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Italian Pages [708] Year 2019
Guido Baldi
Silvia Giusso Mario Razetti
Giuseppe Zaccaria
I CLASSICI NOSTRI
CONTEMPORANEI 1
Dalle origini all’età comunale Il teatro per immagini a cura di Gigi Livio
Editor: Gigi Livio Coordinamento editoriale: Franca Crosetto Consulenza redazionale: Chiara Buffa Redazione: Chiara Pastore, Gaia Collaro (Prove per il nuovo esame di Stato) Progetto grafico e copertina: Sunrise Advertising, Torino Coordinamento grafico: Massimo Alessio Ricerca iconografica: Maria Alessandra Montagnani Cartografia: Andrea Mensio Impaginazione elettronica: Essegi, Torino Controllo qualità: Andrea Mensio Segreteria di redazione: Enza Menel L’opera è stata unitariamente concepita e discussa in ogni suo particolare da tutti gli autori con il coordinamento di Gigi Livio. I Contesti e i capitoli su Dante, Petrarca, Boccaccio sono di Guido Baldi con alcuni apporti di Giuseppe Zaccaria. I paragrafi dei Contesti relativi ai fenomeni letterari sono di Giuseppe Zaccaria. I capitoli di genere nascono dalla stretta collaborazione di Guido Baldi, Silvia Giusso e Giuseppe Zaccaria. La revisione dei Contesti è a cura di Roberto Favatà. Alla stesura delle note ai testi di Dante, Petrarca, Boccaccio ha collaborato Silvia Sanseverino, a quella di alcune schede sugli autori Paola Bigatti. Le rubriche Che cosa ci dicono ancora oggi i classici relative a Dante, Petrarca e Boccaccio sono di Guido Baldi. Le rubriche Pesare le parole sono di Guido Baldi. Le rubriche Dialoghi immaginari sono di Giuseppe Zaccaria. Gli apparati Esercitare le competenze sono di Daniela Marro e di Francesca Maura, che ha curato anche la revisione dei Ripassi visivi relativi agli autori. Le Analisi attive sono di Lucia Jacona. Le prove di tipologia A in preparazione alla prima prova del nuovo esame di Stato sono di Daniela Paganelli; le prove di tipologia B sulla letteratura cortese e su Petrarca sono di Federico Demarchi, quelle su Dante e Boccaccio sono di Elena Caraglio, che ha curato anche le prove di tipologia C. Gli schemi (Visualizzare i concetti) e le schede In sintesi sono di Lorenza Pasquariello e di Roberto Favatà, che ha curato anche i Ripassi visivi dei Contesti. Le schede Facciamo il punto sono di Silvia Giusso e di Roberto Favatà. Le rubriche L’arte incontra la letteratura e le didascalie delle immagini commentate sono di Maria Alessandra Montagnani. Le schede Letteratura e cinema sono di Enrico Antonio Pili. Il teatro per immagini è stato ideato e scritto da Gigi Livio. La realizzazione grafica del Dialogo con gli studenti e delle rubriche Che cosa ci dicono ancora oggi i classici è a cura di Elena Marengo. Si ringraziano per i preziosi suggerimenti: Ilaria Archilletti, Annarita Bisceglia, Mariacristina Colonna, Piera Comba, Laura Costa, Ilaria Domenici, Mimmo Genga, Aldo Intagliata, Manuela Lori, Daniela Marro, Francesca Maura, Isabella Molinari, Immacolata Sirianni. In copertina: Giotto, Preghiera per la fioritura delle verghe: i pretendenti, 1303-04, affresco dalle Storie di Maria, part., Padova, Cappella degli Scrovegni © 4x5 Coll-Mauro Maglia/Super Stock/Marka. Per le opere di Guttuso, Sassu e Sughi © by SIAE 2016 Tutti i diritti riservati © 2019, Pearson Italia, Milano - Torino
978 88 395 36303 A Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org
Stampato per conto della casa editrice presso L.E.G.O. - LAVIS - TN Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8
Anno 19 20 21 22 23 24 25
Prem essa
I
l principale obiettivo di questa nuova edizione è quello di mettere in luce, con decisa e nuova evidenza, non solo l’importanza estetica e storica ma anche il significato e il valore attuali dei testi letterari del passato. Di qui il nuovo titolo, I classici nostri contemporanei, e le novità che lo caratterizzano. Dal momento che il problema principale dell’insegnamento letterario oggi è motivare gli studenti, che spesso sentono la letteratura e tutta la tradizione culturale del passato come qualcosa di remoto ed estraneo, abbiamo introdotto una rubrica, posta regolarmente alla conclusione di ogni sezione dedicata agli autori maggiori: Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Il suo scopo è avvicinare il passato al presente in cui vivono i giovani, sottrarre la letteratura a una presunta estraneità, far emergere che cosa di vivo può ancora offrire oggi. Dato per scontato che un capolavoro resta vivo nel tempo in primo luogo grazie al livello di valore artistico che ha raggiunto, noi vogliamo andare alla ricerca, al di là di tale grandezza, di spunti molto concreti, specifici e puntuali per cui l’opera del passato può ancora parlare a noi oggi, e specie a degli adolescenti. In tal modo gli studenti possono trovare nei testi indicazioni di senso per la loro stessa vita, e non solo sul piano privato e soggettivo, ma soprattutto su quello della vita civile. Allo stesso fine risponde una serie di rubriche ricorrenti come Letteratura e società, Letteratura ed economia, Letteratura e politica, Letteratura e scienza, Letteratura e tecnologia, dove sono riportati testi che evidenziano quei temi, con l’intento di far vedere come le opere del passato non si collocassero affatto in una sfera astratta e separata dal vissuto della gente e dai problemi anche pratici, materiali, affrontati quotidianamente; e riteniamo che questo possa far sentire quelle opere ancora vicine a noi, ancora capaci di parlarci direttamente, nella misura in cui certi problemi travalicano la distanza temporale e sono riconoscibili ancora oggi, nonostante le trasformazioni provocate dal corso della storia. Mettere in primo piano questi aspetti permette agli studenti da un lato di cogliere nel passato le radici del vivere presente, dall’altro di vederne anche l’inevitabile diversità, quindi di percepire il senso del divenire, della dinamicità del processo storico, che è continuo cambiamento, pur sulla base dei fenomeni di lunga durata. Si può così sia consentire al giovane di fare i collegamenti con la propria esperienza del presente, un presente che si spiega soltanto conoscendo il passato, sia strapparlo dall’appiattimento su un presente che la cultura dell’epoca in cui viviamo vorrebbe sordo alla storia e privo di prospettive nel futuro. Una terza rubrica ricorrente, La voce del Novecento, che ai testi del passato accosta testi contemporanei, scelti o per l’affinità dei temi toccati o a volte anche per il contrasto, contribuisce a perseguire lo stesso obiettivo: far
vedere come certe esperienze, certi sentimenti e certi modi di vedere il mondo si perpetuino nel tempo, ritornando nella contemporaneità, ma anche inevitabilmente si trasformino assumendo significati nuovi, a volte molto diversi, nelle situazioni nuove: ad esempio il mito di Ulisse in Dante uomo del Medioevo e in Primo Levi nel Lager nazista; o l’accidia di Petrarca e l’aridità interiore e l’incapacità di provare sentimenti in Montale; i cavalieri di Ariosto e il cavaliere inesistente di Calvino, immagine dello svuotamento dell’uomo nella modernità. Ricorre poi un’ulteriore rubrica, La voce dei documenti, che offre documenti storici da affiancare alle opere letterarie, per consentire di costruire lo sfondo su cui esse si collocano. Naturalmente poi, oltre a quelli inseriti nelle rubriche, sono stati introdotti altri testi nuovi, sia degli scrittori sia dei critici, questi ultimi tutti accompagnati da indicazioni sul loro orientamento metodologico e sull’importanza rivestita dalle loro opere nella storia della critica dei vari autori. Abbiamo anche introdotto un cambiamento sostanziale nella struttura dell’opera. Le precedenti edizioni erano incardinate su percorsi tematici e percorsi di genere. In questa abbiamo preferito un’impostazione per generi, abbandonando quella per percorsi tematici. Questi ultimi, infatti, hanno certamente una loro validità didattica perché consentono di porre in rilievo temi centrali nella mentalità e nell’immaginario di una data epoca, creando un aggancio alle condizioni reali di vita di una società, però possono portare, in certi casi, a uno spezzettamento di un certo autore in più percorsi; e questo potrebbe non risultare didatticamente efficace, generando disorientamento negli allievi e obbligando così gli insegnanti a ricomporre la fisionomia di quegli autori. Ma il percorso per generi non esclude affatto che il docente che preferisca invece seguire il percorso tematico non possa farlo: in effetti il docente, come avviene oggi e come in una certa misura è sempre avvenuto, quando lo voglia e lo senta didatticamente consono al proprio metodo di insegnamento e alle esigenze specifiche della classe, può creare egli stesso il tipo di percorso che ritiene più utile adottare. In apertura del primo volume è stato inserito un Dialogo con gli studenti, dove, in risposta a ipotetiche domande di una classe, gli autori affrontano alcuni temi didattici importanti, che, in base alle loro esperienze di insegnamento, ritengono poter toccare da vicino i giovani, oggi: perché studiare la letteratura, e soprattutto tanti autori del passato, spesso sentiti lontani dai loro interessi e molto difficili da accostare, anche per ragioni linguistiche; la necessità di valorizzare la letteratura dei nostri giorni; l’indispensabilità delle nozioni, evitando però ogni forma di nozionismo fine a se stesso; l’uso didattico del digitale e delle immagini; il rapporto fra letteratura, arti figurative, teatro, cinema. Gli autori, con questo dialogo immaginario, sperano di chiarire alcune premesse essenziali all’insegnamento letterario, oggi non più così scontate, e di agevolare in tal modo i giovani nello studio della letteratura.
Un’altra novità di rilievo di questa nuova edizione è il rifacimento totale sia del Contesto L’età del Barocco e della Scienza nuova, con tutte le relative sezioni antologiche, La lirica barocca, Dal poema al romanzo, La prosa storico-politica e la trattatistica, La letteratura teatrale europea, Galileo, sia del Contesto L’età della ragione e dei Lumi, con le sezioni antologiche La lirica arcadica e il melodramma, La trattatistica italiana del primo Settecento, La letteratura dell’Illuminismo francese, La letteratura dell’Illuminismo italiano, Il giornalismo, Il romanzo inglese. In tutte queste sezioni sono stati inseriti numerosi testi nuovi. È stata ripensata l’impostazione del Novecento, cercando di individuare un “canone” degli scrittori più significativi (oltre a quelli già ritenuti in qualche modo “classici”, presentati in capitoli di taglio monografico) e proponendo per ciascuno di essi un’antologizzazione un po’ più ampia. Siamo consapevoli dei rischi di questa scelta, che potrà scontentare qualche insegnante, ma essa è parsa necessaria per evitare la semplice sfilata di tanti scrittori presenti con un solo testo, proprio per questo di difficile fruizione didattica, e che comunque non potranno mai offrire un panorama esaustivo di un secolo letterario così ricco. Per gli anni più recenti, a partire dalla svolta del nuovo secolo, si è adottata una formula nuova per i narratori, che sono di più facile accesso per gli studenti di quanto non lo siano i poeti: un Invito alla lettura dei narratori contemporanei, con la presentazione di una serie di opere, ritenute particolarmente interessanti, e con l’indicazione dei temi di stringente attualità da esse proposti. Le attività sul testo sono volte in modo specifico al consolidamento delle competenze: lo studio della parte teorica viene reso così “attivo” da esercizi pensati in modo da far applicare allo studente le conoscenze in contesti noti mettendo in evidenza aspetti non noti del testo analizzato. In linea con gli orientamenti ministeriali, che introducono nel curriculum degli studi superiori i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, la prova Simulazione di esperienza reale ha lo scopo di spingere gli studenti a esercitare le competenze acquisite, ma soprattutto a incoraggiare modalità di lavoro cooperativo e organizzato da effettuarsi in classe, con la guida del docente e con l’obiettivo di raggiungere un preciso risultato atteso. Le schede L’arte incontra la letteratura affrontano il rapporto tra l’arte figurativa e i testi letterari. In alcuni casi sono analizzate opere che raffigurano, più o meno fedelmente, episodi e personaggi della letteratura italiana, mentre in altri l’attenzione si appunta su opere che sviluppano le stesse tematiche affrontate da poeti e narratori. Le letture proposte pongono l’accento sulle affinità e sulle differenze tra i testi figurativi e quelli letterari, aiutando in tal modo gli studenti a memorizzare i contenuti di questi ultimi e a sviluppare collegamenti interdisciplinari.
