essere indefinitamente scomposto nella metà della metà ecc. (AB = 1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16 ecc.), è anche vero che tale progressione infinita non può mai essere superiore alla quantità finita inizialmente data (1, ovvero la distanza tra A e B).
La problematicità del concetto di infinito La confutazione aristotelica (pur con tutti i suoi meriti) è valida soltanto se si presuppone che lo spazio reale sia finito. Tuttavia, l’ipotesi della divisibilità all’infinito è logicamente e matematicamente legittima: il valore dell’argomento zenoniano di Achille e della tartaruga risiede proprio nel costringere ad ammettere una “sfasatura” tra il piano logico-matematico e quello fisico-reale. Per questo motivo alcuni matematici-filosofi, a partire dal britannico Bertrand Russell (1872-1970), tendono piuttosto a esaltare Zenone per aver individuato un’autentica difficoltà del pensiero umano. In particolare, si celebra Zenone per aver ammesso la possibilità teorica della divisione all’infinito e, quindi, per aver posto il concetto che sta alla base del calcolo infinitesimale, che, tra l’altro, offre validi strumenti di soluzione dell’argomento di Achille e della tartaruga, questa volta su base matematica avanzata, ben diversa da quella aristotelica. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, sul piano logico-filosofico i primi due argomenti di Zenone, se si ammette l’infinita divisibilità dello spazio, rimangono tuttora inconfutati e inconfutabili.
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Per chiarire questo ragionamento possiamo ricorrere a un esempio “moderno”. Supponiamo che tre treni (A, B e C) si trovino su binari paralleli e che due di essi (A e B) corrano entrambi alla velocità di 100 km orari, ma in direzioni opposte, mentre il terzo (C) sia immobile. Ora, la velocità del treno B apparirà di 100 km orari se rapportata a quella del treno che è immobile (C), ma di 200 km orari se rapportata a quella del treno che si muove in senso opposto (A): uno stesso treno si muoverebbe dunque contemporaneamente a due velocità diverse, l’una doppia rispetto all’altra. Zenone L’argomento delle masse nello stadio ha indotto alcuni studiosi ad affermare che Zenone e einstein ha inconsapevolmente anticipato la teoria della relatività, delineata nel XX secolo dallo
scienziato tedesco Albert Einstein (1879-1955). Ma con questa radicale differenza: ciò che per Einstein è realtà (la relatività del movimento, o meglio della percezione della sua velocità, che dipende dalle condizioni di quiete o di moto dell’osservatore) per Zenone è invece un assurdo logico, un paradosso che testimonia l’impensabilità, dal punto di vista della ragione, del nostro mondo sensibile, confermando la tesi parmenidea della sua illusorietà. glossario p. 73
ESERCIZI
Con tutti i suoi argomenti, insomma, Zenone non fa che supportare indirettamente la tesi del maestro, secondo cui l’essere vero e logico non è quello in cui viviamo, e infatti coloro che parlano di molteplicità e di movimento stanno in realtà scambiando l’apparente per il reale, finendo per avvolgersi in difficoltà mentali inestricabili.
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Per l’esposizione orale
1. Quali sono le dottrine confutate da Zenone con i suoi “paradossi”? 2. Illustra il metodo zenoniano, riepilogando come esempio almeno uno dei suoi celebri argomenti. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera i paradossi zenoniani: ritieni che si tratti di sterili “pseudo-ragionamenti”, oppure che tocchino importanti questioni logiche, matematiche e fisiche? Argomenta la tua risposta.
5. Melisso Di Melisso di Samo si conosce pochissimo. Sappiamo che fu esperto di arte nautica e che nel 440 a.C. contribuì a difendere la propria città dall’attacco della flotta ateniese guidata da Pericle. Dal punto di vista filosofico, fu discepolo di Parmenide, ma la sua importanza è legata soprattutto a due aspetti che lo allontanano dalla riflessione del maestro: la concezione dell’essere come infinito e l’ammissione della sua molteplicità come logicamente possibile.
Le caratteristiche dell’essere L’essere Facendo leva anch’egli (come Parmenide) sul principio secondo cui dal nulla non può scanon nasce turire nulla, Melisso afferma che l’essere è ingenerato: e non muta Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, fosse nulla: e se prima era nulla, (DK 30 B 1) per nessuna ragione si sarebbe potuto generare dal nulla.
‘ ‘
L’essere è anche immutabile e incorruttibile, poiché, in caso contrario, si dovrebbe ammettere la possibilità che a un certo punto svanisca nel nulla: Se l’essere mutasse anche solo di un capello in diecimila anni, andrebbe totalmente (DK 30 B 7) distrutto nella totalità del tempo.
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Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
Tuttavia, a differenza di Parmenide, per il quale l’essere era finito, perfetto nella sua com- L’essere è piutezza ( p. 64), Melisso ne afferma l’infinità nel tempo e nello spazio. Egli sostiene infinito, uno e incorporeo infatti che, non essendo nato, l’essere
‘
è e sempre era e sempre sarà, e non ha né principio, né fine, ma è infinito.
(DK 30 B 2)
All’infinità spazio-temporale si accompagnano necessariamente, per Melisso, l’unicità e l’incorporeità. Argomenta infatti il filosofo: «Se è infinito, deve essere uno. Infatti, se fossero due, non potrebbero essere infiniti, ma uno avrebbe un limite nell’altro». E se l’essere è uno, allora dev’essere incorporeo: «Se è, bisogna necessariamente che sia uno; ma se è uno, non può aver corpo, perché se avesse un corpo avrebbe parti e non sarebbe più uno». Su che cosa significhi in concreto questa “incorporeità” gli interpreti sono discordi.
Le differenze rispetto a Parmenide Le differenze tra Melisso e Parmenide non si limitano all’infinità che il discepolo attribuisce all’essere, ma riguardano anche altri due aspetti di notevole importanza, uno dei quali, in particolare, apre la strada alla successiva riflessione dei filosofi pluralisti. Innanzitutto, abbiamo visto come sia Parmenide sia Melisso affermino l’eternità dell’essere. La diversa Tuttavia, se per Parmenide l’essere (finito) è eterno perché fissato nella sua perfezione in concezione dell’eternità una sorta di eterno presente estraneo al tempo, Melisso lo concepisce invece come esteso in un tempo infinito. In secondo luogo, Parmenide nega non soltanto il divenire, ma anche la molteplicità, L’ammissione considerandoli entrambi “compromessi” dalla presenza del non essere (un ente che cam- logica della molteplicità bia non è più quello che era e non è ancora quello che sarà, così come, se gli enti sono molteplici, ognuno di essi non è gli altri). Per Melisso, invece, l’unico carattere che non si può attribuire all’essere senza cadere in un’incongruenza logica è il divenire, ovvero il fatto che qualcosa possa non essere più ciò che era, o non essere ancora ciò che sarà. Come Parmenide, egli ritiene che gli oggetti che divengono (un bambino che cresce, un albero che perde le foglie e via dicendo) non appartengano veramente all’essere. A differenza del proprio maestro, però, Melisso non considera contraddittorio che qualcosa non sia qualcos’altro (ad esempio che un albero non sia un sasso). Per Melisso, insomma, non essere qualcos’altro non significa non esistere, ma soltanto essere diverso da quel qualcosa. Dunque “all’interno dell’essere” potrebbero esserci contemporaneamente più realtà tra loro differenti, di cui l’una “non è” l’altra, senza che per questo si violi la legge che vieta il non essere, a patto però che di nessuna di queste realtà si ammetta che “diviene”. La concessione di Melisso, eterodossa rispetto al pensiero parmenideo, è però compiuta un’apertura esclusivamente sul piano logico: egli osserva infatti che, se nella realtà oggetto di esperien- verso il pluralismo za esistesse una molteplicità indiveniente, questa si potrebbe ritenere a buon diritto come parte dell’essere. Ma anche Melisso è convinto che sul piano empirico non vi sia alcuna entità di questo tipo, ossia molteplice ma al tempo stesso indiveniente; per questo egli ritorna alla conclusione generale di Parmenide: esiste soltanto l’essere, mentre ciò che i nostri sensi attestano come molteplice e diveniente va relegato nel campo del non essere, o dell’apparenza illusoria. Come vedremo nel prossimo capitolo, starà ai pensatori pluralisti trarre sul piano fisico o naturalistico le conseguenze della concessione di Melisso: essi individueranno in natura un molteplice indiveniente e lo porranno come principio delle cose, convinti di restare fedeli all’essenza del divieto parmenideo.
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 L’INDAGINE SULL’ESSERE
Da Senofane alla scuola di Elea Precursore dell’eleatismo è considerato Senofane di Colofone, noto per la sua critica all’antropomorfismo religioso. Secondo Senofane esiste una sola divinità, un dio-tutto eterno e sempre uguale a sé stesso. Proprio i caratteri del dio-tutto senofaneo ritornano come attributi dell’essere, che è l’oggetto indagato dai pensatori della scuola eleatica. Questi, infatti, abbandonano lo studio diretto della natura, tipico della scuola di Mileto, per dedicarsi al tentativo di indagare l’essere vero e immutabile che si cela “al di sotto” o “al di là” della realtà molteplice e mutevole che appare ai nostri sensi.
Parmenide I temi dell’eleatismo si presentano in modo completo e articolato nella dottrina del fondatore della scuola, Parmenide, il quale evidenzia il contrasto esistente fra
• verità e opinione
l’opposizione tra la verità (in greco alétheia, che letteralmente significa “svelamento”, dal prefisso privativo a- e dal verbo lantháno, “copro”, “nascondo”) e l’opinione (in greco dóxa, dal verbo dokéin, “apparire”, “sembrare”), ovvero tra le due possibili vie che si aprono alla conoscenza umana, rappresenta il tema originale della filosofia di Parmenide. La via della verità si basa sulla ragione e porta a conoscere l’essere vero che si cela dietro il velo di ciò che appare ai sensi. La via dell’opinione si basa sui sensi e consente di conoscere soltanto l’essere apparente, nella sua illusorietà.
Collocando un articolo determinativo (in greco to) davanti alle forme verbali “essere” (éinai) ed “essente” (on), Parmenide “sostantivizza” e “concettualizza”
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queste espressioni, riferendole non più a una qualche realtà particolare, bensì alla realtà in generale: “l’essere” o “l’essente”, appunto, che diventa oggetto specifico di una nuova disciplina, detta
• ontologia
(da óntos, genitivo del participio presente del verbo greco éinai, “essere”, e dal sostantivo lógos, “discorso”) a partire dal XVIII secolo, termine usato per indicare lo studio filosofico dell’essere in generale, ovvero il nuovo ambito di ricerca aperto da Parmenide in virtù della “creazione” del concetto astratto di “essere”.
Legge fondamentale dell’ontologia parmenidea è l’affermazione che l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può essere. Questo significa che soltanto l’essere esiste, mentre il nulla non esiste, e nemmeno può essere pensato o “detto”. In Parmenide, infatti, le sfere ontologica, logica e linguistica si corrispondono reciprocamente, tanto che una cosa è vera ed esprimibile (cioè pensabile e dicibile) soltanto quando è reale (cioè realmente esistente) e, simmetricamente, una cosa è reale soltanto quando è pensabile e dicibile. Dalla necessaria esistenza dell’essere, e dalla corrispondente e altrettanto necessaria non esistenza del nulla, Parmenide deduce logicamente una serie di “connotati” o “attributi” fondamentali dell’
• essere
l’oggetto dell’ontologia (v.); Parmenide lo concepisce come ingenerato e imperituro, e di conseguenza come eterno, immobile, immutabile, unico, omogeneo e finito.
Questi attributi configurano un essere ontologicamente perfetto e necessario, cioè che non può non essere, né essere diverso da com’è. A questa realtà necessaria Parmenide contrappone la realtà in cui viviamo, il mondo sensibile, che filosoficamente parlando non è altro che pura apparenza, dal momento che implica il non essere. Nella riflessione di Parmenide, però, la via dell’opinione sembra a un certo punto biforcarsi: accanto al sentiero dell’opinione ingannevole si profila quello dell’opinione plausibile, fondata sui sensi. Corretti dall’intervento della ragione, questi ultimi offrono della realtà sensibile una spiegazione “verosimile”, nella quale gli opposti, anziché richiamare il non essere in quanto l’uno non è l’altro, vengono ricompresi nella superiore unità dell’essere.
Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
Zenone Discepolo di Parmenide, Zenone difende le teorie del maestro con due ordini di argomenti, indirizzati rispettivamente contro la pluralità e contro il movimento dell’essere. A questo scopo egli utilizza la dimostrazione “per assurdo”, detta anche
• riduzione all’assurdo
(in latino reductio ad absurdum) espressione coniata dai logici medievali per indicare un tipo di ragionamento in cui si assume come vera una certa affermazione, per poi dimostrare che le conseguenze che se ne ricavano sono contraddittorie, tali da imporre il rifiuto dell’affermazione di partenza.
L’intento di Zenone è quello di mostrare che, parlando di molteplicità e di movimento dell’essere, si scambia l’apparenza per la realtà, finendo per ritrovarsi imprigionati in difficoltà logiche insormontabili. Gli argomenti più famosi di Zenone sono quelli contro il movimento, detti “dello stadio”, “di Achille e della tartaruga”, “della freccia” e “delle masse nello stadio”, tutti casi esemplari di
Melisso Un altro celebre discepolo di Parmenide è Melisso di Samo, il quale, come il maestro, nega il divenire, ritenendolo “compromesso” con il non essere. Diversamente dal maestro, però, Melisso non condanna, almeno sul piano logico, la molteplicità, nella convinzione che non essere una certa cosa non significhi non esistere, ma soltanto essere diverso da quella cosa. Quindi si può ipotizzare l’esistenza di più realtà, tra loro diverse e tutte esistenti, senza violare la legge che vieta il non essere, a condizione che nessuna di queste realtà sia soggetta al divenire. Un altro aspetto che differenzia Melisso dal suo maestro è la concezione dell’eternità dell’essere, che Parmenide interpreta come eterno presente al di là del tempo, mentre Melisso come infinita estensione nel tempo.
• paradosso
(dal greco pará, “contro”, e dóxa, “opinione”) termine che indica un fatto o un’affermazione che contraddice l’opinione comune.
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MAPPE
CAPITOLO 3 L’INDAGINE SULL’ESSERE PARMENIDE afferma che
soltanto l’essere è, mentre il non essere non è da cui derivano tre possibilità di indagine
la via della verità (basata sulla ragione)
la via dell’opinione ingannevole (basata sui sensi)
la via dell’opinione plausibile (basata su sensi e ragione)
che porta a conoscere
che porta a conoscere
che offre
l’essere vero (che è e non può non essere)
l’essere apparente (che in realtà non è)
una spiegazione verosimile della realtà sensibile
il quale
il quale
nella quale
è ingenerato e imperituro, e quindi eterno, immobile, immutabile, unico, omogeneo e finito
è generato e corruttibile, e quindi mobile, mutevole, molteplice e disomogeneo
gli opposti sono compresi nella superiore unità dell’essere
ZENONE difende le tesi parmenidee con
argomenti contro la pluralità
argomenti contro il movimento: stadio, Achille e la tartaruga, freccia, masse nello stadio
condotti con il metodo della riduzione ad assurdo
MELISSO come Parmenide deduce
gli attributi dell’essere: ingenerato, incorruttibile, immutabile
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diversamente da Parmenide
ammette la possibilità logica della molteplicità dell’essere
Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
intende l’eternità dell’essere come infinita estensione nel tempo
CAPITOLO 3 L’INDAGINE SULL’ESSERE
parmenide
Con Parmenide la ricerca filosofica abbandona lo studio della natura, ovvero il tentativo di identificarne l’arché, e si volge all’analisi della realtà in generale, ovvero delle strutture logiche dell’essere. Da questo momento in poi, nessun pensatore potrà più esimersi dal confronto con le tesi eleatiche. TESTO
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Al cospetto della dea
(Sulla natura)
IL TESTO NELL’OPERA Per esporre la propria riflessione sulla natura e sul senso dell’essere Parmenide adotta la forma del poema filosofico e si avvale dell’esametro, ossia del metro prescelto da illustri poeti come Omero ed Esiodo. L’opera, solitamente indicata con il titolo Sulla natura, è presentata come il frutto di una rivelazione divina: l’incontro dell’uomo con la verità assume quindi il carattere di un’iniziazione, ossia di una cerimonia elitaria con cui si è introdotti a una conoscenza AUDIOLETTURA considerata sacra e preclusa ai più. Il primo testo è tratto dal proemio del poema, dove il filosofo di Elea immagina di essere trasportato al cospetto della dea che gli indicherà le possibili vie della conoscenza. il viaggio Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare,
mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata che per ogni regione guida l’uomo che sa. Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi corsieri che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino. L’asse dei mozzi mandava un suono sibilante, tutto in fuoco (perché premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra) allorché si slanciarono le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte, a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli.
La porta Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno, presidiata e un architrave e una soglia di pietra la puntellano: dalla giustizia
essa stessa nella sua altezza è riempita da grandi battenti, di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono.
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Le fanciulle, allora, rivolgendole discorsi insinuanti, la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra velocemente dalla porta. […] Le parole […] Per di là attraverso la porta della dea subitamente diressero lungo la carreggiata carro e cavalli.
La dea mi accolse benevolmente, con la mano la mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole: «O giovane, che insieme a immortali guidatrici giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano, salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via (perché in verità è fuori dal cammino degli uomini), ma un divino comando e la Giustizia. Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa, sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità, sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi». (DK 28 B 1, vv. 1-17, 20-32, trad. it. di P. Albertelli, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1969)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il viaggio (rr. 1-10) Parmenide sente il bisogno di presentare il proprio pensiero non soltanto in forma poetica (cioè in versi), ma anche di rivelazione divina. Il filosofo necessita della divinità, anzi senza il suo aiuto (il cocchio che la dea gli mette a disposizione) non potrebbe neppure arrivare ad ascoltarne le parole. D’altro canto, l’aiuto divino non è accordato a un uomo qualsiasi, ma all’«uomo che sa» (r. 3), cioè a colui che ha dimostrato particolare predisposizione e interesse nella ricerca della verità. Si viene così a delineare una situazione di equilibrio tra l’ispirazione divina e l’indagine della ragione umana. Al di là di questa considerazione iniziale, sembra tuttavia indubbio che Parmenide voglia sottolineare il carattere rivelato e iniziatico dell’autentica conoscenza, obiettivo che raggiunge anche utilizzando una serie di colte ed enigmatiche metafore. Il carro è probabilmente immagine dell’anima, mentre le cavalle che lo trascinano in alto, «verso la luce» (la verità, r. 10), rappresentano il desiderio di conoscenza che muove il filosofo. Le «fanciulle figlie del Sole» (r. 9) sono invece, secondo l’interpretazione più diffusa, le sensazioni, ossia la conoscenza sensibile, la quale può abbandonare «le case della Notte» (cioè il mondo dell’opinione
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fallace, r. 11) e trasformarsi in opinione verosimile soltanto a patto che la ragione ne sveli la natura apparente e illusoria. La porta presidiata dalla Giustizia (rr. 11-17) L’immagine del grande portale che «divide i sentieri della Notte e del Giorno» (r. 11) suggerisce l’idea di un bivio fondamentale che si apre di fronte al filosofo: quello tra la luce e le tenebre, ovvero tra la verità e l’errore. Il fatto che le chiavi della porta siano custodite dalla Giustizia allude invece a un inscindibile legame tra conoscenza e virtù, o morale, poiché la scelta della verità deve essere un impegno conoscitivo ed etico nello stesso tempo, una scelta di vita radicale che coinvolge il filosofo in tutto il suo essere. Le parole della dea (rr. 18-30) Negli ultimi cinque versi del passo sono descritte in una prima sintetica forma le possibili vie che si aprono di fronte a colui che voglia saziare la propria sete di conoscenza. Secondo l’interpretazione tradizionale, Parmenide ammette due sole possibilità, richiamate l’una dal verso sull’«animo inconcusso della ben rotonda Verità» (r. 27) e l’altra dal verso sulle «opinioni dei mortali» (r. 28). Si tratta dei due sentieri menzionati all’inizio del poema, quello della Notte e quello del Giorno, ov-
Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
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vero dell’essere (la verità) e del non essere (l’errore in cui si incorre cedendo al dominio dei sensi, responsabili di farci credere che le cose insieme siano e non siano). Accanto a questa interpretazione, tuttavia, si è fatta ormai strada l’ipotesi che Parmenide contempli anche una terza possibilità, descritta negli ultimi due versi: se l’essere vero (la «ben rotonda Verità») non coincide con il mondo delle cose molteplici e divenienti, e se il
non essere non si può né pensare né dire, allora come vanno giudicati la molteplicità e il divenire del mondo, di cui i nostri sensi ci danno testimonianza? Si tratta della problematica “terza via” delineata da Parmenide: quella delle «apparenze» (r. 29), che, pur essendo contraddittorie rispetto alla rigida legge dell’essere, non possono essere del tutto ignorate, e alle quali pertanto sarà dedicata la terza parte del poema.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Analizza le immagini impiegate da Parmenide per esprimere in modo suggestivo contenuti razionali e completa una tabella sul modello di quella proposta di seguito. Quindi rifletti sulla scelta stilistica del filosofo e riporta in un testo le tue considerazioni personali al riguardo (20 righe max). immagine (rr.) «Le cavalle che mi trascinano ... mi fecero arrivare» (rr. 1-2)
TESTO
2
La verità e l’opinione
significato il desiderio di Parmenide di intraprendere il viaggio verso la conoscenza
(Sulla natura)
Nel testo che segue, la dea chiarisce a Parmenide che cosa si incontra percorrendo, rispettivamente, la via della verità e quella dell’opinione. Soltanto la prima conduce all’essere, e lo fa escludendo il non essere, che infatti non è pensabile né dicibile.
l’una [che dice] che è e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Persuasione (giacché questa tien dietro alla Verità); l’altra [che dice] che non è e che non è possibile che sia, questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile), né lo puoi esprimere.
(DK 28 B 2, vv. 1-8, trad. it. di P. Albertelli, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE I due possibili sentieri della conoscenza (rr. 1-8) Le vie di ricerca tracciate in questi versi sono due. Ma di che cosa esse dicono, rispettivamente, «che è»
(r. 3) e «che non è» (r. 5)? Ovvero, quale possiamo pensare che sia il soggetto di queste due proposizioni? Alcuni hanno ipotizzato che Parmenide si riferisse a
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TESTI PARMENIDE
i due possibili Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, sentieri della quali vie di ricerca sono le sole pensabili: conoscenza
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due soggetti, sottintesi ma non per questo meno presenti, ovvero l’essere e il non essere; altri hanno invece obiettato che ciò non è affatto necessario per intendere il significato del testo, che sarebbe il seguente: è possibile esprimersi ragionevolmente a proposito di qualsivoglia entità, a patto di parlarne come di qualcosa “che è”, poiché, se le attribuissimo il non essere (affermando “che non è”), la renderemmo per ciò stesso inesistente, impensabile, indicibile. In base a questa seconda interpretazione (che sembra anche essere quella più persuasiva), le vie di ricerca in opposizione sono le seguenti: quella che dice “è” (senza un soggetto sottinteso) e quella che dice “non è” (senza un soggetto sottinteso). Del resto, nella mentalità greca arcaica la conoscenza è sempre conoscenza di qualcosa “che è” (ovvero che esiste, che è reale) e, reciprocamente, di una cosa si può dire “che è” soltanto se essa cade nel campo della conoscenza e del linguaggio, vale a dire nel campo
del lógos, che è sia il pensiero che viene espresso attraverso il discorso, sia il discorso che esprime un tale pensiero. Per Parmenide, in altre parole, soltanto l’è esprime la realtà di qualcosa (ovvero la sua presenza al pensiero) e pertanto non può essere “mescolato” con il non è, dal momento che questo non può essere pensato né pronunciato come qualcosa di reale. È questa, dunque, la scelta decisiva (krísis), il dilemma stringente di fronte al quale ci si trova: “è” o “non è”, “essere” o “non essere”. Se il discorso sulla realtà deve evitare ogni contraddizione, allora esso deve riguardare solamente ciò intorno a cui non si può produrre alcuna negazione, e cioè l’essere (autentico). In tal modo Parmenide arriva a negare la pensabilità di due dimensioni che i sensi sembrano attestare: quella del molteplice e quella del divenire, dal momento che entrambe sono implicate nel gioco contraddittorio e annichilitore della negazione dell’essere.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS “Essere”, “pensare” e “dire” sono tre dimensioni che Parmenide (coerentemente con la mentalità greca del suo tempo) considera strettamente legate. Che cosa pensi di questo assunto? Argomenta la tua risposta (max 25 righe).
TESTO
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La descrizione dell’essere (Sulla natura) Nel terzo testo qui proposto, Parmenide elenca i caratteri distintivi dell’essere autentico. Si tratta di una serie di attributi ricavati mediante un procedimento logico rigoroso, a partire dal presupposto secondo cui bisogna rifiutare tutto ciò che metterebbe in gioco il non essere.
gli attributi […] Non resta ormai che pronunciarsi sulla via dell’essere che dice che è. Lungo questa sono indizi autentico
in gran numero. Essendo ingenerato [l’essere] è anche imperituro, tutt’intero, unico, immobile e senza fine.
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L’atemporalità Non mai era né sarà, perché è ora tutt’insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare? Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è. E quand’anche, quale necessità può aver spinto lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima? Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla. (DK 28 B 8, vv. 5-15, trad. it. di P. Albertelli, in op. cit.)
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Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Gli attributi dell’essere autentico (rr. 1-4) Se prima Parmenide ha asserito che dell’essere si può dire soltanto «che è» e null’altro, ora trova una strada per renderlo maggiormente comprensibile producendone una sorta di descrizione, seppur condotta con strumenti esclusivamente razionali e logici. L’essere è innanzitutto «ingenerato» (r. 3): infatti, se fosse generato, lo sarebbe stato dal non essere; ma dal non essere nulla può nascere. Esso è quindi «imperituro» (r. 3), poiché non gli può accadere di annichilirsi: dove infatti andrebbe a finire, se non nel non essere? Inoltre è «intero» (r. 4) e «unico» (r. 4), poiché, se fosse distinto al proprio interno o molteplice, ciascuna delle sue parti non sarebbe le altre, e verrebbe così reintrodotto il non essere. Esso è quindi «immobile» (r. 4), non soltanto perché il movimento è una forma di divenire, che già è stato escluso, ma anche perché l’essere dovrebbe muoversi in uno spazio a esso esterno, il che è assurdo, poiché al di fuori dell’essere non c’è alcunché.
L’atemporalità (rr. 5-11) Il verso che afferma «Non mai era né sarà, perché è ora tutto insieme» (r. 5) traduce l’ultima caratteristica dell’essere che è stata appena elencata, ovvero l’infinitezza temporale («senza fine», r. 4). Si tratta di un verso particolarmente interessante, poiché contiene il motivo del contrasto con Melisso ( p. 71). L’essere, infatti, per Parmenide non conosce né il passato né il futuro, perché il passato e il futuro sono forme di non essere: da ciò scopriamo che il filosofo di Elea nega recisamente anche il tempo (che invece il suo discepolo Melisso ammetterà), in quanto dimensione propria del mondo dell’opinione e dell’illusione, impossibile da attribuire all’essere. Quest’ultimo vive quindi immerso in un “eterno presente”, cioè in una dimensione che potremmo tradurre con l’immagine del punto, dell’istantaneità che ci fa dire di esso che è in un perenne “ora”.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Parmenide sostiene che «non si può né dire né pensare / ciò che non è» (rr. 8-9). Che cosa pensi di questa tesi? Quale posto occupa il “non essere” nella tua concezione della realtà? Rispondi a questi interrogativi in un testo argomentato (max 30 righe).
TESTO
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L’illusorietà delle sensazioni (Sulla natura)
La negazione La stessa cosa è pensare e pensare che qualcosa è, del divenire giacché non troverai il pensare senza l’essere [l’“è”]
in cui è espresso: null’altro infatti è o sarà eccetto l’essere, appunto perché la Moira lo forza ad essere tutto intiero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole, quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore. (DK 28 B 8, vv. 34-41, trad. it. di P. Albertelli, in op. cit.)
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TESTI PARMENIDE
Se soltanto ciò che “è” si può pensare, ovvero se soltanto l’essere autentico privo di contraddizioni può essere oggetto del lógos, allora che cosa ne è del mondo attestato dai sensi, cioè di quel mondo oggetto di opinione, che è poi il mondo stesso in cui viviamo, nel quale si mescolano essere e non essere? Nel testo che segue la dea spiega a Parmenide che il divenire che caratterizza la realtà quale appare ai nostri sensi non è che illusione, dal momento che non si può pensare.
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE La negazione del divenire (rr. 1-8) Nei primi tre versi qui riportati viene ribadita l’identità tra pensiero ed essere. Per la loro oscurità e complessità, questi versi hanno dato luogo a traduzioni e interpretazioni divergenti. Facendo riferimento all’ipotesi interpretativa di Guido Calogero (1904-1986), ripresa e sostenuta da Gabriele Giannantoni (1932-1998), possiamo osservare che l’identità tra pensiero ed essere va intesa come una connessione strutturale tra il pensare e il verbo essere (“è”) mediante il quale il pensiero rende qualcosa presente a sé stesso, determinandolo nel suo “essere”, appunto, cioè nella sua natura (come nel caso in cui si affermi che questo è un albero, che l’albero è verde ecc.). L’identificazione del pensiero con l’essere non è consapevolmente affermata o posta come esito di
un ragionamento, bensì accettata come un fatto ovvio: ecco perché in questi versi è personificata da una divinità (la Moira), simbolo dell’ineluttabilità del destino. Prima di cominciare (nei versi successivi) a istruire Parmenide anche sulle «opinioni dei mortali» (ovvero prima di esporre una teoria “verosimile” che spieghi il mondo mutevole di cui facciamo esperienza), la dea ribadisce che è da stolti pretendere di parlare con verità del divenire delle cose, perché in questo modo si pensa e si afferma il non essere e, per ciò stesso, si nega l’essere. La nascita e la morte, così come qualunque forma di cambiamento, non possono che essere descritte usando parole vuote, che non corrispondono a qualcosa di autenticamente reale e pensabile.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Parmenide presenta la sua tesi come un dato di fatto: «null’altro infatti è o sarà / eccetto l’essere, appunto perché la Moira lo forza / ad essere tutto intiero e immobile» (rr. 3-5). Secondo te, in questo modo il filosofo consolida o indebolisce il suo impianto argomentativo? Perché? Rispondi in un testo scritto (max 20 righe).
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Unità 1 L’indagine SuLLa natura: i penSatOri preSOcratici Capitolo 3 l’indagine sull’essere
CAPITOLO 4 I MOLTEPLICI PRINCÌPI DELLA REALTÀ 1. I fisici pluralisti Mentre la parabola della scuola di Elea si avvia alla sua conclusione, alcuni pensatori – i Tra Eraclito cosiddetti “fisici pluralisti” – tornano a interessarsi del problema della natura. Tuttavia, e Parmenide per loro Parmenide non è passato invano. Anzi, la loro filosofia rappresenta un primo tentativo di sintesi fra l’eraclitismo e l’eleatismo (un secondo tentativo, come vedremo, sarà attuato da Platone). Di Eraclito e della scuola di Mileto essi accettano l’idea che le cose mutino incessantemente, mentre di Parmenide accolgono il concetto dell’eternità e dell’immutabilità dell’essere “vero”. Ma come si conciliano le opposte affermazioni del divenire incessante della natura e della sua fondamentale eternità e immutabilità? La geniale soluzione di questi filosofi si basa sulla distinzione fra elementi immutabili L’intuizione e composti mutevoli. Essi, infatti, ritengono che il mondo sia costituito da una moltepli- di fondo cità di elementi eterni e immutabili che, unendosi tra loro, provocano ciò che noi chiamiamo la “nascita” delle cose e, disunendosi, ne provocano la “morte”. In tal modo i fisici pluralisti finiscono per giungere al principio secondo cui, in natura, nulla si crea e nulla si distrugge, ma semplicemente tutto si trasforma. glossario p. 95 Il motivo per cui questi pensatori sono detti “fisici pluralisti” risulterà ora più chiaro: “fisi- La concezione ci” in quanto, come gli ionici e diversamente dai filosofi di Elea, tornano a studiare i feno- pluralistica della natura meni della natura (phýsis); pluralisti in quanto, distanziandosi dal monismo degli ionici e degli eleati, così come dal dualismo pitagorico, ritengono che i princìpi della natura siano molteplici. glossario p. 95
Empedocle Empedocle nacque ad Agrigento (in greco Akrágas) tra il 484 e il 481 a.C., e morì a circa La vita sessant’anni. Figlio di Metone (che nel 471 a.C. giocò un ruolo importante nel passaggio e gli scritti della città dalla tirannide a un governo democratico), anch’egli partecipò attivamente alla vita politica agrigentina e fu nello stesso tempo medico, scienziato e taumaturgo. Egli stesso presenta la sua dottrina come uno strumento efficace per dominare le forze della natura e perfino per richiamare i defunti dal regno dell’oltretomba. Di Empedocle ci sono rimasti molti più frammenti che di qualsiasi altro filosofo presocratico, tutti provenienti da due poemi intitolati Sulla natura e Purificazioni. Il primo è di carattere cosmologico, mentre il secondo è di carattere teologico e si ispira all’orfismo e al pitagorismo. enciclosofia taumaturgo letteralmente, “che opera prodigi” (dal greco thaumatourgós, a sua volta composto da tháuma, “prodigio”, ed érgon, “opera”). La fama di “mago” avvolse molti pensatori antichi, tra cui Empedocle, sulla cui figura circolavano voci di guarigioni e atti miracolosi.
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Le quattro radici e il ciclo cosmico Empedocle è convinto che i poteri conoscitivi umani siano limitati: l’uomo scorge soltanto una piccola parte della vita del cosmo, ovvero una «vita che non è vita» (perché è finita e fuggevole, soggetta a un continuo alternarsi di nascita e morte), e conosce esclusivamente ciò in cui si imbatte per caso. Ma appunto per questo non può rinunciare ad alcuna delle sue facoltà conoscitive: bisogna che si serva non soltanto dei sensi, ma anche dell’intelletto, per cercare di vedere ogni cosa nella sua chiarezza e profondità. Gli elementi Come Parmenide, anche Empedocle ritiene che l’essere non possa nascere né perire; a diffee le forze che renza di Parmenide, però, egli intende “spiegare” l’apparenza della nascita e della morte, e lo li governano
I NODI DEL PENSIERO Nel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta? p. 470
fa ricorrendo all’idea del combinarsi e del dividersi di quattro elementi, la cui unione e disunione rappresentano rispettivamente la nascita e la morte delle cose che costituiscono il reale. Gli elementi individuati da Empedocle sono il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. Empedocle ne parla come delle «quattro radici di tutte le cose» e afferma che sono animate da due forze opposte: l’amore, o amicizia, che tende a unirle, e l’odio, o contesa, che tende a separarle. L’amore e l’odio sono due forze di natura divina, la cui azione si avvicenda nell’universo determinando le fasi del ciclo cosmico. glossario p. 95 ( T1 p. 98)
Il ciclo cosmico Per Empedocle, nella vita del cosmo c’è una fase in cui l’amore domina completamente: è
la fase dello «sfero», nel quale tutti gli elementi sono unificati e legati nella più completa armonia. In questa fase non ci sono né il sole né la terra né il mare, perché non c’è altro che un tutto uniforme, una divinità che gode della sua solitudine. L’azione dell’odio spezza questa unità e separa gli elementi. Ma non si tratta di una separazione distruttiva, poiché la forza opposta dell’amicizia, unendosi a quella della contesa, a un certo punto determina la formazione delle cose di cui facciamo esperienza nel nostro mondo. Quest’ultimo è dunque il prodotto dell’azione combinata delle due forze cosmiche, e si trova a metà strada fra il regno dell’amore e quello dell’odio. Continuando ad agire, l’odio prende gradualmente il sopravvento sull’amore, determinando il dissolversi delle cose e l’instaurarsi del regno del caos, puro dominio dell’odio, nel quale gli elementi sono tutti separati. Allora spetterà di nuovo all’amore ricominciare la riunificazione degli elementi; a metà strada si avrà di nuovo il mondo quale noi lo conosciamo, mescolanza d’odio e d’amore, e infine si ritornerà allo sfero, dal quale ripartirà un nuovo ciclo. ( T2 p. 99)
IL CICLO COSMICO contesa tra AMORE e ODIO c’è VITA puro dominio di AMORE
puro dominio di ODIO
non c’è VITA
non c’è VITA contesa tra ODIO e AMORE c’è VITA
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Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
La conoscenza Le quattro radici e le due forze che le muovono sono per Empedocle soltanto anche le condizioni della conoscenza umana. Egli afferma, infatti, che il simile si conosce il simile è conoscibile con il simile:
‘
Noi conosciamo la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, l’etere divino con l’etere, il fuoco (frammento 109) distruttore con il fuoco, l’amore con l’amore e l’odio funesto con l’odio.
Empedocle vuol dire che la conoscenza avviene mediante l’incontro fra gli elementi che sono nell’uomo e gli stessi elementi che si trovano al di fuori dell’uomo: quando gli efflussi che provengono dalle cose si adattano ai pori degli organi dei sensi, producono la sensazione; altrimenti rimangono inavvertiti. Il filosofo non fa alcuna distinzione tra la conoscenza dei sensi e quella dell’intelletto: an- un principio che quest’ultima avviene allo stesso modo, ovvero grazie all’incontro di elementi esterni e che avrà fortuna interni all’uomo, purché siano tra loro omogenei. Al di là dei significati specifici e immediati della dottrina empedoclea della conoscenza, essa sottintende uno schema concettuale destinato ad avere decisivi sviluppi nella storia della filosofia, ovvero l’idea di un’omogeneità o somiglianza di fondo tra il pensiero umano e l’universo da esso conosciuto.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega il significato dell’espressione “fisici pluralisti”. 2. Quali sono per Empedocle gli elementi costitutivi della realtà e quali le forze che agiscono su di essi? 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera le fasi del ciclo cosmico descritto da Empedocle. Qual è la tua opinione su questa suggestiva visione della realtà? Trovi qualche affinità tra la teoria empedoclea e quella eraclitea degli opposti? 4. Spiega come avviene la conoscenza per Empedocle.
Anassagora Tra i pensatori che abbiamo esaminato finora, nessuno vive o insegna ad Atene. A introdurre la filosofia in questa città è uno dei fisici pluralisti: Anassagora, nato nella colonia ionica di Clazomene tra il 500 e il 496 a.C. Trasferitosi ad Atene intorno al 426 a.C, Anassagora diventa ben presto sostenitore di Pericle e delle sue posizioni democratiche. Inviso agli ambienti conservatori, nel 432 viene accusato di empietà per avere concepito il Sole e la Luna non come divinità (come all’epoca erano considerati), ma come corpi fisici. Dopo il processo, lascia la città e fa ritorno in Asia Minore, dove muore intorno al 428 a.C. Autore di un’opera intitolata Sulla natura, di cui ci restano pochi frammenti, anche Anassagora ammette il principio di Parmenide per cui nulla nasce e nulla perisce, e anch’egli, come Empedocle, interpreta il verbo “nascere” nel senso di “riunirsi” e il verbo “perire” nel senso di “separarsi”.
I semi
Gli elementi che si uniscono e si separano secondo modalità e proporzioni diverse, dando I «semi» di origine a tutto il reale, per Anassagora sono i semi , particelle piccolissime e invisibili di tutte le cose materia. glossario p. 95 Queste particelle sono tra loro qualitativamente differenti: ci sono semi di oro, di pietra, di carne, di ossa ecc. Il filosofo le chiama “semi” perché, come dal seme si genera la pianta, così da quelle particelle si generano tutte le cose corporee. Aristotele le chiamerà invece «omeomerie», cioè, letteralmente, “parti simili”, perché secondo la dottrina anassagorea
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hanno gli stessi caratteri del tutto che entrano a costituire. L’oro, ad esempio, è costituito in prevalenza da semi di oro, ma anche di semi di tutte le altre sostanze, sebbene in quantità molto minori. E questo vale per tutti i tipi di materiali e di corpi. Perciò Anassagora dice: «Tutte le cose sono insieme» (frammento 1) e «Tutte le cose sono in ogni cosa» (frammento 6). ( T3 p. 100) Particelle Il carattere fondamentale dei semi è la loro divisibilità all’infinito. Secondo Anassagora, infinitamente infatti, non esiste una quantità minima: ogni quantità, per quanto piccola, è ancora didivisibili
visibile in parti minori; e analogamente non esiste una grandezza massima, perché ogni quantità, per quanto grande, può essere ancora aumentata. Il piccolo e il grande, del resto, sono relativi: ciascuna cosa è grande o piccola a seconda del termine con cui la si confronta. Il concetto anassagoreo dei semi come quantità che si possono rendere piccole a piacere, senza che per questo perdano le loro caratteristiche qualitative, si rivelerà molto importante nella matematica moderna, specialmente per il calcolo infinitesimale. Anassagora, però, non era un matematico e la sua teoria dei semi gli fu probabilmente suggerita da osservazioni biologiche come questa: per quanto noi possiamo ricorrere a un solo tipo di alimento (ad esempio soltanto latte, o soltanto carne), tuttavia da questo nutrimento si formano tutte le parti del nostro corpo (il sangue, la carne, i capelli, le ossa ecc.); bisogna dunque che in ciò che mangiamo siano presenti tutte le particelle che andranno a formare le varie parti del nostro corpo. Dai semi, Anassagora distingue nettamente la forza che li fa muovere e li ordina. Questa forza è un noús , ovvero un’intelligenza di natura divina che divide e organizza i semi originariamente confusi, generando così il mondo e le cose che vi si trovano. Tuttavia quest’ordine non è mai perfetto e stabile, giacché, come abbiamo visto, i semi rimangono, in una certa misura, sempre tutti mescolati gli uni con gli altri. glossario p. 95
L’intelligenza ordinatrice QUESTIONE Esiste Dio? (Anassagora, Democrito, Protagora) p. 188
L’origine In origine, il mondo non è dunque che un caos informe (mígma), all’interno del quale i sedel cosmo e mi vagano senza alcuna regola; in questo caos primordiale il noús produce un movimento dell’umanità
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del mondo? p. 321
turbinoso che per la sua rapidità fa dividere i semi delle diverse sostanze secondo le opposizioni iniziali del caldo e del freddo, e della luce e dell’oscurità. La terra si separa così dall’acqua e dall’aria. Lo stesso movimento turbinoso fa poi staccare dalla terra una serie di masse che si infiammano e che, divenute luminose, formano gli astri e lo stesso Sole. Gli animali e gli esseri umani si formano dai semi provenienti dall’aria, la quale, come tutte le altre cose, comprende tutti i semi possibili.
Le discussioni Per lungo tempo gli studiosi si sono interrogati sul carattere “spirituale” o “materiale” sulla natura del noús anassagoreo. Per la critica contemporanea si tratta tuttavia di una questione mal del noús
posta, in quanto la distinzione tra spirito e materia non appartiene all’orizzonte mentale di Anassagora, né a quello degli altri primi filosofi. Sebbene il noús sia “separato” dai semi che mette in ordine, la sua natura appare infatti più vicina a quella della materia che a quella di ciò che noi intendiamo per “spirito”. Inoltre, l’azione che il noús esercita sul mondo ha poco di provvidenziale o di finalistico, come dovrebbe accadere se si trattasse di un vero e proprio “disegno intelligente”, tanto che Platone e Aristotele noteranno come Anassagora, nelle sue spiegazioni, faccia ricorso all’intelligenza divina il meno possibile, ovvero soltanto quando gli manca la spiegazione naturalistica di cui egli solitamente si avvale. Tutto ciò non toglie che in Anassagora appaia per la prima volta la teoria di una mente ordinatrice e di un’intelligenza che sta alla base del mondo. E proprio questa dottrina,
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indipendentemente dai significati precisi che riveste in Anassagora, avrà grande fortuna nella storia della filosofia, finendo per rappresentare un possibile modello di spiegazione della realtà e dell’origine del mondo. Per quanto riguarda la conoscenza, Anassagora si differenzia da Em- soltanto il dissimile pedocle in quanto afferma che la sensazione è prodotta non dalle cose simili, ma piuttosto è conoscibile dalle dissimili. Ad esempio, noi percepiamo una cosa calda quando la nostra mano è fredda, così come un cibo ci pare dolce quando il nostro palato non lo è. In altre parole, soltanto l’assenza in noi di una determinata qualità ci consente di cogliere con i sensi questa qualità, quando essa si presenti nelle cose.
La conoscenza
L’originalità della dottrina anassagorea della conoscenza risiede anche nell’importanza La rivalutazione attribuita alle tecniche. Anassagora, infatti, è convinto che l’umanità si sviluppi attraverso delle tecniche «l’esperienza, la memoria, il sapere e la tecnica» (DK 59 B 21). In altri termini, la crescita dell’umanità (come quella di ogni singolo essere umano) è determinata dal passaggio graduale attraverso alcune fasi: l’esperienza sensibile, fissata nella memoria, costituisce il sapere, che a sua volta trova concretizzazione anche nelle tecniche, cioè nelle varie attività umane, dall’agricoltura all’urbanistica. Quest’idea della finalizzazione tecnica del sapere, e quindi dell’importanza del rapporto attivo della conoscenza con il mondo circostante, risulta implicita anche in una celebre tesi antropologica di Anassagora:
‘
L’uomo è il più intelligente degli animali in virtù del possesso delle mani.
(DK 59 A 102)
Questo significa che l’esperienza e il lavoro sono in grado di sviluppare e di “aguzzare” le nostre capacità mentali, le quali senza di essi rimarrebbero a un livello molto basso.
)
Per l’esposizione orale
1. Descrivi le caratteristiche dei «semi» di cui parla Anassagora. 2. Spiega come si originano il cosmo e l’uomo secondo Anassagora. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la teoria della conoscenza di Anassagora e confrontala con quella di Empedocle: nei loro princìpi di fondo, ti pare che siano plausibili entrambe o ne preferisci una in particolare? In altre parole: ritieni che la conoscenza (o il desiderio di conoscere) prenda avvio da qualcosa che già si conosce (cioè che in qualche modo è già presente in noi) oppure da qualcosa che è in noi del tutto assente, e di cui dunque avvertiamo la “mancanza”?
2. democrito e l’atomismo L’atomismo costituisce una delle più vaste sintesi del pensiero greco elaborato in precedenza, nonché una dottrina filosofica di grande peso storico. Il suo esponente più significativo, Democrito, viene solitamente presentato insieme con gli ultimi presocratici (Empedocle e Anassagora). In realtà egli è piuttosto un post-socratico, in quanto è contemporaneo non soltanto di Socrate, ma anche dei suoi primi discepoli, ad esempio di Platone. Tant’è vero che la sua riflessione, sebbene sia prevalentemente dominata dal problema della natura (caratteristica che in qualche modo giustifica la sua collocazione tra i presocratici), si mostra aperta anche ai problemi della morale, della storia e del linguaggio, manifestando una tendenza enciclopedica che riflette la nuova cultura che nel V secolo a.C. si va affermando nella città di Atene.
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Leucippo Maestro di Democrito è Leucippo di Mileto, di cui abbiamo scarse notizie. Sembra che in un
primo tempo Leucippo sia stato discepolo degli eleati, ma che in seguito abbia fondato una propria scuola ad Abdera e che abbia scritto una Grande cosmologia. Tuttavia, in assenza di informazioni precise, il suo pensiero non viene distinto da quello del suo discepolo Democrito.
La figura di Democrito una vita Democrito nasce ad Abdera probabilmente intorno al 460-459 a.C. e muore assai vecdi studio e chio, pare più che centenario. di viaggi
Poco sappiamo della sua vita, che si perde nell’aneddoto e talora nella leggenda. Cresciuto tra gli agi e le ricchezze, sembra che a un certo punto abbia rinunciato a una parte dei suoi averi per dedicarsi esclusivamente agli studi e ai viaggi. Si tramanda che si sia spinto, oltre che in Egitto, anche in Etiopia e in India. Egli stesso dice: «Io sono, tra i miei contemporanei, quello che ha percorso la maggior parte della terra, facendo ricerca delle cose più strane; e vidi cieli e terre numerosissime; e udii la maggior parte degli uomini dotti». Nel suo peregrinare, ovviamente Democrito soggiorna anche ad Atene. Qui, sebbene non trovi grande considerazione («nessuno mi riconobbe», egli dice nel frammento 116), ha modo di venire a contatto con la cultura sofistico-socratica, che lascerà tracce visibili sul suo sistema filosofico.
un filosofo Sembra che Democrito abbia incarnato in maniera esemplare la figura del sapiente compleassorto nei tamente assorto nella speculazione, dal momento che tutte le fonti concordano nel presentarsuoi pensieri
lo come appassionatamente dedito alle sue ricerche. Scrive ad esempio Orazio, orecchiando i vari aneddoti fioriti su di lui: «Qual meraviglia se il bestiame entra nei campi di Democrito e guasta le messi, mentre l’animo di lui, immemore del corpo, se ne va errando veloce?».
Le opere A Democrito sono attribuiti molti scritti, tra i quali una Piccola cosmologia e i saggi Sulla
natura, Sulle forme degli atomi e Sulle parole.
L’eredità eleatica Tra conoscenza Anche nel pensiero di Democrito rivive in tutta la sua forza la distinzione eleatica tra aposcura e parenza e realtà. Sulla scia di Parmenide e, in parte, di Eraclito, il filosofo di Abdera ritiene genuina
infatti che l’occhio del filosofo, spingendosi oltre la mutevole e variopinta scena del mondo, debba cercare di raggiungere la realtà autentica delle cose, conscio del fatto che «la verità dimora nel profondo» (frammento 117). Come già in Parmenide, questa convinzione si traduce nell’opposizione tra la conoscenza sensibile, detta “oscura”, e la conoscenza razionale, detta “genuina”: mentre i sensi si limitano a vagare sulla superficie delle cose, la ragione riesce a cogliere l’essere vero del mondo, ossia, come vedremo tra poco, gli atomi che lo costituiscono e il loro movimento.
Il “dialogo” tra Tuttavia sarebbe errato irrigidire troppo questo dualismo conoscitivo. Mentre negli eleati sensi e ragione la sensazione e il pensiero rimangono divisi in due territori non comunicanti, in Democri-
to sensibilità e intelletto, esperienza e ragione, si trovano in un rapporto di reciproca continuità e implicanza. Nella prospettiva democritea, infatti, la conoscenza: parte dalla constatazione delle cose e dei fenomeni attraverso i sensi; si sviluppa mediante un’autonoma elaborazione intellettuale e logica dei dati sensibili; perviene a una teoria in grado di “spiegare” ciò che i sensi si limitano a “mostrare”.
enciclosofia Abdera L’antica città di Abdera venne fondata sulla costa della Tracia, quasi di fronte alla grande isola di Taso, intorno alla metà del VII secolo a.C. da alcuni coloni provenienti da Clazomene. Fu presto distrutta dalle popolazioni del luogo e ricostruita un centinaio di anni dopo. Oggi ne restano poche rovine.
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La teoria cosmologica La struttura atomica della realtà La dottrina di Leucippo e di Democrito viene indi-
Particelle cata con il termine “atomismo”, in quanto descrive l’universo come costituito dal vario ag- di materia che si muovono gregarsi di un numero infinito di atomi , particelle indivisibili di materia. Quest’idea rap- nel vuoto
presenta una sorta di “fisicizzazione” del binomio eleatico di essere e non essere, in quanto l’essere viene identificato con il pieno, ovvero con gli atomi di materia, e il non essere con il vuoto, cioè con lo spazio in cui le particelle di materia si muovono. glossario p. 95
Ma come giungono Leucippo e Democrito all’idea dell’atomo? Non certo su base sperimentale in senso moderno, dal momento che erano del tutto privi di strumenti scientifici appropriati. La loro dottrina è piuttosto il frutto di una deduzione razionale, che a sua volta discende da una riflessione sul problema della divisibilità all’infinito sollevato da Zenone. Gli atomisti affermano infatti che la divisibilità all’infinito vale soltanto in campo logico-matematico, ma non in campo reale: non è assolutamente possibile pensare di dividere all’infinito la realtà materiale percepita dai sensi, perché, a furia di dividere la materia, la realtà si dissolverebbe nel nulla, e dalla materia si passerebbe alla non-materia. Ma, se al fondo della natura vi fosse il nulla, non si capirebbe come da tale nulla possa derivare la realtà concreta e materiale dei corpi, esattamente come non si può comprendere in che modo dalla somma di tanti zeri possa derivare un numero qualsiasi. Se si vuole spiegare razionalmente ciò che appare, si è quindi obbligati ad ammettere che esistono degli elementi ultimi della materia, ossia delle particelle minime, non ulteriormente scomponibili. Dividere un pezzo di materia, pertanto, significa al massimo separare tra loro gli atomi che lo compongono, ma non certo dividere i singoli atomi. Anche l’idea che gli atomi siano immersi in uno spazio vuoto viene dedotta per via razionale: se c’è il movimento – sostiene Democrito – ci deve per forza essere il vuoto in cui gli atomi si spostano. ( T4 p. 101)
La deduzione dei concetti di “atomo” e di “vuoto”
LA REALTÀ si distingue in
essere = materia = pieno = atomi
non essere = non materia = spazio per il movimento = vuoto
Per descrivere le caratteristiche es- La struttura senziali degli atomi, Democrito utilizza alcuni attributi dell’essere parmenideo e afferma quantitativa della realtà che essi sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni. Tra gli atomi non vi sono differenze qualitative, perché sono fatti tutti della medesima “stoffa” materiale e si distinguono l’uno dall’altro soltanto per gli aspetti quantitativi della forma geometrica e (secondo l’autorevole testimonianza di Aezio, dossografo greco vissuto tra il I e il II secolo d.C.) della grandezza. Essi determinano la “nascita” e la “morte” delle cose rispettivamente con la loro unione e separazione, così come ne determinano la diversità e il mutamento con i loro rapporti d’ordine e di posizione. Secondo un paragone di Aristotele, gli atomi sono simili alle lettere dell’alfabeto, che differiscono tra loro soltanto per la forma e danno luogo a parole e a discorsi diversi a seconda di come si dispongono e si combinano (ad esempio, A differisce da N per la forma, AN differisce da NA per l’ordine, Z differisce da N per la posizione).
Le caratteristiche e il movimento degli atomi
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I NODI Poiché tutte le qualità dei corpi dipendono o dalla forma dei singoli atomi o dall’ordine e DEL PENSIERO dalla posizione con cui essi si combinano, l’apparente differenza qualitativa tra i feNel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta? p. 470
nomeni non è che l’aspetto superficiale di una struttura profonda fatta di rapporti quantitativi. In questa conversione democritea della qualità nella quantità, o della fisica nella matematica, risulta evidente un influsso del matematismo pitagorico.
Il movimento Su come Leucippo e Democrito intendessero il movimento degli atomi vi è qualche incercaotico e tezza interpretativa. Per molto tempo gli studiosi (seguendo Aristotele) hanno ritenuto che i “vortici”
per Democrito gli atomi fossero in perpetua caduta secondo un moto rettilineo e che i più pesanti, cadendo più rapidamente, urtassero contro i più leggeri provocando una serie di collisioni inter-atomiche. Oggi si tende invece a ritenere (ancora una volta secondo la testimonianza di Aezio) che questo punto di vista non fosse di Democrito, bensì di Epicuro ( vol. 1B, unità 5, cap. 2), il quale circa un secolo più tardi offrirà una rielaborazione dell’atomismo democriteo. Sembra infatti che il peso non fosse una proprietà originaria (bensì derivata) degli atomi di Leucippo e Democrito, e che per quest’ultimo il movimento delle particelle materiali si configurasse piuttosto come un loro volteggiare caotico in tutte le direzioni. Questo moto – assimilato dalle fonti al volteggiare del pulviscolo atmosferico – dava origine a incessanti contatti e a continue aggregazioni tra corpuscoli simili, che si concretizzavano in veri e propri “vortici” atomici, con le particelle più grandi al centro e quelle più piccole verso l’esterno.
Mondi infiniti in uno spazio infinito
Poiché per Democrito gli atomi erano numeri-
L’infinità camente infiniti, così come le loro possibilità di combinazione, egli riteneva che fossero dei mondi infiniti anche i mondi che perpetuamente nascevano e morivano: mondi senz’acqua,
per saperne di più La “sfida” dell’infinito Oggi la nozione di “infinito” riveste un significato positivo, tanto da essere frequentemente collegata al concetto di Dio o alle sue proprietà (infinita bontà, infinita potenza ecc.). In effetti, soprattutto a partire dall’epoca cristiana, l’infinito indica «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» (per usare un’espressione del filosofo medievale Anselmo d’Aosta), mentre il concetto di “finito” viene istintivamente associato a ciò che, essendo limitato, risulta manchevole o difettoso. Nella cultura greca antica, al contrario, era l’infinito a presentare una connotazione negativa: per designarlo si usava il termine ápeiron (introdotto da Anassimandro cap. 2), che letteralmente indicava non soltanto ciò che manca di un limite fisico-spaziale, ma anche ciò che è in-definito, in-determinato, privo cioè di una forma concettuale.
Melisso e Anassagora A liberare l’infinito da questa connotazione negativa, dando voce a quella che per l’epoca era una vera e propria “eresia”, è Melisso di Samo. Pur essendo discepolo di Parmenide (per il quale l’essere autentico era una «ben rotonda sfera», compiuta e finita), Melisso deduce dall’ingenerabilità dell’essere il suo carattere illimitato nel tempo e nello spazio: «Dal momento che [l’essere] non è nato, ed è e sempre era e sempre sarà, così anche non ha principio né fine, ma è infinito. […] Ma come sempre
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Busto di Democrito in bronzo di età ellenistica.
e quindi privi di esseri viventi, oppure mondi con più soli e più lune, ma anche mondi simili al nostro, poiché l’ipotesi che non esistano mondi simili alla Terra – dirà il discepolo di Democrito, Metrodoro di Chio – sarebbe tanto incredibile quanto quella dell’esistenza di una sola spiga di grano in un’immensa pianura. ( T5 p. 103) Anche l’universo, preso nella sua totalità, era per Democrito spazialmente infinito, poi- L’infinità ché egli riteneva impensabile un limite oltre il quale non si potesse procedere. Nel I secolo spaziale dell’universo a.C. il poeta latino Lucrezio cercherà di visualizzare questo concetto con l’immagine di un arciere che, ovunque si fissino i confini del mondo, sarebbe sempre in grado di scagliare una freccia che li oltrepassi ( “Per saperne di più”).
La spiegazione materialistica del mondo Tutta la teoria atomistica si regge su un
La mobilità postulato, ovvero su un’affermazione la cui verità è indimostrabile, ma che viene assunta intrinseca della materia
quale base teorica imprescindibile. Nel caso dell’atomismo si tratta della concezione del movimento come caratteristica originaria degli atomi. Democrito, infatti, ritiene che la materia abbia in sé stessa la propria causa motrice e che il movimento costituisca una sua proprietà strutturale, e quindi eterna. Di conseguenza, nel sistema cosmologico democriteo gli atomi sono semoventi e il problema della causa del movimento non si pone: se ha senso cercare la causa di questo o di quell’evento, non ha però senso chiedersi quale sia la causa del movimento della materia, poiché, data la materia, ne segue necessariamente il suo movimento, secondo l’equazione “materia = movimento”.
Eterna come il movimento è, per Democrito, anche la sostanza materiale complessiva L’immutabilità che forma l’universo, la quale non può né aumentare né diminuire, perché questo impli- della quantità di materia cherebbe una creazione dal nulla o una dissoluzione nel nulla di una certa quantità di atomi, e questa idea urterebbe contro il postulato di origine eleatica (fatto proprio anche dagli atomisti) secondo cui nulla viene dal nulla e nulla torna al nulla.
è, così anche deve essere sempre infinito in grandezza» (DK 30 B 2 e 3). Il concetto di “infinito” comincia così ad attirare l’attenzione di altri filosofi, tra cui Anassagora di Clazomene ( p. 83), per il quale sono infiniti gli elementi originari e incorruttibili che costituiscono tutte le cose. I «semi» anassagorei sono infiniti per numero, ma anche per dimensioni, sia nel senso che presi tutti insieme formano un’infinita massa corporea sulla quale interviene l’azione separatrice e ordinatrice del noús (a sua volta concepibile come potenza infinita, che tutto pervade), sia nel senso che ognuno di essi è infinitamente divisibile, senza che si possa mai arrivare al nulla.
Democrito
La voce più significativa levatasi in epoca antica in “difesa” dell’infinito è tuttavia quella di Democrito di Abdera, il quale respinge l’idea anassagorea dell’infinita divisibilità della materia, ma fa dell’infinito la categoria centrale della sua fisica.
Gli atomi democritei sono infiniti di numero, così come il loro “contenitore”, lo spazio vuoto, è infinito in estensione. Anche l’universo è spazialmente illimitato, perché (secondo l’immagine dell’arciere elaborata da Lucrezio) non se ne può fissare un limite che non si possa immaginare come oltrepassabile; e infiniti sono i mondi possibili. La visione cosmologica di Democrito verrà sopraffatta dall’immagine sferica (e perciò finita) del cosmo elaborata da Aristotele ( unità 4) e fissata dall’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo (II secolo d.C.). Per tornare a una concezione positiva dell’infinito bisognerà attendere il III secolo d.C., quando Plotino parlerà dell’«illimitata potenza» dell’Uno-Dio ( vol. 1B, unità 5, cap. 5), e poi il XVI secolo, quando Giordano Bruno descriverà l’universo come interminatum, cioè privo di confini e di un centro, pagando la sua visione “eretica” con la vita ( vol. 2A, unità 1, cap. 5).
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Il materialismo In virtù di questo insieme di teorie, l’atomismo rappresenta nell’antichità la prima radicale
QUESTIONE Esiste Dio? (Anassagora, Democrito, Protagora) p. 188
forma di materialismo , termine che indica la concezione secondo cui la materia (insieme con il vuoto, nel caso degli atomisti antichi) costituisce l’unica sostanza e l’unica causa delle cose. glossario p. 96 Connessa al materialismo atomistico è una particolare forma di ateismo . Infatti, pur ammettendo in qualche modo l’esistenza degli dèi, Democrito riteneva però che alla base del mondo non vi fosse alcuna intelligenza: per questo sembra che egli “prendesse in giro” Anassagora per la sua teoria di un noús ordinatore. glossario p. 95
Il meccanicismo Parte integrante del materialismo democriteo è il meccanicismo. In generale, si dice “fina-
listica”, o “teleologica”, una spiegazione della realtà che ricorra alle nozioni di “fine” o “scopo” (in greco télos), “progetto divino” ecc. Si dice invece “meccanicistica” una spiegazione delle cose che richiami le “cause” che le producono, indipendentemente dallo scopo. Pertanto, se nella prospettiva del finalismo “comprendere un oggetto” significa chiedersi per quale fine o progetto esso esista o funzioni in quel determinato modo, nella prospettiva del meccanicismo “spiegare un oggetto” significa chiedersi in virtù di quale causa o legge di natura esso esista o funzioni in quel determinato modo. Ritenendo che le uniche realtà del mondo fossero la materia (gli atomi), il movimento e le loro leggi, gli atomisti furono i primi a voler interpretare la natura “con la sola natura”, contrapponendo il concetto filosofico di “necessità meccanica” all’idea popolare della “volontà degli dèi” o alle nozioni di “amore e odio” e di “noús” (rispettivamente di Empedocle e Anassagora), giudicate per certi versi mitologiche. glossario p. 96
Il determinismo Da quanto abbiamo detto emerge che il meccanicismo atomistico è anche un esempio
di causalismo o, come si dice più comunemente, determinismo , ovvero di una prospettiva secondo cui tutto ciò che avviene nell’universo presuppone un sistema ben preciso di cause che lo ha prodotto. Un noto frammento di Leucippo suona infatti: «Nulla si produce senza ragione, ma tutto avviene per un motivo e in forza della necessità» (frammento 2). glossario p. 96 La mentalità deterministica (o causalistica) degli atomisti ha rappresentato uno degli ingredienti fondamentali della scienza, che è nata e si è sviluppata proprio in virtù del desiderio di trovare le “cause” delle cose e le “leggi” che le determinano.
La “necessità” Poiché alla base del mondo non ammette alcuna forza intelligente e alcun progetto, l’unidel mondo verso degli atomisti può dare l’impressione, soprattutto a chi sia abituato a pensare finali-
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del mondo? p. 322
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sticamente, di essere “appeso” al caso. Tant’è vero che Dante, acuto portavoce di questa mentalità, in un celebre verso della Divina commedia parlerà di Democrito come di colui che «il mondo a caso pone» (Inferno, IV, 136). Sono tuttavia necessarie alcune precisazioni: se per “caso” intendiamo l’assenza di causalità, allora il verso dantesco esprime una profonda incomprensione del pensiero atomistico, il quale rappresenta piuttosto, come si è visto, la prima decisa forma di causalismo (o determinismo) della storia; se con il termine “caso” intendiamo invece l’assenza di un disegno consapevole di origine divina, allora il giudizio dantesco evidenzia una caratteristica oggettiva della filosofia atomistica. Democrito stesso, infatti, afferma (in modo suggestivo) che tutto ciò che esiste è il frutto del caso e della necessità, intendendo probabilmente dire che il cosmo, pur essendo il risultato di cause naturali ben precise, opera al di fuori di qualsiasi programmazione o predeterminazione.
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
CONCETTI A CONFRONTO
GLI ELEMENTI ORIGINARI in EMPEDOCLE sono le quattro radici cioè
in ANASSAGORA sono i semi (o le omeomerie) cioè
in DEMOCRITO sono gli atomi cioè
• fuoco • acqua • terra • aria
particelle piccolissime di materia, infinitamente divisibili, qualitativamente differenti, presenti in tutti i corpi in quantità diverse
particelle semplici di materia, indivisibili, qualitativamente identiche, quantitativamente differenti (per forma e grandezza)
uniti e/o separati dalle forze cosmiche dell’amore e dell’odio
divisi e organizzati da un’intelligenza ordinatrice: il nóus
uniti e/o separati da un sistema di cause meccaniche
filosofia e scienza
L’importanza di Democrito per la storia della scienza Il sistema atomistico elaborato da Democrito e dai suoi seguaci presenta schemi di pensiero e dottrine che nei secoli successivi si riveleranno di notevole rilevanza scientifica. Innanzitutto, per quanto riguarda il metodo di indagine, abbiamo visto che in Democri- Il metodo to si instaura una collaborazione piuttosto stretta fra i sensi e la ragione. Secondo quanto testimoniato anche da Sesto Empirico (filosofo scettico attivo tra il II e il III secolo d.C. vol. 1B, unità 5, cap. 4), gli atomisti partono dai dati «visibili» della percezione, per aprire uno spiraglio su quelli «invisibili» dell’intelletto (cioè sugli atomi). Diversamente dagli eleati (i quali nel loro razionalismo estremo erano convinti che la ragione potesse arrivare a conoscere la verità senza tenere conto dei dati forniti dai sensi, anzi programmaticamente ignorandoli), essi ritengono che il compito dell’intelletto consista nel «dar ragione» di ciò che i sensi si limitano ad attestare: in questo modo essi anticipano l’impostazione della ricerca scientifica che verrà messa a punto in epoca moderna. In secondo luogo, Democrito intuisce l’idea della struttura atomica della materia, che si La prospettiva terrà viva attraverso i secoli per essere ripresa, questa volta su base sperimentale, dalla atomistica scienza moderna e contemporanea. A Democrito si deve inoltre la convinzione secondo cui, per studiare adeguatamente la La mentalità natura, non ci si deve interrogare sullo “scopo” dei fenomeni, bensì sulla loro “causa”, se- causalistica condo quella modalità causalistica di pensare che si identifica ancor oggi con il metodo della scienza. A questo proposito, il filosofo e matematico Bertrand Russell (1872-1970) ha osservato: «Quando chiediamo “perché” riguardo ad un fatto, possiamo intendere […]: “a quale scopo sarà accaduto tale evento?” oppure: “quali precedenti circostanze lo hanno causato?”. La risposta alla prima domanda è una spiegazione teleologica, ossia una spiegazione per mezzo delle cause finali; la risposta alla seconda domanda è una spie-
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gazione meccanicistica. […] Gli atomisti posero la domanda meccanicistica e dettero una risposta meccanicistica. I loro successori, fino al Rinascimento, si interessarono di più alla domanda teleologica, e così [per diversi secoli] spinsero la scienza in un vicolo cieco» (Storia della filosofia occidentale, trad. it. di L. Pavolini, Longanesi, Milano 1966-1967, p. 106). La prospettiva Inoltre, per Democrito il filosofo non deve prendere in considerazione la “qualità” delle cooggettiva se, bensì la loro struttura quantitativa e, quindi, le loro proprietà oggettive. Con questa
idea gli atomisti anticipano quello che sarà il tipico modo di procedere della fisica moderna. Riducendo la natura a oggettività meccanica, Democrito esclude qualsiasi elemento mitico e antropomorfico di spiegazione della realtà.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega qual è secondo Democrito la struttura della realtà. 2. In riferimento alle dottrine democritee, spiega i concetti di materialismo, meccanicismo e determinismo. SNODI PLURIDISCIPLINARI scienze naturali
L’ipotesi atomistica di Democrito è stata ripresa dalla scienza moderna, che per suffragarla ha potuto avvalersi di strumenti tecnologici e di capacità di calcolo più avanzati rispetto a quelli di cui disponevano i Greci. Oggi sappiamo che la materia presenta una struttura gerarchica: semplificando, possiamo dire che i corpi sono composti da molecole, le quali a loro volta sono composte da atomi di elementi chimici; questi sono composti da elettroni che orbitano attorno a un nucleo, e il nucleo è composto da protoni e neutroni, che a loro volta sono composti dai cosiddetti “quark”. Elettroni e quark risultano (finora) privi di una struttura interna: essi (come altre particelle sub-atomiche) possono dunque essere ritenuti “elementari”. Le cosiddette “particelle elementari” possono essere considerate il corrispondente odierno degli “atomi” democritei? Perché?
La teoria dell’anima e della conoscenza La corporeità Democrito applica il modello materialistico e atomistico anche alla sua concezione dell’uodell’anima mo, affermando che l’anima è anch’essa corporea. Gli atomi «psichici», ovvero gli atomi
che costituiscono l’anima (in greco psyché), sono di natura ignea, mobile e sottile. Essi sono diffusi in tutto il corpo e perciò le differenti operazioni dell’anima hanno sede in parti diverse del corpo: il pensiero, ad esempio, per Democrito risiede nel cervello ed è quindi soggetto anche alle variazioni delle condizioni fisiche dell’organismo.
La sensazione La sensazione è prodotta da effluvi di atomi che provengono dagli oggetti e che penetra-
no nel corpo umano, dove incontrano gli atomi ignei dell’anima. Pertanto la sensazione non deriva da un contatto diretto dell’anima con le cose, ma da un contatto dell’anima con le emanazioni generate dalle cose: perciò essa non può procedere al di là delle apparenze sensibili, e soltanto l’intelletto può cogliere gli atomi e il loro movimento, che costituiscono la vera realtà delle cose. Da ciò segue la distinzione tra conoscenza “oscura” e conoscenza “genuina” di cui abbiamo già parlato ( p. 86).
Le proprietà Corrispondentemente alla distinzione tra ragione e sensibilità, e quindi tra conoscenza oggettive e genuina e oscura, Democrito sostiene che non tutte le proprietà che noi attribuiamo alle soggettive dei corpi cose esistono veramente in esse. In particolare, occorre distinguere tra:
proprietà che esprimono aspetti quantitativi e spaziali (come la figura, il numero o il movimento), le quali caratterizzano gli oggetti in quanto tali, indipendentemente da noi; altre proprietà, che esprimono perlopiù caratteristiche qualitative (ad esempio i sapori e gli odori), le quali esistono soltanto in relazione ai nostri organi percettivi.
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Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
Sebbene vengano sollecitate da particolari figure o combinazioni di atomi, le proprietà di questo secondo tipo non esistono come tali in natura, ma si costituiscono soltanto in rapporto ai nostri sensi: ad esempio, in natura non esiste “il dolce”, ma soltanto certe sostanze che, avendo determinate configurazioni atomiche (o “chimiche”, come diremmo oggi), quando vengono in contatto con il nostro palato generano la sensazione del dolce. Nella storia della filosofia le proprietà esistenti di per sé sono state dette oggettive , mentre quelle esistenti soltanto in rapporto al soggetto conoscente sono state definite soggettive . Questa distinzione sarà ripresa dall’astronomo italiano Galileo Galilei (1564-1642) all’inizio dell’età moderna, e poi dal filosofo inglese John Locke (1632-1704), il quale chiamerà i due gruppi di proprietà, rispettivamente, «qualità primarie» e «qualità secondarie», usando un’espressione che entrerà poi nel linguaggio filosofico abituale. L’importanza di questa teoria è grandissima, poiché in virtù di essa lo studio della natura (cioè la fisica, dal greco phýsis, “natura”) è stato indirizzato esclusivamente alla ricerca delle determinazioni quantitative dei fenomeni, ovvero alla ricerca di quei caratteri che possono essere misurati e definiti in termini matematici. glossario p. 96 ( T6 p. 104)
ESERCIZI
La dottrina etica e politica L’etica di Democrito ha un tono elevato e si esprime in sentenze che rivelano una profon- La ragione da sensibilità. Fin dall’antichità ciò ha stupito parecchi studiosi, i quali, fermi al pregiu- come guida dell’esistenza dizio secondo cui a una concezione materialistica debba corrispondere una morale di tipo edonistico (cioè che identifica l’ideale da perseguire nella vita con il “piacere”, in greco edoné), hanno considerato la dottrina etica di Democrito alla stregua di un parto estraneo al suo sistema. In realtà, essa si lega strettamente alla mentalità razionalistica che pervade l’atomismo; si tratta, infatti, di una forma di razionalismo morale, che elegge la ragione a giudice e guida dell’esistenza e che fa dell’equilibrio e della misura il supremo ideale di condotta. Per Democrito il bene più alto è costituito dalla felicità; però questa non risiede nelle vanità mondane, bensì nell’interiorità dell’anima. Non sono la gloria e gli averi a rendere felici, ma la giustizia e la ragione. È lo stesso Democrito ad affermare che «fama e ricchezze senza mente non sono beni utili» (frammento 77), poiché, dove la ragione difetta, non si sa godere in modo autentico della vita e si è preda di turbamenti irrazionali, desideri impossibili, continue insoddisfazioni, invidie e paure. La gioia che può rendere felici gli esseri umani è piuttosto di tipo spirituale e nasce dalla capacità di non cadere nell’eccesso, ma di ricercare sempre la misura e la proporzione: «se si passa la misura, anche la cosa più gradevole ti diventa sommamente sgradevole» (frammento 233).
La natura interiore della felicità
FILOSOFIA E ARTE Il pianto e il riso di Eraclito e Democrito p. 106
Questa prospettiva di tipo spirituale e intimistico mette capo a un’etica del dovere fondata Il dovere del sul rispetto verso sé stessi, che va perseguito indipendentemente dal vantaggio o dallo rispetto di sé svantaggio materiali che possono derivare dalle proprie azioni:
‘ ‘‘
Non devi aver rispetto per gli altri uomini più che per te stesso, né agir male quando nessuno lo sappia più che quando lo sappiano; ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare. (frammento 264) Il bene non sta nel non compiere ingiustizie, ma nel non volerle.
(frammento 62)
Colui che fa ingiustizia è più infelice di chi la soffre.
(frammento 45)
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Le tendenze Un altro importante aspetto dell’etica di Democrito è il cosmopolitismo , ossia la convincosmopolitiche zione che gli uomini possano e debbano superare i conflitti che li dividono in virtù del loe democratiche
ro essere “cittadini del mondo”, cioè abitanti di una medesima patria, la Terra. Afferma il filosofo di Abdera: «Per l’uomo saggio tutta la Terra è praticabile, perché la patria dell’anima eccellente è tutto il mondo» (frammento 247). glossario p. 96 Questo non significa che Democrito non riconosca il valore e l’importanza dello Stato: egli è convinto che nulla sia preferibile a un buon governo, poiché il governo abbraccia tutto e, se si mantiene, tutto si mantiene, mentre se cade, tutto perisce (frammento 252). Egli dichiara inoltre di preferire vivere povero e libero in una democrazia, piuttosto che ricco e servo in un’oligarchia (frammento 251).
L’enciclopedismo democriteo Nei suoi studi, Democrito si occupò di moltissime e varie questioni. Ingegno acuto e multiforme, fu una delle menti più universali della filosofia antica, il cui sistema costituì, di fatto, un’autentica enciclopedia del sapere, che spaziava dalla matematica alla musica, dalla biologia alla pittura, dalla medicina all’astronomia. In tutti questi campi Democrito lasciò la sua impronta, anche se i testi relativi non ci sono pervenuti. una La ricchezza del sistema di pensiero di Democrito spiega anche perché la sua filosofia posrielaborazione sa essere considerata, sotto certi punti di vista, una rielaborazione originale di tutto il sadel pensiero presocratico pere presocratico, con aperture alle problematiche di tipo sofistico-socratico. Nell’atomi-
smo, infatti, confluiscono la dottrina ionica ed eraclitea della mutevolezza del mondo, la concezione quantitativa e matematizzante della realtà propria dei pitagorici, la teoria parmenidea dell’eternità e dell’indistruttibilità dell’essere “vero”, le argomentazioni zenoniane sulla divisibilità all’infinito e il pluralismo di Empedocle e di Anassagora; ma anche il relativismo dei sofisti e le loro tesi sulla civiltà e il linguaggio, nonché l’interesse socratico per la morale (argomenti che vedremo nella prossima unità). Per questa vastità di orizzonti, l’atomismo di Democrito può essere posto accanto alle grandi sintesi filosofiche di Platone e di Aristotele ( unità 3 e 4), nei cui confronti rappresenta una radicale “alternativa” di mentalità, di metodi e di visione complessiva delle cose.
)
Per l’esposizione orale
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1. Illustra la concezione democritea della conoscenza usando i seguenti termini: sensazione, intelletto, proprietà quantitative, proprietà qualitative. 2. In che cosa consiste la condotta morale o virtuosa per Democrito? 3. RIFLESSIONE CRITICA Pensi anche tu che la felicità sia raggiungibile soltanto evitando gli eccessi? Argomenta la tua risposta.
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 4 I MOLTEPLICI PRINCÌPI DELLA REALTÀ
I fisici pluralisti L’indagine naturalistica dei filosofi ionici viene ripresa dai cosiddetti “fisici pluralisti”, espressione che deriva da
• pluralismo
dottrina filosofica che, diversamente dal monismo e dal dualismo, spiega la realtà ricorrendo a una “pluralità” di princìpi originari, nessuno dei quali risulta ontologicamente privilegiato rispetto agli altri.
I fisici pluralisti tentano di realizzare una sintesi tra il pensiero di Eraclito (che aveva sottolineato il divenire incessante della realtà) e quello degli eleati (che avevano affermano l’immutabilità dell’essere vero). A questo fine, essi elaborano una geniale distinzione tra
• elementi
e composti rispettivamente, i molteplici princìpi immutabili della realtà, e gli aggregati mutevoli a cui gli elementi danno luogo combinandosi variamente tra loro.
In realtà, a usare per la prima volta il termine “elemento” (in greco stoichéion, “principio”, “inizio”) sarà Platone ( unità 3), ma i fisici pluralisti sono i primi a concepire la realtà come il risultato di un multiforme aggregarsi di elementi.
Empedocle Quali princìpi costituitivi della realtà Empedocle individua quattro
• radici
(in greco rizómata) i quattro elementi fondamentali (fuoco, aria, acqua e terra) che, combinandosi e dividendosi variamente tra loro, compongono tutte le cose.
Sulle quattro radici agiscono due forze cosmiche opposte: l’amore (o amicizia), che tende a unirle, e l’odio (o contesa), che tende a separarle. L’azione di queste due
forze determina l’eterna ripetizione di un ciclo cosmico di cui il regno dell’amore, lo «sfero», costituisce la fase culminante, in cui tutti gli elementi sono legati in una perfetta armonia. Quando predomina l’odio si ha invece il regno del caos, nel quale gli elementi sono tutti separati. La vita si ha soltanto nelle fasi intermedie, in cui gli elementi non sono né completamente uniti, né completamente separati. Le quattro radici e le due forze che le muovono spiegano anche come avviene la conoscenza, che è resa possibile dall’incontro tra un elemento che si trova nell’uomo e lo stesso elemento che si trova al di fuori di lui, in base al principio secondo cui il simile conosce il simile.
Anassagora I costituenti ultimi della realtà, per Anassagora, sono i
• semi
(in greco spérmata) particelle piccolissime (invisibili) di materia che compongono tutte le cose. Sono infinitamente divisibili, qualitativamente diverse tra loro e presenti in tutti i corpi, sebbene in quantità differenti. Aristotele le chiamerà «omeomerie» (in greco omoioméreiai), letteralmente “parti simili” (da ómoios, “simile”, e méros, “parte”).
I semi anassagorei sono sottoposti all’azione del
• noús
letteralmente “intelletto”, “mente”; per Anassagora è l’intelligenza divina che genera e ordina l’universo, ossia la forza che separa e organizza i semi (originariamente confusi nel caos primordiale) dando forma al nostro mondo.
Per quanto riguarda la conoscenza, Anassagora sostiene (a differenza di Empedocle) che il simile conosce il dissimile, ovvero che le nostre sensazioni sono prodotte da qualità che sono presenti nelle cose ma non in noi.
Democrito La concezione della realtà Originario di Abdera e allievo di Leucippo, Democrito ritiene che la realtà sia formata esclusivamente da materia e da vuoto (lo spazio in cui la materia si muove). La materia, a sua volta, si compone di
• atomi
letteralmente, “non divisibili” (dal greco átomos, formato dal prefisso privativo a- e dalla radice del verbo témno, “divido”); per Democrito sono i costituenti ultimi della realtà, particelle di materia invisibili agli occhi e
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non ulteriormente divisibili, tra loro qualitativamente identiche ma differenti per aspetti quantitativi come la forma, le dimensioni e la posizione.
Poiché per Democrito tutto ciò che esiste è materia, il suo atomismo è una forma di
• materialismo
dottrina che fa della materia (comunque intesa) il principio di spiegazione della realtà. Il materialismo di Democrito, in particolare, è di tipo metafisico o cosmologico, perché individua nella materia sia la sostanza sia la causa ultima di tutte le cose.
In altre parole, la materia ha per Democrito un carattere originario o inderivabile; essa, inoltre, è dotata di una forza intrinseca che la fa muovere, secondo l’equazione “materia = movimento”. Gli atomi democritei sono pieni, immutabili, ingenerati, eterni e infiniti di numero, e volteggiano in modo caotico nel vuoto, aggregandosi e disgregandosi ripetutamente, e generando in tal modo infiniti mondi. Dal momento che la formazione dell’universo viene così ricondotta a cause puramente “meccaniche”, il sistema democriteo si configura come un esempio di
• meccanicismo
teoria che spiega la realtà esclusivamente sulla base del movimento di corpi nello spazio, concependo l’universo come una sorta di grande “macchina” (in greco mechané).
In senso stretto, il “meccanicismo” è l’opposto del
• finalismo
teoria secondo cui l’universo è ordinato in base a un insieme di fini o scopi (comunque concepiti), tanto che ogni fenomeno può essere spiegato sulla base delle sue cause “finali”, ovvero della rappresentazione del fine o dello scopo a cui è rivolto. Le spiegazioni finalistiche sono dette anche “teleologiche” (dal greco télos, “fine”).
In quanto spiegazione meccanicistica, l’atomismo democriteo esclude dunque l’esistenza di un qualsivoglia “fine” o “progetto” del mondo, così come nega l’intervento di una “mente ordinatrice”, o comunque di un principio divino che impronti di sé, o governi, la materia; si parla perciò di
• ateismo
dottrina che nega l’esistenza degli dèi (dal prefisso privativo a- e da theós, “dio”).
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In realtà Democrito ammette che esistano delle divinità (del resto per tutto il pensiero antico il divino è una sorta di “evidenza” difficilmente messa in discussione), ma non attribuisce loro alcun ruolo fondamentale nella genesi e nel governo del mondo. Questo non significa che l’universo democriteo sia una costruzione casuale; nel meccanicismo atomistico, infatti, si concretizza una visione detta
• causalismo o determinismo
l’idea che in natura nulla avvenga a caso, ma tutto accada secondo ragione e necessità, determinato da una o più cause (dove per “causa” si intende ciò da cui deriva un effetto).
La concezione dell’uomo e della conoscenza La dottrina materialistica, meccanicistica e deterministica della realtà influenza anche la concezione democritea dell’uomo (secondo la quale anche l’anima è corporea) e la teoria della conoscenza (per cui la sensazione nasce dal contatto tra effluvi di atomi che provengono dagli oggetti esterni e gli atomi dell’anima diffusi nelle varie parti del corpo). Democrito elabora anche una distinzione destinata ad acquisire grande importanza nella storia della filosofia, cioè quella tra
• oggettivo e soggettivo
rispettivamente (e in generale), ciò che esiste indipendentemente dal soggetto ed è valido per tutti, e ciò che esiste in relazione al soggetto ed è valido soltanto in rapporto a quest’ultimo. Per Democrito sono oggettive le proprietà quantitative dei corpi (derivanti da figura, grandezza, posizione e movimento degli atomi che li costituiscono), mentre sono soggettive le proprietà di tipo qualitativo (come i sapori e gli odori), che dipendono dagli organi percettivi umani.
L’etica e la politica Quanto all’etica, Democrito e gli atomisti identificano il bene con la felicità, ma ritengono che questa coincida con un benessere spirituale derivante da una vita vissuta secondo misura. Dal punto di vista politico, infine, è importante ricordare il
• cosmopolitismo
(dal greco kósmos, “cosmo”, “mondo”, e polítes, “cittadino”) l’atteggiamento di chi si riconosce “cittadino del mondo” e, dunque, concittadino di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla città o dal Paese in cui si nasce o si vive.
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
MAPPE
CAPITOLO 4 I MOLTEPLICI PRINCÌPI DELLA REALTÀ EMPEDOCLE identifica
gli elementi della realtà
la conoscenza
con
con
le quattro radici (fuoco, aria, acqua, terra)
l’incontro fra elementi simili interni ed esterni all’uomo
su cui agiscono
l’amore e l’odio (forze cosmiche che le uniscono e le dividono, dando vita a un ciclo)
ANASSAGORA identifica
gli elementi della realtà
la conoscenza
con
con
i semi (particelle di materia qualitativamente diverse e infinitamente divisibili)
l’incontro fra elementi dissimili interni ed esterni all’uomo
su cui agisce
il noús (intelligenza divina che li divide e organizza)
DEMOCRITO identifica
distingue tra
gli elementi della realtà
conoscenza sensibile (oscura)
conoscenza razionale (genuina)
con
che
che
gli atomi (particelle di materia indivisibili, qualitativamente identiche e quantitativamente diverse)
si ferma alle proprietà soggettive delle cose
coglie le proprietà oggettive delle cose
che
e deriva
si muovono nel vuoto
aggregandosi e dividendosi formano infiniti mondi
dall’incontro tra gli effluvi di atomi emanati dalle cose e gli atomi ignei dell’anima
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CAPITOLO 4 I MOLTEPLICI PRINCÌPI DELLA REALTÀ Empedocle
Filosofo dal pensiero apparentemente meno ricco e nuovo rispetto a quello degli altri fisici pluralisti, e meno stimato nell’antichità, Empedocle è stato oggetto negli ultimi decenni di una rivalutazione dovuta al riconoscimento dell’influenza assai vasta da lui esercitata sul mondo romano, in ambito non tanto filosofico in senso stretto, quanto culturale, religioso e letterario. TESTO
1
I quattro elementi originari (testimonianza da Aristotele, Metafisica) In questa testimonianza il filosofo agrigentino è presentato come il pensatore che alla base dell’intera realtà pone non uno, ma quattro elementi.
acqua, aria, Empedocle pone quattro elementi, aggiungendo la terra come quarto, oltre i tre già detti fuoco, terra [cioè acqua, aria, fuoco]. 2 I processi di Dice infatti che essi permangono sempre identici e non divengono, fuorché per quantità e aggregazione piccolezza, in unità aggregandosi e da un’unità separandosi. 4 e separazione (DK 31 A 28, trad. it. di G. Giannantoni, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1969)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Acqua, aria, fuoco, terra (rr. 1-2) È arduo stabilire le motivazioni per cui gli elementi originari individuati da Empedocle siano proprio questi quattro. Singolarmente presi, essi erano già presenti in altri pensatori: l’acqua in Talete, l’aria in Anassimene, il fuoco nei pitagorici e in Eraclito, la terra nell’elemento freddo (“notturno”) della cosmologia parmenidea; ma certo non possiamo ritenere che Empedocle li abbia semplicemente raccolti, dal momento che il suo metodo e i suoi presupposti teorici erano troppo diversi rispetto a quelli dei filosofi precedenti. È invece sicuro e ampiamente documentato che egli fu il primo a parlare di questa serie di quattro come di un tutto unitario, inau-
98
gurando così la prospettiva di quel gruppo di fisiologi che chiamiamo “pluralisti” (così come definiamo “monisti” quanti ritenevano che il principio fosse uno solo). I processi di aggregazione e separazione (rr. 3-4) Gli elementi originari rimangono immutati, e questo è l’aspetto eleatico di Empedocle: anch’egli, infatti, non ammette la contaminazione dell’essere con il nulla e sceglie dunque di spiegare altrimenti il divenire. Quest’ultimo finisce così per essere ridotto ad aggregazione e a separazione di elementi originari in sé sempre identici, e dei quali varia soltanto lo stato in relazione agli altri, mentre non esistono il nascere e il morire in senso assoluto.
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO La spiegazione dei fenomeni fornita dalla scienza è indubbiamente diversa da quella abbozzata da Empedocle. A tuo avviso, di quali aspetti della realtà, per come la conosciamo oggi, non possono dare conto le radici individuate da Empedocle, vale a dire acqua, aria, fuoco e terra? Che cosa apprezzi della teoria del filosofo, seppure rudimentale dal punto di vista scientifico? Argomenta le tue risposte in un testo scritto (max 30 righe).
TESTO
2
Il ciclo cosmico
(Empedocle, Sulla natura)
Nel frammento che segue, Empedocle espone la propria teoria del divenire come andamento ciclico, determinato dall’azione dell’amore (o Amicizia) e dell’odio (o Contesa). La genesi Duplice cosa dirò: talvolta l’uno si accrebbe ad un unico essere e la morte da molte cose, talvolta poi di nuovo ritornarono molte da un unico essere. delle cose
Duplice è la genesi dei mortali, duplice è la morte: l’una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose, l’altra, prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse si separano.
L’azione delle E queste cose continuamente mutando non cessano mai, due forze una volta ricongiungendosi tutte nell’uno per l’Amicizia, cosmiche
altre volte portate in direzioni opposte dall’inimicizia della Contesa.
L’immobilità [Così come l’uno ha appreso a sorgere da più cose,] dell’essere così di nuovo dissolvendosi l’uno ne risultano più cose,
in tal modo esse divengono e la loro vita non è salva; e come non cessano di mutare continuamente, così sempre sono immobili durante il ciclo. […] Tutte queste cose sono eguali e della stessa età, ma ciascuna ha la sua differente prerogativa e ciascuna il suo carattere, e a vicenda predominano nel volgere del tempo. E oltre ad esse nessuna cosa si aggiunge o cessa di esistere: se infatti si distruggessero, già non sarebbero più; e quale cosa potrebbe accrescere questo tutto? e donde venuta? e dove le cose si distruggerebbero, dal momento che non vi è solitudine [vuoto] di esse? ma esse son dunque queste [che sono], e passando le une attraverso le altre, divengono ora queste ora quelle cose sempre eternamente uguali.
2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La genesi e la morte delle cose (rr. 1-5) Nel ciclo cosmico periodicamente le cose si raccolgono, con moto progressivo, nell’unità di un solo corpo, lo “sfero”; quindi subiscono un processo analogo e inverso di disgregazione, raggiungendo la separazione assoluta. L’azione delle due forze cosmiche (rr. 6-8) Riconoscere che il divenire è riconducibile alle diverse
forme assunte dagli elementi materiali nel corso della loro unione e disgregazione non è sufficiente: occorre anche chiarire in che modo ciò avvenga. Responsabili di questo processo che si ripete all’infinito sono l’Amicizia e la Contesa, ovvero le due forze cosmiche dell’amore e dell’odio. L’idea non è del tutto inedita, ma Empedocle è il primo ad attribuire
TESTI EMPEDOCLE
(DK 31 B 17, vv. 1-12 e 26-34, trad. it. di G. Giannantoni, in op. cit.)
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esplicitamente all’elemento causale (le due opposte forze cosmiche) una dignità pari a quella dei princìpi materiali. L’immobilità dell’essere (rr. 9-22) Negli ultimi versi del passo qui riportato, Empedocle richiama lo sfondo parmenideo di tutta la sua teoria del divenire. Grazie al
pluralismo della sua concezione, egli può affermare che le cose nascono, muoiono («la loro vita non è salva», r. 11) e «non cessano di mutare» (r. 12), ma che nello stesso tempo esse «sono immobili» (r. 12), in quanto composti di elementi eterni che nel ciclo delle trasformazioni rimangono immobili.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Empedocle Amicizia e Contesa sono entrambe necessarie alla formazione del mondo e concorrono entrambe alla sua ciclica dissoluzione. Rifletti su questo legame originario, in virtù del quale non c’è amore senza odio, né è pensabile l’odio senza l’amore, e riporta le tue considerazioni personali in un testo scritto (max 25 righe).
anassagora
Rovesciando l’impostazione della filosofia della natura condivisa, prima di lui, da tutti i presofisti, Anassagora si pone quale portatore di importanti novità speculative. TESTO
3
Le particelle alla base di tutte le cose
(testimonianza da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele)
Quella che segue è la testimonianza aristotelica (riportata da Simplicio) sul procedimento concettuale seguito da Anassagora per giungere alla propria visione della realtà. L’infinità Dal momento che Anassagora pone come princìpi le omeomerie e Democrito gli atomi, indegli elementi finiti per numero l’uno e l’altro, indagando dapprima l’opinione di Anassagora, [Aristote- 2
le] ci indica anche il motivo per cui Anassagora è giunto a tale supposizione e dimostra che lui deve dire che non solo il miscuglio intero è infinito per grandezza, ma anche ciascuna 4 omeomeria, in quanto ha allo stesso modo del miscuglio intero tutti i componenti e non 6 solo infiniti, ma infinite volte infiniti.
Tutto viene A tale concezione Anassagora giunse perché riteneva che niente si produce dal non ente e dal tutto che ogni cosa si nutre del simile. Vedeva infatti che tutto viene dal tutto, anche se non im- 8
mediatamente ma secondo un ordine (in realtà dal fuoco l’aria, dall’aria l’acqua, dall’acqua la terra, dalla terra la pietra e dalla pietra di nuovo il fuoco; e anche dando lo stesso cibo, 10 ad esempio il pane, molte cose e dissimili si producono, la carne, le ossa, le vene, i nervi, i capelli, le unghie, le ali, e, se se ne dà il caso, anche le corna, e in effetti il simile si accresce 12 mediante il simile). Perciò suppose che [tutte queste cose] fossero nel cibo e che anche 14 nell’acqua, se di questa si nutrono gli alberi, ci fosse legno, corteccia, frutta.
La mescolanza Quindi diceva che ogni cosa è mescolata in ogni cosa e che la nascita avviene per separaoriginaria zione. […] Vedendo dunque che da ciascuna di quelle cose che adesso risultano dalla divi- 16 delle cose
sione tutte le cose si separano, ad esempio dal pane la carne, le ossa e il resto, quasi che in esso pane tutte le cose si trovino nello stesso tempo e mescolate insieme, da ciò egli sup- 18 poneva che tutte le cose fossero mescolate insieme prima della separazione. (DK 59 A 45, trad. it. di R. Laurenti, in op. cit.)
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Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’infinità degli elementi (rr. 1-6) Secondo Aristotele – riferisce Simplicio – Anassagora non si accontenta di un unico principio, come i monisti, né della quadruplice radice dell’essere individuata da Empedocle: precedendo in questo aspetto gli atomisti, egli è convinto che gli elementi originari siano infiniti per numero. Tutto viene dal tutto (rr. 7-14) La ragione di quest’idea è di natura concettuale, non empirica. Anassagora, infatti, non ritiene che i quattro elementi di Empedocle siano insufficienti a costituire l’infinita varietà delle realtà empiriche, ma avverte come contraddittoria (rispetto al principio parmenideo dell’inammissibilità del nulla) l’idea che qualcosa possa derivare da qualcos’altro a meno che non vi sia in qualche modo già contenuta. In altre parole, se un’entità, ad esempio della carne, fosse il risultato del combinarsi di altre sostanze che non sono carne, deriverebbe dal proprio non essere; pertanto ogni cosa non può che derivare dalla sua stessa natura, avendo un principio dello stesso genere come origine. Ecco perché, per Anassagora, tutto è presente non soltanto nell’unica
materia originaria (come nell’infinito di Anassimandro) ma anche in ogni singolo elemento delle diverse materie di cui facciamo esperienza. Ciascun singolo elemento, chiamato da Aristotele «omeomeria», è perciò dotato di una precisa connotazione qualitativa, che rispecchia le caratteristiche di ciò che andrà a costituire e di cui noi faremo esperienza. L’esempio che illustra il ragionamento anassagoreo è chiaro: è facilmente rilevabile che, mangiando carne, noi favoriamo anche la crescita di unghie e capelli, e dal momento che queste nature non possono derivare da quella della carne (che è “altra” rispetto ad esse), siamo costretti a pensare che nella carne siano “nascosti”, cioè contenuti in piccole quantità non percepibili, anche unghie e capelli. La mescolanza originaria delle cose (rr. 15-19) Come tutti gli altri pluralisti, anche Anassagora intende la nascita e la morte come separazione e riaggregazione di elementi eterni che, di per sé, rimangono immutabili. Le cose si formano (“nascono”) separandosi dall’originaria unità (il mígma), alla quale ritornano nel momento della “morte”.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO La dottrina di Anassagora rappresenta, per certi aspetti, un ponte tra la speculazione di stampo parmenideo, che presuppone l’omogeneità e l’unità del tutto, e il pluralismo di Empedocle. Elabora questo spunto di riflessione (max 20 righe), facendo precisi riferimenti al testo che hai letto.
I testi relativi a Democrito che qui proponiamo hanno lo scopo di richiamare l’attenzione sulla coerenza con cui il filosofo dedusse dai princìpi fondamentali della sua dottrina atomistica la propria immagine della natura, la concezione del cosmo e la teoria della conoscenza. TESTO
4
Un universo formato di atomi (testimonianza da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele)
Nel testo riportato nella pagina seguente – tratto, come il precedente, dall’opera di Simplicio – si attribuiscono agli atomisti, e in particolare a Democrito, la “fisicizzazione” del binomio eleatico tra essere e non essere, considerati rispettivamente come «pieno» (materia) e come «vuoto», e l’immagine dell’universo come formato da un numero infinito di elementi immutabili, indivisibili e privi di differenze qualitative: gli «atomi».
TESTI DEMOCRITO
democrito
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Il pieno e Analogamente, anche il suo [di Leucippo] discepolo Democrito di Abdera pose come prinil vuoto cìpi il pieno e il vuoto, chiamando essere il primo e l’altro non essere: essi, infatti, conside- 2
rando gli atomi come materia dei corpi, fanno derivare tutte le altre cose dalle differenze degli atomi stessi. Le differenze sono: misura, direzione, contatto reciproco, che è quanto 4 dire forma, posizione e ordine.
La composizione Essi ritengono infatti che per natura il simile è posto in movimento dal simile e che le cose 6 della realtà congeneri sono portate le une verso le altre e che ciascuna delle forme, andando a dispor-
si in un altro complesso, produce un altro ordinamento; di modo che essi, partendo dall’ipotesi che i princìpi sono infiniti di numero, promettevano di spiegare in modo razionale le modificazioni e le sostanze e da che cosa e come si generano i corpi; perciò essi anche dicono che soltanto per coloro che considerano infiniti gli elementi tutto si svolge in modo conforme a ragione. Ed affermano che è infinito il numero delle forme negli atomi perché nulla possiede questa forma qui a maggior ragione di quest’altra: tale è infatti la causa che essi adducono della loro infinità. (DK 68 A 38, trad. it. di V.E. Alfieri, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il pieno e il vuoto (rr. 1-5) Scrive Aristotele in un passo fondamentale (da cui deriva questo di Simplicio): «Leucippo e il suo discepolo Democrito pongono come evidenti elementi il pieno e il vuoto, chiamando l’uno essere e l’altro non essere, e precisamente chiamando essere il pieno e il solido, non essere il vuoto e il raro (onde essi affermano che l’essere non è affatto più reale del non essere, perché neanche il vuoto è [meno reale] del corpo), e pongono questi [elementi] come cause materiali degli esseri» (DK 67 A 6). Al di là della nuova concezione dei princìpi della realtà come atomi, nell’atomismo si affaccia dunque una visione ontologica inedita e di assoluto rilievo: su uno sfondo concettuale che continua ad essere quello eleatico, si ha però il superamento del divieto parmenideo del non essere, che per la prima volta si riconosce dotato di una sua esistenza. Il vuoto (il non essere) deve esistere alla luce del movimento, poiché quest’ultimo
sarebbe impossibile nel pieno, dal momento che un corpo non può accoglierne un altro. Come per Anassagora, anche per gli atomisti l’essere è composto da un’infinità di elementi: ma questi, a differenza dei semi anassagorei, sono indivisibili (se si potesse procedere senza limite alla divisione, alla fine le grandezze sarebbero nulle e si annienterebbe così l’intero campo dell’essere) e qualitativamente indeterminati, tali da differenziarsi tra loro soltanto per aspetti quantitativi. La composizione della realtà (rr. 6-15) La formazione (o la nascita) delle cose si deve al movimento degli atomi nel vuoto: incontrandosi, gli atomi simili sono portati a unirsi, dando così vita ai corpi, in una infinità di forme e sostanze determinata dalle infinite varianti possibili nell’aggregazione degli atomi. Le cose sono (potenzialmente) infinitamente diverse tra loro perché infinitamente diversi sono gli atomi che le compongono, per numero, forma e posizione reciproca.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Democrito ritiene che gli atomi, princìpi della realtà, siano l’essere infinito ed eterno, e diano però origine a corpi che sono mutevoli e in divenire. Si tratta di un punto di vista che rimanda alla concezione, tipica della chimica moderna, per cui “nulla si crea e nulla si distrugge”. Rifletti su questo possibile collegamento ed esponi per scritto la tua personale opinione al riguardo (max 25 righe).
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Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
8 10 12 14
TESTO
5
La pluralità dei mondi (testimonianza da Ippolito, Confutazione di tutte le eresie) Gli atomisti sono convinti che dal movimento caotico degli atomi scaturiscano infiniti mondi, il cui “ciclo vitale” è dettato, esattamente come nel caso del mondo in cui viviamo, dall’unione e dalla disgregazione degli elementi che li compongono.
Mondi infiniti I mondi sono infiniti e sono differenti per grandezza: in alcuni non vi sono né sole né luna, e infinitamente in altri invece sono più grandi che nel nostro mondo, in altri ancora ci sono più soli e più 2 diversi
lune.
Mondi Le distanze tra i mondi sono diseguali, sicché in una parte ci sono più mondi, in un’altra 4 che nascono meno; alcuni sono in via di accrescimento, altri al culmine del loro sviluppo, altri ancora in e muoiono
via di disfacimento, e in una parte nascono mondi, in un’altra ne scompaiono. 6 La distruzione di un mondo avviene per opera di un altro che si abbatte su di esso. Alcuni mondi sono privi di esseri viventi e di piante e di ogni umidità […]. 8 (DK 68 A 40, trad. it. di V.E. Alfieri, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Mondi infiniti e infinitamente diversi (rr. 1-3) Cadendo gli infiniti atomi nello spazio infinito a differente velocità, il moto vorticoso che li contraddistingue li conduce a incontri e scontri che originano un numero infinito di mondi, tra loro infinitamente diversi. Atomi simili avranno un comportamento simile e tenderanno ad associarsi tra loro (come abbiamo letto nel Testo 4), ma l’aleatorietà degli urti produrrà anche aggregati non perfettamente omogenei. Mondi che nascono e muoiono (rr. 4-8) Tutto il
processo cosmogonico, pur non obbedendo ad alcuna logica intelligente o teleologica come quella messa in campo da Anassagora, non per questo è casuale. Democrito ritiene che tutto abbia una causa e che perciò si produca per necessità naturale e non a caso (Aristotele gli attribuisce quest’ultima opinione, ma sbaglia). Il determinismo del meccanicismo democriteo sembra qui confermato anche dalla scelta di spiegare in che modo (“perché”, ovvero “per quale causa”) a un certo punto un determinato mondo si distrugga.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI DEMOCRITO
attività PLUS Nell’ambito della fisica moderna è stata postulata l’esistenza di universi coesistenti al di fuori del nostro spaziotempo, in una sorta di dimensione parallela: si tratta del cosiddetto “multiverso”. Dopo avere condotto una ricerca su questa teoria scientifica, illustra in un testo (max 30 righe) le sue affinità e le sue differenze con la filosofia di Democrito.
103
TESTO
6
La teoria della conoscenza (testimonianza da Galeno, Gli elementi secondo Ippocrate) La testimonianza riportata di seguito esemplifica l’applicazione, da parte degli atomisti, del modello materialistico al problema della conoscenza. In esso emerge chiaramente la distinzione tra le qualità “oggettive”, che caratterizzano le cose indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo attraverso i sensi, e le qualità “soggettive”, che dipendono invece dalle nostre modalità percettive.
Qualità «Opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto», dice soggettive Democrito, ritenendo che tutte quante le qualità sensibili, ch’egli suppone relative a noi 2 e qualità oggettive che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia aggregazione degli atomi, ma che per na-
tura non esistano affatto bianco, nero, giallo, rosso, dolce, amaro: infatti l’espressione “per convenzione” equivale, per esempio, a “secondo l’opinione comune” e a “relativamente a noi”, cioè non secondo la natura stessa delle cose, la quale egli indica con l’espressione “secondo verità” […]. E tutto il senso di questo discorso sarebbe il seguente: gli uomini credono che sia qualche cosa di reale il bianco e il nero, il dolce e l’amaro, e tutte le altre qualità del genere, mentre in verità ente e niente sono tutto ciò che esiste, perché Democrito usava anche questi altri termini, chiamando “ente” gli atomi e “niente” il vuoto. Così tutti quanti gli atomi, essendo corpi piccolissimi, non posseggono qualità sensibili, ed il vuoto è uno spazio nel quale tali corpuscoli si muovono tutti quanti in alto e in basso eternamente o intrecciandosi in vario modo tra loro o urtandosi e rimbalzando, sicché vanno disgregandosi e aggregandosi a vicenda tra loro in composti siffatti; e in tal modo producono tutte le altre maggiori aggregazioni e i nostri corpi e le loro affezioni e sensazioni.
4 6 8 10 12 14 16
L’inalterabilità [Gli atomisti] Suppongono, poi, che i corpi primi siano inalterabili (alcuni tra gli atomisti degli atomi […] perché li credono infrangibili per la loro durezza, altri […] perché indivisibili per la 18
loro piccolezza) anzi che neppure possano subire per qualche forza esterna quelle modificazioni a cui tutti gli uomini (che traggono la loro scienza dalle sensazioni) li credono 20 soggetti; cioè dicono, per esempio, che nessun atomo può riscaldarsi o raffreddarsi, e similmente disseccarsi e inumidirsi, e meno che mai diventare bianco o nero o, in breve, ri- 22 cevere alcun’altra qualità per qualsivoglia modificazione. (DK 68 A 49, trad. it. di V.E. Alfieri, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Qualità soggettive e qualità oggettive (rr. 1-16) Per Democrito alcune qualità dei corpi rispecchiano direttamente la loro conformazione atomica: sono il peso, la durezza, la densità, che pure variano perché sono percepite in maniera diversa a seconda del momento e della persona che le percepisce. Altre qualità dipendono invece esclusivamente dall’interazione tra l’oggetto percepito e il soggetto percipiente e derivano dalla
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configurazione dell’apparato sensibile di quest’ultimo. In ogni caso, per Democrito le qualità che, seguendo i nostri sensi, siamo soliti attribuire agli oggetti non risiedono affatto in essi, ma dipendono dalla nostra sensibilità. Sui colori, così come sui gusti, nulla si può affermare che valga per tutti gli esseri umani. La sola verità di cui gli uomini dispongono è il risultato di un ragionamento, di una riflessione teorica, e
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI Capitolo 4 i molteplici princìpi della realtà
consiste nell’affermare che la realtà è costituita di atomi che si muovono e che, intrecciandosi e separandosi variamente, danno origine alle cose e alle stesse sensazioni che noi abbiamo di esse. Sebbene gli atomisti non siano in grado, sulla base delle premesse teoriche del loro sistema, di spiegare con precisione il meccanismo della sensazione, è tuttavia innegabile che essi abbiano cercato, più di tutti gli altri pensatori successivi a Parmenide, di accordare al meglio esperienza e ragione. L’inalterabilità degli atomi (rr. 17-23) In virtù delle note premesse parmenidee, gli atomi (in quanto essere) devono risultare eterni, indivisibili, incorruttibili, immutabili, assolutamente semplici. Di conse-
guenza porteranno con sé soltanto quelle caratteristiche per cui un corpo è (nel senso che sussiste) e non quelle per cui è determinato in un certo modo: se un atomo fosse bianco e un altro nero, l’uno non sarebbe l’altro e verrebbe così reintrodotta nel mondo degli atomi (cioè dell’essere vero) la possibilità del non essere. Si noti, tuttavia, che l’eternità e l’incorruttibilità degli atomi non possono essere intese in modo tanto radicale da escludere la possibilità di una qualche differenza, seppur minima: se le differenze qualitative sono negate dalla teoria atomistica, non lo sono quelle quantitative, ovvero la forma, l’ordine e la disposizione degli atomi nelle aggregazioni.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI DEMOCRITO
Democrito distingue una conoscenza «secondo l’opinione», che si avvale delle percezioni sensibili e ha valore soltanto soggettivamente, e una conoscenza «secondo verità», che si basa sulla ragione. Qual è il tuo punto di vista al riguardo? Il colore, l’odore, il gusto, secondo te, sono mera apparenza oppure corrispondono a qualcosa che esiste, al di là della percezione? Rispondi a queste domande in un testo scritto argomentato (max 25 righe).
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FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
IL PIANTO E IL RISO DI ERACLITO E DEMOCRITO Due tele diverse ma complementari Intorno al 1600, il giovane pittore tedesco Pieter Paul Rubens (1577-1640) raffigura su due tele distinte – ma complementari l’una rispetto all’altra – i filosofi Eraclito e Democrito (fig. 1). Osservando i due dipinti, troviamo Eraclito a sinistra e Democrito a destra, con i corpi ripiegati in modo che i loro sguardi non si incrocino: il primo
ha le sembianze di un monaco infelice, è avvolto in un saio scuro (che contrasta con lo sfondo chiaro), ha lo sguardo pensoso e triste, e tiene i pugni serrati; il secondo indossa invece un acceso mantello rosso (messo in risalto dallo sfondo buio), sorride e ha le braccia semiaperte, ad abbracciare un globo che rappresenta il mondo, sul quale punta l’indice della mano sinistra.
L’interpretazione di Seneca La tristezza di Eraclito e la spensieratezza di Democrito costituiscono un tópos figurativo che ha radici lontane. Ne abbiamo testimonianza fin dal I secolo d.C., quando il filosofo e scrittore latino (di origini spagnole) Lucio Anneo Seneca scriveva:
‘
Dobbiamo dunque ripiegare sul non trovare odiosi, ma ridicoli i vari vizi del popolo e sull’imitare piuttosto Democrito che Eraclito: questo, ogni volta che usciva in pubblico, piangeva, quello rideva: all’uno tutte le nostre azioni parevano misere, all’altro stupidaggini. Dobbiamo, dunque, dar poco peso a tutto e sopportare tutto con indulgenza: è più da uomini ridere della vita che piangerne. In più rende un servizio migliore al genere umano l’uomo che ride che quello che piange: il primo lascia aperto uno spiraglio allo sperar bene, l’altro piange stoltamente su cose che dispera si possano rimediare. (L.A. Seneca, La tranquillità dell’animo, XV, 2-3, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000)
Seneca collega dunque il pianto di Eraclito e il riso di Democrito al loro diverso atteggiamento di fronte alle vicende umane: Eraclito condivide e “com-piange” le angosce e i fallimenti degli uomini, mentre Democrito ride del loro vano e insensato affannarsi. Il pianto sarebbe quindi segno di turbamento e di
1. Pieter Paul Rubens, senza titolo (Eraclito che piange e Democrito che ride), 1603 ca., olio su tela, Madrid, Museo del Prado.
106
inquietudine, mentre il riso sarebbe espressione di un animo stabile e sereno, incline all’ironico distacco: per questo Seneca invita a seguire l’esempio di Democrito, cioè a non prendere troppo sul serio la vita e a non rimanere prigionieri delle passioni.
L’interpretazione di Luciano A ricondurre il pianto di Eraclito e il riso di Democrito alle loro concezioni teoriche è lo scrittore greco Luciano di Samosata, vissuto nel II secolo d.C. Nel dialogo intitolato Vendita di vite all’incanto, Luciano immagina che Giove e Mercurio mettano in vendita le vite di alcuni filosofi e che uno scrupoloso acquirente interroghi uno ad uno i diversi pensatori, per poter effettuare l’acquisto migliore. Giunto di fronte a Eraclito e a Democrito, il compratore dialoga con loro con curiosità. Il primo piange, da una parte, il destino degli uomini che non possono sottrarsi al potere nullificante del divenire e, dall’altra, la stoltezza dei «dormienti» sordi alla voce del lógos. Il secondo ride invece di un riso folle e lucido, consapevole di come, in un mondo nato dalla “danza” senza senso di una materia mossa dal caso, a nulla valgano gli sforzi umani:
‘
Compratore - [...] O Zeus, quale contrasto! Uno non cessa di ridere, l’altro sembra che pianga un morto. Ehi tu! Cos’è questo? Perché ridi? Democrito - Me lo domandi? Perché mi paiono ridicole tutte le vostre cose, così come voi stessi. Compratore - Come dici? Deridi tutti noi e non tieni in nessun conto le nostre cose?
LABORATORIO
Democrito - È così: in mezzo ad esse non ce n’è una seria, ma tutto è vuoto e movimento e infinità di atomi. (Luciano di Samosata, Vendita di vite all’incanto, in Dialoghi, a cura di V. Longo, utet, Torino 1976, p. 513)
Luciano sembra dunque individuare le radici del distacco di Democrito – ovvero ciò che gli permette di ridere delle «cose» umane – non tanto (come riteneva Seneca) nella sua imperturbabilità, cioè nella capacità di non farsi travolgere dalle passioni, quanto nella tragica consapevolezza del materialista, che sa scorgere la nullità e la casualità del mondo e della vita.
Tra Medioevo ed età moderna Al di là delle differenti sfumature interpretative, sia in Seneca sia in Luciano i due antichi filosofi vengono entrambi descritti come in relazione con la realtà: Eraclito per compiangerla, Democrito per deriderla. Nella raffigurazione di Rubens, invece, emerge un elemento di novità, perché soltanto Democrito sembra aprirsi al mondo (apertura simbolicamente rappresentata dal globo tenuto fra le braccia), mentre Eraclito è chiuso in sé stesso, in malinconica meditazione. Nell’opera di un pittore vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento, l’opposizione tra il pianto di Eraclito e il riso di Democrito diventa così l’emblema dell’opposizione tra il Medioevo e la modernità: il primo contrassegnato dal disprezzo del mondo e dall’intimistico ripiegamento dell’individuo su sé stesso; la seconda curiosa, aperta alla vita e desiderosa di afferrarla e goderne.
COMPETENZE Individuare i nessi tra la filosofia e il linguaggio dell’arte |
Collaborare e partecipare | Progettare | Competenza digitale
COMPITO DI REALTÀ
Immagina di dover organizzare, insieme con i tuoi compagni di classe, una lezione sul tema “Il filosofo che piange e il filosofo che ride”, rivolta agli studenti di triennio del tuo istituto. • Svolgete una ricerca in Internet e scegliete alcuni ritratti dei due pensatori antichi: oltre alle tele di Rubens qui analizzate, potete ad esempio considerare l’affresco di Donato Bramante, il dipinto dell’olandese Cornelis Corelisz Van Haarlem, le tele di Luca Giordano e di José de Ribera (detto “lo Spagnoletto”). • Con l’aiuto dei docenti di storia dell’arte e di filosofia, dividetevi in gruppi (uno per cia-
scun dipinto individuato) e inquadrate le opere che avete scelto nel loro contesto storico-culturale (informazioni generali sul periodo di realizzazione, sullo stile dell’autore, sulle possibili interpretazioni dell’opera ecc.). • Quindi scambiatevi le informazioni tra i gruppi: confrontate le diverse raffigurazioni dei due pensatori antichi ed evidenziatene affinità e differenze, mettendo in luce gli aspetti filosofici a cui si legano. • Realizzate infine una presentazione multimediale (con immagini, testi, link ecc.) che possa servire da base per la lezione.
107
VERIFICA
UNITÀ 1 L’INDAGINE SULLA NATURA: I PENSATORI PRESOCRATICI
CAPITOLO 1 La Grecia e la nascita della filosofia 1 L’elemento caratterizzante della filosofia greca delle
e. Per i Greci la filosofia è una ricerca
sui fondamenti dell’essere, del conoscere e dell’agire
origini è: A la sua utilità pratica B la sua continuità con la tradizione C il suo radicamento nella religione D l’uso dell’argomentazione razionale
V
F
V
F
f. Le opere dei dossografi sono le uniche
fonti per ricostruire la filosofia greca antica
5 Utilizza le espressioni elencate di seguito per com-
2 Le prime scuole filosofiche sono:
pletare la mappa riportata sotto.
A istituzioni analoghe alle università attuali
ricerche scientifiche • rapporti commerciali • sapere orientale • invenzioni tecniche • dottrine filosoficoreligiose
B centri di ricerca e di vita comune C vere e proprie comunità religiose D luoghi deputati all’insegnamento regolare
3 Il periodo della filosofia greca antica dominato dal
6 Collega gli ambiti principali della ricerca filosofica (colonna di sinistra) con i diversi problemi affrontati (colonna di destra). a. la metafisica 1. i motivi e gli scopi ultimi dell’azione umana
problema dell’essere si definisce: A periodo cosmologico B periodo antropologico C periodo ontologico D periodo religioso
b. la gnoseologia
4 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.
c. l’etica
a. Prima del VI secolo a.C. e al di fuori
dell’Ellade l’essere umano non ha mai elaborato una propria “visione del mondo” dall’organizzazione democratica delle póleis
2. le cause ultime o supreme delle cose 3. l’origine e la validità ultima delle nozioni
7 Che cosa sostengono gli “occidentalisti” a proposito V
della nascita della filosofia?
F
(max 6 righe)
8 Perché nelle civiltà pre-greche lo sbocciare di una li-
b. La nascita della filosofia è favorita
bera indagine critica e razionale non è possibile? V
(max 6 righe)
F
9 Quali sono i principali ambiti a cui si estende la ricer-
c. I primi a concepire l’essere umano
come una dualità di anima e corpo sono gli orfici
ca filosofica delle origini? V
F
alcuni dei concetti impiegati dai filosofi greci per interpretare il mondo
(max 6 righe)
10 Descrivi gli elementi di novità che, rispetto al pano-
d. La poesia di Omero e di Esiodo contiene
[mappa esercizio 5]
FLASHCARD
rama culturale in cui si origina, caratterizzano il pen(max 15 righe) siero filosofico greco. V
F
PER GLI ORIENTALISTI LA FILOSOFIA GRECA si radica
nel . . . . . . . . . . . . . . . . . . dal momento che
prima o contemporaneamente alla filosofia greca, in Estremo Oriente esistevano grandi . . . . . . . . . . . . . . . . . .
108
le civiltà pre-greche avevano sviluppato importanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . e interessanti . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI VERiFiCa
tra l’Ellade e l’Oriente esistevano . . . . . . . . . . . . . . . . . . favoriti dall’attività marinara dei Greci
CAPITOLO 2 La ricerca del principio di tutte le cose 11 Per Anassimene l’arché è:
14 Collega gli elementi che caratterizzano la speculazione dei filosofi presofisti (colonna di sinistra) con le convinzioni su cui si basano (colonna di destra). a. monismo 1. la materia primordiale è fornita di una forza intrinseca
A una forza che anima il mondo B il sostrato di tutte le cose C una materia indeterminata D un’entità logica
b. ilozoismo
12 Per Eraclito il vero filosofo è colui che: A coltiva una sola disciplina e non si disperde
nella “multiscienza” B si eleva a una visione complessiva dell’essere C sa apprezzare le gioie semplici e umili della vita D fa emergere la verità nascosta nelle idee dei più
c. panteismo
native corrette. I pensatori ionici sono generalmente designati con l’appellativo di “ fisici” / “metafisici”, perché incentrano le proprie ricerche soprattutto sul problema dell’essere / della natura. Questi filosofi sono convinti che, al di là delle cose eterne / passeggere e mutevoli / immutabili, sia rintracciabile una realtà passeggera / eterna e unica / molteplice, di cui ciò che esiste è una manifestazione / rivelazione. Gli ionici denominano questa realtà phýsis / arché, ossia “principio”, e la intendono come forza / legge / materia originaria, forza / legge / materia generatrice e animatrice, forza / legge / materia che spiega la nascita e la morte di tutte le cose.
a. Talete non è soltanto un filosofo, ma V
F
V
F
V
F
b. I problemi dominanti della filosofia
presocratica sono quello cosmologico, relativo al cosmo, e quello antropologico, relativo all’uomo c. L’ápeiron di Anassimandro comprende
i vari elementi corporei ciascuno con le proprie qualità determinate d. I pitagorici riconducono ogni aspetto del
mondo a una serie di rapporti tra numeri, V ovvero a un ordine misurabile
16 Qual è, per Anassimandro, l’ingiustizia che tutti gli es17 In che cosa consiste il dualismo dei pitagorici? (max 6 righe)
V
F
V
F
f. Eraclito confida nell’esperienza
immediata e nella veridicità delle sensazioni
seri commettono e che devono espiare? (max 6 righe)
F
e. I pitagorici associano l’illimitato
a qualcosa di perfetto e il limitato a qualcosa di difettoso
3. dietro il divenire del mondo c’è un unico principio
15 Completa il testo riportato sotto scegliendo le alter-
13 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. anche uno scienziato e un politico
2. il principio eterno del mondo è la divinità
18
attività PLUS Analizza il concetto di “armonia” nella filosofia pitagorica e in quella di Eraclito, quindi met(max 15 righe) tine in luce affinità e differenze.
CAPITOLO 3 L’indagine sull’essere 19 Per Parmenide l’essere è: A infinito ed eterno B generato ma imperituro C finito ed eterno D ingenerato ma perituro
20 L’argomento “di Achille e della tartaruga” porta Zenone a concludere che: A l’unico essere logico è quello in cui viviamo B se le cose fossero molte, il loro numero sarebbe a un tempo finito e infinito
C la velocità del movimento dipende dalle
condizioni di quiete o di moto dell’osservatore D in un tempo finito non è possibile percorrere
infinite parti di spazio
21 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. Senofane afferma che c’è una sola
divinità, la quale non assomiglia agli esseri umani
V
F
V
F
b. Con l’espressione “l’essere” Parmenide
si riferisce ai singoli enti intesi nella loro totalità
109
23 Completa il testo riportato sotto scegliendo le alter-
c. L’opinione, per Parmenide, è sempre e
inevitabilmente fallace
V
F
V
F
V
F
V
F
native corrette.
d. Parmenide fa dipendere la verità del
linguaggio da quella del pensiero
Zenone mostra la contraddittorietà e l’insostenibilità delle dottrine che negano / ammettono la molteplicità e il mutamento, al fine di confutare / confermare le tesi di Parmenide. Il suo metodo consiste nell’accogliere / nel respingere l’affermazione dell’avversario, per ricavarne conseguenze paradossali / logiche, che la convalidano / confutano. In altre parole, Zenone ammette / nega che la realtà sia una e immutabile / molteplice e mutevole, per poi dimostrare logicamente l’assurdità / la validità di questa ipotesi.
e. Quelli di Zenone sono giudicati inutili
rompicapi o “pseudo-ragionamenti” dagli studiosi del XX secolo f. Melisso ammette che all’interno
dell’essere coesistano più realtà tra loro diverse
22 Completa la mappa riportata sotto scrivendo i termini mancanti.
24 Quante e quali sono le vie della conoscenza proposte da Parmenide?
PARMENIDE
(max 6 righe)
25 In che senso la filosofia di Melisso è “eterodossa” ri-
distingue tra
spetto al pensiero parmenideo?
26 l’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . .
l’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . .
che si conosce mediante
che si conosce mediante
la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
i ..................
via della . . . . . . . . . . . . . . . . . .
via dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . .
(max 6 righe)
attività PLUS Metti a confronto i temi e le caratteristiche della speculazione degli eleati con quelli degli ionici, facendo emergere affinità e differenze.
(max 15 righe)
CAPITOLO 4 I molteplici princìpi della realtà 27 Per Empedocle il mondo si produce:
29 Indica se le affermazioni seguenti, riferite all’atomi-
A nella fase in cui domina l’amore
smo di Democrito, sono vere o false.
B nella fase in cui domina l’odio
a. Soltanto grazie ai sensi è possibile
C nella fase in cui sia l’amore sia l’odio sono assenti D nella fase intermedia tra il regno dell’amore e
quello dell’odio
28 I semi, o omeomerie, di Anassagora: A hanno una natura immateriale B sono divisibili all’infinito C sono tutt’uno con il noús che li ordina D agiscono nell’orizzonte di un “disegno
intelligente”
cogliere l’essere vero del mondo, ossia gli atomi
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. L’essere si identifica con il pieno, cioè
con la materia, il non essere con il vuoto, cioè con lo spazio in cui le particelle di materia si muovono c. Gli atomi differiscono tra loro soltanto
per la forma geometrica e la grandezza d. Gli atomi sono numericamente infiniti,
mentre le loro possibilità di combinazione sono limitate e. La materia ha in sé stessa la propria
causa motrice f. Nel cosmo si registra la totale assenza
di causalità
110
Unità 1 L’IndaGInE suLLa naTura: I PEnsaTorI PrEsocraTIcI VERiFiCa
30 Collega le diverse prospettive (colonna di sinistra)
incessante delle cose, mentre di Parmenide accolgono il concetto dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . e dell’immutabilità dell’essere “vero”. Questi filosofi ritengono che le cose del mondo siano costituite di molteplici . . . . . . . . . . . . . . . . . . eterni che, mediante la loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . , provocano ciò che noi chiamiamo “nascita” e, mediante la loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . , provocano ciò che noi chiamiamo “morte”. In tale prospettiva, quindi, in natura non si dà né la . . . . . . . . . . . . . . . . . . né la . . . . . . . . . . . . . . . . . . delle cose, ma semplicemente la loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
con le affermazioni che ad esse si riferiscono (colonna di destra). a. pluralismo 1. l’universo agisce in vista di determinati fini o scopi b. atomismo
c. finalismo
d. determinismo
2. in natura nulla avviene a caso, ma tutto accade secondo ragione e necessità 3. la realtà è comprensibile a partire da una pluralità di princìpi o di elementi 4. l’universo è costituito dal
32 Quale aspetto della dottrina empedoclea della cono-
vario aggregarsi di particelle indivisibili
scenza ha trovato fortuna nella storia della filosofia?
31 Utilizza i termini elencati di seguito per completare il
(max 6 righe)
33 In che cosa consiste la rivalutazione della tecnica
testo riportato sotto. unione • trasformazione • sintesi • separazione • eternità • elementi • divenire • distruzione • creazione I cosiddetti “fisici pluralisti” compiono un primo tentativo di . . . . . . . . . . . . . . . . . . fra l’eraclitismo e l’eleatismo. Di Eraclito accettano l’idea del . . . . . . . . . . . . . . . . . .
AVANGUARDIE EDUCATIVE DIBATTITO CRITICO
operata da Anassagora?
34
(max 6 righe)
attività PLUS Analizza la spiegazione del mondo data da Democrito e fanne emergere gli elementi di originalità, mettendola a confronto con quella delineata dagli altri filosofi “fisici” che hai studiato finora.
(max 15 righe)
COMPETENZE Acquisire ed interpretare l’informazione | Individuare
collegamenti e relazioni | Collaborare e partecipare | Comunicare
Quanti princìpi per spiegare la realtà? In questa unità avete studiato diverse spiegazioni sulla natura, che fanno capo al monismo, al dualismo e al pluralismo. Ora confrontatevi su quale, tra queste posizioni, può essere ritenuta la più efficace.
tare di sovrapporvi: il gruppo A e il gruppo B possono attingere, rispettivamente, agli ionici e agli eleati; il gruppo C e il gruppo D, invece, possono attingere, rispettivamente, ai pitagorici e agli atomisti.
FASE 1 Sotto la guida dell’insegnante dividetevi in cinque gruppi. Il gruppo A e il gruppo B sosterranno la validità della spiegazione che pone un unico principio alla base di tutte le cose; il gruppo C e il gruppo D sosterranno, invece, l’efficacia della teoria che ammette una molteplicità ordinata di elementi originari; il gruppo E svolgerà il ruolo di giuria.
FASE 3 argomentare Avviate ora il dibattito. Ogni gruppo sceglie tre portavoce, uno per ogni parte in cui si articola il discorso. Inizia a parlare un membro del gruppo A, che espone la propria tesi (max 2 minuti); gli rispondono, in successione, un membro del gruppo B, uno del gruppo C e uno del gruppo D. La parola torna, quindi, al gruppo A e si procede con lo stesso ordine fino all’esaurimento di tutti gli interventi (che hanno la durata di max 5 minuti).
FASE 2 pianificare Elaborate il vostro discorso, che esporrete in forma orale e che dovrà prevedere l’enunciazione della tesi, un argomento a favore della stessa, supportato dalla citazione di uno dei filosofi che avete studiato, e un argomento contro la tesi avversaria. Confrontatevi tra voi, all’interno dello stesso schieramento, per evi-
FASE 4 valutare Il gruppo che ha assistito al dibattito senza prendervi parte dovrà giudicare chi è stato più convincente, motivando la propria decisione ai compagni.
111
L’OFFICINA DELL’ESAME VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA B
ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO 1 L’origine dell’atteggiamento filosofico Nell’opera L’uomo e il divino (1955), la filosofa spa- che; è infatti nel confronto con la tradizione religiosa gnola Maria Zambrano (1904-1991) riflette sull’ori- che è possibile ricostruire l’emergere dell’interrogaginaria esperienza del sacro tipica delle culture anti- tivo filosofico, come si legge nel passo riportato.
‘
Prima e contemporaneamente alla domanda che inaugura l’atteggiamento filosofico c’era non solo la “sapienza”, ma anche la scienza. La scienza caldea, la matematica egizia, alla quale si dice fosse iniziato Platone. Erano scienza, cioè conoscenza, benché non organizzata alla maniera occidentale. Queste matematiche celesti mescolate con l’adorazione della luce, del firmamento, degli astri, sono le scienze più antiche. Non comporta- 5 vano una volontà di staccarsi da quella adorazione che fu la loro origine; […] [erano] forme di conoscenza che non cercarono mai di staccarsi da un rito, da un’adorazione. È quello che sembra distinguere queste scienze dalla filosofia greca, nata da un moto umano volto a distaccarsi dagli dei e soprattutto dal rito, dal culto in tutte le sue forme; cioè a costituirsi a parte dal mondo del sacro. […] Poiché ovunque volgiamo lo sguardo, vedia- 10 mo l’uomo rivolto al divino: in India, Iran, Caldea ed Egitto, la vita dell’uomo sulla terra aspirava a essere copia del cielo. Le città, i templi, la stessa casa erano serbatoi celesti. […] Le piramidi d’Egitto sono specchi della luce solare, risposta della terra e non interrogazione al suo dio. Perché l’uomo di quelle culture non interrogava i cieli, rispondeva loro, e da questa disposizione iniziale a rispondere, invece di domandare, come Talete, acquisiva 15 conoscenza. […] Come poteva, da tale sentire e da tali esperienze, sorgere un sapere “filosofico” in senso stretto? […] non può nascere se si presenta prima dell’essere, se non passa attraverso il non-essere da cui nasce la domanda, attraverso la diffidenza, l’isolamento dell’animo, la disillusione o, come avverrà più tardi, attraverso il dubbio. (M. Zambrano, L’uomo e il divino, trad. it. di G. Ferraro, Edizioni Lavoro, Roma 2001, pp. 86-91)
COMPRENSIONE E ANALISI
SUGGERIMENTI OPER ATIVI
1. Che cosa intende l’autrice con «scienza», in riferimento alle culture del vicino Oriente, e perché la avvicina all’«adorazione»?
La filosofia non nasce nel “vuoto”: diverse fonti testimoniano del legame tra sapere filosofico e scienze orientali. Il termine “scienza”, tuttavia, assume qui un significato diverso da quello che ha oggi. Individua la parte del testo in cui si parla della scienza caldea e della matematica egizia e metti a fuoco il loro legame con la religione.
2. Quale rapporto intrattiene la filosofia con il culto e il rito?
Secondo la tesi degli occidentalisti, la filosofia si sviluppa in antitesi rispetto alla tradizione religiosa e si struttura come un interrogativo specificamente umano, fondato sulla capacità critica e argomentativa della ragione.
3. Che cosa intende l’autrice con «specchi della luce solare» a proposito delle piramidi?
Si tratta di una metafora. Ricorda che il culto del Sole riveste un ruolo decisivo nella cultura egizia. Considera, inoltre, il fatto che lo specchio riceve passivamente e riflette la luce che lo investe dall’alto.
4. In che cosa consiste la specificità dell’interrogativo filosofico per l’autrice?
È la tesi centrale del brano; l’autrice distingue la disposizione a rispondere, tipica della sapienza orientale, e l’interrogativo di Talete, che sorge su iniziativa dell’essere umano. Analizza in quest’ottica la menzione finale della diffidenza e del dubbio.
112
SEZIONE 1 L’ETÀ ARCAICA L’OFFICINA DELL’ESAME
PRODUZIONE
SUGGERIMENTI OPER ATIVI
Scrivi un testo argomentativo in cui esponi le tue considerazioni sulla specificità dell’interrogativo filosofico, facendo riferimento ai seguenti ambiti: - la relazione tra la filosofia e il sapere tecnico e scientifico; - l’importanza del dubbio e della critica nei confronti della propria tradizione per acquisire un sapere consapevole e maturo.
• Per organizzare la tua riflessione fai riferimento al dibattito tra orientalisti e occidentalisti, al contesto storico e al retroterra culturale della civiltà greca. Seleziona gli argomenti che hai studiato per mettere in luce la specificità dell’interrogativo filosofico. Chiediti ad esempio: in che cosa consiste la novità della filosofia? Quali cambiamenti ha comportato e quali evoluzioni ha reso possibili? • Sposta ora l’attenzione sul nostro mondo, sulla società contemporanea, e chiediti qual è l’ambito specifico di cui si occupa, al giorno d’oggi, la scienza? È in grado di rispondere agli stessi interrogativi di senso per cui è sorta la filosofia? Potremmo qualificare come “filosofi” gli attuali scienziati? C’è ancora spazio per la filosofia nel nostro mondo scientifico e tecnologico? • La filosofia ha consentito di riappropriarsi in maniera ragionata di diversi contenuti culturali e di maturare un atteggiamento disinteressato nei confronti del sapere e della ricerca. Come possiamo sviluppare una visione critica del mondo che ci circonda e acquisire un sapere consapevole e autonomo?
SNODI PLURIDISCIPLINARI
VERSO IL COLLOQUIO 2 La comprensione della natura Leggi il percorso delineato di seguito, quindi sviluppalo rispondendo in forma orale ai quesiti delle discipline che rientrano nel tuo piano di studi.
PARTIAMO DA UNA CITAZIONE
‘
Le cose di cui ci occupiamo nella scienza si mostrano in una miriade di forme, e con una moltitudine di attributi. […] La curiosità pretende che ci poniamo delle domande, che cerchiamo di mettere le cose insieme e di capire questa moltitudine di aspetti come il risultato, forse, dell’azione di un numero relativamente piccolo di cose e forze elementari che agiscono in un’infinita varietà di combinazioni. (R.P. Feynman, Sei pezzi facili, trad. it. di L. Servidei, Adelphi, Milano 2011, p. 51)
FISIC A E SCIENZE NATUR ALI Nel breve passo riportato Richard Phillips Feynman (1918-1988), premio Nobel per la fisica nel 1965, descrive la scienza come il tentativo di elaborare una comprensione del mondo unitaria e coerente. Tale comprensione è stata avanzata, ad esempio, dalla biologia, che, attraverso la genetica classica e lo studio del dna, riconduce la complessità e la varietà dei fenomeni biologici a un numero limitato di cause naturali. La fisica, a sua
volta, cerca le strutture fondamentali della natura e le leggi universali che governano tutti i fenomeni di una medesima classe. La chimica, infine, spiega la varietà attestata dall’esperienza riconducendo la materia agli elementi fondamentali sistematizzati nella tavola periodica. • Sei in grado di suffragare la tesi di Feynman attingendo al tuo bagaglio di conoscenze relative alla fisica e alle scienze naturali?
113
FILOSOFIA Una spiegazione unitaria della realtà naturale è obiettivo anche della filosofia, in particolare di quella presofistica. L’età arcaica indaga la phýsis in modo razionale, ma utilizza strumenti intellettuali differenti rispetto a quelli elaborati dalla scienza moderna. Grazie alla riflessione della ragione, la filosofia della natura è in grado di cogliere il principio fondamentale alla base di tutti i fenomeni, l’arché, che li regola in modo ordinato. Si tratta di una spiegazione olistica, non confinata nel solo orizzonte sperimentale. • Confronta la filosofia e le scienze naturali a proposito del campo di indagine, dell’oggetto di studio, del metodo impiegato e dei princìpi di spiegazione individuati. Fai quindi emergere affinità e differenze tra le due tipologie d’indagine. Puoi trovare alcuni utili suggerimenti nell’Introduzione all’età arcaica (pp. 7 e ss.) e nel cap. 1, par. 1 (pp. 13 e ss.). LE T TER ATUR A GREC A Anche la letteratura greca ha provato a spiegare la realtà naturale a partire da un ridotto numero di entità primordiali. Emblematica, a questo proposito, è la Teogonia di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.), che affronta in termini poetici la genesi del cosmo e delle stirpi divine. L’autore riferisce quello che ha appreso dalle Muse incontrate mentre pascolava le greggi presso il monte Elicona: dalle entità primordiali si sono originati altri esseri divini o cosmici e, attraverso molteplici generazioni, è venuto alla luce l’intero universo fisico, divino e umano. • Procurati il testo completo (facilmente reperibile in Internet o in biblioteca) e approfondisci l’oggetto del poema (viene indicato nei vv. 105-113 e, con una formula più icastica, nel v. 38). Nella Teogonia viene descritta la nascita di divinità ed esseri mostruosi, astri e corpi celesti, elementi geografici e aspetti decisivi dell’esperienza umana (ad esempio nei vv. 123-132, 211-225 e 333-345). Esiodo introduce una distinzione gerarchica e generazionale: ritieni che sia presente anche una distinzione qualitativa oppure no? Secondo te qual è il motivo? Confronta questa visione con quella tipica della scienza: quali differenze noti? Rifletti ora sulle teorie dei presocratici: pensi che, da questo punto di vista, siano più vicine a Esiodo o alla scienza moderna? Puoi fare riferimento, in particolare, ai pitagorici oppure agli elementi e ai princìpi individuati da Empedocle.
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SEZIONE 1 L’ETÀ ARCAICA L’OFFICINA DELL’ESAME
LE T TER ATUR A ITALIANA Una concezione religiosa e poetica del mondo naturale, aperta alla contemplazione e all’adorazione, è offerta intorno al 1224 da Francesco d’Assisi, che nel Cantico delle creature presenta la natura come una realtà provvidenziale, segno del Dio creatore unico e trascendente. Nella visione di Francesco, la natura non ha carattere divino ma è riconosciuta come creatura; allo stesso tempo, il suo valore e la sua bellezza diventano occasioni di lode (il titolo latino del componimento è Laudes creaturarum) rivolta a Dio, origine di tutta la realtà. • Confronta la prospettiva del Cantico con la Teogonia da una parte e con la filosofia presocratica dall’altra: quali analogie e quali differenze noti? Tieni presente che la filosofia presocratica offre una pluralità di visioni del mondo: limita la tua analisi a un numero ristretto di pensatori, ad esempio Talete ed Eraclito. Riletti sulla differenza tra immanenza e trascendenza: nei presocratici e in Esiodo la natura non è riconosciuta come radicalmente “altra” dal principio divino; di quale visione si fa portatore Francesco? STORIA DELL’ARTE Fra il III e il II millennio a.C. l’isola di Creta è interessata da una straordinaria fioritura economica, commerciale e culturale. I reperti archeologici e le testimonianze scritte lasciano intravedere una civiltà ricca e dinamica, probabilmente pacifica, caratterizzata da un legame vitale con il mare. Esempi di arte minoica sono gli affreschi del Palazzo di Cnosso e la cosiddetta “Brocchetta di Gurnià”. Gli elementi naturali sono raffigurati in modo realistico, le figure non sono statiche ma tentano di rappresentare la vita e il movimento. • A tuo avviso, quale atteggiamento nei confronti della natura trova espressione nell’arte minoica? Ti sembra che le pitture siano dominate da paura e timore, oppure disinteresse, o ancora stupore e gioia di vivere? Ritrovi atteggiamenti analoghi negli altri contenuti proposti? SINTESI FINALE Riprendi in modo sintetico e sistematico le osservazioni svolte fino ad ora. Prova a individuare gli elementi chiave per mettere a confronto le diverse prospettive e modalità di comprensione della natura. Suggerimenti – Torna alla citazione iniziale: come viene declinata nei diversi ambiti disciplinari? – Individua analogie e differenze, ma evita le semplificazioni eccessive. Cerca, se possibile, di cogliere le sfumature: due prospettive sulla natura non saranno mai totalmente uguali o totalmente diverse.
L’ETÀ CLASSICA La filosofia ad Atene
A
partire dal V secolo a.C. la filosofia si allontana dalle coste del mare e dallo spettacolo della natura che aveva sollecitato l’indagine fisica dei primi pensatori, e trova il suo nuovo centro in Atene, il cui splendore culturale, economico e politico attrae molti intellettuali provenienti dalle colonie del Mediterraneo. In questo periodo la città vive la cosiddetta “età di Pericle”, che costituisce il culmine dell’età classica (V-IV secolo a.C.), uno dei momenti più luminosi e fecondi dell’intera civiltà umana, in ambito artistico, letterario e filosofico. Cuore pulsante della vita ateniese è la piazza, l’agorá, che diventa anche il nuovo spazio della cultura e, in particolare, della filosofia, la quale dalla natura si volge al cittadino, ovvero all’essere umano considerato nella dimensione della sua convivenza con altri esseri umani.
L’OGGETTO il klerotérion
Klerotérion di età classica, V secolo a.C. circa.
Nel regime democratico dell’Atene del V secolo a.C., alle cariche pubbliche si poteva accedere per due vie: tramite libere elezioni e mediante sorteggio. In questo secondo caso si usava il klerotérion, un blocco di pietra con diversi fori disposti in colonne. Ogni cittadino che partecipava all’assemblea inseriva in uno dei fori il proprio pinákion, una tessera in bronzo o in legno sulla quale erano incisi il suo nome e il démos (cioè il villaggio) di provenienza. Con un ulteriore sistema di sorteggio numerico si stabilivano le tessere da estrarre (ad esempio la seconda dall’alto della terza colonna), le quali, lette all’assemblea, rivelavano l’identità dei prescelti per le varie cariche. Tutte le tessere – sia quelle estratte sia quelle non estratte – venivano poi restituite ai cittadini alla fine della riunione.
115
Atene e il governo del popolo
VIVERE NELLA PÓLIS L’ESSERE UMANO COME «ANIMALE POLITICO»
Nella tragedia di Euripide intitolata Le supplici (rappresentata per la prima volta ad Atene intorno al 421 a.C.), l’araldo di Tebe – una sorta di ambasciatore che gestiva le relazioni con i popoli stranieri – chiede al mitologico re ateniese Teseo chi comandi nella sua città. Teseo risponde:
‘
Qui non comanda un uomo solo: libera è la città: comanda il popolo, con i suoi deputati, a turno eletti anno per anno; e privilegio alcuno non hanno i ricchi: uguale diritto ha il povero. (Euripide, Le supplici, vv. 404-408)
Nel V secolo a.C., dunque, ad Atene «non comanda un uomo solo», ma «comanda il popolo»: le parole che Euripide attribuisce a Teseo sono testimonianza di quella forma avanzata di democrazia che la città raggiunge con Pericle negli anni compresi tra il 461 e il 430 a.C. Il termine “democrazia” significa letteralmente “governo del popolo” (dal greco démos, “popolo”, e krátos, “governo”) e indica una forma di partecipazione dei cittadini alla gestione del potere e alle decisioni pubbliche. Ad Atene i più importanti organi di governo L’uomo è per erano due: natura un animale l’Assemblea popolare (Ecclesía) – a cui avevano diritto di partecipare tutti i cittadini maschi maggiorenni – approvava le leggi politico. che regolavano i vari aspetti della vita della città, nominava gli (Aristotele, Politica, 1253a) arconti (cioè i diversi magistrati) e gli strateghi (i comandanti militari) ed esercitava il potere giudiziario; il Consiglio dei Cinquecento (Boulé) – composto da cinquanta rappresentanti per ognuna delle dieci tribù dell’Attica, scelti a sorte – proponeva le misure che poi erano messe al voto nell’Assemblea. Pericle (Atene, 495-129 a.C.) Alle cariche pubbliche si accedeva in Nato intorno al 495 a.C. da una nobile famiglia due modi: mediante sorteggio nel cadi Atene, Pericle intraprende la carriera so delle mansioni per le quali non era politica nel partito dei democratici, con necessario un alto livello di specializil quale nel 461 giunge alla direzione della città. Erma di Pericle, zazione, e mediante elezione per gli In quell’anno, infatti, prende il posto di Efialte alla copia romana incarichi più rilevanti. Se le elezioni guida del partito ed è eletto stratega (comandante del I-IV secolo d.C. potevano favorire i ricchi, oppure le da un originale militare), divenendo così responsabile della vita greco del 430 a.C. persone più note o maggiormente dopolitica ateniese. Convinto dell’importanza di dare circa, Roma, tate di capacità persuasiva e demagopiù potere alle classi meno abbienti, Pericle avvia Musei Vaticani, gica, il sorteggio rafforzava invece il Museo Pio una serie di importanti riforme volte a rafforzare principio della partecipazione demoClementino. la partecipazione popolare al governo cittadino. cratica alla gestione della città. Caduto in disgrazia presso gli Ateniesi per aver voluto dare inizio alla guerra del Peloponneso (431), nel 430 viene accusato di corruzione e costretto a lasciare la carica di stratega. Muore nel 429, nel corso di una terribile epidemia di peste.
116
L’ETÀ CLASSICA La fiLosofia ad atene
Il principio dell’isonomìa Secondo il sistema voluto da Pericle, tutti i cittadini ateniesi che sedevano nell’Assemblea popolare e nei tribunali ricevevano, in cambio del loro servizio alla comunità, una retribuzione. Questo permetteva a chiunque, anche ai meno abbienti, di impegnarsi nell’esperienza politica. È in questo senso che nelle Supplici Teseo sentenzia che ad Atene «privilegio alcuno non hanno i ricchi: uguale diritto ha il povero». Si tratta del principio democratico dell’isonomìa, ovvero dell’uguaglianza dei diritti, o meglio dell’uguaglianza di fronte alla legge (dal greco ísos, “uguale”, e nómos, “legge”), che secondo lo storico Erodoto (V secolo a.C.) costituisce il cuore del regime politico ateniese, il quale proprio in virtù di questo principio viene giudicato superiore ai governi monarchici:
‘
Come potrebbe essere un regime ben ordinato la monarchia, se è lecito far qualsiasi cosa senza resa dei conti? [...] Invece il regime del popolo [demokratía] ha, per prima cosa, il nome più bello di tutti, “uguaglianza dei diritti” [isonomía]; in secondo luogo non presenta alcuno dei mali della monarchia: esercita le cariche a sorte, rende conto del potere (Erodoto, Storie, III, 80) esercitato, sottopone alla comunità ogni deliberazione.
La nascita della politica A mettere a confronto la democrazia con la monarchia non è soltanto Erodoto ma, ancora una volta, anche l’Euripide delle Supplici: nel dialogo fra Teseo e l’araldo tebano, il primo difende il governo democratico ateniese, mentre il secondo sostiene le ragioni dei sistemi monarchici, ovvero del “governo di uno solo” (dal greco mónos, “solo”, “unico”, e dal verbo archéuein, “governare”, “comandare”). Proprio questo dialogo rappresenta uno dei più antichi dibattiti sull’origine e sulla natura del potere: chi deve comandare, e in nome di che cosa? A chi si deve obbedire, e perché? Il tentativo di rispondere a questi interrogativi, mettendo, per così dire, il potere sotto indagine, costituisce una delle grandi conquiste dei Greci, che per primi cercarono di dare un fondamento razionale al diritto di comandare e al dovere di obbedire, sostituendo la ragione della forza con la forza della ragione. L’età classica, e in particolare l’età di Pericle ad Atene, segna in questo senso la nascita della politica, intesa come il nuovo paradigma del mondo occidentale: alla morale eroica, fondata sulle virtù guerriere, subentra un’etica della convivenza all’interno della città; alla legge del più forte tipica dell’aristocrazia si sostituisce la ricerca di una mediazione razionale nella comunità cittadina. Ma perché questo cambiamento è avvenuto proprio nella Grecia classica? Quali sono i fattori che hanno determinato tali conquiste? Lo storico della filosofia Mario Vegetti (1937-2018) ha osservato che, rispetto alle civiltà orientali coeve, la Grecia del V secolo a.C. è caratterizzata da alcuni “vuoti” o “assenze”: innanzitutto l’assenza di una monarchia dinastica, con la conseguente impossibilità di una trasmissione certa e garantita del potere; in secondo luogo l’assenza di un’autorità religiosa: i Greci non hanno una casta sacerdotale che possa consacrare o investire dall’alto i sovrani e i governanti; infine l’assenza di un libro sacro, cioè di uno o più testi ritenuti “ispirati” dalla divinità (come la Bibbia ebraica), sui quali si possa fondare l’esercizio del potere. In questo vuoto di autorità e tradizione politica e religiosa (conseguente al crollo dei regni micenei, a partire dal IX secolo a.C.) nascono le póleis, le città-Stato, ovvero le piccole unità amministrative indipendenti in cui era organizzato il popolo greco ( p. 8). Qui il potere deve essere “giustificato” da ragioni convincenti, e non dalla forza del diritto dinastico, di una presunta fonte divina o della consuetudine.
117
Politica e lógos Per guidare la vita della pólis e per legittimare i propri governanti, il cittadino di Atene si affida all’argomentazione razionale: il potere può certamente essere conteso fra parti o gruppi sociali contrapposti, ma ciò deve accadere all’interno di uno spazio “politico”, cioè secondo regole condivise e fissate dal lógos, ovvero dal discorso e dalla ragione ( p. 8). In tal modo la domanda “chi deve comandare?” diventa filosofica: la politica, quale spazio di contesa e discussione, chiama in causa la filosofia, quale spazio di pólis Nei poemi omerici il termine pólis indicava giustificazione delle regole della convivenza e delle pratila città alta (l’acropoli) in cui, difesi dalle mura, che decisionali. si trovavano il palazzo del re e il tempio della divinità Tra la politica e il lógos filosofico esiste dunque un legame protettrice. Al di fuori e al di sotto di questo spazio inscindibile: l’arte politica consiste essenzialmente nel considerato sacro viveva il popolo. Nell’età classica «dare e ricevere ragione» (Platone, Fedone, 101d 6) e la le cinte murarie si ampliano fino a comprendere ragione greca prende coscienza di sé – delle sue regole, dei al loro interno anche la parte bassa della città. suoi limiti e della sua efficacia – grazie alla sua funzione In tal modo la vita dei cittadini non scorre più sotto politica. Non a caso, nel IV secolo a.C. uno dei maggiori il palazzo reale (secondo una gerarchia verticale), protagonisti della filosofia classica, Aristotele, darà una ma si organizza intorno allo spazio comune e duplice definizione dell’essere umano, come «animale orizzontale della piazza (l’agorá), dove si trovano razionale» e come «animale politico»: i templi e i palazzi pubblici, ora accessibili a tutti. Gli uomini prendono così coscienza della propria capacità di decidere di sé stessi senza attendere ordini “dall’alto” (dal re, dalla divinità, dal fato).
‘
L’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: […] la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo, e di conseguenza il giusto e l’ingiusto. (Aristotele, Politica, I, 2, 1253a, 10-15)
Nella città non conta più la parola sacra (l’oracolo), né quella che esprime la volontà del re. La parola che vive nella pólis è parola libera, che presuppone una comunità in cui si ragiona, si giudica e si delibera insieme.
Veduta dell’acropoli di Atene.
LUOGHI E TEMPI DELLA FILOSOFIA Roma MAGNA GRECIA
Protagora
Anfipoli
Pella GRECIA
Abdera
Potidea
Stagira ARISTOTELE
Larissa
Asso
Tebe
Ippia
Gorgia
Elide
Lentini
Euclide
Megara
Calcide Delio ATENE
Chio Samo
Sofisti SOCRATE PLATONE
Siracusa Sparta
Cos Ceo
Prodico
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ASIA MINORE
L’ETÀ CLASSICA La fiLosofia ad atene
Cnido
UNO SGUARDO ALLA SEZIONE L’ETÀ CLASSICA – LA fILoSofIA Ad ATEnE UNITÀ 2
UNITÀ 3
UNITÀ 4
Nell’Atene democratica, fondata sul confronto diretto tra i cittadini liberi, i sofisti praticano e insegnano l’arte della politica, ovvero le tecniche della parola indispensabili per convincere gli uditori e avere la meglio nelle assemblee e nei tribunali.
Pensatore politico per eccellenza è Platone, il quale, di fronte al graduale declino della democrazia ateniese, tenta di costruire una nuova filosofia al servizio della città. Scopo della sua ricerca è la delineazione dei caratteri di uno Stato giusto e la formazione di una classe di governanti competenti e affidabili, nella convinzione che soltanto la filosofia possa preparare adeguatamente a dirigere una società.
Pur assistendo alla crisi della pólis, Aristotele celebra l’essere umano come «animale politico» e cerca di dare un fondamento razionale all’arte del vivere insieme. Egli è convinto che uno Stato armonico e ben funzionante sia fondamentale anche per l’avanzamento della conoscenza, perché, facendo fronte ai bisogni concreti dell’individuo, consente ai filosofi di “liberarsi” dalle incombenze pratiche e di dedicarsi alla disinteressata ricerca del sapere.
I SOFISTI E SOCRATE
PLATONE
Filosofo della pólis, cioè del dialogo pubblico e del confronto delle idee nella piazza cittadina, è Socrate. La sua altissima lezione morale si condensa nel rispetto sacrale delle leggi e nella convinzione che, al di fuori della legalità, non ci può essere alcuna “vita buona”, poiché l’individuo umano non esiste pienamente se non come cittadino di una comunità.
ARISTOTELE
VIDEO La democrazia ateniese e la filosofia
Protagora
(490-411 ca.)
Gorgia
(485-376 ca.)
SOCRATE
(470/469-399)
Prodico di Ceo
(470/460-?) Antifonte
(attivo nella seconda metà del V secolo)
Crizia Trasimaco di Calcedonia
(460-403) (460-?)
Ippia di Elide
(443-?) (427-347)
PLATONE ARISTOTELE
500 a.C.
450
400
(384-322)
350
300
119
2 UNITÀ
L’INDAGINE SULL’ESSERE UMANO: I SOFISTI E SOCRATE
L’unità presenta la riflessione di alcuni filosofi, attivi perlopiù nell’Atene del V secolo, che, attuando un’autentica rivoluzione speculativa, non si dedicarono più (come i loro predecessori) alle questioni della natura e dell’essere, ma ai problemi dell’essere umano e del suo vivere in società.
CAPITOLO 1 I sofisti
L’Atene democratica è il retroterra storicopolitico del movimento sofistico, i cui esponenti mettono in atto un modo peculiare di fare filosofia, caratterizzato soprattutto dalla propensione a considerare l’essere umano come la misura di tutte le cose (secondo quanto afferma Protagora) e da un’inedita modalità critica di rapportarsi ai problemi della religione, delle leggi e del linguaggio. Tra le posizioni dei sofisti, particolarmente originale è lo scetticismo metafisico di Gorgia, cioè la sua sostanziale sfiducia nella capacità della ragione di conoscere ed esprimere l’essere.
CAPITOLO 2 Socrate IL RACCONTO DI UNA VITA
Uno dei maestri più noti del pensiero occidentale è Socrate, in cui si è tradizionalmente incarnata la concezione della filosofia come ricerca e dialogo. La sua riflessione si connette e insieme si contrappone a quella dei sofisti, rivelando l’autonomia e l’originalità della sua personalità filosofica. Fra i temi socratici spicca quello della virtù come scienza e come motivo di felicità: una concezione che segnerà profondamente la riflessione morale dell’Occidente.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda il video in cui lo storico della filosofia antica Gabriele Giannantoni (1932-1998), nel corso di un’intervista dell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, parla di Socrate, un filosofo che ha esercitato un’influenza molto significativa sulla cultura occidentale. Soffermati sui primi 8 minuti, prendendo appunti e registrando eventuali passaggi oscuri, che sottoporrai al confronto in classe.
LINK La figura di Socrate
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IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante suddividetevi in gruppi di 4 o 5 studenti, quindi verificate
quanto avete appreso a casa confrontandovi tra voi e facendo emergere dubbi o perplessità. Elaborate quindi insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - quale ritratto di Socrate emerge dalle parole di Erasmo da Rotterdam, con cui ha inizio il video? - in quale contesto si colloca l’opera di Socrate e come se ne distingue? - in che senso, per Gabriele Giannantoni, Socrate può essere considerato «il primo filosofo»? - quale parallelismo usa Platone nel Teeteto per illustrare l’«arte» di Socrate? perché?
CAPITOLO 1 I SOFISTI
1. La considerazione dei sofisti nella storia Nella Grecia arcaica il termine “sofista” (in greco sophistés, “sapiente”) era sinonimo di Da saggi “saggio” (in greco sophós) e alludeva a un uomo esperto, conoscitore di tecniche partico- a falsi sapienti lari e dotato di una vasta cultura generale. Con questo nome si indicavano ad esempio i sette savi ( unità 1, cap. 1), Pitagora e quanti altri si segnalassero per la loro eccellenza in una qualsiasi attività teorica o pratica. Nel V secolo a.C. cominciano invece a essere chiamati sofisti quegli intellettuali che della loro sapienza arrivano a fare una professione, insegnandola dietro compenso: alla mentalità aristocratica ciò appare “scandaloso”, tanto che lo storico Senofonte (attivo proprio tra il V e il IV sec. a.C.) bolla i sofisti come «prostituti della cultura». glossario p. 140 Ma saranno soprattutto Platone e Aristotele ( unità 3 e 4) a “demonizzare” culturalmente i sofisti, giudicandoli falsi sapienti, «negozianti di merce spirituale» interessati al successo e al denaro più che alla verità. L’enorme influenza esercitata da Platone e da Aristotele ha fatto sì che nel mondo greco, ma anche attraverso i secoli, i sofisti fossero definitivamente “marchiati” come pseudo-filosofi e che lo stesso termine “sofista” diventasse sinonimo di “cavillatore in malafede”, o di “maestro di ragionamenti capziosi”. Oggi l’aggettivo “sofistico” ha perso il significato filosofico originario e spesso, nel lin- La rivalutazione guaggio comune, equivale a “falso”, “artificioso”, “truccato” (si parla perfino di cibi “sofisticati”). Per quanto riguarda invece la storia della filosofia, gli studiosi contemporanei, pur dando per scontati alcuni degli aspetti negativi sottolineati da Platone e da Aristotele, si sono mostrati più obiettivi e favorevoli a una rivalutazione del movimento dei sofisti e della sua importanza storica e filosofica.
2. Il contesto in cui nasce la sofistica I sofisti sono gli autori di una vera e propria “rivoluzione” filosofica, poiché spostano il Dalla natura centro della speculazione dalla natura all’essere umano. Invece di ricercare il “principio” all’essere umano del cosmo, essi focalizzano la loro attenzione sulla politica, sulle leggi, sulla religione, sulla lingua, sull’educazione ecc., divenendo così filosofi dell’uomo e della città. Questo decisivo spostamento dell’asse della filosofia si spiega, in parte, con la sfiducia nella ricerca naturalistica, che all’epoca aveva ormai battuto tutte le strade allora possibili e prospettato una serie variegata di tesi talvolta opposte, senza giungere a una visione d’insieme delle cose che potesse dirsi organica e su cui il consenso fosse unanime.
121
Il mutato A determinare la nuova direzione dell’indagine filosofica, tuttavia, è anche il mutato concontesto testo storico-politico dell’Atene del V secolo a.C., appena uscita vittoriosa dalla guerra socio-politico
contro i Persiani. Dal punto di vista sociale, i cambiamenti più importanti di questo periodo sono la crisi dell’aristocrazia, l’accresciuta potenza del ceto medio cittadino, l’espandersi dei traffici e dei commerci, il raffinarsi delle tecniche e, soprattutto, l’avvento della democrazia. Tutto ciò, infatti, comporta l’affermarsi di nuovi parametri di giudizio e di una maggiore consapevolezza, da parte dell’uomo greco, delle proprie prerogative.
Democrazia, parola e insegnamento L’elogio della Della mutata atmosfera socio-politica ateniese è documento eloquente la famosa “oraziodemocrazia ne funebre” che, secondo la testimonianza dello storico ateniese Tucidide (460-395 a.C. ateniese
circa), viene pronunciata da Pericle nel 430 a.C., a un anno dall’inizio della guerra del Peloponneso, in onore dei concittadini caduti in battaglia. Il seguente breve passaggio del suo discorso può aiutare a comprendere meglio il contesto democratico in cui si muovono i sofisti:
‘
Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto una democrazia […]. Un uomo che non si interessa dello Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e, benché soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire saggiamente. (Tucidide, Guerra del Peloponneso, II, 37-41 passim)
L’importanza La democrazia rappresenta il presupposto genetico e lo spazio operativo entro cui storicadella parola mente si muove la corrente dei sofisti, i quali offrono agli ateniesi uno strumento per eser-
citare al meglio i loro diritti di cittadini: l’arte della parola. Infatti, come ha osservato il filosofo Ludovico Geymonat (1908-1991), «vivere attivamente in democrazia significa partecipare ad assemblee, prendervi la parola, far valere con efficace discorso la propria opinione frammezzo alle altre opinioni; e perciò saper pesare le varie accezioni e sfumature dei vocaboli, avere nell’orecchio le più felici espressioni dei poeti, riuscire a disporre i periodi in un ordine che incateni l’attenzione, accenda le fantasie e susciti i consensi: significa, insomma, possedere quel complesso di cognizioni grammaticali, lessicali, sintattiche, stilistiche, letterarie che costituisce l’arte dell’eloquenza» (Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970, p. 96).
La “sapienza” A queste nuove esigenze rispondono dunque i sofisti, i quali si ritenevano “sapienti” nel sofistica senso antico del termine, cioè nel senso di abili nell’attività tipicamente umana del vivere
insieme, capaci di avere la meglio nelle competizioni civili. Proprio una tale sapienza i sofisti si propongono di insegnare, dietro pagamento, al futuro ceto dirigente ateniese: le loro lezioni si concentrano dunque su discipline formali come la grammatica o la retorica – che è la loro creazione fondamentale – oppure sulle varie nozioni che potevano essere utili alla carriera di un avvocato o di un uomo politico. glossario p. 141
enciclosofia guerra del Peloponneso Il conflitto che dal 431 al 404 a.C. vide contrapporsi Atene e Sparta (e i rispettivi alleati) in lotta per l’egemonia sulla Grecia, e che si concluse con la vittoria della lega peloponnesiaca (capeggiata da Sparta) e la dissoluzione della lega delio-attica (guidata da Atene).
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
Rilievo funerario dedicato a due opliti, Sosia e Cefisodoto, morti durante la guerra del Peloponneso, 410 a.C., marmo, Berlino, Antikensammlung.
3. I caratteri della sofistica La sofistica è stata definita come una sorta di “Illuminismo greco”. L’Illuminismo è un L’uso critico grande movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, che ebbe come prin- della ragione cipio ispiratore l’uso libero e spregiudicato della ragione in ogni ambito. Lo strumento proprio dell’Illuminismo settecentesco fu infatti la critica: una critica radicale, che non si arrestava di fronte ad alcuna autorità o tradizione, e che aveva la pretesa di svincolare l’umanità da ogni pregiudizio. La sofistica presenta un carattere analogo, poiché i suoi esponenti criticano esplicitamente i miti e le credenze tradizionali, per sostituirli con nozioni razionali, o almeno considerate tali. In questo senso la funzione della sofistica fu simile a quella di movimenti analoghi presenti in tutte le maggiori civiltà e consistette nella liberazione critica dal passato in nome della ragione. I sofisti riconoscono inoltre il valore formativo del sapere e per primi ampliano il concetto di “paidéia” (termine che letteralmente indicava l’allevamento dei bambini e, quindi, l’educazione), identificandolo con la nozione occidentale di “cultura”. Quest’ultima viene intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma come la formazione globale dell’individuo nell’ambito del popolo o del contesto sociale a cui appartiene. Con i sofisti il problema educativo viene dunque portato in primo piano, sulla base della convinzione che la “virtù” non sia una qualità che si acquisisce “per nascita”, come un titolo nobiliare, ma derivi dal sapere, il quale si può conquistare attraverso lo studio.
L’importanza dell’educazione
OFFICINA CITTADINANZA Istruzione e educazione p. 14
In virtù della loro stessa professione – che li costringeva a viaggiare da un posto all’altro, Il cosmopolitismo superando gli angusti limiti delle singole póleis – i sofisti si fanno inoltre portatori di istanze panelleniche e cosmopolitiche, che contribuiscono a un “allargamento” della mentalità greca e antica in genere, perlopiù particolaristica e nazionalistica. Parallelamente, essi hanno chiara coscienza della molteplicità dei costumi umani e sanno rinunciare alla dogmatica assolutizzazione dei modi di vita vigenti nelle loro città. enciclosofia panellenico Così è definito ciò che concerneva la totalità dei popoli che costituivano la Grecia antica (da pan, “tutto”, e Hellás, “Ellade” o “Grecia”). Nel caso specifico dei sofisti, si può parlare di un’aspirazione “panellenica” a superare i confini delle proprie póleis e a favorire il contatto tra le diverse componenti del mondo greco.
L’istruzione come diritto
EDUCAZIONE CIVICA
Uno dei meriti dei sofisti fu quello di portare in primo piano il tema dell’istruzione e dell’educazione, di cui divennero autentici “professionisti” che lavoravano dietro compenso. Nelle società moderne, invece, l’istruzione è uno dei diritti umani fondamentali, e in quanto tale SVILUPPO è garantita dallo Stato. SOSTENIBILE • Esamina gli articoli 33 e 34 della nostra Costituzione: in che modo la Repubblica ita- Istruzione di qualità liana si fa garante dell’istruzione dei suoi cittadini? • Esamina l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (proclamata dalle Nazioni Unite nel 1948): quali sono gli obiettivi dell’istruzione indicati dall’ONU?
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Le due I sofisti non costituirono una scuola compatta di pensatori, poiché sostennero dottrine digenerazioni stinte e talora opposte. Per orientarsi, tuttavia, è bene distinguere tra i celebri maestri deldei sofisti
la “prima generazione” – i più importanti dei quali furono Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia e Antifonte – e quelli meno noti della “seconda generazione”, a cui appartennero i cosiddetti “eristi”, che, come vedremo, segnarono la fase di crisi e di dissoluzione della sofistica.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega il significato del termine “sofisti”, chiarendo a quali figure venne attribuito e indicando le principali tematiche a cui si dedicarono. 2. Illustra i caratteri principali della sofistica, mettendoli in relazione con il contesto storico, politico e culturale in cui si sviluppò.
4. Protagora Il primo e più importante esponente della sofistica è Protagora, la cui fama si diffuse in tutta la Grecia in virtù del suo grande fascino intellettuale e della sua straordinaria eloquenza. Vita e scritti Nato ad Abdera (in Tracia, sulla punta sud-orientale della penisola Balcanica) intorno al
490 a.C., Protagora si formò probabilmente sotto l’influenza del pensiero di Eraclito. Insegnò in numerose città e soggiornò più volte ad Atene, dove godette dell’amicizia e dell’ammirazione di Pericle. Proprio qui, tuttavia, le sue idee spregiudicate in fatto di religione gli crearono notevoli opposizioni, e gli costarono una pubblica accusa di empietà, per la quale dovette allontanarsi dalla città. Tra le opere di sicura attribuzione protagorea ricordiamo i Ragionamenti demolitori (che venivano citati anche con il titolo Sulla verità) e le Antilogie. Il filosofo compose poi altri scritti sulla religione, sullo Stato ecc., di cui rimangono pochissimi frammenti.
La dottrina dell’uomo-misura «L’uomo è La tesi fondamentale di Protagora – che è divenuta famosa attraverso i secoli e che esprimisura di tutte me bene lo spirito di tutta la sofistica – risiede nel principio: «L’uomo è misura di tutte le le cose»
cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in quanto non sono» (frammento 1). Alla lettera, questa affermazione significa che l’essere umano è il “metro”, cioè il soggetto e il criterio di giudizio, della realtà o irrealtà delle cose, del loro modo di essere e del loro significato. Sul preciso senso filosofico di questa tesi esistono però varie interpretazioni, a seconda del valore che si attribuisce alle nozioni di “uomo” e di “cose”. ( T1 p. 144)
L’uomo come Una prima interpretazione, divenuta tradizionale e risalente a Platone ( unità 3), intende individuo per “uomo” l’individuo singolo e per “cose” gli oggetti percepiti attraverso i sensi. In que-
sto caso la tesi di Protagora alluderebbe quindi al fatto che le cose appaiono diversamente a seconda di chi le percepisce, nonché del suo stato fisico e psichico. Si potrebbe dire: tante teste e tante situazioni, tante misure. Un cibo, ad esempio, può essere giudicato dolce o amaro a seconda della persona che se ne nutre e della circostanza in cui si trova. Detto con le parole di Platone: «quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io» (Teeteto, 152a).
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
Un’altra interpretazione attribuisce alla parola “uomo” il significato universale di “umani- L’uomo tà”, o “natura umana”, e alla parola “cose” il significato di “realtà in generale”. Da questo come specie o come comunità punto di vista, la tesi di Protagora vorrebbe dire che gli individui giudicano la realtà tramite parametri comuni, tipici della specie razionale alla quale appartengono. Secondo una terza interpretazione, infine, l’“uomo” del frammento protagoreo sarebbe invece la comunità o la civiltà a cui l’individuo appartiene, e le “cose” sarebbero soprattutto i valori o gli ideali che ne stanno alla base. In altre parole, Protagora intenderebbe dire che ognuno valuta le cose secondo la “mentalità” del gruppo sociale al quale appartiene. La critica ha perlopiù oscillato tra questi diversi, e talora opposti, orientamenti. Probabilmente questi tipi fondamentali di lettura, pur contenendo ognuno una parte di verità, sono insufficienti se presi singolarmente, e risultano veri soltanto se combinati insieme. Infatti l’uomo protagoreo è misura delle cose a vari “livelli” della propria umanità: in primo luogo come singolo, poi come comunità o civiltà, infine come specie. Egli giudica le cose a seconda della propria specifica conformazione psicofisica, a seconda dei parametri della società in cui vive e a seconda della specie alla quale appartiene. È quindi probabile che Protagora, parlando dell’uomo, non intendesse richiamare unilateralmente uno di questi tre significati, ma li avesse tutti indistintamente e sinteticamente presenti, e si riferisse a qualcuno di essi in particolare in base ai diversi ambiti di discorso. Ad esempio, parlando delle diverse sensibilità nei confronti dei cibi poteva intendere l’uomo come individuo; parlando della mentalità greca in contrapposizione a quella orientale poteva intenderlo come civiltà; e parlando degli uomini in relazione alla natura o agli dèi, poteva intenderlo come specie. Analogamente, le cose (chrémata) di cui parla Protagora non sono soltanto gli oggetti fisici, ma anche i valori, i progetti di vita e, al limite, la realtà tutta: da questo punto di vista, l’essere umano è misura non soltanto delle cose che si percepiscono, ma di tutto ciò con cui entra in rapporto.
L’uomo come singolo, comunità e specie
Globalmente considerata, la posizione di Protagora è dunque una forma di: umanismo, 1. umanismo , in quanto ciò che si afferma o si nega intorno alla realtà presuppone sem- fenomenismo e relativismo pre l’essere umano come soggetto del discorso o baricentro di giudizio, cioè come criterio, regola o metro di valutazione; 2. fenomenismo , in quanto noi non abbiamo mai a che fare con la realtà in sé stessa, ma soltanto con “fenomeni”, ossia con la realtà quale “appare” a noi; 3. relativismo conoscitivo e morale, in quanto non esiste una verità “assoluta”, cioè “sciolta” da un punto di vista particolare (relativismo conoscitivo), né esistono princìpi etici “assoluti” (relativismo morale), ma ogni verità o ideale o modello di comportamento è “relativo” a chi giudica e alla situazione in cui si trova. glossario p. 140 individuo L’UOMO
inteso come
LE COSE
oggetti percepiti intese come
in quanto
l’uomo è giudice
fenomenismo
in quanto
la realtà è come appare
relativismo
in quanto
tutto è relativo
comunità umanità
è misura di tutte
umanismo
Questa dottrina è una forma di
valori realtà in generale
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Il relativismo morale e culturale Frantumando la realtà in una miriade di interpretazioni soggettive, il relativismo dei sofisti distrugge sia l’idea di una verità unica, sia quella di un unico sistema di valori validi per tutti e per sempre. Questo aspetto emerge anche in uno scritto anonimo, risalente probabilmente alla prima metà del IV secolo a.C., intitolato Ragionamenti doppi (Dissói lógoi). I Ragionamenti In tale opera ci si propone di dimostrare che di una qualunque cosa si può dire che è buodoppi na o cattiva, bella o brutta, giusta o ingiusta. Lo scritto viene presentato dal suo autore
come una summa dell’insegnamento sofistico: «Ragionamenti doppi – così si apre l’opera – intorno al bene e al male sono sostenuti in Grecia da coloro che si occupano di filosofia». Infatti, prosegue il testo, «gli uni dicono che altro è il bene, altro è il male; altri, invece, che sono la stessa cosa; la quale per alcuni sarebbe bene, per altri male; e per lo stesso individuo sarebbe ora bene, ora male. [...] E così la malattia per i malati è un male, ma per i medici è un bene. E ancora, la morte per chi muore è un male, ma per gl’impresari di pompe funebri e per i becchini è un bene. E che l’agricoltura dia abbondante raccolto, è un bene per gli agricoltori, ma per i commercianti è male» (Diels, 90, 1). Può darsi che l’autore di questo scritto seguisse da vicino la traccia di un particolare sofista, ad esempio di Gorgia ( p. 128), come sostengono alcuni studiosi; ma è difficile supporre che non intendesse riferirsi anche a Protagora, del quale sappiamo (come anticipato in apertura) che scrisse un libro intitolato Antilogie. Di quest’opera abbiamo soltanto testimonianze indirette, ma è probabile che in essa il filosofo presentasse tesi e ragionamenti contrari, ugualmente difendibili, su una serie di argomenti (in greco antiloghía significa letteralmente “contraddizione”, dalla preposizione antí, “contro”, e dal sostantivo lógos, “discorso”: p. 137).
Diversi valori La seconda parte dei Ragionamenti doppi è particolarmente interessante perché contiene per diverse l’esposizione di quello che oggi si chiama “relativismo culturale”, cioè il riconoscimento culture
del fatto che le diverse civiltà umane esprimono culture diverse: non soltanto conoscenze, ma anche usi, costumi e valori differenti. Ecco un passaggio dello scritto in cui è esposta efficacemente quest’idea:
‘
Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze brutto; presso i Greci, è brutta l’una e l’altra cosa. Presso i Traci, il tatuaggio per le fanciulle è un ornamento; presso gli altri popoli, invece, il tatuaggio è una pena che s’impone ai colpevoli. […] I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come le donne e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. (Diels, 90, 2)
L’utile come criterio di scelta Il relativismo conoscitivo e morale dei sofisti poteva condurre alla tesi dell’ideale equivalenza di tutte le opinioni, cioè alla dottrina secondo cui, in teoria, «tutto è vero», come sembra dicesse Protagora. Questo significa forse che lo sbocco naturale della meditazione protagorea fosse una forma di soggettivismo anarchico, pronto a legittimare qualunque affermazione e qualunque comportamento? Niente affatto, perché Protagora (come è confermato anche dal suo avversario filosofico Platone) nonostante tutto riconosceva l’esistenza di un principio di scelta.
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
Per quanto ne sappiamo, Protagora affermava che, nel vuoto di verità e di valori “forti”, esiste comunque un criterio al quale l’essere umano può attenersi: il principio “debole” dell’utilità privata e pubblica. In altre parole, se non si può accogliere una dottrina o una credenza, o scegliere di tenere un certo comportamento, sulla base di verità certe o di valori indiscutibili, tuttavia si può decidere di farlo perché quella credenza o quel comportamento si rivelano come i più utili per sé e per la propria comunità. L’utile – inteso come il bene del singolo e della comunità – diviene così lo strumento di verifica e di legittimazione delle stesse teorie. In questo modo, a una concezione oggettivistica e assolutistica della verità (secondo cui il vero è qualcosa di già dato e scoperto una volta per sempre, che si impone a tutti allo stesso modo), Protagora sostituisce una concezione umanistico-storicistica, secondo cui la verità è ciò che viene umanamente verificato come giovevole, ossia ciò che si è dimostrato storicamente e socialmente utile all’individuo, alla comunità e alla specie. Ciò significa che il filosofo non arriva a negare qualsiasi criterio di verità, ma soltanto un criterio assoluto. In altri termini, il fatto che Protagora rifiuti una “razionalità forte” non esclude l’accettazione da parte sua di una “razionalità debole”.
Il principio dell’utilità privata e pubblica
Il sofista, quindi, per Protagora si presenta soprattutto come un “propagandista dell’utile”, ossia come un intellettuale che, mediante l’arte della parola, tenta di modificare le opinioni in base al principio dell’utilità. Ed è probabilmente in questo senso, e non soltanto in quello relativo alla forma espressiva, che Protagora diceva di «rendere migliore il discorso peggiore», ossia di trasformare l’opinione meno utile e più dannosa in un’opinione più utile e proficua. Di conseguenza, l’esercizio della retorica da parte di Protagora non deve essere visto come fine a sé stesso, ma come subordinato a una ben precisa funzione politico-educativa.
I sofisti come “propagandisti dell’utile”
Alcuni critici hanno puntualizzato che questa posizione comportava, nella pratica, il grave rischio di ridurre il compito o il “mestiere” di sofista a quello di strumento del potere. Infatti, chi stabilisce che cosa sia utile alla città, se non i gruppi più forti nelle assemblee in cui si prendono le decisioni? In altre parole, i sofisti rischiavano di legittimare soltanto l’utile dei potenti, trasformandosi di fatto in propagandisti delle classi dominanti. Questo aspetto, tuttavia, pur costituendo un possibile esito negativo della pratica sofistica (e della pratica di ogni intellettuale), non può venir attribuito alla filosofia protagorea in sé, perché in essa l’utile e le leggi erano piuttosto concepiti in prospettiva del benessere comune nella pólis. Soltanto più tardi, come vedremo, alcuni sofisti teorizzeranno la “legge del più forte”, ponendosi di fatto e di diritto come ideologi dell’aristocrazia.
I sofisti come possibili strumenti del potere
)
Per l’esposizione orale
ESERCIZI
OFFICINA CITTADINANZA Repubblica e democrazia p. 5
1. Spiega che cosa significa la celebre frase di Protagora «L’uomo è misura di tutte le cose», utilizzando i termini: umanismo, fenomenismo e relativismo. 2. Illustra le due valenze fondamentali della prospettiva relativistica e spiega se e come siano presenti nella dottrina protagorea. 3. In che cosa consiste il principio protagoreo dell’utile e a quale concezione tradizionale si contrappone? 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Con l’aiuto dell’insegnante, rifletti sul rapporto degli intellettuali con il potere. Ritieni che anche oggi (come nella Grecia classica) la cultura rischi di diventare uno strumento asservito all’“utile” dei potenti? Supporta eventualmente la tua argomentazione con esempi tratti dall’attualità.
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5. gorgia L’altra grande figura della sofistica è quella di Gorgia, il quale rispetto a Protagora presenta una dottrina più negativa circa le possibilità conoscitive e pratiche dell’essere umano. Vita e scritti Gorgia nacque verso il 485 a.C. a Lentini (nella Sicilia sud-orientale) e probabilmente
morì a Làrissa (in Tessaglia, a metà strada fra Atene e Salonicco) intorno al 380 a.C., cioè a più di 105 anni. Discepolo di Empedocle, esercitò la propria arte retorica in molte città della Grecia e soprattutto ad Atene, dove pronunciò un celebre discorso in onore dei soldati ateniesi caduti durante la guerra del Peloponneso (Epitaffio). Tra le sue opere ricordiamo Sul non essere (o Sulla natura) e l’Encomio di Elena.
L’impensabilità e l’inesprimibilità dell’essere Le tre tesi Nell’opera Sul non essere, ritenuta la più importante, Gorgia espone le tre tesi fondamenfondamentali tali su cui si basa la sua dottrina:
nulla esiste; se anche qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile per gli esseri umani; se anche fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile.
Le argomentazioni In ambito filosofico la parola “tesi” (in greco thésis, letteralmente “posizione”, dalla radice
del verbo ístemi, “pongo”) indica un enunciato di cui si intende dimostrare la validità. Ecco dunque come, secondo la testimonianza di Sesto Empirico (filosofo greco vissuto tra il II e il III secolo d.C. vol. 1B, unità 5, cap. 4), Gorgia dimostra le sue tesi:
‘
1. Che niente esista Gorgia dimostra in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l’essere o il non-essere o l’essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c’è, ma neppure l’essere c’è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno, o generato, o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio e, non avendo principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere l’essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall’essere o dal non-essere. Ma non è nato dall’essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal non-essere, ché il non-essere non può generare. 2. Se le cose pensate non si può dire che siano esistenti, sarà vero anche l’inverso, che non si può dire che l’essere sia pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste, l’essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò è contrario all’esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli o dei carri che corrano sul mare, ecco che un uomo si mette a volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il pensato esista. Di più se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser pensato, perché ai contrari toccano attributi contrari. Ma ciò è assurdo, perché si pensa anche Scilla e la Chimera [mostri mitologici] e molte altre cose irreali. Dunque l’essere non è pensato. 3. Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l’udito, e non viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l’oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è altro dall’oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare audibile, e viceversa, così l’essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non può diventar la parola, che è in noi. E non essendo parola, non potrà esser manifestato ad altri. (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 65 ss.)
La struttura Per ciascuna delle tesi che intende dimostrare, Gorgia parte da un’ipotesi contraria e la dimostrativa assume momentaneamente come vera; quindi la analizza per metterne in evidenza tutti
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
i possibili significati e le relative conseguenze, e far vedere che ognuna di esse porta a una contraddizione. Una volta chiuso ogni “ramo” consequenziale, non resta che ammettere che l’ipotesi iniziale è falsa. Per meglio comprendere questa struttura argomentativa, possiamo analizzare il riepilogo visivo della prima delle dimostrazioni di Gorgia: IPOTESI INIZIALE: QUALCOSA ESISTE quindi è
o essere
o non essere
o essere e non essere insieme
quindi è
ma questo
ma questo
è impossibile, perché il non essere non esiste
è impossibile, perché è contraddittorio
o eterno
o generato
o eterno e generato insieme
quindi è
quindi è
ma questo
infinito
o nato dall’essere
o nato dal non essere
quindi
ma questo
ma questo
non è in alcun luogo
è impossibile, perché, se è nato, non è essere (in quanto prima non era)
è impossibile, perché il non essere non è e non può generare
è impossibile, perché è contraddittorio
quindi non esiste
Lo scritto di Gorgia è stato talvolta interpretato alla stregua di una radicale affermazione uno “scherzo” di nichilismo filosofico (cioè di una dottrina che nega uno o più elementi significativi retorico? della realtà o dell’esistenza, dal latino nihil, “nulla”), oppure come un semplice “scherzo”, un pezzo di bravura retorica attraverso il quale l’autore si sarebbe burlato dei filosofi precedenti. Dietro il tono innegabilmente provocatorio delle tesi gorgiane, è però possibile riconoscerne tutta l’importanza. Vediamo perché.
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commento alla Innanzitutto, quando Gorgia sostiene che nulla esiste (prima tesi), non intende far “sparire”, prima tesi con una sorta di gioco di prestigio, la realtà testimoniata dai nostri sensi, bensì negare la
possibilità di una sua concettualizzazione filosofica. In altri termini, più che il mondo concreto che ci sta di fronte, con la sua affermazione paradossale Gorgia intende probabilmente negare la pensabilità logica e il valore ontologico dell’“essere in generale”, e più precisamente di quella struttura metafisica di cui i vari pensatori presofisti erano andati alla ricerca: la “natura” oltre i fenomeni, il “principio” originario e indiveniente oltre le cose. Il filosofo vuole appunto chiarire che una tale realtà o struttura non risulta filosoficamente asseribile, a meno di cadere in una serie di non-sensi concettuali.
commento alla Per sostenere poi che l’essere non è pensabile (seconda tesi), Gorgia afferma che, se anche seconda tesi una tale realtà (l’essere in generale, o il principio) esistesse, noi non la potremmo conoscere,
in quanto, per conoscerla, dovremmo presupporre che la nostra mente sia una “fotografia” esatta di ciò che esiste. Ma così non è. Infatti, noi pensiamo spesso cose inesistenti, e questo significa che il pensiero non rispecchia necessariamente la realtà, o che la realtà non si rispecchia necessariamente nel pensiero. In tal modo Gorgia colpisce al cuore l’equazione eleatica “pensiero = essere”, introducendo una frattura radicale tra la mente e le cose.
commento alla Analogamente, quando afferma che, se anche la realtà fosse conoscibile, non sarebbe coterza tesi munque spiegabile con parole (terza tesi), Gorgia suggerisce che il linguaggio è altra
cosa rispetto alla realtà e non possiede un’adeguata capacità rivelativa nei suoi confronti.
Lo scetticismo Le tesi di Gorgia acquistano ulteriore densità speculativa se vengono riferite in modo specifico all’essere di cui parlava Parmenide, o a quella realtà assoluta che va sotto il nome di “Dio” (comunque lo si intenda). Una simile entità, infatti, secondo le tesi del sofista: o non esiste (1a tesi), o è inconoscibile (2a tesi), o è inesprimibile (3a tesi). la prima affermazione costituisce una negazione radicale dell’essere (nichilismo), o (nel caso in cui l’essere sia concepito come Dio) una professione di ateismo; le altre due affermazioni si mantengono invece esplicitamente su un piano di scetticismo o agnosticismo , rispettivamente metafisico o teologico, in quanto sono assimilabili alla prospettiva secondo cui l’essere umano non ha strumenti adeguati né per affermare né per negare l’esistenza dell’essere o di Dio. glossario pp. 140-141 Lo scetticismo In verità, anche la prima tesi finisce per collocarsi nell’ambito dello scetticismo, o dell’ametafisico gnosticismo, poiché in fondo vuol dire che l’essere (oppure Dio) non esiste “per noi”, cioè
non risulta umanamente e filosoficamente afferrabile, pena la caduta in insolubili contraddizioni logiche. In altre parole, il messaggio più profondo di Gorgia, stando alla testimonianza di Sesto Empirico, sembra essere lo scetticismo metafisico (o agnosticismo metafisico), cioè la persuasione dell’impotenza umana a parlare dell’essere e delle strutture ultime del reale. In altri termini ancora, Gorgia esprime la sua completa sfiducia nelle possibilità conoscitive della nostra mente, soprattutto quando, andando oltre l’esperienza, essa pretenda di accedere a qualche “assoluto” metafisico. In Gorgia troviamo dunque la prima, esasperata, messa in discussione della metafisica da parte del pensiero occidentale, e l’anticipazione di schemi di pensiero che saranno tipici del pensiero moderno e contemporaneo. Altro che scherzo filosofico o esibizionismo retorico!
Lo scetticismo Tuttavia, se nei moderni lo scetticismo metafisico coesisterà quasi sempre con la fiducia nella cognoseologico noscenza umana, allorquando essa non si avventuri oltre l’ambito dell’esperienza, bisogna pree la potenza della parola cisare che in Gorgia tende invece a investire anche il pensiero e il linguaggio, i quali perdono
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
il loro valore di strumenti di verità. Per Gorgia, infatti, se nulla è vero, cioè dimostrabile come tale, allora “tutto è falso” (scetticismo gnoseologico). Mentre in Protagora abbiamo ancora un criterio di verità, ossia l’utile (ciò che giova all’uomo), in Gorgia non troviamo più alcun criterio. L’unica cosa che conta – in assenza di qualsiasi verità o certezza – è la potenza della parola, intesa come forza ammaliatrice che permette di dominare gli stati d’animo, in quanto «riesce a calmare la paura e ad eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà». Ma sulla celebrazione gorgiana della retorica torneremo più avanti, parlando delle concezioni sofistiche del linguaggio ( p. 138).
La visione tragica della vita Un altro aspetto importante del pensiero gorgiano è la concezione tragica del reale. In contrasto con il sostanziale razionalismo e ottimismo dei filosofi precedenti e, soprattutto, di quelli seguenti (Platone e Aristotele), i quali vedono nella vita e nell’essere una vicenda dominata dal lógos, cioè dalla ragione, Gorgia sembra ritenere che l’esistenza sia qualcosa di fondamentalmente irrazionale e misterioso. Egli è convinto che le azioni degli uomini non siano rette dalla logica e dalla verità, bensì dalle circostanze, dalla menzogna, dalle passioni e da un ignoto destino, il quale fa sì che gli individui si rivelino sempre, a uno sguardo profondo, «determinati» e «incolpevoli», essendo permanentemente in preda a qualcosa che li supera e li tiene in pugno.
L’essere umano come incolpevole e determinato
Questo, in parte, è il probabile significato esistenziale del famoso Encomio di Elena, un te- La difesa sto in cui il filosofo prende le difese di Elena, il personaggio omerico spesso considerato la di elena causa della guerra di Troia. Gorgia afferma che Elena «fece ciò che fece o per volere del Caso e volere degli dèi e decreto di Necessità, o rapita per forza, o convinta da discorsi, o presa d’amore» (DK 82 B 2). In ogni caso, per Gorgia Elena è “senza colpa”, perché la sua volontà fu soggiogata e soverchiata da una (o più di una) enciclosofia di queste forze, a cui la sua psiche non poteva in alcun modo resistere. Elena Secondo il racAnche l’Encomio di Elena è stato perlopiù interpretato come un mero sfoggio di conto dell’Iliade, Elena è la bravura retorica. In realtà, al di là del plateale “gioco dialettico” di cui Gorgia più bella tra le donne, moglie di Menelao, re di Sparta. Instesso si vanta, esso manifesta significati più profondi e può venir letto come vaghitasi del giovane Pariconsapevolezza della fragilità e della nullità umane e come espressione di quel de, troiano, lo segue a Troia, sentimento tragico dell’esistenza che Gorgia condivide con i tragediografi diventando di fatto la caugreci della sua epoca, dei quali – e la cosa è di per sé rivelatrice – egli studiò e sa scatenante della guerra commentò le opere più famose. ( T2 p. 147) mossa dai Greci alla città.
)
Per l’esposizione orale
1. Enuncia le tre tesi fondamentali della dottrina di Gorgia e illustrane il significato. 2. Spiega in che senso le tesi gorgiane possono essere interpretate come una professione di nichilismo, ateismo e scetticismo o agnosticismo. 3. Descrivi la concezione gorgiana dell’esistenza umana che traspare dall’Encomio di Elena. SNODI PLURIDISCIPLINARI letterature classiche
L’idea di un’umanità in balìa del volere degli dèi o del Caso è fortemente presente nelle opere dei tre maggiori tragediografi greci: Eschilo (525456 a.C.), Sofocle (497-406 a.C.) ed Euripide (480-406 a.C.). Di poco più giovane del primo di essi, pressoché contemporaneo del secondo e coetaneo del terzo, Gorgia amò e studiò i loro lavori, che probabilmente influenzarono il suo pensiero. Con l’aiuto dell’insegnante, scegli una delle tragedie di questi tre grandi autori, studiane la trama e mostra le affinità del protagonista o della protagonista con il personaggio omerico di Elena, oggetto dell’Encomio gorgiano. (5 minuti per l’esposizione orale)
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6. La storia e le tecniche per i sofisti Protagora e Gorgia furono i maestri più importanti della sofistica. Tuttavia, oltre agli argomenti che caratterizzarono in maniera peculiare il loro pensiero, ne esistono numerosi altri che furono affrontati anche da pensatori minori e che ora analizzeremo, organizzando l’esposizione per tematiche e non più per autori. La storia come A cominciare da Protagora, nell’ambito della sofistica troviamo un abbozzo di teoria della progresso civiltà che riflette un nuovo modo di considerare l’essere umano. Nel V secolo a.C., infatti,
nella cultura greca si va facendo strada una nuova dottrina della storia, che si oppone al mito narrato da Esiodo della decadenza progressiva dell’umanità da un’iniziale età dell’oro. Alla visione esiodea della storia come regresso, si sostituisce una teoria della storia come progresso, che cerca di scrutare le origini degli esseri umani al di là del mito, e di spiegarne realisticamente il lento emergere dall’animalità primitiva e il faticoso costituirsi in società mediante le tecniche e le leggi.
Le tecniche Secondo Protagora, nel cui pensiero si delinea chiaramente questa visione, l’essere umano e la politica si differenzia dagli animali e supera le proprie naturali debolezze entrando in società e metin Protagora
I NODI DEL PENSIERO Qual è il rapporto tra individuo e Stato? p. 476
tendo a punto le “tecniche”, cioè quel complesso di arti (in greco téchnai), dall’agricoltura all’urbanistica, mediante le quali trasforma il mondo circostante a proprio vantaggio. Da sole, tuttavia, le tecniche non sarebbero sufficienti a garantire la sopravvivenza sociale dell’uomo, se non ci fosse quella “tecnica di tutte le tecniche” che è la politica, ovvero l’arte di vivere insieme nella città. Dal dialogo platonico intitolato Protagora, apprendiamo che il sofista non concepiva la politica come qualcosa di ristretto e di specialistico, sulla falsariga delle altre tecniche, bensì come un’arte che riguarda ogni essere umano, poiché, se non tutti si è agricoltori, medici, calzolai o armatori, tutti si è però membri della pólis e quindi, in qualche modo, “politici”.
Il mito Questa tesi emerge in modo particolarmente suggestivo nel mito di Prometeo, un raccondi Prometeo to di carattere mitologico che Platone, nel Protagora, fa narrare proprio al famoso sofista.
Secondo il mito, una volta plasmate tutte le specie animali, gli dèi incaricarono i due fratelli Promèteo ed Epimèteo di distribuire loro le facoltà necessarie per la sopravvivenza (la forza, la velocità, la capacità di volare ecc.). Una volta terminata la distribuzione (di cui si era occupato Epimeteo), Prometeo si accorse però che gli uomini erano rimasti nudi e indifesi, poiché nessuna facoltà era stata loro riservata. Egli, allora, rubò agli dèi il fuoco e ne fece dono agli uomini, perché grazie ad esso potessero sviluppare la loro abilità tecnica e creare le condizioni per sopravvivere. Ma tutto ciò non era ancora sufficiente: per garantire la vita degli uomini, Zeus dovette elargire loro anche il rispetto e la giustizia, perché potessero vivere in comunità. La convinzione sottesa a questo racconto è che il genere umano non può conservarsi né senza le diverse tecniche, né senza l’arte del vivere insieme (la politica), e che queste arti – proprio in quanto “arti” e non istinti naturali o impulsi primordiali – possono e devono essere apprese.
enciclosofia età dell’oro Descritta da Esiodo nel poema Le opere i giorni, corrisponde all’era mitologica in cui Crono regnava sugli dèi, mentre i mortali vivevano senza dolore né angoscia in un ambiente naturale amico e generoso. Con l’ascesa di Zeus (figlio di Crono) al trono dell’Olimpo, ebbe inizio una serie di epoche sempre peggiori: le età dell’argento, del bronzo e, infine, del ferro, in cui gli uomini conobbero gradualmente i mali che tuttora li affliggono.
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Teorie analoghe sull’origine e sullo sviluppo della civiltà troviamo in Prodico di Ceo (na- Il valore to tra il 470 e il 460 a.C.), autore di un suggestivo profilo della storia dell’umanità, che del lavoro in Prodico di ceo dall’originaria condizione di bestialità e soggezione alla natura arriva fino alla fondazione di società basate sul lavoro e sulle leggi. Prodico appare ottimista sulle possibilità umane ed esalta il lavoro come via che conduce gli uomini alle più alte conquiste. In un famoso scritto intitolato Ercole al bivio, egli contrappone la virtù alla depravazione e propone una concezione dell’esistenza come sforzo, convinto che «di ciò che è buono e bello, nulla gli dèi hanno concesso agli uomini senza fatica e studio». L’importanza di queste teorie sulla storia e sul progresso è notevole. Al di là di Protagora e Il concetto di Prodico, esse manifestano come l’Atene delle tecniche, della democrazia e dei sofisti si di “civiltà” stesse ormai innalzando a un nuovo concetto di “civiltà”, intesa come sforzo progressivo di modifica dell’ambiente naturale e sociale a vantaggio dell’essere umano. Smarrita in parte con la successiva filosofia greca e medievale, questa concezione ritornerà a imporsi nel Rinascimento e nel mondo moderno, divenendo tipica dell’Occidente fino ai giorni nostri.
7. I sofisti e la religione Nell’ambito della sofistica troviamo anche alcuni rilevanti (e inediti, per l’epoca) pronunciamenti intorno alla religione. Protagora, ad esempio, diceva: «Degli dèi non sono in grado di sapere né se sono, né se non sono, né quali sono: molte sono infatti le difficoltà che si frappongono: la grande oscurità della cosa e la limitatezza della vita umana» (frammento 4). Questa affermazione, pur collocandosi pienamente nel quadro dello scetticismo metafisico della sofistica, rappresenta la prima esplicita professione filosofica di agnosticismo religioso, cioè di quella teoria secondo cui Dio non è razionalmente affermabile né negabile, in quanto l’essere umano non possiede strumenti mentali adeguati né per ammetterne né per escluderne l’esistenza.
L’agnosticismo religioso: Protagora
QUESTIONE Esiste Dio? (Anassagora, Democrito, Protagora) p. 188
Secondo la testimonianza di Sesto Empirico, Prodico di Ceo osserva invece come l’essere L’origine umano abbia in origine “divinizzato” quegli aspetti della natura grazie ai quali riusciva a umana del divino: Prodico sopravvivere: «Gli antichi consideravano dèi, in virtù dell’utilità che ne derivava, il sole, la luna, i fiumi, le fonti e in generale tutte le cose che giovano alla nostra vita, come, per esempio, gli Egiziani il Nilo. E per questo il pane era considerato come Demetra, il vino come Dioniso» (Sesto Empirico, Contro i matematici, IX, 18). Le tesi di Prodico, riducendo gli dèi a “proiezioni divine” di ciò che è utile e vantaggioso per l’uomo, sottintendono l’idea di un’origine umana del fenomeno religioso, ipotesi che nel mondo moderno conoscerà sviluppi radicali. In Crizia (460-403 a.C.) – che può essere considerato il principale tra i sofisti-politici ( unità 3, p. 196) – si trova invece la denuncia del carattere strumentale della religione, che sarebbe stata inventata e utilizzata dai potenti come mezzo di controllo. Crizia è convinto che gli dèi siano «un’invenzione dei governanti, che non potendo colpire con la loro diretta oppressione ogni atto dei loro sottoposti, li hanno indotti a credere nell’esistenza di una divinità invisibile che conosce e punisce i comportamenti proibiti dalle leggi imposte da chi governa. La divinità è dunque una sorta di “polizia segreta” inventata per controllare le coscienze, una finzione politica, uno strumento d’oppressione che Crizia ritiene utile e indispensabile per controllare i sudditi, ma dal quale i potenti, i governanti, non devono certo sentirsi vincolati e condizionati» (AA.VV., Filosofie e società, Zanichelli, Bologna 1975, vol. 1, p. 86).
La religione come strumento del potere: crizia
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Così come nel caso di Prodico, anche la teoria di Crizia sulla genesi politica della religione anticipa alcuni filoni della filosofia moderna che tenderanno a ridurre le credenze religiose a stratagemmi sociali o a strumenti di potere usati dalle classi dominanti. L’umanismo La posizione dei sofisti in materia di religione è storicamente e filosoficamente importansofistico te, in quanto si accompagna alla rottura di quella visione sacrale dell’esistenza che era
propria della Grecia antica. Essa rappresenta l’aspetto strutturale di un “umanismo” fondato sulla consapevolezza che l’essere umano, «indipendentemente da ogni ordine già dato, indipendentemente dalla necessità di una legge divina, è egli stesso che costruisce il suo mondo, si costituisce un ordine civile, amministra la sua casa e la città, fonda colonie e dà nuove leggi» (Francesco Adorno, I sofisti e Socrate, Loescher, Torino 1962, p. XVI).
8. Il problema delle leggi La questione Nel contesto dell’umanismo sofistico nasce anche la questione filosofica relativa alla natu-
ra delle leggi. Anticamente si credeva in una derivazione sovra-umana delle norme sociali, che venivano concepite come decreti divini. I sofisti ne proclamano invece l’origine tutta umana. Del resto, la vecchia concezione sacrale e religiosa delle leggi era già stata messa in crisi dall’avvento della democrazia ateniese: democrazia significa infatti dibattito di pareri di fronte a un’assemblea, la quale poi traduce le deliberazioni in leggi, facilitando così la presa di coscienza del carattere umano e sociale delle norme. Da tutto ciò derivò una vera e propria “inchiesta” filosofica sull’origine e sulla validità delle leggi, che vide i maggiori sofisti impegnati a rispondere al quesito: se le leggi sono un’opera esclusivamente umana, che cosa obbliga gli individui a rispettarle?
La posizione La prima risposta autorevole che è bene considerare è quella di Protagora. Come si è già di Protagora visto, secondo il filosofo di Abdera l’essere umano diventa effettivamente tale soltanto in-
ventando le tecniche ed entrando in società. Ma la società non può esistere senza quegli insiemi di regole che sono le leggi e senza quella tecnica della coesistenza che è la politica, perché in loro assenza si tornerebbe a una condizione di animalità. In Protagora, quindi, la scoperta della genesi umana delle leggi implica la giustificazione della loro validità: pur non derivando dagli dèi e pur essendo un’invenzione umana, le leggi devono essere rispettate, perché in loro assenza non ci sarebbe la società, e quindi neppure l’uomo.
Legge e natura In Protagora esiste una certa continuità fra legge e natura (in greco, rispettivamente, nómos e phýsis), dal momento che l’essere umano, attraverso la società e le leggi che la regolano, realizza pienamente la propria natura e il proprio utile. Nei sofisti a lui posteriori troviamo invece l’idea di un’antitesi, variamente intesa, fra questi due termini. Legge naturale In Ippia di Elide (nato forse nel 443 a.C.) si fa strada per la prima volta una distinzione nete leggi umane: ta tra una legge naturale immutabile, «valida in ogni paese e nel medesimo modo», e le Ippia
diverse e mutevoli leggi umane. Ippia manifesta chiare preferenze per la prima, in quanto essa unisce gli uomini al di là dello spazio e del tempo, mentre la seconda li divide e li tiranneggia. Da questa distinzione il filosofo deriva un ideale di cosmopolitismo e di uguaglianza (presente anche in Democrito unità 1, cap. 4, p. 94) che costituisce una novità per il mondo greco e per la civiltà antica in genere.
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
In Antifonte troviamo una radicalizzazione di questa teoria e un ulteriore passo verso la totale “dissacrazione” delle leggi. Egli, infatti, ritiene “vera” soltanto la legge di natura, mentre reputa quelle umane “opinabili”, quando non decisamente false. ( T3 p. 149) Ma che cos’è, precisamente, questa legge di natura di cui parlano sia Ippia sia Antifonte? Se per il primo dei due non si hanno documenti sufficienti per pronunciarsi con certezza, per Antifonte si può dire che la legge di natura si identifica con la spinta verso il giovevole e verso la concordia, cioè con valori che la legge della città tende ad annullare, poiché opprime l’individuo e lo mette contro i suoi simili. Su questa via, Antifonte riprende in modo più marcato le idee cosmopolitiche di Ippia, affermando, contro ogni pregiudizio, la naturale uguaglianza di tutti gli esseri umani:
‘
L’opinabilità delle leggi umane: antifonte
Noi onoriamo chi è di origine nobile, ma quelli che non lo sono non li onoriamo. In questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri, poiché per natura siamo tutti uguali, sia barbari sia greci. Questo si può vedere dai bisogni naturali di tutti gli uomini […]. Tutti infatti (DK 87 B 44b) respiriamo l’aria con la bocca e con le narici.
Legge e potere Trasimaco di Calcedonia (nato nel 460 a.C.) riprende la problematica delle leggi su un piano diverso. Egli afferma che la pretesa giustizia è in realtà una maschera che nasconde gli interessi dei potenti. Essa, infatti, non è altro che «l’utile del più forte» e le leggi sono strumenti di cui chi detiene il potere si serve a proprio vantaggio. Sulle stesse posizioni di Trasimaco troviamo il già citato Crizia, fautore di una tendenza aristocratica che si esprimerà nel governo dei Trenta tiranni ( cap. 2, p. 155). Anche per Crizia le leggi sono soltanto “paraventi” mediante i quali i potenti tutelano i propri interessi. Ed è proprio per fare rispettare le leggi che essi, come si è visto, inventano la religione e introducono il timore degli dèi ( p. 133).
Le leggi come strumento dei potenti
QUESTIONE L’essere umano è un “animale sociale”? (Crizia, Aristotele) p. 459
Questo punto di vista si estremizza, e per certi versi si ribalta, con Callicle, personaggio Le leggi di cui in realtà non sappiamo nulla, ma che viene citato da Platone nel dialogo intitolato come difesa dei deboli Gorgia. Sembra che questo sofista, spostando decisamente il discorso dal piano delle constatazioni di fatto a quello dei princìpi, sostenesse che la legge di natura si identifica (e deve identificarsi) con il «diritto del più forte», e che le leggi civili sono i mezzi di difesa inventati dai deboli per salvaguardarsi dai potenti. In altre parole, i deboli, non reggendo lo scontro con i potenti sul piano della forza, avrebbero cercato nel corso dei secoli di difendersi con la mediazione della politica e delle leggi. Anche il dibattito sulle leggi, in tutta la gamma delle sue posizioni, risulta dunque estre- una questione mamente ricco e stimolante. In particolare, la distinzione tra leggi di natura (non scritte) importante e leggi umane (scritte), indipendentemente dal modo in cui i vari pensatori la intesero, costituisce una delle eredità più preziose lasciate dalla sofistica al pensiero successivo ( “La filosofia che vive”, p. 136).
)
Per l’esposizione orale
1. Esponi la nuova teoria della storia che si delinea grazie alla sofistica. 2. Quali sono le principali posizioni dei sofisti in tema di religione? 3. Illustra i punti salienti del dibattito sulle leggi, richiamando le tesi principali sostenute dai sofisti.
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EDUCAZIONE CIVICA
LA FILOSOFIA CHE VIVE Nómos e phýsis: da Sofocle alle Dichiarazioni dei diritti umani
Il dibattito sulle leggi a teatro Nel 442 a.C., ad Atene va in scena una delle tragedie più note di Sofocle: l’Antigone. Ambientata a Tebe, l’opera narra le vicende di una figlia del re Edipo – Antigone, appunto – i cui fratelli Eteocle e Polinice si contendono il governo della città. Rifugiatosi ad Argo e raccolto un esercito, Polinice muove guerra al fratello, rimasto a Tebe. Nel conflitto muoiono entrambi e sul trono sale il loro zio Creonte, il quale vieta di dare sepoltura a Polinice, colpevole di aver combattuto contro la propria patria. Per onorare i legami di sangue, Antigone decide di disobbedire a Creonte, appellandosi a un ordine superiore a quello della città, cioè alle «leggi degli dèi, / leggi indistruttibili, leggi non scritte», le quali «non sono / leggi di oggi o di ieri, ma vigono da sempre» (vv. 450-451). Attraverso la figura di Antigone, Sofocle dà forma artistica a una questione filosofica che proprio nella seconda metà del V secolo a.C. stava acquistando importanza: quella del rapporto tra la mutevole legge positiva (“posta” dalla forza dello Stato) e la legge naturale, permanente e universale perché “in-scritta” nella natura razionale dell’essere umano. Dai sofisti alla Francia rivoluzionaria Il dibattito dei sofisti sul rapporto fra nómos e phýsis mette in luce uno schema teorico che si ritroverà alla base di gran parte della filosofia giuridica occidentale, e che emergerà con forza in epoca moderna, con le “Dichiarazioni” dei diritti umani. La più celebre fra queste è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proclamata dai rivoluzionari francesi il 26 agosto 1789, la quale in apertura sancisce l’esistenza di alcuni «diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo» (identificati all’articolo 2 con «la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione»), che i governanti devono tenere «costante-
)
DIBATTITO CRITICO
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mente presenti», come una legge superiore a cui sottoporre le leggi particolari che emaneranno. La Dichiarazione universale del 1948 Quasi due secoli dopo, ancora scossi per gli orrori della Seconda guerra mondiale, i rappresentanti di quarantotto Paesi (su cinquantotto), riuniti a Parigi nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, firmarono il 10 dicembre 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani, il cui primo articolo recita: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
La Dichiarazione del 1948 ha acquisito valore normativo, configurandosi come una legge «universale» a cui le leggi «particolari» dei Paesi firmatari devono attenersi.
Monumento ai diritti umani di fronte al Palazzo d’Europa, sede del Consiglio d’Europa, a Strasburgo.
Le Dichiarazioni qui ricordate sembrano far coincidere la legge universale di cui parlavano i sofisti con alcuni diritti umani inalienabili. Ma in che senso tali diritti sono assolutamente evidenti, e quindi insindacabili? È possibile individuare un principio universale da cui ricavarli? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, cerca in Internet i testi della Dichiarazione d’indipendenza americana (1776) e delle Dichiarazioni francese (1789) e delle Nazioni Unite (1948), e confrontali per individuarne affinità e differenze, nonché il criterio su cui si fondano. A questo fine, considera le seguenti tradizioni culturali: cristiana (tutti gli uomini sono figli di Dio); laica e razionalistica (tutti gli uomini sono esseri razionali); storicistica (la negazione dei diritti umani nel Novecento ha avuto conseguenze tragiche). In classe, il docente forma quattro gruppi: tre di questi formulano una tesi rispetto alla questione (scegliendo una delle tre prospettive elencate sopra) ed elaborano almeno due argomentazioni che la sostengano; quindi espongono la posizione scelta al resto della classe, nel rispetto dei tempi comunicati dall’insegnante. Il quarto gruppo costituisce la giuria, che sceglierà le argomentazioni più efficaci. QUESTIONE
9. L’arte della parola L’importanza della parola è una delle grandi scoperte dei sofisti, come dimostra la centralità da essi attribuita alla retorica. Nel loro argomentare, i sofisti facevano ricorso sia alla “macrologia”, cioè al discorso Discorsi lunghi lungo (dall’aggettivo makrós, “lungo”, “grande”), ossia al monologo retorico, sia alla e discorsi brevi “brachilogia”, cioè al discorso breve (dall’aggettivo brachýs, “breve”, “limitato”) usato nei dialoghi. Il discorso lungo doveva essere piuttosto articolato, sia per fornire adeguate motivazioni a favore di una certa tesi, sia per prevenire possibili obiezioni. Così sono strutturate, ad esempio, le celebri “difese” di Gorgia: il già citato Encomio di Elena e la Difesa di Palamede, nelle quali viene esposta e analizzata una serie esaustiva di tesi alternative, tutte poi escluse. Il discorso breve, invece, doveva essere immediato e pungente, per mettere in difficoltà gli avversari. In generale, la prassi a cui i sofisti ricorrevano era il confronto dialogico con l’avversario: La dialettica per questo il loro modo di argomentare è stato definito dialettica , termine che deriva dal verbo dialéghesthai (“dialogare”, “confrontarsi”) e che fa dunque riferimento alla capacità di confrontare le proprie opinioni con quelle altrui, sostenendo le proprie tesi e difendendole dai detrattori. Quest’uso trovava applicazioni concrete nei dibattiti forensi e in quelli politici. glossario p. 141 Per produrre le loro dimostrazioni e confutazioni, i sofisti usavano svariate tecniche, che L’eristica gli studiosi hanno cercato di catalogare. A volte si trattava di autentiche e rigorose modalità argomentative; altre volte di “trucchi” che deformavano impercettibilmente le tesi da combattere, per renderle più facilmente attaccabili. In ogni caso, poiché l’obiettivo dei discorsi dei sofisti era quello di far prevalere le loro tesi su una serie di tesi contrarie utilizzando i mezzi e gli espedienti retorici più adatti a questo fine, il loro atteggiamento complessivo è stato definito eristica , ovvero “arte del competere” (eristiké téchne, dal verbo greco erízein, che significa “contendere”, “combattere”). glossario p. 141 I sofisti non andavano necessariamente alla ricerca della verità; anzi spesso vi rinunciavano consapevolmente, soprattutto se questo rendeva più facile ottenere il risultato desiderato, ad esempio convincere un tribunale o una piazza. Dunque l’eristica non è propriamente una tecnica di discussione, ma una modalità generale di argomentare che, nelle varie situazioni, ricorre alle tecniche più opportune. Spesso, per confutare una tesi, i sofisti usavano contrapporla a un’altra ad essa contra- L’antilogica ria, per far vedere come le due posizioni si contraddicessero e si escludessero vicendevolmente, e per costringere così l’interlocutore ad abbandonare, o almeno a modificare, la sua posizione originaria. Questa tecnica, a cui abbiamo già accennato parlando delle Antilogie di Protagora e degli anonimi Ragionamenti doppi ( p. 126), e alla quale si possono ricondurre anche le celebri argomentazioni di Zenone di Elea contro la molteplicità e contro il movimento ( p. 67), viene definita antilogica , da “antilogia” (antiloghía), letteralmente “discorso contraddittorio” o “discorso doppio”. glossario p. 141
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10. Il problema del linguaggio I sofisti non si limitarono a mettere a punto raffinate tecniche retoriche, né a celebrare la potenza della parola, bensì tematizzarono quest’ultima sul piano filosofico, studiando i problematici rapporti del linguaggio con la realtà e con la verità. La crisi Come ormai abbiamo imparato, per i filosofi antichi il linguaggio non costituiva un indell’identità terrogativo, in quanto essi erano spontaneamente indotti a collegare, e quasi a non ditra linguaggio e realtà stinguere, la cosa reale, il pensiero che la conosce e la parola che la esprime. Anzi,
come si è visto in Parmenide, essi ritenevano che ciò che vale sul piano logico o del pensiero debba valere anche sul piano della realtà e viceversa, secondo l’equazione “pensiero = essere = verità”. In virtù della loro nuova impostazione filosofica, i sofisti scuotono queste primitive certezze e mettono in crisi il rapporto tra il linguaggio da un lato, e la verità e la realtà (o l’essere) dall’altro.
L’autonomia Se in Protagora la connessione tra il linguaggio e la realtà non era ancora andata del tute la potenza to perduta (anche perché trovava pur sempre un banco di prova nel criterio dell’utile), della parola in gorgia con la retorica di Gorgia la struttura essere-pensiero-linguaggio si spezza completa-
mente. In Gorgia, infatti, il linguaggio perde ogni potere rivelativo nei confronti della realtà e della verità, rendendosi completamente autonomo. Ciò aumenta la sua importanza e potenza, poiché, in mancanza di un criterio di giudizio extra-linguistico, la parola è tutto e può tutto. Con Gorgia, dunque, e con la sua esaltazione dell’illimitata capacità ammaliatrice della parola, la retorica si trasforma da arte del ben parlare in arte della suggestione e della persuasione, e chi la padroneggia può veramente dire di avere in mano le chiavi della città. Tant’è vero che nell’impostazione gorgiana la politica tende a ridursi a retorica. Il relativismo sofistico perviene così ai suoi esiti estremi.
natura o Le tesi paradossali di Gorgia (e in ciò risiede la loro importanza storica) stimolano a tal convenzione? punto la meditazione filosofica sul problema del linguaggio, che in seguito non sarà più
possibile eludere la questione della sua naturalità o convenzionalità. Ci si chiederà, cioè, se esso abbia un’origine naturale, che in qualche modo spiegherebbe e legittimerebbe la connessione tra parola (significante) e cosa (significata), oppure se sia convenzionale, e quindi del tutto autonomo rispetto alla realtà di cui parla. Tra i sofisti che si occupano di questo problema troviamo il già citato Prodico di Ceo, che da un lato accetta la teoria dell’autonomia e della convenzionalità del linguaggio (confermata a suo avviso dall’esistenza dei sinonimi, ovvero di quei termini che, pur essendo differenti, si riferiscono a uno stesso oggetto), ma che dall’altro lato non esclude una certa sua connessione, almeno originaria, con la realtà (dimostrata dall’etimologia delle parole). Al di là delle soluzioni proposte, le discussioni dei sofisti sul rapporto tra linguaggio e realtà segnano la transizione da una fase acritica della riflessione filosofica su questa tematica (fondata sul postulato dell’identità tra i due termini) a una fase critica (contrassegnata dalla consapevolezza della problematicità del loro rapporto) e pongono una serie di questioni che ancora oggi costituiscono tema di dibattito.
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
11. La crisi della sofistica Con la “seconda generazione” dei sofisti, corrispondente a grandi linee ai pensatori attivi a partire dal IV secolo a.C., si assiste alla crisi e alla dissoluzione del movimento. Estremizzando il metodo antilogico di Protagora e la teoria gorgiana dell’autonomia del La degenerazione linguaggio rispetto alla realtà, la sofistica giunge a configurarsi come eristica pura, ossia nell’eristica pura come arte di avere la meglio sulle affermazioni dell’avversario a qualunque costo, senza più alcun riguardo per la verità o falsità concettuale delle tesi sostenute. È significativo, ad esempio, che i due sofisti scelti da Platone come protagonisti del dialogo Eutidemo (Eutidemo e Dionisodoro) fossero effettivamente campioni di un virtuosismo verbale fine a sé stesso, basato su paradossi del tipo: «Non è possibile indagare né ciò che si sa, né ciò che non si sa: nel primo caso perché è inutile, nel secondo perché è impossibile». Contro una tale degenerazione, che impoverisce la filosofia riducendola a vuota retorica, si pronunceranno sia Platone sia Aristotele, coinvolgendo nella loro condanna anche la “priESERCIZI ma” sofistica. Occorre tuttavia notare che la degenerazione dell’eristica nel virtuosismo verbale riflette Il mutato anche il venir meno dei presupposti storico-sociali che avevano favorito il nascere del- contesto storico-sociale la sofistica, cioè la democrazia ateniese, la fioritura culturale del V secolo a.C. e la libertà greca. Scissi da questi “terreni” e privati della loro missione educativa, i sofisti erano destinati a trasformarsi in intellettuali sempre più “sradicati” e isolati rispetto alle correnti più vive della cultura e della filosofia.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa si intende per “dialettica” in riferimento all’attività dei sofisti. 2. Illustra la posizione di Gorgia sul rapporto tra il linguaggio e la realtà. 3. RIFLESSIONE CRITICA Pensi anche tu, come Gorgia, che la parola sia uno strumento potentissimo, capace di suggestionare e persuadere, e quindi di orientare i comportamenti degli altri? Puoi rispondere facendo riferimento alla tua esperienza o a casi di attualità. 4. In che cosa consistono le tecniche dell’eristica e dell’antilogica? 5. Quali sono i principali fattori che determinarono la crisi della sofistica?
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
Questa tesi spiega perché, in riferimento alla dottrina di Protagora, si parli di
• umanismo
sistema di pensiero che vede nell’essere umano (e non in entità a lui “esterne” o “superiori”) il “centro” e la “misura” delle cose, cioè il criterio per giudicare tutto ciò che si afferma o si nega intorno alla realtà;
CAPITOLO 1 I SOFISTI
• fenomenismo
(dal verbo greco pháinomai, “appaio”) termine coniato in età moderna per indicare quelle teorie secondo cui gli esseri umani non hanno mai a che fare con la realtà così com’è in sé stessa, ma soltanto con “fenomeni” (in greco phainómena), cioè con la realtà quale “appare” ai diversi soggetti;
I tratti generali della sofistica
• relativismo
concezione secondo cui non esistono verità teoretiche (relativismo conoscitivo) né princìpi morali (relativismo morale) che possano essere considerati “assoluti”, cioè “slegati” (dal latino ab-solutus, “sciolto da”) da una particolare angolatura di pensiero; ogni credenza è dunque “relativa” (dal latino relatus, participio passato di referre, “riferire”) a un determinato punto di vista.
Nell’Atene democratica del V secolo a.C. emerge una nuova figura di intellettuale, ovvero il
• sofista
(in greco sophistés, “sapiente”) un particolare tipo di filosofo che comincia a impartire insegnamenti a pagamento. Il termine acquisterà in seguito un’accezione spregiativa, finendo per designare un “mercenario” del sapere, più che un autentico sapiente.
Al centro dell’interesse filosofico dei sofisti non si trova più la natura, ma l’essere umano: anziché cercare il principio del cosmo, i sofisti si concentrano sulla politica, sulle leggi, sulle credenze religiose, sull’educazione, sul linguaggio, diventando filosofi dell’essere umano e della città. Il loro fine è rendere il cittadino adatto a vivere all’interno di una collettività e capace di difendersi nelle competizioni civili. Più precisamente, i sofisti fanno un uso libero e spregiudicato della ragione (tanto che la sofistica è stata vista come una sorta di “Illuminismo greco”); affermano il valore formativo del sapere (tanto che ampliano il tradizionale concetto di paidéia come “istruzione/educazione”, dandogli il valore più generale di “cultura”, ovvero “formazione globale” di un individuo); difendono istanze panelleniche e cosmopolitiche.
Il relativismo protagoreo, tuttavia, non conduce a una forma di “soggettivismo anarchico”, dal momento che individua come criterio di scelta tra le diverse dottrine e i diversi comportamenti la loro utilità per il singolo o per la comunità.
Gorgia L’altro grande esponente della sofistica è Gorgia di Lentini, il quale si mostra più negativo di Protagora riguardo alle possibilità conoscitive e pratiche dell’essere umano. Le sue tesi fondamentali sono tre: nulla esiste; se anche qualcosa esistesse, non sarebbe umanamente conoscibile; se anche fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile. Queste tesi configurano una posizione di radicale
• scetticismo
Protagora Il primo e il più importante tra i sofisti è Protagora di Abdera, al quale si deve il celebre principio che riassume lo spirito dell’intero movimento: «L’uomo è misura di tutte le cose».
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
(dal greco sképtomai, “guardo”, “osservo”) in generale, la posizione di chi mette in dubbio o nega la possibilità di accedere al vero (comunque inteso). In particolare, lo scetticismo metafisico o ontologico consiste nel porre in discussione la possibilità di conoscere l’essere o la realtà globalmente intesa, mentre lo scetticismo teologico o religioso nel dubitare di potersi pronunciare con sicurezza su Dio.
Lo scetticismo di Gorgia è anche una forma di
• agnosticismo
(dal greco ághnostos, “sconosciuto”) in generale, la posizione di colui che afferma di non avere strumenti mentali sufficienti per pronunciarsi intorno a un certo argomento. In filosofia si parla soprattutto di agnosticismo metafisico (posizione analoga a quella dello scetticismo metafisico) oppure di agnosticismo teologico o religioso (per alludere alla convinzione che l’uomo non possieda mezzi adeguati né per ammettere né per escludere l’esistenza di Dio).
Esclusi da certezze metafisiche o religiose, gli esseri umani possiedono tuttavia un potentissimo strumento: la parola, che può ammaliare e dominare l’ascoltatore, orientandone il comportamento.
La storia, la religione, le leggi Fra gli altri temi che caratterizzano la riflessione dei sofisti troviamo innanzitutto una nuova concezione della storia, che viene intesa come progresso reso possibile dallo sviluppo delle tecniche e della politica. I sofisti prendono poi posizione rispetto alle credenze religiose del loro tempo: se Protagora (come si è visto) formula la prima professione filosofica di agnosticismo religioso, Prodico di Ceo e Crizia denunciano l’origine umana delle credenze e delle pratiche religiose. Di grande rilievo è la riflessione sull’origine e sulla validità delle leggi che regolano la convivenza tra gli uomini: i sofisti contribuiscono a diffondere l’idea che l’ordine politico e giuridico non abbia origine divina, ma scaturisca da una “convenzione” tra i membri della società, tanto da poter essere trasformato in uno strumento di potere (usato dai governanti per i propri interessi) oppure di difesa dei deboli. Sebbene private di ogni sacralità, le leggi sono tuttavia indispensabili come correttivo della dimensione naturale degli esseri umani e come fondamento della vita associata.
L’arte della parola Una delle maggiori lezioni dei sofisti resta comunque la
• retorica
(dal greco retoriké téchne, “arte del dire”) la tecnica di costruire discorsi (scritti o parlati) piacevoli ed efficaci, capaci di persuadere gli ascoltatori. Tale arte della parola trova applicazione pratica soprattutto come
• dialettica
(dal verbo greco dialéghesthai, “dialogare”, “confrontarsi”) il confronto verbale con un avversario (particolarmente nei dibattiti politici o in quelli forensi) in cui si espongono e si difendono le proprie tesi.
Nelle loro orazioni i sofisti alternano discorsi lunghi, articolati e dettagliati (macrologie) a discorsi brevi e incisivi (brachilogie). Essi si servono inoltre di tecniche raffinate, quali:
• l’antilogica
(dal greco antiloghía, “discorso contrario”, composto a sua volta dalla preposizione antí, “contro”, e dal sostantivo lógos, “discorso”) tecnica argomentativa utilizzata per confutare una certa tesi, consistente nell’assumere provvisoriamente la tesi avversaria e nell’opporle una tesi contraria che la contraddice o la esclude, costringendo così l’interlocutore ad abbandonarla o a modificarla.
• l’eristica
(dal greco eristiké téchne, “arte del competere”, derivante a sua volta dal verbo erízein, “contendere”, “combattere”) l’arte di “battagliare” a parole per far prevalere la propria tesi, vera o falsa che sia, grazie a raffinati strumenti linguistici e retorici. Per “eristica” si intende abitualmente anche la fase conclusiva del movimento sofistico, in cui l’arte della parola si trasforma spesso in sterile virtuosismo retorico.
La grande attenzione riservata alla parola porta in primo piano il problema del linguaggio, che proprio grazie ai sofisti comincia ad essere considerato in maniera critica, distinto dalla realtà che descrive e nato da una convenzione umana.
141
MAPPE
CAPITOLO 1 I SOFISTI
LA SOFISTICA
sposta la riflessione filosofica
è considerata una sorta di
elabora un nuovo concetto di
dalla natura all’essere umano e alla città
Illuminismo greco
“cultura” (paidéia)
in virtù
intesa come
dell’uso critico della ragione
formazione globale dell’individuo
si fa portatrice di
istanze panelleniche e cosmopolitiche
PROTAGORA afferma che
l’uomo è misura di tutte le cose
nel senso che
l’essere umano è centro e giudice di ogni cosa (umanismo)
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la mente umana non conosce la realtà “in sé”, ma la realtà quale le “appare” (fenomenismo)
la verità e i valori non sono assoluti ma relativi (relativismo)
UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
nella vita l’unico criterio di scelta è quello dell’utilità (privata o pubblica)
GORGIA afferma che
nulla esiste, e se anche qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile, e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile
nella vita non esiste alcun criterio di scelta valido
ed esprime così un radicale
e
scetticismo metafisico/ontologico e teologico/religioso
la parola è un potentissimo strumento per persuadere e guidare gli altri
la storia
concepita come
progresso reso possibile dalle tecniche e dalla politica
rifiutata in virtù di una forma di agnosticismo religioso (Protagora) la religione
che viene
analizzata nella sua origine umana (Prodico e Crizia)
LE PRINCIPALI TEMATICHE AFFRONTATE DAI SOFISTI
sono
distinte dalle leggi naturali le leggi umane
che vengono
private di ogni sacralità denunciate come strumento di potere dei governanti o strumento di difesa dei deboli
oggetto specifico della retorica e della dialettica il linguaggio
che è
problematicamente distinto dalla realtà
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CAPITOLO 1 I SOFISTI
Protagora
Una corretta comprensione del pensiero dei sofisti incontra diversi ostacoli, primo fra tutti il fatto che non possediamo alcuna loro opera intera e che gran parte di quello che sappiamo su questi pensatori ci deriva da Platone, il quale fu molto ostile nei loro confronti. Platone, e in particolare il suo dialogo intitolato Teeteto, è la principale fonte di informazione anche per quel che riguarda la dottrina di Protagora, che di tutti i sofisti fu certamente il più famoso. TESTO
1
L’uomo è misura di tutte le cose (Platone, Teeteto) IL TESTO NELL’OPERA Teeteto – un giovane matematico il cui nome dà il titolo al dialogo platonico – discute con Socrate intorno alla definizione del concetto di scienza. Tre sono le risposte che, nel corso dell’opera, Teeteto dà alla questione: la prima identifica la conoscenza con la «sensazione», la seconda con l’«opinione vera», la terza con l’«opinione vera accompagnata da ragionamento». Tutte e tre le definizioni vengono confutate da Socrate, portavoce del pensiero di Platone, per il quale la vera conoscenza si fonda sull’essenza autentica delle cose, che sta al di là della percezione sensibile che si ha di esse. Il testo qui riportato è incentrato sulla prima risposta di Teeteto, le cui parole rispecchiano la concezione e l’insegnamento di Protagora: viene così presentata la celebre dottrina protagorea dell’uomo-misura di tutte le cose.
La conoscenza SoCRaTE Orsù dunque, o Teeteto, da capo: vedi di dirmi che cosa è conoscenza. E non mi ticome rar fuori che non sei capace: se il dio vuole, e tu ti sforzi un poco, ne sarai capacissimo. 2 sensazione
Ebbene, Socrate, poiché sei tu che mi esorti, sarebbe brutto non mi adoperassi in ogni modo a dire quello che ho in mente. Io credo dunque che chi conosce una cosa ha la sensazione della cosa che conosce; e perciò, almeno a quel che mi pare in questo momento, conoscenza non è altro che sensazione. SoCRaTE Proprio bene e bravo, caro figliolo: così si deve rispondere, mettendo in luce senz’altro il proprio pensiero. Se non che, esaminiamolo un po’ insieme codesto pensiero, se davvero è fecondo o sterile. Conoscenza, tu dici, è sensazione? TEETETo Sì. TEETETo
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
4 6 8 10
SoCRaTE Non è affatto spregevole, mi sembra, questa definizione che tu dai della conoscenza;
anzi, è quella che dette anche Protagora. Però Protagora la stessa cosa la disse in un modo 12 un poco diverso. Disse così: «Di tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che esistono che esistono, di quelle che non esistono che non esistono». L’hai letto tu il suo libro ? 14 TEETETo Moltissime volte l’ho letto. un sapere SoCRaTE E non viene egli in certo modo a dire questo, che quale ciascuna cosa appare a me, 16 basato tale codesta cosa è per me, quale appare a te, tale è per te; e uomini siamo tu e io? sull’apparenza
Proprio così dice. È verosimile che uomo così saggio non dica cosa insensata. Seguiamo dunque il suo ragionamento. Non accade talora che, soffiando lo stesso vento, l’uno di noi abbia freddo e l’altro no? E che l’uno abbia freddo un poco e l’altro molto? TEETETo Sì certo. SoCRaTE E allora dimmi, considerandolo in se stesso, quel vento, in quel momento, come lo diremmo, freddo o non freddo? O ammetteremo, con Protagora, che per chi ha freddo è freddo, per chi no, non è freddo? TEETETo Così direi. SoCRaTE E non anche appare così, freddo e non freddo, all’uno e all’altro? TEETETo Sì. SoCRaTE Ma questo “appare” non è lo stesso che “averne la sensazione”? TEETETo Appunto. SoCRaTE Dunque, rispetto al caldo e a tutti gli esempi di simil genere, apparenza e sensazione si equivalgono: quale sente, ciascuno, una data cosa, tale è anche codesta cosa per ciascuno. TEETETo Sembra. TEETETo
18
SoCRaTE
20 22 24 26 28 30 32 34
Il relativismo SoCRaTE E sensazione, in quanto è conoscenza, si dà sempre di cosa che è; né è soggetta a della teoria errore. 36 di Protagora
È chiaro. SoCRaTE In nome delle Càriti1! E dunque fu uomo di gran sapienza questo Protagora, il quale al pubblico grosso [grossolano] come noi disse queste cose in enigma, ma ai suoi discepoli espose in segreto la verità. TEETETo Che cosa vuoi dire, o Socrate, con codesto? SoCRaTE Te lo dirò; si tratta di una dottrina assai rinomata. Questa: nessuna cosa è per se stessa una sola; tu non puoi, correttamente, dar nome a una cosa, né a una sua qualità; se tu, per esempio, chiami alcuna cosa grande, ecco che essa potrà apparire anche piccola; se la chiami pesante, potrà apparire anche leggera; e così via per tutto il resto, perché niente è uno, né sostanza, né qualità. Dal mutar luogo, dal muoversi, dal mescolarsi delle cose fra loro, tutto diviene ciò che noi, adoprando un’espressione non corretta, diciamo che “è”; perché niente mai è, ma sempre diviene. Su questo punto tutti i filosofi, uno dopo l’altro, a eccezione di Parmenide, si deve ammettere che sono d’accordo […]. TEETETo
1. Le Càriti nominate nell’esclamazione sono divinità greche dispensatrici di grazia e bellezza, che i latini chiameranno “Grazie”.
40 42 44 46 48
TESTI PROTAGORA
(Platone, Teeteto, 151d - 152e, trad. it. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1971)
38
145
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La conoscenza come sensazione (rr. 1-15) Invitato da Socrate a definire la conoscenza, il giovane Teeteto (che nella realtà fu un insigne matematico contemporaneo di Platone) la riconduce alla sensazione, ovvero alla percezione delle cose attraverso i sensi. Dopo aver osservato che questa è la definizione di Protagora, Socrate precisa tuttavia che il filosofo di Abdera la espresse in maniera un po’ diversa, ovvero affermando che “l’uomo è misura di tutte le cose”. Un sapere basato sull’apparenza (rr. 16-34) Con una sottile analisi, Socrate (ovvero Platone) cerca di chiarire il significato della dottrina protagorea dell’uomo-misura, che egli intende riferita al singolo individuo (e non, ad esempio, al genere umano). L’esempio del vento (che è freddo per chi lo percepisce freddo e non è freddo per chi non lo percepisce tale) aiuta a concretizzare un ragionamento che diversamente rimarrebbe astratto e difficile da seguire. Socrate può così concludere che “apparire” ha lo stesso significato di “essere percepito”, ovvero che la conoscenza sensibile coincide con l’apparenza, cioè con il relativo apparire delle cose ai diversi individui. Il relativismo della teoria di Protagora (rr. 35-49) Osservando che la sensazione, in quanto conoscenza di ciò che è, è senza errore, Socrate sottolinea un aspetto di fondamentale importanza, e cioè che le perce-
zioni, in quanto tali, sono infallibili. In altre parole, il fatto che un certo individuo abbia una certa sensazione è incontestabile, come è incontestabile che ciò che egli percepisce sia come egli lo percepisce. In altri termini ancora, tutte le percezioni sono vere, o, il che è lo stesso, non esistono percezioni false. Il radicale relativismo a cui conduce la dottrina protagorea della conoscenza (un esito di cui Platone vuole sottolineare l’insostenibilità) risulta così palese, e viene evidenziato con ironia dallo stesso Socrate, che lo presenta a Teeteto come «la verità» (r. 40) segretamente rivelata da Protagora ai suoi discepoli. Nella parte conclusiva del testo (rr. 42-49) il relativismo di Protagora viene collegato (da Platone) alla dottrina del divenire di Eraclito e, più in generale, alla dottrina di tutti i filosofi presofisti (a eccezione di Parmenide), i quali non poterono negare l’incessante divenire e mutare delle cose di cui l’essere umano fa esperienza. In realtà, diversamente da quanto Platone fa dire a Socrate, Protagora ebbe legami profondi proprio con l’eleatismo: Parmenide, infatti, sosteneva che la via che porta alla verità è la via del pensiero e che l’oggetto di questa conoscenza è sempre l’essere, mai il non essere; Protagora afferma in fondo la stessa cosa, anche se in riferimento alla conoscenza sensibile.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS L’unica evidenza che Protagora ammette in ambito gnoseologico è quella sensoriale. Il filosofo non nega che le cose esistano al di fuori del soggetto che le conosce, ma si rifiuta di ammettere che esse, in quanto tali, possano costituire il parametro della veridicità o della scorrettezza del sapere. Condividi questa prospettiva? Quali sono, a tuo avviso, i punti di forza e i punti di debolezza del relativismo gnoseologico di Protagora? Rispondi in uno scritto argomentato, riportando se possibile alcuni esempi concreti (max 30 righe).
gorgia
Un aspetto interessante della vita culturale dell’Atene del V-IV secolo a.C. è la consapevolezza (per molti versi nuova nella storia del pensiero) della complessità del rapporto tra linguaggio e realtà. Su questo problema si esprimono sia Protagora, attraverso le sue antilogie, sia Gorgia, che con la sua arte retorica scardina completamente il rapporto di identità tradizionalmente accettato tra essere, pensiero e parola. Quest’ultima diviene così uno strumento autonomo rispetto a qualunque criterio di verità e acquista un’inedita e illimitata potenza.
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
TESTO
2
Le ragioni dell’innocenza di Elena (Encomio di Elena) IL TESTO NELL’OPERA Nell’Encomio di Elena Gorgia intende scagionare la moglie di Menelao dalla terribile accusa di avere provocato la sanguinosa guerra di Troia, abbandonando il marito per seguire Paride. Nella prima parte dell’opera il filosofo espone le possibili cause del comportamento di Elena: una forza superiore (caso, necessità o volere divino), una forza umana (quella del rapitore), la forza persuasiva delle parole, la forza divina dell’amore. Nel testo proposto di seguito Gorgia analizza una per una queste cause, dimostrando l’innocenza di Elena con un mirabile gioco dialettico.
La forza Se è per il primo motivo [Caso, Necessità o Dèi], è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché superiore del la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non 2 volere divino
che il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; e il più forte guidi, il più debole segua. E la Divinità supera l’uomo e in forza e in 4 saggezza e nel resto. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata. 6
La forza fisica E se per forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che umana del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subì una 8
sventura. Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’accusa; legal- 10 mente, l’infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e della patria privata, e dei suoi cari orbàta [privata], come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? 12 ché quello compì il male, questa lo patì; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti. 14
La forza Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e ammaliatrice a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibi- 16 della parola 18 20 22 24 26 28
La forza Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’amore a compiere il indomabile tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’accusa dell’errore attribuitole. Infatti la natura del- 30 dell’amore
le cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna; e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. 32 […] D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesel- 34 late sogliono offrire agli occhi un gradito spettacolo. Sicché certe cose per natura addolorano la vista, certe altre l’attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone 36
TESTI GORGIA
lissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi, infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. […] se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata.
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inspirano l’amore e il desiderio. Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro [Paride], inspirò all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? il quale 38 amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? e se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da 40 condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente; e per ineluttabilità d’amore, non per 42 artificiosi raggiri. conclusione Come dunque si può ritener giusto il disonore gettato su Elena, la quale, sia che abbia agi- 44
to come ha agito perché innamorata, sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza, sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa? 46 Ho distrutto con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza 48 di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico. 50 (DK 82 B 2, trad. it. di M. Timpanaro Cardini, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1981)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La forza superiore del volere divino (rr. 1-6) Gorgia analizza la prima causa possibile del comportamento di Elena: non si può andare contro la decisione degli dèi, i quali superano l’uomo in forza e in saggezza. Il Caso (o il Fato, il destino) e la Necessità sono elementi fondamentali nella concezione della vita propria dei Greci e, poiché contro i loro decreti l’essere umano è considerato del tutto impotente, costituiscono il cardine di tutte le tragedie classiche. La forza fisica umana (rr. 7-14) Se invece la causa fu la forza, o la violenza, usata nei confronti di Elena, allora non si trattò di una fuga, bensì di un rapimento, e il rapitore (il «barbaro», r. 9) merita di essere punito verbalmente (con la riprovazione), legalmente (con la perdita dei diritti civili) e praticamente (con una punizione concreta). La forza ammaliatrice della parola (rr. 15-28) Non è difficile scagionare Elena anche nel caso in cui sia stata convinta a parole. La parola, infatti, ha il potere di persuadere e di illudere l’animo (nel senso di “ingannare”, dal latino in, “dentro”, e ludus, “gioco”) come un «gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere» (rr. 16-17): una descrizione particolarmente suggestiva, che evoca con efficacia il grande potere del discorso, con il quale si può penetrare nel profondo dell’animo umano e suscitarne, intensificarne o mitigarne le emozioni. Sulla parola come possibile movente del comportamento di Elena, Gorgia si sofferma più che sulle altre
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cause: se ben condotto, qualunque discorso può essere efficace come un discorso in versi («discorso con metro», r. 20) e, narrando fortune e sfortune di altri, può fare soffrire o gioire l’animo di chi ascolta come se i casi narrati lo coinvolgessero in prima persona. La forza indomabile dell’amore (rr. 29-43) Nell’analisi della quarta possibile causa (l’amore) Gorgia si concentra, più che sull’amore, sulla vista, di cui l’amore sembra essere una conseguenza. Nella descrizione gorgiana la vista gioca lo stesso ruolo attribuito nelle righe precedenti alla parola: la vista di qualcosa di bello e desiderabile può esercitare un fascino al quale l’anima non può sottrarsi a lungo. È ciò che avviene di fronte a un dipinto o a una scultura, che ci “rapiscono” senza che sappiamo dire perché. Inoltre – prosegue Gorgia – l’amore è un dio (nella tradizione greca si trattava di Eros, divino fanciullo alato che aveva il potere di far cadere innamorati uomini e donne) e possiede la potenza degli dèi, alla quale nessun essere umano può resistere. Infine – conclude Gorgia – se l’amore fosse una condizione patologica della psiche («infermità umana» e «cecità della mente», r. 40), anche in questo caso non si potrebbe imputare alcuna colpa all’innamorato, il quale sarebbe semplicemente un individuo che ha avuto la sventura di “ammalarsi”. Conclusione (rr. 44-50) Una volta richiamate le possibili cause del comportamento di Elena (peraltro, con grande raffinatezza stilistica, in ordine inverso rispetto alla presentazione), Gorgia osserva di avere tenuto
UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
fede ai propri propositi, che, secondo quanto dichiarato all’inizio del discorso, consistevano nel «liberar [Elena] dall’accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e svelata la verità, far cessare l’ignoranza». Ma
il discorso di Elena è stato soprattutto un pretesto per svelare i sottili poteri della parola, un «gioco dialettico» (r. 49) per mostrare la forza persuasiva di un discorso ben condotto.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO La riflessione di Gorgia mette in discussione il rapporto di rispecchiamento tra linguaggio e realtà: la parola non è più una raffigurazione della verità, ma può essere inganno e illusione. Rifletti su come nel mondo contemporaneo il linguaggio (o meglio i linguaggi dei diversi media) siano talora in grado di creare illusioni e di usarle per persuadere. Esprimi e argomenta la tua opinione al riguardo (max 30 righe).
antifonte
La filosofia di Antifonte non ha riscosso grande interesse presso gli studiosi fino al 1915, quando sono stati pubblicati due estesi frammenti di una sua opera, Sulla verità, che hanno rivelato la figura di un pensatore acuto e originale. L’evento ha risollevato anche un vecchio problema di storia della filosofia, e cioè se l’Antifonte sofista (quello dei frammenti) sia lo stesso Antifonte di cui parla Tucidide nella Guerra del Peloponneso (VIII, 68, 90), abile oratore e membro del governo oligarchico che nel 411 a.C., per pochi mesi, detenne il potere in Atene. Tuttavia, al di là di questa possibile identificazione, è significativo il pensiero che emerge dai frammenti ritrovati e che si colloca in quel filone della sofistica interessato a chiarire il rapporto esistente tra legge (nómos) e natura (phýsis). TESTO
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Le leggi della natura e le leggi dell’uomo (Papiro di Ossirinco, XI, 1364) Nel testo qui riportato viene esposta l’idea che le leggi della natura e quelle degli uomini si trovino tra loro in una posizione di antitesi.
disce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da natura, se 4 anche nessuno se ne accorga, non minore è il male, né è maggiore se anche tutti lo sappiano; perché si offende non l’opinione, ma la verità. 6
Leggi contro Questo essenzialmente è l’oggetto della nostra indagine, che cioè la maggior parte di natura quanto è giusto secondo legge, si trova in contrasto con la natura; così per legge è prescrit- 8
to agli occhi ciò che debbono guardare e ciò che no; alle orecchie ciò che debbono udire e ciò che no; alla lingua ciò che deve dire e ciò che no; alle mani ciò che debbono fare e ciò che 10 no; ai piedi dove debbono andare e dove no; e all’animo ciò che deve desiderare e ciò che no. Eppure alla natura non sono né più gradite né più affini le cose che le leggi ci vie- 12 tano, di quelle che esse ci consigliano. Perché tanto la vita che la morte son cose di natura; e la vita proviene agli uomini da ciò che è utile, la morte da ciò che è dannoso. E quanto 14
TESTI ANTIFONTE
Leggi […] le norme di legge sono accessorie, quelle di natura essenziali; quelle di legge sono conaccessorie e cordate, non native; quelle di natura sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgre- 2 leggi essenziali
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all’utile, ciò che è descritto dalla legge è un inciampo per la natura, ciò che è prescritto da natura è libero; onde non è logicamente possibile che ciò che dispiace giovi alla natura più 16 di ciò che piace; né, perciò, può essere più utile il dolore del piacere. Perché ciò che è utile davvero, deve recar giovamento, non danno. 18 (DK 87 B 44a, trad. it. di M. Timpanaro Cardini, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Leggi accessorie e leggi essenziali (rr. 1-6) Il tratto fondamentale che distingue le leggi di natura rispetto a quelle umane (civili) è la loro genesi: se le prime sono originarie («native», r. 2), cioè coeve all’uomo stesso e a lui connaturate, le seconde sono «accessorie» (r. 1) e «concordate» (rr. 1-2), ovvero create in seguito, quindi differenti a seconda degli uomini che le hanno formulate. L’opposizione tra originarietà e convenzione diventa in Antifonte un aspetto dell’opposizione eleatica tra verità e opinione. Leggi contro natura (rr. 7-18) Dopo avere motivato teoreticamente la superiorità delle leggi della natura rispetto a quelle dello Stato, Antifonte chiarisce che il rapporto tra phýsis e nómos è perlopiù un rapporto di contrasto. La natura, infatti, ha dato ai diversi organi del corpo umano particolari funzioni, che le leggi del-
lo Stato tendono a deviare, o quanto meno a limitare, prescrivendo quali debbano essere gli oggetti dell’attività a cui i vari organi sono deputati. Interessante è l’osservazione sull’utilità di ciò che la natura spinge a desiderare: si desidera ciò che è utile, e ciò che è utile giova alla vita (così come ciò che è dannoso la ostacola) indipendentemente dalle prescrizioni umane. Antifonte introduce così un nuovo argomento, secondo il quale il giusto e l’ingiusto dovrebbero coincidere con l’utile e il dannoso, piuttosto che con quanto prescritto dalle leggi dello Stato. Anzi, spesso ciò che la legge prescrive si rivela un ostacolo per la natura e non è possibile che ciò che ostacola la natura sia più utile agli uomini di ciò che non la ostacola, così come non è possibile che il dolore sia più utile del piacere.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Antifonte «non è logicamente possibile che ciò che dispiace giovi alla natura più di ciò che piace; né, perciò, può essere più utile il dolore del piacere». A tuo avviso, si tratta di un principio universalmente condivisibile e applicabile a qualsiasi situazione, tanto da farne una legge? In base alla tua risposta, cerca evidenze che possano avvalorare o mettere in discussione questa tesi, attingendo anche alla tua esperienza personale, quindi riporta le tue considerazioni in un testo scritto (max 30 righe).
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UNITÀ 2 L’InDagIne suLL’essere umano: I sofIstI e socrate CapITolo 1 I sofisti
CAPITOLO 2 SOCRATE
Chi si mette a sentire i discorsi di Socrate troverà che essi soli hanno una mente, e poi che sono i più divini e pieni di ogni immagine di virtù. (Platone, Simposio, 222a)
La personalità di Socrate segna un momento fondamentale nella filosofia greca antica e nell’intera storia intellettuale dell’Occidente. La sua vita e il suo pensiero avranno una vasta eco, che contribuirà a tramandare attraverso i secoli la concezione dell’indagine filosofica come ricerca e dialogo incessanti. Le testimonianze su Socrate divergono talvolta in merito all’interpretazione del suo insegnamento, ma in generale concordano su un punto: il fascino profondo che emanava dalla sua persona, un fascino contrastante con la sua immagine. Socrate, infatti, è stato spesso descritto come brutto, con naso largo e grosso, occhi sporgenti e pancia prominente. Egli non possedeva alcuno dei tratti convenzionali con cui la tradizione descriveva i sapienti; tuttavia sembrava dotato di un fluido magnetico, grazie al quale affascinava e inquietava quanti si soffermavano ad ascoltarlo. Le sue parole scavavano nell’anima degli interlocutori, costringendoli a un’analisi lucida e onesta di sé stessi e della vita.
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Il fascino della ricerca dialogante
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La filosofia come missione Con le parole riportate nel riquadro a fianco, l’oratore e scrittore latino Cicerone (106-43 a.C.), a più di tre secoli dalla morte di Socrate, ricorda l’indissolubile legame tra vita e pensiero che ne aveva contraddistinto l’avventura intellettuale. La filosofia di Socrate coincide interamente con la sua esistenza, tanto da non trovare espressione in opere scritte, né in un sistema teorico compiuto o in una tecnica o professione da insegnare. L’indagine filosofica, per Socrate, si risolve interamente in uno stile di vita, nella scelta di consacrare la propria esistenza alla ricerca del sapere, perché proprio in questa ricerca risiede l’unico autentico significato della vita umana. Ma le parole di Cicerone suggeriscono che la filosofia, per Socrate, coincide con la vita anche in un altro senso: egli la strappa «dal cielo» per farla abitare «nella città», cioè la allontana dalle questioni riguardanti l’ordine immutabile della natura e del cosmo, e la rivolge all’esistenza concreta dei cittadini nella pólis e ai problemi che essa solleva. È ancora una volta Platone a illuminare questo temperamento “politico”, riportando in uno dei suoi dialoghi le parole rivolte a Socrate da un interlocutore – «Mirabile amico, […] tu non lasci mai la città per recarti oltre confine e mi sembra che non esca affatto dalle mura» – e la risposta data dal filosofo:
Socrate fu il primo a richiamare la filosofia dal cielo, a collocarla nella città, a introdurla nelle case e a costringerla ad occuparsi della vita, dei costumi e delle cose buone e cattive. (Cicerone, Orazioni Tuscolane, V, 10)
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di SOCRATE
‘
Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono (Platone, Fedro, 230 c-d) insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì.
La giovinezza e la formazione Socrate nasce ad Atene nel 470/469 a.C. Sappiamo da Platone che la madre, Fenarete, era una levatrice (cioè un’ostetrica) molto abile, mentre da altre testimonianze apprendiamo che il padre, Sofronisco, era un artigiano che scolpiva la pietra. Ed è proprio al mestiere dei suoi genitori che Socrate ricondurrà le proprie capacità più peculiari: l’arte di aiutare a “partorire” idee e l’arte di “scolpire” le coscienze mediante la ragione. Pur non appartenendo a un ambiente aristocratico, molto probabilmente enciclosofia Socrate riceve l’educazione riservata agli ateniesi benestanti. Egli termiefebìa Era detto na l’efebìa intorno al 450 a.C., cioè quando Atene è al culmine del suo “efebìa” (dal sostantivo épheboi, con cui si splendore, durante quella che diverrà nota come “età di Pericle” ( p. 116). indicavano i giovani che Sullo slancio delle vittorie ottenute contro i Persiani, Pericle imprime alla citavevano raggiunto la tà una politica di espansione economica e militare su tutto il mar Egeo, fahébe, cioè l’adolescenza) cendone al contempo un centro propulsore di cultura. il biennio durante il quale In questo contesto va collocato l’arrivo ad Atene di Anassagora di Clazoi ragazzi tra i 18 e i 20 anni venivano addestrati mene, il quale si era trasferito in città nel 463 a.C., portando nel continente a servire lo Stato, la filosofia naturalistica nata nelle colonie greche della Ionia e dell’Italia diventando così cittadini meridionale. Grazie all’amicizia di Pericle, Anassagora rimane ad Atene con pieni diritti.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate IL RACCONTO DI UNA VITA
diversi anni, fino a quando, accusato di empietà, non sarà condannato a morte e costretto all’esilio ( p. 83). Ed è proprio al pensiero di Anassagora che si accosta il giovane Socrate, il quale, però, molto presto lo abbandona, preferendo mettere al centro della propria ricerca non la natura, ma l’essere umano. La tradizione ha sottolineato con forza questa “conversione” dalla filosofia naturalistica a un’indagine sull’essere umano, scorgendovi l’atto di nascita dell’“umanesimo” occidentale ( “Dalla vita al pensiero”).
L’esperienza come soldato Nel 431 a.C. scoppia la guerra del Peloponneso. Scatenato sostanzialmente dalle mire espansionistiche ateniesi, per quasi trent’anni il conflitto vedrà contrapporsi, con fasi alterne, la lega peloponnesiaca capeggiata da Sparta e la lega delio-attica raccolta intorno ad Atene. Nel corso della guerra Socrate partecipa a tre campagne militari. 1. Secondo quanto riportato da Platone nel Simposio, già nel 432 a.C. fa parte del contingente inviato da Pericle ad assediare Potidea, città della penisola Calcidica che si era ribellata all’egemonia ateniese. Armato come oplita, Socrate combatte valorosamente e salva la vita ad Alcibiade, figlio adottivo di Pericle e futuro generale che giocherà un ruolo importante nelle scelte politiche e militari di Atene. Meritatosi un’onorificenza per il suo atto di coraggio, farà in modo che sia Alcibiade a beneficiarne.
enciclosofia
oplita
Con il termine “opliti” si indicavano nell’antica Grecia i fanti dall’armatura pesante, composta da uno scudo, una corazza a protezione del busto, gli schinieri (che coprivano le gambe dal ginocchio in giù), l’elmo e una lancia o una spada.
L’essere umano come intelligenza libera DALLA VITA AL PENSIERO
L’abbandono, da parte di Socrate, della filosofia naturalistica appresa da Anassagora costituisce un passaggio fondamentale per l’intera storia del pensiero: si può dire, infatti, che questa scelta segni la nascita dell’“umanesimo” occidentale, cioè di quella visione filosofica che fa leva sulla centralità del soggetto umano e sulla dignità che gli deriva dall’essere intelligenza operante e libera.
Una nuova nozione di “causa” Secondo quanto narrato da Platone nel Fedone, da giovane Socrate si appassiona al metodo dei naturalisti e al corrispondente modello di spiegazione della realtà, teso a individuare le cause di ogni cosa ricorrendo alla materia e al suo movimento, cioè a princìpi fisici: quando ero giovane, fui preso da una vera passione per quella scienza che chiamano indagine della natura. E veramente mi pareva scienza altissima codesta, conoscere le cause di ciascuna cosa, e perché ogni cosa si genera, perisce ed è. (Platone, Fedone, 96a)
Socrate condivide l’idea secondo cui la filosofia deve interrogarsi sul «perché» delle cose, sulle loro
«cause», rendendo ragione di ciò che accade. Egli, tuttavia, interpreta in modo nuovo la nozione di “causa”, nella convinzione che, da indagine fisica, la filosofia debba trasformarsi in indagine morale: la ricerca delle cause meccaniche di un fenomeno (il perché inteso come principio fisico che produce qualcosa) deve diventare una riflessione razionale su ciò che è bene e male per l’essere umano (il perché inteso come scopo dell’azione).
La ragione “al di sopra” della natura Non è un caso che, tra i filosofi naturalisti, Socrate prediliga proprio Anassagora: pur in una prospettiva strettamente fisica, questi era stato il primo a ipotizzare una mente divina (il noús) che governa la materia in vista del bene. Anassagora, cioè, aveva intuito che la materia non ha in sé il proprio principio di spiegazione, il quale deve invece essere ricercato in un’intelligenza superiore. Procedendo su questa stessa via, Socrate afferma che “causa” (in senso forte) è la ragione, la quale solleva gli uomini al di sopra della realtà fisica perché valuta, decide e opera non sulla base di impulsi sensibili e cause naturali, ma discernendo ciò che è bene da ciò che è male.
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Sull’esperienza di Socrate a Potidea, Platone riferisce anche un altro episodio significativo, narrando che il filosofo, durante il combattimento, per un intero giorno e un’intera notte era rimasto immobile e in piedi, in una sorta di trance, per meditare su un problema di cui non trovava la soluzione:
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Doveva aver avuto un’idea improvvisa. E dall’alba si era radicato lì, assorto. Ma la conclusione non arrivava. Lui non cedeva, sempre lì, in piedi, a indagare. […] Restò in piedi finché venne nuovamente il giorno e il sole si alzò. Allora si mosse e andò via. (Platone, Simposio, 220c)
2. Nel 429 a.C. Pericle muore in un’epidemia di peste, ma Atene, capeggiata dal partito democratico di Cleone, continua la sua politica imperialistica. Per far fronte a una lunga serie di campagne militari, tutti gli uomini in grado di combattere sono chiamati alle armi. Tra questi c’è Socrate, ormai più che quarantenne. Armato per la seconda volta come oplita, nel 424 a.C. combatte nella sfortunata battaglia di Delio, in cui gli ateniesi perdono la possibilità di sottomettere la Beozia. 3. Nel 422 a.C. Socrate partecipa alla sua terza impresa militare: la fase finale della battaglia di Anfipoli (in Tracia, al confine con la Macedonia), durante la quale trova la morte Cleone e che si conclude anch’essa con la sconfitta ateniese. L’anno successivo Atene e Sparta, sfinite entrambe dal decennio di guerra appena terminato, stipulano una tregua (la cosiddetta “pace di Nicia”): il filosofo può così tornare ad Atene, da cui non si allontanerà più.
La progressiva frattura con la pólis Rientrato in patria, Socrate riprende a frequentare assiduamente la piazza, il mercato e tutti i luoghi dove gli è possibile incontrare i concittadini e confrontarsi con loro in discussioni vivaci. In questi anni sposa Santippe, dalla quale avrà tre figli (Lamprocle, Sofronisco e Menesseno). Una lunga tradizione descrive la donna come litigiosa, petulante e molesta: il suo carattere avrebbe messo a dura prova la paziente capacità di sopportazione del filosofo. Nel Fedone, però, Platone riferisce che, di fronte all’imminente morte del marito, «piangeva battendosi il petto». Dopo la sconfitta di Anfipoli (422) e la morte di Cleone, la scena politica ateniese è dominata dal brillante e spregiudicato Alcibiade, che da giovane aveva seguìto l’insegnamento di Socrate e che nel 420 è nominato stratego, ovvero comandante dell’esercito. Nel 418 a.C. l’accordo di pace tra Atene e Sparta viene violato e le ostilità riprendono. Passato dal partito democratico a quello conservatore, nel 416 Alcibiade progetta e caldeggia una spedizione in Sicilia, il cui fallimento contribuirà a farlo allontanare da Atene. Dopo alterne vicende, nel 406 a.C. la città ottiene un’importante vittoria sugli spartani presso le isole Arginuse (a est dell’isola di Lesbo), ma una tempesta impedisce ai combattenti ateniesi di portare in salvo i naufraghi sopravvissuti al conflitto (circa 4000 uomini, per metà schiavi). Gli otto strateghi al comando della flotta vengono allora messi sotto accusa dall’Assemblea popolare, la quale, manipolata da abili demagoghi, conduce il processo irregolarmente, in maniera tale da non lasciare alcuna possibilità di scampo agli accusati, che vengono tutti condannati a morte. L’unico a opporsi è Socrate, che invano cerca di ricondurre i concittadini alla ragione e all’applicazione delle regole. L’episodio mostra come Socrate scelga sempre di stare «dalla parte della legge e della giustizia» (Platone, Apologia di Socrate, 32c), anche quando ciò significa contrapporsi ai più, assumendo una posizione scomoda o pericolosa. Lo strappo con la città di Atene e con i suoi organi di governo sembra ormai inevitabile.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate IL RACCONTO DI UNA VITA
Il processo e la condanna Nel 404 a.C. la guerra del Peloponneso si conclude con la sconfitta di Atene. Sparta impone ad Atene un governo oligarchico, incaricando i cosiddetti Trenta tiranni di redigere una nuova costituzione. Fra i Trenta e i loro sostenitori ci sono anche due amici di Socrate, gli zii di Platone Crizia e Carmide, che cercano in vari modi di coinvolgere il filosofo nella politica del governo. In particolare, secondo la testimonianza di Platone (Apologia di Socrate), Crizia gli affida il compito di arrestare un certo Leonzio di Salamina, la cui sola colpa è quella di far parte dell’opposizione democratica. Anche in questa circostanza, indifferente all’intimidazione di uno degli uomini più potenti di Atene e incurante delle sue minacce, Socrate si rifiuta di rendersi complice di un gesto così ingiusto. Poco più tardi (403 a.C.), alcuni esuli democratici guidati da Trasibulo e Anito rientrano in città, rovesciano il regime dei Trenta tiranni e, dopo un duro scontro con la fazione oligarchica (nel quale sia Crizia sia Carmide perdono la vita), riportano il partito democratico al governo. La restaurata democrazia, che pure è tesa a pacificare le fazioni opposte e a ricostruire la pace interna, mostra subito una forte avversione nei confronti di Socrate, nonostante egli sia da sempre un democratico. Nel 399 a.C. uno sconosciuto poeta di nome Meleto consegna alle autorità giudiziarie la seguente accusa:
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Meleto, figlio di Meleto del demo Pito, presenta e giura le seguenti accuse contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 40)
Insieme con Meleto, a sostenere l’accusa ci sono l’oratore Licone e Anito. Al processo, Socrate sceglie di difendersi da solo e pronuncia un appassionato discorso (riportato da Platone nell’Apologia di Socrate) in cui confuta punto per punto le accuse mossegli. Nonostante ciò, i giurati del tribunale popolare, a stretta maggioranza, deliberano la sua condanna a morte. La legge ateniese prevedeva che il condannato potesse scegliere di andare in esilio oppure proporre una pena alternativa a quella richiesta dall’accusa, ma Socrate non si avvale di tale diritto: con sprezzante ironia afferma che, se dovesse chiedere ciò che davvero gli spetta, dovrebbe pretendere di essere mantenuto a spese dello Stato nel Pritanèo, come riconoscimento per la funzione meritoria svolta interrogando gli ateniesi e cercando di risvegliarli dal loro torpore. Di fronte a questa ennesima sfida, appare inevitabile la pena di morte, da portare a compimento somministrando un preparato velenoso a base di cicuta. enciclosofia Trenta tiranni I trenta magistrati che, imposti da Sparta, presero il potere ad Atene nel 404 a.C., al termine della guerra del Peloponneso. Incaricati di elaborare una nuova costituzione oligarchica, di fatto i Trenta instaurarono un regime di terrore, che ebbe fine nel 403 a.C. con la restaurazione della democrazia.
Pritanèo Il palazzo pubblico (in greco Prytanéion) in cui si riuniva il collegio dei Pritani. Costituiva il cuore della vita politica, amministrativa e giuridica, e al suo interno si era soliti ospitare e mantenere a spese della città quanti venivano giudicati degni di un tale onore.
I resti del pritaneo di Delo. Tutte le principali città greche avevano un pritaneo, con funzioni analoghe a quello di Atene.
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L’ora della morte Quando viene pronunciata la condanna, dal porto del Pireo è appena salpata, alla volta di Delo, la nave consacrata a Teseo che commemora la liberazione di Atene dal giogo del Minotauro. La tradizione vuole che in occasione di questo viaggio le condanne a morte siano sospese. Ma Socrate non approfitta neppure di questo ritardo, e rifiuta l’evasione progettata dall’amico Critone, preferendo morire rispettando le leggi della sua città piuttosto che vivere in esilio tradendole. Anche l’ultimo momento di vita diventa per lui un’occasione per discutere, comprendere, ricercare; è questa l’incontenibile pulsione che lo ha sempre animato, e che lo guida anche, nell’atto di attraversare le porte dell’Ade, dove – egli dice – potrà discutere con i grandi personaggi del passato:
‘
Per stare con Orfeo e con Museo, con Esiodo e con Omero, quanto ciascuno di voi accetterebbe di pagare? […] da parte mia sono disposto a morire più volte. […] Discutere con loro e starci insieme e metterli sotto esame non sarebbe un’inconcepibile felicità? (Platone, Apologia di Socrate, 41b-c)
Un personaggio complesso Un fascino particolare Secondo le testimonianze, la figura di Socrate aveva qualcosa di strano e affascinante insieme, che non sfuggiva a chi lo avvicinava. La sua apparenza fisica urtava contro l’ideale ellenico dell’anima saggia racchiusa in un corpo bello e armonioso: Socrate assomigliava infatti a un sileno e ciò era in stridente contrasto con il suo carattere morale e con la padronanza di sé, che egli conservava in tutte le occasioni. Per la sua inquietante personalità, Platone lo paragonerà alla torpedine di mare, che stordisce chi la tocca: allo stesso modo Socrate seminava il dubbio e il turbamento nell’animo di coloro che lo incontravano.
480 a.C.
EVENTI STORICI
470
479
461
Termina la seconda guerra persiana
Ad Atene inizia l’età di Pericle (461-430 a.C.)
VITA DI SOCRATE
156
450
440
470/469
450
Nasce a d Atene
Termina l’efebìa
463
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
460
Anassagora giunge ad Atene
460 A Cos nasce il medico e geografo Ippocrate
472
450 ca.
445
Eschilo: I Persiani
Policleto: Doriforo
Ad Atene comincia la costruzione del Partenone
UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate IL RACCONTO DI UNA VITA
442 Sofocle: Antigone
La scelta di non scrivere Eppure quest’uomo, che dedicò tutta la vita alla filosofia e che per essa scelse di morire, non scrisse nulla. Questo è indubbiamente il più grande paradosso della filosofia greca. Non può trattarsi di un fatto casuale. Se Socrate non scrisse nulla, fu perché ritenne che la ricerca filosofica, quale egli la intendeva e la praticava, non poteva essere continuata dopo di lui da uno scritto. Il motivo probabile di questa mancata attività di scrittore può vedersi adombrato nel Fedro di Platone, dove Socrate narra il cosiddetto “mito di Theuth” ( unità 3, p. 311). Secondo il racconto platonico, il re egiziano Thamus rivolge a Theuth, divinità a cui gli antichi Egizi attribuivano l’invenzione della scrittura, le seguenti parole:
‘
Tu offri ai discenti l’apparenza, non la verità della sapienza; perché quand’essi, mercé tua, avranno letto tante cose senza nessun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni pur essendo fondamentalmente rimasti ignoranti, e saranno insopportabili agli altri (Platone, Fedro, 275e) perché avranno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza.
Per Socrate, che intendeva la filosofia come un esame incessante di sé e degli altri, nessun testo scritto poteva suscitare e dirigere il filosofare. Uno scritto poteva forse comunicare una dottrina, ma non stimolare la ricerca. Se Socrate rinunciò a scrivere, questo si deve quindi al suo stesso atteggiamento filosofico, di cui tale scelta costituisce un aspetto essenziale. ( T1 p. 178)
enciclosofia Minotauro Feroce mostro della mitologia greca che aveva il corpo umano e la testa, la coda e gli zoccoli di un toro. Nato dall’unione di Pasifae (moglie di Minosse, re di Creta) con un grande toro generato dal dio del mare Poseidone, era stato rinchiuso in un labirinto appositamente costruito a Cnosso, dove viveva prigioniero. Sconfitta in combattimento da Creta, ogni anno Atene era costretta a inviare in sacrificio sette ragazze e sette ragazzi, che venivano dati in pasto al mostro.
sileno I sileni erano personaggi mitologici e divinità minori dei boschi, dediti al culto di Dioniso e con il volto caratterizzato da tratti sgradevoli, quali labbra molto grosse e naso camuso.
440
430
420
431
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Scoppia la guerra del Peloponneso
Atene e Sparta firmano la pace di Nicia
432 Combatte a Potidea e salva Alcibiade
424 Combatte a Delio
432
427
Accusato di empietà, Anassagora lascia Atene
Ad Atene nasce Platone
431 Euripide: Medea
422 Combatte ad Anfipoli
424 423 Muore Aristofane: Erodoto Le nuvole
410
400
390
404 403 Termina la guerra Ad Atene restaurata del Peloponneso; la democrazia ad Atene governo dei Trenta tiranni
406 Si schiera in difesa dei generali delle Arginuse
399 È processato e condannato a morte
396 Muore Tucidide
157
Le testimonianze sulla vita e sul pensiero Il fatto che Socrate non abbia scritto nulla genera grosse difficoltà per la ricostruzione del suo pensiero. Le testimonianze indirette che possediamo sono infatti numerose e non sempre coerenti tra loro.
Le nuvole di Aristofane L’unica testimonianza che risale ai tempi in cui Socrate era ancora vivente è contenuta nella commedia Le nuvole, composta dal commediografo ateniese Aristofane (445-385 a.C. circa) e rappresentata ad Atene nel 423 a.C. Conservatore legato al glorioso passato della propria città, Aristofane concentra in Socrate i tratti dell’intellettuale perdigiorno, accomunandolo ai filosofi della natura e ai sofisti e presentandolo come un chiacchierone che da un «pensatoio» posto a mezz’aria, in direzione delle nuvole, propina insegnamenti corruttori ai giovani per bene, negando gli dèi della città. È assai probabile che questa testimonianza sia in buona parte una contraffazione polemica e satirica, e che nella figura di Socrate venga sintetizzata una serie di caratteristiche contraddittorie e appartenenti a personaggi reali diversi. Tuttavia, additando Socrate come «il peggior sofista» e individuando in lui l’esponente più emblematico della «nuova cultura», la commedia di Aristofane fornisce, sia pure in controluce, una preziosa fotografia del clima storico-culturale dell’Atene socratica.
L’Accusa contro Socrate di Policrate Se Aristofane bersaglia Socrate “da destra”, il sofista e democratico Policrate, retore greco vissuto tra il V e il VI secolo a.C., lo denuncia, in parte, “da sinistra”. Nell’Accusa contro Socrate, redatta nel 393 a.C., ovvero poco dopo la morte del filosofo, Policrate lo accusa di avere disprezzato le procedure della democrazia e di essere stato il cattivo ispiratore di certi esponenti dell’aristocrazia ateniese più oltranzista. Nello stesso tempo, tuttavia, il democratico Policrate si trova d’accordo con il reazionario Aristofane nel rinfacciare a Socrate di aver corrotto i giovani e insegnato credenze contrarie allo Stato.
Senofonte e i socratici minori enciclosofia
Senofonte
Storico ateniese vissuto tra il 430 e il 354 a.C. circa., fu discepolo di Socrate e autore di alcuni scritti sulla sua figura. La sua fama, tuttavia, è legata soprattutto alle opere di carattere storico, in particolare all’Anabasi, in cui è narratala la spedizione (a cui Senofonte partecipò in prima persona) di Ciro il Giovane contro il fratello Artaserse (401 a.C.), e ai sette libri delle Elleniche, che narrano le vicende greche dal 411 al 362 a.C.
158
Lo storico ateniese Senofonte, che redige le proprie opere qualche tempo dopo la morte del filosofo, ci presenta invece un Socrate moralista e predicatore, e a forti tinte macchiettistiche. Dalla sua cronaca di tipo “giornalistico” emerge così un ritratto piuttosto modesto e limitativo. Quanto ai cosiddetti “socratici minori”, ovvero i seguaci immediati di Socrate, che costituirono alcune “scuole socratiche” ( p. 173), essi ci forniscono poche notizie sul loro maestro e perlopiù estremizzano qualche aspetto del suo pensiero.
Platone e Aristotele A offrirci la più suggestiva e amorosa presentazione della figura e del pensiero di Socrate è il suo allievo Platone, dai cui dialoghi è scaturita l’immagine più diffusa del filosofo. Per quanto riguarda invece Aristotele ( unità 4), egli lo schematizza come lo «scopritore del concetto» e il «teorico della virtù come scienza» (vedremo in seguito il significato preciso di queste affermazioni), senza dire, in fondo, niente di più di quanto si possa trovare in Senofonte e in Platone.
UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate IL RACCONTO DI UNA VITA
1. il rapporto di socrate con i sofisti e con Platone Per comprendere in modo adeguato la figura di Socrate è indispensabile collocarla esattamente dal punto di vista storico e filosofico, valutando correttamente le matrici originarie del suo pensiero. Queste non possono essere rintracciate (seguendo Platone) soltanto in una posizione anti-sofistica, dal momento che la riflessione socratica, pur pervenendo a esiti diversi e talora opposti a quelli raggiunti dai sofisti, affonda in realtà le proprie radici culturali in quello stesso “Illuminismo greco” di cui proprio questi filosofi furono i maggiori rappresentanti. Socrate è legato alla sofistica fondamentalmente dai seguenti aspetti: l’attenzione per l’essere umano e il disinteresse per le indagini intorno al cosmo; la tendenza a cercare nell’essere umano, e non al di fuori di esso, i criteri del pensiero e dell’azione; l’atteggiamento spregiudicato e la mentalità razionalistica, anticonformistica e antitradizionalistica, che induce a mettere tutto in discussione e a non accettare nulla che non abbia superato il vaglio critico della ragione e il confronto dialogico; l’inclinazione verso la dialettica e il paradosso. Gli elementi che invece allontanano Socrate dai sofisti – oltre al comportamento e alla volontà di non fare della cultura una “professione” – sono invece: un più sofferto amore della verità e il rifiuto di ridurre la filosofia a vuota retorica, o a esibizionismo verbale fine a sé stesso; il tentativo di andare oltre lo sterile relativismo conoscitivo e morale in cui si era avviluppata la sofistica, e in particolare quella successiva a Protagora. Come già in quest’ultimo – ma in modo più accentuato, e in radicale contrapposizione rispetto a Gorgia e agli eristi – anche in Socrate vi è infatti l’esigenza di far “partorire” agli uomini alcune “verità comuni”, che, al di là dei punti di vista soggettivi, possano avvicinarli intellettualmente tra loro. Tutto questo vuol dire che Socrate è indissolubilmente figlio e avversario della sofistica, e come tale deve essere studiato. Accentuare troppo il distacco di Socrate dai sofisti significherebbe perdere le radici ambientali e mentali del suo pensiero, così come sottolineare troppo il suo legame con i sofisti significherebbe smarrirne l’originalità.
affinità e differenze tra socrate e i sofisti
Lo schema interpretativo che avvicina e contemporaneamente allontana Socrate e i sofisti consente di pensare in modo più adeguato anche il rapporto tra Socrate e Platone. Tale schema, infatti, pur facilitando la comprensione di ciò che accomuna il maestro e il discepolo (ovvero l’esigenza di un superamento del relativismo sofistico), permette di evidenziare anche ciò che li distanzia (cioè l’umanismo del primo), evitando così di “ridurre” Socrate a Platone.
affinità e differenze tra socrate e Platone
In sostanza, fissare in maniera precisa il rapporto triangolare sofisti-Socrate-Platone non un rapporto costituisce soltanto la via maestra per capire “il caso Socrate” in tutta la sua peculiarità, ma triangolare è anche un modo per storicizzare veramente la figura e l’opera di questo filosofo.
2. La filosofia come ricerca sull’essere umano Sembra quasi certo che Socrate, in un primo periodo della sua vita, abbia seguito con in- L’iniziale teresse le ricerche degli ultimi filosofi della natura, in particolare di quelli appartenenti al- interesse naturalistico la scuola di Anassagora. Nel Fedone platonico, infatti, egli afferma:
‘
Io, quando ero giovane […], fui preso da una vera passione per quella scienza che chiamano indagine della natura. E veramente mi pareva scienza altissima codesta, conoscere le cause (Platone, Fedone, 96a) di ciascuna cosa, e perché ogni cosa si genera e perisce ed è.
159
Ben presto, tuttavia, Socrate si scopre deluso da questo tipo di indagini e si convince (probabilmente anche sotto suggestioni sofistiche) del fatto che alla mente umana sfuggono inevitabilmente i “perché” ultimi delle cose e che a essa non è dato di conoscere con certezza l’essere e i princìpi del mondo. Egli pertanto, come scrive significativamente Senofonte a questo proposito,
‘
circa la natura del Tutto non disputava sì come disputano moltissimi altri, né indagando quale sia la struttura di quello che i sapienti chiamano “cosmo”, né per quali necessarie cause si formi ciascuna delle cose celesti in particolare; riteneva anzi folli coloro che di tali cose si davano pensiero […]. Si meravigliava poi come a costoro non fosse chiaro che non è possibile agli uomini trovare queste cose, tanto più che coloro i quali più degli altri hanno l’alterigia di parlarne, non hanno la stessa opinione […] personalmente, invece, discuteva solo delle cose umane. (Senofonte, Memorabili, I, 1, 11-16)
La nuova Abbandonati gli studi cosmologici, Socrate comincia quindi a intendere la filosofia come concezione un’indagine in cui l’essere umano, facendosi problema a sé medesimo, tenta con la ragiodella filosofia
ne di chiarire sé a sé stesso, rintracciando il significato profondo del proprio essere uomo: «Di tutte le ricerche la più bella è proprio questa: indagare quale debba essere l’uomo, cosa l’uomo debba fare» (Platone, Gorgia, 488a). Per questo motivo Socrate fa proprio il motto dell’oracolo delfico, «Conosci te stesso», vedendo in esso la motivazione ultima del filosofare e la missione stessa del filosofo. E poiché, secondo Socrate, non si è uomini se non tra gli uomini, in quanto ciò che costituisce la nostra essenza profonda di esseri umani è proprio il rapporto con gli altri, la sua filosofia assume i caratteri di un dialogo interpersonale in cui ognuno, con-filosofando con il prossimo, affronta e discute le questioni relative alla propria umanità. In questo colloquio incessante, in questa indagine senza fine, Socrate pone il valore dell’esistenza, convinto, come è detto nella platonica Apologia di Socrate, che «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta» (38a). ( T1 p. 178)
3. il “non sapere” sapiente Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo è la coscienza della propria è chi sa ignoranza. Nell’Apologia di Socrate, infatti, Platone narra che il filosofo, quando seppe che di non sapere
l’oracolo di Delfi lo aveva proclamato il più sapiente tra gli uomini, si schermì auto-dichiarandosi ignorante, e interpretò il responso divino come se volesse dire che il vero sapiente è colui che sa di non sapere. Per comprendere questa celebre tesi socratica, è indispensabile cogliervi un’eco dell’agnosticismo metafisico di Protagora e di Gorgia, e una sottintesa polemica contro i filosofi della natura. Infatti, sostenere che vero sapiente è chi sa di non sapere è anche un modo per affermare che filosofo autentico è soltanto chi ha compreso che intorno alle cause e alle strutture ultime del Tutto nulla si può dire con sicurezza.
enciclosofia oracolo delfico Il termine “oracolo” (dal latino oraculum, a sua volta derivato dal verbo orare, “parlare”) indica una profezia o, più in generale, un responso dispensato da una divinità agli uomini mediante particolari segni o attraverso la voce di un sacerdote. L’espressione “oracolo delfico”, in particolare, si riferisce ai responsi della Pizia, sacerdotessa presso il tempio di Apollo a Delfi (antica città situata sulle pendici del monte Parnaso). Secondo la tradizione, la Pizia era ispirata direttamente da Apollo e pronunciava sentenze enigmatiche, alcune delle quali (come «Conosci te stesso») furono incise sul frontone del tempio.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
Questa osservazione, tuttavia, non implica un’interpretazione di Socrate in chiave scet- soltanto chi sa tica. Agnostico per quanto riguarda le questioni ontologiche e cosmologiche (riguardo di non sapere vuole sapere alle quali dichiara che «unicamente sapiente è il Dio»), Socrate non lo è altrettanto per quel che concerne i problemi etico-esistenziali. Così, da una parte il motto delfico-socratico assume il significato di una denuncia polemica di tutte quelle categorie di individui – politici o sacerdoti, poeti o generali – che pretendono di conoscere a fondo la natura umana, credendosi dogmaticamente in possesso di salde certezze sulla vita; ma dall’altra parte esso non esclude la possibilità di una ricerca sull’essere umano, anzi la incoraggia, costituendone una condizione preliminare, dal momento che soltanto chi sa di non sapere cerca di sapere, mentre chi si crede già in possesso della verità non sente il bisogno di cercarla. In altre parole, la tesi socratica del non sapere, se da un lato funge da richiamo ai limiti della ricerca umana (che non può spingersi fino alle supreme realtà di natura metafisica), dall’altro lato vuol essere un accorato invito a indagare, entro i limiti dell’esperienza, i problemi fondamentali dell’essere umano. Pertanto la coscienza del non sapere non conduce a un soffocamento della ricerca, ma si configura piuttosto come un salubre monito, o una fruttuosa scintilla, capace di accendere il grande dialogo interumano della filosofia. Nel “non sapere” socratico, infine, va colta un’esplicita presa di distanza dai sofisti: se questi si dichiaravano “sapienti” (sophói), tanto da arrogarsi il diritto di insegnare la loro arte e l’oggetto della loro conoscenza, Socrate è il primo a dichiararsi “filosofo” (philósophos), cioè, letteralmente, “amante della sapienza”, ovvero “in cerca di sapere”. L’autentica sapienza (la filosofia) viene così a identificarsi con il “desiderio” o l’amore (philía) del sapere, cioè di qualcosa di cui si avverte la mancanza, come un vuoto da colmare.
)
Per l’esposizione orale
La distanza dai sofisti
OFFICINA CITTADINANZA Istruzione e educazione p. 14
1. Elenca e illustra le principali caratteristiche della filosofia socratica. 2. Secondo Socrate, chi può essere considerato un vero sapiente, e perché? 3. RIFLESSIONE CRITICA Prova a confrontare con la tua esperienza scolastica l’idea socratica secondo cui può ricercare, e quindi imparare, soltanto chi è consapevole della propria ignoranza. Ritieni anche tu che lo studio e l’apprendimento autentici possano scaturire soltanto dalla convinzione di essere “manchevoli” di qualcosa?
4. il dialogo: momenti e obiettivi Come abbiamo già in parte affermato, il metodo dell’indagine filosofica usato da Socrate è il dialogo , ovvero lo scambio e il confronto con l’altro attraverso la parola. La ricerca di Socrate coincide con il suo stesso dialogare, con il suo continuo porre e porsi domande senza considerare mai definitive le risposte di volta in volta raggiunte. Ma non si tratta di un parlare vuoto o privo di direzione, in quanto il dialogo socratico presenta una struttura ben precisa, in cui si possono distinguere due momenti: l’ironia e la maieutica. glossario p. 175
L’ironia Nell’esame a cui Socrate sottopone gli altri, coinvolgendo anche sé stesso, la sua prima Un “teatro” per preoccupazione è di rendere i propri interlocutori consapevoli della loro ignoranza. A que- smascherare l’ignoranza sto scopo egli si avvale dell’ironia, ovvero di un gioco di parole, di un variopinto teatro di finzioni, attraverso il quale riesce a mettere a nudo le coscienze di coloro che gli stanno di fronte. Questi inizialmente appaiono soddisfatti delle loro formule cristallizzate e delle loro
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pseudo-certezze, ma proprio facendo ricorso all’ironia Socrate ne mostra il sostanziale “non sapere”. L’ ironia è dunque il metodo specifico usato da Socrate per svelare all’interlocutore la sua ignoranza e per gettarlo nel dubbio e nell’inquietudine, impegnandolo così nella ricerca. glossario p. 175 un “metodo” Facendo ironicamente finta di non sapere, Socrate chiede al proprio interlocutore, il più delper confutare le volte un illustre e celebrato “maestro” di qualche arte, di renderlo edotto circa l’ambito di false opinioni
sua competenza. Dopo una teatrale adulazione delle conoscenze del personaggio, comincia a sommergerlo di domande e ad avvolgerlo in una rete di quesiti. Utilizzando l’arma del dubbio («io, più di chiunque altro dubbioso, faccio sì che anche gli altri siano dubbiosi», dice Socrate nel Menone platonico, 80d) e manovrando abilmente la tecnica della confutazione , Socrate smonta le deboli e avventate risposte ottenute, mostrandone l’inconsistenza all’interlocutore. Provocando in lui vergogna e stizza, egli lo costringe così ad ammettere di non avere opinioni solide sull’argomento oggetto di discussione. glossario p. 175 In questo senso il momento ironico del dialogo socratico è stato definito “dialetticozenoniano”, in virtù delle sue analogie con il metodo “per assurdo” usato da Zenone per mostrare la contraddittorietà e l’insostenibilità logica delle tesi sul movimento e sulla molteplicità dell’essere ( unità 1, cap. 3, p. 67).
una sofistica Con questo “irritante” gioco di finzioni, Socrate può raggiungere il proprio scopo princi“nobile” pale: invogliare alla ricerca del vero. L’ironia è dunque una specie di sofistica “nobile”,
che tende a purificare e liberare la mente dalle malfondate convinzioni del vivere quotidiano, e che agisce come la scarica elettrica emessa dalla torpedine marina, scuotendo gli esseri umani dal loro sonno intellettuale e instillando in loro il dubbio e la sete di convinzioni autentiche.
La maieutica Dopo aver fatto il “vuoto” nella mente del discepolo, Socrate non si propone di riempirla immediatamente con una propria verità, come se lo scopo della sua ironia fosse una sorta di “lavaggio del cervello” che prepara il terreno per imporre un determinato sistema di idee. Egli non intende comunicare dall’esterno una propria dottrina, ma soltanto stimolare l’ascoltatore a ricercare dentro sé stesso una sua personale verità. L’arte della Esattamente in ciò consiste la maieutica , cioè l’arte di far partorire di cui parla Platone, levatrice dicendo che Socrate aveva ereditato dalla madre la professione di ostetrico. Come Fenare-
te aiutava le donne a partorire i bambini, così Socrate, ostetrico di anime, aiutava gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle cose. glossario p. 175 Nel Teeteto platonico Socrate proclama:
‘
La mia arte di maieutico in tutto è simile a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che essa aiuta a far partorire uomini e non donne, e provvede alle anime generanti e non ai corpi. […] E proprio questo io ho in comune colle levatrici: anche io sono sterile, sterile in sapienza; e il rimprovero che già molti mi hanno fatto che io interrogo gli altri, ma non manifesto mai, su nulla, il mio pensiero, è verissimo rimprovero. Io stesso, dunque, non sono affatto sapiente né si è generata in me alcuna scoperta che sia frutto dell’anima mia. Quelli, invece, che entrano in relazione con me, anche se da principio alcuni d’essi si rivelano assolutamente ignoranti, tutti, poi, seguitando a vivere in intima relazione con me, purché il dio lo permetta loro, meravigliosamente progrediscono, com’essi stessi e gli altri ritengono. Ed è chiaro che da me non hanno mai appreso nulla, ma che essi, da sé, molte e belle cose (Platone, Teeteto, 151d) hanno trovato e generato.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
In queste parole del Socrate ironico e maieutico, dalle quali scaturisce il concetto della verità un principio come conquista personale e della filosofia come avventura della mente di ciascuno, si pedagogico è anche visto uno dei princìpi fondamentali della pedagogia: la vera educazione è sempre auto-educazione, ossia un processo in cui il discepolo viene aiutato dal maestro a maturare e a formarsi in maniera autonoma, partendo dalle proprie inclinazioni interiori. ( T2 p. 180)
La ricerca della definizione Ma che cosa fa “partorire” Socrate ai propri interlocutori? Su questo punto è soprattutto il “che cos’è” Platone a rispondere, presentando il filosofo come impegnato ad applicare il metodo delle definizioni. Nella movimentata struttura a spirale del dialogo socratico (fatto di domande, risposte, obiezioni; e nuove domande, nuove risposte, nuove obiezioni ecc.), la molla dell’intero processo è l’interrogativo “che cos’è?” (ti estí?), ossia la richiesta di una definizione precisa di ciò di cui si sta parlando. Scrive infatti Senofonte: «Egli discorreva sempre di cose umane, esaminando che cosa è santità, che cosa empietà, che cosa bellezza, che cosa turpitudine, che cosa giustizia, che cosa ingiustizia, che cosa saggezza, che cosa pazzia, che cosa coraggio, che cosa viltà, che cosa Stato, che cosa politica, che cosa governo, che cosa uomo di governo, e simili cose» (Memorabili, I, 1, 11-16). glossario p. 175 A queste domande, ad esempio all’interrogativo “che cos’è la virtù?”, l’interlocutore risponde solitamente con un catalogo di casi virtuosi: virtuoso è chi onora le leggi, virtuoso è chi rispetta i genitori ecc. Ma Socrate non si accontenta di uno sterile elenco, perché a lui non interessano “esempi” di virtù, bensì la definizione della virtù “in sé stessa”.
‘
Anche se le virtù sono molte e diverse, è in tutte un’identica specie ideale per cui sono virtù; è appunto affidandosi a questa specie ideale che uno ha la possibilità, rispondendo a chi lo (Platone, Menone 72c) interroghi, di chiarire bene la questione sul che cosa sia la virtù.
Tra i lunghi discorsi ammaliatori preferiti dai sofisti (le macrologie cap. 1, p. 137) e i discorsi brevi (brachilogie), fatti di battute corte e veloci che obbligano l’avversario a dare risposte precise, Socrate predilige i secondi. Questo perché una tale dialettica stringente demolisce l’antagonista, che sotto i colpi delle provocazioni scopre la vacuità e la superficialità delle proprie convinzioni e si dispone a una ricerca più attenta e consapevole. La domanda “che cos’è?” – di cui si nutre e in cui si concretizza l’ironia – rivela dunque un duplice volto: uno negativo, indirizzato a mettere in crisi l’interlocutore e a spogliarlo delle formule acriticamente accettate; l’altro positivo, teso a condurlo verso una definizione soddisfacente dell’argomento trattato, su cui possa esserci un accordo linguistico e concettuale tra le menti (aspetto su cui torneremo nel prossimo paragrafo).
il duplice volto della ricerca della definizione
SOCRATE NEL DIALOGO ha come scopi
usa come mezzi
l’ironia = fingersi ignorante di fronte all’interlocutore, adulandone le conoscenze
la confutazione (in greco élenchos) = opporre una serie di obiezioni alle tesi dell’interlocutore
la brachilogia = fare discorsi brevi, sorretti da domande frequenti e precise
la maieutica = aiutare l’interlocutore a “partorire” la verità che possiede dentro di sé
la definizione = determinare i tratti essenziali di una cosa, rispondendo alla domanda “che cos’è?”
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Induzione, concetti e verità A questo punto siamo in grado di comprendere in che senso Aristotele, con una testimonianza che ha fatto scuola nella storiografia tradizionale, attribuisca a Socrate la “scoperta” dell’induzione e del concetto. Egli afferma infatti: «Due cose si possono a buon diritto attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione dell’universale; e tutte e due riguardano il principio della scienza» (Metafisica, XIII, 4, 1078b). il ragionamento È detto induzione un tipo di ragionamento che dall’esame di un certo numero di casi induttivo o di affermazioni particolari risale a un’affermazione generale, o universale. Proprio
quest’ultima, per Aristotele, è la definizione cercata da Socrate attraverso il dialogo: ciò che esprime il concetto di una certa cosa (il “che cos’è”). Ad esempio, dopo aver constatato che “giusto” è chi segue questa, quella e quell’altra legge, si può risalire al concetto di “giustizia”, ovvero alla definizione di quest’ultima come rispetto delle leggi in generale. glossario p. 175
un’autentica Alcuni studiosi contemporanei hanno messo in discussione la validità della testimonianza scoperta di aristotelica, leggendovi un tentativo di “aristotelizzare” Socrate: tentativo condotto sulla socrate?
falsariga di quello – già condotto in precedenza da Platone – di “platonizzarlo”. In realtà, è molto difficile che Platone e Aristotele abbiano stravolto questo punto essenziale del pensiero socratico, senza il quale Socrate non sarebbe più la figura che tradizionalmente conosciamo e non si differenzierebbe sostanzialmente dai sofisti. Certo Platone (come in seguito farà Aristotele) sottolinea, accentua e sviluppa l’idea di una scienza definitoria e universale, ma nello stesso tempo ci fa comprendere come Socrate, pur avendo formalmente prospettato l’esigenza di un sapere definitorio, non si sia però contenutisticamente sforzato di tradurre un tale sapere in realtà. Tant’è vero che molti dei cosiddetti “dialoghi socratici” composti da Platone ci restituiscono l’immagine di un filosofo fedele alla propria missione di pungolatore di anime, piuttosto che quella del possessore di una conoscenza definitiva.
oltre i sofisti, Quanto si è detto permette di riconsiderare e intendere in modo più chiaro il rapporto geverso Platone nerale tra Socrate e i sofisti da una parte, e tra Socrate e Platone dall’altra.
Contro i sofisti, e soprattutto contro il caos verbale e concettuale degli eristi, Socrate sente il bisogno di portare un po’ d’ordine nel discorso interpersonale, prospettando la necessità di una precisazione anche linguistica dei concetti, che permetta agli uomini di intendersi meglio e di trovare un punto d’accordo capace di far superare criticamente la molteplicità dissonante delle loro opinioni. Con Socrate comincia così a delinearsi quella reazione al relativismo linguistico, conoscitivo e morale della peggior sofistica che verrà ripresa e portata avanti da Platone. Tuttavia Socrate, a differenza di Platone e di Aristotele, non costruisce una “scienza delle definizioni”, né intende la definizione come una forma di sapere assoluto, capace di rispecchiare entità metafisiche “eterne” (quelle che Platone chiamerà «idee» e Aristotele «forme»). Per lui, infatti, le definizioni e il concetto rimangono a uno stato esigenziale, ponendosi non tanto come obiettivi raggiungibili, quanto come “esigenze” o “direzioni” della ricerca. Questo è un punto decisivo della storiografia socratica, che, oltre a essere fondamentale per l’interpretazione globale del pensiero del filosofo, conferisce forza e concretezza all’idea secondo cui l’unico modo per “centrare” storicamente Socrate è quello di cogliere i complessi e sottili rapporti che lo uniscono e nello stesso tempo lo distanziano dai sofisti da una parte e da Platone dall’altra.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
Le osservazioni sul rapporto di Socrate con il relativismo sofistico, in particolare, contri- La verità come buiscono a chiarire la concezione della verità elaborata dal filosofo. Abbiamo visto che So- discorso comune crate condivide con i sofisti l’idea che la verità non sia qualcosa di assoluto e definitivo, ma una libera e sempre perfettibile costruzione umana. Nello stesso tempo, però, egli ritiene che attraverso il confronto dialogico sia possibile raggiungere un accordo su un certo tema (una definizione). Secondo Socrate, dunque, la ricerca filosofica conduce in qualche modo a una “verità”, la quale non va intesa come una conoscenza o una serie di conoscenze raggiunte una volte per tutte e trasferibili dal maestro al suo allievo, ma piuttosto come omologhía , cioè come il discorso comune (lógos ómoios), o la ragione condivisa, a cui si perviene dialogando e ragionando insieme. glossario p. 175 Del resto, un dialogo autentico (nell’accezione filosofica attribuitagli da Socrate) implica un paziente mettere alla prova le diverse ipotesi che si presentano, un chiedere e dare ragione di tutte le opinioni, per scartare via via quelle fallaci e conservare quelle migliori, che non sono affatto le più utili né quelle che si siano dimostrate certe e infallibili, ma soltanto quelle che, alla luce delle ragioni addotte, risultano maggiormente condivisibili ( “La filosofia che vive”, p. 166). A prima vista potrebbe sembrare che questa concezione della verità riavvicini Socrate al il dialogo come relativismo sofistico. Ma, a differenza dei sofisti, Socrate ammette l’esistenza di un punto sommo bene fermo che chiunque deve riconoscere come tale, e questo è proprio il dialogo, dovere morale prioritario e necessità inevitabile, a cui nessun essere umano che non voglia venir meno alla sua natura può sottrarsi, perché anche per rifiutarsi di dialogare dovrebbe comunque usare il dialogo. In tal senso il dialogo è un principio indubitabile, perché la sua presunta negazione lo riafferma: di tutto bisogna dubitare, tranne che del dialogo; di tutto bisogna discutere, tranne che della necessità di discutere. Nel dialogare consiste la forma stessa della vita razionale, il sommo bene che rende la vita umana degna di essere vissuta e che conserva la sua validità anche in un’eventuale vita ultraterrena. Infatti Socrate, che pure è scettico riguardo all’esistenza di un “aldilà” diverso da un sonno eterno, è convinto ESERCIZI che, se ci sarà “qualcuno”, questi non potrà che dialogare con lui:
‘
se la morte è come un mutare sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? […] Ragionare con costoro e viverci insieme e interrogarli, sarebbe davvero il sommo della felicità. (Platone, Apologia di Socrate, 40e - 41c)
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Per l’esposizione orale
1. Chi, secondo Socrate, può essere considerato vero sapiente, e perché? 2. Definisci le parole elencate di seguito e utilizzale per illustrare il metodo socratico: dialogo, ironia, maieutica, definizione. 3. In che senso Aristotele vede in Socrate lo scopritore dell’induzione e del concetto? 4. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la concezione della verità come omologhía, ovvero come punto d’arrivo di un confronto dialettico che può anche non essere definitivo, ma che tuttavia rappresenta quanto di più “condiviso” e “razionale” possa essere prodotto: condividi questo punto di vista? Prova a fare un esempio (tratto dalla vita scolastica o dalla tua esperienza personale) di raggiungimento di una “verità” così intesa.
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EDUCAZIONE CIVICA
SVILUPPO SOSTENIBILE
LA FILOSOFIA CHE VIVE Da Socrate alle odierne democrazie Le due grandi “scoperte” socratiche Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) ha affermato che con Socrate fa la sua apparizione il principio della «libertà soggettiva», intesa come capacità dell’individuo di decidere in autonomia, in base alla propria coscienza, ciò che è giusto e ciò che non lo è. L’altro principio “scoperto” e messo in pratica da Socrate è quello del dialogo, inteso come reciproco dare e chiedere ragione delle proprie opinioni. Per Socrate questo è un dovere assoluto, basato sull’apertura all’altro e sulla disponibilità a considerare punti di vista diversi dai propri. La democrazia e il valore dell’errore La libertà di coscienza e il dialogo sono i princìpi fondamentali della democrazia, ovvero di quella forma di convivenza e di organizzazione sociale che negli ultimi secoli è stata (perlopiù) assunta dal mondo occidentale come il sistema politico migliore possibile. Non a caso, tra i dieci «contenuti minimi» necessari al comportamento democratico, il giurista italiano Gustavo Zagrebelsky (nato nel 1943) indica la fiducia socratica nella ragione umana dialogante: «La democrazia è discussione, ragionare insieme» (Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, p. 21). Socrate – prosegue Zagrebelsky – «ci indica anche la virtù massima di chi ama il dialogo: rallegrarsi di essere scoperto in errore». E la democrazia è appunto «un sistema di vita in cui chi la pensa diversamente da noi non ha da essere semplicemente sopportato, ma dovrebbe essere altamente apprezzato e onorato» (ibidem, p. 23), perché soltanto i dubbi e gli errori consentono di affinare le proprie convinzioni, rendendole più utili a un’armonica ed equa convivenza. Con una sintesi efficace, Zagrebelsky osserva che la democrazia, per essere autentica, deve essere pronta a mettere in discussione tutto, tranne sé stessa, ossia tranne la necessità di discutere: una chiara traduzione della convinzione socratica secondo cui tutto è relativo, tranne il dialogo.
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DIBATTITO CRITICO
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Pace, giustizia e istituzioni solide
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La democrazia tra forma e contenuti Il dialogo è per Socrate l’unica via per raggiungere la verità, che infatti egli intende come “discorso comune” (omologhía) elaborato dai dialoganti. In un certo senso questo è anche il principio democratico della decisione pubblica, per cui è giusto ciò su cui la maggioranza trova un accordo. Tuttavia, dal punto di vista giuridico esistono due modi fondamentali per intendere la democrazia: • secondo una concezione formale, la democrazia è soltanto un “metodo” decisionale, una “procedura” che prescinde dai contenuti, poiché non esistono verità o valori assoluti, ma tutto è sottoposto alle preferenze della maggioranza; • secondo una concezione contenutistica, la democrazia prevede invece alcuni valori e contenuti irrinunciabili (sottratti alla variabilità delle maggioranze), e soltanto nel rispetto di tali valori e contenuti è consentito il confronto. La democrazia italiana si identifica con questa seconda concezione, perché il cittadino che partecipa al discorso pubblico non è vincolato soltanto dalle regole della comunicazione e dell’argomentazione ma anche dalla Costituzione e dai valori e princìpi in essa esposti.
Come si possono conciliare i due diversi modi di intendere la democrazia, per cui da una parte si deve considerare giusto ciò che la maggioranza reputa tale, e dall’altra esistono alcuni princìpi assoluti che la stessa maggioranza non può mettere in discussione? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, svolgi una ricerca in Internet per comprendere meglio i punti di forza e di debolezza dei due principali modi di intendere la democrazia. In classe, in piccoli gruppi illustrate le due diverse prospettive ed evidenziate le ragioni storiche e culturali per cui la Repubblica italiana ha posto a proprio fondamento una serie di princìpi costituzionali che si sottraggono alla regola della maggioranza. QUESTIONE
5. L’etica Anche l’etica socratica, presentata talvolta come una sorta di “miracolo spirituale” rispetto all’epoca in cui visse il filosofo e alle posizioni dei sofisti, affonda in realtà le proprie radici nel tessuto culturale dell’Atene del V secolo a.C., pur giungendo a esiti nuovi e originali.
La virtù come scienza Il punto-chiave della morale di Socrate è la sua nuova concezione della “virtù”. Con que- L’areté nella sto termine (in greco areté) i Greci intendevano, in generale, il modo ottimale di essere tradizione greca qualcosa: ad esempio, la velocità era la virtù del ghepardo e la forza era quella del leone. Riferito alle persone, il concetto di virtù indicava dunque il modo ottimale di essere uomini, e quindi il modo migliore di comportarsi nella vita (incarnato, secondo la tradizione micenea e omerica, nei valori del coraggio in battaglia, della vigoria fisica e dell’onore). Tradizionalmente, inoltre, la virtù veniva considerata come qualcosa di dato, ossia di ga- La virtù come rantito dalla nascita o dagli dèi. I sofisti invece – e questa è una delle maggiori novità del faticosa conquista loro pensiero – avevano sostenuto che la virtù non è un dono che si possieda per natura o per divina elargizione, ma un valore o un fine che deve essere umanamente cercato e conquistato con impegno. Virtuosi non si nasce, ma si diventa attraverso la paidéia, cioè attraverso l’educazione e la cultura. In questo stesso universo mentale si colloca Socrate, affermando anch’egli che la virtù non è un dono gratuito, ma una faticosa conquista, in quanto l’essere pienamente e autenticamente uomini è frutto di un’arte che è la più difficile da apprendere, oltre che la più importante di tutte. Socrate sostiene inoltre che la virtù – globalmente intesa come arte del ben vivere e del ben La virtù come comportarsi – è sempre “scienza”, cioè una forma di sapere, o un prodotto della mente. impegno intellettuale Come i filosofi della natura avevano cercato di sottoporre la mutevole vicenda dell’universo a una legge razionale (il lógos di cui parlava Eraclito), così Socrate tenta di sottoporre la vita concreta al dominio dell’intelletto. Egli è convinto che, per essere uomini nel modo migliore, sia indispensabile riflettere, cercare e ragionare: sia indispensabile, cioè, fare filosofia nel senso più vasto del termine, ossia riflettere criticamente sull’esistenza. Tanto più che, secondo Socrate, non esistono il Bene e la Giustizia quali entità metafisiche La virtù come già costituite e quali “metri” a cui commisurare le azioni, poiché il bene e il giusto sono ricerca del bene concreto valori umani, che scaturiscono di volta in volta dal nostro lucido ragionare. A questo proposito Francesco Adorno (1921-2010) osserva che per Socrate «ciò che vale è prendere coscienza di sé, non agire perché così sta scritto o perché questo è il vero, ma volta a volta discendere agli inferi della propria coscienza, dialogare con sé (e con altri): sarà, appunto, da questo dibattito interiore, da questo stesso dialogo, da questo ragionare che, volta a volta, scaturirà il bene, ciò che è da fare […]. E si badi che non si tratta del Bene, che di quello nessuno sa niente, ma di un bene concreto, cioè di un bene che diviene tale di volta in volta, ma che domani può essere non bene. In altri termini, il sapere di cui parla Socrate è […] sapere quando è bene fare questa o quella azione, che diviene buona in quanto so che, ora, è bene farla» (“Prefazione” a I sofisti e Socrate, Loescher, Torino 1962, pp. xliv-xlv). Questa concezione della virtù come scienza (cioè come ricerca intellettuale) e della vita come avventura disciplinata dalla ragione rappresenta il senso profondo dell’etica socratica, che per questo motivo è stata riconosciuta come una forma di razionalismo morale . glossario p. 176
il razionalismo morale e l’insegnabilità della virtù
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A questa prospettiva si lega un altro carattere della virtù socratica, la quale, analogamente alla virtù politica di cui parlava Protagora, può essere insegnata e comunicata a tutti e deve costituire il patrimonio di ogni uomo. Secondo Socrate, infatti, non basta che ciascuno conosca il proprio mestiere e sia esperto in qualcuna delle tecniche o delle arti particolari (anche se ciò risulta indispensabile): bisogna che ciascuno impari bene anche il mestiere di vivere, ossia la scienza del bene e del male.
Virtù, felicità e politica Dalla propria concezione della virtù – da cui emerge come essere uomini ed essere filosofi, in senso lato, sia in fondo la stessa cosa – Socrate trae alcune conclusioni di fondo. La virtù In primo luogo, la virtù è unica, in quanto quelle che gli uomini chiamano le virtù (giustiè unica zia, coraggio, prudenza ecc.) non sono altro che modi di essere al plurale di quell’unica vir-
tù al singolare che è la scienza del bene, prescindendo dalla quale le virtù particolari cesserebbero di esistere, poiché comportarsi da giusti e da coraggiosi, ad esempio, significa sapere quando e come è bene esserlo.
La virtù è un In secondo luogo, Socrate tende a far coincidere il campo delle virtù propriamente umane valore con i valori dell’interiorità e della ragione, ovvero con quella sfera che Platone, dando interiore
probabilmente una valenza più marcatamente religiosa al discorso socratico, chiamerà «anima». Come hanno scritto Giovanni Reale e Dario Antiseri, Socrate «opera una rivoluzione della tradizionale tavola dei valori», poiché «i valori veri non sono quelli legati alle cose esteriori, come la ricchezza, la potenza, la fama, e nemmeno quelli legati al corpo, come la vita, la vigoria, la salute fisica e la bellezza, ma solamente i valori dell’anima, che si assommano tutti quanti nella conoscenza».
La virtù La tendenza di Socrate a esaltare i valori dell’interiorità e del sapere, in antitesi ai valori monconduce alla dani dell’esteriorità, non autorizza tuttavia un’interpretazione “ascetica” del suo messaggio felicità
VIDEO La gerarchia dei valori per Socrate
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la felicità? p. 473
etico, secondo l’immagine di un Socrate “moralista”, che avrebbe svalutato l’istinto, la gioia di vivere e tutti quei valori che li incarnano, come la salute, la bellezza, la forza ecc. Contro questa dura critica, che nel XIX secolo sarà mossa a Socrate dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), occorre ricordare che la virtù socratica non è un fanatico esercizio di automortificazione, bensì un modo di essere che mira all’utilità e alla felicità. In questo senso la morale di Socrate è una forma di eudemonismo (o eudaimonismo, dal greco eudaimonía, “felicità”), poiché vede nel conseguimento della felicità lo scopo ultimo e il movente di ogni azione umana. glossario p. 176 In altre parole, per Socrate la virtù non è una negazione ascetica dell’esistenza, ma un suo potenziamento tramite la ragione, ossia un calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita. Tant’è vero che soltanto il virtuoso, che segue i dettami della ragione, è felice, mentre il non virtuoso, non ragionando a sufficienza sulla vita, si abbandona a istinti (come quelli della violenza e dell’intemperanza) che alla lunga lo rendono infelice. Di fronte al caos degli istinti, Socrate ha voluto proporre l’ordine della ragione, senza abolire i valori vitali del benessere, del vigore ecc., ma semplicemente sottoponendoli alla disciplina della ragione, convinto che questi beni, «se diretti dall’ignoranza, si rivelano mali maggiori dei loro contrari, perché più capaci di servire a una cattiva direzione; se, invece, sono governati dal giudizio e dalla scienza, o conoscenza, sono beni maggiori».
La virtù Infine, la virtù di cui parla Socrate tende a risolversi nella politicità, poiché l’arte del saper è saper vivere vivere, essendo l’uomo un essere sociale, si identifica e concretizza nell’arte del saper vicon gli altri
vere con gli altri. Tuttavia, una politica così intesa non è per Socrate una tecnica di domi-
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
nio del prossimo, come la intendevano Gorgia e alcuni sofisti-politici, bensì quel “ragionare insieme” sulle cose della città per farne scaturire il bene comune (questo punto, già abbozzato in Protagora, sarà sviluppato e approfondito da Platone).
CONCETTI A CONFRONTO
LA VIRTÙ nei SOFISTI
in SOCRATE
è una tecnica, cioè uno strumento, un’arte che si può acquisire
è conoscenza, cioè il fine ultimo della vita umana
si usa nella vita politica
si realizza nella vita politica
in quanto
in quanto
è la capacità di persuadere gli altri
è la capacità di dialogare con gli altri
può essere praticata da tutti
può essere praticata da tutti
perché
VIDEO Un confronto tra Socrate e i sofisti
perché
tutti la possono imparare da un bravo maestro
consiste nella ricerca della verità che caratterizza la natura razionale di ogni uomo
può portare alla felicità, intesa come successo nella vita della pólis
coincide con la felicità, intesa come esercizio di una vita consona alla natura umana
I paradossi dell’etica socratica Dalla concezione socratica della virtù come scienza derivano due “paradossi” (nel senso letterale di affermazioni contrarie all’opinione comune) che rimarranno celebri nella storia del pensiero morale. Il primo, e fondamentale, è l’idea secondo cui nessuno pecca volontariamente, perché chi fa il male lo fa per ignoranza del bene. Socrate intende dire che nessuno compie il male consapevolmente, ossia sapendo davvero che si tratta di un male, poiché chi opera il male è soltanto un individuo che ignora quale sia il vero bene. Quando si agisce, infatti, si fa sempre ciò che si ritiene essere per noi un bene, e se si scambia un vizio o un’intemperanza per un bene, ciò è dovuto all’ignoranza, che non consente di cogliere, al di là del piacere immediato e momentaneo che deriva dall’azione compiuta, la futura realtà di patimento alla quale essa porterà.
il male come ignoranza
A causa dell’equazione tra virtù e conoscenza e, di conseguenza, tra vizio e ignoranza, Socrate è stato accusato, attraverso i secoli, di sopravvalutare indebitamente la funzione dell’intelletto nel comportamento umano, dimenticando il ruolo della volontà e la forza della parte istintivo-affettiva della nostra psiche. Egli, cioè, sembrerebbe ignorare quel dato di esperienza per cui talvolta si sa lucidamente quale sia il bene, ma poi si agisce male: per questo è stato ripetutamente tacciato di “intellettualismo etico”, poiché, non distinguendo tra intelletto e volontà, o non dando sufficiente importanza ai fattori emotivi, avrebbe esagerato la potenza della ragione.
socrate “intellettualista”?
QUESTIONE Il male è frutto di ignoranza o malvagità? (Socrate, Platone) p. 315
I NODI DEL PENSIERO Da dove viene il male? p. 326
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Qualche studioso ha tentato di scagionare Socrate da questa accusa dicendo che, in effetti, chi è veramente persuaso della “bontà” di qualcosa (o di un comportamento), per ciò stesso la ama e la vuole, finendo così per mettere in pratica il bene; se ciò non accade, significa quindi che la sua convinzione è troppo superficiale e non è divenuta, come si dice comunemente, “nutrimento” di vita. il male come Un altro paradosso del socratismo, almeno rispetto alla mentalità greca del tempo, è la infelicità massima secondo cui è preferibile subire il male che commetterlo. Questo principio,
che è sembrato di sapore pre-cristiano, si connette in realtà al “vangelo laico” di Socrate, basato sulla convinzione che soltanto la virtù e la giustizia rendono felici, mentre l’immoralità e l’ingiustizia portano, alla lunga, esclusivamente brutture e infelicità.
6. il demone, l’anima e la religione La valenza Secondo la testimonianza dei dialoghi platonici, Socrate tende a dare alla propria opera un religiosa carattere religioso. Egli, infatti, considera il filosofare come una missione affidatagli del demone socratico dalla divinità. A questo proposito egli parla di un dèmone (dáimon) che lo consiglia in tutti i momenti decisivi della vita, invitandolo a non fare certe cose: glossario p. 176
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Vi è in me un che di divino e demoniaco […] ed è come una voce ch’io sento dentro fin da fanciullo, la quale, ogni volta che la sento, mi dissuade da quello che sto per fare, sospingere (Platone, Apologia di Socrate, 31c-d) non sospinge mai.
Questo demone è stato spesso interpretato come la voce della coscienza, come il comando morale che risuona nell’intimità della persona. Ma esso è probabilmente qualcosa di più di un imperativo morale, o della semplice voce della coscienza: è il sentimento di ciò che trascende l’uomo, è la guida trascendente e divina della condotta umana. Il demone è dunque un concetto religioso, non semplicemente morale. La concezione In quanto guida divina dell’umana condotta, il demone di Socrate può anche essere consocratica siderato come la personificazione dell’anima individuale. Nella concezione socratica dell’anima
dell’anima confluiscono due visioni che erano già state elaborate in precedenza: la dottrina orfica dell’anima prigioniera del corpo, nel quale sarebbe decaduta a causa di una colpa originaria; la concezione, più scientifica che filosofica, dell’anima come sede della vita intellettuale. Entrambi questi fattori portano all’idea dell’immortalità dell’anima, ma questo aspetto, che risulterà centrale in Platone, non sembra interessare molto Socrate. Infatti non è un argomento frequente nelle sue conversazioni, tanto che, stando alla testimonianza platonica del Fedone (70a 1 ss.) e della Repubblica (608d 3), gli stessi discepoli del filosofo accolgono con sorpresa questa convinzione del maestro.
socrate e Pur avendo certamente superato l’antropomorfismo delle credenze religiose tradizionagli dèi della li (criticato già da Senofane unità 1, cap. 3, p. 62), Socrate presta agli dèi della religione tradizione
popolare un ossequio formale, perché ai suoi occhi ciò rientra negli obblighi del buon cittadino. Il fatto che parli di “dèi” (al plurale) significa che egli non è estraneo al politeismo del suo tempo; tuttavia (come Platone gli fa dire nell’Apologia) ammette gli dèi soltanto perché ammette una divinità superiore, della quale gli dèi sono manifestazioni. È dunque a questa divinità, e non agli dèi particolari, che egli fa appello, riconoscendola sia come garante dell’ordine del mondo, sia come forma suprema di intelligenza e di bene.
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Di questa mente divina universale Socrate individua un’attuazione particolare nella La concezione mente umana. Anzi, quale unico essere vivente dotato di ragione, soltanto l’uomo è per socratica della divinità Socrate capace di rapportarsi alla divinità. L’intelligenza umana, il suo carattere rigoroso e la generalità dei risultati che riesce a ottenere, così come l’organizzazione razionale e ordinata del cosmo, mostrano che tutto ciò non può essere opera del caso, bensì, per l’appunto, di una superiore mente ordinatrice, di un essere supremo che – in contrasto con gli dèi della tradizione, preposti ognuno a un determinato ambito – governa l’universo intero. In accordo con tale concezione sembra essere anche la critica socratica ad Anassagora, il quale, pur avendo intuito la presenza del noús (l’intelligenza ordinatrice), aveva poi spiegato i singoli fenomeni naturali ricorrendo ESERCIZI soltanto a cause meccaniche. Oltre a tenere insieme l’universo, la divinità socratica è anche custode del destino degli L’essenza uomini, presidio dei valori morali; tant’è vero che, dopo essere stato condannato, Socrate della religiosità di socrate dichiara ai giudici di essere certo che «per l’uomo onesto non vi è male né nella vita, né nella morte» e che la sua causa è «nelle mani degli dèi». Questa profonda fiducia in un ordine buono dell’universo fu senza dubbio l’essenza della religiosità socratica, una religiosità che non riposava su credenze, ma animava la ricerca filosofica.
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Per l’esposizione orale
1. Definisci le espressioni e i termini elencati di seguito, quindi utilizzali per presentare i principali caratteri della morale socratica: virtù, razionalismo morale, eudemonismo. 2. In che cosa consiste l’intellettualismo etico e in che senso, secondo alcuni studiosi, Socrate ne sarebbe un esponente? 3. Illustra le principali interpretazioni del “demone” socratico. 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera il carattere “negativo” del demone di Socrate, che parla al filosofo soltanto per dissuaderlo da quanto egli sta per fare, e mai per indurlo ad agire: hai mai avuto la sensazione di essere anche tu condizionato, nei tuoi comportamenti, da un “freno” di tal genere, da una simile “voce interiore”? Se sì, descrivi la tua esperienza e ipotizzane i motivi o la natura. 5. Qual è la concezione socratica dell’anima e degli dèi tradizionali?
7. il processo e la morte di socrate L’influenza di Socrate si era già esercitata in Atene su un’intera generazione, quando i tre L’accusa democratici Meleto, Anito e Licone lo denunciarono al tribunale della città. L’accusa scritta, sulla base della quale si svolse il processo, fu presentata da Meleto: «Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 40). Come abbiamo già visto ( “Il racconto di una vita”, p. 152), di fronte a questa imputazione Socrate poteva scegliere di tentare di scagionarsi, oppure di lasciare Atene. Egli scelse di rimanere e di affrontare il processo, e la sua autodifesa fu un’esaltazione del compito educativo che si era assunto nei confronti degli ateniesi, un compito – come egli stesso dichiarò – al quale era stato chiamato da un ordine divino e che in nessun caso avrebbe abbandonato. Abbiamo già detto quanto accadde in seguito: il discorso di Socrate non convinse i giudici ed egli fu riconosciuto colpevole, seppure da una piccola maggioranza. A questo punto il filosofo avrebbe ancora potuto scegliere l’esilio, o in alternativa proporre una pena che
La fedeltà di socrate alla propria missione
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gli sembrasse più adeguata. Invece, da una parte si disse disposto a pagare una multa di tremila dracme, ma dall’altra dichiarò orgogliosamente che si sentiva meritevole di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritanèo, come si faceva con i benemeriti della città. La provocazione indispose i giudici, i quali, questa volta a più forte maggioranza, votarono la condanna a morte.
Le cause storiche e politiche del processo Qualche studioso ha affermato che la cosa più importante nella vita di Socrate fu la sua morte. In questa tesi c’è qualcosa di vero, in quanto il “mito” di Socrate, nelle varie epoche, si è alimentato anche del tragico epilogo della sua vita. Per lungo tempo il processo e la morte di Socrate sono apparsi poco chiari. In realtà sappiamo oggi che essi non sono per nulla “indecifrabili”, in quanto si collocano in un ben preciso contesto storico-politico. il contesto Dopo la sconfitta subìta nella guerra del Peloponneso, nel 404 a.C. ad Atene si era afferstorico mato il regime oligarchico e filo-spartano dei Trenta tiranni ( p. 155). Pare che Socrate
non si fosse compromesso con questo governo – di cui anzi aveva criticato alcune scelte – ma, quando esso fu rovesciato dalla reazione popolare, fu proprio la restaurata democrazia a volere, nel 399 a.C., il suo processo. L’accusa ufficiale rivolta a Socrate – quella di corrompere i giovani insegnando dottrine contrarie alla religione della città – va appunto posta in relazione con la fisionomia conservatrice assunta dalla rinata democrazia. Pur recuperando (dopo la parentesi dei Trenta tiranni) le istituzioni assembleari, Atene guardava con nostalgia al proprio passato glorioso (precedente alla sconfitta subìta ad opera di Sparta) e perciò tendeva a chiudersi alle novità e a fare dell’antica religione un baluardo di coesione sociale e ideale. Per questo un uomo come Socrate, dall’atteggiamento indipendente e “spregiudicato” in fatto di filosofia come di religione, poteva apparire un elemento politicamente pericoloso.
L’ipotesi di un Alcuni studiosi tendono tuttavia a considerare l’accusa contro Socrate come un pretesto aristocraticismo giuridico dietro il quale si celava un più remoto motivo di ostilità dei democratici verso il politico
filosofo. Sembra infatti che Socrate fosse fautore di un aristocraticismo politico antitetico all’ideologia democratica teorizzata, tra gli altri, da Protagora, e che concepisse i compiti di governo come frutto di arte e competenza, da affidare a poche persone solidamente preparate in materia. Di conseguenza, pare che egli criticasse aspramente alcune procedure politiche della costituzione democratica, soprattutto quelle che consentivano di accedere alle cariche pubbliche per sorteggio o per elezione popolare. Per non citare il fatto che Socrate era inequivocabilmente legato da rapporti di amicizia con alcuni esponenti di quella gioventù ultra-aristocratica di Atene che aveva ordito il colpo di Stato dei Trenta tiranni.
Il significato filosofico della morte di Socrate Al di là di questi retroscena del processo, che nel loro insieme forniscono un quadro sufficientemente verosimile dei motivi politici che furono alla base dell’accusa a Socrate, la morte del filosofo, costretto a bere la velenosa cicuta, riveste anche un alto significato ideale ed esistenziale, poiché testimonia la piena fedeltà di Socrate a sé stesso e ai propri princìpi teorici. Platone, nei suoi dialoghi, ha magistralmente “sceneggiato” questo aspetto, presentando il filosofo come un uomo che, avendo insegnato per tutta la vita la giustizia e il rispetto delle leggi, non poteva sottrarsi alla legislazione ateniese fuggendo in esilio e smentire così, nel momento decisivo, la propria opera di maestro. ( T3 p. 181)
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
La lealtà socratica verso la città e le sue leggi affonda le proprie radici nel pensiero dello stesso Socrate, il quale, analogamente a Protagora, riteneva che l’essere umano potesse dirsi autenticamente tale soltanto all’interno di una società. Per Socrate, cioè, l’uomo emerge dall’animalità primitiva e si auto-costituisce come essere umano soltanto in un contesto comunitario retto da leggi. E dire che “l’uomo è società” equivale a dire che “l’uomo è uomo in quanto figlio delle leggi”. Pertanto, chi rifiuta le leggi del proprio Stato o della propria civiltà cessa di essere uomo, a meno che non accetti le leggi di un altro Stato. Le leggi si possono cambiare e migliorare, ma non violare, perché altrimenti verrebbe meno la stessa vita in società. Questa tesi fondamentale di Socrate – che farà dire a Platone che il suo maestro, pur non essendo un politico, era stato l’unico vero politico di Atene – ci permette di capire perché egli abbia scelto la condanna al posto della fuga, «preferendo morire rimanendo fedele alle leggi, anziché vivere violandole» (Senofonte).
Il rispetto della legge
socrate e le leggi
I NODI DEL PENSIERO Qual è il rapporto tra individuo e Stato? p. 477
EDUCAZIONE CIVICA
Per Socrate – ma anche per molti esponenti della sofistica – le leggi di uno Stato costituiscono il fondamento della vita in società (che, priva di leggi, risulterebbe impossibile), nonché della piena realizzazione dei cittadini in quanto esseri umani. • Leggi l’articolo 54 della Costituzione italiana: che cosa si specifica relativamente ai «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche» e, a tuo avviso, per quale motivo? • Leggi anche gli articoli 48, 49, 50 e 51: in che modo i cittadini italiani possono adoperarsi per migliorare le leggi, qualora lo ritengano utile o necessario?
8. Le scuole socratiche L’allievo più famoso di Socrate, oltre che il suo grande interprete e continuatore, è Platone, di cui parleremo diffusamente nella prossima unità. A Socrate, tuttavia, fanno capo alcune scuole filosofiche, dette “socratiche”, che riprendono ed enfatizzano qualche aspetto della sua dottrina, ma che si allontanano tutte, quale più quale meno, dal suo insegnamento fondamentale. Le quattro Abbiamo notizia di quattro scuole fondate da discepoli di Socrate: la scuola megarica, fondata da Euclide di Megara (da non confondere con Euclide il ma- scuole socratiche tematico), i cui pensatori sottolinearono l’unicità e l’universalità del bene, fino a sottrarlo al mondo umano concreto, e a identificarlo con l’essere di Parmenide; la scuola cinica, fondata ad Atene da Antistene, che esaltò in maniera estrema il concetto di “virtù”, secondo l’ideale di un’esistenza naturale che non doveva presentare alcun tipo di comodità o di agio, come suggerisce lo stesso nome della scuola, che sembra derivare dalla vita da “cane” (in greco kyon-kynós) condotta dallo stesso Antistene e dai suoi discepoli; la scuola cirenaica, fondata da Aristippo di Cirene, che identificò il bene con il piacere; la scuola eretriaca, fondata da Fedone (sebbene debba il suo nome a Menedemo, successore di Fedone e nato a Eretria), ma della quale non conosciamo nulla.
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Per l’esposizione orale
1. Con quali accuse si apre il processo intentato contro Socrate? 2. Illustra il significato filosofico e ideale della morte di Socrate. 3. Elenca le cosiddette “scuole socratiche”, chiarendo quali aspetti del pensiero di Socrate ciascuna di esse enfatizzi.
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l’eredità di SOCRATE DA CHI E CHE COSA EREDITA
da Anassagora l’idea che la filosofia debba interrogarsi sul “perché” delle cose
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CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
le cause fisiche ricercate da Anassagora si trasformano in Socrate in cause morali: anziché sulle cause meccaniche dei fenomeni, egli riflette sugli scopi che muovono l’azione umana
dai sofisti l’interesse umanistico della sua ricerca, che considera l’essere umano e la sua razionalità come i criteri ultimi per giudicare il pensiero e l’azione
nel pensiero socratico è stato visto l’atto di nascita dell’umanesimo occidentale, che celebra la centralità e la libertà della coscienza soggettiva
dai sofisti l’atteggiamento critico e anticonformistico, che non accetta nulla che non sia vagliato dalla ragione
il dubbio è un elemento imprescindibile del metodo socratico, che ricerca la verità analizzando criticamente ogni affermazione
dai sofisti la centralità attribuita alla parola e al confronto dialettico
il dialogo è lo strumento usato da Socrate, che sceglie di non lasciare opere scritte per non irrigidire le proprie tesi in formule che potrebbero essere considerate definitive
dai sofisti il ricorso alla retorica al fine di persuadere gli interlocutori
anche Socrate ricorre spesso agli espedienti retorici (antilogie, paradossi, dimostrazioni per assurdo ecc.), che tuttavia sono finalizzati alla ricerca della verità, e non a scopi meramente persuasivi
da Protagora l’idea che la virtù politica si possa insegnare e apprendere
per Socrate non è soltanto l’arte politica a poter essere appresa, ma la virtù in generale, intesa come scienza del bene e del male
da Protagora l’idea che le leggi siano da rispettare, in quanto fondamento della vita sociale
il rispetto delle leggi è per Socrate un imperativo al quale non si può venir meno, che lo induce ad accettare la propria condanna a morte, pur giudicandola ingiusta
UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 SOCRATE
La concezione della filosofia Figura particolare e affascinante, Socrate dedica l’intera esistenza alla filosofia, intesa come esame incessante di sé e degli altri. Egli condivide dunque con i sofisti lo spostamento della ricerca filosofica dalla natura all’essere umano, la tendenza a individuare nell’uomo il metro del pensiero e dell’azione, un atteggiamento critico e anticonformistico, e l’inclinazione verso la dialettica e il paradosso. Dai sofisti lo allontana invece un più sofferto amore per la verità, che lo induce a cercare di superarne l’esibizionismo retorico e il relativismo conoscitivo e morale.
Il metodo dialogico Il metodo con il quale Socrate conduce la propria ricerca filosofica è il
• dialogo
(in greco diálogos, a sua volta composto dalla preposizione diá, “tra”, e dal sostantivo lógos, “discorso”) lo scambio verbale tra due o più interlocutori.