Le schede Letteratura e cinema sono tutte nuove, non tanto perché quelle precedenti non fossero efficaci sia dal punto di vista “scientifico” che da quello didattico, ma perché abbiamo deciso di accentuare quest’ultima esigenza cercando di istituire un legame più diretto tra il film analizzato e l’opera letteraria di riferimento, con rimandi precisi e puntuali alle pagine dell’antologia in cui essa è trattata. La breve Storia del cinema per immagini, già presente nelle passate edizioni, è stata rinnovata, alla luce degli studi più recenti, e ampliata in modo che giunga fino ai giorni nostri.
Gli autori
Il nuovo esame di Stato Le nuove norme che regolano la prima prova d’esame conclusivo della scuola secondaria di secondo grado ribadiscono la centralità del testo, conquista della critica testuale e della didattica degli ultimi decenni. Le nuove norme confermano (attraverso la tipologia A) il valore della tradizione letteraria italiana, con la proposta di testi che spaziano dal secondo Ottocento ai giorni nostri e mettono in primo piano il testo argomentativo (tipologia B), che allarga ai generi saggistico e giornalistico la varietà dei modelli di scrittura e sottolinea la rilevanza culturale ed educativa dei procedimenti dell’argomentazione. Questa nuova edizione, oltre a confermare l’importanza assegnata al testo e al metodo di analisi, offre una serie di strumenti per avviare gli allievi a impossessarsi delle competenze necessarie per affrontare preparati il nuovo esame di Stato: proposte di prove con spunti operativi che hanno lo scopo di sviluppare abilità autonome di analisi testuale (tipologia A); proposte di prove di analisi e produzione di un testo argomentativo (tipologia B); proposte di riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità (tipologia C). A ciò si aggiunge un volumetto, dedicato al metodo e alla pratica della scrittura, conforme alle recenti indicazioni sull’esame di Stato.
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Indice generale Il Medioevo latino
2
I LUOGHI DELLA CULTURA
3
Il contesto Società e cultura 1. L’evoluzione delle strutture politiche, economiche e sociali 2. Mentalità, istituzioni culturali, intellettuali e pubblico
4
T
Visione d’insieme Verifica interattiva
P
5 7
Facciamo il punto
11
Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. L’idea della letteratura e le forme letterarie
12 12
•
14
Facciamo il punto
17
Ripasso visivo In sintesi
18 19
•
•
VERIFICA INTERATTIVA
Arte Figurazioni dell’immaginario medievale
Visione d’insieme
L’età cortese
20
I LUOGHI DELLA CULTURA
21
Il contesto Società e cultura 1. Il contesto sociale 2. L’amor cortese
22
La voce dei testi Natura dell’amore e regole del comportamento amoroso
Verifica interattiva Arte L’epopea cavalleresca nelle immagini
22 25 26
Andrea Cappellano | dal De amore, III, IV, VIII, X
Facciamo il punto
29
Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. Le tendenze generali della produzione letteraria e i generi principali 2. I generi minori Ripasso visivo
30
Facciamo il punto
32
In sintesi VIII
Testi Adalberone di Laon «Triplice è dunque la casa di Dio» dal Carmen ad Robertum regem Bonaventura da Bagnoregio L’ideale mistico da Itinerarium mentis in Deum Sant’Agostino Cultura cristiana e cultura pagana dal De doctrina christiana San Benedetto L’importanza della lettura nelle attività del monastero dalla Regola Cassiodoro La poetica degli stili dalle Variae Tommaso d’Aquino La verità dalla Summa Theologiae
•
dal Fisiologo Filo rosso
DIGITALE INTEGRATIVO PLUS
•
La voce dei testi Immaginario ed enciclopedismo medievali 13
2. La lingua: latino e volgare
DIGITALE INTEGRATIVO TUTOR
30 31 32 33
VERIFICA INTERATTIVA
T P
CAPITOLO 1
cortese
Le forme della letteratura 34
1. Le canzoni di gesta T1 Morte di Orlando e vendetta di Carlo
34
Testi Béroul Il re P sorprende gli amanti dal Romanzo di Tristano e Isotta Anonimo Il filtro d’amore e l’avventura dal Tristano Riccardiano Bertran de Born Il piacere della guerra Jaufré Rudel Amore di terra lontana Bernart de Ventadorn Canzone della lodoletta
37
dalla Chanson de Roland, lasse CLXX-CLXXIII, CLXXV-CLXXVI, CLXXVIII-CLXXIX
•
2. Il romanzo cortese-cavalleresco
•
43
Chrétien de Troyes
45
T2 La donna crudele e il servizio d’amore
46
•
•
da Lancillotto, o il cavaliere della carretta
Thomas d’Inghilterra
T3 Amore e morte
T
Verifica interattiva
52 52
dal Romanzo di Tristano
3. Il Roman de la rose e i fabliaux T4 Il contrasto fra Amore e Ragione T5 La donna fatale da Richeut 4. La lirica provenzale
56 da Il fiore
Bernart de Ventadorn
T6 Amore e poesia Arnaut Daniel
T7 Arietta Facciamo il punto
In sintesi
57 60 63 65 65 68 68 72 73
VERIFICA INTERATTIVA
Per il nuovo esame di Stato PRIMA PROVA Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito letterario Marco Grimaldi Perché il Nobel a Bob Dylan è una
rivoluzione
74
Visione d’insieme
L’età comunale in Italia
76
I LUOGHI DELLA CULTURA
77
Il contesto Società e cultura 1. L’evoluzione delle strutture politiche e sociali
78
Facciamo il punto
81
2. Mentalità, istituzioni culturali, intellettuali e pubblico nell’età comunale La voce dei testi La salamandra e le pietre che ardono
78
Verifica interattiva Testi Bonvesin de la Riva Disputa della rosa con la viola
T P
Microsaggio Geoffrey Chaucer e i Racconti di Canterbury Arte Architetture nuove per il Comune
82 83
Marco Polo | da Il Milione
Facciamo il punto
87
IX
INDICE GENERALE
Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. La situazione linguistica in Italia e il ruolo egemone della Toscana Filo rosso
88
Facciamo il punto
89
2. Caratteristiche e generi della letteratura italiana in età comunale Ripasso visivo
90 93
Facciamo il punto
93
In sintesi
88
94
La letteratura religiosa nell’età comunale
95
1. I Francescani e la letteratura
96
VERIFICA INTERATTIVA
CAPITOLO 1
San Francesco d’Assisi
T1 Cantico di Frate Sole
Audio San Francesco T d’Assisi Cantico di Frate Sole Iacopone da Todi Donna de Paradiso dalle Laude
•
98 99
Verifica interattiva Testi Anonimo Il P lupo di Gubbio dai Fioretti di san Francesco Iacopone da Todi Omo, mìttete a pensare; O iubelo del core; Que farai, Pier dal Morrone? dalle Laude
LETTERATURA E CINEMA Lo spirito francescano secondo AUDIOLETTURE
Rossellini e altri registi
103
Iacopone da Todi MICROSAGGIO La lauda
105 106
T2 Donna de Paradiso
107
Video da Francesco giullare di Dio di Rossellini
ECHI NEL TEMPO La figura della mater dolorosa
113
Arte Verso una nuova figurazione cristiana
T3 O Segnor, per cortesia
115
•
dalle Laude
dalle Laude
2. I Domenicani e la letteratura Iacopo Passavanti
T4 Il carbonaio di Niversa
119 119 120
dallo Specchio di vera penitenza
Santa Caterina da Siena
T5 Lettera a frate Raimondo da Capua
123 123
dalle Lettere
Facciamo il punto
In sintesi CAPITOLO 2
129
La poesia dell’età comunale
1. Lingua, generi letterari e diffusione della lirica 2. La scuola siciliana Iacopo da Lentini
AUDIOLETTURE
X
128
130 130 131
T1 Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire
132 132
MICROSAGGIO Il sonetto
132
T2 Meravigliosamente
134
MICROSAGGIO La canzone
137
VERIFICA INTERATTIVA
Audio Iacopo T da Lentini Meravigliosamente Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore Guido Cavalcanti Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira; Voi che per li occhi mi passaste ’l core; Perch’i’ no spero di tornar giammai Cecco Angiolieri S’i’ fosse fuoco, ardereï ’l mondo;
• •
•
Stefano Protonotaro
138 138
T3 Pir meu cori alligrari
3. I rimatori toscani di transizione T4 Tuttor ch’eo dirò «gioi’», gioiva cosa T5 Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
•
142 dalle Rime 143 dalle Rime 144
4. Il «dolce stil novo»
149
Guido Guinizzelli
151 152
T6 Al cor gentil rempaira sempre amore T7 Io voglio del ver la mia donna laudare Guido Cavalcanti
T8 Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira T9 Voi che per li occhi mi passaste
’l core Analisi attiva T10 Perch’i’ no spero di tornar giammai 5. La poesia goliardica T11 In taberna quando sumus 6. La poesia popolare e giullaresca Cielo d’Alcamo
Verifica interattiva Testi Pier della P Vigna Però ch’amore non si pò vedere Iacopo da Lentini Amore è un[o] desio Cino da Pistoia Io fu’ ’n su l’alto e ’n sul beato monte Guido Guinizzelli Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo; Vedut’ho la lucente stella diana Guido Cavalcanti Fresca rosa novella; Tu m’hai sì piena di dolor la mente Ruggieri Apugliese Il maestro di tutte le arti Matazone da Caligano Il «detto» Rustico di Filippo Oi dolce mio marito Aldobrandino; Quando Dio messer Messerino fece Folgòre da San Gimignano Cortesia cortesia cortesia chiamo; Di gennaio Guido Guinizzelli Chi vedesse a Lucia un var capuzzo Guido Cavalcanti Guata, Manetto, quella scrignutuzza Cecco Angiolieri La stremità mi richer per figliuolo; Becchin’amor
•
•
157
•
159 160
•
162
•
164
•
167 167 170
7. La poesia comico-parodica
•
•
175
Cecco Angiolieri
T13 S’i’ fosse fuoco, ardereï ’l mondo T14 Tre cose solamente m’ènno
176 176
•
178
Analisi attiva
MICROSAGGIO Il carnevale e la letteratura carnevalizzata
Facciamo il punto
In sintesi
Microsaggio Cecco Angiolieri, “poeti maledetti” e “scapigliati”
180 181 182
•
•
170 171
T12 Rosa fresca aulentis[s]ima
Per il nuovo esame di Stato
Analisi interattive Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore Guido Cavalcanti Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira
142
Guittone d’Arezzo
in grado
Tre cose solamente m’ènno in grado
VERIFICA INTERATTIVA
Audio da Carmina Burana di Orff
PRIMA PROVA
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Guido Cavalcanti
T15 Noi siàn le triste penne isbigotite
CAPITOLO 3
La prosa dell’età comunale
1. Le raccolte di aneddoti: il Novellino T1 Il proemio dal Novellino T2 Della grande limosina che fece un tavoliere per Dio dal Novellino, XVII T3 Come il soldano volle coglier cagione a un giudeo dal Novellino, LXXIII dal Novellino, LXXIII
183
184 184 185 187 188
Verifica interattiva
T
Testi Anonimo P Qui conta come Narcis s’innamorò de l’ombra sua; Qui conta della reina Isotta e di messere Tristano di Leonis dal Novellino Franco Sacchetti Proemio dal Trecentonovelle
•
XI
INDICE GENERALE
2. La novella
190
Franco Sacchetti
T4 Fazio da Pisa
•
Marco Polo Il proemio da Il Milione Anonimo Romano La tragica morte di Cola di Rienzo dalla Cronica Dino Compagni La battaglia di Campaldino; «Piangete sopra voi e la vostra città» dalla Cronica
191 192
dal Trecentonovelle, CLI
3. I libri di viaggi
196
Marco Polo
197 198
T5 Usi e costumi dei Tartari
•
Microsaggio Il testo narrativo
da Il Milione, 68-69
> Letteratura e Economia
•
Video da Il nome della rosa di Annaud