Presupposto imprescindibile del dialogo socratico è il sapere di non sapere, perché soltanto chi sa di non sapere è un autentico sapiente, che cercherà di conseguire quella conoscenza di cui avverte la mancanza. Ed è proprio alla consapevolezza di essere “ignoranti” che Socrate intende condurre i suoi interlocutori; a questo fine egli utilizza
• l’ironia
(in greco eironéia, “simulazione” o “dissimulazione”) il momento critico-demolitorio dell’interrogare di Socrate, il quale si finge ignorante su un certo argomento per spingere l’interlocutore a esporre con disinvoltura le proprie tesi. Ma queste diventeranno subito oggetto di analisi e di
• confutazione
(dal latino confutatio, che a sua volta deriva dal verbo confutare, “ribattere”, “indebolire”) corrisponde al greco élenchos (letteralmente “elenco”), termine che presso i Greci indicava l’esposizione di una serie di obiezioni a una certa tesi.
Una volta “purificata” la mente dei suoi discepoli da certezze prefabbricate e false opinioni, Socrate passa al momento costruttivo del dialogo. Questo non consiste nel trasmettere all’altro le proprie personali certezze, bensì in un’opera di
• maieutica
(dal greco maieutiké téchne, “tecnica maieutica”) l’arte della levatrice (in greco máia), a cui Socrate paragona la propria capacità di pungolare l’interlocutore con opportune domande, per aiutarlo a “partorire” le verità che egli, senza saperlo, custodisce dentro di sé.
La “verità” ricercata da Socrate riguardo a un certo argomento (la virtù, la giustizia ecc.) consiste nella sua
• definizione
(dal verbo latino definire, “limitare”, “circoscrivere”) la determinazione precisa e univoca del significato di un termine. La ricerca della definizione corrisponde in Socrate all’individuazione dell’“essenza” di una cosa, del suo “che cos’è”, ovvero di ciò che resta di essa una volta che sia stata spogliata da tutti i suoi elementi “accidentali”, ininfluenti per comprenderne la natura profonda.
Attraverso il dialogo, Socrate mira pertanto ad arrivare alla definizione precisa di ciò di cui si sta parlando; per questo carattere definitorio della sua ricerca, Aristotele vedrà in lui lo “scopritore” di due elementi fondamentali dell’indagine filosofica:
• induzione
(dal verbo latino indúcere, letteralmente “trarre dentro”) un tipo di ragionamento che, a partire da una serie di casi o esempi particolari, risale al principio generale ad essi sottostante, ovvero al suo:
• concetto
(dal latino concéptus, participio passato del verbo concípere, “concepire”) nell’accezione socraticoplatonico-aristotelica, un contenuto mentale che fissa in modo universalmente valido i tratti essenziali di una certa cosa o realtà.
Le definizioni (o i concetti) a cui Socrate perviene mediante il dialogo non sono considerate conoscenze certe e inamovibili. Esse costituiscono in qualche modo una “verità”, la quale tuttavia deve essere intesa come
• omologhía
(dall’aggettivo ómoios, “uguale”, “simile”, e dal sostantivo lógos, “discorso”) il “discorso comune” a cui si perviene mediante il dialogo: non un possesso definitivo di conoscenze stabili, ma un accordo razionale su un certo tema, raggiunto da un gruppo di dialoganti attraverso la libera discussione.
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La dottrina etica Il punto-chiave della morale socratica è costituito dall’innovativa concezione della
• virtù
(dal latino virtus, “forza”, “valore”, corrispondente al greco areté) nella Grecia antica, ciò che esalta e realizza pienamente la natura di un ente, e dunque (nel caso degli esseri umani) il modo ottimale di essere uomo. Così intesa, nella tradizione omerica l’areté risiedeva soprattutto nel coraggio, nella forza e nell’onore. In Socrate si identifica invece con la pratica abituale del bene, mediante la quale l’essere umano può conseguire la felicità e la serenità dell’animo: si tratta, cioè, dell’arte del ben vivere e del ben comportarsi, che per Socrate si appoggia a sua volta sul sapere, secondo il principio del
• razionalismo morale
la dottrina filosofica che attribuisce alla ragione e all’intelligenza la direzione della vita pratica, nella convinzione che per agire correttamente (o moralmente) siano indispensabili la conoscenza e la riflessione.
Come per i sofisti, anche per Socrate la virtù non è un dono che si possieda per natura, ma un fine da conseguire con impegno e fatica: essa è “scienza”, cioè una forma di sapere che, come tale, si può apprendere e insegnare. Inoltre la virtù è un valore interiore ed è unica, poiché quelle che comunemente sono considerate virtù diverse, non sono che specificazioni dell’unica scienza del bene, mediante la quale si cerca di comprendere che cosa, di volta in volta, sia preferibile scegliere. Da questa visione derivano due conseguenze paradossali: 1. se il bene è conoscenza, allora il male è ignoranza, e dunque nessuno compie il male sapendo di farlo; 2. è meglio subire il male che commetterlo. Identificando la virtù con il sapere, Socrate non intende “mortificare” l’essere umano e spegnere la sua gioia di vivere; anzi, egli ritiene che una vita virtuosa, cioè condotta secondo i dettami della ragione, sia la sola che può portare alla felicità; in questo senso l’etica socratica si configura come una forma di
La concezione dell’essere umano e della religione Secondo la testimonianza di Platone, Socrate ritiene che nell’anima umana risuoni la “voce” di un:
• dèmone
(in greco dáimon) nell’antica tradizione greca, un essere di natura divina che si colloca a metà strada fra gli dèi propriamente detti e gli uomini, contribuendo a metterli in comunicazione. Per Socrate è una voce interiore, che lo guida impedendogli di compiere azioni non conformi al bene.
Quello di “demone” è in Socrate un concetto religioso, e non soltanto morale: per lui, infatti, la mente umana è l’attuazione particolare di una mente divina universale che ordina e tiene insieme tutto l’universo. Gli dèi della religione tradizionale sono dunque manifestazioni di questa divinità superiore, la quale è anche garante del bene e custode del destino degli uomini.
Il processo e la morte Nel 399 a.C. il governo democratico instauratosi ad Atene dopo la parentesi oligarchica dei Trenta tiranni accusa Socrate di corrompere i giovani insegnando dottrine contrarie alla religione tradizionale. Il processo si conclude con la condanna a morte del filosofo, il quale non tenta di sottrarsi alla propria sorte, ma accetta la sentenza con apparente serenità, in nome di quella fedeltà alle leggi della città che costituisce uno dei capisaldi del suo pensiero. Socrate, infatti, è convinto che un uomo possa dirsi veramente tale soltanto in quanto membro di una comunità regolata da un sistema di leggi: sottrarsi a esse significherebbe quindi rinunciare alla propria identità di essere umano.
• eudemonismo
ogni dottrina che, analogamente a quella socratica, assuma quale principio o movente della vita morale la felicità, facendo coincidere la virtù e la vita virtuosa con il bene che rende felice l’essere umano. Il termine deriva dal greco eudaimonía (dal prefisso eu-, “bene”, “buono”, e dal sostantivo dáimon, “dèmone”), che nell’antica Grecia indicava la condizione di “felicità” o di “benessere” dovuta allo star bene con sé stessi, ovvero con il proprio dèmone interiore.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
MAPPE
CAPITOLO 2 SOCRATE LA FILOSOFIA PER SOCRATE è
studia
aspira alla
esame incessante di sé e degli altri
l’essere umano
verità
condotto con
nel quale individua
nel tentativo di
atteggiamento critico e anticonformistico
i criteri del pensiero e dell’azione
superare il relativismo sofistico
IL DIALOGO SOCRATICO presuppone
utilizza
cerca
perviene alla
il sapere di non sapere
l’ironia e la maieutica
la definizione di ciò di cui si parla
verità, intesa come omologhía
L’ETICA SOCRATICA è una forma di
razionalismo morale
eudemonismo
in quanto
in quanto
la virtù è considerata scienza
la virtù conduce alla felicità (eudaimonía)
ovvero un
che consiste nella
atteggiamento razionale che si può insegnare cerca il bene in ogni situazione concreta
realizzazione della propria natura razionale
NELL’ANIMA E NELLA MENTE DI OGNUNO risuona la voce di
trova attuazione
un demone che guida il comportamento
una mente divina universale che
di cui
custodisce il destino dell’umanità garantendo il bene
i diversi dèi sono manifestazioni particolari
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CAPITOLO 2 SOCRATE
La testimonianza di senofonte
Pur avendo dedicato la sua vita alla filosofia, Socrate non ci ha lasciato alcuno scritto, pertanto conosciamo il suo pensiero solamente grazie a testimonianze indirette. Iniziamo con quella di Senofonte, che ha conosciuto personalmente Socrate, di cui è diventato ammiratore, anche se non ha mai fatto parte del gruppo dei suoi discepoli più intimi. Dopo la morte di Socrate, Senofonte ha raccolto in quattro opere (Economico, Apologia, Simposio e Memorabili) una serie di testimonianze su di lui, volte a scagionarlo dalle accuse degli avversari. TESTO
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L’indagine sull’essere umano (Senofonte, Memorabili) IL TESTO NELL’OPERA Nell’opera intitolata Memorabili Senofonte raccoglie dialoghi ed episodi della vita di Socrate, con lo scopo di offrire del filosofo un ritratto esemplare, che ne esalti la virtù e la morigeratezza, la saggezza e l’amor patrio, la filantropia e la benevolenza. Oltre alle qualità morali, Senofonte mette in luce anche l’originalità del pensiero di Socrate, come si legge nel testo che segue. Rispetto ai primi filosofi, dediti all’indagine naturalistica, Socrate indica una nuova via di ricerca, dal momento che ritiene impossibile per la mente umana cogliere i princìpi della realtà; tale via passa attraverso l’esame delle «cose umane» per tentare di chiarire l’uomo a sé stesso.
La critica [Socrate] Non discuteva sulla natura dell’universo, come la maggior parte degli altri, indasocratica gando in che modo esista quel che i dotti chiamano “cosmo” e per quali necessità accada- 2 ai filosofi naturalisti no i vari fenomeni celesti: quanti si mettevano in tali ricerche li definiva insipienti. Intorno
a costoro ragionava così: ritengono di conoscere già tanto le cose umane che si mettono in tali indagini, ovvero, tralasciando le cose umane ed esaminando quelle divine, credono di agire come si conviene? E si meravigliava che alla loro mente non balzasse manifesta l’impossibilità di risolvere tali questioni, poiché anche quelli che erano orgogliosi di trattarle non si accordavano mai l’un con l’altro, ma erano tra loro molto simili a gente che vaneggi. Ora di quelli che vaneggiano, alcuni non hanno paura neppure dei pericoli; altri, invece, temono perfino ciò che non comporta rischio: questi, neppure davanti alla folla ritengono turpe dire e fare ogni cosa; quelli, invece, ritengono di non doversi nemmeno mostrare in pubblico: alcuni non rispettano né templi, né altari, né alcun altro oggetto sacro; altri, al contrario, venerano sassi, pezzi di legno qualsiasi, animali. Così, di quanti si travagliano
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intorno alla natura dell’universo, questi sostengono che l’essere è solo uno, quelli che è in- 14 finito di numero; questi che tutto è in continuo movimento, quelli che niente è mai in movimento; questi che tutto si genera e si distrugge, quelli che niente si è mai generato e 16 niente si distruggerà. L’inutilità Un’altra osservazione faceva rispetto a costoro: chi conosce le cose umane, ritiene di poter 18 dell’indagine realizzare quel che sa o per se stesso o per chiunque voglia, ma quelli che ricercano le cose sulla natura
divine, conosciute le leggi per cui tutto necessariamente si produce, pensano di poter rea- 20 lizzare, a loro piacere, venti, acque, stagioni e qualunque altra cosa di cui si abbia bisogno o non si ripromettono niente di tutto questo e si contentano solo di conoscere in che modo 22 ciascun fenomeno si produce?
L’utilità Così diceva di chi si affaccendava intorno a tali indagini: egli, dal canto suo, discorreva 24 dell’indagine sempre di valori umani, ricercando che cosa fosse pio, che cosa empio, che cosa bello, che sull’uomo
cosa brutto, che cosa giusto, che cosa ingiusto, che cosa prudenza, che cosa pazzia, che 26 cosa coraggio, che cosa viltà, che cosa Stato, che cosa statista, che cosa governo, che cosa governatore e le altre cose la cui conoscenza, secondo lui, rendeva gli uomini eccellenti; 28 l’ignoranza, invece, li faceva giustamente chiamare schiavi. (Senofonte, Memorabili, I, 1, 11-16, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1986)
La critica socratica ai filosofi naturalisti (rr. 1-17) Sebbene quanto affermato da Senofonte in questo testo non concordi con la testimonianza di Platone (che nel Fedone fa raccontare a Socrate di avere seguito, in gioventù, le teorie di Anassagora, dedicandosi quindi allo studio della natura per poi abbandonarlo), è comunque indicativo del tipo di critica che Socrate avrebbe mosso ai filosofi naturalisti. Cercando i princìpi della realtà e l’intima natura dell’universo, questi avrebbero finito per disinteressarsi della vita umana, trascurando così il solo ambito di indagine da cui l’uomo può trarre vantaggi concreti per una pacifica e fruttuosa convivenza. I primi filosofi, inoltre, a causa della varietà, dell’eterogeneità e dell’inconciliabilità delle loro posizioni (peraltro inevitabili, trattando essi di argomenti imperscrutabili per la mente umana), sono assimilati da Socrate a veri e propri folli («gente che vaneggi», r. 8), persi dietro pensieri talmente lontani dalla realtà da poter giustificare qualunque atteggiamento o concezione.
È facile, in queste righe, rintracciare riferimenti al pensiero di Anassagora, oltre che di Parmenide e di Eraclito, fra loro contraddittori. L’inutilità dell’indagine sulla natura (rr. 18-23) La domanda di Socrate, riportata da Senofonte, suona di fondamentale importanza: mentre la conoscenza dell’essere umano è utile alla vita, a che cosa può servire la conoscenza delle «cose divine» (rr. 19-20), posto che i fenomeni naturali non si possono dominare ma soltanto, eventualmente, comprendere? L’utilità dell’indagine sull’uomo (rr. 24-29) A differenza dei filosofi naturalisti, Socrate preferisce dunque interessarsi del mondo umano, dove ciò che si conosce può trovare una realizzazione pratica. In questa indagine sull’uomo, egli va in cerca di definizioni, riflettendo sull’autentica natura di valori e princìpi che possano contribuire a liberare gli uomini dall’ignoranza, trasformandoli in persone «eccellenti» (r. 28), ovvero capaci di realizzare la virtù specificamente umana di vivere in società.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Anche tu, come Socrate, ritieni che esistano ambiti di ricerca più importanti di altri? Sulla base di quale criterio si può stabilire, a tuo avviso, un’eventuale gerarchia dei saperi? Esponi il tuo punto di vista in modo argomentato (max 30 righe).
TESTI SOCRATE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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La testimonianza di Platone
Di seguito attingiamo a una delle testimonianze su Socrate più significative, quella di Platone, che è stato suo discepolo e ha messo a fuoco un aspetto essenziale della riflessione del maestro: l’arte maieutica. TESTO
2
L’arte maieutica
(Platone, Teeteto)
Il testo proposto, tratto dal dialogo platonico intitolato Teeteto ( p. 270), illustra in che senso, per Socrate, il lavoro del filosofo sia accomunabile a quello di un’ostetrica. socrate SOCRATE Tu hai le doglie, caro Teeteto: segno che non sei vuoto, ma pieno. “figlio d’arte” TEETETO Non lo so, o Socrate: io ti dico solo quello che provo.
2
SOCRATE Oh, mio piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una mol-
to brava e vigorosa levatrice, di Fenarete? TEETETO Questo sì, l’ho sentito dire. SOCRATE E che io esercito la stessa arte l’hai sentito dire? TEETETO No, mai! SOCRATE Sappi dunque che è così. Tu però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo quest’arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensì ch’io sono il più stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche questo l’avrai sentito dire, è vero? TEETETO Sì. […]
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il mestiere SOCRATE Vedi di intendere bene che cosa è questo mestiere della levatrice, e capirai più facildell’ostetrica mente che cosa voglio dire. Tu sai che nessuna donna, finché sia ella in istato di concepire e 14
di generare, fa da levatrice alle altre donne; ma quelle soltanto che generare non possono più. TEETETO Sta bene. SOCRATE La causa di ciò dicono sia stata Artemide, che ebbe in sorte di presiedere ai parti benché vergine. Ella dunque a donne sterili non concedette di fare da levatrici, essendo la natura umana troppo debole perché possa chiunque acquistare un’arte di cui non abbia avuto esperienza; ma assegnò codesto ufficio a quelle donne che per l’età loro non potevano più generare, onorando in tal modo la somiglianza che esse avevano con lei. TEETETO Naturale.
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il mestiere SOCRATE E non è anche naturale e anzi necessario che siano le levatrici a riconoscere meglio d’odi socrate gni altro se una donna è incinta oppure no? […] Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rima- 24
nente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua [di quest’arte] è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appaiano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto. (Platone, Teeteto, 148e, 149a-c, 150b, trad. it. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1971)
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Socrate “figlio d’arte” (rr. 1-12) Accanto a quello della maieutica, Platone introduce qui il tema del dubbio: Socrate è «più di chiunque altro dubbioso» (Menone, 80c), quindi non può fare altro che seminare dubbi, e fa sì che anche gli altri siano critici verso sé stessi, in modo da riconoscere i propri limiti. Per questo Socrate non dice mai di essere un maestro, né Platone lo chiama mai così, preferendo piuttosto definirlo “compagno”. Socrate si limita ad aiutare gli altri a “partorire” sé stessi, seguendo l’esempio di sua madre Fenarete, che faceva appunto la levatrice, ossia l’ostetrica. Il mestiere dell’ostetrica (rr. 13-22) Richiamando alcuni aspetti peculiari della professione della levatrice, Socrate intende spiegare a Teeteto in che cosa esattamente consista il proprio compito. La levatrice non è una donna sterile, la quale non potrebbe conoscere un evento di cui non ha avuto esperienza, ma è una donna che ha avuto figli e che ormai non può più generare. La ragione di questa usanza viene rintracciata da Socrate nelle credenze tradizionali su Artemide (Diana per i Latini). Dea della caccia, Artemide era anche considerata protettrice delle partorienti,
dal momento che poco dopo la sua nascita, e quindi ancora vergine, aveva aiutato la madre (la ninfa Latona) a partorire Apollo. Ella volle dunque assegnare il compito di assistere le partorienti a donne che in qualche modo condividessero la sua condizione. Il mestiere di Socrate (rr. 23-35) Come le levatrici, anche Socrate aiuta a partorire, con la differenza che egli non si occupa di donne ma di uomini (si noti che la pratica filosofica all’epoca era rivolta pressoché esclusivamente al genere maschile), né di corpi ma di anime. Anch’egli è sterile, ma di sapere: è dunque appropriato il rimprovero che in tanti gli muovono, cioè di essere ignorante. Egli interroga gli altri, ma non manifesta mai il suo pensiero, e il motivo di questo comportamento è proprio il fatto che svolge la funzione dell’ostetrico: aiuta gli altri a generare, mentre a lui il dio «vietò di generare» (r. 32). A sé stesso, tuttavia, Socrate riconosce la capacità di comprendere se l’anima del suo interlocutore partorisca «fantasmi» (r. 27), cioè illusioni (dal greco phántasma, “figura”, “visione”, a sua volta derivato dal verbo phantázomai, “appaio”), oppure qualcosa di utile e vitale.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Socrate afferma che la filosofia ha lo scopo di aiutare gli altri a trovare in sé la verità, attraverso la conoscenza della propria anima. Quale rapporto ti sembra che ci sia tra la conoscenza di sé e la sapienza? Esponi e argomenta la tua opinione al riguardo (max 20 righe).
La morte di socrate
La morte di Socrate, descritta magistralmente da Platone nel dialogo intitolato Fedone, può aiutare a comprendere appieno il significato della figura e della filosofia socratica.
3
Gli ultimi istanti di vita
(Platone, Fedone)
IL TESTO NELL’OPERA Fedone – allievo di Socrate che dà il titolo al dialogo platonico – narra a Echècrate, membro della scuola pitagorica, e ai suoi compagni le ultime ore di Socrate, avendo personalmente assistito all’esecuzione del maestro. Il racconto è ambientato in carcere, dove Socrate, prima di morire, si è intrattenuto a discorrere con i suoi discepoli. Il tema principale del dialogo è quello dell’immortalità dell’anima, che Socrate sostiene con diverse prove. AUDIOLETTURA Il testo seguente è tratto dalla fine del dialogo e, nel descrivere la conclusione della vita terrena di Socrate, rappresenta una suggestiva sintesi degli argomenti affrontati nell’opera. Alla serenità con cui il filosofo beve il veleno, tutto d’un fiato e fino in fondo, si contrappone il pianto disperato degli amici che gli stanno vicino, i quali si sentono privati di una guida sicura.
TESTI SOCRATE
TESTO
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L’arrivo Ed ecco venne il messo degli Undici, il quale, fermatosi davanti a lui, «O Socrate, disse, io del messo non avrò certo a lagnarmi di te come ho da lagnarmi di altri che si adirano meco e mi ma- 2
ledicono, quando io vengo ad annunziar loro, per ordine degli arconti, che devon bere il veleno. Ma te, in tutto questo tempo, ho avuto modo più volte di conoscere che sei il più gentile e il più mite e il più buono di quanti mai capitarono qui; e ora specialmente so bene che tu non ti adiri meco, perché li conosci coloro che ne hanno colpa, e con quelli ti adiri. Ora dunque – tu lo sai quello che sono venuto ad annunziarti – addio, e vedi di sopportare meglio che puoi il tuo destino». E così dicendo scoppiò a piangere, voltò le spalle e se n’andò. E Socrate, levato un po’ il capo a guardarlo, «E anche a te, disse, addio; e io farò come dici». E, rivolto a noi, «Che gentile persona, disse. Per tutto questo tempo egli veniva spesso a trovarmi; e talvolta s’indugiava a conversare meco, ed era uomo eccellente; e vedete ora come sinceramente mi piange? Su via Critone, diamo retta ora a colui, e qualcuno porti il veleno, se è pestato; se no, l’uomo lo pesti».
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La fermezza E Critone: «Ma il sole, disse, o Socrate, è ancora, credo, sui monti, non anche è tramontato. 14 di fronte E io so che altri assai più tardi bevono, dopo che ne hanno avuto l’annunzio; e dopo manal proprio destino giato e bevuto a loro volontà, e taluni perfino dopo essere stati insieme a loro piacere con 16
chi vogliono. Tu dunque, se non altro, non avere fretta, perché c’è tempo ancora». E Socrate: «È naturale, disse, o Critone, che costoro, quelli che dici tu, facciano così, perché credono 18 d’aver qualche cosa da guadagnare facendo in codesto modo; ed è anche naturale che non faccia così io, perché credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi, se 20 non di rendermi ridicolo a’ miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c’è più niente da risparmiare. Via, disse, da’ retta e non fare diversamente». 22
un’ultima E Critone, udito ciò, fece cenno a un suo servo ch’era in piedi vicino a lui; e il servo uscì, preghiera rimase fuori un po’ di tempo, e tornò menando seco l’uomo che doveva dare il farmaco, che 24
lo portava pestato in una tazza. E Socrate, veduto colui, «Bene, disse, brav’uomo, tu che di queste cose te n’intendi, che si deve fare?». «Nient’altro, rispose, che, dopo bevuto, andare un po’ attorno per la stanza, finché tu non senta peso alle gambe; dopo, rimanere sdraiato; e così il farmaco opererà da sé». E così dicendo porse la tazza a Socrate. Ed egli la prese, oh, con vera letizia, o Echècrate; e non ebbe un tremito e non mutò colore e non torse una linea del volto; ma così, come soleva, guardando all’uomo di sotto in su con quei suoi occhi da toro, «Che dici, disse, di questa bevanda, se ne può libare a qualche Iddio, o no?». «O Socrate, rispose, noi ne pestiamo solo quel tanto che crediamo sufficiente a bere». «Capisco, disse Socrate. Ma insomma far preghiera agli dèi che il trapasso di qui al mondo di là avvenga felicemente, questo si potrà, credo, e anzi sarà bene. E questa appunto è la mia preghiera; e così sia».
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Lo sconforto E così dicendo, tutto d’un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza fi- 36 degli amici no in fondo. E i più di noi fino a quel momento erano pur riusciti alla meglio a trattenersi dal
piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che aveva bevuto, allora non più; e anche a me, con- 38 tro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso: ché certo non lui io piangevo, ma la sventura mia, che di tale amico restavo abbandonato! E Cri- 40 tone, anche prima di me, non riuscendo a frenare il pianto, s’era alzato per andar via. E Apollodoro1, che già anche prima non aveva mai lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi; 42 1. Apollodoro è un discepolo molto affezionato al maestro, menzionato da Platone anche nel Simposio, dove gli è affidato il ruolo di narratore.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate CApITOLO 2 Socrate
e tanto piangeva e gemeva che nessuno ci fu di noi lì presenti che non se ne sentisse spezzare il cuore: all’infuori di lui, di Socrate. E anzi, Socrate, «Che stranezza è mai questa, dis- 44 se, o amici? Non per altra cagione io feci allontanare le donne, perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù, 46 dunque, state quieti e siate forti». E noi, a udirlo, ci vergognammo, e ci trattenemmo dal piangere. 48 il gelo Ed egli girò un poco per la stanza; e, quando disse che le gambe gli si appesantivano, si della morte mise a giacere supino; perché così gli consigliava l’uomo. E intanto costui, quello che gli 50
aveva dato il farmaco, non cessava di toccarlo, e di tratto in tratto gli esaminava i piedi e le gambe; e, a un certo punto, premendogli forte un piede, gli domandò se sentiva. Ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette le gambe. E così, risalendo via via con la mano, ci faceva vedere com’egli si raffreddasse e si irrigidisse. E tuttavia non restava [smetteva] di toccarlo; e ci disse che, quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto. E ormai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì – perché s’era coperto – e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce, «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclèpio2: dateglielo e non ve ne dimenticate». «Sì, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire». A questa domanda egli non rispose più: passò un po’ di tempo, e fece un movimento; e l’uomo lo scoprì; ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. E Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi.
52 54 56 58 60
L’ammirazione Questa, o Echècrate, fu la fine dell’amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di quelli che 62 per socrate allora conoscemmo il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto. (Platone, Fedone, 115a - 118a, a cura di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1971) 2. Esculapio per i Latini, il dio della medicina a cui i Greci facevano un sacrificio quando venivano guariti da una malattia.
L’arrivo del messo (rr. 1-13) Il sole sta per calare e si avvicina per Socrate il momento di bere il veleno (le esecuzioni avvenivano infatti subito dopo il tramonto). Il «messo degli Undici» (r. 1), cioè l’inviato dei magistrati che dovevano occuparsi dei carcerati e dei condannati a morte, è sicuro che Socrate non si arrabbierà con lui, ma soltanto, eventualmente, con gli accusatori e con i giudici che hanno deciso la sua condanna; egli è un uomo semplice, che ha compreso molto di Socrate e che riceve il suo elogio. La fermezza di fronte al proprio destino (rr. 14-22) Dopo l’annuncio del messo, è lo stesso filosofo a prendere l’iniziativa e a chiedere che si prepari il veleno, ma Critone – un ricco ateniese che, pur essendo buon amico di Socrate, ancora non ha capito ciò che per il maestro sono la vita e la morte – lo invita a indugiare per guadagnare un po’ di tempo. Nella risposta di Socrate c’è invece una sorta di bramosia di an-
dare incontro al proprio destino, di entrare nella vita felice, come egli ha detto poco prima: «è quello ch’io mi sono sforzato di dimostrare tante volte da tanto tempo, che, dopo bevuto il farmaco, io non sarò più con voi, e me ne andrò via lontano di qui, beato tra i beati» (115d). Un’ultima preghiera (rr. 23-35) A un cenno di Critone, un servo esce e torna con l’uomo incaricato di somministrare il veleno. Socrate prende la tazza «con vera letizia» (r. 29) e, scrutando i presenti con i suoi «occhi da toro» (r. 31, gli occhi sporgenti ai quali Platone allude anche nel Teeteto), con grande dignità e fermezza pronuncia la sua ultima preghiera. Lo sconforto degli amici (rr. 36-48) L’assunzione della cicuta da parte di Socrate commuove i presenti, che, di fronte all’inesorabile avvicinarsi del momento finale, non riescono a trattenere le lacrime. Socrate (il quale poco prima, proprio per evitare strazianti
TESTI SOCRATE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
183
scene di pianto, aveva fatto allontanare i suoi figli e le donne di casa, che erano venuti a salutarlo) mantiene invece la calma, e anzi esorta gli amici a essere forti e a sostenerlo «con parole di lieto augurio» (r. 46). Il gelo della morte (rr. 49-61) Gli ultimi istanti della vita di Socrate sono caratterizzati dalla semplicità dei gesti finali: egli gira un poco per la stanza e si sdraia sul letto. Il veleno produce l’effetto di una paralisi progressiva: rallentando la circolazione del sangue, provoca una crescente sensazione di freddo. La richiesta rivolta a Critone di immolare un gallo ad Asclèpio richiama la concezione socratica (già orfico-
pitagorica) della vita terrena come di una malattia e di una prigione, e della morte come di una guarigione e di una liberazione. L’ammirazione per Socrate (rr. 62-63) Il giudizio con cui si conclude il Fedone risuona incontrovertibile, sottolineato dalla solennità del momento. È un tributo di grande stima da parte dell’autore del dialogo e ne richiama uno analogo che troviamo nella Lettera VII dello stesso Platone: «Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch’io non esito a dire il più giusto del suo tempo» (324e - 325a).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Alla luce di quello che hai studiato su Socrate, quali aspetti della sua filosofia pensi che possano avere condizionato il modo in cui egli ha affrontato la condanna a morte, tanto da permettergli di viverla con serenità e forza d’animo? Secondo te la filosofia può aiutare a dare il giusto peso alla vita e, quindi, alla morte? Perché? Esponi le tue considerazioni personali su questi temi (max 40 righe).
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VERIFICA
UNITÀ 2 L’INDAGINE SULL’ESSERE UMANO: I SOFISTI E SOCRATE FLASHCARD
CAPITOLO 1 I sofisti 1 Per i sofisti la cultura è:
5 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
A superflua se si possiede l’eloquenza
la mappa riportata sotto, relativa a una delle argomentazioni di Gorgia.
B un sapere che si costruisce con lo studio C un insieme di conoscenze specialistiche
assurda • cose • Chimera • irreale • mente • pensato • radicale
D un privilegio della classe aristocratica
2 Nella teoria di Protagora i valori:
6 Collega le caratteristiche della filosofia di Protagora
A non trovano alcuna collocazione B sono definiti una volta per sempre
(colonna di sinistra) con il loro significato (colonna di destra).
C sono diversi da comunità a comunità
a. umanismo
1. l’uomo è il criterio di ogni valutazione
b. fenomenismo
2. Dio non è razionalmente affermabile o negabile
D sono tutti indifferentemente equivalenti
3 Dal punto di vista gnoseologico la posizione di Gorgia è: A scettica
C antropocentrica
B utilitaristica
D relativistica
c. relativismo conoscitivo d. agnosticismo religioso
4 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. Per Protagora la politica è un’arte
che riguarda ogni essere umano
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. Per Gorgia la vita è dominata dal lógos,
cioè dalla ragione c. I sofisti interpretano la storia come
progressiva decadenza dell’umanità da un’iniziale età dell’oro d. La sofistica si basa sull’equazione
“pensiero = essere = verità” e. Crizia attribuisce alla religione un
carattere prettamente strumentale f. Antifonte afferma la naturale
uguaglianza tra gli uomini
3. noi abbiamo sempre a che fare con la realtà quale ci appare 4. ogni verità dipende dal soggetto che giudica
7 Completa il testo riportato sotto scegliendo le alternative corrette. Una delle grandi scoperte dei sofisti è l’importanza della tecnica / parola, come dimostra la centralità da essi attribuita alla dialettica / retorica. Nel loro argomentare, i sofisti fanno ricorso sia alla macrologia / brachilogia, cioè al discorso lungo, sia alla macrologia / brachilogia, cioè al discorso breve. Un esempio del primo tipo è il monologo retorico / dialogo, mentre un esempio del secondo tipo è il monologo retorico / dialogo. In generale, il modo di argomentare dei sofisti è definito retorica / dialettica, termine che etimologicamente fa riferimento alla capacità di confrontare le opinioni / fonti, sostenendo le proprie dimostrazioni / tesi e difendendole dai detrattori.
[mappa esercizio 5] Se esiste
il . . . . . . . . . . . . . . . . . . ad esempio la ..................
allora esiste anche
qualcosa di ..................
ma questa è
una conclusione ..................
pertanto si deve riconoscere
una frattura . . . . . . . . . . . . . . . . . . tra la . . . . . . . . . . . . . . . . . . e le . . . . . . . . . . . . . . . . . .
185
8 In che cosa consiste la “razionalità debole” accettata da Protagora?
9 Perché, dal punto di vista di Gorgia, Elena di Sparta è senza colpa?
11 Spiega come debba essere inteso il significato di “verità” nelle teorie, rispettivamente, di Protagora e di (max 12 righe) Gorgia.
(max 6 righe)
(max 6 righe)
12 Spiega quali sono le principali eredità lasciate dalla sofistica al pensiero successivo.
10 Quali sono gli aspetti della “seconda” sofistica contro
(max 15 righe)
cui si pronunciano Platone e Aristotele? (max 6 righe)
CAPITOLO 2 Socrate 13 Socrate è legato alla sofistica:
f. La virtù è una forma di sapere o
un prodotto della mente
A dalla volontà di fare della cultura
una professione
V
F
V
F
g. La morale tende alla felicità intesa
B dalla ricerca di una verità che superi i punti
come successo nella pólis
di vista soggettivi C dall’interesse per la politica D dall’interesse per l’essere umano
17 Completa la mappa riportata di seguito scrivendo i termini mancanti.
IL METODO
14 Socrate giunge a mostrare il sostanziale “non sapere” dei suoi interlocutori mediante: A l’ironia B la maieutica C il metodo delle definizioni D l’auto-educazione
..................
parte
dall’esame di un certo numero di . . . . . . . . . . . . . . . . . .
15 La morale di Socrate è una forma di:
dal . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A ascetismo
per risalire
B eudemonismo C volontarismo D materialismo
alla . . . . . . . . . . . . . . . . . . o al concetto
16 In riferimento a Socrate, indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.
18 Collega gli aspetti caratteristici della filosofia di So-
a. La scrittura non è adatta alla filosofia,
a meno che non sia in forma di dialogo
V
F
V
F
V
F
b. Alla mente umana sfuggono l’essere
e i princìpi del mondo c. La prima condizione della ricerca è
la coscienza della propria ignoranza
crate (colonna di sinistra) con il loro significato (colonna di destra). a. dialogo 1. momento criticodemolitorio dell’interrogare di Socrate b. ironia
V
F
V
F
e. La verità non è mai una conoscenza
raggiunta una volte per tutte
186
2. esposizione di una serie
di obiezioni su una certa tesi
d. L’ironia serve a preparare il terreno
su cui edificare un determinato sistema di idee
all’. . . . . . . . . . . . . . . . . .
UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate VERIFICA
c. confutazione
d. maieutica
3. momento positivocostruttivo dell’interrogare di Socrate 4. il metodo stesso della ricerca filosofica
19 Utilizza i termini elencati di seguito per completare il
21 In che senso nel suo dialogare Socrate mette in atto
testo riportato sotto.
un “gioco di finzioni”?
(max 6 righe)
anima • colpa • condotta • coscienza • divinità • guida • missione • prigioniera • sede
22 Quali sono i due paradossi dell’etica socratica?
Socrate considera il filosofare come una . . . . . . . . . . . . . . . . . . affidatagli dalla . . . . . . . . . . . . . . . . . . : a questo proposito egli parla di un demone che lo consiglia in tutti i momenti decisivi della vita. Il demone può essere interpretato sia come la voce della . . . . . . . . . . . . . . . . . . , cioè come un imperativo morale, sia come un concetto religioso, cioè come la . . . . . . . . . . . . . . . . . . trascendente e divina della . . . . . . . . . . . . . . . . . . umana. In questo secondo significato il demone rappresenta la personificazione dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . individuale, che per Socrate è . . . . . . . . . . . . . . . . . . del corpo, in cui è decaduta a causa di una . . . . . . . . . . . . . . . . . . originaria, ma è anche la . . . . . . . . . . . . . . . . . . della vita intellettuale.
23 Quale motivo è alla base del rifiuto di Socrate di la-
(max 6 righe)
sciare una testimonianza scritta del suo pensiero? (max 6 righe)
24 Illustra le testimonianze che possediamo su Socrate e ricostruisci, attraverso esse, un ritratto esauriente (max 15 righe) del filosofo.
25
attività PLUS Spiega il significato che per Socrate ha la verità e mettilo a confronto con quello che essa ha per i sofisti, facendo emergere come tale diversa accezione abbia per certi aspetti condizionato la con(max 20 righe) dotta dell’uno e degli altri.
20 Come interpreta Socrate il verdetto dell’oracolo di Delfi?
(max 6 righe)
AVANGUARDIE EDUCATIVE COMPITO DI REALTÀ
COMPETENZE Acquisire e interpretare l’informazione | Collaborare e partecipare | Progettare | Comunicare
La stesura di un impianto difensivo Nel leggere un libro o guardare un film, vi siete mai trovati a immedesimarvi e a desiderare di prendere le parti di un personaggio su cui, a vostro avviso, grava immeritatamente la colpa di una determinata vicenda? Avete qui l’occasione di costruire un intervento in sua difesa.
FASE 1 fare ricerca Sotto la guida dell’insegnante suddividetevi in cinque gruppi. Ogni gruppo, dopo un’opportuna ricerca e un confronto interno, individua la figura di un “colpevole” da riabilitare, in analogia con quanto Gorgia ha fatto nei confronti di Elena. Potete attingere all’epica, alla narrativa (italiana e straniera), al teatro, al cinema, al mondo del fumetto.
sono state ascritte. Quindi redige il discorso per esteso (max 25 righe), dosando con equilibrio logica e abilità retorica.
FASE 3 comunicare Con la collaborazione dell’insegnante, convocate i compagni di un’altra sezione, di fronte ai quali, mediante un portavoce, pronuncerete i vostri discorsi (max 8 minuti ciascuno). Al termine di ogni intervento il vostro pubblico, per alzata di mano, dovrà decretare se le motivazioni contenute nel discorso sono risultate convincenti e quindi se l’“imputato” può essere assolto.
FASE 2 pianificare Ogni gruppo stende la scaletta dell’intervento, in cui chiarisce le ragioni per cui il personaggio scelto non può essere ritenuto responsabile delle colpe che gli
187
QUESTIONE Esiste Dio
anassagora
democrito
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
La questione di Dio La parola “dio” deriva dal latino deus, che a sua volta rimanda alla radice indoeuropea div-, relativa alla luminosità del cielo. In effetti, se pensiamo a certe limpide sere d’estate, trascorse magari in montagna o sulla spiaggia, lontano dalle luci della città, è probabile che la volta celeste sia apparsa anche a noi come qualcosa di “divino”: una sorta di grembo avvolgente, che tuttavia trattiene un silenzio abissale, un motivo di sgomento. Queste emozioni sono forse le stesse che hanno sollecitato gli antichi a interrogarsi su quel cielo inattingibile, su quel “divino”
che a loro doveva apparire come il limite del mondo sensibile: un “oltre” inquietante e affascinante, confine e insieme sfida per la ragione umana. Prima ancora di connotarsi in senso filosofico, la “questione di dio” sorge come una domanda esistenziale, come una serie di interrogativi sul senso che ognuno attribuisce alla propria vita e al mondo: perché sono qui? per un caso fortuito, oppure per il progetto di “Qualcuno” o “Qualcosa” da cui dipende tutto ciò che esiste? e che cos’è questo “Qualcosa”? la sua conoscenza è possibile alla mente umana?
Protagora
UN FILM PER AVVIARE LA RIFLESSIONE Tra il 1988 e il 1989 il regista polacco Krzysztof Kieślowski (1941-1996) diresse una serie di dieci episodi liberamente ispirati ai comandamenti biblici. Il primo episodio di questo Decalogo (tale è il titolo complessivo dell’opera) è dedicato al comandamento «Io sono il Signore Dio tuo; non avrai altro Dio all’infuori di me». Il protagonista è un professore universitario di nome Krzysztof (come il regista), che deve crescere da solo il figlio Pawel. Animato da un’incrollabile fede nella ragione, egli vede nella scienza, di cui è un appassionato cultore, la possibilità di misurare e razionalizzare il reale, e non ammette alcuna dimensione che trascenda questo orizzonte. Alla figura di Krzysztof si contrappone quella di sua sorella Irene, fervente cattolica, per la quale invece la trascendenza esiste: non può essere colta empiricamente né può essere verificata e misurata, ma senza di essa la vita umana rimarrebbe priva di senso.
Un triste giorno d’inverno, Pawel chiede il permesso di andare a pattinare su un lago ghiacciato. Il padre esegue più volte al computer una serie di calcoli per stabilire se il ghiaccio possa reggere il peso del bambino. Per maggiore sicurezza verifica l’esattezza dei conti con una prova empirica e, tranquillizzato, dà il suo consenso. Tuttavia l’imprevedibile accade: senza alcuna apparente “ragione” il ghiaccio si rompe, ingoiando Pawel e gettando Krzysztof nella disperazione. Secondo i suoi calcoli scientifici era “impossibile” che il ghiaccio non reggesse, ma l’Impossibile ha fatto irruzione nella sua vita, scuotendo le evidenze della ragione e aprendo l’orizzonte del mistero. Quando i soccorritori riportano in superficie il corpo senza vita del suo bambino, Krzysztof, sconvolto, entra in chiesa per gridare la propria rabbia a quel Dio in cui non crede. Nella foga fa crollare un piccolo altare: le candele si rovesciano e piccole gocce di cera colano come lacrime dagli occhi della statua della Madonna Nera di Częstochowa, quasi mostrando il volto misterioso di una Trascendenza che piange le sofferenze degli esseri umani.
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LE PROSPETTIVE IN CAMPO La contrapposizione tra Krzysztof e Irene, tra ragione e fede, segna il sottile confine che separa la realtà sensibile – interpretabile con gli strumenti della scienza – da un “oltre” metafisico apparentemente lontano e inattingibile, ma che tuttavia può sconvolgere la vita umana, costringendo a interrogarsi sull’esistenza e sulla natura di Dio. Ecco alcune delle prospettive che si possono assumere a questo riguardo:
la prospettiva teistica Secondo un primo punto di vista l’esperienza della morte è dura e sconvolgente, ma ciò nonostante l’ordine e la bellezza che caratterizzano il mondo sono i segni di una mente suprema che lo ha progettato, di un divino “orologiaio” che sapientemente ne ha avviato il congegno. Alla mente umana, tuttavia, questo disegno complessivo rimane sconosciuto: i calcoli scientifici di Krzysztof, per quanto accurati, non avrebbero potuto prevedere il frantumarsi del ghiaccio, perché non possono cogliere le ragioni profonde di tutto ciò che accade. la prospettiva atea Per chi si professa ateo la morte – e soprattutto la morte innocente di un bambino – è una valida ragione per concludere che dio non esiste. Non c’è alcuna divinità immensamente buona che governi il mondo, il quale pertanto va spiegato in termini scientifici, come materia in movimento. Probabilmente i calcoli di Krzysztof erano errati o non completi: per questo il ghiaccio si è rotto. la prospettiva agnostica Secondo una terza prospettiva possibile, sebbene le tragedie della vita inducano alla disperazione e a interrogarsi sulla trascendenza, gli esseri umani non hanno prove o segni ragionevoli per affermare né che Dio esiste, né che Dio non esiste. su dio non sappiamo nulla, e nulla possiamo dire.
LA QUESTIONE FILOSOFICA Dal punto di vista filosofico, la questione su Dio si articola in due sotto-questioni, rispettivamente riguardanti l’esistenza e la natura di Dio, ovvero di un’entità trascendente che governa il mondo. Alla prima sotto-questione, la filosofia greca arcaica e classica rispondono tendenzialmente in modo affermativo; alla seconda, invece, i pensatori greci danno risposte talvolta molto diverse tra loro, anche a seconda degli “strumenti” che ritengono di poter utilizzare per affrontare un oggetto di indagine così sfuggente. In ogni caso, la domanda (netta e radicale) che sintetizza la questione è la seguente:
Esiste Dio?
prospettiva teistica
prospettiva atea
prospettiva agnostica
Il primo ad ammettere l’esistenza La prima formulazione L’agnosticismo teologico di un’Intelligenza divina separata dell’ateismo filosofico si fa è solitamente ricondotto a Protagora, il quale ritiene dalla materia ma in grado di risalire a Democrito. In polemica che la ragione umana non possa orientarla e organizzarla è stato con Anassagora, il fondatore pronunciarsi riguardo alla Anassagora, che per questo è dell’atomismo ritiene che tutto questione di Dio. considerato uno dei primi sia materia e movimento, ed pensatori teisti della storia del esclude che per spiegare il cosmo pensiero. sia necessario postulare un’Intelligenza divina ordinatrice.
189
QUESTIONE
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Anassagora
il teismo
il cosmo L’osservazione della regolarità dei fenomeni naturali e la constatazione dell’ordine dell’universo induco“prodotto” no Anassagora a ritenere che la vita e il funzionamento del cosmo dipendano, in qualche modo, da dal divino
un’entità divina. Del resto, già nei racconti mitologici le divinità intervenivano nello svolgimento delle vicende umane, così come presiedevano al verificarsi dei fenomeni naturali. In un certo senso, dunque, per Omero ed Esiodo “il divino” governava il mondo. Tuttavia, il mondo non era un prodotto della divinità: a questa convinzione la filosofia approda soltanto con Anassagora. Questi ritiene infatti che tutte le cose siano formate dalla mescolanza di un numero infinito di «semi», ovvero di minuscole e invisibili particelle di materia. I semi sono il principio materiale da cui deriva l’intera realtà. Ma per spiegare davvero l’origine delle cose, occorre ammettere anche l’esistenza di una forza che imprima ai semi un movimento iniziale: questa forza è un’intelligenza divina (il «noús») che li strappa al caos originario, li separa e li ordina, organizzando il mondo. Secondo Aezio, dossografo del I-II secolo d.C., sarebbe stato lo stesso Anassagora a definire «dio» questa intelligenza:
‘ ‘
Anassagora dice che in principio i corpi stavano immobili e l’intelletto di dio li pose in ordine e produsse la generazione di tutte le cose. Anassagora definisce dio l’intelletto produttore del cosmo. (DK 59 A 48, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1981)
il divino come L’intelligenza ordinatrice anassagorea, dunque, non è mescolata alla materia; anzi, proprio in quanintelligenza to è separata da essa, la muove e dirige. Del resto, se il noús fosse mescolato a qualcosa, sarebbe meseparata
scolato a tutto, dal momento che per Anassagora in ogni cosa ci sono i semi di tutte le cose. Ecco come Anassagora deduce l’esistenza di questo principio divino e come ne illustra la natura: Tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza è illimitata, indipendente e non mescolata ad alcuna cosa, ma sta sola in sé. Se infatti non stesse in sé, ma fosse mescolata a qualche cosa d’altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolata a qualcuna. In tutto si trova infatti parte di ogni cosa, come ho detto prima, e le cose mescolate le sarebbero d’ostacolo, sì che non avrebbe potere su alcuna cosa, come lo ha stando sola in sé. (DK 59 B 12 , in op. cit.)
che cos’è Che cosa sia esattamente l’intelligenza divina descritta da Anassagora, ovvero se sia un principio spiriil noús? tuale o materiale, è difficile dirlo, dal momento che la stessa distinzione tra spirito e materia, trascenden-
za e immanenza, è estranea all’orizzonte culturale di questo periodo. In ogni caso, Anassagora è il primo ad afferrare concettualmente il divino, inteso come una realtà «illimitata», «non mescolata ad alcuna cosa», e anzi «la più sottile e più pura di tutte le cose esistenti». Per questo egli è considerato uno dei primi rappresentanti del teismo nella storia della filosofia, intendendo il termine “teismo” in generale, come credenza nell’esistenza di uno o più dèi, o comunque di una realtà che trascende l’uomo.
Democrito
l’ateismo
il meccanicismo In generale, l’espressione “ateismo filosofico” indica la negazione non tanto dell’esistenza di Dio o del democriteo divino, quanto di una sua relazione causale con il mondo e con gli uomini. È il caso del materialismo di
Democrito, pensatore che la tradizione cristiana, con le parole di Dante, ha etichettato come colui «che ’l mondo a caso pone» (Inferno, IV, 136). Per Democrito, infatti, l’origine dell’universo non risponde a un progetto, non è l’opera di un’intelligenza divina. Gli infiniti mondi che si formano nello spazio infinito, così come tutte le cose in essi contenute, si possono spiegare mediante gli atomi e il loro movimento, senza dover ricorrere all’intervento di un ente soprannaturale o immateriale. Tutto si può comprendere
190
UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate Questione Esiste Dio?
in una prospettiva meccanicistica, ovvero come catena di cause ed effetti, senza dover postulare un noús che ordina, plasma e orienta la materia sulla base di un fine. Proprio richiamandosi a Democrito, il matematico Pierre-Simon Laplace (1749-1827) dirà a Napoleone (che gli chiedeva dove avesse messo Dio nel suo sistema astronomico), che «dio è un’ipotesi inutile». Il ragionamento democriteo, per quanto non sia documentato dalle fonti, deve essere stato di questo tipo: se assumiamo la materia come principio del movimento, non ha senso chiedersi chi o che cosa muova la materia, proprio come non avrebbe senso chiedersi, nell’ambito della teologia biblica, chi crei il Creatore. democrito è Nel caso di Democrito dobbiamo però essere molto cauti nell’usare l’aggettivo átheos (letteralmente, veramente ateo? “senza Dio”). Le testimonianze, infatti, sono concordi nel rilevare la presenza del tema del divino negli
scritti democritei, anche se la posizione del filosofo risulta in questo ambito piuttosto confusa. A tal proposito, lo scrittore latino Cicerone (106 a.C. - 43 a.C.) scriverà:
‘
Mi sembra invero che anche Democrito, […] si mostri esitante riguardo alla natura degli dèi. Infatti, ora ritiene che la divinità spetti alle immagini che si offrono nell’universo, ora afferma che gli dèi sono quei princìpi dell’intelligenza che si trovano nel medesimo universo, ora che divine son o quelle immagini animate che abitualmente ci giovano o ci sono nocive, ora che siano dèi quelle immagini immense e così grandi da avvolgere (DK 68 A 74 , in op. cit.) dall’esterno il mondo intero.
Al di là della sua oscurità, questo testo testimonia come Democrito non avesse affatto escluso l’esistenza del divino, ma anzi si interrogasse in qualche modo sulla sua natura.
Protagora
l’agnosticismo
Protagora Indipendentemente dal caso particolare di Democrito, occorre essere prudenti nel parlare di “ateismo” a agnostico proposito dei filosofi antichi in generale. Spesso, infatti, si trattava semplicemente di pensatori indiffe-
renti al problema di Dio, oppure critici nei confronti degli dèi della tradizione. Emblematica è in questo senso la vicenda di Protagora, il quale, proprio come Socrate, venne accusato di empietà, processato e, secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, condannato all’esilio. Nel trattato Sugli dèi, scritto intorno al 415 a.C., Protagora afferma:
‘
Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana. (DK 80 B 4 , in op. cit.)
È evidente che in questo caso non si tratta di ateismo, bensì di agnosticismo, ossia della convinzione che la ragione non possa dimostrare né l’esistenza né la non esistenza di dio (dal prefisso privativo a- e dalla radice del verbo ghighnósco, “conosco”). Protagora ateo In favore di questa interpretazione – che legge la prospettiva teologica di Protagora come una forma di
agnosticismo – depone certamente il fatto che essa può essere considerata una diretta conseguenza di quello scetticismo gnoseologico che induce il filosofo a negare la possibilità per l’essere umano di giungere (in generale) a una conoscenza stabile, universale e oggettiva. Occorre tuttavia precisare che sono molti anche gli autori antichi secondo i quali quello di Protagora era invece un vero ateismo. Così afferma, ad esempio, Diogene di Enoanda:
‘
Protagora di Abdera sostenne, come concetto, la stessa opinione di Diagora [di Melo, poeta del V secolo a.C. noto come ateo]; ma la espresse con parole diverse, quasi per evitarne l’audacia espressiva; infatti disse di non sapere se gli dèi esistono: che è come dire di sapere che (DK 80 A 23 , in op. cit.) non esistono.
191
una questione aperta
‘
In uno scritto intitolato La natura degli dèi, Cicerone racconta il seguente episodio:
Diagora di Melo, quello che chiamano l’ateo, venne un giorno a Samotracia e così fu interpellato da un amico: – Tu che ritieni che gli dèi si disinteressino delle vicende umane, non ti accorgi, osservando le tavolette votive, di quanti uomini in seguito alle loro preghiere sfuggirono alla violenza della tempesta e giunsero salvi in porto? – Sembra così, rispose Diagora, dato che in nessun luogo poterono farsi dipingere quelli che fecero naufragio e perirono in mare» (La natura degli dei, III, 89, a cura di U. Pizzani, Mondadori, Milano 1997)
Da questa testimonianza sembra emergere che Diagora (V secolo a.C.), il quale pure ci è stato consegnato dalla tradizione come l’«ateo», in realtà non si ponesse affatto il problema dell’esistenza di Dio, limitandosi a negarne l’atteggiamento provvidente nei confronti degli uomini. Ciò non deve stupire, dal momento che per il pensiero antico l’esistenza del divino è una sorta di evidenza non discutibile. Per questo l’ateismo non è una dottrina particolarmente diffusa tra i filosofi greci, molti dei quali (come abbiamo chiarito parlando di Protagora) furono accusati di ateismo sebbene la loro colpa fosse piuttosto quella di spingersi oltre la rappresentazione popolare e tradizionale della divinità. L’ateismo antico, insomma, più che come posizione teorica esplicita, venne perseguito e punito in qualità di crimine politico, come atto sovversivo verso l’ordine pubblico, che nella religione ufficiale trovava uno dei suoi elementi costitutivi. Chiarito questo punto fondamentale, è comunque noto che i sofisti esercitarono la loro forza critica anche sulle credenze religiose. E alcuni di essi si spinsero fino a un ateismo esplicito, non soltanto negando l’esistenza della divinità, ma cercando anche di spiegare le ragioni per le quali gli uomini credono in Dio. crizia, ad esempio, considera gli dèi uno strumento politico inventato dai potenti per impaurire e controllare le coscienze dei cittadini, mentre Prodico di ceo vede nell’idea di Dio una divinizzazione di ciò che è utile. I sofisti possono essere considerati i lontani precursori di un metodo che dominerà l’ateismo moderno e contemporaneo (si pensi ad alcuni grandi autori come Ludwig Feuerbach, Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud), il quale non si limiterà a negare l’esistenza di Dio, ma cercherà di spiegare razionalmente l’origine e la natura dell’esperienza del sacro, chiarendo le ragioni che inducono gli uomini a credere in Dio.
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UNITÀ 2 L’indagine suLL’essere umano: i sofisti e socrate Questione Esiste Dio?
oraora tocca a voi... tocca a voi...
dibattito dibattito critico critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto Sottolalaguida guidadell’insegnante, dell’insegnante,mediante mediantesorteggio sorteggiodividete dividetelalaclasse classeinindue duesquadre, squadre,assegnando assegnandoaaciascuciascuna nadidiesse esseililcompito compitodidiargomentare argomentareininfavore favoreoocontro contro lala seguente seguente mozione: mozione:
Esiste di Diomalvagità? Il male è frutto SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO il primo argomento. •• Per • prepararvi Per prepararvi a presentare a presentare il punto il punto di vistadi 1. primo A questo punto un (max primo6studente dellasquasquaintervento min. per ogni della vista vostra della vostra squadra squadra e ad eesporre ad esporre gli argogli ardra avversaria può, se lo ritiene opportuno, ridra) Per avviare la discussione, un primo stumenti gomenti propro o contro o contro la la mozione, mozione, rileggete rispondete gli definire i termini dellafavorevole mozione; quindi espone dente della squadra alla mozione argomenti alle seguenti quidomande: presentati e le corrispondenti la tesi: No, il male nonedè espone frutto dilamalvagità, ma riassume il problema tesi: Sì, esiste parti - in che del manuale cosa consiste per rispondere il male secondo alle seguenPlatodi ignoranza. Poi presenta un’entità trascendente a cui preliminarmente vanno ricondotti ile tine? domande: e in che cosa secondo Socrate? sinteticamente tuttiegli argomenti verransenso, la formazione il governo del che mondo. Poi -- in perché che modo nel primo Anassagora caso si parla perviene di “dualismo” all’idea no sostenuti dalla sua squadra ed esponegliil presenta preliminarmente e sinteticamente che e nel esista secondo un’intelligenza di “intellettualismo”? divina? su quali basi, primo argomento. argomenti (max 3) che verranno sostenuti dalla invece, - che cos’è Democrito il principio giunge dell’attraenza ad affermare delche be- 2. sua squadraintervento ed espone il primo secondo (max argomento. 6 mi. per ogni Dio ne? non e peresiste, quali motivi o comunque non è / non è condivisibile? interviene Asquadra) questo Un punto un primo studente dell’altra secondo studente per ogni squanella - per formazione quali motivi generali e nel governo ritenete delpiùmondo? corretsquadra può criticare correggerepresentato gli argodra difende il primo oargomento quali ta la posizione sono, infine, di Platone/Socrate? i motivi che spingono Promenti ridefinendo i termini dellaquindi modalle avversari, critiche eventualmente ricevute, • tagora • Per ad affermare elaborare che e rafforzare alla ragionegliumana argozione. Quindi espone la tesi della propria esquaconfuta il primo argomento avversario prenon menti è possibile favorevoli pronunciarsi o contrari alla né sull’esistenza mozione, cerdra: No,altri nonargomenti esiste alcuna divinità chemozione si occupio senta in favore della né cate sulla neinon vostri esistenza manualidiscolastici, Dio? in biblioteca del mondo; o comunque, anche se esiste, alla racontro di essa. -ol’agnosticismo in Internet le riflessioni protagoreodipuò alcuni essere filosofi, riconsogione umana non è dato 3. terzo intervento (maxconoscerla. 6 min. per Poi ognielenca squadotto ciologi all’ateismo o psicologi democriteo? che abbiano per quali sostenuto ragioni?o preliminarmente e sinteticamente gli argomendra) -sostengano per quali ragioni la posizione ritenete più difesa corretta dallalavostra positiUn cheterzo verranno presentati a sostegno questa studente per ogni squadradidifende zione squadra; di Anassagora quindi supportate / Democrito tali riflessioni e Protagora? metesi espone il primo argomento. presentati gli ed argomenti precedentemente • Per diante elaborare il riferimento e supportare a fattiglidiargomenti cronaca. favo2. secondo intervento 6 min. per ogni dalle critiche ricevute;(max confuta le ultime arrevoli o contrari alla mozione, cercate nei vosquadra) Un secondo studente per ognise squaSVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO gomentazioni avversarie e, soltanto nestri manuali scolastici, in biblioteca o in Interdra difende il primoaltri argomento presentato 1. primo intervento (max 6 min. per ogni squacessario, presenta argomenti in favore net le riflessioni di alcuni filosofi o teologi che dalle eventualmente ricevute, quindi dra) della critiche mozione. Infine ricapitola le posizioni abbiano sostenuto o sostengano la posizione confuta il primo argomento avversario e prePer avviare la discussione, un primo studente della propria squadra. difesa dalla vostra squadra; eventualmente avsenta altri argomenti in favore della mozione o della squadra favorevole alla mozione riassuvalorate tali riflessioni mediante esempi tratti 4. replica (max 3 min. per ogni squadra) Un contro di essa. me il problema ed espone la tesi: Sì, il male è esponente per ciascuna squadra tiene il didalla vostra esperienza o dall’attualità. frutto di malvagità, ovvero di una volontà 3. terzo intervento 6 min. laper ogni squascorso conclusivo, (max ribadendo validità degli consapevolmente orientata a danneggiare sé dra) Un terzo studente per ogni squadra argomenti presentati in favore o controdifenla mostessi e gli altri. Poi presenta preliminarmente de gli argomenti precedentemente presentati zione. e sinteticamente tutti gli argomenti che verdalle critiche ricevute e confuta le ultime argoranno sostenuti dalla sua squadra ed espone mentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 min. per ogni squadra) Un esponente per ogni squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
PREPAR PREPARAAZIONE ZIONE DEL DEL DIBAT DIBATTITO TITO
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3 UNITÀ
PLATONE
Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi. (Platone, Lettera VII)
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Appartenente per nascita a una delle famiglie più importanti di Atene, Platone era destinato a un incarico politico di alto livello. Tale progetto si infrange però nel momento in cui il suo maestro Socrate, che egli stimava come il più retto tra gli uomini, viene accusato di empietà, processato e condannato. La morte di Socrate suscita in Platone un profondo disgusto per la società ateniese che ha permesso un’ingiustizia così odiosa, e lo spinge a rivolgere il proprio impegno teoretico e pratico alla costruzione di una comunità ideale, nella quale gli uomini possano convivere in armonia, pace e giustizia. In questo quadro, la filosofia assume i tratti di un lungo e faticoso cammino di formazione, che gradualmente libera l’anima dai pregiudizi e dalle false certezze, e che solo permette all’uomo di spingere lo sguardo al di là della realtà concreta, limitata e imperfetta, per scorgere un mondo di valori eterni, capaci di ispirare forme di convivenza davvero giuste.
L’
unità presenta i diversi momenti in cui si articola il pensiero di Platone, evidenziando le molteplici linee di ricerca filosofica da lui seguite e l’evoluzione delle sue posizioni nel corso del tempo. IL RACCONTO DI UNA VITA
Un faticoso cammino al servizio della città Gli scritti platonici
CAPITOLO 1 Il rapporto con Socrate e i dialoghi giovanili
I caratteri generali della filosofia di Platone dipendono in gran parte dal suo incontro con Socrate, che segna irrimediabilmente la sua vita e il suo pensiero. A Socrate sono dedicati gli scritti platonici giovanili, ovvero diversi dialoghi in cui sono esposti e chiariti i punti nodali dell’insegnamento del maestro e della sua polemica contro i sofisti.
CAPITOLO 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Il cuore della filosofia di Platone è costituito dalla teoria delle idee, che egli elabora partendo dal metodo socratico delle definizioni. Contrapponendosi al relativismo conoscitivo e morale dei sofisti, Platone
afferma l’esistenza, al di là del mondo concreto, di un mondo ideale costituito dai modelli immutabili e perfetti della realtà mutevole e imperfetta in cui viviamo. Tali sono le «idee», entità eterne che rappresentano l’oggetto specifico della conoscenza filosofica, nonché i punti di riferimento per delineare un modello di comunità politica basata sulla ricerca del bene e della giustizia.
CAPITOLO 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
Alcune difficoltà interne alla teoria delle idee portano Platone a sviluppare gradualmente una nozione di “essere” più complessa e articolata, nonché una nuova visione del reale, nel tentativo di superare il primitivo dualismo tra mondo sensibile e mondo ideale.
I CLASSICI DELLA FILOSOFIA
Platone, Fedro
Il Fedro affronta i temi più rilevanti della filosofia di Platone: la definizione dell’amore, la natura dell’anima e il suo destino ultraterreno, le realtà ideali, la funzione della bellezza, l’enigma della scrittura. Il dialogo contiene, inoltre, un messaggio di grande attualità: il cammino verso la conoscenza può concludersi felicemente soltanto se si riconosce nella verità l’unica guida davvero efficace.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi Platone - La scoperta dell’idea e redigi una scaletta dei punti-chiave che vi sono esposti. Leggi nel manuale il primo paragrafo della “Sintesi e Glossario”, relativo alla genesi della teoria platonica delle idee ( p. 247); quindi confrontane il contenuto con quello del video, e annota le nozioni fondamentali e gli eventuali dubbi o spunti di riflessione che i due strumenti ti suggeriscono.
IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante dividete la classe in piccoli gruppi: all’interno di ciascuno di essi confrontate il lavoro svolto a casa e discutete dei dubbi e degli spunti di riflessione individuati. Infine elaborate insieme una risposta scritta alle seguenti domande: - in che cosa la concezione platonica dell’idea si differenza dalla concezione comune? - che cos’è il “mondo ideale” per Platone? - considerate l’ultima parte della videolezione: come giudicate l’idea che la verità sia qualcosa di stabile e definitivo, che si può contemplare con gli “occhi” della mente?
VIDEOLEZIONE Platone La scoperta dell’idea
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Un faticoso cammino al servizio della città
‘
La giovinezza e il declino della pólis Tramandato dallo storico Diogene Laerzio (III secolo d.C. circa), l’episodio riportato nel riquadro a sinistra mette in luce l’elevatezza e la raffinatezza filosofica di quello che sarebbe diventato il discepolo più celebre di Socrate: Platone. Nato ad Atene (o meglio ad Egina, una piccola isola poco distante dalla città) nel 427 a.C., Platone appartiene a un’illustre famiglia aristocratica, discendente per parte di padre dall’ultimo re ateniese. Il suo vero nome è Aristocle, ma secondo la tradizione viene chiamato “Platone” per via dell’ampiezza della fronte (plátos significava appunto “larghezza”). Da ragazzo, durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), Platone assiste alla mutilazione delle erme (415 a.C.), un atto dissacrante organizzato probabilmente dal partito aristocratico per terrorizzare gli ateniesi protesi alla conquista della Sicilia, e favorire il rovesciamento della democrazia. Con lo stesso sgomento, due anni dopo (413 a.C.) è testimone della distruzione della flotta ateniese da parte di Siracusa, che si impone come nuova potenza navale. Nel 404 a.C. la guerra del Peloponneso si conclude con la sconfitta di Atene da parte di Sparta, e il declino della città diventa sempre più evidente. La responsabilità viene attribuita agli errori militari e politici dei governi democratici e in quello stesso anno si instaura l’oligarchia dei Trenta tiranni ( unità 2, cap. 2, p. 155), alla quale partecipa Crizia, zio di Platone. Nella Lettera VII, una sorta di autobiografia che redigerà all’età di circa settant’anni, Platone commenterà così le vicende politiche ateniesi di questo periodo:
Si narra che Socrate abbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno, che subito mise le ali e volò via e dolcemente cantò, e che il giorno dopo, presentatosi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo uccello era appunto lui. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III, 5)
CARTA INTERATTIVA
i luoghi di PLATONE
‘
Quando ero giovane mi capitò di pensare, come accade a tanti altri giovani, che mi sarei dedicato alla vita politica non appena fossi divenuto padrone di me stesso. […] Data la mia giovinezza, non c’è da stupirsi se ritenevo che i nuovi governanti [i Trenta tiranni] avrebbero
enciclosofia mutilazione delle erme In Grecia era chiamata “erma” (in greco hermés) una scultura diffusa a partire dal VI secolo a.C., costituita da un pilastro sormontato da una testa umana e munito della parte superiore delle braccia. Raffiguranti perlopiù il dio Ermes (da cui il nome), tali sculture erano poste lungo le strade (Ermes era considerato protettore dei viandanti), agli incroci, all’entrata degli edifici e nei cimiteri. Perpetrata una notte di primavera del 415 a.C. e attribuita al generale Alcibiade (450-404 a.C.), la “mutilazione delle erme” fu considerata un presagio funesto per la spedizione ateniese in Sicilia, che doveva partire il giorno dopo.
Crizia Nato intorno al 460 a.C. da una nobile famiglia di Atene, Crizia era un cugino della madre di Platone. Fece parte dei Trenta tiranni, i rappresentanti della fazione aristocratica che con metodi violenti e autoritari governarono la città tra il 404 e il 403 a.C. Morì proprio nel 403 a.C., combattendo contro i democratici che in quello stesso anno tornarono al potere, capeggiati da Trasibulo e Anito. 196
Unità 3 PLATONE iL RACCOntO Di UnA VitA
Erma in marmo di Ermes, I secolo d.C., copia romana da un originale greco del V secolo a.C., The J. Paul Getty Museum, Villa Collection, Malibu (California).
ripristinato in città la giustizia, contro l’ingiustizia che vi regnava prima; perciò stavo molto attento a quello che facevano. Non passò molto tempo però, e io mi accorsi che quegli uomini facevano apparire il governo precedente come un’età dell’oro. […] Non molto tempo dopo, il governo dei Trenta cadde. E allora mi prese di nuovo, anche se più moderato, il desiderio di occuparmi della vita pubblica e politica. (Platone, Lettera VII, 324b-325a)
L’incontro con Socrate e la rinuncia alla politica Nonostante il nuovo regime democratico (instauratosi nel 403 a.C.), Atene continua a essere politicamente e culturalmente debole e smarrita, lacerata da lotte intestine e avviata a un irreparabile tramonto. In questo quadro, il destino conduce Platone – deluso da tutti i partiti ma pur sempre animato da passione politica – all’incontro decisivo della sua vita: quello con Socrate, il filosofo della città, del dialogo sul bene comune, dell’incessante ricerca della giustizia ( “L’incontro”). Ma nel 399 a.C. Socrate viene processato e condannato proprio dai governanti democratici appena ritornati al potere, e l’evento provoca in Platone una ferita profonda, che cambierà radicalmente la sua vita, orientando in modo determinante anche la sua riflessione filosofica:
‘
Accadde che alcune persone potenti trascinarono in tribunale il mio amico Socrate con l’accusa più infame e meno di ogni altra adatta a lui: l’accusa di empietà, per cui fu condannato e ucciso […]. E io osservavo tutto questo e gli uomini che si occupavano di politica, e le leggi e i costumi – e quanto più osservavo e andavo avanti negli anni, tanto più mi pareva difficile che potessi occuparmi di politica in modo onesto. […] Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era (Platone, Lettera VII, 325b-e) completamente sconvolto, finii per sbigottirmene.
Come è potuto accadere – si chiede Platone – che un governo democratico abbia messo a morte «un uomo che io non esito a ritenere il più giusto fra quelli del suo tempo»? Questa assillante domanda lo condurrà alla critica della democrazia (di cui Atene era modello),
L’ I N CO N T RO
Platone e Socrate: la forza di una “vocazione” Dall’arte ai concetti Secondo alcune testimonianze, da giovane Platone era stato un promettente poeta e aveva studiato pittura. Un giorno, tuttavia, mentre si preparava a partecipare a una gara teatrale presentando una propria tragedia, udì la voce di Socrate, che in prossimità del teatro di Dioniso dissertava con i suoi interlocutori. Fortemente colpito dalle parole del filosofo, decise di dare alle fiamme le proprie opere poetiche, esclamando: «Efesto, avvicinati! Ora è di te che Platone ha bisogno!». Indipendentemente dalla sua attendibilità, l’aneddoto presenta un chiaro significato: il fuoco distruttore rappresenta la rottura con il mondo dell’arte e la scoperta della filosofia, cioè della forza del concetto, incarnata da Socrate.
Un’autentica “vocazione” Platone non è il solo pensatore per il quale la filosofia si nutre della forza di un incontro. L’amore per il sapere passa spesso attraverso l’ammirazione intellettuale e l’amicizia profonda di un allievo nei confronti di un maestro capace di travolgerne e riorientarne l’esistenza. Ma l’incontro di Platone con Socrate, così come ci è stato tramandato in questo aneddoto, ha il sapore di una conversione folgorante, come quella degli apostoli che incontrano Gesù, o di san Paolo sulla via di Damasco. Anche qui, infatti, c’è il richiamo irresistibile di una “voce”, c’è una vera “vocazione” che esige il ripudio del passato. Socrate appare insomma come un Cristo pagano, che converte i viandanti alla filosofia.
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alla ricerca di una nuova via per costruire uno Stato giusto e alla rinuncia definitiva alla carriera politica. Non si tratta però di un ripudio della politica in sé, quale impegno per il bene della comunità, bensì di un suo superamento nella filosofia, che appare a Platone come l’unico sapere capace di indicare la via della giustizia a una comunità e ai suoi governanti:
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Alla fine m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che soltanto la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo essa. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i governanti delle città non fossero divenuti, per qualche (Platone, Lettera VII, 324b-326b) sorte divina, veri filosofi.
Un “laboratorio politico” fuori Atene Dopo la morte di Socrate, ad Atene i filosofi sono guardati con sospetto. Intimorito e minacciato (come tutti gli allievi di Socrate), Platone è costretto all’esilio: si apre così per lui un periodo tumultuoso e pieno di disavventure. Si rifugia prima a Mègara (città non distante da Atene ma retta da un regime oligarchico più vicino alla sensibilità politica del filosofo) presso il socratico Euclide; poi a Cirene, in Egitto; infine a Siracusa, in Sicilia, dove nel 388 a.C. conosce Dionisio il Vecchio, il tiranno della città, e si illude di poterlo educare alla pratica di una politica giusta. Mentre Dione, cognato del tiranno, si lascia conquistare dagli insegnamenti di Platone e diviene suo amico e discepolo, Dionisio mostra invece irritazione per le spregiudicate parole che l’ospite ateniese pronuncia contro la corruzione del regime siracusano e contro la tirannide in generale:
‘ ‘
Quando Platone, conversando sulla tirannide, affermò che il diritto del più forte aveva validità soltanto se [il più forte] fosse stato preminente anche in virtù, il tiranno si sentì offeso e, adirato, disse: «Le tue parole sanno di rimbambimento senile», e Platone: «Ma almeno (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III, 18) non sanno di tirannide».
Dall’esperienza siracusana Platone ricava la convinzione che le leggi, anche quando sono eque, non sono sufficienti a garantire la giustizia di una società, se i governanti e i governati sono privi di rettitudine. Per fare buoni uomini non bastano buone leggi, ma occorrono educazione morale, impegno e senso del servizio alla comunità: Appena giunto [a Siracusa], mi disgustò la vita che qui era chiamata felice. […] Non vi è città, per quanto buone siano le sue leggi, che possa vivere in uno stato di tranquillità, se i cittadini pensano che sia giusto consumare i loro averi in piaceri smodati […]. È evidente che tali città siano coinvolte in una continua sequela di tirannidi, oligarchie, democrazie, i cui capi non vorranno neppure sentir parlare di una costituzione giusta ed equilibrata. (Platone, Lettera VII, 326b-d)
Il rientro ad Atene e la fondazione dell’Accademia Indispettito dalle critiche di Platone, Dionisio dispone che il filosofo sia venduto come schiavo nell’isola di Egina, dove fortunatamente viene riscattato da un discepolo di Socrate, Annicèride di Cirene, che lo aiuta a rientrare in Atene. Qui Anniceride non soltanto non accetta di essere rimborsato dagli amici di Platone, ma anzi compra per lui un giardino che enciclosofia tiranno Il termine deriva dal greco tyrannos, “signore”, “dominatore”, che in origine, pur denominando un personaggio giunto al potere per vie non legittime, non aveva necessariamente un’accezione negativa. Con il tempo passò a indicare chi esercita una funzione di comando in modo dispotico.
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Unità 3 PLATONE iL RACCOntO Di UnA VitA
si trova all’esterno delle mura della città. La proprietà è dedicata al mitico eroe Academo e comprende un ginnasio (cioè una palestra per i giovani) e un uliveto consacrato alla dea Atena: nel 387 a.C. Platone vi fonda la sua scuola, che prende il nome di “Accademia” e che viene dedicata ad Apollo e alle Muse. Sul modello delle scuole pitagoriche, l’Accademia platonica è una sorta di comunità religiosa, autosufficiente dal punto di vista materiale e giuridico, con terreni, edifici e vari beni di proprietà. È diretta da uno “scolarca” eletto a vita dai membri della comunità e ospita gli allievi di una sorta di scuola di alta formazione, ispirata al progetto educativo delineato da Platone per formare una classe dirigente capace di costituire e governare lo Stato secondo giustizia. Lo scopo ultimo della scuola è insomma educare all’arte del governo, che Platone chiama «scienza regale» ( “Dalla vita al pensiero”). Grazie alla fama del maestro fondatore e alla presenza di autorevoli insegnanti di matematica, astronomia, medicina e filosofia, l’Accademia attrae molti giovani ed entra ben presto in concorrenza con la scuola ateniese fondata da Isocrate, il quale, pur ponendosi anch’egli l’obiettivo ultimo di formare la classe dirigente della città, metteva al centro del suo progetto pedagogico la formazione retorica e letteraria.
La “resa dei conti” con la tirannide Vent’anni dopo la fondazione dell’Accademia, Platone riceve una lettera da Dione, il quale lo informa che il vecchio tiranno di Siracusa è morto e che il nuovo tiranno, Dionisio II detto “il Giovane”, mostra interesse per un’educazione filosofica come quella che Platone immagina per i reggitori degli Stati. Sebbene sia ormai sessantenne, Platone decide di abbandonare fama e agiatezza e di affrontare un secondo viaggio a Siracusa, confidando di trovarvi il terreno fertile per la costituzione di un laboratorio politico in cui dare concretezza alla «speranza che filosofi e reggitori di grandi città finalmente coincidano».
L’esilio del pensiero: dalla prassi politica alla teoria politica DALLA VITA AL PENSIERO
La scelta di un luogo isolato In seguito alla morte di Socrate e dopo aver sperimentato l’esilio, Platone torna ad Atene e, grazie all’aiuto di Anniceride di Cirene, fonda la sua scuola in periferia, lontano dal tumulto della città. L’Accademia è per lui una dimora in cui esercitare la filosofia al riparo dalla minaccia del potere, un luogo dove riflettere liberamente e serenamente sul bene comune, cioè su quello che era stato l’obiettivo principale della missione filosofica di Socrate. La delusione per l’operato dei governi aristocratici e l’ingiusta uccisione del maestro da parte dei democratici non spinge Platone contro di essi, ma al di là di essi, in esilio, per così dire, alla ricerca di un modello di Stato nel quale la giustizia perseguita da Socrate possa realizzarsi. L’esempio socratico Anche Socrate, del resto, era stato “esule in patria”: Platone lo definisce «átopos», che letteralmente significa “senza luogo”. Questo perché, benché vivesse immerso nella città e dialogasse con tutti, Socrate era in realtà un apolide, che guardava agli ateniesi da un “altrove”,
con la distanza di chi dissente e critica i concittadini in modo inesorabile, con provocazioni sempre eccentriche e spiazzanti.
Oltre la realtà, un’utopia politica Come Socrate, anche Platone sperimenta la distanza della filosofia dall’esercizio del potere. Tuttavia, mentre Socrate sperava ancora in una democrazia migliore, che sapesse ascoltare la voce della ragione, Platone prende invece coscienza della crisi irreversibile della città, e tra la città e la filosofia sceglie la filosofia. Il dramma di Atene segna per lui la fine di un’epoca storica. È da qui che nasce lo sguardo da un “non luogo” e verso un “non luogo”, il ripensamento di una civiltà ormai al tramonto per trovare il fondamento di una nuova civiltà. L’atopia socratica si trasforma così nell’utopia platonica, ovvero nel progetto di uno Stato ideale, delineato dal pensiero: alla prassi politica, Platone sostituisce la teoria politica, capace di vedere oltre la realtà, ovvero oltre quella che non può che essere letta come una degenerazione, rispetto alla purezza dell’idea.
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Arrivato a Siracusa, Platone scopre però che Dione, caduto in disgrazia presso il nuovo signore della città, è stato esiliato. Il filosofo cerca comunque di scendere a patti con il tiranno, per illuminare con la ragione la forza oscura e inconsapevole del suo potere, ma si accorge ben presto di come Dionisio II aspiri soltanto alla sua adulazione. Dopo appena un anno di soggiorno a Siracusa decide pertanto di rientrare ad Atene, mettendo in salvo l’amico Dione che diviene uno scolaro dell’Accademia. Richiamato con insistenza da Dionisio il Giovane, Platone intraprende un terzo viaggio a Siracusa nel 361 a.C., all’età di sessantasei anni, dando prova di un’indomabile passione politica. Anche questa volta espone la propria filosofia al tiranno, e anche questa volta cade ben presto in disgrazia presso di lui, salvandosi dalla sua ira soltanto grazie all’intervento di Archita di Taranto, che lo aiuta a riparare nuovamente in Atene. Qui Platone muore nel 347 a.C., all’età di circa ottant’anni, lavorando fino alla fine alla revisione della sua ultima opera, le Leggi.
Gli scritti platonici Le nove tetralogie di Trasillo Platone è il primo filosofo dell’antichità di cui ci siano rimaste tutte le opere: 35 dialoghi e 13 lettere. Il grammatico Trasillo, che visse al tempo dell’imperatore romano Tiberio (42 a.C. - 37 d.C.), le organizzò in nove tetralogie, ovvero in nove gruppi ciascuno dei quali comprendente quattro scritti (dal greco tétra, “quattro”): 6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone; 1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, 7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Fedone; Menesseno; 2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico; 8. Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia; 3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro; 9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere. 4. Alcibiade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti; 5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside; 430 a.C.
420
410
413
EVENTI STORICI
200
Termina la guerra del Peloponneso; 403 ad Atene governo Ad Atene restaurata dei Trenta tiranni la democrazia
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403 ca.
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Nasce ad Atene
Incontra Socrate
Alla morte di Socrate lascia Atene per Megara e Cirene
FILOSOFIA E SCIENZA
ARTE E LETTERATURA
390
404
La flotta ateniese è sconfitta a Siracusa
VITA DI PLATONE
400
423 Aristofane: Le nuvole
Unità 3 PLATONE iL RACCOntO Di UnA VitA
411
390 ca.
Ad Atene muore Protagora
Muore il pitagorico Filolao di Crotone, sostenitore dell’eliocentrismo
406 Muoiono Euripide e Sofocle
Il problema dell’autenticità degli scritti Alcuni altri dialoghi e una raccolta di Definizioni rimasero fuori delle tetralogie di Trasillo perché riconosciuti spuri fin dall’antichità. Anche tra le opere incluse nelle tetralogie ve ne sono di spurie, e individuarle è stato uno dei compiti della critica storica. Si considerano sicuramente spuri l’Alcibiade II, l’Ipparco, gli Amanti, il Teagete e il Minosse. Dubbi sussistono sull’Alcibiade I, sull’Ippia maggiore, sullo Ione, sul Clitofonte e sull’Epinomide. Le Lettere, che fino a qualche decennio fa erano considerate spurie, sono oggi accettate pressoché da tutti come genuine. Anzi, la Lettera VII è ormai considerata un documento fondamentale per la conoscenza della vita e del pensiero del filosofo. Per determinare l’autenticità delle opere platoniche e la loro successione cronologica sono stati considerati la forma linguistica e i contenuti dottrinali, ma anche le testimonianze antiche e i rinvii presenti nei dialoghi stessi.
I periodi dell’attività letteraria di Platone A partire da questi elementi, l’attività letteraria di Platone viene suddivisa in tre periodi: primo periodo (scritti giovanili o socratici): Apologia di Socrate, Critone, Ione, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone, Eutidemo, Ippia minore, Cratilo, Ippia maggiore, Menesseno, Gorgia, Repubblica I, Protagora; secondo periodo (scritti della maturità): Menone, Fedone, Simposio, Repubblica II-X, Fedro; terzo periodo (scritti della vecchiaia): Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi. A quest’ultimo periodo appartengono anche la Lettera VII e la Lettera VIII.
Le dottrine non scritte Fonti antiche ci riferiscono che Platone tenne anche alcuni corsi intitolati Intorno al Bene, che tuttavia non volle mettere per scritto, ritenendo più opportuna, per la profondità degli argomenti trattati, la dimensione dell’oralità dialettica. In queste cosiddette “dottrine non scritte” egli sviluppò una sorta di metafisica a sfondo pitagorico, fondata sui concetti di “Uno” e di “Diade” ( cap. 3, p. 284). 390
380
370
378 Riprende il conflitto tra Atene e Sparta
360
350
374
352
Nuova pace fra Atene e Sparta
Gli ateniesi fermano i Macedoni di Filippo II alle Termopili
340 a.C.
388
367
361
347
È a Siracusa presso Dionisio il Vecchio
Riparte per Siracusa, da cui rientra dopo un anno
Parte un’ultima volta per Siracusa
Muore ad Atene
387 Rientra ad Atene, dove fonda l’Accademia
384
367
A Stagira nasce Aristotele
347
Aristotele entra all’Accademia
Aristotele lascia l’Accademia e fonda una scuola ad Asso
380 ca.
360 ca.
Naucide: Discobolo
Prassitele: Afrodite Cnidia
201
CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO E I DIALOGHI GIOVANILI
1. Una risposta alla crisi della società Il platonismo e i suoi motivi più tipici possono essere adeguatamente compresi soltanto in riferimento alla crisi politico-culturale che la Grecia e, in particolare, la città di Atene stavano attraversando tra il V e il IV secolo a.C. Il declino Dal punto di vista politico, il tempo di Platone è caratterizzato dal tramonto dell’età d’oro di Atene dell’Atene di Pericle ( p. 116). La sconfitta subita dalla città nella guerra del Peloponne-
so (404 a.C.), il fallimentare esperimento aristocratico dei Trenta tiranni (404-403 a.C.) e il deludente ritorno di una democrazia ben diversa da quella precedente e presto bagnata dal sangue di Socrate (399 a.C.) sono tutti avvenimenti che concorrono a delineare un vistoso quadro di decadenza politica e sociale. Un analogo declino contraddistingue l’ambito culturale ateniese, segnato, se si fa eccezione per Democrito, dall’esasperazione della sofistica e dalla dissoluzione del socratismo nelle varie scuole minori ( unità 2, cap. 2, p. 173).
Una “luce Essendo un aristocratico, Platone è portato ad avvertire più di altri la crisi imperante e a denelle tenebre” siderare rinnovate “stabilità”, soprattutto politiche. Ed essendo un filosofo, è indotto a con-
cepire e vivere la situazione problematica come crisi dell’essere umano nella sua totalità, e non soltanto della politica e della cultura in senso stretto. Per questi motivi egli comincia a idealizzare la figura di Socrate e a considerare la sua vicenda come un simbolo della crisi e, nello stesso tempo, della speranza di superarla. Se si era giunti a uccidere l’uomo più giusto di tutti, questo significava che il malessere della società era arrivato al suo punto-limite. E in questo sconfortante quadro Socrate era come una luce nelle tenebre, poiché aveva avvertito la necessità di un rinnovamento etico dell’uomo in nome della virtù e della giustizia, e aveva manifestato il bisogno di andare oltre il relativismo dei sofisti, ricercando definizioni stabili e universali, su cui tutti potessero essere d’accordo, senza più lasciare gli individui in un vuoto di certezze responsabile del caos morale e civile.
La rifondazione Persuaso che la crisi etico-politica derivi in primo luogo da una crisi di tipo intellettuale, filosofica Platone si convince sempre più dell’insufficienza di un semplice mutamento delle forme di della politica
governo e dell’improrogabile necessità di una riforma globale dell’esistenza umana. Ma una tale riforma non può essere ottenuta se non mediante una nuova visione complessiva delle cose, cioè mediante una rinnovata filosofia, che, dopo aver ridato certezze, sia capace di tradursi in una vera e propria “rivoluzione culturale” e in un progetto politico radicalmente riformatore.
202
Unità 3 PLATONE CApitOLO 1
il progetto filosofico e i dialoghi giovanili
In sintesi, Platone interpreta la crisi della propria epoca in modo filosofico, ritenendo che soltanto nuove certezze di pensiero possano offrire solide basi per una riedificazione esistenziale e politica dell’essere umano, e di conseguenza progetta una rifondazione della politica alla luce del sapere. ( T1 p. 212) La dimensione politico-educativa, tuttavia, non deve diventare l’unica prospettiva in cui Una mente studiare il platonismo. Quella di Platone, infatti, fu una mente poliedrica e universale, poliedrica che spaziò dalla gnoseologia alla metafisica, dalla religione all’etica, dalla pedagogia alla matematica. Consapevoli della molteplicità degli interessi e delle sfumature del platonismo, accanto all’immagine di un Platone “politico” – che resta comunque il principale filo interpretativo ed espositivo di questa presentazione – cercheremo di evidenziare di volta in volta anche i vari aspetti metafisici, religiosi e scientifici del suo pensiero, puntando al ritratto di un Platone “globale”.
2. I tratti generali della filosofia platonica Platone e Socrate La fedeltà all’insegnamento e alla persona di Socrate è il carattere dominante dell’intera attività filosofica di Platone. Ma ovviamente non tutte le dottrine filosofiche di Platone possono essere attribuite a Socrate; anzi, i tratti tipici e fondamentali del platonismo nulla hanno a che fare con la lettera dell’insegnamento socratico. Tuttavia, lo sforzo costante di Platone fu quello di rintracciare il significato vitale dell’opera e della figura di Socrate; e per rintracciarlo e renderlo esplicito egli non esitò a procedere anche al di là del patrimonio dottrinale “ereditato” dal maestro, formulando princìpi e teorie che Socrate, è vero, non aveva mai insegnato, ma che nelle intenzioni di Platone esprimevano ciò che la persona del maestro incarnava. Si può dunque affermare che la ricerca platonica tende a configurarsi come uno sforzo di interpretazione della personalità filosofica di Socrate.
Il platonismo come interpretazione del socratismo
La stessa modalità espressiva adottata da Platone nella sua produzione scritta, il dialogo, rappresenta un atto di fedeltà al silenzio letterario di Socrate: la scrittura platonica e il dialogare socratico hanno lo stesso fondamento, cioè la concezione della filosofia come sapere “aperto”, che ripropone e rivede incessantemente i suoi problemi e le sue soluzioni. La stessa convinzione che trattiene Socrate dallo scrivere spinge dunque Platone a scegliere la forma dialogica per i suoi scritti. Del resto, il dialogo è la sola forma attraverso la quale si possa esprimere per scritto la modalità dell’indagine filosofica. Esso riproduce l’andamento stesso della ricerca, che procede lentamente e faticosamente, di tappa in tappa; ma soprattutto riproduce quel carattere di socialità e comunanza che rende solidali gli sforzi degli individui che coltivano la filosofia. Proprio questa concezione del filosofare come dialogo – che testimonia come Platone si sia portato dietro, per tutta la vita, il demone di Socrate – fa sì che egli, nonostante una forte tendenza “assolutistica” a voler trovare certezze di pensiero e di vita fondate su realtà eterne e immutabili, pratichi di fatto la filosofia come una ricerca mai conclusa, ossia come un infinito sforzo verso una verità che l’essere umano non possiede mai totalmente, ma sulla quale è doveroso continuare incessantemente a interrogarsi.
La filosofia come dialogo e ricerca inesauribili
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Filosofia e mito Accanto alla forma dialogica dei suoi scritti e al metodo del “mobile” filosofare, un’altra delle caratteristiche salienti dell’opera platonica è l’uso dei miti, ossia di racconti fantastici attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. Perché Platone I motivi per i quali Platone fece ricorso ai miti hanno a lungo costituito argomento di diricorre ai miti battito tra gli studiosi. In linea generale – riferendo i punti su cui la maggior parte dei cri-
tici manifesta un accordo di base – si può dire che il mito, in Platone, riveste due significati fondamentali. In un primo senso (che vale per un gruppo di racconti), è uno strumento di cui il filosofo si serve per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine. Il mito sarebbe dunque un espediente didattico-espositivo concepito ai fini della comunicazione intellettuale, tant’è vero che i miti platonici sono perlopiù appositamente “inventati” dallo stesso filosofo. In un secondo senso, più profondo (e che vale per un altro gruppo di racconti), il mito è un mezzo di cui il filosofo si serve per parlare di realtà che vanno al di là dei limiti entro i quali l’indagine rigorosamente razionale dovrebbe contenersi. Avendo a che fare con i problemi più alti e difficili della mente, la filosofia si trova spesso a doversi muovere ai confini del pensabile, cioè di fronte a «sentieri interrotti» (per usare un’espressione del filosofo novecentesco Martin Heidegger) che la costringono a tornare indietro, oppure a procedere per un’altra via, che Platone individua nell’allusione mitica. Da questo punto di vista, il mito è qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca filosofica, permettendo in alcuni casi di formulare una teoria verosimile che, come tale, non è né una semplice favola, né un’argomentazione pienamente dimostrativa, bensì qualcosa che, pur essendo indimostrato e indimostrabile, si può ragionevolmente ritenere vero.
La profondità Nelle due accezioni appena distinte, il mito platonico ha senso soltanto se visto in strete la ricchezza ta connessione con il discorso filosofico, in rapporto al quale riveste un valore persuasivo dei miti platonici e/o complementare. Ciò non esclude, tuttavia, che esso possieda una profondità e una
ricchezza di rimandi proprie, che nessuna sua lettura razionale potrebbe esaurire. Inoltre l’uso dei miti, se da un lato rende più difficile l’interpretazione della filosofia platonica (poiché in qualche caso non si capisce bene dove finisca il mito e cominci il pensiero razionale, e viceversa), dall’altro lato conferisce al platonismo un aspetto inconfondibilmente suggestivo, che nel tempo ha contribuito alla sua fortuna presso un pubblico più vasto rispetto a quello dei soli filosofi.
)
Per l’esposizione orale
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1. Perché l’epoca di Platone è un periodo di crisi e in che modo questo influisce sul suo pensiero? 2. Spiega perché, nei suoi scritti, Platone ricorra perlopiù alla forma del dialogo. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la scelta di Platone di ricorrere, nell’esposizione delle proprie dottrine, alla narrazione mitica: ritieni che il racconto fantastico possa essere un espediente utile in ambito filosofico? per quali motivi?
Unità 3 PLATONE CApitOLO 1
il progetto filosofico e i dialoghi giovanili
3. La difesa di Socrate e la polemica contro i sofisti L’Apologia di Socrate e i primi dialoghi Come abbiamo anticipato, Platone dedica il primo periodo della propria attività filosofica a illustrare e difendere l’insegnamento di Socrate e a polemizzare contro i sofisti. L’Apologia di Socrate e il Critone, in particolare, descrivono l’atteggiamento assunto da Socrate in occasione dell’accusa, del processo e della condanna per empietà, e il suo rifiuto di sottrarsi alla morte con la fuga. L’Apologia costituisce sostanzialmente un’esaltazione del compito che Socrate si era assun- L’Apologia to di fronte a sé stesso e di fronte agli altri, e perciò l’esaltazione della vita consacrata alla ricerca filosofica. Si può dire che l’intero significato dello scritto sia contenuto in una frase contenuta nelle ultime pagine: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta» (38a). Socrate dichiara ai giudici che non tralascerà mai il compito che gli è stato affidato dalla divinità: l’esame di sé stesso e degli altri per rintracciare la via del sapere e della virtù. Fin dalla presentazione che Platone offre di Socrate nell’Apologia, è dunque evidente che egli vede incarnata nella figura del maestro quella filosofia come ricerca alla quale egli stesso dedicherà l’intera esistenza. Il Critone presenta Socrate di fronte al dilemma: accettare la morte per il rispetto che l’uo- Il Critone mo giusto deve alle leggi della propria città, o accogliere la proposta degli amici di fuggire dal carcere, smentendo in tal modo la sostanza del proprio insegnamento? L’accettazione da parte di Socrate del destino a cui è stato condannato dai suoi concittadini è l’ultima e la più forte prova della serietà del suo messaggio. La ricerca della verità, infatti, è per Socrate una missione talmente importante che egli non può in alcun modo tradirla accettando compromessi o fughe che la svuotino di significato. Se nell’Apologia di Socrate e nel Critone Platone fissa per i secoli a seguire gli atteggiamenti I dialoghi che fanno di Socrate il filosofo per eccellenza, oltre che «l’uomo più saggio e più giusto di minori tutti», in un nutrito gruppo di dialoghi egli illustra invece i capisaldi dell’insegnamento socratico, che ritiene fondamentalmente tre: la virtù è una sola e si identifica con la scienza; in quanto scienza, la virtù è insegnabile; nella virtù come scienza consiste la felicità umana. Queste tesi, che saranno esplicitamente presentate e difese nei dialoghi più maturi e più ricchi di questa prima fase della riflessione platonica (in particolare nel Protagora e nel Gorgia), vengono preparate “negativamente” da tutta una serie di “dialoghi minori”, volti a sgombrare il terreno dalle tesi opposte. Il metodo prevalentemente seguito da Platone in questi dialoghi minori consiste infatti nell’ammettere in via d’ipotesi la tesi opposta a quella di Socrate e nel far vedere che essa o non conduce a nulla, o conduce a conseguenze assurde, risultando così confutata. La tesi fondamentale di Socrate secondo cui la virtù è scienza implica evidentemente che la virtù sia una sola (la scienza del bene), ovvero che non ci siano tante virtù, l’una differente dall’altra e ognuna definibile isolatamente. Se, ad esempio, la santità, il coraggio e la saggezza fossero virtù diverse tra loro e diverse dall’unica scienza del bene, allora dovrebbe essere possibile definire ognuna di esse senza rapportarla alle altre. Ma nell’Eutifrone, nel Lachete e nel Carmide si mostra come né la santità, né il coraggio, né la saggezza siano definibili in questo modo e che, se ci si ostina a considerare ognuna di queste virtù per proprio conto, isolatamente dalla scienza del bene, nulla si può dire intorno alla loro natura.
La virtù è unica: l’Eutifrone, il Lachete e il Carmide
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Il bene è unico: Se la virtù è una sola, uno solo dev’essere anche l’ideale o il valore che essa tende a realizl’Ippia maggiore zare. Se le virtù fossero diverse, ognuna di esse tenderebbe infatti a realizzare un proprio e il Liside
ideale o valore specifico, diverso da tutti gli altri: ad esempio, una tenderebbe a realizzare il bello, l’altra l’utile, l’altra il conveniente ecc. Nell’Ippia maggiore e nel Liside si mostra però che il bello, l’utile, il conveniente ecc. non possono essere definiti ognuno per proprio conto e quindi, in ultima analisi, non esistono quali valori indipendenti e diversi l’uno dall’altro. Esiste un solo valore, che comprende e assomma in sé tutti gli altri: il bene, che è unico come unica è la virtù, cioè l’attività umana che deve realizzarlo.
Il bene In altri dialoghi dello stesso periodo si insiste invece sull’esigenza di riconoscere la propria è conoscenza: ignoranza come primo passo per intraprendere la ricerca che deve condurre alla scienza. lo Ione e l’Ippia minore Nello Ione si tende a dimostrare che i poeti, i quali trattano gli argomenti più diversi, in real-
QUESTIONE Il male è frutto di ignoranza o malvagità? (Socrate, Platone) p. 315
tà non sanno nulla di ciò di cui parlano, in quanto sono spesso soltanto gli strumenti passivi dell’ispirazione divina. E nell’Ippia minore si mostra che c’è identità tra virtù e scienza, perché, se così non fosse, colui che fa il male volendolo sarebbe superiore a colui che fa il male senza volerlo. Il primo, infatti, per volere il male dovrebbe conoscerlo, e per conoscerlo dovrebbe saperlo distinguere dal bene, il che significa che dovrebbe conoscere il bene, cosa che stabilirebbe la sua superiorità rispetto a chi fa il male senza volerlo, cioè senza essere capace di distinguerlo dal bene. Ma questo è assurdo – si conclude nel dialogo – poiché non può esistere nessuno che conosca il bene e faccia il male: il male è sempre ignoranza, così come la virtù è scienza.
Il Protagora, l’Eutidemo e il Gorgia Il Protagora e la nozione di “virtù” La tesi indirettamente suggerita dal gruppo di
Le “false virtù” dialoghi che abbiamo appena analizzato, ovvero l’unicità della virtù e la sua riducibilità al di Protagora sapere, è positivamente posta e dimostrata nel Protagora. In questo dialogo Socrate obiet-
ta al famoso sofista, il quale si auto-definisce “maestro di virtù”, che la virtù di cui egli parla non è vera scienza, ma un semplice insieme di abilità acquisite accidentalmente attraverso l’esperienza: si tratta perciò di un patrimonio “privato”, che non può essere trasmesso agli altri. Dal momento che sostiene che le virtù sono molte, e che la scienza è soltanto una particolare tra esse, Protagora non può affermare che la virtù (in generale) sia insegnabile; infatti soltanto la scienza si può insegnare: per questo la virtù si può trasmettere e comunicare solo in quanto è scienza.
Socrate come Nel Protagora la scienza è presentata da Platone come calcolo dei piaceri, secondo una conanti-sofista cezione ancora legata all’insegnamento socratico. Il dialogo, tuttavia, mostra un Platone
che non si limita più a illustrare i concetti posti da Socrate, ma che ormai esalta l’insegnamento del maestro per contrapporlo a quello dei sofisti. Il Protagora nega all’insegnamento sofistico ogni valore educativo e formativo, screditando in questo modo la sofistica nel suo complesso. Per contrasto, l’insegnamento di Socrate appare in tutto il suo valore. Oltre che alla concezione della virtù, il giovane Platone rivolge la propria critica anche ad altri aspetti della sofistica, tra cui l’eristica (contro la quale è diretto l’Eutidemo) e la retorica (contro la quale è diretto il Gorgia.
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Unità 3 PLATONE CApitOLO 1
il progetto filosofico e i dialoghi giovanili
L’Eutidemo e la polemica contro l’eristica L’Eutidemo offre innanzitutto una rappre-
Una caricatura sentazione vivacissima e caricaturale del metodo eristico, ovvero dell’arte di battagliare a paro- degli eristi
le e di «confutare tutto quello che via via si dice, falso o vero che sia» ( unità 2, cap. 1, p. 137). Gli interlocutori del dialogo sono i due fratelli Eutidemo e Dionisodoro, i quali si divertono, ad esempio, a dimostrare che soltanto l’ignorante può apprendere e, subito dopo, che apprende soltanto il sapiente; che si apprende soltanto ciò che non si sa, e poi che si apprende soltanto ciò che già si sa, e via dicendo. Il fondamento di simili virtuosismi retorici è la dottrina secondo cui l’errore non è possibile e, quindi, qualsiasi cosa si dica, essa è vera. A questa idea Socrate ribatte che allora non ci sarebbe nulla da insegnare e nulla da apprendere, e la stessa eristica sarebbe inutile.
In realtà – prosegue Socrate – nulla si può insegnare se non la sapienza; e la sapienza non si L’esortazione può insegnarla né apprenderla se non amandola, cioè filosofando. Da critica del procedimen- alla filosofia to eristico, il dialogo si trasforma così in un’esortazione alla filosofia (in un “protrettico”, dal verbo greco protrépo, “esorto”, “induco”, “promuovo”), e proprio in quanto tale diventerà famoso nell’antichità e verrà spesso imitato, ovvero come discorso introduttivo e invito al sapere filosofico. Questa parte dell’Eutidemo è particolarmente importante, perché contiene l’illustrazione del compito proprio della filosofia, che per Platone è l’uso del sapere a vantaggio dell’essere umano. La filosofia è l’unica scienza in cui il fare coincide con il sapersi servire di ciò che si fa, cioè l’unica scienza che non soltanto produce conoscenze, ma insegna anche a utilizzarle per il vantaggio e la felicità di tutti.
Il Gorgia e la polemica contro il relativismo morale Nel Gorgia Platone attacca l’arte che costituiva la principale creazione dei sofisti, nonché la base stessa del loro insegnamento: la retorica. Nella prospettiva sofistica questa voleva essere una “tecnica” della persuasione, utilizzabile in maniera del tutto indipendente rispetto all’argomento trattato o ai contenuti della tesi da difendere. A questa concezione Platone oppone l’idea secondo cui ogni arte, o scienza, è veramente persuasiva soltanto se si esprime riguardo all’oggetto che le è proprio. Ma la retorica non ha un oggetto proprio: consente di parlare di tutto, non riuscendo a convincere se non coloro che hanno una conoscenza inadeguata e sommaria delle cose di cui tratta, e cioè gli ignoranti. Essa non è dunque un’arte, ma soltanto una “pratica” adulatoria, che, ad esempio, ha con la politica (ovvero con l’arte della giustizia) il medesimo rapporto che l’arte culinaria ha con la medicina: retorica e culinaria solleticano il gusto, l’una dell’anima e l’altra del corpo, mentre sono la politica e la medicina a curare veramente anima e corpo.
La retorica sofistica come pratica adulatoria
A dimostrazione di quanto detto, nel dialogo si legge che la retorica può essere utile a difendere con discorsi un’ingiustizia commessa e ad evitare di subirne la pena. Ma questo non è un vantaggio: infatti il male per l’uomo non consiste nel subire un’ingiustizia, ma nel commetterla, perché essa macchia e corrompe l’anima; e il sottrarsi alla pena di un’ingiustizia commessa è un male ancora peggiore, perché toglie all’anima la possibilità di liberarsi dalla colpa espiandola. Quello della giustizia è un tema fondamentale affrontato nel Gorgia: nel dialogo, infatti, Callicle (sofista che probabilmente è esistito davvero) deride Socrate per la sua ingenuità e gli espone la sua idea della giustizia come convenzione umana, che è da sciocchi rispettare. La legge di natura, infatti, coincide con la legge del più forte, e il più forte segue esclusivamente il proprio piacere e interesse, senza curarsi della giustizia: tende a predominare sugli altri e ha come unica regola il proprio talento.
L’idea sofistica della giustizia come convenzione
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Questo punto di vista annulla l’identificazione socratica di virtù, legalità e felicità, perché felice, per i sofisti, non è il cittadino virtuoso che sa che cos’è il bene e ne è attratto, ma il malvagio, il potente che viola la legge mosso soltanto dalla ricerca del proprio piacere e del proprio utile. I due pilastri dell’etica socratica, l’eudemonismo e l’intellettualismo, con i sofisti sono ormai in frantumi: si può sapere che una cosa è male e farla ugualmente, e per di più ricavarne soddisfazione e godimento. Il bene come Contro questo crudo immoralismo, di cui Callicle è portavoce, per bocca di Socrate Platomisura ne osserva che l’intemperante, come non è l’uomo migliore, così non è il più felice, giacché razionale
passa insaziabile da un piacere all’altro, simile a una botte bucata che non si riempie mai. La felicità esige invece un bene stabile, e questo non può coincidere con il piacere, poiché quest’ultimo, in quanto soddisfazione di un bisogno (cioè di una mancanza che causa dolore), fluisce di continuo nel suo contrario: piacere e dolore si condizionano sempre reciprocamente, e non c’è l’uno senza l’altro. Platone osserva inoltre che i piaceri possono essere sia buoni sia cattivi, e che soltanto un’attenta disamina condotta mediante la ragione permette di discernere il comportamento migliore. Comincia così a profilarsi l’idea (che sarà sviluppata nel Filebo cap. 3, p. 280), secondo cui il bene consiste nella ricerca di una misura razionale con cui mettere ordine nella propria vita tenendo a freno gli istinti. Pur nel tentativo di salvaguardare il razionalismo del proprio maestro, Platone ne supera dunque la prospettiva: quella che nell’etica socratica era un’alternativa interna alla ragione (tra il bene come conoscenza e il male come ignoranza) si trasforma in un’alternativa tra il bene come ragione e il male come impulso irrazionale.
Verso un’etica In ogni caso, nella parte iniziale del Gorgia Platone cerca di rimanere fedele a un’etica dell’aldilà dell’aldiquà, difendendo il principio socratico secondo cui chi fa il bene vive bene e chi
FILOSOFIA E ARTE La Tomba del Tuffatore La “scoperta” dell’aldilà tra arte e filosofia p. 268
fa il male soffre non dopo la morte, ma in questa vita, perché il male, essendo ignoranza, corrompe la natura razionale dell’essere umano e, rendendo indegna la vita, la rende anche infelice. Alla fine del dialogo, però, di fronte alle incalzanti provocazioni di Callicle, Platone sembra mutare il proprio orientamento. All’etica della ragione, ereditata dal maestro, oppone un’etica della salvezza religiosa ispirata all’orfismo, secondo la quale gli uomini devono scegliere il bene non soltanto per il timore, nell’aldiquà, di un disordine interiore fonte di infelicità, ma anche per il timore di pene terribili da scontare nell’aldilà:
‘
chi cade in peccato deve essere punito, e questo, dopo l’esser giusti, è il secondo bene: divenire giusti pagando alla giustizia il proprio debito […] il miglior sistema di vita consiste nel praticare, in vita e in morte, giustizia e ogni altra virtù […] no, Callicle, il tuo (Gorgia, 527b-e) ragionamento non ha alcun valore!
Il male come In questa nuova prospettiva il male non è soltanto nocivo, ma anche colpevole, e la dottrina colpa dell’immortalità dell’anima, che Platone approfondirà nel Fedone ( cap. 2, p. 223), sarà la QUESTIONE Il male è frutto di ignoranza o malvagità? (Socrate, Platone) p. 315
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garanzia ultima della vita morale. Soltanto l’idea della certezza della remunerazione del bene e del male (se non in questa, in un’altra vita) permette di respingere definitivamente le obiezioni di Callicle, e di “salvare” il principio della corrispondenza tra virtù e felicità proprio dell’eudemonismo greco.
Unità 3 PLATONE CApitOLO 1
il progetto filosofico e i dialoghi giovanili
Il Cratilo e il problema del linguaggio Nel Cratilo si cerca di chiarire se il linguaggio sia davvero un mezzo per insegnare la na- Il rapporto tura delle cose. Certamente Platone non ritiene che il linguaggio sia il prodotto di una con- tra linguaggio e realtà venzione, né che i nomi siano imposti alle cose in maniera arbitraria. Infatti, come ogni strumento deve essere adatto allo scopo per il quale è stato costruito, così il linguaggio deve essere adatto a farci discernere le cose a cui si riferisce. Non c’è dubbio, dunque, che ogni nome debba avere una sua correttezza, cioè debba, per quanto possibile, imitare ed esprimere mediante lettere e sillabe la natura della cosa significata. Non tutti i nomi, però, hanno questo carattere naturale: alcuni, ad esempio i nomi dei numeri, sono puramente convenzionali. E in ogni caso non si può sostenere, come fa Cratilo, che la scienza dei nomi sia anche scienza delle cose, che non ci sia altra via di indagare e scoprire la realtà se non quella di scoprirne i nomi, e che non si possano insegnare che i nomi stessi. Giacché i nomi presuppongono la conoscenza delle cose: prima della creazione del linguaggio, gli uomini dovevano conoscere le cose per altra via, dal momento che non disponevano ancora dei nomi; e noi stessi, per giudicare della correttezza dei nomi, non possiamo appellarci ad altri nomi, ma dobbiamo ricorrere alle realtà di cui essi sono immagine. Sicché il criterio per intendere e giudicare il valore delle parole ci porta a cercare la natura delle cose al di là delle parole stesse. Il Cratilo contiene dunque l’enunciazione delle tre alternative fondamentali che si pre- Le tre tesi sul linguaggio senteranno costantemente nella storia della teoria del linguaggio: la tesi sostenuta dagli eleati, da Democrito, dai sofisti e dai socratici della scuola di Megara, secondo cui il linguaggio è pura convenzione, cioè dipende esclusivamente dalla libera iniziativa degli uomini; la tesi sostenuta da Cratilo, che era propria di Eraclito e della scuola cinica, secondo cui il linguaggio è naturalmente prodotto dall’azione causale delle cose; la tesi difesa da Platone, secondo cui il linguaggio è uno strumento creato dall’intelligenza umana, che serve ad avvicinare alla conoscenza delle cose. Nell’illustrare quest’ultima tesi, Platone fa esplicito riferimento alle «idee» (440b), che chiama più spesso «sostanze», intendendo con questi termini «ciò che l’oggetto è» (428d). Egli tuttavia non fa dipendere la produzione del linguaggio dalla natura delle cose, ma, come i convenzionalisti, ritiene che esso sia una produzione umana. Nello stesso tempo, però, ammette che non si tratta di una produzione arbitraria, bensì diretta – fin dove è possibile – alla conoscenza delle essenze, cioè della natura delle cose. Il teorema fondamentale che Platone si propone di difendere è dunque che il linguaggio può essere più o meno esatto, o addirittura sbagliato, cioè che «si può dire il falso». Questa idea sarebbe inammissibile nella prospettiva delineata dalle altre due concezioni del linguaggio, per le quali esso è sempre esatto: o perché una convenzione vale l’altra, o perché è imposto dalla natura delle cose. La difesa di questo teorema apre la strada all’ontologia del Sofista ( cap. 3, p. 272). ( T2 p. 214)
)
Per l’esposizione orale
La posizione platonica: «si può dire il falso»
ESERCIZI
1. Illustra in che senso, in generale, Platone difende l’insegnamento di Socrate, polemizzando con i sofisti. 2. Indica le tesi fondamentali di ciascuno dei seguenti dialoghi o gruppi di dialoghi: Apologia di Socrate e Critone - Protagora - Gorgia - Cratilo.
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SINTESI AUDIOSINTESI
CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO E I DIALOGHI GIOVANILI
I caratteri della filosofia platonica Con la sua filosofia Platone rispecchia il contesto storico e culturale in cui si trova a vivere: la decadenza politica, sociale e culturale di Atene, di cui la condanna a morte di Socrate costituisce un evento emblematico. Per colmare il vuoto di certezze intellettuali e morali che caratterizza la società del suo tempo, Platone propone una filosofia che ha come obiettivi ultimi la riedificazione esistenziale e politica dell’uomo e la rifondazione della politica alla luce del sapere. In questa prospettiva, i tratti e gli strumenti principali del suo filosofare sono: la fedeltà all’insegnamento di Socrate, seppure adeguatamente reinterpretato; il dialogo come forma scritta privilegiata e come mezzo ideale per trasmettere il significato della filosofia quale ricerca inesauribile; il ricorso frequente al racconto mitico, usato sia come espediente didattico, sia come modalità espositiva capace di trattare argomenti difficilmente affrontabili entro i limiti della sola ragione.
In un nutrito gruppo di altri dialoghi (Eutifrone, Lachete, Carmide, Ione, Ippia maggiore, Ippia minore, Liside, Protagora, Eutidemo e Gorgia) sono ribaditi i capisaldi dell’insegnamento socratico, ovvero la concezione della virtù come scienza – e dunque come unica, insegnabile e strumento di felicità – e la concezione del bene come sommo e unico valore.
La polemica contro i sofisti Tra i dialoghi giovanili, il Protagora, l’Eutidemo e il Gorgia formano un gruppo compatto dedicato alla polemica contro i sofisti. Più precisamente, nel Protagora Platone critica la concezione sofistica della virtù come insieme di abilità acquisite attraverso l’esperienza, e nega che gli insegnamenti impartiti dai sofisti abbiano un valore realmente formativo. Nell’Eutidemo polemizza invece contro l’eristica, sterile arte di combattere a parole senza tenere in alcun conto la verità o la falsità di ciò che si dice. Nel Gorgia, infine, attacca la retorica, ossia l’insieme delle tecniche persuasive impiegate dai sofisti, definendola una pura “pratica” adulatoria. In questo stesso dialogo, Platone condanna il relativismo morale dei sofisti, derivante dalla loro tendenza a considerare la giustizia come il frutto di una semplice convenzione umana. Egli inoltre comincia a delineare una concezione del bene come capacità di imporre una “misura” razionale agli istinti (che svilupperà nel Filebo). Al discorso sul bene si legano non soltanto questa ripresa e rielaborazione dell’intellettualismo etico socratico, ma anche la difesa dell’eudemonismo tipico della mentalità greca in generale: questo viene sviluppato da Platone in modo originale, ovvero in direzione di un’etica “dell’aldilà”, in cui la felicità possa essere intesa come la giusta remunerazione del bene, di cui l’uomo ha la certezza di godere, se non in vita, almeno dopo la morte.
Il problema del linguaggio Al problema del lin-
I temi dei dialoghi giovanili Il primo periodo dell’attività di Platone è dedicato alla difesa della figura e degli insegnamenti di Socrate e alla polemica contro i sofisti.
La difesa di Socrate Nell’Apologia di Socrate e nel Critone si esalta l’ideale socratico di una vita dedicata alla ricerca filosofica e si fissano i tratti che fanno di Socrate il “filosofo” per eccellenza.
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guaggio e della sua origine è dedicato il Cratilo, in cui Platone si oppone tanto all’idea che esso sia puramente convenzionale, quanto alla convinzione che esso dipenda in maniera diretta dalla natura delle cose. Secondo Platone, infatti, il linguaggio è sì una produzione umana, ma non del tutto arbitraria, poiché, per quanto è possibile, è diretta ad avvicinare l’uomo alla conoscenza delle “essenze”, cioè alla vera e profonda natura delle cose.
il progetto filosofico e i dialoghi giovanili
MAPPE
CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO E I DIALOGHI GIOVANILI
LA FILOSOFIA PLATONICA ha come obiettivi ultimi
la riedificazione dell’uomo
si concretizza
la rifondazione della politica
nella fedeltà all’insegnamento di Socrate (seppure adeguatamente reinterpretato)
nella scelta del dialogo come forma espositiva scritta e come metodo filosofico
nel ricorso al racconto mitico come espediente didattico o per trattare argomenti molto elevati
I TEMI DEI DIALOGHI GIOVANILI sono
la difesa dell’insegnamento di Socrate e l’esaltazione della sua figura di filosofo
la virtù come scienza (unica e insegnabile)
Apologia di Socrate Critone
Eutifrone Lachete Carmide (unicità della virtù) Ione e Ippia minore (virtù come scienza)
il bene come valore unico
Ippia maggiore Liside
la polemica contro i sofisti
il linguaggio e la sua origine
Protagora (contro la nozione sofistica di “virtù”) Eutidemo (contro l’eristica) Gorgia (contro il relativismo morale)
Cratilo (linguaggio come produzione umana diretta alla conoscenza delle “essenze”)
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CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO E I DIALOGHI GIOVANILI
L’utilità della filosofia per la vita associata
I motivi che indussero Platone a preferire la filosofia alla carriera politica sono esposti soprattutto nella Lettera VII, che il filosofo scrisse verso il 353 a.C., cioè quando aveva all’incirca 74-75 anni, e che costituisce un prezioso documento per comprendere i presupposti dell’intero sistema filosofico platonico. TESTO
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Il richiamo della politica e la vocazione filosofica
(Lettera VII)
IL TESTO NELL’OPERA Nella Lettera VII, dall’impianto sostanzialmente autobiografico, Platone ricostruisce le fasi del suo rapporto travagliato con la politica, soffermandosi in particolare sui suoi viaggi in Sicilia. Il filosofo osserva che le esperienze siracusane avrebbero potuto rappresentare un’occasione per la realizzazione delle sue idee politiche, ma tali tentativi fallirono. Egli, tuttavia, non abbandonò mai l’idea che la chiave di una riforma radicale e autenticamente migliorativa delAUDIOLETTURA la società consistesse nella formazione filosofica dei governanti. Nel testo seguente, collocato all’inizio della Lettera, Platone parla con amarezza e disincanto del suo incontro con la politica, in un’Atene retta prima dal governo dei Trenta tiranni, rivelatosi deleterio nella sua azione, e poi dal governo democratico, responsabile della condanna a morte di Socrate. Il regime dei Quando ero giovane, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dediTrenta tiranni carmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne 2
che questo capitasse allora alla città: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun cittadini divennero i reggitori dello Stato. Undici furono posti a capo del centro urbano, dieci a capo del Pireo, tutti con l’incarico di sovraintendere al mercato e di occuparsi dell’amministrazione, e, sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi invitarono a prender parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me. Io credevo veramente (e non c’è niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la città dall’ingiustizia traendola a un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto. M’accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l’altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch’io non esito a dire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice,
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volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancor altri simili gravi misfatti, fui pre- 16 so da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. La deludente Poco dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia 18 restaurazione pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. Anche allora, in quello scondemocratica
volgimento, accaddero molte cose da affliggersene, com’è naturale, ma non c’è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero maggiori. Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all’empio arresto di un amico degli esuli d’allora, quando essi pativano fuori della patria.
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Un’amara Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le conclusione leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che 28
fosse difficile partecipare all’amministrazione dello Stato restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d’altra parte era difficile trovarne tra i citta- 30 dini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era anche trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrompevano 32 e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completa- 34 mente sconvolto, finii per sbigottirmene.
La speranza Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potes- 36 riposta nella se migliorare il governo dello Stato, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportufilosofia
no, finché alla fine m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo essa. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi.
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(Lettera VII, 324b - 326b, trad. it. di A. Maddalena, Laterza, Roma-Bari 1971)
Il regime dei Trenta tiranni (rr. 1-17) Platone trascorre la sua giovinezza mentre infuria la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e ha 23-24 anni quando Atene viene sconfitta definitivamente dagli Spartani e ha inizio il governo oligarchico dei Trenta tiranni (i «trenta magistrati», r. 6). Oltre che dai Trenta, Atene è amministrata da undici magistrati (inferiori gerarchicamente ai tiranni) posti a capo del centro urbano, e da altri dieci posti a capo del Pireo, ovvero della zona portuale. In tutto i nuovi reggitori dello Stato ateniese sono dunque cinquantuno. Fra i Trenta tiranni ci
sono Crizia, cugino della madre di Platone e leader del gruppo, e Carmide, zio di Platone (Crizia e Carmide sono anche i titoli di due dialoghi di Platone), i quali lo invitano a prendere parte alla vita politica. Platone si aspetta che i nuovi governanti reggano la città secondo giustizia e segue con attenzione le loro scelte politiche, ma in breve tempo si rende conto che il vecchio governo democratico era decisamente migliore del nuovo regime aristocratico. In particolare, ciò che indigna il filosofo è la strategia utilizzata dai Trenta, i quali, allo scopo di consolidare
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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il proprio regime, cercano di coinvolgere i privati cittadini nelle loro azioni criminali, in modo da procurarsi nuovi e fidati sostenitori. Uno di questi tentativi viene messo in atto anche con Socrate: l’episodio a cui si allude è descritto nell’Apologia (32c-d), dove troviamo anche il nome di chi doveva morire, Leonzio di Salamina. Il giudizio espresso su Socrate – definito l’uomo «più giusto del suo tempo» (r. 13) – è presente anche nel Fedone (118a), che termina proprio con quelle parole. La deludente restaurazione democratica (rr. 1826) Il governo dei Trenta cade poco dopo: un gruppo di esuli democratici, sotto la guida di Trasibulo e Anito (il futuro accusatore di Socrate) attaccano e prendono il Pireo; nello scontro muore anche Crizia. Dopo un breve periodo in cui Atene è governata da una commissione di dieci uomini, nel 403 a.C. i democratici tornano al potere e di nuovo Platone è preso dal desiderio, anche se meno intenso, di dedicarsi alla politica. Nonostante le vendette private a cui talvolta danno corso, nel complesso i democratici sono infatti governanti piuttosto moderati. Anch’essi, tuttavia, si
rendono responsabili dei gravi fatti che condizioneranno l’intera vita di Platone: il processo e la condanna a morte di Socrate, accusato di «empietà» (r. 25), cioè di non credere agli dèi della città. Un’amara conclusione (rr. 27-35) Profondamente colpito dall’ingiusta condanna del maestro, Platone comprende che la disonestà di quanti partecipano alla vita politica e la dissoluzione delle leggi e dei costumi non sono fatti isolati, ma una condizione ormai generale nella città di Atene. La speranza riposta nella filosofia (rr. 36-44) Senza smettere di cercare una via per migliorare la situazione, Platone resta in attesa del momento più opportuno per un intervento che possa essere risolutivo. Ma alla fine deve prendere coscienza del fatto che tutte le città sono mal governate. Soltanto una «retta filosofia» (r. 40) potrebbe in qualche modo contrastare il declino, indicando ciò che è giusto per la vita dell’individuo e per la città. Le righe che concludono il passo, in cui si afferma che i politici devono essere «veri filosofi» (r. 44), costituiscono, come vedremo nel prossimo capitolo, il tema centrale della Repubblica.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Platone il connubio tra filosofia e politica rappresenta un argine alle «sciagure delle generazioni umane» (r. 42). Pensi che un tale “rimedio” potrebbe essere valido anche nella società contemporanea, in cui spesso si lamenta una crisi della politica? Argomenta la tua risposta e, se possibile, riporta alcuni esempi concreti (max 40 righe).
La riflessione sul linguaggio
L’opera platonica dedicata al linguaggio, tema centrale nella riflessione dei sofisti, è il Cratilo, in cui si analizzano l’origine e la natura dei nomi. In questo dialogo Platone, nell’illustrare la sua concezione, prepara la strada alla teoria delle idee ( capitolo 2). TESTO
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La stabilità delle essenze come condizione della conoscenza (Cratilo) IL TESTO NELL’OPERA Il Cratilo prende le mosse dalla discussione avviata da Ermogene e Cratilo sulla correttezza dei nomi. Ermogene, fedele discepolo di Protagora, ritiene che i nomi si riducano a espressioni convenzionali, modificabili in qualunque momento (convenzionalismo linguistico). Cratilo, filosofo eracliteo (di cui Platone, secondo la testimonianza di Aristotele, fu discepolo negli anni giovanili), sostiene invece che ai nomi corrisponde la realtà delle cose (naturalismo linguistico). Socrate (o, meglio, Platone) critica entrambe queste concezioni e assume una posizione, per così dire, “mediana”: egli ammette che il linguaggio sia una creazione dell’essere umano, ma nello stesso tempo afferma che si tratta di uno strumento creato non arbitrariamente, bensì diretto a cogliere, per quanto possibile, la natura immutabile delle cose.
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Il testo proposto, collocato all’inizio del dialogo, è particolarmente importante perché in esso, al di là del tema specifico, emerge che non si può avere alcuna conoscenza se non di essenze stabili: sono così introdotte le “idee”, cuore del platonismo. L’analisi della SOCRAtE Orsù, allora, vediamo, o Ermogene, se anche gli enti a te pare che stiano così: la posizione loro essenza è relativa a ciascuno di noi individualmente, come diceva Protagora dicendo 2 di Protagora
che “misura di tutte le cose” è l’uomo, cosicché quali a me sembrino essere le cose, tali anche siano per me, e quali a te, tali per te? o credi piuttosto ch’esse abbiano una loro fermezza nell’essere? ERMOGEnE Già una volta, o Socrate, trovandomi nell’imbarazzo, proprio a questo mi lasciai trarre, a quel che Protagora dice; ma non credo affatto che la cosa sia così. SOCRAtE O come, a questo ti lasciasti trarre, sì da credere che addirittura non esista uomo cattivo? ERMOGEnE Oh, no, certo; che anzi più volte codesto mi è capitato, di dover credere che uomini in tutto malvagi ce ne siano, e numerosi assai. SOCRAtE E del tutto buoni non hai mai creduto ce ne fossero? ERMOGEnE Sì, ma pochissimi. SOCRAtE Credevi in ogni modo che ce ne fossero. ERMOGEnE Sì. SOCRAtE Orbene, come intendi ciò? Forse così, che gli uomini del tutto buoni siano del tutto assennati; gli uomini del tutto cattivi siano del tutto dissennati? ERMOGEnE Così almeno mi pare. SOCRAtE È possibile allora, se Protagora diceva il vero ed è questa la verità, che quali a ciascuno sembrano le cose, tali anche sono, alcuni di noi siano assennati, altri dissennati? ERMOGEnE No certo. SOCRAtE Anche questo, io credo, ammetterai sicuramente, che se v’è assennatezza e dissennatezza, non è affatto possibile che Protagora dica il vero; perché nessun uomo in verità potrà essere mai più assennato di un altro, se per ciascuno ciò solo ch’egli crede vero, è vero. ERMOGEnE È così.
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L’analisi della SOCRAtE Senonché, neppur seguendo Eutidemo, penso, a te sembra che per tutti tutte le co- 26 posizione se siano allo stesso modo, insieme e sempre; ché neppur così potrebbero essere gli uni di Eutidemo
buoni, gli altri cattivi, se fossero allo stesso modo, per tutti e sempre, virtù e vizio. ERMOGEnE Dici il vero.
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stesse una lor propria e stabile essenza, non dipendono da noi, né da noi sono tratte in su 32 e in giù secondo la immaginazione nostra, bensì esistono per se stesse, senz’altro rapporto 34 che con la loro essenza, così come sono per natura. ERMOGEnE Mi sembra, o Socrate, così. […]
L’analisi della SOCRAtE Considera dunque, o meraviglioso Cratilo, una domanda la quale più volte mi ri- 36 posizione peto come in sogno. Diciamo che sono qualche cosa per sé, esso stesso il bello, il buono e di Eraclito
38 così ognuno degli enti, oppure no? CRAtiLO A me pare di sì, o Socrate. SOCRAtE Quell’“esso stesso”, dunque, consideriamo: non già se è bello un volto e qualche 40 cosa di simile, tutte cose che sembrano fluire; bensì esso stesso, diciamo, il bello, non è 42 sempre tale quale è?
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La posizione SOCRAtE Se quindi né per tutti tutte le cose sono allo stesso modo insieme e sempre, né per 30 di Socrate ciascuno in un suo modo particolare ogni cosa, è ben chiaro che codeste cose hanno in se
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CRAtiLO
Necessariamente.
SOCRAtE Orbene, è possibile codesto bello chiamarlo giustamente per sé, se sempre ci scap-
pa via di sotto, e dire anzitutto che esso è, e poi che è tale; o è necessario che al momento stesso che noi parliamo divenga sùbito altro, e ci scappi via e non sia più così? CRAtiLO È necessario. SOCRAtE E allora, come potrà essere qualche cosa ciò che non è mai allo stesso modo? Ché se un momento rimane fermo nello stesso modo, almeno in quel momento è chiaro che non passa via; e se sempre rimane allo stesso modo, ed è lo stesso, come potrebbe esso o mutare o muoversi, senza allontanarsi per niente dalla propria idea? CRAtiLO In nessun modo. SOCRAtE Ma allora neppure potrà esser conosciuto da nessuno. Infatti, nel momento stesso che chi lo deve conoscere gli s’avvicina, ecco che diverrà altro e di altra specie; cosicché non potrà più esser conosciuto né quale è, né come è. Nessuna conoscenza, certo, conosce ciò che conosce, se codesto non sta fermo in nessun modo. CRAtiLO È come dici. SOCRAtE Ma neppure è lecito dire che esiste conoscenza, o Cratilo, se tutte le cose mutano e nessuna sta ferma. (Cratilo, 385e - 386e, 439c - 440a, trad. it. di L. Minio-Paluello, Laterza, Roma-Bari 1971)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’analisi della posizione di Protagora (rr. 1-25) Socrate critica la concezione convenzionalistica di Ermogene mettendo in luce come, seguendo una tale prospettiva, l’essenza delle cose apparirebbe in modi diversi a soggetti diversi, proprio come diceva Protagora, del quale viene citato il famoso frammento secondo cui l’uomo è «misura di tutte le cose». Seguendo Protagora, non sarebbe possibile dire che un individuo è più assennato di un altro, poiché per ciascuno è vero ciò che egli crede vero. Eppure l’esperienza di ogni giorno ci mette di fronte a persone assennate e a persone dissennate, quindi non è possibile che Protagora dica il vero. L’analisi della posizione di Eutidemo (rr. 26-29) Neppure è sostenibile la posizione di Eutidemo (sofista a cui è dedicato un altro dialogo platonico), seguendo la quale tutti gli esseri sono sempre nello stesso modo, dal momento che anche in questo caso non si avrebbero alcuni individui buoni e altri cattivi.
La posizione di Socrate (rr. 30-35) Dunque, se le cose non sono sempre nello stesso modo per tutti gli uomini, né ciascuna è in un modo particolare per ogni uomo, bisogna concludere che le cose hanno in sé stesse una loro stabile essenza, senza alcun bisogno che i singoli esseri umani ne costituiscano la misura. L’analisi della posizione di Eraclito (rr. 36-59) Rivolgendosi infine a Cratilo, Socrate osserva che, se tutto mutasse continuamente (come afferma Eraclito), non sarebbe possibile dare ad alcun oggetto un nome stabile e, di conseguenza, niente potrebbe essere conosciuto. Ma l’esperienza attesta il contrario: dal momento che esistono delle conoscenze, allora bisogna dire che il bello e il buono esistono in sé, e che sono sempre tali quali sono. Affinché la conoscenza sia possibile, è necessaria una stabilità: è necessario qualcosa che esista in sé e non sia dipendente da altro.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Nella famosa tragedia Romeo e Giulietta, William Shakespeare fa dire alla sua protagonista: «Che c’è in un nome? Ciò che chiamiamo “rosa” avrebbe con qualsiasi nome un profumo altrettanto dolce». Prova a rispondere al drammaturgo inglese assumendo la posizione di Platone e sostenendo la sua teoria del linguaggio (max 20 righe).
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CAPITOLO 2 DALLE IDEE ALLO STATO: I DIALOGHI DELLA MATURITÀ 1. La teoria delle idee Abbiamo visto come nei dialoghi giovanili Platone perlopiù illustri e difenda teorie che so- Con Socrate, no proprie di Socrate, sia pure di un Socrate che egli ha già interpretato (il che non vuol oltre Socrate dire travisato). Infatti le dottrine socratiche generali – l’invito a conoscere sé stessi, il metodo dialogico e la ricerca delle definizioni, la concezione della virtù come scienza ecc. –, pur essendo riportate con amore dal suo illustre allievo, vengono tuttavia già “filtrate” alla luce degli interessi e delle tendenze speculative del giovane Platone. In particolare, Platone dà molta importanza al metodo socratico delle definizioni, interpretandolo come il primo passo verso un sapere assoluto, capace di superare il relativismo sofistico. Ed è proprio nell’ambito di questa battaglia anti-sofistica che Platone giunge a elaborare il concetto di “idea” e a sviluppare la cosiddetta “teoria delle idee”. Questa segna l’avvio della seconda fase della sua speculazione, ovvero di quella fase in cui il filosofo va ormai esplicitamente al di là di quanto Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio specifico e originale pensiero. Nei dialoghi platonici la teoria delle idee non è mai esposta in modo organico (in quanto co- L’importanza stituiva forse l’oggetto delle “dottrine non scritte”) e questo ha indotto qualche studioso a della dottrina delle idee metterla in secondo piano. In realtà essa rappresenta il cuore stesso del platonismo maturo. Tant’è vero che a Platone parve di risolvere i massimi problemi della filosofia (come egli stesso dichiara nel Fedone) soltanto dopo averla elaborata. Di conseguenza, pretendere di pensare Platone “senza le idee” sarebbe un po’ come pretendere di pensare i pitagorici senza i numeri, Parmenide senza l’essere o Democrito senza gli atomi.
La genesi della teoria La genesi della teoria delle idee è da ricercarsi nell’approfondimento platonico del concetto Il problema di “scienza”. In antitesi ai sofisti, ma procedendo oltre lo stesso Socrate, Platone ritiene che dell’oggetto della scienza la scienza debba avere i caratteri della stabilità e dell’immutabilità. Egli è altresì convinto che il pensiero rifletta l’essere, ossia che la mente sia uno “specchio” o una riproduzione di qualcosa che esiste. In base a questa concezione – che, con un’espressione coniata in età moderna, può essere definita “realismo gnoseologico”, perché intende la conoscenza (in greco ghnósis) come il rispecchiamento di qualcosa di “reale” – il filosofo si chiede quale sia allora l’oggetto proprio della scienza, intesa appunto come conoscenza di qualcosa di esistente e di stabile. Mediante la domanda “che cos’è?” (ad esempio, “che cos’è la virtù?”) Socrate intendeva individuare, al di là degli esempi portati dai suoi interlocutori (la virtù è rispetto delle leggi, è generosità, è coraggio ecc.), il quid est (la quidditas, o l’essenza) di una certa cosa, indipendentemente dalle mutevoli opinioni di ciascuno (nel caso della virtù, ad esempio, per Socrate
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una tale essenza era costituita dal sapere, poiché le molteplici virtù erano per lui tutte riconducibili alla conoscenza). La definizione ricercata da Socrate, tuttavia, si riduceva al risultato di un confronto e ad un accordo tra i dialoganti. Platone si propone invece di trovare un “oggetto” esistente e stabile, corrispondente alla definizione cercata dal suo maestro. Le idee Del resto, a meno di ridurre la scienza a fantasia, o a vaneggiamento della mente, si dovrà per come oggetto forza ammettere l’esistenza di un suo contenuto specifico. E anche per Platone, come della scienza
per i filosofi precedenti, tale contenuto non può essere costituito dalle cose del mondo apprese attraverso i sensi, poiché queste sono mutevoli e imperfette, e quindi dominio di quella corrispondente forma di conoscenza mutevole e imperfetta che Platone chiama “opinione” (dóxa p. 239). Oggetto proprio della scienza, secondo Platone, non possono essere che le idee . Per noi moderni il termine “idea” denota un pensiero, cioè un contenuto o una rappresentazione del nostro intelletto. Per Platone indica invece un’entità immutabile e perfetta, che esiste per proprio conto – il filosofo ne parla come di una ousía, cioè come di una “sostanza”, o “realtà autonoma” – e che insieme con le altre idee forma una zona dell’essere diversa da quella in cui viviamo. Poeticamente e metaforicamente, Platone chiama questa zona iperuranio , termine che in greco significa “al di là del cielo” e che pertanto sembra indicasse una regione a-spaziale e immateriale, dal momento che per gli antichi il cielo comprendeva tutto lo spazio. glossario p. 247
Le idee Il fatto che le idee abbiano caratteristiche strutturali diverse da quelle delle cose non esclucome modelli de un loro stretto rapporto con gli oggetti, che Platone configura come un rapporto modeldelle cose
lo-copia. Per il filosofo, infatti, le cose sono copie, o imitazioni imperfette, delle idee. Ad esempio, nel nostro mondo esiste una pluralità di cose più o meno belle o giuste, ma nel mondo delle idee esistono “la Bellezza” e “la Giustizia” perfette. L’idea platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo.
L’impianto dualistico Facendo un primo riepilogo di quanto abbiamo appreso finora, possiamo dire che per Platone esistono due gradi fondamentali di conoscenza, l’opinione e la scienza ( dualismo gnoseologico), alle quali fanno riscontro, quali oggetti, due tipi d’essere distinti, cioè le cose e le idee (dualismo ontologico). La verità imperfetta dell’ opinione dipende dalla configurazione imperfetta del suo oggetto, ossia dal carattere mutevole e impermanente delle cose percepite mediante i sensi. La verità perfetta della scienza dipende invece dalla configurazione perfetta del suo oggetto, ossia le idee. In altri termini, la scienza costituisce una conoscenza stabile, duratura e perfetta proprio (e soltanto) perché la realtà che essa indaga (le idee) è stabile, duratura e perfetta. glossario p. 247
mutevole L’OPINIONE
è imperfetta immutabile
LA SCIENZA
è perfetta
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perché rispecchia
perché rispecchia
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
mutevoli LE COSE
che sono imperfette
immutabili LE IDEE
che sono perfette
Da quanto si è detto emerge come la filosofia platonica, che si colloca alla confluenza di diverse tradizioni filosofiche, rappresenti una sorta di integrazione fra l’eraclitismo e l’eleatismo. Da Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il regno della mutevolezza, mentre da Parmenide trae la convinzione che l’essere autentico sia immutabile. L’idea platonica presenta infatti alcuni caratteri essenziali dell’essere parmenideo: nel Fedro, ad esempio, si dice che essa è «semplice e imperitura»; nel Simposio che «mai incomincia, né mai passa, né aumenta né diminuisce». In altre parole, analogamente all’essere di Parmenide, l’idea di Platone è immutabile, eterna e perfetta, anche se, diversamente da quello parmenideo, l’essere platonico risulta molteplice, in quanto formato da una pluralità di idee. Dall’eleatismo Platone deriva anche il dualismo gnoseologico tra sensibilità e ragione e il dualismo ontologico tra l’essere delle cose e l’essere autentico. Tuttavia, mentre per Parmenide il mondo sensibile non ha connessioni con quello pensato dalla ragione, per Platone tra i due mondi esiste un rapporto indissolubile, la cui precisa definizione costituisce uno dei problemi più impegnativi e tormentosi del platonismo. Inoltre, mentre per l’eleatismo il nostro mondo è apparenza illusoria e irrazionale, per Platone esso possiede una sua specifica, anche se imperfetta, realtà e conoscibilità.
Fra eraclitismo ed eleatismo
I NODI DEL PENSIERO Nel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta? p. 470
FILOSOFIA E ARTE Il tempio greco tra realtà e apparenza p. 266
Il rapporto tra le idee e le cose Come si è già detto, se da un lato Platone afferma la distinzione tra le idee e le cose, dall’altro lato ne sostiene lo stretto legame. Il rapporto tra idee e cose si configura in una duplice direzione, dal momento che le idee sono: criteri di giudizio delle cose, in quanto noi, per formulare i nostri giudizi sugli oggetti, non possiamo fare a meno di riferirci alle idee. Ad esempio, diciamo che due cose sono uguali sulla base dell’idea di uguaglianza, oppure diciamo che due azioni sono giuste sulla base dell’idea di giustizia, e così via. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la condizione della pensabilità degli oggetti; cause delle cose, poiché gli individui “sono” in quanto imitano le idee (che in questo senso sono intese come modelli delle cose) o partecipano, sia pure imperfettamente, di esse. Ad esempio, le realtà che diciamo belle sono tali in quanto partecipano dell’idea di bellezza, che rappresenta dunque la causa per cui esse sono e vengono ritenute belle. E così pure diciamo che due individui sono uomini sulla base dell’idea di umanità, che è la causa che li rende tali. In tale prospettiva possiamo affermare che le idee sono la condizione dell’esistenza degli oggetti, o la loro ragion d’essere.
Le idee come criteri di giudizio e come cause delle cose
In ultima analisi, tuttavia, bisogna ammettere che il rapporto idee-cose non è stato defini- Un problema to in modo univoco dal Platone della maturità, il quale, pur parlando di mimèsi (per cui tormentoso le cose imitano le idee), di metèssi (per cui le cose partecipano, seppure in misura limitata, dell’essenza delle idee) e di parusìa (per cui le idee sono presenti nelle cose), rimane sulla questione piuttosto incerto e oscillante. Come vedremo, nella sua vecchiaia il filosofo riprenderà a cimentarsi su questo problema, tentando di risolverlo in modo più soddisfacente, senza tuttavia mai pervenire a un esito definitivo. glossario p. 247
LE IDEE
criteri di giudizio delle cose (significato gnoseologico)
ovvero
condizioni di pensabilità delle cose
cause delle cose (significato ontologico)
ovvero
modelli che le cose imitano o di cui le cose partecipano
sono
219
Le idee: quali sono La prospettiva Per adesso abbiamo spiegato che cosa sono le idee e in che rapporto si trovano con le cose. etico-matematica Ora dobbiamo vedere quali sono. Nella fase della maturità del pensiero platonico si distin-
VIDEO L’ordine gerarchico delle idee
guono fondamentalmente due tipi di idee: le idee-valori, corrispondenti ai supremi princìpi etici, estetici e politici. Tali sono, ad esempio, il Bene, la Bellezza, la Giustizia ecc., che formano appunto ciò che denominiamo “ideali”, o “valori”; le idee matematiche, corrispondenti alle entità e ai princìpi dell’aritmetica e della geometria (ad esempio le classi dei numeri, l’uguale, il quadrato, il cerchio ecc.). Nella realtà, infatti, non troviamo mai l’uguaglianza perfetta o il quadrato perfetto di cui parlano i matematici, ma soltanto copie approssimative e imperfette di essi. Oltre che di questi due tipi di idee, Platone parla talvolta anche delle idee di cose naturali (come l’idea di “uomo”) e delle idee di cose artificiali (come l’idea di “letto”). Tuttavia, su questi due ultimi generi di idee egli rimane a lungo piuttosto incerto.
Verso una Negli ultimi dialoghi il filosofo tenderà a lasciar cadere la nozione etico-matematica delle prospettiva idee, in favore di una nozione logico-ontologica, propensa a far corrispondere a ogni realtà logicoontologica la propria specifica “forma”.
L’idea platonica finirà così per configurarsi come la forma unica e perfetta di qualsiasi gruppo o classe di cose che vengono designate con un medesimo nome, e che possono dunque essere fatte oggetto di scienza.
La gerarchia Pur essendo molteplici, le idee non formano affatto una pluralità disorganizzata. Esse codelle idee e stituiscono piuttosto una “trama” di essenze aventi un ordine gerarchico-piramidale, l’idea del Bene
con le idee-valori in cima e l’ idea del Bene al vertice. Infatti, se le cose partecipano delle idee, le idee partecipano a loro volta del Bene, che è l’idea delle idee, il supremo valore e la perfezione massima di cui tutte le altre idee sono imitazione o riflesso. Alcuni interpreti hanno assimilato l’idea del Bene a Dio. Questa lettura, tuttavia, non trova un’esplicita conferma nei testi platonici, nei quali risulta assente, tra l’altro, l’idea di un dio creatore e di un dio-persona. Infatti, pur essendo «al di là dell’essere», cioè delle idee, e pur superandole tutte per «valore e potenza», il Bene non “crea” le idee (le quali sono tutte eterne), ma si limita a comunicare loro la sua perfezione. glossario p. 247 ( T5 p. 260)
LE IDEE PLATONICHE
idee-valori (etiche, politiche, estetiche)
220
nei dialoghi della maturità
nei dialoghi della vecchiaia
si distinguono in
sono
idee matematiche (“numero”, “quadrato”, “uguale”...)
idee di cose naturali (“uomo”, “cavallo”...)
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
idee di cose artificiali (“letto”, “tavolo”...)
forme uniche
e perfette di classi di cose designate da un unico nome
Le idee: dove e come esistono Abbiamo detto che le idee esistono in modo superiore alle cose, formando quella partico- Le idee sono lare zona dell’essere che Platone chiama «iperuranio». Ma occorre soffermarci ancora sul entità reali o mentali? luogo e sulle modalità di esistenza delle idee. Per usare un termine di origine latina, le idee sono senz’altro trascendenti (da transcendo, “salgo oltre”, “salgo al di là”), in quanto esistono oltre la mente e oltre le cose, in una dimensione “ulteriore” rispetto al nostro mondo sensibile. Ma questo “oltre” allude a un vero e proprio mondo dell’aldilà? Così ha pensato la tradizione, che, prendendo alla lettera l’espressione platonica «iperuranio», ha considerato il mondo platonico delle idee come qualcosa di analogo all’empireo dantesco o al paradiso cristiano. A questa lettura si è contrapposta quella di alcuni studiosi del Novecento, i quali hanno considerato le idee platoniche non come cose, bensì come modelli di classificazione delle cose, ossia come criteri mentali attraverso cui pensiamo gli oggetti. Oggi si tende a rifiutare quest’ultimo tipo di lettura, ritenendola un travisamento del pensiero di Platone, per il quale, come si è visto, le idee non sono semplici schemi della nostra mente, ma sostanze reali. Per quanto riguarda invece la prima interpretazione, parecchi studiosi la considerano trop- Come va intesa po legata al mito, oppure il risultato di una sovrapposizione dell’idea cristiana dell’aldilà al la realtà delle idee? genuino pensiero platonico. Di conseguenza, essi affermano che il mondo platonico delle idee, pur esistendo indipendentemente dalla nostra mente e pur possedendo una realtà oggettiva a sé stante, non deve essere interpretato come un universo di “super-cose” collocabili in qualche cielo metafisico, ma soltanto come un ordine eterno di forme o valori ideali, che, come tali, non “esistono” effettivamente in alcun luogo o “empireo”. Un esempio di questa interpretazione ci è dato dagli enti matematici: le idee di “triangolo”, “uguaglianza”, “numero” ecc., pur esistendo di per sé al di fuori dello spazio e del tempo e indipendentemente dagli intelletti umani, non per questo si trovano in un ipotetico mondo dell’aldilà. Stabilire con sicurezza quale di queste due interpretazioni – quella tradizionale o l’ultima citata – sia quella vera non è possibile, poiché entrambe trovano appigli nel discorso platonico ed entrambe presentano punti di debolezza: la prima, ad esempio, può essere accusata di concedere troppo al mito; la seconda di non tener conto degli aspetti metafisicoreligiosi del platonismo e di essere, in fondo, un affinamento moderno di Platone. In conclusione, ciò che si può affermare con un buon margine di sicurezza, stando ai dia- Una diversa loghi di Platone, è che le idee, comunque intese, costituiscono (come abbiamo detto fin dimensione dell’essere dall’inizio) una zona dell’essere diversa da quella delle cose, mentre per quanto riguarda come esse esistano, si deve ammettere che la questione è problematica.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa sono le idee per Platone, innanzitutto fornendone la definizione, quindi illustrandola e provando a offrire qualche esempio. 2. Illustra il significato della parola “dualismo”, chiarendo in che senso e in quali ambiti si possa applicare alla riflessione di Platone. 3. Quale rapporto sussiste, secondo Platone, tra le idee e le cose, e tra le idee e l’idea del Bene? 4. Che cos’è l’iperuranio e come può essere inteso? 5. RIFLESSIONE CRITICA Considera le due principali interpretazioni dell’iperuranio platonico: quale ti sembra la più condivisibile o la più suggestiva? perché?
enciclosofia empireo Nella Divina commedia, che sotto questo aspetto si richiama alla cosmologia geocentrica aristotelico-tolemaica, la Terra è circondata da dieci cieli (sfere concentriche), l’ultimo dei quali è detto “empireo” per via della luce sfolgorante che lo caratterizza (dal greco empýrios, “infiammato”, “ardente”, a sua volta derivante da pyr, “fuoco”). Nell’empireo dantesco risiedono Dio, gli angeli e le anime dei beati.
221
Le idee: come si conoscono L’idea Dopo esserci soffermati sulle idee e sulle loro caratteristiche, resta da esaminare in quale come oggetto modo gli uomini possano accedervi. di una visione intellettuale Come per certi aspetti abbiamo già detto, secondo Platone le idee non possono derivare
dai sensi, poiché questi ci danno testimonianza soltanto di un mondo di cose materiali e imperfette, inafferrabili a causa del loro continuo mutamento. Esse devono dunque costituire l’oggetto di una visione intellettuale, ossia di uno “sguardo della mente” in grado di cogliere l’idea quale forma esemplare comune a una pluralità dispersa di oggetti. Non a caso, le parole éidos e idéa provengono entrambe dalla radice id- del verbo idéin, “vedere”, e trovano il loro corrispondente latino nel vocabolo species, che possiede la medesima radice del verbo spectare, “contemplare”, “assistere a uno spettacolo”. Ma da dove proviene questa visione intellettuale? Come si spiega che noi, pur vivendo in un mondo caratterizzato dal divenire e dall’imperfezione, abbiamo la nozione delle forme ideali?
La teoria-mito Per risolvere questo problema Platone ricorre alla dottrina-mito della reminiscenza, o della «anàmnesi» (dal greco anámnesis, “reminiscenza”, “ricordo”): sulla base della credenza reminiscenza
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine della conoscenza? p. 482
orfico-pitagorica della metempsicosi (la trasmigrazione delle anime), egli afferma che l’anima, prima di calarsi nel nostro corpo, ha vissuto nel mondo delle idee, dove, tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l’anima conserva un ricordo sopito di ciò che ha visto. Grazie all’esperienza delle cose – che fungono da occasione, o da pungolo, per la memoria – essa può però ricordare ciò che ha contemplato nell’iperuranio. In questo senso, dice Platone, «conoscere è ricordare», in quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e ci è sufficiente uno sforzo per tirarle fuori, tanto più che esse, come le cose, sono legate tra loro da una sorta di parentela, per cui basta ricordarne una perché tornino alla mente anche tutte quelle che le sono legate. ( T1 p. 252)
L’innatismo La gnoseologia di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo , in quanto si fon-
da sul principio secondo cui la conoscenza non deriva dall’esperienza sensibile (come invece affermano quanti si muovono nell’orizzonte dell’“empirismo”), bensì da metri di giudizio “innati”, cioè preesistenti nel nostro intelletto e connaturati ad esso, rispetto ai quali l’esperienza sensibile funge soltanto da meccanismo sollecitatore del ricordo. Una prova di questa teoria, secondo Platone, risiede nel fatto che anche un ignorante, opportunamente interrogato, può rispondere con esattezza a domande su argomenti di cui non ha mai sentito parlare. A questo proposito è celebre l’esempio (narrato nel Menone) dello schiavo che, pur essendo digiuno di geometria, viene aiutato da Socrate a “ricordarne” gli elementi di fondo, riuscendo così a intuire il teorema di Pitagora. glossario p. 248 In questo modo la maieutica socratica subisce una “radicalizzazione metafisica”: da “metodo” basato sul principio per cui la verità è una conquista individuale – che il filosofo si limita a suscitare nel proprio interlocutore attraverso il dialogo –, diviene il fondamento stesso della teoria della reminiscenza, ovvero della tesi secondo cui portiamo dentro di noi una verità prenatale, che è il frutto della contemplazione delle idee in una vita precedente.
LE DUE POSSIBILI VIE DELLA CONOSCENZA
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dall’idea all’esperienza
concezione innatistica
dall’esperienza all’idea
concezione empiristica
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
che
Platone fa propria e giustifica con la teoria-mito della reminiscenza
Si rende necessaria, tuttavia, una puntualizzazione: secondo Platone l’uomo non possiede L’essere umano già, tutt’intera, la verità (altrimenti non la cercherebbe), ma neppure la ignora completa- e la verità mente (perché in questo caso non potrebbe nemmeno iniziare a cercarla), bensì la porta dentro di sé a titolo di “ricordo”, ovvero sotto forma di un patrimonio che sarà tenuto a manifestare e valorizzare per tutta la vita. In altri termini, Platone è convinto che, conoscendo, noi non partiamo né dalla verità (tutta dispiegata) né dall’ignoranza (totale), bensì da una sorta di pre-conoscenza, o di ignoranza gravida di sapere, da cui dobbiamo socraticamente “tirar fuori” la conoscenza vera e propria.
L’immortalità dell’anima Implicando una visione prenatale delle idee, la teoria della reminiscenza postula di per sé l’immortalità dell’anima, che diviene oggetto di uno dei dialoghi platonici più ricchi di páthos umano e religioso: il Fedone. Oltre all’argomento della reminiscenza, in quest’opera Platone espone altre prove dell’im- Le prove dell’immortalità mortalità dell’anima. dell’anima Una prima prova, detta “dei contrari”, afferma che, come in natura ogni cosa si genera dal suo contrario (il freddo dal caldo, il sonno dalla veglia ecc.), così la morte si genera dalla vita e la vita si genera dalla morte: l’anima deve dunque rivivere dopo la morte del corpo. Una seconda prova, detta “della somiglianza”, sostiene che l’anima, essendo simile alle idee che sono eterne, dev’essere anch’essa tale. Infatti soltanto ciò che è composto può distruggersi, risolvendosi nei suoi elementi semplici, mentre ciò che è semplice, come le idee e le anime, non può essere né creato né distrutto. Una terza prova, detta “della vitalità”, argomenta che l’anima, in quanto soffio vitale, è vita e partecipa dell’idea di vita, e pertanto non può accogliere in sé l’opposta idea della morte. Nell’ambito di questi discorsi, nel Fedone troviamo anche la nota dottrina platonica della filosofia come “preparazione alla morte”. Infatti, se la conoscenza autentica è conoscenza delle idee (realtà eterne e immateriali), allora filosofare significa “andare oltre” i sensi e il corpo, e la vita del filosofo risulta tutta una preparazione alla morte, cioè a quel momento in cui l’anima, finalmente libera dai “ceppi” della materia, potrà unirsi direttamente alle idee, beandosi della loro contemplazione. Il Fedone mostra dunque in modo inequivocabile come nella complessa “anima” del platonismo vi sia anche un momento fortemente religioso, che non esclude affatto il momento mondano-politico, ma che anzi si integra con esso, delineando non già un Platone “bifronte”, come talvolta è stato detto, bensì un’unica ricca personalità, in cui coesistono interessi e spinte diversi e per la quale l’attaccamento alle cose immanenti non esclude l’apertura a quelle trascendenti, e viceversa.
La filosofia come preparazione alla morte
ESERCIZI
L’anima e il destino: il mito di Er La teoria dell’immortalità dell’anima, oltre che per spiegare in che modo gli esseri umani posseggano in sé stessi la conoscenza delle idee, a Platone serve anche per chiarire il problema del destino. Il filosofo, infatti, ritiene che la sorte di ogni individuo dipenda da una scelta che la sua anima ha compiuto nel mondo delle idee, prima di incarnarsi in un corpo. Egli illustra questa sua tesi con il “mito di Er”, con il quale si chiude la Repubblica.
223
Il racconto Nella narrazione mitologica di Platone, Er è un guerriero che, morto in battaglia e risuscidel mito tato dopo dodici giorni, può raccontare agli uomini ciò che li attende dopo la morte, dal
momento che ha potuto constatarlo direttamente. Alle anime malvagie spettano mille anni di sofferenze, mentre alle anime virtuose mille anni di felicità: trascorso questo periodo, entrambi i gruppi di anime si presentano di fronte a Làchesi, una delle tre Moire, per scegliere la loro vita futura, ovvero il proprio demone (dáimon), una specie di forza divina che secondo la tradizione greca presiedeva alla sorte di ciascuno. L’ordine della presentazione a Làchesi è stabilito in modo casuale, mediante un lancio di numeri: le anime che scelgono per prime hanno una possibilità di scelta più ampia, e perlopiù optano per una vita virtuosa, ma possono anche preferire una vita poco virtuosa (ad esempio una vita dedita ad accumulare ricchezze), considerandola foriera di felicità. Una volta che l’anima ha scelto il proprio destino, ottenendo da Làchesi il dáimon corrispondente, Cloto e Atropo (le altre due Moire) lo confermano e lo rendono definitivo; quindi le anime si abbeverano al fiume Lete, le cui acque infondono il sonno e l’oblio: si risveglieranno incarnate in un nuovo corpo terreno e non ricorderanno nulla della loro vita ultraterrena precedente.
La possibilità La parte centrale del racconto riguarda dunque la scelta del destino effettuata dalle anidi scegliere il me. Attraverso le parole fatte pronunciare a Làchesi, Platone sottolinea che si tratta di una proprio destino
scelta libera, alla quale la divinità non partecipa in alcun modo:
‘
Non sarà il demone a scegliere voi, ma voi il demone […]. La virtù è libera a tutti; ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia. Ognuno è responsabile del (Repubblica, X, 617e) proprio destino, la divinità non ne è responsabile.
Ogni anima sceglie quindi il modello di vita che incarnerà: tutto sta a compiere una scelta giudiziosa e a non lasciarsi abbagliare dall’apparente fulgore di certe vite che paiono felici, mentre celano il male e l’infelicità. La scelta è guidata il più delle volte dalle esperienze che l’anima ha accumulato nella propria vita anteriore: nel racconto di Er, ad esempio, Ulisse sceglie una vita modesta e oscura, che tutte le altre anime disdegnano, dal momento che nella sua vita di eroe, nella quale ha dovuto affrontare molte e difficili prove, ha imparato quanto l’ambizione possa essere funesta. Per Platone, dunque, ogni individuo sceglie liberamente il proprio destino, benché in ciò sia condizionato da quanto nella vita precedente ha voluto essere ed è stato. La virtù tra Fuori della metafora mitologica, il fondamento della felicità (in greco eu-daimonía, che letteconoscenza ralmente indica l’essere in compagnia di un “buon demone”) per Platone non dipende dalla e felicità
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la felicità? p. 473
fatalità della sorte, ma dal coraggio e dalla saggezza individuali, di chi sa guardare criticamente al proprio passato per migliorarsi. Nel mito Platone precisa che compiono scelte sbagliate soprattutto quelle anime che nelle esistenze precedenti non hanno praticato la filosofia: soltanto nell’esercizio della conoscenza (e non di riti e culti) risiede quindi la possibilità della salvezza, nonché l’unica via di accesso a una vita buona che sia anche una vita felice.
enciclosofia Moire Le tre divinità greche, figlie di Ananche (dea della Necessità), che presiedono al destino degli esseri umani, metaforicamente suggerito dall’attività del filare: Cloto tesse il filo della vita, Làchesi lo avvolge sul fuso e Àtropo lo recide. Corrispondono alle “Parche” della mitologia latina.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
EDUCAZIONE CIVICA
SVILUPPO SOSTENIBILE
LA FILOSOFIA CHE VIVE Dall’amore per il sapere al diritto all’istruzione La passione per il sapere in Platone Coerentemente con la propria teoria delle idee e con la prospettiva innatistica, Platone identifica la conoscenza non tanto con il possesso del sapere, quanto con una tensione verso di esso, con un impulso irrefrenabile che spinge a ricercare, a domandare, contemplare, confrontare. Per Platone apprendere significa anzitutto sentire dentro di sé una mancanza, una lacuna, e cercare con passione ciò che può riempirla. Ciò implica il non considerarsi mai definitivamente appagati, per non rischiare di accontentarsi di opinioni “comode” ma non necessariamente vere, quali possono essere le idee più diffuse o più semplici da comprendere. Lo scopo dell’insegnamento ieri e oggi Se il sapere e l’apprendimento autentici prendono avvio dal riconoscersi mancanti e bisognosi, analogamente l’autentico insegnamento non consiste nel trasmettere nozioni, come se queste fossero qualcosa di trasferibile da un animo all’altro, bensì nel “creare vuoti” nelle menti degli allievi, affinché essi possano desiderare di colmarli. È quanto fa Socrate nei dialoghi platonici: egli non “insegna” nulla, ma, riflettendo e indagando insieme con l’interlocutore, mette quest’ultimo in condizione di diventare protagonista della propria ricerca. Applicando questa lezione socratico-platonica all’oggi, si può osservare che forse il compito dell’insegnante consiste proprio nel cercare di appassionare gli studenti alla conoscenza, rendendoli assetati di sapere, senza dare loro risposte ma mettendoli in condizione di porsi domande.
Istruzione di qualità
VIDEO
bligatoria e gratuita». Ma in gran parte del mondo questo traguardo non è ancora stato raggiunto: secondo i dati dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (sottoscritta nel settembre 2015 dai 193 Stati membri dell’ONU), nei Paesi in via di sviluppo frequenta le scuole primarie soltanto il 91% circa dei bambini, il che significa che nel mondo ci sono circa 57 milioni di bambini che non hanno accesso all’istruzione di base (Obiettivo 4, “Fatti e cifre”). Un duplice traguardo è dunque quello che gli Stati sottoscrittori dell’Agenda 2030 si pongono: • da una parte, migliorare la qualità dell’istruzione nei Paesi industrializzati, facendo in modo che «tutti i discenti acquisiscano la conoscenza e le competenze necessarie a promuovere lo sviluppo sostenibile», mediante un’educazione «ai diritti umani, alla parità di genere, alla promozione di una cultura pacifica e non violenta, alla cittadinanza globale e alla valorizzazione delle diversità culturali e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile»; • dall’altra parte, garantire a tutti i futuri giovani e i futuri adulti nel mondo un livello sufficiente di alfabetizzazione e di capacità di calcolo.
Il diritto all’istruzione La concezione platonica del sapere può offrire spunti di riflessione utili ai docenti che operano nelle scuole dei Paesi industrializzati, dove l’istruzione è ormai riconosciuta come un diritto individuale fondamentale. In Italia, ad esempio, gli articoli 33 e 34 della Costituzione stabiliscono, rispettivamente, che «La Repubblica […] istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi» e che «L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è ob-
)
DIBATTITO CRITICO
Oggi in Italia l’istruzione è un diritto garantito a tutti, ma è possibile migliorarne la qualità? Se sì, in che modo e con quali mezzi? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, cerca in Internet riflessioni, articoli e interventi (ad esempio di filosofi, sociologi, politici) sul tema oggetto della questione. In classe, sotto la guida dell’insegnante formate quattro gruppi, tre dei quali formulano una tesi ed elaborano almeno due argomentazioni e un esempio concreto per sostenerla. A turno, un portavoce per ogni gruppo espone le considerazioni a cui è giunto insieme con i suoi compagni, nel rispetto dei tempi prestabiliti. Al termine del dibattito, il quarto gruppo (che svolge il ruolo della giuria) sceglie le argomentazioni più convincenti, evidenziando i punti di forza e di debolezza di ciascuna squadra. QUESTIONE
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Un antidoto al relativismo sofistico Se la teoria delle idee costituisce il cuore della filosofia platonica, l’opposizione al relativismo sofistico costituisce il cuore della dottrina delle idee. Come si è già accennato, infatti, Platone può essere filosoficamente compreso in modo adeguato soltanto in antitesi ai sofisti. La Sappiamo ormai come il movimento dei sofisti costituisca qualcosa di complesso e articogeneralizzazione lato. Fra Protagora e Gorgia, ad esempio, vi è una notevole differenza: il primo, pur mettendel relativismo sofistico do in crisi le certezze assolute, fornisce agli uomini un criterio esistenziale che consente di
intendersi (la comune utilità), mentre il secondo sembra negare l’esistenza di qualsiasi principio conoscitivo e pratico che sia da tutti condivisibile. Nella schematizzazione platonica, invece, il relativismo sofistico tende di fatto a divenire un tutto indistinto e a identificarsi con una filosofia negatrice di ogni stabile punto di vista sulle cose e di ogni certezza teorica e pratica.