T6 La circolazione della cartamoneta
Film Il nome della rosa
202
da Il Milione, 95 ECHI NEL TEMPO Riletture e suggestioni novecentesche
204
del Milione
4. Le cronache
205
Dino Compagni
207
T7 Politica, leggi e giustizia nel Comune
di Firenze
208
dalla Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi
Giovanni Villani
211 211
T8 Le discordie fra i Bianchi e i Neri dalla Cronica, VIII, 39
> Letteratura e Economia
T9 Ricchezza e magnificenza del Comune
di Firenze dalla Cronica, XI, 94 T10 La passione e il martirio di fra Michele
214 217
da Storia di fra Michele minorita, XIX-XXVII e XXXV
La voce del Novecento La Storia di fra Michele minorita nel Nome della rosa 220 di Umberto Eco
In sintesi
223
Facciamo il punto
CAPITOLO 4
223
Dante Alighieri
224
1. La vita 2. La Vita nuova T1 Il libro della memoria VIDEOLEZIONE D’AUTORE
234
dalla Vita nuova, cap. II
237
dalla Vita nuova, capp. X, XI
T4 Una presa di coscienza ed una svolta poetica:
le «nove rime»
240
dalla Vita nuova, cap. XVIII La Vita nuova
T5 Donne ch’avete intelletto d’amore dalla Vita nuova, cap. XXVI
XII
242
dalla Vita nuova, cap. XIX
T6 Tanto gentile e tanto onesta pare
Carta interattiva
VIDEOLEZIONI
T3 Il saluto
AUDIOLETTURE
Videolezioni
229 233 Analisi attiva
247
T
Videolezione d’autore
226
dalla Vita nuova, cap. I
T2 La prima apparizione di Beatrice
VERIFICA INTERATTIVA
La biografia e la Vita nuova
Audio Donne ch’avete intelletto d’amore; Tanto gentile e tanto onesta pare dalla Vita nuova L’inizio del viaggio dall’Inferno, I Francesca e Paolo dall’Inferno, V Farinata e Cavalcante dall’Inferno, X Ulisse dall’Inferno, XXVI
•
•
•
•
Analisi interattive La prima apparizione di Beatrice; Il saluto; Donne ch’avete intelletto d’amore; Tanto gentile e tanto onesta pare; La «mirabile visione» dalla Vita nuova Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io; Così nel
•
T7 Oltre la spera che più larga gira
251
T8 La «mirabile visione»
253
•
dalla Vita nuova, cap. XLII
3. Le Rime T9 Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
mio parlar voglio esser aspro dalle Rime L’imperatore, il papa e i due fini della vita umana dal De monarchia L’inizio del viaggio; Francesca e Paolo; Farinata e Cavalcante; Ulisse; Ugolino dall’Inferno «Fiorenza» tra passato e presente nei canti di Cacciaguida; La preghiera alla Vergine e la visione di Dio dal Paradiso
•
dalla Vita nuova, cap. XLI
255
•
Analisi attiva 257
dalle Rime
T10 Così nel mio parlar voglio esser aspro
259
dalle Rime
4. Il Convivio T11 Il significato del Convivio
264 265
VIDEOLEZIONI
Le opere minori
•
dal Convivio, I, i
5. Il De vulgari eloquentia T12 Caratteri del volgare «illustre»
270 271
•
Mappe interattive
•
Viaggi virtuali L’Inferno Il Purgatorio Il Paradiso
•
dal De vulgari eloquentia, I, XVI-XVIII
6. La Monarchia T13 L’imperatore, il papa e i due fini della vita umana
Laboratori interattivi La prima apparizione di Beatrice; Tanto gentile e tanto onesta pare dalla Vita nuova L’inizio del viaggio dall’Inferno, I Francesca e Paolo dall’Inferno, V
Ripasso interattivo
274
Verifica interattiva Competenze Parafrasi interattiva
276
dal De monarchia, III, xv, 7-18
7. Le Epistole T14 L’allegoria, il fine, il titolo della Commedia dall’Epistola a Cangrande
Incontro con l’Opera 8. La Commedia Interpretazioni critiche 294 VIDEOLEZIONE
MICROSAGGIO La configurazione fisica e morale dell’oltretomba
dantesco
296
T15 L’inizio del viaggio
300
dall’Inferno, I
T16 Francesca e Paolo AUDIOLETTURE
La Commedia
308
dall’Inferno, V, vv. 70-142 L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA
La fortuna di Paolo e Francesca nell’arte figurativa
314
T17 Farinata e Cavalcante
318
dall’Inferno, X, vv. 22-93
> Letteratura e Società
T18a «La gente nova e i sùbiti guadagni»
325
dall’Inferno, XVI, vv. 64-78
T18b I nobili degradatisi a usurai
326
dall’Inferno, XVII, vv. 46-78
T19 Ulisse
329
dall’Inferno, XXVI, vv. 85-142
La voce del Novecento Primo Levi e il canto di Ulisse nell’inferno del Lager nazista T20 Ugolino T21 Beatrice
333
dall’Inferno, XXXII e XXXIII, vv. 124-139 e vv. 1-90
338
dal Purgatorio, XXX vv. 22-99
345
Testi La seconda apparizione di Beatrice; Il «gabbo»; Amore e ’l cor gentil sono una cosa; Ben converrà che la mia donna mora dalla Vita nuova Se vedi li occhi miei di pianger vaghi dalle Rime Il pubblico del Convivio; Poesia e allegoria dal Convivio Natura e variabilità del linguaggio; Lo stile tragico della canzone dal De vulgari eloquentia La missione di Dante; La farsa “carnevalesca” dei diavoli dall’Inferno Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel dal Purgatorio L’Empireo e la rosa dei beati; «… di Fiorenza in popol giusto e sano» dal Paradiso
•
282
Pietro Cataldi | Dante e la logica del guadagno
P
Linea del tempo
278 279
La Commedia
•
•
•
• •
Testi interattivi Difesa ed elogio del volgare dal Convivio Pier della Vigna dall’Inferno L’esordio del canto I; «Ahi serva Italia…» dal Purgatorio L’esordio del canto I dal Paradiso
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Video Il vero volto di Dante da La Vita nuova di Piovani L’episodio di Francesca e Paolo nella musica classica Lettura dantesca di V. Gassman La Commedia nell’arte figurativa Lettura dantesca di R. Herlitzka Lettura dantesca di C. Bene Lettura dantesca di R. Benigni da Inferno Cantos I-VIII di Greenaway da Maratona infernale. In viaggio con Dante di Lambertini La Commedia nel cinema La Commedia a fumetti La Commedia nella musica
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XIII
INDICE GENERALE
> Letteratura e Società
Immagini interattive Il realismo nell’arte figurativa Giotto e Dante: due rivoluzioni artistiche a confronto
•
T22 «Fiorenza» tra passato e presente nei canti
di Cacciaguida
350
dal Paradiso, XV e XVI, vv. 97-135 e vv. 46-72
Arte Rappresentazioni dell’aldilà
T23 La preghiera alla Vergine e la visione di Dio 355
Echi nel tempo La figura di Ulisse nella letteratura moderna
dal Paradiso, XXXIII, vv. 1-48; 109-145
Interpretazioni critiche Erich Auerbach | La concezione figurale e il realismo dantesco 361 Facciamo il punto CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI
Attualità dei classici Dante Alighieri e la Commedia La critica
363
Dante
Ripasso visivo In sintesi
366 367
Bibliografia
•
Testi critici G. Contini E. Sanguineti J. Freccero
•
364
Per la ricerca nel web VERIFICA INTERATTIVA
368
Per il nuovo esame di Stato PRIMA PROVA Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano T24 Ne li occhi porta la mia donna Amore 369 dalla Vita nuova, XXI
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito letterario e sociale Marco Santagata Dante conservatore
371
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito sociale e politico Potere politico e potere religioso 373 Ambito letterario La lingua della creatività 374 PROVA DI COMPETENZA Simulazione di esperienza reale Gli inferni della contemporaneità
CAPITOLO 5
Francesco Petrarca
1. La vita 2. Petrarca come nuova figura di intellettuale 3. Le opere religioso-morali T1 Una malattia interiore: l’«accidia» VIDEOLEZIONE D’AUTORE
375
380 382 387 389
Audio Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; Erano i capei d’oro a l’aura sparsi dal Canzoniere
392
T2 L’amore per Laura
394
dal Secretum, III
XIV
Videolezioni Carta interattiva
La voce del Novecento Il male dell’anima in Petrarca e Montale
dal De vita solitaria, I
T
385
dal Secretum, II
T3 L’ideale dell’otium letterario
Videolezione d’autore
400
VIDEOLEZIONI
La biografia e le opere religiosomorali
Analisi interattive L’ascesa al Monte Ventoso dalle Familiari Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; Era il giorno ch’al sol si scoloraro; Solo e pensoso i più deserti campi; Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; Chiare, fresche
•
4. Le opere “umanistiche” MICROSAGGIO La fortuna di Petrarca nel Rinascimento
403 405
T4 L’ascesa al Monte Ventoso
407
e dolci acque; La vita fugge, e non s’arresta un’ora dal Canzoniere Laboratori interattivi L’ascesa al Monte Ventoso dalle Familiari Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; Chiare, fresche e dolci acque dal Canzoniere
dalle Familiari, IV, 1
•
Incontro con l’Opera 5. Il Canzoniere T5 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono dal Canzoniere, I
AUDIOLETTURE
Il Canzoniere
414 422
T6 Era il giorno ch’al sol si scoloraro
426
dal Canzoniere, III
T7 Se la mia vita da l’aspro tormento
428
dal Canzoniere, XII
T8
Movesi il vecchierel canuto e bianco
Ripasso interattivo
Il Canzoniere
Verifica interattiva Competenze Analisi interattiva
P
Linea del tempo
Analisi attiva 431
dal Canzoniere, XVI
T9 Solo e pensoso i più deserti campi
433
dal Canzoniere, XXXV
T10 Padre del ciel, dopo i perduti giorni
435
T11 Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
437
dal Canzoniere, XC
T12 Chiare, fresche e dolci acque
439
dal Canzoniere, CXXVI
T13 Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
Testi Un’autobiografia di Petrarca: l’epistola «Ai posteri»; Gli antichi e l’età contemporanea dalle Epistole Il giudizio di Petrarca su Dante dalle Familiari Il lamento di Magone morente dall’Africa Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno; I’ vo piangendo i miei passati tempi; Passa la nave mia colma d’oblio; Quanto più m’avicino al giorno estremo; I’vo piangendo i miei passati tempi; Quel rosignuol, che sì soave piagne dal Canzoniere M. Santagata da L’amore in sé
•
•
•
dal Canzoniere, LXII
444
dal Canzoniere, CXXVIII
•
Interpretazioni critiche
Ugo Dotti | Il ruolo intellettuale di Petrarca: il rapporto con la Signoria e la rivendicazione della «libertà»
450
> Letteratura e Politica
T14 Fiamma dal ciel su le tue treccie piova
453
dal Canzoniere, CXXXVI
T15 La vita fugge, e non s’arresta un’ora
Mappe interattive VIDEOLEZIONE
Analisi attiva 455
dal Canzoniere, CCLXXII
T16 Se lamentar augelli, o verdi fronde
457
dal Canzoniere, CCLXXIX
T17 Levommi il mio penser in parte ov’era
459
dal Canzoniere, CCCII
T18 Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena
461
dal Canzoniere, CCCX
T19 Sento l’aura mia antica e i dolci colli
Testo interattivo Tutta la mia fiorita e verde etate dal Canzoniere Galleria di immagini Il volto di Laura Immagine interattiva I Trionfi dipinti Audio da Valzer per un amore (o campestre) di De André da Quando tu sarai di Branduardi da Orfeo ed Euridice di Vecchioni
•
•
Video Intervista ad A. Bertolucci La critica Testi critici M. Santagata N. Sapegno C. Segre
•
464
•
Per la ricerca nel web
dal Canzoniere, CCCXX
T20 O cameretta che già fosti un porto
466
dal Canzoniere, CCXXXIV
6. L’aspirazione all’unità: i Trionfi e il De remediis utriusque fortunae T21 La morte di Laura: «morte bella parea nel suo bel viso»