L’“assolutismo” Di fronte a un relativismo così inteso, per Platone non esiste altra via d’uscita se non la platonico restaurazione di una qualche forma di assolutismo. Egli appare infatti lontanissimo, per
interessi e per costituzione mentale, da quella sorta di “terza via” tra assolutismo tradizionale e relativismo estremo che era stata imboccata da pensatori come Protagora e Socrate, i quali, sia pure da angoli visuali diversi, si erano implicitamente posti il medesimo problema: quello di riuscire a trovare dei criteri o dei punti di accordo (come l’“utile comune” di Protagora o la “virtù come scienza” di Socrate) che, pur avendo la capacità di unire gli uomini, non pretendessero però di fondarsi su qualche realtà extra-umana o su qualche verità eterna già data. Ma, poiché per Platone l’unica via percorribile dopo il relativismo è la restaurazione di certezze assolute, la dottrina delle idee diviene, dal suo punto di vista, lo strumento più prezioso e decisivo della filosofia. Grazie ad essa, infatti, il filosofo può asserire la presenza di strutture o perfezioni ideali che, esistendo per proprio conto e indipendentemente dall’arbitrio degli individui, hanno validità oggettiva e universale.
Il superamento In questo modo l’umanismo sofistico e socratico, che poneva nell’uomo e non fuori dell’uodell’umanismo e mo la fonte dei giudizi e il criterio del conoscere e dell’agire, risulta messo da parte e sostidel relativismo
tuito da una concezione in base alla quale è di nuovo qualcosa di extra-umano – in questo caso le idee – a “regolare” l’uomo. Nel platonismo, infatti, non è più l’uomo a “misurare” la verità, come voleva Protagora, ma è la verità (cioè le idee) a “misurare” l’uomo e a fornirgli le regole del pensare e del vivere. Analogamente, posta l’idea come superiore punto di accordo tra le menti, il relativismo conoscitivo e morale dei sofisti crolla. La conoscenza torna ad avere un valore assoluto e cessa di essere relativa all’uomo e al soggetto giudicante. Esempio tipico di ciò è, per Platone, la matematica, che in virtù delle idee matematiche parla un linguaggio che vale per tutti e in tutte le circostanze, imponendosi perentoriamente alla mente di qualsiasi individuo, sia esso greco, caldeo o egiziano. RELATIVISMO SOFISTICO
l’uomo è misura delle cose
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l’uomo è misura della verità
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
ANTI-RELATIVISMO PLATONICO
l’idea è misura delle cose
la verità è misura dell’uomo
E per quel che concerne la morale, anch’essa torna ad avere una validità assoluta, in quanto Platone, come già sappiamo, ritiene che esistano idee-valori (il Bene, la Giustizia ecc.) che, essendo indipendenti dalle opinioni personali e dai costumi dei vari popoli, permettono al filosofo di delineare un discorso etico-politico universale. Infine, il linguaggio, che i sofisti ritenevano convenzionale e incapace di riprodurre le strutture ultime del reale, torna a caricarsi, se ben usato, di un valore assoluto, in quanto, fondandosi sulle idee (che ne formano il perno extra-linguistico) risulta capace di rivelarci l’essere e la verità.
La finalità politica della teoria delle idee Il superamento platonico del relativismo conoscitivo e morale e la connessa battaglia antisofistica rivelano il loro pieno significato nell’ambito della politica. Platone ritiene infatti che il relativismo, dando libero corso alla disparità e all’urto delle opinioni, non possa che produrre disordine e violenza, o, al limite, la teorizzazione della legge del più forte. Di conseguenza, con la dottrina delle idee – e questo ne è certamente il significato esistenziale più profondo – Platone vuole offrire agli uomini uno strumento per uscire dal caos delle opinioni e dei costumi e per sottrarsi alle lotte e alle violenze in cui la molteplicità dei punti di vista li ha fatti inevitabilmente cadere. L’assolutismo della teoria delle idee rappresenta dunque, in Platone, il principale strumen- Una scienza to di battaglia contro il relativismo politico e contro l’anarchia sociale. Da ciò i termini es- politica universale senziali dell’equazione risolutiva della crisi: conoscenza delle idee = fondazione di una scienza politica universale = pace e giustizia tra gli uomini. Tutto ciò implica, come ultimo risultato, quell’idea di filosofia al potere che rappresenta il punto di arrivo di tutta la meditazione platonica, come vedremo più avanti occupandoci della Repubblica ( p. 232).
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Per l’esposizione orale
1. Spiega perché per Platone «conoscere è ricordare», avendo cura di definire le nozioni di “anàmnesi” e di “innatismo”. 2. In che modo la teoria dell’anamnesi si lega a quella dell’immortalità dell’anima? 3. Descrivi il collegamento istituito da Platone fra la teoria delle idee e la fondazione di una scienza politica che porti pace e giustizia tra gli esseri umani. SNODI PLURIDISCIPLINARI educazione civica
Attraverso il mito di Er, Platone suggerisce che la conoscenza è una condizione imprescindibile per orientare il proprio destino e costruire la propria felicità. Un principio analogo è sotteso all’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile («Istruzione di qualità»), dove si legge che «Un’istruzione di qualità è la base per migliorare la vita delle persone e raggiungere lo sviluppo sostenibile». Esamina l’Obiettivo citato, e in particolare il traguardo 4.7: attraverso quali mezzi e canali si può promuovere un’«istruzione di qualità», che renda tutti gli esseri umani consapevoli della loro responsabilità nei confronti del destino e della felicità di tutti?
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2. La teoria dell’amore e della bellezza Il sapere stabilisce tra gli esseri umani e le idee, e tra gli uomini associati nella comune ricerca, un rapporto che non è puramente intellettuale, perché impegna l’essere umano nella sua totalità, ovvero nella sua natura costituita non soltanto di corpo e anima (o mente), ma anche di volontà. Questo rapporto variegato e complesso è definito da Platone come amore (éros). Il Simposio Alla teoria dell’amore sono dedicati due dei dialoghi platonici artisticamente più riusciti, il e il Fedro Simposio e il Fedro:
il Simposio considera prevalentemente l’oggetto dell’amore, cioè la bellezza, e mira a determinarne i gradi gerarchici; il Fedro considera invece l’amore prevalentemente dal punto di vista del soggetto, cioè come aspirazione dell’essere umano alla bellezza ed elevazione progressiva dell’anima verso il mondo delle idee, al quale la bellezza appartiene.
Il Simposio La struttura Nella tradizione greca antica, il simposio (dal greco syn, “con”, e pósis, “bevanda”) era il dell’opera momento conclusivo del banchetto, durante il quale i commensali bevevano vino (secon-
do precise regole imposte da un “simposiarca”) e celebravano la poesia e l’amore. Nell’opera omonima, Platone descrive dunque un simposio a cui partecipano Socrate e alcune figure emblematiche della vita culturale e politica ateniese. Attraverso la forma del dialogo, l’opera mette in scena un “agòne oratorio”, ovvero una competizione retorica in cui ciascuno dei convitati pronuncia a turno un “discorso lungo” (una macrologia) in elogio di Eros, tentando di superare in abilità dialettica chi lo ha preceduto. I discorsi pronunciati dai convitati del Simposio sono in ultima analisi descrizioni dell’amore (in greco éros ), di cui mettono in luce una serie di caratteri subordinati e accessori, i quali verranno poi unificati e giustificati nel discorso di Socrate. glossario p. 248
I discorsi in Il primo a prendere la parola è un allievo di Socrate, Fedro, il quale elogia Eros come il più lode di Eros antico degli dèi, che dona agli uomini il maggiore tra i beni. L’amore, infatti, genera vergo-
gna per le cose turpi e incoraggia gli atteggiamenti nobili. Subito dopo interviene Pausania, avvocato, che distingue tra un éros volgare, che si rivolge ai corpi, e un éros celeste, che si rivolge alle anime e ha come fine l’educazione alla virtù. Segue il medico Erissimaco, che vede nell’amore una forza cosmica e generatrice che determina tutti i fenomeni, sia umani sia naturali. Quando giunge il turno di Aristofane, questi espone il mito degli “andrògini” (dal greco anér-andrós, “uomo”, e ghyné, “donna”), un antico racconto mitico secondo cui in origine la figura dell’essere umano era tonda e doppia, cioè composta da due esseri uniti in maniera inscindibile. I generi umani erano dunque tre: maschio (le cui due metà erano entrambe di genere maschile), femmina (le cui metà erano entrambe di genere femminile) e androgino (composto da una metà maschile e una femminile). Temendo la loro forza e irritato per la loro sfrontatezza, Zeus decise di dividere gli esseri umani in due, per dimezzarne la potenza: da allora le due parti risultanti vanno l’una in cerca dell’altra, per riunirsi e ricostituire l’essere originario. Mediante il racconto di Aristofane, Platone sottolinea come uno dei caratteri umani fondamentali, rivelati dall’amore, sia l’insufficienza, o l’incompletezza. enciclosofia Eros Dio greco dell’amore (in greco éros), descritto nella tradizione mitologica come un bellissimo giovinetto alato, il quale, dotato di arco e faretra, scagliava le sue frecce su uomini, dèi ed elementi della natura, facendoli innamorare.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Tocca poi ad Agatone, il padrone di casa, il quale descrive Eros come il più felice tra gli dèi, il più bello e il più buono, il più giovane (e non il più vecchio, come sostiene Fedro), portatore di valori e virtù (come la libertà, la giustizia, la sapienza, il coraggio e la temperanza) di cui rende partecipi gli uomini. Dai caratteri di “pienezza” messi in luce da Agatone prende le distanze Socrate, il quale nel proprio discorso descrive piuttosto l’amore come il desiderare qualcosa che non si ha, ma di cui si avverte il bisogno: l’amore è quindi mancanza. Secondo il mito, infatti, Eros è figlio di Penía (Povertà) e di Póros (variamente tradotto come “Abbondanza”, “Ingegno”, “Espediente”), e non è tanto un dio, quanto un “demone”, ovvero un essere dalla natura intermedia tra quella umana e quella divina. Ad esempio, mentre gli dèi sono sapienti, Eros non ha la sapienza, ma aspira a possederla, e in questo senso è “filosofo” (letteralmente “amante della sapienza”). ( T2 p. 254 • T3 p. 256) Ma, soprattutto, l’amore non ha la bellezza, e la desidera in quanto bene che rende felici. Più precisamente, Eros è desiderio di procreare, che viene soddisfatto mediante l’attrazione esercitata dalla bellezza dei corpi. Attraverso la generazione sia biologica sia spirituale (la creazione di opere d’arte o politiche), gli esseri umani cercano dunque di sanare un’indigenza originaria che li segna in modo indelebile: il desiderio dell’immortalità. La bellezza è quindi il fine ultimo e l’oggetto peculiare dell’amore.
L’amore come desiderio di sapienza e di bellezza
La bellezza ha gradi diversi, ai quali ci si può sollevare soltanto attraverso un lento cam- I gradi della mino. In un primo momento si è attratti dalla bellezza di un singolo corpo che si giudica bellezza bello. Poi ci si accorge che la bellezza è presente in più corpi, ma si tratta sempre della medesima bellezza, e così si passa a desiderare e ad amare la bellezza corporea nella sua totalità. Ma al di sopra di questa c’è la bellezza dell’anima, e al di sopra ancora la bellezza delle istituzioni e delle leggi, e poi la bellezza delle scienze. Infine, al di sopra di tutto, si trova la bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a sé stessa, fonte di ogni altra bellezza e oggetto della filosofia. Ai diversi gradi della bellezza corrispondono altrettante forme di amore, in una scala gerarchica che sale dall’amore della bellezza corporea fino al grado più alto, l’amore filosofico. AMORE
I GRADI DELLA BELLEZZA
è figlio di
corrispondono ai GRADI DELL’AMORE
Povertà
Abbondanza
è desiderio di bellezza
del corpo
dell’anima
delle leggi
delle scienze
Il grado più alto è la bellezza in sé a cui corrisponde l’amore filosofico
229
L’amore Alla luce di quanto si è detto, appare fuorviante l’accezione che intende l’“amore pla“platonico” tonico” come una relazione sentimentale asessuata. Questa accezione sorse nel Me-
dioevo cristiano, permeato dell’idea che l’elevazione spirituale si potesse compiere soltanto rinunciando il più possibile alla propria corporeità. L’amor cortese (in senso lato, cioè non soltanto quello di Dante per Beatrice, ma anche quello di don Chisciotte per Dulcinea) sembrò incarnare tale modello. Questo significato improprio sopravvisse poi, ulteriormente banalizzato e impoverito, nel senso comune. In realtà, pur non identificandolo con il comune “amore sensuale”, Platone ritiene che l’éros sia radicato nei sensi e non spregia la corporeità, che, al contrario, vede come specchio della bellezza interiore, benché poi aggiunga che questo livello va abbandonato per poter arrivare ai livelli superiori. In questo cammino, proprio l’éros costituisce la spinta per l’innalzamento. L’amore di cui parla Platone non si riduce dunque al sentimento tra un uomo e una donna, ma si configura come lo strumento per una conoscenza superiore.
Il Fedro In che modo l’anima umana può raggiungere la bellezza suprePlatone, Fedro ma? È questo il problema del Fedro, il quale perciò parte proprio dalla considerazione pp. 298-314 dell’anima.
LEGGERE UN CLASSICO
La natura dell’anima
Le tre parti Diversamente da quanto aveva fatto nel Fedone, dove ne aveva sottolineato l’unità e la semdell’anima plicità ( p. 223), nel Fedro Platone distingue nell’ anima tre parti: glossario p. 248
la parte razionale, che ha sede nel cervello e grazie alla quale l’essere umano ragiona e domina gli impulsi corporei; la parte concupiscibile, o desiderante, che ha sede nel ventre ed è il principio di tutti gli impulsi; la parte irascibile, o coraggiosa, che ha sede nel petto e dà sostegno alla parte razionale, lottando per ciò che la ragione ritiene buono e giusto.
Il mito della Questa tripartizione viene chiarita da Platone mediante un racconto mitologico, nel quale biga alata l’anima è paragonata a una biga alata, guidata da un auriga e trainata da una coppia di
VIDEO La tripartizione dell’anima
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cavalli, dei quali uno è bianco e obbediente, l’altro nero e recalcitrante. L’auriga corrisponde alla parte razionale dell’anima, che deve guidare la vita dell’individuo; il cavallo bianco corrisponde alla parte coraggiosa dell’anima, che obbedisce al lógos, ovvero alla ragione; il cavallo nero corrisponde alle pulsioni irrazionali e agli impulsi corporei, che cercano il piacere e la soddisfazione nelle cose materiali. Dato il disaccordo tra i due cavalli, l’opera dell’auriga è difficile e penosa. Egli cerca di condurre il carro nel cielo, al seguito degli dèi, verso la regione sovra-celeste (l’iperuranio) in cui risiede l’essere autentico. In questa regione sta la “vera sostanza”, priva di colore e di forma, impalpabile, che può essere contemplata soltanto da quella guida dell’anima che è la ragione. Questa sostanza è la totalità delle idee (giustizia in sé, temperanza in sé ecc.). Ma l’anima può contemplarla soltanto per poco, poiché il cavallo nero la trascina verso il basso. Ogni anima, perciò, contempla la sostanza dell’essere di più o di meno. Tuttavia, quando, per oblio o per colpa, si appesantisce, essa perde le ali e si incarna, andando a vivificare il corpo di un essere umano. Allora l’anima che ha visto di più vivificherà il corpo di un individuo che si consacrerà al culto della sapienza o dell’amore, mentre le anime che hanno visto di meno s’incarneranno in individui che saranno via via più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza. Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Amore e dialettica
Nell’anima che è caduta e che si è incarnata, il ricordo delle sostanze ideali viene risvegliato proprio dalla bellezza, che l’essere umano riconosce subito, appena la vede, per via della sua luminosità. La vista, il più acuto dei nostri sensi, non vede alcuna sostanza o idea, tranne la bellezza: «Alla sola bellezza toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più amabile». La bellezza fa dunque da mediatrice tra l’anima caduta e il mondo delle idee, e al suo appello l’uomo risponde con l’amore. È vero che l’amore può anche rimanere “attaccato” alla bellezza corporea e pretendere di godere soltanto di questa; ma quando se ne riesce a scorgere o comprendere l’autentica natura, allora esso si fa guida dell’anima verso il mondo dell’essere vero. In questo caso non è più soltanto desiderio, impulso, delirio: i suoi caratteri passionali non vengono meno, ma sono subordinati alla ricerca rigorosa e lucida dell’idea. L’éros diventa così procedimento razionale, «dialettica» ( cap. 3, p. 274), la quale è ricerca dell’essere in sé e al tempo stesso unione amorosa delle anime che apprendono e insegnano. L’amore è quindi psicagogia, cioè “guida dell’anima” (dal greco psyché, “anima”, e da ágo, “conduco”), con la mediazione della bellezza, verso il suo autentico destino: la contemplazione del mondo delle idee.
La bellezza e l’amore come mediatori tra uomini e idee
Alla dialettica così intesa Platone riconduce la vera retorica, che non è, come sostengono i sofisti, una tecnica alla quale sia indifferente la verità del suo oggetto. Non a caso, la seconda metà del dialogo è occupata dall’analisi della retorica, scaturita dalla “sconcertante” affermazione di Fedro secondo cui l’oratore non ha alcun dovere di comprendere ciò che è effettivamente giusto, ma soltanto ciò che appare tale. Socrate obietta che l’oratore non può rischiare di ingannare sé stesso e, per gestire bene gli elementi di cui è costituito il suo discorso, deve invece sapere esattamente che cosa sono il bene e il male. Contro il modello sofistico di retorica (già aspramente criticato non soltanto nel Gorgia, ma anche in numerosi passi del Protagora e del Teeteto), Platone passa quindi a esporre il proprio modello di una “retorica del vero”, cioè di un’arte che non cerca il favore delle masse, ma quello degli dèi. Si tratta di una retorica che rende «capaci di parlare e di pensare» (Fedro, 266b) e che è attenta ai contenuti, pur riconoscendo di poterli abbellire con una forma adeguata. Platone, tuttavia, continua a pensare che soltanto la filosofia possa accedere alla verità, mentre la retorica si limita a trattare di ciò che è soltanto plausibile. Essa non ha una propria autonomia, ma è il mero strumento della dialettica, che è l’unico autentico metodo della filosofia. Questo concetto di “dialettica”, che costituisce il punto culminante del Fedro e lo sbocco della teoria platonica dell’amore, diverrà il centro della speculazione platonica degli ultimi dialoghi ( cap. 3, p. 274).
La retorica come strumento della filosofia
)
Per l’esposizione orale
1. Rifacendoti a quanto appreso sul Simposio e sul Fedro, spiega sinteticamente in che senso Platone concepisce l’amore come uno strumento capace di condurre gli esseri umani alla conoscenza delle idee. 2. Esponi il mito della biga alata, richiamando per ciascun elemento elencato di seguito il simbolo usato da Platone nel racconto: anima razionale - anima irascibile - anima concupiscibile - conoscenza delle idee - incarnazione dell’anima in un corpo. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera il mito della biga alata e confrontalo con la tua esperienza: ti è mai successo di sentirti interiormente “diviso”, con una parte di te attratta da un certo oggetto o una certa azione, e un’altra che ti metteva di fronte alle “ragioni” per non seguire tale impulso? In quel caso, a che cosa poteva corrispondere il cavallo bianco di cui parla Platone? Ritieni anche tu – come suggerisce il mito platonico – che la personalità umana sia un complesso insieme di forze, e che il comportamento di ognuno sia la risultante della loro azione? Motiva la tua risposta.
231
3. La teoria dello Stato e il compito del filosofo Lo Stato ideale Tutti i temi speculativi e i risultati fondamentali dei dialoghi che abbiamo fin qui esaminato si trovano riassunti nella massima opera di Platone, la Repubblica, che li ordina e li connette intorno alla descrizione di uno Stato ideale, di una comunità perfetta, immaginaria, nella quale il singolo può trovare le condizioni per una vita giusta e felice. Il titolo Il titolo originale dell’opera platonica è Politéia, vocabolo che possiamo tradurre con dell’opera “costituzione” e che presso i Greci indicava la comunità politica di cui ogni individuo fa-
ceva parte in quanto “cittadino” (polítes). Il termine “repubblica” (dal latino res publica, letteralmente “cosa pubblica”, o “cosa di tutti”) risale alle traduzioni latine dell’opera e oggi ha acquisito un’accezione che potrebbe risultare fuorviante. Il termine indica infatti una forma di governo di tipo rappresentativo, solitamente opposta alla monarchia o, in generale, a uno Stato di carattere assolutistico; ma questo significato era estraneo alle intenzioni sia dell’autore sia dei traduttori latini.
I filosofi La comunità ideale descritta da Platone nella Repubblica, o Politéia, è fondata sul principio al potere che costituisce la direttiva di tutta la sua filosofia:
‘
Se i filosofi non governano le città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all’uno o all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile (Repubblica, V, 473d) che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano.
Ma a questo punto dello sviluppo dell’indagine, la costituzione di una comunità politica governata da filosofi presenta a Platone due problemi basilari: qual è lo scopo e il fondamento di una società siffatta? E chi sono propriamente i filosofi?
La giustizia Il fondamento Alla prima domanda (quale sia il fine di una società governata da filosofi) Platone rispondella vita de: la giustizia. E infatti la Repubblica è esplicitamente diretta alla determinazione della associata
natura della giustizia. Nessuna comunità umana, per Platone, può sussistere senza la giustizia. All’istanza sofistica che vorrebbe ridurla al diritto del più forte, egli obietta che neppure una banda di briganti o di ladri potrebbe tenersi unita e riuscire nei suoi intenti, se i suoi componenti violassero, l’uno a danno degli altri, le norme della giustizia. La giustizia è la condizione fondamentale della nascita e della vita dello Stato.
Le classi Lo Stato ideale ipotizzato da Platone è costituito da tre classi: quella dei governanti, queldei cittadini e la dei guerrieri e quella dei lavoratori, o produttori, cioè di quei cittadini (agricoltori, arle loro virtù
tigiani, commercianti ecc.) che esercitano un’altra qualsiasi attività rispetto a quella di chi governa o combatte. La saggezza è la virtù caratteristica della prima di queste classi, poiché è necessario che i governanti siano saggi perché tutto lo Stato sia saggio. Il coraggio è la virtù della classe dei guerrieri, a cui spetta il compito della difesa dello Stato dai nemici. La temperanza, intesa come governo della ragione sui sensi e, più in generale, come rispetto del principio secondo cui l’inferiore deve essere subordinato al superiore, è una virtù comune a tutte le classi. Tuttavia essa caratterizza soprattutto i produttori, i quali, non avendo una propria virtù specifica, condividono quella di tutto il corpo sociale.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
A sua volta, la giustizia comprende tutte e tre queste virtù: essa si realizza quando ciascun cittadino attende al proprio compito e ha ciò che gli spetta. In uno Stato, infatti, i compiti sono tanti, e tutti necessari alla vita della comunità: ognuno deve dunque scegliere quello per cui è più adatto e dedicarsi a esso. Soltanto così – dice Platone – ogni uomo sarà uno e non già molteplice (nel senso che non disperderà le proprie energie in attività e azioni che non gli competono), e lo Stato stesso sarà uno, cioè formato da parti diverse ma armonicamente unite in un solo “organismo”.
La giustizia nello Stato
OFFICINA CITTADINANZA Uguaglianza e giustizia p. 24
La giustizia garantisce pertanto l’unità, e quindi la forza, dello Stato. Ma essa garantisce La giustizia anche l’unità e l’efficienza dell’individuo. Abbiamo infatti già visto che nell’anima indivi- nell’individuo duale Platone distingue tre parti: razionale, concupiscibile e irascibile ( p. 230): della prima è propria la saggezza e della seconda il coraggio, mentre l’accordo di tutte e tre le parti nel lasciare il comando all’anima razionale è la temperanza. Anche nell’uomo singolo, così come nello Stato, la giustizia ricomprende dunque in sé stessa le tre virtù della saggezza, del coraggio e della temperanza, e si avrà quando ogni parte dell’anima svolgerà soltanto la propria funzione. PARTI DELL’ANIMA
concupiscibile
irascibile
razionale
VIRTÙ
temperanza
coraggio
saggezza
CLASSI
produttori
guerrieri
governanti
SIMBOLI
cavallo nero
cavallo bianco
auriga
Evidentemente, la realizzazione della giustizia nell’individuo e nello Stato non può che procedere in parallelo. Lo Stato è giusto quando ogni individuo attende soltanto al compito che gli è proprio; ma anche l’individuo è giusto quando attende soltanto al proprio compito. La giustizia, pertanto, non consiste soltanto nell’unità e nell’armonia dello Stato in sé stesso (cioè delle varie classi che lo compongono) e dell’individuo in sé stesso, ma anche nell’accordo dell’individuo con la comunità. ( T4 p. 258)
I NODI DEL PENSIERO Qual è il rapporto tra individuo e Stato? p. 478
CONCETTI A CONFRONTO
LA GIUSTIZIA nei SOFISTI
L’individuo e lo Stato
in PLATONE
è un concetto relativo, che dipende (come ogni valore) dallo Stato di appartenenza
è un presupposto fondamentale per la nascita e la vita dello Stato
consiste nel rispetto delle consuetudini o delle leggi imposte dai governanti
consiste nell’armonia • tra le classi dei cittadini dello Stato • tra le parti dell’anima dell’individuo
quindi è un atteggiamento esteriore
quindi è una condizione interiore
233
L’origine delle classi sociali Appurato che la giustizia è l’adempimento del proprio compito da parte di ogni individuo e di ogni classe sociale, la sensibilità odierna ci porta immediatamente a formulare due domande: 1. da dove deriva, per Platone, la distinzione degli uomini in classi? 2. che cosa fa sì che un individuo appartenga a una certa classe anziché a un’altra? Motivi Per quanto riguarda la prima questione, Platone risponde che lo Stato deve per forza esseantropologici re diviso in classi, poiché in uno Stato vi sono compiti diversi che devono essere esercie psicologici
tati da individui diversi. Per quanto riguarda il secondo punto, Platone, rifacendosi alla tripartizione psicologica dell’anima, afferma che la diversità tra gli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono dalla preponderanza di una parte dell’anima sulle altre. Abbiamo così gli individui prevalentemente razionali (portati quindi alla sapienza e al governo), gli individui prevalentemente impulsivi (portati all’arte del combattimento) e gli individui prevalentemente soggetti al corpo e ai suoi desideri (portati al lavoro manuale). Per Platone la divisione degli individui in classi non dipende quindi da un diritto di nascita, cioè dall’essere nati in una certa classe, ma da un’inclinazione naturale, o da un fattore antropologico e psicologico, ossia da come si è “fatti” in quanto uomini. Tutto ciò trova un’esemplificazione nel celebre “mito delle stirpi”, ossia in quella che Platone riferisce come un’antica leggenda fenicia, secondo cui alcuni nascono con una natura “aurea”, altri con una natura “argentea”, altri con una natura “ferrea” o “bronzea”.
La questione Tutto ciò esclude che si possa interpretare la comunità platonica, come pure è avvenuto, della mobilità alla stregua di un sistema di caste chiuse, alla maniera orientale. Infatti, mentre nel sistesociale
ma indiano delle caste o negli Stati aristocratici non si ammette la mobilità sociale, ossia il passaggio da una classe più bassa a una più alta (anche se talvolta risulta prevista la degradazione dall’alto verso il basso), nell’immaginaria società platonica si dice esplicitamente che un bimbo “ferreo” nato tra gli uomini “aurei” dovrà essere retrocesso di classe e, viceversa, che un bimbo “aureo” nato da uomini “ferrei” dovrà essere innalzato tra gli uomini “aurei” e accolto tra i custodi:
‘
Il dio ordina ai magistrati di sorvegliare attentamente i bambini, di stare bene attenti al metallo che si trova mescolato alla loro anima, e se i loro figli hanno qualche parte di bronzo o di ferro, di essere per loro senza pietà e di assegnare ad essi il tipo d’onore dovuto alla loro natura, relegandoli nella classe degli artigiani e degli agricoltori; ma se da questi nasce un bambino la cui anima contiene dell’oro o dell’argento, il dio vuole che sia onorato elevandolo (Repubblica, III, 415b-c) sia al rango di custode, sia a quello di difensore.
Tuttavia è bene tenere presente che solitamente i figli assomigliano ai padri e quindi, di regola, rimangono nella classe di provenienza. Soltanto eccezionalmente avviene il contrario. Inoltre, è corretto aggiungere che in Platone la divisione della società in classi riveste significati inequivocabilmente anti-democratici ( p. 236).
)
Per l’esposizione orale
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1. Da chi deve essere governata la comunità ideale secondo Platone, e per quali motivi? 2. Per ciascuna delle tre classi individuate da Platone (governanti, guerrieri e produttori), indica la virtù tipica e la parte dell’anima corrispondente. 3. Definisci la giustizia secondo la concezione platonica, sia per quanto riguarda l’individuo, sia per quanto riguarda lo Stato.
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Il “comunismo” platonico Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce l’elimina- La comunanza zione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori (dei go- dei beni vernanti e dei guerrieri), così che esse, non avendo beni e interessi propri da tutelare, attendano più efficacemente alla gestione della cosa pubblica. I governanti-filosofi, in particolare, dovranno avere case piccole e nutrirsi di cibo semplice, vivere come in un accampamento e mangiare insieme; e non riceveranno compensi, se non i mezzi necessari per vivere. L’oro e l’argento per loro saranno proibiti, in quanto lo scopo della città è il bene di tutti, non la felicità o l’utile di una classe:
‘
Il nostro scopo nel fondare lo Stato non è di rendere felice un unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità […]. Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità di tutti. (Repubblica, IV, 420b-c)
Se la ricchezza è nociva, la povertà lo è altrettanto: quindi nella città ideale non dovrà esistere nessuna delle due. Il sistema sociale prospettato da Platone si presenta pertanto come una sorta di comunismo , che tuttavia non riguarda l’intera società, dal momento che per la terza classe (quella dei produttori) non si esclude la proprietà privata dei mezzi di produzione (gli attrezzi per lavorare). glossario p. 249 La classe al potere, inoltre, non avrà famiglia. Estendendo i princìpi del comunismo alla sfera La comunanza degli affetti, Platone ritiene infatti che i governanti debbano avere in comune anche le donne: delle donne
‘
Le donne saranno, senza eccezione, mogli comuni degli uomini e nessuno avrà una moglie propria.
Ciò non implica certo la prostituzione della donna o la sua subordinazione all’uomo. Al contrario, le donne dovranno godere di una completa uguaglianza rispetto agli uomini e parteciperanno alla vita dello Stato su un piano di totale parità. Le unioni matrimoniali (Platone è contrario al libero amore e alla sessualità promiscua) saranno temporanee e verranno stabilite dallo Stato in base a criteri eugenetici volti alla procreazione di figli sani. Tutti i bambini saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, e si avrà cura sia che questi ultimi non sappiano quali sono i loro figli, sia che i bambini ignorino quali sono i loro parenti. In tal modo si vivrà come in una grande e solidale famiglia:
‘
e così saranno di tutti anche i figli, né i padri conosceranno i propri figli, né i (Repubblica, IV, 457c-d) figli i propri padri.
e dei figli
enciclosofia
eugenetica
Disciplina che studia le leggi dell’ereditarietà genetica per individuare i metodi utili a migliorare le caratteristiche di un certo gruppo umano (dal prefisso greco eu-, che significa “bene”, “buono”). Tristemente famosi sono gli studi eugenetici della Germania nazista, finalizzati al miglioramento della “razza” ariana.
A questo punto ci si può chiedere se i governanti, sottoposti a tutte queste restrizioni, siano I governanti felici. Lo stesso Platone, nel dialogo, fa chiedere a Socrate: «Ma come, Socrate, ti difendere- sono felici? sti se qualcuno obbiettasse che tu non fai davvero felici questi uomini valorosi […] ché, avendo in mano lo Stato, non ne godano affatto alcun vantaggio?» (Repubblica, IV, 419). Il filosofo risponde sostanzialmente che la felicità – per i governanti come per le altre classi sociali – risiede nella giustizia, ossia nell’adempimento convinto del proprio compito, in vista dell’armonia e della felicità complessiva dello Stato. Inoltre non bisogna dimenticare che i filosofi, proprio perché sono tali (cioè godono della beatitudine più alta, che è la conoscenza), sono felici di per sé e non hanno bisogno di cercare la propria realizzazione in quei beni materiali (potere, fama, ricchezza ecc.) che costituiscono il quotidiano oggetto di desiderio degli uomini “ferrei”.
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Le degenerazioni dello Stato Platone è ben consapevole del fatto che lo Stato da lui descritto non esiste «in alcun luogo sulla terra»: esso rappresenta un modello ideale, in riferimento al quale è possibile migliorare gli Stati esistenti e giudicarne le possibili alterazioni. Le forme In base ai tratti con cui è presentata nella Repubblica, la società ideale platonica può essere degenerate definita come un’ aristocrazia di filosofi, cioè come una società in cui il potere è esercidi Stato tato dai migliori (in greco áristoi), a loro volta identificati con i filosofi. glossario p. 249
OFFICINA CITTADINANZA Repubblica e democrazia p. 4
Quella aristocratica può dunque essere considerata come la forma fisiologica di governo, di cui Platone elenca le possibili degenerazioni, ovvero le corrispondenti degenerazioni degli individui che la compongono: una prima degenerazione è costituita dalla timocrazia, cioè dal governo fondato sull’onore (in greco timé), che nasce quando i governanti si appropriano di terre e di case e cominciano a perseguire l’affermazione personale; alla timocrazia corrisponde l’uomo timocratico, ambizioso e amante del comando e degli onori, ma diffidente verso i sapienti; una forma ancora peggiore è l’oligarchia, cioè il governo fondato sul censo, nel quale il comando è riservato a pochi (in greco olígoi); all’oligarchia corrisponde l’uomo avido di ricchezze, parsimonioso e laborioso a tal punto da porre il risparmio e il lavoro al primo posto nella vita; ulteriore forma degenerata è la democrazia , il cui avvento è causato, nello Stato oligarchico, dalla ribellione del ceto povero contro il ceto ricco che detiene il potere; nella democrazia i cittadini sono liberi e a ognuno di essi è concesso di fare quello che vuole; a essa corrisponde l’uomo democratico, che non è parsimonioso come l’oligarchico, ma tende ad abbandonarsi a desideri smodati; glossario p. 249 infine, la più bassa tra le forme di governo è la tirannide, che spesso nasce come reazione all’eccessiva libertà personale concessa dalla democrazia. Per Platone la tirannide è la forma di Stato più spregevole, perché il tiranno, per difendersi dall’odio dei cittadini, si circonda di individui senza scrupoli, capaci di compiere azioni anche disoneste o crudeli. L’uomo tirannico è schiavo delle passioni ed è il più infelice degli uomini. una forma fisiologica IL GOVERNO
configurandosi come
può avere
aristocrazia di filosofi
timocrazia alcune forme patologiche
configurandosi come
oligarchia democrazia tirannide
I tratti peculiari dell’aristocraticismo platonico L’ostilità La dottrina politica di Platone, nella sua ispirazione storica e teorica più profonda, prende platonica verso le mosse da una sostanziale ostilità nei confronti della democrazia. Infatti il progetto la democrazia
platonico di una riforma complessiva della comunità umana nasce proprio in antitesi alla degenerazione – reale o presunta – della democrazia ateniese del suo tempo. Tant’è che
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Platone critica non soltanto i sofisti (cioè i teorici della nuova pólis), ma anche gli uomini politici che avevano riformato la città in senso democratico, compreso Pericle. A proposito di quest’ultimo, ad esempio, nel Gorgia Socrate chiede a Callicle:
‘ ‘
Dimmi soltanto se è voce corrente che gli ateniesi siano stati migliorati da Pericle o, al contrario, ne siano stati corrotti. Io sento dire che Pericle ha reso gli ateniesi pigri, vili, chiacchieroni e avidi di denaro, istituendo per primo uno stipendio per gli uffici pubblici. (Gorgia, 515e)
E dopo avergli fatto ammettere, controvoglia, che Pericle avrebbe reso i cittadini più selvatici, ingiusti e peggiori, conclude: Pericle, allora, non era un buon politico.
(Gorgia, 516c ss.)
Oltre all’amarezza provata di fronte a un governo democratico deludente, l’aristocraticismo Una divisione “organica” platonico e la sua visione gerarchica della società hanno però anche altre giustificazioni. del lavoro In primo luogo, la divisione in classi nella Repubblica non obbedisce a un semplice criterio funzionale, ovvero all’esigenza che ciascuno abbia un proprio compito o mestiere da svolgere, ma anche all’idea politica della necessità di una rigida diversificazione di attività, in grado di garantire, contro i vari “sommovimenti” democratici, un modello statico e gerarchico di coesistenza sociale basato su ruoli fissi e nettamente differenziati (per i quali vige il principio della subordinazione dell’inferiore al superiore). In altri termini, uno Stato è sano (cioè giusto) quando ognuno attende all’attività che gli è propria e interiorizza la necessità della sua particolare funzione per il bene del tutto. Viceversa, lo Stato è malato (cioè ingiusto) quando i membri delle diverse classi non sanno più stare “al loro posto” e quando i governati pretendono di fare i governanti. Sotto questo aspetto, la teoria platonica è una forma di organicismo politico, poiché considera lo Stato come un organismo che, per funzionare bene, necessita dell’accordo tra le funzioni di tutte le sue ESERCIZI parti, ciascuna delle quali, anche la meno “nobile”, è indispensabile alla vita del tutto. In questo modo Platone abbatte uno dei principali capisaldi teorici della cultura democrati- Il carattere ca, ossia la tesi della necessità di una gestione comune della cosa pubblica. Egli, infatti, ri- elitario della politica tiene che la politica non sia un’arte destinata a tutti, ma soltanto alla parte “aurea” della città. Irrimediabilmente esclusa dalla téchne politica, la classe produttiva non può esercitare alcuna forma di controllo nei confronti dei governanti, i quali, a loro volta, per governare non hanno alcun bisogno di adattarsi al punto di vista dei governati. Anzi, qualora i “superiori” interessi della cosa pubblica lo richiedano, devono programmaticamente prescindere dal loro consenso. Il rigetto della democrazia si accompagna in Platone a uno statalismo esasperato, ossia a La tendenza una concezione che prevede la regolamentazione della vita della società fin nei mini- statalista mi particolari, negando la possibilità di iniziative autonome di singoli o di gruppi. Ad esempio, oltre a scegliere gli individui adatti alle varie funzioni, il legislatore dispone i loro accoppiamenti tramite veri e propri “matrimoni di Stato”. Coesistendo con un atteggiamento anti-democratico e con un ideale monolitico e collettivista di società, lo statalismo di Platone finisce così per tradursi nella delineazione di un regime illiberale e autoritario. Pur non essendo democratico, lo Stato platonico non deve però essere confuso con l’aristo- Un’aristocrazia crazia comunemente intesa. Infatti lo Stato descritto nella Repubblica è sì aristocratico, in del sapere quanto vi governano i “migliori”, ma questi ultimi sono tali non per casato, forza o ricchezza,
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bensì per il possesso del sapere. La ragione al potere e i filosofi al governo: ecco la vera novità dell’aristocraticismo di Platone, il cui Stato è una forma di sofocrazia (“governo dei sapienti”, dal greco sophós, “sapiente”) o di nòocrazia (“governo dell’intelligenza”, dal greco nóos o noús, “mente”, “intelligenza”).
Chi custodirà i custodi? Poiché lo Stato di cui parla Platone non prevede istituzioni di tipo democratico-assembleare ed esclude la possibilità di un controllo popolare (“dal basso”) dell’opera dei governanti, sorge spontanea la domanda: chi custodirà i custodi? In altri termini, come si può essere sicuri che i governanti realizzeranno davvero il bene comune della città e non agiranno invece per il proprio personale interesse? Lo Stato come Platone supera la difficoltà presupponendo che i governanti (chiamati anche “custodi”), priscuola per ma di saper custodire gli altri, siano in grado, in quanto filosofi, di custodire sé stessi. Da i governanti
questa convinzione deriva l’importanza fondamentale da lui attribuita al sistema educativo. Nella Repubblica, infatti, ordinamento politico e ordinamento educativo risultano strettamente congiunti, al punto che lo Stato tende a configurarsi come una sorta di grande Accademia, avente come scopo la formazione permanente di ineccepibili custodi. In altri termini, Platone è persuaso che individui addestrati fin dalla nascita a pensare al bene collettivo saranno all’altezza, una volta divenuti reggitori, di agire per il bene supremo dello Stato. E ciò conformemente alla loro natura “aurea”, che fin dall’inizio li predispone a tenere a bada, in nome della ragione, gli interessi egoistici e passionali.
Il carattere Ovviamente, dati i presupposti che conosciamo, l’educazione al sapere e alla virtù di cui classista parla Platone (e ciò costituisce un ulteriore attestato del carattere non democratico del suo dell’educazione platonica pensiero) non riguarda tutti gli individui, ma soltanto quelli delle prime due classi. Tant’è
vero che dell’educazione della gran massa dei cittadini (i lavoratori) Platone non fa alcun cenno. Anzi, egli è convinto che il sapere sia una prerogativa delle classi superiori, in quanto risulta «impossibile che la massa filosoficamente rifletta» (Repubblica, 494a).
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Per l’esposizione orale
1. Perché secondo Platone la comunanza dei beni è condizione di uno Stato ben governato? 2. Spiega il significato delle parole “timocrazia”, “oligarchia”, “democrazia” e “tirannide”, e chiarisci a che cosa si riferiscono nella riflessione politica platonica.
4. I gradi della conoscenza e il compito dei filosofi Poiché l’educazione al sapere e alla virtù coincide con l’educazione alla filosofia, nella parte centrale della Repubblica Platone delinea il compito proprio del filosofo. Filosofo è colui che ama la conoscenza nella sua totalità. Ma che cos’è la conoscenza? Scienza, Esplicitando la propria concezione del sapere come “fotografia” dell’oggetto ( p. 217), Plaignoranza tone afferma che «ciò che assolutamente è, è assolutamente conoscibile; ciò che in nessun e opinione
modo è, in nessun modo è conoscibile» (Repubblica, V, 477a). Perciò all’essere autentico e assoluto delle idee corrisponderà la scienza (conoscenza vera); al non essere corrisponderà l’ignoranza (conoscenza falsa); al divenire del mondo sensibile, che sta in mezzo tra l’essere e il non essere, corrisponderà l’opinione, che si colloca a metà strada tra la conoscenza e l’ignoranza.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Platone paragona la conoscenza così intesa a una linea che viene divisa in due segmenti (conoscenza sensibile e conoscenza razionale), i quali vengono a loro volta divisi in altri due segmenti (congettura o immaginazione e credenza da un lato; ragione matematica e intelligenza filosofica dall’altro). Abbiamo così quattro gradi della conoscenza, ai quali corrispondono quattro gradi della realtà. La conoscenza sensibile, cioè l’opinione ( dóxa ), rispecchia il mondo mutevole testimoniato dai sensi (e dunque relativo alla percezione individuale) e si distingue in: congettura o immaginazione ( eikasía ), che ha per oggetto le immagini delle cose: Platone parla delle loro «ombre», alludendo alle immagini propriamente dette degli oggetti (come nel caso di una raffigurazione pittorica) o alle loro immagini mentali; credenza ( pístis ), che ha per oggetto le cose sensibili (ovvero la percezione chiara e diretta degli oggetti). La conoscenza razionale o scientifica ( epistéme ) rispecchia il mondo immutabile delle idee (indipendente dalla percezione individuale) e si distingue in: ragione matematica o discorsiva ( diánoia ), che ha per oggetto le idee matematiche (grande, uguale, triangolo, quadrato ecc.) e le loro concatenazioni in ragionamenti; intelligenza filosofica o intuitiva ( nóesis ), che ha per oggetto le idee-valori (buono, giusto, bello ecc.) nel loro imporsi all’intelletto (noús) come evidenti. glossario pp. 247-248 La conoscenza noetica (la nóesis) è un atto che si compie fuori del tempo (poiché fuori del tempo è il suo oggetto, l’idea) e si configura come la condizione imprescindibile della conoscenza dianoetica (la diánoia), in quanto le fornisce i princìpi o i punti di partenza da cui essa procede. LA CONOSCENZA SENSIBILE (dóxa o opinione)
LA CONOSCENZA RAZIONALE (epistéme o scienza)
si distingue in
si distingue in
congettura o immaginazione (eikasía)
credenza (pístis)
ragione matematica o discorsiva (diánoia)
intelligenza filosofica o intuitiva (nóesis)
immagini delle cose
cosesensibili
idee matematiche
idee-valori
mondo sensibile
La “linea” della conoscenza
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine della conoscenza? p. 482
mondo sensibile
Da questo schema si comprende che per Platone la filosofia è superiore alla matematica. I limiti della Infatti, nonostante egli esalti quest’ultima al punto da far scrivere sulla porta dell’Accade- matematica mia «non entri chi non è matematico», pensa tuttavia che le discipline matematiche abbiano ancora troppi consistenti appigli nel mondo sensibile, in quanto le loro nozioni (punto, linea, triangolo ecc.) – pur essendo oggetti ideali – sono attinte o intraviste attraverso oggetti percepiti dai sensi ( “Per saperne di più”, p. 240).
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La matematica, inoltre, produce un sapere che è valido soltanto entro ambiti limitati e condizionati, perché procede con dimostrazioni che partono da ipotesi e postulati accettati convenzionalmente, ma assunti come autoevidenti:
‘
Quelli che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre discipline dello stesso genere suppongono il dispari e il pari, le varie figure, le tre specie di angoli e altre cose simili secondo l’oggetto della loro ricerca; le trattano da cose ben note, le pongono come ipotesi e credono di non essere obbligati a darne ragione, quasi fossero evidenti a tutti. Essi muovono da tali presupposti per procedere, nei loro ragionamenti, da una proposizione all’altra, e così (Repubblica, VI, 509c) giungono alla dimostrazione a cui miravano.
Infine, per Platone le scienze non riescono, da sole, a indicare lo scopo ultimo di ogni sapere, che consiste nell’orientare la vita del singolo e della città. La superiorità Diversamente dalla matematica, la filosofia, in quanto forma suprema di conoscenza, pur della filosofia muovendo da ipotesi, le considera realmente come tali, cioè come semplici punti di par-
tenza per risalire ai princìpi supremi (le idee) e da queste al principio di tutto (il Bene). In questo modo essa perviene alle condizioni che rendono validi gli stessi postulati su cui si reggono le discipline matematiche. Inoltre – e questo è forse l’aspetto più importante – la filosofia riesce a superare la settorialità delle diverse scienze, e a vedere l’orizzonte complessivo entro cui ciascuna è in grado di svolgere ciò che le compete in funzione di quell’unico Bene che tutto governa, e che deve trovare concretizzazione nella società. La filosofia è dunque una sorta di scienza delle scienze, in grado di fissare il fondamento e il fine (politico) dei molteplici saperi.
per saperne di più Gli oggetti della matematica tra il sensibile e l’ideale Di che cosa si occupa la matematica? Secondo Platone l’aritmetica e la geometria hanno per oggetto una ben precisa tipologia di oggetti ideali (punti, linee, numeri, triangoli, quadrati ecc.), cioè collocati oltre il mutevole orizzonte delle cose sensibili. Ma qual è il senso di questa affermazione, dal momento che i matematici conducono i loro ragionamenti su elementi concreti (una certa serie di numeri, un certo triangolo ecc.)? In realtà, se è vero che per dimostrare un teorema il matematico parte, ad esempio, da un quadrato particolare e concreto, è altrettanto vero che il teorema che egli dimostrerà sarà valido per ogni possibile quadrato che si potrà mai disegnare, indipendentemente dalla grandezza o dal colore dell’immagine e da ogni irregolarità o imperfezione grafica della rappresentazione: [I matematici] parlano del quadrato in sé e della diagonale in sé, non già di quella che tracciano; utilizzano quelle figure che costruiscono e disegnano […] soltanto come immagini, cercando di cogliere quelle realtà in sé, che non si possono afferrare se non con il pensiero, mediante la diánoia [conoscenza deduttiva]. (Repubblica, VI, 511d)
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In che cosa consiste la diánoia? Per Platone le figure geometriche e gli enti matematici sono dunque idee, che non hanno le proprietà empiriche delle figure che disegniamo o vediamo materialmente, ma sono piuttosto le regole razionali che presiedono alla loro costruzione. A questo tipo di idee lo scienziato giunge non per mezzo di un’intuizione (come nel caso delle idee-valori), né esclusivamente attraverso le loro «immagini» sensibili (i quadrati o i triangoli disegnati): ciò che serve è la conoscenza razionale discorsiva, la diánoia, la quale opera mediante il metodo ipotetico-deduttivo. Questo consiste nel partire dalle rappresentazioni sensibili degli enti matematici per elaborare su di essi alcune ipotesi o premesse da assumere come vere, per poi dedurne alcune conseguenze con dimostrazioni rigorose e necessarie. Il termine diánoia – composto da diá, “attraverso”, e noús, “intelletto” – indica proprio questa capacità di “dis-correre”, cioè di collegare nozioni mediante il ragionamento ipotetico-deduttivo: una capacità ben diversa dall’intuizione noetica, che afferra i propri oggetti direttamente e immediatamente.
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
I gradi dell’educazione Se la filosofia è la “scienza delle scienze”, allora queste ultime devono rientrare in un progetto educativo e politico che al suo culmine avrà proprio la filosofia. Platone descrive in modo minuzioso l’educazione dei giovani, tant’è vero che Jean-Jacques Le prime tappe Rousseau (filosofo francese vissuto nel XVIII secolo) vedrà nella Repubblica il più grande dell’educazione trattato sull’educazione dell’antichità. Fra i sette e i diciotto anni, i giovani studiano musica (intesa come l’insieme delle arti tradizionalmente collegate alle Muse: musica strumentale, canto, arte della declamazione e poesia) e ginnastica (che, accanto alla danza, prevedeva attività finalizzate all’addestramento militare, come la scherma, la marcia di resistenza, il tiro con l’arco). Quindi sono previsti due anni di formazione militare, volta a fortificare il corpo e il carattere. A seguire, cioè dai venti ai trent’anni, i migliori per ingegno vengono scelti per dedicarsi alle scienze fondate sulla matematica. La superiorità della filosofia sulle discipline matematiche non esclude infatti che queste ri- La matematica vestano una grande importanza nel sistema formativo ipotizzato da Platone. Del resto l’e- come punto di svolta ducazione ha il suo punto di svolta proprio nel passaggio dalla conoscenza sensibile alla conoscenza razionale matematica. Il passaggio viene effettuato grazie all’uso dei metodi di misura. Se non si vuole rimanere ingannati dalle apparenze sensibili – che sono varie, mutevoli e spesso contraddittorie fra loro –, non si può far altro che ricorrere alla misura, che introduce in tali apparenze ordine e oggettività. Ad esempio: la cosa x che ci sta davanti è grande o piccola? vicina o lontana? pesante o leggera? Le percezioni possono essere diverse per i vari uomini e anche per uno stesso uomo in momenti diversi. Ma se misuriamo il volume, la distanza, il peso ecc. degli oggetti, raggiungiamo conoscenze che non sono più mutevoli e soggettive, bensì oggettive e stabili. Le discipline matematiche fondamentali sono presentate nel dettaglio nella Repubblica, or- Le discipline matematiche dinate gerarchicamente dalla più semplice alla più complessa: 1. la prima delle scienze matematiche è l’aritmetica, cioè la teoria del numero; 2. aggiungendo l’estensione (cioè le superfici) si ha poi la geometria piana, che con l’aggiunta dei volumi diventa geometria dei solidi; 3. nell’ambito della geometria dei solidi si colloca lo studio di quei particolari solidi in movimento che sono i corpi celesti, i quali tuttavia sono anche oggetto dell’astronomia, intesa non come osservazione empirica degli astri, ma come scienza che ne spiega il movimento ordinato e perfetto su base puramente razionale, cioè mediante leggi matematiche; 4. l’ultima delle scienze matematiche è la musica, intesa non come studio del suono empirico o percepibile, bensì come teoria dell’armonia (o “acustica matematica”), cioè come studio dei rapporti numerici tra i suoni. Le diverse discipline matematiche sono propedeutiche agli studi strettamente filosofici. Esse, infatti, preparano i giovani alla scienza suprema: la scienza delle idee (la «dialettica» cap. 3, p. 274), con la quale i migliori (reduci da un’ulteriore selezione) si cimentano fra i trenta e i trentacinque anni. Infine, fra i trentacinque e i cinquanta anni, coloro che saranno stati in grado di seguire con successo il corso di filosofia dovranno affrontare un tirocinio pratico nelle cariche militari e civili. E soltanto a cinquant’anni, superate con esito favorevole tutte queste prove, “gli ottimi” potranno assurgere al governo dello Stato.
Le ultime tappe dell’educazione
OFFICINA CITTADINANZA Istruzione e educazione p. 15
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Il mito della caverna La teoria della conoscenza e dell’educazione che abbiamo appena esposto trova una suggestiva esemplificazione allegorica nel racconto della caverna, uno dei miti più noti della Repubblica (contenuto nel settimo libro dell’opera) e del platonismo in generale. Il racconto Immaginiamo che vi siano degli schiavi imprigionati in una caverna sotterranea, costretti
da catene a guardare fisso davanti a sé. Sul fondo della caverna i prigionieri vedono muoversi delle ombre. Alle spalle dei prigionieri c’è infatti un muricciolo, dietro il quale si spostano, senza essere visti, alcuni portatori di statuette raffiguranti tutti i possibili generi di cose. Più in là brilla un fuoco: è la sua luce a far sì che le ombre delle statuette vengano proiettate sulla parete di fondo della caverna. I prigionieri scambiano dunque quelle ombre, che sono tutto ciò che essi possono conoscere, per la sola realtà esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene, voltandosi si accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse, e non le ombre, sono la realtà. Se poi riuscisse a risalire all’apertura della caverna e a uscire alla luce del sole, scoprirebbe con ulteriore stupore che la vera realtà non sono neanche le statuette, poiché queste sono a loro volta imitazioni di cose reali, nutrite e rese visibili dall’astro solare. Dapprima, abbagliato da tanta luce, lo schiavo liberato non riuscirebbe a distinguere bene gli oggetti e cercherebbe di guardarli riflessi nelle acque. Soltanto in un secondo tempo potrebbe guardarli direttamente. Ma, ancora incapace di volgere gli occhi verso il sole, si limiterebbe a osservare le costellazioni e il firmamento durante la notte, e soltanto dopo un po’ sarebbe finalmente in grado di fissare il sole di giorno e di ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Ovviamente, lo schiavo vorrebbe rimanersene «sempre là», a godere, rapito, di quel mondo di superiore bellezza, tanto che «preferirebbe soffrire tutto piuttosto che tornare alla vita precedente». Ma poniamo che egli, per far partecipi i suoi antichi compagni di schiavitù di ciò che ha visto, scegliesse alfine di tornare nella caverna: allora i suoi occhi sarebbero offuscati dall’oscurità e non saprebbero più discernere le ombre. Egli verrebbe allora deriso e disprezzato dai compagni, i quali accusandolo di avere gli “occhi malati”, continuerebbero ad attribuire i massimi onori a coloro che invece sanno discernere meglio degli altri le ombre all’interno della caverna. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e di portarli alla luce del sole, lo ucciderebbero. ( T6 p. 261 • T7 p. 263 • T8 p. 264)
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
La simbologia filosofica di questo mito platonico è ricchissima. Senza pretendere di esau- Il significato rirla tutta (del resto pretendere di spiegare razionalmente un mito è un controsenso), cer- del racconto cheremo di tradurne gli elementi essenziali mediante una catena schematica di identificazioni possibili: la caverna oscura = il nostro mondo; gli schiavi incatenati = gli uomini; le catene = l’ignoranza e le passioni che ci inchiodano a questa vita; le ombre delle statuette = le immagini delle cose, corrispondenti al grado gnoseologico della congettura o immaginazione; le statuette = le cose del mondo sensibile, corrispondenti al grado gnoseologico della credenza; il fuoco = il principio grazie al quale si possono conoscere le cose sensibili; la liberazione dello schiavo = l’azione della conoscenza e della filosofia; il mondo fuori della caverna = le idee; le immagini delle cose riflesse nell’acqua = le idee matematiche che preparano alla filosofia; il sole = l’idea del Bene che tutto rende possibile e conoscibile; la contemplazione assorta delle cose e del sole = la filosofia ai suoi massimi livelli; lo schiavo che vorrebbe starsene «sempre là» = la tentazione del filosofo di chiudersi in una “torre d’avorio”; la scelta di ritornare nella caverna = il dovere del filosofo di far partecipi gli altri delle proprie conoscenze; l’ex-schiavo che non riesce più a vedere le ombre = il filosofo che, per essersi troppo concentrato sulle idee, si è disabituato alle cose; lo schiavo deriso = la sorte dell’uomo di pensiero, che viene preso per pazzo da coloro che sono legati ai pregiudizi e ai modi di vita volgari; i grandi onori attribuiti a coloro che sanno vedere le ombre = il premio offerto dalla società ai falsi sapienti; l’uccisione del filosofo = la sorte toccata a Socrate. Come si è accennato all’inizio, e come si può verificare adesso, nel mito della caverna si Le dottrine trova gran parte di Platone e del senso umano e filosofico del platonismo. In esso c’è in- sottese al mito nanzitutto il dualismo gnoseologico e ontologico sotteso alla teoria delle idee; c’è poi l’afflato religioso che spinge Platone a guardare al nostro mondo come a un regno delle tenebre, contrapposto al regno della luce rappresentato dalle idee. Ma soprattutto c’è l’idea della finalità politica della filosofia, cioè l’idea che tutte le conoscenze acquisite debbano essere utilizzate per la fondazione di una comunità giusta e felice. Secondo Platone, infatti, il ritorno alla caverna fa parte del percorso educativo del filosofo, il quale è tenuto a riconsiderare e a rivalutare il mondo umano alla luce di ciò che ha visto “al di fuori” di esso. Ritornare nella caverna significa mettere ciò che si è visto a disposizione della comunità, obbedendo così al vincolo di giustizia che lega ogni individuo all’umanità, e rendersi conto di come quel mondo, per quanto inferiore a quello delle idee, sia alla fine il mondo degli uomini, e quindi il proprio mondo. Lo schiavo liberato dovrà dunque riabituarsi all’oscurità della caverna: allora vedrà meglio dei compagni che vi sono rimasti, e riconoscerà la vera natura e i veri caratteri di ciascuna immagine per averne visto il modello ideale: la bellezza, la giustizia e il bene. Soltanto se sarà governato da “schiavi liberati”, lo Stato potrà finalmente essere guidato da gente sveglia, e non da gente che sogna, che combatte in nome di ombre e che si contende il potere e la ricchezza come se fossero il bene maggiore a cui si può aspirare. Soltanto con il ritorno nella caverna, soltanto cimentandosi nel mondo umano, si sarà portata a compimento la propria educazione e si sarà veramente filosofi ( “La filosofia che vive”, p. 244).
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Per l’esposizione orale
1. In che cosa consistono la conoscenza sensibile e la conoscenza razionale di cui parla Platone? 2. Esponi il mito platonico della caverna e collegalo con l’immagine della linea, anch’essa utilizzata da Platone per descrivere i gradi della conoscenza. 3. In che senso, per Platone, la finalità ultima dell’educazione filosofica è di tipo politico?
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EDUCAZIONE CIVICA
SVILUPPO SOSTENIBILE
LA FILOSOFIA CHE VIVE
Dalla Repubblica di Platone alla società di oggi: il difficile rapporto tra economia e politica Due ambiti che devono rimanere separati Nella Repubblica Platone descrive la politica come un ambito di importanza capitale, che esige un’educazione specifica, finalizzata a far sviluppare non soltanto competenze tecniche, ma anche rigore morale. Mediante un percorso di formazione severo e prolungato, il futuro governante deve acquisire tutte le conoscenze necessarie per ben governare, ma al tempo stesso, rinunciando al possesso di beni personali, deve acquistare una sorta di “seconda natura”, sostituendo l’inclinazione egoistica che originariamente contraddistingue la natura umana con l’inclinazione al bene comune. È in questa prospettiva che Platone sottolinea la necessità di separare l’attività politica dei governanti da quella economica dei produttori. Chi è abile negli affari e nella produzione di beni è certamente necessario alla comunità, dal momento che contribuisce alla ricchezza e al benessere di tutti; ma per Platone non deve governare, poiché per natura (e legittimamente nel proprio ambito) tende alla soddisfazione degli interessi personali, e non al bene collettivo. Che cos’è il conflitto di interessi Affermando che un governante non può essere custode imparziale del bene comune e nel contempo amministratore di beni personali, Platone sembra aver individuato i termini fondamentali del cosiddetto “conflitto di interessi”, cioè di una situazione di contrasto fra l’interesse della collettività e l’interesse personale di chi ricopre una carica di governo pur avendo beni propri da tutelare. Dal punto di vista giuridico, il conflitto di interessi rappresenta un nodo difficile da sciogliere, che gli odierni sistemi legislativi (nazionali e internazionali) regolamentano in maniera diversa. In Italia, l’articolo 10 del D.P.R. n. 361 (Decreto del Presidente della Repubblica del 30 marzo 1957) fissa alcuni limiti all’eleggibilità dei politici: «Non sono eleggibili […] coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato
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DIBATTITO CRITICO
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Pace, giustizia e istituzioni solide
per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Un problema morale ed economico Questo esempio mostra quanto il messaggio platonico mantenga ancora oggi la sua validità. L’idea che ai governanti debbano essere negati la proprietà privata, il lusso e l’attaccamento privatistico a beni materiali non è certamente percorribile in quegli Stati (tra cui l’Italia) che incarnano la tradizione liberale dell’Occidente; ma il richiamo alla necessaria integrità morale di chi ricopre ruoli di potere è di grande attualità, soprattutto nei Paesi che dispongono di minori ricchezze. Secondo i dati riportati nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, «Corruzione, concussione, furto ed evasione fiscale costano ai Paesi in via di sviluppo circa 1,26 mila miliardi di dollari l’anno; questa somma di denaro potrebbe essere usata per sollevare coloro che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, al di sopra di tale soglia per almeno sei anni» (Obiettivo 16, “Fatti e cifre”). Lo sfruttamento di una posizione di potere per vantaggi personali non è dunque riprovevole soltanto dal punto di vista dell’etica individuale, ma è anche dannoso per la pubblica economia, ovvero per lo Stato, al quale sottrae risorse preziose.
QUESTIONE Un’educazione “politica” è possibile? in che cosa dovrebbe consistere? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, verifica in Internet se esistono (nel nostro Paese o in Europa) scuole
di formazione politica e, se sì, individua le discipline che vi sono proposte. In classe, dividetevi in quattro gruppi, tre dei quali formulano una tesi riguardo alla questione e, anche in base alla ricerca effettuata in Internet, elaborano argomentazioni in suo sostegno. Un portavoce per ogni gruppo espone alla classe la posizione e le riflessioni della propria squadra. Il quarto gruppo costituisce la giuria, che sceglie le esposizioni più convincenti sottolineando i punti di forza o di debolezza di ogni squadra.
5. La concezione platonica dell’arte La Repubblica presenta, nel libro X, una celebre digressione sull’arte, che si conclude con l’esclusione di questa disciplina dall’educazione dei filosofi. I motivi per cui Platone condanna l’arte sono fondamentalmente due: uno di tipo metafisico-gnoseologico e uno di tipo pedagogico-politico. Per quanto riguarda il primo motivo, Platone ritiene che l’arte sia sostanzialmente l’«imi- L’arte come tazione di un’imitazione» (mímesis miméseos), «di tre gradi lontana dal vero» (Repubblica, «imitazione di un’imitazione» 602c), in quanto consiste nel riprodurre l’immagine di cose e di eventi naturali che, a loro volta, sono riproduzioni delle idee. Anziché stimolare l’anima ad avvicinarsi alle idee, l’arte tende quindi a incatenarla a questo mondo, che, come abbiamo visto, secondo l’ontologia platonica si configura come una realtà inferiore, come una buia caverna dalla quale l’essere umano deve cercare di uscire. Inoltre l’arte, sostanziandosi soltanto di immagini, possiede il valore conoscitivo più basso, risultando totalmente aliena dalla misurazione matematica, la quale costituisce il primo livello che consente di allontanarsi dalle percezioni soggettive e di accostarsi all’ambito della verità oggettiva. Questa critica non vale per alcune forme di musica, la quale (come abbiamo visto) viene L’eccezione inserita da Platone nel programma educativo dei governanti sia per i suoi aspetti matema- della musica tici (si pensi agli accordi musicali, o alle leggi che presiedono la composizione di una melodia), sia per i suoi aspetti di rigore morale. Infatti, se alcune antiche forme di musica sembrano a Platone indurre alla mollezza e alla femminilità, altre gli paiono invece, con le loro sfumature marziali, contribuire a educare l’animo alla fortezza e al coraggio. Per quanto riguarda il secondo motivo di condanna dell’arte, Platone ritiene che essa pos- Gli effetti sa corrompere gli animi. Se tutti gli uomini devono tenere a bada le emozioni, ciò vale a negativi dell’arte maggior ragione per i governanti; ma l’arte incatena l’animo alle passioni, sia rappresentando (come accade nella commedia) individui in preda a istinti bassi, volgari e incontrollati, sia mostrando (come nella tragedia) un mondo dominato dal fato, in cui gli uomini sono ridotti a passivi spettatori-esecutori di una realtà necessaria e immodificabile. Ai due motivi esaminati se ne aggiunge un terzo di matrice storico-culturale. Infatti, die- Il rifiuto della tro la battaglia platonica contro l’arte c’è anche il desiderio di sbarazzarsi di una forma di cultura poetica cultura che prima della nascita del pensiero filosofico aveva improntato l’educazione giovanile, e che anche in seguito – in contrasto con la filosofia, e in particolare con la filosofia di Platone – avrebbe continuato a rivendicare il proprio ruolo formativo. Questo indirizzo culturale aveva la sua massima espressione nella poesia, e per Platone il primato dei poeti, primi fra tutti Omero ed Esiodo, doveva essere sostituito dal primato dei filosofi. La critica platonica contro l’arte non tocca, come sappiamo, i miti. Essi non sono visti come Il valore riproduzioni imitative del mondo sensibile, ma piuttosto come nobili tentativi di rappre- del mito sentare alla mente (e non ai sensi) contenuti che vanno al di là di ciò che è empirico, come i destini delle anime e le idee. La condanna platonica riguarda dunque, in ultima analisi, gli usi impropri e distorti Bellezza, bontà dell’arte, o le concezioni erronee della stessa (ad esempio quella sostenuta dai sofisti), ma e verità non tutta l’arte di per sé. Infatti, quando l’arte sia assoggettata alla filosofia, quando risulti momento di espressione della verità, quando costituisca una via d’accesso alle idee, allora non è affatto da rigettare.
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ESERCIZI
Da questo punto di vista Platone accoglie l’ideale greco della kalokagathía (termine composto dalle parole kalós kái agathós, ovvero “bello e buono”), secondo il quale la bellezza è la forma esteriore della bontà, e ciò che è bello e buono non può essere che vero. Se il Bene coincide con il Bello, allora belle sono le idee nella loro immodificabile perfezione e, reciprocamente, ciò che è davvero bello non può che essere buono (e vero). In altre parole, dove c’è perfetta e autentica bellezza non possono esserci né male né inganno: in questo senso la bellezza sensibile non è un mero tratto esteriore ma, dove risplende, aiuta a conoscere la bellezza superiore del mondo ideale.
Il carattere Platone sviluppa quindi la propria concezione del bello e dell’arte in contrapposizione oggettivo all’estetica edonistica e relativistica dei sofisti. In linea con la sua netta e radicale diffidendel bello
za verso tutto ciò che è individuale, e dunque sfugge a una valutazione oggettiva, egli ritiene che il bello non possa essere semplicemente ciò che procura piacere. Per questo propone una concezione oggettiva del bello, secondo cui le cose sono belle in virtù del loro rapporto con l’idea del bello. In altre parole, la bellezza delle cose mondane è parziale, ma si fonda sulla bellezza perfetta che si trova nel mondo delle idee e, proprio in virtù di questo fondamento, è capace di riavvicinare l’anima alle idee.
)
Per l’esposizione orale
• Spiega in che senso, per Platone, l’arte sia “imitazione di imitazione” e chiarisci perché egli sia convinto che corrompa gli animi. SNODI PLURIDISCIPLINARI educazione civica
Sulla base di considerazioni sia ontologiche sia educative, Platone afferma che l’arte non può essere totalmente libera: nei casi in cui non sia volta all’autentico bene, essa va infatti “censurata”. Ben diversa sembra essere la posizione della nostra Carta costituzionale, che all’articolo 33 recita: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Quali sono i princìpi che sostengono, rispettivamente, la posizione di Platone e quella difesa dalla Costituzione italiana? ti sembrano tutti legittimi? perché?
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 DALLE IDEE ALLO STATO: I DIALOGHI DELLA MATURITÀ
La teoria delle idee La genesi della teoria L’origine della teoria delle idee va ricercata nel tentativo di Platone di approfondire il concetto di “scienza”. Superando sia il relativismo sofistico sia l’insegnamento di Socrate, per “scienza” Platone intende infatti un sapere concettuale che ha i caratteri dell’immutabilità e della perfezione. Non potendo quindi identificare l’oggetto proprio della scienza con le realtà mutevoli e imperfette di cui facciamo esperienza nel mondo sensibile, egli perviene alla nozione di
• idea
(in greco idéa o éidos, termini entrambi traducibili con “figura”, “aspetto”, “forma”) realtà ontologica a sé stante, immutabile ed eterna, che funge da modello perfetto (“paradigma”, per usare un’espressione platonica) delle cose molteplici e imperfette di questo mondo.
Nel loro complesso, per Platone le idee costituiscono una zona dell’essere diversa da quella in cui viviamo, alla quale egli dà il nome
• iperuranio
mitica regione “sovra-celeste” (dal greco hypér, “sopra”, “oltre”, e ouranós, “cielo”) nella quale risiedono le idee, ovvero le sostanze immutabili che costituiscono l’oggetto della scienza. Poiché per gli antichi il cielo racchiudeva tutto lo spazio, per Platone l’iperuranio era probabilmente una dimensione ontologica a-spaziale e immateriale.
La prospettiva dualistica Dividendo l’essere in due zone distinte, la dottrina delle idee costituisce una forma di
• dualismo
prospettiva che spiega il mondo o la realtà in base a due princìpi distinti, talvolta opposti.
Nel caso di Platone, si può parlare non soltanto di dualismo ontologico (perché le cose sensibili e le idee costituiscono due diversi tipi di essere), ma anche di dualismo gnoseologico, perché alle cose e alle idee corrispondono due diversi tipi di conoscenza (in greco ghnósis):
• opinione (dóxa) / scienza (epistéme)
le due principali forme di conoscenza individuate da Platone; si distinguono l’una dall’altra per il grado di stabilità e certezza che ne caratterizza gli oggetti: l’opinione, o dóxa, è un sapere mutevole e imperfetto, perché si rivolge alle cose (mutevoli e imperfette) che percepiamo mediante i sensi; la scienza, o epistéme, è invece un sapere certo e immutabile, in quanto ha come oggetto le idee, essenze stabili e modelli perfetti delle cose sensibili.
Il rapporto tra le idee e le cose Il dualismo di Platone, tuttavia, non deve essere inteso in maniera troppo rigida: pur evidenziando la distinzione delle idee rispetto alle cose, egli ne afferma infatti anche gli intrinseci rapporti e la sostanziale “consanguineità” (synghéneia). Più precisamente, nelle idee Platone tende a vedere sia la causa delle cose (la loro ragion d’essere) sia il criterio per conoscerle o pensarle. Il rapporto tra idee e cose si configura così come un rapporto di:
• mimèsi
(in greco mímesis, “imitazione”) la condizione per cui le cose sensibili imitano i loro modelli ideali;
• metèssi
(in greco méthexis, “partecipazione”) la condizione per cui le cose sensibili prendono parte o partecipano delle loro essenze ideali;
• parusìa
(in greco parousía, “presenza”) la condizione per cui nelle cose sensibili sono attivamente presenti le idee: «Nient’altro rende bella una cosa – afferma Platone – se non la presenza [in essa] del bello in sé» (Fedone, 100d).
I tipi di idee Platone distingue due tipi fondamentali di idee: le idee-valori, che corrispondono ai supremi princìpi etici, estetici e politici (il Bene, la Bellezza, la Giustizia), e le idee matematiche, che corrispondono alle entità e ai princìpi dell’aritmetica e della geometria (l’Uguale, il Quadrato ecc.). Egli elenca talvolta anche le idee di cose naturali e le idee di cose artificiali. Le idee sono organizzate in modo gerarchico-piramidale, con le idee-valori in alto e al vertice la cosiddetta
• idea del Bene
l’idea delle idee, il supremo valore da cui tutte le altre idee dipendono. Il Bene non si identifica con un Dio-persona, poiché non crea le idee (che sono eterne), ma si limita a comunicare loro la sua perfezione, rimanendo comunque “superiore” a esse.
La conoscenza delle idee Indagando come gli uomini possano giungere a conoscere le idee, Platone mette a punto un’articolata teoria della conoscenza. Questa si
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divide (come già detto) in due gradi principali: l’opinione o dóxa (v.), che si rivolge al mondo sensibile, e la scienza o epistéme (v.), che si rivolge al mondo intelligibile. Questi due gradi si dividono a loro volta in altri due sotto-gradi, per cui, complessivamente, la conoscenza può essere rappresentata come una linea divisa in quattro segmenti:
• eikasía
letteralmente, “congettura” o “immaginazione”; è il grado di conoscenza più basso, che ha come oggetto le immagini delle cose sensibili;
• pístis
letteralmente, “credenza”; è il secondo grado di conoscenza, che ha come oggetto le cose del mondo così come ci vengono testimoniate dai sensi;
• diánoia
letteralmente, il “pensare” nel senso di “ragionare”; è la conoscenza razionale di tipo matematico o discorsivo, che ha per oggetto le idee matematiche e la loro concatenazione in dimostrazioni e ragionamenti. Più precisamente, la diánoia procede collegando alcune premesse o ipotesi (assunte come vere) alle loro conseguenze necessarie: il termine (composto dalla preposizione diá, “attraverso”, e dal sostantivo noús, “intelletto”) indica proprio la capacità di “dis-correre”, cioè di passare da una nozione all’altra nell’articolazione del ragionamento;
• nóesis
letteralmente, “intelligenza” (dal verbo noéo, “penso”, ma anche “vedo”); è il grado più alto di conoscenza: l’intelligenza filosofica che “vede” o “intuisce” le idee-valori.
Ma com’è possibile la conoscenza razionale (la scienza o epistéme), dal momento che le idee (e soprattutto le idee-valori) non possono derivare dai sensi? Per Platone le idee sono l’oggetto di una “visione della mente”, che il filosofo spiega mediante la dottrina-mito della «reminiscenza» o «anàmnesi»: prima di calarsi nel corpo, l’anima vive, disincarnata, nel mondo delle idee, dove può contemplare i modelli perfetti delle cose; una volta discesa nel nostro mondo, essa conserva un ricordo sopito di quanto ha visto e il contatto con le cose sensibili le fornisce lo stimolo per richiamarlo alla memoria. Per Platone, dunque, «conoscere è ricordare». Su queste basi si può affermare che la gnoseologia platonica è una forma di
• innatismo
teoria che individua l’origine della conoscenza in elementi “innati”, ovvero in idee o concetti (oppure in princìpi o “metri” di giudizio) presenti da sempre nel soggetto conoscente, in quanto ad esso connaturati. Opposta all’innatismo è la prospettiva dell’“empirismo” (dal greco empeiría, “esperienza”), secondo cui la fonte della conoscenza è da ricercarsi nell’esperienza sensibile.
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La concezione dell’amore e dell’anima L’amore come desiderio di bellezza e di sapienza A muovere gli esseri umani verso la conoscenza delle idee è l’amore o
• éros
per i Greci, la forza unificatrice e armonizzatrice che costituisce il fondamento non soltanto dell’amore sessuale, ma anche dell’amicizia, della concordia politica e, in Platone, del desiderio di conoscere.
Nel Simposio, Platone presenta Éros (personificazione dell’amore) come un dèmone figlio di Penía (Povertà) e di Póros (Abbondanza). Egli attribuisce dunque all’amore i tratti di una condizione intermedia e di una tensione verso qualcosa di cui ci si riconosce mancanti e che pertanto si desidera, tendendovi con tutte le proprie forze. Attivato dalla bellezza sensibile, l’éros platonico spinge l’anima verso gradi sempre più elevati di bellezza, fino ad arrivare alla bellezza ideale: in questo senso esso è amore per la sapienza e coincide con la filosofia.
La dottrina dell’anima La dottrina della reminiscenza, riferendosi a una conoscenza prenatale delle idee, implica l’esistenza nell’essere umano di un principio immortale, identificato con
• l’anima
(dal latino anima, che ha la stessa radice del greco ánemos, “vento”, “soffio vivificante”, e che equivale al greco psyché) sostanza incorporea che si muove da sé, vive e dà vita, ed è per sé stessa immortale.
Nell’anima, Platone distingue tre parti: una razionale, una irascibile e una concupiscibile, che nel celebre mito del carro alato sono rappresentate, rispettivamente, dall’auriga, dal cavallo bianco e dal cavallo nero. La parte razionale (che risiede nel cervello) ha il compito di guidare e armonizzare le altre due parti, e la sua virtù è la saggezza; la parte concupiscibile o desiderante ha sede nel ventre, si esprime nell’amore «per i cibi, le bevande e i piaceri amorosi» e ha come virtù specifica la temperanza, intesa come assoggettamento degli impulsi sensibili alla ragione; la parte irascibile o coraggiosa ha sede nel petto, ha come virtù il coraggio e può essere assimilata (sia pure con una certa cautela critica) alla volontà che dà sostegno alla parte razionale. All’immortalità dell’anima è dedicato il Fedone, dialogo in cui Platone espone anche la propria concezione della filosofia come preparazione alla morte. Nel mito di Er esposto nella Repubblica, Platone spiega inoltre il destino individuale come frutto di una scelta effettuata dall’anima prima di incarnarsi nel corpo.
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
La teoria dello Stato e la concezione dell’arte Lo Stato ideale Nell’accordo e nell’equilibrio tra le parti dell’anima Platone indica la realizzazione della giustizia nell’individuo: un uomo, cioè, può dirsi giusto quando ciascuna delle parti in cui è divisa la sua anima adempie alla propria specifica funzione. Questo concetto di giustizia come accordo e armonia si ritrova anche a fondamento della descrizione platonica dello Stato ideale, che dovrà essere, essenzialmente, uno Stato giusto. E come nell’anima Platone distingue tre parti, altrettante ne individua all’interno della comunità umana, che è costituita dalla classe dei governanti (la cui virtù è la saggezza), la classe dei guerrieri (la cui virtù è il coraggio) e la classe dei lavoratori o produttori (la cui virtù è la temperanza, condivisa tuttavia anche con le altre classi). Uno Stato sarà giusto quando ogni cittadino svolgerà nel miglior modo possibile la funzione che gli spetta. Una particolare attenzione è dedicata da Platone al compito dei governanti: questi devono essere scelti tra i filosofi, ovvero tra quanti hanno saputo elevarsi ai gradi più alti della conoscenza e proprio per questo motivo sono capaci di renderne partecipi i loro simili.
Tra comunismo e aristocraticismo Affinché lo Stato possa funzionare bene, secondo Platone è necessario che per le classi superiori venga eliminata la proprietà privata: governanti e guerrieri vivranno dunque in una condizione di comunanza di beni, in modo da potersi occupare della collettività e del bene comune senza esserne distolti da interessi individuali. Per questa caratteristica (e limitatamente alle classi superiori) lo Stato platonico è assimilabile a una forma di
• comunismo
in generale, un’organizzazione politica in cui la proprietà privata è abolita, e che persegue l’ideale dell’uguaglianza economica e politica di tutti i cittadini.
Platone può essere considerato il primo comunista della storia del pensiero, sebbene il comunismo da lui professato, di manifesta ascendenza spartana, non coesista con ideali egualitari, bensì con una visione gerarchica della società, che prevede (secondo il mito delle stirpi) la sottomissione degli individui “ferrei” o “bronzei” agli individui “aurei” e “argentei”. Lo Stato ideale descritto da Platone è dunque una
• aristocrazia
letteralmente, “governo dei migliori” (dal greco áristoi, “migliori”, e krátos, “potere”); in ge-
nerale, forma di organizzazione politica in cui il potere è detenuto da un ristretto numero di persone, considerate “migliori” per via della famiglia di appartenenza o della ricchezza posseduta.
Nel caso di Platone, i “migliori” a cui spetta la guida dello Stato non sono né i nobili né i ricchi, ma i filosofi, tanto che si può parlare di “sofocrazia” (governo dei sapienti) o di “noocrazia” (governo dell’intelligenza). Se l’aristocrazia è la forma “fisiologica” di uno Stato, le forme “degenerate” sono la timocrazia (governo fondato sull’“onore” e sulla conseguente aspirazione dei governanti all’affermazione di sé), l’oligarchia (governo di “pochi” fondato sul censo e sulla conseguente avidità dei governanti), la tirannide (governo di un solo uomo, schiavo delle proprie passioni e senza scrupoli) e la
• democrazia
letteralmente, “governo del popolo” (dal greco démos, “popolo”, e krátos, “potere”); in generale, forma di organizzazione politica in cui il potere non è conferito né a una sola persona (monarchia), né a pochi (oligarchia o aristocrazia), bensì a tutti.
Implicando la partecipazione di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica, la prospettiva democratica presenta uno stretto legame con le nozioni di “uguaglianza” (di diritti) e di “libertà”. Platone, che si muove invece in un orizzonte di pensiero aristocratico, attribuisce alla democrazia un’accezione negativa e la identifica con la “licenza”, ovvero con una condizione in cui ciascuno ha la possibilità di fare il proprio comodo.
L’arte come «imitazione di un’imitazione» Nella Repubblica Platone descrive anche l’educazione che deve essere impartita ai filosofi perché possano diventare reggitori dello Stato. Dal loro percorso educativo egli esclude l’arte, poiché la considera una mera «imitazione di un’imitazione», in quanto realizza immagini sensibili di cose e di eventi che, a loro volta, sono “copie” delle idee. L’arte, inoltre, rimane ancorata all’esperienza sensibile, ovvero ai livelli più bassi della conoscenza, fatta eccezione per la musica. A ciò si aggiunga che certe espressioni artistiche, come il teatro e la poesia, rappresentano le passioni che pervadono l’animo umano, e possono quindi esercitare un’influenza negativa sui giovani. La condanna platonica dell’arte non investe però i miti, considerati e usati da Platone come nobili tentativi di rappresentare alla mente contenuti che vanno oltre la realtà empirica. L’arte risulta perciò utile a condizione che sia assoggettata alla filosofia e si proponga come via d’accesso alle idee.
249
MAPPE
CAPITOLO 2 DALLE IDEE ALLO STATO: I DIALOGHI DELLA MATURITÀ
La teoria delle idee LE IDEE costituiscono una
rispetto alle cose sono in un rapporto di
si distinguono in
“zona” dell’essere diversa dalla nostra: l’iperuranio
idee-valori (etiche, estetiche e politiche) idee matematiche idee di cose naturali idee di cose artificiali
mimèsi (le cose imitano le idee) metèssi (le cose partecipano delle idee) parusìa (le idee sono presenti nelle cose)
organizzate secondo una
gerarchia con al vertice l’idea del Bene
LA CONOSCENZA
è
reminiscenza
si distingue in
conoscenza sensibile (dóxa)
conoscenza razionale (epistéme)
che a sua volta si divide in
che a sua volta si divide in
congettura o immaginazione (immagini delle cose)
credenza (cose sensibili)
ragione matematica (idee matematiche)
intelligenza filosofica (idee-valori)
La concezione dell’amore e dell’anima Ciò che spinge alla conoscenza delle idee è
L’AMORE che è
che cerca
che culmina nel
desiderio di ciò che non si ha
la bellezza (da quella corporea fino a quella ideale)
desiderio di sapienza (filosofia)
personificato da
Eros, “demone” figlio di Povertà e Abbondanza
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Ciò che rende possibile la conoscenza delle idee è
L’ANIMA la quale è
la parte immortale dell’essere umano
divisa in tre parti
giusta
che
quando
razionale (la ragione, che guida le passioni e gli istinti con saggezza) irascibile (la passione che sostiene la ragione, e la cui virtù è il coraggio) concupiscibile (l’istinto, la cui virtù è la temperanza)
prima di incarnarsi ha visto le idee nell’iperuranio e quindi
può ricordarle
ogni sua parte svolge la propria funzione
La teoria dello Stato e la concezione dell’arte LO STATO IDEALE è
diviso in tre classi
governanti o reggitori (la cui virtù è la saggezza)
guerrieri o difensori (la cui virtù è il coraggio)
lavoratori o produttori (la cui virtù è la temperanza)
giusto
di tipo aristocratico
quando ogni cittadino svolge il proprio ruolo
con i filosofi al governo
Dalla formazione dei filosofi (futuri reggitori dello Stato) Platone esclude L’ARTE in quanto
è un’imitazione di un’imitazione
è ancorata a livelli conoscitivi bassi
rafforza le passioni
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CAPITOLO 2 DALLE IDEE ALLO STATO: I DIALOGHI DELLA MATURITÀ LEGGERE UN CLASSICO Platone, Fedro, pp. 298-314
La teoria della conoscenza
La teoria della conoscenza come reminiscenza, ovvero come ricordo, è una delle più note e suggestive tra quelle platoniche. L’anima, secondo Platone, apprende ogni cosa nel periodo che precede la propria vita terrena ma, appena prima di incarnarsi in un corpo, dimentica tutto ciò che ha visto. Essa ne conserva però un ricordo sopito, che è possibile far riaffiorare grazie a stimoli e domande opportune. TESTO
1
Conoscere è ricordare
(Menone)
IL TESTO NELL’OPERA Menone – personaggio il cui nome dà il titolo al dialogo – è un giovane dell’alta società della Tessaglia, colto e insieme desideroso di imparare. Egli sottopone a Socrate la seguente questione generale: si può insegnare la virtù? Anziché rispondere, Socrate osserva che, per poter stabilire se la virtù si possa insegnare, occorre prima comprendere in che cosa essa consista. I due si avventurano così nella ricerca di una definizione generale di “virtù”, che verrà infine identificata con la «retta opinione». Nel testo seguente Menone sottopone a Socrate un interrogativo apparentemente irrisolvibile: come si può desiderare di conoscere qualcosa che ancora si ignora? La risposta di Socrate richiede un cambiamento di prospettiva: bisogna pensare che la nostra anima non sia vuota, ma possieda già una qualche forma di conoscenza, che essa ha acquisito nella vita ultraterrena precedente la sua “caduta” nel corpo. Il problema MEnonE Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E posto da quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai 2 Menone
ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi? SoCRatE Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico pro- 4 poni! L’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa 6 perché neppure sa cosa cerca.
L’introduzione MEnonE E non ti sembra, Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto? alla teoria SoCRatE A me no! MEnonE
Dimmi perché!
SoCRatE Certo! Perché ho sentito dire da uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine…
252
Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
8 10
Cosa dicevano? 12 Cose vere, mi sembra, e belle. MEnonE Quali? E chi sono coloro che le dissero? 14 SoCRatE Sacerdoti e sacerdotesse, quelli a cui stava a cuore saper rendere ragione del proprio ministero. E quelle stesse cose dice anche Pindaro e molti altri poeti, i poeti divini. 16 MEnonE
SoCRatE
La concezione E questo dicono – ma vedi se ti sembra che dicano il vero –; dicono, dunque, che l’anima della conoscenza umana è immortale, e che ora essa ha un suo compimento – il che si dice morire –, ora 18
rinasce, ma che mai essa va distrutta […]. L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]! […] MEnonE Sì, Socrate, ma in che senso dici che noi apprendiamo e che quello che denominiamo apprendere è reminiscenza? Puoi insegnarmi che sia davvero così?
20 22 24 26 28
La concezione SoCRatE L’ho detto, Menone, poco fa che sei capace di tutto! Certo, mi chiedi ora s’io ti posdell’insegnamento sa insegnare, proprio a me che sostengo non esistere insegnamento, ma reminiscenza, per 30
vedermi cadere subito in contraddizione con me stesso. MEnonE No, per Zeus, Socrate, non avevo affatto questa intenzione, ma l’ho fatto per abitu- 32 dine. E allora, se puoi, comunque sia, dimostrami che davvero è così, dimostramelo! SoCRatE Non è certo facile, ma, per amor tuo, ugualmente mi c’impegno. Chiama uno di 34 questi molti servi del tuo séguito, quello che vuoi, sì che proprio in lui possa darti la dimostrazione che desideri. 36 MEnonE Benissimo. (Menone, 80d - 82b, trad. it. di F. Adorno, in Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1971, vol. 5, pp. 277-279)
Il problema posto da Menone (rr. 1-7) Nelle battute immediatamente precedenti, Menone ha scherzosamente paragonato Socrate a una torpedine marina, che fa intorpidire (cioè “immobilizza”, gettandole nel dubbio) le persone che la toccano (cioè i suoi interlocutori). Di rimando Socrate nota che, mentre la torpedine fa intorpidire senza intorpidirsi anch’essa, egli si ritrova invece confuso quanto coloro con cui dialoga: «Anche adesso – egli osserva –, riguardo alla virtù, io non so che cosa sia». È a questo punto che Menone esprime il suo dubbio: se non si sa che cosa si sta cercando, come lo si può cercare? Sebbene definisca «eristico» questo ragionamento (r. 4), Platone sa bene di trovarsi di fronte a un’obiezione per nulla oziosa, alla quale è necessario rispondere. L’introduzione alla teoria (rr. 8-16) L’«argomento eristico» proposto da Menone viene confutato da So-
crate mediante un racconto attribuito a «uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine» (r. 11). Il richiamo a un sapere antico e autorevole (posseduto da sacerdoti, sacerdotesse e poeti) mette in evidenza l’importanza del tema e introduce una narrazione dai tratti mitici, a cui è necessario ricorrere dal momento che l’argomento trattato supera le possibilità della ragione umana. La concezione della conoscenza (rr. 17-28) Attraverso le parole di Socrate, Platone espone qui due dottrine strettamente collegate tra loro: la prima è quella (orfico-pitagorica) della metempsicosi, cioè della trasmigrazione delle anime, le quali dopo la morte sono sottoposte a un ciclo continuo di rinascite che si protrae fino alla completa espiazione delle loro colpe. La teoria della metempsicosi è necessaria per introdurre
TESTI PLATONE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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la concezione della conoscenza come reminiscenza (in greco anámnesis), secondo cui il «cercare» (r. 25) e l’«apprendere» (r. 26) consistono nel ricordare qualcosa che l’anima ha già conosciuto nella sua vita ultraterrena, e che giace dimenticato nel profondo di essa. Il sapere richiede comunque fatica e impegno, poiché l’elemento sensibile da cui è innescato il ricordo funge soltanto da punto di partenza di un vero e proprio “percorso”, che si snoda lungo le connessioni che legano tutti gli aspetti della natura e che richiede coraggio e impegno. La concezione dell’insegnamento (rr. 29-36) Menone non appare convinto e chiede a Socrate di “insegnargli” in che senso apprendere significhi ricordare. A questa richiesta il filosofo risponde con la sua consueta ironia, dicendosi ammirato per come il giovane sta cercando di indurlo a contraddirsi, facendo-
gli ammettere in qualche modo che è possibile insegnare. In queste righe si introduce un tema delicato: il fatto che apprendere significhi ricordare implica che l’insegnamento non possa essere concepito come un mero trasferimento di nozioni dal maestro all’allievo, ma consista piuttosto nella proposta di suggerimenti, sollecitazioni e tracce di ricerca che l’allievo dovrà cogliere e seguire, muovendosi con autonomia e spirito critico. Nelle pagine seguenti Socrate farà dimostrare a un giovane servo di Menone, ignaro di matematica, il teorema di Pitagora: aiutato da domande efficaci, il servo riuscirà nel compito, mostrando che chiunque, adeguatamente supportato, può giungere alla conoscenza di qualunque contenuto, a riprova del fatto che quel contenuto si trova già in lui e deve soltanto essere fatto “riemergere”.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO In modo un po’ provocatorio, Platone fa dire a Socrate che l’insegnamento “non esiste”. Richiamando brevemente la teoria della conoscenza come «anamnesi», chiarisci il senso di questa affermazione; quindi esponi e argomenta la tua personale opinione al riguardo: quali sono, a tuo avviso, i meccanismi dell’apprendimento e della ricerca? Di conseguenza, in che cosa dovrebbe consistere un metodo d’insegnamento efficace? (max 30 righe)
Eros e filosofia
Nella tradizione greca antica, il simposio era un momento conviviale che seguiva un banchetto e nel quale un gruppo di amici gustava vino, solitamente per celebrare un evento importante nella vita della pólis: una festa civile o religiosa, oppure una vittoria sportiva o poetica. All’epoca di Platone, soprattutto per la presenza di giovani appartenenti alle famiglie più in vista della città, il simposio aveva acquistato anche un valore educativo e politico, perché costituiva un importante momento di confronto e, di conseguenza, di formazione della futura classe dirigente. È proprio questo lo sfondo del Simposio di Platone, uno dei testi più emozionanti e suggestivi dell’intera tradizione occidentale, che ci guida lungo i sentieri dei “misteri di Eros”. TESTO
2
Il discorso di Socrate-Diotìma: l’amore come demone
(Simposio)
IL TESTO NELL’OPERA In un banchetto tenutosi in casa del poeta tragico Agatone i convitati, terminata la cena, discutono su Eros. Il primo a prendere la parola è Fedro, discepolo di Socrate, il quale elogia Eros come il più antico degli dèi, che dona agli esseri umani il bene maggiore: l’amore. Segue l’intervento del retore Pausania, secondo il quale l’amore può essere di due tipi: volgare, e apprezzare solamente il corpo, o celeste, e avere come fine ultimo la virtù. Per il medico ErissimaAUDIOLETTURA co Eros è una forza generatrice che opera non soltanto negli esseri umani, ma anche negli animali e nei vegetali. Tocca, poi, al commediografo Aristofane, il quale racconta il mito degli androgini. Contrariamente a Fedro, Agatone descrive Eros come il dio più giovane, oltre che il più bello e il più buono, portatore di valori come la libertà, la giustizia, la sapienza, il coraggio e la temperanza.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
Nel testo seguente è riportato il discorso di Socrate, il quale, prendendo le distanze dai precedenti interventi, riferisce quanto ha appreso su Eros da Diotìma, sacerdotessa di Mantinea e depositaria delle dottrine ultime sul senso e sulla verità dell’esperienza amorosa. Eros come [Diotima] mi dimostrò, confutandomi con quegli stessi argomenti che io ho ora usati condemone tro costui [Agatone], come egli [Eros], secondo lo stesso mio ragionamento, non fosse né 2
bello né buono. Ed io: – Che mai dici, o Diotima? Amore, quindi, è brutto e cattivo? E lei: – Non dire eresie, bada! Pensi forse che, ciò che non sia bello, debba essere necessariamente brutto? – Ma certo. – E quel che non sia sapiente, per forza ignorante? O non avverti che c’è qualcosa di mezzo fra sapienza ed ignoranza? – Che cosa? – L’opinare rettamente1, senza aver modo di darne ragione, non sai, disse, che non è sapere? Perché, una cosa irrazionale, come mai potrebbe essere scienza? Ma neppure, d’altra parte, è ignoranza; perché, come potrebb’essere ignoranza ciò che coglie il vero? Quindi, la retta opinione è una cosa di questo genere: un che di mezzo fra comprensione ed ignoranza. – È vero, risposi, quel che dici. – Non costringere dunque ciò che non è bello ad esser senz’altro brutto, e ciò che non è buono ad esser cattivo. Così anche Amore, perché tu stesso convieni che non è né buono né bello, cionondimeno non credere che debba esser brutto e cattivo: bensì qualcosa di mezzo tra questi estremi. […] – E allora come potrebbe mai esser dio, chi non partecipa di bellezza e di bontà? – In nessun modo, a quanto pare. – Vedi dunque che anche tu non credi che Amore sia un dio? – Ma allora, dissi, che mai sarebbe Amore? un mortale? – Niente affatto. – E allora che cosa? – Come prima, rispose: qualcosa di mezzo fra il mortale e l’immortale. – E cioè, Diotima? – Un gran dèmone, o Socrate; infatti ogni natura demonica sta di mezzo fra il divino e il mortale. – E che potenza ha? domandai.
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crifizi. Stando in mezzo tra loro, colma l’intervallo, in modo che l’universo risulti intrinsecamente collegato. Dalla sua mediazione procede anche tutta la mantica, e l’arte dei sacerdoti concernente i sacrifici, le iniziazioni e gl’incantesimi, e ogni specie di divinazione e di magia. Ché la divinità non viene a contatto con l’uomo, e solo per opera d’Amore ha luogo ogni commercio e colloquio dei numi coi mortali, sia nella veglia che nel sonno; e chi s’intende di tali cose è un uomo demonico, mentre chi è pratico d’altro, di qualsiasi arte o mestiere, è un volgare profano. Ora, questi dèmoni sono molti e di varia natura; e uno di essi è, anche, Amore. (Simposio, 201e - 203a, trad. it. di G. Calogero, Laterza, Roma-Bari 1996) 1. Cioè l’averne un’opinione corretta.
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TESTI PLATONE
Eros come – D’interprete e messaggero per gli dèi da parte degli uomini, e per gli uomini da parte degli 32 mediatore dèi, degli uni trasmettendo le preghiere e i sacrifizi, degli altri gli ordini e le ricompense dei sa-
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Eros come demone (rr. 1-31) Sulla figura di Diotima gli interpreti hanno formulato molte ipotesi. Quasi sicuramente si tratta di un personaggio inventato da Platone, il cui nome – che significa “Onore di Zeus” – si oppone a quello della cortigiana e amante di Alcibiade (uno dei protagonisti della vita pubblica e militare ateniese), Timanda, che significa “Onore dell’uomo”. La città di Mantinea richiama invece la “mantica”, cioè l’arte divinatoria. In generale, la figura di Diotima rappresenta uno sguardo inedito sulla questione dell’amore. E non è un caso che Platone affidi l’esposizione della verità su questo tema a una donna, per di più sacerdotessa e straniera: tre elementi di radicale alterità rispetto al contesto del simposio greco. Se normalmente Socrate interroga i suoi interlocutori per confutarli, nascondendosi dietro un’ironica ammissione di ignoranza, qui è effettivamente ignorante e vuole essere istruito da Diotima, che lo confuta in un dialogo serrato. In opposizione alla tesi di Agatone secondo cui Eros è bello, buono e possiede tutte le perfezioni, Diotima afferma che l’amore implica un vuoto da colmare, essendo desiderio di ciò che non si ha o desiderio di conservare ciò che si ha e si teme di perdere. L’amore ha dunque a che fare con la smania proveniente dal bisogno, con il senso di privazione e la paura della perdita. Ma la divinità
non può avere tali imperfezioni: essa non può mancare di nulla, non conosce lo sforzo, il tormento, la privazione. Per questo Eros non è un dio, ma un essere “intermedio” (un «dèmone», r. 29) tra bello e brutto, buono e cattivo. Non è bello, ma ama e desidera la bellezza, e pur non essendo un dio, non si accontenta di essere un mortale. Eros come mediatore (rr. 32-40) Da questo punto in poi Diotima abbandona il metodo dialogico e confutatorio, e avvia un “discorso lungo” (una macrologia), nello stile dei sofisti. Più avanti dichiarerà che Socrate non può procedere con le sue forze nello scambio di domanda e risposta, per cui si rende necessaria una sorta di “rivelazione”. La natura demonica di Eros rimanda qui al suo ruolo cosmologico («in modo che l’universo risulti intrinsecamente collegato», rr. 34-35) che va inteso nel contesto della tesi platonica sull’esistenza di due piani dell’essere, uno sensibile, soggetto al tempo, e uno intelligibile ed eterno. La «mantica» (mantiké téchne, da mántis, “indovino”) è l’arte divinatoria, attraverso la quale nell’antichità si interpretavano alcuni segni naturali (fulmini, volo di uccelli, eventi celesti ecc.) o artificiali, rintracciando in essi premonizioni di eventi futuri. Platone la intende più genericamente come l’arte di potenziare le facoltà conoscitive umane.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Eros è descritto da Platone come un «messaggero per gli dèi da parte degli uomini, e per gli uomini da parte degli dèi» (rr. 32-33). Quale idea dell’amore suggerisce la personificazione usata dal filosofo? Che cosa pensi di questa concezione? Rispondi in un testo scritto, in cui attingi anche alla tua esperienza personale (max 20 righe).
TESTO
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Le origini di Eros (Simposio) Incalzata da una domanda di Socrate, Diotima prosegue nella sua spiegazione dell’autentica natura dell’amore. Platone espone qui il cosiddetto “mito della nascita di Eros”.
Il figlio – E chi sono, interruppi, suo padre e sua madre? d’Ingegno e – È piuttosto lungo, rispose, a raccontare, tuttavia te lo dirò. In occasione della nascita di 2 di Povertà
Afrodite, gli dèi si trovavano a banchetto, e tra gli altri c’era anche il figlio di Saggezza [Metis], Ingegno [Poros]. Dopo che ebbero pranzato, venne a chieder l’elemosina, come accade quan- 4 do c’è un festino, Povertà [Penìa]; e stava vicino alla porta. Ingegno, intanto, ubriaco di nettare (ché il vino non c’era ancora), entrato nel giardino di Zeus, vi era stato còlto da un son- 6 no profondo. Allora Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno,
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
gli si sdraia accanto e concepisce Amore. Ecco perché Amore, generato durante le feste natalizie di Afrodite, è fin dalla nascita suo seguace e ministro, ed è insieme, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite. E come figlio d’Ingegno e di Povertà, ecco che destino gli è capitato. Anzitutto, è povero sempre, e tutt’altro che delicato e bello, come credono i più, ma anzi ruvido e ispido e scalzo e senza tetto; e abituato a sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire a ciel sereno sulle soglie e per le strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua convivenza con la miseria. Per parte del padre, d’altronde, è ardente insidiatore del bello e del buono, valoroso e impavido e veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di capire e ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore ed esperto di filtri e sofista. E non è nato né immortale né mortale, ma nello stesso giorno ora germoglia e vive, quando gli va bene, ora muore, e poi di nuovo risuscita grazie alla natura del padre; e quel che acquista gli sfugge subito di mano, sicché Amore non è mai né povero né ricco.
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Eros come Anche tra sapienza ed ignoranza, egli sta in mezzo: e la ragione è questa. Nessuno degli filosofo dèi filosofa, né aspira a diventar sapiente; lo è già, infatti; e se mai altri sia sapiente, non 22
filosofa. D’altra parte, nemmeno gl’ignoranti filosofano, né desiderano diventar sapienti; ché proprio questo, anzi, l’ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede invece perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno. – Ma allora, o Diotima, domandai, chi è che filosofa, se non sono né i sapienti né gli ignoranti? – Chiaro anche per un bambino questo, ormai: son quelli che stanno in mezzo tra gli uni e gli altri, e tra cui è anche Amore. La sapienza infatti è tra le cose più belle, e Amore è amore del bello; sicché è forza che Amore sia filosofo, e tale essendo stia nel mezzo tra il sapiente e l’ignorante. E anche di questo il motivo è nella sua nascita: perché è nato di padre sapiente e ricco di mezzi, e di madre non sapiente e povera. Questa dunque, caro Socrate, è la natura del dèmone.
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(Simposio, 203b - 204b, op. cit.)
Il figlio d’Ingegno e di Povertà (rr. 1-20) Il padre di Eros è Poros, “Ingegno” o “Espediente” o “Abbondanza”, il quale a sua volta è figlio di Metis, “Saggezza” o “Intelligenza astuta”. La madre di Eros è Penìa, “Povertà” o “Mancanza” (intesa come bisogno di ciò che Poros, in quanto Abbondanza, invece possiede). Il fatto che questa non partecipi al banchetto, trattenendosi sulla porta, simboleggia una situazione di esclusione; tuttavia, anche Penìa subisce in qualche modo l’influenza di Metis, dal momento che sa astutamente approfittare dell’ubriachezza di Poros: il che mostra come Eros sia seduzione e, in questa circostanza, imbroglio e manipolazione. In generale, Eros è amore e desiderio del bello, e per questo ha a che fare con Afrodite, dea della bellezza. L’amore è povertà che si
fa ingegno, assenza di risorse che si fa sforzo, desiderio che si adopera per possedere quello di cui ha bisogno. Soltanto la consapevolezza della mancanza può mettere in moto il desiderio e indurre ad approntare i mezzi (gli “espedienti” appunto) per colmarla. Eros conosce il fascino della compiutezza che gli viene dal padre (e in tal senso è risoluto, astuto e conquistatore) ma anche la natura povera e mai sazia della madre (e in tal senso è scalzo, non bello, escluso e mendicante). I due volti di Amore si contraddicono e si completano nello stesso tempo, facendo di lui l’intermediario tra la sfera del sensibile-umano e quella dell’intelligibiledivino: Eros consente così l’armonia (e in un certo modo il passaggio) tra mondi differenti, in una sorta di sospensione tra la morte e la vita.
TESTI PLATONE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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Eros come filosofo (rr. 21-34) Riprendendo gli elementi principali dell’immagine di Eros fin qui delineata, Platone li traduce in termini filosofici, affermando che la forma più alta dell’amore è la filosofia (etimologicamente intesa come desiderio del sapere). Chi ricerca il sapere non è né sapiente come la divinità (al-
trimenti non desidererebbe conoscere) né ignorante come gli uomini comuni (altrimenti non saprebbe neanche di non sapere), ma desideroso di autentica conoscenza. La consapevolezza dell’ignoranza è la condizione essenziale della ricerca.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Platone i filosofi anelano alla sapienza come a una «tra le cose più belle». In che cosa consiste per te la sapienza e quale valore assume nella tua vita? Riporta la tua esperienza personale in un testo scritto (max 30 righe).
La riflessione sulla giustizia e sul bene
Nella filosofia platonica la giustizia e il bene sono due temi saldamente intrecciati: su di essi poggia l’impianto narrativo della Repubblica, il dialogo in cui Platone espone la sua teoria dello Stato ideale. La conoscenza del bene è ciò che permette a chi governa la pólis di farlo secondo giustizia, trasferendo, cioè, nel corpo sociale l’equilibrio che caratterizza la sua anima. TESTO
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Il parallelismo tra lo Stato e l’individuo
(Repubblica)
IL TESTO NELL’OPERA Nel primo libro della Repubblica Platone introduce il tema della giustizia e confuta, per bocca di Socrate, la concezione sofistica secondo cui la giustizia sarebbe l’utile del più forte. Con il secondo libro si entra nel vivo del dialogo: Socrate propone l’analisi della giustizia a partire da una città ideale, i cui abitanti devono provvedere, ciascuno in base alla propria indole, al governo e alla difesa dello Stato, e alla produzione dei beni necessari. Per legittimare la gerarchia dei ruoli, nel terzo libro Socrate ricorre al “mito delle stirpi” e narra che in origine gli esseri umani erano suddivisi in tre stirpi, aurea, argentea e bronzea, corrispondenti, appunto, alle tre classi dei governanti-filosofi, dei guerrieri e dei produttori (contadini e artigiani). A conclusione di questo discorso, nel quarto libro, la giustizia viene ricondotta all’accordo tra le diverse classi di cittadini. Nel testo seguente Socrate spiega a Glaucone, fratello di Platone, che l’unico modo di conseguire l’armonia, per lo Stato come per l’anima (che, come lo Stato, ha una struttura tripartita), è quello di seguire la propria disposizione naturale e dedicarsi con impegno all’attività che le corrisponde. La giustizia – Un’immagine della giustizia e insieme una fonte di utilità era, Glaucone, in questa norsociale ma: chi è per natura calzolaio è giusto che faccia il calzolaio, senza svolgere altre attività, 2
e chi è falegname il falegname, e così via. – È evidente.
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La giustizia – E la giustizia, come sembra, era davvero qualcosa di simile: essa però consiste nell’ademindividuale piere i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un’azione che coinvolge vera- 6
mente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri, né che le parti dell’anima s’ingeriscano le une 8 nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato e amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua anima, come 10 perfettamente sintonizzano le tre armonie di una nota fondamentale, bassa alta media, anche
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
se per caso se ne inseriscono altre in mezzo: allora, dopo averle legate tutte ed essere divenuto uno di molti, temperante e armonico, eccolo ormai agire così, sia che la sua attività si rivolga ad acquistare beni materiali o a curare il corpo, sia che si svolga nell’àmbito politico o in contratti privati; e in tutto questo suo agire giudica e denomina giusta e bella l’azione che conserva e contribuisce a realizzare questo intimo equilibrio, e sapienza la scienza che la dirige; ingiusta l’azione che via via distrugge quell’equilibrio, e ignoranza l’opinione che la dirige. – Le tue affermazioni, Socrate, disse, sono assolutamente veraci. – Ebbene, feci io, non dovremmo sembrare affatto mentitori, credo, se dicessimo di aver trovato l’uomo giusto, lo Stato giusto e che cosa è in essi la giustizia. – No, per Zeus!, rispose. – Allora, possiamo dirlo? – Diciamolo pure.
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(Repubblica, IV, 443b - 444a, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1971)
La giustizia sociale (rr. 1-4) Nel secondo libro dell’opera Platone aveva fornito un elenco delle attività da svolgere nello Stato, esponendo lo stesso principio della disposizione naturale che viene qui ribadito: in uno Stato ci sono agricoltori, muratori, tessitori, calzolai, ma anche carpentieri, fabbri e molti altri artigiani. Ci sono poi cittadini addestrati per la difesa dello Stato e per la guerra, i guerrieri, o guardiani, e infine i governanti, o reggitori, scelti tra i filosofi. E ognuna di queste mansioni risponde a una disposizione naturale dell’individuo, che occorre assecondare il più possibile. La giustizia individuale (rr. 5-23) Dall’analisi della giustizia nello Stato si passa qui a quella della giustizia individuale, dato che la struttura dell’anima del singolo è analoga alla struttura dello Stato e che l’armonia della società dipende dall’armonia interiore dei singoli individui. Come è noto, l’anima per Platone è composta da tre parti: l’anima razionale, che si identifica con la ragione, l’anima irascibile, che comprende gli impulsi sia verso il bene sia verso il male, e l’anima concupiscibile, che è caratterizzata dai bisogni del bere, del mangiare, della sessualità ecc. Ora, l’essere umano è giusto quando ogni parte della sua anima adempie alla funzione che le è propria, cioè quando la parte razionale, sostenuta da quella irascibile,
comanda la parte concupiscibile. L’uomo giusto è dunque quello che riesce a instaurare un ordine dentro di sé, è colui che diventa «signore di se stesso» (rr. 9-10), armonizzando le tre parti della sua anima nello stesso modo in cui le tre note fondamentali di un accordo si armonizzano tra loro. Dopo aver raggiunto la propria armonia interiore ed essere divenuto «uno di molti» (r. 13, cioè dopo aver ricondotto a un tutto armonico le diverse componenti che formano il suo io), l’uomo giusto è pronto ad agire nello specifico campo della propria attività, qualunque essa sia. L’agire che conserva e realizza anche esteriormente l’armonia raggiunta interiormente è l’agire secondo giustizia, e la scienza che dirige l’azione giusta è la sapienza (sophía). Quest’ultima, nella Repubblica, è definita come la virtù della parte razionale dell’anima e implica giustizia e virtù: per questo la persona giusta è anche buona e sapiente. E poiché la sapienza è oggetto dell’amore del filosofo, essa è la virtù tipica di quella classe di cittadini che ha compiti di governo, i filosofi appunto. È ingiusto colui che, affidandosi all’opinione e non al sapere autentico, distrugge il proprio equilibrio interiore: l’ingiustizia individuale è il disaccordo delle tre parti dell’anima, così come l’ingiustizia in uno Stato è il disaccordo delle tre classi di cittadini che lo costituiscono.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Che cosa pensi della tesi secondo cui, nella società così come nel singolo, la giustizia ha a che fare con una forma di “armonia naturale”, in base alla quale le classi dei cittadini, da un lato, e le componenti dell’anima, dall’altro, fanno ciò che per natura devono fare? Argomenta la tua risposta in un testo scritto (max 30 righe).
TESTI PLATONE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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TESTO
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L’idea del Bene
(Repubblica)
Nel sesto libro della Repubblica Socrate (cioè Platone) sostiene che i governanti, per svolgere il loro compito, devono possedere la scienza del Bene. Tuttavia, definire “che cos’è” il Bene in sé sembra un’impresa molto difficile. Sollecitato a farlo dai suoi interlocutori, Socrate sposta il discorso sulla «prole del bene», cioè sul sole, esponendo la sua concezione mediante un’efficace analogia. Le cose [Socrate si rivolge a Glaucone] – Noi affermiamo che ci sono molte cose belle, e belle le e le idee definiamo col nostro discorso; e diciamo che ci sono molte cose buone e così via. […] E 2
poi anche che esistono il bello in sé e il bene in sé; e così tutte le cose che allora consideravamo molte, ora invece le consideriamo ciascuna in rapporto a una idea, che diciamo una, e ciascuna chiamiamo “ciò che è”. – È così. – E diciamo che quelle molte cose si vedono, ma non si colgono con l’intelletto, e che le idee invece si colgono con l’intelletto, ma non si vedono. – Senza dubbio. – Ora, qual è in noi l’organo che ci fa vedere le cose visibili? – La vista, rispose. […] – Ammettiamo che negli occhi abbia sede la vista e che chi la possiede cominci a servirsene, e che in essi si trovi il colore. Ma se non è presente un terzo elemento, che la natura riserva proprio a questo compito, tu ti rendi conto che la vista non vedrà nulla e che i colori resteranno invisibili. – Qual è questo elemento di cui parli? – Quello, risposi, che tu chiami luce. – Dici la verità, ammise. […]
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L’analogia tra – A quale dunque tra gli dèi del cielo puoi attribuire questo potere? Un dio la cui luce il sole e il Bene permette alla nostra vista di vedere nel miglior modo e alle cose visibili di farsi vedere? 14
– Quello, rispose, che tu e gli altri riconoscete: è chiaro che la tua domanda si riferisce al sole. […] – Puoi dire dunque, feci io, che io chiamo il sole prole del bene, generato dal bene a propria immagine. Ciò che nel mondo intelligibile il bene è rispetto all’intelletto e agli oggetti intelligibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili. – Come?, fece, ripetimelo. – Non sai, ripresi, che gli occhi, quando uno non li volge più agli oggetti rischiarati nei loro colori dalla luce diurna, ma a quelli rischiarati dai lumi notturni, si offuscano e sembrano quasi ciechi, come se non fosse nitida in loro la vista? […] Ma quando, credo, uno li volge agli oggetti illuminati dal sole, vedono distintamente e la vista, che ha sede in questi occhi medesimi, appare nitida. – Sicuro! – Allo stesso modo considera anche il caso dell’anima, così come ti dico. Quando essa si fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, ecco che lo coglie e lo conosce, ed è evidente la sua intelligenza; quando invece si fissa su ciò che è misto di tenebra e che nasce e perisce, allora essa non ha che opinioni e s’offusca, rivolta in su e in giù, mutandole le sue opinioni, e rassomiglia a persona senza intelletto. – Le somiglia proprio.
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Il carattere – Ora, questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà 30 straordinario la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene; e devi pensarla causa della scienza del Bene
e della verità, in quanto conosciute. Ma per belle che siano ambedue, conoscenza e veri- 32 tà, avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di loro sia quell’elemento. […] La condizione del bene dev’essere tenuta in pregio ancora maggiore. – Straordinaria de- 34 ve essere, rispose, la bellezza che gli attribuisci, se è il bene a conferire scienza e verità e 36 se le supera in bellezza […]. (Repubblica, VI, 507 b - 509 a, op. cit.)
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Le cose e le idee (rr. 1-12) Socrate espone a Glaucone la tesi del rapporto tra molteplicità e unità: tutte le cose belle derivano il loro “essere belle” da un’unica idea della bellezza, così come tutte le cose buone derivano il loro “essere buone” da un’unica idea, quella del bene. Per preparare il discorso sull’idea del Bene, Socrate si sofferma ad analizzare la vista e la condizione del vedere: a differenza degli altri organi di senso, per esercitare le sue funzioni la vista ha bisogno della mediazione della luce. Senza la luce gli occhi non vedrebbero e le cose non sarebbero viste. L’analogia tra il sole e il Bene (rr. 13-29) Socrate istituisce un’analogia tra il sole e il Bene. Come il sole genera la luce e rende possibile la vista, così il Bene produce la verità e fa sì che l’intelletto possa conoscere le idee. Sebbene siano affini al sole, la vista e gli oggetti illuminati sono qualcosa di diverso dal
sole; allo stesso modo, la conoscenza e la verità, pur essendo affini al Bene, non sono esse stesse il Bene. Quando gli occhi si volgono alle cose nell’oscurità della notte, vedono poco o nulla; quando invece guardano alla luce del sole, vedono distintamente. Anche l’anima, quando si volge a ciò che diviene (avvolto nelle tenebre), è in grado di formulare soltanto opinioni; quando invece si volge alle cose intelligibili (rischiarate dalla verità), allora perviene alla conoscenza. Il carattere straordinario del Bene (rr. 30-36) L’idea del Bene è ciò che rende conoscibili le cose, quindi è il fondamento del sapere e della verità. Per quanto Platone non dia qui una definizione compiuta del Bene, ne lascia intuire l’importanza e l’eccezionalità, anche grazie all’espressione di meraviglia con cui Glaucone risponde a Socrate nelle righe conclusive.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Per far comprendere ciò che intende quando parla del Bene, Platone si serve dell’analogia con il sole. Prova anche tu a esporre la tua concezione del Bene avvalendoti di un’analogia. A che cosa è assimilabile, secondo te? Esistono suoi corrispettivi nel mondo naturale? C’è qualcosa che gli sia superiore? Quale rapporto intrattiene con gli altri valori? Cerca di fornire una risposta a queste domande nella stesura del tuo testo (max 25 righe).
Il mito della caverna
Come abbiamo visto, per Platone il governo dello Stato spetta ai filosofi, i quali conoscono l’essenza delle cose. Nel settimo libro della Repubblica, attraverso il mito della caverna, viene descritto il percorso conoscitivo del filosofo, il quale, nella sua ricerca della verità, si stacca dal mondo sensibile per raggiungere le idee e il Bene, e ritornare quindi tra gli altri esseri umani per governare la città nel modo migliore.
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La caverna, ovvero il mondo della conoscenza sensibile
(Repubblica)
La caverna è un luogo angosciante, dove i prigionieri, incatenati fin da fanciulli, scorgono soltanto alcune ombre proiettate sulla parete che sta loro di fronte. Essi ritengono che le ombre siano l’unica e vera realtà esistente e non possono immaginare ciò che accade alle loro spalle. La descrizione [Socrate si rivolge a Glaucone] – In seguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò della caverna che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro 2
una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da 4 fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in
TESTI PLATONE
TESTO
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avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.
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La condizione – Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. 14 dei prigionieri – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei
compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!, rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.
(Repubblica, VII, 514a-c, op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La descrizione della caverna (rr. 1-13) Socrate invita Glaucone a immaginare alcuni prigionieri incatenati fin dall’infanzia nelle profondità di una caverna, in modo tale da poter fissare soltanto la parete che si trova davanti a loro. Alle spalle dei prigionieri è stato eretto un muro, al di là del quale è stato acceso un fuoco. Alcuni individui fanno muovere su questo muricciolo sagome di persone e oggetti che proiettano la propria ombra sul muro.
La condizione dei prigionieri (rr. 14-29) I prigionieri, non avendo alcuna conoscenza della realtà del mondo esterno, sono portati a confondere le ombre con le persone e gli oggetti reali. Fuor di metafora, il mondo testimoniato dai sensi (la vista, ma anche l’udito) è un misto di luce (il fuoco) e di ombre (quelle «proiettate dal fuoco sulla parete della caverna», r. 16) che costituisce la base della conoscenza, ma che non la esaurisce, anzi la imprigiona, impedendole di elevarsi alla visione delle idee.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO A tuo avviso, esiste qualche somiglianza tra i prigionieri della caverna platonica e gli uomini di oggi? Secondo te, l’uomo contemporaneo è al riparo dalle illusioni e dalle conoscenze erronee di cui parla Platone? Rispondi alle domande in un testo scritto in cui riporti il tuo punto di vista in modo argomentato (max 30 righe).
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
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TESTO
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La liberazione di un prigioniero e il suo viaggio verso la luce (Repubblica) Nella seconda parte del mito della caverna Platone immagina che uno schiavo venga liberato dalle catene e trascinato all’esterno della caverna. Dopo aver scoperto che né le ombre che vedeva quando era incatenato, né gli oggetti portati lungo il muro costituiscono la vera realtà, egli è abbagliato dalla luce del sole. Soltanto poco per volta impara dapprima a discernere gli oggetti del mondo autentico e alla fine a guardare direttamente il sole.
Il disorientamento – Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. iniziale Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, co-
stretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio [il fulgore] lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo, rispose. – E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È così, rispose. – Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.
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Il progressivo – Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, adattamento molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei lo22 alla luce
(Repubblica, VII, 514d - 515c, op. cit.)
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TESTI PLATONE
ro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. – Come no? – Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. – Per forza, disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? – Certo.
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il disorientamento iniziale (rr. 1-20) Il processo di liberazione dal mondo dei sensi è un processo faticoso, al quale inizialmente si è costretti e che procura dolore. Platone descrive questo momento come un avvicinamento all’essere autentico e alla luce. Fuori dalla caverna (al di là del mondo sensibile), gli occhi abbagliati del prigioniero all’inizio non distinguono più nulla, ma poi lentamente si abituano alla luce e scorgono dapprima le sagome degli oggetti, o le loro
immagini riflesse nell’acqua, e infine gli oggetti stessi. Il progressivo adattamento alla luce (rr. 21-37) Prima di poter volgere gli occhi al sole, l’uomo comincerà a contemplare la luna e le stelle, e solo in un secondo momento sarà in grado di guardare direttamente il sole. La contemplazione diretta del sole, cioè del Bene ( testo 5), provocherà nel suo animo gioia e felicità, ma lo indurrà anche a un sentimento di pietà per i compagni rimasti nella caverna.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Nel mito platonico il sole disturba la vista di chi è abituato a stare nell’ombra, e lo confonde. La scoperta della verità, in ogni tempo, richiede lo sforzo di sollevare lo sguardo e il coraggio di rinnegare l’errore, anche quando è confortante. Descrivi un caso emblematico, eventualmente tratto dalla tua esperienza personale diretta o indiretta, che si possa paragonare al cammino verso il sole narrato da Platone (max 40 righe).
TESTO
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Il ritorno nella caverna (Repubblica) Invece di rimanere a contemplare in solitudine il sole e il mondo reale, cioè il Bene e la verità, lo schiavo liberato decide di tornare nella caverna, per comunicare agli altri prigionieri ciò che ha visto e per aiutarli a liberarsi a loro volta dalla prigionia. I suoi occhi, però, faticano a riadattarsi al buio e per questo egli viene deriso dagli altri schiavi, che non gli credono.
L’intollerabilità – Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservadella vecchia ti a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti 2 condizione
ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si 4 troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe «altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza», e patire di tutto piuttosto che avere quelle opi- 6 nioni e vivere in quel modo? – Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel 8 modo.
Un duro – Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimet- 10 cammino tesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’ima ritroso
provviso dal sole? 12 – Sì, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono ri- 14 masti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? 16 Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna
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Unità 3 PLATONE Capitolo 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità
con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendes- 18 se a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? 20 – Certamente, rispose. (Repubblica, VII, 515d - 516a, op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’intollerabilità della vecchia condizione (rr. 1-9) Alla gioia per il raggiungimento della verità e alla pietà per i compagni ancora avvolti nel buio segue la consapevolezza della propria posizione privilegiata: chi ha potuto contemplare direttamente il sole (cioè la realtà delle idee) non invidia gli elogi e i premi riservati a chi nella caverna riesce a riconoscere più oggetti (cioè a chi è esperto in ciò che gli viene testimoniato dai sensi). Come scrive Omero nell’Odissea (XI, 489), egli preferirebbe servire da contadino un padrone, patire di tutto, piuttosto che vivere ancora incatenato nel limitato mondo della conoscenza sensibile e continuare a considerare oggetti reali (autentico essere) quelle che sono soltanto ombre (essere apparente). Un duro cammino a ritroso (rr. 10-21) Essendosi ormai abituato alla luce, appena rientrerà nella ca-
verna lo schiavo liberato avrà gli occhi offuscati dalle tenebre e sarà oggetto di scherno da parte dei compagni, i quali si convinceranno che la luce esterna gli ha rovinato gli occhi e che quindi non si devono seguire le sue orme. È facile vedere nel prigioniero che si è liberato e che è giunto alla contemplazione del Bene la figura del filosofo, il quale, scoperta la verità che sta oltre il mondo dei sensi, non si chiude egoisticamente in una contemplazione e in una felicità solitarie, ma comunica la propria scoperta a quanti sono ancora prigionieri del mondo sensibile. Costoro, però, sono talmente legati ai sensi che, appena il filosofo tenta di sciogliere le loro catene per far compiere anche a loro il viaggio che egli ha già portato a termine, sono capaci perfino di ucciderlo. L’allusione a Socrate è evidente.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO
TESTI PLATONE
Secondo Platone chi possiede la conoscenza ha il dovere di metterla a disposizione degli altri esseri umani e di non considerarla un tesoro da custodire gelosamente. A questo proposito, quale ruolo possono avere i mezzi di comunicazione di massa nella condivisione e diffusione (ovviamente corretta, non distorta né manipolata) delle informazioni? Esponi il tuo punto di vista in uno scritto adeguatamente argomentato e riporta, se possibile, esempi tratti dall’attualità (max 40 righe).
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FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
IL TEMPIO GRECO TRA REALTÀ E APPARENZA Il tempio come occasione di riflessione teorica Uno degli elementi più rappresentativi dell’arte greca antica, esempio di monumentalità e perfezione armonica, è certamente il tempio. Al di là del suo significato religioso, nelle forme del tempio greco e nei criteri seguiti per progettarlo si può intravedere un nodo concettuale di cruciale importanza, cioè quell’opposizione tra ragione e sensibilità, o tra verità e apparenza, che caratterizza gran parte della riflessione filosofica greca.
La bellezza della proporzione Se l’affermazione può sembrare eccessiva, proveremo a comprenderne la fondatezza focalizzando la nostra attenzione sul tratto forse più evidente dei templi greci: le loro proporzioni, risultato di un autentico processo di razionalizzazione e matematizzazione. Le scelte costruttive erano infatti guidate da un criterio fondamentale: la preliminare definizione di un “modulo”, ovvero di una misura fissa, che poteva essere costituita dall’inte-
rasse delle colonne, oppure dall’altezza dei gradini del basamento o, più spesso, dal diametro della base delle colonne. Una volta definito questo modulo, tutte le altre dimensioni del tempio derivavano da rapporti precisi con esso: l’altezza della colonna era pari a 4 o 5 volte il diametro di base; l’altezza della trabeazione e del frontone era pari a 1/3 di quella della colonna; la lunghezza del tempio era il doppio della sua larghezza, oppure (come nel caso del cosiddetto “tempio di Nettuno” a Paestum, fig. 1) le due misure stavano tra loro in un rapporto (considerato ancora più armonico) di 5 a 2. La costruzione era quindi guidata da un’operazione iniziale che, di fatto, corrispondeva alla definizione di un’unità di misura, di cui ogni dimensione dell’edificio sarebbe stata un multiplo o un sottomultiplo.
La percezione dei sensi Ben presto, tuttavia, i Greci si resero conto che, a causa delle grandi dimensioni degli edifici, si producevano effetti di distorsione che falsavano la percezione visiva dei rapporti armonici seguiti nella costruzione, tanto che gli edifici sembravano sproporzionati. Per correggere queste distorsioni ottiche, gli architetti greci introdussero alcuni correttivi: una leggera curvatura verso l’alto dello stilobate (cioè del basamento) e dell’architrave compensava l’effetto di concavità prodotto dagli elementi orizzontali sovrastanti; l’inclinazione delle colonne laterali
1. Tempio di Nettuno, V secolo a.C., Paestum
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verso l’interno evitava che al contrario sembrassero inclinate verso l’esterno; un lieve rigonfiamento (éntasis) delle colonne a 1/3 della loro altezza evitava la percezione di un assottigliamento nella zona centrale (fig. 2, dall’alto verso il basso). Mediante questi espedienti era possibile perfezionare la percezione visiva, sacrificandole però la perfezione matematica.
parti in basso, invece, più grandi, perché le une sono viste da noi da lontano, le altre da vicino. Teeteto: Certamente. Straniero: Dunque, non è forse vero che gli artisti di oggi, lasciando perdere la verità, riproducono nelle immagini non le proporzioni reali, ma quelle che sembrano essere belle? (Sofista, 235e - 236a, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 281)
éntasis
2.
Contro le “illusioni” degli architetti A queste soluzioni escogitate degli architetti greci, che abdicavano alla perfezione matematica in favore dell’illusione ottica, pare alludere Platone, con tono critico, in un passo del Sofista. Nel dialogo, Socrate conversa con il giovane matematico Teeteto e con uno straniero giunto ad Atene da Elea, che impersona Parmenide. Dopo aver definito l’arte come una forma di «imitazione» (mímesis) della realtà, i protagonisti si chiedono se gli artisti rispettino le proporzioni dei loro modelli. A questa domanda risponde lo straniero di Elea:
‘
Straniero: No; almeno quelli, se non erro, che modellano o dipingono qualche opera in grande. Infatti, se riproducessero la vera proporzione delle cose belle, sappi che le parti in alto ci apparirebbero più piccole del dovuto, le
LABORATORIO
Platone, dunque, considera “illusionistico” il modo di procedere degli artisti e degli architetti, i quali, anziché rendere le loro opere il più possibile simili alla bellezza ideale (cioè alla perfetta razionalità delle proporzioni matematiche), preferiscono adeguarle alle esigenze dei sensi, realizzandole secondo proporzioni non reali ma apparenti, e offrendo così soltanto una parvenza, fuorviante, della vera bellezza.
Contro gli “inganni” dei sofisti Ma quello che è ancora più importante notare, e che ben restituisce l’idea del dibattito filosofico qui implicato, è il fatto che nel suo dialogo Platone collega l’arte (in generale) all’arte dei sofisti, cosicché dietro la figura dell’architetto – che con le sue correzioni ottiche indulge all’apparenza, allontanandosi dalla realtà – si nasconde l’ingannatore per eccellenza: il sofista. L’opposizione platonica della filosofia alla sofistica, della verità all’apparenza, della ragione alla sensibilità, trova quindi la sua rappresentazione plastica nella più ammirata produzione dell’arte greca, da sempre esempio di armonia e di bellezza: il tempio.
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COMPITO DI REALTÀ
Immagina di dover tenere ai tuoi compagni di classe una lezione sul tema “La condanna platonica dell’arte”. • Con l’aiuto dei docenti di filosofia e di storia dell’arte, individua almeno due esempi di opere – non necessariamente antiche – in cui l’artista (pittore, scultore, architetto ecc.) ha riprodotto la realtà correggendone alcune misure, in modo da farla apparire quale si presenta normalmente alla nostra vista. Puoi considerare, ad esempio, un tempio greco antico (seguendo il modello di questa scheda), la riproduzione pittorica di un
paesaggio secondo le leggi della prospettiva, un’opera rinascimentale o barocca realizzata con la tecnica dell’anamorfosi, e così via. • Allestisci quindi una presentazione multimediale (max dieci slide, corredate di testi, immagini, schemi e link utili) da usare nella tua lezione: presenta le opere da te scelte dal punto di vista di Platone, ovvero come esempi di riproduzione falsata della verità; poi istituisci un parallelismo tra la condanna platonica degli artisti e la condanna (sempre platonica) dell’ingannevole arte della parola tipica dei sofisti.
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FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
LA “SCOPERTA” DELL’ALDILÀ TRA ARTE E FILOSOFIA
La Tomba del Tuffatore Nel 1968, a pochi chilometri dall’antica Poseidonia (oggi Paestum, in provincia di Salerno), fu rinvenuta la celebre “Tomba del Tuffatore”, una sorta di grande sarcofago con le pareti interne dipinte. Per la bellezza e l’eleganza delle decorazioni, attribuite a un artista greco o della Magna Grecia vissuto tra il 480 e il 470 a.C., la Tomba del Tuffatore rappresenta certamente una delle più importanti e suggestive testimonianze pittoriche di tutti i tempi.
Particolarmente interessante anche dal punto di vista filosofico, oltre che artistico, è la lastra di chiusura superiore, sulla quale il tratto delicato del pittore ha raffigurato in modo mirabile la leggerezza muscolare di un tuffatore agile e sinuoso (fig. 1). Da una sorta di trampolino di blocchi sovrapposti, il giovane si tuffa in uno specchio d’acqua curvo e ondulato, che si staglia su uno sfondo bianco e che probabilmente rappresenta il mare o la palude formata dallo Stige, mitologico fiume degli Inferi. L’acqua sembra dunque essere l’immagine della “rinascita” in una dimensione ultraterrena, e il giovane atleta quella dell’anima del defunto che torna al mistero da cui tutto trae origine.
L’anima in Omero Questa idea dell’anima che sopravvive al corpo e che “si tuffa” in una vita ultraterrena trova il suo corrispettivo filosofico di maggiore importanza nella dottrina platonica, ma ha una storia assai lunga nel pensiero occidentale, che può essere interessante ripercorrere brevemente attraverso le sue tappe principali.
1. Tomba del Tuffatore, decorazione interna della lastra superiore di chiusura, affresco, 480 a.C. ca., Paestum, Museo archeologico nazionale.
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In Omero il termine “anima” (psyché) indicava il soffio (pnéuma) che vivificava il corpo e che nel momento della morte “volava” via dalla bocca o dalla ferita riportata in battaglia, per vagare nell’oltretomba come un fantasma senza vita. Nei poemi omerici e nella cultura greca arcaica la nozione di “anima” aveva dunque un significato opposto a quello che avrebbe acquistato in seguito (e che in parte conserva ancora oggi): l’anima non era che un’ombra della persona morta, e in quanto tale rappresentava la negazione della vita, intesa come l’energia e la forza che rendono un corpo vivo e vitale.
L’anima e il corpo nell’orfismo A partire dal VI secolo a.C. l’antropologia omerica viene radicalmente capovolta dall’orfismo, il movimento religioso che prende il nome dalla mitica figura del poeta Orfeo. Nella dottrina orfica la psyché diviene la sede della vera natura dell’essere umano, la sua sostanza profonda che permane oltre l’esistenza corporea. Se la cultura omerica esaltava il corpo fisico come l’espressione più propria della vita umana, l’orfismo lo considera invece come una sorta di prigione o tomba dell’anima. Liberatosi dal corpo nel momento della morte, secondo gli orfici l’individuo cessa di essere mortale e viene reintegrato nella vita divina. In un certo senso possiamo dire che con l’orfismo l’uomo occidentale “scopre” l’aldilà, pervenendo all’idea di una sopravvivenza oltre la dimensione corporea.
come lotta dell’anima contro il corpo, il quale, con i sensi e le loro pulsioni, rappresenta un elemento di disturbo per la conoscenza e una forza corruttiva per il conseguimento del bene. In Platone si profila dunque una sorta di etica dell’aldilà o della trascendenza, secondo cui la “vita buona” non consiste più – come per Socrate – soltanto nell’esercizio (di tipo conoscitivo) della ragione, ma anche in un esercizio (di tipo religioso) di purificazione e di ascesi. La cura dell’anima diventa così una sorta di “allenamento” a morire, cioè ad abbandonare il corpo, perché l’anima umana può ritrovare la sua vera natura e la sua compiuta felicità soltanto liberandosi delle sue spoglie mortali e reintegrandosi nel mondo divino, di cui è parte e da cui è caduta. Ecco allora che il salto con cui il giovane tuffatore del dipinto pare immergersi in una dimensione sconosciuta, liberandosi del peso del proprio corpo, può essere considerato come un’efficace raffigurazione di quella scoperta dell’aldilà che Platone, raffinato interprete dell’orfismo, pone al centro della sua riflessione sul destino umano.
Platone e l’aldilà Proprio all’orfismo si rifà la dottrina dell’anima divina e immortale esposta da Platone nel Fedone. L’intera antropologia platonica, con la sua opposizione tra corpo e anima, si ispira all’orfismo, così come è di matrice orfica l’idea della filosofia come preparazione alla morte, cioè
LABORATORIO
2. Tomba del Tuffatore, particolare dalla decorazione interna della lastra superiore di chiusura.
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Riflettere e argomentare
PRODUZIONE DI UN TESTO
• Elabora un testo scritto (max 30 righe) in cui esponi la concezione platonica dell’anima e le sue matrici orfiche. Puoi avvalerti di questa scheda, ma anche delle parti del manuale in cui tali argomenti sono trattati, oppure di
informazioni reperite in Internet o in biblioteca. Illustra la visione platonica con un richiamo alla Tomba del Tuffatore o a qualche altra opera d’arte che ti paia raffigurarla adeguatamente.
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CAPITOLO 3 UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’ESSERE: GLI SCRITTI DELLA VECCHIAIA 1. I “nuovi” problemi Nei grandi dialoghi della vecchiaia, che nel loro insieme costituiscono la terza fase del pensiero platonico, abbiamo un ulteriore approfondimento delle teorie del filosofo, il quale, rivedendo le proprie dottrine, perviene a esiti in parte nuovi. Questa capacità di mettersi continuamente in discussione e di ritornare sempre sui propri passi – che in quest’ultimo periodo appare in Platone ancor più accentuata – rappresenta forse la più tipica eredità socratica presente nel platonismo. I temi I problemi cruciali che si impongono al cosiddetto “ultimo Platone”, e che nascono in fondamentali parte dall’esigenza di mitigare il rigido dualismo tra il mondo immutabile delle idee e il
mondo mutevole delle cose, sono fondamentalmente due: come dev’essere adeguatamente pensato il mondo delle idee? come va convenientemente concepito il rapporto tra le idee e le realtà naturali? Alla prima questione risponde soprattutto il Sofista (la cui tematica, sotto certi aspetti, è preparata dal Teeteto), nel quale Platone cerca di definire che cosa sia la conoscenza, e dal Parmenide, che indaga la natura dell’essere e il suo rapporto con il non essere. Alla seconda questione, come vedremo, risponde invece soprattutto il Timeo.
2. Le nuove riflessioni sul mondo delle idee Il Teeteto: la conoscenza e l’errore I limiti della L’argomento centrale affrontato nel Teeteto è la conoscenza. All’inizio del dialogo il giovane conoscenza Teeteto, in accordo con il sofista Protagora e con gli eraclitei, sostiene che la conoscenza è sensibile
sensazione. Tuttavia – osserva Socrate – se si ammette che ciò che ciascuno percepisce in un determinato momento è vero, allora bisogna concludere o che la verità è soggettiva e mutevole, o che essa va determinata in base a ciò che dice la maggioranza. Poiché entrambe queste soluzioni sono insoddisfacenti, non resta che un’alternativa: deve esistere un vero in sé, che non dipenda dal giudizio di ogni singolo individuo, ma che rifletta le cose come sono per natura e secondo la loro essenza. Così Platone si oppone al relativismo gnoseologico dei sofisti e dimostra indirettamente come sia impossibile raggiungere una definizione adeguata di “scienza” rimanendo nel dominio della soggettività umana e delle mutevoli opinioni dell’individuo, cioè senza rifarsi al mondo delle idee.
Dall’opinione Se la conoscenza sensibile non è vera conoscenza, allora i sensi non sono che un mezzo: all’«opinione essi non sono ciò che conosce, ma ciò mediante cui l’anima conosce. Quest’ultima, infatti, vera»
riceve dai sensi la “materia” della conoscenza (attraverso quelle che secoli dopo saranno
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
definite “affezioni” del soggetto senziente) e su di essa ha il compito di pronunciare il proprio giudizio, ordinando i dati empirici per giungere ad affermazioni universali. E proprio in quanto giudizio sulla sensazione, che come tale deve essere adeguato e corretto, la conoscenza secondo Platone può essere definita «opinione vera». Si apre così la questione della verità e della possibilità dell’errore. Nel Teeteto il vero non è definito direttamente, ma per opposizione a ciò che è falso. Eppure, La genesi a ben guardare, il concetto di “falso” appare piuttosto sconcertante e, in certa misura, in- dell’errore comprensibile. Se, infatti, il giudizio muove da determinati elementi, o dati sensibili, e ne coglie il rapporto, come può metterli in relazione in un modo diverso rispetto all’essere, cioè rispetto a come essi sono effettivamente collegati? In altre parole, il falso sembra coincidere con un errore nella coordinazione degli elementi, ma qual è l’origine di tale errore? Una possibile risposta è quella che chiama in causa i limiti della memoria umana: nel formulare i suoi giudizi, la conoscenza si serve infatti del ricordo, poiché conoscere significa collegare dati empirici attualmente presenti alla mente con dati passati. Ma è possibile ricordare male: ad esempio, vedendo Teeteto, lo si può scambiare con Teodoro, che si è visto in passato e di cui adesso non si ricorda più bene l’aspetto. La conclusione del Teeteto, in realtà, riporta il discorso alla questione di partenza, ovvero alla Errore definizione della conoscenza, perché è impossibile sapere che certi dati sono stati collegati in e non essere maniera errata fino a quando non si sappia con certezza quale sia il modo corretto (vero) di collegarli: in altre parole, è impossibile sapere che cosa sia l’errore finché non si sia chiarito in che cosa consista la conoscenza, cioè la verità. La riflessione sul problema dell’errore conduce così Platone al problema del non essere, affrontato, come vedremo tra poco, nel Parmenide e nel Sofista.
Il Parmenide: la sfida della concezione eleatica dell’essere Nel Parmenide (che è forse il dialogo più complesso di Platone) il filosofo si interroga autocriticamente sulla consistenza della teoria delle idee, rilevandone, per bocca di Parmenide, alcune difficoltà. In primo luogo, posto che “l’uno” è l’idea, mentre “i molti” sono gli oggetti di cui l’idea costi- Unità e tuisce la sostanza comune e unitaria, non si capisce come l’idea possa essere “partecipata” molteplicità da più oggetti, o “diffusa” in essi, senza con ciò risultare moltiplicata e quindi distrutta nella sua unità. Inoltre, dalla stessa nozione di idea sembra scaturire la moltiplicazione all’infinito delle Il “terzo uomo” idee, dal momento che, se si ha un’idea ogni volta in cui si considera nella sua unità una molteplicità di oggetti (ad esempio tutti gli uomini), si avrà un’idea anche quando si considererà la totalità di questi oggetti più la loro idea (tutti gli uomini più l’idea di “uomo”): questa sarà infatti un’ulteriore idea (un “terzo uomo”) che, considerata a sua volta insieme con gli oggetti e con l’idea precedente, darà luogo a un’altra idea (un “quarto uomo”), e così via all’infinito. È questo l’argomento detto del “terzo uomo”, di cui si attribuiva la formulazione al megarico Polìsseno e a cui accennerà varie volte anche Aristotele. enciclosofia Polìsseno Filosofo greco contemporaneo di Platone, Polìsseno visse a lungo a Siracusa presso la corte di Dionisio il Giovane; a lui la tradizione ha attribuito la paternità dell’argomento del “terzo uomo”, al quale ricorrerà anche Aristotele per criticare la dottrina platonica delle idee.
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Il problema Ma il problema fondamentale che emerge nel Parmenide, e che troverà il proprio schema di del non essere soluzione nel Sofista, è il confronto-scontro con la logica parmenidea. Come già sappiamo,
secondo il principio basilare dell’eleatismo soltanto «l’essere è», mentre «il non essere non è». Ora, pur riconoscendo in Parmenide un «maestro venerando e terribile», Platone si rende conto che queste affermazioni, prese alla lettera, decreterebbero la morte della teoria delle idee. L’inesistenza assoluta di ogni forma di non essere, infatti, pregiudicherebbe inevitabilmente la molteplicità delle idee e la possibilità di un loro rapporto reciproco, poiché ogni idea, non essendo l’altra, implica, dal punto di vista parmenideo, l’illogica ammissione del non essere. Tant’è vero che Parmenide, com’è noto, aveva concluso che l’essere è unico.
Verso Nel Parmenide Platone ribadisce di non voler rinunciare alla propria teoria delle forme ideali, l’“assassinio” in quanto senza le idee, ossia senza un punto fermo mediante il quale ordinare la molteplifilosofico di Parmenide cità delle cose, non si potrebbe pensare né filosofare. Ma, se non è possibile rinunciare alle
idee, allora non rimane che rinunciare al principio eleatico. Ed è quanto Platone fa nel Sofista, in cui lo scontro decisivo con l’antico maestro si conclude con un vero e proprio “parmenicidio”.
Il Sofista: la nuova concezione dell’essere La dottrina dei generi sommi dell’essere Per spiegare come possano esistere più
idee e come esse possano comunicare tra loro, nel Sofista Platone elabora la cosiddetta teoria dei generi sommi dell’essere , cioè degli attributi fondamentali delle idee, che per il filosofo sono cinque: l’essere, l’identico, il diverso, la quiete, il movimento. glossario p. 286 Essere, identità Innanzitutto, ogni idea è o esiste, e quindi rientra nel genere dell’essere. e diversità In secondo luogo, ogni idea è identica a sé stessa, e quindi rientra nel genere dell’identico.
“Essere” ed “essere identico” sono dunque due generi differenti e non coincidenti tra loro. Infatti tutte le idee, pur esistendo, non per questo sono identiche l’una all’altra, altrimenti si avrebbe la fusione di tutte quante le idee in un’unica idea. In terzo luogo, se ogni idea è identica a sé stessa ma distinta dalle altre, allora è diversa da queste, per cui ogni idea rientra anche nel genere del diverso. Si giunge così al momento culminante della critica a Parmenide.
Il superamento L’errore di fondo del filosofo di Elea, secondo Platone, è stato quello di confondere il didel problema verso con il nulla. Infatti, quando discorriamo della molteplicità delle cose e usiamo la del non essere
paroletta “non”, sostenendo ad esempio che “A non è B”, non intendiamo alludere al non essere assoluto (al nulla, che per l’appunto non esiste), ma soltanto a qualcosa di diverso da A (“A è diverso da B”), ossia a un non essere relativo. In altre parole, esiste un modo in cui il non essere può esistere, ed è quello dell’essere diverso, che però, in quanto tale, non è il nulla assoluto, poiché partecipa anch’esso dell’essere. Attribuendo una qualche forma di essere al non essere, Platone si sbarazza così definitivamente del “fantasma” del nulla, infrangendo il divieto parmenideo di parlare del non essere e, quindi, della molteplicità. ( T1 p. 289)
Il superamento Con questa sottile dottrina (che ha trovato consenzienti anche logici e filosofi della sciendel problema za contemporanei) Platone può superare anche il problema dell’errore. Gli eristi, “sofistidell’errore
cando” questo argomento, avevano affermato che l’errore non può esistere, in quanto esso implicherebbe un “dire il nulla”, che, come insegna Parmenide, non è e quindi non è dicibile. Platone ribatte che l’errore non consiste nel pronunciare il nulla, ma semplicemente nel dire le cose in modo diverso da come esse effettivamente stanno. Ad esempio, lo sbaglio di chi sostiene che un libro di filosofia è un libro di matematica risiede nel fatto che in realtà quel libro di filosofia è diverso da un libro di matematica.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
Giustificata così la pluralità delle idee, ai tre generi sommi già considerati – l’essere, l’essere Quiete e identico e l’essere diverso – Platone aggiunge i due generi della quiete e del moto. Infatti ogni movimento idea può starsene in sé (quiete) oppure entrare in comunicazione con le altre (movimento). l’essere l’essere identico I «GENERI SOMMI» DELL’ESSERE
sono
IL NON ESSERE
è
essere diverso (cioè un “non essere” relativo)
L’ERRORE
è
l’enunciare le cose in modo diverso da come sono in realtà
l’essere diverso l’essere in quiete l’essere in movimento
La determinazione delle cinque forme fondamentali (o dei cinque generi sommi) dell’essere si accompagna in Platone al tentativo di giungere a una ridefinizione del concetto stesso di essere.
L’essere come possibilità
Che cos’è l’essere? Alcuni (i materialisti) lo riducono a corporeità; altri (come lo stesso Pla- La definizione tone nella seconda fase del suo pensiero) lo identificano con le idee. In realtà, per il Platone generale dell’essere del Sofista la materialità e l’immaterialità non possono rientrare nella definizione essenziale dell’essere, poiché sia le cose corporee sia le entità incorporee (ad esempio la virtù) “sono”. Cercando dunque una definizione ancor più generale e universale, Platone perviene alla tesi secondo cui l’essere è possibilità, ossia «è qualunque cosa si trovi in possesso di una qualsiasi possibilità: o di agire o di subire, da parte di qualche altra cosa, anche insignificante, un’azione anche minima e anche solo per una sola volta» (Sofista, 247c). Platone sottintende qui il concetto di “relazione”: la sua formula significa che esiste tutto ciò che è capace di entrare in un campo di relazione qualsiasi, cioè in una rete di connessioni possibili. Ne è prova il fatto che il nulla, il quale non può entrare in rapporto con ESERCIZI alcunché, risulta inesistente per definizione.
CONCETTI A CONFRONTO
L’ESSERE in PARMENIDE
nell’ULTIMO PLATONE
è omogeneo, sempre identico a sé stesso
è eterogeneo, poiché ogni idea è identica a sé stessa, ma diversa da tutte le altre
è unico
è molteplice, come molteplici sono le idee
è immobile
è mobile, poiché le idee sono in sé stesse immobili ma mobili in relazione alle altre quindi
è l’essere ontologicamente perfetto, immutabile e chiuso in sé pertanto è (in modo assoluto) e non può non essere
quindi è possibilità di agire o di subire un’azione, ovvero di entrare in relazione pertanto è (in senso assoluto), ma può non essere (in senso relativo), cioè essere diverso
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Verso La definizione dell’essere in termini di possibilità-relazione (definizione che Platone, Aristotele nella sua vecchiaia, ritenne la più precisa e meglio fondata di tutte quelle possibili) si ap-
plica, come la teoria dei generi sommi, non soltanto alle idee di cui parlava il Platone della maturità, ma anche alle cose naturali e agli esseri umani: sicché si può dire che quest’ultima fase della filosofia platonica rappresenti, di fatto, una generalizzazione rispetto alla prima e costituisca il vero antecedente dell’ontologia aristotelica, che, come vedremo, indagherà i caratteri formali comuni a ogni tipo di essere.
)
Per l’esposizione orale
1. Completa le frasi che seguono enunciando le tesi centrali, rispettivamente, del Teeteto, del Parmenide e del Sofista; quindi procedi a spiegarle nei loro tratti fondamentali. - La conoscenza autentica consiste ........................................................................................................ - Se la concezione eleatica sul non essere fosse vera, ....................................................................... - L’essere è “possibilità”, nel senso che .................................................................................................. 2. Elenca i «generi sommi» dell’essere e spiega che cosa sono. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione platonica secondo cui il “non essere” coincide con l’“essere diverso”. Ritieni che una visione del mondo fondata sulla valorizzazione delle differenze, più che sulla loro negazione o sul tentativo di annullarle, sia apprezzabile e auspicabile? Argomenta la tua risposta, possibilmente sostenendola con esempi concreti.
3. La dialettica Se l’essere e il mondo delle idee costituiscono un tessuto di rapporti possibili, allora la suprema scienza delle idee, che Platone chiama dialettica , consisterà nello stabilire la mappa di queste relazioni, cioè nel determinare quali idee si connettono tra loro e quali no, precisando anche i vari modi in cui un’idea si può unire a un’altra. glossario p. 286 I limiti della Nei dialoghi giovanili Platone usa il verbo dialéghesthai ancora nell’accezione socratica di dialettica “dialogare”. Negli scritti successivi assistiamo però a un progressivo mutamento di prosocratica
spettiva: da “arte” del discorso, il dialéghesthai platonico diventa “scienza” dialettica (dialektiké epistéme). Gradualmente, infatti, la dialettica socratica appare a Platone fragile e inconcludente, e questo per due motivi: 1. è una dialettica aperta: per Socrate non si finisce mai di discutere e il temporaneo accordo tra i dialoganti (omologhía) concerne l’ambito dell’opinione e dell’opinabile, senza alcuna possibilità di configurarsi come una verità incontrovertibile, cioè indiscutibile; 2. è una dialettica negativa: sottoposte all’acuto esame di Socrate, alla fine tutte le definizioni proposte dagli interlocutori appaiono insufficienti, permettendo così di raggiungere soltanto negazioni (la bellezza non è una donna bella, il coraggio non è rimanere fermi di fronte al nemico, e così via) e non la soluzione positiva del problema iniziale.
Gli obiettivi Platone vuole invece pervenire a una dialettica che sia “scienza della verità” (e non mera platonici: confutazione degli errori), costruzione di un sapere vero e solido (e non soltanto distrudal dialogo alla scienza zione delle opinioni false). Egli, cioè, intende passare da una dialettica soggettiva e confuta-
tiva a una dialettica oggettiva e costruttiva, dalla dialettica-dialogo (che fonda la verità sul consenso) alla dialettica-scienza (che fonda ogni dialogo e ogni consenso sulla verità).
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
Questo radicale mutamento di prospettiva si realizza nella Repubblica, dove il filosofo (il “dialettico”) non è più (come per Socrate) colui che non sa e per questo, consapevole della propria ignoranza, interroga, ma colui che sa (perché ha visto) e che proprio per questo può interrogare, dialogare e, soprattutto, insegnare. Da arte del dialogo, la dialettica diventa così scienza delle idee, conoscenza di ciò che è stabile, eterno e indiscutibile.
Il metodo dialettico In quanto scienza compiuta, con un suo preciso oggetto, la dialettica ha anche un metodo I due momenti specifico, che la caratterizza distinguendola da tutte le altre scienze. Questo metodo è fat- del metodo dialettico to di due momenti distinti. Nel primo momento, detto “ascensivo” o “sinagogico”, si tratta di «abbracciare in uno sguardo di insieme e ricondurre ad un’unica idea ciò che è molteplice e disseminato» (Fedro, 265d-e). Il momento ascensivo è quindi un momento di “unificazione” (synagoghé), nel quale il dialettico passa (“sale”) dal molteplice sensibile all’idea: ad esempio, quando con gli “occhi” del corpo (i sensi) percepisce molti esseri umani, con gli “occhi” della mente (l’intelletto o noús) vede l’idea unitaria di “uomo”, che gli consente di definire tutti quegli oggetti, empiricamente diversi tra loro, come “uomini”. Nel secondo momento, detto “discensivo” o “diairetico”, il dialettico compie il percorso inverso: parte da un’idea generale e procede alla sua “divisione” (diáiresis) nelle idee particolari che la compongono, ripercorrendo la trama che le lega tra loro. Questo secondo procedimento si basa sul presupposto che le idee possano tra loro comu- La tesi di fondo nicare, ma anche non comunicare. Se tutte le idee comunicassero tra loro (come volevano del momento diairetico gli eristi), ogni discorso sarebbe vero e non avrebbe senso la fatica della dialettica, volta a fissare quali idee comunichino e quali no, e quindi quali discorsi siano veri e quali falsi. Analogamente, se nessuna idea comunicasse con le altre (come volevano i cinici), l’unico discorso possibile sarebbe quello che mette in relazione un concetto esclusivamente con sé stesso, come nel caso della tautologia “il gatto è gatto”1 . Scartate dunque le tesi universali per cui “tutte le idee sono combinabili con tutte le idee” e “ogni idea non è combinabile con alcuna altra idea”, a Platone resta soltanto la tesi intermedia: “alcune idee sono combinabili tra loro e altre non lo sono”. Su quest’ultima tesi si fonda il momento diairetico del metodo dialettico. Pensare dialetticamente non può voler dire altro che unificare e distinguere determinate La tecnica idee rispetto ad altre determinate idee. La tecnica diairetica consisterà quindi nel definire dicotomica un’idea mediante successive identificazioni e diversificazioni, attraverso un processo di tipo dicotomico che avanza dividendo per due un’idea, fino a giungere a un’idea non ulteriormente divisibile. glossario p. 287 Un esempio servirà a chiarire meglio questo concetto. Supponiamo che si voglia definire la nozione di “filosofia”. Come primo passo, si potrà scegliere di identificare la filosofia con un’attività. Ma le attività possono essere intellettuali o manuali. Come secondo passo, identificheremo quindi la filosofia con un’attività intellettuale, differenziandola da un’attività manuale. Ma le attività intellettuali possono avere per oggetto le idee o le cose fisiche.
1. In logica il termine “tautologia” (dal greco tautologhía, letteralmente “discorso che dice la stessa cosa”, composto da to autó, o tautó, “la medesima cosa”, e lógos, “discorso”) indica una proposizione definitoria (del tipo “x è y”) nella quale il predicato (y) non è che l’esplicitazione di informazioni già contenute nel soggetto (x).
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Come terzo passo, identificheremo dunque la filosofia con un’attività intellettuale che ha per oggetto le idee, differenziandola così da un’attività intellettuale che abbia per oggetto le cose fisiche. Ma, proseguendo, osserveremo che le idee possono essere idee-valori o idee matematiche. Come quarto passo, identificheremo pertanto la filosofia con un’attività intellettuale avente per oggetto le idee-valori, differenziandola da un’attività intellettuale avente per oggetto le idee matematiche. Sommando tutte le identificazioni e scartando tutte le differenziazioni, avremo alla fine ottenuto la definizione dell’idea di “filosofia”, capace di “stringerne” davvero il concetto. Oppure, venendo a un esempio platonico, supponiamo che si vogliano definire i sofisti in relazione all’idea di caccia1 (Sofista, 219e - 223a). Procedendo con metodo binario progressivo, otterremo il seguente albero dicotomico: La caccia può dirigersi verso esseri inanimati natanti
viventi pedestri selvatici
domestici
con violenza
con persuasione in pubblico
in privato
per regalo
per guadagno
per sostentamento per soldi (gli adultatori di professione)
i sofisti
Il punto Il procedimento dicotomico arriva a un’idea non ulteriormente divisibile, ma non perdi arrivo viene al mondo empirico, il quale resta nettamente separato dal mondo intellegibile. Ad della tecnica dicotomica esempio, posso dividere l’idea di “uomo” in alcune sue specificazioni: “ateniese” o “non
TEST DI LOGICA
ateniese”, “vecchio” o “giovane”, “maschio” o “femmina”, ma non potrò mai arrivare all’idea di un uomo particolare (ad esempio “Socrate”), perché questo è un dato empirico non deducibile con il solo pensiero, un dato, anzi, che costituisce il limite stesso del pensiero. Inoltre, l’idea indivisibile a cui si perviene corrisponde alla definizione “specifica” di ciò che cercavamo. Ma questa definizione non è l’unica possibile, perché scegliendo altre identificazioni iniziali potremmo costruire altre mappe dicotomiche. È quindi sommando le varie definizioni ottenute da più percorsi dicotomici che si raggiungerà una migliore comprensione dell’idea studiata.
1. Il termine “caccia” è inteso da Platone in senso allargato: egli, infatti, lo riferisce anche all’attività di coloro che per denaro tentano di “procacciarsi” il maggior numero di allievi.
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
La natura dialettica dell’essere Sulla base di quanto abbiamo specificato, possiamo comprendere in che senso, al termine della sua riflessione sulla dialettica (che coincide con la riflessione sulla natura stessa della filosofia), Platone arrivi a identificare la dialettica del discorso con la dialettica stessa dell’essere. L’essere, infatti, è vita, movimento. Se per un verso è immobile (perché eleaticamente permanente ed eterno), per un altro verso è possibilità, movimento di idee:
Il movimento dell’essere come fondamento del discorso
‘
lo straniero E allora per Zeus? Ci faremo persuadere così facilmente che in realtà il moto, la vita, l’anima, l’intelligenza non ineriscono a ciò che assolutamente è, che esso né vive né pensa, ma invece venerabile e santo, senza intelletto, se ne sta fermo, immoto? teeteto Straniero, noi accetteremmo un discorso che senza dubbio è gravissimo. (Sofista, 249a)
Se l’essere non avesse una sua interna dialettica, se le idee non si congiungessero e disgiungessero realmente tra loro, non ci sarebbero né il pensiero, né il linguaggio. La platonica “logica della visione” ha ormai superato la “logica della parola” che animava il socratismo: il dialogo è completamente trasformato in una dialettica del pensiero che esprime un’oggettiva dialettica dell’essere. Saper pensare o ragionare significa giungere a “vedere” o “contemplare”, e quindi saper riprodurre, la mobile trama dell’essere. Quest’ultimo, infatti, non è che un «unico vivente discorso», un organismo dialettico dotato di interna dinamicità e vita. La forza della dialettica non sta, dunque, nella mobilità del dialogo o nella mobilità del lógos che mette in movimento le idee, ma nell’essere stesso, il quale, con il proprio movimento, rende possibile il movimento del pensare e del parlare.
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Per l’esposizione orale
Dalla logica della parola alla logica dell’essere
1. Spiega in che cosa consiste la dialettica per l’ultimo Platone, supportando la tua esposizione con un esempio di definizione individuata mediante il metodo dicotomico (potresti, ad esempio, definire il “chirurgo”). 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera la concezione platonica della dialettica e confrontala con quella socratica: pensi che la discussione e il ragionamento debbano essere finalizzati a scoprire come le cose “stanno realmente” riguardo a un certo tema o a una certa idea? Oppure ritieni che la verità sia qualcosa a cui ci si può avvicinare mediante il confronto dialogico, ma che non si può mai essere certi di avere raggiunto?
4. Il Timeo: la visione cosmologica Come abbiamo anticipato, nel cosiddetto “ultimo Platone” troviamo la riconsiderazione non soltanto della natura delle idee, ma anche del loro rapporto con le cose, nel tentativo di sciogliere il rigido dualismo tra mondo ideale e mondo sensibile. Risultato di questo ripensamento è il Timeo, dialogo che approfondisce il problema cosmologico dell’origine e della formazione dell’universo.
Il mito del demiurgo Certamente, anche per l’ultimo Platone il mondo naturale non ha la saldezza e la stabilità delle idee, e non può dunque essere oggetto di scienza nel senso rigoroso del termine. Tuttavia su di esso, ossia «su quello che nasce e che muore e che si apprende con opinione», si può almeno formulare, con l’aiuto del mito, un discorso verosimile e probabile.
FILOSOFIA E ARTE Platone e Aristotele nell’interpretazione di Raffaello p. 450
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La nascita Sforzandosi di capire meglio il rapporto tra le idee e le cose, Platone introduce un terzo terdel mondo mine a fare da mediatore tra questi: il demiurgo . Figura-limite tra il mito e la filosofia, il
VIDEO La funzione mediatrice del demiurgo
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del mondo? p. 322
demiurgo viene presentato come una sorta di divino artefice (o “artigiano”, secondo il significato letterale della parola greca demiourgós), dotato di intelligenza e volontà, che si trova a operare in una posizione intermedia tra l’essere perfetto delle idee e quello imperfetto delle cose. glossario p. 287 Nell’universo metafisico di Platone non esiste un Dio-persona (theós), ma solamente “il divino” (to théion), espressione impersonale usata per designare una molteplicità di cose diverse: divina è l’idea del Bene, divine sono le idee, divina è l’anima, divini sono gli astri ecc. Il demiurgo possiede invece caratteri personali, ma è comunque un’entità inferiore alle idee, alle quali si limita a guardare per ordinare una materia preesistente. In origine, infatti, il mondo era soltanto un caos informe, una materia priva di vita che Platone chiama chóra (letteralmente “luogo”, “spazio”), o anánke (“necessità”), o anche «madre del mondo». Il demiurgo, essendo buono e amante del bene, organizza questa materia formando le cose del mondo “a immagine e somiglianza” delle idee, comunicando così agli oggetti sensibili una parte della perfezione dei modelli iperuranici. Il demiurgo, quindi, non è il “creatore” della realtà dal nulla, ma il semplice “plasmatore” di una materia preesistente, coeterna alle idee. In questo modo il divino artefice fornisce alle cose un’ anima del mondo , la quale vivifica e ordina la materia, dando forma all’informe e trasformando l’universo in un immenso organismo vivente in cui si riflette l’armonia delle idee. glossario p. 287 ( T2 p. 292) le idee (essenze archetipiche)
IL DEMIURGO
è il mediatore tra
mondo intelligibile (modello) ossia tra
la materia (a cui infonde un’anima)
mondo sensibile (copia)
La concezione Per rendere il mondo sensibile ancora più simile al suo modello ideale, che è eterno, il dedel tempo miurgo genera anche il tempo, che Platone definisce in modo suggestivo «immagine mo-
bile dell’eternità». Quel che intende dire è che il tempo, con il suo succedersi ordinato di giorni, notti, mesi e anni, riproduce nella forma del mutamento l’ordine immutabile dell’eternità, cioè il moto eterno, uniforme e circolare degli astri, che dello scorrere del tempo è la misura.