468 469
da Il Trionfo della Morte, vv. 103-172
Interpretazioni critiche
Gianfranco Contini | Plurilinguismo dantesco e unilinguismo di Petrarca
473
XV
INDICE GENERALE
CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI DIALOGHI IMMAGINARI
Petrarca
Petrarca e Dante
476 478
Facciamo il punto
481
Ripasso visivo In sintesi
482 483
Bibliografia
VERIFICA INTERATTIVA
485
Per il nuovo esame di Stato PRIMA PROVA Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano T22 Pace non trovo e non ho da far guerra 486 dal Canzoniere, CXXXIV
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito letterario Alberto Asor Rosa La lingua di Petrarca: classicismo
e modernità
CAPITOLO 6
488
Giovanni Boccaccio
1. La vita 2. Le opere del periodo napoletano 3. Le opere del periodo fiorentino T1 La dissimulazione amorosa VIDEOLEZIONE D’AUTORE
490 492 495 497 499
dall’Elegia di Madonna Fiammetta, V
Incontro con l’Opera
503
4. Il Decameron T2 Il Proemio: la dedica alle donne e l’ammenda al «peccato della fortuna»
503
Videolezioni Carta interattiva VIDEOLEZIONI
La biografia e le opere giovanili
515 519
VIDEOLEZIONE
526
Il Decameron
Interpretazioni critiche
Giorgio Padoan | Boccaccio e il mondo mercantile: adesione e critica
T5 Melchisedech giudeo
dal Decameron, I, 3
> Letteratura e Economia
T6 Landolfo Rufolo dal Decameron, II, 4 T7 Andreuccio da Perugia dal Decameron, II, 5
538 540
di Pasolini Il Decameron
T8 Tancredi e Ghismunda dal Decameron, IV, 1 T9 Lisabetta da Messina dal Decameron, IV, 5
544 551 564 566 577
Interpretazioni critiche
T10 Nastagio degli Onesti XVI
dal Decameron, V, 8
Laboratori interattivi Andreuccio da Perugia; Lisabetta da Messina dal Decameron Galleria di immagini La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Botticelli Ripasso interattivo Competenze Esposizione orale
582 584
P
Linea del tempo
Testi Gli amori infantili di Florio e Biancifiore dal Filocolo Napoli cortese e Firenze borghese dalla Comedìa delle Ninfe fiorentine L’amore giovanile dal Ninfale fiesolano La brigata dei novellatori; La conclusione dell’autore; Griselda; L’autodifesa dalle critiche e la novella delle «papere» dal Decameron
•
•
•
Mario Baratto | Il conflitto tra amore e «ragion di mercatura» nella novella di Lisabetta da Messina
Audio Andreuccio da Perugia; Lisabetta da Messina; Federigo degli Alberighi; Chichibio cuoco; La badessa e le brache dal Decameron
Verifica interattiva
LETTERATURA E CINEMA Popolare e borghese: il Decameron AUDIOLETTURE
Mappe interattive
Analisi interattive Andreuccio da Perugia; Lisabetta da Messina; Federigo degli Alberighi; Chichibio cuoco dal Decameron
dal Decameron, Proemio
T3 La peste dal Decameron, I, Introduzione T4 Ser Ciappelletto dal Decameron, I, 1
T
Videolezione d’autore
L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA La novella di Nastagio
T11 T12 T13 T14 T15 T16
Federigo degli Alberighi dal Decameron, V, 9 Madonna Oretta dal Decameron, VI, 1 Cisti fornaio dal Decameron, VI, 2 Chichibio cuoco dal Decameron, VI, 4 Analisi attiva Guido Cavalcanti dal Decameron, VI, 9 Frate Cipolla dal Decameron, VI, 10
•
594
Immagini interattive La società trecentesca in Boccaccio e Ambrogio Lorenzetti Ciappelletto “visualizzato”
601
•
604 609
Galleria di immagini Il Decameron nell’arte figurativa del Novecento
613 617
Echi nel tempo Il motivo della peste nella letteratura moderna
625
MICROSAGGIO La satira del villano
T17 Calandrino e l’elitropia
Video Il Decameron di Pasolini da Maraviglioso Boccaccio di P. e V. Taviani
590
degli Onesti illustrata da Botticelli
dal Decameron, VIII, 3
La voce del Novecento Le nuove avventure di Calandrino: Dario Fo riscrive Boccaccio
627
Testi critici G. Petronio E. Auerbach G. Getto V. Branca F. Bruni
•
635
5. Dopo il Decameron
640
Facciamo il punto
641
DIALOGHI IMMAGINARI
Boccaccio e Dante
642
DIALOGHI IMMAGINARI
Boccaccio e Petrarca
644
CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI
Boccaccio
Ripasso visivo In sintesi
• •
•
Per la ricerca nel web
646 648 649
Bibliografia
Per il nuovo esame di Stato
La critica
VERIFICA INTERATTIVA
650
PRIMA PROVA
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
T18 L’autodifesa dalle critiche e la novella delle «papere»
651
dal Decameron, IV, Introduzione
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito letterario Roberto Antonelli Il Decameron oggi
654
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito sociale Condividere storie
656
Il teatro per immagini
657
Glossario Indice dei nomi Indice delle rubriche e delle schede Indice delle illustrazioni
666 677 680
682
XVII
Un dialogo con gli studenti
Immaginiamo di trovarci dinanzi a una classe del terzo anno delle superiori e proviamo a ipotizzare le domande che potrebbero nascere da parte degli studenti a proposito dell’insegnamento della letteratura, a cui occorrerà dare delle risposte.
Innanzitutto perché leggere testi letterari è bello, è piacevole e gratificante: provoca emozioni che restano indelebili nella memoria, specie se provate negli anni della formazione della personalità, nell’infanzia e nell’adolescenza. Può suscitare domande sui grandi problemi dell’esistenza, dare risposte che illuminano e cambiano la vita. Poi arricchisce l’esperienza della realtà: quante cose che non è possibile vedere e sperimentare direttamente riusciamo invece a conoscerle attraverso i libri. La lettura fa vivere molte vite, fa sì che non restiamo chiusi in quella sola che ci è data; trasporta in infiniti altri luoghi e tempi, l’India, il Sahara o la pampa argentina, la Firenze del Trecento o la Parigi dell’Ottocento. Di conseguenza allarga la nostra visione del mondo, ci permette di capire tanti aspetti di noi stessi e della realtà che ci circonda, di apprezzare quanto di bello la vita offre, ma anche di conoscere il male che purtroppo si annida in essa. La letteratura affina la nostra sensibilità: aumentando la nostra capacità di capire ci aiuta a metterci in relazione con gli altri, a interpretare le loro ragioni, ci induce a essere più attenti, aperti, comprensivi, a dire la parola giusta al momento giusto per confortare l’amico in difficoltà, a non ferire gli altri con comportamenti inopportuni. Leggere arricchisce il linguaggio, che è lo strumento principale della comprensione della realtà e della comunicazione. Chi ha un vocabolario limitato, povero e impreciso è come se fosse vittima di una menomazione, non riesce a esprimere ciò che vorrebbe e non è in grado di capire i tanti messaggi che gli arrivano dalla realtà esterna, con conseguenze anche molto gravi. Pertanto non può essere un cittadino a pieno titolo, è condannato a essere un suddito, alle cui spalle vengono prese decisioni che egli non può comprendere né controllare.
Perché studiare la letteratura?
XVIII
Un dialogo con gli studenti
Finora si è parlato di lettura in generale: ma proprio l’insegnamento letterario che si impartisce a scuola, indicando quali libri è importante leggere e come leggerli, garantisce gli strumenti per affrontare le letture che ciascuno deve compiere per proprio conto, e fornisce gli stimoli per andare alla ricerca dei libri che possano interessarlo (o per lo meno questo è il suo compito). Nella nostra tradizione scolastica, a differenza di quelle di altri paesi, l’insegnamento letterario è fondato su un’impostazione storica, che segue il percorso della letteratura dalle origini al presente. E siamo convinti che questa impostazione sia valida, non debba essere messa da parte, magari per imitare altre culture diverse dalla nostra, i cui risultati scolastici sono per lo meno dubbi. Non solo, ma è un modo di insegnare particolarmente indispensabile oggi, quando tanti fra voi giovani vivono come appiattiti in un fittizio presente, senza alcuna consapevolezza della profondità storica, e il passato è per loro una nebulosa confusa, al massimo un repertorio di finzioni evasive viste in televisione o al cinema, non collocabili in alcuna precisa dimensione cronologica. Colpisce infatti, durante le varie verifiche, l’incapacità, da parte di molti fra voi, di collocare opere ed eventi della letteratura (come della storia politica, sociale ed economica) in un contesto storico anche solo approssimativo, persino per epoche non remote nel tempo. Questo vivere solo nel presente, senza profondità temporale, è pericoloso: innanzitutto perché priva della consapevolezza delle radici, impedisce di rendersi grazie alla conto di come nel passato vi siano i presupposti da cui si è coscienza della sviluppata la realtà in cui viviamo oggi. Per contro assumere diversità del coscienza di questa continuità mediante la lettura di testi letpassato, quindi terari del passato, cogliere attraverso di essi le origini dei nodel divenire storico stri modi di pensare e di vivere attuali, consente di capire gli e della possibilità aspetti essenziali del presente, dà fondamenti più solidi alla del cambiamento, propria individualità, le garantisce un più ampio giro di orizil giovane può zonti, e di conseguenza è indispensabile per l’inserimento in esercitare una forma matura di voi giovani nella comunità civile. funzione dinamica, Inoltre l’appiattimento è pericoloso perché, oltre a privare e proiettarsi verso del passato, priva anche del futuro: radica infatti l’idea che il futuro il presente sia l’unica realtà possibile, senza alternative, e questo porta all’accettazione passiva e inconsapevole dell’esistente. È necessario quindi che i giovani assumano coscienza del fatto che infiniti cambiamenti hanno percorso la storia, e che perciò il cambiamento è sempre possibile. A tal fine diviene allora importante capire che il passato non è solo la preistoria del presente, è anche per tanti aspetti una realtà profondamente diversa. La letteratura, con la capacità attrattiva che è dei grandi testi, può essere per il giovane un ottimo veicolo per immergersi in mentalità, modi di pensare e di vivere, sistemi di valori e criteri di interpretazione del mondo diversi da quelli a cui è abituato a riferirsi, come se entrasse in contatto con una civiltà antropologicamente altra; così, attraverso il confronto con il diverso, lo studente può rendersi conto di come la realtà non sia statica ma in perpetuo divenire e produca continuamente forme particolari di società e di pensiero. E solo grazie alla coscienza della diversità del passato, quindi del divenire storico e della possibilità del cambiamento, nella convivenza civile il giovane può esercitare una funzione dinamica, può proiettarsi con un progetto verso il futuro.
Ma perché a scuola si studiano soprattutto autori così lontani nel tempo?
XIX
Infine, cosa egualmente importante, attraverso questa conoscenza di ciò che è diverso lo studente può imparare a non respingerlo con paura e diffidenza, ma ad accettarlo nella sua ricchezza in tutte le situazioni, anche e soprattutto al di fuori dell’esperienza letteraria, nella sua vita quotidiana: ed è un altro fattore fondamentale per la sua maturazione civile. Tanto più indispensabile oggi, quando si vanno affermando inquietanti tendenze all’intolleranza nei confronti di tutto quanto è sentito come diverso, che possono sfociare anche in comportamenti violenti. Oltre a queste considerazioni, che ci sembrano di vitale importanza per la funzione formatrice della scuola, per comprendere perché si leggano tanti testi remoti nel tempo bisogna ricordare che i nostri autori più grandi, quelli per cui la letteratura italiana conta nel quadro della letteratura mondiale, per cui siamo conosciuti, apprezzati e studiati, sono proprio quelli del passato più lontano, Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Tasso. In realtà non è vero che siano così lontani da voi: non rappresentano solo la preistoria del presente, dove ci sono le nostre radici, ma per tanti aspetti sono proprio attualissimi, parlano ancora direttamente a voi, anzi parlano di voi. In questi testi ci sono tanti elementi che possono chiamare in causa il vostro vissuto personale, aiutarvi a individuare un senso nella vostra dimensione esistenziale all’interno del mondo che vi circonda. Per fare un esempio, un poeta letteratissimo come Petrarca, interprete di una civiltà ormai lontana e molto diversa dalla nostra, con le sue raffinatezze formali può apparire troppo estraneo agli interessi dei ragazzi del XXI secolo: ma, al di là di tutto questo, l’acutissimo indagatore della fenomenologia amorosa, il poeta nei cui versi tornano continuamente l’idealizzazione della persona amata, i sogni e le fantasticherie intorno ad essa, l’assaporamento della sua immagine nella memoria, l’urgenza del desiderio e la sofferenza per l’impossibilità di appagarlo, l’alternanza di speranze e di disillusioni, il dolore per la perdita e l’evocazione
Tutto questo sarà vero: ciò non toglie però che noi giovani non riusciamo a non sentire quegli scrittori lontani dai nostri interessi.
XX
Un dialogo con gli studenti
dell’immagine amata nei suoi luoghi consueti, dovrebbe toccare particolarmente la sensibilità degli adolescenti, che magari sperimentano quegli stati d’animo in prima persona nel loro vivere quotidiano, aiutarli a capirsi, a prendere coscienza dei loro processi interiori, a maturare una visione più profonda e complessa della vita dei sentimenti. Ma, oltre che sul piano soggettivo ed esistenziale, i grandi testi del passato sono attuali anche sul piano civile, della società, dell’economia, della politica. Se leggendoli in classe l’insegnante riesce a far Petrarca, vedere come al momento di essere scritti non si collocasl’acutissimo sero affatto in una sfera astratta e separata dal vissuto della indagatore della gente e dai problemi anche pratici, affrontati quotidianafenomenologia mente, questo può far sentire quei testi ancora vicini a noi, amorosa, dovrebbe ancora capaci di parlarci direttamente, nella misura in cui toccare la sensibilità certi problemi travalicano la distanza temporale e sono ridegli adolescenti, conoscibili ancora oggi. Due soli esempi: la feroce polemiche magari ca di Dante contro i barattieri, i politici e i funzionari che si sperimentano facevano comprare si può collegare alla corruzione attuale quegli stati d’animo di una buona parte del ceto politico, alla prassi delle tanin prima persona genti, che ha occupato tanto spazio nelle cronache di quenel loro vivere sti anni; parimenti lo sdegno di Dante contro l’avidità dei quotidiano «sùbiti guadagni» (cioè dei rapidi profitti) che riscontra nel proprio tempo può far pensare all’avidità speculativa della grande finanza internazionale odierna, che è all’origine della terribile crisi in cui ci dibattiamo: sono problemi che non possono e non devono lasciare indifferente un giovane che si affaccia alla vita civile e magari è già chiamato ad esercitare il diritto-dovere del voto. Ma i testi del passato È vero che sono difficili, in primo luogo linguisticamente. La lingua si trasforsono difficili, costa ma, per cui quella usata da Dante o Boccaccio presenta inevitabilmente delle fatica leggerli, e a differenze rispetto alla nostra. E oltre a questo è una lingua letteraria, più elavolte appaiono proprio borata a raffinata, che punta a un livello più alto di quello della lingua dell’uso incomprensibili. comune. Quindi nei classici ricorre qualche termine più elevato e prezioso,
non si troverà anima ma alma, non capelli ma crini, non tomba ma avello, non spada ma brando, non corazza ma usbergo; oppure certi termini sono usati in un senso diverso dall’attuale (come gentile e onesta nel famoso sonetto di Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare). Però non si tratta di una lontananza insormontabile. Ben diverso è il problema che dovrebbero affrontare i vostri compagni francesi se tentassero di leggere i testi medievali, che sono davvero scritti in un’altra lingua rispetto al francese moderno, la lingua d’oïl (non parliamo poi della lingua d’oc, quella dei trovatori provenzali). Invece nel caso dei nostri scrittori del Medioevo molte delle parole impiegate, a parte quelle più letterarie, sono quelle che adoperiamo ancora noi oggi, magari con qualche piccola variante grafica (ad esempio nei versi iniziali della Commedia troviamo tutte parole ancora in uso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura…»). Nei libri scolastici sono poi presenti ampie note, che spiegano tutto, e potete sempre disporre dell’aiuto dell’insegnante. E comunque, con la pratica, dopo un po’ di tempo si può imparare anche la lingua letteraria. Certo, occorre fatica: ma chi ha detto che la fatica affrontata per raggiungere un risultato sia qualcosa di negativo? Se praticate uno sport, sapete bene quanto occorre faticare per ottenere prestazioni soddisfacenti. Perché allora rifiutare la fatica in-
XXI
tellettuale, che sviluppa le vostre facoltà e contribuisce alla vostra formazione, come la fatica fisica sviluppa i muscoli e rende più forti? Sicuramente, è giusto e indispensabile conoscere il presente. E questo è un problema che assilla gli insegnanti: come riuscire ad affrontare la letteratura contemporanea, ma senza sacrificare i classici. Purtroppo con lo scorrere del tempo la storia letteraria si allunga: il Novecento è ormai concluso, siamo già al secondo decennio del Duemila, e continuano a uscire romanzi, racconti e volumi di poesie. Si sono aggiunti al canone consacrato tanti scrittori che sarebbe interessante leggere a scuola, ma il tempo scolastico è sempre lo stesso (quando non viene accorciato da improvvide riforme). E d’altronde ridursi a non leggere più i grandi del passato non è accettabile, per le ragioni esaminate prima. È la questione ben nota della coperta troppo corta. Si dovrà allora cercare una soluzione di compromesso. Preso atto che non è più possibile godere del lusso di ampie letture dei classici e che è giocoforza sacrificare qualcosa, in compenso si punterà sulla qualità anziché sulla quantità: di ogni grande autore si sceglieranno pochi testi campione altamente significativi, dalla cui lettura in classe l’insegnante, attraverso il dialogo con gli allievi, possa ricostruire il disegno complessivo dell’opera, le tematiche dell’autore, il suo profilo, i legami col contesto culturale e storico. Vi è una storicità immanente nei testi, che uno sguardo attento può individuare e portare alla luce: la storicità si può cogliere, al limite, anche nell’uso di una virgola. Ad esempio, per dare un’idea di Boccaccio, può bastare la lettura attenta di poche novelle, da cui ricavare gli aspetti essenziali della visione del mondo boccacciana, della sua tecnica narrativa e della sua scrittura. Allo stesso modo pochi sonetti e una canzone di Petrarca, se analizzati a fondo, bastano a ricostruire il profilo del poeta, a definire le sue tematiche e il suo stile. In questo modo si guadagna tempo da dedicare poi, nell’ultimo anno, al Novecento e agli scrittori attuali. Per essi, comunque, si può ricorrere anche alle letture compiute autonomamente dagli studenti, in base alle indicazioni fornite dall’insegnante, con momenti di confronto e di discussione in classe.
D’accordo. Ma non è possibile valorizzare maggiormente la letteratura dei nostri giorni, più vicina ai nostri interessi?
A scuola si insiste Il nozionismo era la peste dell’insegnamento di un tempo, che si sperava defitanto su certe nozioni, nitivamente sconfitta, in nome di un’impostazione didattica che facesse crecome le date. È proprio scere intellettualmente i giovani e li conducesse alla maturità, sul piano cultuindispensabile? Non rale come civile. Pensiamo però che sia da segnare molto nettamente la distinc’è il rischio che zione fra nozionismo e nozioni. Tutti sono d’accordo a riconoscere che le questo renda arido nozioni sono un’intelaiatura indispensabile a sorreggere le conoscenze, che l’insegnamento e disamori gli studenti senza di esse sarebbero inconsistenti e volatili, ma non valgono di per se stesnei confronti della se, bensì solo se sono collegate a un discorso critico complessivo e, nel caso letteratura? della letteratura, se sono utili per interpretare e capire un’opera.
Ad esempio sapere le date delle tre redazioni dei Promessi sposi di per sé, come dato isolato, è una nozione inerte, è sterile nozionismo, appunto; acquista un senso solo se quelle date sono inserite in un discorso più ampio sulle caratteristiche di quelle tre redazioni e sulle loro differenze di visione, di strutture narrative e di linguaggio, che le collochi nel contesto in cui matura il capolavoro manzoniano, in modo che valgano a chiarire il processo della sua elaborazione. Lo stesso si può dire per altre nozioni che si
XXII
Un dialogo con gli studenti
acquisiscono a scuola, gli aspetti linguistici, metrici e stilistici di un testo poetico, lessico, sintassi, figure retoriche, tipi di versi, strofe, rime e così via: l’indagine a tali livelli deve essere sempre finalizzata all’interpretazione, mai restare fine a se stessa, altrimenti risulta arida e improduttiva, anch’essa puramente nozionistica. Per noi giovani il Senza dubbio gli strumenti digitali oggi si offrono come mezzi utilissimi per la dicomputer è uno dattica. Però se il loro impiego si riduce, per così dire, a cospargere di zucchero strumento ormai gli orli del bicchiere per fare ingoiare una medicina amara, cioè per fare in modo indispensabile. più accattivante le stesse cose, non crediamo che Sarebbe bene il guadagno sia rilevante. Il computer deve aiutare una didattica usarlo anche per a impostare una didattica diversa, deve servire a l’insegnamento, interdisciplinare compiere operazioni che non sarebbe possibile perché un mezzo così permette familiare ci aiuterebbe compiere mediante i libri. Un campo produttivo di stabilire legami ad accostarci alla dell’uso del digitale nell’insegnamento letterario tra la letteratura, letteratura, a seguire può essere ad esempio il lavoro sul testo. Lo strule arti figurative, con più interesse mento, poniamo la lim, non solo può strappare gli la musica il teatro, e a imparare più allievi all’apatia e spingerli a una maggiore parteil cinema, la storia facilmente. cipazione, dato il mezzo più familiare, ma con le
sue risorse eccezionali può consentire operazioni di lettura, analisi, rilevazione e confronto di dati che non sarebbe possibile compiere su carta; non solo, può instaurare un’effettiva interattività, in cui gli allievi non siano solo recipienti passivi di informazioni, ma esercitino un ruolo attivo in prima persona nel processo interpretativo. Inoltre offre opportunità a una didattica interdisciplinare, permette di stabilire legami tra la letteratura, le arti figurative, la musica (materie trascurate a scuola, e in modo vergognoso, soprattutto in un paese dal patrimonio così ricco come l’Italia), il teatro, il cinema, la storia, tutti settori di cui è in grado di mettere a diposizione una ricchezza infinita di documenti e immagini, da collegare, vagliare, confrontare, analizzare in rapporto ai testi letterari.