La negatività L’opera del demiurgo, nonostante la sua buona volontà, è limitata dalla resistenza “ribelle” della materia della materia, alla quale Platone tende ad attribuire l’origine delle imperfezioni e dei mali
I NODI DEL PENSIERO Da dove viene il male? p. 326
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del nostro mondo. Nel Timeo, infatti, tutto ciò che esiste di positivo e di armonico è dovuto al demiurgo, all’intelligenza e alle idee, mentre tutto ciò che esiste di negativo e di disarmonico è dovuto alla materia e alla necessità. Come si vede, troviamo qui un primo abbozzo di soluzione al problema metafisico del male nel mondo, che sarà al centro della cosiddetta “teodicea” cristiana, termine coniato in età moderna per indicare la difesa o la “giustificazione” di Dio (dal greco dikaióo, “giustifico”, a sua volta derivato dal sostantivo díke, “giustizia”) rispetto all’accusa di essere causa del male, essendo causa del mondo. Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
La visione matematica delle cose La novità più rilevante del Timeo consiste però nell’avvicinamento al pitagorismo. La strut- La rielaborazione tura del cosmo plasmato dal demiurgo risulta infatti esplicitamente di tipo matematico: le platonica del pitagorismo cose sono ricondotte ai quattro elementi empedoclei (terra, acqua, aria e fuoco), che a loro volta vengono ricondotti a poche figure geometriche essenziali, le quali sono ulteriormente ricondotte a numeri. Di conseguenza, il platonismo del Timeo giunge a interpretare i numeri come schemi strutturali delle cose e a fare della matematica la “sintassi del mondo”, cioè il codice di interpretazione di tutto ciò che esiste. La nuova prospettiva con cui Platone si accosta al mondo naturale non implica però un av- Contro vicinamento alle ricerche dei precedenti filosofi della natura. Anzi, questi ultimi – e De- il meccanicismo atomistico mocrito in particolare – vengono combattuti proprio in ciò che per noi moderni hanno di più scientifico, cioè nel loro tentativo di spiegare la realtà in termini naturalistici e meccanicistici. Infatti, pur non negando le cause meccaniche, Platone le subordina totalmente alle cause finali, elaborando un proprio modello di spiegazione della natura basato sulle nozioni di “scopo” e di “bene”: un modello ben lontano dallo sforzo atomistico di “disantropomorfizzare” la scienza fisica.
La parziale rivalutazione dell’arte Nel presentare la propria concezione cosmologica, Platone approda nel Timeo anche a una parziale rivalutazione dell’arte, che nella Repubblica era stata inesorabilmente condannata come «due volte lontana dal vero», in quanto “copia di una copia” delle idee. Prima ancora che nel Timeo, il diverso atteggiamento nei confronti dell’esperienza artistica affiora nel Sofista. In tale dialogo, infatti, Platone chiarisce che l’arte in sé non costituisce una minaccia per il raggiungimento della verità, dal momento che, proprio in quanto tecnica imitativa, essa può comunque mantenere un collegamento con il mondo intelligibile. Quando però viene usata a fini illusionistici, ovvero per ingannare, allora diventa deprecabile. In tal senso, nel Sofista Platone osserva che la mímesis di cui si servono le varie arti (dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla retorica dei sofisti) può tradursi in due diversi tipi di produzione artistica: quella “icastica” (dal greco heikastikós, “rappresentativo”), che produce copie o rappresentazioni della realtà, e quindi delle idee; e quella “fantastica”, che, discostandosi dalla realtà, produce invece mere apparenze o illusioni. Se nell’uso fantastico le arti possono produrre immagini false, cioè meri «simulacri» o ombre dell’essere vero (come perlopiù fanno i sofisti con i loro ingannevoli giochi di parole), nell’uso rappresentativo producono copie di copie di idee, che in quanto tali partecipano della perfezione di queste ultime: in questo caso l’arte funge dunque, sia pure in modo depotenziato, da strumento di verità.
La rivalutazione dell’arte “rappresentativa”
FILOSOFIA E ARTE Il tempio greco tra realtà e apparenza p. 266
Tra le forme d’arte considerate nel Sofista, figura anche il teatro: il talento degli attori viene Il riscatto infatti presentato come un’esemplificazione concreta della mímesis in senso stretto del teatro e della poesia (icastico), poiché la rappresentazione teatrale è l’imitazione di eventi reali, o meglio la loro trasfigurazione sulla scena, esattamente come gli oggetti sono l’imitazione delle idee. Parallela alla rivalutazione del teatro è quella dei poeti, i quali, banditi nella Repubblica dallo Stato ideale, vi sono ora riammessi in ragione della loro cultura. Ma il ripensamento platonico dell’arte e della sua funzione culmina, come abbiamo detto, Il cosmo come nel Timeo, dove il cosmo è descritto come una grande e meravigliosa opera d’arte, plasma- opera d’arte ta dal demiurgo con criteri di organizzazione matematica e di proporzione (symmetría).
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La cosmogonia richiede dunque non soltanto una competenza matematica, ma anche una competenza artistica, e poiché si attua come imitazione diretta delle idee, è la più alta forma di mimèsi (per quanto si tratti di un’imitazione “sensibile”, realizzata con la materia, la chóra). La formazione del cosmo da parte del demiurgo diventa così l’allegoria dell’esperienza artistica: come il demiurgo plasma l’universo imitando un modello intelligibile, così l’artista forgia un’opera imitando il proprio modello mentale. In tal modo, se in alcuni passi del Timeo si continua a sostenere l’antica dottrina avversa all’arte, in altri si affaccia una nuova concezione, che mette al centro della creazione artistica la creatività dell’artista.
La concezione della storia La storia Nel Timeo Platone introduce anche la propria concezione della storia, che emerge dal racconcome regresso to su Atlantide iniziato da Timeo e poi continuato da Crizia nell’omonimo dialogo.
Attraverso le vicende dell’isola leggendaria creata da Poseidone oltre le colonne d’Ercole, divenuta florida e potente, ma poi corrottasi e inabissata da Giove per punizione, Platone espone la sua idea della storia come regresso da una mitica e felice età primordiale. La felicità, dunque, precede la fondazione della civiltà, la quale conduce gradualmente a una corruzione dei costumi e dei valori: il filosofo sembra in tal modo tornare a quell’immagine mitica del passato da cui i sofisti e Democrito avevano faticosamente cercato di liberarsi.
5. Il Filebo: il bene per l’essere umano Nella Repubblica Platone aveva concepito il bene come l’oggetto supremo del pensiero. L’aveva posto al sommo della gerarchia delle idee (l’«idea del Bene») e l’aveva paragonato al sole, in quanto fa sussistere e rende conoscibili le idee proprio come il sole, con il suo calore e la sua luce, fa sussistere e rende visibili le cose. Ma una tale natura puramente oggettiva e metafisica del bene non può più essere sostenuta, ora che Platone ha riconosciuto che lo stesso mondo delle idee include una trama di relazioni dialettiche. Per questo nel Filebo il filosofo affronta nuovamente la questione, intendendo stabilire che cos’è il bene non in sé, ma per l’uomo. Un problema Evidentemente il bene per l’essere umano è una forma di vita, anzi la forma di vita che più di misura gli è propria. E una vita propriamente umana non è né una vita divina (fatta di pura ragio-
ne), né una vita puramente animale, che sarebbe fondata soltanto sulla soddisfazione degli istinti e sul piacere. Il bene sarà dunque un «misto» di piacere e intelligenza, anche perché non esiste alcun vero piacere senza la coscienza di esso. Anche la vita umana sarà pertanto una vita mista, divisa tra la ricerca del piacere e l’esercizio dell’intelligenza, e tutto starà a trovare la giusta misura, ovvero la giusta proporzione, in cui il piacere e l’intelligenza devono mescolarsi per costituire una vita “buona” o “virtuosa”. L’indagine morale di Platone si trasforma così in un’indagine metafisica a sfondo matematico, basata sulla concezione del bene come misura.
Tra piacere Ricorrendo ai concetti pitagorici del limite e dell’illimitato, Platone afferma che il piacere illimitato e è un illimitato (può essere infatti aumentato o diminuito indefinitamente) e che a esso intelligenza limitante bisogna imporre un ordine o una misura, e questa è la funzione del limite. L’illimitato che
mediante il limite acquista un ordine, o una misura, diventa qualcosa di armonico, di proporzionato: un numero. Ma chi impone il limite è l’intelligenza, la quale trasforma ciò
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
che è illimitato in un ordine e in una proporzione numerica. Della vita umana devono dunque far parte l’intelligenza, che sarà la causa dell’ordine e della misura, ma anche il piacere, il quale dovrà essere disciplinato e proporzionato con un limite. Platone ritiene che tutte le manifestazioni dell’intelligenza, ossia tutte le forme di cono- La tavola scenza, da quella più alta a quella più bassa (cioè dalla scienza delle pure forme ideali al- dei valori la conoscenza sensibile, o opinione), facciano parte della vita umana, dal momento che tutte assolvono a qualche necessità dell’uomo. A ciascuna forma di conoscenza (sensazione, ricordo, ragionamento ecc.) è collegata una qualche forma di piacere, tanto che è possibile distinguere i piaceri in “veri” o “puri” (cioè non mescolati al dolore) e “falsi” o “impuri” (cioè mescolati al dolore) a seconda della maggiore o minore affidabilità e autosufficienza del tipo di conoscenza a cui si accompagnano. Ora, secondo Platone la vita umana deve tendere ai piaceri puri, ovvero a quei piaceri che non dipendono dall’appagamento di un bisogno, ma derivano dalla contemplazione disinteressata delle belle forme, dei bei colori ecc. Sulla base di questa distinzione tra piaceri puri e piaceri impuri, Platone elabora anche una gerarchia di valori: al grado più basso si trovano l’ordine, la misura, il giusto mezzo; salendo si incontra ciò che è proporzionato, bello e compiuto; quindi viene l’intelligenza, come causa della proporzione e della bellezza; poi ci sono la scienza e l’opinione; infine, al grado più alto della scala, i piaceri puri. Il tentativo di Socrate di fare della virtù una scienza trova così compimento nella riduzione platonica della virtù a scienza della misura. Gli ascoltatori di Platone rimanevano delusi quando, negli ultimi tempi, avendo il filosofo annunciato di voler parlare del bene, dissertava poi intorno al numero e alla misura. Ma questo era l’ultimo risultato della riduzione socratica della virtù al sapere, giacché soltanto sulla via della misura e del numero si poteva, secondo Platone, ricondurre la condotta umana al rigore della scienza.
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Per l’esposizione orale
Condotta umana e rigore scientifico
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la felicità? p. 473
1. Chi è il «demiurgo» e in che modo dà origine al mondo? 2. “Il cosmo è una meravigliosa opera d’arte con una struttura matematica”: illustra il senso di questa affermazione alla luce del pensiero dell’ultimo Platone, spiegando anche in che modo essa costituisca la base per una parziale rivalutazione dell’attività artistica. 3. In che senso si può affermare che nel Filebo Platone completa la sua trattazione del bene, identificandolo con la “misura”?
6. Il problema delle leggi Il Politico e Le leggi Negli anni della vecchiata, la riflessione platonica ritorna anche sul problema politico, come ben emerge dai titoli dei dialoghi che ci restano da analizzare: il Politico e Le leggi. Nel Politico Platone si domanda quale debba essere l’«arte regia», cioè l’arte del “reggere” I governanti i popoli. Con una suggestiva metafora, egli la paragona all’arte della tessitura, osservando come “tessitori” che quest’ultima non è riducibile né alla pulitura della lana né alla sua semplice lavorazione o filatura, dal momento che utilizza sia queste sia altre tecniche per creare un tessuto in cui ogni filo si intrecci armonicamente con gli altri.
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In modo analogo il buon politico è un abile “tessitore” che sa usare arti e metodi diversi (tecnica militare, capacità retorica, competenza giudiziaria ecc.) per armonizzare le virtù di ogni cittadino in vista del bene e della felicità comuni:
‘
Questo, dunque, diremo è il fine del tessuto della prassi politica: un perfetto intreccio fra i caratteri degli uomini coraggiosi e dei prudenti, ottenuto quando l’arte regia, riunendo la loro vita in comune consenso ed amicizia, realizzando così il più stupendo e il più prezioso fra tutti i tessuti, includendovi il popolo tutto che vive negli Stati, servi e liberi, insieme li racchiuda entro questa rete, e, per quanto a una città è dato d’essere felice, non trascurando (Politico, 311c) nulla che tenda a questo fine, la governi e la guidi.
La riduzione del problema politico al problema delle leggi
Per “tessere insieme” nel migliore dei modi le diverse competenze e capacità dei cittadini, il politico deve mettere in atto una complessa “arte della misura”: egli, cioè, deve essere in grado in ogni situazione di evitare sia l’eccesso sia il difetto, trovando una giusta via di mezzo per ogni caso concreto che di volta in volta si trovi ad affrontare. La misura prende così il posto che nella Repubblica era occupato dalla giustizia. A questo fine, la cosa migliore sarebbe che i reggitori dello Stato non ponessero leggi, giacché la legge, essendo generale, non può prescrivere con precisione ciò che di volta in volta è bene. Tuttavia, proprio perché è impossibile per i governanti fornire prescrizioni precise per ogni singolo caso e per ogni singolo individuo, le leggi sono necessarie, benché si limitino a indicare ciò che genericamente è il meglio per tutti. Delle tre forme “fisiologiche” di governo storicamente esistenti (monarchia, aristocrazia e democrazia1), ciascuna si distingue dalla corrispondente forma deteriore (tirannide, oligarchia e demagogia) proprio per l’osservanza delle leggi. In tal modo il problema politico, che nella Repubblica era stato ricondotto al problema della formazione di una comunità umana perfetta da un punto di vista morale, acquista ora un carattere più determinato e specifico, e diventa il problema di quali leggi debbano governare gli uomini e indirizzarli gradualmente a diventare cittadini di quella comunità ideale.
La funzione Al problema delle leggi è dedicata anche l’ultima opera platonica, che è la più estesa di tuteducativa te: il dialogo intitolato appunto Le leggi, il cui manoscritto venne trascritto e riorganizzadelle leggi
ESERCIZI
to in dodici libri da Filippo di Opunte (allievo di Platone presso l’Accademia) dopo la morte del maestro. Platone è ormai più vivamente consapevole della «debolezza della natura umana» e perciò ritiene indispensabile che anche in uno Stato bene ordinato vi siano leggi e sanzioni penali. La legge deve però conservare la propria funzione educativa: essa non deve servire soltanto a comandare, ma anche a convincere, persuadendo della propria bontà e necessità. Da ciò risulta che il fine delle leggi è quello di promuovere nei cittadini la virtù, che (come già Socrate insegnava) si identifica con la felicità. Ed esse non devono promuovere una sola virtù (ad esempio il coraggio guerriero) ma tutte, perché tutte sono necessarie alla vita dello Stato.
1. Negli scritti platonici della vecchiaia, la democrazia non è più vista come una forma “degenerata” di governo, ma resta pur sempre la peggiore delle tre forme fisiologiche. Secondo la mentalità anti-democratica di Platone, infatti, una moltitudine, comunque sia composta, non è mai in grado di «amministrare uno Stato con intelletto»; pertanto l’unica retta costituzione «è da ricercare in un piccolo numero di persone, in qualche unità appena, in uno solo, mentre le altre costituzioni […] son da ritenersi imitazioni, in meglio o in peggio, di quella vera» (Politico, 297c).
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
Differenze e analogie tra la Repubblica e le Leggi Rispetto alla struttura statale delineata nella Repubblica, nelle Leggi si rilevano alcune no- Un riavvicinamento vità, che in parte discendono dal sopraggiungere in Platone della consapevolezza che la alla realtà realizzazione dello Stato ideale descritto in precedenza è probabilmente possibile «soltanto a dèi o discendenti di dèi». Così, ad esempio, nelle Leggi non esiste più la rigorosa tripartizione delle classi; i filosofi non sono più reggitori; i guerrieri sono sostituiti dalla vecchia milizia cittadina; il governo proposto è una forma mista di aristocrazia e democrazia; viene di nuovo ammessa la famiglia ed è incoraggiato il matrimonio monogamico (al punto da prevedere una multa per i celibi di età superiore ai 35 anni); viene reintrodotta, sia pure in misura ristretta e sotto controllo statale, la proprietà privata, senza che venga abbandonato, almeno in teoria, l’ideale comunista. Poiché, nonostante le novità introdotte, la comunità platonica continua ad essere una for- Il mantenimento ma di statalismo che non lascia spazio alcuno all’iniziativa del singolo o delle famiglie, la di un rigido statalismo distanza tra la Repubblica e Le leggi, sotto questo aspetto, risulta minore di quanto si sia tradizionalmente affermato. Ad esempio, una delle parti più interessanti del dialogo è quella riguardante l’educazione, che viene totalmente gestita e sorvegliata dallo Stato. Ma l’istituzione più caratteristica delle Leggi è forse il «Consiglio notturno», che sostituisce i filosofi-re assumendo il compito di supervisore generale della vita collettiva e di severo garante dell’osservanza delle leggi, della religione e dei costumi.
La nuova concezione della religione Nella prospettiva dell’ultimo Platone, l’educazione ha come fondamento la religione, che egli considera come un incentivo al rispetto della virtù e delle leggi, e quindi come una solida base su cui edificare la coesione sociale e la stabilità politica. Per questo motivo la religione trova nelle Leggi un vistoso riconoscimento, quale ambito che detiene un ruolochiave nella vita e nel pensiero umani. Tant’è vero che Platone, assimilando l’ateismo a un vero e proprio “cancro” per la comunità politica, propone l’esilio e la pena di morte per chi non riconosca la divinità.
L’importanza della religione per la comunità politica
La religione di Stato descritta nelle Leggi, tuttavia, è ben diversa dalla religione tradizionale La religione (che viene combattuta da Platone), poiché costituisce una sorta di religione a sfondo cosmico, come teologia astrale che sulla scia del Timeo vede nell’ordine del cosmo e negli astri la concretizzazione della divinità. Da ciò l’accresciuta importanza dell’astronomia, che diviene sforzo di comprensione degli scopi divini attraverso lo studio dei moti astrali, da cui tutto dipende (teologia astrale). Contro i fisici e contro Democrito, i quali, facendosi portatori di una nuova razionalità scientifica, avevano riconosciuto la sostanziale omogeneità del mondo terrestre rispetto a quello celeste, Platone torna dunque a recuperare l’antico pensiero mitico, che negli astri vedeva delle divinità. La regressione platonica verso il mito si può adeguatamente comprendere soltanto in relazione al tentativo del filosofo di dare una fondazione cosmica all’etica e alla politica. Infatti, se la realtà fosse una mera commistione di materia e caso, allora sarebbe impossibile derivare da essa una solida proposta politica. Se invece si interpreta il mondo come un organismo razionale e retto da leggi divine, lo Stato degli uomini potrà agevolmente essere concepito come riflesso di un tale ordine e come impegno a realizzarlo. Tant’è vero che la teologia astrale, cioè la sapienza religioso-filosofica circa l’ordine divino e provvidenziale del mondo (che prende corpo nei moti astrali), tende in questa fase della riflessione platonica a sostituirsi alla dialettica e a tradursi in una nuova filosofia politica, incentrata sull’intento di portare, nella tormentata e violenta città degli uomini, la misura e l’armonia dei cieli.
La riproduzione sulla terra dell’armonia celeste
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7. Le dottrine non scritte Come si è già detto, la fase più tarda della riflessione platonica mostra un’accentuazione dell’influenza pitagorica e, conseguentemente, dell’impostazione matematica della dottrina delle idee, come testimoniano in particolare il Timeo e il Filebo. La ricerca Dopo aver individuato, nel Sofista, i cinque generi sommi (essere, identico, diverso, quiete e dei princìpi movimento) e dopo aver parlato, nel Filebo, della dualità tra limite e illimitato, Platone sembra delle idee
intenzionato a identificare i princìpi fondamentali da cui derivano tutte le cose: non soltanto le realtà naturali, ma anche quelle ideali. Le categorie generali del Sofista e del Filebo acquistano così un ruolo ontologico ancora più fondamentale, diventando i princìpi da cui le idee stesse scaturiscono; infatti le idee sono molteplici e «il molteplice, appunto in quanto molteplice, per Platone non può essere originario, giacché non spiega sé stesso» (Giovanni Reale).
Che cosa sono Da fonti antiche (e in particolare da Aristotele) si apprende che Platone avrebbe sviluppato la rile dottrine cerca di questi princìpi evitando di metterne per scritto i passaggi e i risultati, e pervenendo all’enon scritte
laborazione di una prospettiva metafisica che andava molto al di là delle dottrine contenute nei dialoghi. Secondo alcuni interpreti, il carattere elevato degli argomenti trattati avrebbe indotto Platone a riservare queste nuove teorie ai soli allievi dell’Accademia, comunicandole ad essi oralmente, nella convinzione (socratica) che soltanto il confronto orale tra maestro e allievo consentisse un insegnamento chiaro, vivo e davvero proficuo su temi così importanti.
Una nuova Secondo la nuova prospettiva metafisica elaborata in queste dottrine non scritte (che prospettiva aveva un chiaro riferimento alla teoria pitagorica degli opposti), alla base dell’intero unimetafisica
verso sono individuabili due princìpi fondamentali: l’Uno, che costituisce l’elemento formale e il limite dell’essere; e la Diade di grande-e-piccolo, che costituisce invece l’elemento materiale e illimitato. Da questi due princìpi prende avvio una complessa teoria che, in uno dei suoi significati di fondo, alludeva probabilmente alla compresenza originaria di una materia passiva e ricettiva (la chóra del Timeo) e di un elemento attivo (analogo per costituzione alle idee, ma a queste superiore) pienamente unitario, che a quella materia conferiva la forma per creare gli oggetti del cosmo. glossario p. 287
Dalle idee Rispetto al contenuto della Repubblica, dunque, nelle dottrine non scritte le idee non sono ai numeri più entità primitive, ma derivate; esse, inoltre, hanno modificato la loro natura, diventando
numeri. Più esattamente, le idee non sono identificate con particolari numeri o con singole espressioni matematiche, ma con idee-numero dotate di valore universale. Da tali idee-numero discendono poi le singole espressioni aritmetiche o geometriche (ad esempio le figure geometriche visibili, che i matematici disegnano), le quali, in linea peraltro con quanto Platone asseriva già nella Repubblica, giocano un ruolo di “mediazione” tra le forme ideali e gli oggetti sensibili. Esse, infatti, sono eterne, immutabili e immateriali come le idee, ma molteplici come gli oggetti sensibili. Per esemplificare, si può dire che esistono la “triangolarità” come idea universale e semplice, i “triangoli” in quanto enti matematici astratti ma molteplici (vale a dire l’“idea” di triangolo isoscele, quella di triangolo scaleno ecc.) e infine i triangoli disegnati con il gesso su una lavagna o con la matita su un foglio di carta. L’universo fisico così delineato costituisce pertanto l’ultima derivazione dai princìpi, e risulta completamente tradotto in termini matematici.
)
Per l’esposizione orale
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1. 2. 3. 4.
Qual è il fine delle leggi nell’ultimo Platone? Spiega in che senso, nell’ultimo Platone, la religione assuma i tratti di una “teologia astrale”. Che cosa sono le “dottrine non scritte”? Alla luce delle ipotesi degli storici sulle dottrine non scritte, spiega che cosa sono l’«Uno» e la «Diade»
Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
l’eredità di PLATONE DA CHI E CHE COSA EREDITA da Socrate il dialogo quale strumento più adatto alla ricerca filosofica e quale metodo esclusivamente orale, che non fissa i risultati raggiunti in un testo scritto
CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ con Platone il dialogo socratico diventa anche una modalità espositiva scritta, che avrà grande fortuna non soltanto in filosofia ma anche in altre discipline
dalla tradizione poetica la forma narrativa del mito, anticamente usata soprattutto per esporre le teorie cosmogoniche e la concezione del mondo e degli dèi
la narrazione mitica è utilizzata da Platone per spiegare concetti filosofici (metafisici, gnoseologici, etici ecc.), sia per facilitarne la comprensione, sia per attribuirvi un alone di sacralità e sottolineare l’elevatezza degli argomenti trattati
da Socrate il razionalismo etico, ovvero la concezione del bene come retta conoscenza e, simmetricamente, del male come ignoranza
l’idea del male elaborata da Platone è parzialmente diversa: egli, infatti, giunge a concepirlo come impulso contrario alla ragione scelto non soltanto per ignoranza, ma liberamente e colpevolmente, e che pertanto richiede di essere punito, cosa che avverrà dopo la morte del corpo, quando l’anima sarà giudicata per le scelte effettuate durante la vita terrena
da Socrate l’idea dell’indagine filosofica come ricerca di definizioni o concetti (il “che cos’è”, ti estí)
gli astratti concetti socratici sono trasformati da Platone in “oggetti” effettivamente esistenti in un mondo sovrasensibile: le idee, essenze e modelli perfetti, eterni e immutabili delle cose
da Parmenide l’idea dell’essere autentico come unico, omogeneo, immobile e immutabile nella sua perfezione, che esclude il non essere
Platone supera la concezione parmenidea ammettendo la molteplicità e l’eterogeneità dell’essere autentico (le idee), e identificando il non essere con l’essere diverso, cioè con il non essere relativo
da Socrate l’idea della conoscenza come ricerca inesauribile e della verità come limite ideale, a cui tendere senza mai avere la sicurezza di averlo raggiunto
Platone rielabora questa idea facendo coincidere la conoscenza autentica con il possesso della verità, ovvero con la contemplazione delle idee, che non soltanto è un traguardo raggiungibile, ma anzi è la condizione stessa della filosofia
dall’orfismo l’idea che l’anima sia distinta dal corpo, al quale sopravvive per tornare ciclicamente a incarnarsi in altri corpi
alle dottrine orfiche dell’immortalità dell’anima e della metempsicosi, Platone affianca quella della tripartizione dell’anima in razionale, irascibile e concupiscibile
dalla prassi politica ateniese l’esperienza di un governo democratico, esercitato direttamente da tutti i cittadini
deluso da una democrazia esercitata, di fatto, in maniera ingiusta e irrazionale, quale modello ideale di organizzazione politica Platone propone invece una forma di aristocrazia del sapere, nella quale il governo spetta ai filosofi, che conoscono il vero bene
dai sofisti la concezione della giustizia come esercizio del potere da parte del più forte
Platone supera l’idea sofistica ed elabora un’idea di giustizia come equa distribuzione di compiti all’interno dello Stato e, a livello individuale, come armonia fra le tre parti dell’anima
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AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 3 UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’ESSERE: GLI SCRITTI DELLA VECCHIAIA
I problemi legati alla teoria delle idee Nei dialoghi della vecchiaia Platone rivede le proprie dottrine, giungendo in alcuni casi a esiti diversi da quelli presentati nei dialoghi della maturità. In particolare, il filosofo cerca di precisare meglio la natura del mondo delle idee e del rapporto tra le idee e le cose. Le opere in cui affronta questi temi sono: il Teeteto, in cui analizza criticamente le nozioni di “verità” ed “errore”, preparando il terreno per le sue riflessioni successive; il Parmenide, in cui mette in luce alcuni aspetti problematici della teoria delle idee, che contraddicono la concezione eleatica dell’essere (v. oltre); il Sofista, in cui i problemi sollevati nel Parmenide vengono risolti mediante una nuova concezione dell’essere (v. oltre); il Timeo, in cui il passaggio dalla perfezione del mondo ideale all’imperfezione del mondo materiale viene spiegato con la dottrina-mito del «demiurgo» (v. oltre).
I problemi del Parmenide e la soluzione del Sofista I principali problemi legati alla dottrina delle idee, esposti da Platone nel Parmenide, sono: la difficoltà di conciliare l’unicità dell’idea con la molteplicità delle cose che “partecipano” di essa; la difficoltà di concepire l’idea come una molteplicità di oggetti (ad esempio tutti gli uomini) considerati nella loro unità (l’idea di uomo), perché questo processo potrebbe essere reiterato all’infinito (ad esempio considerando unitariamente tutti gli uomini più l’idea di uomo, ottenendo in questo modo l’idea di un «terzo uomo»; e così via);
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la difficoltà di ammettere la molteplicità delle idee rimanendo fedeli al principio eleatico secondo cui il non essere non è. Quest’ultimo costituisce un problema radicale, perché, essendo le idee platoniche molteplici, è necessario ammettere che un’idea “non è” l’altra, violando così il principio parmenideo. Per risolvere questo problema, nel Sofista Platone espone la dottrina dei
• generi sommi dell’essere
le supreme determinazioni possibili delle idee, ovvero l’essere, l’identità, la diversità, la quiete e il movimento. Le idee, infatti, sono (in senso assoluto, in quanto esistono), sono identiche a sé stesse; sono diverse da tutte le altre idee; possono essere in quiete (cioè non entrare in relazione con alcuna altra idea); possono essere in movimento (entrando in relazione con altre idee). Queste determinazioni non si applicano soltanto alle idee, ma anche al mondo naturale e umano, finendo così per configurarsi come le caratteristiche fondamentali dell’essere in generale.
Alla dottrina dei «generi sommi» si lega una nuova concezione del non essere, secondo cui quest’ultimo può essere inteso (contro Parmenide) in due sensi, cioè in senso assoluto (ovvero come nulla) o in senso relativo (ovvero come essere diverso, come quando diciamo, ad esempio, che il triangolo “non è” il quadrato). Inteso in senso relativo, il non essere esiste, e in qualche modo partecipa dell’essere. Si consuma così l’“assassinio” filosofico di Parmenide. La nuova dottrina dell’essere consente anche di risolvere il problema (delineato nel Teeteto) dell’errore, il quale risulta possibile perché non consiste nel dire il nulla o l’indicibile (ciò che “non è”), ma nel dire le cose in modo “diverso” da come stanno realmente.
La nuova concezione della dialettica Sempre nel Sofista, Platone cerca di ridefinire il concetto di essere nei termini della possibilità e della relazione, riconoscendo che “esiste” tutto ciò che può entrare in relazione con qualcos’altro. Alla luce di questa definizione, emerge una nuova nozione di:
• dialettica
in Platone, in generale, la suprema scienza delle idee, ovvero la filosofia stessa, intesa come “visione” intellettuale dell’essere autentico (le idee); nell’ultimo Platone, in particolare, la dialettica è la scienza delle relazioni effettivamente esistenti tra le idee, ovvero la conoscenza dell’effettiva trama di un essere che è intrinsecamente molteplice e in movimento.
Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
In quanto scienza, la dialettica ha un proprio metodo specifico, il quale si articola in due momenti: uno ascensivo o sinagogico, consistente nell’unificazione (synagoghé) di una molteplicità di cose sotto un’unica idea; l’altro discensivo o diairetico, consistente nella divisione (diáiresis) di un’idea nelle sue articolazioni interne. In questo secondo caso si ricorre a un procedimento detto
• dicotomico
(dal greco dichotomía, letteralmente “divisione in due”, termine a sua volta composto dall’avverbio dícha, “in due parti”, e dalla radice del verbo témno, “taglio”) il metodo mediante il quale si attua il momento discensivo (o diairetico) della dialettica platonica; consiste nel partire da un’idea e nel “tagliarla” in altre due idee (nelle quali la prima può essere differenziata); tra queste due nuove idee, una sarà abbandonata, mentre l’altra sarà ulteriormente differenziata in due, e così via; il procedimento si ripete fino a giungere a un’idea non ulteriormente divisibile, che definisce il concetto iniziale nel modo più preciso possibile.
Il Timeo e l’origine del mondo Il rapporto tra il mondo delle idee e il mondo sensibile – ovvero, più precisamente, il problema dell’origine del secondo dal primo – è affrontato nel Timeo, dove Platone delinea la mitica figura del
• demiurgo
(in greco demiourgós, “artefice”, “artigiano”) figura divina dotata di intelligenza e di volontà, che plasma il mondo sensibile sul modello delle idee, dando ordine e forma a una materia primordiale caotica (la chóra) e coeterna alle idee, e dunque a lui preesistente.
Nel dare forma alla materia, il demiurgo la vivifica, dotando la realtà sensibile di quella che Platone chiama
• anima del mondo
sorta di soffio vivificante, impresso dal demiurgo platonico alla materia, che trasforma il cosmo in un immenso organismo vivente.
L’universo plasmato dal demiurgo è una meravigliosa opera d’arte, contrassegnata da una struttura matematica e da un armonico e rigoroso ordine geometrico.
Il bene, le leggi e le dottrine non scritte
supremo del pensiero, posto al culmine della gerarchia delle idee (il Bene in sé); ora, dopo aver introdotto la “mobilità” dialettica anche nel mondo delle idee, deve nuovamente chiedersi che cosa sia il bene, questa volta però non in sé, ma per l’uomo. Egli lo definisce dunque come la giusta proporzione tra piacere e intelligenza, risolvendo la ricerca della virtù in una scienza della misura.
La nuova visione politica Nella sua vecchiaia, Platone torna a occuparsi di politica nel Politico e nelle Leggi, in cui paragona l’arte propria dei reggitori a quella della tessitura: come questa consiste nel tessere insieme, armonicamente, una serie di fili diversi, così la buona politica consiste nell’armonizzare nel “tessuto” della città le diverse capacità e competenze dei cittadini. A questo fine i politici devono ricorrere all’arte della misura, individuando ciò che di volta in volta è più giusto. In questo contesto le leggi, per quanto siano generali e non possano quindi considerare i casi particolari, sono comunque necessarie sia per indicare genericamente il meglio per tutti, sia per educare o orientare i cittadini a una vita virtuosa. A questo stesso fine contribuisce la religione, che nell’ultimo Platone svolge un ruolo basilare per la comunità politica: egli la descrive come una sorta di teologia astrale che, mediante lo studio dei moti celesti, si propone di comprendere gli scopi divini.
Le dottrine non scritte Mentre pone mano ai suoi ultimi dialoghi, Platone prosegue l’attività di insegnamento, accentuando l’impostazione matematica (di ascendenza pitagorica) della teoria delle idee. Probabilmente per l’elevatezza dei temi trattati, la metafisica dell’ultimo Platone confluisce nelle cosiddette
• dottrine non scritte
insieme di teorie che Platone avrebbe tramandato soltanto in maniera orale; secondo la tradizione erano costituite da una sorta di metafisica a sfondo pitagorico, che poneva alla base di tutto l’Uno e la Diade: l’Uno (corrispondente al Bene della Repubblica) aveva la funzione di principio limitante e determinante, mentre la Diade (o Dualità di grande-e-piccolo) costituiva invece l’elemento materiale illimitato.
Il Filebo e la nuova concezione del bene Tra i dialoghi della vecchiaia, il Filebo affronta il tema del bene da un punto di vista soggettivo. Infatti, nella Repubblica Platone aveva parlato del bene come oggetto
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MAPPE
CAPITOLO 3 UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’ESSERE: GLI SCRITTI DELLA VECCHIAIA LA TEORIA DELLE IDEE è riconsiderata
nel Parmenide
nel Sofista
dove si ammette che
dove si afferma che
la molteplicità delle idee
il non essere può essere concepito come essere diverso
l’essere è possibilità e relazione
contraddice
procedendo a un
pervenendo a una concezione della
l’ontologia parmenidea
“assassinio” di Parmenide
dialettica come scienza delle relazioni effettivamente esistenti tra le idee
IL TIMEO
IL FILEBO
spiega
definisce
l’origine del mondo sensibile
il bene
mediante l’opera di un
come
demiurgo
giusta proporzione tra piacere e intelligenza
il quale
pervenendo alla concezione della
plasma una materia originaria informe ed eterna (la chóra) sul modello perfetto delle idee
virtù come scienza della misura
LA POLITICA
LE DOTTRINE NON SCRITTE
torna a essere affrontata
sono costituite da
nel Politico e nelle Leggi
una metafisica a sfondo pitagorico
dove si afferma che
basata sui concetti di
le leggi devono promuovere la virtù dei cittadini la religione è un incentivo al rispetto delle leggi
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Uno (principio limitante) e Diade (elemento materiale illimitato)
Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
CAPITOLO 3 UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’ESSERE: GLI SCRITTI DELLA VECCHIAIA Il superamento del problema del “non essere”
Nel Sofista Platone, andando oltre Parmenide, ridefinisce il non essere, di cui ammette l’esistenza come modalità dell’essere, in quanto “essere altro da”: ciò che non è grande, ad esempio, non è un mero nulla perché ha comunque una certa grandezza, quindi è semplicemente “altro” da ciò che è grande. Per giungere a tale conclusione Platone si avvale della dialettica, scienza filosofica per eccellenza, contrapposta alla mera abilità persuasiva tipica dei sofisti. Essa consiste nel definire dividendo (procedimento diairetico-dicotomico): si parte da un concetto di ampia estensione, quindi lo si ripartisce in una coppia di concetti tra loro opposti, aventi un’estensione più limitata rispetto al concetto di partenza; a questo punto si sceglie un lato della dicotomia, abbandonando l’altro, e si prosegue nella scissione, fino a giungere a un concetto non ulteriormente divisibile; questo sarà la definizione che si cercava. TESTO
1
Il non essere come essere diverso (Sofista) IL TESTO NELL’OPERA Il Sofista è la prosecuzione ideale del Teeteto. Questo dialogo termina con un appuntamento dato da Socrate a Teodoro per il mattino dopo. Il Sofista inizia proprio con la narrazione di questo ritrovo, dove si presentano anche altri personaggi, tra i quali una figura misteriosa, proveniente da Elea e definita nel dialogo “lo straniero”. A costui Socrate pone subito un problema: i termini “sofista”, “politico” e “filosofo” sono tre nomi diversi che indicano una sola cosa, o, come sono tre nomi distinti, così quelle da essi indicate sono tre cose diverse? Incomincia così l’analisi dialettica del concetto di “sofista”. Nel testo riportato di seguito, lo straniero, nel tentativo di spiegare come sia possibile una tecnica che fa apparire ciò che non è – la sofistica appunto –, si imbatte nel problema del non essere. Egli utilizza quindi il processo diairetico-dicotomico per definire la natura di “ciò che non è”, arrivando a identificare il non essere come essere diverso. Si tratta di un passaggio rivoluzionario rispetto alla dottrina eleatica.
Il paragone lo StRaniERo Riflettiamo su questo, se anche tu sei d’accordo. con la scienza tEEtEto Su che?
2
lo StRaniERo A
me pare che la natura del diverso si spezzetti come la scienza. tEEtEto Com’è a dire? 4 lo StRaniERo Anche la scienza è una, direi, ma ciascuna sua parte, distinta in quanto si applica a qualche oggetto, porta una denominazione particolare, che è una denominazione 6 della scienza; è così che si parla di molte arti e scienze.
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tEEtEto È
vero pienamente.
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lo StRaniERo Così anche le parti della natura del diverso, che è una, presentano la stessa affezione.
Gli esempi tEEtEto Forse è così, ma vogliamo dire come avviene ciò? del bello, lo StRaniERo Vi è una certa parte del diverso contrapposta al bello? del grande e del giusto tEEtEto Vi è.
che è senza nome oppure che ne ha uno? tEEtEto Ce l’ha; ciò infatti che noi volta a volta diciamo non bello, questo da nient’altro è diverso se non dalla natura del bello. lo StRaniERo Avanti, dimmi questo ora. tEEtEto Che cosa? lo StRaniERo Ciò che non è bello viene ad essere qualche cosa di distinto nell’ambito di un certo genere e d’altra parte contrapposto a qualche altra delle cose che sono? tEEtEto Certo. lo StRaniERo Come risulta, dunque, ciò che non è bello viene ad essere una contrapposizione di ciò che è a ciò che è. tEEtEto Giustissimo. lo StRaniERo Ebbene? Su questa base forse dobbiamo dire che per noi il bello è a maggior ragione una cosa che è di ciò che bello non è? tEEtEto Per nulla. lo StRaniERo Analogamente allora bisogna dire che sono il grande come tale e ciò che non è grande. tEEtEto Analogamente. lo StRaniERo Dunque sono anche da porre in analogo rapporto il giusto e ciò che non è giusto nel senso che per nulla l’uno è più dell’altro qualche cosa che è. tEEtEto Senza dubbio.
10 12
lo StRaniERo Diremo
14 16 18 20 22 24 26 28 30 32
La diversità lo StRaniERo Analogamente diremo per tutto il resto, poiché la natura del diverso ci apparcome forma ve appartenere alle cose che sono; essendo infatti questa, è necessario ammettere che an- 34 di essere
che le sue parti non sono meno di nient’altro cose che sono. tEEtEto Come no, infatti? lo StRaniERo Dunque, evidentemente, nella contrapposizione di una parte del diverso a una parte di “ciò che è”, posti questi due termini in contrapposizione fra loro, non è, se è lecito dirlo, quella parte, meno essere di “ciò che è”, in quanto tale, poiché non ha il valore di opposto di questo, ma solo di diverso da esso. tEEtEto Chiarissimo. lo StRaniERo Come la chiameremo dunque? tEEtEto È chiaro che “ciò che non è”, ciò che noi cercavamo studiando il sofista, non è altro che questo. lo StRaniERo Come hai detto, ciò non è inferiore, quanto all’essere, a nessuna altra cosa. E non occorre dire ormai coraggiosamente che “ciò che non è” è saldamente ed ha una sua propria natura, come vedemmo che il grande è grande, e che il bello è bello, e ciò che non è grande [è] non-grande, e ciò che non è bello [è] non-bello? Anche “ciò che non è”, per la stessa ragione, vedemmo essere, ed è non essendo, ed è un genere da annoverare fra i molti altri che sono. Oppure, Teeteto, v’è ancora qualche perplessità in ciò? tEEtEto Nessuna.
36 38 40 42 44 46 48 50
Oltre lo StRaniERo Lo sai che noi abbiamo abbandonato Parmenide e siamo andati assai al di là 52 Parmenide del suo divieto?
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Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
tEEtEto E
perché? lo StRaniERo Perché egli in qualche luogo dice: Tu infatti mai costringerai ad essere ciò che non è, tu invece da questa via, nel tuo cercare, tieni lontano il pensiero. tEEtEto Parmenide si esprime proprio così. lo StRaniERo E noi invece non solo abbiamo dimostrato che sono le cose che non sono, ma siamo giunti persino a scoprire quel genere che è proprio di ciò che non è. Dimostrando infatti che la natura del diverso è ed è distribuita a tutte quelle cose che sono e che hanno rapporti reciproci, noi osammo affermare che ciascuna parte di questa natura del diverso, in quanto contrapposta a una parte di “ciò che è”, proprio essa è realmente “ciò che non è”. tEEtEto Ed io, straniero, penso che noi abbiamo detto il vero, assolutamente.
54 56 58 60 62 64
(Sofista, 257c-258e, trad. it. di A. Zadro, Laterza, Roma-Bari 1971)
Il paragone con la scienza (rr. 1-9) Il problema della «natura del diverso» (r. 3) qui analizzata coincide in Platone con il problema dell’unità e della molteplicità delle idee, cioè, in termini eleatici, con il problema dell’essere e del non essere. Con la sua dottrina delle idee, Platone è obbligato ad ammettere il non essere, in quanto ciascuna idea, presa in sé stessa, non è le altre. Per lui, tuttavia, a differenza di Parmenide, questo riconoscimento non implica il “nulla assoluto”, ma apre al concetto di “non essere relativo”, cioè di “essere diverso”. L’esempio della scienza chiarisce questa posizione: la scienza, infatti, è una, ma, in quanto si applica a oggetti diversi, prende denominazioni diverse, e così si parla di molte arti e di molte scienze. Lo stesso si può dire della diversità, che, pur essendo un’unica natura, può essere applicata a molti oggetti. Gli esempi del bello, del grande e del giusto (rr. 10-32) Per bocca dello straniero, Platone passa a chiarire con una serie di esempi quanto ha appena affermato: di ciò che diciamo “non bello” non si può dire che non sia in senso assoluto, ma soltanto che “non è bello”, ovvero che è diverso da ciò che è bello. Il non bello, quindi, è, nel modo in cui sono quegli enti determinati che, in quanto tali, sono contrapposti ad altri enti. Non si tratta, in altre parole, della contrapposizione fra l’essere e il non essere (assoluti), ma fra un ente (letteralmente, cioè, una “cosa che è”) e un altro ente, diverso dal primo. Ma si può dire che il bello sia “più essere” e il non bello “meno essere”? No, assolutamente: il non bello è essere come il bello. E un analogo ragionamento può essere condotto per il grande e il non grande, e per il giusto e il non giusto.
La diversità come forma di essere (rr. 33-51) Platone può pertanto concludere che la natura del diverso appartiene agli enti, e se essa è, è necessario ammettere che anche le sue parti sono. Nella contrapposizione di una parte del diverso a ciò che è (all’ente), questa parte non è meno essere di ciò che è (dell’ente), poiché essa non significa il contrario di questo (dell’ente), ma soltanto il diverso. Questa acquisizione può essere utilizzata anche per descrivere la natura del sofista, che era precisamente il punto di partenza del dialogo. Non era infatti soddisfacente definire il sofista solamente in termini di negazione nei confronti del filosofo: ora, grazie alla nozione di “diverso”, si può affermare che il sofista è anch’egli sapiente, ma la sua sapienza è differente rispetto a quella del filosofo, in quanto, invece di dire la verità, egli la nasconde. Oltre Parmenide (rr. 52-64) Si consuma così quello che Platone altrove definisce un «parricidio» nei confronti di Parmenide, andando oltre il rigido dualismo eleatico di essere e non essere, e affrontando un discorso, quello sul non essere, che era stato vietato e che nelle righe precedenti a questo passo Platone stesso aveva definito come inquietante (tale che «ho paura di apparirti per un essere insensato, un pazzo che da un momento all’altro fa una giravolta completa»). Il filosofo riassume le proprie conclusioni dichiarando di avere non soltanto dimostrato che «sono le cose che non sono» (r. 59), e quindi che il non essere ha una sua consistenza ontologica, ma di avere anche scoperto il genere a cui il non essere appartiene, cioè il diverso.
TESTI PLATONE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
291
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Con il Sofista Platone uccide simbolicamente il suo “padre” filosofico, cioè il pensatore che prima di lui aveva incentrato l’ontologia sulla distinzione tra realtà e apparenze. Non è insolito che il sapere progredisca attraverso eredità intellettuali e superamenti: qual è la tua opinione in proposito? Rispondi in un testo scritto (max 30 righe), riportando possibilmente un altro esempio analogo al «parricidio» platonico.
Il mito del demiurgo
Il Timeo offre a Platone l’occasione per sviluppare un lungo discorso cosmologico che si apre con due asserzioni fondamentali: il mondo sensibile è un mondo in divenire; tutto ciò che diviene ha una causa, ovvero è il prodotto di un agente. Fa in questo modo la sua comparsa l’artefice (demiourgós) che plasma il mondo, una figura-limite tra il mito e la filosofia. TESTO
2
L’origine e la natura dell’universo
(Timeo)
IL TESTO NELL’OPERA Il Timeo è uno degli scritti platonici che più ha influito sulla filosofia e sulla scienza posteriori. Soltanto la parte introduttiva è in forma di dialogo, mentre la sezione più importante ed estesa, cioè il discorso pronunciato da Timeo, è un trattato. L’opera approfondisce essenzialmente tre temi: quello dell’intelligenza cosmica a cui si deve l’origine dell’universo, quello della struttura e del principio materiale dell’universo e, infine, quello della natura dell’essere umano. Il testo seguente è incentrato sulla prima tematica. Dato che il mondo naturale, a differenza di quello delle idee, non può essere oggetto di scienza e dunque resta relegato al dominio dell’opinione, per tentare di spiegare come esso abbia avuto origine Platone formula, con il mito del demiurgo, un discorso “verosimile”. Dal disordine tiMEo Sicché intorno a queste cose conviene accettare una favola verosimile, né cercare più in là. all’ordine SoCRatE Molto bene, o Timeo, e bisogna accettarla senz’altro, come tu dici. Già abbiamo ac- 2
colto il tuo preludio con molto diletto, e ora seguitando fa’ che noi ascoltiamo il tuo canto. tiMEo Diciamo dunque per qual cagione l’artefice fece la generazione e quest’universo. Egli era buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se alcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente. Perché il dio, volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello.
4 6 8 10
L’intelligenza Ora né fu mai, né è lecito all’ottimo di far altro se non la cosa più bella. Ragionando dun- 12 e l’anima que trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nes-
suna, priva d’intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un’altra che abbia intelligenza, e 14 ch’era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz’anima. Per questo ragionamento componendo l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo, fabbricò l’universo, af- 16 finché l’opera da lui compiuta fosse la più bella secondo natura e la più buona che si potesse. Così dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un 18 animale animato e intelligente, generato dalla provvidenza di un dio.
292
Unità 3 PLATONE Capitolo 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia
Il mondo come Posto ciò, occorre che passiamo in seguito a dire a somiglianza di qual animale l’abbia fatto 20 un grande l’artefice. Certo non reputeremo che l’abbia fatto a somiglianza d’alcuno di quelli che hanno animale
forma di parte, perché niente assomigliato a cosa imperfetta può mai esser bello: ma lo por- 22 remo somigliantissimo a quello, del quale sono parti gli altri animali considerati singolarmente e nei loro generi. Perché quello ha dentro di sé compresi tutti gli animali intelligibili, 24 come questo mondo contiene noi e tutti gli altri animali visibili. E il dio volendolo rassomigliare al più bello e al più compiutamente perfetto degli animali intelligibili, compose un solo 26 animale visibile, che dentro di sé raccoglie tutti gli animali che gli sono naturalmente affini.
L’unicità Ma abbiamo detto noi rettamente che uno è il cielo oppure era più retto dire che sono mol- 28 del mondo ti e infiniti? Uno è il cielo, se è stato fatto secondo il modello. Perché non può essere secon-
do con un altro quello che comprende tutti gli animali intelligibili: se no, a sua volta vi do- 30 vrebbe essere un altro animale, che contenesse quei due, che sarebbero sue parti, e allora non già a quei due, ma a quello che li contiene si direbbe più rettamente che questo mondo 32 somigliasse. Affinché dunque questo mondo, per esser solo, fosse simile all’animale perfetto, per questo il fattore [il demiurgo] non fece né due né infiniti mondi, ma v’è questo 34 solo unigenito e generato cielo, e ancora vi sarà. (Timeo, 29d-31b, trad. it. di C. Giarratano, Laterza, Roma-Bari 1971)
Dal disordine all’ordine (rr. 1-11) Sta parlando Timeo, che, secondo quanto Platone ci dice nel dialogo, doveva essere un pitagorico. A proposito dell’origine del mondo, egli non può che raccontare una «favola verosimile» (r. 1), cioè soltanto probabile, perché riguarda il mondo sensibile, soggetto al divenire, sul quale non si può avere un sapere certo. Fin dalle prime righe del passo, si affronta un problema fondamentale: perché il demiurgo ha prodotto il mondo? La risposta è che, essendo egli buono, volle che tutte le cose divenissero simili a lui, e poiché tutto il visibile si agitava caoticamente, egli lo ridusse all’ordine, perché l’ordine è migliore del caos. L’intelligenza e l’anima (rr. 12-19) Sebbene finalmente ordinato, l’universo privo di intelligenza non sarebbe mai stato più bello di qualcosa provvisto di intelligenza. Ed era impossibile anche l’intelligenza senza un’anima, quindi il dio unì l’intelligenza all’anima e l’anima al corpo, e così formò un universo animato e intelligente, perché fosse l’opera più buona e più bella possibile. Compare in queste righe l’idea dell’“anima del mondo”, che avrà molta fortuna nella filosofia successiva. Il mondo, per Platone, è dunque un essere vivente, un
grande animale dotato di corpo, anima e intelligenza, generato dalla provvidenza di un dio. È chiara l’impronta finalistica della cosmologia platonica, che in questo senso si differenzia in modo radicale dalla riflessione naturalistica dei presocratici, ma anche dall’atomismo di Democrito, per il quale gli atomi si univano tra loro a caso. Il mondo come un grande animale (rr. 20-27) Timeo passa subito a un altro problema: a somiglianza di quale animale il demiurgo ha fatto il mondo? Sicuramente non l’ha fatto a somiglianza di qualcosa di parziale (ovvero a somiglianza di qualche animale particolare e specifico), perché il parziale è imperfetto e non può essere bello: egli, quindi, lo deve avere forgiato sulla base di un modello ideale, cioè di un animale intelligibile (un concetto di animale) che contiene in sé tutti gli altri esseri viventi. L’unicità del mondo (rr. 28-35) È quindi la volta di un terzo e ultimo problema: il cielo (ossia il mondo) è uno solo o ce ne sono molteplici? Platone non ha alcun dubbio: il mondo è uno solo, perché necessariamente unico (in quanto perfetto) è il modello sulla base del quale è stato modellato.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Ti sei mai chiesto quale sia stata la causa dell’origine del mondo? Esponi il tuo punto di vista in un testo scritto (max 40 righe): sull’esempio platonico puoi ricorrere alle forme del mito, oppure puoi avvalerti di una modalità comunicativa più scientifica.
TESTI PLATONE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
293
VERIFICA
UNITÀ 3 PLATONE FLASHCARD
CAPITOLO 1 Il rapporto con Socrate e i dialoghi giovanili 1 Nei dialoghi giovanili Platone concepisce la filosofia come: A un sapere assoluto B un sapere aperto C una teoria del verosimile D una scienza priva di risvolti pratici
4 Completa la mappa riportata sotto, relativa alla visione politica di Platone, indicando le espressioni mancanti.
LA CRISI . . . . . . . . . . . . . . . . . . DI ATENE deriva da
2 Per Platone il mito rappresenta:
una crisi . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A una favola a cui non si deve prestare fede B un mero espediente stilistico
pertanto non basta
pertanto occorre
un semplice mutamento della forma di . . . . . . . . . . . . . . . . . .
una riforma globale dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . umana
C una forma del discorso razionale alternativa
alla filosofia D un mezzo per parlare dei problemi più alti e difficili
3 Indica se le affermazioni seguenti, relative ai primi che a sua volta richiede
dialoghi di Platone, sono vere o false. a. Nell’Ippia minore Platone dimostra
come sia possibile conoscere il bene e compiere il male
F
V
F
5 In che senso si può affermare che la ricerca platonica
V
F
si configura come uno sforzo di interpretazione della (max 6 righe) personalità filosofica di Socrate?
b. Nel Protagora Platone sostiene che la
virtù è unica e che si riduce al sapere
una . . . . . . . . . . . . . . . . . . rinnovata
V
c. L’Eutidemo è un dialogo indirizzato
contro la sofistica
6 Qual è il nucleo tematico centrale dell’Apologia di So-
d. Nel Gorgia Platone espone la sua teoria
della giustizia come convenzione umana
crate e del Critone? V
F
V
F
e. Platone dedica al problema del
linguaggio il dialogo intitolato Cratilo
7
(max 6 righe)
attività PLUS Confronta la tesi platonica sul linguaggio con quelle di Parmenide e dei sofisti, e fanne emergere le differenze, marcando il carattere di novità che rappresenta il punto di vista di Platone rispetto sia ai suoi predecessori sia ai suoi contemporanei. (max 15 righe)
CAPITOLO 2 Dalle idee allo Stato: i dialoghi della maturità 8 Le idee platoniche sono:
294
9 L’amore per Platone è:
A contenuti dell’intelletto
A un sentimento naturale
B copie o imitazioni delle cose
B uno strumento di elevazione intellettuale
C sostanze reali autonome D forme immanenti nelle cose
C una passione irrazionale, indegna di un filosofo D la più compita manifestazione della virtù
Unità 3 PLATONE VERiFiCa
10 In riferimento alla teoria platonica dello Stato, indica
12 Collega i miti platonici (colonna di sinistra) con i loro
se le affermazioni seguenti sono vere o false.
temi specifici (colonna di destra).
a. La condizione fondamentale della V
sopravvivenza dello Stato è la giustizia b. Le donne partecipano alla vita dello
Stato su un piano di totale parità rispetto agli uomini
V
F
c. La divisione degli individui in classi V
dipende da un diritto di nascita
V
F
b. mito di Er
2. tema del percorso conoscitivo
c. mito degli androgini
3. tema della verità prenatale
d. mito delle stirpi
4. tema dell’amore
e. mito della caverna
5. tema della stratificazione sociale
V
F
13 Collega le prove dell’immortalità dell’anima addotte
e. Nella società ideale il potere
è esercitato dal popolo
1. tema del destino
F
d. Affinché lo Stato funzioni bene
è necessario eliminare la proprietà privata
a. mito della reminiscenza F
da Platone (colonna di sinistra) con il loro argomento (colonna di destra). a. prova
dei contrari
f. Compito dello Stato è la diffusione del V
sapere presso tutte le classi sociali
F
11 Utilizza le espressioni elencate di seguito per completare la mappa riportata sotto, relativa alla teoria delle idee. carattere • criterio • fonte • idee matematiche • idee-valori • relativismo • superamento • umanismo
b. prova della
somiglianza c. prova della
vitalità
1. la vita si genera dalla morte, quindi l’anima rivive dopo la morte del corpo 2. l’anima partecipa dell’idea di vita, pertanto non può accogliere in sé l’idea di morte 3. l’anima, essendo semplice come le idee, non può essere né creata né distrutta
LA TEORIA DELLE IDEE
[mappa esercizio 11]
rappresenta
un . . . . . . . . . . . . . . . . . .
dell’. . . . . . . . . . . . . . . . . . di Socrate
del . . . . . . . . . . . . . . . . . . dei sofisti
perché
perché
l’uomo non è più la . . . . . . . . . . . . . . . . . . dei giudizi né il . . . . . . . . . . . . . . . . . . del conoscere e dell’agire
la conoscenza e la morale hanno un . . . . . . . . . . . . . . . . . . assoluto come dimostrano
le . . . . . . . . . . . . . . . . . . valide per tutti e in tutte le circostanze
le . . . . . . . . . . . . . . . . . . indipendenti da opinioni, usi e costumi
295
14 Utilizza i termini elencati di seguito per completare il testo riportato sotto, relativo al percorso educativo delineato da Platone. acustica • addestramento • aritmetica • astronomia • danza • filosofia • geometria • ginnastica • musica • poesia Fra i sette e i diciotto anni, i giovani studiano . . . . . . . . . . . . . . . (che comprende musica strumentale, canto, arte della declamazione e . . . . . . . . . . . . . . . e . . . . . . . . . . . . . . . (che comprende . . . . . . . . . . . . . . . , scherma, marcia di resistenza, tiro con l’arco). Sono poi previsti due anni di . . . . . . . . . . . . . . . militare, volto a fortificare il corpo e il carattere. Dai venti ai trent’anni, i migliori si dedicano alle discipline matematiche, in cui rientrano, dalla più semplice alla più complessa, l’. . . . . . . . . . . . . . . , la . . . . . . . . . . . . . . . , l’. . . . . . . . . . . . . . . , l’. . . . . . . . . . . . . . . matematica. Questi studi sono propedeutici alla . . . . . . . . . . . . . . . .
15 In che senso la gnoseologia di Platone rappresenta una forma di innatismo?
(max 6 righe)
16 Che cosa si intende quando si afferma che per Platone la politica ha carattere elitario?
17
(max 6 righe)
attività PLUS Confronta il concetto platonico di “idea” con quello parmenideo di “essere”, mettendo in evidenza analogie e differenze tra i due.
(max 15 righe)
18
attività PLUS Spiega la concezione del bello e dell’arte di Platone, facendone emergere la specificità ri(max 15 righe) spetto all’estetica dei sofisti.
CAPITOLO 3 Una nuova concezione dell’essere: gli scritti della vecchiaia 19 Per l’ultimo Platone l’errore:
d. Secondo Platone, il bene è un misto di
piacere e intelligenza
A consiste nel dire qualcosa di diverso da ciò che
effettivamente è B consiste nel pronunciare il nulla C è per definizione inesistente D deriva dall’eccessiva fiducia attribuita ai sensi
C consensuale
B confutativa
D costruttiva
F
V
F
V
F
e. Nel Politico la misura è l’equivalente di ciò
che la giustizia era nella Repubblica f. Le Leggi riconoscono alla religione
20 La dialettica platonica, rispetto a quella socratica, è: A soggettiva
V
tradizionale un ruolo-chiave nella vita dello Stato
23 Completa la mappa riportata sotto, relativa a una
21 Indica quale caratteristica fra quelle elencate non è
delle dottrine non scritte di Platone, indicando le espressioni mancanti.
L’INTERO UNIVERSO
attribuibile al demiurgo: A è un’entità inferiore alle idee B crea la realtà dal nulla C fa da mediatore tra le idee e le cose D ha caratteri personali
si basa su
due . . . . . . . . . . . . . . . . . . fondamentali
22 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. Le imperfezioni e i mali del nostro
mondo, per Platone, hanno origine dalla materia
V
V
296
Unità 3 PLATONE VERiFiCa
V
che costituisce
che costituisce
l’elemento . . . . . . . . . . . . . . . . . . e il . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’essere
l’elemento . . . . . . . . . . . . . . . . . . e illimitato
F
c. Nel Sofista Platone ribadisce la
condanna dell’arte, in quanto produttrice di illusioni
la . . . . . . . . . . . . . . . . . . di grande-e-piccolo
F
b. Nel Timeo Platone spiega la natura in
termini naturalistici e meccanicistici
l’. . . . . . . . . . . . . . . . . .
F
24 Utilizza i termini elencati di seguito per completare il
26 Qual è la concezione platonica della storia che emerge
testo riportato sotto.
nel Timeo?
compiutezza • intelligenza • misura • opinione • ordine • piacere • scienza Al grado più basso della gerarchia platonica dei valori si trovano l’. . . . . . . . . . . . . . . . . . , la . . . . . . . . . . . . . . . . . . , il giusto mezzo; salendo si incontrano la proporzione, la bellezza e la . . . . . . . . . . . . . . . . . . ; quindi viene l’. . . . . . . . . . . . . . . . . . , intesa come causa di ciò che è proporzionato e bello; poi ci sono la . . . . . . . . . . . . . . . . . . e l’. . . . . . . . . . . . . . . . . . ; infine, al grado più alto della scala, il . . . . . . . . . . . . . . . . . . puro.
(max 6 righe)
27 Quali sono le novità che Platone introduce nelle Leggi, rispetto alle tesi esposte nella Repubblica? (max 6 righe)
28
attività PLUS Alla luce dell’autocritica con cui Platone rielabora la sua teoria delle idee, spiega il mutamento di prospettiva avvenuto nel passaggio dai dialoghi della maturità a quelli della vecchiaia e specifica le ripercussioni che la rilettura platonica ha avuto (max 15 righe) sull’intera sua filosofia.
25 In che cosa consiste la tesi platonica secondo cui l’essere è possibilità?
(max 6 righe)
AVANGUARDIE EDUCATIVE COMPITO DI REALTÀ
COMPETENZE Progettare | Comunicare | Competenza digitale | Collaborare e partecipare | Risolvere problemi
Organizzare un evento su Platone per la “Giornata della filosofia” Immaginate che alla vostra classe venga assegnato il compito di organizzare uno degli eventi che animeranno la “Giornata della filosofia” indetta dall’istituto scolastico che frequentate, per far conoscere la disciplina agli studenti del primo biennio. Avete deciso di incentrare il vostro intervento sulla teoria della conoscenza di Platone.
FASE 1 Suddividetevi in 4 gruppi e scegliete il tipo di evento da organizzare: si tratterà di un breve seminario? oppure sarà un dibattito? è prevista una drammatizzazione a partire dal mito della caverna? pensate di fare partecipare attivamente gli altri studenti di terza, magari attraverso un quiz? volete avvalervi delle tecnologie informatiche? Le quattro tipologie di evento selezionate (o eventualmente assegnate mediante sorteggio) devono essere tutte diverse tra loro.
FASE 2 pianificare Ciascun gruppo pianifica il più accuratamente possibile l’evento, approfondendo il tema su cui è incentrato, redigendo una scaletta dei vari momenti/passaggi che lo costituiscono e scrivendo i testi di supporto (in forma di relazione, di domande, di sceneggiatura ecc.). Suggeriamo di stabilire una durata massima di 15 minuti per ogni evento e di utilizzare un linguaggio semplice e chiaro, comprensibile anche per gli studenti “digiuni” di filosofia. FASE 3 comunicare A questo punto allestite l’evento in classe, coinvolgendo direttamente i compagni, che dovranno essere il vostro pubblico, passivo o attivo a seconda della tipologia scelta. Terminate le presentazioni, confrontatevi tutti insieme su quella che, a vostro avviso, si è rivelata più efficace e che pertanto proporrete per la “Giornata della filosofia”.
297
LEGGERE UN CLASSICO
Perché leggere un “classico” Lo studio della filosofia richiede una paziente pratica del dubbio, per mettere in discussione false certezze e luoghi comuni. Questo vuol dire dialogare con gli altri, a cominciare dai pensatori del passato, le cui intuizioni e riflessioni possono rivelarsi ancora preziose per rispondere alle domande del presente. Il confronto con i grandi filosofi si realizza soprattutto attraverso la lettura diretta dei loro testi, i quali vengono considerati “classici” quando sollecitano questioni perenni, istituendo con noi un rapporto profondo e vitale.
Come affrontare il testo La lettura di un testo filosofico richiede di confrontarsi con strutture logico-argomentative, linguistiche e concettuali specifiche, spesso distanti dalle nostre. La prima operazione necessaria è dunque comprendere l’opera in riferimento sia al sistema teorico dell’autore, sia al costituirsi della sua produzione scritta, ovvero all’evoluzione del suo pensiero. Ciò significa innanzitutto conoscere il contesto storico, politico e culturale nel quale si colloca la riflessione del filosofo, per coglierne gli aspetti peculiari e le motivazioni profonde. Dopo questo inquadramento generale, prima di affrontare la lettura di un testo filosofico è importante: • capire quali siano e come siano organizzati i contenuti dell’opera, il che è possibile consultando l’indice, per sapere con precisione dove il passo sia collocato e poterne così comprendere meglio la funzione;
lEGGERE Un ClaSSiCo
298
platonE Fedro
• evidenziare la struttura argomentativa del testo, ad esempio suddividendolo in sequenze (eventualmente rese riconoscibili per mezzo di titoli) e chiarendo la funzione di ciascuna di esse nello svolgimento complessivo dell’argomentazione. Individuando i passaggi logici da una sequenza all’altra sarà possibile identificare la tesi principale (il nucleo concettuale del brano) e gli elementi secondari o accessori; • esplicitare i termini-chiave dell’argomentazione e focalizzarne il significato nel contesto del lessico specifico del filosofo. Soltanto a questo punto, quando la “voce” dell’autore sarà stata ricostruita in modo filologicamente corretto, sarà possibile riflettere criticamente sul suo messaggio.
Dalla teoria alla pratica Nel classico proposto nelle prossime pagine (il Fedro di Platone) iniziamo con una presentazione generale dell’opera, quindi ne approfondiamo la struttura e le tematiche. Nella selezione antologica, i testi scelti vengono contestualizzati nel quadro complessivo del dialogo platonico, introdotti e analizzati relativamente ai contenuti e al lessico, e collegati tra loro mediante appositi raccordi che rendono conto delle eventuali parti omesse.
PLATONE
FEDRO Perché leggere il Fedro? La critica considera il Fedro uno dei dialoghi platonici più belli e allo stesso tempo uno dei più complessi. Esso contiene mirabilmente riuniti in sé i temi più rilevanti della filosofia di Platone: la definizione dell’amore, la natura dell’anima e il suo destino ultraterreno, le realtà ideali, la funzione della bellezza, l’enigma della scrittura. L’esposizione teorica si intreccia con miti suggestivi che sono entrati a far parte della tradizione del pensiero occidentale. Al di là di una lettura che si preannuncia appassionante e ricca di spunti, il dialogo è importante anche perché contiene un messaggio di grande attualità: il cammino verso la conoscenza, all’epoca di Platone come oggi, è impegnativo, sempre esposto al rischio del fallimento, ma può concludersi felicemente se si riconosce nella verità l’unica guida davvero efficace. AUTORE TITOLO ORIGINALE
PERIODO DI COMPOSIZIONE
Platone (Atene, 427 a.C. - Atene, 347 a.C.)
Φαῖδρος (Phàidros) Il Fedro con ogni probabilità si colloca tra gli ultimi dialoghi del secondo periodo della produzione platonica, a ridosso dei dialoghi della vecchiaia. Alla luce di alcuni passaggi in esso contenuti, si può affermare, più precisamente, che sia stato scritto dopo il Simposio e la Repubblica, e prima del Timeo. Nonostante ciò, la data di composizione resta incerta. Ecco la collocazione suggerita da alcuni studiosi: intorno al 370 (Reginald Hackforth); prima del secondo viaggio di Platone a Siracusa (Léon Robin); fra il 369 e il 367 (Gerrit Jacob de Vries); fra il 380 e il 360, ipotizzando una prima versione e una revisione finale (Holger Thesleff).
LINGUA
greco antico
GENERE
dialogo filosofico
299
INQUADRAMENTO DELL’OPERA LA STRUTTURA DEL DIALOGO Il Fedro rappresenta un vero e proprio manifesto programmatico della filosofia di Platone. Due sono i personaggi che intervengono, Socrate e Fedro, e molteplici gli argomenti affrontati, tanto che uno dei compiti principali degli interpreti di Platone è stato quello di rinvenire un filo conduttore capace di conferire unità all’opera, al di là dell’apparente frammentarietà. Dal punto di vista dei contenuti si possono distinguere una prima parte, in cui Socrate discute sul tema dell’amore, e una seconda parte, che contiene una critica della retorica e una critica della scrittura, e in cui trova spazio una sintetica descrizione dei procedimenti della dialettica. Il discorso di Socrate sul sentimento amoroso, inoltre, si estende a trattare la natura dell’anima e fa affiorare anche la dottrina delle idee, che nella speculazione platonica occupa un ruolo centrale. Ecco perché, nonostante abbia come sottotitolo Dell’amore, il Fedro non ha nell’éros il suo unico oggetto e, a una lettura poco approfondita, può sembrare disorganico. Anche sul piano formale si registra una varietà di stili: se la sezione introduttiva e la seconda parte si sviluppano attraverso un dialogo serrato, in cui Socrate smantella progressivamente le convinzioni del suo interlocutore, la prima parte predilige invece il discorso lungo, nei confronti del quale, in altri dialoghi, Platone aveva manifestato una certa avversione.
LA COLLOCAZIONE TEMPORALE DELLA VICENDA Individuare la data in cui si svolgono l’incontro e la conversazione tra Socrate e Fedro non è un’impresa semplice. Nel dialogo Lisia, oratore attico di grande fama, è presentato come attivo ad Atene, città in cui fece ritorno da Turi nel 412/411 a.C.; il fratello maggiore di Lisia, Polemarco, ucciso sotto i Trenta Tiranni nel 404 a.C., sembra essere ancora in vita. Una datazione in questo periodo di tempo, tuttavia, è incompatibile con il fatto che Fedro fu esiliato nel 415/414 a.C. e fece ritorno ad Atene dopo il 404 a.C. Anche predatando il ritorno di Lisia ad Atene e ambientando l’opera prima del 415 a.C., oppure ipotizzando una datazione posteriore al 403 a.C, non si evitano contraddizioni. È tuttavia plausibile che Platone non intendesse collocare il suo dialogo in un momento preciso e che non si preoccupasse troppo di eventuali incongruenze cronologiche.
L’AMBIENTAZIONE E LO SPUNTO INIZIALE Lo scenario in cui si colloca il dialogo è l’unico di questo genere in tutta l’opera di Platone. Invece che nei luoghi solitamente frequentati da Socrate – palestre, ginnasi, case private – la conversazione si svolge all’aperto, fuori dalle mura cittadine. Il luogo, di straordinaria bellezza, è descritto da Socrate con toni insolitamente idillici. Da recenti ricerche archeologiche risulta che esso si trova lungo il fiume Ilisso, ma potrebbe anche corrispondere ai giardini dell’Accademia, in cui Platone teneva le sue lezioni. lEGGERE Un ClaSSiCo
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Su questo sfondo bucolico Fedro racconta a Socrate di avere appena ascoltato un discorso di Lisia sull’amore. La tesi sostenuta da Lisia è paradossale, sebbene per l’epoca non moralmente scandalosa: è preferibile che un ragazzo conceda i suoi favori sessuali a chi non lo ama piuttosto che a chi lo ama, perché in tal modo conseguirà con il suo partner un’amicizia più duratura, da cui trarrà il massimo dei vantaggi, evitando le conseguenze nefaste che scaturiscono dal sentimento amoroso.
IL FILO CONDUTTORE A partire da questo spunto Platone intesse il suo articolato dialogo, che inscrive il problema iniziale in un quadro dottrinale più generale e indica nell’éros l’elemento costitutivo della sua filosofia. Dapprima Socrate sostiene la stessa tesi di Lisia, ma con un impianto logico e un metodo più corretti, prendendo le mosse dalla definizione dell’oggetto di cui si parla e concentrandosi su un’attenta analisi della natura umana. Nel secondo discorso Socrate ritratta quanto detto in precedenza e denuncia l’errore fondamentale del primo discorso: l’idea che l’amore sia necessariamente un male. L’éros, essendo costantemente rivolto al bello, rappresenta un elemento propulsivo verso la contemplazione delle realtà ideali, in cui si realizza pienamente l’esistenza umana: con la sua bellezza l’amato, oltre a suscitare attrazione fisica, fa rinascere il desiderio della bellezza eterna e il ricordo delle altre idee. A questo punto segue una dettagliata spiegazione teorica dei fondamenti e delle regole dei discorsi. Socrate sottolinea l’insufficienza e l’inadeguatezza di un certo tipo di retorica degenerata, posta al servizio di una politica scadente: l’autentica arte della persuasione richiede la conoscenza della verità e può fondarsi soltanto sulla dialettica, che è il metodo della filosofia. Il vero amante di cui Socrate parla nel secondo discorso e il vero retore vengono così a identificarsi.
LA CONDANNA DELLA SCRITTURA Alla fine del dialogo Platone pronuncia una condanna della scrittura che ha fatto molto discutere i suoi interpreti, visto che è considerato uno dei massimi scrittori di tutti i tempi; per questa ragione alcuni studiosi sono stati indotti a ritenere il Fedro un’opera della giovinezza, testimonianza di un’iniziale predilezione per il confronto diretto, sul modello socratico. Per comprendere la critica platonica della scrittura bisogna tenere presente che quella del filosofo è una fase di passaggio da una civiltà fondata sulla trasmissione orale del sapere a una in cui si va progressivamente normalizzando l’uso del libro come strumento di cultura. Questa trasformazione si riflette nell’atteggiamento ambiguo di Platone nei confronti della scrittura, atteggiamento che emerge proprio nel Fedro. In quest’opera, infatti, l’autore si serve sia della forma dialogica – più affine al discorso orale, perché non dà mai soluzioni certe e definitive, stimolando pertanto nel lettore la prosecuzione dell’indagine – sia di discorsi lunghi. Il Fedro quindi segna, da un lato, il distacco definitivo di Platone da Socrate, dall’altro, l’apertura a nuove modalità comunicative.
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SINTESI DEI CONTENUTI L’ANTEFATTO (227a-237a) Socrate incontra Fedro, un giovane ateniese appassionato dell’arte del discorso, e si reca con lui fuori Atene, nella valle dell’Ilisso. Qui, nella pace bucolica, Fedro legge a Socrate un discorso composto dall’oratore Lisia sull’amore, in particolare sull’opportunità di concedere i propri favori a chi non è innamorato, perché l’amore è una forma di follia. Socrate riconosce che il discorso di Lisia è apprezzabile dal punto di vista formale, ma scorretto nei presupposti metodologici. Fedro obbliga quindi Socrate a parlare di questo argomento.
IL PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE (237a-242b)
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Il primo discorso che Socrate compone (a capo coperto, perché imbarazzato dalla tesi che si appresta a sostenere) è volto a confermare il punto di vista di Lisia, ma ha un impianto più rigorosamente filosofico. I tipi di rapporti presi in considerazione sono quelli, all’epoca comunemente approvati, tra un giovane e un uomo dell’alta società, che gli fa da precettore e lo avvia alla vita sociale. Per Socrate è innanzitutto necessario definire preventivamente che cosa sia l’amore. Esso è un desiderio disgiunto da ragione, che ha di mira la bellezza dei corpi e domina completamente chi lo prova. Per questo chi ama vuole che l’oggetto del suo amore gli sia inferiore e non lo contrasti in nulla, inoltre è geloso di tutto ciò che ostacola il possesso della persona amata. Quando l’amore finisce, poi, l’amante fugge e l’amato continua a soffrire. Quanti sono i mali arrecati a una persona da chi la ama, tanti sono i beni che le arreca chi non la ama. Si conclude così il primo discorso di Socrate, ma Fedro lo trattiene e chiede che la conversazione continui.
IL SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE (242b-257b)
TESTI
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Socrate acconsente a tenere un secondo discorso (questa volta a capo scoperto, cioè privo di vergogna), perché ha sentito la voce del demone che lo distoglieva dall’andarsene. Se Amore è un dio, non può essere un male: la manìa in cui consiste il sentimento amoroso, infatti, è un dono divino, dal quale scaturiscono i più grandi beni. È per mania che parlano gli oratori, le sibille, gli indovini, quindi essa, a ben vedere, è superiore all’assennatezza. Per suffragare la sua teoria, Socrate si sofferma a trattare la natura dell’anima umana ricorrendo al mito della biga alata e del suo auriga. L’anima può essere raffigurata come una biga dotata di ali, guidata da un auriga e da due cavalli: il condottiero deve riuscire a guidare i destrieri oltre il cielo, verso l’iperuranio, che è la sede delle idee, in modo da contemplare il più possibile la verità. Quando perde le ali e si incarna nel corpo, l’anima che ha visto di più si consacra al culto della sapienza o dell’amore, mentre quella che ha visto di meno vivifica un individuo estraneo alla verità e alla bellezza. Il tramite verso le idee è appunto éros, che spinge l’anima verso ciò che è bello, riaccendendo il ricordo di quanto contemplato nell’iperuranio, di cui rimane sempre una traccia.
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LA VERA RETORICA E IL METODO DIALETTICO (257b-274b) Il filosofo è l’unico in grado di conoscere la vera essenza dell’amore e di comprendere che esso è strettamente congiunto con la bellezza e la verità. A partire da questa constatazione Socrate si concede un intermezzo nella discussione, nel corso del quale esamina il rapporto tra verità e arte retorica. I discorsi costruiti sul modello di quello tenuto da Lisia e ammirato da Fedro sono distorsioni della conoscenza: essi sono finalizzati semplicemente a intrattenere gli ascoltatori e in nulla aiutano a progredire nella conoscenza. La prima condizione per parlare e scrivere bene è che si conosca la verità sulle cose. In secondo luogo occorre usare correttamente la tecnica della retorica, che procede per unificazioni e progressive separazioni, fino a recuperare l’unità originaria del concetto (metodo dialettico). Un esempio di questo tipo di discorso è il secondo tenuto da Socrate sull’amore. Infine, è necessario avere una buona conoscenza dell’anima, e più precisamente di ciò che può operare o patire, e di ciò che occorre per esercitare su di essa una forma di persuasione. La vera retorica, dunque, si esplica nell’ambito della conoscenza filosofica.
SCRITTURA E ORALITÀ (274b-279c)
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Alla fine del dialogo, a partire da un mito di ambientazione egizia, Socrate giunge a negare piena validità a qualunque discorso scritto. Teuth, dio egizio delle arti e dei mestieri, propone al faraone Thamus, in genere entusiasta delle sue scoperte, l’invenzione della scrittura, che, a suo dire, ha il potere di fissare in eterno le conoscenze umane. Thamus rifiuta il dono obiettando che esso produrrebbe l’effetto opposto a quello indicato dal dio: una volta messa per scritto, la parola rimane in una perenne e muta immobilità, incapace di incidersi nell’anima delle persone. La scrittura, quindi, è nemica della vera conoscenza perché impigrisce la memoria e disincentiva la ricerca. Per bocca di Socrate Platone difende dunque l’oralità, la comunicazione diretta tra maestro e allievi. Il dialogo si chiude con la preghiera che Socrate rivolge a Pan e alle altre divinità del luogo, affinché la bellezza alberghi sempre in lui e lo faccia agire in accordo con la sua natura.
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L’amore come follia IL TESTO NELL’OPERA Il primo discorso di Socrate sull’amore si colloca all’inizio del dialogo, dopo che Fedro ha riferito al filosofo la tesi paradossale sostenuta dal retore Lisia, secondo il quale è preferibile concedere i propri favori sessuali a chi non è innamorato piuttosto che a chi è innamorato. L’obiettivo di Socrate è non tanto quello di confutare il discorso di Lisia, quanto quello di contrapporgli un modello di lógos formalmente corretto, a prescindere dalla validità della tesi. Dopo l’invocazione alle Muse, Socrate si accinge quindi a esporre le proprie argomentazioni, presentando ciò che sta per dire come una «favola» (237a).
La definizione C’era dunque un fanciullo, anzi un giovane bellissimo; e gli stavano intorno molti innamodi “amore”
Gli svantaggi e i danni che procura l’amore
rati. Ed uno di costoro […] cercava di convincerlo che bisogna concedersi a uno che non ama piuttosto che a un innamorato, e diceva così: «Ragazzo mio, […] giacché si presenta a noi la questione se si debba entrare in intimità con chi ami o piuttosto con chi non ami, stabiliamo prima d’accordo una definizione d’amore che precisi la sua natura e i suoi effetti, e poi tenendola sempre d’occhio e riferendoci ad essa, possiamo indagare se l’amore è benefico o dannoso. Ora, che l’amore sia un tipo di desiderio, è chiaro a tutti, e in più sappiamo che si ha desiderio del bello, anche senza essere innamorati. Da cosa, allora, distingueremo chi ama da chi non ama? Bisogna, procedendo, considerare che in ognuno di noi vi sono due tipi di princìpi che ci governano e ci guidano, che noi seguiamo dovunque ci menino: l’uno è un innato desiderio di piaceri, l’altro, invece, è l’opinione acquisita che aspira all’ottimo. Talvolta questi due impulsi interni sono in accordo, ma talvolta sono in lotta fra loro: e ora prevale l’uno, ora l’altro. Quando l’opinione, che ci mena all’ottimo attraverso la ragione, vince, la sua vittoria è chiamata temperanza; ma il predominio su di noi del desiderio che irrazionalmente ci tira ai piaceri, viene chiamato sfrenatezza. […] Quando il desiderio irrazionale, trascinato al piacere della bellezza, prevale sull’opinione tendente alla rettitudine ed è vigorosamente irrobustito dai desideri a lui affini volti alla bellezza del corpo, diventa guida vittoriosa, allora […] è chiamato amore. […] Bene, mio buon amico, […] quale vantaggio o danno può verisimilmente provenire da parte di chi è innamorato e da parte di chi non lo è a colui che concede loro i suoi favori? Ora un uomo dominato dal desiderio e schiavo del piacere è forza maggiore che cerchi di foggiarsi il suo amato nel modo più piacevole per se stesso. Ma a un ammalato piace tutto ciò che non lo contrasta, mentre lo indispettisce ciò che lo prevarica o gli è pari, onde l’amante non può sopportare facilmente che il suo amore valga più di lui o gli sia pari e sempre cerca di foggiarselo inferiore a sé e più debole: e l’ignorante è inferiore al sapiente, l’imbelle al forte, l’illetterato all’oratore, il tardo al perspicace. […] Ecco che [l’amante] inevitabilmente è geloso, e impedendogli molte altre compagnie ed anche quelle utili, attraverso le quali potrebbe divenire un vero uomo, è responsabile d’una grave rovina, ma d’una gravissima quando gli impedisce quelle per cui potrebbe avvicinarsi alla maggiore intelligenza, alla divina filosofia, voglio dire, dalla quale è inevitabile che l’amante distorni il fanciullo, tutto terrorizzato com’è di diventare oggetto di disprezzo.
[I passi presentati sono tratti dal Fedro di Platone edito da Laterza (Roma-Bari 2019, introduzione di Bruno Centrone); la traduzione è di Piero Pucci.]
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La sofferenza che scaturisce dalla fine del rapporto
[…] Ma lasciamo adesso queste ovvie osservazioni e affrontiamo la prossima questione, qual vantaggio cioè e qual danno ai propri beni comportano la consuetudine e la protezione di un innamorato. Bene, lo sanno tutti, ma soprattutto lo sa l’amante che il suo desiderio supremo sarà che il suo amore sia interamente spogliato di tutti i beni che ha più cari, più preziosi e divini: padre, madre, famigliari ed amici vorrà che gli vengano meno, giudicandoli solo come ostacoli e condanne alla intimità così intensa di piacere per lui. Poi se il giovane possiede ricchezze in denaro o in altre sostanze, l’amante penserà che non sia facile conquistarlo, né sia trattabile quando lo conquistasse. Per ciò è forza maggiore che l’amante sia geloso delle ricchezze del suo amore e gongoli di gioia se le perde; ma ancora egli scongiurerà fra sé che il suo diletto rimanga senza moglie, figli, e casa il più lungo tempo possibile, poiché desidera di godere quanto più lungamente può, la sua dolcezza. […] Ma se mentre ama è nocivo e noioso, quando cessa di amare mostrerà la sua infedeltà per tutto il tempo a venire, per quel tempo cioè in vista del quale era stato generoso di promesse accompagnate da giuramenti e suppliche, riuscendo così a far durare stentatamente, con la speranza di beni, la già faticosa intimità di allora. Ecco venuto il tempo di mantenere le promesse: ma cambiato come ha padrone e autorità, la ragione e la saggezza subentrate al posto dell’amore e della follia, egli è divenuto un altro e il suo amato non se n’è accorto. E questi domanda il riconoscimento del passato e gli rinverdisce il ricordo di ciò che l’amante fece e promise, pensando di parlare allo stesso uomo, ma l’amante pieno di vergogna non osa neppure dirgli che è diventato un uomo nuovo, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto l’impero della precedente follia; e tutto assennato e rinsavito com’è, teme che rifacendo le stesse cose non diventi ancora uguale a quel che era prima, anzi lo stesso uomo. Per questi motivi diventa disertore e ridottosi necessariamente traditore l’amante d’un tempo, cambia bandiera e mutate le parti si dà alla fuga. Ma l’amato è costretto a corrergli dietro, imprecando tutto indignato, perché dal principio alla fine non ha mai compreso che non doveva concedersi ad un innamorato destinato com’è ad essere privo di senno, ma che gli meritava piuttosto compiacere chi non fosse in amore, cioè fosse sano di mente […]».
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(Fedro, 237b-241d)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La definizione di “amore” (rr. 1-18) Prima di argomentare in favore della tesi di Lisia, Socrate fornisce una definizione di éros, che il retore non si era curato di dare. Due sono le forze fondamentali che agiscono nella natura umana: il desiderio, che mira al piacere, e l’opinione, che mira al bene. Quando è il primo a dominare, l’individuo è sfrenato e tracotante, quando invece domina la seconda l’individuo è assennato e temperante. L’éros è appunto un desiderio che si volge con veemenza alla bellezza dei corpi. Platone ci dice che Socrate pronuncia questo discorso «col capo coperto» (237a), perché si vergogna di sostenere una tesi che denigra l’amore e che di fatto non condivide. Bisogna tuttavia rilevare che quello
descritto da Socrate è soltanto una specie deteriore di amore e che quindi, consigliando di astenersi da un desiderio “insano”, il filosofo non si contraddice. Gli svantaggi e i danni che procura l’amore (rr. 1942) Mentre Lisia aveva elencato tutti gli svantaggi che la fine della relazione avrebbe procurato all’innamorato, Socrate si sofferma sui danni che scaturiscono dalla relazione stessa, quasi a suggerire che l’amore è intrinsecamente dannoso. L’amante infatti è come un «ammalato» (r. 22): non sopporta nulla che possa contrastare i suoi capricci. Per questo egli tende a rendere schiavo l’amato, scegliendolo in genere inferiore a sé (per età, per forza fisica o per altre caratteristiche) o rendendolo tale. L’amante non desidera che l’amato
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riceva una formazione adeguata e sviluppi i propri talenti, né vuole che sia circondato di affetti, perché se resta ignorante e isolato è più facile esercitare un controllo su di lui e possederlo in modo esclusivo. Inoltre, l’amante gode della rovina dell’amato, perché è meno faticoso conquistare e governare un individuo indigente, che è stato spogliato dei propri beni. La sofferenza che scaturisce dalla fine del rapporto (rr. 43-58) Se durante la relazione l’amante è nocivo, quando smette di amare si trasforma in un uomo anche peggiore. Infatti, una volta rinsavito («la ragio-
ne e la saggezza subentrate al posto dell’amore e della follia», rr. 47-48), non è più in grado di prestare fede alle promesse fatte perché è ormai una persona diversa. Non trovando il coraggio di troncare il legame con l’amato, si dà alla fuga. A sua volta l’amato non si capacita di questo cambiamento e, abdicando a ogni forma di dignità, insegue l’amante disperato per richiamarlo a sé. Rovinato nella mente, nel corpo e nelle sostanze, non ha compreso che avrebbe dovuto concedersi a un uomo non innamorato, perché soltanto in questo caso è possibile un’amicizia duratura.
RACCORDO Dopo aver elencato le ragioni per cui l’amante è affezionato all’amato come un lupo lo è all’agnello, Socrate tronca il suo discorso, pieno di vergogna, e decide di andarsene. Ma qualcosa lo trattiene: è la voce del suo demone, che lo rimprovera e gli chiede di fare ammenda di quanto detto a detrimento di éros. Socrate inizia quindi un secondo discorso, con l’intenzione di rivalutare il sentimento amoroso. Innanzitutto egli riconosce che il delirio o mania non è necessariamente un male, contrariamente a quanto affermato poco prima. La mania poetica, ad esempio, e quella divinatoria sono unanimemente considerate un bene, e tale è anche la mania erotica. L’indagine si sposta poi sull’anima umana: Socrate ammette di non poter descrivere con esattezza e in modo rigoroso che cosa sia l’anima, ma intende suggerire a che cosa rassomigli attraverso un mito.
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Il mito della biga alata
Socrate spiega in che cosa consiste la natura dell’anima, paragonandola a una biga governata da un auriga e trainata da due cavalli alati. Secondo questo mito l’amore conduce l’anima a contemplare le regioni al di là del cielo, dove ha sede la verità. Il pensiero e l’immagine qui si uniscono, diventando una metafora efficace e suggestiva di uno dei concetti cardine della filosofia di AUDIOLETTURA Platone. Il difficile viaggio Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora dell’auriga verso tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri 2 l’iperuranio
esseri sono un po’ sì e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto 4 il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso. […] 6 La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino più delle altre co- 8 se che hanno attinenza col corpo. Il divino è bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtù
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La contemplazione delle idee e il destino delle anime
affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da altri vizi, si corrompe e si perde. […] le pariglie degli dèi sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa è faticosa, perché il cavallo maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene addestrato. Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse contemplano quanto sta fuori del cielo. […] In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto1 . […] Questa è la vita degli dèi. Ma fra le altre anime, quella che meglio sia riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione superceleste, ed è trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma essendo travagliata dai suoi corsieri, contempla a fatica le realtà che sono. Ma un’altra anima ora eleva il capo ora lo abbassa, e subendo la violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed eccoti, seguono le altre tutte agognanti quell’altezza, ma poiché non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte qua e là e cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’altra. Ne conseguono scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate e molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto la visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. […] Qualunque anima, trovandosi al seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo [ciclo] rimane in tocca [esente] da dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando l’anima, impotente a seguire questo volo, non scopra nulla della verità, quando, in conseguenza di qualche disgrazia, divenuta gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di questo peso perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferina durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che più abbia veduto si trapianti in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla prima nella visione dell’essere s’incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di stato, o in un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle fatiche, o in un medico; che la quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta le si adatti un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima un operaio o un contadino, all’ottava un sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno.
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(Fedro, 246a-248e)
1. Le anime sono soggette a un ciclo di reincarnazione in base al quale, ogni mille anni, vivono un secolo sulla terra e nove secoli nell’aldilà.
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il difficile viaggio dell’auriga verso l’iperuranio (rr. 1-23) L’anima è assimilabile a un carro guidato da un auriga e trainato da due cavalli alati. Quando si tratta dell’anima degli dèi, i due cavalli sono docili e affidabili; nel caso degli umani, invece, essi hanno caratteri tra loro opposti: uno è nobile e ubbidiente (simbolo della parte irascibile dell’anima), l’altro è insubordinato e ribelle (simbolo della parte concupiscibile). Di conseguenza, l’auriga (simbolo della parte razionale), chiamato a governare i due destrieri, ha un compito «difficile e penoso» (r. 6). Le anime si muovono incessantemente e cercano di innalzarsi oltre il cielo, nell’iperuranio, per contemplare le idee. È qui che ha sede la vera sostanza, la quale è priva di colore e di forma, impalpabile, accessibile soltanto alla ragione. Mentre un cavallo spinge la biga verso l’alto – dove si trova il nutrimento adatto alla parte migliore dell’anima e grazie al quale l’anima riesce a volare –, l’altro la trascina verso il basso – ossia verso le cose terrene e sensibili, di valore inferiore. Questo naturalmente non avviene nelle anime degli dèi, che giungono senza fatica «sopra il dorso del cielo» (r. 16); al contrario, quelle degli esseri umani fanno fatica a librarsi nell’iperuranio e spesso creano ingorghi che ostacolano il volo: quanto più l’auriga riesce a trattenere il cavallo indocile, tanto più l’anima contempla la sostanza dell’essere. È proprio la guida disordinata dell’auriga, incapace di condurre la biga alata «al sommo della volta celeste» (rr. 15-16), a causare il progressivo appesantimento della biga, che finisce per cadere: l’anima perde le ali e si lega a un corpo
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mortale. Avviene così l’incarnazione, che si ripete ciclicamente: quando si scioglie dal corpo, infatti, l’ani ma ha nuovamente la possibilità di risalire all’iperuranio e di purificarsi, in modo da garantirsi una reincarnazione più degna, in un eterno succedersi di cadute e di rigenerazioni. Per Platone il fine ultimo della vita umana è il recupero della forma di esistenza prenatale, superiore a quella incarnata; in questo cammino la funzione di guida spetta alla ragione, ma l’elemento passionale, come suggerisce il mito, non va eliminato, bensì semplicemente indirizzato verso un fine più elevato rispetto alla soddisfazione che procurano le cose materiali. La contemplazione delle idee e il destino delle anime (rr. 24-50) Soltanto chi ha condotto sulla terra una vita retta, secondo i princìpi del bene, nella dimensione prenatale può contemplare le realtà ideali. Tale visione, infatti, è concessa in gradi diversi alle anime e questo, a sua volta, condiziona il tipo di esistenza dell’individuo che esse vivificheranno. L’anima che non si è per nulla avvicinata alle idee non potrà assumere la forma dell’essere umano; invece, l’anima che più di tutte ha attinto alla verità si incarnerà in un filosofo. Quelle che hanno raggiunto livelli progressivamente inferiori di contemplazione si incarneranno, secondo un ordine discendente, in un re giusto, in un politico o in un economista, in un atleta o in un medico, in un indovino, in un poeta o in un artista, in un operaio o in un contadino, in un sofista o in un demagogo, e, da ultimo, in un tiranno – cioè in individui via via più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza.
Dalla bellezza sensibile a quella ideale La teoria della reincarnazione, di ispirazione orfico-pitagorica, serve a Platone per introdurre il discorso sulla reminiscenza. Per bocca di Socrate, egli analizza con grande acume psicologico il percorso che l’anima innamorata compie per raggiungere la bellezza ideale, di cui riconosce l’immagine nel mondo sensibile.
La caratteristica Questo discorso sia il nostro tributo alla reminiscenza che già ci ha tirato ad una lunga peculiare della bellezza digressione, presi dal rimpianto delle cose di allora. Ora, la bellezza, come s’è detto, 2
splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze, e anche dopo la nostra discesa quaggiù l’abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché 4 la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo; essa però non vede il pensiero.
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Quali straordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche mai chiara immagine di sé da contemplare! Né può vedere le altre essenze che son degne d’amore. Così solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più percepibile dai sensi e la più amabile di tutte. Il ricordo della Chi pertanto ha una lontana iniziazione o è già corrotto non può rapidamente elevarsi bellezza ideale da questo mondo a contemplare la bellezza in sé di lassù, col mettersi a guardare ciò che qui in terra si chiama bello; cosicché egli la riguarda senza venerazione e, arrendendosi al piacere, come una bestia, si lancia a seminare figlioli, o abbandonatosi agli eccessi non prova timore né vergogna a perseguire piaceri contro natura. Ma chi sia iniziato di fresco e abbia goduto di lunga visione lassù, quando scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, subito rabbrividisce e lo colgono di quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la venera come divina e se non temesse d’esser giudicato del tutto impazzito, sacrificherebbe al suo amore come a un’immagine di un dio. E rimirandolo, come avviene quando il brivido cede, gli subentra un sudore e un’accensione insolita: perché man mano che gli occhi assorbono l’effluvio di bellezza, egli s’accende e col calore si nutre la natura dell’ala. Con il calore poi si discioglie intorno alle gemme l’ispessimento che, da tempo incallito, proibiva loro di germogliare. Affluendo il nutrimento, diviene turgida e lo stelo dell’ala riceve impulso a crescere su dalla radice, investendo l’intera sostanza dell’anima. Perché un tempo era tutta alata. Gli effetti dell’amore Ora essa palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i bambini con i denti quando spuntano, quel prurito e tormento, ecco questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali: palpita, s’irrita e prova tormento mentre le spuntano. Quando dunque rimirando la bellezza d’un giovane, l’anima riceve le particelle che da quello partono e scorrono (ed è perciò che si chiama “fiume di desiderio”), se ne nutre, se ne riscalda, cessa l’affanno e gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza l’anima inaridisce e le aperture dei meati [orifizi] attraverso i quali spuntano le penne disseccandosi si contraggono sì da impedire i germogli dell’ala. Ma questi, imprigionati dentro, insieme all’onda del desiderio amoroso, palpitando come un’arteria urgono ciascuno contro la propria apertura sicché l’anima, trafitta da ogni parte, smania per l’assillo ed è tutta affannata. Ma riassalendola il ricordo della bellezza, ringioisce. Così sovrapponendosi questi due sentimenti, l’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. Ed è così che non si staccherebbe mai dalla bellezza e che la tiene cara più di tutte; anzi si smemora della madre, dei fratelli e di tutti gli amici, e se il patrimonio rovina perché l’ha abbandonato, non gliene importa nulla, e, messe da parte norme e convenienze delle quali prima si adornava, è prona ad ogni schiavitù e a dormire in qualunque posto le si permetta, il più vicino possibile al suo caro. […] Ci si può credere o no, tuttavia la causa delle condizioni degli innamorati è proprio questa.
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(Fedro, 250c-252c)
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE La caratteristica peculiare della bellezza (rr. 1-9) Come abbiamo visto nel testo 2, l’anima ha contemplato la bellezza nella sua vita immortale, prima di incarnarsi in un corpo. La bellezza, insieme con il bene, è la forma ideale più alta, vale a dire l’idea più luminosa e splendente. Essa non si limita a risplende in tutto il suo fulgore nell’iperuranio, ma rappresenta anche il collegamento tra il mondo delle idee e il mondo sensibile, in quanto le altre essenze, pur degne di amore e oggetto della conoscenza razionale, non offrono un’immagine che possa essere contemplata dai nostri sensi. La bellezza, invece, grazie alla vista, è riconoscibile anche nelle forme mutevoli del mondo terreno e favorisce l’innescarsi del processo di reminiscenza, che consente di risalire alle realtà ideali. In questo percorso conoscitivo l’éros, che è costantemente rivolto al bello, assume un ruolo fondamentale, perché costituisce un elemento propulsivo. L’essere umano che voglia elevarsi alla contemplazione delle virtù può affidarsi alla bellezza come a una guida che, dall’armonia del sensibile, lo conduce fino a quella ideale. Ci sono però individui ignoranti che non colgono l’importanza della bellezza terrena ai fini del raggiungimento di quella ideale, e rimangono al livello più basso della conoscenza rendendosi, nel loro comportamento, simili alle bestie. Il ricordo della bellezza ideale (rr. 10-25) Con la sua bellezza l’amato può suscitare bassi appetiti sessuali nell’amante volgare, oppure il desiderio della bellezza eterna nell’amante nobile, che trascende il
desiderio fisico e ricorda le idee contemplate nella vita prenatale, prima fra tutte la temperanza. Chi si trova in tale condizione, di fronte alla bellezza fisica, dapprima rabbrividisce, poi è colto da smarrimenti, quindi la esalta come forza divina, tanto da sacrificarle tutti i suoi beni. A mano a mano che entrano nel suo cuore gli effluvi provenienti dal corpo dell’amato, si accende di calore, tanto che le ali dell’anima tornano a distendersi, sicché essa può nuovamente innalzarsi come un tempo, quando viveva libera nell’iperuranio in compagnia degli dèi. Gli effetti dell’amore (rr. 26-48) L’anima gioisce e si eleva quando è in presenza del suo amore, ma si abbatte e soffre quando esso è assente. È bella e realistica l’immagine del tormento dell’anima innamorata, paragonato al dolore che patiscono i bambini quando spuntano i denti; e ancora più efficace è la descrizione del dramma che si genera nel cuore dell’innamorato, il quale si dibatte tra sentimenti contrapposti, di gioia e di dolore, di godimento e di inquietudine per la paura di perdere l’amato. Mentre i precedenti discorsi sono focalizzati soltanto sul punto di vista dell’amato, in questo passo emerge la figura dell’amante. Questi, volto al desiderio della sapienza, riverserà nell’amato un analogo amore per la conoscenza delle realtà ideali, rendendolo così simile agli dèi: il rapporto erotico non è quindi unilaterale, ma è volto al miglioramento e all’elevazione di entrambi i soggetti coinvolti nella relazione.
RACCORDO A questo punto, Socrate e Fedro introducono una nuova tematica. Sia Lisia sia Socrate sono autori di discorsi, attività che, come sottolinea Fedro, da alcuni è ritenuta riprovevole. A differenza di questi ignoti detrattori della logografia, Socrate giudica che sia riprovevole soltanto parlare male. Diventa quindi necessario stabilire i criteri che sono alla base del parlare bene. Ha qui inizio l’indagine di Socrate sulla retorica. Alla retorica degenerata, volta a “rendere più forte il discorso più debole”, senza badare alla verità, Socrate contrappone una nuova retorica, orientata alla giustizia e sostanziata dalla filosofia. Il buon retore deve conoscere i procedimenti della dialettica, la natura dell’anima e le realtà ideali. La retorica, quindi, può esplicarsi soltanto nell’ambito della conoscenza filosofica e deve avere per oggetto il vero. L’analisi di Socrate si volge non soltanto al discorso orale ma anche a quello scritto, di cui egli nega piena validità. Per farlo si avvale del mito di Theuth e Thamus, posto a conclusione del dialogo.
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TESTO
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Il mito di Theuth e Thamus
Come è noto, mentre Socrate affida il proprio insegnamento al solo discorso orale, considerandolo il metodo e l’essenza stessa della ricerca filosofica, il suo allievo Platone è autore di numerose opere scritte. Nel Fedro, tuttavia, Platone critica la scrittura, sollevando per gli studiosi un importante problema interpretativo. Una possibile via d’uscita di fronte a questa apparente contraddizione è quella di considerare i dialoghi e gli altri scritti platonici come opere destinate AUDIOLETTURA a un pubblico anche esterno alla scuola, e di ritenere che il pensiero del filosofo sui temi più elevati sia stato invece affidato all’insegnamento orale, cioè a lezioni svolte all’interno dell’Accademia ma non riportate nei dialoghi. Sarebbero queste le “dottrine non scritte” (ágrapha dógmata) di cui parlano alcuni critici. Platone specifica che la retorica non ha come fine la verità, ma l’opinione della moltitudine. In tale contesto si colloca il racconto del celebre “mito di Theut e Thamus”, in cui il filosofo critica la scrittura, fornendo agli interpreti una serie di indizi utili per accostarsi ai suoi dialoghi. L’incontro del dio SoCRatE Ora sai tu come si possa meglio piacere al dio, in materia di discorsi, in pratica e in Theut con il sovrano teoria? 2 Thamus FEDRo No. E tu?
SoCRatE Sì, posso dirti un racconto degli antichi. Essi conoscono la verità; se potessimo sco- 4
prirla da noi, forse che ci preoccuperemmo ancora delle opinioni degli uomini? FEDRo Che domanda ridicola! Ma raccontami questa storia. SoCRatE Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. I limiti della scrittura Quando giunsero all’alfabeto: «Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani secondo Thamus più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti». FEDRo O Socrate, ti è facile inventare racconti egiziani e di qualunque altro paese ti piaccia!
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SoCRatE Oh! ma i preti del tempio di Zeus a Dodona, mio caro, dicevano che le prime rive-
lazioni profetiche erano uscite da una quercia. Alla gente di quei giorni, che non era sapiente come voi giovani, bastava nella loro ingenuità udire ciò che diceva “la quercia e la pietra”1, purché dicesse il vero. Per te invece fa differenza chi è che parla e da qual paese viene: tu non ti accontenti di esaminare semplicemente se ciò che dice è vero o falso. Il paragone FEDRo Fai bene a darmi addosso; anch’io son del parere che riguardo l’alfabeto le cose stiacon la pittura no come dice il Tebano. SoCRatE Dunque chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto. FEDRo È giustissimo. SoCRatE Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi. FEDRo Ancora hai perfettamente ragione. SoCRatE E che? Vogliamo noi considerare un’altra specie di discorso, fratello di questo scritto, ma legittimo, e vedere in che modo nasce e di quanto è migliore e più efficace dell’altro? FEDRo Che discorso intendi e qual è la sua origine? SoCRatE Il discorso che è scritto con la scienza nell’anima di chi impara: questo può difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere. FEDRo Intendi tu il discorso di chi sa, vivente e animato e del quale quello che è scritto potrebbe dirsi giustamente un’immagine? SoCRatE Sì, proprio questo. (Fedro, 274b-276b) 1. Espressione proverbiale dal significato incerto.
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’incontro del dio Theut con il sovrano Thamus (rr. 1-17) Il racconto di Socrate è ambientato in Egitto, a Naucrati, un emporio greco sul delta del Nilo. Il dio Theuth, a cui è sacro l’ibis (un uccello simile alla cicogna), è considerato l’inventore della matematica, della geometria e dell’alfabeto. Il re dell’ElEGGERE Un ClaSSiCo
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gitto è in quel momento Thamus, che abita a Tebe. Nel mito Theuth si presenta a Thamus e fa un particolare elogio della scrittura, che a parer suo renderà più sapienti gli egiziani e rafforzerà la loro memoria, in quanto lo scritto è perenne e può essere letto in continuazione.
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I limiti della scrittura secondo Thamus (rr. 18-36) La risposta del saggio re Thamus rispecchia la convinzione di Socrate: la possibilità di ricorrere alla scrittura indurrà a non esercitare più la capacità di ricordare, e a richiamare le cose alla memoria non più “dall’interno”, come avviene nel dialogo orale, ma “dall’esterno”, grazie a «segni estranei» (r. 26). Attraverso la scrittura, inoltre, il maestro non potrà più comunicare la vera sapienza ai propri studenti, i quali, potendo ottenere conoscenze senza l’insegnamento orale del maestro, avranno la presunzione di essere «dottissimi» (r. 29), mentre in realtà non sapranno nulla, poiché il vero modo di apprendere è quello che viene dall’insegnamento orale; sarà dunque una sofferenza discutere con loro, imbottiti come saranno di opinioni invece che di verità. Il paragone con la pittura (rr. 37-63) Dopo che Fedro si è dichiarato d’accordo con quanto affermato dal re Thamus, Socrate riprende la parola ed elenca una serie di caratteristiche negative della scrittura. Innanzitutto, osserva, è da ingenui credere che dalla parola scritta si possa trarre qualcosa «di preciso e di permanente» (rr. 40-41), perché al massimo grazie ad essa si può rinfrescare la memoria, rimanendo perciò a un livello superficiale di conoscenza; il discorso ora-
le, invece, è come un seme gettato nell’anima, al quale il filosofo affida il proprio sapere e che a suo tempo porterà il suo frutto. La scrittura, inoltre, ha sempre bisogno di un padre (l’autore dello scritto) che le venga in aiuto, perché da sola non può né aiutarsi né difendersi. In questo elenco di svantaggi del discorso scritto, contrapposti ai vantaggi presentati dal discorso orale, è particolarmente suggestivo il paragone tra la scrittura e la pittura: le parole scritte sono come le immagini dipinte, che a prima vista ci stanno di fronte come se fossero viventi, ma che poi, se poniamo loro domande, rimangono mute, chiuse in un maestoso silenzio. L’interrogare, operazione possibile soltanto nel confronto orale, è un momento imprescindibile sia per la comprensione sia per la comunicazione, perché consente di superare i fraintendimenti a cui le parole scritte invece sono soggette. Secondo alcuni studiosi, sarebbe qui esplicitato il motivo per cui Platone, nei suoi dialoghi, spesso parla delle «cose di maggior valore» (Fedro, 278d) soltanto per accenni, e il passo sarebbe una prova dell’esistenza di un Platone “esoterico”, che per trattare i temi più importanti della sua dottrina avrebbe preferito (come il suo maestro) non usare la scrittura, ma lo scambio orale con i suoi allievi.
LA CONCLUSIONE DEL DIALOGO Affermata l’inferiorità del discorso scritto su quello parlato, Socrate si serve di un’immagine molto felice, in cui sono racchiusi il fine e la stessa modalità del suo insegnamento: come il contadino giudizioso, colui che ha conoscenza del bello e del giusto, cioè il filosofo, farà molta attenzione a “seminare” nel terreno adatto e con un’appropriata tecnica, aspettando con pazienza la fioritura dei germogli per tutto il tempo che sarà necessario. Se i discorsi sono come semi gettati nell’anima, allora essi non possono essere affidati allo scritto, ma saranno enunciati nei giardini letterari. Questa è la differenza tra il logografo e il sapiente. Dopo un’esaltazione della vita consacrata alla virtù e alla conoscenza, Socrate suggerisce a Fedro di rientrare, non senza aver prima pregato gli dèi di concedere a entrambi la bellezza dell’anima.
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OFFICINA DEL CLASSICO 1 Rispondi alle domande seguenti. a. Come viene definito da Socrate l’amore nel suo primo discorso? E il rapporto tra i due innamorati? (testo 1) b. In quale misura le anime riescono a contemplare le idee? Per quale ragione? (testo 2) c. Quale rapporto istituisce Socrate tra la bellezza sensibile, l’amore e le idee? (testo 3) d. Quali sono le ragioni per le quali Thamus rifiuta il dono della scrittura, invenzione del dio Theuth? (testo 4)
2 Evidenzia nei testi di Platone le similitudini e le metafore di cui egli si serve per dare corpo ai suoi concetti, quindi riportale in una tabella analoga a quella proposta di seguito, in cui spieghi il significato filosofico dell’immagine introdotta dall’autore. Testo e righe
testo 1, rr. 22-23
Immagine
«a un ammalato piace tutto ciò che non lo contrasta»
Significato filosofico
L’amante viene paragonato a una persona ammalata, allo scopo di mettere in evidenza il carattere dannoso dell’amore, visto come una forza irrazionale che toglie all’essere umano la padronanza di sé, esattamente come una malattia.
3 Leggi con attenzione il testo 2 e sviluppa per scritto le questioni seguenti (max 10 righe ciascuna): • la natura dell’anima; • la vita prenatale; • il destino dell’essere vivente.
4 Riproduci in uno schema l’argomentazione con cui Platone nel testo 3 riabilita il sentimento amoroso, individuando la premessa, gli argomenti e la conclusione.
5
competenza digitale Dopo aver letto i testi 2 e 4, effettua una ricerca in Internet o nel manuale di storia dell’arte per reperire un’iconografia adatta a illustrare i due miti raccontati da Platone. Collega a ciascun mito almeno due immagini e corredale di un tuo commento personale.
6
scrittura argomentata Immagina di intervenire, insieme con Socrate, a una tavola rotonda in cui si discute sul valore della scrittura ai fini della conoscenza. Il tuo compito è quello di sostenere la tesi contraria a Socrate (testo 4). Redigi il tuo intervento (max 20 righe) argomentando adeguatamente la tua posizione.
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scrittura creativa Sulla falsariga del testo platonico, scrivi il canovaccio di una rappresentazione teatrale in cui due o più personaggi si trovino, come Socrate e Fedro, a discutere sul sentimento amoroso (max 40 righe). Immagina che si intreccino discorsi sia di biasimo sia di elogio. Richiama le esperienze e le idee proprie del mondo giovanile al quale appartieni, e delinea un contesto originale e attuale in cui collocare la narrazione.
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QUESTIONE
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
EDUCAZIONE CIVICA
Il male è frutto di ignoranza o malvagità
Socrate
Platone
Il male come danno inflitto a sé stessi In latino il termine malum indicava sia il male (nel senso generale che la parola mantiene ancora oggi nella nostra lingua) sia, più specificamente, una colpa o un delitto, ma anche uno svantaggio o una disgrazia, nonché una pena o un castigo. Già da questa breve e semplice analisi semantica, si comprende che la nozione di “male” presenta molteplici sfaccettature, che potremmo riassumere nell’idea generale di “danno fisico o morale da cui si è colpiti o che si infligge agli altri o a sé stessi”. Tra gli innumerevoli esempi di male che si possono analizzare, il consumo di sostanze
stupefacenti è particolarmente significativo, perché consente di richiamare l’attenzione su quanto sia irrazionale, o irragionevole, tenere un certo comportamento pur sapendo quanto sia dannoso in primo luogo per sé stessi. Infatti l’assunzione di droghe, nonostante sia una pratica autodistruttiva, ormai accertata come causa di dipendenza patologica, di malattia e talvolta di morte (come nei casi di overdose), continua a esercitare una grande attrazione soprattutto sulla popolazione giovanile, che si lascia spesso vincere dal “fascino del proibito”, sottovalutando le conseguenze negative delle proprie azioni.
ALCUNI DATI PER AVVIARE LA RIFLESSIONE Partiamo dal passo di un articolo pubblicato nell’aprile 2018 su “Il Sole 24 Ore”, in cui sono riportati alcuni dati sul consumo di stupefacenti nel nostro Paese e in Europa.
Se consideriamo la percentuale di persone dai 15 ai 64 anni che nell’ultimo anno ha assunto una qualsiasi droga, l’Italia si colloca in terza posizione dopo Repubblica Ceca e Francia. Per quanto riguarda il consumo di cannabis, siamo addirittura in seconda posizione a pochissima distanza dalla Francia, e in quarta per assunzioni di cocaina. […] Se come consumi è la cannabis a risultare predominante, la cocaina è la principale sostanza confiscata nel nostro Paese, e l’eroina (un oppiaceo) la prima causa di morte per overdose. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal bollettino annuale emcdda (Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze), a farla da padrona è la cannabis, sia in Italia sia in Europa, consumata da 23,5 milioni di persone (il 7% della popolazione), di cui 17,1 milioni di giovani under 34 (il 13,9% di loro). L’87% degli europei ha dichiarato di aver consumato cannabis almeno una volta nella vita. Sono tuttavia i giovani a consumarla di più: il 21% dei 15-24enni, il 16% dei 25-34enni, il 7% dei 35-44enni, il 3,6% dei 45-54enni e soltanto l’1% degli over 55. La cocaina è stata assunta da 3,5 milioni di individui (l’1% del totale), di cui 2,3 milioni di giovani con meno di 34 anni (l’1,9%); l’ecstasy (mdma) da 2,7 milioni (lo 0,8% della popolazione), per la maggior parte giovani (2,3 milioni, cioè l’1,8% del totale); infine, le amfetamine sono state assunte negli ultimi 12 mesi da 1,8 milioni di persone (lo 0,5% della popolazione), di cui 1,3 milioni di under 34 (l’1,1% della popolazione). E gli oppiacei, come metadone, buprenorfina, morfina e ossicodone? Si stimano in Europa ben 1,3 persone a rischio di complicanze dal punto di vista sanitario, dal momento che l’81% delle overdosi del 2017 hanno registrato la presenza di uno o più oppiacei. (Cristina da Rold, “Il Sole 24 Ore”, 5 aprile 2018)
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QUESTIONE
LE PROSPETTIVE IN CAMPO Al fenomeno delle tossicodipendenze appena richiamato è possibile guardare assumendo due diverse prospettive:
la prospettiva intellettualistica Secondo un primo punto di vista, il consumatore di droghe non è sufficientemente informato sui danni causati dall’assunzione di tali sostanze; non sa che il proprio comportamento è pericoloso; crede di ottenere un bene (il piacere momentaneo prodotto dall’assunzione della droga) sulla base di un ragionamento errato, che lo induce in realtà a scegliere male, procurando un danno a sé stesso e alla società. In questa prospettiva, contro il fenomeno delle tossicodipendenze dovrebbero essere privilegiate politiche di prevenzione attente soprattutto agli aspetti conoscitivi, cioè che promuovano e realizzino pratiche volte a sollecitare una presa di coscienza nei soggetti a rischio mediante campagne di informazione e sensibilizzazione. la prospettiva volontaristica Secondo un altro punto di vista, il consumatore di droghe è “preda” di una cattiva abitudine che piega la sua volontà: sa che il suo comportamento è nocivo e in alcuni casi colpevole, ma non può o non vuole smettere. In questa prospettiva, conoscere il bene non basta per metterlo in atto e, di conseguenza, la soluzione al fenomeno delle tossicodipendenze dovrebbe consistere in una “rieducazione” della volontà di chi fa uso di stupefacenti, ad esempio attraverso pratiche riabilitative presso comunità terapeutiche.
LA QUESTIONE FILOSOFICA Sul tema del male la ragione si applica da sempre, interrogandosi non soltanto sul suo senso e sulla sua origine, ma anche su che cosa induca l’uomo a commetterlo. Già i filosofi antichi si sono domandati se gli esseri umani scelgano (colpevolmente) o cedano (involontariamente) a comportamenti che danneggiano sé stessi e gli altri. In che misura l’uomo vuole il male e in che misura lo compie suo malgrado, ignorando che sia tale? Chi fa il male (proprio e altrui) lo fa perché è malvagio o perché non ne è consapevole? Insomma, in che cosa consiste propriamente il male: nell’ignoranza del bene o nella perversione della volontà che deliberatamente lo sceglie? La questione – che è stata affrontata con lucida consapevolezza dai filosofi greci, e in particolare da Socrate e Platone – può essere sintetizzata così:
Il male è frutto di ignoranza o malvagità?
prospettiva intellettualistica
prospettiva volontaristica
Nell’agire conta la conoscenza: il male è un difetto Nell’agire è determinante la volontà: il male è un difetto della volontà, cioè malvagità. L’azione della ragione, cioè ignoranza. L’azione che procura il male (proprio e altrui) non è il risultato né di una che procura il male (proprio e altrui) nasce da un rapporto conflittuale tra l’impulso irrazionale e la volontà cattiva, cioè consapevolmente orientata al male, né di una volontà debole, cioè incapace coscienza razionale. La ragione, infatti, non è l’unica di realizzare il bene una volta conosciutolo. L’uomo guida del comportamento umano: essa trova un limite nella pulsione, che condiziona e talvolta compie il male perché erroneamente lo valuta come un bene: egli dunque non è malvagio, bensì travolge la libera scelta della ragione. L’uomo, dunque, può fare il male pur sapendo che esso è tale. inconsapevole.
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Unità 3 PLATONE QUESTIONE il male è frutto di ignoranza o malvagità?
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Socrate
l’intellettualismo etico Il primato Tra i primi filosofi ad affrontare la questione del male e della sua natura troviamo Socrate, il quale si della ragione chiede: come è possibile volere il male, cioè scegliere ciò che si sa essere cattivo e nocivo? La sua risposta, per quanto possa apparire paradossale, è netta: la volontà umana non è né malvagia né debole, e se talvolta si orienta al male, lo fa perché ignora quale sia il vero bene. Nella prospettiva razionalistica di Socrate, la volontà è subordinata alla conoscenza: essa delibera sempre e soltanto in base a ciò che conosce. Per compiere il male, l’uomo deve quindi credere (erroneamente) che sia un bene: magari parziale, vantaggioso per sé e non per gli altri, ma pur sempre qualcosa che egli giudica preferibile. Il male Se fare il male significa seguire un bene apparente, cioè fare una valutazione errata, allora il conflitto tra senza colpa bene e male è tutto interno alla ragione, la quale sa o non sa: nel primo caso orienta la volontà al bene,
mentre nel secondo la orienta al male (credendolo un bene). Da questa convinzione socratica scaturisce una conseguenza paradossale: l’idea dell’involontarietà del male, ovvero la convinzione che nessuno faccia il male volontariamente, cioè sapendo che è male e per il gusto di farlo. In questo consiste l’intellettualismo etico di Socrate: il comportamento (éthos) è determinato dalla conoscenza; chi conosce il bene lo mette in pratica, e chi non lo mette in pratica non è malvagio, ma ignorante. Una volta conosciuto, il bene muove irresistibilmente la volontà dell’essere umano, il quale non può non metterlo in atto (principio dell’attraenza del bene):
‘
se il piacere è bene, nessuno, sapendo o credendo che altre possibili azioni siano migliori di quelle che compie, fa le peggiori, mentre potrebbe compiere quelle migliori […] nessuno volontariamente si volge a ciò che è o ritiene male […] ed è contrario all’umana natura ricercare ciò che si ritiene male invece del bene. (Platone, Protagora, 358c-d)
Platone
il volontarismo
Il distacco L’intellettualismo etico di Socrate suscita non poche perplessità nei filosofi successivi: la convinzione che dal maestro non sia possibile conoscere il bene e al tempo stesso scegliere di non compierlo rappresenta un punto
problematico, che pare denunciare come nel meccanismo che regola il comportamento umano Socrate non abbia individuato, accanto al ruolo della conoscenza, quello altrettanto importante della volontà. La riflessione platonica prende le mosse proprio da questa aporia del socratismo. Il distacco dalla prospettiva razionalistica del maestro si compie nel Gorgia, dove Platone pone Socrate di fronte alle provocazioni del sofista Callicle. Con beffardo e cinico sarcasmo, quest’ultimo fa infatti emergere la possibilità che “buono” (agathós) non sia ciò che la tradizione, le convenzioni umane o la ragione – spesso ponendosi «contro natura» – definiscono tale, ma semplicemente ciò che procura piacere:
‘
- […] la licenza, la dissolutezza, la libertà e i relativi mezzi che le rendono possibili: ecco la virtù e la felicità; tutto il resto, tutti questi bei travestimenti, queste umane convenzioni contro natura, non sono che buffonate senza alcun valore. callicle
(Platone, Gorgia, 491d-492c)
Il conflitto Il principio socratico dell’attraenza del bene è ormai dissolto: Platone ammette infatti la possibilità che un interno individuo, pur sapendo che una certa azione è male, scelga ugualmente di compierla, per di più ricavanall’anima
done soddisfazione e godimento. Questo perché, accanto alla ragione, nell’animo umano albergano forze irrazionali (la passione e il desiderio) che possono condizionare il nostro agire tanto quanto la razionalità. Per questo, nel Fedro, Platone paragona l’anima a un carro alato trainato da due cavalli (uno bianco e docile, l’altro nero e riottoso) e guidato da un auriga: quest’ultimo rappresenta il lógos, la componente razionale che ha il compito di orientare la volontà e l’agire; il cavallo bianco rappresenta la parte coraggiosa e passionale dell’anima, alleata del lógos e disposta a obbedirgli docilmente; il cavallo nero è la parte irrazionale e appetitiva, quella che si ribella alla guida della ragione e persegue la soddisfazione delle pulsioni.
317
QUESTIONE L’essere umano è dunque un organismo polimorfo e complesso, e la sua anima è una sorta di cittadella in cui convivono forze discordanti, che esigono un sapiente governo. L’esito positivo di questa battaglia interiore dipende dall’alleanza tra la parte razionale e saggia, e la parte passionale e coraggiosa: bisogna avere il coraggio (che è la virtù tipica dell’anima irascibile, o passionale) di conformarsi alla ragione, temperando gli impulsi ciechi. Si deve, in altre parole, desiderare nei limiti della ragione. La scelta del male Da un certo punto di vista, per Platone il razionalismo di Socrate ha comunque ancora valore: il bene
consiste nella ricerca di una misura razionale, di un armonico equilibrio tra le varie forze dell’animo. Tuttavia, con Platone il bene e il male cessano di essere un’alternativa interna alla ragione (tra sapere e ignoranza) e diventano un’alternativa ad essa esterna (tra ragione e impulso). Si tratta di un passaggio di particolare importanza, poiché apre la possibilità di considerare il male non soltanto come nocivo (come riteneva Socrate), ma anche come colpevole, in quanto frutto di una scelta consapevole tra due alternative ugualmente percorribili.
una questione aperta
Si può affermare che Platone ha scoperto la dimensione della libertà soggettiva, cioè l’idea che il male sia l’esito di una scelta colpevole, ovvero libera e responsabile? In realtà, in tutta la filosofia pre-cristiana l’idea della libertà risulta opaca e incerta, e lo stesso Platone non arriva ad attingerla pienamente. Per lui il male morale (la malvagità) va compreso in un orizzonte metafisico: esso ha infatti la sua origine in un evento pre-umano, cioè nella “caduta” dell’anima in un corpo, la cui materia è causa – involontaria e necessaria – della malvagità dell’individuo. Nel celebre mito di Er, Platone mostra che la vita di ogni essere umano deriva sì da una scelta, ma che questa si compie prima della nascita: il male che quell’individuo commetterà è dunque in gran parte involontario, in quanto necessariamente conseguente a una scelta che precede la vita corporea e consapevole. Così, se Socrate escludeva una vera libertà di scelta perché subordinava la volontà alla ragione, negando che quest’ultima potesse deliberatamente optare per il male, anche Platone nega che l’uomo sia completamente padrone del suo destino e davvero libero di scegliere tra il bene e il male. Percorrendo strade diverse, Socrate e Platone sembrano dunque approdare allo stesso risultato: il male in senso radicale – liberamente scelto in quanto tale – non esiste. Sarà Aristotele a schierarsi nettamente contro l’intellettualismo etico socratico, osservando che, se l’individuo non potesse scegliere consapevolmente il male, allora non si spiegherebbe perché debbano essere punite le azioni malvagie e premiate quelle buone, ovvero non si spiegherebbe il fondamento della giustizia. Soltanto le azioni volontarie (cioè liberamente scelte) e riconducibili alla responsabilità soggettiva possono infatti essere valutate come buone o cattive, e dunque premiate o punite. Eppure, a ben vedere, nemmeno con Aristotele la ragione greca perviene a una compiuta idea di libertà, perché anche per lui alla base di ogni azione – volontaria o involontaria – c’è il desiderio: la ragione può «deliberare», cioè accondiscendere o meno al desiderio e scegliere i mezzi più adatti per realizzarlo; ma il desiderio di qualcosa, l’inclinazione verso un certo oggetto, non si può scegliere ma soltanto subire.
A una reale consapevolezza della libertà si arriverà soltanto con il tramonto della cultura greca e con il sorgere della cultura cristiana. Rappresentandosi come creato «a immagine e somiglianza» di Dio (secondo la formula biblica), l’essere umano si riconoscerà come soggetto che pensa e che vuole, e che come Dio è sovranamente libero, anche di ribellarsi al proprio creatore: è questa l’autentica libertà del volere, ovvero quel “libero arbitrio” la cui nozione risulta così distante dalla «deliberazione» aristotelica. Soltanto in virtù di tale autentica libertà si può volere il male, cioè sceglierlo sia contro la ragione che dice di evitarlo, sia contro il condizionamento dei desideri e delle pulsioni. Rispetto alla mentalità greca, nella prospettiva cristiana il rapporto tra ragione e volontà risulta ormai invertito: il volere malvagio non deriva da un errore razionale o da una pulsione incontrollabile; è piuttosto l’offuscarsi della ragione a derivare da una volontà malvagia, che corrompe la natura umana e la sua capacità di conoscere adeguatamente.
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Unità 3 PLATONE QUESTIONE il male è frutto di ignoranza o malvagità?
ora tocca a voi...
dibattito critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto la guida dell’insegnante, mediante sorteggio dividete la classe in due squadre, assegnando a ciascuna il compito di argomentare in favore o contro la seguente mozione:
Il male è frutto di malvagità PREPAR A ZIONE DEL DIBAT TITO
• Per prepararvi a presentare il punto di vista della vostra squadra e ad esporre gli argomenti pro o contro la mozione, rispondete alle seguenti domande: - in che cosa consiste il male secondo Platone? e in che cosa secondo Socrate? - perché nel primo caso si parla di “volontarismo” e nel secondo di “intellettualismo”? - che cos’è il principio dell’attraenza del bene? e per quali motivi non è / è condivisibile? - per quali motivi generali ritenete più corretta la posizione di Platone / Socrate? • Per elaborare e rafforzare gli argomenti favorevoli o contrari alla mozione, cercate nei vostri manuali scolastici, in biblioteca o in Internet le riflessioni di alcuni filosofi, sociologi o psicologi che abbiano sostenuto o sostengano la posizione difesa dalla vostra squadra; quindi supportate tali riflessioni mediante il riferimento a fatti di cronaca. SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO 1. primo intervento (max 6 minuti per ogni
squadra) Per avviare la discussione, un primo studente della squadra favorevole alla mozione riassume il problema ed espone la tesi: Sì, il male è frutto di malvagità, ovvero di una volontà consapevolmente orientata a danneggiare sé stessi e gli altri. Poi presenta preliminarmente e sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il primo argomento.
A questo punto un componente della squadra avversaria espone la tesi: No, il male non è frutto di malvagità, ma di ignoranza. Poi presenta preliminarmente e sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il primo argomento. 2. secondo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un secondo studente per ogni squadra difende il primo argomento presentato dalle critiche eventualmente ricevute, quindi confuta il primo argomento avversario e presenta altri argomenti in favore della mozione o contro di essa. 3. terzo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un terzo studente per ogni squadra difende gli argomenti presentati fino a quel momento dalle critiche eventualmente ricevute e confuta le ultime argomentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 minuti per ogni squadra) Un esponente per ciascuna squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
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I NODI DEL PENSIERO QUAL È L’ORIGINE DEL MONDO?
Da sempre gli esseri umani si chiedono quale sia l’origine del mondo. A questa domanda le diverse civiltà e culture antiche hanno risposto con potenti e suggestive narrazioni di tipo miticoreligioso. In Grecia, con la nascita della filosofia, i grandi miti cosmogonici lasciano gradualmente il posto alle ipotesi razionali: la riflessione sulla natura si intreccia così a quella sulla sua origine, che viene indagata non più con la fantasia, ma con la forza del pensiero.
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1 Scuola di Mileto
1
SCUOLA DI MILETO
Il mondo deriva da un’unica sostanza originaria: l’arché
‘
Ci dev’essere una qualche sostanza […] da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. (DK 11 A 12)
Cominciando a indagare la natura con il lógos, i primi filosofi (Talete, Anassimandro e Anassimene) si convincono che il mondo non abbia sempre avuto la forma attuale, ma derivi da una sostanza o da un principio originario, che è sempre esistito e al quale tutto ciclicamente farà ritorno. A tale sostanza o principio Anassimandro dà il nome di arché. Quanto alla natura di tale sostanza primordiale, Talete e Anassimene la individuano in due elementi naturali, cioè, rispettivamente, nell’acqua (che sostiene la Terra e dalla quale deriva ogni forma di vita) e nell’aria (da cui tutte le cose derivano per condensazione e rarefazione). Anassimandro ritiene invece che l’arché sia una materia informe e indefinita, l’ápeiron, in cui i diversi elementi non sono ancora distinti l’uno dall’altro, e dal quale si separano gradualmente i contrari (caldo-freddo, secco-umido ecc.), dando vita a tutte le cose.
2 Eraclito
3 Anassagora
4 Democrito
5 Platone
2
ERACLITO
Il mondo si forma e si distrugge ciclicamente a partire dal fuoco
‘
Il nostro mondo […] nessuno degli dèi o degli uomini l’ha creato, ma fu sempre, è e sarà fuoco eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne. (DK 22 B 30)
Come i fisici ionici, anche Eraclito delinea una visione ciclica del mondo, in cui perennemente e necessariamente si alternano fasi di aggregazione e disgregazione della materia. La legge (il lógos) che regge il cosmo è una continua e inesorabile «lotta» fra contrari, e il suo simbolo è il fuoco che tutto trasforma. Il fuoco è per Eraclito anche il principio fisico (l’arché) di tutta la natura: dal fuoco ogni cosa si produce per condensazione, e al fuoco ogni cosa ritorna per rarefazione. Elemento mobile e distruttore per eccellenza, esso è energia pura, priva di qualunque intelligenza e aliena da qualunque progetto consapevole. In questo senso Eraclito si colloca (come già i fisici ionici) in un filone di pensiero che potremmo definire necessitaristico (in opposizione a una corrente volontaristica e finalistica), che all’interrogativo sull’origine del mondo risponde escludendo l’idea di una mente che l’ha progettato e organizzato in vista di un fine.
3
ANASSAGORA
Il mondo deriva da un’infinità di «semi» ordinati da un intelletto divino
‘
Ogni cosa è mescolata in ogni cosa e […] la nascita avviene per separazione. (DK 59 A 45)
Il primo ad abbandonare la visione necessitaristica dell’universo è Anassagora, il quale introduce l’idea di un’intelligenza divina (il «noús») che dà origine al cosmo mettendo ordine in un’informe materia primordiale. In altre parole, all’origine dell’universo Anassagora pone due princìpi, uno passivo e l’altro attivo: da una parte c’è la materia, che egli immagina (come gli altri fisici pluralistici) formata da una molteplicità di «omeomerie» o «semi», cioè da un caotico e infinito insieme di particelle piccolissime (ma infinitamente divisibili) e tra loro qualitativamente differenti; su questo caotico insieme di semi d’oro, di pietra, di carne ecc. agisce il noús, un intelletto divino che, mettendoli in movimento, li distingue, li ordina, li unisce e li separa, trasformando il caos originario nel cosmo. Il mondo così formato è dunque fatto di cose che hanno in sé i semi di ogni altra cosa, mescolati però in proporzioni diverse.
6 Stoici
di 7 Filone Alessandria
8 Plotino
9 Agostino
321
4
DEMOCRITO
Il mondo deriva da un’infinità di «atomi» in movimento
‘
Il cosmo non è governato né da qualcosa di animato, né dalla provvidenza, ma è scaturito dagli atomi in virtù di una forza senza scopo.
(DK 67 A 22)
Come Anassagora, anche Democrito ritiene che all’origine del mondo ci sia un numero infinito di particelle di materia. Diversamente da Anassagora, tuttavia, egli ritiene che tali particelle siano indivisibili («atomi»), e che si uniscano o separino tra loro, dando così origine a tutte le cose esistenti, non per azione di un principio esterno, ma in virtù del loro movimento spontaneo, che le porta a urtare accidentalmente le une con le altre. È importante sottolineare che per Democrito gli atomi sono mossi dal «caso» (in greco to autómaton), nel senso che si muovono automaticamente, cioè per un proprio intrinseco impulso, e non in vista di uno scopo imposto da un’intelligenza o da una volontà esterne. Ciò nonostante, Democrito afferma che tutto avviene «secondo ragione» e «secondo necessità». Ma come può il caso convivere nello stesso sistema filosofico con la necessità, ovvero con un sistema di cause che determinano gli eventi? Sebbene venga perlopiù tradotta con “il caso”, l’espressione democritea to autómaton non indica in realtà l’assenza di ogni causa, ma di quella particolare causa che Aristotele chiamerà “finale” ( unità 4, p. 350), intesa come l’obiettivo ultimo a cui tendono tutte le cose. Gli atomisti sono convinti che la natura abbia una sua razionalità, un suo ordine interno; ma quest’ordine non è quello finalistico, bensì quello proprio dei sistemi meccanici, per cui, data una causa, il suo effetto segue necessariamente (cioè in modo determinato e determinabile), senza bisogno di alcuna “programmazione” esterna.
5
PLATONE
Il mondo è opera di un’intelligenza divina che plasma la materia
‘
(Timeo, 48)
I NODI DEL PENSIERO QUal È l’oRiGinE DEl MonDo?
L’origine di questo mondo è mista, derivando [esso] da una combinazione della necessità e dell’intelligenza: l’intelligenza dominò la necessità, col persuaderla di rivolgere al bene la maggior parte delle cose che si generavano.
Nel Timeo Platone si rifà all’idea di Anassagora di un’intelligenza divina che dà forma e ordine alla materia, poiché ritiene che non sia possibile spiegare il mondo ricorrendo alle sole cause materiali e meccaniche (come faceva il suo contemporaneo Democrito). Farlo significherebbe infatti commettere lo stesso errore di chi, per comprendere la ragione per cui Socrate non sia fuggito dal carcere (preferendo così accettare la sua condanna, anziché tradire le leggi della città), richiamasse l’attenzione non sulla sua intelligenza, che ha scelto di comportarsi in quel modo, ma sulle sue gambe, sulle sue ossa e sui suoi nervi, che invece sono stati lo strumento per mettere in opera quella scelta. Come le azioni umane, anche il mondo è per Platone il frutto di una scelta razionale: esso è il risultato dell’opera del «demiurgo», una divinità intelligente che plasma la materia guardando ai modelli perfetti delle idee. La materia è dunque un semplice strumento di cui il demiurgo si serve in vista di un fine buono, ovvero la realizzazione di un mondo ordinato (un «cosmo»), formato sulla base di un modello perfetto (il mondo delle idee). Platone consegna così alla tradizione filosofica una visione finalistica che troverà la sua eco più importante e originale nella prospettiva creazionistica del cristianesimo.
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1 Scuola di Mileto
2 Eraclito
3 Anassagora
4 Democrito
5 Platone
DALLA FILOSOFIA AL MITO
«Che cosa c’era, quando ancora non c’era qualcosa?» Le prime riflessioni filosofiche sull’origine del mondo si intrecciano con le grandi narrazioni mitico-religiose della cultura greca arcaica, così che spesso i confini tra la filosofia e il mito appaiono incerti. Un esempio emblematico di questo intreccio è dato dalla concezione della fase originaria del mondo come «caos». Dagli ionici a Eraclito, dai pluralisti a Platone, tutti i primi filosofi pensano alla fase iniziale del mondo come a un momento in cui l’universo non aveva una forma definita e si presentava come un «magma» oscuro di materia indistinta, o di particelle materiali mescolate senza alcun ordine. Questa idea, o meglio questa visione dell’inizio del mondo, accomuna le riflessioni dei primi filosofi ai grandi miti cosmogonici narrati dai poeti, che lo storico della filosofia e delle religioni Jean-Pierre Vernant (1914-2007) sintetizza così:
‘
Che cosa c’era, quando ancora non c’era qualcosa, quando non c’era proprio nulla? A questa domanda i Greci hanno risposto con miti e racconti. In principio, fu Voragine. I Greci la chiamarono Chaos. Che cos’è Voragine? È un vuoto, un vuoto oscuro, dove niente può essere distinto. È un punto di caduta, di vertigine e di confusione, un precipizio senza fine, senza fondo. Si viene ghermiti da Voragine come dall’apertura di fauci immense in cui tutto può essere ingoiato e confuso in un’unica notte indistinta. In origine dunque, non esiste che Voragine, abisso cieco, notturno, sconfinato. Poi apparve la Terra. I Greci la chiamarono Gaia. È dal seno stesso di Voragine che sorse la terra. Eccola dunque, nata subito dopo Chaos, di cui rappresenta per certi aspetti il contrario. La Terra non è più uno spazio di caduta oscuro, senza limiti, indefinito. La Terra possiede una forma distinta, separata, precisa. Alla confusione, all’indistinto carico di tenebre di Chaos, Gaia oppone nettezza, compattezza, stabilità. Sulla Terra ogni cosa è ben delineata, visibile, solida. Gaia può essere definita come il suolo su cui dèi, uomini e animali camminano con sicurezza. Gaia è il pavimento del mondo. (J.-P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, trad. it. di I. Babboni, Einaudi, Torino 2001, p. 9)
Nella visione mitica, dal caos primordiale, dal vuoto informe, emerge dunque una prima forma (la Terra), un primo solido «pavimento» su cui la realtà può appoggiarsi. Poi la Terra partorirà il Cielo (Ouranós) e il Mare (Póntos), traendoli da sé e separandosene in virtù dell’infinita energia che la anima (l’Amore primordiale). A questo punto i primi fondamentali elementi del mondo saranno giunti all’esistenza, e la vita dell’universo potrà avere inizio.
FARE FILOSOFIA COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE Competenza imprenditoriale | Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali
Immagina di dover organizzare, insieme con i tuoi compagni di classe, una mostra sul tema “Le origini dell’universo tra mito, religione e filosofia”. • Decidete a chi sarà rivolta l’iniziativa (agli studenti della vostra scuola, ai membri di un circolo culturale, agli abitanti della vostra città ecc.) e, di conseguenza, in quale sede sarà allestita. • Individuate poi i compiti richiesti dall’allestimento della mostra e i gruppi che li dovranno
6 Stoici
di 7 Filone Alessandria
svolgere. Occorrerà anzitutto delineare un percorso attraverso i tre ambiti presi in esame (mito, religione e filosofia), scegliendo i contenuti principali che si vogliono offrire (racconti, autori o testi); quindi bisognerà realizzare i materiali (pannelli con testi e/o immagini; presentazioni multimediali ecc.); infine promuovere l’evento (con inviti, manifesti o pubblicità sul giornale della scuola o della città ecc.).
8 Plotino
9 Agostino
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I NODI DEL PENSIERO DA DOVE VIENE IL MALE?
Cupo mistero di cui il cuore umano non riesce a liberarsi, ferita che attraversa l’esistenza, il male trova voce in ogni epoca, e da sempre interroga la ragione: perché si soffre e si muore? perché alcuni esseri umani sono malvagi? Nelle sue molteplici forme (morte, malattia, calamità naturali, malvagità, ingiustizia ecc.), il male è stato indagato già dai filosofi antichi, che al problema della sua origine hanno dato risposte differenti.
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1 Pitagorici
1
PITAGORICI
Il male deriva dalla materia e dall’illimitato
‘
Il male partecipa dell’infinito, il bene del limitato. (DK 58 B 7)
Per spiegare il male, i pitagorici si rifanno al modello dualistico dell’antica religione orfica, secondo cui l’anima umana ha natura divina, ma – per una sorta di caduta o di colpa originaria – si ritrova condannata a incarnarsi in un corpo, che ne diventa la “prigione” o la “tomba”. Da questa commistione con la materia e con le sue imperfezioni derivano sia i mali fisici (come la morte o la malattia) sia i mali morali (i comportamenti malvagi), che consistono nella scelta di privilegiare gli aspetti materiali dell’esistenza. Lo stesso dualismo che caratterizza l’antropologia si ritrova nella cosmologia pitagorica: il principio spirituale e quello materiale assumono i tratti, rispettivamente, del limite e dell’illimitato, ovvero dell’ordine e del caos, della razionalità e dell’irrazionalità. Il limite e l’illimitato sono il bene e il male, e dal loro conflitto scaturisce il mondo, con tutte le sue manifestazioni, sia positive sia negative.
2 Eraclito
3 Empedocle
4 Socrate
5 Platone
2
ERACLITO
Il male è una necessità che deriva dal conflitto tra contrari
‘
Bisogna sapere che la guerra è comune [a tutte le cose], che la giustizia è contesa, e che tutto accade secondo contesa e necessità. (DK 22 B 80)
La visione dualistica che caratterizza la metafisica pitagorica si ritrova, nei suoi aspetti di fondo, nel pensiero di Eraclito. Anche Eraclito, infatti, quale fondamento della vita del mondo riconosce la lotta tra contrari: luce e tenebre, caldo e freddo, salute e malattia, vita e morte sono tra loro in eterno conflitto, e dal loro ciclico alternarsi, ovvero dall’alterna vittoria dell’uno sull’altro, scaturiscono tutte le cose. Ciò che differenzia maggiormente Eraclito dai pitagorici (e, in generale, dai pensatori greci arcaici) è il valore positivo attribuito a tutti i contrari: nella visione eraclitea non esiste un principio del bene e uno del male; non esistono il bene assoluto e il male assoluto (il limite e l’illimitato dei pitagorici), ma soltanto luci e ombre che si alternano, in una «guerra» (pólemos) che costituisce la legge stessa del mondo. Anzi, per Eraclito è un errore (e quindi è male) non riconoscere questa verità, ossia che proprio il conflitto tra gli opposti è il senso nascosto della realtà, il lógos unitario, l’ordine necessario che la governa e la mantiene in vita. Ciò che agli esseri umani appare come male e dolore non è dunque, in realtà, che un momento necessario nella vita del cosmo.
3
EMPEDOCLE
Il male deriva dalla materia e dal principio cosmico dell’Odio
‘
Duplice è la genesi dei mortali, duplice è la morte: l’una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose; l’altra, prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse si separano. (DK 31 B 17, vv. 3-5)
Se in Eraclito il dualismo assume tratti originali e per certi aspetti differenti da quelli che caratterizzano la tradizione greca arcaica, in Empedocle si ripresenta sostanzialmente invariato. I due princìpi metafisici che lottando tra loro danno vita al cosmo non sono più (come per i pitagorici) il limite e l’illimitato, bensì l’Amore (o Amicizia, o Concordia) e l’Odio (o Contesa, o Discordia), i quali agiscono sui quattro elementi fisici (terra, acqua, aria e fuoco) come forze opposte, che tendono rispettivamente ad aggregarli e a disgregarli. In questo quadro complessivo di un principio del bene e di un principio del male che lottano tra loro, anche per Empedocle (come già per i pitagorici) il male fisico e morale che affligge gli esseri umani deriva dalla loro natura corporea, che a sua volta è l’esito di una colpa originaria imputabile all’anima. Per «aver creduto alla funesta Discordia», l’anima umana è condannata a vivere incarnata in un corpo, e a soffrire delle sue imperfezioni.
6 Epicuro
7 Stoici
8 Plotino
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4
SOCRATE
Il male deriva dall’ignoranza
‘
Nessuno volontariamente si volge a ciò che è o ritiene male [...] ed è contrario all’umana natura ricercare ciò che si ritiene male invece del bene. (Platone, Protagora, 358d)
Con i sofisti e con Socrate l’indagine sul male si colloca entro un differente orizzonte di ricerca: l’attenzione del pensiero filosofico non si appunta più sul mondo naturale, sulla sua origine e sulle leggi del suo funzionamento, bensì sul mondo umano, con tutte le complessità che il vivere presenta. Il male indagato è dunque prevalentemente quello morale, e l’interrogativo fondamentale diventa: perché l’uomo fa il male? che cosa lo spinge ad essere malvagio o ingiusto? A questa domanda Socrate risponde con una posizione che è stata definita “intellettualismo etico”, secondo cui gli esseri umani agiscono sempre cercando di perseguire ciò che ritengono essere bene. Pertanto, quando compiono il male, non è perché sono “malvagi”, ma perché non sono pienamente consapevoli del fatto che stanno scegliendo il male. Con un errore di valutazione, essi perseguono ciò che considerano buono, senza accorgersi di tutte le conseguenze negative (cioè di tutti i mali) che presenta o presenterà. In questo senso si può affermare che per Socrate il male coincide con l’ignoranza umana, perché compie il male soltanto chi non sa in che cosa davvero consista il bene.
5
PLATONE
Il male deriva dalla materia e da un difetto della volontà
‘
I NODI DEL PENSIERO Da DoVE ViEnE il MalE?
[Il demiurgo] era buono, e in chi è buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose si generassero simili a lui quanto potevano. (Platone, Timeo, 29e-30b)
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Ritornando a delineare una visione complessiva del mondo e della realtà, Platone affronta il problema del male rifacendosi al dualismo della tradizione presocratica. Anch’egli (come già gli orfici e i pitagorici) fa dunque derivare il male dalla materia, intesa come principio negativo che resiste all’attività ordinatrice dell’intelligenza divina. Più precisamente, nel Timeo Platone descrive la nascita del mondo come il risultato della azione di un demiurgo, ovvero di un artefice divino che, guardando alla perfezione delle idee, se ne serve come modello per dare forma a una massa infinita, informe e caotica di materia (la «chóra») da sempre esistente. Da questa azione plasmatrice e ordinatrice nasce il mondo fisico, il quale tuttavia, proprio in quanto materiale, non presenta la perfezione e l’incorruttibilità del mondo ideale. In questa prospettiva il male è un principio metafisico che preesiste al mondo, e di cui non sono responsabili né gli esseri umani né gli dèi: «mentre per i beni non occorre pensare ad altro autore che la divinità – afferma Platone –, le cause dei mali si devono cercare altrove che in lei» (Repubblica, II, 380b).
1 Pitagorici
2 Eraclito
3 Empedocle
4 Socrate
5 Platone
Accanto a questa spiegazione metafisica del male cosmico o fisico, Platone elabora una spiegazione psicologica (come diremmo oggi) del male morale, ovvero della malvagità degli esseri umani, facendolo tuttavia derivare anch’esso, in un certo senso, dalla materia. Prendendo le distanze dal proprio maestro Socrate, Platone afferma infatti che non è sufficiente sapere che qualcosa è male per scegliere di non farlo. Quando un individuo compie il male pur sapendo che è male, è evidente che la sua azione non deriva da un difetto di tipo conoscitivo (come avrebbe affermato Socrate): si tratta piuttosto della vittoria di una pulsione istintiva e irrazionale sulla ragione. In questo caso, ad essere “difettosa” è dunque la volontà che sceglie, e non l’intelletto che conosce. Così, con Platone, il male morale comincia a essere concepito come qualcosa di “colpevole”, che chiama in causa il singolo essere umano e la sua responsabilità.
FARE FILOSOFIA PER RIFLETTERE E ARGOMENTARE COMPETENZE Competenza in materia di consapevolezza
ed espressione culturali
• Considera le diverse concezioni del male analizzate in queste pagine: quale di esse ti è più congeniale? Quale condividi maggiormente, e per quali motivi? • Rifletti in particolare su questi aspetti: pensi che quella sul male sia una domanda che interpella la ragione umana, reclamando una spiegazione? Oppure ritieni che il male sia una necessità ineluttabile, sulla quale per-
6 Epicuro
7 Stoici
tanto non ha senso interrogarsi? In altre parole: pensi al male (compreso quello compiuto dai singoli individui) come a una necessità cosmica, oppure come a qualcosa che dipende dalla responsabilità dell’essere umano? Motiva la tua risposta. • Confronta le tue riflessioni con quelle dei tuoi compagni, quindi elaborate insieme un elenco di affermazioni che sintetizzano le vostre principali posizioni (ad esempio, “il male è necessario, perché è legato alla natura corruttibile del mondo”, “il male è frutto di una scelta” ecc.).
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4 UNITÀ
ARISTOTELE
Gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito giunsero a porsi problemi sempre maggiori. (Aristotele, Metafisica, I, 982b)
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Come Platone è l’allievo più famoso di Socrate, così Aristotele lo è di Platone, maestro con il quale condivide il costante, instancabile impegno nella ricerca del sapere. Tuttavia, se l’obiettivo ultimo della riflessione platonica era la riforma della pólis, con Aristotele l’orizzonte dell’indagine si amplia fino a comprendere ogni aspetto della realtà, dal più elevato al più umile, dagli enti eterni e immutabili a quelli perituri e mutevoli. Spinto da uno “stupore” sempre rinnovato, con uguale passione Aristotele affronta i problemi generali dell’essere, analizza le modalità del ragionamento, studia la natura in tutte le sue manifestazioni e si accosta al complesso mondo degli esseri umani e delle loro azioni.
L’
unità presenta le varie parti in cui si articola il multiforme sistema filosofico di Aristotele. IL RACCONTO DI UNA VITA
Una vita per la ricerca Gli scritti aristotelici
CAPITOLO 1 Il progetto filosofico
Il tentativo di Aristotele è quello di costruire un’enciclopedia del sapere che possa giungere a una sintesi onnicomprensiva delle conoscenze dell’epoca.
CAPITOLO 2 Le strutture della realtà: la metafisica
CAPITOLO 4 Il mondo naturale: la fisica e la psicologia
La natura, intesa come regno del divenire, costituisce per Aristotele un ambito di grande interesse, all’interno del quale il filosofo analizza anche l’anima quale sostanza vivificatrice di un corpo.
CAPITOLO 5 L’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
Le conoscenze pratiche (cioè la morale e la politica) e le conoscenze artistiche e produttive (le cosiddette “arti belle” e le tecniche) sono per Aristotele forme di sapere che presentano una loro autonomia e specificità rispetto alle scienze teoretiche (metafisica, fisica e matematica).
La metafisica è la disciplina attraverso la quale Aristotele indaga la realtà e l’essere in generale, cercando di individuarne le strutture perenni.
CAPITOLO 3 Le strutture del pensiero: la logica
La logica aristotelica, analizzando il ragionamento dal punto di vista della sua forma (e non del suo contenuto), segna un punto di svolta nel pensiero filosofico e scientifico.
CLASSE CAPOVOLTA A CASA
Guarda la videolezione di Giancarlo Burghi Aristotele - La filosofia come meraviglia e mettine in evidenza i passaggi fondamentali in un elenco schematico dei contenuti. Annota poi gli eventuali dubbi o spunti di riflessione che il video ti ha suggerito.
IN CLASSE
Sotto la guida dell’insegnante dividete la classe in quattro gruppi e, all’interno di ciascuno di essi, confrontate il lavoro svolto a casa, discutendo dei dubbi e degli spunti di riflessione individuati singolarmente.
Sempre all’interno di ogni gruppo, elaborate insieme un testo scritto rispondendo alle seguenti domande: - condividete l’idea che il sapere e la ricerca nascano dalla meraviglia? quale significato date a questo termine? - pensate anche voi (come Aristotele) che il fine ultimo del sapere debba essere la contemplazione disinteressata della realtà? oppure ritenete che esso debba “servire” a qualcosa? perché? Al termine del lavoro, un portavoce per ogni gruppo leggerà l’elaborato al resto della classe, al fine di realizzare tutti insieme un cartellone o una slide che raccolga le risposte in un quadro sinottico.
VIDEOLEZIONE
Aristotele La filosofia come meraviglia
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IL RACCONTO DI UNA VITA
AUDIO Il filosofo si racconta
Una vita per la ricerca Il «maestro di color che sanno»
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Nella Divina commedia, nel quarto canto dell’Inferno, Virgilio accompagna Dante nel luogo in cui riposano i più grandi pensatori dell’era pre-cristiana. Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, / Da Empedocle a Democrito, da Socrate a Platone, fino a Seneca: tutta la «fividi ’l maestro di color losofica famiglia» guarda con ammirazione ad Aristotele, supremo «maestro che sanno / seder tra di color che sanno». Considerato il filosofo per eccellenza della tradizione filosofica famiglia. / occidentale, Aristotele è nominato da Dante anche in altri passi, dove è deTutti lo miran, finito «maestro e duca de la ragione umana» (Convivio, IV VI 8) e «maestro tutti onor li fanno. de la nostra vita» (Convivio, IV XXIII 8», degno di essere accolto nel «nobile (Dante Alighieri, Inferno, castello» degli «spiriti magni» (Inferno, IV, 106 e 119). IV, 130-133) Per comprendere la genesi di questo “genio universale” è utile ripercorrerne la ricca vicenda biografica: Aristotele è studente e docente presso la scuola di Platone (l’Accademia); viaggiatore assiduo e studioso attento della natura; CARTA INTERATTIVA precettore di Alessandro Magno presso la corte macedone; infine maestro e direttore di i luoghi di ARISTOTELE una scuola propria. È da questi vissuti che trae alimento la sua riflessione filosofica.
La formazione: dalla provincia ad Atene Aristotele nasce nel 384 a.C. a Stagira, una pólis greca nella penisola Calcidica, al confine con la Macedonia. La città era una colonia di Andro (piccola isola delle Cicladi), a sua volta alleata di Atene fin dai tempi della costituzione della lega delio-attica contro i Persiani (inizio V secolo a.C.). Aristotele era dunque un greco a tutti gli effetti, e non (come talvolta si dice) un “suddito macedone”, sebbene il padre, Nicomaco, fosse medico alla corte del re di Macedonia Aminta III, nonno di Alessandro Magno. La precoce morte di Nicomaco – al quale Aristotele deve il suo spiccato interesse per le scienze naturali, nonché il soprannome “il farmacista” attribuitogli da alcuni contemporanei – lo costringe a trasferirsi nella città di Atarneo, in Asia Minore, dove vive Prosseno, un parente che gli fa da tutore. Amico ed estimatore di Platone, è probabilmente quest’ultimo a decidere di affidare il giovane al filosofo ateniese, perché ne perfezioni la formazione. Appena diciassettenne, Aristotele parte dunque alla volta di Atene.
Alla scuola di Platone A quel tempo c’erano ben due scuole ateniesi riconosciute in tutto il mondo greco come centri educativi di eccellenza: l’Accademia platonica e la scuola di Isocrate. Animate da un’accesa rivalità, le due scuole incarnavano due modelli pedagogici diversi: la prima si fondava sullo studio della matematica e della filosofia; la seconda su quello delle lettere e della retorica. Nel 367 a.C., quando Aristotele arriva all’Accademia, Platone non è in città: è partito per il suo secondo viaggio in Sicilia, diretto a Siracusa, dove rimarrà tre anni. La scuola è retta dal matematico e astronomo Eudosso di Cnido, i cui interessi scientifici (che
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andavano dalla matematica alla geografia, dall’etnologia alla botanica) orientano la curiosità del nuovo allievo, che nel corso del solo primo anno di studi classifica oltre cinquecento specie di animali. Sotto l’influenza di Eudosso, infatti, in questo periodo l’Accademia si sta gradualmente trasformando da scuola di formazione politica in un centro di ricerca scientifica, nel quale, accanto a discipline teoriche come la filosofia e la matematica, se ne studiano anche altre più empiriche (cioè basate sui dati dell’esperienza), come le scienze naturali. Ben presto, tuttavia, apparirà chiaro che lo scopo perseguito da Aristotele mediante lo studio non è quello di apprendere una particolare scienza o professione per guadagnarsi da vivere, né quello di prepararsi al governo dello Stato (tanto più che Aristotele non è considerato un “cittadino” ateniese, ma un meteco): la sua è piuttosto una scelta di vita, la scelta del bíos theoretikós (letteralmente, “vita teoretica”), ovvero di un’esistenza dedita a un sapere disinteressato, fine a sé stesso. Nell’Accademia platonica Aristotele rimane fino alla morte del maestro (347 a.C.), prima come studente e poi come docente. Durante questi vent’anni, la sua formazione intellettuale e spirituale, così come la sua prima esperienza di insegnamento, si compiono sotto l’influenza della personalità di Platone ( “L’incontro”).
enciclosofia meteco Nell’antica Grecia erano chiamati “meteci” gli stranieri liberi che risiedevano stabilmente in una città. I meteci erano sottoposti a obblighi e divieti ben precisi: in Atene, ad esempio, dovevano scegliere un cittadino che li rappresentasse legalmente e pagare alcune tasse; inoltre non potevano prendere parte alla vita politica.
L’ I N CO N T RO
Aristotele e Platone: tra amicizia personale e dissenso intellettuale Il rispetto per il maestro Il 364 a.C. (anno in cui Platone rientra ad Atene dopo il suo secondo soggiorno a Siracusa) e il 347 (morte di Platone) segnano nella vita di Aristotele l’inizio e la fine di un’intensa amicizia e collaborazione con il fondatore dell’Accademia. Sui rapporti tra questi due “giganti” della filosofia antica vi sono testimonianze discordanti. Certamente Aristotele provò per il maestro un profondo rispetto, come testimonia la cosiddetta Elegia a Eudemo, dove si trova un vibrante elogio della personalità e del pensiero di Platone, il quale viene descritto come L’uomo che ai cattivi non è lecito neppure lodare, che solo o primo tra i mortali dimostrò chiaramente con l’esempio della sua vita e col rigore delle argomentazioni che buono e felice ad un tempo l’uomo diviene. A tale altezza nessuno è ormai più capace di giungere. (Aristotele, frammento 1)
Il distacco dal platonismo La stima e l’amicizia per Platone non impediranno ad Aristotele di dissentire dal maestro e di criticare alcuni aspetti della sua filosofia: «l’amicizia e la verità – egli affermerà in un famoso passo dell’Etica nicomachea – sono entrambe care, ma è cosa santa onorare di più la verità». Questa indipendenza intellettuale ha fatto nascere la “leggenda” dell’ingratitudine dell’allievo verso il maestro. Lo storico Diogene Laerzio, ad esempio, paragona l’atteggiamento di Aristotele a quello dei puledri, che «prendono a calci la madre che li generò» (Vite dei filosofi, V, 2). Ma, indipendentemente da questa interpretazione “estrema”, ciò che non si può negare è che la personalità filosofica di Platone segnò in modo irreversibile quella di Aristotele.
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L’insegnamento e la ricerca ad Asso e a Mitilene Quando, alla morte di Platone, Aristotele lascia l’Accademia, la sua è una decisione prevalentemente politica. L’anno prima (348 a.C.) la città di Olinto, alleata di Atene, è stata distrutta da Filippo II di Macedonia (figlio di Aminta III) e il partito nazionalista di Demostene sta diffondendo un’ondata di ostilità anti-macedone. Per origini e legami familiari Aristotele è considerato sospetto e preferisce ritornare ad Atarneo: qui governa l’amico Ermia, del quale il filosofo sposa una nipote e figlia adottiva di nome Pizia. Rimasto presto vedovo, in seguito si unirà a una donna originaria di Stagira, Erpillide: tra i figli avuti da quest’ultima è da ricordare Nicomaco, così chiamato in memoria del nonno paterno, e al quale è dedicata la famosa Etica nicomachea. Il territorio governato da Ermia comprende anche Asso, nella vicina Troade, dove Aristotele ritrova due allievi dell’Accademia, Erasto e Corisco, con i quali ricostituisce una piccola comunità platonica. Alla nuova scuola si unisce presto un altro discepolo di Platone, Tirtamo, che diverrà il principale allievo e amico di Aristotele, e che per le sue doti oratorie sarà da lui soprannominato Teofrasto (letteralmente “divino parlatore”). Ad Asso Aristotele trascorre circa tre anni. Nel 344 a.C. si trasferisce a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove con Teofrasto fonda un’altra scuola, dedicandosi tuttavia più alla ricerca scientifica e naturalistica che all’insegnamento. In Teofrasto, che aveva una naturale curiosità per la ricerca empirica, Aristotele trova un valido collaboratore con cui mettere a punto un metodo di indagine scientifica fondato sull’osservazione dei fenomeni e sulla raccolta di dati ( “Dalla vita al pensiero”).
Gli anni di ricerca a Mitilene: Aristotele naturalista DALLA VITA AL PENSIERO
L’osservazione della natura A Mitilene, Aristotele trascorre molte ore della giornata a camminare e pensare, perlustrando la laguna dell’isola di Lesbo e osservando lungo le sue coste paludose una straordinaria varietà di pesci d’acqua dolce e salata (anguille, molluschi e altre forme marine), nonché di uccelli, mammiferi e insetti. La vita immersa nella natura e la collaborazione con Teofrasto – che aveva scritto una Storia delle piante – inducono Aristotele a privilegiare l’esperienza e l’osservazione rispetto alla speculazione e alla discussione teorica dei platonici. La sua grande passione, in questi anni, è descrivere e catalogare gli esemplari del mondo animale e vegetale, individuando somiglianze e differenze tra le specie e cercando di comprenderne le funzioni vitali. Di questo attento lavoro è testimonianza la Storia degli animali, un trattato in otto libri che contiene la descrizione di centinaia di esemplari osservati perlopiù durante la permanenza in Asia Minore e a Lesbo ( “Filosofia e scienza”, p. 416). Il metodo Aristotele mette a punto un metodo d’indagine che prevede due momenti: 1. l’osservazione dei fenomeni e la raccolta dei dati;
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2. l’elaborazione e l’interpretazione sistematica dei dati raccolti, al fine di comprendere le cause dei fenomeni. Tra questi due momenti, è quello empirico-osservativo ad avere una preminenza assoluta: bisognerà dar credito all’osservazione piuttosto che alle teorie, e alle teorie solo se ciò che esse affermano si accorda con i fatti osservati. (Della generazione degli animali, 760b, 30-33)
Le fonti La raccolta dei dati, secondo Aristotele, può avvenire non soltanto mediante l’osservazione condotta in prima persona, ma anche attraverso la disamina delle opinioni di scienziati autorevoli e il confronto con agricoltori, pescatori, macellai e marinai, depositari di un prezioso patrimonio di informazioni sui tipi, le forme e i comportamenti delle specie animali e vegetali. Da queste tre fonti, Aristotele trae il materiale per la spiegazione dei fenomeni biologici più rilevanti: le funzioni svolte dalle diverse parti dell’organismo, le modalità della riproduzione e della generazione di individui simili all’interno di una specie ecc.
A Pella come precettore di Alessandro Nel 342 a.C. Filippo II convoca Aristotele a Pella, capitale del regno macedone, per affidargli l’educazione del figlio quattordicenne, Alessandro. Di questi anni – in cui il più grande dei filosofi antichi fa da precettore a quello che diverrà uno dei maggiori condottieri e conquistatori della storia – non abbiamo notizie precise, ma qualcuno ha visto un’allusione di Aristotele al suo illustre discepolo in questo passaggio della Politica:
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Quando ci fosse uno che eccelle per virtù, che conviene fare? Nessuno direbbe mai che si deve cacciare o bandire un uomo tale, ma certo neppure che si deve governare un uomo tale: sarebbe come pensare di governare Zeus […]. Quindi, come sembra naturale, non resta che obbedire a costui tutti, con gioia: di conseguenza uomini tali sono sovrani perpetui dello Stato. (Politica, III, 13, 1284 b30, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1993)
Al di là del metodo scelto per formare Alessandro, è probabile che Aristotele gli abbia trasmesso la convinzione della superiorità della cultura greca sulle altre allora esistenti, facendogli intravedere la possibilità di utilizzarla per dominare il mondo, come fonte di unità e coesione politica.
Il ritorno ad Atene e la fondazione del Liceo Intorno al 334 a.C., dopo circa tredici anni di assenza, Aristotele torna ad Atene, dove fonda una scuola propria, che si pone in concorrenza con l’Accademia platonica allora guidata da Senocrate. Dal momento che sorge nei pressi di un tempietto dedicato ad Apollo Licio (Lýkios, “luminoso”), la scuola prende il nome di “Liceo”. Con il tempo venne chiamata anche “Perìpato” (da peripatéo, “cammino intorno”, “passeggio”), perché, oltre a un edificio, comprendeva un colonnato e un giardino dove il maestro e gli allievi erano soliti passeggiare: da qui deriva il nome “peripatetici” che fu attribuito ai pensatori aristotelici. Nel Liceo, Aristotele tiene corsi regolari, affiancato nella docenza dagli scolari più anziani (tra cui Teofrasto ed Eudemo di Rodi) e scrivendo la maggior parte delle opere che ci sono pervenute. Egli continua ad applicare il metodo di indagine sperimentato a Mitilene, basato sull’osservazione e sull’utilizzo di strumenti didattici come tavole anatomiche e zoologiche, carte geografiche, mappe astronomiche.
La fuga da Atene e la morte Mentre Aristotele tiene i suoi corsi ad Atene, il giovane Alessandro procede nella costruzione di un vastissimo impero. Sottomessa la Grecia, si volge alla Persia, quindi all’Egitto (dove fonda la città di Alessandria) e alla Mesopotamia, che erano entrambe province persiane. Prosegue poi l’espansione muovendosi a sud del mar Caspio, fino a raggiungere l’India settentrionale. Muore a Babilonia nel 323 a.C., a soli trentatré anni, per una violenta forma febbrile. La morte di Alessandro Magno segna la fine non soltanto dell’Impero macedone, ma anche della fortuna di Aristotele, che nel grande condottiero aveva trovato un protettore e un finanziatore della sua scuola ateniese. Il partito nazionalista guidato da Demostene riacquista forza e Aristotele viene accusato di empietà. Per scampare al processo e alla probabile condanna, fugge con la famiglia a Calcide, capitale dell’isola Eubea e patria di sua madre. Sembra che, fuggendo, abbia affermato che preferiva fare in modo che gli ateniesi «non peccassero una seconda volta contro la filosofia»: un’evidente allusione a Socrate e al processo da lui subìto, anch’esso intentato a partire da un’accusa di empietà. Muore nel 322 a.C., a causa di una malattia di stomaco.
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Gli scritti aristotelici Scritti destinati agli allievi e scritti destinati al pubblico Le opere aristoteliche che ci sono pervenute comprendono soltanto gli scritti che Aristotele compose come sussidi per l’insegnamento. Benché siano stati chiamati acroamatici (cioè destinati agli ascoltatori che frequentavano la scuola) ed esoterici (cioè racchiudenti una dottrina segreta), in realtà questi scritti sono gli appunti di cui il filosofo si serviva per le sue lezioni. Oltre alle opere acroamatiche o esoteriche, Aristotele ne compose altre in forma dialogica, che egli stesso chiamò essoteriche, cioè destinate al pubblico, e nelle quali si servì di miti e di altre forme espositive vivaci e coinvolgenti, apparendo altrettanto eloquente quanto appariva scarno e severo negli scritti scolastici. Ma di questi scritti essoterici non sono rimasti che pochi frammenti, i quali tuttavia rivestono un grande valore per intendere la personalità di Aristotele.
enciclosofia acroamatico Letteralmente, “destinato all’ascolto” (dal verbo greco akroáomai, “ascolto”, “presto orecchio”).
esoterico Letteralmente, “interno”, “interiore” (dal prefisso éso, “dentro”), aggettivo che nell’antica Grecia indicava, in ambito filosofico, gli insegnamenti destinati in modo esclusivo ai discepoli di una scuola e, in ambito religioso, le conoscenze e i riti riservati agli iniziati di una comunità. Per estensione, è usato ancora oggi nel linguaggio comune come sinonimo di “oscuro”, “misterioso”. essoterico Letteralmente, “esterno”, “esteriore” (dal prefisso éxo, “fuori”), aggettivo che nell’antica Grecia indicava gli insegnamenti filosofici o le dottrine religiose destinati a chi non apparteneva alla ristretta cerchia dei discepoli di una scuola o di una comunità.
390 a.C.
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EVENTI STORICI
Pace tra Atene e Sparta
VITA DI ARISTOTELE
FILOSOFIA E SCIENZA
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Alleanza tra Atene e Sparta contro Tebe
Filippo II re di Macedonia
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Nasce a Stagira
Si trasferisce ad Atene ed entra nell’Accademia
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Platone fonda l’Accademia
Muore il medico Ippocrate di Cos
Muore l’astronomo Eudosso di Cnido
ARTE E LETTERATURA
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Prassitele, Afrodite Cnidia
Policleto il Giovane progetta il teatro di Epidauro
La pubblicazione delle opere acroamatiche e il rapporto fra i due tipi di scritti Gli scritti acroamatici cominciarono a essere conosciuti soltanto nel I secolo a.C., quando furono pubblicati da Andronico di Rodi. Secondo il racconto di Strabone (storico greco vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.), furono ritrovati nella cantina della casa posseduta dai discendenti di Neleo, figlio di Corisco (discepolo di Platone). Sta di fatto che per molto tempo Aristotele fu conosciuto soltanto attraverso i frammenti dei dialoghi essoterici, e che soltanto dopo la pubblicazione degli scritti acroamatici i dialoghi furono via via oscurati dai trattati composti per la scuola. Nasce così il problema di stabilire quale rapporto esista tra i dialoghi e gli scritti scolastici, e di quanto i primi possano contribuire a farci intendere la formazione e lo sviluppo della personalità di Aristotele. Nei trattati scolastici, infatti, il pensiero del filosofo appare perfettamente sistematico e definito, il che sembra escludere, almeno a prima vista, che Aristotele abbia avuto oscillazioni o dubbi. I dialoghi consentono invece di rendersi conto del fatto che la dottrina aristotelica non è nata bell’e compiuta, ma ha subìto crisi e mutamenti. I frammenti di questi scritti ci mostrano infatti un Aristotele che inizialmente aderisce al pensiero platonico, per poi allontanarsene e modificarlo in modo sostanziale, e che via via trasforma la natura dei suoi stessi interessi, i quali, rivolti in un primo tempo ai problemi filosofici, si vengono in seguito concentrando su problemi scientifici particolari.
enciclosofia Andronico di Rodi Vissuto nel I secolo a.C., fu filosofo aristotelico e, probabilmente, scolarca del Liceo. A lui pare si debba non soltanto la raccolta e la pubblicazione delle opere di Aristotele e del suo primo successore alla guida del Liceo, Teofrasto, ma anche l’organizzazione degli scritti in base all’argomento trattato, secondo la classificazione a cui si fa riferimento ancora oggi.
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340
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340 Lega panellenica contro i Macedoni
347 Lascia l’Accademia e fonda una scuola ad Asso
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Alessandro re di Macedonia
Alessandro sconfigge Dario III di Persia
Muore Alessandro Magno
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Fonda una scuola a Mitilene Rientra ad Atene e fonda il Liceo
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Fugge a Calcide
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Diventa precettore di Alessandro a Pella
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Muore Platone
Nasce Muore il retore Epicuro Isocrate di Samo
310 a.C.
Muore, all’età di 63 anni
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330 ca. Lisippo, Apoxyómenos
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Le opere essoteriche Nei suoi dialoghi (essoterici) Aristotele riprende non soltanto la forma letteraria utilizzata da Platone, ma anche gli argomenti e, qualche volta, i titoli delle opere. Scrive infatti un Simposio, un Politico, un Sofista, un Menesseno; e poi il Grillo o Della retorica (corrispondente al Gorgia), il Protrettico (corrispondente all’Eutidemo), l’Eudemo o Dell’anima (corrispondente al Fedone) e un trattatello intitolato Delle idee. Il Protrettico, in particolare, è un’esortazione alla filosofia (dal verbo greco protrépo, “esorto”, “promuovo”). «O si deve filosofare – afferma Aristotele – o non si deve: ma per decidere di non filosofare è pur sempre necessario filosofare; dunque in ogni caso filosofare è necessario». In questo scritto il filosofare è ancora concepito in senso platonico, cioè come abbandono del mondo sensibile e ritrarsi dell’anima verso la contemplazione delle idee eterne. In un dialogo successivo, intitolato Sulla filosofia, comincia invece a emergere un certo distacco dal platonismo, con una prima critica delle idee platoniche.
Le opere esoteriche, o acroamatiche A seconda dell’argomento trattato, gli scritti esoterici di Aristotele si possono suddividere nei seguenti gruppi. Gli scritti di logica, noti complessivamente con il nome Órganon (cioè “strumento”), sono così organizzati: Categorie (un libro); Sull’interpretazione (un libro); Analitici primi (due libri); Analitici secondi (due libri); Topici (otto libri); Elenchi sofistici (o Confutazioni sofistiche). I quattordici libri della Metafisica non costituiscono un’opera organica, ma un insieme di scritti diversi, composti in epoche diverse, nei quali Aristotele espone la propria concezione delle scienze e della filosofia, le teorie fondamentali dell’essere, della sostanza e del divenire, e la dottrina teologica. Le opere scientifiche, ovvero gli scritti di fisica, storia naturale, matematica e psicologia, comprendono: Lezioni di fisica (otto libri); Sul cielo (quattro libri); Sulla generazione e la corruzione (due libri); Sulle meteore (quattro libri); Storia degli animali; Sulle parti degli animali; Sul movimento degli animali. Gli scritti Sulle linee indivisibili e sui Meccanismi sono invece spuri, così come è spurio lo scritto sulla Fisiognomica, mentre la raccolta dei Problemi ne comprende alcuni che sono certamente aristotelici. Tra gli argomenti scientifici compare anche la dottrina dell’anima, che Aristotele espone nei tre libri Sull’anima e nella raccolta intitolata Parva naturalia (letteralmente, “Piccole cose naturali”). Per quanto riguarda le dottrine pratiche, cioè gli scritti di etica, politica, economia, poetica e retorica, con il nome di Aristotele ci sono giunte tre opere di argomento morale: l’Etica nicomachea, l’Etica eudemia e la Grande etica. Quest’ultima è un estratto delle due precedenti. L’Etica eudemia deve il suo nome al già citato Eudemo di Rodi, scolaro di Aristotele, che la pubblicò; essa è più antica dell’Etica nicomachea, che è lo scritto morale ultimo e più completo del filosofo, e che venne pubblicata da suo figlio Nicomaco. In ambito politico-economico e retorico sono invece da ricordare: la Politica (otto libri); la Costituzione degli ateniesi, che, ritrovata soltanto alla fine del XIX secolo, è la prima delle 158 costituzioni statali che Aristotele aveva raccolto e che sono andate perdute; l’Economia (due libri, di cui il secondo spurio); la Retorica (tre libri); la Retorica ad Alessandro, spuria; la Poetica, di cui ci è giunta soltanto la parte che riguarda l’origine e la natura della tragedia. Lo scritto Melisso, Senofane e Gorgia è spurio. Sono inoltre andate perdute alcune opere storiche di Aristotele sui pitagorici, su Archita, su Democrito e altri.
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CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO
1. L’allontanamento da Platone La diversa concezione del sapere e della realtà Gli anni che separano Platone da Aristotele sono relativamente pochi. Eppure il tempo in cui La crisi delle Aristotele si trova a vivere è già profondamente diverso da quello in cui è vissuto il suo ma- città greche estro. La crisi della pólis, al di là delle utopie platoniche, appare ormai irreversibile e tutti i tentativi di arginarla finiscono per naufragare di fronte alla pressione della potenza macedone, che nella seconda metà del IV secolo a.C. dà inizio al progressivo asservimento della Grecia e alla corrosione della libertà che caratterizzava le sue città, prima fra tutte Atene. In questa mutata situazione il cittadino greco, non più direttamente coinvolto nelle fac- La nuova cende del governo e inglobato in un più vasto organismo statale del quale altri reggono cultura ellenistica le fila, perde quella passione per la politica che aveva costituito anche la molla del platonismo. Emergono così numerosi altri interessi per il pensiero, da quelli scientifici a quelli gnoseologici ed etici, che, come vedremo, costituiranno una delle caratteristiche non soltanto dell’indagine aristotelica, ma dell’ellenismo in generale. La frattura esistente tra Platone e Aristotele rispecchia dunque il differente indirizzo culturale dell’età classica e dell’età ellenistica, in quanto Aristotele, pur collocandosi cronologicamente nella prima, idealmente è già figlio della seconda. Ancor prima di distinguersi per le dottrine specifiche, i due sommi maestri del pensiero La filosofia greco discordano tra loro per la diversa concezione generale degli scopi e della struttura come teoria del sapere. Platone crede nella finalità politica della conoscenza e vede il filosofo, nella sua massima incarnazione, come un reggitore e un legislatore della città. Aristotele fissa invece lo scopo della filosofia nella ricerca disinteressata e vede il filosofo, nella sua più compiuta espressione, come un sapiente, o uno scienziato-professore, tutto dedito all’indagine della realtà e all’insegnamento. Se in Platone prevaleva il momento politico-educativo, in Aristotele predomina invece quello conoscitivo e scientifico.
enciclosofia ellenismo Il periodo compreso tra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e l’affermarsi della potenza di Roma; è così chiamato perché è caratterizzato dal diffondersi della cultura greca (ellenica) nell’area del Vicino e del Medio Oriente ( vol. 1B, “L’età ellenistico-romana”).
La “Nike di Samotracia” è uno degli esempi più noti e rappresentativi dell’arte ellenistica (III-II sec. a.C., Parigi, Museo del Louvre).
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La prospettiva Tutto ciò si accompagna a una differente concezione della realtà e, di conseguenza, del saorizzontale pere. Platone guarda il mondo secondo un’ottica verticale e gerarchica, che distingue tra e unitaria
realtà “vere” e realtà “apparenti”, e dunque tra conoscenze “superiori” (rivolte all’essere vero) e conoscenze “inferiori” (rivolte all’essere apparente). In un primo tempo Aristotele, sulla scia del maestro, pensa anch’egli che l’oggetto proprio della filosofia sia il divino e che le scienze si organizzino gerarchicamente in base all’eccellenza o alla perfezione del loro oggetto: la filosofia, volgendosi all’oggetto più alto (Dio), si configura così come il sapere più alto, differenziandosi nettamente dalle altre scienze, che vengono confinate a un livello di irrimediabile inferiorità. Nella maturità del suo pensiero, e soprattutto negli ultimi anni, il filosofo giunge però a guardare il mondo secondo un’ottica tendenzialmente orizzontale e unitaria, che considera tutte le realtà su un piano di pari dignità ontologica e tutte le scienze su un piano di pari dignità gnoseologica. Aristotele ritiene infatti che la realtà, pur essendo unitaria, si divida in varie “regioni”, che costituiscono ciascuna l’oggetto di studio di una disciplina scientifica basata su princìpi propri. Tutte le scienze sono dunque ugualmente utili per formare, nel loro insieme, un’enciclopedia del sapere in cui si rispecchiano i multiformi aspetti dell’essere ( p. 339).
I diversi metodi e interessi Il carattere La differente concezione della realtà e del sapere si concretizza anche in un diverso metosistematico do del filosofare. Mentre in Platone vi è un sistema “aperto” e un filosofare problematico, del filosofare aristotelico che ripropone incessantemente interrogativi e soluzioni, in Aristotele c’è la tendenza a or-
ganizzare il discorso filosofico in un sistema “chiuso”, cioè in un insieme fisso e immutabile di verità tra loro rigidamente connesse. Inoltre, mentre Platone fa uso dei miti e si sforza di recuperare la sapienza poetica all’interno della sapienza filosofica, Aristotele concepisce la filosofia come una speculazione rigorosamente razionale e “specialistica”, nella quale ogni rapporto con la poesia è ormai consumato e superato.
Gli interessi Un’altra importante differenza tra Platone e Aristotele risiede nel fatto che il primo ha innaturalistici teresse per le matematiche ma non per le scienze empiriche, mentre Aristotele, figlio di un
medico ed egli stesso curioso osservatore del mondo nelle sue multiformi espressioni, manifesta limitate propensioni per la matematica (pur tenendone in debito conto il metodo) e notevole passione per le scienze naturali.
Le analogie Le affinità Le differenze appena ricordate, e altre che si potrebbero aggiungere, non devono tuttavia strutturali tra far pensare a una contrapposizione netta tra i due filosofi. Infatti, benché nei secoli il plaplatonismo e aristotelismo tonismo e l’aristotelismo siano talvolta stati assunti come simboli di due modi opposti di
fare filosofia, non bisogna dimenticare che Aristotele è pur sempre il discepolo di Platone e che il suo sistema, come vedremo, reca forti eredità del maestro. Per questo gli studiosi contemporanei tendono in genere a sfumare ogni rigida antitesi e a vedere piuttosto i nessi di continuità che legano i due grandi pensatori antichi. Del resto, se si mettono a confronto Platone e Aristotele con i sofisti o con Democrito, cioè con esperienze filosofiche veramente alternative, i primi sembrano formare un blocco di pensiero tendenzialmente unitario, frutto di due visioni globali del mondo che presentano notevoli punti di contatto.
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Unità 4 ARISTOTELE CApitOLO 1 il progetto filosofico
2. L’enciclopedia delle scienze Concependo la realtà come suddivisa in diverse regioni ontologiche di pari dignità, e or- Il “frantumarsi” ganizzando il sapere di conseguenza, Aristotele constata di fatto e giustifica di diritto la del sapere specifica situazione culturale del IV secolo a.C., caratterizzata da una molteplicità di scienze in espansione. Dopo aver resistito ai tentativi platonici di riassorbirle nel quadro di un sistema filosofico piramidale, le varie discipline procedono ormai verso una propria organizzazione autonoma, rivendicando ciascuna uno specifico ed esclusivo settore di competenza. Quasi “prendendo atto” di questa situazione, Aristotele ritiene che la filosofia si differenzi Il ruolo della dalle altre scienze perché, anziché prendere in considerazione i vari aspetti dell’essere o filosofia della realtà, si interroga sull’essere o sulla realtà in generale, studiando non questa o quella dimensione dell’essere o della realtà, ma l’essere e la realtà in quanto tali. Pertanto, come tutte le dimensioni dell’essere presuppongono l’essere, così tutte le scienze, studiando ognuna una parte del reale, presuppongono la filosofia, che studia la realtà in generale. In tal modo la filosofia diviene la scienza prima, ossia la disciplina che studia l’oggetto comune a tutte le scienze (l’essere) e i princìpi comuni a tutte le scienze (i princìpi dell’essere). Così concepita, la filosofia appare come l’anima unificatrice e organizzatrice delle scienze, in quanto studia il loro comune fondamento, prospettando un quadro completo ed esauriente di tutte le discipline, nei loro rapporti di coordinazione e subordinazione. Nell’ottica aristotelica, la filosofia continua dunque ad essere la “regina delle scienze”, per quanto in un senso ben diverso da quello platonico, e in modo tale da non pregiuESERCIZI dicare l’autonomia delle singole branche del sapere.
)
Per l’esposizione orale
1. Illustra le principali differenze e le più importanti analogie tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. 2. Chiarisci il significato dell’espressione “enciclopedia delle scienze”, spiegando come Aristotele pensi alle diverse discipline e al ruolo della filosofia rispetto a esse. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la diversa concezione della filosofia elaborata da Platone e da Aristotele: quale condividi maggiormente?
CONCETTI A CONFRONTO
LA FILOSOFIA in PLATONE
in ARISTOTELE
è conoscenza dell’essere vero costituito dalle idee
è indagine sull’essere in generale, che si manifesta in molteplici forme
è utile per la vita associata, perché serve ai reggitori per ben governare
è fondamentalmente inutile, in quanto conoscenza pura e disinteressata
non disdegna il ricorso al mito e alla poesia
è speculazione rigorosamente razionale
è la forma più alta e compiuta del sapere
è scienza prima, che ha per oggetto il fondamento e i princìpi comuni di tutte le scienze
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AUDIOSINTESI
SINTESI E MAPPA
CAPITOLO 1 IL PROGETTO FILOSOFICO Il contesto storico-culturale Il contesto storico in cui si colloca la riflessione di Aristotele è quello dei rapidi cambiamenti che nel corso del IV secolo a.C., soprattutto a causa della pressione della potenza macedone, si determinano all’interno delle póleis greche, conducendo in primo luogo Atene (reduce anche dalla sconfitta nella guerra del Peloponneso) a un periodo di profonda crisi. Da un punto di vista culturale tutto ciò si traduce, da un lato, nel venir meno della passione per la politica e, dall’altro, nella maturazione di molteplici e diversi interessi, soprattutto scientifici, gnoseologici ed etici.
Il pensiero di Aristotele Allievo di Platone, Aristotele frequenta per vent’anni l’Accademia, di cui condivide la concezione della filosofia come forma suprema di vita e di conoscenza.
Dopo la morte del maestro, tuttavia, abbandona la scuola platonica per sviluppare il proprio pensiero in modo autonomo: mentre per Platone la filosofia doveva servire come preparazione alla vita politica, per Aristotele va intesa come una forma di sapere disinteressato e “libero”, cioè fine a sé stesso; mentre Platone guardava il mondo secondo un’ottica verticale e gerarchica, Aristotele elabora una prospettiva orizzontale e unitaria, che conferisce pari dignità ontologica a tutte le realtà e pari valore gnoseologico alle diverse scienze; mentre Platone privilegiava lo studio della matematica, subordinandole quello della natura, Aristotele dimostra scarso interesse per le matematiche e notevole curiosità per il mondo naturale.
La filosofia come scienza prima La filosofia è definita da Aristotele «scienza prima». Essa si differenzia da tutte le altre scienze perché, invece di analizzare qualche aspetto particolare della realtà, indaga ciò di cui gli oggetti di tutte le scienze partecipano, ovvero l’essere. Così intesa, la filosofia costituisce il comune fondamento di un’autentica enciclopedia delle scienze, ovvero dell’organizzazione sistematica di una molteplicità di discipline distinte e autonome, ma di pari dignità gnoseologica.
IL PENSIERO DI ARISTOTELE si differenzia da quello platonico in quanto
per Platone la filosofia è preparazione alla vita politica l’organizzazione della realtà e del sapere è verticale e gerarchica la matematica è da privilegiare rispetto allo studio della natura
per Aristotele la filosofia è sapere teoretico e disinteressato l’organizzazione della realtà e del sapere è orizzontale e unitaria lo studio della natura è da privilegiare rispetto alla matematica infatti
la filosofia è “scienza prima” che studia l’essere in generale e quindi
è comune fondamento di tutte le scienze, che studiano l’essere da un punto di vista particolare
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Unità 4 ARISTOTELE CApitOLO 1 il progetto filosofico
CAPITOLO 2 LE STRUTTURE DELLA REALTÀ: LA METAFISICA 1. La classificazione delle scienze Aristotele distingue tre gruppi di scienze: teoretiche, pratiche e poietiche (o produttive). Le scienze “teoretiche” (dal verbo greco theoréo, “guardo”, “contemplo”) hanno come oggetto il necessario (ossia ciò che non può essere diverso da com’è), come scopo la conoscenza disinteressata della realtà (ossia priva di fini pratici, particolari e concreti) e come metodo quello dimostrativo. Esse sono la metafisica (o filosofia prima), la fisica e la matematica. Le scienze “pratiche” e le scienze “poietiche” (dai verbi greci prásso, “faccio”, e poiéo, “produco”, “creo”) hanno come oggetto il possibile (ossia ciò che può essere diverso da com’è), come scopo l’orientamento dell’agire e come metodo un tipo di ragionamento non dimostrativo (valido “perlopiù”). Le scienze pratiche sono l’etica e la politica, che indagano l’ambito dell’agire rispettivamente individuale e collettivo, e vertono su un oggetto che coincide con la stessa azione umana. Le scienze poietiche studiano invece l’ambito della produzione di opere o della manipolazione di oggetti: sono le arti e le tecniche, e mettono capo a un prodotto che possiede un’esistenza autonoma rispetto al soggetto che lo ha realizzato.
TEORETICHE
LE SCIENZE PER ARISTOTELE
possono essere
PRATICHE
POIETICHE
metafisica matematica fisica
etica politica
arti tecniche
Le scienze teoretiche
Le scienze praticopoietiche
studiano il necessario
seguono un metodo dimostrativo
hanno come scopo la conoscenza disinteressata
studiano il possibile
seguono un metodo non dimostrativo (valido “perlopiù”)
servono a orientare l’agire
studiano il possibile
seguono un metodo non dimostrativo (valido “perlopiù”)
servono a produrre o manipolare oggetti e opere d’arte
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2. I caratteri generali della metafisica L’origine Il termine metafisica non è aristotelico. Con questa parola i pensatori successivi ad Arie il significato stotele hanno designato quella parte della filosofia che indaga le strutture profonde e le del termine
cause ultime del reale, che vanno al di là delle apparenze immediate dei sensi o del campo di studio della fisica. Per indicare questa disciplina, Aristotele usava invece l’espressione «filosofia prima». glossario p. 357 Secondo la tradizione, la nascita della parola “metafisica” fu casuale, cioè dovuta ad Andronico di Rodi ( p. 335), il quale nel I secolo a.C., ordinando i capolavori aristotelici, posizionò le opere dedicate alla filosofia prima metá ta physiká, cioè “dopo i libri di fisica”. Tuttavia si è continuato a usare il nome “metafisica” al posto dell’aristotelico “filosofia prima”, considerandolo forse più suggestivo e pregnante. Di conseguenza, anche noi useremo preferibilmente questo termine, oppure “ontologia”, che significa “scienza dell’essere”.
Le definizioni Nella sua opera Aristotele dà ben quattro definizioni della metafisica: aristoteliche la metafisica «studia le cause e i princìpi primi»; della la metafisica «studia l’essere in quanto essere»; metafisica
la metafisica «studia la sostanza»; la metafisica «studia Dio e la sostanza immobile».
Lo studio Di questi quattro significati, quello su cui ha insistito maggiormente Aristotele nella madell’essere in turità, e nello stesso tempo quello che serve a farci capire meglio degli altri la natura della quanto essere
metafisica aristotelicamente intesa, è il secondo. Sostenere che la metafisica studia «l’essere in quanto essere» equivale a dire che essa non ha per oggetto una realtà particolare, bensì l’aspetto fondamentale e comune di ogni ente, ovvero di tutto ciò di cui si può dire che “è”. Abbiamo già visto, infatti, che per Aristotele ogni singola scienza studia una dimensione specifica dell’essere o della realtà: la matematica, ad esempio, ha per oggetto l’essere come quantità, mentre la fisica ha per oggetto l’essere come movimento. Considerando l’essere da un particolare punto di vista, ogni singola disciplina ne studia quindi una sola porzione. Soltanto la metafisica considera l’essere in quanto tale, prescindendo dalle determinazioni che costituiscono l’oggetto delle scienze particolari e studiando le caratteristiche universali che strutturano l’essere come tale, ovvero tutte le cose che “sono”, proprio in quanto “sono”. Per questo la metafisica è detta «filosofia prima», mentre le altre scienze sono «filosofie seconde».
La grande Il punto di vista della metafisica consente di raggruppare oggetti diversi (ad esempio un scoperta sasso, un albero, Socrate, ma anche il colore bianco o la lunghezza di un metro) sotto la aristotelica
comune nozione di “essere”, considerandoli in tal modo per l’unica caratteristica che tutti hanno in comune e che li rende qualcosa di esistente e di conoscibile. Nel Sofista Platone aveva collocato l’essere tra i «generi sommi», facendone anzi il genere supremo, poiché tutte le idee, in quanto “enti” intelligibili, partecipano di esso (di ogni idea, come di ogni cosa, si dice che “è”). La metafisica intesa come scienza dell’essere in quanto essere – che rappresenta la grande scoperta di Aristotele – si spinge oltre le indagini dei filosofi precedenti, compreso Platone. Per Aristotele, infatti, l’essere non è un genere supremo, e nemmeno un’idea generale sotto cui unificare le varie cose che “sono”. La formula “essere in quanto essere” non indica un concetto astratto e generalissimo (una sorta di idea delle idee) o un essere “puro” posto al di sopra della molteplicità delle cose o delle idee.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Ma se l’unità dell’essere non è l’unità di un genere o di un principio metafisico, allora in che cosa consiste? Nell’originale risposta a questa domanda risiede il cuore dell’ontologia aristotelica, il cui intento è proprio quello di mostrare come l’essere abbia un’originaria molteplicità di significati che non si possono ricondurre a unità, ma si devono comprendere nella relazione che li lega e che fa sì che ciascuno, pur in senso diverso, abbia a che fare con l’“essere”. ( T1 p. 362)
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cosa sono per Aristotele le scienze teoretiche, pratiche e poietiche, sottolineando le principali differenze fra questi tre tipi di sapere. 2. Illustra il significato del termine “metafisica”, chiarendone l’oggetto di studio, nonché il suo rapporto e le differenze (se ci sono) rispetto alla “filosofia prima” e all’“ontologia”.
3. La dottrina dell’essere e della sostanza L’essere e i suoi molti significati La metafisica è dunque lo studio dell’essere. Ma che cos’è l’essere? Considerando anche le riflessioni della filosofia precedente, Aristotele giunge alla conclusione che l’essere può venire inteso in modi diversi. È considerato in modo “univoco” quando in tutte le sue occorrenze è inteso sempre nello L’essere non va stesso senso, ovvero come “esistere”. In questo caso, però, si incorre in un problema insor- inteso in modo univoco montabile. Se con il verbo “essere” si indicasse sempre l’esistenza (come nell’affermazione “io sono”), allora l’aggiunta di una negazione a qualunque predicazione porterebbe a negare non soltanto il contenuto della predicazione, cioè la proprietà attribuita al soggetto, ma la stessa esistenza del soggetto. Ad esempio, se dicessi “questo cavallo non è bianco” e assumessi l’essere in modo univoco (nel senso di “esistere”), finirei per negare non soltanto il colore bianco del cavallo, ma anche la sua esistenza. È questo, secondo Aristotele, l’errore della filosofia di Parmenide, per il quale dell’essere si poteva dire soltanto che “è”, mentre ogni altra affermazione o negazione doveva essere ritenuta contraddittoria. Questa posizione per Aristotele è assurda. Altrettanto insostenibile è il carattere “equivoco” del significato dell’essere, ovvero l’idea L’essere non va che l’essere vada inteso ogni volta in un senso diverso, a seconda del contesto. Infatti, inteso in modo equivoco se si intendono le parole, e a maggior ragione un termine fondamentale come “essere”, in modo sempre differente, si approda all’impossibilità stessa di comunicare, poiché chi ascolta o chi legge non saprà mai in quale accezione una certa parola sia impiegata in quella particolare occorrenza. Resta un’ultima possibilità, e cioè che l’essere, nelle sue varie occorrenze, vada inteso in L’essere ha molti parte nel medesimo senso e in parte in sensi diversi: esso non sarebbe dunque né univo- significati tra loro analoghi co né equivoco, bensì “polivoco”, poiché, come afferma lo stesso Aristotele, «si dice in molti sensi». Si giustifica in tal modo il fatto che noi vi attribuiamo significati particolari diversi, ai quali però riconosciamo un comune significato di fondo. Gli studiosi medievali parleranno di significati “analoghi” (dal greco analoghía, “proporzione”, ma anche “somiglianza”), per indicare che i diversi tipi di essere (gli enti) si presentano in parte uguali (in quanto tutti “esistono” o “possiedono l’essere”) e in parte diversi (in quanto si differenziano l’uno dall’altro).
343
Per chiarire questo concetto consideriamo ad esempio le seguenti frasi: “il latte è un alimento salutare”, “Tizio è sano”, “il colorito di Tizio è sano”. Nel primo caso il verbo “è” istituisce un rapporto causale tra il latte e la salute, perché si intende dire che bere latte fa bene. Nel secondo caso, invece, il verbo “è” indica quello che Aristotele definisce un rapporto di possesso, perché si vuole affermare che Tizio “possiede” la qualità della buona salute. Infine, nel terzo caso il verbo “è” viene utilizzato per rendere manifesta una proprietà di Tizio (la sua buona salute) attraverso una sua caratteristica (il colorito). Queste frasi ci mostrano dunque tre significati diversi del verbo essere, ma tra loro affini, perché in tutti e tre i casi esso collega un soggetto a un predicato che di quel soggetto asserisce sia l’esistenza sia altre proprietà o caratteristiche. Gli aspetti Negando che l’essere abbia un’unica forma e un’unica accezione, Aristotele gli attribuisce basilari dunque una molteplicità di aspetti o significati. Ma tra questi, con una delle sue operaziodell’essere
ni più geniali (basata su una serie di osservazioni linguistiche, logiche e ontologiche), il filosofo cerca di mettere in luce quelli basilari, o supremi. Egli specifica dunque che: l’essere può dirsi come “essere per altro”, cioè come accidente; l’essere può dirsi come “essere per sé”, cioè secondo le categorie; l’essere può dirsi come vero1; l’essere può dirsi come potenza e atto. Prescindendo per il momento dagli altri punti, e seguendo il filo principale del discorso aristotelico, nel prossimo paragrafo cominceremo a concentrarci sulle categorie, che costituiscono il significato dell’essere a cui rinviano tutti gli altri.
L’ESSERE PER ARISTOTELE va inteso secondo
molteplici significati
in senso assoluto
in senso relativo
come
come
esistere
• essere per altro (accidente) • essere per sé (categorie) • vero • potenza e atto
1. A questo significato dell’essere (che si oppone al non essere come falso) corrisponde per Aristotele un essere logico o mentale che sussiste come giudizio vero (che dice ciò che è) in opposizione al giudizio falso (che dice ciò che non è). Dei giudizi e della loro verità o falsità ci occuperemo nel prossimo capitolo.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Che cosa sono le categorie Per categorie Aristotele intende le caratteristiche fondamentali e strutturali dell’essere, Tra ontologia cioè quelle determinazioni generalissime che ogni essere ha e non può fare a meno di e logica avere. Esse sono: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l’agire, il subire, il dove (il luogo), il quando (il tempo). A queste otto categorie, Aristotele ne aggiunge talvolta altre due: l’avere e il giacere, cioè rispettivamente l’avere una certa cosa (ad esempio le scarpe) e lo stare in una certa situazione (ad esempio seduti). glossario p. 357 Dal punto di vista ontologico, le categorie sono dunque i modi o gli aspetti fondamentali e generali in cui la realtà si presenta, una sorta di griglia in cui la realtà è organizzata. Ogni cosa che è, ogni ente, si colloca infatti in una certa regione dell’essere: “rosso”, ad esempio, si colloca nella regione della qualità, così come “tre metri” in quella della quantità e “sorella di” in quella della relazione. Dal punto di vista logico, le categorie sono invece i modi fondamentali in cui l’essere si predica delle cose (in greco il verbo kategoréo significa appunto “affermo”, “predico”), cioè quei predicati primi o generalissimi che fungono da grandi “caselle” entro cui rientrano o si collocano tutti i predicati possibili. Quando diciamo che un certo individuo è un uomo, stiamo predicando di quell’individuo la sostanza “uomo”; quando diciamo che è bello o brutto, gli stiamo attribuendo una certa qualità; così come, se affermiamo che è alto due metri, che è il fidanzato di Maria, che sta facendo o subendo qualcosa, che ieri si trovava qui, stiamo predicando di lui, rispettivamente, una certa quantità, una certa relazione, un certo agire o subire, un certo tempo e un certo luogo. ( T2 p. 364) Di tutte le categorie, la più importante è quella della sostanza, dal momento che tutte le altre la presuppongono: una qualità è sempre la qualità di qualche cosa (di un certo uomo, di un certo fiore, di un certo tavolo ecc.), una quantità è sempre la quantità di qualche cosa e così via. Ora, questo “qualche cosa” è appunto la sostanza, che pertanto può essere considerata come il polo unificante o il centro di riferimento di tutte le altre categorie. Si noti che Aristotele considera “essere per sé” – potremmo dire “essere necessario” – tutte le categorie (e non la sola sostanza). Pertanto, dire che tutte le altre categorie presuppongono la sostanza non significa affermare che siano accidentali. Ogni cosa, per essere qualcosa, cioè un ente, deve anche avere qualità, quantità, relazioni, un tempo, un luogo ecc. Che un ente sia bianco o nero è accidentale, ma che abbia certe caratteristiche che lo qualificano è una necessità; che un individuo sia discepolo o maestro di qualcuno è accidentale, ma che abbia relazioni è necessario; e così via. “Essere” significa essere determinato secondo tutte le categorie, le quali sono dunque tutte (e non la sola sostanza) elementi strutturali o necessari dell’essere.
La sostanza come categoria fondamentale
La coincidenza La categoria della sostanza è però quella fondamentale, il che implica due conseguenze: in primo luogo, in virtù di essa si comprende meglio in che senso il termine “essere”, pur di essere e sostanza non essendo univoco, non sia neppure equivoco ovvero come l’essere non abbia né un unico significato né innumerevoli significati del tutto diversi tra loro, bensì una molteplicità di significati (individuati dalle diverse categorie) uniti da un comune riferimento a una certa sostanza. La categoria della sostanza rappresenta dunque il senso unitario che raccoglie tutti i significati dell’essere, poiché ogni cosa può venir detta “essere” in quanto esprime una sostanza o qualche aspetto di essa (cfr. Metafisica, IV, 2); in secondo luogo, se l’essere si identifica con le categorie – che sono appunto le “determinazioni generalissime” dell’essere – e le categorie “si appoggiano” tutte alla categoria di sostanza, la domanda “che cos’è l’essere?” diventerà “che cos’è la sostanza?”
345
Che cos’è la sostanza La sostanza Per sostanza (dal latino substantia, che letteralmente indica “ciò che soggiace”, dal verbo come ente sub-stare, “stare sotto”) Aristotele intende in primo luogo l’individuo concreto (persona, individuale
animale o cosa) che funge da soggetto ontologico di proprietà e da soggetto logico di predicati. Sostanza è ad esempio “questo uomo” (Socrate, Giovanni ecc.), al quale io riferisco una serie di proprietà o qualità (bruno, biondo, alto ecc.) e che assumo come soggetto grammaticale e logico dei predicati che gli si riferiscono. Per sottolineare meglio la concretezza individuale della sostanza così intesa, Aristotele la chiama anche tóde ti, ossia “questo qui”. glossario p. 358 L’individuo, o il soggetto sostanziale, il “questo qui” insomma, è un ente autonomo, cioè qualcosa che, a differenza delle qualità o proprietà che gli ineriscono, ha vita propria: il bianco o la piccolezza in quanto tali, cioè “di per sé”, non esistono, mentre esistono ad esempio un cavallo bianco o un piccolo gatto. Sostanze sono appunto i vari individui “portatori di qualità” che incontriamo nell’esperienza: quest’uomo, quest’albero, questo animale, questo oggetto ecc. Pertanto l’essere (inteso come la realtà) non è altro che un insieme di sostanze e di qualità o proprietà di tali sostanze.
La sostanza Ognuna di queste sostanze individuali forma un «sìnolo», cioè un’unione indissolubile individuale (in greco sýnolon, composto dalla preposizione syn, “con”, e dall’aggettivo hólos, “tutto”), di come sinolo due elementi: la materia e la forma . glossario p. 358
Per «materia» Aristotele intende ciò di cui una cosa è fatta, ovvero il quid o il materiale che la compone (ad esempio il bronzo di cui è fatta la sfera, il legno con cui è costruito il tavolo ecc.). Per «forma» intende invece non l’aspetto esterno di una cosa, ma la sua natura propria, ossia la struttura profonda che la rende quella che è. Si tratta cioè del principio ontologico che, determinando la materia, produce una cosa determinata. Nel caso di Socrate, ad esempio, la sua forma è la natura razionale, che lo caratterizza appunto come essere razionale.
La sostanza Se la forma è l’elemento attivo e determinante del sinolo, ovvero ciò che struttura la matecome forma ria in un certo modo, allora la materia ne è l’elemento passivo e determinato, ovvero ciò
che viene strutturato dalla forma. Di conseguenza, si può dire che la forma è ciò che costituisce la “sostanzialità” della sostanza, ovvero l’ essenza che fa sì che un certo individuo sia quello che è. Questo spiega perché Aristotele chiami “sostanza” non soltanto il sinolo (ovvero l’individuo concreto), ma anche e soprattutto la forma che lo determina. glossario p. 358 ( T3 p. 365)
Conclusione Tra questi due possibili significati della sostanza aristotelica (cioè tra la sostanza come in-
VIDEO Le categorie
dividuo o sinolo, e la sostanza come forma o essenza del sinolo) non vi è affatto contraddizione, poiché la sostanza è nello stesso tempo l’essere dell’essenza (la cosa esistente, sinolo di materia e forma) e l’essenza dell’essere (la natura profonda della cosa, o la sua forma). Essa è nello stesso tempo la cosa determinata e ciò che fa sì che quella cosa sia proprio quella determinata cosa. Ricapitolando: alla domanda “che cos’è la sostanza?” Aristotele risponde sia dicendo che essa è il “questo qui”, cioè il sinolo concreto di forma e materia (l’individuo), sia dicendo che essa è la forma, o essenza, o natura, che fa sì che il sinolo sia quello che è1. ( T4 p. 367)
1. Talvolta Aristotele chiama “sostanza”, in senso debole e improprio, anche la materia che costituisce il sostrato di cui sono fatte le cose. In senso forte e proprio, tuttavia, sono sostanza soltanto il sinolo e la sua forma o essenza.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Che cosa sono gli accidenti Intesa come forma, la sostanza è dunque l’essenza necessaria di una certa cosa, la struttura fissa e immutabile che la definisce e la organizza in modo tale da renderla sempre riconoscibile, nonostante i suoi possibili cambiamenti. L’essenza così concepita corrisponde a ciò che Aristotele chiama «to ti en éinai», formula resa in latino con quod quid erat esse (letteralmente “ciò che era l’essere”), dove l’imperfetto erat (in greco en) allude alla “continuità” o permanenza dell’essere, cioè al carattere fisso e immutabile della forma. Dalla sostanza in quanto essenza o forma è necessario distinguere l’ accidente (un altro dei significati basilari dell’essere), che in senso forte e tipicamente aristotelico designa una qualità o proprietà che una cosa può avere o non avere, senza per questo cessare di essere quella determinata cosa o sostanza (ad esempio, Socrate non può cessare di essere uomo, mentre può essere pallido o colorito, allegro o malinconico ecc.). In altri termini, l’accidente esprime una caratteristica casuale o fortuita della sostanza. glossario p. 358
La permanenza dell’essenza e la variabilità degli accidenti
Oltre che di questo tipo di accidente, Aristotele parla talvolta di un accidente non-casuale, Gli accidenti o accidente «eterno», o accidente «per sé», riferendosi a una qualità che, pur non appar- «eterni» tenendo alla sostanza di un ente, è strettamente legata a essa e deriva necessariamente dalla definizione dell’ente in questione. Ad esempio, avere la somma degli angoli interni uguale a due retti non appartiene all’essenza necessaria del triangolo quale viene espressa dalla sua definizione (poligono di tre lati), perciò è un accidente; tuttavia è un accidente che appartiene al triangolo non per caso, ma in virtù della natura del triangolo, cioè di quello che il triangolo stesso è. Diversamente dagli accidenti casuali, dei quali non esiste scienza (nel senso che non si possono conoscere in modo stabile), gli accidenti di questo ESERCIZI tipo (eterni o per sé) rientrano nell’ambito del sapere certo. LA SOSTANZA (propriamente intesa)
L’ACCIDENTE (propriamente inteso)
è la
è una
sostanza prima
caratteristica non sostanziale
cioè
cioè
l’individuo concreto (il sinolo)
una qualità o proprietà che una sostanza può avere o non avere, senza per questo mutare la propria natura
unione indissolubile di
materia (ciò di cui una cosa è fatta)
)
Per l’esposizione orale
forma (ciò che fa sì che una certa cosa sia quella che è)
1. Spiega in che senso, in riferimento ad Aristotele, si possa parlare di molteplici significati dell’essere, tra loro “analoghi”. 2. Fornisci una definizione sia ontologica sia logica delle categorie aristoteliche. 3. Illustra la concezione aristotelica della sostanza, utilizzando le espressioni: sostanza prima e sostanza seconda, materia e forma, essenza e accidente.
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4. I princìpi supremi della scienza dell’essere Identità, non contraddizione e terzo escluso L’astrazione Quale scienza dell’essere in quanto essere, la metafisica ha anche il compito di esaminare e i princìpi i princìpi supremi della conoscenza, ovvero quei princìpi che sono alla base dello studio generali delle scienze di ogni oggetto o ente, qualunque esso sia. Aristotele afferma dunque che la metafisica (o
filosofia prima, alla quale il filosofo si riferisce talvolta chiamandola anche semplicemente “filosofia”) deve auto-costituirsi in analogia con le altre scienze. Ora, le varie scienze procedono per “astrazione” (dal verbo latino abstráhere, letteralmente “trarre da”), cioè “spogliando” i loro oggetti di studio di tutti quei caratteri che non risultino importanti ai fini della loro indagine. Ad esempio, il matematico spoglia le cose di tutte le qualità che non sono riducibili a pura quantità, cioè alle loro misure e forme geometriche, mentre il fisico le libera da tutte le qualità che non si riducono al movimento. A questo scopo, il matematico e il fisico stabiliscono certi princìpi generali o postulati ( cap. 3, p. 384) che concernono per l’appunto la specifica natura dell’oggetto della loro indagine: princìpi, in altre parole, che definiscono l’oggetto della matematica e della fisica distinguendolo da quello delle altre scienze.
I princìpi Allo stesso modo, per Aristotele, deve procedere la filosofia o metafisica, la quale deve rifondamentali durre tutti i molteplici significati della parola “essere” a un significato unico e fondamendella metafisica tale, giacché il suo compito è quello di considerare l’essere non come quantità, né come
movimento o altro, ma proprio e soltanto in quanto essere. Per far questo, il filosofo si appoggia ad alcuni princìpi logici generalissimi, i quali saranno validi non soltanto per la metafisica, ma anche per tutte le altre scienze, dal momento che sono alla base di ogni discorso su “ciò che è”, ovvero su qualsiasi ente.
Il principio A fissare il principio supremo e incontrovertibile del sapere, una sorta di evidenza originafondamentale ria e innegabile, era stato Parmenide, il quale aveva affermato che “l’essere è” (e dunque si secondo Parmenide può pensare e dire), mentre “il non essere non è” (e dunque è impensabile e indicibile).
Come sappiamo, la confusione tra essere e non essere secondo Parmenide era implicita nella molteplicità e nel divenire: se penso due oggetti, devo dire che l’uno “non è” l’altro, così come, se dico che un albero è verde, implicitamente dico che “non e” giallo, e se affermo che una cosa invecchia, sto dicendo che “non è” più giovane. Pensare la molteplicità delle cose e delle determinazioni, così come il loro cambiamento, è per Parmenide impossibile perché contraddittorio.
La nuova ontologia aristotelica: il principio di identità
In opposizione a Parmenide, Aristotele guadagna un nuovo punto di vista (in parte già implicito nell’ultimo Platone): l’essere eleatico, assolutamente unico o univoco, e di cui non si può pensare la negazione, è impensabile: esso, infatti, è indeterminato, mentre la realtà è fatta di cose determinate, e pensare vuol dire appunto determinare. Trasferito nella nuova prospettiva aristotelica, il principio supremo degli eleati, o l’evidenza originaria indiscutibile, diventa dunque:
‘
È impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia.
(Metafisica, IV, 4)
Non si tratta più dell’opposizione tra l’essere (indeterminato) e il non essere (indeterminato), ma dell’opposizione tra l’essere di una cosa determinata e il suo non essere quella cosa determinata. Questo principio è stato più tardi definito “principio di identità”, ma sarebbe preferibile chiamarlo “principio di determinazione”, poiché afferma che ogni ente e ogni contenuto del pensiero è necessariamente determinato e identico a sé stesso (A = A).
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Il principio di identità (o di determinazione) aristotelico ha due valenze: da un punto di vista logico afferma che è impossibile pensare che una determinata cosa non sia quella cosa; da un punto di vista ontologico afferma che ogni cosa ha una natura determinata, la quale, in quanto necessaria, non può essere negata. Il principio di identità o determinazione trova una specificazione in quello che i logici me- Il principio di non dievali chiameranno “principio di non contraddizione”, che Aristotele formula così:
‘
contraddizione
È impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e per il medesimo aspetto. (Metafisica, IV, 3)
Questo principio stabilisce che un’affermazione (“questa cosa è bianca”) e la sua negazione (“questa cosa non è bianca”) non possono essere entrambe vere nello stesso tempo («insieme») e «per il medesimo aspetto». La precisazione è importante: di uno stesso oggetto, infatti, potrei dire che è bianco e non è bianco facendo riferimento a momenti diversi (potrebbe aver cambiato colore) o a diversi aspetti (potrebbe essere bianco in una sua parte e non bianco in un’altra sua parte). Dal principio di non contraddizione deriva poi quello del “terzo escluso” (anch’esso for- Il principio del mulato esplicitamente dai logici successivi), secondo il quale, date due affermazioni con- terzo escluso traddittorie (“A è B” e “A non è B”), l’una deve essere vera e l’altra falsa, senza che ci sia una terza possibilità ( p. 384).
La “conferma” del principio fondamentale Per quanto la riflessione di Aristotele implichi tutti e tre i princìpi considerati, nel quarto Una “dimostralibro della Metafisica il filosofo fa riferimento a un unico principio supremo, che definisce zione” per confutazione «il principio più saldo di tutti», e che esprime con le due formule che abbiamo chiamato principio di determinazione e principio di non contraddizione. Egli osserva che tale principio, in quanto generalissimo, non è dimostrabile, perché qualunque discorso, pensiero o ragionamento volto a dimostrarlo dovrebbe presupporlo. Detto in altri termini, il principio supremo è tale proprio perché non può essere usato per dimostrare sé stesso. Tuttavia Aristotele afferma che se ne può “mostrare” la verità e incontrovertibilità per via di confutazione, cioè facendo vedere come coloro che pretendono di negarlo debbano invece farne uso, e dunque riaffermarlo. Anche chi nega questo principio, infatti, se vuole dire qualcosa che abbia un significato per sé e per gli altri, deve attribuire un senso determinato alle parole che usa, cioè deve ammettere che è impossibile dire, nello stesso tempo e per il medesimo aspetto, una cosa e il suo contrario. Ad esempio, anche chi voglia negare il principio deve presupporre che la parola “albero” non possa significare nello stesso tempo un albero e il suo opposto (“non albero”); così come non può affermare che “Tizio è vecchio” e “Tizio è giovane” nello stesso tempo e secondo lo stesso aspetto (l’età anagrafica, l’età mentale ecc.). O meglio: può farlo, ma allora il suo discorso sarà insensato, prima ancora che falso. Pertanto, anche il negatore del principio è costretto ad ammetterne la validità, oppure deve rinunciare al linguaggio e al pensiero e, come dice Aristotele, «ridursi a una pianta». Affinché il mondo abbia un senso, e affinché ci sia un pensiero in grado di conoscerlo, è dunque necessaria la determinatezza dei significati, il che presuppone che l’essere sia articolato e strutturato in sostanze o essenze determinate. Dal punto di vista ontologico, il principio supremo aristotelico implica insomma che ogni essere abbia una natura determinata, che è impossibile negare e che quindi è necessaria, non potendo essere diversa da come è. Aristotele chiama appunto “sostanza” la natura necessaria di un essere qualsiasi. La sostanza, dunque, è l’equivalente ontologico del principio «più saldo di tutti».
La sostanza come natura necessaria degli esseri
349
5. La dottrina delle quattro cause La teoria della sostanza si collega strettamente con la dottrina aristotelica delle quattro cause, che esporremo qui nelle sue linee principali, per poi riprenderla in altri suoi aspetti nel prossimo capitolo. La scienza Per Aristotele la conoscenza e la scienza nascono dalla «meraviglia» di fronte all’essere e come studio consistono nel ricercare la causa delle cose. Tuttavia, se chiedere quale sia la causa di delle cause
qualcosa significa volerne comprendere il “perché”, questo “perché” può essere diverso a seconda dell’aspetto preso in considerazione, per cui vi saranno vari tipi di cause. Aristotele ne enumera quattro: materiale, formale, efficiente e finale. glossario p. 358
I quattro tipi di causa
La causa materiale è la materia, ossia (come abbiamo visto) ciò di cui una cosa è fatta: il bronzo, ad esempio, è la causa materiale della statua, come l’argento lo è della coppa. La causa formale è la forma, cioè l’essenza necessaria di una cosa: la natura razionale, ad esempio, è la causa formale dell’uomo. La causa efficiente è ciò che dà inizio a un mutamento o a una condizione di quiete, ossia ciò che genera una modificazione in un oggetto o in uno stato: ad esempio, l’autore di una decisione è la sua causa efficiente, così come il padre è la causa efficiente del figlio. La causa finale è lo scopo al quale una cosa tende: ad esempio, l’uomo adulto è il fine del bambino. Nei processi naturali la causa formale, quella efficiente e quella finale coincidono: la pianta, ad esempio, è insieme la forma, la causa efficiente e il fine del seme, così come l’uomo è insieme la forma, la causa efficiente e il fine del bambino. Nei processi artificiali le quattro cause possono invece presentarsi tra loro distinte: un conto è la statua (causa formale), un conto è l’artista (causa efficiente), un conto è il compenso o la gloria (causa finale) che l’artista vuole ottenere realizzando quella statua. ( T5 p. 368)
La sostanza È da notare, tuttavia, che le quattro cause sono in fondo specificazioni della sostanza glocome causa balmente intesa, che risulta pertanto il “perché” privilegiato, cioè il vero principio o la fondamentale
VIDEO La dottrina delle quattro cause
vera causa dell’essere. Aristotele connette dunque in modo inequivocabile la nozione di “causa” con quella di “sostanza”: comprendere la causa di qualcosa significa comprendere l’articolazione interna di quella sostanza. Infatti, se lo consideriamo staticamente, un individuo (ad esempio un essere umano) non è altro che la sua materia o causa materiale (carne e ossa) unita alla sua forma di essere razionale (causa formale): esso, cioè, è un sinolo, una sostanza in senso proprio. Ma se lo consideriamo dinamicamente e ci chiediamo che cosa o chi lo abbia generato e perché si sviluppi e cresca, allora stiamo considerando altre due cause: quella efficiente e quella finale, che indica lo scopo a cui quell’individuo tende, cioè la realizzazione della sua forma o essenza (la natura umana).
materiale (= la materia)
LA CAUSA
può essere
formale (= la forma) efficiente (= il principio di un mutamento) finale (= lo scopo di un mutamento)
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Sono tutte specificazioni o articolazioni della sostanza, che è la vera causa dell’essere
Soffermandosi sulla teoria delle quattro cause, Aristotele rileva come i pensatori precedenti le La critica alle avessero già in qualche modo individuate: i filosofi della natura, ad esempio, avevano indica- idee platoniche to la causa materiale e quella efficiente della realtà, mentre i pitagorici ne avevano indicato quella formale. Il loro limite era stato quello di insistere soltanto su una o due di tali cause, lasciandosi sfuggire le altre, o di non spiegare bene le modalità effettive dell’azione causale. Il principale bersaglio della polemica di Aristotele su questo argomento è tuttavia costituito dal suo maestro Platone. Ai suoi occhi, infatti, quest’ultimo ha senz’altro il merito di aver richiamato l’attenzione sulla causa formale (dal momento che l’idea platonica non è altro che la “natura” o l’“essenza” necessaria di una cosa, cioè la sua “forma”); ma ponendo le idee “fuori” delle cose, ovvero separandole da esse, Platone ha introdotto una cesura tale per cui non si riesce a capire in che senso le idee possano essere la causa delle cose. Tant’è vero che i concetti platonici di “partecipazione” o “imitazione” appaiono ad Aristotele come meri giri di parole, metafore poetiche che non spiegano nulla e che non risolvono il problema del rapporto fra l’essere ideale e quello sensibile. Al contrario, i princìpi delle cose per Aristotele non possono che risiedere nelle cose Le forme come stesse, ossia in quelle forme intrinseche che le costituiscono in quanto sinoli. Al posto princìpi immanenti delle idee, viste come paradigmi trascendenti delle cose, il filosofo pone dunque le “forme”, intese come strutture immanenti degli individui. Ad esempio, l’“umanità” non è un’idea esistente nell’iperuranio, ma semplicemente la specie biologica immanente negli individui che denominiamo “uomini”. In questo modo, pur recuperando parte del platonismo, Aristotele ritiene di essersi sbarazzato dell’assurdo ontologico e logico di dover pensare la “natura” o l’“essenza” delle cose “fuori” delle cose.
)
Per l’esposizione orale
1. Elenca e definisci i diversi tipi di causa individuati da Aristotele. 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera l’articolazione aristotelica della nozione di “causa”: pensi anche tu che esistano diversi “perché” delle cose, a seconda dell’aspetto che di volta in volta si prende in considerazione? Motiva la tua risposta, sostenendola possibilmente con un paio di esempi concreti. 3. Spiega quale tipo di relazione lega le forme aristoteliche alle idee platoniche, illustrando gli elementi fondamentali della critica aristotelica alla teoria platonica delle idee. SNODI PLURIDISCIPLINARI matematica
Il «principio più saldo di tutti», che Aristotele esprime servendosi di due differenti formulazioni, nella logica successiva ha trovato articolazione in tre princìpi logici diversi: di identità, di non contraddizione e del terzo escluso. Qual è la formula logica per ciascuno di questi tre princìpi e qual è il loro significato preciso? Sottolinea in particolare la differenza tra il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso.
6. La dottrina del divenire La dottrina delle quattro cause è connessa al problema del divenire, che ai tempi di Aristotele Il problema continuava ad essere una delle questioni più controverse tra i filosofi. Mentre l’esistenza del del divenire divenire era un fatto incontrovertibile (poiché, come aveva sottolineato la scuola eraclitea, nell’universo tutto muta: un fiore sboccia, un giovane invecchia, un corpo si sposta da un posto all’altro…), era invece un problema lo stabilire come il divenire dovesse essere pensato, tanto che Parmenide aveva considerato il divenire come qualcosa di logicamente impensabile, poiché implica un passaggio dall’essere al non essere, comportando quindi l’esistenza del nulla.
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La soluzione Aristotele ribatte che il divenire sarebbe irrazionale, e quindi irreale, soltanto se (come sodi Aristotele stenuto dagli eleati) esso consistesse nel passaggio dal non essere all’essere e viceversa: un
simile passaggio è infatti impossibile, perché dal nulla non può venir fuori nulla, e perché l’essere non può mai cadere o svanire nel nulla. Ma Aristotele ritiene che il divenire non implichi alcun passaggio dal non essere all’essere (o viceversa), ma semplicemente un passaggio da un certo tipo di essere a un altro tipo di essere. Egli afferma dunque che l’unica realtà è l’essere e che il divenire è soltanto una modalità dell’essere.
Le forme del divenire I quattro tipi Concependo il divenire come un “passaggio” da una forma d’essere a un’altra, Aristotele lo di movimento identifica, in generale, con il movimento. o mutamento
Egli distingue quattro tipi di movimento: 1. il movimento locale, o traslazione, che consiste nello spostamento di un corpo da un posto a un altro; 2. il movimento qualitativo, o alterazione, che avviene quando, in una sostanza, cambia una caratteristica accidentale (ad esempio, se Socrate da non-musico diventa musico, si è modificata una sua qualità); 3. il movimento quantitativo, che consiste nell’accrescimento o nella diminuzione e che ha luogo quando cambia una certa quantità di una sostanza (ne sono esempi l’ampliamento di un edificio o il dimagrimento di una persona); 4. il movimento sostanziale, che Aristotele specifica come «generazione» e «corruzione», vale a dire come la nascita e la morte.
I movimenti I primi tre tipi di movimento (o divenire) avvengono in una sostanza che resta immunella sostanza tata. Socrate è e resta Socrate, sia egli non-musico o musico: in altre parole, la sostanza-Soe il movimento della sostanza crate “ospita” il movimento, che è possibile proprio perché esiste un sostrato che a quel mo-
I NODI DEL PENSIERO Nel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta? p. 471
vimento non è soggetto. Non si tratta, dunque, di un passaggio dal non essere all’essere, ma di un passaggio dall’essere in un modo o in un luogo all’essere in un altro modo o in un altro luogo. Il quarto tipo di movimento riguarda invece precisamente la sostanza: non è nella sostanza, ma della sostanza. In questo caso non muta una proprietà della sostanza, ma nasce o muore il soggetto stesso. Ciò non significa, tuttavia, che la sostanza provenga dal (o entri nel) non essere, a patto di concepire anche la nascita e la morte come passaggi da un tipo di essere a un altro tipo di essere.
Potenza e atto Proprio per pensare adeguatamente il divenire della sostanza, Aristotele elabora i concetti di potenza e atto : per “potenza” egli intende la possibilità, da parte della materia, di assumere una determinata forma; per “atto” intende la realizzazione di questa capacità. glossario p. 359 Ad esempio, la generazione di un pulcino non è il passaggio dal non essere all’essere del pulcino, ma dal pulcino in potenza (dall’uovo) al pulcino in atto: l’uovo è la possibilità, da parte della materia, di assumere una configurazione nuova. E poiché la materia, per definizione, è la possibilità di assumere forme diverse, mentre la forma, per definizione, è la realtà in atto di tali possibilità, si può affermare che per Aristotele la potenza sta alla materia come l’atto sta alla forma.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
In ultima analisi, Aristotele configura perciò il divenire come passaggio dalla potenza Materia, all’atto: un passaggio in cui il punto di partenza è la materia come privazione o mancan- privazione e forma za di una certa forma, mentre il punto di arrivo è l’assunzione di quella forma. Per questo l’atto viene chiamato da Aristotele anche entelechìa (entelécheia), che in greco significa “realizzazione”, o “perfezione attuata”. glossario p. 359 In sintesi, i princìpi che scandiscono il divenire sono dunque la materia, la privazione e la forma, oppure (il che è lo stesso) la potenza e l’atto, i quali (come abbiamo annunciato all’inizio p. 343) costituiscono un altro dei significati fondamentali dell’essere. ( T6 p. 370) Aristotele ritiene che l’atto possegga una priorità gnoseologica, cronologica e ontologica Il primato rispetto alla potenza. Infatti la conoscenza della potenza presuppone la conoscenza dell’at- dell’atto sulla potenza to di cui essa è potenza (per comprendere che cos’è una ghianda devo prima sapere che cos’è una quercia). Inoltre l’atto viene cronologicamente prima della potenza, giacché è vero che il seme viene prima della pianta, ma è anche vero che il seme non può essere derivato se non da una pianta già in atto. In altri termini, alla domanda che scherzosamente si pone talvolta, se sia nata prima la gallina o se sia nato prima l’uovo, Aristotele risponderebbe che è nata prima la gallina. Tutto ciò, infine, equivale a dire che l’atto è ontologicamente superiore alla potenza, in quanto ne costituisce la causa, il senso e il fine. Ma se il potenziale (ovvero ciò che è in potenza) è la preformazione o predeterminazione dell’attuale (ovvero di ciò che è in atto), allora, più che un’autentica possibilità, esprime in fondo una necessità. Ad esempio, da uova di aquila nasceranno necessariamente aquile, come da quelle di serpente si svilupperanno per forza serpenti. La potenza aristotelica è dunque una possibilità a senso unico, una sorta di necessità che dev’essere ancora “partorita”. Di conseguenza, come già è emerso dalla dottrina della sostanza, per Aristotele è la necessità a costituire la modalità fondamentale dell’essere e il suo principale strumento interpretativo.
CONCETTI A CONFRONTO
L’ESSERE in PARMENIDE
La necessità come modalità fondamentale dell’essere
in ARISTOTELE
è unico e omogeneo, sempre identico a sé stesso
è unico ma polivoco, perché «può dirsi in molti sensi» unificati dalla categoria fondamentale della sostanza
è necessario
è necessario in quanto
in quanto
non può non essere, né essere diverso da com’è
• forma (o essenza) necessaria delle cose • atto che realizza una determinata potenza
esclude il divenire
ammette il divenire
in quanto logicamente impensabile perché implica il non essere
in quanto passaggio dalla potenza all’atto, ovvero da un tipo di essere a un altro
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La materia prima e la forma pura La “catena” Materia e forma, potenza e atto spiegano quindi il divenire e ne costituiscono (insieme con del divenire la privazione) le molle principali. Accanto a queste cause (materiale e formale), il movi-
mento presuppone però anche le altre due: la causa efficiente, che dà inizio al divenire, e la causa finale, che ne costituisce il fine. Ora, se tutti i movimenti che avvengono in natura vanno da una materia a una forma, spesso ciò che è forma, cioè punto di arrivo di un movimento, diventa materia, ossia punto di partenza di un movimento ulteriore. Perciò una stessa cosa può essere considerata sia materia (potenza) sia forma (atto), a seconda del punto di vista da cui la si osserva (ad esempio, il pulcino è potenza rispetto alla gallina, ma atto rispetto all’uovo). Questa catena, secondo Aristotele, non è infinita ma presuppone due termini estremi.
La materia Da un lato si trova una materia pura, o, come dice Aristotele, una «materia prima» che è prima, o pura potenza, assolutamente priva di determinazioni. Questa materia prima non si depotenza pura
ve confondere con ciò che noi comunemente chiamiamo “materia”: ad esempio, il fuoco, l’acqua, il bronzo ecc. non sono pura materia, perché si tratta di elementi che hanno già in sé, in atto, una serie di determinazioni grazie alle quali noi li distinguiamo l’uno dall’altro e diamo a ciascuno di essi un nome diverso. La materia prima di cui parla Aristotele è piuttosto quel “qualcosa” che non è né fuoco, né acqua, né bronzo ecc., ma che “può” divenire fuoco, acqua, bronzo ecc. In altre parole, la materia prima aristotelica è la materia-madre (la chóra) di cui aveva già parlato Platone nel Timeo. Essendo la materia prima assolutamente indeterminata, essa è una pura nozione teorica, un concetto-limite che viene ammesso come base o sostrato di ogni divenire, ma che di per sé non si può né conoscere né constatare di fatto, poiché ciò che esiste nel mondo è sempre materia formata (cioè “materia seconda”).
La forma pura, Dall’altro lato, il divenire dell’universo presuppone, al polo opposto della catena degli eso atto puro seri, una forma pura, o atto puro, cioè una perfezione completamente realizzata. Questa
forma pura costituisce la sostanza più alta dell’universo, la sostanza immobile e divina, oggetto della teologia (di cui parleremo nel prossimo paragrafo).
)
Per l’esposizione orale
1. Indica quali sono, per Aristotele, i diversi tipi di movimento, o divenire. 2. In che modo Aristotele spiega il divenire della sostanza? 3. Che cosa sono la materia prima e la forma pura?
7. La concezione aristotelica di Dio Dei quattro significati della metafisica elencati da Aristotele ( p. 342) abbiamo finora illustrato quello per cui essa è lo studio dell’essere in quanto essere e quello per cui essa è lo studio della sostanza. Rimangono dunque da chiarire gli altri due significati: quello per cui la metafisica è la scienza delle cause prime e quello per cui essa è la scienza di Dio. In realtà, l’accezione della metafisica come sapere intorno alle cause supreme è già stata in parte anticipata, poiché dire che la metafisica studia l’essere in quanto tale e la sostanza significa presupporre che essa studi le realtà ultime e decisive dell’universo. In ogni caso, un ulteriore fascio di luce su questo concetto di metafisica lo getta la teologia, che indaga l’essere più alto e la causa suprema del cosmo: Dio.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Molti studiosi hanno ritenuto che il concetto di metafisica come teologia (scienza di Dio Fra teologia in quanto essere o ente supremo) fosse contraddittorio rispetto al concetto di metafisica co- e ontologia me ontologia (scienza dell’essere in quanto essere o dell’essere in generale). Per risolvere il problema, alcuni hanno fatto risalire la concezione “teologica” della metafisica alla prima fase, ancora platonizzante, del pensiero di Aristotele, e la concezione “ontologica” al periodo della maturità. Ma al di là di questa considerazione, di cui certamente va tenuto conto, se nella metafisica si vede in primo luogo lo studio dell’essere in quanto essere e nella teologia il culmine speculativo di questo studio, allora i due significati possono logicamente e coerentemente coesistere.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio Nella Metafisica (e nella Fisica) Aristotele fornisce una prova dell’esistenza di Dio che avrà molta fortuna nei secoli. Essa è tratta dalla teoria del movimento, inteso in generale come possibilità di assumere nuove condizioni o forme, ovvero come concetto comprendente ogni tipo di mutamento, da quello dei corpi nello spazio a quello della generazione e della corruzione ( p. 352). Sviluppando un argomento già presente negli ultimi dialoghi di Platone, Aristotele afferma che tutto ciò che è in moto è necessariamente mosso da altro. Quest’altro poi, se è a sua volta in moto, è necessario che sia mosso da altro ancora. Ovviamente, in questo processo di rimandi, non è possibile risalire all’infinito, perché altrimenti il movimento che vogliamo spiegare (quello da cui siamo partiti nella nostra catena causale) rimarrebbe inspiegato. Pertanto deve per forza esserci un principio assolutamente «primo» e «immobile», causa iniziale di ogni movimento possibile. Aristotele identifica questo primo motore immobile , che dev’essere eterno come il suo effetto (il movimento del mondo), con Dio1 . glossario p. 359 ( T7 p. 372)
La necessità di un «primo motore immobile»
Gli attributi di Dio A Dio, Aristotele riferisce una serie di attributi strettamente connessi tra loro. Innanzitutto Dio è atto puro, ossia atto senza potenza, poiché dire “potenza” equivale a dire “possibilità di movimento”, mentre Dio, essendo il primo motore immobile, non può essere soggetto ad alcun movimento o divenire. In quanto atto puro, poi, non può contenere in sé alcuna materia, dato che la materia, come si è visto, sta alla potenza come la forma sta all’atto. Dio sarà allora forma pura, o sostanza incorporea. Infine, poiché Aristotele (come vedremo parlando della Fisica) ritiene che l’universo e il suo movimento siano eterni, egli considera eterno anche Dio, in quanto causa di tali movimenti.
Dio come atto puro, forma pura e realtà eterna
Dio come Tuttavia, come può un motore che di per sé è immobile muovere qualcosa? Secondo Aristotele esso non muove come causa efficiente, cioè comunicando un impulso, causa finale ma come causa finale, cioè come oggetto d’amore, analogamente a come un oggetto amato (persona o cosa), pur rimanendo immobile, determina il movimento dell’amante verso di sé. In altri termini, Dio è una Perfezione o una Forma che, pur rimanendo impassibile, esercita sul mondo una forza calamitante, tale da metterlo in movimento.
1. Uno dei presupposti teorici sottesi a questo argomento è l’idea che la materia non possa avere in sé stessa la causa del proprio movimento. Questo punto di vista si oppone diametralmente a quello di Democrito, secondo il quale la materia era strutturalmente movimento ( unità 1, cap. 4, p. 87).
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L’ordine dell’universo come sforzo della materia verso Dio
Ma qual è il senso preciso di questo anelito del mondo verso Dio, da cui nascono non soltanto il movimento, ma anche l’ordine delle cose? Su questo punto i testi aristotelici sono un po’ elusivi e, di conseguenza, i critici non sono sempre d’accordo. Per gettare una qualche luce sull’argomento è indispensabile rifarsi al concetto di “materia prima”. Come abbiamo visto, due sono per Aristotele i “protagonisti” della storia e della vita dell’universo: da un lato la materia prima, che, essendo priva di forme, e quindi “affamata” di esse, tende verso la forma e la perfezione (in Aristotele i due concetti sono sinonimi); dall’altro lato Dio, che, essendo forma pura e perfezione assoluta, “attrae” verso di sé la materia prima. Questo significa che l’universo non è altro che uno sforzo della materia verso Dio e cioè, in pratica, un desiderio incessante di rapportarsi alla forma o, meglio, di “prendere forma”. Nell’universo aristotelico, quindi, non è tanto Dio che ordina o forma il mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a Dio, si auto-ordina e auto-determina, assumendo le varie forme delle cose. L’essere è dunque un processo eterno verso la forma, ossia un tentativo di avvicinarsi al modo di essere di Dio; e questo sforzo o tentativo non può mai esaurirsi, dal momento che la materia non può mai essere eliminata o risolta nella pura forma.
Dio come Questo Dio che è atto puro, sostanza incorporea, essere eterno e causa finale del mondo pensiero rappresenta la realtà di ogni possibilità e costituisce un’entità perfetta e totalmente di pensiero
ESERCIZI
compiuta, che non manca di nulla e che non ha bisogno di nulla, poiché in essa non v’è alcuno scopo irrealizzato. A questa perfezione massima deve appartenere, evidentemente, il genere di vita più alto ed eccellente, cioè la vita dell’intelligenza, alla quale l’uomo si eleva soltanto per brevi periodi, mentre Dio ne gode continuamente. Se la vita divina, che è intellezione pura, è la più eccellente e la più felice tra tutte, che cosa pensa Dio? Egli, essendo perfetto, non può che pensare la perfezione stessa, ovvero sé medesimo. Dio sarà dunque «pensiero di pensiero», espressione con cui Aristotele si riferisce al fatto che Dio ha soltanto sé stesso come oggetto. In Dio l’atto e l’oggetto dell’intellezione coincidono: Dio, cioè, possiede da sempre e per intero tutta la sapienza. Egli, quindi, non si identifica con la capacità di cogliere tutto, bensì con l’effettivo e attuato coglimento del tutto. ( T8 p. 373)
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Per l’esposizione orale
1. Spiega in che senso, per Aristotele, Dio è “primo motore immobile”. 2. Illustra le caratteristiche del Dio aristotelico. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera l’immagine di Dio come oggetto d’amore che muove l’intero universo. Che cosa pensi dell’idea che l’amore (inteso in senso lato) sia una forza attrattiva irresistibile, emanata da un oggetto a cui si cerca di avvicinarsi in ogni modo? Motiva la tua opinione e, se condividi la posizione aristotelica, prova a fare un esempio concreto di tale potenza del desiderio. SNODI PLURIDISCIPLINARI letteratura italiana
La concezione aristotelica di Dio influenza la visione proposta nella Divina commedia di Dante Alighieri, dove Dio è definito come «colui che tutto move» (Paradiso, I, 1). L’intera opera si chiude con un’immagine significativa, in cui il «fulgore» divino è descritto come l’oggetto che orienta in modo irresistibile il desiderio e la volontà dell’essere umano (Paradiso, XXXIII, 142-145). Commenta l’ultima terzina e l’ultimo verso della Commedia dantesca, confrontandone il contenuto con la concezione aristotelica di Dio. Presta particolare attenzione alla perifrasi che chiude l’opera: «l’amor che move il sole e l’altre stelle».
356
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 2 LE STRUTTURE DELLA REALTÀ: LA METAFISICA
Il quadro delle scienze Nel quadro delle scienze delineato da Aristotele si distinguono le discipline che studiano il necessario (con metodo dimostrativo) e quelle che studiano il possibile (con metodo non dimostrativo, valido “perlopiù”). Al primo gruppo appartengono le scienze teoretiche (metafisica, matematica e fisica), che hanno come scopo la conoscenza disinteressata (che non “serve” a nulla), mentre del secondo gruppo fanno parte le scienze pratiche (etica e politica), che “servono” a dirigere l’azione umana, e le scienze poietiche o produttive (le arti e le tecniche), che “servono” a produrre opere e a manipolare oggetti.
La metafisica come scienza dell’essere Tra le scienze teoretiche, un ruolo privilegiato spetta a quella che Aristotele chiama «filosofia prima» e che in seguito verrà prevalentemente indicata con il termine
• metafisica
la scienza che studia le strutture profonde o generali della realtà, spingendosi “oltre” o “al di là” del mondo sensibile (dal greco metá ta physiká, letteralmente “oltre le cose fisiche”, oppure “dopo i libri di fisica”, espressione con cui Andronico di Rodi, ordinando le opere aristoteliche, aveva indicato i libri dedicati alla filosofia prima).
Aristotele individua quattro specifici oggetti indagati dalla metafisica: le cause e i princìpi primi della realtà; l’essere in quanto essere; la sostanza; la sostanza immobile, cioè Dio.
Di questi quattro ambiti di indagine, che in definitiva sono tra loro equivalenti, Aristotele analizza in particolare il secondo, evidenziando come la metafisica abbia per oggetto l’aspetto fondamentale e comune di tutta la realtà, a prescindere dalle caratterizzazioni particolari degli enti, le quali costituiscono l’oggetto di tutte le altre scienze, definite «filosofie seconde». Il concetto di “essere” si rivela così come il concetto basilare dell’intera filosofia aristotelica. Con questo concetto Aristotele non indica una realtà semplice e univoca, ma complessa e polivoca. Egli, infatti, afferma che l’essere «può dirsi in molti sensi», ovvero assumere diversi significati: esso può dirsi come “essere per altro” o accidente, come “essere per sé” o categorie, come vero, come potenza e atto.
Le categorie Tutti i diversi significati dell’essere sono casi particolari di alcune determinazioni generalissime, che Aristotele definisce
• categorie
(dal verbo greco kategoréo, “affermo”, “predico”) i modi fondamentali dell’essere e del pensiero. Dal punto di vista ontologico, le categorie sono le determinazioni generali dell’essere, ovvero le modalità basilari con cui la realtà si presenta; dal punto di vista logico sono i modi generalissimi in cui l’essere si predica delle cose, ovvero quei tipi fondamentali di predicazione entro cui rientrano (come in grandi “caselle”) tutti i predicati possibili.
Le categorie elencate da Aristotele sono: l’essere una certa sostanza, il possedere una certa qualità, l’essere caratterizzato da una certa quantità, il trovarsi in una certa relazione con altri enti, l’agire, il subire, l’essere in un certo luogo, l’essere in un certo tempo. A queste otto, Aristotele ne aggiunge talvolta altre due: l’avere una certa cosa, lo stare in una certa situazione.
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La sostanza Tra le categorie, quella più importante è quella di sostanza, che costituisce il polo unificatore o il centro di riferimento di tutte le altre. Chiedersi “che cos’è l’essere?” equivarrà pertanto a chiedersi “che cos’è la sostanza?”. Definizione centrale nella metafisica aristotelica è dunque quella di
Per indicare l’essenza, Aristotele ricorre anche all’espressione «to ti en éinai» (in latino quod quid erat esse), letteralmente “ciò che era l’essere”, dove l’imperfetto richiama la permanenza dell’essere, ovvero l’elemento fisso e immutabile degli individui (che ci consente di identificarli come sempre gli stessi), contrapposto alla mutevolezza dei loro
• accidenti
(dal latino áccidens, participio presente del verbo accídere, “accadere”, e traduzione del greco symbebekós, “ciò che accade insieme”) le determinazioni che appartengono casualmente a un dato soggetto, non facendo parte della sua essenza.
• sostanza
(dal latino substantia, che a sua volta deriva dal verbo sub-stare, “stare sotto”, e che traduce tanto il greco hypokéimenon, “che giace sotto”, quanto il greco ousía, “sostanza”, “essenza”) in senso proprio, ogni individuo concreto (persona, animale o cosa) che è “per sé”, ossia che ha vita propria e che in quanto tale funge da soggetto ontologico di proprietà e da soggetto logico di predicati (Aristotele dice che le sostanze «non sono in un sostrato», cioè non possono inerire ad altro, «né si dicono di un sostrato», cioè non possono essere predicate di altro).
Le quattro cause Al concetto aristotelico di sostanza si connette quello di
• causa
il “perché” di una certa cosa, che Aristotele concepisce in quattro modi diversi, a seconda di quale aspetto si prenda di volta in volta in considerazione. Esiste infatti una causa materiale (la materia di cui una cosa è fatta), una causa formale (la forma o l’essenza di quella cosa), una causa efficiente (ciò che dà inizio al mutamento di qualcosa) e una causa finale (il fine a cui ogni cosa tende).
Così intesa, ovvero in quanto ente individuale concreto e autonomo, la sostanza è detta da Aristotele anche tóde ti, cioè “questo (ente) qui”, il quale a sua volta è un «sìnolo» (cioè un’unione indissolubile, da syn, “con”, e hólos, “tutto”) di:
• materia
(dal latino materia, o materies, corrispondente al greco hýle, che originariamente indicava la “selva” o il “legno di bosco” e quindi il “legname” ovvero un “materiale da costruzione”) ciò di cui è fatta una certa sostanza individuale;
• forma
(dal latino forma, che a sua volta deriva dal greco morphé e traduce anche i termini éidos e skhéma, rispettivamente “figura” e “aspetto”) la natura profonda di una sostanza individuale, ossia la struttura necessaria in virtù della quale essa è ciò che è (negli esseri umani, ad esempio, la loro natura razionale).
In una sostanza individuale, ovvero in un sinolo, la forma è l’elemento caratterizzante e determinante, mentre la materia è l’elemento passivo e ricettivo, sul quale si esercita l’azione strutturante della forma. Quest’ultima si può dunque considerare la “sostanzialità” della sostanza individuale. In questo senso, per Aristotele, la sostanza è anche la forma di un sinolo, ovvero la sua
• essenza
(dal latino essentia, che a sua volta deriva dal verbo esse, “essere”, e che corrisponde al greco ousía) la struttura necessaria o la natura profonda di una cosa, così come viene espressa dalla sua definizione (si pensi a “Socrate è un essere razionale”).
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La nozione di “causa” è connessa con quella di “sostanza”, perché comprendere la causa di qualcosa, ovvero di un certo individuo (persona, animale o cosa), significa comprendere l’articolazione interna della sua sostanza, cioè la ragione per cui quell’individuo è ciò che è, e non può essere o agire diversamente. In altre parole, le quattro cause non sono che articolazioni o specificazioni della sostanza, che si qualifica pertanto come l’unica vera causa dell’essere.
Il divenire e le sue forme In generale, Aristotele intende il divenire come un movimento, il quale può essere: non sostanziale, quando riguarda gli aspetti accidentali di un certo ente o individuo. Appartengono a questo tipo di movimento i cambiamenti di luogo (movimenti locali, o movimenti propriamente detti), i cambiamenti di qualità (alterazioni) e i cambiamenti di quantità (accrescimenti o diminuzioni); sostanziale, quando riguarda direttamente la sostanza: in tal caso coincide con la generazione e la corruzione, cioè con la nascita e la morte di un ente.
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
Così inteso, il divenire non consiste mai in un passaggio dall’essere al non essere (o viceversa). Aristotele, infatti, rimane fedele al principio secondo cui nulla può svanire dal nulla o derivare dal nulla: anche la nascita e la morte (cioè il divenire sostanziale) sono per lui passaggi “interni” all’essere, da un certo tipo di essere a un altro tipo di essere. Proprio per spiegare il divenire della sostanza, Aristotele elabora i concetti di
• potenza e atto
rispettivamente, la possibilità della materia di assumere una determinata forma e la realizzazione compiuta di questa possibilità.
Ad esempio, nel caso della generazione della sostanza individuale “pulcino”, questa non passa dal non essere all’essere: si tratta piuttosto del passaggio dal pulcino in potenza (cioè dall’uovo, che del pulcino costituisce la “materia” originaria) al pulcino in atto (cioè alla sua forma compiuta). Il punto di partenza del divenire di una sostanza è quindi la materia in quanto “mancante” di una forma determinata, mentre il punto di arrivo è il raggiungimento pieno di quella forma, a cui Aristotele dà anche il nome di
• entelechìa
(in greco entelécheia, da en télei échein, “essere compiuto”, nel senso di raggiungere il proprio fine) il termine finale del movimento o del divenire, cioè la compiuta realizzazione di una certa forma che era in potenza. Coincide con il raggiungimento della forma perfetta di ciò che diviene, ovvero con la sostanza totalmente in atto.
La “catena” del mondo e Dio I vari passaggi dalla potenza all’atto, ovvero da una causa materiale (l’uovo) alla causa finale (il pulcino), costituiscono nel mondo naturale una catena infinita, perché la causa finale di un certo passaggio (il pulcino) è spesso, a sua volta, la causa materiale di un altro passaggio (la trasformazione in gallina).
L’infinita trama del divenire ha però due estremi o punti-limite: da una parte la «materia prima», ovvero la potenza pura, priva di qualunque determinazione. Paragonabile alla chóra platonica, la materia prima aristotelica non si identifica con il materiale già formato delle cose visibili (che Aristotele chiama «materia seconda»), ma con il sostrato comune e inconoscibile (in quanto assolutamente amorfo) di tutti i materiali esistenti; dall’altra parte una forma pura, o atto puro, cioè una perfezione completamente realizzata. Tale sostanza suprema dell’universo, incorporea, immobile ed eterna, è identificata da Aristotele con Dio. Più precisamente, la perfetta sostanza divina costituisce la causa iniziale e indiveniente di ogni divenire, di cui Aristotele dimostra l’esistenza così: tutto ciò che è in movimento è necessariamente mosso da altro, ma poiché non è possibile risalire all’infinito da un movimento alla sua causa, è necessario che vi sia un principio primo assolutamente immobile. Di tale principio, ovvero di Dio, Aristotele parla come di un
• primo motore immobile
il principio o la causa che Aristotele pone all’origine di ogni movimento o divenire. Dev’essere un principio eterno perché eterno è il suo effetto (il movimento del mondo), e deve essere immobile perché, se fosse in movimento, dovrebbe esistere un principio ulteriore che lo muove.
Questo primo motore immobile è la causa finale a cui ogni cosa nell’universo tende necessariamente, come attratta irresistibilmente da un oggetto d’amore. A tale entità perfetta, che non manca di nulla, compete la forma di vita più alta, cioè quella del pensiero; ma un ente perfetto non può avere che la perfezione come oggetto del proprio pensiero: Dio, pertanto, pensa sé stesso, configurandosi come «pensiero di pensiero».
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MAPPE
CAPITOLO 2 LE STRUTTURE DELLA REALTÀ: LA METAFISICA LE SCIENZE per Aristotele si dividono in
teoretiche: metafisica matematica fisica
pratiche: etica politica
poietiche: arti (pittura, scultura ecc.) tecniche (falegnameria, tessitura ecc.)
LA METAFISICA O FILOSOFIA PRIMA
è
studia
la scienza dell’essere
le cause e i princìpi primi della realtà l’essere in quanto essere la sostanza Dio in quanto sostanza immobile
il quale
«si dice in molti sensi»
in quanto accidente
è una caratteristica non necessaria di una sostanza
in quanto categoria
è una delle determinazioni fondamentali della realtà
è uno dei modi fondamentali della predicazione logica
in quanto potenza e atto
spiega il divenire di ogni sostanza
LE CATEGORIE sono
le determinazioni generalissime che definiscono ogni essere
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, subire, luogo, tempo (+ l’avere e l’essere in una situazione)
LA SOSTANZA è
la categoria fondamentale
l’individuo concreto, sinolo di materia e forma
la forma o essenza di una sostanza individuale, distinta dai suoi accidenti
I QUATTRO TIPI DI CAUSA
sono
spiegano
la causa materiale la causa formale la causa efficiente la causa finale
il divenire, ovvero il movimento
che può essere
locale (traslazione o movimento propriamente detto) qualitativo (alterazione o mutamento) quantitativo (accrescimento e diminuzione) sostanziale (generazione e corruzione, o nascita e morte)
IL DIVENIRE SOSTANZIALE
DIO
si spiega attraverso i concetti di
è
potenza
atto
primo motore immobile
che è
che è
ovvero
la possibilità della materia di assumere una forma
la compiuta assunzione di una forma da parte della materia (entelechìa)
causa prima del movimento del mondo
atto puro forma pura (sostanza incorporea ed eterna) causa finale dell’universo (oggetto d’amore a cui ogni essere tende) pensiero di pensiero (atto e oggetto di intellezione)
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CAPITOLO 2 LE STRUTTURE DELLA REALTÀ: LA METAFISICA La metafisica: lo studio dell’essere
La metafisica aristotelica si colloca a un livello diverso rispetto a quello su cui si pongono le altre scienze: mentre queste ultime hanno per oggetto l’una o l’altra realtà particolare, vale a dire l’una o l’altra determinazione dell’essere, la metafisica studia l’essere in quanto tale. Proprio in virtù dell’universalità del suo oggetto, la metafisica è per Aristotele scienza, o filosofia, «prima», che precede e fonda le altre discipline. TESTO
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Un inquadramento della metafisica
(Metafisica)
IL TESTO NELL’OPERA La Metafisica è composta di 14 trattati, che sono stati raccolti, ordinati e pubblicati da Andronico di Rodi intorno alla metà del I secolo a.C. Nei primi tre libri Aristotele stabilisce che la filosofia è lo studio delle cause e dei princìpi fondanti (libro I), espone le difficoltà che scaturiscono dalla ricerca della verità (libro II) e discute le principali aporie emerse nella storia del pensiero (libro III). Nel libro IV dà la celebre definizione della metafisica come scienza dell’«essere-in-quanto-essere». Nel libro VI – dopo avere chiarito alcune nozioni chiave della sua filosofia, quali “principio”, “causa”, “uno”, “essere”, “sostanza” (libro V) – propone una classificazione delle scienze, articolandole in pratiche (volte all’azione), poietiche (volte alla produzione) e teoretiche (volte alla conoscenza). Il testo proposto di seguito è costituito da due passi, collocati rispettivamente nel libro IV e nel libro VI dell’opera, e offre un inquadramento della metafisica. Lo studio C’è una scienza che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti dell’essere per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette 2 in quanto tale
scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche par- 4 te di essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche.
Lo studio delle E poiché noi stiamo cercando i principi e le cause supreme, non v’è dubbio che questi prin- 6 cause prime cipi e queste cause siano propri di una certa realtà in virtù della sua stessa natura. Se, perdella realtà
tanto, proprio su questi principi avessero spinto la loro indagine quei filosofi [naturalisti o 8 fisici] che si diedero a ricercare gli elementi delle cose esistenti, allora anche gli elementi di cui essi hanno parlato sarebbero stati propri dell’essere-in-quanto-essere e non dell’esse- 10 re-per-accidente; ecco perché anche noi dobbiamo riuscire a comprendere quali sono le cause prime dell’essere-in-quanto-essere. 12 […]
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
L’oggetto Se, d’altra parte, esiste qualcosa di eterno e di immobile e di separabile dalla materia, è 14 delle scienze evidente che la conoscenza di ciò è pertinenza di una scienza teoretica, ma non certo delteoretiche
la fisica [giacché questa si occupa solo di alcuni enti mobili], né della matematica, ma di un’altra scienza che ha la precedenza su entrambe. Infatti la fisica si occupa di enti che esistono separatamente, ma che non sono immobili, e dal canto suo la matematica si occupa di enti che sono, sì, immobili, ma che forse non esistono separatamente e sono come presenti in una materia; invece la “scienza prima” si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili. E se tutte le cause sono necessariamente eterne, a maggior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, giacché esse sono cause di quelle cose divine che si manifestano ai sensi nostri.
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La gerarchia Quindi ci saranno tre specie di filosofie teoretiche, cioè la matematica, la fisica e la teolo- 24 delle scienze gia, essendo abbastanza chiaro che, se la divinità è presente in qualche luogo, essa è preteoretiche
sente in una natura siffatta, ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del 26 genere più venerando. Epperò [perciò], se le scienze contemplative sono preferibili alle altre, questa [la teologia, o filosofia prima, o metafisica] è preferibile alle altre scienze 28 contemplative. (Metafisica, IV, 1, 1003a; VI, 1, 1026a, in Aristotele, Opere, a cura di G. Giannantoni, trad. it. di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1973, vol. 3, pp. 85, 175-176)
Lo studio dell’essere in quanto tale (rr. 1-5) In questo passo celeberrimo, Aristotele muove dalla considerazione che le scienze particolari si occupano ciascuna di un solo aspetto dell’essere: la matematica del numero, la geometria dello spazio, l’astronomia del cosmo e così via. La metafisica ha invece per oggetto gli aspetti universali di ciò che è, ovvero le caratteristiche di ciò che è comune a tutti gli enti, siano essi numeri, figure geometriche, astri, piante o animali. Sebbene tutte le scienze teoretiche, in quanto tali, studino oggetti particolari da un punto di vista universale, soltanto l’oggetto della metafisica è universale esso stesso, per sua stessa natura, e si tratta dell’essere-in-quanto-essere. Lo studio delle cause prime della realtà (rr. 6-12) Studiare la totalità dell’essere (cioè studiare la realtà in tutte le sue diverse manifestazioni) significa chiarirne la genesi, cioè individuarne le cause prime: quale scienza dell’essere-in-quanto-essere, la metafisica è quindi anche la scienza che indaga le cause prime e i princìpi supremi di tutta la realtà. Si noti che la formula «essere-in-quanto-essere» non indica una sorta di amplissimo genere che include tutti i generi (e ovviamente ancor meno una vastissima specie che include tutte le altre specie), perché, se così fosse, un tale essere assorbirebbe in sé tutti i suoi possibili significati, conducendo a una nuova forma di monismo eleatico. L’espressione indica
piuttosto un essere che si limita a “raccogliere in sé”, lasciandoli però tra loro distinti, i suoi innumerevoli possibili sensi. Per questo, nel dettato aristotelico, l’essere è talvolta manifestamente plurale, mentre altre volte coincide con la sostanza e altre volte ancora con la sostanza per eccellenza, cioè con Dio. Sembra che Aristotele, con queste oscillazioni, abbia voluto metterci in guardia contro qualsiasi ontologizzazione dell’essere, cioè contro il rischio di intenderlo come un’entità anziché come un significato, come avevano fatto i pensatori a lui precedenti. Abbiamo quindi a che fare con un’indagine dalle molte sfaccettature, volta a mettere in luce l’irriducibile molteplicità dei sensi dell’essere senza l’ossessione di ricondurli a unità. L’oggetto delle scienze teoretiche (rr. 14-23) Richiamando gli specifici oggetti di studio delle scienze teoretiche, Aristotele precisa quanto segue: la fisica indaga le realtà separate (cioè sussistenti in maniera autonoma l’una rispetto all’altra) e mobili (cioè soggette a mutamento e corruzione, come gli enti fisici); la matematica indaga le realtà immobili (cioè non soggette a mutamento e corruzione) ma non separate (diversamente da Platone, infatti, Aristotele è convinto che gli enti matematici non siano enti ideali, esistenti di per sé, ma siano “calati” nei corpi, dei quali costituiscono gli aspetti quantitativi); la metafisica studia le realtà separate e immobili.
TESTI ARISTOTELE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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Se gli oggetti della fisica sono “separati” in quanto in grado di sussistere per sé, l’oggetto della metafisica è “separato” anche in un altro senso, cioè in quanto distaccato dal mondo sensibile e ad esso trascendente. La sostanza separata e immobile è l’oggetto di studio più elevato che ci sia, e coincide sia con la causa prima ed eterna che sta all’origine dell’esistenza e del divenire di tutti gli enti, cioè con Dio, sia con le cause di «quelle cose divine che si manifestano ai sensi nostri» (rr. 22-23), ovvero degli astri e del loro moto.
La gerarchia delle scienze teoretiche (rr. 24-29) Tirando le somme del discorso condotto fin qui, Aristotele afferma il primato della metafisica sulla matematica e sulla fisica. La «scienza prima» (r. 20), infatti, in quanto studio della sostanza più perfetta che ci sia, non può che coincidere con la teologia, cioè con lo studio della natura divina, e identificarsi con la disciplina in cui l’attività contemplativa umana raggiunge il proprio culmine.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Qual è la tua opinione su un tipo di studio che non si rivolge a singoli aspetti della realtà, ma che ha come oggetto l’essere nel suo senso universale? Quale utilità può avere nella società di oggi? Ritieni che possa integrarsi con una formazione scolastica articolata in molti indirizzi, sempre più richiesta in ragione della crescente complessità del mondo in cui viviamo? Rispondi a queste domande in un testo argomentato (max 40 righe).
La metafisica: lo studio della sostanza
Per identificare con maggiore precisione l’essere-in-quanto-essere, oggetto della metafisica, Aristotele analizza le categorie, cioè i modi basilari in cui la realtà si presenta, o le determinazioni generalissime alle quali ogni ente può essere ricondotto. Tra queste, quale categoria fondamentale, il filosofo indica la sostanza, che in sé unifica gli altri diversi significati dell’essere. TESTO
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Le categorie (Analitici Secondi; Metafisica) Per Aristotele le categorie hanno un valore ontologico, in quanto modi fondamentali di manifestazione dell’essere rintracciabili in un qualunque ente, e un valore logico, in quanto modi fondamentali di predicazione di un qualunque soggetto (logico). L’equivalenza, o la corrispondenza, di questi due aspetti è messa in luce dal primo dei due passi riportati di seguito (tratto dagli Analitici Secondi), mentre nel secondo (tratto dal libro XII della Metafisica) è sottolineato il primato della sostanza rispetto alle altre categorie.
I generi della Di un qualsiasi oggetto si predica infatti ciò che esprime o una qualità, o una quantità, o predicazione qualcosa di consimile, oppure gli elementi costitutivi della sostanza: orbene, queste deter- 2
minazioni sono in numero limitato, come pure sono limitati i generi della predicazione, dato che si tratterà o di qualità, o di quantità, o di relazione, o di attività, o di passività, o 4 di luogo, o di tempo. (Analitici Secondi, I, 22, 83b, 15)
La sostanza Il nostro studio ha come oggetto la sostanza, giacché noi stiamo indagando appunto i 6 come princìpi e la cause delle sostanze. E, in realtà, se l’universo viene contemplato come qualcategoria fondamentale cosa di intero, la sostanza ne è la parte fondamentale; se, poi, viene contemplato come una 8
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
serie consecutiva di categorie, anche in questo caso il primo posto è riservato alla sostanza, e solo dopo di questa si può parlare di qualità e poi, ancora, di quantità. Queste altre 10 categorie non sono, per così dire, entità che esistano in senso assoluto, ma sono soltanto qualificazioni e movimenti [di una sostanza]. 12 (Metafisica, XII, 1, 1069a, in op. cit., p. 341)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE I generi della predicazione (rr. 1-5) L’elenco originario delle categorie, fornito da Aristotele nei Topici (I, 9) e nelle Categorie (4, 1), è più lungo rispetto a quello riportato qui, dal momento che include anche l’avere e l’essere in una situazione. Alcuni interpreti sostengono che il filosofo abbia in un primo tempo preferito il numero dieci in ossequio alla tradizione pitagorica. In ogni caso, è probabile che egli si sia accorto che le due categorie citate non erano realmente originarie, bensì riconducibili ad altre, e precisamente l’avere alla relazione e l’essere in una situazione al luogo. Che la versione definitiva sia quella più breve sembra confermato dal fatto che essa è riportata anche in altri contesti. La sostanza come categoria fondamentale (rr. 6-12) L’oggetto di studio della filosofia prima è la sostanza, dal momento che proprio la sostanza rappresenta l’aspetto imprescindibile e fondamentale
dell’universo, sia che questo venga considerato come una realtà ontologica unica, sia che venga concepito (e questa è la prospettiva aristotelica) come un’entità variegata, determinata secondo le modalità fondamentali espresse dalle categorie. Infatti, poiché le categorie sono sia i possibili tipi di predicazione del soggetto logico di una frase, sia i possibili modi di essere di un ente individuale concreto, esse non sussistono da sole, ovvero non sono entità separate, ma “si appoggiano” alla sostanza (il soggetto della frase o l’individuo), di cui rappresentano ognuna un particolare punto di vista (qualitativo, quantitativo, relazionale ecc.) dal quale la sostanza stessa può essere guardata. Se possono essere raggruppate in un insieme unitario, è perché costituiscono l’elenco esaustivo dei significati fondamentali dell’essere, cioè del modo stesso di darsi delle cose.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Prova a fissare un episodio della tua giornata attraverso le categorie di Aristotele, ossia catalogando tutto ciò che esso racchiude in termini di qualità, quantità, relazione, attività, passività, luogo e tempo: prendi in considerazione le persone con cui interagisci o le cose di cui ti circondi, ma anche le parole che pronunci o che ascolti, i tuoi stati d’animo, i profumi e i suoni che fanno loro da cornice ecc. Riporta la tua descrizione in un testo analitico e accurato, in cui motivi i criteri alla base delle tue scelte (max 30 righe).
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Materia e forma come possibili accezioni della sostanza (Metafisica) IL TESTO NELL’OPERA Nei libri centrali della Metafisica (libri VII-IX) Aristotele espone la propria concezione della sostanza, ribadendo che essa rappresenta il senso principale dell’essere, ovvero ciò che lo costituisce e che ne raccoglie in sé i diversi significati. Tuttavia, anche la sostanza può essere intesa secondo varie accezioni, dal momento che si può parlare di sostanza come “materia”, come “forma” o come “sinolo” di materia e forma, cioè come “individuo”. Nel testo che segue, tratto dal libro VII, sono analizzate le prime due di queste possibili accezioni della sostanza.
L’analisi Proprio poc’anzi noi abbiamo delineato sommariamente il concetto di sostanza, quando aristotelica abbiamo osservato che essa non è ciò che viene predicato di un sostrato, ma ciò di cui le 2 della materia
altre cose sono predicati; però non dobbiamo limitarci a dire solamente questo, perché
TESTI ARISTOTELE
TESTO
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ciò non basta; e non solo questo modo di esporre non è affatto chiaro in se stesso, ma, oltre a ciò, esso viene a identificare la sostanza con la materia. Se, infatti, questa [la materia] non viene identificata con la sostanza, ci è impossibile dire quale altra cosa sia, giacché, se si sopprimono tutte le altre proprietà di un oggetto, non rimane evidentemente altro al di fuori della materia […]. […] E intendo significare per materia ciò che in se stesso non è né un oggetto particolare né una quantità, né alcuna altra categoria secondo cui l’essere viene determinato. […] Orbene, se noi partiamo da questo punto di vista, risulta che la materia è sostanza; ma ciò è inammissibile, perché sembra che siano proprietà fondamentali della sostanza la separabilità e l’individualità, ed è questo il motivo per cui sembrerebbe che la forma e il composto di materia e forma siano sostanza più autenticamente che non la materia. […]
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L’analisi Orbene, quando noi ci chiediamo perché esista una determinata cosa, non facciamo al- 16 aristotelica tro se non domandarci per quale motivo una cosa appartenga a un’altra. Infatti, dodella forma
mandarsi per quale motivo l’uomo musico è uomo musico, significa o chiedersi, come abbiamo detto, per quale motivo l’uomo è musico [cioè perché a quell’uomo appartenga l’essere musico], oppure chiedersi qualche altra cosa. Orbene, chiedersi per quale motivo una cosa è se stessa equivale a non chiedersi nulla […]; invece, varrebbe la pena di chiedersi per qual motivo l’uomo è un animale avente certe determinate caratteristiche. Pertanto, la cosa che si evince con chiarezza è questa: che noi ci chiediamo non per quale motivo chi è uomo sia uomo, ma perché mai una cosa, che è predicato di un’altra, appartenga a quest’altra […]. È evidente […] che quello che qui si cerca è la causa […]. […] Ma l’oggetto della nostra ricerca ci sfugge soprattutto in quei casi in cui un termine non è predicato di un altro, come, ad esempio, quando ci chiediamo che cosa è l’uomo; e questo avviene perché una tale espressione è semplice e in essa non si viene a distinguere che certe determinate cose costituiscono una certa determinata cosa. […] è chiaro che noi non facciamo altro se non cercare per quale motivo la materia è «qualcosa», come, ad esempio, alla domanda «per qual motivo queste determinate cose costituiscono una casa?», noi risponderemo: «perché in tali cose è presente l’essenza della casa». E così anche si dirà: «Questa cosa, ovvero il corpo che ha questa determinata proprietà, è un uomo». Sicché, ciò che noi stiamo cercando è la causa [formale] in virtù della quale la materia è qualcosa di determinato: e appunto questa è la sostanza. (Metafisica, VII, 3, 1029a; 17, 1041a-b, in op. cit., pp. 187-188 e 229-231)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE L’analisi aristotelica della materia (rr. 1-14) Nelle righe che precedono il passo riportato Aristotele ha definito la sostanza come «sostrato», ovvero come «ciò di cui sono predicate le altre cose, mentre esso stesso non è mai predicato di altro». Qui il filosofo intende sgombrare il campo da un possibile equivoco: l’impredicabilità non è il solo tratto essenziale della sostanza, perché, se così fosse, anche la materia potrebbe essere considerata sostanza. Essa, infatti, è
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
ciò che rimane se si spoglia un oggetto di tutte le sue determinazioni (qualitative, quantitative, relazionali ecc.): in questo senso non esiste nulla rispetto al quale la materia possa fungere da predicato. Tuttavia, per fare della materia una sostanza in senso proprio, all’impredicabilità bisognerebbe aggiungere la separabilità e l’individualità (cioè la determinatezza). Ma la materia non è separabile perché non può sussistere priva della forma, e non è determinata in quanto è
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un sostrato puramente virtuale di una serie di determinazioni. In altri termini, per Aristotele l’accezione della sostanza che la identifica con la materia è un’accezione impropria. L’analisi aristotelica della forma (rr. 16-36) Per chiarire in che senso la sostanza debba essere identificata con la forma, più che con la materia, Aristotele costruisce un’argomentazione articolata, che parte dal concetto di causa. Cercare il “perché” di un oggetto, di una situazione, di un accadimento significa chiedersi il motivo per cui a quell’oggetto, a quella situazione o a quell’accadimento “appartengano” certe proprietà o determinazioni, ovvero, in termini di predicazione, significa chiedersi quale sia la ragione per
cui vi si possano attribuire certi predicati. Ma, in ultima analisi, questo equivale a cercarne la sostanza, che si rivela quindi come la “struttura”, o la “causa formale”, o la ragione essenziale per cui le cose sono esattamente quello che sono. Per rafforzare la tesi secondo cui la sostanza è identificabile con la forma, Aristotele osserva che ciò vale anche per quei termini che non sono predicati di altro. Se la sostanza di un certo individuo che è musico è la forma (la causa formale) per cui di quell’individuo (determinato) è predicabile l’essere musico, la sostanza dell’essere umano in generale è la forma (la causa formale) che della materia fa proprio quell’entità chiamata “uomo”.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Ti sei mai chiesto che cos’è che fa di te precisamente ciò che sei e quali sono invece i predicati accidentali della tua persona? Prova a rispondere a questi interrogativi, impostando il discorso possibilmente in termini aristotelici (max 20 righe).
TESTO
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La sostanza come sinolo di materia e forma (Metafisica) La terza accezione secondo cui si può intendere la sostanza è quella che riusciamo a comprendere meglio, perché è la più vicina alla nostra esperienza. Si tratta della sostanza come individuo concretamente esistente, cioè come «composto» (sýnolon) indissolubile di materia (possibilità) e forma (possibilità attuata).
sostanza delle cose sensibili nella sua attualità. […] dovendo definire una soglia, noi diremo che essa è un pezzo di legno o una pietra che 4 giace in una determinata maniera, e, dovendo definire una casa, noi diremo che essa è mattoni e legna che giacciono in questo altro modo […], e, dovendo definire un pezzo di 6 ghiaccio, noi diremo che è acqua congelata o condensata in un determinato modo, e che l’accordo musicale è una determinata mistione di acuto e di grave; e allo stesso modo a 8 proposito delle altre cose.
Diversi punti di Comunque, da queste considerazioni risulta evidente che l’atto è diverso secondo la diver- 10 vista sullo sità della materia, e così anche il discorso definitorio: difatti, in alcuni casi esso è la comstesso ente
posizione, in altri è la mescolanza, in altri qualcuno degli altri modi suddetti. Perciò, quando si intende dare una definizione, quelli che definiscono, ad esempio, una casa dicendo che essa è pietre, mattoni e legna, parlano della casa in potenza; quelli che, nel definirla, aggiungono che essa è un rifugio che è in grado di preservare i beni e i corpi e che è qualche altra cosa di tal genere, ne determinano l’atto; quelli, infine, che mettono insieme tutte e due queste cose, parlano di una terza sostanza, che è anche il composto delle altre due precedenti […].
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TESTI ARISTOTELE
La definizione Poiché i filosofi sono generalmente d’accordo sulla sostanza nella sua accezione di sostradelle cose to e materia – vale a dire sulla sostanza che è in potenza –, ci resta da chiarire quale sia la 2 sensibili
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Da queste considerazioni risulta con evidenza qual è la sostanza sensibile e quali sono i modi della sua esistenza: infatti, sotto un profilo essa è come materia, sotto un altro è co- 20 me forma e, in un terzo senso, essa è il composto di queste due cose. (Metafisica, VIII, 2, 1042b-1043a, in op. cit., pp. 235 e 237-238)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La definizione delle cose sensibili (rr. 1-9) La terza accezione della sostanza presa in considerazione da Aristotele è quella più autentica e la identifica con i singoli enti sensibili, che sono costituiti non dalla sola materia, né dalla sola forma, bensì dall’unione indissolubile di materia e forma, cioè dalla “materia formata”, o “forma materializzata”, in altre parole ancora da una certa possibilità (potenzialità) ormai in atto. Aristotele si pone così in polemica diretta con tutti quei pensatori (primo fra tutti Democrito) che si erano limitati a considerare la sostanza nel suo aspetto potenziale, anteriore, per così dire, a qualunque determinazione concreta. Intesa come “attualità”, la sostanza delle cose sensibili coincide per Aristotele con la loro definizione. Infatti, quando si richiede la definizione di un’entità sensibile, si risponde enunciando la forma che di fatto essa possiede, ossia il suo esistere concreto, costituito da un elemento materiale e da uno formale. La serie degli esempi forniti da Aristotele (e qui riportati) chiarisce questo aspetto: ogni cosa (sia essa una soglia, una casa, un pezzo di ghiaccio o un accordo
musicale) è definibile richiamando la materia di cui è fatta (legno, pietra, mattoni ecc.) e le caratteristiche formali (determinazioni) che sono state aggiunte alla materia per trasformarla in un oggetto: caratteristiche che rendono “attuale” una materia che di per sé è soltanto un ricettacolo di forme potenziali. Diversi punti di vista sullo stesso ente (rr. 10-21) Le definizioni che si possono offrire di un ente sensibile sono di tre tipi, a seconda del punto di vista che viene privilegiato: in un primo caso l’oggetto da definire viene considerato come materia (e la definizione è dunque non del tutto soddisfacente); in un secondo caso come forma (e questa definizione è migliore, perché enuncia la cosa nella sua attualità, ovvero nel suo concreto esistere). La terza possibile definizione (e quindi la terza possibile accezione della sostanza) considera invece l’oggetto come materia e forma, fondendo i due punti di vista precedenti: oltre ad essere il tipo di definizione più facile da produrre e da comprendere, perché più vicino alla nostra esperienza, questo è anche il modo migliore per esprimere la sostanza di una cosa.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Nel saggio intitolato Sette brevi lezioni di fisica, Carlo Rovelli si chiede «Se il mondo è […] un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo? Siamo fatti anche noi solo […] di particelle? Ma allora da dove viene quella sensazione di esistere singolarmente e in prima persona che prova ciascuno di noi? Allora cosa sono i nostri valori, i nostri sogni, le nostre emozioni, il nostro stesso sapere?». Sulla base del testo che hai appena letto, ipotizza una risposta di Aristotele al fisico italiano (max 20 righe).
TESTO
5
La dottrina delle cause (Metafisica) I passi che riportiamo di seguito, tratti dai primi due libri della Metafisica, introducono la dottrina aristotelica delle quattro cause, importante sia nell’ambito della metafisica sia in quello della fisica.
I quattro tipi È ovviamente indispensabile l’acquisizione scientifica delle cause originarie (giacché noi di cause affermiamo di conoscere un oggetto particolare solo quando reputiamo di conoscerne 2
la prima causa); e si parla di cause in quattro sensi, giacché una di esse affermiamo che è la sostanza o essenza (difatti la ragion d’essere di un oggetto si riconduce, in ultima istanza, 4
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
alla definizione, e la prima ragion d’essere è causa e principio), un’altra causa è la materia, ossia il sostrato, una terza causa è ciò che dà inizio al movimento, e una quarta causa è 6 quella che è opposta a essa, ossia il fine e il bene (infatti è questo il termine di ogni gene8 razione e di ogni movimento). […] Il carattere Ma è ovvio, d’altra parte, che esiste un primo principio e che le cause degli esseri non sono 10 finito della infinite né in senso ascensionale né per il numero delle specie. È impossibile, infatti, concatena di cause
cepire un processo all’infinito sia per quanto concerne la derivazione materiale di una cosa dall’altra (ad esempio, che la carne derivi dalla terra, la terra dall’aria, l’aria dal fuoco, e così via senza fermarsi) sia per quanto concerne la causa da cui si origina il movimento (ad esempio, che l’uomo è mosso dall’aria, questa dal sole, il sole dalla Contesa, e che di ciò non si dia alcun limite); e allo stesso modo non è possibile che ci sia un processo all’infinito neppure della causa finale, che, cioè, una passeggiata abbia come fine la buona salute, e questa la felicità, e la felicità un’altra cosa, e che così sempre una cosa esista in vista di un’altra; né diversamente avviene a proposito della causa formale. Difatti, in una serie di termini mediani, prima e dopo dei quali ci sia qualche altro termine, necessariamente il termine anteriore è causa di quelli che sono successivi a esso.
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(Metafisica, I, 3, 983a; II, 2, 994a, in op. cit., pp. 11-12, 51)
I quattro tipi di cause (rr. 1-8) Per Aristotele la specificità del sapere filosofico sta nel fatto di essere un sapere causale: chi non pratica la filosofia ha una considerazione dei fenomeni meramente empirica, confinata al che, mentre il filosofo è in grado di pervenire alla conoscenza del perché. Tuttavia, conoscere le cause di una determinata realtà non significa ancora essere filosofi. Il medico conosce le cause delle malattie, il geometra conosce le ragioni per cui le figure geometriche possiedono certe proprietà: questo non fa di loro dei filosofi. La scienza metafisica presuppone, infatti, la conoscenza delle cause generalissime di tutte le forme del reale, indipendentemente dalle particolarità di ciascuna. E queste cause, precisa Aristotele, sono di quattro tipi: formale (spiega come è fatta una determinata sostanza), materiale (spiega di che cosa è fatta tale sostanza), efficiente (spiega chi l’ha fatta) e finale (spiega perché essa è stata fatta). Il carattere finito della catena di cause (rr. 10-21) Per Aristotele un regresso all’infinito non è possibile
nell’ambito di nessuna specie di cause: il numero delle cause deve essere necessariamente finito. In tutte le serie di cause, i termini intermedi (che cioè stanno tra il primo e l’ultimo) sono allo stesso tempo causa dei successivi ed effetto dei precedenti. Se non ci fosse una causa prima, avremmo soltanto un termine ultimo e tutti termini intermedi, il che equivarrebbe a non avere affatto una causa e quindi nemmeno una serie di cause. Aristotele specifica che questo ragionamento, valido per la «derivazione materiale» (r. 12), si applica anche al «movimento» (r. 14): ogni processo di divenire, segnando il passaggio da una cosa a un’altra, ha un termine ben definito. Nemmeno è pensabile un processo all’infinito nell’ambito della causa finale perché il fine è ciò che non è in vista di altro, quindi è un termine ultimo e non può essere concepito in funzione di un fine ulteriore. Se poi nell’ambito della causa formale si ammettesse una serie infinita di definizioni, che rimandino l’una all’altra, si annullerebbe la possibilità stessa del pensare e del conoscere.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Scegli un fenomeno della natura e indicane la causa formale, la causa materiale, la causa efficiente e la causa finale. Se provi a risalire all’origine della catena delle cause riesci a rinvenire una causa prima? Riporta gli esiti della tua piccola indagine in un testo scritto (max 20 righe), in cui argomenti il tuo punto di vista.
TESTI ARISTOTELE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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TESTO
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L’essere come potenza e atto (Metafisica) Dopo avere parlato dell’essere come accidente, dell’essere come categorie e dell’essere come verità, Aristotele conclude la sua esposizione della dottrina della sostanza con l’analisi della quarta e ultima delle accezioni dell’essere: l’essere come potenza e atto.
Un ulteriore Abbiamo finora trattato dell’essere nella sua principale accezione, alla quale si riportano senso tutte le altre categorie dell’essere stesso: abbiamo, cioè, parlato della sostanza (difatti in 2 dell’essere
virtù della nozione di sostanza ricevono il loro appellativo di essere le altre determinazioni, ossia la quantità, la qualità e gli altri termini di tal genere, giacché in tutti questi è con- 4 tenuta la nozione di sostanza, come abbiamo detto nelle prime sezioni del nostro lavoro); ma, tenendo presente che si parla dell’essere non solo nel senso di sostanza o di qualità o 6 di quantità, ma anche secondo potenza e atto […], dobbiamo ora fare le nostre precisazioni in merito alla potenza nella sua accezione fondamentale […]. 8
Che cos’è […] il termine “potenza”, tutte le volte che viene usato in relazione alla sua stessa specie, la potenza prende il suo appellativo in riferimento alla sua accezione principale, ossia come principio 10
di cambiamento in altro o nell’oggetto stesso in-quanto-altro. Una sorta di potenza è quella del patire, che è il principio di un cambiamento passivo nel paziente stesso da parte di un altro o da parte del paziente stesso in-quanto-altro; l’altra sorta di potenza è uno stato nel quale un oggetto non è suscettibile di cambiamento verso il peggio o di distruzione ad opera di un altro o dell’oggetto stesso in-quanto-altro, ossia ad opera di un principio capace di attuare il cambiamento. In realtà, in tutte queste definizioni, è implicito il concetto di potenza nella sua accezione fondamentale. Queste potenze si distinguono, a loro volta, in solamente attive o solamente passive, o anche in potenze dell’agire bene e del patire bene, di modo che, anche nelle nozioni di queste, sono immanenti, in un certo senso, le nozioni di potenza intesa nelle accezioni precedenti. Risulta, pertanto, evidente che la potenza del patire e quella dell’agire sono, sotto un certo profilo, un’unica potenza (infatti una cosa è potente sia per il fatto che essa stessa ha la potenza di subire un’azione sia per il fatto che un’altra cosa ha la potenza di subire un’azione da parte di essa), ma sotto un altro profilo sono diverse.
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Che cos’è l’atto […] dobbiamo adesso trattare dell’atto, definendolo nella sua essenza e nelle sue qualità. […]
È atto l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come diciamo che l’oggetto è in potenza. Noi diciamo che una cosa è in potenza nel senso che, ad esempio, Ermete è presente in potenza nel legno o la semiretta è presente in potenza nella retta intera, perché può essere staccata da questa, e chiamiamo scienziato anche chi non sta contemplando, qualora, però, egli sia capace di contemplare: ma in ben altro senso noi parliamo di presenza attuale! Ciò che qui intendiamo dire risulta evidente per induzione nei casi particolari, e non c’è affatto bisogno che noi ci mettiamo a ricercare la definizione di ogni cosa, ma basta che noi riusciamo a cogliere l’analogia, nel senso che nello stesso rapporto in cui chi sta costruendo è con chi ha la capacità di costruire, anche chi è sveglio è in rapporto con chi sta dormendo, e chi vede con chi, pur avendo la vista, ha gli occhi chiusi, e ciò che è stato separato dalla materia è in rapporto con la materia, e un oggetto confezionato è in rapporto con un altro che non è stato confezionato. Di questi due gruppi diversi di cose il primo è quello che noi dobbiamo considerare attuale, l’altro, invece, dobbiamo considerarlo solo potenziale. (Metafisica, IX, 1, 1045b-1046a; 6, 1048a-b, in op. cit., pp. 251-252 e 260-261)
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE Un ulteriore senso dell’essere (rr. 1-8) Terminata l’analisi della sostanza come la principale delle categorie e, quindi, come significato fondamentale dell’essere, Aristotele si appresta a considerare l’essere anche in quella che egli stesso definisce la sua accezione “operativa”, cioè quella che lo vede protagonista di un passaggio dalla potenza all’atto. Il filosofo inizia quindi la sua esposizione con le definizioni dei due termini fondamentali. Che cos’è la potenza (rr. 9-24) Aristotele chiarisce che nel suo significato più proprio il termine “potenza” indica il principio del cambiamento, sia che si tratti di un passaggio da un ente a un altro ente, sia che si tratti del passaggio di uno stesso ente da una particolare condizione a un’altra. Il filosofo specifica poi che la potenza può essere distinta in potenza del «patire» (r. 12), nel senso di subire un’azione (si pensi al legno che può diventare una statua grazie all’azione dello scultore), e in potenza del “resistere”, nel senso di non tollerare un danneggiamento, una diminuzione o, addirittura, l’annullamento da parte di un altro ente. In entrambi i casi, l’accezione fondamentale della potenza resta la medesima: essa è il principio del cambiamento, cioè la condizione di “possibilità” che connota un ente, aprendolo al divenire un ente
diverso da quello che è. Oltre alla potenza passiva, Aristotele precisa infine che esiste anche la potenza «dell’agire» (r. 21), propria di qualcosa capace di far patire (nel senso sopra illustrato) un altro ente: si pensi, tornando all’esempio precedente, allo scultore il quale, rispetto al legno, può diventare scultore-di-statua. Che cos’è l’atto (rr. 25-39) La definizione dell’atto offerta qui da Aristotele si riferisce al significato “più proprio” del termine, ovvero all’atto inteso come «presenza attuale» (rr. 30-31), cioè come effettivo compimento di una capacità potenziale da parte di un ente. Così, la statua di Ermete non ancora scolpita (e probabilmente presente nella mente dello scultore) è certamente l’atto verso cui tende il legno, ma è atto in senso proprio (presenza attuale) soltanto la statua effettivamente scolpita. Di ciò che intende con l’espressione «presenza attuale» Aristotele non offre una definizione teorica, ma una definizione che egli chiama “induttiva”, dal momento che si basa sull’esperienza. In concreto, il filosofo si limita a enumerare una serie di esempi che possono essere considerati tra loro “analoghi” e ai quali affida il compito di chiarire ciò che egli intende per “potenziale” e per “attuale”.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Aristotele una cosa è in potenza quando in linea di principio potrebbe esistere, ma di fatto non esiste ancora; è in atto, invece, quando esiste realmente. Se dovessi parlare di te prendendo in prestito il linguaggio aristotelico, come definiresti la tua potenza e il tuo atto? (max 20 righe)
La tesi secondo cui la teologia costituirebbe il culmine della dottrina metafisica di Aristotele ha sollevato notevoli discussioni. In particolare, per Werner Jaeger (il quale ha avanzato dubbi di natura filologica, oltre che filosofica) il libro teologico sarebbe un residuo giovanile di platonismo che non avrebbe dovuto essere collocato vicino alla “chiusura” dell’opera e la teologia non rappresenterebbe affatto il vertice della metafisica aristotelica. A sfavore della tesi di Jaeger depongono peraltro i numerosi rimandi alla teologia, la quale apparirebbe dunque come la fase finale della trattazione, preannunciata in svariati luoghi nei libri precedenti.
TESTI ARISTOTELE
La metafisica: l’indagine su Dio
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TESTO
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Il motore immobile
(Metafisica)
IL TESTO NELL’OPERA Dopo avere esposto la sua teoria della sostanza e avere spiegato i concetti di potenza e atto, Aristotele affronta il tema dell’uno e dei suoi significati (libro X). Il libro XI contiene un riassunto di alcuni contenuti dei libri precedenti. Nel libro XII, da cui è tratto il testo proposto di seguito, viene dimostrata l’esistenza del primo motore, a partire dalla riflessione sull’eternità del tempo e del movimento, sulla sostanza sensibile e soprasensibile, sulla potenza e sull’atto. Chiudono la Metafisica i libri XIII e XIV, nei quali Aristotele mostra come la sua dottrina metafisica consenta di superare i limiti da lui riscontrati sia nelle teorie dei pitagorici sia in quelle del suo maestro Platone. Un primo Poiché, come abbiamo visto, ci sono tre specie di sostanze, di cui due sono quelle fisiche e la termotore che è za è la sostanza immobile, dobbiamo ora parlare di quest’ultima e dimostrare che necessaria- 2 eterno
mente esiste una sostanza immobile che è eterna. Infatti le sostanze hanno il primato tra tutte le cose esistenti, e se esse sono tutte corruttibili, tutte le cose sono corruttibili; ma è impossibile 4 che il movimento vada soggetto alla generazione e alla corruzione […], e lo stesso dicasi per il tempo (giacché il prima e il poi non potrebbero esistere se non esistesse il tempo); ragion per cui, 6 come è continuo il tempo, così è continuo anche il movimento, dato che il tempo o si identifica con il movimento o, per meglio dire, è un’affezione di questo. Ma non esiste movimento conti- 8 nuo tranne quello locale, e l’unico movimento locale continuo è quello circolare.
Un primo Ma, sebbene esista una causa motrice e produttrice, se essa non è in-atto, non ci sarà mo- 10 motore che è vimento, giacché ciò che ha la potenza di passare all’atto può anche non passare all’atto. puro atto
[…] Ma c’è di più: pur ammettendo che la causa sia in-atto, parimenti non ci sarà movi- 12 mento, qualora la sostanza di questa causa sia una potenza: difatti, in tal caso, sarebbe impossibile l’eternità del moto, perché ciò che è in-potenza può anche non essere. 14 (Metafisica, XII, 6, 1071b, in op. cit., pp. 351-352)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Un primo motore che è eterno (rr. 1-9) Nel libro XII della Metafisica, il capitolo 1 costituisce un’introduzione sui generi della sostanza, mentre i capitoli 2-5 si occupano della sostanza sensibile, che può essere corruttibile (animali, piante ecc.) e incorruttibile (i cieli). Ora (siamo all’inizio del capitolo 6) è dunque il momento di parlare dell’ultimo genere di sostanza che rimane da esaminare: la sostanza sovrasensibile, che non è soggetta al mutamento. Questa dev’essere necessariamente immobile ed eterna, perché, se così non fosse, non potrebbe costituire la causa ultima di quell’unico movimento che sappiamo essere eterno: il moto circolare degli astri (che Aristotele assume quale dato di fatto inconfutabilmente mostrato
dall’esperienza). Si noti, in queste righe, la sottile analisi della relazione inscindibile che lega il tempo e il movimento, entrambi immaginati come “contenitori” eterni dentro i quali si definiscono tutti i tempi e i movimenti finiti e determinati. Un primo motore che è puro atto (rr. 10-14) All’immobilità e all’eternità della causa di tutti i movimenti Aristotele aggiunge la caratteristica dell’essere-puro-atto: caratteristica necessaria, perché, se la causa prima (la sostanza sovrasensibile immobile) non fosse in atto, non potrebbe porre in atto alcunché, e, se fosse in atto ma nello stesso tempo in potenza rispetto ad altro, avrebbe bisogno di una causa ulteriore capace di porla in atto.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Per spiegare l’esistenza del movimento incorruttibile Aristotele ammette un principio inteso come motore eterno e sempre in atto. Immagina una tavola rotonda su questo tema a cui prendano parte, oltre ad Aristotele, anche Anassagora, Empedocle e Platone. Scrivi uno scambio di battute tra questi filosofi (max 10 righe a intervento).
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 2 le strutture della realtà: la metafisica
TESTO
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Dio come pensiero di pensiero (Metafisica) Nel testo seguente, anch’esso tratto dal libro XII, leggiamo come per Aristotele Dio debba essere soggetto dell’attività più elevata, cioè del pensiero, e debba avere come oggetto l’entità più elevata, cioè sé stesso.
Gli Alcune difficoltà […] si presentano per quanto concerne la natura dell’Intelletto [divino]; interrogativi sembra, infatti, che esso sia il più divino dei fenomeni; ma, quando si voglia spiegare 2 legati alla natura divina questo suo modo di essere, si incontrano alcuni ostacoli. Infatti, se esso non pensa nulla,
in nulla verrebbe a risiedere la sua dignità, ma esso si troverebbe nello stato di un uomo addormentato; se, invece, esso pensa ma pensa qualcosa che sia diversa da se stesso, allora il suo pensiero viene a dipendere da qualche altra cosa, e in tal caso – poiché ciò che costituisce la sostanza dell’intelletto non è pensiero-in-atto, ma potenza di pensiero – esso non potrà essere la migliore delle sostanze, giacché la sua assoluta superiorità è sua proprietà solo in virtù del pensare. Inoltre, tanto nel caso che la sua sostanza si identifichi con l’Intelletto quanto nel caso che si identifichi col pensiero, qual è l’oggetto del pensiero?
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La risposta Questo o pensa se stesso o pensa qualche altra cosa; e, se pensa qualche altra cosa, o pen- 12 aristotelica sa sempre la stessa cosa o pensa cose che sono diverse di volta in volta. […] È chiaro, quin-
di, che esso pensa la cosa più divina e veneranda, e che non muta mai il suo oggetto, per- 14 ché, se questo mutasse, si avrebbe il cangiamento verso il peggio, oltre al fatto che una cosa di tal genere implicherebbe già un movimento. […] 16 Epperò l’Intelletto pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero di pensiero. 18 (Metafisica, XII, 9, 1074b, in op. cit., pp. 365-366)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE La risposta aristotelica (rr. 12-18) Dal momento che Dio è assolutamente immobile, oggetto del suo pensiero è ciò che non muta (che è quanto c’è di più elevato), vale a dire sé stesso. L’atto e l’oggetto dell’intellezione coincidono in forma immediata: la conoscenza di Dio è intuitiva, ossia non ha bisogno di ricorrere alle dimostrazioni e alla discorsività che servono invece agli esseri umani.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Aristotele attribuisce a Dio una vita fatta di pensiero, in cui, a suo avviso, è racchiusa la massima felicità. Qual è la tua opinione in proposito? Esistono, secondo te, altre attività che potrebbero procurare il più alto grado di felicità? Rispondi a queste domande in un testo argomentato (max 30 righe).
TESTI ARISTOTELE
Gli interrogativi legati alla natura divina (rr. 1-11) Dopo aver affermato nel capitolo 7 del libro XII che, poiché pensare è l’attività più elevata, Dio e la sua vita sono intelligenza e pensiero, Aristotele solleva alcune questioni legate a tale definizione. È evidente che Dio, se è pensiero, non può pensare a un puro nulla e che l’intelletto divino, se è la sostanza più eccellente, non può dipendere da qualcosa di superiore. Resta da capire che cosa pensi l’intelligenza divina e quale sia la natura del pensare divino.
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CAPITOLO 3 LE STRUTTURE DEL PENSIERO: LA LOGICA
1. La concezione aristotelica della logica L’analitica Nella classificazione aristotelica delle scienze, la logica non compare: essa, infatti, in
quanto studio dei “discorsi” o dei “ragionamenti” (lógoi) in cui si articola il pensiero, ha per oggetto la forma comune di tutte le scienze, cioè il procedimento dimostrativo o le varie modalità di ragionamento di cui ogni scienza si avvale. Il termine “logica”, peraltro, non è aristotelico, ma di probabile derivazione stoica ( vol. 1B, unità 5, cap. 3). Per designare la propria dottrina del ragionamento, ovvero (come vedremo tra poco) del «sillogismo», Aristotele usa piuttosto il termine analitica , alludendo al proprio metodo di “analisi” o “risoluzione” del ragionamento nei suoi elementi costitutivi. glossario p. 389
L’Órganon Gli scritti di logica sono raggruppati sotto il titolo Órganon, che significa “organo”, “stru-
mento”, ma anche questo termine non è aristotelico. Fu adoperato per la prima volta da Alessandro di Afrodisia (il commentatore di Aristotele per eccellenza) per designare la dottrina logica del filosofo; in seguito, a partire dal VI secolo d.C., passò a indicare l’insieme di tutti gli scritti aristotelici relativi a tale argomento. Secondo un’interpretazione largamente diffusa, servirebbe a sottolineare la funzione propedeutica o introduttiva della logica, intesa come “strumento” di cui si servono tutte le scienze.
I contenuti L’Órganon aristotelico, nell’ordine in cui ci è pervenuto, tratta di oggetti che vanno dal dell’Órganon semplice al complesso e si articola sostanzialmente in:
logica del concetto, sviluppata soprattutto nel libro delle Categorie; logica della proposizione, esaminata soprattutto nel libro Sull’interpretazione; logica del ragionamento, o del sillogismo, trattata soprattutto negli Analitici primi e negli Analitici secondi; nei Topici Aristotele si sofferma invece sul sillogismo dialettico e nelle Confutazioni sofistiche sulle argomentazioni sofistiche.
enciclosofia Alessandro di Afrodisia Nato nella città da cui prende il nome (nell’antica regione della Caria, sulle coste sud-occidentali dell’attuale Turchia), visse tra il II e il III secolo d.C. Formatosi con pensatori aristotelici, probabilmente insegnò a sua volta in una delle scuole filosofiche istituite da Marco Aurelio ad Atene. È l’ultimo tra i commentatori antichi di Aristotele, oltre che autore egli stesso di vari trattati, tra cui i celebri Sul fato e Sulla mescolanza. A lui si deve il nome Órganon con cui ancora oggi indichiamo gli scritti aristotelici di logica.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
Andrea Briosco, rilievo in bronzo raffigurante Aristotele e Alessandro di Afrodisia, XVI secolo, Berlino, Bode-Museum.
2. Il rapporto tra logica e metafisica Gli studiosi si sono chiesti se la logica, in Aristotele, abbia preceduto l’edificazione della metafisica o viceversa, e se debba essere considerata come una costruzione tendenzialmente “formale”, oppure se presupponga uno stretto legame tra i modi del pensiero e i modi della realtà. Per quanto riguarda il primo punto, sembra fondato ipotizzare che le ricerche logiche di L’oggetto Aristotele si siano venute precisando parallelamente al precisarsi delle sue dottrine me- della logica tafisiche, e non prima o dopo di esse. Per quanto concerne il secondo punto, riteniamo che lo Stagirita non abbia voluto fondare la logica nel senso formale e attuale del termine, ossia come una scienza senza oggetto e senza contenuto. Infatti, dal punto di vista di Aristotele, la logica ha un oggetto e tale oggetto è la struttura della scienza in generale, che è poi la struttura stessa dell’essere che è oggetto di tale scienza. Tant’è vero che, per Aristotele, tra le forme del pensiero (studiate dalla logica) e le forme Il primato della della realtà (studiate dalla metafisica) esiste un rapporto necessario. E questo rapporto metafisica sulla logica costituisce il fondamento non soltanto della verità delle forme del pensiero (secondo la prospettiva del realismo gnoseologico già abbracciata da Platone p. 217), ma anche della precedenza ideale della metafisica rispetto alla logica. Questa precedenza, a nostro avviso, è bene che sia rispettata anche sul piano didattico ed espositivo, in quanto un’adeguata comprensione della dottrina aristotelica del sillogismo e della scienza necessita di una preliminare conoscenza della teoria della sostanza, che costituisce la chiave di volta di tutta la metafisica di Aristotele. Tutto ciò spiega perché abbiamo collocato l’esposizione della logica dopo quella della metafisica, e non viceversa.
3. La logica dei concetti Secondo Aristotele (che in questo senso si rifà al pensiero dell’ultimo Platone), gli oggetti La del discorso sono i concetti, i quali possono essere disposti lungo scale gerarchiche che classificazione dei concetti vanno dal più universale al meno universale, dove per “universale” si intende «ciò che può essere per sua natura predicato di più cose» (Sull’interpretazione, 7, 17a, 39). L’ordinamento gerarchico dei concetti coincide così con la loro classificazione mediante un rapporto di genere e specie . Ogni concetto è infatti la specie (cioè una “specificazione” o un certo “contenuto”) di un concetto più universale, e nello stesso tempo è il “genere” (cioè il “contenente”) di un concetto meno universale. Ad esempio, il concetto di “mammifero” è genere rispetto al concetto di “felino”, che a sua volta è specie rispetto a “mammifero”, ma anche genere rispetto a “gatto”. Più precisamente, per Aristotele il genere (dal latino genus, che letteralmente significa “nascita”, “stirpe”, “famiglia”) è «ciò che si predica, circa l’essenza, di una molteplicità di enti che differiscono per specie» (Topici, I, 5, 102a 31-32). Viceversa la specie (dal latino species, “sguardo”, “vista”, ma anche “aspetto”, “sembianza”) risulta «ciò che è situato sotto il genere e a cui il genere è attribuito essenzialmente» (secondo quanto chiarito nel III secolo d.C. dal filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro, commentatore tra l’altro delle Categorie aristoteliche). glossario p. 389 ( T1 p. 394) Rispetto al genere, la specie è un concetto che include un maggior numero di caratteristiche, Comprensione ma che può venir riferito a un minor numero di individui. Viceversa, rispetto alla specie, ed estensione il genere è un concetto che include un minor numero di caratteristiche, ma che può venir
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riferito a un maggior numero di individui. Utilizzando la terminologia dei logici posteriori ad Aristotele, si può dire che la “comprensione” (cioè l’insieme delle qualità o delle caratteristiche che contribuiscono a definire un concetto) e l’“estensione” (il numero degli individui classificabili mediante quel concetto) stanno tra loro in un rapporto inversamente proporzionale, in quanto, arricchendosi l’una, si impoverisce l’altra. Specie infime e Le diverse scale dei concetti, percorse dall’alto verso il basso (cioè nel senso che va dai gegeneri sommi neri alle relative specie), offrono quindi un progressivo aumento di comprensione e una
sostanza
genere
animale
specie
felino
sotto-specie
gatto
specie infima o individuo
il mio gatto Felix
estensione crescente
genere sommo o categoria
comprensione crescente
progressiva diminuzione di estensione, fino a giungere alle cosiddette specie infime , che sotto di sé non hanno altre specie, e che dunque presentano la massima comprensione possibile e la minima estensione possibile. Tali sono gli individui. glossario p. 389 Percorse invece dal basso verso l’alto (cioè nel senso che risale dalle specie ai generi che le comprendono), le scale dei concetti offrono un graduale aumento di estensione e una graduale diminuzione di comprensione, fino ad arrivare ai generi sommi , ovvero a quei concetti che presentano il massimo di estensione e il minimo di comprensione. Tali sono le dieci categorie di cui abbiamo parlato nel capitolo sulla metafisica ( p. 345), che dal punto di vista logico costituiscono i modi generalissimi in cui l’essere si può predicare delle cose. glossario p. 389
Individui Da quanto detto si comprende come per Aristotele tutte le cose “che sono” – ovvero tutti gli sostanziali e enti nel loro complesso, sia fisici sia logici, ciascuno dei quali corrisponde a un concetto – siano non sostanziali
suddivisi in dieci zone categoriali. Ognuna di tali zone presenta una struttura piramidale, al cui vertice si trova una categoria e alla cui base si trovano molteplici individui, mentre nel mezzo ci sono i generi e le specie che servono a classificare e definire gli individui. E poiché, tra le categorie, la sostanza è quella fondamentale, anche la zona d’essere che le corrisponde giocherà un ruolo fondamentale rispetto alle altre. Si avranno così due tipi di individui: gli individui sostanziali, ovvero le specie infime di gerarchie concettuali che al vertice hanno la categoria della sostanza. Tali sono gli individui concreti di cui abbiamo già parlato affrontando la metafisica: i sinoli di materia e forma (Socrate, questo cane, quel tavolo ecc.) che sussistono di per sé e non possono essere predicati di un altro soggetto; gli individui non sostanziali, ovvero le specie infime di gerarchie concettuali che al vertice hanno una categoria che non è quella di sostanza. Tali sono, ad esempio, “il bianco”, “il metro” (rispettivamente afferenti alla categoria della qualità e della quantità), i quali non possono essere predicati di un altro soggetto (non si può affermare che “Socrate è il bianco”), ma non sussistono di per sé (il bianco, per esistere, ha bisogno di un corpo, ovvero di un individuo sostanziale a cui appoggiarsi o inerire).
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
Se gli individui che stanno alla base di scale concettuali afferenti alla categoria di sostanza possono essere distinti da tutti gli altri individui, altrettanto vale per i generi e le specie. Ai generi e alle specie che appartengono alla zona categoriale della sostanza, Aristotele attribuisce addirittura un nome diverso, ovvero «sostanze seconde», distinguendole così dalle «sostanze prime»: le sostanze prime sono gli individui sostanziali già citati, che dal punto di vista ontologico non hanno bisogno di altro per esistere e dal punto di vista logico non possono mai essere predicati di altro. Per usare le parole di Aristotele, le sostanze prime «non sono in un sostrato, né si dicono di un sostrato» (Categorie, 2); le sostanze seconde sono invece le specie e i generi entro cui le sostanze prime sono classificate dal punto di vista logico; ad esempio, l’individuo (o sostanza prima) “Socrate” è compreso nella specie “uomo”, che a sua volta è compresa nel genere “animale”. Aristotele chiarisce che le sostanze seconde «si dicono di un qualche sostrato, ma non sono in alcun sostrato» (Categorie, 2): questo perché non sono individui concreti (come le sostanze prime) ma concetti, enti logici necessari per classificare e definire gli individui sostanziali. E per quanto ritenga giustificato chiamare “sostanze” anche le specie e i generi che servono a classificare le sostanze prime, anti-platonicamente ribadisce che soltanto le sostanze prime, cioè gli individui concreti e impredicabili, sono sostanze in senso proprio. Ciò che primariamente esiste sono le sostanze prime, tant’è vero che, se esse non esistessero, non esisterebbero nemmeno le sostanze seconde. ( T2 p. 396)
)
Per l’esposizione orale
Sostanze prime e sostanze seconde
1. Spiega in che senso la logica aristotelica è “analitica” e “organo”. 2. Definisci il genere e la specie secondo la concezione aristotelica; quindi indica il genere e una possibile specie per i concetti che seguono: uomo, fiore, giovinezza (nel caso del concetto di “letto”, ad esempio, il genere potrebbe essere “mobile” e una possibile specie “letto a castello”). 3. Definisci i «generi sommi» e le «sostanze infime», proponendo, se riesci, almeno un esempio di “scala” che da un genere sommo scenda fino a una sostanza infima. 4. Spiega che cosa sono per Aristotele, rispettivamente, le sostanze prime e le sostanze seconde.
4. La logica delle proposizioni Chiarita la natura dei concetti e delle categorie, Aristotele (nel libro Sull’interpretazione) Proposizioni prende in esame quelle combinazioni di termini che si chiamano “enunciati apofantici”, e giudizi o “dichiarativi” (il verbo greco apopháino significa appunto “dichiaro”), ossia le frasi che costituiscono asserzioni e non già preghiere, comandi, esclamazioni ecc. Secondo Aristotele, infatti, non tutti i tipi di discorso rientrano nell’ambito della logica, la quale riguarda esclusivamente il discorso assertivo o dichiarativo, che è il solo, come vedremo, a poter essere dichiarato vero o falso. Un enunciato dichiarativo è detto anche proposizione . Le proposizioni (termine che deriva dal latino propositio, equivalente al greco próthesis) costituiscono l’espressione verbale dei “giudizi” (come saranno chiamati nei secoli successivi), cioè degli atti mentali con cui uniamo o separiamo determinati concetti nella struttura di base soggetto-predicato che costituisce ogni nostra frase (come nel caso di “il cane è un quadrupede” o “il cane non è un pesce”). glossario p. 389
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I diversi tipi di proposizione e i loro rapporti Proposizioni Aristotele distingue vari tipi di proposizione. Innanzitutto, per quanto concerne la “qualità”, affermative le proposizioni si dividono in affermative e negative, a seconda che uniscano o separino e negative
due concetti tra loro. Ad esempio, la proposizione “il fuoco scalda” (che per Aristotele equivale a “il fuoco è scaldante”, ovvero “il fuoco ha la proprietà del riscaldare”) è una proposizione affermativa, perché unisce il concetto del fuoco con quello del calore; la proposizione “il fuoco non è immobile” è invece una proposizione negativa, perché separa i concetti di “fuoco” e di “immobilità”.
Proposizioni Le proposizioni possono poi essere distinte a seconda della loro “quantità” o estensione: si universali hanno infatti proposizioni universali quando il soggetto è universale, ovvero quando include e particolari
tutti gli individui appartenenti a un certo insieme o a una certa classe (come nel caso di “tutti gli uomini sono mortali”); si hanno invece proposizioni particolari quando il soggetto si riferisce soltanto a una “parte” di una certa classe (come nel caso di “alcuni uomini sono bianchi”). A queste si possono aggiungere le proposizioni singolari, il cui soggetto è un ente singolo (come nel caso di “Callia è un nobile ateniese”).
Il quadrato I rapporti esistenti tra le proposizioni universali (affermative o negative) e le proposizioni logico particolari (affermative o negative) sono illustrati dallo schema riportato di seguito.
Particolare affermativa (alcuni uomini sono bianchi)
I
co nt
rie t to i ddd tra it to n rie co ra d
sub-contrarie
E
Universale negativa (nessun uomo è bianco)
sub-alterne
contrarie
A
sub-alterne
Universale affermativa (tutti gli uomini sono bianchi)
O
Particolare negativa (alcuni uomini non sono bianchi)
Lo schema fu costruito in questa forma (che rispecchia esattamente la dottrina aristotelica) dai logici medievali, i quali lo chiamarono “quadrato degli opposti”. Le proposizioni universali affermative vi compaiono indicate con la lettera A (prima vocale del verbo latino adfirmo, “affermo”); le universali negative con la lettera E (prima vocale del verbo latino nego), le particolari affermative con la lettera I (seconda vocale di adfirmo) e le particolari negative con la lettera O (seconda vocale di nego). Proposizioni Come si vede nello schema, sono dette tra loro contrarie due proposizioni corrispondenti (cioè contrarie, che uniscano o separino gli stessi concetti) di cui una sia in forma universale affermativa e l’altra contraddittorie e sub-contrarie in forma universale negativa (affermare che “tutti gli uomini sono bianchi” è il contrario che af-
fermare “tutti gli uomini non sono bianchi” o, che è lo stesso, che “nessun uomo è bianco). Sono dette invece tra loro contraddittorie due proposizioni corrispondenti di cui una sia in forma universale affermativa e l’altra in forma particolare negativa (l’affermazione “tutti gli uomini sono bianchi” contraddice l’affermazione “alcuni uomini non sono bianchi”), oppure due proposizioni corrispondenti di cui l’una sia in forma universale negativa e l’altra in forma particolare affermativa (“tutti gli uomini non sono bianchi” contraddice “alcuni uomini sono bianchi”). Infine, sono dette tra loro sub-contrarie due proposizioni corrispondenti che siano l’una particolare affermativa e l’altra particolare negativa. glossario p. 390
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
Due proposizioni contrarie, in virtù della loro opposizione, non possono essere entrambe vere; però possono essere entrambe false: è logicamente possibile, ad esempio, che le affermazioni “tutti gli uomini sono bianchi” e “nessun uomo è bianco” siano entrambe false e che la verità risieda esclusivamente nelle proposizioni particolari “alcuni uomini sono bianchi” e “alcuni uomini non sono bianchi”1 . Le proposizioni contraddittorie, invece, si escludono a vicenda, nel senso che, se l’una è vera, l’altra è necessariamente falsa: la contraddittorietà rappresenta quindi la forma più radicale o più forte di opposizione. Infine, le proposizioni sub-contrarie, in virtù della loro debole opposizione, possono essere entrambe vere, ma non entrambe false (è impossibile che nessun uomo sia bianco e che nello stesso tempo alcuni uomini siano bianchi).
Rapporti di verità e falsità tra proposizioni
È detta “subalternità” la relazione (che in questo caso non è di tipo oppositivo) tra l’universa- Le proposizioni le affermativa e la corrispondente particolare affermativa, oppure tra l’universale negativa e la subalterne corrispondente particolare negativa. Le proposizioni subalterne realizzano un rapporto logico di dipendenza di una proposizione particolare (detta “subalternata”) rispetto alla corrispondente proposizione universale (detta “subalternante”): dalla verità dell’universale si inferisce la verità della particolare, mentre dalla verità della particolare non si può inferire la verità dell’universale (se “tutti gli uomini siano bianchi”, allora è necessariamente vero che “alcuni uomini sono bianchi”, ma dal fatto che alcuni uomini siano bianchi non si può ricavare che tutti lo siano). Al contrario, dalla falsità dell’universale non si inferisce la falsità della particolare, mentre dalla falsità della particolare si può inferire la falsità dell’universale. glossario p. 390 Aristotele considera anche il modo in cui avviene l’attribuzione di un predicato a un sog- I modi della getto, ovvero la modalità delle proposizioni, distinguendo tra semplice asserzione (A è B), predicazione possibilità (A è possibile che sia B) e necessità (A è necessario che sia B), e sviluppando a tal proposito una complessa serie di considerazioni logiche e filosofiche.
La concezione della verità Secondo Aristotele, dei termini o dei concetti presi isolatamente (come “uomo”, “bianco”, I due “teoremi” “correre” ecc.) non si può dire né che siano veri né che siano falsi, giacché vera o falsa può sulla verità essere soltanto una qualche loro combinazione o sintesi. Questo significa che la verità o la falsità nascono soltanto con la proposizione e con il giudizio. Da tale considerazione derivano i due “teoremi” fondamentali aristotelici a proposito della verità: il primo è che la verità è nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa (cfr. Metafisica, VI, 4, 1027b, 25 ss.); il secondo è che la misura della verità è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso. Una cosa, cioè, non è bianca perché si asserisce con verità che è tale; ma si asserisce con verità che è bianca, perché essa è tale (Metafisica, IX, 10, 1051b, 5 ss.). In altri termini, per Aristotele la verità (cioè dire o pensare il vero) consiste nel congiungere ciò che è realmente congiunto e nel disgiungere ciò che è realmente disgiunto. E, analogamente, dire o pensare il falso consiste nel congiungere ciò che non è realmente congiunto e nel disgiungere ciò che non è realmente disgiunto.
1. Il caso di due proposizioni tra loro contrarie che siano entrambe false può verificarsi soltanto se il predicato esprime un carattere accidentale del soggetto, e non una proprietà che rientra nella sua essenza (se dico, ad esempio, che “tutti i cani sono quadrupedi”, questa frase non potrà mai essere falsa, perché l’avere quattro zampe fa parte dell’essenza del cane).
379
Linguaggio, È dunque innegabile che tra linguaggio, pensiero ed essere esista, anche secondo Aristopensiero tele, una serie di rimandi necessari. Infatti, se è vero che le parole del linguaggio sono ed essere
convenzionali (tant’è che variano da una lingua all’altra), è anche vero che esse si riferiscono sempre ad «affezioni dell’anima, le quali sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti» (Sull’interpretazione, I, 16a, 5 ss.). La combinazione delle parole è perciò “comandata”, attraverso le nostre rappresentazioni mentali della realtà, dalla combinazione effettiva delle cose alle quali esse si riferiscono: ad esempio, si possono combinare con verità le parole “uomo” e “corre” nella proposizione “l’uomo corre” soltanto se nella realtà l’uomo effettivamente corre. Si può dire, pertanto, che il linguaggio è per Aristotele convenzionale nel suo dizionario, ma non nella sua sintassi.
)
Per l’esposizione orale
1. Definisci le espressioni proposizione, universale, particolare, quadrato logico; quindi utilizzale per esporre le linee fondamentali dell’analisi aristotelica delle proposizioni. 2. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Ritieni anche tu, come Aristotele, che la verità e la falsità risiedano nel pensiero e non nell’essere, cioè nel nostro modo di “pensare” e “dire” le cose? Perché?
5. La logica del sillogismo Che cos’è il Chiarita la natura delle proposizioni, negli Analitici primi Aristotele passa ad analizzare le ragionamento strutture e i modi del ragionamento. Egli ritiene che «Quando noi affermiamo ovvero ne-
ghiamo qualcosa di qualcos’altro, cioè giudichiamo o formuliamo proposizioni, noi non ragioniamo ancora. E nemmeno, ovviamente, noi ragioniamo allorché formuliamo una serie di proposizioni tra loro sconnesse. Noi ragioniamo, invece, quando passiamo dai giudizi, ovvero dalle proposizioni, a proposizioni che siano tra loro collegate da determinati nessi e che siano, in certo qual modo, le une cause di altre, le une antecedenti, le altre conseguenti. Non c’è ragionamento se non c’è questo nesso, questa consequenzialità» (Giovanni Reale).
Il sillogismo e Per Aristotele il ragionamento per eccellenza è il sillogismo (in greco sylloghismós, “calla sua struttura colo”, “connessione di giudizi”, da syn, “con” e lógos, “parola” ma anche “giudizio”), che
egli definisce come:
glossario p. 390
‘
un discorso [un ragionamento] in cui poste talune cose [le premesse] segue necessariamente qualcos’altro [la conclusione] per il semplice fatto che quelle sono state poste. (Analitici primi, I, 1, 24b, 18 ss.)
Facciamo subito un esempio1 per analizzarlo insieme. Premessa maggiore Premessa minore
Tutti gli animali (termine medio)
Tutti gli uomini (termine minore)
Conclusione
Tutti gli uomini (termine minore)
sono mortali (termine maggiore)
sono animali (termine medio)
sono mortali (termine maggiore)
1. L’esempio classico della manualistica (“Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale”) non è precisamente aristotelico. Furono infatti i logici del Medioevo a introdurre nella logica i sillogismi con proposizioni singolari: questi non trovavano posto nella sillogistica di Aristotele, tutta fondata sulle proposizioni universali e particolari, e quindi sull’uso degli operatori “tutti” (ogni) e “qualche” (alcuni).
380
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
Come si può notare, il sillogismo-tipo (ossia, come vedremo più avanti, quello di prima fi- I termini del gura) risulta composto di tre proposizioni, due delle quali (la premessa maggiore e la pre- sillogismo messa minore) fungono da antecedenti e la terza (la conclusione) da conseguente. Nel sillogismo si hanno inoltre tre termini: il termine maggiore (o estremo maggiore), che ha l’estensione maggiore e compare come predicato nella prima premessa; il termine minore (o estremo minore), che ha l’estensione minore e compare come soggetto nella seconda premessa; il termine medio , che ha un’estensione media e si trova in entrambe le premesse, una volta come soggetto e l’altra come predicato. glossario p. 390 Il termine maggiore e il termine minore (cioè i due “estremi”) compaiono anche nella conclusione, dove si presentano uniti tra loro nelle vesti di soggetto (il minore) e di predicato (il maggiore). L’elemento grazie a cui avviene l’unione è il termine medio, che funge appunto da “cerniera” o da elemento connettivo tra gli altri due, e quindi da perno o leva dell’intero sillogismo. Ciò accade perché il termine medio (animale) da un lato risulta incluso nel termine maggiore (mortale) e dall’altro include in sé il termine minore (uomo). Di conseguenza, la VIDEO caratteristica espressa dal termine maggiore (la mortalità), appartenendo al termine me- La funzione del termine dio, apparterrà per forza anche al termine minore. medio Tutto ciò può venir espresso anche mediante una formalizzazione di tipo simbolico, di La cui Aristotele ha fornito un primo notevole esempio costruendo una sorta di “algebra formalizzazione del sillogismo del discorso” che conoscerà i suoi massimi sviluppi con la logica simbolica contemporanea. Infatti, sostituendo i termini del sillogismo con simboli tratti dall’alfabeto (ad esempio con le lettere “A”, “B” e “C”, rispettivamente usate per indicare i termini maggiore, medio e minore), si potrà formalizzare e generalizzare 1 il sillogismo sopra citato come segue: Se A inerisce a tutti i B, e se B inerisce a tutti i C, allora è necessario che A inerisca a tutti i C.2 Oppure: Tutti i B sono A, tutti i C sono B, tutti i C sono A. (dove A = mortale, B = animale, C = uomo)
Il sillogismo costituisce per Aristotele la controparte logico-linguistica dell’articolazione interna della sostanza. Per Aristotele, infatti, il rapporto tra una cosa (ad esempio l’uomo) e una sua determinazione o proprietà (ad esempio l’essere mortale) si può stabilire soltanto sulla base di ciò che quella cosa è necessariamente, cioè sulla base della sua sostanza. Per tornare al nostro esempio, volendo decidere se l’uomo è mortale, non si può che guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non può non essere). In questo senso si dice che
Sillogismo e sostanza, ovvero pensiero ed essere
1. Sebbene per ragioni didattiche si sia fatto precedere l’esempio concreto alla formalizzazione astratta, in linea di principio la formalizzazione astratta precede l’esempio concreto. Del resto, nei trattati aristotelici si trovano pochissimi esempi concreti di sillogismo, il quale perlopiù viene rappresentato con le lettere al posto dei termini. 2. Il sillogismo aristotelico privilegia un modulo espressivo che nella lingua italiana risulta poco funzionale. Infatti, per esprimere i collegamenti tra i termini del ragionamento, Aristotele usa perlopiù il verbo hypárkhein (corrispondente al latino inesse, “inerire”). Ad esempio, invece di esprimere la particolare affermativa nella forma “qualche A è B”, nella maggior parte dei casi Aristotele preferisce la forma “B inerisce a qualche A”, introducendo in tal modo alcune complicazioni riguardo all’ordine delle premesse.
381
la nozione “animale” fa da termine medio del sillogismo, in quanto essa connette la sostanza “uomo” con uno dei suoi caratteri necessari o essenziali (l’essere mortale): l’uomo è mortale perché, e solo perché, è animale. A confermare questo strettissimo rapporto tra pensiero ed essere (e quindi tra logica e ontologia), è lo stesso Aristotele, che nella Metafisica afferma: «il principio di tutto è la sostanza: i sillogismi derivano dall’essenza» (VII, 9, 1034a, 30 ss.). La connessione tra la sostanza e il sillogismo spiega anche perché le premesse di quest’ultimo siano sempre universali: esse devono sempre riferirsi al concetto nella sua totalità, cioè alla sua essenza necessaria, che non ammette eccezioni.
Le figure del sillogismo Le quattro In base alla posizione del termine medio, Aristotele distingue varie «figure» del sillogifigure smo, ossia varie forme o schemi tipici, che esso può assumere:
nella prima figura (rappresentata nel nostro esempio di p. 380) il termine medio è soggetto della premessa maggiore e predicato della minore; nella seconda figura è predicato di entrambe le premesse; nella terza figura è soggetto di entrambe le premesse. A queste figure, che sono quelle fondamentali distinte da Aristotele, se ne può aggiungere una quarta, analizzata e classificata dai logici successivi, nella quale il termine medio (inversamente a quanto succede nella prima figura) è predicato della maggiore e soggetto della minore. Usando le abbreviazioni latine che furono adoperate dai logici posteriori (sub da subjectus, “soggetto”, e prae da praedicatus, “predicato”), le quattro figure descritte si possono schematizzare in questo modo: sub-prae nel caso della prima figura; prae-prae nel caso della seconda figura; sub-sub nel caso della terza figura; prae-sub nel caso della quarta figura.
Esempi Avendo già analizzato un esempio di sillogismo di prima figura, passiamo ora a un esemdi sillogismi di pio di sillogismo di seconda figura: prima, seconda e terza figura
Premessa maggiore
Tutte le pietre (termine maggiore)
Premessa minore
Tutti gli uomini (termine minore)
Conclusione
Tutti gli uomini (termine minore)
non sono animali (termine medio)
sono animali (termine medio)
non sono pietre (termine maggiore)
Ecco ora un esempio di sillogismo di terza figura: Premessa maggiore
Tutti gli uomini (termine medio)
Premessa minore
Qualche uomo (termine medio)
Conclusione
Qualche animale (termine maggiore)
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
sono animali (termine maggiore)
è ragionevole (termine minore)
è ragionevole (termine minore)
I modi del sillogismo Poiché le premesse che formano il sillogismo possono essere affermative o negative, uni- Modi possibili versali o particolari, si avranno varie combinazioni possibili, dette «modi». In particola- e modi validi re, in ogni figura il numero delle combinazioni che si possono ottenere, tenendo conto del numero delle proposizioni che compongono il sillogismo (3) e del numero delle forme che ciascuna proposizione può assumere (4), sarà uguale a 43, vale a dire 64. Inoltre, poiché le figure del sillogismo sono 3 + 1 (4), il numero totale dei modi possibili sarà uguale a 64 × 4, vale a dire 2561 . Aristotele, tuttavia, ritiene che non tutti i modi che sono possibili dal punto di vista combinatorio siano anche validi, cioè concludenti. I sillogismi validi, infatti, per il filosofo sono soltanto 14, e cioè 4 della prima figura, 4 della seconda e 6 della terza (considerando anche la quarta figura, come si farà successivamente, i modi validi saliranno invece a 19). A ciascuno dei modi validi del sillogismo i medievali attribuirono un nome. Eccone l’elen- I nomi dei modi validi co completo: Barbara, Celarent, Darii, Ferio per la prima figura; Cesare, Camestres, Festino, Baroco per la seconda figura; Darapti, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo, Feriso per la terza figura; Baralipton, Celantes, Dabitis, Fapesmo, Frisesomorum per la quarta figura. Questi nomi (che perfino un grande filosofo del XVIII secolo come Immanuel Kant definirà «strani» e «oscuri») non sono affatto arbitrari, ma celano autentiche formule ricche di indicazioni. Le vocali di ciascun nome alludono infatti alla quantità e alla qualità delle premesse (secondo il già noto schema A = universale affermativa, E = universale negativa, I = particolare affermativa, O = particolare negativa). Più precisamente, le prime due vocali si riferiscono, rispettivamente, alla premessa maggiore e alla premessa minore, mentre la terza alla conclusione. Ad esempio, “Barbara” indica il sillogismo di prima figura costituito da due premesse universali affermative (A, A) e da una conclusione anch’essa universale affermativa (A), come nel già citato sillogismo “Ogni animale è mortale, ogni uomo è animale, dunque ogni uomo è mortale”. Analogamente “Cesare” allude a un sillogismo di seconda figura costituito da una premessa universale negativa (E), da una premessa universale affermativa (A) e da una conclusione universale negativa (E), come nel già citato sillogismo “Nessuna pietra è animale, ogni uomo è animale, dunque nessun uomo è pietra”. In ogni caso, secondo Aristotele il sillogismo «perfetto» è quello di prima figura. Tant’è Il sillogismo vero che egli ha fornito anche alcune indicazioni (sviluppate poi dai logici posteriori) sulla perfetto procedura mediante la quale i modi delle varie figure possono essere “ridotti” a quelli di prima figura.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cos’è il sillogismo di cui parla Aristotele, chiarendone la struttura e proponendone un esempio inventato da te. 2. Chiarisci in che senso il sillogismo può avere più “figure” e più “modi”.
1. La casistica dei modi sillogistici fu compilata da Aristotele soltanto fino a un certo punto, e fu poi completata dai logici medievali.
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Il problema delle premesse La distinzione Negli Analitici primi Aristotele studia la struttura del sillogismo da un punto di vista puratra validità mente “formale”, cioè badando esclusivamente alla coerenza interna dei passaggi. Egli è e verità di un sillogismo tuttavia ben consapevole del fatto che la validità di un sillogismo non si identifica con
la sua verità, in quanto un sillogismo, pur essendo logicamente corretto, può partire da premesse false (ovvero non corrispondenti alla realtà) e quindi condurre a conclusioni false. Ad esempio, il sillogismo “Ogni animale è immortale, ogni uomo è animale, dunque ogni uomo è immortale” è formalmente valido, in quanto rispetta pienamente la forma del sillogismo di prima figura (B è A, C è B, C è A); tuttavia esso è falso, perché la premessa maggiore è falsa.