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Certo, proprio in nome dell’interdisciplinarità a cui si accennava. In primo luogo è necessario ricostruire i rapporti fra letteratura e arti figurative, unite in ogni epoca da legami molto stretti, che hanno le loro radici nella visione del mondo dominante in quell’epoca e nei temi che ne scaturiscono. Certe soluzioni stilistiche e costruttive della poesia sono certamente affini alle soluzioni della pittura, della scultura, dell’architettura ad essa contemporanee. Anzi in tanti casi un’idea del Medioevo, del Rinascimento, del Barocco o dell’avanguardia novecentesca si può ricavare con maggiore immediatezza dalla visione di un dipinto che dalla lettura di una poesia. E qui può venire in soccorso proprio il mezzo digitale, come si diceva, che è in grado di mettere a disposizione infiniti materiali. Naturalmente è importante anche stabilire i legami fra letteratura, teatro (si intende il teatro come spettacolo, quello che si svolge sul palcoscenico) e cinema: ne siamo tanto convinti che questo manuale, nelle sue varie edizioni, ha sempre fornito supporti didattici in tale direzione. Per queste forme artistiche vale il discorso fatto per le arti figurative, poiché l’aria del tempo si può riconoscere in esse come nella produzione letteraria, quindi è bene ricostruire i legami fra temi e soluzioni formali che compaiono nell’una come nelle altre. Per il teatro vi è il legame costituito dal testo drammatico, quello scritto poniamo da Goldoni o da Pirandello, che è un’opera letteraria e al tempo stesso è destinato a essere messo in scena e a costituire uno degli elementi dello spettacolo, insieme alla recitazione degli attori, ai costumi, alla scenografia, alle luci, alle musiche. Un bell’esercizio didattico è proprio verificare come il testo che si è letto in classe sia stato messo in scena da un regista e da una compagnia di attori, quali soluzioni espressive lo spettacolo abbia adottato, che interpretazione abbia offerto della scrittura drammatica di partenza. Ma anche per il cinema spesso ci si trova dinanzi a trasposizioni di opere letterarie (ad esempio il Gattopardo di Visconti dal romanzo di Tomasi di Lampedusa), ed è possibile compiere operazioni analoghe.
A tale proposito, la cultura di noi studenti, nati nella civiltà delle immagini, è soprattutto visiva. Non è possibile usare le immagini anche per l’insegnamento della letteratura? Non lo renderebbe per noi più stimolante?
XXIV
Un dialogo con gli studenti
Certo sarebbe bene che le classi assistessero direttamente a spettacoli teatrali e cinematografici. Per il cinema è più facile, in quanto innumerevoli film, anche recenti, sono disponibili in dvd e possono essere proiettati in classe. Più problematica è la questione del teatro, in quanto la visione dello spettacolo che si svolge sul palcoscenico, con gli attori in carne ed ossa che recitano davanti al pubblico, è insostituibile. L’insegnante può certo portare gli allievi a teatro, ma ciò può avvenire, usualmente, solo fuori dell’orario scolastico, e comporta qualche difficoltà organizzativa. In mancanza dello spettacolo dal vivo, esistono anche in questo caso registrazioni, che possono avere la loro utilità didattica. L’insegnante però dovrà far capire molto chiaramente ai suoi studenti la differenza che intercorre fra lo spettacolo vero e proprio e la ripresa di esso che compare su uno schermo, e che più propriamente ha le caratteristiche del film (cambio di inquadrature, di punti di vista, primi piani e campi lunghi, montaggio ecc.). L’argomento può anche diventare l’occasione di interessanti discussioni in classe. Altre immagini che possono risultare utili alla didattica sono ritratti dell’autore e di figure della cultura e della storia ad essi legate, immagini di luoghi e ambienti della loro vita o rappresentati nelle loro opere, riproduzioni di manoscritti ed edizioni, illustrazioni che corredano le opere, e così via. Anche in questo caso il mezzo digitale diviene una miniera di materiali. Ma tutte queste immagini diventano utili solo se l’insegnante riesce a farle parlare, è in grado di ricavare da esse indicazioni preziose per l’interpretazione dell’opera e per la comprensione dell’autore, della sua personalità, del suo contesto sociale e del suo tempo: e bisogna riconoscere che non è facile. In conclusione, le immagini possono avere un ruolo importante nell’insegnamento della letteratura, costituire uno stimolo alla riflessione critica e sollecitare l’interesse degli studenti, contribuendo a motivarli nello studio. Ma, pur in un’età segnata dal trionfo delle immagini, e pur riconoscendo la loro utilità didattica, restiamo convinti che per l’insegnamento letterario lo strumento fondamentale sia la parola, cioè la comunicazione tra docente e discente attraverso la parola, visto che la letteratura è fatta di parole.
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Il Medioevo latino V - XI secolo
CAMBRIDGE OXFORD
CLUNY • La piccola città francese ospita uno dei monasteri più importanti di tutto l’Alto Medioevo. I monaci cluniacensi, solitamente uomini di vasta cultura, esercitano una grande influenza politica sulle maggiori corti europee.
AQUITANIA TOLOSA
CATALOGNA
I luoghI della cultura
COLONIA AQUISGRANA
AQUISGRANA • Eletta residenza stabile da Carlo Magno e dalla sua corte, diviene sede dell’importante Scuola palatina, modello per l’insegnamento e la diffusione della cultura classica in tutto l’Impero.
PARIGI STRASBURGO
PAVIA • Capitale del regno longobardico, a partire dal VI secolo è tra le più importanti città dell’Italia settentrionale. Vi risiede, tra gli altri, Severino Boezio.
BORGOGNA SAN GALLO CLUNY
LIONE
MILANO
AQUILEIA VENEZIA
MONTECASSINO • È la sede di uno dei principali monasteri italiani nell’Alto Medioevo; vi soggiorna san Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine benedettino.
PAVIA PROVENZA
SPOLETO
ROMA • Centro della cristianità, Roma diviene crocevia di intellettuali, filosofi e artisti provenienti soprattutto dalle regioni bizantine. Qui studiano e si formano san Girolamo, padre e dottore della Chiesa, e papa Gregorio Magno, riorganizzatore della liturgia romana.
ROMA MONTECASSINO BENEVENTO NAPOLI SALERNO AMALFI
COSTANTINOPOLI
COSTANTINOPOLI • Intorno all’anno 1000 l’antica Bisanzio è la più ricca e popolosa città dell’Europa e del Medio Oriente, centro di una straordinaria fioritura culturale. È per lo più grazie agli umanisti bizantini che sono stati tramandati gli scritti dei grandi autori dell’antichità classica.
PALERMO
PALERMO • Durante la dominazione araba, precedente alla conquista normanna, la città è già uno dei centri politici e culturali più vivaci del Mediterraneo, coacervo di culture e religioni diverse che convivono in un quadro sociale di tolleranza e integrazione.
Il contesto
Società e cultura Premessa
Visione d’insieme
La tradizione classica
La tradizione latina medievale
Letteratura
Cultura
La tradizione francese
I primi testi letterari in volgare (la lingua parlata dal vulgus, il popolo, distinta dal latino, che era la lingua usata dalla ristretta cerchia degli intellettuali) compaiono in Italia nei primi decenni del Duecento: a questa data dunque si può far risalire l’inizio della letteratura italiana. Ma questa letteratura non si origina certo dal nulla: al contrario, quei testi scaturiscono da un terreno già ricchissimo di esperienze e di modelli culturali. Alle spalle della nascente produzione in lingua volgare vi era innanzitutto la tradizione della cultura classica antica: il Medioevo ne aveva conservata la memoria (anche se parzialmente, poiché molti testi non venivano più letti ed erano caduti in dimenticanza). L’eredità classica faceva parte integrante del bagaglio culturale di chi componeva testi letterari, ed era di necessità colto. Inoltre vi era tutto il ricchissimo patrimonio della cultura medievale elaborata nei secoli che corrono tra il VI e il XII: anche questa cultura si era espressa in latino, sia pure in una lingua profondamente diversa da quella classica. Infine, alle spalle della nascente letteratura italiana vi era la più recente tradizione delle letterature che, da più di un secolo, si erano sviluppate sul suolo francese e che già avevano consacrato l’uso letterario dei linguaggi volgari: il provenzale (o lingua d’oc) al Sud, il francese antico (o lingua d’oïl) al Nord.
Formazione del sistema curtense (V-VII secolo)
Editto di Rotari, prima legge scritta dei Longobardi (643)
Corpus iuris civilis di Giustiniano (529-33)
Boezio, De philosophiae consolatione (“La consolazione della filosofia”) intorno al 523
Gregorio Magno, Regula pastoralis (“Regola pastorale”) 604 ca.
Cassiodoro, le Institutiones divinarum et saecularium litterarum (“Le istituzioni”) intorno al 560
Scienza e Tecnica
Storia e Società
V-VI SECOLO
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Calo Deposizione demografico di Romolo in Europa; Augustolo, aumento delle ultimo zone incolte imperatore (III-VII secolo) d’Occidente (476)
Invasioni delle popolazioni germaniche (fine IV - inizio VI secolo)
VII-VIII SECOLO Regno di Giustiniano, imperatore romano d’Oriente (527-65)
Arrivo dei Longobardi in Italia (568)
Nascita di Maometto (570)
Prime conversioni dei Longobardi al cattolicesimo (600-20)
Morte di Maometto (632)
Espansione dell’islam in Asia, Africa ed Europa (632-750)
Vittoria dei Franchi sugli Arabi a Poitiers (732)
Il contesto · Società e cultura
Risulta allora evidente che, prima di affrontare le manifestazioni iniziali della letteratura italiana, è necessario esaminare gli antecedenti, la cultura latina medievale e le letterature in lingua d’oc e d’oïl. Esse sono la premessa indispensabile per capire la mentalità che è alla base dei testi in volgare italiano e le forme in cui essi prendono corpo. È quanto faremo in questo Contesto e nel successivo, dedicato all’età cortese.
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L’evoluzione delle strutture politiche, economiche e sociali L’Europa feudale nell’Alto Medioevo
Elementi di divisione e di unità
Nel 476 d.C. viene deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo, e cominciano a formarsi i cosiddetti regni romano-barbarici, in cui persistono elementi dell’apparato amministrativo e culturale romano accanto a costumi, leggi, mentalità introdotti dagli invasori provenienti dai territori germanici. A partire da questa data viene fissato convenzionalmente l’inizio dell’Alto Medioevo, un periodo storico che si estende fino al X secolo e si distingue dall’epoca successiva (il Basso Medioevo, XI-XV secolo) per le profonde trasformazioni che si manifestano nell’assetto sociale, economico e politico dell’Europa. I primi secoli dell’Alto Medioevo sono caratterizzati da un panorama politico e culturale estremamente frammentato, nel quale l’unico fattore unificante è costituito dalla Chiesa, che, oltre all’azione pastorale, svolge un ruolo politico e culturale decisivo. La ricostruzione di un organismo politico unitario si ha con la creazione del Sacro Romano Impero di Carlo Magno (VIII-IX secolo), che comprende i territori della
Fondazione del monastero benedettino di Cluny (910)
IX-X SECOLO Pipino il Breve contro i Longobardi (754-56)
Carlo Magno conquista il regno dei Longobardi (774)
Incoronazione di Carlo Magno; nasce il Sacro Romano Impero (800)
Costruzione della Cappella Palatina di Aquisgrana ad opera di Carlo Magno (786-804)
Il trattato di Verdun suddivide l’Impero carolingio in tre regni indipendenti (843)
XI SECOLO
Ottone I di Ripresa Sassonia è economica incoronato e incremento a Roma demografico imperatore (IX-X secolo) (962)
Diffusione in Europa dell’aratro a versoio e della rotazione triennale della semina (X secolo)
Intensificazione della Reconquista cristiana della Spagna (1031)
Costruzione di grandi cattedrali in Italia (Aosta, Bari, Modena, Pisa, Venezia; XI secolo)
Scisma tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa (1054)
Diffusione in Europa del mulino a vento (XI-XII secolo)
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Il Medioevo latino
Il feudalesimo
Francia, della Germania, dell’Italia. L’ambizioso progetto di far rivivere l’Impero di Roma nel quadro di una nuova Europa cristiana svanisce con la morte di Carlo Magno; dalla divisione dell’Impero tra i suoi successori nasceranno infatti tre entità politiche distinte. Già Carlo Magno, per compensare i guerrieri che lo avevano sostenuto nelle sue imprese, aveva assegnato loro in godimento porzioni di territorio, definite con termine germanico “feudi”. Questi domini, divenuti in seguito ereditari, accentuano la frammentazione politica e determinano un clima di perpetua instabilità, dovuta ai frequenti conflitti dei feudatari tra loro e con il sovrano. L’assetto feudale è dunque caratterizzato da un debolissimo potere centrale, contrastato dal potere dei numerosi signori locali, che nei propri territori sono dei veri sovrani, con il diritto di esigere imposte, di assoldare milizie, di amministrare la giustizia.