Il sillogismo Negli Analitici secondi Aristotele si sofferma dunque su quel particolare sillogismo che, scientifico oltre a essere formalmente corretto, è anche vero: questo è il sillogismo scientifico, o
dimostrativo , che parte da «premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori a essa e cause di essa» (Analitici secondi, libro I, 2, 71b, 20-25). glossario p. 390
I princìpi Ma come si ottengono queste premesse «vere, prime, immediate» (cioè che non devono esgeneralissimi sere a loro volta dimostrate) e «anteriori» rispetto alla conclusione (cioè più universali di delle scienze
questa), tanto da poterne costituire la spiegazione? Su questo punto centrale della propria dottrina Aristotele non è sempre chiaro. Talvolta sembra che per Aristotele le premesse prime del ragionamento scientifico si identifichino con i postulati delle varie scienze, ovvero con i princìpi che, ad esempio, il matematico o il fisico assumono come auto-evidenti, e quindi come basi per le loro dimostrazioni (si pensi ai postulati della geometria euclidea). Altre volte sembra che si tratti degli assiomi , cioè di princìpi ancor più generali, proposizioni auto-evidenti, o intuitivamente vere, che possono risultare comuni a più scienze o addirittura a tutte le scienze (ad esempio “se da due oggetti uguali si sottraggono parti uguali, i resti sono uguali”). Tali sono anche i princìpi logici generalissimi che abbiamo già analizzato parlando della metafisica ( p. 342): il principio di non-contraddizione (se l’affermazione A è vera, allora non-A è necessariamente falsa); il principio di identità , secondo cui ogni cosa è uguale a sé stessa (A = A); il principio del terzo escluso , secondo cui, di due proposizioni tra loro contraddittorie, una è necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa (o è vero che A è B, o non è vero che A è B), e non si dà una terza possibilità (tertium non datur). glossario p. 391
Le definizioni Questi princìpi logici generalissimi, pur rappresentando la condizione necessaria di ogni
ragionamento, non risultano sufficienti ai fini della costruzione del sapere concreto, in quanto da soli non possono costituire le premesse per raggiungere alcuna verità particolare. Occorre dunque che siano affiancati dai princìpi auto-evidenti a cui abbiamo accennato sopra (gli assiomi), da alcune ipotesi relative al genere d’essere su cui verte ogni scienza (i postulati) e infine da una lista di definizioni che enunciano l’essenza di ciò di cui si sta parlando. Una definizione si ottiene predicando di un concetto (ad esempio del concetto “uomo”) il suo genere prossimo (ad esempio “animale”) e la sua differenza specifica (ad esempio “ragionevole”). Le definizioni cercano cioè di focalizzare quella nota particolarissima (la differenza specifica, appunto) che serve a individuare un tipo di ente nella sua peculiarità. glossario p. 391
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
Poiché la definizione presuppone sempre un genere prossimo entro cui possa rientrare un determinato concetto, è interessante notare che le categorie, in quanto generi sommi, sono per Aristotele indefinibili. Lo stesso vale per quella nozione trans-generica e trans-specifica per eccellenza che è il concetto di “essere”. In ogni caso, se il problema delle premesse si concretizza in quello delle definizioni, come Il procedimento induttivo si otterranno, a loro volta, queste ultime? e i suoi limiti Aristotele sembra risolvere questo problema ricorrendo all’ induzione , ossia a quel procedimento (che abbiamo già incontrato parlando di Socrate p. 164) grazie al quale da più casi particolari si ricava un’affermazione universale. Un esempio di ragionamento induttivo potrebbe essere il seguente: “fino ad ora ho visto molti corvi e tutti erano neri; quindi tutti i corvi sono neri”. glossario p. 391 L’induzione, tuttavia, perviene a una conclusione che non può essere considerata necessariamente valida (perché, per riprendere l’esempio appena fatto, nulla mi assicura che i corvi che vedrò in futuro saranno tutti neri); essa, dunque, è priva di autentico valore dimostrativo, in quanto, per essere “perfetta”, dovrebbe contemplare tutti i casi possibili, cosa ovviamente inverosimile. In altre parole, limitandosi a registrare ciò che si è constatato di fatto, senza spiegare perché le cose stiano (necessariamente) così, l’induzione non riesce ad attingere l’universale, ma soltanto il cosiddetto “universale perlopiù”, ossia un tipo di universale di cui non si può mai essere completamente sicuri. Un altro tipo di ragionamento che potrebbe costituire la via per ottenere proposizioni vere Il procedimento è la deduzione , che si identifica con il procedimento sillogistico e che consiste nel ricava- deduttivo e i suoi limiti re affermazioni particolari da premesse generali. Ad esempio, la proposizione “Socrate è mortale” è vera perché dedotta dalla proposizione “tutti gli uomini sono mortali”: in quanto uomo, infatti, Socrate è mortale. glossario p. 391 Ma su che cosa si fonda la verità della proposizione generale che asserisce la mortalità di tutti gli uomini? È necessaria una proposizione ancora più generale: “tutti gli animali sono mortali”, poiché soltanto alla luce di quest’ultima possiamo affermare che l’uomo, in quanto animale, è mortale. Ma a questo punto il problema precedente si pone di nuovo: da dove ricaviamo la proposizione che afferma la mortalità di tutti gli animali? Ovviamente da una proposizione più generale: “ogni vivente è mortale”, e così via. Siamo dunque di fronte a un’alternativa: o ci rassegniamo a un processo all’infinito, alla ricerca di proposizioni sempre più generali, o dobbiamo postulare alcune proposizioni che assumiamo come vere senza dimostrare che siano tali. Come l’induzione, dunque, anche la deduzione presenta dei limiti strutturali.
La scienza tra esperienza e intuizione Ma se tanto l’induzione quanto la deduzione presentano limiti insuperabili, allora, torniamo a chiederci, da dove si ricavano le definizioni che fungono da premesse “prime” per i sillogismi dimostrativi o scientifici? Secondo Aristotele esse derivano dalla medesima facoltà da cui derivano gli assiomi, ossia L’intuizione intellettiva dall’ intelletto e dal suo specifico potere di intuizione: glossario p. 391
‘
il principio della dimostrazione non è una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza. Ed allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. Così […] l’intuizione risulterà il principio del principio […]. (Analitici secondi, libro II, 19, 100b, 10-17)
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In altri termini, «come Platone, anche Aristotele credeva che noi otteniamo ogni conoscenza, in ultima analisi, da un’apprensione intuitiva delle essenze delle cose» (Karl R. Popper). Il ruolo Certo, l’intuizione intellettiva non può prescindere dall’esperienza, dal momento che non è dell’esperienza una facoltà naturale e innata, ma qualcosa che si forma gradualmente, attraverso l’esercizio rispetto all’intuizione e l’osservazione dei casi particolari (induzione). Ciò non significa, tuttavia, che l’esperienza
sensibile e l’induzione siano in grado di cogliere – di per sé stesse – l’essenza delle cose. La generalizzazione a cui perviene l’induzione può infatti essere trasformata in autentica intuizione dell’universale soltanto grazie a un atto intellettivo, mediante il quale si coglie una “verità”. Detto altrimenti, l’esperienza e l’induzione hanno nei confronti dell’intelletto un valore sussidiario o preparatorio, ma non sostitutivo, in quanto rappresentano il mezzo o lo stimolo (potremmo dire “la scintilla”) che mette in moto l’intuizione. Tant’è vero che in alcune circostanze è sufficiente l’osservazione anche di un solo caso per carpirne l’essenza. Normalmente, come mostrano gli studi fisici di Aristotele, è comunque l’esperienza di più casi che permette all’intelletto di cogliere l’universale: ad esempio, dopo aver osservato in più occasioni che gli animali muoiono (universale “perlopiù”), si può arrivare a comprendere, per intuizione intellettiva, che la mortalità è componente essenziale dell’animalità (universale “del sempre”) e procedere quindi alla formulazione di un enunciato definitorio (del tipo “tutti gli animali sono mortali”) che possa fungere da premessa maggiore di un sillogismo scientifico.
La scienza A questo punto risulta evidente che per Aristotele la scienza si configura come un sapere
TEST DI LOGICA
delle essenze, fondato su un atto di intuizione intellettuale che opera a contatto con l’esperienza. glossario p. 391 Tale sapere, che coincide con la conoscenza della causa o del “perché” ultimo e necessario degli oggetti (cioè con la conoscenza della loro sostanza), fa tutt’uno con la dimostrazione, intesa appunto come l’esplicitazione ragionata e conseguente, tramite la macchina del sillogismo, di una sostanza e delle sue proprietà. Pertanto, come ha scritto il filosofo contemporaneo Karl Popper (1902-1994), «possiamo dare una corretta descrizione dell’ideale aristotelico di conoscenza perfetta e completa dicendo che egli considerava come fine ultimo di ogni indagine la compilazione di un’enciclopedia contenente le definizioni intuitive di tutte le essenze, vale a dire i loro nomi insieme con le loro formule definienti; e che egli riteneva che il processo della conoscenza consistesse nella graduale accumulazione di una simile enciclopedia, nell’estenderla […] e, naturalmente, nella deduzione sillogistica da essa dell’intero corpus di fatti che costituiscono la conoscenza dimostrativa».
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Per l’esposizione orale
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1. Qual è la differenza tra un sillogismo corretto o valido e un sillogismo vero? e qual è il nome attribuito da Aristotele a quest’ultimo? 2. Quali sono i princìpi logici generalissimi, validi per tutte le scienze, individuati da Aristotele? 3. Spiega che cosa sono il genere prossimo e la differenza specifica; quindi prova a utilizzare queste nozioni per definire un concetto (ad esempio “matita”). 4. Illustra la differenza tra induzione e deduzione, e chiariscine il ruolo nella dottrina aristotelica della conoscenza. (Non tralasciare di specificare con quale facoltà si può comprendere se le premesse di un sillogismo scientifico sono vere.) 5. RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione aristotelica della scienza come tipo di sapere che procede non soltanto per ragionamenti (deduttivi e induttivi), ma anche grazie all’intuizione. Sei d’accordo con questa idea? qual è, a tuo avviso, il ruolo dell’intuizione o della “genialità” nell’indagine degli scienziati?
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
6. La dialettica Come si è detto, la teoria del sillogismo è esposta da Aristotele negli Analitici primi e negli Analitici secondi. I Topici sono invece dedicati allo studio della dialettica. La dialettica è per Aristotele l’ambito dei ragionamenti che si fondano su un procedimento razionale ma non dimostrativo, ovvero sul cosiddetto sillogismo dialettico . Essa si distingue dalla scienza per la natura dei suoi princìpi: mentre i princìpi della scienza sono necessari, cioè assolutamente veri, i princìpi della dialettica sono soltanto probabili, nel senso che risultano «accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illustri» (Topici, I, 1, 100b, 20-25). A differenza di Platone, che vedeva nella dialettica la scienza più alta, propria del filosofo che mette in discussione i princìpi di tutte le altre scienze, Aristotele scorge dunque nella dialettica soltanto un ragionamento “debole”, cioè un ragionamento che non arriva a conclusioni necessarie, perché parte da premesse che sono soltanto probabili. glossario p. 391
La “debolezza” del ragionamento dialettico
I ragionamenti dialettici possono essere formulati allo scopo di esercitarsi nell’arte di ra- Problemi e ragionamenti gionare, oppure si possono ritrovare nell’oratoria forense o politica. eristici Nell’ambito della dialettica trovano sede i problemi, giacché questi, essendo costituiti da domande che possono avere due risposte contraddittorie, non nascono né dove sia possibile dedurre conseguenze necessarie da premesse necessarie (come accade nella scienza), né a proposito di ciò che a nessuno appare accettabile, ma proprio in quella sfera del probabile che appartiene alla dialettica. Aristotele si preoccupa di classificare anche i sillogismi eristici dei sofisti, cioè quei ragionamenti le cui premesse non sono né necessarie (come quelle della scienza) né probabili (come quelle della dialettica), ma soltanto apparentemente probabili.
7. La retorica Se la dialettica è l’arte di produrre discorsi probabili, la “retorica” è per Aristotele l’arte ge- L’ambito e nerale (ovvero non specifica di alcun ambito della conoscenza) di produrre discorsi con- lo strumento della retorica vincenti, ovvero capaci di persuadere l’ascoltatore:
‘
Definiamo dunque la retorica come la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere. […] La retorica sembra poter scoprire ciò che persuade, per così dire, intorno a qualsiasi argomento dato; perciò affermiamo che essa non costituisce una (Retorica, 1355b 25-34) tecnica intorno a un genere proprio e determinato.
Anche le argomentazioni retoriche (come quelle dialettiche) partono da premesse probabili, ma spesso non sono scandite esplicitamente nei diversi passaggi, poiché questi, per la loro ovvietà, possono essere omessi. Questo tipo di ragionamento, o sillogismo, in cui una premessa viene omessa, è detto entimèma . glossario p. 391 Come la dialettica, la retorica appartiene dunque all’ambito del probabile, ovvero della co- Il ruolo noscenza diffusa e non scientifica, ma, a differenza della dialettica, non utilizza soltanto delle emozioni nella retorica argomenti di tipo razionale. Infatti le argomentazioni usate dai retori non possono prescindere dal contesto e dall’uditore, che è chiamato a farsi trascinare dal flusso del discorso. Questo significa che la retorica deve tener conto non solo e non tanto del rigore dimostrativo dei propri ragionamenti, ma anche e soprattutto degli aspetti emozionali di chi ascolta, i quali invece non hanno spazio alcuno nella dimostrazione.
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La parziale La retorica ha una destinazione concreta, di matrice politica, che Aristotele pone in pririvalutazione mo piano rispetto agli altri usi possibili: della retorica La sua funzione riguarda argomenti intorno ai quali deliberiamo e intorno ai quali non abbiamo arti, e di fronte a uditori che non sono in grado di trarre un’inferenza da molti (Retorica, 1357a 1-3) elementi, né di ragionare alla lontana.
‘
Possiamo dunque affermare che Aristotele assume una posizione intermedia tra la pratica dei sofisti e la rifondazione della retorica proposta da Platone nel Fedro. Infatti, se da un lato egli sottolinea la debolezza dimostrativa dei procedimenti e dei discorsi retorici (poiché mediante un entimèma si può sostenere una tesi e anche convincere, ma non dimostrare), dall’altro riprende lo sforzo platonico di abbandonare una retorica fatta di parole ingannatrici e vuote. Questa rivalutazione, almeno parziale, della retorica si fonda sulla convinzione che comunicazione e argomentazione sono entrambe connaturate alla razionalità umana, tanto che quando si riesca a far prevalere il vero e il giusto mediante il discorso argomentato, si realizza quella che per l’umanità costituisce una finalità naturale.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cos’è la dialettica per Aristotele, chiarendo in che senso si distingue sia dalla scienza sia dai ragionamenti eristici. 2. Spiega che cos’è la retorica per Aristotele, illustrandone le finalità. 3. RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione platonica della retorica e la sua rivalutazione operata da Aristotele: quale di queste due posizioni condividi maggiormente? per quali motivi?
Per una comunicazione corretta
EDUCAZIONE CIVICA
Distinguendo tra ragionamenti dimostrativi (basati su premesse vere) e ragionamenti non dimostrativi (basati su premesse soltanto probabili, o che appaiono tali senza esserlo), Aristotele sembra mettere in guardia contro la possibilità di discorsi “scorretti”, che, al fine di persuadere gli uditori o i lettori, propongono informazioni distorte, facendo leva sull’inconsapevolezza o sugli stati emotivi delle persone. Il problema evidenziato da Aristotele è di grande attualità, soprattutto se si considera l’enorme quantità di dati, informazioni e notizie oggi presenti in Rete, la cui attendibilità è spesso difficile da controllare. • Esamina la Legge 92 del 20 agosto 2019 (che istituisce l’insegnamento trasversale dell’educazione civica nelle scuole italiane), e in particolare l’articolo 5, dedicato all’«educazione della cittadinanza digitale». Quali sono le «conoscenze digitali essenziali» previste dalla normativa per educare a un corretto utilizzo delle tecnologie digitali, nonché a una comunicazione rispettosa dell’altro e della verità?
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO CAPITOLO 3 LE STRUTTURE DEL PENSIERO: LA LOGICA
i quali coincidono con gli individui. All’interno di ogni scala, tra i vari livelli c’è un rapporto di
• genere e specie
(rispettivamente, dal latino genus, “stirpe”, “famiglia”, e species, “aspetto”, “sembianza”) il ruolo svolto, rispettivamente, da un concetto più generale e da uno meno generale compreso nel primo; ad esempio, “poligono” è genere di “quadrilatero”, che è specie rispetto a “poligono” ma genere rispetto a “quadrato”.
Viste nel loro insieme, le varie scale dei concetti hanno quindi alla loro base una
• specie infima
L’analitica e il suo oggetto Nella classificazione aristotelica delle scienze, la logica – intesa come lo studio dei “discorsi” o dei “ragionamenti” (lógoi) che costituiscono il pensiero – non compare, poiché essa non studia un oggetto specifico, bensì la forma comune a tutte le scienze, ovvero le modalità dimostrative di cui tutte le scienze devono avvalersi. Neppure il termine “logica” è di Aristotele, il quale parla piuttosto di
• analitica
(dal greco análysis, “analisi”, a sua volta derivato dal verbo analýo, “sciolgo”, “risolvo”) il processo di analisi mediante il quale Aristotele “risolve” il discorso e il ragionamento nei loro elementi costitutivi.
Gli scritti aristotelici di logica sono raggruppati sotto il titolo Órganon, “strumento”, nome che probabilmente allude alla funzione propedeutica e strumentale che la logica svolge nei confronti di tutte le scienze. In particolare, gli elementi del pensiero studiati nell’Órganon sono: i concetti, analizzati nelle Categorie; le proposizioni, analizzate in Sull’interpretazione; le varie forme di ragionamento (che Aristotele chiama «sillogismo»: v. oltre), analizzate negli Analitici primi e secondi, nei Topici e nelle Confutazioni sofistiche.
I concetti Aristotele ritiene che i concetti possano essere ordinati secondo la loro maggiore o minore universalità, in un sistema di scale gerarchiche che vanno dai concetti più generali (oggi diremmo con “estensione” massima e “comprensione” minima) ai concetti più particolari (con estensione minima e comprensione massima),
una specie che non ha altre specie sotto di sé, in quanto presenta la massima comprensione e la minima estensione possibili, finendo per coincidere con un individuo.
Nel mezzo delle scale concettuali ci sono i generi e le specie, mentre al vertice i
• generi sommi
concetti che, presentando la massima estensione possibile e la minima comprensione possibile, coincidono con le dieci categorie, ovvero con i dieci modi generalissimi di predicazione dell’essere.
La totalità dei concetti (e quindi degli enti) è dunque suddivisa in dieci zone categoriali, la più importante delle quali è quella afferente alla categoria della sostanza: all’interno di tale regione dell’essere, le gerarchie concettuali hanno alla loro base individui di tipo sostanziale o «sostanze prime» (gli individui concreti, sinoli di materia e forma), e nei loro intermedi tutta una serie di «sostanze seconde», che sono i generi e le specie che servono a classificare le sostanze prime.
Le proposizioni I concetti sono gli elementi costitutivi della:
• proposizione
(dal latino propositio, equivalente al greco próthesis) enunciato dichiarativo (o apofantico), ovvero espressione linguistica di senso compiuto che afferma o “dichiara” qualcosa, potendo dunque essere vera o falsa; costituisce l’equivalente verbale di quello che nei secoli successivi sarà chiamato “giudizio”, inteso come unione o separazione di due concetti.
Le proposizioni sono classificate da Aristotele secondo la qualità in affermative e negative, e secondo la quantità in universali, particolari e singolari, a seconda che il soggetto sia costituito da un’intera classe (ad esempio “tutti gli uomini”), da alcuni elementi di una classe
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(ad esempio “qualche uomo”) o da un singolo individuo (ad esempio “Socrate”). Aristotele studia inoltre i rapporti di verità e di falsità che intercorrono tra questi diversi tipi di proposizione, distinguendo tra:
• proposizioni contrarie
una proposizione universale affermativa e la sua corrispondente universale negativa (“tutti gli uomini sono bianchi” e “tutti gli uomini non sono bianchi” o, che è lo stesso, “nessun uomo è bianco”). Due proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false;
• proposizioni
contraddittorie una proposizione universale affermativa e la sua corrispondente particolare negativa (“tutti gli uomini sono bianchi” e “alcuni uomini non sono bianchi”); oppure una proposizione universale negativa e la sua corrispondente particolare affermativa (“nessun uomo è bianco” e “qualche uomo è bianco”). Due proposizioni contraddittorie non possono essere né entrambe vere né entrambe false;
• proposizioni sub-contrarie
una proposizione particolare affermativa e la sua corrispondente particolare negativa (“alcuni uomini sono bianchi” e “alcuni uomini non sono bianchi”). Due proposizioni sub-contrarie possono essere entrambe vere, ma non entrambe false;
• proposizioni subalterne
una proposizione universale affermativa e la sua corrispondente particolare affermativa (“tutti gli uomini sono bianchi” e “alcuni uomini sono bianchi”); oppure una proposizione universale negativa e la sua corrispondente particolare negativa “nessun uomo è bianco” e “alcuni uomini non sono bianchi”). In questo caso, dalla verità della proposizione universale si inferisce la verità della particolare, mentre dalla verità della particolare non si può inferire la verità dell’universale; al contrario, dalla falsità della particolare si può inferire la falsità dell’universale, mentre dalla falsità dell’universale non si può inferire la falsità della particolare.
I sillogismi Le proposizioni si collegano nel ragionamento. Per Aristotele, infatti, ragionare significa collegare una serie di proposizioni in modo che le une siano causa (antecedenti) delle altre (conseguenti). Il ragionamento per eccellenza è il
• sillogismo
(dal greco syn, “con”, e lógos, “discorso”) forma di discorso che concatena o “mette insieme” tre proposizioni, in modo che da due premesse (l’una “maggiore” e l’altra “minore”) si possa ricavare una conclusione.
390
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
I concetti presenti nelle proposizioni, e da queste messi in collegamento, sono detti:
• termine maggiore, o estremo maggiore
il concetto che ha l’estensione maggiore; compare nella premessa maggiore (come soggetto o come predicato) e nella conclusione (come predicato);
• termine minore, o estremo minore
il concetto che ha l’estensione minore; compare nella premessa minore (come soggetto o come predicato) e nella conclusione (come soggetto);
• termine
medio un concetto che ha un’estensione media tra quelle del termine maggiore e del termine minore; compare (come soggetto o come predicato) sia nella premessa maggiore sia in quella minore e costituisce il “perno” dell’intero sillogismo.
A seconda della posizione del termine medio nella premessa maggiore e nella premessa minore, Aristotele distingue tre «figure» di sillogismo, le quali a loro volta, a seconda che le premesse e la conclusione siano proposizioni affermative o negative, universali o particolari, danno luogo a decine di combinazioni possibili, dette «modi» del sillogismo. E tra questi, stando all’analisi di Aristotele, se ne possono distinguere 14 (su 64 possibili) validi.
La ricerca scientifica della verità Quando un sillogismo è non soltanto valido (cioè formalmente corretto) ma anche vero (cioè porta a conclusioni che rispecchiano la realtà dei fatti), allora si ha un
• sillogismo scientifico, o dimostrativo
il tipo di sillogismo valido e vero su cui si fondano le scienze; un sillogismo è tale soltanto quando parte da premesse vere. Le premesse vere da cui devono partire le catene dimostrative di tutte le scienze sono identificabili con i «postulati» e con gli «assiomi»:
• postulato
letteralmente, “ciò che è richiesto” (dal verbo latino postulare, “chiedere”); affermazione generale assunta come vera all’interno di una certa disciplina scientifica (si pensi ai cinque postulati della geometria euclidea);
• assiomi
(dal greco axíoma, che a sua volta deriva da áxios, “degno”, “valido”) princìpi considerati auto-evidenti, ovvero proposizioni comuni a più scienze (o addirittura a tutte) che non possono essere dimostrate, ma che devono essere assunte come vere e come punti di partenza per dimostrare altre proposizioni.
Oltre ai postulati e agli assiomi, possono fungere da premesse di sillogismi scientifici anche i princìpi logici generalissimi, che per Aristotele valgono necessariamente per tutte le scienze, dal momento che coincidono con i princìpi supremi della scienza dell’essere (la metafisica o filosofia prima):
mente vere, a patto che le premesse generali di partenza siano anch’esse vere. Tali sono i princìpi logici, gli assiomi e le proposizioni che si riferiscono alle essenze delle cose, le quali possono essere colte mediante un atto di intuizione, ovvero mediante:
• principio di identità
Il sapere scientifico è dunque il frutto di un procedimento dimostrativo che si basa sia sull’esperienza sia sull’intuizione, e che coincide con la conoscenza delle essenze, secondo la seguente definizione:
• principio di non contraddizione «il più saldo di tutti i princìpi», ovvero l’assioma fondamentale di tutto il sapere, secondo cui, se una proposizione A è vera, allora la sua negazione (non-A) è necessariamente falsa; il principio secondo cui ogni ente (o concetto) è uguale a sé stesso (A = A);
• principio del terzo escluso
il principio secondo cui, di due proposizioni tra loro contraddittorie, una è necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa, senza alcuna possibilità di una “terza” via.
Oltre che di tutti questi princìpi, ogni scienza ha bisogno anche di
• definizioni
la compiuta caratterizzazione dei concetti fondamentali indagati dalle diverse scienze; per Aristotele le definizioni sono “formule” che illustrano l’essenza di un concetto (ad esempio “uomo”) mediante il suo «genere prossimo» (v.) e la sua «differenza specifica» (v.):
• genere prossimo
il concetto più generale a cui il concetto oggetto di definizione (“uomo”) può essere ricondotto (ad esempio “animale”);
• differenza specifica
ciò che, nell’ambito di un genere, distingue una specie dall’altra (ad esempio la “razionalità”, in quanto caratteristica che identifica l’uomo in rapporto alle altre specie animali).
Le definizioni si ricavano mediante un forma di ragionamento detto
• induzione
tipo di ragionamento «che dagli oggetti singoli porta all’universale» (Topici, I, 12, 105a, 11-15), ovvero che dall’osservazione di più casi particolari ricava un’affermazione generale.
L’induzione è priva di autentico valore dimostrativo, perché le affermazioni generali a cui perviene potrebbero essere smentite dall’esperienza futura. Accanto al procedimento induttivo, che porta a conclusioni soltanto probabili, o valide “perlopiù”, la scienza ricorre alla
• deduzione
tipo di ragionamento che va da premesse universali o generali a conclusioni particolari.
La deduzione (che in Aristotele coincide con il procedimento sillogistico) porta a conclusioni necessaria-
• l’intelletto
(in greco noús) in Aristotele, la generica facoltà «per cui l’uomo ragiona e comprende», ma anche la particolare capacità o facoltà di “intuire” i princìpi delle dimostrazioni, ovvero gli assiomi e le definizioni delle essenze che stanno alla base delle scienze.
• scienza
(in greco epistéme) in Aristotele, la conoscenza del “perché” ultimo e necessario delle cose, ovvero delle essenze o sostanze dei vari enti.
La dialettica e la retorica Accanto al sillogismo scientifico o dimostrativo, Aristotele analizza il
• sillogismo dialettico
tipo di ragionamento non dimostrativo, in quanto non parte da premesse vere ma soltanto probabili, ossia da premesse che non sono auto-evidenti come gli assiomi, ma appaiono comunque accettabili «a tutti, oppure alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illustri» (Topici, I, 1, 100b, 20-25).
Utili soprattutto nell’arte forense o politica, i sillogismi dialettici sono forme “deboli” di ragionamento, esattamente come i sillogismi eristici, le cui premesse non sono né vere né probabili, ma soltanto apparentemente probabili. Un’ultima forma di ragionamento “debole” analizzata da Aristotele è
• l’entimèma
(in greco enthýmema, letteralmente “pensiero”, riflessione”, dal verbo enthyméomai, “rifletto”) il procedimento argomentativo tipico della retorica; si basa su premesse probabili (come il sillogismo dialettico), che tuttavia talvolta vengono omesse in ragione della loro ovvietà.
Essendo finalizzata non tanto alla soluzione di problemi (come la dialettica), quanto a persuadere l’interlocutore o gli uditori, la retorica non fa leva soltanto su considerazioni razionali, ma anche su elementi capaci di toccare le corde emotive di chi ascolta.
391
MAPPE
CAPITOLO 3 LE STRUTTURE DEL PENSIERO: LA LOGICA
LA LOGICA studia
è chiamata da Aristotele
le modalità di ragionamento e dimostrazione
analitica
che sono
perché
comuni a tutte le scienze
“analizza” gli elementi del discorso o del ragionamento: concetti proposizioni sillogismi
I CONCETTI sono
gli elementi costitutivi delle proposizioni e possono essere ordinati
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per genere e specie
in scale gerarchiche
a seconda della
con
maggiore o minore universalità
al vertice i generi sommi dell’essere = le categorie nel mezzo le sostanze seconde = i generi e le specie in cui rientrano gli individui alla base le specie infime = le sostanze prime, ovvero gli individui concreti
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
LE PROPOSIZIONI sono
enunciati apofantici o dichiarativi che si distinguono
che sono legati da
secondo la qualità dell’affermazione
secondo la quantità del soggetto
precisi rapporti di verità e falsità
in
in
a seconda che siano tra loro
proposizioni affermative proposizioni negative
proposizioni universali proposizioni particolari proposizioni singolari
contrarie sub-contrarie contraddittorie subalterne
I SILLOGISMI sono
ragionamenti che partono da premesse e arrivano a conclusioni e si distinguono in
sillogismi scientifici o dimostrativi = sillogismi sia validi sia veri in quanto
sillogismi dialettici = argomentazioni razionali basate su premesse probabili
sillogismi eristici = argomentazioni razionali basate su premesse solo apparentemente probabili
sillogismi retorici (entimèmi) = argomentazioni volte a persuadere, basate su premesse probabili (che talvolta vengono omesse) e attente alle emozioni dell’interlocutore
basati su premesse vere: princìpi e assiomi (proposizioni autoevidenti e intuitive, talvolta comuni a più scienze o addirittura a tutte) definizioni (dei concetti di ogni scienza, ricavate mediante induzione)
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CAPITOLO 3 LE STRUTTURE DEL PENSIERO: LA LOGICA La logica come base di ogni tipo di indagine
Per inquadrare in modo corretto la logica di Aristotele è bene ricordare che all’epoca del filosofo non esisteva nulla di analogo alla nostra logica formale: la sua “analitica” muove da un interesse non tanto “logico” in senso stretto (rivolto agli elementi del linguaggio e al problema del loro significato) quanto “gnoseologico”. Essa, cioè, analizza il linguaggio (o, meglio, il discorso) in quanto veicolo del pensiero, e non del pensiero in generale (oggetto della psicologia), ma del pensiero che conosce, e che quindi perviene ad affermazioni che possono essere distinte in vere o false. In questo senso, da un lato tutte le leggi logiche (tutti i princìpi) hanno come base autoevidente il principio di non-contraddizione (presupposto implicito di ogni corretto ragionare), e dall’altro la scienza, in tutte le sue articolazioni, utilizza lo stesso strumento: il sillogismo dimostrativo, il quale è una concatenazione di proposizioni che, a loro volta, sono legami predicativi tra concetti. TESTO
1
I quattro tipi di predicazione (Categorie) IL TESTO NELL’OPERA Gli scritti di Aristotele che espongono le regole e le tecniche per ben ragionare sono stati raggruppati da Andronico di Rodi nell’Órganon, opera considerata da molti studiosi come l’atto di nascita della logica occidentale. Ciascuno di tali scritti approfondisce una delle sezioni in cui si può dividere l’analitica aristotelica, a seconda dell’oggetto preso in esame: i concetti, le proposizioni e i ragionamenti o sillogismi. I concetti, in particolare, sono gli elementi più semplici del discorso, i «termini» che ne costituiscono i “mattoni”, e sono studiati nelle Categorie. Nel passo che segue (tratto appunto da quest’opera) Aristotele chiarisce che i concetti, o i termini, hanno una natura diversa a seconda del tipo di predicazione in cui possono essere usati, ovvero a seconda del tipo di proposizione di cui possono essere soggetti o predicati. Per comprendere il testo, bisogna tenere presente la suddivisione aristotelica dell’essere (cioè di tutti gli «oggetti che sono») nelle dieci regioni categoriali. Ciascuna di queste regioni presenta una struttura piramidale, ovvero è organizzata in una serie di livelli al cui vertice sta la categoria, intesa come «genere sommo», e alla cui base si trovano molteplici «individui» di cui quel genere risulta l’ultimo (il più generico) predicato possibile. I livelli intermedi tra la categoria e ogni individuo sono rappresentati da nozioni che Aristotele chiama «generi» e «specie».
Le sostanze Tra gli oggetti che sono, alcuni si dicono di un qualche sostrato, ma non sono in alcun sostrato, seconde ad esempio “uomo” si dice di un sostrato, cioè di un certo uomo, ma non è in alcun sostrato; 2 Gli individui altri sono in un sostrato, ma non si dicono di alcun sostrato (precisamente, con “oggetto che è non sostanziali in un sostrato” intendo ciò che sussiste, non come parte, in qualcosa, e che non può esistere 4
separatamente dal qualcosa in cui è), ad esempio una determinata scienza grammaticale è in
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
un sostrato, ossia nell’anima, ma non si dice di alcun sostrato, ed un determinato bianco è in 6 un sostrato, cioè nel corpo (ogni colore infatti è in un corpo), ma non si dice di alcun sostrato; I generi e le specie altri ancora si dicono di un sostrato, e del pari sono in un sostrato, ad esempio, la scienza è 8 degli individui in un sostrato, ossia nell’anima, e inoltre si dice di un sostrato, come la grammatica; non sostanziali Le sostanze altri infine non sono in un sostrato né si dicono di un sostrato, ad esempio un determinato 10 prime uomo ed un determinato cavallo, dato che nessuno degli oggetti di tale natura è in un so-
strato, né si dice di un sostrato.
12
(Categorie, 2, in Aristotele, Opere, a cura di G. Giannantoni, trad. it. di M. Gigante e G. Colli, Laterza, Roma-Bari 1973, vol. 1, p. 6)
Fra i termini appartenenti a una stessa scala concettuale vige un rapporto predicativo che Aristotele indica con la formula “dirsi di un sostrato”, cioè “dirsi di un soggetto”. La categoria della quantità, ad esempio, si dice dell’estensione (genere); la quale a sua volta si dice della lunghezza (specie), la quale infine si dice del metro (individuo). Questo tipo di predicazione “infra-categoriale” (cioè interna a una stessa regione categoriale) è una predicazione necessaria, nel senso che il predicato indica una proprietà essenziale del soggetto: il metro è necessariamente una lunghezza e, di conseguenza, è necessariamente un’estensione, e necessariamente una quantità; la nozione superiore, infatti, possiede un grado maggiore di universalità e “si dice” o “si predica” di quella inferiore in modo necessario. Accanto a questo tipo di predicazione, Aristotele ne individua un altro, che possiamo definire “inter-categoriale”. Una cosa, infatti, è affermare che “il metro è una quantità” o che “il bianco è una qualità” (o che “la quantità si dice del metro” e “la qualità si dice del bianco”, per usare il linguaggio aristotelico); altra cosa è affermare che “questo tavolo è lungo un metro” o che “Socrate è bianco” (nel linguaggio aristotelico, che “il metro è in questo tavolo” e “il bianco è in Socrate”). Nel primo caso, infatti, del metro e del bianco si predicano proprietà essenziali e necessarie (il genere sommo o la categoria, rispettivamente, della quantità e della qualità); nel secondo caso si afferma invece che “metro” e “bianco” ineriscono a determinati sostrati (“questo tavolo” e “Socrate”), ai quali però potrebbero anche non inerire. Nel primo caso la predicazione è interna a una certa categoria (quella della quantità o quella della qualità); nel secondo caso la predicazione coinvolge due diverse regioni categoriali (quantità e sostanza nel caso del tavolo lungo un metro; qualità e sostanza nel caso di Socrate di colore bianco). Per comprendere meglio le caratteristiche di questo secondo tipo di predicazione è bene ricordare che in Aristotele (diversamente da quanto accade in Platone) le
categorie, i generi e le specie esprimono, è vero, «oggetti che sono» (r. 1), cioè “enti”, ma enti di tipo logico, che in quanto tali non sussistono di per sé ma soltanto “appoggiandosi” a individui. E tra gli stessi individui (cioè tra le “specie infime”), soltanto alcuni hanno una sussistenza autonoma, mentre altri devono a loro volta “appoggiarsi” ad altri individui, poiché sono proprietà incapaci di sussistere autonomamente. Sia Socrate sia il colore bianco sono “enti”, ma mentre il primo sussiste “in sé”, il secondo sussiste in quanto “si appoggia” a Socrate: non esiste “il colore bianco”, ma sempre e soltanto “qualcosa” o “qualcuno” che ha la proprietà del bianco. In altre parole, il metro è “individuo” in quanto, nella regione categoriale della quantità, è una specie infima, che non può essere predicata di altro e sta alla base di un’intera catena di generi e specie; tuttavia è un individuo che a sua volta esiste “in altro”, e questo altro deve essere un individuo che esiste “in sé” e che dunque può costituirne il sostegno, cioè il soggetto o sostrato ultimo. La predicazione “inter-categoriale” asserisce dunque l’inerenza di un individuo non sostanziale (il metro o il bianco) a un individuo sostanziale, cioè appartenente alla categoria della sostanza. Su questi due tipi di rapporto o predicazione, e sulle loro possibili combinazioni, Aristotele fonda la sua nota quadripartizione degli «oggetti che sono» (r. 1). Le sostanze seconde (rr. 1-2) Le cose che si dicono di un soggetto ma non sono in alcun sostrato sono le specie e i generi che si predicano delle «sostanze prime», cioè di quegli individui che esistono in maniera autosufficiente, come “Socrate”. Aristotele chiama «sostanze seconde» questi concetti (ad esempio “uomo”): esse non sono veramente sostanze perché (diversamente dalle idee platoniche) non hanno autonomia ontologica, cioè non sussistono in sé. Gli individui non sostanziali (rr. 3-7) Le cose che sono in un sostrato ma non si dicono di alcun soggetto sono gli individui non sostanziali, cioè ontologicamente
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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non autosufficienti (come “il metro” e “il bianco”), che appartengono a categorie (regioni categoriali) diverse da quella della sostanza. I generi e le specie degli individui non sostanziali (rr. 8-9) Le cose che si dicono di un soggetto e sono in un sostrato sono i generi e le specie degli individui non sostanziali (nei nostri esempi la “lunghezza” e il “colore”), che si predicano dei rispettivi individui (“metro” e “bianco”) e, attraverso di essi, ineriscono alle sostanze prime, cioè agli individui sostanziali
(qualcosa o qualcuno che è lungo o alto un metro; qualcosa o qualcuno che è bianco). Le sostanze prime (rr. 10-12) Le cose che non sono in alcun sostrato e non si dicono di alcun soggetto sono quelle che Aristotele chiama «sostanze prime», cioè gli individui concreti in sé sussistenti (“questo tavolo”, “Socrate”, “questo gatto” ecc.). La sostanza prima, quindi, è ciò che, ontologicamente, non inerisce ad altro ma sussiste in sé e, logicamente, è sempre soggetto e mai predicato ( testo 2).
quantità (categoria o genere sommo)
sostanza
si dice di (predicazione infra-categoriale)
si dice di (predicazione infra-categoriale)
estensione (genere)
animale (sostanza seconda)
si dice di (predicazione infra-categoriale)
si dice di (predicazione infra-categoriale)
lunghezza o altezza (specie)
uomo (sostanza seconda)
si dice di (predicazione infra-categoriale)
si dice di (predicazione infra-categoriale)
metro (individuo non sostanziale o specie infima che non si dice di altro)
è in (predicazione inter-categoriale)
socrate (individuo sostanziale o sostanza prima che non si dice di altro e non è in altro)
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Sulla base del modello proposto nella “Guida alla comprensione” e di quanto hai letto nel testo 2 di p. 364, elabora un altro schema, che abbia come riferimento sempre la sostanza, incentrato, a tua scelta, sulla categoria della qualità, della relazione, dell’attività, della passività, del luogo o del tempo. Quindi, immaginando di doverlo commentare ai tuoi compagni, scrivi un breve testo esplicativo di accompagnamento (max 10 righe).
TESTO
2
Le sostanze prime come uniche vere sostanze (Categorie) In questo testo, che completa il precedente, Aristotele chiarisce che “sostanze” in senso proprio sono solamente le sostanze prime, ovvero gli individui non sostanziali. Queste, infatti, tra le «cose che sono», sono le uniche che «non si dicono d’altro e non sono in altro», e quindi da un punto di vista logico sono sempre soggetti e mai predicati, e da un punto di vista ontologico sono autosussistenti, e fanno da sostegno a tutte le altre determinazioni della realtà.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 3 le strutture del pensiero: la logica
Sostanze “Sostanza” nel senso più proprio, in primo luogo e massimamente, è quella che non si dice prime e di un qualche sostrato, né è in un qualche sostrato, ad esempio un determinato uomo o un 2 sostanze seconde determinato cavallo. D’altro canto, “sostanze seconde” si dicono le specie che contengono
le sostanze che si dicono prime e, oltre alle specie, i generi di queste. Ad esempio un de- 4 terminato uomo è nella specie “uomo” ed il genere di questa specie è “animale”. “Uomo” dunque e “animale” si chiamano sostanze seconde […]. 6
La sostanza All’infuori delle sostanze prime, tutti gli altri oggetti o si dicono di “sostrati”, ed allora si prima come dicono delle sostanze prime, oppure sono in “sostrati”, ed allora sono nelle sostanze prime. 8 «sostrato» della realtà Ciò risulterà d’altronde chiaro dai singoli casi proposti come esempi. Così, la nozione di
animale si predica della nozione di uomo, e di conseguenza, pure di un determinato uomo; se invero non si predicasse di nessuno dei singoli uomini, non si predicherebbe affatto neppure della nozione di uomo. Per un altro verso, il colore è nel corpo, e quindi è altresì in un determinato corpo; in realtà, se non fosse in alcuno dei singoli corpi, non sarebbe affatto neppure nella nozione di corpo. In tal modo, tutti gli altri oggetti [cioè tutti gli oggetti che non sono sostanze prime] o si dicono di “sostrati”, che saranno le sostanze prime, oppure sono in “sostrati”, che saranno del pari le sostanze prime. Ed allora, quando non sussistono le sostanze prime, sarà impossibile che vi sia qualcos’altro.
10 12 14 16 18
(Categorie, 5, in Opere, cit.)
Sostanze prime e sostanze seconde (rr. 1-6) Come si è chiarito nel testo precedente, «ciò che non si dice di alcun soggetto, né è in alcun soggetto» è l’individuo sostanziale, che Aristotele chiama «sostanza prima», cioè sostanza in senso primario e fondamentale. Sostanze in senso secondario e derivato sono invece le specie e i generi a cui afferiscono le sostanze prime, e che insieme con queste costituiscono la regione categoriale della sostanza. Le sostanze seconde «contengono» (r. 3) le sostanze prime nel senso che costituiscono le nozioni necessarie per la loro classificazione concettuale, e possono quindi essere considerate come le “classi” al cui interno si collocano gli individui. Sebbene non abbiano esistenza concreta e sussistano soltanto grazie al “sostegno” di un individuo sostanziale, tuttavia tali nozioni esprimono l’essenza della sostanza prima: sono la sua sostanza, quale viene espressa nella definizione. Che cos’è veramente la sostanza prima “Socrate” Qual è la sua essenza o sostanza? La risposta è nella sostanza seconda alla quale appartiene: “uomo”.
La sostanza prima come «sostrato» della realtà (rr. 7-18) Tutto ciò che non è sostanza prima deve necessariamente riferirsi a un qualche individuo sostanziale, nel senso che o si dice di una sostanza prima, o è in una sostanza prima. Aristotele lo chiarisce con due esempi: richiamando la «nozione di animale» (rr. 9-10) mostra come le sostanze seconde siano generi e specie (gli “universali”) che si predicano di individui sostanziali; richiamando la nozione di «colore» (r. 13) mostra che i generi e le specie degli individui non sostanziali si predicano dei loro rispettivi individui, i quali a loro volta ineriscono alle sostanze prime. In chiave antiplatonica, Aristotele ribadisce quindi che, in senso forte e proprio, esistono soltanto le sostanze prime (gli individui concreti, sinoli di materia e forma), le quali sono sostrato ontologico e soggetto logico di una serie di proprietà che possiedono accidentalmente (gli individui non sostanziali) e di una serie di proprietà che possiedono necessariamente e che esprimono la loro essenza (le sostanze seconde).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Sviluppa l’ultima parte dell’analisi del testo, riferita alla differente definizione che Aristotele e Platone danno della sostanza, e spiega in che termini la teoria aristotelica rappresenti un capovolgimento di quella platonica, che identifica la sostanza con l’idea (max 25 righe).
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CAPITOLO 4 IL MONDO NATURALE: LA FISICA E LA PSICOLOGIA
1. La fisica Lo studio del Se per Aristotele la metafisica è la «filosofia prima», la fisica (che la segue nell’elenco delmovimento le scienze teoretiche cap. 2, p. 341) è chiamata anche «filosofia seconda» ed è la scienza
che studia le sostanze in movimento1 . La fisica di Aristotele è dunque, essenzialmente, una teoria del movimento, nella quale il filosofo distingue e classifica le sostanze fisiche (cioè sensibili) proprio a partire dalla natura del loro movimento. Non a caso, con il termine «natura», Aristotele intende «il principio e la causa del movimento e della quiete della cosa alla quale inerisce primieramente e di per sé, non accidentalmente» (Fisica, II, 1, 192b, 20). Più che con la materia, la natura coincide quindi con la forma delle cose, cioè con quel principio in virtù del quale esse si sviluppano e diventano quello che sono. ( T1 p. 411)
I movimenti I tipi Affrontando la metafisica, abbiamo visto che Aristotele ammette quattro fondamentali fondamentali tipi di movimento ( cap. 2, p. 352): di movimento
VIDEO Il movimento per Aristotele
il movimento sostanziale, cioè la generazione e la corruzione; il movimento qualitativo, cioè il mutamento o l’alterazione; il movimento quantitativo, cioè l’aumento e la diminuzione; il movimento locale, cioè il movimento propriamente detto. Quest’ultimo, secondo Aristotele, è il movimento fondamentale, a cui tutti gli altri possono essere ricondotti: l’aumento e la diminuzione sono infatti dovuti all’avvicinamento o all’allontanamento di certe parti di materia, così come il mutamento, la generazione e la corruzione presuppongono il riunirsi di determinati elementi in un dato luogo, o il loro separarsi. Pertanto il movimento locale, cioè il cambiamento di luogo, è il movimento fondamentale che consente di distinguere e di classificare le varie sostanze fisiche.
I tipi di Il movimento locale è, secondo Aristotele, di tre specie: movimento movimento circolare intorno al centro del mondo; locale
movimento rettilineo dal centro del mondo verso l’esterno (ossia verso l’alto, nella prospettiva terrestre); movimento rettilineo dall’esterno verso il centro del mondo (ossia verso il basso).
1. Le sostanze immobili sono invece oggetto di quella parte della metafisica che è costituita dalla teologia, la quale studia l’essere supremo, cioè Dio (come abbiamo visto nel cap. 2), ma anche le intelligenze celesti, a cui per Aristotele si deve il movimento dei cieli ( p. 399).
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
Gli ultimi due movimenti elencati sono reciprocamente opposti e caratterizzano (tra poco Il movimento vedremo come) i quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) che costituiscono le sostan- dei corpi terrestri ze del mondo terrestre (i sassi, gli alberi, gli animali ecc.). Poiché ogni sostanza può essere composta da più elementi, essa sarà soggetta a tutti i tipi di movimento, e quindi di mutamento, comprese la generazione e la corruzione. Infatti gli elementi che la costituiscono possono muoversi sia dall’alto verso il basso sia dal basso verso l’alto, provocando con questi spostamenti la nascita, il mutamento e la morte di ogni ente. Il movimento circolare, invece, non ha contrari: esso segue sempre la medesima direzione e Il movimento le sostanze che si muovono con questo tipo di movimento sono necessariamente immutabili, dei corpi celesti ingenerate e incorruttibili. Tali sono i corpi celesti, che Aristotele ritiene fatti di «etere»: un quinto elemento impalpabile e incorruttibile, e l’unico a muoversi di movimento circolare. L’idea che i corpi celesti siano formati da un solo elemento (del tutto diverso rispetto ai quattro che compongono il resto dell’universo) e che perciò non siano soggetti alla vicenda di nascita, morte e mutamento che caratterizza tutti gli altri corpi, durerà a lungo nella cultura occidentale e sarà abbandonata soltanto nel XV secolo, grazie al pensiero del filosofo tedesco Niccolò Cusano (1401-1464).
I luoghi naturali Abbiamo detto che i movimenti dall’alto in basso e dal basso in alto sono propri dei quattro elementi che compongono le cose terrestri: acqua, aria, terra e fuoco, che Aristotele chiama anche «corpi semplici». Ognuno di questi quattro elementi ha nell’universo una propria specifica collocazione, un luogo naturale a cui tende in virtù del proprio peso. glossario p. 407 Al centro dell’universo (che per Aristotele è finito e di forma sferica) c’è la Terra, che è costituita dall’elemento più pesante; intorno alla Terra ci sono le sfere concentriche degli altri elementi, ordinate secondo il peso decrescente dell’elemento che le compone: acqua, aria e fuoco. Quella del fuoco è dunque la sfera estrema della parte terrestre dell’universo, sopra la quale si trovano le sfere celesti, concentriche anch’esse e fatte di etere. La prima delle sfere celesti è quella della Luna: per questo la parte terrestre dell’universo è detta anche “sub-lunare”, mentre quella celeste è detta “sopra-lunare” (vedremo più avanti nel dettaglio una descrizione dell’universo aristotelico).
I quattro elementi nell’universo aristotelico
Nel mondo terrestre o sub-lunare, i quattro elementi che compongono le cose tendono Movimenti dunque, per natura, a rimanere nel loro luogo naturale: la terra in basso, il fuoco in alto, naturali e violenti l’acqua e l’aria in posizioni intermedie. Questo fa sì che tutte le cose (a seconda degli elementi che le compongono e di quello che tra essi è preponderante) abbiano una loro collocazione naturale. Da tale collocazione possono essere allontanate mediante un «movimento violento» ma, appena sia possibile, vi ritornano con un «movimento naturale»: così, ad esempio, la pietra immersa nell’acqua affonda, cioè tende a situarsi al di sotto dell’acqua; una bolla d’aria nell’acqua sale in superficie; il fuoco fiammeggia sempre verso l’alto, cioè tende a congiungersi alla sua sfera, che è al di sopra di quella dell’aria.
La concezione finalistica della natura Nel cosmo aristotelico i movimenti non avvengono a caso o in base a una cieca necessità di La finalità tipo meccanico, ma sempre in vista di uno scopo. A escludere l’idea (tipicamente democritea) intrinseca del cosmo che la natura sia dominata dal caso, ovvero dalla necessità meccanica, Aristotele perviene osservando, da una parte, la diffusa regolarità che la caratterizza – la quale non può essere il frutto di alcunché di fortuito – e, dall’altra parte, il fatto che i fenomeni naturali, così come
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FILOSOFIA E SCIENZA Finalità e intelligenza nella fisica aristotelica p. 416
i mutamenti di ogni ente, tendono sempre al raggiungimento di un qualche fine (la loro causa finale). Il filosofo afferma infatti che «tutto ciò che è per natura esiste per un fine» (Sull’anima, III, 12, 434a, 31) e identifica tale fine con la stessa sostanza o ragion d’essere delle cose. Inoltre (come abbiamo già visto) egli ritiene che l’intero universo sia subordinato a un unico fine ultimo: Dio, dal quale dipendono l’ordine e il movimento del cosmo ( cap. 2, p. 355). Questo finalismo, o teleologismo (dal greco télos, “fine”) – particolarmente evidente tra gli esseri viventi, animali o vegetali che siano –, è però di tipo particolare, poiché Aristotele è convinto che la natura persegua fini che le sono intrinseci, e che rendono quindi superflua un’intelligenza divina esterna che la regoli (come il noús di Anassagora o il demiurgo del Timeo platonico). ( T2 p. 413) glossario p. 96
L’entelechìa Nella prospettiva finalistica che caratterizza la concezione aristotelica del cosmo, occorre dei corpi tuttavia distinguere due diversi casi: quello dei corpi inanimati e quello dei corpi animati. animati
Mentre il fine a cui tendono i primi è la collocazione nel proprio luogo naturale, il fine a cui tendono i secondi è (come già accennato) la piena attuazione della propria natura, cioè il raggiungimento del loro stadio “adulto” o “maturo”, ovvero della loro forma perfetta, secondo il concetto di “entelechìa” ( cap. 2, p. 353).
L’universo e le sue caratteristiche Le sfere L’universo descritto da Aristotele è di tipo geocentrico, ovvero con la Terra al centro, “avcelesti volta” dalle sfere degli altri tre elementi (acqua, aria e fuoco). Il cosmo si divide inoltre in
mondo sub-lunare (le sfere dei quattro elementi) e mondo sopra-lunare (le sfere celesti che si trovano oltre quella del fuoco). Le sfere celesti, dette anche semplicemente “cieli”, sono sette: della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove e di Saturno, ovvero di quelli che Aristotele considerava “pianeti”. Al di là del settimo cielo si trova la sfera delle «stelle fisse», nella quale sono “incastonate” le varie costellazioni, ossia tutti gli astri (oltre ai presunti pianeti) che si possono osservare dalla Terra. I cieli aristotelici non devono essere immaginati come “luoghi” o “orbite” lungo le quali gli astri si spostano, bensì come sfere reali, fisiche (fatte di etere, come abbiamo già detto), nelle quali i corpi celesti sono inseriti. Questi, pertanto, non ruotano di per sé, ma in virtù del ruotare dei loro cieli, ovvero delle sfere a cui appartengono. lle stelle fisse sfera de
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Nel sistema aristotelico la Terra, costituita dai quattro elementi, è posta al centro dell’universo; intorno a essa si muovono con moto circolare le sfere celesti concentriche, costituite di etere, in cui sono fissati gli astri.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
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Questo universo, per Aristotele, è perfetto: una perfezione che egli dimostra con argo- La perfezione, menti aprioristici, cioè facendo riferimento alla teoria pitagorica della perfezione del nu- la finitezza e l’unicità mero 3. Egli afferma infatti che il mondo, possedendo tutte e tre le dimensioni possibili (altezza, larghezza e profondità), non manca di nulla, e quindi è perfetto. Ma se il mondo è perfetto, esso è anche finito, dal momento che anche per Aristotele – come per tutti i Greci – “infinito” è sinonimo di “incompiuto” e di “imperfetto”: è infinito ciò che manca di qualcosa, e quindi ciò a cui può essere sempre aggiunto qualcosa di nuovo. Il mondo invece non manca di nulla: esso è dunque finito. D’altronde, secondo Aristotele nessuna cosa reale può essere infinita: ogni cosa, infatti, esiste in uno spazio, e ogni spazio ha un centro, un basso, un alto e un limite estremo. Nell’infinito non possono invece esistere né un centro, né un alto, né un basso, né un limite. Quindi nessuna realtà fisica è infinita. Se per Democrito l’infinito esisteva realmente (tanto che il cosmo stesso era per lui infinito), per Aristotele esiste soltanto in potenza, ovvero come possibilità (matematica) di aumentare o diminuire un numero illimitato di volte una certa grandezza finita. In questa prospettiva, la sfera delle stelle fisse segna i limiti dell’universo, al di là dei quali non c’è spazio. Questo significa che nessun volume determinato può essere maggiore del volume della sfera complessiva che costituisce l’universo, e che nessuna linea può protrarsi al di là del suo diametro. Da ciò deriva che per Aristotele non possono esistere altri mondi oltre il nostro. In quanto totalità perfetta e finita, il mondo è anche eterno. Ciò significa che esso non L’eternità ha avuto principio e non avrà fine, ma si prolunga indefinitamente nel tempo. Coerentemente con questo assunto, Aristotele non delinea alcuna cosmogonia, come invece aveva fatto Platone nel Timeo. All’eternità del mondo è congiunta l’eternità di tutte le forme sostanziali che lo costituiscono: sono eterne, in particolare, le specie animali, e prima fra tutte la specie umana, che secondo Aristotele può subire alterne vicende nella sua storia sulla Terra, ma è imperitura e ingenerata. È bene osservare, tuttavia, che, a differenza del mondo, il quale è eterno nel senso che dura all’infinito nel tempo, le forme sostanziali sono eterne nel senso che sono concepite come entità fuori del tempo. In tal modo Aristotele ammette entrambi i significati che il mondo greco aveva attribuito alla nozione di “eternità”. Eraclito, ad esempio, aveva espresso il primo, affermando che il mondo «era, è e sarà fuoco sempre vivo» (frammento 30), mentre Parmenide aveva espresso il secondo, dicendo che «l’essere non era né sarà, ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo» (frammento 8). Aristotele, invece, contempla entrambe le accezioni: la prima in relazione al mondo, la seconda in relazione alle forme o sostanze.
Lo spazio e il tempo In natura, secondo Aristotele, non può esistere lo spazio vuoto. Infatti, posto che l’essen- Lo spazio za e la funzione dei luoghi naturali consistono nell’ospitare i diversi elementi, lo spazio come luogo non è concepibile come realtà a sé stante, indipendente dai corpi che vi si trovano collocati, ma va piuttosto identificato con il luogo che li ospita. glossario p. 407 Secondo Aristotele il luogo è sempre, per definizione, “luogo-di-qualcosa”, come la superficie che delimita un corpo. Ad esempio, il luogo del fiume è il letto in cui esso scorre, il luogo del letto la superficie di terra che lo delimita, e così via, fino ad arrivare a quel luogo comune o complessivo di tutti i luoghi che è il cielo. Il luogo è quindi simile a un recipiente; ma, mentre il recipiente è mobile, il luogo è immobile, altrimenti si verificherebbe l’assurdità di un luogo che si muove insieme con il corpo che lo occupa.
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La negazione Questa teoria dello spazio come luogo porta a negare non soltanto il vuoto intra-cosmico, del vuoto cioè il vuoto tra oggetto e oggetto all’interno dell’universo o del cosmo, ma anche il vuoto
extra-cosmico, ossia il vuoto che “ospiterebbe” l’universo, dividendolo da eventuali altri universi. Dal punto di vista aristotelico, se ha senso chiedere dove si trovi un certo oggetto, non ha senso chiedere dove si trovi il mondo. In altre parole, tutte le cose sono nello spazio, tranne l’universo: quest’ultimo, infatti, non è contenuto in alcunché, poiché è ciò che tutto contiene.
Il tempo Per quanto riguarda il tempo , Aristotele afferma che esso si definisce soltanto in relazione come misura al divenire delle cose, poiché, in un ipotetico universo fatto di entità immutabili, la dimendel divenire
ESERCIZI
sione temporale non esisterebbe. In altre parole, il tempo non esisterebbe senza le cose che mutano, così come lo spazio non esisterebbe senza i corpi che lo occupano. glossario p. 407 Aristotele osserva tuttavia che il tempo, in senso stretto, non è il mutamento delle cose, bensì la misura del loro divenire: «il numero del movimento secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 11, 219b, 1). E siccome ogni misura presuppone un’intelligenza misurante, cioè capace di contare, l’anima (che è la sede delle facoltà intellettive umane) si configura come la condizione imprescindibile del tempo:
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Se è vero che nella natura delle cose soltanto l’anima o l’intelletto, che è nell’anima1 , hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima. (Fisica, IV, 14, 223a)
QUESTIONE Il tempo è oggettivo? (Aristotele, Agostino) vol. 1B, unità 6
Alcuni studiosi tendono a interpretare questo passo come se in esso Aristotele avesse anticipato una concezione del tempo di tipo “soggettivistico”, cioè una dottrina che riduce il tempo a un fatto puramente mentale. Nella prospettiva aristotelica, in realtà, il tempo è qualcosa che, pur trovando la propria misurazione nell’anima, ovvero in un’intelligenza numerante, nel contempo trova la propria condizione oggettiva fuori dell’anima, vale a dire nel divenire delle cose.
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Per l’esposizione orale
1. Che cos’è e di che cosa si occupa la fisica aristotelica? 2. Spiega in che cosa consistono il movimento sostanziale, qualitativo, quantitativo e locale di cui parla Aristotele, chiarendo anche il significato dell’espressione “luogo naturale”. 3. Chiarisci in che senso Aristotele ha una concezione finalistica della natura. 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione aristotelica dello spazio come “contenitore” di tutto ciò che esiste, e confrontala con la convinzione democritea secondo cui il mondo (o i mondi) si trovano invece nel vuoto. Quale ti convince o ti affascina di più? per quali ragioni? SNODI PLURIDISCIPLINARI scienze della Terra
Nel corso dei secoli la cosmologia aristotelica ha mostrato la propria fallacia. La data ufficiale per il suo superamento è il 1543, anno in cui l’astronomo polacco Niccolò Copernico pubblica il saggio De revolutionibus orbium coelestium (“Sulle rivoluzioni delle sfere celesti”), in cui presenta l’ipotesi che al centro dell’universo non ci sia la Terra ma il Sole. Qual è l’immagine attuale del cosmo? quali sono e dove sono collocati i pianeti?
1. Come spiegheremo più avanti ( p. 404), per Aristotele l’anima umana svolge tre diverse funzioni, la più elevata delle quali è quella intellettiva, cioè legata alla conoscenza.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
filosofia e scienza
La fisica aristotelica nella storia della scienza L’importanza storico-culturale della Fisica aristotelica è notevole. Da essa emerge infatti un’immagine globale del mondo che ha influenzato per secoli la scienza occidentale. Tuttavia, il trionfo nella storia del pensiero della visione fisica e cosmologica aristotelica (che per secoli si è imposta su quella democritea) ha comportato il pagamento di un “prezzo” non indifferente per la cultura scientifica, la quale ha registrato: la sconfitta dell’atomismo democriteo, cioè del maggior sistema scientifico greco; il ritardo della nascita della scienza. La contrapposizione tra Democrito e Aristotele, o meglio fra la prospettiva atomistica e Aristotele contro quella platonico-aristotelica, è netta e riguarda alcuni punti essenziali della fisica. Democrito 1. In primo luogo, Democrito crede nel movimento degli atomi nel vuoto, mentre Aristotele sostiene che il movimento nel vuoto non è possibile, perché nel vuoto non ci sono né un centro né un alto né un basso, e di conseguenza non ci sarebbe alcun motivo, per un corpo, di muoversi in una direzione piuttosto che in un’altra, e dunque i corpi resterebbero fermi (la moderna teoria del movimento si districherà a fatica da questo tipo di argomentazione). 2. In secondo luogo, Democrito crede che il movimento sia una proprietà strutturale della materia; Aristotele lo fa invece dipendere da qualcosa che esiste fuori della materia. 3. Inoltre, Democrito – sulla scia dei naturalisti a lui precedenti, da Talete ad Anassagora – ritiene che cielo e terra siano costituiti dalla stessa materia, proponendo quindi l’idea di un cosmo unitario e omogeneo; al contrario Aristotele – rifacendosi ai pitagorici e a Platone, nonché alla mentalità comune – torna alla bipartizione gerarchica tra il mondo celeste e il mondo sub-lunare, immaginandoli costituiti di sostanze diverse e infrangendo così quell’unità dell’universo che la fisica moderna dovrà di nuovo ricostruire. 4. Democrito crede poi in un universo “aperto”, costituito da una molteplicità di mondi, mentre Aristotele crede in un universo “chiuso”, limitato a un solo mondo. 5. Infine, Democrito cerca di ridurre le differenze qualitative dei fenomeni a differenze quantitative, ponendo le basi per una matematizzazione della fisica; Aristotele mette invece da parte questo tentativo, arenandosi in una fisica di tipo qualitativo, che elimina il fondamento teorico di un’applicazione della matematica alla fisica (e su questo punto Aristotele compie un grave passo indietro anche rispetto a Platone). Tutte queste differenze si originano da, o confluiscono in, quella che è la maggior diversità metodologico-filosofica dei due autori: Democrito si propone di spiegare il mondo mediante le sole cause naturali e meccaniche, mentre Aristotele fa del ricorso alle cause finali una delle caratteristiche-chiave della propria indagine fisica. In questo quadro generale, alcuni dei grandi motivi che distanziano Aristotele da Democrito sono gli stessi che separano Aristotele dalla scienza moderna, la quale infatti, riprendendo e sviluppando molte intuizioni democritee, dovrà ingaggiare contro Aristotele, o meglio contro i suoi dogmatici seguaci, una lotta secolare.
La scienza moderna contro Aristotele
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2. La psicologia L’anima e le sue funzioni La psicologia, per Aristotele, è una parte della fisica. Essa, infatti, studia l’anima (in greco psyché) in quanto forma “incorporata”, ovvero “calata” nella materia: la fisica studia appunto le forme di questo genere, mentre la matematica studia le forme astratte, o separate dalla materia. L’anima L’ anima è dunque una sostanza che informa e vivifica un corpo. Essa è definita da come forma Aristotele come «l’atto finale primo [entelécheia] di un corpo naturale che ha la vita in podel corpo
tenza» (Sull’anima, II, 1, 312a, 27 ss.), ossia come quella forma (o facoltà) la quale fa sì che il corpo, vita in potenza, risulti vita in atto. glossario p. 408 In altri termini, l’anima sta al corpo come l’atto della vista sta agli occhi: essa è la realizzazione finale della capacità che è propria di un corpo organico. Così come ogni strumento ha una propria specifica funzione – la quale è il suo atto o la sua attività (la funzione della scure, ad esempio, è di tagliare) –, allo stesso modo il corpo, in quanto strumento, ha come propria funzione quella di vivere e di pensare, e l’atto di questa funzione è appunto l’anima. ( T3 p. 414)
Contro il materialismo e la dottrina orficopitagorica
Questa concezione dell’anima come forma del corpo implica, da parte di Aristotele, il rifiuto dei due principali modelli con cui i filosofi precedenti avevano tentato di spiegare l’anima: il modello naturalistico-materialistico, che vedeva nell’anima una sorta di materia “sottile”; e il modello orfico-pitagorico, che concepiva l’anima come una sostanza a sé stante. Se contro i materialisti Aristotele fa valere l’idea dell’anima come principio o struttura formale, contro gli orfico-pitagorici sottolinea la connessione anima-corpo, sostenendo che, pur non riducendosi al corpo, l’anima opera soltanto a contatto con esso (pur affermando, come vedremo, la separabilità della parte intellettiva dell’anima).
Le funzioni Nell’anima, Aristotele distingue tre funzioni fondamentali: dell’anima la funzione vegetativa, cioè la capacità di nutrirsi e di riprodursi propria di tutti gli es-
seri viventi, a cominciare dalle piante; la funzione sensitiva, che si articola nella sensibilità e nella capacità di movimento ed è propria di tutti gli animali (compresi gli esseri umani); la funzione intellettiva, che è propria soltanto dell’uomo. Aristotele afferma che le funzioni più elevate possono fare le veci delle funzioni inferiori, ma non viceversa; così, ad esempio, nell’essere umano l’anima intellettiva interviene anche nelle funzioni che sono svolte dall’anima sensitiva e da quella vegetativa.
La teoria della conoscenza Il senso Alla concezione dell’anima è connessa la teoria della conoscenza, che Aristotele affronta comune cominciando la propria analisi dalla sensibilità. Egli afferma che, oltre ai cinque sensi –
ognuno dei quali fornisce un tipo specifico di sensazioni (tattili, visive, uditive ecc.) –, c’è un senso comune , che ha una duplice funzione: glossario p. 408 quella di costituire la coscienza della sensazione, cioè il “sentire di sentire”, funzione che non può appartenere ad alcun senso particolare; quella di percepire le determinazioni sensibili comuni a più sensi, come il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità (tutte qualità o proprietà che possono essere percepite sia mediante la vista sia mediante altri sensi).
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
La sensazione in atto coincide per Aristotele con l’oggetto sensibile che viene percepito: La sensazione ad esempio, l’udire un suono coincide con il suono stesso. Si può quindi dire che, se non ci e gli oggetti sensibili fossero i sensi, non ci sarebbero gli oggetti sensibili (se non ci fosse la vista, non ci sarebbero le forme e i colori). Attenzione però: non ci sarebbero in atto, ma ci sarebbero in potenza, perché essi coincidono con la sensibilità soltanto quando questa è in atto. Dal senso si distingue l’ immaginazione , che è la facoltà di produrre, evocare o com- L’immaginazione binare immagini indipendentemente dall’effettiva presenza degli oggetti a cui esse si e le immagini generali riferiscono. In altre parole, pur derivando geneticamente dalla sensibilità (in quanto l’immagine è una sorta di traccia, o memoria, lasciata nell’anima dalla sensazione), l’immaginazione si distingue strutturalmente da essa per la sua autonomia nei confronti degli oggetti esterni. glossario p. 408 Tra le sue possibilità, l’immaginazione ha anche quella di fondere insieme le molteplici immagini di oggetti affini in un’unica «immagine generale», capace di fungere da rappresentazione schematica dei tratti in essi ricorrenti. Ad esempio, partendo dalle immagini particolari di vari esseri umani, l’immaginazione costruisce un’immagine generale di “uomo” in cui sono conservati i tratti umani abitualmente percepiti, con l’eliminazione di ciò che vi è di peculiare negli uomini particolari (ad esempio il colore della pelle o dei capelli). L’immagine generale costituisce quindi una sorta di antecedente sensibile dell’universale, ovvero, come vedremo tra poco, del “concetto”. L’universale, però, non verrebbe mai alla luce se non intervenisse l’ intelletto , ovvero quella funzione “superiore” dell’anima che, come abbiamo detto, appartiene ai soli esseri umani. Lavorando sui dati offerti dalla sensibilità e dall’immaginazione, l’intelletto riesce a enucleare, con un processo di astrazione, la forma o la sostanza intelligibile delle cose, cioè riesce a costruire i concetti o gli universali su cui si basa tutta la nostra conoscenza. glossario p. 408 Da questo punto di vista la riflessione di Aristotele si configura come una forma di: empirismo, poiché si radica nella convinzione che la conoscenza intellettuale non possa prescindere dai dati della sensibilità, e dunque dall’esperienza (in greco empeiría); anti-innatismo, in quanto non ammette conoscenze diverse o “anteriori” rispetto a quelle derivate dall’esperienza, cioè non ammette conoscenze “innate”1 .
L’intelletto e i concetti
Tuttavia, poiché l’intelligibile (il concetto) esiste nel sensibile (da cui deve venire astratto) soltanto a livello potenziale, e poiché l’intelletto, in quanto capacità o potenza di cogliere i concetti, è soltanto “passivo”, occorre qualcosa di “attivo” che permetta di tradurre in atto questa doppia potenzialità, ossia che sappia far sì che l’anima intellettiva diventi intelligente e l’intelligibile diventi conosciuto. Aristotele identifica questo qualcosa con l’ intelletto attivo, o attuale , cioè con una facoltà che contiene in atto tutte le verità e tutti gli intelligibili. L’intelletto attivo, egli spiega, agisce sull’intelletto potenziale in modo analogo a quello in cui la luce agisce sui colori: come quest’ultima permette ai colori (che nell’oscurità sono soltanto in potenza) di passare in atto, consentendo alla vista di vedere, così l’intelletto attivo fa passare in atto le verità che nell’intelletto potenziale sono soltanto in potenza, permettendo a quest’ultimo di passare dalla non-conoscenza alla conoscenza. glossario p. 408
L’intelletto passivo e l’intelletto attivo
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine della conoscenza? p. 483
ESERCIZI
1. Gli studiosi medievali, esprimendo il pensiero gnoseologico di Aristotele, affermeranno: «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu», “Non vi è nulla nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi”.
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In altre parole, Aristotele distingue un intelletto passivo, o potenziale (che è una funzione dell’anima, e che dunque è inscindibilmente legato a un corpo), e un intelletto attivo, o attuale, che egli considera invece «separato, impassibile, non commisto» (Sull’anima, III, 5). Questo solo non muore e dura in eterno, mentre l’intelletto passivo, o potenziale, si corrompe insieme con il corpo. Le successive Se l’intelletto attivo appartenga all’essere umano, a Dio o a entrambi; in quale rapporto discussioni stia con la sensibilità; quale sia il significato della “separatezza” che Aristotele gli attribuisull’intelletto attivo sce: sono tutti problemi che Aristotele non si pone ma che, come vedremo nell’unità 7, sa-
ranno a lungo dibattuti dagli autori della scolastica araba e cristiana e nel Rinascimento.
)
Per l’esposizione orale
1. Spiega che cos’è l’anima per Aristotele e quali funzioni svolge. 2. Definisci le espressioni: senso comune, sensibilità, immaginazione, intelletto; quindi utilizzale per ricostruire le varie fasi in cui Aristotele articola il processo conoscitivo. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera l’empirismo e l’anti-innatismo di Aristotele: condividi l’idea che l’origine di ogni nostra conoscenza debba risiedere nell’esperienza? per quali motivi?
CONCETTI A CONFRONTO
L’ANIMA in PLATONE
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in ARISTOTELE
è sostanza incorporea che vivifica un corpo
è sostanza incorporea che vivifica un corpo
è immortale
è mortale, poiché sopravvive al corpo soltanto come intelletto attivo
è costituita di tre parti: • anima razionale • anima irascibile • anima concupiscibile
svolge tre funzioni: • vegetativa, che presiede alla nutrizione e alla riproduzione • sensitiva, che presiede alla sensibilità e al movimento • intellettiva, che presiede alla conoscenza e si distingue in: – intelletto passivo – intelletto attivo
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
AUDIOSINTESI
SINTESI E GLOSSARIO
CAPITOLO 4 IL MONDO NATURALE: LA FISICA E LA PSICOLOGIA
La fisica come teoria del movimento La fisica, per Aristotele, è la scienza che studia le sostanze sensibili soggette al mutamento, ovvero al movimento. Dei quattro tipi di movimento distinti da Aristotele, quello fondamentale è il movimento locale, perché ad esso possono essere ricondotti tutti gli altri (qualitativo, quantitativo e sostanziale). La fisica aristotelica si configura quindi come una teoria del movimento locale, volta a classificare le sostanze sensibili a partire proprio dal movimento che le caratterizza. Il movimento locale è per Aristotele di tre specie: rettilineo dall’alto verso il basso, cioè verso il centro del mondo; rettilineo dal centro del mondo verso l’alto, cioè verso l’esterno del mondo; circolare intorno al centro del mondo. Ai primi due tipi di movimento (verso il basso e verso l’alto) sono soggetti i quattro elementi (o «corpi semplici») che costituiscono tutte le cose sensibili: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Ciascuno di questi elementi ha nell’universo un
• luogo naturale
il luogo dell’universo in cui un elemento naturalmente sta, o al quale ritorna quando ne è allontanato da un «movimento violento». Tale collocazione naturale è determinata dal peso: al centro si trova la terra (l’elemento più pesante), intorno alla quale sono disposte le sfere degli altri elementi, in ordine di peso decrescente: l’acqua, l’aria e infine il fuoco, che costituisce l’ultima sfera della parte sublunare dell’universo.
Poiché anche i corpi (composti) hanno un proprio luogo naturale (determinato dagli elementi che li costituiscono), essi tenderanno a stare in quel luogo, oppure a ritornarvi, quando ne siano allontanati.
Il movimento circolare, invece, è tipico dell’etere, cioè di un quinto elemento che costituisce i corpi celesti. Tale movimento è eterno e unidirezionale.
La concezione dell’universo La teoria dei luoghi naturali degli elementi influenza direttamente la cosmologia di Aristotele, per il quale al centro del mondo sta la Terra, attorno alla quale si trovano le sfere concentriche dell’acqua, dell’aria e del fuoco. Al di là della sfera del fuoco – che costituisce il confine più esterno del mondo terrestre, caratterizzato da nascita, mutamento e morte – si trovano le sette sfere celesti (o i sette «cieli»), da quella della Luna fino a quella delle «stelle fisse». Le sfere celesti sono fatte di etere e caratterizzate dall’immutabilità e dall’eternità. Nel suo insieme, l’universo aristotelico è perfetto, finito, unico ed eterno. Inoltre, tutti i movimenti (o mutamenti) che lo caratterizzano non avvengono per caso o in virtù di una necessità meccanica: tutto avviene in vista di uno scopo. La natura, cioè, è organizzata finalisticamente, ma non si tratta di fini estrinseci (imposti, ad esempio, da un’intelligenza ordinatrice “esterna” al cosmo), bensì intrinseci: i corpi inanimati tendono a raggiungere il loro luogo naturale, mentre i corpi animati tendono a raggiungere il proprio stadio “adulto” e compiuto, cioè la loro “entelechìa”.
La concezione dello spazio e del tempo In natura, secondo Aristotele, non esiste lo spazio vuoto. Questa posizione deriva direttamente dalla sua concezione dello
• spazio o luogo
lo “spazio” concepito come l’insieme dei “luoghi” propri dei corpi. Per “luogo”, infatti, Aristotele intende il «limite immobile» di un corpo, ossia la superficie che abbraccia o contiene quel corpo. Per certi versi il luogo può quindi essere paragonato a un recipiente, sebbene immobile.
Se lo spazio non può essere pensato come una realtà a sé stante, indipendente dai corpi che vi si trovano collocati, un discorso analogo vale per il
• tempo
secondo la definizione aristotelica, «il numero del movimento secondo il prima o il poi» (Fisica, IV, 11, 219b, 1); il tempo è insomma la misura del divenire delle cose.
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Come i luoghi non esistono senza i corpi che li occupano, così il tempo non esiste senza le cose che mutano, né senza un’intelligenza che ne “misuri” il divenire. Ecco perché il tempo, pur senza ridursi a un fatto puramente mentale, presuppone, quale condizione imprescindibile, l’esistenza dell’anima, intesa come sede delle facoltà intellettive dell’uomo (v. oltre).
Oltre ai cinque sensi, Aristotele identifica un
• senso comune
in generale, la capacità di “sentire”, alla quale si devono sia l’avere coscienza delle sensazioni specifiche (il “sentire di sentire”), sia la percezione di quelle determinazioni sensibili comuni a più sensi (come la figura, che è percepita tanto dalla vista quanto dal tatto).
A un livello più elevato rispetto alla sensibilità si trova
La psicologia La disciplina che studia l’anima (in greco psyché, letteralmente “soffio”, “spirito vitale”) è la psicologia, la quale per Aristotele fa parte della fisica. Aristotele offre infatti la seguente definizione di
• anima
la forma o la sostanza che informa e vivifica un corpo, ovvero «l’atto finale primo [entelécheia] di un corpo naturale che ha la vita in potenza» (Sull’anima, II, 1, 312a, 27 ss.).
Così intesa, l’anima è ciò che fa sì che un certo corpo, che è vita in potenza, diventi vita in atto, e in quanto tale non è separabile dal corpo. Essa è quindi “mortale”, nel senso che si dissolve insieme con il corpo in cui è “calata”. L’anima caratterizza tutti gli esseri animati (vegetali e animali) e svolge tre funzioni: la funzione vegetativa, che presiede alla nutrizione e alla riproduzione e che caratterizza tutti gli esseri animati, compresi i vegetali; la funzione sensitiva, che presiede alla sensibilità e al movimento e caratterizza tutti gli animali, compresi gli esseri umani; la funzione intellettiva, che presiede alla conoscenza e che, tra tutti gli animali, caratterizza la sola specie umana. Le funzioni più elevate possono fare le veci di quelle inferiori, ma non viceversa: ad esempio, nell’essere umano l’anima intellettiva interviene anche nelle funzioni che sono svolte dall’anima sensitiva e da quella vegetativa.
La teoria della conoscenza Analizzando le funzioni dell’anima, Aristotele delinea anche la propria teoria gnoseologica. La base di ogni conoscenza dipende dalla facoltà della sensibilità. Gli oggetti sensibili, che costituiscono il mondo, coincidono del resto con una sensazione in atto (un certo suono coincide con l’udire quel suono), sebbene senza la sensazione tali oggetti esistano comunque in potenza.
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• l’immaginazione
(dal latino imaginatio, traduzione del greco phantasía) facoltà intermedia tra la sensibilità e l’intelletto, che ha la funzione di produrre, evocare o combinare immagini in modo indipendente rispetto agli oggetti sensibili.
Tra le possibilità dell’immaginazione vi è anche quella di “fondere insieme” le immagini di oggetti simili in un’unica «immagine generale» che funge da rappresentazione schematica di una certa classe di oggetti (ad esempio della classe dei tavoli, o della classe degli esseri umani). Tale immagine generale costituisce l’antecedente sensibile dell’oggetto della conoscenza propriamente intesa, ovvero del
• concetto
(dal latino concéptus, participio passato del verbo concípere, “concepire”, “comprendere”) in Aristotele, la traduzione mentale dell’essenza, cioè il lógos che esprime la sostanza delle cose, e quindi la loro forma intelligibile, o struttura universale (v. anche p. 175).
Come le forme sensibili sono colte mediante la sensibilità, così i concetti (forme universali intelligibili) sono colti grazie all’
• intelletto
(in greco noús) la funzione o la facoltà intellettiva dell’anima, che caratterizza esclusivamente gli esseri umani.
Aristotele distingue due tipi di intelletto: innanzitutto un intelletto passivo, o potenziale, che “riceve” i dati della sensibilità e dell’immaginazione, e da questi, mediante un processo di astrazione, ricava i concetti (gli universali) su cui si fondano i nostri processi conoscitivi. Perché questo sia possibile, tuttavia, è necessario che “qualcosa” possieda già in atto quei concetti (universali) che nell’intelletto potenziale si trovano soltanto in potenza; questo “qualcosa” è
• l’intelletto attivo, o attuale
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
facoltà che contiene in atto tutte le verità e tutti gli intelligibili, e che agisce sull’intelletto passivo in modo che anch’esso possa conoscerli (come la luce consente alla vista di vedere gli oggetti).
MAPPE
CAPITOLO 4 IL MONDO NATURALE: LA FISICA E LA PSICOLOGIA LA FISICA ARISTOTELICA studia
il movimento locale a cui si possono ricondurre
il movimento qualitativo il movimento quantitativo il movimento sostanziale
che si distingue in
movimento verso il basso movimento verso l’alto
movimento circolare
i quali
il quale
caratterizzano i quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) che costituiscono i corpi terrestri, rendendoli corruttibili e facendoli tendere al loro “luogo naturale”
è eterno e caratterizza l’etere, che costituisce i corpi celesti rendendoli incorruttibili
L’UNIVERSO ARISTOTELICO è
è diviso in due parti
geocentrico sferico perfetto finito unico eterno
una terrestre o sub-lunare (la Terra avvolta dalle sfere dell’acqua, dell’aria e del fuoco) una celeste o sopra-lunare (i “cieli” di Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e delle stelle fisse)
e in esso
segue
un ordine finalistico
i cui fini (intrinseci) sono
lo spazio
il tempo
si identifica con
si identifica con
l’insieme dei “luoghi” propri dei corpi
la misura del divenire delle cose
i luoghi naturali per i corpi inanimati
l’entelechìa per i corpi animati
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LA PSICOLOGIA ARISTOTELICA studia
l’anima che è intesa come
che svolge
sostanza che “informa” e vivifica un corpo
la funzione vegetativa (comune a tutti gli esseri animati, compresi i vegetali): = nutrizione, accrescimento e riproduzione
la funzione sensitiva (comune a tutti gli animali): = sensibilità e movimento
la funzione intellettiva (propria soltanto degli esseri umani) = conoscenza
LA CONOSCENZA si deve a tre facoltà dell’anima
sensibilità
immaginazione
percezione degli oggetti sensibili
produzione di immagini autonome rispetto agli oggetti percepiti e creazione di immagini generali, antecedenti sensibili dei concetti
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
intelletto
passivo o potenziale
attivo
elabora i dati di sensibilità e immaginazione, da cui astrae i concetti (o gli universali)
permette agli universali che nell’intelletto passivo sono in potenza di diventare in atto
CAPITOLO 4 IL MONDO NATURALE: LA FISICA E LA PSICOLOGIA La fisica
Se nella metafisica Aristotele tratta l’essere nella sua accezione universale, concentrandosi soprattutto sulla sostanza soprasensibile, immobile ed eterna, nella fisica egli analizza un particolare genere dell’essere, ossia la sostanza sensibile soggetta a movimento. Nel tentativo di offrire un quadro sistematico dell’intero mondo sensibile, Aristotele ne evidenzia la struttura finalistica, allontanandosi così dalla concezione democritea. TESTO
1
Il movimento
(Fisica)
il testo nell’opera
La Fisica è un trattato in 8 libri, che, come molte altre opere aristoteliche, risulta dalla ricostruzione effettuata da Andronico di Rodi di frammenti sparsi, scritti da Aristotele in epoche diverse. Il primo libro ha per oggetto i princìpi del divenire; il secondo libro è un trattato sulle quattro cause; i libri dal terzo al sesto contengono uno studio organico sui concetti di movimento, di infinito, di luogo, di tempo e di continuo; il settimo libro, approfondendo l’analisi del movimento, introduce il concetto di “motore”; l’ottavo libro, infine, postula l’esistenza del primo motore immobile ed eterno. Nel testo proposto di seguito, tratto dal terzo libro della Fisica, l’indagine aristotelica è rivolta alla struttura logica del movimento in generale. La definizione che Aristotele dà del movimento – inteso come un passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto, ossia da una forma di essere ad un’altra forma di essere – gli permette di superare la prospettiva eleatica, in base alla quale il movimento, implicando un passaggio dal non essere all’essere (e viceversa), non può venire ammesso. Il primo passo Poiché la natura è principio del movimento e del cambiamento e noi stiamo studiando menello studio todicamente la natura, non ci deve rimaner nascosto che cosa sia il movimento. È inevita- 2 della natura
bile, infatti, che, se questo si ignora, si ignori anche la natura. Definito il movimento, bisogna, poi, cercare allo stesso modo di definire ciò che ne consegue. 4
Le condizioni Orbene, sembra che il movimento faccia parte dei continui; e l’infinito si manifesta in pridel movimento mo luogo nel continuo. Perciò, anche a chi definisce il continuo, capita di servirsi spesso 6
del concetto di infinito, perché è continuo ciò che è divisibile all’infinito. Inoltre senza luogo e vuoto e tempo pare impossibile che vi sia movimento. […]
8
Il movimento Non vi è, però, un movimento al di fuori delle cose; infatti, perché vi sia cambiamento, è income passaggio dispensabile la cosa che cambia o per sostanza o per quantità o per qualità o per luogo, né, 10 dalla potenza all’atto come noi abbiamo detto, si può trovare alcunché di comune alle cose soggette al cambiamento,
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senza che esso sia né essenza determinata né quantità né qualità né alcuna delle altre categorie; sicché non esisteranno né il movimento né il cambiamento di alcuna cosa al di fuori di quelle che abbiamo dette, perché non vi è nulla al di fuori di queste. […] Poiché, a proposito di ciascun genere, ciò che è in atto è stato distinto da ciò che è in potenza, l’atto di ciò che è in potenza, in quanto tale, è il movimento; ad esempio, dell’alterato, in quanto alterato, è l’alterazione; dell’accrescibile e del suo opposto, cioè del diminuibile (non c’è, infatti, nessun nome che sia comune a entrambi questi termini), il movimento consiste nell’accrescimento e nella diminuzione; del generabile e del corruttibile il movimento è la generazione e la corruzione; dello spostabile lo spostamento. E che questo sia il movimento è chiaro da quanto segue. Quando il costruibile, entro il limite in cui diciamo che tale esso è, è in atto, esso è costruito, è, cioè, la costruzione: e ciò vale anche per l’istruzione, la medicazione, la rotazione, il salto, la crescita e l’invecchiamento. […]
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Le caratteristiche Una delle ragioni per cui il movimento sembra indeterminato sta nel fatto che esso non si 24 del movimento può porre in senso assoluto né nella potenza degli enti né nel loro atto. Difatti, né la quan-
tità in potenza né la quantità in atto si muovono necessariamente; e il movimento sembra 26 esser, sì, un certo atto, ma imperfetto. E la causa sta nel fatto che imperfetto è il possibile di cui il movimento è, appunto, l’atto. 28 (Fisica, III, 1, 200b 12 - 201a 15, trad. it. di A. Russo, in Opere, vol. 2, Laterza, Roma-Bari 2019)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il primo passo nello studio della natura (rr. 1-4) L’inizio del testo sottolinea che la fisica è scienza della natura come principio del movimento. Per evitare equivoci precisiamo che nell’ambito della natura rientrano anche gli esseri inanimati, il cui comportamento dipende dalla loro propria costituzione e non dalle intenzioni di un agente esterno. Ad esempio, io non potrò far muovere a lungo un sasso lanciandolo in alto con violenza, poiché presto in esso tale innaturale spinta si esaurirà e di nuovo si attuerà il naturale moto verso il basso (il luogo naturale). Nonostante i corpi non semoventi godano di una certa autonomia, tuttavia non si producono spontaneamente, ma hanno sempre bisogno di una causa: così il fiore per germogliare richiederà una serie di condizioni esterne (terra, calore, acqua ecc.) senza le quali non potrebbe attuare il naturale movimento che lo conduce a maturare dal proprio seme. Le condizioni del movimento (rr. 5-8) Stabilito che la natura si definisce in rapporto al movimento, Aristotele passa a enunciare le condizioni senza le quali esso non sussisterebbe: il continuo (che a sua volta
viene definito come ciò che è divisibile all’infinito), il luogo, il tempo e il vuoto. Il movimento come passaggio dalla potenza all’atto (rr. 9-23) In queste righe Aristotele, ricorrendo ai concetti di atto e di potenza, offre una soluzione alle classiche aporie del movimento evidenziate da Zenone: il movimento consiste appunto nel passaggio dalla potenzialità di qualcosa alla sua realizzazione, che si configura non come un passaggio dal non essere all’essere (o viceversa), ma come un cambiamento interno all’essere stesso. Aristotele precisa inoltre che il movimento può avvenire secondo la sostanza (generazione e corruzione), secondo la quantità (aumento e diminuzione), secondo la qualità (mutamento o alterazione) o secondo il luogo (movimento propriamente detto). Le caratteristiche del movimento (rr. 24-28) Aristotele definisce il movimento come attualizzazione del potenziale: esso pertanto non è né ciò che deve ancora attuarsi, né ciò che si è già attuato, e per questa ragione appare «indeterminato» (r. 24) e «imperfetto» (r. 27).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per ciascuno dei tipi di movimento individuati da Aristotele riporta un esempio tratto dalla tua personale esperienza. Collega i vari esempi in un testo organico, in cui spieghi le ragioni alla base delle tue scelte (max 25 righe).
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
TESTO
2
La concezione finalistica della natura
(Fisica)
Nel testo seguente Aristotele osserva che, se si accetta il meccanicismo di Democrito – secondo cui tutto avviene «senza alcun fine e non in vista del meglio» – non si può dar ragione né dell’ordine e della regolarità del mondo, né del processo per cui gli enti naturali si generano, giungono a maturazione e si corrompono. Occorre quindi pensare a una causa finale che sia immanente nelle singole sostanze. La teoria Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del medemocritea glio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha 2
evaporato, deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù: e che il frumento cresca quando questo avviene, è un fatto accidentale)? E, parimenti, quando il grano, poniamo, 4 si guasta sull’aia, non ha piovuto per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, ma questo è accaduto per accidente. E, quindi, nulla vieta che questo stato di cose si verifichi anche nelle parti 6 degli esseri viventi e che, ad esempio, per necessità i denti incisivi nascano acuti e adatti a tagliare, quelli molari, invece, piatti e utili a masticare il cibo; ma che tutto questo avvenga non per tali 8 fini, bensì per accidente. E così pure delle altre parti in cui sembra esserci la causa finale. […]
Le obiezioni Questo, o su per giù questo, è il ragionamento che potrebbe metterci in imbarazzo: ma è impos- 10 di Aristotele sibile che la cosa stia così. Infatti, le cose ora citate e tutte quelle che sono per natura, si generano
in questo modo o sempre o per lo più, mentre ciò non si verifica per le cose fortuite e casuali. Difatti, pare che non fortuitamente né a caso piova spesso durante l’inverno; ma sotto la canicola, sì; né che ci sia calura sotto la canicola; ma in inverno, sì. Dal momento che, dunque, tali cose sembrano generarsi o per fortuita coincidenza o in virtù di una causa finale, se non è possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza né per caso, allora avverranno in vista di un fine. Ma tutte le cose di tal genere sono sempre conformi a natura, come ammettono anche i meccanicisti. Dunque, nelle cose che in natura sono generate ed esistono, c’è una causa finale.
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L’analogia tra Inoltre, in tutte le cose che hanno un fine, in virtù di questo si fanno alcune cose prima, altre natura e arte dopo. Quindi, come una cosa è fatta, così essa è disposta per natura e, per converso, come è di- 20 22 24 26 28
L’ipotesi Ma in particolar modo ciò è manifesto negli altri animali che non agiscono né per arte, né per 30 dell’esistenza ricerca, né per volontà: tanto che alcuni si chiedono se alcuni di essi, come i ragni e le formiche di una causa finale e altri di tal genere, lavorino con la mente o con qualche altro organo. E per chi procede così gra- 32
datamente, anche nelle piante appare che le cose utili sono prodotte per il fine, come le foglie per proteggere il frutto. Se, dunque, secondo natura e in vista di un fine la rondine crea il suo nido, 34 e il ragno la tela, e le piante mettono le foglie per i frutti, e le radici non su ma giù per il nutrimento, è evidente che tale causa è appunto nelle cose che sono generate ed esistono per natura. 36 E poiché la natura è duplice, cioè come materia e come forma, e poiché quest’ultima è il fi38 ne e tutto il resto è in virtù del fine, questa sarà anche la causa, anzi la causa finale. (Fisica, II, 8, 198b - 199b, trad. it. di A. Russo, in Opere, vol. 2, cit.)
TESTI ARISTOTELE
sposta per natura, così è fatta, purché non vi sia qualche impaccio. Ma essa è fatta per un fine; dunque per natura è disposta ad un tale fine. Ad esempio: se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta dall’arte; e se le cose naturali fossero generate non solo per natura, ma anche per arte, esse sarebbero prodotte allo stesso modo di come lo sono per natura. Ché l’una cosa ha come fine l’altra. Insomma: alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; altre, invece, le imita. E se, dunque, le cose artificiali hanno una causa finale, è chiaro che è così anche per le cose naturali: infatti, il prima e il poi si trovano in rapporto reciproco alla stessa guisa tanto nelle cose artificiali quanto in quelle naturali.
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE La teoria democritea (rr. 1-9) Aristotele intende confutare l’ipotesi che, pur ammettendo l’esistenza nel mondo di una serie di cause, afferma che esse non rispondono a un piano preordinato. Per quanto riguarda l’esempio della pioggia, la spiegazione democritea, cioè meccanicistica, consisterebbe nell’affermare che essa è sì necessaria, in quanto avviene per precise cause fisiche, ma sono fortuiti i risultati che essa reca con sé. Un esempio analogo è quello delle «parti degli esseri viventi» (rr. 6-7), e in particolare dei denti, che secondo la spiegazione meccanicistica avrebbero una certa forma per cause fisiche accidentali, e non perché servono alla masticazione. Le obiezioni di Aristotele (rr. 10-18) Il fatto che in natura, a differenza di quanto accade in una serie di avvenimenti fortuiti, certi eventi si manifestino «o sempre o per lo più» (r. 12) conduce, secondo Aristotele, alla necessità di ipotizzare una causa finale. L’analogia tra natura e arte (rr. 19-29) L’ordine pre-
sente in natura rimanda all’idea di un fine che dà regolarità alla successione degli eventi e che giustifica la disposizione delle parti che costituiscono ogni cosa. Interessante è l’analogia sottolineata da Aristotele tra i prodotti dell’arte e quelli della natura: essa si basa sull’affermazione secondo cui l’arte imita la natura, da cui consegue che, se nelle cose artificiali è rintracciabile una finalità, a maggior ragione essa sarà presente in natura. L’ipotesi dell’esistenza di una causa finale (rr. 30-38) È soprattutto l’osservazione del mondo animale e di quello vegetale a indurre all’ipotesi dell’esistenza di una causa finale: soltanto in virtù di tale ipotesi, infatti, è possibile spiegare, da una parte, alcuni comportamenti animali che sembrano orientati da una facoltà simile all’umana volontà e, dall’altra, certe trasformazioni delle piante che ne garantiscono la sopravvivenza. La causa finale degli enti naturali è data dalla loro forma, ossia dal principio che li costituisce intimamente e che ne determina lo sviluppo.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Approfondisci l’origine e le caratteristiche di un fenomeno naturale – ad esempio l’impollinazione, la migrazione stagionale di alcuni tipi di uccelli, l’erosione delle rocce ecc. –, quindi prova a darne una spiegazione prima in termini democritei, in seguito in termini aristotelici (max 40 righe).
La psicologia
Secondo Aristotele la psicologia fa parte della fisica, poiché si occupa dell’anima in quanto forma “incorporata” nella materia. Il rapporto tra anima e corpo configurato dal filosofo prevede che l’anima, pur non identificandosi con il corpo che vivifica, non possa fare completamente a meno di esso. L’unica parte dell’anima che si può considerare “separabile”, in una certa misura, dal corpo è quella intellettiva, limitatamente alla facoltà dell’intelletto attivo. TESTO
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L’anima come causa finale del corpo
(Sull’anima)
IL TESTO NELL’OPERA Il trattato Sull’anima, articolato in 3 libri, con ogni probabilità è costituito da un insieme di appunti che Aristotele ha poi sviluppato più ampiamente nella sua scuola. Il primo libro, oltre a indicare nel capitolo introduttivo i temi centrali del testo (l’anima, le sue facoltà e le sue funzioni), contiene una critica dettagliata alle dottrine sull’anima dei predecessori di Aristotele. Il secondo libro riporta la definizione dell’anima come forma ed essenza del corpo organico, e contiene la classificazione gerarchica delle funzioni vitali e psichiche, di cui approfondisce in particolare quella vegetativa – che presiede alla nutrizione, allo sviluppo e alla riproduzione – e quella sensitiva. Il terzo libro si occupa delle funzioni percettive superiori, dell’immaginazione e della facoltà dell’anima preposta al pensiero, cioè l’intelletto.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 4 il mondo naturale: la fisica e la psicologia
Nel testo seguente, tratto dal secondo libro, Aristotele riassume la sua teoria della sostanza e introduce, sulla scorta di questa, una sintetica definizione di anima. L’anima come […] ogni corpo naturale che partecipa della vita sarà sostanza e precisamente sostanza nel entelechia senso di sostanza composta. E poiché si tratta di un corpo con una determinata qualità e 2
cioè partecipe della vita, il corpo non sarà l’anima perché il corpo non rientra negli attributi di un soggetto, ma è piuttosto sostrato e cioè materia. È dunque necessario che l’ani- 4 ma sia sostanza, in quanto forma del corpo naturale che ha la vita in potenza. Tale sostanza è entelechìa: dunque l’anima è entelechìa di un corpo di siffatta natura. 6
L’inseparabilità L’entelechìa si intende in due modi, come scienza e come esercizio della scienza. È chiaro dell’anima che l’anima lo è al modo della scienza perché sonno e veglia implicano la presenza dell’a- 8 dal corpo
nima – e la veglia corrisponde all’esercizio della scienza, il sonno al possesso della scienza senza il suo attuale esercizio. […] Se perciò si deve proporre una definizione comune a 10 ogni specie di anima, sarà l’entelechìa prima di un corpo naturale munito di organi. Per questo non s’ha da cercare se l’anima e il corpo sono uno, come non lo si fa per la cera e 12 l’impronta, e, in una parola, per la materia di ciascuna cosa e ciò di cui è materia: l’uno e l’essere, infatti, si dicono in più significati, ma quello fondamentale è l’entelechìa. 14 (Sull’anima, II, 1, in Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1973)
L’anima come entelechia (rr. 1-6) La definizione dell’anima offerta in queste righe («forma del corpo naturale che ha la vita in potenza», r. 5) non ne richiama le funzioni (vegetativa, sensitiva e, soprattutto, intellettiva) ma le attribuisce piuttosto un tratto fondamentalmente “biologico”, descrivendola quale forma capace di portare e tenere in vita un corpo: in questo senso essa caratterizza non soltanto gli esseri umani, ma anche i vegetali e gli altri animali. Per sostenere una tale definizione Aristotele procede a escludere la possibilità opposta: se la sostanza degli esseri animati (cioè di «ogni corpo naturale che partecipa della vita», r. 1) non fosse «composta» (r. 2), ma fosse costituita dal solo corpo, non si differenzierebbe dalla sostanza degli esseri inanimati, il che è assurdo. Gli esseri viventi, pertanto, saranno sostanze «composte» di due diversi princìpi (il corpo e l’anima), in cui la vitalità è legata non al corpo ma appunto all’anima, la quale proprio per questo viene detta «sostanza» (r. 5), oltre che «forma» (r. 5). In quanto forma di un corpo che ha la vita in potenza, l’anima coincide con l’entelechìa di quel corpo, cioè con il raggiungimento del
suo fine intrinseco, ovvero con la sua piena realizzazione e “attualizzazione”. Si noti che, sebbene Aristotele specifichi che «il corpo non sarà l’anima» (r. 3), ciò non significa che essa possa sussistere in modo autonomo rispetto al corpo. Proprio in questo aspetto (che verrà esplicitato nelle righe seguenti) consiste il punto di maggior distacco dalla dottrina platonica (di ascendenza orfico-pitagorica) secondo cui l’anima poteva “entrare” e “uscire” da più corpi, essendo indipendente rispetto ad essi. L’inseparabilità dell’anima dal corpo (rr. 7-14) L’anima è forma attuale (entelechìa) sia quando esercita le proprie funzioni (prima fra tutte la «scienza», cioè la conoscenza), sia quando non le esercita, come accade nel sonno. In questo secondo caso si ha a che fare con un’attualità meno piena (a cui Aristotele allude con l’espressione «entelechìa prima», distinguendola implicitamente da una «entelechìa seconda» coincidente con l’attualità totale, interamente realizzata grazie all’esercizio attivo delle funzioni intellettive), ma che proprio il carattere di minor pienezza rende inseparabile dal corpo.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Rifletti sulla concezione aristotelica del rapporto dell’anima con il corpo ed esprimi la tua personale opinione al riguardo, motivando le ragioni per cui ti trovi in accordo oppure in disaccordo con il filosofo di Stagira (max 30 righe).
TESTI ARISTOTELE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
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FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
FINALITÀ E INTELLIGENZA NELLA FISICA ARISTOTELICA
In quanto sapere fondato su una concezione rigorosamente meccanicistica della natura, la scienza moderna ha assunto la fisica aristotelica e il suo finalismo come obiettivi polemici. Tuttavia, per evitare semplificazioni e schematismi fuorvianti, occorre comprendere
L’importanza delle cause finali per comprendere la natura Per Aristotele gli enti naturali sono quelli che hanno in sé la ragione del loro “movimento”, termine con cui egli indica non soltanto lo spostamento nello spazio, ma anche ogni forma di divenire. Questa caratteristica distingue gli enti naturali sia dagli artefatti (che non hanno un’autonoma capacità di movimento), sia dagli enti matematici e metafisici (che non “si muovono”, cioè che non sono sottoposti al cambiamento). Nonostante questa differenza, le «opere della natura» e i «prodotti dell’abilità umana» sono accomunati dal fatto di poter essere compresi pienamente soltanto a partire dalle loro cause finali: come avviene per gli enti artificiali, così anche per quelli naturali bisogna infatti individuare ciò che li ha prodotti (causa efficiente), ma anche lo scopo a cui rispondono (causa finale). «La natura – osserva Aristotele – non fa nulla invano», cioè per caso, ma realizza tutto in vista di scopi ben precisi:
bene la prospettiva finalistica di Aristotele, riconoscendone comunque il ruolo nello sviluppo di una mentalità scientifica innovativa che, anziché disdegnare il mondo naturale, ne ha fatto l’oggetto di uno studio appassionato.
gerarchico o una catena finalistica orientata a perfezionare tutti i viventi dirigendoli verso un punto unitario. Non esiste un punto finale della vicenda biologica nel suo complesso, poiché ogni specie ha in sé il proprio fine, che è costituito dalla propria riproduzione. L’accento posto da Aristotele sulle specie ha ispirato il medico e naturalista svedese Carlo Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), che è considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. Nel 1735 Linneo ha introdotto, nel sistema classificatorio delle piante e degli animali, il metodo della «nomenclatura binomiale», basata sul modello aristotelico di definizione per «genere prossimo» e «differenza specifica».
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persino le piante presentano caratteristiche rivolte a un fine: per esempio le foglie si producono per proteggere il frutto. [...] e se le piante producono le foglie per il fine del frutto e sviluppano le loro radici verso il basso piuttosto che verso l’alto al fine della nutrizione, è chiaro che negli eventi naturali vi sono cause di questo tipo [finali]. (Aristotele, Fisica, II, 8, 199a 20)
Linneo e la classificazione “aristotelica” dei viventi Un altro elemento importante del finalismo di Aristotele è l’idea che i processi naturali siano finalizzati alla perpetuazione delle singole specie (o forme specifiche). Questo significa che in natura non c’è un ordine
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Georg Dionysius Ehret, tavola illustrata per un’opera di Linneo, 1736.
A ciascun organismo vivente egli ha attribuito un «nome generico» e un «nome specifico», entrambi in latino o di origine latina: il primo è un sostantivo che si scrive con l’iniziale maiuscola e indica il genere, cioè una serie di caratteristiche comuni a più specie; il secondo è un epiteto (sostantivo o aggettivo) che si scrive con l’iniziale minuscola e si riferisce alla specie propriamente detta. Ad esempio, il leone (Panthera leo) e la tigre (Panthera tigris) appartengono entrambi al genere Panthera (insieme con il leopardo, il giaguaro e il leopardo delle nevi). Anche su questo punto, però, occorre fare chiarezza. Per Aristotele, infatti, la specie non è una semplice nozione classificatoria, ma un’autentica sostanza (una «sostanza seconda», per la precisione), ovvero una realtà in senso forte e un principio di auto-organizzazione della natura. La specie è una forma compiuta, fissa e immutabile, che si perpetua attraverso gli individui che la compongono, i quali si distinguono tra loro soltanto per le differenze determinate dalla materia corporea di cui sono costituiti. Sebbene questo “fissismo delle specie” sembri escludere la possibilità di qualunque tipo di evoluzione, secondo Aristotele la natura costituisce comunque una scala continua che va dalle forme inferiori a quelle più complesse, comprendendo in sé variazioni spesso minime, che rendono difficile, ad esempio, tracciare una netta demarcazione tra i vegetali e gli animali.
La “terza” via di Aristotele L’ambito naturale in cui l’ordine finalistico si manifesta nel suo grado più alto è ovviamente quello degli enti viventi, osservando i quali, secondo Aristotele, si può notare che la natura adatta sempre gli organi alle funzioni che essi devono svolgere: la mano ha una certa forma per esercitare la funzione prensile, il piede si configura in un certo modo per camminare, e così via. A prima vista, potrebbe dunque sembrare che per Aristotele gli enti naturali seguano un progetto consapevole, proprio come fanno un costruttore, un artigiano o un artista nella realizzazione delle loro opere. In realtà, per Aristotele è assurdo pensare che le piante “decidano” di dotarsi di foglie per proteggere i loro frutti, cioè che si sviluppino e si trasformino a partire da un loro “intento”, così come è assurdo pensare che sia la natura in generale a operare secondo intelligenza. L’arte (intesa in senso lato, come creazione di oggetti) è soltanto umana, e si distingue dalla natura poiché quest’ultima non è l’opera di un’intelligenza o di una volontà, né interna
né esterna (quale potrebbe essere un’intelligenza divina). Che la natura sia una forma d’“arte”, cioè il prodotto di un divino artefice intelligente (il «demiurgo»), è piuttosto la tesi di Platone, che Aristotele non condivide perché implicherebbe un’interpretazione antropomorfica della divinità. Nella disputa tra Democrito e Platone, cioè tra il materialismo meccanicistico e il finalismo teologico, la filosofia di Aristotele rappresenta quindi una sorta di terza via, che salvaguarda sia l’autonomia della natura (intesa come dotata di un principio interno che la orienta e la organizza) sia l’impianto finalistico (per cui tale principio è individuato nello scopo o nella forma a cui ogni cosa tende, distinguendosi così dalla pura materia indeterminata).
LABORATORIO DELLE IDEE
COMPETENZE Individuare il rapporto tra la filosofia e la scienza | Contestualizzare i diversi campi conoscitivi | Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
A partire dagli anni Ottanta del Novecento, negli Stati Uniti si è sviluppata una corrente di pensiero a sostegno della teoria del “progetto intelligente” o “disegno intelligente” (Intelligent Design). Dichiarando di ispirarsi ad Aristotele, gli esponenti di questo indirizzo si oppongono alla teoria darwiniana dell’evoluzione, affermando che la natura è mossa non dal meccanismo della selezione naturale, bensì da una causa intelligente ad essa esterna, identificabile con Dio. • Dopo esserti documentato (in Internet o in biblioteca) sulle tesi fondamentali dell’Intelligent Design Theory, confrontale con quelle di Aristotele, in particolare con la sua distinzione tra le nozioni di “processo naturale” (interno alla natura e volto alla sopravvivenza degli esseri viventi) e “progetto intelligente” (riconducibile a una mente esterna); illustra quindi in un breve testo scritto (max 20 righe) le analogie e le differenze tra le due prospettive.
PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA in libreria • Mario Vegetti, “I fondamenti teorici della biologia aristotelica”, in Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, utet, Torino 1971 in rete • http://www.treccani.it/enciclopedia/disegnointelligente_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/
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CAPITOLO 5 L’AGIRE UMANO: L’ETICA, LA POLITICA E L’ARTE
1. L’etica Il ruolo della ragione nella ricerca del bene Per Aristotele l’intero ambito dell’agire umano – ogni azione e ogni scelta, così come ogni produzione artistica o tecnica e ogni ricerca – è orientato a un fine che appare “buono”, e quindi desiderabile; pertanto il fine che guida il comportamento deve coincidere con il bene. La felicità I fini perseguiti attraverso le attività umane sono molteplici, e alcuni di essi sono desidecome bene rati soltanto in vista di fini superiori: ad esempio, la ricchezza o la buona salute si desidesommo
rano per la soddisfazione e i piaceri che a loro volta possono contribuire a raggiungere. Ma deve esistere un fine supremo, un fine desiderato per sé stesso e non già in quanto condizione o mezzo per poter conseguire a un fine ulteriore. E se, come abbiamo detto, tutti i fini sono beni, questo fine sarà il bene sommo , il bene dal quale tutti gli altri dipendono. glossario p. 436 Non c’è dubbio, secondo Aristotele, che questo fine sia la felicità, dal momento che la ricchezza, il successo e tutto ciò che si possa considerare un bene desiderabile sono perseguiti come mezzo per essere felici. La ricerca e la determinazione della felicità costituiscono dunque l’oggetto primo e fondamentale sia dell’etica sia della politica, perché soltanto rispetto alla felicità si può prescrivere ciò che gli esseri umani debbono fare o apprendere, sia come singoli sia nella vita associata. Ma in che cosa consiste la felicità umana?
La felicità Evidentemente si può rispondere a questa domanda soltanto se si determina la destinacome vita zione naturale dell’uomo, dal momento che un individuo è felice quando svolge bene l’atsecondo ragione tività che gli è propria: il suonatore quando suona bene, il costruttore quando costruisce
oggetti perfetti e così via. Ora, l’attività propria degli esseri umani non è la vita vegetativa (che l’uomo ha in comune con le piante), né la vita dei sensi (che ha in comune con gli altri animali), ma la vita della ragione, o dell’intelletto. L’uomo, dunque, sarà felice soltanto se vivrà secondo ragione: in ciò consiste la virtù umana. In Aristotele l’indagine sulla felicità , intesa come vita pienamente realizzata, diventa quindi indagine sulla virtù, intesa (secondo il significato greco del termine areté) come realizzazione ottimale della propria natura. glossario p. 436
La “piacevolezza” Alla virtù è congiunto, secondo Aristotele, anche il piacere. Quest’ultimo, infatti, accomdella virtù pagna e perfeziona qualsiasi attività umana, alimentandola e motivandola, e abbiamo vi-
sto che l’attività tipicamente umana consiste nell’esercizio della virtù, cioè della ragione. Pertanto la vita virtuosa sarà anche piacevole.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
I due tipi di virtù Come abbiamo detto, per l’essere umano la vita virtuosa (e dunque felice) risiede nell’esercizio della ragione, che a sua volta coincide con il funzionamento eccellente della sua anima. Ora, sappiamo che, oltre alla parte razionale o intellettiva dell’anima, negli uomini esistono anche due parti irrazionali: una è quella vegetativa o nutritiva, che concerne la nutrizione e la crescita, ovvero due facoltà che, in quanto comuni a tutti i viventi, non possono costituire la virtù specifica dell’uomo; l’altra è quella sensitiva o appetitiva, che, pur essendo priva di ragione, in qualche modo ne partecipa, nel senso che dalla ragione può essere orientata. Dalla distinzione tra l’anima sensitiva (che con la ragione ha comunque un legame) e l’anima razionale, Aristotele ricava la distinzione tra due tipi fondamentali di virtù: le virtù etiche (dal greco éthos, che significa sia “costume” o “abitudine”, sia “carattere”), consistenti nel dominio della ragione sugli impulsi sensibili. Aristotele le chiama “etiche” perché tendono a perfezionare il “carattere” (cioè la dimensione affettiva ed emotiva dell’essere umano) e, come vedremo, si acquisiscono attraverso l’abitudine; le virtù dianoetiche , o intellettive (dal greco diánoia, “pensiero intellettivo”), che consistono nell’esercizio stesso della ragione, mediante cui l’uomo realizza la sua natura più propria: quella razionale. glossario p. 436 ( T1 p. 440)
Le virtù etiche Poiché le passioni e gli impulsi che la ragione deve governare sono nu-
merosi, numerose sono anche le virtù etiche, le quali fondamentalmente consistono, secondo le stesse parole di Aristotele, nella «disposizione a scegliere il giusto mezzo adeguato alla nostra natura, quale è determinato dalla ragione, e quale potrebbe determinarlo il saggio» (Etica nicomachea, II, 6, 1107a). Ciò che rende virtuoso il nostro comportamento è dunque la scelta del giusto mezzo . Essa consiste, di fatto, nell’esclusione dei due estremi dell’eccesso e del difetto. Si tratta di una capacità di scelta che si perfeziona e si rinvigorisce con l’esercizio, e i cui diversi aspetti costituiscono le singole virtù etiche. Ad esempio, il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà, e verte intorno a ciò che si deve o non si deve temere; la temperanza è il giusto mezzo tra l’intemperanza e l’insensibilità, e concerne la ricerca moderata dei piaceri; la liberalità è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità, e coincide con l’uso accorto delle ricchezze; la magnanimità è il giusto mezzo tra la vanità e l’umiltà, e determina la retta opinione di sé stessi; la mansuetudine è il giusto mezzo tra l’irascibilità e l’indolenza, e si traduce in una razionale gestione dell’ira. glossario p. 436 Come si può notare, nel principio aristotelico del giusto mezzo è identificabile una sorta di sintesi di quella saggezza greca arcaica che aveva trovato la sua espressione più tipica nei motti dei “sette savi” ( unità 1, cap. 1, p. 21). Questi, infatti, avevano «additato nella via media, nel nulla di troppo, nella giusta misura, la suprema regola dell’agire morale: regola che è come una cifra paradigmatica del modo di sentire ellenico» (Giovanni Reale).
Il giusto mezzo
FILOSOFIA E ARTE Platone e Aristotele nell’interpretazione di Raffaello p. 450
Dopo aver detto in che cosa consistano le virtù etiche per Aristotele, occorre chiarire come La virtù come si acquisiscano. Aristotele ritiene che non si imparino mediante lo studio; esse, cioè non abitudine derivano dalla conoscenza del bene quale principio generale, ma si apprendono mediante l’abitudine (éthos), una sorta di addestramento o esercizio ripetuto, attraverso il quale impariamo a moderarci. Ad esempio, diventiamo coraggiosi compiendo atti coraggiosi, ovvero esercitandoci a vincere la paura. Con il tempo la virtù del coraggio diventa un’acquisizione stabile, un “abito” o una “seconda natura” che, in quanto inclinazione quasi automatica, ci farà compiere più facilmente atti coraggiosi.
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Aristotele osserva inoltre che per la formazione di un buon carattere sono determinanti l’educazione e l’esempio di un maestro, che spinga l’allievo ad acquisire buone abitudini, cioè ad essere virtuoso. ( T2 p. 443) Il ruolo del L’aspetto più interessante dell’indagine condotta da Aristotele sulle virtù etiche è però il desiderio ruolo determinante da lui attribuito alla componente emotiva e al desiderio, accanto al-
la facoltà razionale. Per Aristotele, infatti, è il desiderio cha ha la capacità di spingere l’uomo all’azione; pertanto lo scopo dell’etica non è indurre l’essere umano a eliminare i desideri e le passioni (che sono insopprimibili), ma ad accoglierli e a viverli secondo una giusta misura, istituendo un accordo tra la facoltà o anima desiderante e quella razionale. In questo consiste lo «scegliere il giusto mezzo» di cui parla Aristotele. Ma in che senso si tratta di una “scelta”?
Tra desiderio Socrate aveva affermato che il male non è mai volontario, perché la volontà si volge necese scelta sariamente verso ciò che l’intelletto valuta come bene. Per Aristotele, invece, per compiere dei mezzi
il bene non è sufficiente conoscerlo (intellettualismo etico): bisogna anche volerlo. Tuttavia, ciò che Aristotele ha in mente non è tanto una volontà completamente libera, quanto quello che potremmo chiamare un desiderio ragionato, o un intelletto desiderante: vediamo in che senso. Per Aristotele il fine che muove all’azione non è l’oggetto di un’autentica “scelta”, ma sorge come un desiderio spontaneo. Possiamo scegliere i mezzi per conseguire il fine che desideriamo, ma non possiamo scegliere che cosa desiderare. Le pulsioni e i desideri emergono in modo incontrollato dalla sfera delle tendenze pulsionali (l’anima sensitiva o appetitiva) e dal nostro “carattere”, che può essere più o meno “virtuoso” a seconda che sia stato più o meno “addestrato” o abituato alla virtù. Ad esempio, quando vediamo per strada un mendicante che ha freddo, il nostro primo impulso è quello che orienterà la nostra azione. Se siamo stati educati bene e abbiamo un buon “carattere”, allora sentiremo il desiderio di aiutarlo; in caso contrario proveremo indifferenza. Ciò che spetta alla ragione è soltanto la scelta dei mezzi più idonei per realizzare l’impulso che è sorto in noi: se desideriamo soccorrere il mendicante, allora ragioneremo sui mezzi per farlo. Con una formula paradossale, si potrebbe dire che per Aristotele bisogna imparare a desiderare cose buone, cioè fini migliori. Ma è possibile imparare a desiderare una cosa piuttosto che un’altra, se i desideri sgorgano spontaneamente dal fondo delle nostre pulsioni? L’essere umano può dirsi davvero “libero”?
La libertà in Aristotele chiama “libero” ciò che ha in sé (e non in una causa esterna) il principio dei Aristotele propri atti. L’essere umano – egli afferma – è libero in quanto è «il principio e il padre dei
suoi atti come dei suoi figli» (Etica nicomachea, III, 7, 1113b, 100 ss). Ma questa nozione aristotelica di “libertà” è diversa da quella (posteriore, di matrice cristiana) di “libero arbitrio”. Il libero arbitrio, infatti, implica che un soggetto possa scegliere in modo completamente autonomo, senza farsi determinare dai propri desideri, mentre per Aristotele, come abbiamo visto, questo non è possibile, poiché nessuno può eliminare la parte desiderante della propria anima, che lo inclina verso un certo fine. Tuttavia, tra un soggetto completamente determinato dall’irrazionalità dei desideri, e un soggetto completamente libero di seguire i princìpi della ragione, egli individua una terza possibilità, ovvero quella di un individuo che mediante l’esercizio e l’abitudine abbia “modellato” i propri impulsi, orientandoli verso fini buoni. In questo modo egli riesce a salvaguardare la responsabilità di chi agisce, pur riconoscendo il ruolo fondamentale giocato dall’emotività.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
La principale delle virtù etiche è la giustizia , a cui Aristotele dedica un intero libro dell’Etica La giustizia nicomachea. Nel suo significato più generale, cioè come conformità alle leggi, la giustizia non è una virtù particolare, ma “la” virtù intera e perfetta. Colui che rispetta tutte le leggi è infatti l’uomo interamente virtuoso. glossario p. 436 Oltre a questo significato generale, la giustizia ha un significato specifico, che riguarda l’agire in vista di un guadagno nell’ambito dei rapporti con i nostri simili: in questa accezione, essa può essere «distributiva» o «commutativa». La giustizia distributiva è quella che presiede alla distribuzione degli onori, del denaro e di tutti gli altri beni a coloro che appartengono alla stessa comunità. Tali beni devono essere distribuiti a seconda dei meriti di ciascuno. Perciò la giustizia distributiva è simile a una proporzione geometrica, nella quale le ricompense distribuite a due persone stanno tra loro come i rispettivi meriti. La giustizia commutativa presiede invece ai contratti, intesi in senso lato come vincoli tra due o più individui (dal verbo latino contráhere, letteralmente “trarre insieme”, “riunire”). I contratti possono essere volontari o involontari. Sono contratti volontari l’acquisto, la vendita, il mutuo, il deposito, la locazione ecc., in cui alcuni beni vengono “scambiati” con altri. Quanto ai contratti involontari, alcuni sono fraudolenti, come il furto, il veneficio, il tradimento, la falsa testimonianza; altri sono violenti, come le percosse, l’uccisione, la rapina, l’ingiuria ecc. In questi casi la giustizia commutativa è correttiva: mira, cioè, a pareggiare i vantaggi e gli svantaggi tra i due “contraenti”. Nei contratti involontari l’intensità della pena inflitta al reo dev’essere proporzionata al danno da lui arrecato: questa giustizia è dunque simile a una proporzione aritmetica (ovvero a un rapporto riconducibile all’uguaglianza). Sulla giustizia è fondato il diritto, che Aristotele distingue in diritto privato e diritto pub- Il diritto blico. Quest’ultimo, in particolare, concerne la vita associata degli uomini nello Stato e si e l’equità distingue a sua volta in diritto legittimo (o positivo), che è quello stabilito nei vari Stati, e in diritto naturale, che conserva il proprio valore dovunque, anche se non è sancito da leggi. Dal diritto Aristotele distingue l’equità, che è la corrispondenza della legge positiva a quella naturale. Poiché una tale corrispondenza non può mai essere perfetta, l’equità consisterà, concretamente, in una correzione della legge mediante il diritto naturale, resa VIDEO necessaria dal fatto che non sempre nella formulazione delle leggi è possibile contemplare Le virtù tutti i casi, la qual cosa comporta che la loro applicazione risulti talvolta ingiusta. etiche nel dominio della ragione sugli impulsi sensibili consistono
LE VIRTÙ ETICHE
nella disposizione a scegliere il giusto mezzo tra i due estremi dell’eccesso e del difetto distributiva (distribuisce i beni nella società in base ai meriti) LA GIUSTIZIA
è
la virtù etica più importante
e può essere commutativa (presiede ai contratti, pareggiando vantaggi e svantaggi dei contraenti)
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Le virtù dianoetiche Le virtù dianoetiche o intellettive sono quelle proprie dell’anima
razionale e comprendono l’arte, la saggezza, l’intelligenza, la scienza e la sapienza, ovvero le attività attraverso le quali si esprime e si realizza la natura razionale umana.
Le cinque virtù della ragione
1. L’arte (intesa in senso lato, come téchne) è la capacità, accompagnata da ragione, di pro2.
3. 4.
5.
durre oggetti; poiché consiste nella produzione di qualcosa, essa ha sempre un fine esterno che orienta l’azione. La saggezza (phrónesis) riguarda invece proprio l’azione. Essa, infatti, è la capacità, congiunta a ragione, di agire convenientemente per raggiungere il bene: è quindi alla saggezza che spetta il compito di determinare il giusto mezzo in cui consistono le diverse virtù morali. L’intelligenza (noús) è la capacità di cogliere i princìpi primi comuni a tutte le scienze, ovvero quei princìpi che non cadono nell’ambito delle scienze particolari. La scienza (diánoia) è la capacità di costruire ragionamenti dimostrativi (i sillogismi scientifici cap. 3, p. 384). Poiché consiste nel ricavare affermazioni necessariamente vere da verità universali, essa ha per oggetto il necessario e l’eterno, ossia ciò che non può accadere diversamente da come accade (ad esempio le leggi dell’essere o dei numeri, ma anche le leggi dei fenomeni naturali). La sapienza (sophía) è il grado più alto della scienza: sapiente è colui che ha nello stesso tempo scienza e intelligenza, cioè colui che è capace non soltanto di dedurre dai princìpi, ma anche di giudicare della verità dei princìpi.
La vita Poiché l’esercizio della virtù, in quanto esercizio dell’attività propria dell’uomo, condupienamente ce alla felicità, la felicità più alta consisterà nella virtù più alta, e quindi nella sapienza. felice del sapiente La sapienza costituisce dunque il grado più alto della felicità. Il sapiente, infatti, basta a
I NODI DEL PENSIERO Che cos’è la felicità? p. 474
sé stesso e non ha bisogno, per coltivare ed estendere la propria sapienza, di nulla che egli stesso non abbia in sé. La vita del sapiente, dedita esclusivamente alla ricerca, è fatta di serenità e di pace, poiché egli non si affatica per un fine che gli è esterno, la cui raggiungibilità è problematica, ma per un fine che coincide con l’attività stessa della sua intelligenza. consistono
LE VIRTÙ DIANOETICHE
nell’esercizio della ragione
l’arte
che
produce oggetti
la saggezza
che
guida il comportamento
l’intelligenza
che
coglie i princìpi primi
la scienza
che
dimostra tesi a partire dai princìpi
sono
unisce intelligenza e scienza la sapienza
che
conosce le realtà più alte e sublimi conduce alla maggiore felicità possibile
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
EDUCAZIONE CIVICA
LA FILOSOFIA CHE VIVE La “saggezza” della legge tra giustizia ed equità
Da Aristotele all’odierna giurisprudenza Tra le varie lezioni aristoteliche, una delle più interessanti è quella legata alla concezione della saggezza, la virtù dianoetica che Aristotele fa consistere nello scegliere il giusto comportamento in una determinata situazione. Così intesa, la saggezza è volta all’azione, ma per guidare correttamente la scelta deve guardare alle cose più alte e sublimi. Essa, dunque, deve coniugare la conoscenza dell’universale (i princìpi supremi della verità e del bene) e del particolare (il caso specifico che di volta in volta ci si trova ad affrontare). Un ambito privilegiato in cui questo principio trova applicazione è quello dell’odierna giurisprudenza. Non a caso, la parola latina prudentia è la traduzione del greco phró nesis (saggezza): la iuris prudentia è quindi la “saggezza del diritto”, ossia la capacità di applicare la legge (l’universale) a situazioni particolari. In effetti, quando pronuncia una sentenza su un determinato caso, il giudice precisa e perfeziona la legge a cui sta facendo riferimento, specificandone il senso e i limiti. Le sentenze emesse dai giudici sono quindi un importante complemento del diritto: esse completano le leggi, diventando a loro volta la base per ulteriori sentenze (i cosiddetti “precedenti”). Dalla giustizia astratta all’equità sociale L’applicazione nella giurisprudenza dell’ideale aristotelico della phrónesis richiama anche il tema dell’insopprimibile tensione fra la giustizia (in astratto e in generale) e l’equità sociale, intesa come attenzione alla situazione concreta in cui ciascuno si trova. A questo proposito nell’articolo 3 della nostra Costituzione si legge:
SVILUPPO SOSTENIBILE Pace. giustizia e istituzioni forti
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questo importante articolo, l’enunciazione astratta e teorica dell’uguaglianza dei diritti (primo comma) è “corretta” con l’idea che ogni persona vive in una condizione specifica e presenta quindi esigenze differenti da quelle altrui: il principio generale enunciato dalla legge deve pertanto essere calato nella concretezza del particolare. Questa operazione di concretizzazione (come si legge nel secondo comma) spetta allo Stato. Il Welfare State La tutela dei diritti individuali universali (lo Stato di diritto) esige dunque come suo completamento il cosiddetto Welfare State (letteralmente “Stato del benessere”, comunemente detto Stato sociale). L’espressione, nata nel secondo dopoguerra, indica un modello in cui Lo Stato si fa carico di promuovere e difendere il benessere e la sicurezza sociale ed economica dei cittadini. Lo Stato sociale si concretizza quindi in un insieme di politiche pubbliche che offrono ai cittadini protezione e sostegno in caso di urgenti necessità di tipo socio-economico. Tipico è il caso dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”, con cui lo Stato predispone l’aiuto (contributi economici o sgravi fiscali) di quanti, non per causa loro, si trovino a perdere il posto di lavoro.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
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DIBATTITO CRITICO
Con quali strumenti lo Stato può efficacemente contribuire all’equità, ovvero favorire l’effettiva uguaglianza dei cittadini? INDICAZIONI OPERATIVE A casa, documentati sul tema sollevato dalla questione. In particolare puoi focalizzare la tua attenzione sui concetti di “giustizia davanti alla legge” e “giustizia redistributiva”, informandoti sul concreto funzionamento del sistema del Welfare in Italia. In classe, dividetevi in piccoli gruppi e all’interno di ciascuno di essi avviate una discussione-confronto sulle ricerche svolte a casa, cercando con l’aiuto dell’insegnante di chiarire eventuali dubbi e sviluppare gli spunti di riflessione emersi. QUESTIONE
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Il carattere Inoltre la vita teoretica o contemplativa, cioè dedita alla conoscenza, è una vita per divino della certi versi superiore a quella tipicamente umana, cioè alla vita “pratica”, fatta di azioni vita teoretica
concrete. L’uomo non la vive tanto perché è un uomo, quanto perché ha in sé qualcosa di divino:
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L’uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco di quantità, per potenza e valore (Etica nicomachea, X, 7, 1177b) supera tutte le altre cose.
Sapienza L’etica di Aristotele si conclude dunque con la netta affermazione della superiorità dele saggezza la vita teoretica rispetto a quella pratica. Questo è un punto in cui il distacco polemico in Platone e in Aristotele da Platone è più accentuato. Platone, infatti, non distingueva la sapienza dalla saggez-
za: con queste due parole intendeva la stessa cosa, cioè la condotta razionale della vita umana, e in particolare della vita associata, tanto che i filosofi (cioè gli autentici sapienti) erano chiamati a non tenere per sé il loro sapere, ma a metterlo a frutto dirigendo lo Stato. Aristotele, invece, distingue e contrappone i due concetti: per lui, come abbiamo visto, la saggezza ha per oggetto le faccende umane, che sono mutevoli e che non possono essere incluse tra le cose più alte, mentre la sapienza ha per oggetto l’essere necessario, che si sottrae a ogni cambiamento e che quindi rappresenta l’oggetto più elevato della conoscenza umana, e l’unica fonte dell’autentica felicità. Il sapiente di Aristotele è pienamente felice perché non ha bisogno di (e anzi non deve) “sporcarsi” le mani con il mondo e può dedicarsi completamente alla contemplazione.
La concezione dell’amicizia Nell’Etica nicomachea troviamo anche un’analisi dell’amicizia (a cui Aristotele dedica ben due libri, l’VIII e il IX) che è tra gli approfondimenti più notevoli che mai siano stati prodotti su questo argomento. L’importanza Per Aristotele l’ amicizia (philía) o è una virtù o è strettamente congiunta con la virtù. In dell’amicizia ogni caso, essa risulta indispensabile alla vita, «giacché senza amici nessuno sceglierebbe
di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni» (VIII, 1, 1155a, 1-10 ss.). Anzi l’amicizia – che Aristotele intende secondo l’accezione più vasta del termine, ossia come ogni sentimento di affetto e attaccamento verso gli altri – non è soltanto una cosa necessaria alla vita (sia per il ricco, sia per il povero), ma anche una cosa bella (kalón). glossario p. 436
I tipi di amicizia L’analisi aristotelica ruota fondamentalmente intorno a due problemi: la focalizzazione delle specie di amicizia e l’individuazione delle condizioni in cui l’amicizia si realizza. Per quanto concerne il primo punto, Aristotele afferma che l’amicizia può essere fondata sull’utile, sul piacere o sul bene, ossia sulle tre determinazioni grazie alle quali qualcosa risulta umanamente “amabile”. Di conseguenza, ci saranno tre specie di amicizia: per utilità, per piacere e per virtù.
L’amicizia Ovviamente, questi tre tipi di amicizia non hanno tutti lo stesso valore, né il medesimo per utilità grado di consistenza. Innanzitutto, gli uomini che si amano reciprocamente in ragione e per piacere
dell’utile o del piacere non si amano «per sé stessi», ma in quanto da tale sentimento deriva loro un qualche vantaggio. Questi due tipi di amicizia sono quindi accidentali e facili a rompersi, non appena cessi l’utilità o il piacere che producono.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
Se l’amicizia per utilità è tipica dei vecchi, che più di tutti gli altri hanno bisogno di aiuto, quella per piacere è propria dei giovani:
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Costoro [i giovani] infatti vivono secondo passione e perseguono soprattutto ciò che a loro piace personalmente e ciò che piace al momento. Ma quando l’età muta, anche le cose che piacciono diventano altre. Per questo in fretta diventano amici ed in fretta cessano di esserlo […]. (Etica nicomachea, VIII, 3, 1156a, 30-35)
Inoltre, i giovani sono inclini all’amicizia amorosa, per cui «amano e cessano di amare con rapidità, mutando più volte nel medesimo giorno» (ibidem, 1156b, 1-5). Al contrario, l’amicizia per virtù è stabile e ferma, in quanto fondata sul bene. Chi è L’amicizia buono ama l’amico per sé stesso, e non per i vantaggi che gliene possono derivare. Ciò non per virtù toglie che un simile legame, in quanto buono, sia al tempo stesso massimamente utile e massimamente piacevole per coloro tra i quali intercorre. Esso pertanto realizza in sé tutte le condizioni di amabilità, e quindi di durata. Naturalmente le amicizie di questo tipo – osserva Aristotele – sono assai rare, poiché rari sono i buoni. Inoltre, esse hanno:
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bisogno di tempo e di consuetudine di vita, giacché, secondo il proverbio, non è possibile conoscersi l’un l’altro prima d’aver consumato assieme il sale di cui esso [il proverbio] parla. Né pertanto è possibile accogliere qualcuno nella propria amicizia né essere amici prima che ciascuno si sia mostrato amabile all’altro ed abbia ottenuto fiducia. (Etica nicomachea, VIII, 4, 1156b, 25-32)
In conclusione, sentenzia il filosofo, «il desiderio di amicizia sorge rapidamente, ma l’amicizia no» (ibidem). Da tutto questo discorso segue che il concetto di amicizia, dal punto di vista di Aristotele, “Amicizia” non è né di tipo univoco né equivoco, bensì analogico. In senso forte e primario, infatti, e “amicizie” amicizia è soltanto quella per virtù, mentre le altre lo sono in senso debole e secondario, cioè per somiglianza, o analogia. Passando a esaminare le condizioni in cui si realizza L’intimità l’amicizia, Aristotele distingue la disposizione all’amicizia dal suo effettivo esercizio, puntualizzando che soltanto coloro i quali vivono in intimità di rapporti possono esercitare effettivamente l’amicizia, in quanto «nulla è così proprio degli amici che il vivere assieme». Tant’è vero che, se l’assenza diventa troppo lunga, «tutti riconoscono che essa produce oblio […] donde si dice: “molte amicizie un lungo silenzio ha dissolto”».
Le condizioni dell’amicizia
Dopo aver osservato che le persone scontrose non sono inclini all’amicizia, Aristotele ri- La piacevolezza corda che nessuno ama trascorrere le proprie giornate in compagnia di un individuo poco piacevole, in quanto la natura spinge a «fuggire ciò che è penoso» e a «tendere a ciò che è piacevole» (Etica nicomachea, VIII, 6). Infine, secondo Aristotele l’amicizia è una forma di concordia che, per funzionare adegua- L’uguaglianza tamente, presuppone una sostanziale uguaglianza tra gli individui, tra i quali, se c’è troppa distanza per virtù, intelligenza, fortuna ecc., non è possibile una proficua intesa. Questo non significa che per il filosofo non possa esistere anche un’amicizia tra “disuguali”, ossia tra un superiore e un inferiore (ad esempio tra genitore e figlio, tra vecchio e giovane, tra comandante e comandato); tuttavia l’amicizia tipica si realizza, secondo Aristotele, soprattutto tra uguali.
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Il ristretto Interrogandosi poi, verso la fine della propria dissertazione, sul numero di amicizie che numero è bene o possibile coltivare, il filosofo risponde: di amici è senz’altro bene non cercare di avere il maggior numero possibile di amici, ma tanti quanti sono sufficienti a vivere in intimità, giacché tutti ammettono che non è neppure possibile essere intensamente amico di molti. Per questo motivo non è neppure possibile essere innamorato di molti: l’amore vuol essere infatti una sorta di eccesso [hyperbolé] d’amicizia, e questo è verso una sola persona. Pertanto anche l’essere intensamente amici sarà verso poche persone. Coloro che hanno molti amici e che si legano intimamente con tutti quelli che capitano, è comunemente riconosciuto che non sono amici di nessuno. (Etica nicomachea, IX, 10, 1171a, 10-20)
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Amicizia, Dalla multiforme e articolata analisi aristotelica segue che l’amicizia è una forma di “cobenevolenza munione” (koinonía) basata su un’uguaglianza di rapporti e fondata su un’intesa solidale e e amore
virtuosa tra persone che perseguono reciprocamente il bene altrui. Come tale, l’amicizia va distinta sia dalla benevolenza (intesa, letteralmente, come il “volere il bene degli altri”) sia dall’amore (inteso come éros). Essa, infatti, è certamente una forma di benevolenza, ma non è da confondersi con la benevolenza in senso stretto, in quanto «si ha benevolenza anche verso chi non si conosce ed essa può restare celata, l’amicizia no». Analogamente, pur essendo una forma d’amore, l’amicizia non deve essere confusa con l’amore in senso stretto, in quanto l’éros ha i caratteri di un’affezione in cui entrano in campo fattori emotivi e sessuali, e in cui gioca un ruolo determinante la seduzione della bellezza. Tant’è vero che, nei rapporti amorosi, «quando il fiore della giovinezza dilegua, talvolta dilegua anche l’amicizia». Questo non significa che l’amore, per Aristotele, sia necessariamente passeggero. Infatti esso può anche stabilizzarsi in un’intesa duratura fondata sull’attrazione dei caratteri (Etica nicomachea, VIII, 5), e quindi dar luogo a una comunione di vita fondata su un’amicizia stabile.
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Per l’esposizione orale
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1. Illustra il rapporto che Aristotele istituisce tra virtù, felicità e attività razionale. 2. Spiega che cosa sono le virtù «etiche» e le virtù «dianoetiche» di cui parla Aristotele. 3. Che cos’è per Aristotele la giustizia? quali forme di giustizia si possono distinguere? 4. RIFLESSIONE CRITICA Considera la concezione aristotelica e platonica della saggezza e della sapienza: quale condividi maggiormente? per quali motivi? 5. Esponi la concezione aristotelica dell’amicizia.
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
FILOSOFIA E LETTERATURA SNODI PLURIDISCIPLINARI
L’AMICIZIA DA ARISTOTELE A CICERONE
ceto o partito. Cicerone si rifà invece ad Aristotele, contrapponendo a tale concezione utilitaristica una forma di legame affettivo più alto e disinteressato:
L’ottavo e il nono libro dell’Etica nicomachea sono una sorta di trattato nel trattato, dedicato al tema dell’amicizia. Quest’ultima è per Aristotele una virtù, perché, quando non è fondata sulla ricerca dell’utile o del piacere, aiuta gli amici a perfezionarsi spiritualmente. La disinteressata sollecitudine per l’altro, infatti, ci rende “buoni” e capaci di impegnare la parte più nobile della nostra natura per il bene dell’amico, tanto che Aristotele afferma che questi diventa uno “specchio” di noi stessi.
L’amicizia come forma di virtù La riflessione aristotelica sull’amicizia si impone nel mondo antico e tardo-antico come un modello sia filosofico sia letterario, influenzando tra gli altri anche lo scrittore e oratore latino Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.). Un anno prima di morire, Cicerone compone il dialogo Lelio o Dell’amicizia, più noto con il titolo latino De amicitia. Si tratta del resoconto di una conversazione in cui il pretore e console romano Gaio Lelio (188-125 a.C.) rievoca la sua amicizia con Scipione Emiliano (185-129 a.C.), che nel 147 a.C. aveva sconfitto Cartagine nella terza guerra punica. Per i Romani l’amicizia rientrava nelle necessitudi nes (“necessità”), poiché era considerata un legame (sodalitas) fra individui (sodales) accomunati da uno stesso scopo pratico, o facenti parte di un medesimo
LABORATORIO
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L’amicizia mi sembra sorta più dalla natura che dall’indigenza, più dall’inclinazione dell’anima con un suo certo senso d’amore, che dalla riflessione sull’utilità che essa avrebbe poi avuto. (Cicerone, L’amicizia, a cura di E. Narducci, Rizzoli, Milano 2020, p. 103)
E anche per Cicerone, come per Aristotele, la vera amicizia caratterizza soltanto l’«uomo virtuoso» (vir bonus), che cerca il bene dell’amico e vede in lui una sorta di alter ego: Chi rimira un vero amico, rimira come un’immagine di sé stesso [exemplar sui]. (Cicerone, L’amicizia, cit., p. 97)
Il valore “politico” dell’amicizia Cicerone si rifà alla riflessione aristotelica anche per un altro aspetto. Come per Aristotele «l’amicizia sembra tenere unite le città», così per Cicerone essa coinvolge non soltanto la sfera privata, ma anche quella pubblica, costituendo la base della coesione sociale, della forza morale e del benessere di un popolo: Se toglierai alla natura il vincolo dell’affetto, né una casa potrà reggersi, né una città, e nemmeno l’agricoltura durare. […] Quale casa, infatti, è così salda, quale città così forte, che odii e disordini non possano rovesciarla dalle fondamenta? Da questo si può giudicare quanto di buono vi sia nell’amicizia. (Cicerone, L’amicizia, cit., p. 99)
COMPETENZE Individuare i nessi tra la filosofia e la letteratura | Riflettere
e argomentare, individuando collegamenti e relazioni
RIFLETTERE E COLLEGARE
Se cerchiamo il termine “amicizia” in un qualsiasi vocabolario della lingua italiana, troveremo all’incirca la stessa definizione che ne hanno fornito Aristotele e Cicerone. Eppure oggi la parola “amicizia” ha subìto nell’ambito dei social network un’importante variazione di significato: gli “amici” sono contatti virtuali, perlopiù privi di una dimensione affettiva, e la socialità di una persona è spesso valutata sulla base della quantità di tali contatti, anziché sulla qualità dei rapporti.
• Utilizzando le informazioni acquisite attraverso lo studio dell’Etica nicomachea di Aristotele (da collegare alla riflessione di Cicerone), illustra in un breve saggio la tua personale idea di amicizia, analizzando il tipo di relazioni “amicali” che si costruiscono attraverso i social network. Chiarisci, inoltre, se e in che senso oggi possa essere valida l’idea che l’amicizia contribuisca a migliorare non soltanto gli individui, ma anche la società.
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2. La politica La concezione dello Stato La necessità In quanto scienza dell’agire umano e del bene, l’etica non è una disciplina autonoma, ma della vita rientra in quella che Aristotele chiama «scienza politica», la quale ha per oggetto il bene associata
dell’individuo come parte della comunità. Per la mentalità greca, del resto, l’individuo
OFFICINA coincide con il cittadino, dal momento che, come dice Aristotele con una formula divenuta CITTADINANZA Socialità e solidarietà p. 34
celebre, «l’uomo è un animale politico» (Etica nicomachea, I, 1169b), cioè un vivente (zóon) che per natura è portato a vivere in società (nella pólis). Più precisamente, l’origine della vita associata è da ricercarsi nel fatto che l’individuo non basta a sé stesso: non soltanto nel senso che non può da solo provvedere ai propri bisogni, ma anche nel senso che non può da solo, cioè al di fuori della disciplina imposta dalle leggi e dall’educazione, giungere alla virtù. Tant’è vero – sentenzia Aristotele – che «chi non è in grado di entrare nella comunità, o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza è o bestia o dio» (Politica, I, 2, 1253a, 27-30). ( T3 p. 445)
Lo Stato Il fondamento naturale della vita associata è indicato da Aristotele nella divisione degli escome istituto seri umani in maschi e femmine, i quali si uniscono per costituire la prima forma di comunaturale
QUESTIONE L’essere umano è un “animale sociale”? (Crizia, Aristotele) p. 459
nità, la famiglia, che è finalizzata alla perpetuazione della specie e al soddisfacimento dei bisogni elementari. Nella famiglia rientrano anche gli schiavi, che secondo Aristotele sono tali “per natura”, in quanto incapaci delle virtù più elevate: la distinzione tra schiavi e liberi è dunque presentata come naturale, al pari di quella tra maschi e femmine, o tra giovani e vecchi. Dal momento che anche la famiglia non basta a sé stessa, dall’unione di più famiglie sorge il villaggio, quale comunità più ampia in cui gli esseri umani possono soddisfare un maggior numero di bisogni. Sia la famiglia sia il villaggio soddisfano però bisogni di natura materiale; per far fronte ai bisogni spirituali e morali (conoscenza, giustizia ecc.) occorre lo Stato, con tutti i suoi istituti (le scuole, le leggi ecc.). Lo Stato è quindi una formazione naturale, una sorta di famiglia in grande che si trova al culmine dell’evoluzione materiale della socialità umana. Esso non ha nulla di artificiale: non è riconducibile a un contratto fra individui, né è assimilabile a una costruzione a cui gli esseri umani giungano con la ragione al fine di far fronte alle difficoltà insite nella condizione naturale.
La vita felice Lo Stato è una comunità che non ha come scopo soltanto l’esistenza umana, ma l’esistencome fine za materialmente e spiritualmente felice, e questo è il motivo per cui nessuna comunità dello Stato
politica può essere costituita da schiavi o da animali, i quali non possono partecipare di una vita liberamente scelta o dell’autentica felicità che deriva dalla virtù.
La riflessione sulle forme di governo La ricerca Tra coloro che, come Platone, si fermano a delineare un tipo di Stato ideale, difficilmente della migliore realizzabile, e coloro che invece vanno in cerca di uno schema pratico di costituzione e lo costituzione possibile scorgono in qualcuna delle costituzioni già esistenti, Aristotele segue una via di mezzo.
Il problema fondamentale è per lui quello di trovare la costituzione più adatta a tutte le città:
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Bisogna avere in mente un governo non solo perfetto, ma anche attuabile e che possa (Politica, IV, 1, 1288b) facilmente adattarsi a tutti i popoli.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
Bisogna perciò proporre una costituzione che abbia la propria base in quelle esistenti, e che in qualche modo ne corregga i difetti. È per questo motivo che la descrizione dei princìpi della migliore costituzione possibile non si trova all’inizio della Politica, ma negli ultimi due libri dell’opera, come frutto della considerazione critica delle varie costituzioni esistenti, e dei problemi a cui esse danno origine. Come Platone, anche Aristotele distingue tre forme di governo “fisiologiche”: la monarchia, o governo di “uno solo” (in greco mónos); l’aristocrazia, o governo dei “migliori” (in greco áristoi); la politìa (politéia), o governo di molti (da non confondersi con la democrazia). A questi tre tipi fisiologici di costituzione subentrano altrettante degenerazioni patologiche quando i governanti, anziché mirare all’interesse comune, guardano soltanto al proprio vantaggio. In questo caso si ha la tirannide, monarchia degenerata che ha per fine il vantaggio del monarca-despota; l’oligarchia, forma di aristocrazia degenerata in cui ai “migliori” si sono sostituiti i più abbienti (che sono “pochi”, in greco óligoi); la democrazia (oggi diremmo “demagogia”), forma di politìa degenerata, in cui all’ideale del vantaggio di tutti si è sostituito quello del vantaggio dei meno abbienti.
I tipi di governo e le loro degenerazioni
VIDEO Le forme di governo
LE FORME DI GOVERNO per Aristotele sono
la monarchia (governo di uno solo)
che può degenerare in
tirannide (a vantaggio del solo tiranno)
l’aristocrazia (governo dei migliori)
che può degenerare in
oligarchia (a vantaggio di pochi abbienti)
la politìa (governo di molti)
che può degenerare in
democrazia (a vantaggio dei meno abbienti)
Pur ritenendo che ognuna delle tre forme fisiologiche di governo possa essere buona (finché persegue l’interesse dei governati), Aristotele manifesta comunque la propria preferenza per la politìa , ovvero per un governo di tipo democratico in cui prevale la classe media, cioè i cittadini forniti di modesta fortuna. La politìa di cui parla Aristotele «è praticamente una via di mezzo fra l’oligarchia e la democrazia o, come gli studiosi hanno ben notato, una democrazia temperata con l’oligarchia: infatti chi governa è una moltitudine (come nella democrazia) e non una minoranza (come nell’oligarchia), ma non si tratta di una moltitudine povera (diversamente dalla democrazia), bensì di una moltitudine agiata quanto basta per poter servire nell’esercito […]. Come si vede, la politìa contempera i pregi e toglie i difetti delle due forme degeneri» (Giovanni Reale). glossario p. 437
La preferenza di Aristotele per la politìa
OFFICINA CITTADINANZA Uguaglianza e giustizia p. 25
Conformemente al principio secondo cui ogni tipo di governo è buono, purché si adatti al- Le condizioni la natura dell’essere umano e alla situazione storica, Aristotele non si ferma a descrivere del buon governo un governo ideale (come abbiamo detto), ma determina le condizioni per le quali un qualsiasi tipo di governo può raggiungere la propria forma migliore. La prima e fondamentale di tali condizioni è che la costituzione dello Stato sia tale da provvedere alla prosperità materiale e alla vita virtuosa e felice dei cittadini. A questo
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ESERCIZI
proposito vanno tenute presenti le conclusioni dell’Etica nicomachea, e cioè che la vita attiva (o pratica, contrapposta a quella teoretica) non è la sola vita possibile per l’uomo e neanche la più alta, e che accanto a essa e al di sopra di essa c’è la vita contemplativa, dedita alla conoscenza, la quale pertanto deve essere favorita e garantita dallo Stato. ( T4 p. 446) Altre condizioni concernono il numero dei cittadini, che non deve essere né troppo elevato né troppo basso, e la situazione geografica, cioè la collocazione del territorio dello Stato, che non deve essere inospitale e le cui caratteristiche (clima, conformazione ecc.) possono favorire o ostacolare un’armonica vita comunitaria. Importante è poi l’indole dei cittadini, che deve essere coraggiosa e intelligente, come quella dei Greci, che per Aristotele sono i più adatti a vivere in libertà e a dominare gli altri popoli.
La critica È necessario poi che nella città tutte le funzioni siano ben distribuite e che si formino le del comunismo tre classi fondamentali (governanti, guerrieri e produttori), secondo il progetto platonico. platonico
Contro Platone, tuttavia, Aristotele esclude la comunanza delle donne e della proprietà, considerandole in contrasto con la natura umana, che proprio nell’affetto e nell’interesse trova due delle molle più forti dell’agire:
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Due sono infatti le cose che portano gli uomini a preoccuparsi e ad amare: ciò che è proprio (Politica, II, 4, 1262b) e ciò che è caro.
Aristotele giudica innaturale e impossibile anche l’obiettivo platonico dell’unità organica dello Stato, poiché contrasta con l’ineliminabile eterogeneità del tessuto sociale: è chiaro che se uno Stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno Stato, poiché lo Stato è per natura pluralità, e diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia da Stato e a uomo da famiglia. (Politica, II, 2, 1261a)
Il ruolo Inoltre, è necessario che nello Stato comandino gli anziani, perché i cittadini accettadegli anziani no più volentieri una condizione di obbedienza quando questa sia legata alla sola età gioe dell’educazione
I NODI DEL PENSIERO Qual è il rapporto tra individuo e Stato? p. 478
vanile, e si abbia la prospettiva di giungere, con l’avanzare degli anni, a una condizione superiore. Infine, lo Stato deve preoccuparsi dell’educazione dei cittadini, che deve essere uniforme per tutti e diretta non soltanto ad allenare alla guerra, ma anche a preparare alla vita pacifica, alle funzioni necessarie e utili al benessere della comunità e, soprattutto, alle azioni virtuose.
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Per l’esposizione orale
1. Spiega perché, per Aristotele, la vita felice è possibile soltanto nello Stato. 2. Illustra i tratti fondamentali della monarchia, dell’aristocrazia e della politìa, indicando quale delle tre forme politiche sia quella preferita da Aristotele e perché.
Il diritto a realizzarsi nel lavoro
EDUCAZIONE CIVICA
Per Aristotele lo Stato costituisce la dimensione necessaria affinché l’essere umano possa condurre una vita virtuosa. Ma la virtù, e quindi la felicità, si possono raggiungere soltanto realizzando la propria natura, ovvero dedicandosi all’attività che a ciascuno risulta più “congeniale”. Questo principio sembra riecheggiare nella Carta costituzionale del nostro Paese. • Analizza l’articolo 4 della Costituzione italiana, che sancisce il diritto al lavoro: in che senso si tratta non soltanto di un diritto ma anche di un dovere? Che cosa suggerisce l’espressione «secondo le proprie possibilità e la propria scelta»?
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
SVILUPPO SOSTENIBILE Lavoro dignitoso e crescita economica
3. L’estetica e la poetica La concezione della bellezza Nella Poetica Aristotele sviluppa una teoria della bellezza che è più ampia della sua teoria dell’arte, poiché, oltre alla bellezza degli oggetti artistici (prodotti dall’uomo), considera anche quella degli oggetti naturali. In generale, per Aristotele una cosa è bella quando realizza pienamente il suo scopo, La bellezza come finalità che coincide con la sua forma. Mentre i prodotti artistici non hanno alcuna finalità intrinseca e prefissata, ed è l’artista o l’artigiano a imporgliela dall’esterno, negli enti naturali il fine è prestabilito dalla forma, che in natura costituisce lo stato adulto e compiuto di un ente. La forma, infatti, si manifesta quando l’individuo può essere considerato la realizzazione piena dell’universale che gli corrisponde, e quindi la bellezza degli esseri viventi coincide con il raggiungimento della condizione adulta. Un essere umano, ad esempio, sarà pienamente “formato”, e dunque “bello”, quando sarà diventato adulto e potrà dirsi un esempio concreto che incarna l’universale “uomo”. Una volta chiarito quale sia l’essenza della bellezza per Aristotele, possiamo enunciare i tratti esteriori che la definiscono. Il filosofo ricorda innanzitutto l’organicità: la bellezza non consiste semplicemente in una somma di elementi, ma caratterizza sempre un «intero» (hólon), ovvero un insieme organico e strutturato in maniera armoniosa. Inoltre, secondo Aristotele il bello presenta sempre ordine e misura : il primo consiste nella corretta disposizione delle parti di un oggetto; la seconda nelle adeguate dimensioni delle sue componenti, perché se qualcosa è troppo grande o troppo piccolo per poter essere convenientemente colto dai sensi (tra i quali il filosofo privilegia la vista), viene meno la possibilità di apprezzarlo. glossario p. 437
Le caratteristiche esteriori della bellezza
Con queste considerazioni Aristotele non si riferisce però semplicemente ai tratti este- Tra sensibilità riori o materiali dell’oggetto, ma anche e soprattutto all’adeguatezza dell’oggetto stesso e intelletto alla sua forma, la quale è un elemento concettuale. Quando si coglie la forma, o l’universale, di un ente individuale, si prova un piacere che da una parte è legato alla percezione sensibile di quell’ente, e dall’altra alla conoscenza che se ne ottiene mediante l’intelletto. Questo aspetto può risultare più chiaro se si considerano gli oggetti naturali. Tra questi, infatti, alcuni sono immediatamente percepibili come belli, mentre altri a un primo sguardo possono apparire disarmonici, o addirittura ripugnanti. Ma se si va oltre la sensazione, cioè oltre la considerazione meramente fisica dell’oggetto, e si fa ricorso a una comprensione mediata dall’intelletto, allora anche in questi oggetti risalta la loro finalità costitutiva e dunque, in definitiva, la loro bellezza. In questo senso, nella concezione aristotelica del bello, risultano indisgiungibili l’apporto dei sensi e quello dell’intelletto, l’immediatezza e la riflessione.
La concezione dell’arte e della tragedia Una volta chiarita la sua concezione del bello, Aristotele espone la propria teoria dell’arte, che anch’egli (come Platone) assimila in generale all’«imitazione» (mímesis). Nel produrre un oggetto (ad esempio un dipinto, una poesia o una melodia), l’artista non fa che imitare o riprodurre il mondo esperito attraverso i sensi.
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I mezzi, L’imitazione può essere realizzata con mezzi diversi e in modi diversi, e può rivolgersi a digli oggetti versi oggetti. Quanto agli strumenti usati, si può imitare ad esempio per mezzo di colori e e i modi dell’imitazione forme, come avviene nella pittura; o mediante le parole, come avviene nella poesia; o at-
traverso i suoni, come avviene nella musica. Rispetto all’oggetto (e in particolare all’oggetto della poesia), si possono imitare persone superiori agli uomini comuni, come accade nell’epopea e nella tragedia; oppure persone comuni; oppure ancora persone inferiori rispetto al comune, come accade nella commedia. Rispetto ai modi, infine, si può imitare narrativamente o drammaticamente: in quest’ultimo caso si “mettono in scena” personaggi che agiscono e parlano direttamente, come accade nella tragedia e nella commedia. ( T5 p. 448)
La tragedia e Al di là di queste determinazioni generali del concetto di arte come imitazione, la Poetica la sua “unità” di Aristotele contiene soltanto, nella parte giunta a noi, la teoria della tragedia. Quest’ul-
tima è definita nel modo seguente:
‘
imitazione di un’azione seria e compiuta in sé stessa, che abbia una certa ampiezza, un linguaggio ornato in proporzione diversa a seconda delle diverse parti, si svolga a mezzo di personaggi che agiscano sulla scena, e non che narrino, e infine produca, mediante casi di pietà o di terrore, la purificazione di tali passioni. (Poetica, 6, 1449b 20)
Aristotele si sofferma in particolare a illustrare l’unità dell’azione tragica, la quale deve svolgersi con continuità, dal principio alla fine, in modo tale che tutti gli avvenimenti si concatenino tanto efficacemente da rendere impossibile il sopprimerli o il mutarli di posto senza sconvolgere l’ordine e la comprensibilità dell’opera nel suo insieme. Poesia Se la tragedia, come ogni forma artistica, è imitazione, l’oggetto che essa imita, più che il e storia vero, è il verosimile, ossia ciò che può verificarsi «secondo verosimiglianza e necessità».
Per questo la poesia è più “filosofica” e più elevata della storia: la poesia esprime l’universale, mentre la storia il particolare. La storia, infatti, narra tutto quello che è accaduto a un dato personaggio o in un dato periodo secondo la pura e semplice successione degli avvenimenti; la poesia imita invece il verosimile, ossia ciò che può accadere o accade “perlopiù” e che quindi costituisce l’analogo dell’universalità (o della necessità) propria degli oggetti della scienza:
‘
lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scrive in versi e l’altro in prosa; la prosa di Erodoto, per esempio, potrebbe benissimo esser messa in versi, e anche in versi non sarebbe meno storia di quel che sia senza versi: la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti (Poetica, 9, 1451b) realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere.
La funzione In virtù di questa universalità, l’arte (e soprattutto l’arte tragica) non si riduce, per Aristoconoscitiva tele, a un semplice gioco formale, ma tende a configurarsi come una rappresentazione dell’arte
dell’essenza delle cose, ovvero – come osserverà il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer (1900-2002) – come un’attività dotata di «un’eminente funzione conoscitiva» (Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. 147), che contribuisce in maniera particolarmente efficace alla “comprensione” dell’essere umano. Nel carattere imitativo o mimetico dell’arte, Aristotele non scorge dunque alcun motivo valido per considerarla illusoria, come invece accadeva in Platone. Il mondo sensibile imitato dall’artista, infatti, per lo Stagirita non è semplice “apparenza”, ma “realtà” che può essere oggetto di sapere.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
Inoltre, se Platone riteneva che l’azione drammatica, coinvolgendo gli spettatori nelle pas- La funzione sioni violente riprodotte sulla scena, incoraggiasse in loro tali passioni, Aristotele crede in- purificatrice dell’arte vece che la tragedia eserciti una potente azione purificatrice, liberando l’anima dello spettatore dalle passioni rappresentate e cioè dando luogo a un’autentica catàrsi (in greco kátharsis, dal verbo katháiro, “pulisco”, “purifico”). Lo stesso effetto, come vedremo nel prossimo paragrafo, Aristotele riconosce alla musica. glossario p. 437 Attribuendo all’arte, almeno in alcune sue forme, una funzione catartica, Aristotele finisce così per metterne in evidenza uno specifico ruolo educativo e formativo. Nella Poetica, tuttavia, mancano sufficienti elementi espliciti che consentano di intendere Il dibattito l’effettiva natura del concetto di “catarsi”; su questa teoria, che contrappone radicalmente sul valore della catarsi Aristotele a Platone, vi è stato pertanto un lungo dibattito interpretativo. Alcuni critici antichi e moderni hanno ad esempio ritenuto che Aristotele parlasse di una purificazione delle passioni in senso etico, come se l’arte “sublimasse” le passioni mettendo tra parentesi ciò che esse hanno di deteriore. Altri, invece, hanno interpretato la catarsi come liberazione dalle passioni in senso psicologico. Secondo questi ultimi, Aristotele ha inteso dire che lo spettatore, vedendo rappresentata artisticamente una passione, la contempla “dall’alto” o “da lontano”, smorzando così l’effetto emotivo immediato che essa suscita invece nella vita pratica. Come il vedere oggettivati i nostri difetti può aiutarci a spogliarci dei tratti più vistosi di essi, così il contemplare a distanza le passioni negative può contribuire a liberarci di esse.
CONCETTI A CONFRONTO
L’ARTE in PLATONE
in ARISTOTELE
è imitazione del mondo sensibile, cioè imitazione di un’imitazione quindi
è imitazione del mondo sensibile, ma tende a rappresentare l’essenza delle cose quindi
ha scarso valore conoscitivo
ha grande valore conoscitivo
può essere propedeutica alla filosofia, a patto che additi la via che conduce alle idee
è affine alla filosofia, poiché cerca di cogliere e rappresentare l’universale
è tecnica riproduttiva simile a quella del demiurgo (nell’ultimo Platone)
è tecnica produttiva compresa tra le virtù dianoetiche tipiche dell’essere umano
stimola le passioni
stimola le passioni
quindi corrompe gli animi, alimentandone la componente irrazionale
quindi libera gli animi, svolgendo una funzione catartica
433
La concezione della musica L’espressione Alla tragedia, e alla sua funzione educativa e catartica, è strettamente legata la musica, che dei moti insieme alla danza costituiva nel teatro greco un elemento imprescindibile. Aristotele espodell’animo
ne la propria teoria musicale nell’ottavo libro della Politica e nel primo libro della Poetica. Qui sviluppa un’originale rilettura della tradizione pitagorico-platonica, mettendo in secondo piano gli aspetti cosmologici e matematici della musica, per evidenziarne invece quelli pratici. Più che nell’espressione dell’ordine cosmico o della trama delle forme eterne dell’essere, per Aristotele la musica trova infatti la sua maggiore valenza nella straordinaria capacità di dar voce all’anima: diversamente dagli odori, dai sapori e dai colori – ossia da altre manifestazioni percepibili con i sensi –, i suoni (o meglio le melodie musicali) imitano e rendono “sensibili” i moti dell’animo.
La funzione Per questa funzione mimetica (ossia imitativa) nei confronti delle emozioni umane, le catartica composizioni musicali hanno gli stessi effetti catartici della tragedia, perché inducono gli
spettatori a vivere in prima persona le emozioni che imitano:
‘
nei ritmi e nei canti vi sono rappresentazioni, quanto mai vicine alla realtà, dell’ira e della mitezza e anche del coraggio e della temperanza e di tutti i loro opposti e delle altre qualità morali (e questo è provato dall’esperienza, perché quando li ascoltiamo, data la loro natura, sentiamo una trasformazione nell’anima): l’abitudine, poi, di addolorarsi o di gioire di fronte alle rappresentazioni [musicali] è un po’ come il comportarsi allo stesso modo nella realtà. (Politica, VIII, 1340a 15)
Il ritmo della Il ritmo della musica diventa così il ritmo stesso della vita, il movimento emotivo che accommusica pagna le azioni umane, e che l’ascoltatore può sperimentare dentro di sé, provando così una
«innocente gioia» e un «piacevole alleggerimento».
L’avvicinamento Il motivo della gioia e del piacere generati nell’animo umano rappresenta il cuore della alla felicità concezione aristotelica della musica, e anche l’elemento che la differenzia maggiormente
ESERCIZI
dalla visione platonica. Aristotele ritiene infatti che il fine ultimo della vita umana sia il conseguimento della felicità, e che questa sia raggiungibile per mezzo dell’esercizio disinteressato del sapere, forma suprema di libertà. In questa prospettiva si colloca l’idea che anche la musica, come la filosofia, non abbia una vera e propria utilità (perché, come la filosofia, non reca vantaggi materiali e tangibili) e che pertanto, essendo un’attività “libera”, incarni anch’essa il fine più alto dell’essere umano. La musica, in altre parole, non è apprezzabile perché serve a plasmare gli animi in vista dell’ordine politico (come suggeriva Platone includendola nel percorso educativo dei futuri reggitori dello Stato), ma perché si addice all’uomo veramente libero, che realizza la propria natura razionale e che per questo è autenticamente felice. Mentre «la grammatica e il disegno vengono insegnati per la loro utilità pratica», e «la ginnastica perché dispone l’animo al coraggio», la musica è piacevole in sé stessa, esattamente come la filosofia.
)
Per l’esposizione orale
434
1. Spiega in che cosa consiste la bellezza per Aristotele, e in quale relazione si trova con il piacere e con la conoscenza. 2. Definisci le parole: imitazione, verosimile, catarsi; quindi utilizzale per presentare la concezione aristotelica dell’arte e, in particolare, della tragedia. 3. RIFLESSIONE CRITICA attività PLUS Considera il valore formativo attribuito da Aristotele all’arte: pensi anche tu che le opere belle (ad esempio un bel dipinto, una bella canzone, un bel film) non siano soltanto piacevoli a vedersi o ascoltarsi, ma svolgano anche un’importante funzione etica e conoscitiva? per quali motivi?