Società ed economia nell’età feudale L’immobilismo sociale
Testi Adalberone di Laon • «Triplice è dunque la casa di Dio» dal Carmen ad Robertum regem
Regresso economico e calo demografico
La società medievale è fortemente gerarchizzata e statica: la struttura sociale è ritenuta immutabile, in quanto rispondente al disegno provvidenziale che regola l’universo. Si pensa infatti che Dio stesso abbia voluto la distinzione in tre “ordini” (o classi sociali), che rispecchiano la Trinità: quello dei sacerdoti (oratores), quello dei guerrieri (bellatores) e quello dei contadini (laboratores), a ognuno dei quali è assegnata una funzione ben precisa. Questa ripartizione è efficacemente delineata in un carme del vescovo Adalberone di Laon (X sec.) indirizzato al re Roberto il Pio. Questa concezione della società ignora del tutto il principio di eguaglianza tra gli individui: la disuguaglianza fa parte infatti dell’ordine provvidenziale dell’universo, che ha voluto collocazioni diverse proprio per rispondere a compiti diversi. I secoli immediatamente successivi alla disgregazione dell’Impero romano vedono un progressivo aggravarsi della crisi economica. L’economia, rappresentata quasi esclusivamente dall’agricoltura, è chiusa, si basa sull’autoconsumo e i metodi di coltivazione sono rudimentali. Anche il commercio si spegne lentamente, soprattutto dopo la conquista araba dell’Africa settentrionale (VIII secolo), che interrompe le comunicazioni tra Nord e Sud del Mediterraneo.
Visualizzare i concetti
Le classi sociali nell’Alto Medioevo CLASSE SoCIALE (ordo)
DESCrIzIonE
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Clero (oratores)
Aristocrazia feudale (bellatores)
Contadini (laboratores)
Ecclesiastici; oltre a esercitare funzioni religiose, essi rappresentano anche il ceto intellettuale, occupandosi della conservazione e trasmissione del patrimonio culturale
Casta di origine guerriera, dedita all’esercizio delle armi, da cui ricava potere e prestigio; nell’ambito dei feudi esercita funzioni politiche e giudiziarie, si occupa della difesa del territorio, riscuote i tributi
Individui di condizione servile, legati alla terra che lavorano e privi di ogni libertà e di ogni diritto personale (servi della gleba); sono destinati alla produzione dei beni materiali necessari al sostentamento
Altri ceti
Artigiani (falegnami, fabbri, maniscalchi...) e mercanti (la cui importanza crescerà dopo il Mille)
Il contesto · Società e cultura
La ripresa nel Basso Medioevo
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In questa situazione regredisce l’economia monetaria, sostituita dal baratto, e lo scambio in natura domina anche nel campo del lavoro. Le precarie condizioni di vita e le epidemie determinano un vistoso calo demografico. In questi secoli i territori europei si spopolano e le terre incolte superano quelle coltivate. Il regresso delle attività di scambio provoca inoltre la decadenza delle città e i centri della vita associata si spostano nella campagna: sono i castelli dei signori feudali, le abbazie e i monasteri. La situazione comincia a mutare dopo il Mille, in concomitanza con una maggiore stabilità politica e con la cessazione delle invasioni da Est. Si ha un netto incremento demografico, si estendono coltivazioni, si perfezionano tecnologie e metodi agricoli, si riattivano gli scambi, le città si ripopolano e si allargano. La ripresa dell’Occidente si manifesta anche nell’espansione militare della cristianità contro l’Islam: si hanno così le Crociate per la conquista di Gerusalemme e la Reconquista in Spagna. Ha inizio una nuova fase storica, il Basso Medioevo.
Mentalità, istituzioni culturali, intellettuali e pubblico La visione statica del reale
Religiosità e visione del mondo
Universalismo e particolarismi
L’immobilismo sociale che caratterizza l’Alto Medioevo trova un evidente corrispettivo nella visione eminentemente statica della realtà intera. Tale visione è profondamente permeata dalla religiosità cristiana, che domina la civiltà medievale: l’ordine del creato, in quanto provvidenziale e voluto da Dio, è ritenuto perfetto e immutabile; la verità è data una volta per tutte, consegnata definitivamente alla rivelazione delle Sacre Scritture e all’autorità dei grandi pensatori, dei teologi cristiani come dei filosofi antichi. In conseguenza di questa concezione, non vi è neppure la curiosità di esplorare l’ignoto, di conoscere ciò che è al di là del già conosciuto, atteggiamento che è proprio invece della mentalità moderna. Non solo, ma si ritiene che le possibilità della conoscenza umana abbiano limiti precisi, determinati dalla pochezza delle nostre facoltà di esseri mortali. Chi spinge il proprio sguardo oltre quei limiti è colpevole di superbia o di follia. I due massimi poteri, nella sfera spirituale e in quella temporale, cioè Chiesa e Impero, derivano la loro autorità da Dio e sono quindi universali: il potere della Chiesa abbraccia le anime di tutti gli uomini; il potere imperiale, di diritto, si estende ovunque, al di là delle divisioni in singoli Stati. Anche i compiti delle due istituzioni rispondono a un unico disegno provvidenziale, che prevede per esse finalità specifiche e distinte: compito dell’Impero è condurre l’uomo alla felicità nella vita terrena, compito della Chiesa è condurre l’uomo alla beatitudine della vita eterna, come dirà poi Dante nella Monarchia. Questa visione universalistica dei due massimi poteri contrasta con la realtà obiettiva della vita medievale, nella quale impera il particolarismo più esasperato e il potere è in mano a una miriade di grandi e piccoli signori feudali. Ma questo fa capire come le grandi idee guida spesso non riflettano direttamente la realtà, bensì rispecchino le aspirazioni dominanti e costituiscano perciò una proiezione mentale e ideologica che non ha necessariamente un riscontro nella realtà effettiva. 7
Il Medioevo latino
Ascetismo e tendenze naturalistiche Il disprezzo del mondo
La rivalutazione delle forze naturali
La visione del mondo medievale è essenzialmente religiosa, fondata sull’ordine divino dell’universo. Il centro di questo ordine, Dio, non si identifica col mondo, considerato solo un’apparenza imperfetta e passeggera, ma si colloca al di là di esso, in una dimensione trascendente. Il fine della vita umana non è su questa terra, ma è il raggiungimento della salvezza eterna. La vera “patria” dell’uomo, la vera sede a cui egli è destinato è il cielo, ma il peso della carne e i falsi beni mondani lo sviano verso obiettivi ingannevoli, allontanandolo dalla sua meta. È necessario perciò, per salvarsi, distaccarsi dalle vane apparenze, rinunciare ai piaceri, mortificare la carne con il digiuno, le punizioni, la meditazione della morte, la preghiera. È questo l’atteggiamento ascetico, uno degli aspetti più tipici e diffusi della spiritualità medievale: esso implica il disprezzo del mondo e della vita terrena, visti come un cumulo di miserie, sofferenze e brutture, come qualcosa di inconsistente e transitorio, dominato dalla presenza incombente della morte. Nel corso del Medioevo si manifestano però anche delle tendenze naturalistiche, che esaltano la natura di per se stessa, mettendo tra parentesi la visione trascendente, e, in contrasto con ogni idea di mortificazione, combattono contro tutti quegli ostacoli che impediscono alle forze naturali di espandersi liberamente. Queste tendenze, in un polemico rovesciamento della mentalità ufficiale, celebrano la vita gaudente e i piaceri corporali: un esempio è costituito dalla poesia goliardica, connessa, come vedremo più avanti, con lo spirito del carnevale e con la cultura carnevalesca ( L’età comunale in Italia, cap. 2, p. 180).
La concezione del sapere e le tendenze filosofiche Il modello enciclopedico
Razionalismo e misticismo
Testi Bonaventura da Bagnoregio • L’ideale mistico da Itinerarium mentis in Deum
L’idea di un ordine unitario del reale è alla base di un altro aspetto fondamentale della visione del mondo dominante nel Medioevo, l’enciclopedismo. Se la molteplicità delle forme del reale è tutta riconducibile all’unità del principio divino, anche la conoscenza di quelle forme non può che tendere a un sistema unitario. E siccome il centro da cui tutto procede è Dio, tutti i settori del sapere devono essere subordinati alla scienza di Dio, la teologia. Questo modello enciclopedico presiede alla formazione dell’intellettuale: l’uomo dotto non è uno specialista in un determinato campo, ma deve possedere tutto il sapere. Una cultura di questo tipo è ancora quella di Dante, che nella Commedia mostra conoscenze non soltanto letterarie e filosofiche, ma anche storiche, geografiche, mitologiche, astronomiche e astrologiche, scientifiche. Il tentativo più grandioso di sistemare tutto il reale negli schemi di un sapere unitario, sulla base della teologia, è quello compiuto dalla Scolastica, una scuola filosofica affermatasi tra il XII e il XIII secolo il cui massimo pensatore è il domenicano Tommaso d’Aquino (1225-74): essa mira a costruire un edificio coerente di pensiero, in cui la fede cristiana si fonda sulla ragione. La sistemazione di Tommaso incontra però l’opposizione di un’altra corrente di pensiero, quella mistica, il cui maggior esponente è il francescano Bonaventura da Bagnoregio (1221-74); egli sostiene che la fede sia uno slancio fervido d’amore, che con la ragione non ha nulla a che vedere.
Il rapporto con i classici
Testi Sant’Agostino • Cultura cristiana e cultura pagana dal De doctrina christiana
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Già i primi pensatori cristiani tra il II e il IV secolo d.C. dovettero affrontare il problema dei legami con la grande tradizione della cultura greco-latina, che vantava un altissimo prestigio, ma che si fondava spesso su valori opposti a quelli del cristianesimo. All’inizio prevalse un atteggiamento di condanna nei confronti della cultura precedente, considerata quasi ispirata dal demonio, fonte di deviazioni e di errori. Sant’Agostino (354-430) propone invece un rapporto con la cultura classica che non implichi una condanna indiscriminata, ma sappia distinguere criticamente, all’interno di questa, ciò che è buono da ciò che è invece contrario alla nuova fede.
Il contesto · Società e cultura
Si sviluppa dunque un modo di leggere i classici che mira a cogliere, dietro la superficie del senso letterale, dei sensi riposti, che concordano con le verità rivelate. Il procedimento è certo forzato e anacronistico, e introduce nei testi classici significati che i loro autori non avrebbero mai pensato di porre.