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
l’eredità di ARISTOTELE DA CHI E CHE COSA EREDITA
CHE COSA LASCIA IN EREDITÀ
da Platone la concezione delle idee come forme intelligibili delle cose
Aristotele trasforma la nozione platonica di “idea” in quella di “forma”, struttura intelligibile e necessaria di ogni cosa esistente; mentre le idee platoniche sono separate dalle cose, le forme aristoteliche sono inseparabili dagli enti sensibili, in quanto la realtà autentica è costituita dalle “sostanze”, cioè da “sinoli” (unioni indissolubili) di materia e forma
da Platone l’identificazione delle idee con le cause delle cose
oltre alla forma (causa formale), Aristotele individua altre tre cause del divenire delle cose: la causa efficiente, la causa materiale e la causa finale
da Platone la distinzione dell’essere secondo cinque “generi sommi” e la disposizione delle idee in una struttura gerarchica in cui le idee meno estese sono incluse in quelle più estese
la funzione dei generi sommi platonici è svolta in Aristotele dalle dieci “categorie”, divisioni o “regioni” della realtà e del pensiero, all’interno delle quali è individuabile una gerarchia di generi e specie
da Platone la convinzione che il non essere implicato dal divenire vada inteso in senso “relativo”, cioè come “essere diverso”
anche per Aristotele il divenire delle cose non implica un passaggio dal non essere all’essere o viceversa, ma solo da un modo di essere a un altro, ovvero dall’essere in potenza all’essere in atto
da Socrate la nozione del “concetto” come “essenza” di una cosa, messa in luce dalla sua definizione
i concetti diventano in Aristotele gli elementi fondamentali del discorso e del ragionamento, ovvero del sillogismo, che li connette tra loro secondo regole formali ben precise
da Democrito l’importanza attribuita all’esperienza sensibile nel processo della conoscenza
anche per Aristotele la conoscenza si basa sull’esperienza (empirismo), sebbene necessiti, oltre che dei dati forniti dai sensi, anche di un atto di intuizione intellettuale simile alla “visione” delle idee di cui parlava Platone
da Socrate e Platone l’idea della virtù come conoscenza, in quanto realizzazione della natura razionale dell’uomo
il razionalismo etico di Socrate e di Platone è condiviso anche da Aristotele, il quale tuttavia ritiene che non esista una sola virtù, ma molte, distinte in “etiche” e “dianoetiche”, e che le prime consistano nella ricerca del “giusto mezzo” nelle diverse situazioni
da Platone la teorizzazione di uno Stato ideale di tipo aristocratico
sebbene non descriva uno Stato perfetto, o ideale, anche Aristotele individua una forma di governo che ritiene migliore delle altre: la politìa
da Platone la concezione dell’arte come imitazione e la sua condanna (in particolare della poesia) in quanto stimolo per le passioni
anche per Aristotele l’arte è imitazione, ma proprio questo è il fondamento del suo valore conoscitivo; inoltre anche per lui la poesia (in particolare la tragedia) stimola le passioni, ma proprio su questo si fonda la sua funzione catartica, che si rivela educativa e terapeutica
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SINTESI E GLOSSARIO
AUDIOSINTESI
CAPITOLO 5 L’AGIRE UMANO: L’ETICA, LA POLITICA E L’ARTE
Per Aristotele la più importante tra le virtù etiche, quella «intera e perfetta» (sia pure non in assoluto, ma per quanto riguarda i rapporti tra gli esseri umani), è la
• giustizia
in generale, la conformità alle leggi; in particolare, il corretto modo di agire in vista di un guadagno. In quest’ultimo caso la giustizia può essere distributiva o commutativa: la prima consiste nell’equa distribuzione dei beni (in base ai meriti) all’interno di una comunità ed è simile a una proporzione geometrica; la seconda riguarda i contratti ed è simile a una proporzione aritmetica.
L’etica Il bene e le virtù Convinto che le azioni umane siano sempre volte a un fine che appare buono e desiderabile, Aristotele identifica il fine che orienta il comportamento con il bene. Tra i beni perseguiti dagli esseri umani, ne esiste uno dal quale tutti gli altri dipendono. Si tratta del
• bene sommo
ciò che viene desiderato per sé stesso e non in vista di un bene ulteriore (altrimenti si andrebbe all’infinito in una scala gerarchica di beni).
A sua volta, il sommo bene è identificato da Aristotele con la
• felicità
la condizione in cui ogni ente si trova quando realizza compiutamente la propria natura. Nel caso dell’essere umano si tratta dell’esercizio della ragione: l’uomo sarà dunque felice soltanto se vivrà “secondo ragione”, realizzando in modo armonico le facoltà che gli sono proprie.
Nella vita secondo ragione consiste, per Aristotele, la virtù umana. L’indagine sulla felicità assume perciò la forma di un’indagine sulla virtù. Aristotele ammette molteplici virtù, riconducibili a due tipi fondamentali:
• virtù etiche / virtù dianoetiche
rispettivamente, le virtù morali, che riguardano il comportamento (éthos) e consistono nel dominio della ragione sugli impulsi sensibili; e le virtù intellettive, che riguardano il pensiero (diánoia) e consistono nell’esercizio stesso della ragione.
Le virtù dianoetiche, invece, sono l’arte, la saggezza, l’intelligenza, la scienza e la sapienza (sophía). Quest’ultima, che concerne le cose divine, costituisce il grado più alto sia della conoscenza sia della virtù, e si distingue dalla saggezza (phrónesis). Infatti la saggezza è rivolta alle faccende umane, ovvero all’azione, mentre la sapienza è fine a sé stessa: essa costituisce la forma di sapere più certa e completa (perché rivolta agli universali) e conduce l’essere umano alla maggiore felicità possibile, ovvero a una condizione divina di pura e libera contemplazione.
L’amicizia Nei libri VIII e IX dell’Etica nicomachea Aristotele analizza
• l’amicizia
(in greco philía) ogni sentimento di affetto e di attaccamento verso gli altri, che in quanto tale è qualcosa di bello e indispensabile alla vita umana, «giacché senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni» (Etica nicomachea, VIII, 1, 1155a, 1-10 ss.)
L’amicizia può fondarsi sull’utile, sul piacere o sul bene. Di queste tre specie di amicizia, quella più autentica è la terza (detta anche «amicizia per virtù»), poiché soltanto in essa l’amico è amato per sé stesso e non per qualche motivo contingente. L’amicizia di questo tipo è assai rara, ma è più duratura.
Le virtù etiche trovano concretizzazione nella scelta, in ogni circostanza determinata, del migliore comportamento possibile, ovvero nel perseguimento del
Le forme dello Stato Per Aristotele il fine dello
l’ideale etico della «medietà» (mesótes), che si può realizzare concretamente scartando, in ogni comportamento, i due estremi dell’eccesso e del difetto.
Stato deve essere la felicità materiale e spirituale dei cittadini. Egli distingue le forme di governo a seconda di chi detiene il potere e di quali interessi persegue: il go-
• giusto mezzo
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La politica
Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
verno, infatti, può essere esercitato da un solo uomo, da pochi uomini oppure dalla maggioranza, e può essere finalizzato all’interesse comune o all’interesse privato. Si delineano in questo modo tre forme di governo (o tre «costituzioni») fisiologiche, e tre corrispondenti forme degenerate. Le tre forme fisiologiche sono la monarchia, l’aristocrazia e la
• politìa
(in greco politéia) la forma di governo (la «costituzione») che Aristotele ritiene la migliore tra tutte. Essa corrisponde a un “governo di molti”, a metà strada fra l’oligarchia (governo volto al vantaggio di pochi abbienti) e la democrazia (governo volto al vantaggio dei meno abbienti), delle quali corregge i difetti.
Le tre forme degenerate sono la tirannide, l’oligarchia e la democrazia.
Le condizioni del buon governo Diversamente da Platone, nella Politica Aristotele non descrive uno Stato “ideale”, ma illustra le condizioni che consentirebbero a ogni tipo di governo di raggiungere la propria forma migliore. Tali condizioni sono: l’attenzione alla prosperità materiale e alla vita virtuosa dei cittadini; un numero contenuto di abitanti; una posizione geografica favorevole; un popolo dall’indole coraggiosa e intelligente; una distribuzione delle funzioni secondo la classe di appartenenza e l’anzianità; un’educazione adeguata e uguale per tutti.
L’estetica e la poetica La concezione della bellezza La bellezza di una cosa, per Aristotele, risiede nella sua adeguatezza a realizzare il proprio scopo, ossia la propria forma. La bellezza, perciò, non consiste tanto in un insieme di tratti esteriori, quanto nel raggiungimento armonioso del fine per cui una certa cosa esiste. In questo senso possono essere “belli” sia gli oggetti artificiali (quando rispecchiano la forma che l’artigiano o l’artista ha loro imposto) sia gli enti naturali (quando hanno raggiunto il loro fine, ovvero, negli esseri viventi, il loro stato adulto).
In ogni caso, dal punto di vista esteriore la bellezza è riconducibile fondamentalmente a due criteri:
• ordine e misura
(in greco, rispettivamente, táxis e méghetos) le due caratteristiche esteriori fondamentali in cui Aristotele fa consistere la bellezza: l’ordine è la corretta disposizione delle parti di un oggetto, mentre la misura è l’adeguatezza delle loro dimensioni. Questi tratti, tuttavia, non sono meramente esteriori, ma si modellano sulla “forma”, che funge da ideale a cui vanno comparate le realtà sensibili. In altre parole, un oggetto risulta “bello” quando presenta un ordine e una misura funzionali alla finalità determinata dalla sua forma.
La concezione dell’arte e della tragedia Per Aristotele l’arte è imitazione, che può essere realizzata con mezzi diversi (dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla musica) e che può avere oggetti diversi (nel caso della poesia, ad esempio, può essere imitato il comportamento di persone “superiori” alla norma, “comuni” o “inferiori”). Nella parte della Poetica che ci è pervenuta, Aristotele si sofferma sulla tragedia, chiarendo come essa abbia per oggetto il verosimile, cioè qualcosa di analogo agli universali che sono oggetto della scienza. In virtù di questa universalità del suo oggetto, l’arte tragica non si riduce a puro gioco formale, ma si configura come rappresentazione dell’essenza delle cose, rivestendo pertanto un’importante funzione conoscitiva e formativa. Nel caso specifico della tragedia, si aggiunge una funzione purificatrice o liberatoria, poiché l’azione drammatica induce nell’anima degli spettatori un’autentica
• catàrsi
(in greco kátharsis, “purificazione”) nell’antica Grecia, la purificazione rituale oppure, nel linguaggio medico, l’eliminazione dal corpo di escrementi o di umori patogeni. Nei suoi scritti di storia naturale, Aristotele adopera ampiamente il termine nell’accezione medica; egli è però il primo a estenderlo al campo dell’arte, per indicare quella specie di rasserenamento e di distacco dalle passioni che l’uomo sperimenta grazie alla poesia, al dramma e alla musica.
437
MAPPE
CAPITOLO 5 L’AGIRE UMANO: L’ETICA, LA POLITICA E L’ARTE
L’etica IL BENE è
al suo livello più alto coincide con
il fine che orienta le azioni umane
una vita secondo ragione (virtù tipicamente umana)
la felicità
LE VIRTÙ si distinguono in
virtù etiche
virtù dianoetiche
che consistono nel
che si concretizzano nella
che riguardano
che sono
dominio della ragione sugli impulsi sensibili
ricerca del giusto mezzo in ogni circostanza
l’esercizio della ragione
saggezza intelligenza scienza sapienza
L’AMICIZIA può fondarsi
sull’utilità
sul piacere
sul bene (amicizia “virtuosa”) forma più autentica, rara ma duratura
La politica LO STATO
dev’essere finalizzato alla
felicità (materiale e spirituale) dei cittadini
può essere organizzato come
monarchia (governo di uno solo)
aristocrazia (governo dei migliori)
politìa (governo di molti)
la quale può degenerare nella
la quale può degenerare nella
la quale può degenerare nella
tirannide
oligarchia
democrazia
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
UN BUON GOVERNO si fonda su
prosperità materiale e vita virtuosa dei cittadini
collocazione geografica favorevole numero contenuto di cittadini
opportuna distribuzione delle funzioni tra le classi coraggio e intelligenza dei cittadini
educazione uniforme dei cittadini
attribuzione dei ruoli di comando agli anziani
L’estetica e la poetica LA BELLEZZA consiste
nell’adeguatezza dell’oggetto alla sua forma o finalità
accomuna
si concretizza in
enti artificiali
enti naturali
ordine (adeguata disposizione delle parti)
misura (adeguata dimensione delle parti)
L’ARTE
è
ha
si rivolge a
usa
imitazione
valore conoscitivo
oggetti diversi
mezzi diversi
LA TRAGEDIA
ha per oggetto
svolge una
il verosimile
funzione catartica
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CAPITOLO 5 L’AGIRE UMANO: L’ETICA, LA POLITICA E L’ARTE L’etica
La filosofia morale per Aristotele si distingue sia dalle scienze teoretiche (metafisica, matematica e fisica), che hanno come scopo la conoscenza pura della realtà, sia dalle scienze poietiche (le tecniche, o arti, come la medicina, l’architettura, l’ingegneria ecc.), che hanno come scopo la modificazione della realtà. Diversamente dalle scienze teoretiche, infatti, l’etica non ha per oggetto verità universali e necessarie, ma si propone di descrivere e analizzare il bene per aiutare gli esseri umani a realizzarlo e a conseguire così la felicità. Per quanto sia una scienza “pratica”, l’etica si differenzia tuttavia dalle tecniche perché non consegue un fine “esterno” rispetto all’azione in sé. Nel caso della medicina, ad esempio, la salute del malato è “esterna” alla pratica terapeutica del medico. Quando si sceglie un certo comportamento, invece, lo si fa per il comportamento in sé stesso, e non in vista di altro, neppure in vista della felicità, la quale non è la ricompensa per un’azione virtuosa, ma coincide con l’esercizio stesso della virtù. TESTO
1
Le funzioni dell’anima e i tipi di virtù (Etica nicomachea) IL TESTO NELL’OPERA L’Etica nicomachea è un trattato in 10 libri che è stato pubblicato dopo la morte dell’autore. Nel primo libro Aristotele afferma che l’oggetto dell’etica è il “bene”, inteso come fine supremo, e osserva che esso non può essere ridotto ai mutevoli capricci e desideri dell’individuo. Il filosofo riconduce quindi il bene all’esercizio della ragione e individua due tipi di virtù: quelle etiche, che consistono nel perfezionare il carattere mediante il governo delle passioni da parte della ragione, e quelle dianoetiche, che consistono nel perfezionare il pensiero mediante l’esercizio della ragione. Il testo seguente, tratto appunto dal primo libro, è incentrato su questa nota distinzione.
La necessità Si deve esaminare la virtù, essendo chiaro che in questione è la virtù umana, infatti cerdi indagare chiamo il bene umano e la felicità umana. Diciamo “virtù umana” non quella del corpo, 2 la virtù
ma quella dell’anima, e diciamo che la felicità è attività dell’anima: se le cose stanno così, è chiaro che il politico deve avere una certa conoscenza di ciò che riguarda l’anima, allo stesso modo in cui chi cura gli occhi deve avere anche una certa conoscenza generale del corpo, e ciò vale tanto più quanto la politica è superiore alla medicina e più degna di onore: i medici colti si danno molto da fare per conoscere il corpo, quindi anche al politico spetterà studiare l’anima, ma studiarla per quei fini e nella misura adeguata al problema che ci siamo posti; sottilizzare maggiormente sarebbe certo un lavoro troppo ampio rispetto al nostro proposito.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
4 6 8 10
L’anima Alcuni aspetti dell’anima sono stati discussi in modo adeguato anche nelle opere rivolte a irrazionale e un pubblico vasto, opere di cui dobbiamo servirci qui1 . Si dice per esempio che una parte 12 la funzione nutritiva dell’anima è irrazionale, una parte razionale. Se poi queste si distinguano come le parti del
corpo e come ogni cosa può essere divisa, oppure se siano due nella definizione ma non separate in natura, come il concavo e il convesso in una circonferenza, ciò non fa nessuna differenza rispetto alla discussione presente. Nell’anima irrazionale, una parte sembra essere comune anche ai vegetali, e con ciò voglio dire la causa della nutrizione e della crescita; infatti si può porre una facoltà dell’anima di questo genere in tutti gli esseri viventi che hanno la funzione della nutrizione, e anche negli embrioni; la stessa parte dell’anima si trova anche negli esseri viventi completi: è più ragionevole pensare che sia la stessa, e non qualche altra. È evidente che la virtù di questa parte è qualcosa di comune e non specifico dell’uomo […].
14 16 18 20 22
L’anima Ma basta su questo, ed è meglio lasciare stare la parte nutritiva, dato che per natura non irrazionale e ha nulla a che fare con la virtù umana; anche un’altra parte dell’anima sembrerebbe esse- 24 la funzione appetitiva re irrazionale, ma essa partecipa della ragione. Infatti lodiamo la ragione, e la parte razio26 28 30 32 34 36 38 40 42 44
La distinzione Anche la virtù viene divisa secondo questa differenza [tra anima razionale e irrazionale]. 46 tra virtù etiche Infatti diciamo che alcune virtù sono intellettuali e altre morali: sapienza, senno e saggeze dianoetiche
za sono intellettuali, generosità e temperanza sono invece morali; parlando del carattere, 48 non diciamo che è sapiente e comprensivo, ma che è mite o temperante. D’altra parte lodiamo anche il sapiente per il suo stato abituale, e chiamiamo con il nome di “virtù” gli 50 stati abituali degni di lode. (Etica nicomachea, libro I, 13, 1102a-1103a, trad. it. di C. Natali, Roma-Bari 1999)
1. Aristotele si riferisce al Protrettico, uno scritto di iniziazione alla filosofia.
TESTI ARISTOTELE
nale dell’anima, sia in chi si domina, sia in chi non si domina, dato che la parte razionale li richiama correttamente alle azioni migliori; ma è evidente che vi è in loro, per natura, qualcosa di diverso dalla ragione, che lotta e si oppone alla ragione stessa. Esattamente quello che avviene nelle membra di un corpo affette da paralisi, che si muovono verso sinistra quando si vuole rivolgerle verso destra, avviene anche nell’anima, e nello stesso modo: i desideri di chi non si domina vanno in senso contrario; solo che nei corpi noi vediamo ciò che si muove al contrario, e nell’anima non lo vediamo. Certo, bisogna ritenere che, anche nell’anima, allo stesso modo, vi sia qualche cosa che sta accanto alla ragione, le si contrappone e fa resistenza. Non ha nessuna importanza in che modo tale cosa si distingue dalla ragione. Ma è evidente che anche questa parte partecipa della ragione, come abbiamo detto: almeno nel caso di chi si domina, obbedisce alla ragione. Ma nell’uomo moderato e nell’uomo coraggioso questa parte è ancora più obbediente alla ragione, infatti è d’accordo con essa in tutto e per tutto. È evidente quindi che anche la parte irrazionale è duplice: infatti la parte vegetativa non ha nessun rapporto con la ragione; la parte impetuosa e, in generale, desiderante, ha una qualche partecipazione alla ragione, in quanto la ascolta e le obbedisce. […] Del fatto che la parte irrazionale viene persuasa in qualche modo dalla parte razionale sono indizio il dare consigli e tutte le forme di rimprovero e di esortazione. Se poi si deve dire che anche quella parte è razionale, allora la parte razionale stessa sarà duplice, e l’una sarà razionale in senso forte e in sé, l’altra come chi obbedisce al padre.
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GUIDA ALLA COMPRENSIONE La necessità di indagare la virtù (rr. 1-10) Nel caso degli esseri umani, una vita virtuosa, e per questo felice, non può che concernere la loro “parte” più elevata, ovvero l’anima, il cui studio risulta pertanto indispensabile per un’accurata indagine morale. La socratica “cura dell’anima” resta dunque per Aristotele l’unica via che conduce al bene supremo e alla massima felicità. Ed è questa la ragione per cui la virtù è sempre stata oggetto dell’attenzione dei veri politici, che hanno cura di rendere migliori i cittadini. L’anima irrazionale e la funzione nutritiva (rr. 1122) Nel Protrettico, a cui fa esplicito riferimento, Aristotele aveva distinto due parti dell’anima: l’una «senza regola» o irrazionale, l’altra «che possiede la regola», o razionale. Tralasciando come ininfluente ai fini del discorso che sta conducendo il tema dell’effettiva “divisibilità” dell’anima, il filosofo osserva invece che nell’anima irrazionale si possono distinguere due ulteriori parti. La prima (“nutritiva” o “vegetativa”) concerne la nutrizione e la crescita, ovvero due facoltà che, essendo comuni a tutti i viventi, non possono costituire la virtù specifica dell’essere umano. L’anima irrazionale e la funzione appetitiva (rr. 2345) L’altra delle due parti che costituiscono l’anima irrazionale è di natura desiderativa o appetitiva, e partecipa in qualche modo della “regola” della ragione, nel senso che è capace di sottomettersi a essa. La cosa è evidente se si considerano un individuo intemperante e uno temperante: il primo tende a infrangere la regola razionale, mentre il secondo tende a seguirla. Aristotele riprende qui, modificandolo, il modello antropologico di Platone (con la sua tripartizione dell’anima in razionale, irascibile e concupiscibile). Per il filosofo di Stagira, infatti, la parte desiderante e passionale («impetuosa», r. 40) dell’anima «ha una qualche partecipazione della ragione [lógos]» (rr. 40-41) e rap-
presenta l’insieme di quelle tendenze non razionali ma naturali che orientano il comportamento umano. In essa confluiscono dunque sia l’anima concupiscibile sia quella irascibile di Platone, con un’operazione teorica che attenua la valenza negativa che Platone aveva attribuito a quest’ultima (brama di piacere corporeo e pulsione guerriera). Secondo Aristotele la dimensione passionale della psiche umana può essere governata e “addomesticata”, ma la sua presenza è necessaria perché rappresenta in un certo senso la “materia” su cui opera la virtù, quale capacità di obbedire al lógos. Come per Platone, quindi, anche per Aristotele l’io è “multiplo”, nel senso che ospita molteplici tendenze, ma l’individuo virtuoso è colui che sa armonizzare e pacificare il conflitto fra ragione e passione, organizzando la propria anima come una sorta di famiglia in cui si «obbedisce al padre» (r. 45). Le passioni non si scelgono, non essendo volontarie, e non sono “buone” o “cattive” in sé stesse. Pertanto non si è buoni o cattivi per le passioni, ma per le virtù e i vizi, cioè per il modo in cui le passioni vengono governate e regolate. La distinzione tra virtù etiche e dianoetiche (rr. 46-51) Dalla distinzione tra anima razionale e anima irrazionale (o, meglio, tra l’anima irrazionale e quella parte dell’anima irrazionale che è capace di obbedire alla ragione, in quanto partecipa in qualche modo di essa) segue la distinzione tra due tipi di virtù: «intellettuali» (o “dianoetiche”) e «morali» (o “etiche”). Le prime (come «sapienza, senno e saggezza», rr. 47-48) saranno trattate nel sesto libro, mentre le seconde (come «generosità e temperanza», r. 48) saranno oggetto del secondo, del terzo, del quarto e del quinto. Queste sono virtù che riguardano il carattere e che (come vedremo nel prossimo testo) si acquisiscono attraverso l’abitudine (la parola éthos significa infatti sia “carattere” sia “abitudine”).
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Rifletti sulla seguente affermazione di Aristotele: «al politico spetterà studiare l’anima, ma studiarla per quei fini e nella misura adeguata al problema che ci siamo posti». Qual è il tuo punto di vista in proposito? Anche per te i politici devono occuparsi della virtù dei propri cittadini? Rispondi a queste domande in uno scritto argomentato (max 30 righe), in cui riporti se possibile esempi tratti dalla tua esperienza personale o dall’attualità.
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
TESTO
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Le virtù etiche
(Etica nicomachea)
IL TESTO NELL’OPERA Nel secondo libro dell’Etica nicomachea Aristotele – dopo avere stabilito la distinzione tra le virtù «intellettuali», o dianoetiche, e quelle «morali», o etiche – avvia l’indagine su queste ultime e spiega che esse consistono nella scelta del “giusto mezzo” tra due estremi opposti, un eccesso e un difetto, che sono entrambi viziosi. Nel testo proposto di seguito (che costituisce l’apertura del secondo libro) il filosofo chiarisce in particolare il ruolo che nelle virtù etiche giocano l’abitudine e l’educazione. Il ruolo Dato che la virtù è di due tipi, intellettuale e morale, la virtù intellettuale in genere nasce dell’abitudine e si sviluppa a partire dall’insegnamento, ragione per cui ha bisogno di esperienza e di 2
tempo; la virtù morale [ethiké] deriva dall’abitudine [éthos], da cui ha tratto anche il nome, con una piccola modificazione del termine éthos. A partire da ciò è anche chiaro che nessuna virtù morale nasce in noi per natura, dato che nessun ente naturale si abitua a essere diverso: per esempio una pietra che per natura si muove verso il basso non prenderà l’abitudine di muoversi verso l’alto, neanche se qualcuno voglia abituarla lanciandola in alto migliaia di volte, né il fuoco prenderà l’abitudine di muoversi verso il basso, e nessun’altra cosa che è per natura in un certo modo potrà venire abituata a essere diversa. Quindi le virtù non si generano né per natura né contro natura, ma è nella nostra natura accoglierle, e sono portate a perfezione in noi per mezzo dell’abitudine. Inoltre, nel caso di ciò che si genera in noi per natura, prima noi ne possediamo la capacità, e poi ne esercitiamo le attività; ciò è chiaro nel caso dei sensi (infatti non acquistiamo i sensi relativi dal vedere molte volte o dall’udire molte volte, ma, al contrario, ce ne serviamo poiché li possediamo, non li possediamo poiché ce ne serviamo); invece acquistiamo le virtù perché le abbiamo esercitate in precedenza, come avviene anche nel caso delle altre arti. Quello che si deve fare quando si è appreso, facendolo, lo impariamo: per esempio, costruendo si diviene costruttori e suonando la cetra, citaristi; e allo stesso modo compiendo atti giusti si diventa giusti, temperanti con atti temperanti, coraggiosi con atti coraggiosi. […]
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Il ruolo Inoltre, ogni virtù si genera e si distrugge a partire e per mezzo delle stesse cose, e così pu- 22 dell’educazione re ogni arte, dato che è a partire dal suonare la cetra che si generano sia i citaristi buoni sia 24 26 28 30 32 34 36
TESTI ARISTOTELE
quelli cattivi, e questo vale anche per i costruttori, e per tutti gli altri, infatti diverranno buoni costruttori a partire dal ben costruire, e cattivi dal costruire male. Se non fosse così, non si avrebbe bisogno per nulla di un maestro, ma tutti si genererebbero o buoni o cattivi. Di conseguenza, si ha la stessa cosa anche nel caso delle virtù, infatti è compiendo le azioni proprie delle transazioni che si hanno con le altre persone, che alcuni di noi diventano giusti e altri ingiusti, ed è agendo nei casi di pericolo, cioè abituandoci a provare paura o coraggio, che alcuni di noi diventano coraggiosi, altri vigliacchi. Lo stesso vale anche per i desideri e le forme di aggressività. Infatti alcuni diventano moderati e miti, altri intemperanti e iracondi: i primi a partire dal tenere in quei casi un certo tipo di comportamento, i secondi a partire dal comportamento opposto. Allora, in una parola, gli stati abituali derivano da attività dello stesso tipo. È per questo che si devono esprimere azioni di una certa qualità, poiché i nostri stati abituali sono diretta conseguenza delle loro differenze. Non è quindi una differenza da poco, se fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro, è importantissima, anzi, è tutto.
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La virtù Siccome la presente trattazione non si propone la pura conoscenza, come le altre (infatti 38 come medietà non stiamo indagando per sapere che cos’è la virtù, ma per diventare buoni, perché altri-
menti non vi sarebbe nulla di utile in questa trattazione), allora è necessario esaminare il campo delle azioni, come le si debba compiere, dato che sono esse a determinare la qualità del carattere, come abbiamo già detto. […] Per prima cosa, allora, si deve considerare quanto segue: che per natura le realtà di quel tipo [cioè gli stati abituali e le azioni che ne derivano] sono distrutte dall’eccesso e dal difetto (infatti ci si deve servire di ciò che è evidente come testimonianza per ciò che è oscuro), come si vede anche nel caso del vigore fisico e in quello della salute, infatti gli esercizi eccessivi e quelli troppo scarsi distruggono il vigore, allo stesso modo anche l’avere troppi cibi e bevande, o troppo pochi, distrugge la salute, mentre la giusta misura la produce, la aumenta e la difende. Ora, le cose stanno così anche per la temperanza, il coraggio e le altre virtù. Infatti chi fugge ogni cosa, ne ha paura, e non sopporta niente, diviene vigliacco, chi in generale non teme nulla e affronta ogni cosa diviene temerario, e allo stesso modo chi indulge a ogni piacere e non rinuncia a niente, diviene intemperante, chi invece li sfugge tutti, come la gente selvatica, diviene in qualche modo insensibile. Quindi la temperanza e il coraggio sono distrutti dall’eccesso e dal difetto, ma preservati dalla medietà. (Etica nicomachea, libro II, 1-2, 1103a-1104a, in op. cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il ruolo dell’abitudine (rr. 1-21) Diversamente da quelle dianoetiche, che perlopiù devono essere insegnate, le virtù etiche derivano dall’abitudine, da cui traggono il nome (éthos significa infatti “comportamento”, ma soprattutto “abitudine”). Esse dunque non si possiedono per natura, non sono innate e non si imparano con lo studio, ma si acquisiscono con l’esercizio ripetuto di azioni virtuose o buone. Per natura l’essere umano ha la capacità di possederle, ma il loro possesso effettivo deriva dal “fare” che, ripetuto, genera un habi tus, una sorta di “seconda natura”, di inclinazione al bene. Aristotele sostiene le sue tesi con due argomenti. 1. Una tendenza che si possiede per natura non può essere mutata dall’abitudine (ad esempio, la tendenza del fuoco a collocarsi in alto, nel suo luogo naturale, è immodificabile); al contrario l’anima ha la capacità (la “potenza”) di diventare virtuosa, cioè di trasformare questa possibilità in una condizione attuale abituandosi ad agire in un certo modo. 2. In ciò che si ha per natura viene prima la potenza e poi l’atto: la capacità di vedere, ad esempio, precede l’atto del vedere; nel caso della virtù, invece, si deve prima esercitare l’«attività» (r. 14) virtuosa, per acquisire e rafforzare soltanto in un secondo momento la «capacità» (r. 13) di essere buoni. Il ruolo dell’educazione (rr. 22-37) Per la formazione di un buon carattere è determinante l’educazione, cioè l’esempio o l’indicazione di un maestro, il quale spinge
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
l’allievo ad agire secondo virtù, abituandolo così ad es sere virtuoso. Con questa osservazione Aristotele risolve un possibile circolo vizioso (su cui si soffermerà in seguito). Se, infatti, la virtù nasce dall’abitudine a compiere atti virtuosi, sembrerebbe necessario già possedere la virtù per poterla esercitare e trasformare in abitudine. Si deve essere in un certo senso già “buoni” per condurre una “vita buona”. Per uscire da questa difficoltà, il filosofo osserva che la realizzazione di atti virtuosi non esige come loro precondizione il possesso della virtù, ma l’educazione, cioè la guida di altri. La virtù come medietà (rr. 38-54) Una volta stabilito in teoria in che cosa consista la virtù, Aristotele cerca il modo di calare il suo discorso nella concretezza dell’agire umano. In ambito pratico, infatti, non basta enunciare princìpi generali, non basta conoscere il bene, ma si tratta di approntare i mezzi per realizzarlo. Aristotele offre dunque una prima indicazione in questo senso precisando che la virtù implica la scelta della «medietà» (r. 54), cioè di una “via di mezzo” fra gli opposti estremi dell’«eccesso» (r. 44) e del «difetto» (r. 44), ovvero del troppo e del troppo poco. I casi della temperanza e del coraggio servono ad Aristotele per esemplificare la sua dottrina del “giusto mezzo” e per rafforzare quanto ha affermato in precedenza: compiendo atti “medi” tra la vigliaccheria e la temerarietà, si acquisirà sia la “misura” del coraggio autentico, sia l’abitudine a essere coraggiosi.
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GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Per Aristotele l’educazione morale «è importantissima, anzi, è tutto». In base alla tua esperienza personale, quanto spazio è dedicato alla virtù nell’ambito non soltanto dell’educazione formale, ma anche di quella non formale, relativa cioè ad attività educative organizzate al di fuori dell’istituzione scolastica (ad esempio, corsi di istruzione artistica o sportiva)? Rispondi a questo interrogativo in un testo scritto (max 30 righe) in cui riporti esempi concreti.
La politica
La teoria politica, insieme con le ricerche naturali, è la parte della produzione di Aristotele che risulta più legata agli usi e ai pregiudizi dell’epoca in cui egli visse. Alcune delle analisi proposte dal filosofo, tuttavia, presentano un’attualità e un’originalità indubbie, come attestano l’idea secondo cui l’uomo è un essere intrinsecamente “sociale” o il rilievo dato al rapporto della politica con l’etica. TESTO
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La necessità della vita associata (Politica)
IL TESTO NELL’OPERA La Politica è un’opera suddivisa in 8 libri dedicata allo studio dell’amministrazione della pólis a partire dall’organizzazione della famiglia, intesa come nucleo originario della società. Nei primi tre libri Aristotele esamina i fondamenti dello Stato e le varie forme di Costituzione; nei libri dal quarto al sesto ne approfondisce le trasformazioni storiche; negli ultimi due libri delinea la Costituzione dell’ottimo Stato. AUDIOLETTURA Nel testo seguente, tratto dal primo libro, Aristotele afferma che il motivo per cui gli esseri umani si uniscono tra loro è la ricerca della felicità; per questo lo Stato non si caratterizza come una realtà convenzionale, bensì come il fine naturale a cui tende ogni essere umano. Il fine Poiché vediamo che ogni Stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un dello Stato bene (perché proprio in grazia di quel che pare bene tutti compiono tutto), è evidente che 2
tutte [le comunità] tendono a un bene, e particolarmente e al bene più importante tra tutti quella che è di tutte la più importante e tutte le altre comprende: questa è il cosiddetto 4 “Stato” e cioè la comunità statale. […]
sono in grado di esistere separati l’uno dall’altro, per esempio la femmina e il maschio in 8 vista della riproduzione (e questo non per proponimento, ma come negli altri animali e nelle piante è un impulso naturale desiderar di lasciare dopo di sé un altro simile a sé) […]. 10
La naturale La comunità che risulta di più villaggi è lo Stato, perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, socievolezza il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà 12 dell’essere umano esiste per render possibile una vita felice. Quindi ogni Stato esiste per natura, se per natura
esistono anche le prime comunità […]. Da queste considerazioni è evidente che lo Stato è un 14 prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo […]. 16
Il primato E per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev’essere dello Stato necessariamente anteriore alla parte […]. È evidente dunque e che lo Stato esiste per natura 18
TESTI ARISTOTELE
L’origine Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine, anche qui come altrove se ne avrebbe una 6 dello Stato visione quanto mai chiara. È necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri che non
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e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado 20 di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza è o bestia o dio. 22 (Politica, I, 1 e 2, in Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1973)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il fine dello Stato (rr. 1-5) Lo Stato, per Aristotele, non è il frutto di una scelta da parte dell’uomo, ma una condizione a cui gli esseri umani giungono in modo del tutto naturale, perseguendo, come fanno in tutte le scelte, il loro bene. L’origine dello Stato (rr. 6-10) La tesi della naturalità della vita associata è sostenuta in queste righe da un’analisi “genetica” dello Stato: la prima forma di comunità costituita dall’essere umano (il nucleo originario ed elementare da cui in seguito si svilupperà la comunità politica) è l’unione dell’uomo e della donna (la famiglia) al fine della procreazione. Il motivo per cui da sempre gli individui non possono rinunciare alla socialità è dunque di tipo “biologico”. La naturale socievolezza dell’essere umano (rr. 1116) Per Aristotele l’uomo può attuare la sua essenza autentica soltanto in seno allo Stato, il quale, fra tutte le forme di vita sociale (famiglia e villaggio) è quella più compiuta, in quanto del tutto autosufficiente. A fare dello Stato la società più completa è la sua autosufficienza non soltanto materiale, ma anche e so-
prattutto morale, consistente nel fatto che esso persegue il fine più alto per l’individuo: la felicità, a sua volta realizzabile attraverso la virtù. La vicinanza tra i valori etici e quelli politici è strettissima: non vi può essere un “uomo buono” che non sia anche un “buon cittadino”, e viceversa. Il primato dello Stato sulle sue parti (rr. 17-22) In queste righe emerge la concezione aristotelica della comunità politica come “organismo” che si sviluppa a partire da elementi più semplici (la famiglia e il villaggio) e che dispone le proprie “membra” secondo un ordine gerarchico in cui le realtà meno articolate sono subordinate a quelle più complesse e in cui il tutto prevale sulle singole parti, pur non annullandole nella loro autonoma consistenza. Lo Stato si distingue dalle altre forme associative, risultando superiore rispetto a queste, perché è l’unico in grado di perseguire il bene supremo per l’essere umano. Tanto che chi si colloca “fuori” dello Stato non è autenticamente uomo, ma una bestia o una divinità.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO Aristotele afferma che l’essere umano può realizzare pienamente la sua natura soltanto all’interno di una comunità. Qual è il tuo punto di vista sull’idea dell’uomo come “animale politico”? Motiva la tua risposta in un testo scritto (max 25 righe).
TESTO
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Le condizioni del buon governo (Politica) Dopo aver analizzato i vari tipi di Costituzione, negli ultimi due libri della Politica Aristotele delinea la propria utopia, descrivendo con libertà e con una certa immaginazione le caratteristiche dello Stato ideale. Nel testo riportato di seguito sono indicate le condizioni ottimali a partire dalle quali, secondo Aristotele, è possibile realizzare la miglior forma di governo.
I beni che Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla costituzione migliore deve precisare dapprima rendono felice qual è il modo di vita più desiderabile. […] 2 la vita
In verità, riportandoci a una sola distinzione dei beni, dal momento che ce ne sono tre specie, quelli esterni, quelli del corpo e quelli dell’anima, nessuno può dubitare che chi è be- 4 ato li deve possedere lutti quanti: e infatti nessuno direbbe beato chi non ha neppure un
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
po’ di coraggio, né di temperanza, né di giustizia, né di prudenza, ma sta in apprensione per le mosche ronzanti, non indietreggia di fronte a nessuna delle azioni peggiori, se ha brama di mangiare o di bere, tradisce per un quarto d’obolo gli amici più cari e parimenti è così insensato e sviato nell’intelletto come un bambino o un folle. Ma queste cose, quando si dicono, le accetterebbero tutti, mentre poi discordano riguardo alla quantità che desiderano di ogni bene e alla loro relativa superiorità. Così di virtù ritengono sufficiente averne una quantità qualsiasi, di ricchezze, invece, di beni, di potenza, di fama e di tutte le altre cose simili cercano un accrescimento illimitato. Noi diremo a costoro che su tale questione è facile arrivare a una convinzione, fondandosi sulla prova dei fatti, giacché si vede che gli uomini acquistano e mantengono non le virtù coi beni esterni ma questi con quelle, e che la vita felice […] compete maggiormente a quelli che curano in sommo grado il carattere e l’intelletto e hanno un possesso modesto di beni esterni anziché a coloro che possiedono di questi più di quanto non esiga il bisogno e mancano in quelli. […]
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Felicità del Resta da dire se bisogna ammettere che la felicità di ciascun uomo nella sua singolarità e dello singolo e della stato sia la stessa cosa o non la stessa. Ma è chiaro anche questo: tutti dovrebbero convenire che 20 collettività
è la stessa. In effetti quanti a proposito del singolo fanno consistere la vita felice nelle ricchezze, costoro ritengono beato uno stato nella sua totalità se è ricco; quanti pregiano sopra ogni cosa la 22 vita tirannica, costoro dovranno ammettere che lo stato più felice è quello che ha il più grande dominio; chi approva un individuo per la virtù, dirà che più felice è lo stato che è più morale. […] 24
Il compito È necessario, dunque, da quanto s’è detto, che alcuni beni ci siano, che altri li procuri il ledello Stato gislatore. Noi quindi ci auguriamo e facciamo voti che la compagine dello stato abbia quei 26
(Politica, VII, 1, 2 e 13, in Opere, cit.)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE I beni che rendono felice la vita (rr. 1-18) Nelle prime righe Aristotele chiarisce lo scopo della sua indagine: scoprire quale sia la costituzione migliore, ossia la forma di governo che garantisce a chi è governato di essere massimamente felice. A questo punto, una definizione rigorosa di “felicità” risulta imprescindibile, così
come il rimando ad alcuni temi trattati nell’ambito dell’etica. La felicità, per Aristotele, discende dal possesso di tre tipi di beni: quelli esterni (che non dipendono dall’individuo, come le circostanze favorevoli), quelli del corpo (ad esempio la salute) e quelli dell’anima (cioè le virtù). Gli uomini, spesso, tendono a sottostimare il
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TESTI ARISTOTELE
beni di cui signora è la fortuna (che ne sia signora lo riconosciamo) ma quanto all’essere virtuoso uno stato, non è già opera della fortuna, bensì di scienza e di scelta deliberata. Ora uno stato è virtuoso in quanto sono virtuosi i cittadini che partecipano della costituzione, e i nostri cittadini partecipano tutti della costituzione. Bisogna pertanto considerare in che modo un uomo diventa virtuoso. Infatti, se è possibile che i cittadini siano virtuosi collettivamente, senz’esserlo singolarmente, in questa maniera comunque sarebbe preferibile, perché alla virtù dei singoli tiene dietro quella di tutti. Ora gli uomini diventano buoni e virtuosi col concorso di tre fattori e questi tre fattori sono la natura, l’abitudine, la ragione. In primo luogo bisogna avere la natura qual è quella dell’uomo e non di uno degli altri animali; poi bisogna avere una certa qualità nel corpo e nell’anima. Ma con certe qualità non giova affatto nascerci, perché le abitudini le fanno mutare e in effetti talune qualità, che per natura tendono in entrambe le direzioni, sotto la spinta dell’abitudine vanno verso il peggio o verso il meglio. Ora gli altri animali vivono essenzialmente guidati da natura, taluni, ma entro limiti ristretti, anche dall’abitudine, e l’uomo pure dalla ragione perché egli solo possiede la ragione: di conseguenza in lui questi tre fattori devono consonare l’uno con l’altro.
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contributo della virtù alla felicità. Aristotele ammette che non si può essere pienamente felici in assenza di libertà, salute, benessere ecc., tuttavia riconosce anche che la felicità è la condizione in cui l’individuo si trova quando svolge la funzione che gli è propria. E propria dell’essere umano è la vita secondo ragione. In quest’ottica, non si possono realizzare tutte le proprie potenzialità soltanto mediante la ricchezza, la potenza e la gloria, ma occorre soprattutto la virtù. Felicità del singolo e della collettività (rr. 19-24) Prima di precisare il compito dello Stato, Aristotele intende sciogliere una questione rimasta ancora in sospeso: se, cioè, la felicità del singolo, che consiste in una vita virtuosa, condotta secondo ragione, coincida con la felicità dello Stato. Nel rispondere affermativamente, Aristotele non subordina l’individuo alla collettività, ma responsabilizza lo Stato, affidandogli il
compito di perseguire la felicità di ciascuno dei suoi cittadini. Il compito dello Stato (rr. 25-41) L’azione del legislatore deve mirare a garantire ai governati quei beni che consentono loro di essere felici, ma soprattutto deve rendere possibile il loro miglioramento, perseguendo la giustizia ed eliminando il male. Se una delle condizioni del buon governo è la virtù dei cittadini, Aristotele avverte che essa non si consegue senza «scienza» e «scelta deliberata» (r. 28): non bastano la natura e l’abitudine a rendere buoni gli esseri umani, occorre un progetto educativo che raccordi quei due elementi, comuni anche agli animali, con la ragione, facoltà specifica dell’uomo. Lo Stato, sorto in prima istanza con lo stesso obiettivo del villaggio, cioè quello di garantire la sopravvivenza della popolazione, finisce per soddisfarne non soltanto le esigenze materiali ma anche quelle morali e intellettuali.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Prendendo spunto dall’analisi di Aristotele, quali ritieni debbano essere le condizioni ottimali di un buon governo e quali gli scopi che lo Stato deve prefiggersi per provvedere alla felicità dei suoi cittadini? Rispondi in un testo scritto (max 30 righe), argomentando il tuo punto di vista e riportando, se possibile, esempi concreti.
La poetica
Una notevole distanza separa la concezione che fa da sfondo alla Poetica di Aristotele dalla nostra idea di estetica: il filosofo si interessa esclusivamente alle “arti belle” (escludendo, cioè, le tecniche) e, in particolare, alla produzione artistica che usa come mezzo la parola. Egli ritiene, infatti, che le altre arti belle siano subordinate a quella letteraria: la musica, ad esempio, serve come accompagnamento del testo drammatico. TESTO
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La definizione dell’arte
(Poetica)
IL TESTO NELL’OPERA La Poetica è suddivisa in 26 capitoli e, nelle intenzioni di Aristotele, era destinata a un uso esclusivamente didattico. Oggetto di indagine sono la tragedia e l’epica, mentre è ormai esclusa l’ipotesi che l’opera comprendesse anche un secondo libro incentrato sulla commedia. Nel trattato aristotelico trovano spiegazione alcuni concetti fondamentali, come quelli di “mimèsi”, di “verisimiglianza” e di “catarsi”. Nel testo presentato di seguito, tratto dal primo capitolo, Aristotele chiarisce in che senso l’arte sia imitazione e in che modo l’opera dell’artista, e del poeta in particolare, si differenzi dal lavoro dello storico. L’arte come L’epopea e la tragedia, come pure la commedia e la poesia ditirambica, e gran parte dell’auimitazione letica e della citaristica, tutte quante, considerate da un unico punto di vista, sono mimèsi 2
[imitazione]. Ma differiscono tra loro per tre aspetti: e cioè in quanto o imitano con mezzi diversi, o imitano cose diverse, o imitano in maniera diversa e non allo stesso modo. […] 4
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Unità 4 ARISTOTELE Capitolo 5 l’agire umano: l’etica, la politica e l’arte
La genesi Due sembrano essere, in generale, le cause che hanno dato origine alla poesia; e tutte e della poesia due sono proprie della natura umana. La prima causa è questa. L’imitare è un istinto di na- 6
tura comune a tutti gli uomini fin dalla fanciullezza; ed è anzi uno dei caratteri onde l’uomo si differenzia da tutti gli altri esseri viventi, in quanto egli è di tutti gli esseri viventi il più inclinato all’imitazione. […] La seconda causa è questa. Essendo naturale in noi [non pur la tendenza all’imitazione in genere, ma anche e più precisamente] la tendenza a imitare “mediante il linguaggio” l’armonia e il ritmo […] così è avvenuto che coloro i quali fin da principio avevano per queste cose, più degli altri, una loro disposizione naturale, procedendo poi con una serie di lenti e graduali perfezionamenti, dettero origine alla poesia; la quale appunto si svolse e perfezionò da rozze improvvisazioni.
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La differenza […] ufficio del poeta non è descriver cose realmente accadute, bensì quali possono [in date tra poesia condizioni] accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verosimiglianza 16 e storia
o della necessità. Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa […]: la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il 18 poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare. 20 (Poetica, 1, 4 e 9, in Opere, cit.)
L’arte come imitazione (rr. 1-4) In queste prime righe Aristotele esplicita la sua concezione dell’arte come imitazione: l’arte ha a che fare non tanto con contenuti concreti, quanto con le forme eterne, che tenta di riprodurre. Fin dall’inizio il filosofo concentra il proprio discorso sull’arte poetica, della quale cita generi che si riferiscono o si ispirano a un’azione storica o mitologica. Dall’elenco è assente la poesia lirica, che, come pura espressione di stati d’animo soggettivi, non è considerata. Ogni forma d’arte si differenzia a seconda dei mezzi usati (che nel caso della poesia sono il tipo di ritmo, di linguaggio e di musica per l’accompagnamento), degli oggetti imitati (persone o eventi, che possono essere “nobili”, “ignobili” o “mediani”) e delle modalità di imitazione (che, sempre nel caso della poesia, sono i “generi letterari”, tra i quali Aristotele privilegia il poema epico e il dramma). La genesi della poesia (rr. 5-14) In modo assai semplice, Aristotele individua l’origine della poesia nella naturale predisposizione di tutti gli esseri umani a imi-
tare («prima causa», r. 6). Si tratta di una propensione che in alcuni individui è più marcata («seconda causa», r. 9), tanto da spingerli a diventare “artisti” coltivando con l’esercizio la loro dote naturale. La differenza tra poesia e storia (rr. 15-20) In queste righe di chiusura Aristotele libera l’arte dalla condanna platonica: a suo giudizio, infatti, essa non è l’esangue copia di una copia, ma narra un evento specifico, storico o mitologico, elevandolo al ruolo di modello universale. L’arte, dunque, si differenzia dalla storiografia perché non si limita a riprodurre qualcosa di effettivamente accaduto, ma lo reinventa, senza soffermarsi sugli eventi concreti, bensì prendendo spunto da essi per narrare che cosa potrebbe accadere a un generico individuo in una certa situazione. Per questo l’arte contribuisce allo sviluppo della conoscenza ben più della storia: perché non ha a che fare con il “vero”, che è sempre particolare, ma con il “verosimile”, tanto che può aggiungere ciò che vuole alla verità storica, all’unica condizione di restare credibile.
GUIDA ALLA RIFLESSIONE E ALLA PRODUZIONE DI UN TESTO attività PLUS Immagina di prendere parte a un dibattito in cui devi sostenere la concezione di Aristotele in merito al valore universale dell’arte. Svolgi una ricerca in Internet o nei tuoi manuali di letteratura italiana e di letteratura straniera, e individua una poesia che possa esemplificare la tua posizione. Quindi, facendo puntuali riferimenti al testo da te selezionato, scrivi un’argomentazione a favore della teoria aristotelica (max 20 righe).
TESTI ARISTOTELE
GUIDA ALLA COMPRENSIONE
449
FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
PLATONE E ARISTOTELE NELL’INTERPRETAZIONE DI RAFFAELLO
450
La scuola La Scuola di Atene (fig. 1) è un celeberrimo affresco realizzato tra il 1508 e il 1511, su commissione di papa Giulio II, dal pittore urbinate Raffaello Sanzio (1483-1520). Il titolo, attribuito all’opera soltanto all’inizio del XVIII
secolo, è quanto mai appropriato, poiché il dipinto raffigura effettivamente una scuola, o meglio una scholé, termine greco che nell’antichità indicava il “tempo libero”, cioè un tempo sottratto alle preoccupazioni della quotidianità e nel quale ci si poteva dedicare alla rifles-
sione e allo studio. Mettendo dunque in scena quello che i latini chiamavano otium (opposto al negotium, ossia agli affari e alla vita attiva), Raffaello dà forma e colore alla contemplazione filosofica, e lo fa ritraendo i maggiori pensatori dell’antichità.
La rappresentazione allegorica della filosofia Il tema centrale dell’opera è indicato dallo stesso Raffaello, il quale, in un medaglione che sovrasta la lunetta contenente l’affresco, colloca la rappresentazione allegorica della filosofia: una figura di donna affiancata da due putti senza ali (fig. 2). Le iscrizioni sulle tavole sorrette dai putti illustrano allo spettatore l’oggetto della ricerca filosofica: «causarum cognitio», ovvero la conoscenza delle cause.
1. Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, 1508-1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura.
2. Raffaello Sanzio, Filosofia, 1508-1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura (volta).
451
La filosofia indaga dunque le cause della realtà, risalendo da questa ai suoi primi princìpi, ovvero al “divino”. È quanto fa Platone nel Timeo, individuando l’origine del mondo nelle idee e nell’opera del demiurgo. Ed è anche la concezione di Aristotele, il quale nella Metafisica descrive la «filosofia prima» come «scienza delle cause».
Le figure di Platone e Aristotele Al centro dell’affresco campeggiano i due “giganti” del pensiero greco: Platone, che ha il volto di Leonardo da Vinci e tiene in mano il Timeo, e Aristotele, che ha le fattezze dell’architetto rinascimentale Bastiano da Sangallo e regge l’Etica nicomachea (fig. 3). I due testi rappresentano quelli che per molti secoli sono stati considerati gli ambiti principali dell’indagine filosofica, cioè, rispettivamente, la filosofia naturale, che ricercava le cause del mondo inteso come universo e natura, e la filosofia morale, che ricercava le cause del mondo umano, ovvero del nostro agire. Questi due ambiti sono ricordati anche dalla raffigurazione allegorica di cui abbiamo appena parlato, nella quale la filosofia tiene in grembo due libri su cui si possono intravedere le iscrizioni Naturalis e Moralis (fig. 2). Un preciso significato sembrano avere anche i gesti di Platone e di Aristotele: il primo alza l’indice destro verso l’alto, mentre il secondo protende il braccio davanti a sé. Nelle interpretazioni degli storici dell’arte la verticalità del gesto di Platone viene comunemente associata alla dimensione trascendente del suo pensiero, che si rivolge all’immutabilità del mondo delle idee (idealismo), mentre la posizione orizzontale del braccio di Aristotele è accostata alla prospettiva immanente della sua indagine, maggiormente orientata all’esperienza sensibile (realismo). È possibile, tuttavia, considerare anche un secondo livello interpretativo. Il gesto di Platone allude certamente alla trascendenza delle idee, le quali sono “oltre il cielo”, nell’iperuranio. Ma il valore simbolico del braccio che Aristotele tende davanti a sé, con il palmo della mano rivolto verso il basso, risulta più complesso. Molto probabilmente questo movimento non si limita a richiamare l’importanza della concretezza della dimensione terrena, ma rimanda anche a un concetto chiave della morale aristotelica: la mesótes, o “medietà”, vale a dire l’ideale del giusto mezzo, di cui il filosofo parla proprio nell’Etica nicomachea.
3. Raffaello Sanzio, Platone e Aristotele, particolare dalla Scuola di Atene.
452
Questa interpretazione del gesto di Aristotele implica un secondo significato anche per il movimento di Platone, rispetto al quale si pone in un rapporto sia di complementarità sia di contrasto. Lo spiega con chiarezza il filosofo tedesco Reinhard Brandt (nato nel 1937):
‘
Il gesto significa dunque: il bene non è da cercare là sopra, al di là del concreto esistente, bensì nelle cose. […] Esattamente questo è il punto della critica di Aristotele a Platone nell’Etica nicomachea, che egli nell’affresco tiene nella mano sinistra. Platone ha parlato di un’idea del Bene, di un Bene in sé, ma un siffatto Bene trascendente conduce ad aporie ed è inutilizzabile per la filosofia pratica. (R. Brandt, Filosofia nella pittura, trad. it. di M.G. Franch e D. Gorreta, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 59)
Platone concepisce il bene come un principio di ordine cosmico, cioè come qualcosa di carattere metafisico che soltanto in seconda battuta costituisce un valore morale.
LABORATORIO
Nella Repubblica l’idea del Bene è «al di là dell’essere e del pensiero», quale principio unico e sommo che conferisce ordine alle idee, organizzandole in un “cosmo” che all’essere umano spetta conoscere e riprodurre, seppure in maniera imperfetta. L’Etica nicomachea, invece, pur indicando la felicità autentica nella pura e disinteressata conoscenza teoretica (a cui l’uomo deve tendere come fine supremo), si occupa del bene non come principio metafisico o teologico, ma come affare umano. In tal modo Aristotele contesta la prospettiva metafisico-teologica di Platone e richiama l’attenzione sulla concretezza dell’agire, che tende a beni diversi:
‘
Se il bene fosse uno, […] sussistente separato di per sé, è evidente che non sarebbe realizzabile né acquisibile per l’uomo; ma è proprio ciò che invece noi cerchiamo. (Aristotele, Etica nicomachea, 1096a 11-35, trad. it. di C. Natali, in Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1983)
COMPETENZE Individuare i nessi tra la filosofia e l’arte | Progettare | Riflettere e argomentare | Competenza digitale
COMPITO DI REALTÀ
Nell’affresco di Raffaello, Platone e Aristotele sono posti al centro di una scena grandiosa, ricca di personaggi. Ciascuno con le sue peculiarità (richiamate simbolicamente dai gesti e dai testi che reggono), i due pensatori sono presentati come il culmine del pensiero filosofico antico, che nella scena pittorica è ricordato, da sinistra verso destra, nelle sue principali tappe storiche e nelle sue figure più significative. • Prepara una lezione sulla Scuola di Atene di Raffaello, immaginando di dover presentare l’opera ai tuoi compagni di classe e illustrarne i tratti salienti e il significato. - Con l’eventuale supporto dei docenti di filosofia e di storia dell’arte, cerca in Internet, in biblioteca o nei tuoi manuali scolastici le informazioni fondamentali sui personaggi raf-
figurati nel dipinto. Individua in particolare gli indirizzi succedutisi nella storia della filosofia antica (presocratici, sofisti, socratici ecc.), nonché le figure più rappresentative (ad esempio Pitagora, Empedocle, Eraclito e Socrate). Scopri anche il valore simbolico dei quattro gradini su cui i personaggi sono collocati. - Allestisci una presentazione multimediale (max 12 slide) per descrivere l’opera e spiegarne il significato mediante testi, immagini, schemi e link utili. Riserva almeno due slide al confronto (richiamato simbolicamente dal pittore) tra la filosofia platonica e quella aristotelica, aggiungendo alle informazioni presenti in questa scheda eventuali altri dati rinvenuti nella tua ricerca.
453
VERIFICA
UNITÀ 4 ARISTOTELE FLASHCARD
CAPITOLO 1 Il progetto filosofico 1 Aristotele concepisce la filosofia come: A un tipo di conoscenza rigorosamente razionale B una disciplina radicata nella sapienza poetica C una ricerca volta a problematizzare
costantemente la realtà D un sapere indispensabile per chi governa la pólis
2 Per Aristotele le scienze: A sono ordinate gerarchicamente, in base alla
perfezione del loro oggetto B presuppongono tutte la filosofia C sono subordinate alla teologia, in quanto scienza del divino D si possono distinguere in base al loro grado di utilità
3 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. Per Aristotele il filosofo è una sorta di
scienziato-professore
V
F
V
F
V
F
V
F
b. Quello aristotelico è un sistema
filosofico “aperto” c. Aristotele dimostra un grande
interesse per la matematica d. Aristotele suddivide la realtà in diverse
regioni ontologiche di pari dignità
4 In che senso Aristotele, pur collocandosi cronologicamente nell’età classica, idealmente è già figlio (max 6 righe) dell’età ellenistica?
5 Metti a confronto la concezione del sapere e della filosofia di Aristotele con quella di Platone, evidenziando in che cosa il maestro e il discepolo si diffe(max 15 righe) renziano maggiormente.
CAPITOLO 2 Le strutture della realtà: la metafisica 6 La metafisica è detta da Aristotele «filosofia prima» perché: A cerca le risposte ai più antichi interrogativi degli esseri umani B funge da premessa alla sua enciclopedia del sapere C è al di sopra di tutte le altre scienze D studia le caratteristiche universali dell’essere come tale
7 È un esempio di “accidente”: A il bronzo di cui è fatta la sfera B l’umore di Socrate C il singolo uomo rispetto al genere umano D il fatto di avere quattro lati nel caso di
un rettangolo
8 Non è una delle definizioni che Aristotele dà di Dio: A Dio come atto senza potenza B Dio come forma pura C Dio come causa efficiente D Dio come pensiero di pensiero
454
Unità 4 ARISTOTELE VERiFiCa
9 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. Aristotele definisce “pratiche”
le scienze che mettono capo a un prodotto
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
V
F
b. L’essere, per Aristotele, ha
innumerevoli significati fra loro del tutto diversi c. Delle otto categorie soltanto la
sostanza è considerata da Aristotele “essere per sé” d. Il principio di identità afferma che ogni
ente ha una natura determinata, che non può essere negata e. Quando si produce una statua la causa
formale, la causa efficiente e la causa finale coincidono f. Nella teoria aristotelica l’atto
viene cronologicamente prima della potenza
10 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
esistente nell’iperuranio, ma semplicemente la specie biologica immanente negli / trascendente gli individui che denominiamo “uomini”.
la mappa riportata sotto, relativa alla teoria aristotelica del movimento. accidentale • alterazione • diminuzione • generazio ne • locale • posto • qualitativo • quantitativo • sog getto • sostanziale • traslazione
12 In che senso la metafisica di Aristotele si spinge al di
11 Completa il testo riportato scegliendo le alternative
13 Come viene risolta da Aristotele la controversa que-
là dell’indagine sull’essere compiuta da Platone nel (max 6 righe) Sofista? stione del divenire?
corrette. Per Aristotele Platone ha senz’altro il merito di avere richiamato l’attenzione sulla causa formale / finale, ma ponendo le idee dentro le / fuori delle cose, rende impossibile capire in che senso le idee possano essere lo scopo / la causa delle cose. Al contrario, per Aristotele il principio di una cosa non può che risiedere nella / trascendere la cosa stessa, ossia consistere in quella forma / causa che la costituisce in quanto ef fetto / sinolo. Ad esempio, l’umanità non è un’idea
(max 6 righe)
14 Quali sono e che cosa affermano i princìpi logici generalissimi ai quali si appoggia la metafisica di (max 10 righe) Aristotele?
15
attività PLUS Presenta brevemente la dimostrazione aristotelica dell’esistenza di Dio e spiega perché essa non conduce a una professione di monoteismo.
(max 15 righe)
CAPITOLO 3 Le strutture del pensiero: la logica 18 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.
16 Sono sostanze prime: A gli individui concreti
C le specie
B le categorie
D i generi
a. Dal punto di vista della quantità,
“Socrate è un filosofo” è una proposizione singolare
17 Due proposizioni contrarie:
V
F
V
F
V
F
b. Per Aristotele la misura della verità è
A si escludono necessariamente a vicenda
il pensiero, non l’essere
B possono essere entrambe vere
c. Nel sillogismo il termine minore compare
C non possono essere entrambe false D non possono essere entrambe vere
come soggetto sia nella seconda premessa sia nella conclusione
ARISTOTELE
[mappa esercizio 10]
opera una distinzione tra
il movimento . . . . . . . . . . . . . . . . . .
il movimento . . . . . . . . . . . . . . . . . .
il movimento . . . . . . . . . . . . . . . . . .
il movimento . . . . . . . . . . . . . . . . . .
che avviene quando
che avviene quando
che avviene quando
che avviene quando
un corpo si sposta da un . . . . . . . . . . . . . . . . . . a un altro
in una sostanza cambia una caratteristica . . . . . . . . . . . . . . . . . .
cambia una certa quantità di una sostanza
un . . . . . . . . . . . . . . . . . . nasce o muore
..................
..................
accrescimento o ..................
o corruzione
..................
455
21 Quali differenze sussistono tra il sillogismo perfetto,
d. Aristotele definisce “perfetto”
il sillogismo che conduce sempre e soltanto a conclusioni vere
il sillogismo scientifico e il sillogismo dialettico? V
F
e. L’induzione consiste nel ricavare
(max 6 righe)
22 Ricostruisci il modo in cui, nell’edificio logico archi-
affermazioni particolari da premesse generali
V
F
V
F
tettato da Aristotele, i concetti, le proposizioni e i ragionamenti si connettono tra loro in modo da co(max 15 righe) stituire il discorso.
f. La dialettica, per Aristotele, appartiene
all’ambito del probabile
23
19 Qual è il legame tra logica e metafisica nella produzione di Aristotele?
(max 6 righe)
20 In che cosa consiste, per Aristotele, l’intuizione intel-
attività PLUS Esponi i rimandi necessari che Aristotele istituisce tra linguaggio, pensiero ed essere, e collega la trattazione dello Stagirita a quella dei filosofi che affrontarono questo problema prima di lui.
(max 15 righe)
lettiva e quale rapporto ha con l’esperienza? (max 6 righe)
CAPITOLO 4 Il mondo naturale: la fisica e la psicologia 24 Per Aristotele l’universo è:
b. Per Aristotele è impossibile che, al di là
del nostro, ci siano altri mondi
A perfetto, infinito ed eterno
esistere lo spazio vuoto
C perfetto, infinito e fuori del tempo
V
F
V
F
V
F
d. Per Aristotele le funzioni dell’anima
D perfetto, finito e fuori del tempo
non sono mai intercambiabili
25 Per Aristotele il tempo:
e. Aristotele sostiene che l’intelletto passivo
A esiste a prescindere dalle cose
si corrompa insieme con il corpo
B si identifica con il mutamento delle cose
27 Completa la mappa riportata sotto, relativa alla teo-
C è la misura del divenire delle cose
ria aristotelica della conoscenza, scrivendo i termini mancanti.
D è un fatto del tutto mentale
26 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. I cieli aristotelici corrispondono alle orbite
[mappa esercizio 27]
F
c. In natura, secondo Aristotele, non può
B perfetto, finito ed eterno
lungo le quali si spostano gli astri
V
V
28 Quali sono le caratteristiche, rispettivamente, del
F
movimento dei corpi terrestri e di quello dei corpi (max 6 righe) celesti?
ALLA CONOSCENZA concorrono
la . . . . . . . . . . . . . . . . . . che consiste
nella facoltà di . . . . . . . . . . . . . . . . . . le determinazioni sensibili degli ..................
456
Unità 4 ARISTOTELE VERiFiCa
la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
la . . . . . . . . . . . . . . . . . .
che consiste
che consiste
nella facoltà di produrre o combinare . . . . . . . . . . . . . . . . . . indipendentemente dalla . . . . . . . . . . . . . . . . . . degli oggetti
nella facoltà di . . . . . . . . . . . . . . . . . . i . . . . . . . . . . . . . . . . . . dai dati della sensibilità e dell’immaginazione
29 Come definisce lo spazio Aristotele e quali caratteristiche gli attribuisce?
32
(max 6 righe)
30 In che cosa consiste la distinzione aristotelica tra i due tipi di intelletto?
(max 6 righe)
attività PLUS Spiega in che senso la concezione dell’anima proposta da Aristotele implichi il superamento dei principali modelli adottati dai suoi predecessori, nello specifico di quello naturalistico-materialistico e di quello orfico-pitagorico. (max 15 righe)
31 Metti a confronto la fisica di Democrito con quella di Aristotele, evidenziandone i numerosi elementi di (max 15 righe) contrapposizione.
CAPITOLO 5 L’agire umano: l’etica, la politica e l’arte 33 Secondo Aristotele per compiere il bene:
c. Lo Stato si basa su un contratto che
gli individui stringono per fare fronte alle avversità
A è sufficiente conoscerlo B è sufficiente desiderarlo
V
F
V
F
V
F
V
F
d. Del progetto politico platonico
C bisogna essere completamente liberi
Aristotele accoglie la comunanza delle donne e della proprietà
di seguire i princìpi della ragione D bisogna orientare i propri impulsi verso fini buoni
e. Aristotele condanna l’arte pittorica
perché si riduce a un semplice gioco formale
34 È una forma di degenerazione della politìa: A la democrazia
C la tirannide
B la monarchia
D l’oligarchia
f. Per Aristotele la tragedia esercita
una potente azione purificatrice
35 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.
36 Utilizza i termini elencati di seguito per completare
a. Aristotele definisce “etiche” le virtù
la mappa riportata sotto.
che tendono a perfezionare il carattere
V
F
V
F
accidentale • bene • intimità • piacere • piacevolezza • stabile • uguaglianza • utile • virtù
b. Per Aristotele la legge a volte deve essere
corretta mediante il diritto naturale
L’AMICIZIA
[mappa esercizio 36] può essere fondata
ha come condizioni
sulla
sull’. . . . . . . . . . . . . . . . . . sul . . . . . . . . . . . . . . . . . . (tipica dei vecchi) (tipica dei giovani)
..................
e risultare
e risultare
.................. e
.................. e
facile a rompersi
ferma, in quanto fondata sul . . . . . . . . . . . . . . . . . .
l’. . . . . . . . . . . . . . . . . . di rapporti
la . . . . . . . . . . . . . . . . . . della persona
l’. . . . . . . . . . . . . . . . . . tra gli individui
457
37 Collega le cinque virtù della ragione (colonna di sinistra)
questo la poesia è più elevata della ………….: quella esprime l’…………., mentre questa il …………. . La storia, infatti, narra tutto quello che è accaduto a un dato …………. o in un dato …………. secondo la pura e semplice successione degli avvenimenti; la poesia imita invece ciò che accade …………. e che quindi costituisce l’…………. dell’universalità propria degli oggetti della …………. .
con le capacità che ad esse ineriscono (colonna di destra). a. l’arte
1. agire convenientemente per raggiungere il bene
b. la saggezza
2. giudicare della verità dei princìpi
c. l’intelligenza
3. costruire ragionamenti dimostrativi
d. la scienza
4. produrre oggetti
e. la sapienza
5. cogliere i princìpi primi comuni a tutte le scienze
38 Utilizza i termini elencati di seguito per completare il
39 Su che cosa si basa la distinzione operata da Aristotele tra due tipi fondamentali di virtù?
40 Quali sono, secondo Aristotele, le condizioni del buon governo?
La …………., come ogni forma artistica, è …………. e l’oggetto che essa imita, più che il …………., è il …………. . Per
VERSO L’ESAME DI STATO PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C
RIFLESSIONE CRITICA DI CARATTERE ESPOSITIVO-ARGOMENTATIVO SU TEMATICHE DI ATTUALITÀ
(max 6 righe)
41 Quali sono, per Aristotele, le caratteristiche esteriori
testo riportato sotto. analogo • imitazione • particolare • periodo • perlo più • personaggio • scienza • storia • tragedia • uni versale • vero • verosimile
(max 6 righe)
della bellezza?
42
(max 6 righe)
attività PLUS Per Aristotele la sapienza è superiore alla saggezza, così come la vita teoretica è superiore alla prassi. Dopo avere spiegato le ragioni di questa tesi, chiarisci in che senso essa si oppone alla conce(max 15 righe) zione platonica.
COMPETENZE Comunicare in forma scritta | Elaborare le informazioni | Sviluppare la riflessione personale e il giudizio critico | Argomentare una tesi
Il significato di “potenza”
‘
Proviamo ad osservare un atleta che si trovi sulla pista dei cento metri […] immediatamente prima dell’inizio della corsa. Che cosa vediamo? Una persona che non è in movimento ed è in ginocchio; […] quel che qui abbiamo chiamato “essere in ginocchio” non è affatto l’inginocchiarsi nel senso del prostrarsi. Al contrario, questo atteggiamento è piuttosto quello di chi è pronto a scattare; nel modo particolarmente flessibile con cui le mani, le punte delle dita toccano il terreno, è già quasi presente l’urto e l’abbandono del posto che invece l’atleta ancora occupa. Il volto e lo sguardo non sono fissi a terra, come trasognati, né vagano incontrollatamente da un punto all’altro, ma sono puntati in avanti, tesi verso la pista, al punto che questo atteggiamento sembra tutt’intero attratto da qualcosa che sta là davanti. […] Manca solo questo segnale [il segnale del “via”], poi l’atleta incomincerà anche a correre […]. Che cosa significa, però, questo? Quando l’atleta incomincia a correre, allora è presente tutto ciò di cui egli in questo caso ha capacità; corre e dietro di lui non
458
Unità 4 ARISTOTELE VERiFiCa
resta nulla di cui non abbia capacità; correndo porta a termine la capacità. Ma questa esecuzione della capacità non è l’accantonamento della capacità, il far sì che essa scompaia; è invece un far uscire la capacità, portandola verso ciò cui essa stessa spinge ad andare. (M. Heidegger, Aristotele Metafisica 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, trad. it. di U. Ugazio, Mursia, Milano 1992, pp. 148-149)
La citazione proposta, tratta da un corso di lezioni tenuto dal filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) presso l’Università di Friburgo, mira a esemplificare il rapporto che potenza, capacità ed esecuzione hanno nella teoria di Aristotele. Confrontati con la tesi espressa nel passo e riporta le tue riflessioni personali sui concetti di “possibilità” e “capacità”, facendo riferimento non soltanto al loro significato filosofico, ma anche a quello che rivestono nella concretezza della tua vita. Puoi articolare la struttura del tuo scritto in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto.
QUESTIONE
COMPETENZE Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale
EDUCAZIONE CIVICA
L’essere umano è un “animale sociale”
Crizia
Aristotele
La storia vera di un ragazzo in fuga dalla civiltà Nel 1990, appena conseguita la laurea, il giovane Christopher McCandless (1968-1992), statunitense di famiglia benestante, decide di abbandonare famigliari e amici per sfuggire a una società che sente oppressiva, conformista e artificiale. Intraprende così un viaggio a piedi e in autostop che durerà due anni, e che lo porterà nei territori “selvaggi” dell’Alaska, in cerca dell’autentica felicità. Benché condotta in solitudine, l’avventura di Christopher è segnata da una serie di incontri intensi e istruttivi: con una coppia hippie, con un trebbiatore del South Dakota, con una giovane cantautrice e con un anziano veterano
di guerra chiuso nei suoi ricordi. Ognuna di queste persone contribuisce a infondere in lui la forza necessaria per proseguire il percorso e andare incontro al proprio destino: il vagheggiamento di un mondo incontaminato, in cui vivere isolati da tutto e da tutti, si intreccia così con la scoperta dell’importanza delle relazioni sociali. Giunto nelle gelide terre dell’Alaska, Christopher si ritrova immerso in una natura vergine e potente, dove per mesi, senza alcun contatto con i suoi simili, riesce a sopravvivere servendosi di pochi oggetti, e trovando riparo in un vecchio autobus abbandonato. E proprio in quell’autobus, che era diventato la sua casa, nel 1992 due cacciatori ritrovano il suo giovane corpo senza vita.
UN FILM PER AVVIARE LA RIFLESSIONE La storia di Christopher McCandless è stata narrata dallo scrittore e alpinista statunitense Jon Krakauer (nato nel 1954) in un romanzo intitolato Nelle terre estreme (1996), che a sua volta ha ispirato il film Into the Wild. Nelle terre selvagge (2007), scritto e diretto da Sean Penn. All’inizio del film, in una didascalia, compaiono alcuni suggestivi versi del poeta inglese George Byron (1788-1824), che sembrano offrire la chiave interpretativa del racconto:
C’è un piacere nei boschi senza sentieri, c’è un rapimento sulla spiaggia solitaria, c’è vita dove nessuno si inoltra, vicino al mare profondo, e c’è musica nel suo ruggito: io non amo l’Uomo di meno, ma la Natura di più.
There is a pleasure in the pathless woods, There is a rapture on the lonely shore, There is society, where none intrudes, By the deep sea, and music in its roar: I love not Man the less, but Nature more.
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QUESTIONE
LE PROSPETTIVE IN CAMPO Le riflessioni di Byron sembrano essere confermate da alcune parole pronunciate da Christopher nel film: «ti sbagli se pensi che le gioie della vita vengano soprattutto dai rapporti tra le persone. Dio ha messo la felicità dappertutto, in tutto ciò di cui possiamo fare esperienza. Abbiamo solo bisogno di cambiare il modo di guardare le cose». Il racconto, tuttavia, sembra poi svilupparsi in un’altra direzione: alla fine, quando è immerso nella solitudine delle terre d’Alaska, il giovane pare infatti comprendere che la felicità si può trovare soltanto nell’incontro e nella condivisione con gli altri. È questo, forse, il senso delle parole che egli annota in uno dei libri che ha portato con sé e che è solito leggere: «la felicità è autentica soltanto quando è condivisa» (Happiness only real when shared). Si delineano così due possibili punti di vista da cui guardare alla vita sociale in cui gli esseri umani sono immersi:
il convenzionalismo politico Secondo un primo modo di vedere, le regole e i legami sociali sono un artificio, il frutto di una convenzione che gli esseri umani impongono a sé stessi, e che può trasformarsi in una realtà soffocante. È questa l’idea, la “sensazione” che spinge Christopher a partire, per soddisfare un bisogno istintivo di autosufficienza e libertà. il naturalismo politico Esiste però un altro modo di vedere, secondo cui la società, pur reggendosi su regole che possono apparire limitanti per la libertà individuale, rappresenta comunque la forma più naturale della vita umana, una sorta di necessità biologica. Sembra questo l’insegnamento che Christopher acquisisce nel suo viaggio solitario: è soltanto nella relazione con gli altri che gli esseri umani possono davvero realizzarsi.
LA QUESTIONE FILOSOFICA Il film Into the Wild solleva alcuni interrogativi fondamentali, con i quali si è confrontato anche il pensiero filosofico: le regole sociali sono un’“invenzione” umana, che, pur necessaria, schiaccia l’individuo impedendogli di esprimere liberamente la propria personalità? Oppure l’uomo è un “animale sociale”, che non può fare a meno di vivere con i propri simili? In altre parole, la società è un artificio oppure è la forma più naturale e istintiva della vita umana? La questione è stata affrontata anche dai filosofi greci – in particolare dal sofista Crizia e da Aristotele – e può essere sintetizzata così:
L’essere umano è un animale sociale?
convenzionalismo politico L’organizzazione della vita umana in società non è il frutto della naturale socievolezza umana, ma una costruzione, una convenzione che gli uomini si auto-impongono per regolamentare il comportamento individuale.
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Unità 4 ARISTOTELE QUESTIONE l’essere umano è un “animale sociale”?
naturalismo politico L’essere umano è naturalmente e istintivamente incline alla socievolezza e, come altre specie animali (ad esempio le api o le formiche), ha la tendenza a vivere in comunità, collaborando con i suoi simili. L’organizzazione in società è quindi per l’uomo una dimensione naturale, che risponde alla sua essenza profonda.
LE ARGOMENTAZIONI DEI FILOSOFI
Crizia
il convenzionalismo politico
La società come Voce minoritaria nella storia del pensiero antico, il sofista Crizia elabora una concezione della natura costruzione umana pregiudizialmente negativa. Egli afferma che, lungi dall’essere per natura inclini alla socievolezza, che “corregge” la natura gli uomini vivevano originariamente (cioè in assenza di un’organizzazione politica) in preda ai loro
istinti egoistici e aggressivi, in una condizione di anarchia e disordine totali, in cui ognuno cercava di sopraffare l’altro con la violenza e con l’inganno. A questo stato di cose cerca di ovviare la società, che non è altro che una convenzione, una costruzione scaturita da un accordo tra simili. In quest’ottica, se un individuo rispetta le leggi dello Stato, ciò accade soltanto in virtù della paura: le leggi che instaurano l’ordine, infatti, vengono fatte rispettare mediante l’esercizio della forza, attraverso la minaccia della punizione. Lo Stato è dunque una sorta di costruzione artificiale introdotta dalla ragione per correggere i rischi insiti nella natura umana. Questa disincantata e realistica concezione della politica e della sua nascita è espressa nel seguente frammento, che la tradizione attribuisce appunto a Crizia:
‘
Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era per i buoni, né alcun castigo per i malvagi. In seguito mi pare che gli uomini sancissero leggi punitive, sì che fosse Giustizia assoluta signora egualmente di tutti, e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. (DK C 88, 25, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1981)
L’invenzione della Ma neppure l’istituzione delle leggi e, di conseguenza, la nascita dello Stato per tutelare la giustizia sono giustizia divina sufficienti a debellare la violenza e instaurare l’ordine sociale. Crizia osserva infatti che gli uomini, non in sostegno della giustizia statale avendo alcuna inclinazione naturale al bene e alla ragione, si ostinano a essere malvagi anche quando
vivono in società, commettendo azioni ingiuste quando sanno di non poter essere scoperti e, quindi, puniti. Questa situazione ha reso necessario un ulteriore artificio, ovvero l’“invenzione” di una giustizia divina. Facendo credere che gli dèi possano scorgere ogni azione umana, comprese quelle compiute di nascosto, i potenti inducono il popolo a temere non soltanto le punizioni da parte di chi detiene il potere, ma anche la punizione divina. L’essere umano può costruire una vita ordinata e pacifica soltanto fondandola sulla paura delle leggi e degli dèi:
‘
Ma poi, giacché le leggi distoglievano bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timore degli dèi, sì che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per (DK C 88, 25, ibidem) ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero.
Aristotele
il naturalismo politico
Il naturalismo L’assunto della dottrina politica aristotelica (esposta sia nella Politica sia nell’Etica nicomachea) è l’idea e il gradualismo che l’essere umano sia un «animale politico portato naturalmente alla vita in società» (Etica nico-
machea, I, 1169b 18). Il modello aristotelico è pertanto naturalistico e gradualistico; è la natura a spingere l’uomo a edificare strutture intersoggettive sempre più complesse, sviluppandole gradualmente, dal nucleo più piccolo della famiglia fino a quelli più ampi e articolati del villaggio e, infine, della città-Stato, che è la forma di vita associata più alta:
‘
ogni Stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità: infatti esso è il loro fine e la natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa. Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il fine, è il meglio, e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste considerazioni è evidente che lo Stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole. (Aristotele, Politica, I, 1252b 30 - 1253a 5, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 6)
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QUESTIONE Lo Stato come Gli Stati sono per Aristotele comunità naturali, strutturate e organiche, in cui ciascuno svolge la propria totalità compiuta funzione. Come nell’organismo umano le mani e i piedi sono funzionali alla totalità di cui fanno parte, così e autosufficiente lo Stato è anteriore alle sue parti, cioè ai villaggi, alla famiglia e, infine, all’individuo, il quale soltanto
all’interno della pólis sussiste e realizza pienamente sé stesso. Diversamente dalle altre forme di vita associata, lo Stato è dunque una totalità in sé compiuta e autosufficiente, che non ha bisogno di altro. Il che, per Aristotele, è un altro modo per ribadire che l’uomo è un essere socievole per natura:
‘
E per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano […]. È evidente dunque che lo Stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è [fosse] autosufficiente, ogni individuo separato sarà [sarebbe] nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto […]. (Aristotele, Politica, I, 1253a 5, cit., p. 6)
Lo Stato come Ma in che senso l’uomo realizza la propria natura soltanto all’interno dello Stato? Aristotele osserva che, fine ultimo da solo, l’individuo non riuscirebbe né a sopravvivere materialmente, né a conseguire la virtù che gli della vita umana
è propria, cioè lo sviluppo ottimale della sua natura razionale. La dimensione politica è quindi necessaria non soltanto per vivere, ma anche per vivere bene, nella comunanza dei pensieri e dei valori. Proprio questo aspetto è ciò che differenzia la socialità umana da quella animale. Aristotele lo sottolinea facendo riferimento al linguaggio: un uomo isolato non troverebbe cibo e sostentamento, né disporrebbe delle parole necessarie per esprimere e comunicare i suoi pensieri, dal momento che esse gli provengono dalla comunità alla quale appartiene. Ecco perché la «vita buona», cioè la vita del pensiero e dell’intelligenza, è realizzabile soltanto all’interno di una società, dove, grazie allo strumento della parola e, quindi, del libero scambio delle idee, gli uomini fissano le regole della convivenza, definendo ciò che è giusto e ingiusto:
‘
È chiaro, quindi, per quale ragione l’uomo è un essere socievole molto più di ogni ape e di ogni capo d’armento. Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce indica [esprime] quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli animali; […] ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto; questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo Stato. (Aristotele, Politica, I, 1253a 5-20, cit., pp. 6-7)
una questione aperta
Il modello di Crizia, per il quale la società è il frutto di un artificio umano, anticipa per certi versi un orientamento del pensiero politico che in età moderna sarà chiamato “contrattualismo”, e i cui esponenti principali sono indicati in Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau. Secondo questa prospettiva, lo Stato ha la sua origine in un accordo volontario tra un gruppo di individui, in un contratto stipulato per ottenere il vantaggio della sicurezza e della prosperità, mettendo fine ai rischi e ai pericoli insisti nella condizione pre-politica.
Se per Crizia la condizione naturale (che i contrattualisti definiranno «stato di natura») è radicalmente eterogenea rispetto allo «stato civile» (istituito grazie alla ragione), per Aristotele le due condizioni sono invece tra loro omogenee. Anzi, lo Stato affonda le sue origini proprio in quella società naturale originaria che è la famiglia: esso non è che una sorta di “famiglia in grande”, che coinvolge più membri e soddisfa bisogni più complessi, ma che non le si contrappone affatto, dal momento che l’uomo è socievole per natura.
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Unità 4 ARISTOTELE QUESTIONE l’essere umano è un “animale sociale”?
L’innegabile distanza che separa queste due concezioni dell’essere uomo (quella criziana e quella aristotelica) parrà ad alcuni autori troppo schematica e fuorviante per comprendere la complessità della natura umana. Emblematico sarà il caso del filosofo settecentesco Immanuel Kant, il quale affermerà che la socialità umana non è qualcosa di assoluto e indiscutibile; non è fondata su un’inclinazione pura alla benevolenza, ma è ambivalente, caratterizzata da attrazione e diffidenza tra simili, volontà allo stesso tempo di avvicinamento e distacco. Per definire questa condizione Kant ricorrerà a un efficace ossimoro: «insocievole socievolezza», alludendo così alla tendenza degli uomini a unirsi, congiunta però a un’inclinazione contraria alla competizione e all’antagonismo. Entrambe queste disposizioni, secondo Kant, sono in un certo senso naturali e necessarie per il progresso civile dell’umanità.
ora tocca a voi...
dibattito critico
COMPETENZE Saper argomentare
una tesi anche dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui
Sotto la guida dell’insegnante, mediante sorteggio dividete la classe in due squadre, assegnando a ciascuna di esse il compito di argomentare in favore o contro la seguente mozione:
L’essere umano è socievole per natura PREPAR A ZIONE DEL DIBAT TITO
• Per prepararvi a presentare il punto di vista della vostra squadra, rispondete alle seguenti domande: - in che senso la concezione criziana/aristotelica è pregiudizialmente negativa/positiva riguardo alla natura umana? e con quali argomenti o osservazioni può essere sostenuta? - qual è l’origine dello Stato per Crizia? quale per Aristotele? - perché la prospettiva convenzionalistica di Crizia può essere accostata al moderno contrattualismo? - perché la prospettiva naturalistica di Aristotele è una forma di organicismo? • Per elaborare gli argomenti favorevoli o contrari alla mozione, cercate nel manuale, in biblioteca o in Internet le riflessioni di filosofi, sociologi e politologi sul tema in questione individuando eventuali fatti di cronaca che supportino la posizione della vostra squadra. SVOLGIMENTO DEL DIBAT TITO
1. primo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Per avviare la discussione, un primo studente della squadra favorevole alla mozione riassume il problema ed espone la tesi:
Sì, l’essere umano è socievole per natura. Poi anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra, ed espone il primo argomento. Un componente della squadra avversaria espone la tesi: No, l’essere umano non è socievole per natura e anticipa sinteticamente gli argomenti che verranno sostenuti dalla sua squadra; quindi espone il primo argomento. 2. secondo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un secondo studente per ogni squadra difende il primo argomento presentato dalle critiche eventualmente ricevute; quindi confuta il primo argomento avversario ed espone altri argomenti in favore della mozione o contro di essa. 3. terzo intervento (max 6 minuti per ogni squadra) Un terzo studente per ogni squadra difende dalle critiche gli argomenti presentati fino a quel momento e confuta le argomentazioni avversarie. 4. conclusione (max 3 minuti per ogni squadra) Un esponente per ciascuna squadra tiene il discorso conclusivo, ribadendo la validità degli argomenti presentati in favore o contro la mozione.
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L’OFFICINA DELL’ESAME VERSO LA PRIMA PROVA - TIPOLOGIA B
ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO 1 Il valore della ricerca filosofica Hannah Arendt (1906-1975) è una filosofa e politologa tedesca di origine ebraica, emigrata negli Stati Uniti a seguito dell’avvento del nazismo. Il brano proposto è tratto dalla sua ultima opera che è rima-
sta incompiuta, La vita della mente (1978), nel corso della quale l’autrice rilegge numerosi snodi della storia del pensiero per illustrare le principali attività della mente umana: pensare, volere e giudicare.
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In primo luogo, Socrate è un tafano: egli sa come pungolare i cittadini che, senza di lui, “continuerebbero indisturbati a dormire per il resto della loro vita” a meno che qualcuno non sopraggiunga a destarli. E per che cosa risvegliarli? Per pensare ed esaminare, un’attività senza la quale, a suo avviso, la vita non solo non varrebbe granché, ma non sarebbe nemmeno pienamente tale. […] In secondo luogo, Socrate è una levatrice. Nel Teeteto [di Platone] egli afferma che, proprio perché sterile lui stesso, sa come sgravare gli altri dei loro pensieri; inoltre, grazie alla sua sterilità, egli detiene l’esperienza della levatrice e sa decidere se il bambino è realmente tale o un semplice ovulo non fecondato di cui la gestante dev’essere purgata. […] Infine, sapendo che non sappiamo e tuttavia riluttante a lasciar correre come se nulla fosse, Socrate si blocca insistendo sulle proprie perplessità e come la torpedine, paralizzato lui stesso, paralizza chiunque venga a contatto con lui. […] Gli Ateniesi gli obbiettarono che pensare era sovversivo, che il vento del pensiero era un uragano che spazzava via tutti i segni stabiliti e riconosciuti con i quali gli uomini possono orientarsi, che recava disordine nelle città e confondeva i cittadini. […] [Di fronte a simili critiche] non gli resta da aggiungere se non che quella vita privata del pensiero sarebbe senza significato, anche se il pensiero non renderà mai gli uomini sapienti né procurerà loro le risposte alle interrogazioni provenienti dal pensiero stesso. Il significato di ciò che Socrate faceva risiede nell’attività in sé. O, in altri termini: pensare ed essere veramente vivi sono lo stesso […]. Ciò che ho chiamato “ricerca” del significato figura nel linguaggio di Socrate come amore, l’amore, cioè, nel senso greco di Eros [amore passionale, desiderio], non l’agape cristiana [amore divino, indirizzato al bene dell’altro]. […] L’amore è l’unica cosa di cui Socrate rivendichi di essere esperto […]. Desiderando ciò che non ha, l’amore stabilisce una relazione con ciò che non è presente. […] Poiché la ricerca del pensiero è una sorta di amore desiderante, gli oggetti del pensiero non possono essere se non cose degne d’amore: la bellezza, la saggezza, la giustizia e via dicendo. […] È come se sulla connessione fra il male e l’assenza di pensiero Socrate avesse solo da dire che coloro che non sono innamorati della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero, proprio come, viceversa, chi ama l’esame e la riflessione tipici del pensiero e perciò “fa filosofia”, sarebbe incapace di fare il male. (H. Arendt, La vita della mente, trad. it. di G. Zanetti, il Mulino, Bologna 1987, pp. 266-267 e 272-274)
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SEZIONE 2 L’ETÀ CLASSICA L’OFFICINA DELL’ESAME
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COMPRENSIONE E ANALISI
SUGGERIMENTI OPER ATIVI
1. Che cosa intende Arendt quando afferma che Socrate, come una levatrice, «sa decidere se il bambino è realmente tale o un semplice ovulo non fecondato di cui la gestante dev’essere purgata» (rr. 7-9)?
Pensa a quanto hai studiato a proposito della maieutica: non limitarti a scrivere in che cosa consiste, ma chiediti a che cosa può alludere l’espressione riportata in riferimento a tale “arte”.
2. Socrate è paragonato a una torpedine, capace di paralizzare chi entra in contatto con lui (r. 11). Si tratta di una funzione positiva? Perché?
Ripensa a quanto hai studiato a proposito dell’immagine della torpedine marina e chiediti quali aspetti dell’attività socratica siano riconducibili a essa.
3. In che cosa consiste il carattere «sovversivo» del pensiero (r. 12)? Perché esso è paragonato a «un uragano che spazzava via tutti i segni stabiliti» (rr. 12-13)?
Numerosi cittadini ateniesi guardano con sospetto l’attività di Socrate e la ritengono pericolosa e destabilizzante; pensa a quanto hai studiato a proposito del processo e delle accuse mosse da Anito e Meleto.
4. «Pensare ed essere veramente vivi sono lo stesso» (rr. 18-19): quale significato hanno queste parole in riferimento all’azione di Socrate?
È utile a questo proposito riflettere sul valore assegnato da Socrate alla ricerca e sulla peculiare concezione socratica della virtù.
5. Spiega il significato della seguente affermazione: «L’amore è l’unica cosa di cui Socrate rivendichi di essere esperto» (rr. 22-23).
Fai riferimento al dialogo platonico del Simposio e al ruolo lì attribuito a Eros da Socrate.
PRODUZIONE
SUGGERIMENTI OPER ATIVI
Nella parte conclusiva del brano, l’autrice suggerisce un nesso tra il male e l’assenza di pensiero. Esponi le tue riflessioni al riguardo facendo riferimento ai seguenti spunti: - è possibile sostenere che il male derivi dalla sospensione di quell’attività di ricerca continua attorno a «cose degne d’amore», come la bellezza, la giustizia e la sapienza? - in che cosa consiste, secondo te, il sapere «desiderante» che l’autrice individua nell’interrogativo socratico? Come si differenzia dal pensiero calcolante ed enciclopedico?
• Rifletti sull’importanza della ricerca e sul continuo interrogare che hanno caratterizzato la missione socratica; quale beneficio possono trarre, oggi come nella Grecia classica, l’essere umano e il cittadino da una simile attività? • Considera gli effetti negativi che possono derivare, nella vita privata come in quella pubblica, se si sospende e si rinuncia all’esercizio del pensiero, sia critico sia creativo. • Pensa se ci accontentassimo di un sapere ridotto all’accumulo di dati e nozioni, oppure di una conoscenza fatta di formule e calcoli che mirano semplicemente a ottenere risultati utili: a tuo giudizio, che cosa smarriremmo della missione filosofica di Socrate?
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SNODI PLURIDISCIPLINARI
VERSO IL COLLOQUIO 2 Libertà e destino Prova a sviluppare in modo personale il percorso seguente, affrontando le discipline che rientrano nel tuo piano di studi. Metti a confronto le prospettive suggerite, individuando tra loro analogie e differenze. Fai in modo che il tuo sia un discorso organico e coerente.
PARTIAMO DA UN’IMMAGINE Laocoonte e i suoi figli, scuola di Rodi, I secolo a.C. circa, Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.
STORIA DELL’ARTE Il gruppo scultoreo Laocoonte e i suoi figli, databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., esprime il dramma della libertà umana in lotta contro il destino. La scultura raffigura il sacerdote troiano Laocoonte che, nel II libro dell’Eneide di Virgilio, invita i concittadini a diffidare dei Greci e del dono del cavallo di legno. I fati tuttavia hanno decretato la rovina di Troia e a nulla vale l’ammonimento del sacerdote; anzi, due serpenti marini, inviati dagli dèi favorevoli ai Greci, avvolgono prima i figli e poi lo stesso sacerdote. La scultura raffigura il momento di massima tensione: il corpo di Laocoonte si protende in un ultimo e vano sforzo di sfuggire al de-
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SEZIONE 2 L’ETÀ CLASSICA L’OFFICINA DELL’ESAME
stino. Una diagonale che attraversa l’intero corpo, dal piede sinistro al braccio destro, comunica l’estremo tentativo di liberarsi dalle spire dei mostri, tra le quali si adagia uno dei figlioletti già avvinto. I lineamenti del volto di Laocoonte esprimono il dolore per una sorte immeritata da cui, ormai, non si intravvede scampo. • Cerca informazioni sulle formelle bronzee realizzate nel 1401 da Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti, aventi per oggetto il sacrificio di Isacco, e confrontale con il Laocoonte. Come si caratterizza il rapporto tra libertà e destino nell’arte greca? E nelle opere di Brunelleschi e Ghiberti?
LETTERATURA GRECA Lo spirito greco si interroga sul destino anche attraverso la poesia. Nel mondo omerico le divinità intervengono di continuo nelle vicende della guerra di Troia, parteggiando per l’uno o per l’altro schieramento. In ogni caso, al di sopra degli dèi il fato costituisce un ordine inviolabile, al quale perfino Zeus è costretto a sottomettersi. Celebre è il passo dell’Iliade in cui il dio pesa sulla bilancia i destini di Ettore e di Achille (XXII, vv. 208-213): fatalmente si abbassa il piatto dell’eroe troiano, il quale troverà la propria morte nel duello contro il Pelìde (vv. 248-366). Temi analoghi compaiono nella più tarda Olimpica I: Pindaro narra il mito di Tantalo che, a causa della fortuna (ólbos) accordatagli dagli dèi, giunge a quella sazietà che lo muove ad arroganza (kóros) e, vittima di accecamento (áte), precipita nella rovina (ep. 2). • Rifletti sulle opere letterarie citate: a tuo avviso, quale margine d’azione riconoscono all’essere umano? FILOSOFIA La filosofia di Platone si misura con i problemi e le categorie tipici della sua epoca. L’intreccio fra libertà e destino è presente nei miti relativi alle sorti ultraterrene dell’anima e in particolare nel racconto di Er (Re pubblica, 614 a - 621 d). Al momento di reincarnarsi le anime hanno la possibilità di scegliere, in seguito a un sorteggio, il tipo di esistenza terrena alla quale saranno legate in modo irrevocabile. • Rifletti sul mito di Er: da che cosa dipende la sorte di ciascuno? Quale margine di scelta e quale grado di responsabilità hanno le anime? Il singolo essere umano, concretamente e storicamente esistente, è libero oppure no? Confronta la prospettiva platonica con gli altri spunti proposti afferenti alla cultura greca: quali analogie e quali differenze puoi constatare? LETTERATURA ITALIANA Scelta individuale, libertà personale e destino sono temi ampiamente presenti nella Commedia di Dante Alighieri. Il poeta, lungo il suo viaggio, conosce la condizione di numerose anime che scontano la condanna o godono il premio eterno in funzione delle scelte compiute durante l’esistenza terrena. • Rifletti sulla figura di Virgilio e sull’incontro fra Dante e le anime di Paolo e Francesca. Il primo, pur non avendo commesso in vita azioni meritevoli di condanna, si trova confinato nel Limbo ed escluso dalla beatitudine eterna per il fatto di es-
sere morto prima della venuta di Cristo (Inferno, I, vv. 125 e 131). Nello scambio di parole tra Francesca e il poeta (Inferno, V, vv. 88-138) si trova invece la compiuta affermazione dell’umana libertà: non è possibile attribuire la responsabilità delle proprie colpe alla forza di Amore, come sembra suggerire Francesca (vv. 100-106). Che cosa determina dunque la sorte dell’individuo secondo Dante? Confronta la prospettiva del poeta con gli altri spunti proposti: a quale si avvicina di più e perché?
LETTERATURA INGLESE La riflessione sui limiti della libertà umana si impone anche attraverso il teatro. Christopher Marlowe, esponente di spicco del Rinascimento inglese, condusse un’esistenza tormentata e passionale. Il suo travaglio interiore si riflette nel Doctor Faustus (1590 circa): il protagonista, mosso dall’orgoglio e dall’ambizione, vende l’anima al diavolo in cambio di ventiquattro anni di potere e soddisfazioni terrene. Nello sviluppo della vicenda un messaggero divino offre più volte la possibilità del ravvedimento a Faust, tormentato invece dalla disperazione di chi si considera ormai dannato. • Leggi l’atto V, scene I-II. Da che cosa è dipesa la dannazione eterna di Faust? L’arbitrio umano è capace di un’assoluta autodeterminazione oppure la scelta è condizionata dagli inganni del demonio? A tuo avviso, Marlowe fornisce una soluzione univoca alla questione del rapporto tra libertà e destino? PEDAGOGIA Durante il Rinascimento viene avviata una trasformazione radicale dei modelli e delle prassi pedagogiche. La centralità dell’essere umano acquisisce un significato diverso rispetto alle epoche precedenti e si esprime nell’ideale dell’homo faber fortunae suae. Gli intellettuali di quest’epoca rifiutano i princìpi educativi della scolastica medievale, considerata depositaria di un sapere pedante e sterile, e immaginano itinerari formativi che mettano al centro l’individualità del discente, la sua originalità e la sua creatività. • Approfondisci la riforma pedagogica prospettata da Erasmo da Rotterdam e François Rabelais, soffermandoti in particolare sulla necessità di una prassi educativa finalizzata alla formazione di una personalità autonoma. A tuo giudizio, rispetto alle epoche precedenti, quale peso attribuisce il mondo rinascimentale alla libertà umana?
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I NODI DEL PENSIERO NEL DIVENIRE DEL MONDO ESISTE QUALCOSA CHE NON MUTA?
L’esperienza quotidiana suggerisce che ogni cosa è soggetta al divenire: tutto cambia continuamente sotto i nostri occhi. Eppure, se riflettiamo con attenzione, notiamo che, quando diciamo che una certa cosa diviene, è perché riconosciamo che essa, nonostante il suo cambiamento, rimane sempre la stessa. Ciò significa forse che, al di là del mutare inesorabile di tutta la realtà, esiste qualcosa che permane identico? È questa una delle prime domande con cui il pensiero filosofico ha dovuto misurarsi.
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SCUOLA DI MILETO
Tutto muta e diviene, tranne l’arché
‘
Ci dev’essere una qualche sostanza, una o più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. (DK 11 A 12)
I primi a riflettere sul mondo, e a chiedersi se “al di sotto” del continuo cambiamento a cui le cose sono soggette vi sia qualcosa di immutabile, sono i filosofi ionici della scuola di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene. Spingendo la riflessione razionale (il lógos) al di là della testimonianza dei sensi, essi ipotizzano l’esistenza di un principio immutabile di tutta la realtà (l’arché), il quale, pur rimanendo sempre identico, la “sostiene” e ne permette il divenire. Sebbene tutto muti, la sostanza primordiale del mondo non muta. Essa è ciò di cui le cose sono costituite, ciò da cui tutto deriva e a cui tutto ciclicamente ritorna: l’acqua per Talete, l’ápeiron per Anassimandro e l’aria per Anassimene. Per questi filosofi, dunque, al di là della natura mutevole e multiforme in cui viviamo esiste un sostrato materiale che non diviene.
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Scuola di Mileto
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Eraclito
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Parmenide
2
ERACLITO
Tutto muta e diviene, tranne il divenire
‘
Il nostro mondo […] fu sempre, è e sarà fuoco eternamente vivo, che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne. (DK 22 B 30)
Facendo del divenire il tema centrale del suo pensiero, Eraclito concepisce il mondo come un flusso perenne, come un fiume le cui acque sono sempre diverse. Tuttavia, anche Eraclito (come già i fisici ionici) sente l’esigenza di individuare una sostanza immutabile del mondo, un principio che si può cogliere soltanto affidandosi alla ragione e andando al di là delle apparenze, ovvero oltre (o contro) ciò che viene suggerito dai sensi. Per Eraclito questo principio è il divenire stesso, di cui il fuoco, con la sua mutevolezza, è il simbolo più adeguato. Mentre tutto diviene, il divenire non diviene; esso è la forma universale di tutte le cose, la legge sempre identica che regola la natura e l’umanità, la ragione (il lógos) del cosmo: tutto muta, a eccezione della legge del mutamento.
3
PARMENIDE
Il divenire è apparenza, poiché il vero essere non muta
‘
Nulla c’è né ci sarà al di fuori dell’essere, giacché il destino l’ha incatenato in modo che esso rimanga intero ed immobile. (DK 28 B 8)
Diversa dalla posizione di Eraclito è quella di Parmenide di Elea, per il quale il divenire è sì attestato dai sensi e dal linguaggio comune (che parla di nascita, mutamento e morte), ma non è che apparenza illusoria, dietro la quale si cela un essere che «non può non essere», e che dunque è eterno e immutabile. Parmenide dimostra questa sua tesi a partire da un’evidenza della ragione: secondo una mentalità molto diffusa presso i pensatori greci, egli fa coincidere la sfera del linguaggio con quella del pensiero e della realtà. Ad esempio, dicendo che una mela “è” rossa e dolce, secondo Parmenide si esprime non soltanto la presenza di quella mela al pensiero, ma anche la sua reale esistenza; per contro, dicendo che qualcosa “non è”, se ne esprime l’irrealtà. In questa prospettiva, parlare del divenire del mondo significa cadere in un’evidente contraddizione logica, poiché significa affermare che le cose “sono” e insieme “non sono”: una rosa, ad esempio, “è” un fiore sbocciato e “non è” più un bocciolo. La conclusione parmenidea è netta: dal momento che non può essere pensato dal lógos senza contraddizione, il divenire non esiste realmente; le parole che lo descrivono, poiché affermano il non essere, non sono che suoni vuoti, privi di un reale significato, ed esprimono ciò che appare ai sensi ma non la vera realtà. Nascosto ai più e svelato soltanto ai sapienti, l’essere vero non nasce, non muta e non perisce: quindi nulla diviene davvero, poiché l’essere che si cela dietro il mondo testimoniato dai sensi è sempre uguale a sé stesso.
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Fisici pluralisti
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Platone
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Aristotele
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FISICI PLURALISTI
Le cose mutano in quanto composte di elementi immutabili
‘
Empedocle pone quattro elementi, aggiungendo la terra come quarto, oltre i tre già detti [acqua, terra e fuoco]. Dice infatti che essi permangono sempre identici e non divengono. (DK 31 A 28)
Il tentativo di conciliare la prospettiva sostenuta da Eraclito e dalla scuola ionica (secondo cui le cose sono realmente soggette a un divenire incessante) con quella di Parmenide (per il quale l’essere vero è eterno e immutabile) è la sfida che si trovano ad affrontare i cosiddetti “fisici pluralisti”, i cui maggiori rappresentanti sono Empedocle, Anassagora e gli atomisti. Anche i pluralisti ritengono che il mutamento delle cose non possa che “appoggiarsi” a un fondo immutabile, e che il divenire debba quindi essere spiegato a partire da una sostanza che non diviene, individuata in forza del lógos “oltre” e “nonostante” la mutevolezza del mondo. Nella concezione di tale sostanza, tuttavia, i pluralisti introducono un’importante novità, immaginando che essa non sia omogenea e, per così dire, compatta, bensì costituita da una molteplicità di elementi eterni (le «quattro radici» per Empedocle, i «semi» per Anassagora, gli «atomi» per Democrito). Tali elementi non nascono e non muoiono, ma «permangono sempre identici e non divengono» (DK 31 A 28): componendosi, determinano la nascita delle cose, mentre separandosi determinano la loro distruzione. In questo modo il divenire rimane dentro l’orizzonte stabile dell’essere, e l’essere vero e immutabile non ne rappresenta più (come per Parmenide) la negazione, bensì la spiegazione.
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PLATONE
I NODI DEL PENSIERO nEl DiVEniRE DEl MonDo ESiStE QUalCoSa CHE non MUta?
Le cose mutano, ma i loro modelli ideali sono immutabili
470
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Nessuna conoscenza conosce ciò che conosce, se questo oggetto non sta fermo in nessun modo. […] neppure è lecito dire che esiste conoscenza, […] se tutte le cose mutano e nessuna sta ferma. (Cratilo, 440a)
Un altro tentativo di conciliare la filosofia eleatica dell’essere immutabile con la dottrina ionica ed eraclitea del divenire è quello condotto da Platone. La novità da lui introdotta riguarda il livello dell’analisi: se Parmenide si era mosso su un livello logico, Platone si muove invece su un livello metafisico, e individua le sostanze immutabili non nel mondo materiale ma al di là di esso, nelle «idee». Seguendo la tradizione filosofica che lo precede, anche Platone ritiene che il divenire sarebbe impossibile e impensabile, se non ci fosse qualcosa che gli si sottrae. Infatti: una cosa o una persona può mutare soltanto se la sua essenza o sostanza permane identica (ad esempio, possiamo dire di Giovanni che “invecchia”, cioè che “non è più giovane”, soltanto perché “è sempre Giovanni”; per le stesse ragioni è possibile conoscere una cosa o una persona, nonostante il suo mutamento continuo, soltanto se qualcosa di essa rimane stabile, altrimenti non saremmo in grado di riconoscerla. Questa essenza (ousía) è appunto l’«idea», il vero essere, la natura stabile di un individuo o di una cosa. Le idee sono quindi il sostrato indiveniente del divenire, la risposta di Platone alla domanda se sia possibile pensare qualcosa che, nell’incessante mutare del mondo, permanga identico a sé stesso.
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Scuola di Mileto
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Eraclito
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Parmenide
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ARISTOTELE
Le cose mutano, ma sulla base di forme immutabili
‘
Se non ci fosse l’eterno, non esisterebbe neppure il divenire. (Metafisica, B 4, 999b 5)
Aristotele parte dal principio eleatico secondo cui “dal nulla non viene nulla” e concepisce il divenire in tutte le sue forme come un passaggio non dal non essere all’essere (o viceversa), bensì da un tipo di essere a un altro tipo di essere. Egli distingue: il divenire “non sostanziale”, in cui un ente subisce un mutamento (o un movimento) locale, qualitativo o quantitativo. In questo caso il sostrato immutabile è il soggetto, o la sostanza individuale, che rimane la stessa nonostante i cambiamenti e che, anzi, li rende possibili; il divenire “sostanziale”, cioè la nascita e la morte di una sostanza individuale, in cui il sostrato immutabile è la materia, intesa come capacità di assumere una forma. Il divenire, in questo caso, è un passaggio dall’essere potenziale (che caratterizza la materia) all’essere attuale (che caratterizza la materia formata). Anche quando il divenire coinvolge la sostanza, c’è quindi qualcosa che non diviene: la materia innanzitutto, ma anche la forma, che esiste “prima” della materia e indipendentemente da essa, e che ne orienta il mutamento. In altre parole, per Aristotele il divenire si svolge dentro una struttura ontologica stabile e predeterminata, costituita dalla materia che funge da sostrato delle forme, e dalle forme che rappresentano la trama eterna e necessaria dell’essere.
FARE FILOSOFIA COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE Competenza imprenditoriale | Competenza
digitale
Immagina di dover organizzare, insieme con un gruppo di compagni di classe, un seminario sul tema “Tra essere e non essere: il mistero del divenire”. • Decidete a chi sarà rivolta l’iniziativa (ad esempio a vostri coetanei, studenti della scuola secondaria di secondo grado) e quale “taglio” do-
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Fisici pluralisti
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vrà avere (filosofico, letterario, scientifico ecc.). • Individuate la figura (poeta, psicologo, religioso ecc.) a cui attribuireste il ruolo di moderatore e redigete una lista dei possibili relatori (quattro al massimo) immaginando anche i titoli, l’ordine e la durata degli interventi. • Realizzate quindi una presentazione multimediale (10-12 slide), corredata di citazioni, immagini ed eventuali link utili, da proiettare durante il seminario per scandirne le varie fasi.
Platone
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Aristotele
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I NODI DEL PENSIERO CHE COS’È LA FELICITÀ?
Tutti gli esseri umani sembrano tendere alla felicità, ovvero a una condizione di perfetta e completa soddisfazione che risulta difficile da definire e forse impossibile da raggiungere. Nell’antica Grecia il tema della felicità è presente sia nei poeti sia nei filosofi: tutti si chiedono come si possa conseguire, o almeno perseguire, nella convinzione (tipica della mentalità greca) che la felicità autentica sia un bene riservato soltanto agli dèi, di cui gli esseri umani, nella loro finitezza, non possono arrivare a godere pienamente.
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1
POEMI OMERICI
La felicità consiste nella virtù guerriera
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Zeus Olimpio in persona distribuisce la felicità agli uomini, a buoni e cattivi, come vuole, a ciascuno. (Odissea, VI, vv. 1888-1889)
I versi degli antichi poeti greci dedicati alla felicità sono numerosi: con toni diversi, la cantano lirici come Mimnermo, Alceo, Saffo e tanti altri. Ma è soprattutto nell’epica che la felicità comincia ad assumere i tratti specifici che la connoteranno nel successivo pensiero filosofico. Emblematici, da questo punto di vista, sono i poemi omerici, in cui sono definiti pienamente felici soltanto gli dèi (secondo la formula ricorrente «gli dèi felici e sempre viventi»), mentre la felicità concessa agli uomini dipende dalla volontà (spesso capricciosa) degli dèi, che possono dispensarla o sottrarla ai mortali a loro piacimento. Se esiste una forma di felicità su cui gli esseri umani hanno un qualche potere, questa è invece la virtù (areté), intesa come realizzazione completa e ottimale della natura umana. E secondo l’aristocratica mentalità omerica, l’areté consiste nella forza fisica, nel vigore
1 Poemi omerici
2 Socrate
3 Platone
4 Aristotele
guerriero, nel coraggio davanti al nemico e nella ricerca dell’onore anche a costo della vita. Tutti questi “nobili” comportamenti non possono che determinare la felicità, concepita appunto come la destinazione naturale che gli dèi hanno stabilito per gli esseri umani. Istituendo questo nesso tra felicità e virtù, la tradizione omerica fissa quello che sarà un paradigma perenne della morale greca. Alla domanda “perché bisogna condurre una vita virtuosa?” l’etica greca risponde “perché soltanto una vita virtuosa è una vita felice”.
2
SOCRATE
La felicità consiste nella conoscenza
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Non è possibile essere felici se non si è saggi e buoni, e gli uomini cattivi sono quindi infelici. (Platone, Alcibiade I, 34a)
Secondo la testimonianza di Platone, anche per Socrate (come per Omero) la felicità coincide con l’areté, ovvero con la piena realizzazione della propria natura. Si può dire che il ben-essere coincide con l’esercizio del bene, il quale però, nella riflessione socratica, non consiste più nel coraggio e nel valore in battaglia, ma nella conoscenza. Per Socrate, infatti, ciò che rende un essere umano pienamente tale, distinguendolo dagli altri animali, non è il corpo, ma l’anima, che ne rappresenta la componente spirituale e razionale. La felicità dell’uomo consisterà quindi non nel benessere fisico o nel possesso di qualche bene materiale (salute, ricchezza ecc.), ma nella salute dell’anima, la quale è raggiungibile esercitando la ragione e ricercando il sapere. Per Socrate, insomma, la vita felice, o la vita buona, si raggiunge prendendosi cura della propria anima, cioè realizzando la propria natura razionale mediante la conoscenza.
3
PLATONE
La felicità consiste nel vivere «secondo ragione»
‘
La più bella e la più grande delle armonie si può dire che sia la più grande sapienza, di cui è partecipe chi vive secondo ragione. (Platone, Leggi, 689d)
Alla posizione di Socrate si mantiene sostanzialmente fedele il suo allievo Platone, per il quale una vita felice è una vita virtuosa o buona, cioè vissuta secondo ragione. Nei dialoghi della maturità, tuttavia, Platone rivede un aspetto importante dell’etica del maestro: se per Socrate il bene e la felicità consistevano nella conoscenza, e il male e l’infelicità nell’ignoranza, per Platone l’antitesi tra il bene e il male cessa di essere un’alternativa “interna” alla ragione (tra un sapere più grande e un sapere minore o errato) e diventa un’alternativa tra la ragione e gli impulsi irrazionali che abitano nell’animo umano. Così, se per entrambi i filosofi la felicità è riconducibile all’esercizio della ragione, in Platone tale esercizio viene concepito secondo un significato più specifico, ovvero quello di una ragione (l’«anima razionale») che contiene e guida le passioni (cioè l’«anima concupiscibile») verso il bene.
5 Epicuro
6 Stoici
7 Plotino
8 Agostino
473
Inoltre, la felicità di cui parla Platone non è tanto la felicità del singolo individuo, quanto la felicità dello Stato nel suo complesso. Anzi, l’individuo non può essere giusto e felice se lo Stato in cui vive non è giusto e felice. Per questo la massima realizzazione della vita umana – e la massima felicità possibile – è incarnata nella figura del governante-filosofo, cioè dell’uomo capace di esercitare il dominio della razionalità sulle passioni, di contemplare il bene e l’ordine delle idee, e di governare la città secondo giustizia, rendendo felice sé stesso e gli altri:
‘ ‘
l’uomo migliore o più giusto è il più felice, e questi è il più regale, e re di sé stesso. (Repubblica, IX, 580c)
4
ARISTOTELE
La felicità consiste nella sapienza La felicità è il sommo bene. […] Se propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione […], allora il bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù. (Etica nicomachea, 1097b ss.)
I NODI DEL PENSIERO CHE CoS’È la FEliCità?
Come per Platone, e prima ancora per Socrate, anche per Aristotele una vita felice è una vita buona o virtuosa, e questa è una vita condotta «secondo ragione», perché la virtù (l’areté) propria dell’essere umano è la razionalità. Nonostante questa continuità con i pensatori precedenti, la posizione aristotelica presenta due elementi di novità: innanzitutto l’idea che per fare il bene non sia sufficiente conoscerlo, ma occorra anche desiderarlo e volerlo; in secondo luogo la convinzione che non esista una sola forma di bene, cioè che la virtù non sia una sola (la conoscenza), ma vi siano molteplici virtù. Al di là di questi due aspetti, la lezione socratica sulla felicità rimane vitale anche in Aristotele, per il quale le due virtù che massimamente concorrono a rendere la vita umana giusta e felice sono la saggezza e la sapienza, le quali sono entrambe riconducibili all’esercizio della ragione. La saggezza consiste infatti nel deliberare bene, scegliendo la «medietà» nelle diverse situazioni concrete, e la sapienza nel «fare filosofia», cioè nel conoscere i massimi princìpi e le cause prime delle cose. E poiché, tra la saggezza e la sapienza, il primato spetta alla sapienza (dal momento che la ragione delibera bene se conosce la verità), è proprio la sapienza a costituire la forma più alta di virtù e di felicità, in grado di rendere l’essere umano simile a un Dio.
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1 Poemi omerici
2 Socrate
3 Platone
4 Aristotele
DALLA FILOSOFIA ALLA POESIA
La fuggevole felicità cantata dai poeti In quanto obiettivo che ogni essere umano cerca di raggiungere, la felicità è un tema caro non soltanto ai filosofi, ma anche ai poeti, che nei loro versi la cantano spesso con struggente nostalgia, come un bene tanto desiderato quanto effimero. Del resto (come si è detto parlando dei poemi omerici) per la mentalità greca in generale la felicità non è alla portata degli uomini, ma soltanto degli dèi, come sembra emergere anche dalla parola utilizzata per indicarla: eudaimonía, che secondo il significato letterale indica l’essere accompagnato da un “buon” (eu) “dèmone” (dáimon). Ma dunque in che cosa consiste, per i poeti, la felicità? Qual è questo dono che gli dèi sembrano concedere o negare ai mortali senza alcuna ragione? I lirici greci tendono a identificare la felicità con le gioie della giovinezza e dell’amore dei sensi, ovvero con qualcosa che è destinato a non durare. Esemplari a questo proposito sono i versi di Mimnermo, poeta nato sulle coste della Ionia (a Colofone, o forse a Smirne) probabilmente a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C. Di Mimnermo ci sono giunti pochi ma significativi versi, in cui egli canta malinconicamente la brevità della vita e della giovinezza. Ecco uno dei suoi frammenti più celebri, le cui immagini verranno riprese, nei secoli successivi, da altri grandi poeti:
‘
Al modo delle foglie che nel tempo fiorito della primavera nascono e ai raggi del sole rapide crescono, noi simili a quelle per un attimo abbiamo diletto del fiore dell’età ignorando il bene e il male per dono dei Celesti. Ma le nere dèe ci stanno sempre al fianco, l’una con il segno della grave vecchiaia e l’altra della morte. Fulmineo precipita il frutto di giovinezza, come la luce d’un giorno sulla terra. E quando il suo tempo è dileguato è meglio la morte che la vita. (Mimnermo, frammento 8, trad. it. di S. Quasimodo)
FARE FILOSOFIA PER RIFLETTERE E ARGOMENTARE COMPETENZE Competenza in materia di consapevolezza
ed espressione culturali
• Rifletti sull’equazione socratica “virtù = felicità”, e quindi “vizio = infelicità”. Condividi l’idea che possa sentirsi felice soltanto chi non commette ingiustizia? Per quale motivo? • Considera la concezione della felicità espressa dai filosofi e dai poeti greci. In quale ti ri-
5 Epicuro
6 Stoici
conosci maggiormente? Ritieni che la felicità consista in una vita virtuosa, dedita alla conoscenza, oppure nel provare emozioni intense (ad esempio quelle amorose), come accade perlopiù nella giovinezza? Motiva la tua risposta.
7 Plotino
8 Agostino
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I NODI DEL PENSIERO QUAL È IL RAPPORTO TRA INDIVIDUO E STATO?
In generale, la cultura greca classica non mette in discussione l’esistenza di un rapporto inscindibile tra l’individuo e lo Stato, ovvero tra il singolo e la comunità in cui vive. Prima dell’età ellenistica, per i filosofi greci il cittadino si realizza come essere umano esclusivamente nell’orizzonte della pólis, ovvero delle sue leggi, dei suoi usi e costumi, della vita che vi si svolge, con tutte le sue regole esplicite e implicite.
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1 Protagora
1
PROTAGORA
Lo Stato è condizione necessaria per la sopravvivenza
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Allora Zeus, temendo per la nostra specie, minacciata di andare tutta distrutta, inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia, affinché servissero da ordinamento della città. (Platone, Protagora, 322a)
Una delle caratteristiche peculiari della cultura greca è la centralità della politica, cioè del vivere associato. Per i Greci, infatti, la pólis è l’orizzonte imprescindibile in cui acquista senso ogni attività umana, tanto che l’esistenza dell’individuo coincide con quella del cittadino. Questa concezione acquisisce una rilevanza ancora maggiore nella democrazia ateniese dell’epoca di Pericle, la cui espressione culturale più significativa è costituita dal movimento dei sofisti, grandi indagatori dell’essere umano nonché maestri della “virtù politica”. Tra i sofisti, a elaborare una teoria particolarmente suggestiva sul rapporto tra l’individuo e lo Stato è Protagora, al quale è dedicato l’omonimo dialogo di Platone.
2 Socrate
3 Platone
4 Aristotele
Nel Protagora è narrato il celebre mito di Prometeo, che mostra con chiarezza come per il sofista di Abdera la vita dell’uomo sia inconcepibile al di fuori delle leggi che regolano la città. La natura ha fornito agli esseri umani una serie di risorse (il fuoco, l’abilità nel cacciare, nel costruire ecc.) che tuttavia non ne garantirebbero la sopravvivenza, se Zeus non avesse elargito loro anche l’arte politica, quale “tecnica” del vivere insieme secondo giustizia. Per Protagora, dunque, la natura da sola non basta a garantire la vita dell’individuo: chi si pone al di fuori dell’orizzonte della città e delle leggi retrocede a una pericolosa condizione naturale, o pre-politica, che lo espone al rischio della morte.
2
SOCRATE
Lo Stato è condizione necessaria per la realizzazione della natura umana
‘
O sei così sapiente da aver dimenticato che più della madre e del padre e più degli altri progenitori presi tutti insieme è da onorare la patria? E che la patria si deve rispettare, e più del padre si deve obbedire e adorare, anche nelle sue collere? (Platone, Critone, 50a)
Pur richiamando l’attenzione sulla libertà della ragione individuale quale “tribunale” del bene e del male e sulla capacità critica di ogni essere umano quale strumento per orientare le proprie scelte, anche Socrate (come Protagora) identifica la virtù (cioè la vita “buona”) con il rispetto delle leggi. Non può esistere una vita buona e felice al di fuori dell’orizzonte dello Stato, perché soltanto in quest’ultimo si realizza la destinazione naturale dell’uomo. Soltanto nella città, infatti, l’individuo esce dall’egoismo e può perseguire, nel costante confronto con gli altri, il bene e la felicità autentici. Al di fuori della vita associata, delle istituzioni politiche e delle regole democratiche, lo stesso problema del bene e del male non ha alcun senso. Secondo l’emblematica testimonianza di Platone, dopo essere stato condannato a morte Socrate riceve l’invito di Critone a fuggire. Egli però rifiuta l’aiuto offertogli dall’amico e discepolo, ricordando che rispettare le leggi è un dovere assoluto, a cui non si può venire meno neppure quando queste ci appaiano severe o ingiuste: senza il rispetto delle leggi crollerebbe ogni ordine sociale e ogni presupposto per la realizzazione della nostra natura di esseri umani.
5 Epicuro
6 Stoici
7 Tommaso
8 Marsilio
9 Ockham
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3
PLATONE
Lo Stato è condizione necessaria per una vita giusta e felice
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Il nostro scopo nel fondare lo Stato non è di rendere felice un unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto il più possibile lo Stato nella sua totalità. (Platone, Repubblica, 420b-c)
La convinzione tipicamente greca secondo cui l’individuo coincide con il cittadino trova nel pensiero politico di Platone la sua tematizzazione più compiuta. Per Platone lo Stato rappresenta sia il luogo sia la condizione della felicità del singolo: un essere umano, infatti, è felice quando è giusto, cioè quando segue la propria inclinazione e realizza compiutamente la propria natura, ponendo le proprie capacità al servizio della comunità di cui fa parte. Così, il seguire l’inclinazione naturale di ognuno contribuisce direttamente alla costruzione di uno Stato gi usto, che persegue la felicità di tutti i cittadini. In questa prospettiva, l’individuo si risolve e si comprende esclusivamente nell’orizzonte della pólis, nella consapevolezza di una perfetta coincidenza fra l’interesse del singolo e quello dello Stato.
4
ARISTOTELE
Lo Stato è condizione necessaria per una vita compiuta e felice
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I NODI DEL PENSIERO QUal È il RappoRto tRa inDiViDUo E Stato?
Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a sé stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio. (Aristotele, Politica, I, 2, 1253a 27)
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Alle soglie dell’età ellenistica, l’idea platonica – e in generale greca – secondo cui gli esseri umani possono realizzarsi pienamente soltanto nell’orizzonte della pólis trova la sua sintesi più efficace nella definizione aristotelica dell’uomo come «animale politico». Con questa formula, Aristotele intende sottolineare che l’essere umano tende «per natura» ad aggregarsi e a costituirsi in società, tanto che la sua vita, al di fuori del consorzio con i propri simili, sarebbe assimilabile alla vita di un essere inferiore (come i bruti, o le belve) oppure superiore (come gli dèi). Più in particolare, Aristotele afferma la priorità dello Stato rispetto sia alla famiglia sia all’individuo, i quali nei confronti della società politica si trovano nello stesso rapporto in cui le parti stanno con il tutto, o in cui gli organi stanno con l’organismo: come gli organi (mani, occhi ecc.), al di fuori dell’unità vivente di cui fanno parte, cessano di essere ciò che sono, così l’uomo, al di fuori dell’organismo dello Stato, non è più veramente “uomo”. «È dunque chiaro – afferma Aristotele – che la città è per natura, e che è anteriore all’individuo, perché, se l’individuo, preso da sé [da solo], non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti» (Politica, I, 2, 1253a 27). Per Aristotele la società è «anteriore» all’individuo non soltanto perché è condizione per la sua sopravvivenza, ma anche perché gli consente di vivere una vita compiuta e felice, permettendogli di conseguire il suo fine naturale, ovvero una vita secondo ragione e orientata al bene collettivo. A questo servono le leggi, le quali per Aristotele «si pronunciano su tutto e tendono all’utile comune, […] di modo che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo “giusto” ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politica» (Etica nicomachea, V, 2, 1129b, 14-19).
1 Protagora
2 Socrate
3 Platone
4 Aristotele
DALLA FILOSOFIA ALLA LETTERATURA UTOPICA
L’«isola che non c’è» Indipendentemente da come venga concepito il rapporto tra individuo e Stato, la vita associata è una realtà a cui difficilmente un essere umano può sottrarsi. Per questo i filosofi di ogni tempo hanno analizzato le comunità in cui hanno vissuto, individuandone pregi e difetti, e riflettendo su come fosse possibile migliorare la vita dei cittadini preservando al meglio il bene comune. Emblematico in questo senso è il caso dello Stato ideale descritto da Platone nella Repubblica, un’opera che può essere considerata come il primo significativo esempio di un filone letterario destinato a incontrare grande fortuna: quello dell’utopia. Il termine «utopia» indica, letteralmente, un “non-luogo”, un “luogo che non esiste” (dalle parole greche ou, “non”, e tópos, “luogo”). Fu coniato nel XVI secolo da Tommaso Moro (Thomas Moore, 1478-1535), celebre umanista inglese che nel 1516, proprio ispirandosi alla Repubblica platonica, scrisse un’opera in cui descriveva un’isola immaginaria (Utopia), abitata da una comunità ideale, organizzata secondo criteri di giustizia e solidarietà. La società inesistente descritta da Moro evidenzia, per contrasto, i limiti della società inglese del suo tempo, così come, circa un secolo dopo, La Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639) evidenzierà per contrasto i difetti della società calabrese e del governo spagnolo dell’epoca. Composta tra il 1602 e il 1603 (mentre Campanella era in carcere, accusato di aver tramato contro il potere), La Città del Sole descrive anch’essa un’isola ideale (Taprobana), dove sorge una comunità perfetta, organizzata (come lo Stato platonico) secondo una forma di comunismo gerarchico, in cui tutti i beni sono in comune, e in cui ognuno è felice di svolgere la funzione che gli è assegnata sulla base delle proprie attitudini. Come già la Repubblica platonica, anche la Città del Sole campanelliana è una forma di sofocrazia, ovvero una società governata dai sapienti: il potere supremo spetta a un «principe-sacerdote» (il «Sole», o «Metafisico»), le cui conoscenze spaziano in tutti gli ambiti. Quanto alla vita degli abitanti, essa è regolata in ogni dettaglio e ci sono «offiziali» preposti a controllare che tutto si svolga secondo la legge. In questo senso l’utopia campanelliana è un esempio di organicismo politico, in cui il rapporto tra individuo e Stato è risolto in netto favore di quest’ultimo. Lo Stato, la società, per Campanella viene “prima” di ogni suo cittadino, che non ne costituisce che un “momento” o una parte.
FARE FILOSOFIA COMPITO DI REALTÀ COMPETENZE Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare | Competenza digitale
Immagina di dover tenere ai tuoi compagni di classe una lezione intitolata “L’isola che non c’è: la riflessione politica greca tra realismo e utopia”. • Redigi un elenco degli autori o delle scuole di pensiero della classicità greca che vuoi prendere in considerazione, quindi elabora il testo del tuo intervento, provando a chiarire, per ogni posizione analizzata, se si tratti di una ri-
5 Epicuro
6 Stoici
flessione “realistica” o “utopistica” (ricorda che la lezione non dovrà superare i 50 minuti); • prepara infine una presentazione multimediale (max 14 slide) che possa servirti da supporto nell’esposizione. Se lo ritieni utile, puoi aprire il discorso con una breve introduzione sulla nozione di “utopia” e sul valore delle opere di carattere utopico (ad esempio: qual è la loro funzione? sono riflessioni critiche realistiche e trattati politici, oppure forme di evasione dalla realtà? a che cosa si richiama l’espressione «isola che non c’è»?).
7 Tommaso
8 Marsilio
9 Ockham
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I NODI DEL PENSIERO QUAL È L’ORIGINE DELLA CONOSCENZA?
Anche se prima di Platone e Aristotele i pensatori greci non hanno elaborato una vera e propria dottrina della conoscenza, tuttavia nel metodo da essi seguito per elaborare le ipotesi teoriche è possibile rintracciare quelli che saranno riconosciuti come i due elementi fondamentali del processo conoscitivo: l’esperienza e il ragionamento. Alla riflessione platonica e aristotelica è invece riconducibile la nascita di due distinte e opposte concezioni dell’origine della conoscenza: l’innatismo e l’empirismo.
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1 Talete
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TALETE
La conoscenza comincia con l’osservazione
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Prendeva forse argomento dal vedere che il nutrimento di ogni cosa è umido. (DK 11 A 12)
Talete è tradizionalmente indicato come il primo filosofo, cioè come il pensatore con il quale nasce il pensiero filosofico. La sua riflessione – come quella di tutti i cosiddetti “fisici ionici” – è volta a individuare l’arché, ovvero il “principio” di tutte le cose, che egli indica nell’acqua. Per quanto ci è dato sapere, la teoria di Talete non comprendeva alcuna dottrina definita della conoscenza, ma dalla testimonianza di Aristotele sappiamo come, ovvero attraverso quale metodo, egli sia giunto a formulare la sua ipotesi: «prendeva forse argomento – dice Aristotele – dal vedere che il nutrimento di ogni cosa è umido, e persino il caldo si genera e vive nell’umido». Talete parte dunque dall’osservazione, da ciò che i sensi gli dicono, e su questa base elabora una congettura, un’ipotesi teorica che, spingendosi oltre l’evidenza sensibile, possa spiegare ciò che ha osservato.
2 Eraclito
3 Parmenide
4 Platone
5 Aristotele
L’applicazione di questo metodo, che parte dall’esperienza per poi elaborare con la ragione (con il lógos) una teoria, è la chiave decisiva del passaggio dal pensiero mitico a quello filosofico: la conoscenza vera – sembra suggerire Talete – non è quella che viene tramandata dalle grandi narrazioni mitiche o dalla tradizione religiosa, bensì quella che si basa sulla realtà concreta, direttamente osservabile attorno a noi, e che su questo dato di partenza “ragiona”.
2
ERACLITO
La conoscenza deve andare oltre l’esperienza sensibile
‘
La maggior parte degli uomini non intendono tali cose, quanti in esse s’imbattono, e neppure apprendendole le conoscono, pur se ad essi sembra. (DK 22 B 50)
Sulla via aperta dai fisici ionici si colloca Eraclito. Pensatore di probabile estrazione aristocratica, Eraclito è – secondo la tradizione – una figura austera, la cui personalità per certi versi fiera e altezzosa si riflette nell’elaborazione teorica. Dai frammenti delle sue opere traspare infatti una concezione elitaria del sapere, che Eraclito considera riservato a pochi privilegiati. Tali sono i filosofi autentici, i soli uomini che possano essere definiti «svegli», perché sanno andare oltre la testimonianza dei sensi (il divenire di tutte le cose), per cogliere la legge nascosta del mondo (la lotta fra i contrari), che unifica tutta la realtà al di là della sua apparente frammentarietà e mutevolezza. La conoscenza vera, quindi, per Eraclito (come per i fisici ionici) non può fermarsi all’osservazione, non può arrestarsi alla superficie delle cose, ma deve saper “vedere al di là” delle cose stesse, per cogliere con gli occhi della ragione il principio razionale del tutto. I frammenti eraclitei, con i loro toni talvolta oracolari, sembrano insomma suggerire l’idea di un metodo conoscitivo che fa affidamento più su una sorta di ispirazione profonda, quasi divina, che sull’esperienza sensibile.
3
PARMENIDE
La conoscenza vera deriva dal ragionamento
‘
Mai questo può venir imposto, che le cose che non sono siano: ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero. (DK 28 B 7)
I due strumenti della conoscenza – i sensi e la ragione – emersi dalla riflessione sia di Talete sia di Eraclito vengono esplicitamente analizzati e posti a confronto da Parmenide, il quale nel suo poema Sulla natura espone una precisa teoria della conoscenza. Egli riconosce l’esistenza di due «vie» che si aprono di fronte al filosofo: quella che segue le apparenze sensibili, e quella che segue le leggi della ragione, cioè della logica. La prima è la via dell’«opinione», che può mutare da un essere umano all’altro e che quindi è fonte di errore, mentre la seconda è la via della «verità», che è sempre la stessa per tutti.
6 Epicuro
7 Stoici
8 Agostino
9 Tommaso
481
In effetti, secondo Parmenide, mediante i sensi facciamo esperienza del nascere, del mutare e del morire delle cose, e dunque siamo portati ad affermare che “l’essere può non essere”. Ma questa affermazione è logicamente insostenibile; essa, cioè, per le rigorose leggi del ragionamento non può che suonare contraddittoria, e dunque falsa: una cosa o è, o non è, ma non può al tempo stesso essere (ad esempio piccola) e non essere (ad esempio grande). Dalla contraddittorietà logica della nozione di un “essere che può non essere”, Parmenide ricava l’idea che l’essere non possa né perire né mutare, ma sia eterno e incorruttibile, sempre identico a sé stesso nella sua perfezione. E se ai mortali le cose paiono andare diversamente, è perché essi non sanno raggiungere il cuore della «ben rotonda verità» e si fermano (come affermava Eraclito) alla superficie delle cose. I sensi, per quanto ci consentano concretamente di vivere, nella ricerca della conoscenza possono mentire: soltanto la ragione permette di raggiungere una conoscenza veritiera, cioè un discorso sempre vero.
4
PLATONE
La conoscenza deriva dal fondo della nostra anima
‘
I NODI DEL PENSIERO QUal È l’oRiGinE DElla ConoSCEnZa?
E dunque, come pare, già prima di nascere noi dovevamo essere in possesso di codesta conoscenza. (Platone, Fedone, 75c)
482
L’esigenza parmenidea di una conoscenza stabile, sempre vera perché rivolta a un oggetto perfetto e incorruttibile, porta Platone a elaborare un sistema ontologico dualistico che influenzerà gran parte del pensiero occidentale. Secondo Platone esistono infatti due dimensioni o “zone” dell’essere o della realtà: il mondo delle idee (l’«iperuranio»), costituito dai modelli ideali ed eterni di tutto ciò che esiste, e il mondo sensibile, costituito dalle “copie” sensibili di quei modelli, ovvero dalle cose del mondo in cui viviamo. Nel nostro mondo, che è mutevole e imperfetto, ci orientiamo attraverso la testimonianza dei sensi; ma tale conoscenza sensibile non può essere sempre vera, perché è rivolta a un oggetto sul quale, per la sua mutevolezza, si possono formulare giudizi contraddittori. Come per Parmenide, anche per Platone la conoscenza del mondo sensibile è dunque «opinione» (dóxa), mentre conoscenza autentica, o «scienza» (epistéme), è soltanto quella che si rivolge al mondo delle idee. Ma come possono gli esseri umani – che sono materiali e mortali – conoscere le idee immateriali ed eterne? Per rispondere, Platone si ispira all’idea orfico-pitagorica secondo cui l’uomo è costituito non soltanto di un corpo, ma anche di un’anima, che anzi è la sua parte migliore, in quanto di natura spirituale e divina. Prima di incarnarsi in un corpo, l’anima ha vissuto nell’iperuranio, e quindi ha potuto contemplare le idee; di esse, durante la vita mortale, mantiene nel profondo di sé una conoscenza sopita, o latente, che tuttavia può fare riaffiorare grazie a stimoli sensibili e mediante il ragionamento. Questa dottrina della conoscenza come «anàmnesi» (cioè come reminiscenza, o ricordo) può essere considerata il primo esempio di innatismo della filosofia occidentale. La veridicità della prospettiva innatistica, secondo Platone, è testimoniata dal fatto che le nostre conoscenze si basano su forme e modelli (soprattutto matematici) che non derivano dall’esperienza, e che dunque devono costituire un patrimonio innato del nostro intelletto.
1 Talete
2 Eraclito
3 Parmenide
4 Platone
5 Aristotele
5
ARISTOTELE
La conoscenza deriva dall’esperienza
‘
Non è possibile cogliere le proposizioni universali, se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l’induzione. (Aristotele, Analitici secondi, I, 18, 81b)
Diametralmente opposto all’innatismo platonico è l’empirismo aristotelico, ovvero la dottrina secondo cui la conoscenza è possibile soltanto a partire dall’esperienza (in greco empeiría), nel senso che soltanto grazie ad essa l’intelletto umano può procedere all’elaborazione dei “concetti”, cioè di quelle forme intelligibili (universali) necessarie per ogni processo conoscitivo. La teoria gnoseologica di Aristotele si fonda in realtà su un complicato intreccio di intuizione (mediante la quale si colgono i princìpi e le definizioni), deduzione (mediante la quale si costruiscono i sillogismi) e induzione (mediante la quale si operano generalizzazioni a partire dall’esperienza sensibile), ma l’importanza che Aristotele attribuisce alla sensibilità fa di lui, senza alcun dubbio, il “padre” dell’empirismo. Egli osserva che l’anima dei vegetali non prova sensazioni, cosa che invece può fare l’anima degli animali. Inoltre, se negli animali in generale la sensibilità è l’unica forma di conoscenza possibile, negli esseri umani costituisce invece la base per una forma conoscitiva ulteriore. Le sensazioni, infatti, lasciano tracce in forma di ricordi, e da questi nasce appunto l’“esperienza”, frutto di un processo di unificazione attraverso il quale molteplici ricordi tra loro simili convergono in una «immagine comune»: questa costituisce l’anticipazione (sensibile) del concetto (intelligibile), che a sua volta è l’elemento fondamentale del giudizio. Ad esempio, sulla base di successive sensazioni di calore prodotte dalla vicinanza con il fuoco e conservate dalla memoria, noi giungiamo a un’«immagine comune» del fuoco come di qualcosa che produce calore, e in seguito, con un atto di intuizione intellettuale, cogliamo nel calore un tratto costitutivo o “essenziale” (non accidentale) del fuoco. È dunque la percezione di sensazioni simili, che generano ricordi simili, a costituire l’imprescindibile punto di partenza per una prima forma di generalizzazione che consentirà la formulazione di definizioni e concetti, e quindi di giudizi. In conclusione, per Aristotele non esistono concetti innati: ogni conoscenza deriva dall’esperienza.
FARE FILOSOFIA PER RIFLETTERE E ARGOMENTARE COMPETENZE Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali
• L’esigenza di conoscere sembra appartenere agli esseri umani in modo essenziale, quale caratteristica in loro connaturata. E fin dalle origini della filosofia la conoscenza si manifesta come alternanza di esperienza, cioè come osservazione del mondo circostante, e ragio namento, cioè come formulazione di un’ipotesi o di una legge capace di spiegare ciò che si osserva. Considera la diversa forma che il
6 Epicuro
7 Stoici
ragionamento (ricerca del principio, di una legge universale, degli attributi dell’essere ecc.) assume nei pensatori considerati in queste pagine e rispondi per scritto alle seguenti domande: - in che cosa consiste, a tuo avviso, la conoscenza? - in quali fasi o tappe si articola, o dovrebbe articolarsi? - si può raggiungere una conoscenza vera? se sì, in che modo si può essere certi di averla raggiunta? Argomenta opportunamente le tue risposte.
8 Agostino
9 Tommaso
483
Indice dei NOMI Il neretto indica le pagine in cui l’autore è trattato analiticamente e la relativa sezione antologica.
A
Adorno, Francesco, 167 Aezio, 52, 53, 87, 88, 190 Alceo, 472 Alcibiade, 153, 154, 196, 256 Alessandro di Afrodisia, 374 Alessandro Magno, 330, 333, 337 Alighieri, Dante, 90, 190, 230, 330, 356, 467 Aminta III, 330, 332 Anassagora, 12, 31, 67, 83-85, 88-89, 90, 91, 94, 95, 100-101, 102, 152, 159, 171, 174, 179, 189, 190, 321, 307, 400 Anassimandro, 7, 8, 9, 10, 12, 31, 33-35, 36, 42, 45, 47, 50, 51-52, 53, 88, 320, 306 Anassìmene, 7, 12, 31, 35-36, 38, 47, 52-53, 320, 306 Andronico di Rodi, 335, 342, 357, 362, 394, 411 Anito, 155, 171, 196, 214 Annicèride di Cirene, 198, 199 Anselmo d’Aosta, 88 Antifonte, 124, 135, 149-150 Antiseri, Dario, 168 Antistene, 173 Apollodoro, 182 Archita di Taranto, 200, 336 Arendt, Hannah, 464 Aristarco di Samo, 42 Aristippo di Cirene, 173 Aristocle, 196 Aristofane, 158 Aristotele, 19, 20, 24, 25, 27, 29, 30, 33, 42, 50, 51, 53, 54, 55, 60, 69, 83, 84, 87, 88, 89, 98, 101, 102, 103, 118, 121, 139, 141, 158, 164, 271, 314, 318, 322, 328-340, 341-359, 362-373, 374-391, 394-397, 398-408, 411-417, 418-437, 440-449, 451, 452, 453 Artaserse, 158
B
Biante, 21 Bonaparte, Napoleone, 191 Brandt, Reinhard, 453
484
Brunelleschi, Filippo, 466 Bruno, Giordano, 89 Byron, George, 459, 460
C
Callicle, 135 Calogero, Guido, 80 Campanella, Tommaso, 479 Carmide, 155, 213 Chilone, 21 Cicerone, Marco Tullio, 152, 191, 192, 193, 427 Ciro il Giovane, 158 Ciro il Grande, 23 Cleobulo, 21 Cleone, 154 Copernico, Niccolò, 8, 42, 402 Corisco, 332, 335 Cratilo, 209, 214 Creso, 23 Critone, 156, 477 Crizia, 133, 134, 135, 141, 192 196, 213, 460, 461, 462 Cusano, Niccolò, 399
D
Democrito, 31, 85-96, 101-105, 106, 107, 189, 191, 202, 209, 215, 217, 279, 280, 283, 314, 322, 336, 338, 355, 368, 401, 403, 413, 417, 435 Demostene, 332, 333 Diagora, 192 Diels, Hermann, 34, 56 Diogene di Enoanda, 191 Diogene Laerzio, 21, 25, 27, 155, 171, 191, 196, 331 Dione, 198, 199, 200 Dionisio II il Giovane, 199, 200, 271
Dionisio il Vecchio, 198 Dionisodoro, 139
E
Ecfanto di Siracusa, 41 Echècrate, 181 Efialte, 116 Einstein, Albert, 70
Empedocle, 12, 31, 45, 81-83, 85, 90, 94, 95, 98-100, 101, 128, 323, 330, 470, 479 Enoclide, 41 Epicuro, 88 Eraclito, 8, 12, 19, 31, 43-46, 48, 56-59, 81, 86, 95, 98, 106, 107, 124, 146, 167, 179, 209, 216, 219, 323, 325, 401, 469, 470, 481, 482 Erasmo da Rotterdam, 467 Erasto, 332 Ermia, 332 Ermogene, 214, 216 Erodoto, 16, 23, 33, 117 Erpillide, 332 Eschilo, 131 Esiodo, 20, 22, 63, 75, 114, 132, 190, 245 Euclide, 37, 60 Euclide di Megara, 173, 198 Eudemo di Rodi, 333, 336 Eudosso di Cnido, 61, 330 Euripide, 116, 117, 131 Eutidemo, 139, 216
F
Fedone, 173, 181 Fenarete, 152, 162 Feuerbach, Ludwig, 192 Feynman, Richard Phillips, 113 Filippo di Opunte, 282 Filippo II di Macedonia, 332, 333 Filolao, 39, 41, 42, 55 Francesco d’Assisi, 114 Freud, Sigmund, 192
G
Gadamer, Hans Georg, 432 Galilei, Galileo, 8, 93 Gesù Cristo, 197, 467 Geymonat, Ludovico, 16, 122 Ghiberti, Lorenzo, 466 Giannantoni, Gabriele, 80 Giulio II papa, 450 Gorgia, 120, 124, 126, 128-131, 132, 137, 138, 140-141, 146-149, 159, 160, 169, 226 Granger, Gilles Gaston, 61
H
Hackforth, Reginald, 299 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 166
Heidegger, Martin, 204, 458 Hobbes, Thomas, 462
I
Ippaso di Metaponto, 41 Ippia di Elide, 124, 134, 135 Isocrate, 199, 330
J
Jaeger, Werner, 371
K
Kant, Immanuel, 383, 463 Kieślowski, Krzysztof, 188 Krakauer, Jon, 459 Kranz, Walther, 34
L
Lamprocle, 154 Laplace, Pierre-Simon, 191 Leonzio di Salamina, 155, 214 Leucippo, 86, 87, 88, 90 Licone, 171 Linneo, Carlo (Carl von Linné), 416
Lisia, 300 Locke, John, 93, 462 Luciano di Samosata, 107 Lucrezio, 89
M
Marco Aurelio, 374 Marlowe, Christopher, 467 Marx, Karl, 192 Meleto, 155, 171 Melisso, 12, 70-71, 73, 79, 88 Menedemo, 173 Menesseno, 154 Metone, 81 Metrodoro di Chio, 89 Mimnermo, 472, 475 Misone, 21 Moro, Tommaso (Thomas More), 479
N
Neleo, 335 Nicomaco, 330, 332, 336 Nietzsche, Friedrich, 168, 192
O
Omero, 22, 43, 45, 51, 63, 75, 190, 245, 265, 268, 269 Orazio, 86
P
Paolo di Tarso, 197 Parmenide, 12, 19, 31, 63-67, 72, 75-80, 81, 83, 86, 88, 105, 130, 138, 146, 173, 179, 217, 219, 272, 285, 289, 291, 343, 348, 351, 401, 469, 470, 482 Pericle, 23, 70, 83, 116, 117, 124, 152, 153, 154, 202, 237, 476 Pindaro, 467 Pitagora, 19, 23, 26, 31, 37-39, 43, 53-55, 60, 121 Pìttaco, 21 Pizia, 332 Platone, 19, 21, 24, 25, 27, 29, 30, 33, 42, 67, 81, 84, 85, 95, 121, 124, 126, 131, 132, 139, 144, 145, 146, 148, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 162, 163, 164, 168, 169, 170, 172, 173, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 194-210, 212-216, 217-249, 252-265, 267, 269, 270-287, 289-293, 299-313, 316, 317, 318, 322, 323, 326, 327, 328, 330, 331, 332, 335, 336, 337, 338, 340, 342, 348, 351, 354, 355, 363, 372, 375, 387, 388, 395, 401, 417, 424, 428, 429, 430, 431, 432, 433, 434, 435, 442, 452, 453, 467, 470, 473, 474, 477, 478, 479, 480, 482 Plotino, 89 Polemarco, 300 Policrate, 158 Polìsseno, 271 Popper, Karl R., 8, 386 Porfirio di Tiro, 375 Prodico di Ceo, 124, 133, 134, 138, 141, 192 Prosseno, 330 Protagora, 120, 124-127, 128, 131, 132, 133, 134, 137, 138, 139, 140, 144-146, 159, 160, 168, 169, 172, 173, 175, 192, 206, 214, 216, 226, 270, 476, 477
R
Rabelais, François, 467 Raffaello Sanzio, 450, 451, 453 Reale, Giovanni, 66, 168, 284, 380, 419, 429 Robin, Léon, 299
Rousseau, Jean-Jacques, 241, 462 Rubens, Peter Paul, 106, 107 Russell, Bertrand, 69, 91
S
Saffo, 472 Santippe (moglie di Socrate), 154 Seneca, Lucio Anneo, 106, 107 Senocrate, 333 Senofane, 62-63, 72, 170 Senofonte, 121, 158, 160, 163, 173, 178, 179 Sesto Empirico, 91, 128, 130, 133 Simmia, 42 Simplicio, 25, 51, 52, 100, 101, 102 Socrate, 24, 31, 85, 120, 151-176, 178-184, 191, 196, 197, 198, 199, 201, 202, 203, 205, 206, 210, 212, 214, 226, 230, 243, 247, 265, 269, 274, 275, 282, 285, 300, 301, 311, 313, 328, 330, 333, 346, 385, 420, 435, 473, 477 Sofocle, 131, 136 Sofronisco, 152, 154 Solone, 21, 22, 23, 35 Sozione di Alessandria, 25 Strabone, 335
T
Talete, 7, 8, 9, 12, 21, 31, 33, 35, 38, 47, 50-51, 52, 53, 98, 112, 318, 403, 468, 480, 481 Teeteto, 61, 146 Teodoro di Cirene, 61 Teofrasto, 25, 52, 53, 332, 333, 335 Thesleff, Holger, 299 Tiberio, 200 Tirtamo, 332 Tolomeo Claudio, 89 Trasibulo, 155, 196, 214 Trasillo, 200, 201 Trasimaco di Calcedonia, 135 Tucidide, 23, 122, 149
V
Vegetti, Mario, 117 Vernant, Jean-Pierre, 9, 323 Virgilio Marone, Publio, 466 Vries, Jerrit Jacob de, 299
Z
Zagrebelsky, Gustavo, 166 Zenone, 12, 41, 67-70, 73, 87, 137, 162
485
Indice delle voci di GLOSSARIO A antropologia accidenti agnosticismo amicizia analitica anima (Aristotele) anima (Platone) anima del mondo antilogica ápeiron arché aristocrazia armonia assiomi ateismo atomi
26 358 141 436 389 408 248 287 141 47 47 249 48 390 96 95
436
C catàrsi 437 categorie 357 causa 358 causalismo o determinismo 96 comunismo 249 concetto (Aristotele) 408 concetto (Socrate) 175 confutazione 175 cosmopolitismo 96
D deduzione definizione definizioni demiurgo democrazia dèmone dialettica (Platone) dialettica (Sofisti) dialogo diánoia dicotomico
486
391 48 287 48 247
E eikasía elementi e composti entelechìa entimèma eristica éros essenza essere etica eudemonismo
248 95 359 391 141 248 358 72 27 176
F
B bene sommo
differenza specifica divenire dottrine non scritte dualismo (Pitagora) dualismo (Platone)
391 175 391 287 249 176 286 141 175 248 287
felicità fenomenismo filosofia filosofia politica finalismo forma
436 140 26 27 96 358
G genere e specie genere prossimo generi sommi generi sommi dell’essere giustizia giusto mezzo gnoseologia
389 391 389 286 436 436 27
I idea 247 idea del Bene 247 immaginazione 408 induzione 175 induzione (Aristotele) 391 innatismo 248 intelletto 391, 408 intelletto attivo, o attuale 408
iperuranio ironia
247 175
L logica lógos luogo naturale
27 48 407
M maieutica materia materialismo meccanicismo metafisica metafisica (Aristotele) metempsicòsi metèssi mimèsi
175 358 96 96 26 357 48 247 247
N natura nóesis non sostanziale noús numero
47 248 358 95 47
O oggettivo e soggettivo omologhía ontologia opinione (dóxa) / scienza (epistéme) ordine e misura
96 175 72 247 437
P paradosso parusìa pístis pluralismo politìa postulato potenza e atto primo motore immobile principio del terzo escluso
73 247 248 95 437 390 359 359 391
principio di identità principio di non contraddizione proposizione proposizioni contraddittorie proposizioni contrarie proposizioni subalterne proposizioni sub-contrarie
391 391 389 390 390 390 390
R radici razionalismo morale relativismo retorica riduzione all’assurdo
95 176 140 141 73
S scetticismo scienza semi senso comune sillogismo sillogismo dialettico sillogismo scientifico, o dimostrativo sofista sostanza sostanza (Aristotele) sostanziale spazio o luogo specie infima
T 140 391 95 408 390 391
tempo termine maggiore, o estremo maggiore termine medio termine minore, o estremo minore
390 140 47 358 358 407 389
U umanismo
407 390 390 390
140
V verità e opinione virtù virtù etiche / virtù dianoetiche
72 176 436
Indice delle voci di ENCICLOSOFIA A Abdera acroamatico Alessandro di Afrodisia Andronico di Rodi
86 334 374 335
23 196
Demètra Diòniso
20 20
E efebìa Elea Elena Ellade ellenismo empireo Eros esoterico
152 62 131 13 337 221 228 334
122 18
I isonomìa
D
334 132 235
G guerra del Peloponneso guerre persiane
C Creso Crizia
essoterico età dell’oro eugenetica
17
M Magna Grecia meteco Mileto Minotauro Moire mutilazione delle erme
31 331 32 157 224 196
O Oceano e Teti oplita oracolo delfico
33 153 160
Orfèo
20
P panellenico Pericle póleis Polìsseno Pritanèo
123 23 16 271 155
S Senofonte sileno Solone successioni
158 157 22 25
T taumaturgo tiranno Trenta tiranni
81 198 155
Z zoroastrismo
13
487
Indice delle SCHEDE e delle RUBRICHE LA FILOSOFIA CHE VIVE
EDUCAZIONE CIVICA
Nómos e phýsis: da Sofocle alle Dichiarazioni dei diritti umani, 136 Da Socrate alle odierne democrazie, 166 Dall’amore per il sapere al diritto all’istruzione, 225 Dalla Repubblica di Platone alla società di oggi: il difficile rapporto tra economia e politica, 244 La “saggezza” della legge tra giustizia ed equità, 423
EDUCAZIONE CIVICA L’istruzione come diritto, 123 Il rispetto della legge, 173 Per una comunicazione corretta, 388 Il diritto a realizzarsi nel lavoro, 430
PER SAPERNE DI PIÙ L’edizione “Diels-Kranz”, 34 Le conquiste musicali dei pitagorici, 38 Le discussioni critiche sull’argomento di Achille e della tartaruga, 69 La “sfida” dell’infinito, 88 Gli oggetti della matematica tra il sensibile e l’ideale, 240
L’EREDITÀ DI… Socrate, 174 Platone, 285 Aristotele, 435
FILOSOFIA E LETTERATURA SNODI PLURIDISCIPLINARI
L’amicizia da Aristotele a Cicerone, 427
FILOSOFIA E SCIENZA SNODI PLURIDISCIPLINARI
I pitagorici e i numeri irrazionali, 60 Finalità e intelligenza nella fisica aristotelica, 416
FILOSOFIA E ARTE SNODI PLURIDISCIPLINARI
Il pianto e il riso di Eraclito e Democrito, 106 Il tempio greco tra realtà e apparenza, 266 La “scoperta” dell’aldilà tra arte e filosofia, 268 Platone e Aristotele nell’interpretazione di Raffaello, 450
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QUESTIONI Esiste Dio?, 188 EDUCAZIONE CIVICA EDUCAZIONE CIVICA
Il male è frutto di ignoranza o malvagità?, 315 L’essere umano è un “animale sociale”?, 459
I NODI DEL PENSIERO Qual è l’origine del mondo?, 320 Da dove viene il male?, 324 Nel divenire del mondo esiste qualcosa che non muta?, 468 Che cos’è la felicità?, 472 Qual è il rapporto tra individuo e Stato?, 476 Qual è l’origine della conoscenza?, 480
Leggere un CLASSICO PLATONE Fedro, 298
L’officina dell’ESAME verso la prima prova - tipologia b
L’origine dell’atteggiamento filosofico, 112 verso il colloquio
La comprensione della natura, 113 verso la prima prova - tipologia b Il valore della ricerca filosofica, 464 verso il colloquio Libertà e destino, 466
Didattica INNOVATIVA Classe capovolta, 12, 120, 195, 329 Compito di realtà, 107, 187, 267, 297, 323, 453, 471, 479 Dibattito critico, 111, 136, 166, 193, 225, 244, 319, 423, 463
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Indice delle ILLUSTRAZIONI pp. 7 e 81: Rivestimento decorativo in argilla del geison proveniente dal tempio C di Selinunte, VI secolo a.C., Palermo, Museo Archeologico Regionale Antonino Solinas. p. 13: Exekias, Dioniso su imbarcazione a vela, 540-530 a.C., ceramica a figure nere, Monaco, Staatliche Antikensammlungen. p. 31: Particolare di anfora dell’artista greco Exekias, VI secolo a.C., Roma, Musei Vaticani. p. 62: Anfora per l’acqua (hydria) in terracotta a figure nere da Cerveteri, 525 a.C. circa. p. 115: Particolare di una kýlix (coppa da vino) a figure rosse ritrovata a Vulci (Viterbo) e risalente al 470 a.C. circa, Roma, Musei Vaticani. p. 121: Particolare di una stele funeraria proveniente da Tebe, V secolo a.C. p. 151: Testa di Socrate, copia romana del I-II secolo d.C. dall’originale bronzeo perduto di Lisippo (fine del IV secolo a.C.), Parigi, Museo del Louvre. p. 151: Veduta dell’acropoli di Atene. p. 194: Particolare della statua di Platone posta all’ingresso dell’Accademia di Atene, XIX secolo. p. 194: Veduta dell’acropoli di Atene. p. 202: Veduta aerea del Partenone e dell’acropoli di Atene. p. 217: Veduta dell’acropoli di Atene dal monte Licabetto. p. 270: I resti del tempio dedicato a Zeus Olimpio, Atene. p. 298: Veduta dell’acropoli di Atene. p. 318: Particolare di vaso greco con decorazioni a tema naturale, IV secolo a.C., Paestum, Museo Archeologico Nazionale. p. 320: Particolare di vaso greco decorato, 590-570 a.C.
p. 324: Rilievo con maschere teatrali, età romana, I secolo d.C., Malibu (California), The J. Paul Getty Museum, Villa Collection. p. 328: Busto di Aristotele, copia romana da originale greco, II secolo d.C. circa, Atene, Museo dell’Acropoli. Si tratta di un busto ritrovato durante una campagna di scavi ad Atene nel 2005. p. 328: Particolare del cosiddetto “mosaico di Alessandro” (La Battaglia di Isso), 99-1 a.C. circa, proveniente dalla Casa del Fauno a Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il mosaico raffigura la battaglia di Isso del 333 a.C., nella quale Alessandro Magno sconfisse Dario III di Persia. p. 337: Mosaico da Pella, IV secolo a.C., Pella (Macedonia, Grecia), Museo Archeologico. p. 341: I resti del teatro di Assos (odierna Turchia), III secolo a.C. p. 374: I resti del tempio di Atena ad Assos (odierna Turchia), VI secolo a.C. p. 398: La caccia al leone, IV secolo a.C., mosaico dalla Casa di Dioniso (particolare), stanza C, Pella (Macedonia, Grecia), Museo Archeologico. p. 418: Le rovine del teatro di Dioniso ad Atene, V secolo a.C. p. 468: Particolare di un’hydria decorata, III secolo a.C. p. 472: Concilio delle divinità dell’Olimpo, 530 a.C. circa, particolare del fregio del Tesoro dei Sifni, Delfi, Museo Archeologico Nazionale. p. 476: Particolare del fregio del Partenone di Atene (da sinistra: Dioniso, Demetra, Persefone ed Ebe), lato est, V secolo a.C. circa, Londra, British Museum. p. 480: Rilievo in marmo raffigurante tre delle nove muse greche, IV secolo a.C., proveniente da Mantineia (Grecia).
Referenze iconografiche p. 7: (alto) AKG-Images/Mondadori Portfolio; p. 7 (basso) krigo/Shutterstock; p. 9: Lefteris Papaulakis/123rf.com; p. 13: VPC Photo/Alamy Stock Photo; p. 16: Galina Mikhalishina/Alamy Stock Photo; p. 20: INTERFOTO/Alamy Stock Photo; p. 31: World History Archive/Alamy Stock Photo; p. 34: Wikimedia Commons; p. 61: Andis Rea/Shutterstock; p. 62: Artokoloro/Alamy Stock Photo; p. 81: AKG-Images/Mondadori Portfolio; p. 88: Granger Historical Picture Archive/Alamy Stock Photo; p. 106: (sinistra) classicpaintings/Alamy Stock Photo; p. 106: (destra) The Artchives/Alamy Stock Photo; p. 115: (a.) Granger Historical Picture Archive/Alamy Stock Photo; p. 115: (b.) The Art Archive/Alamy Stock Photo; p. 116: Erin Babnik/Alamy Stock Photo; p. 118: Lefteris Papaulakis/123rf.com; p. 121: Kisler Creations/Alamy Stock Photo; p. 122: Peter Horree/Alamy Stock Photo; p. 136: agefotostock/Alamy Stock Photo; p. 151: (in primo piano) Josse Christophel/Alamy Stock Photo; p. 151: (sfondo) Lefteris Papaulakis/123rf.com; p. 155: Wikimedia Commons; p. 166: melitas/Shutterstock; p. 188: (s.) World History Archive/Alamy Stock Photo; p. 188: (d.) Granger Historical Picture Archive/Alamy Stock Photo; p. 188: (b.) Heritage Image Partnership Ltd/ Alamy Stock Photo; p. 194: (in primo piano) Sven Hansche/Shutterstock; p. 194: (sfondo) vangelis aragiannis/123rf; p. 196: Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program; p. 202: Aerial-motion/Shutterstock; p. 217: Zoonar GmbH/Alamy Stock Photo; p. 225: olegdudko/123rf; p. 244: Kheng Guan Toh/123rf; p. 266: Galina Mikhalishina/Alamy Stock Photo; pp. 268269: Wikimedia Commons; p. 270: Viacheslav Lopatin/123rf; p. 298: Lambros Kazan/Shutterstock; p. 299: vangelis aragiannis/123rf; p. 303: Aerial-motion/Shutterstock; p. 320: The Metropolitan Museum of Art; p. 324: Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program; p. 328: (in primo piano) Mohamed Osama/Alamy Stock Photo; p. 328: (sfondo) Science History Images/Alamy Stock Photo; p. 337: (a.) Wikimedia Commons; p. 337: (b.) Roman Milert/Alamy Stock Photo; p. 341: moonhonor/Shutterstock; p. 374: (a.) ekinyalgin/123rf; p. 374: (b.)Wikimedia Commons; p. 398: Chris Hellier/Alamy Stock Photo; p. 416: Wikimedia Commons; p. 418: Stoyan Haytov/123rf; p. 423: Roman Motizov/123rf; p. 450: Heritage Image Partnership Ltd/Alamy Stock Photo; p. 451: Wikimedia Commons; p. 452: Heritage Image Partnership Ltd/Alamy Stock Photo; p. 466: adam eastland/Alamy Stock Photo; p. 468: agefotostock/Alamy Stock Photo; p. 472: Tatiana Popova/Shutterstock; p. 476: funkyfood London - Paul Williams/Alamy Stock Photo; p. 480: DeA/G. Nimatallah/DeAgostini/Getty Images.
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