L’allegorismo Il simbolismo medievale
I quattro sensi delle scritture
La visione figurale
La visione medievale della realtà è eminentemente simbolica. Ogni aspetto del mondo non vale solo per sé, come è per la visione moderna, ma rimanda sempre ad altro, a qualche cosa che è al di là delle semplici apparenze, a qualche cosa di più alto, in cui è inserito e che gli dà significato: il disegno di Dio che ha ordinato il mondo, istituendo legami profondi tra tutti i suoi elementi. Per questo l’uomo medievale è portato a leggere ogni aspetto della natura come un segno di questo ordine misterioso, ad avvertirlo come denso di allusioni a sensi ulteriori. Questo atteggiamento, oltre che nella lettura del “libro” della natura, si manifesta anche nella lettura dei libri veri e propri. Dal cercare nei testi “altro” da ciò che essi dicono a prima vista deriva appunto il termine allegoria, che proviene dal greco állon, “altro”, e agoréuo, “dico”. Il metodo di lettura allegorico dei testi fu applicato dalla cultura cristiana innanzitutto alle Sacre Scritture, dove, nei fatti della storia degli Ebrei, si scorgevano significati morali; fu poi applicato anche alle opere profane della letteratura antica, come l’Eneide di Virgilio. Sin dai primi secoli del Medioevo si afferma infatti l’uso di individuare quattro livelli di senso nelle scritture, sia quelle sacre sia quelle letterarie. Come riassumerà ancora, con estrema precisione, Dante nel Convivio, ogni testo può essere interpretato secondo quattro sensi di lettura: »
un livello letterale, che riguarda il significato superficiale e immediatamente percepibile;
»
un livello allegorico, in cui la parola rimanda a un altro significato, collegato a quello letterale da un rapporto di analogia;
»
un livello morale, che dai fatti narrati e dal loro significato intende ricavare un modello di comportamento, volto a indicare un’idea del bene e della virtù;
»
un livello anagogico, relativo ai più alti misteri della religione e della fede, che risolve tutti i significati del testo alla luce della verità divina.
La lettura allegorica era applicata anche alla storia. È questa una variante particolare dell’allegoria, quella figurale. Mentre nell’allegoria vera e propria il primo termine della simbologia è fittizio e immaginario, nella visione figurale esso è un dato reale e storico. In riferimento al piano divino che regola lo svolgimento di tutta la storia umana, un determinato fatto storico viene assunto a significare altri eventi successivi; il primo sarà la “figura”, il secondo il “compimento”. Ad esempio Mosè che libera gli Ebrei dalla prigionia in Egitto è “figura” di Cristo che libera gli uomini dal peccato originale. Vedremo poi quale ruolo determinante giochi la visione figurale nella Commedia dantesca ( L’età comunale in Italia, cap. 4, p. 286).
I luoghi di produzione della cultura e le “arti liberali” Scuole parrocchiali ed episcopali
Con la disgregazione della struttura politica dell’Impero romano si verifica anche la scomparsa del sistema scolastico. Unica istituzione scolastica resta la Chiesa, che in molti casi sostituisce con le sue strutture quelle laiche ormai estinte. Esistono scuole parrocchiali, per livelli più bassi di istruzione, e scuole episcopali (istituite presso i vescovadi), per la formazione del clero. 9
Il Medioevo latino
I monasteri
Testi San Benedetto • L’importanza della lettura nelle attività del monastero dalla Regola
Al centro dell’insegnamento vi sono le “arti liberali”, così dette in quanto degne dell’uomo “libero”, cioè non obbligato a lavorare per vivere. Esse si dividono in arti del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Le prime tre sono discipline di tipo linguistico-letterario e filosofico, mentre le seconde sono di tipo scientifico. All’interno della Chiesa una funzione culturale di primo piano è esercitata dai monasteri, nei quali sorgono scuole per istruire i monaci ed efficientissimi laboratori di produzione di libri (gli scriptoria) dove alcuni monaci (detti amanuensi) si dedicano alla riproduzione dei testi copiandoli a mano ( Gli amanuensi). Si può capire che, con tale sistema, potevano essere prodotte pochissime copie. Il libro, anche a causa dell’alto costo del materiale, è un oggetto raro e prezioso, dalla circolazione limitata e difficile, e il suo valore è spesso accresciuto da immagini colorate (le miniature) opera di altri monaci che sono abilissimi artisti. Spesso i copisti non possiedono una cultura molto elevata e durante la fase di copiatura il testo può subire modificazioni e alterazioni di varia portata. Il compito di ripristinare la lezione corretta dei testi copiati dagli amanuensi verrà assunto in seguito da una vera e propria scienza dai metodi rigorosi, la filologia, che comincerà a delinearsi con Petrarca e con gli umanisti del Quattrocento. Nonostante questi limiti, i monasteri benedettini hanno una funzione insostituibile nel conservare e tramandare il patrimonio culturale dell’antichità, salvandolo da una distruzione altrimenti inevitabile. Accanto ai laboratori di produzione dei libri si collocano poi le biblioteche, che, situate all’interno dei maggiori monasteri, diventano i luoghi dove si studia e si forma il sapere.
Gli amanuensi San Matteo, 816-23, miniatura dai Vangeli di Ebbone, codice Ms. 1, Epernay (Francia), Bibliothèque Municipale.
All’inizio del IX secolo, Ebbone, arcivescovo della città francese di Reims, commissionò un evangelario noto come i Vangeli di Ebbone. Nel codice sono presenti quattro miniature a tutta pagina che raffigurano, in uno stile vivacemente espressivo, gli evangelisti intenti a redigere i loro libri. Tali immagini offrono una testimonianza visiva della tecnica di scrittura in uso nel Medioevo, nella quale erano specializzati gli amanuensi. L’attività di questi ultimi consisteva nel copiare su fogli di pergamena i testi di codici preesistenti, utilizzando una penna d’oca o una cannuccia appuntita intinta nell’inchiostro bruno; in caso di errore, cancellavano le parti sbagliate con un raschietto. Se dovevano realizzare un libro illustrato, essi lasciavano liberi gli spazi riservati alle miniature – iniziali dipinte, cornici, scene figurate – la cui esecuzione spettava a pittori attivi nello scriptorium. Gli amanuensi spesso fornivano loro anche l’indicazione del soggetto da riprodurre.
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Il contesto · Società e cultura
Gli intellettuali: chierici, goliardi e giullari I chierici
Goliardi e giullari
Poiché la Chiesa è l’unica istituzione culturale nel corso dell’Alto Medioevo, la figura dell’intellettuale, colui che si occupa in modo specialistico della produzione e della diffusione della cultura, coincide con quella dell’ecclesiastico, del chierico. La lingua della cultura è esclusivamente il latino, lingua ufficiale della Chiesa, e poiché il latino è conosciuto solo dai chierici, e tutto il resto della società, compresa l’aristocrazia feudale e i sovrani stessi, non sa né leggere né scrivere, la cultura è patrimonio di un’élite ristrettissima. La lingua parlata comunemente, il volgare, per secoli non viene impiegata per la produzione di testi scritti, tanto meno letterari; per questo bisognerà aspettare il secolo XI per la Francia, il XIII per l’Italia. Alla società “laica” la cultura arriva solo indirettamente, attraverso la mediazione dei chierici, e attraverso il canale della diffusione orale (costituito essenzialmente dalla predicazione). Ma, come avviene in tutte le culture poco alfabetizzate, a essere veicolo culturale presso gli strati più vasti della popolazione è soprattutto l’immagine: più esattamente, le decorazioni delle chiese, le sculture dei portali, delle facciate e dei capitelli, gli affreschi e i mosaici che rappresentano la vita di Cristo e dei santi, episodi dell’Antico Testamento, punizioni infernali e beatitudini paradisiache, o riportano raffigurazioni allegoriche di vizi e virtù. Accanto ai chierici occorre tener conto di figure di intellettuali collocati ai margini del potere e delle istituzioni, con le quali sono pure in contatto, in condizioni di inferiorità e precarietà: i cosiddetti chierici vaganti (clerici vagantes) o goliardi. Si tratta di religiosi che non hanno una sede e una fonte di sostentamento stabile, frati fuggiti dai loro conventi, o studenti falliti, che non hanno mai terminato gli studi. Essi conducono un’esistenza vagabonda e vivono intrattenendo con le loro produzioni letterarie un pubblico di cultura medio-alta; le tematiche tipiche della loro produzione poetica sono basate su forme di pessimismo esistenziale o di ribellione ideologica, di irriverenza verso tutto ciò che è sacro e ufficiale, che induce a trattare con immediatezza cruda e brutale gli aspetti più materiali della vita, l’amore fisico, la vita gaudente, la taverna, il gioco, il vino. La loro fisionomia non è poi molto diversa da quella dei giullari, che, nelle piazze o nelle corti signorili, improvvisano veri e propri spettacoli di intrattenimento, in cui si mescolano la recitazione e il canto, o anche il mimo e l’esercizio fisico. La sola differenza è che i giullari si rivolgono a un pubblico che non conosce il latino e usano le lingue volgari.
Facciamo il punto 1. Quali sono le principali caratteristiche del sistema feudale? 2. Com’è organizzata la società in epoca medievale? 3. Quale andamento ha l’economia nel corso del Medioevo? 4. Quale visione del mondo e quale concezione del sapere si affermano nell’Alto Medioevo? 5. Quale ruolo svolgono la Chiesa e l’Impero fino al XII secolo? 6. Che cosa si intende per “allegorismo”? 7. Chi sono i chierici? Chi sono i giullari?
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Il contesto
Storia della lingua e fenomeni letterari
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L’idea della letteratura e le forme letterarie La concezione della letteratura
La separazione degli stili
Testi Cassiodoro • La poetica degli stili dalle Variae
L’elevazione stilistica della prosa latina
Durante il Medioevo è del tutto assente l’idea, che è propria delle concezioni moderne, della specificità e dell’autonomia della letteratura. Non risulta ancora chiaro, infatti, il confine che distingue la letteratura dalle altre forme culturali che si esprimono in opere scritte, come la filosofia, la storia, le scienze. Alla letteratura sono perciò assegnati compiti strumentali (l’edificazione morale e religiosa, l’insegnamento di nozioni scientifiche e filosofiche), per cui le opere poetiche sono in genere dense di contenuti dottrinali. Per quanto riguarda gli aspetti formali, la poesia medievale trae dalla retorica classica il principio della separazione degli stili. Ne troviamo una prima definizione proprio agli inizi del Medioevo, nel proemio che Cassiodoro, un intellettuale vissuto nel VI secolo alla corte del re ostrogoto Teodorico, premette alla Variae, una raccolta di lettere ufficiali, scritte in un latino che risente del modello ciceroniano. Il criterio basilare è che lo stile deve corrispondere alla materia trattata; per cui vengono distinti tre livelli stilistici: quello sublime, destinato ad argomenti elevati, quello medio e infine quello basso, adatto ad argomenti quotidiani e comuni. La prosa latina, sia che si trattasse di opere dottrinali, sia di documenti ufficiali (decreti e leggi imperiali, epistole diplomatiche ecc.), mirava sempre a un’altissima dignità stilistica ed era elaborata in modo estremamente artificioso, facendo ricorso alle più varie figure retoriche.
I generi letterari della produzione latina Nella produzione latina medievale vi è una differenziazione notevole di forme letterarie. Data la visione religiosa che permea tutta la spiritualità medievale, gran parte di queste forme sono collegate con le esigenze del culto. È possibile distinguere alcuni generi di grande diffusione nei primi secoli del Medioevo: »
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l’agiografia: si tratta del racconto delle vite dei santi, in cui ha larga parte il sovrannaturale miracolistico e che spesso sfuma in un clima fiabesco e leggendario, attingendo al patrimonio dell’immaginario popolare; l’exemplum: è un racconto di vicende esemplari che ha finalità morali ed edificanti; questi esempi venivano raccolti in repertori, da cui attingevano soprattutto i predicatori per rendere più concrete ed efficaci le loro prediche e per colpire la fantasia dei loro ascoltatori; le “visioni”: contengono le descrizioni dei regni dell’oltretomba, delle pene infernali e delle gioie del paradiso (a questo genere si collegherà ancora la Commedia dantesca);
Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari
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Testi San Tommaso • La verità dalla Summa Theologiae
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Arte Figurazioni dell’immaginario medievale
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gli inni liturgici: venivano cantati nelle cerimonie del culto (come quelli di sant’Ambrogio); le opere teologiche: dibattono problemi religiosi e filosofico-teologici (ad esempio le Confessioni di sant’Agostino e la Summa Theologiae – Trattazione complessiva della teologia – di san Tommaso d’Aquino); i bestiari, i lapidari, gli erbari: sono una sorta di enciclopedie dove si descrivono i significati simbolici e morali degli animali, spesso del tutto fantastici, delle pietre, delle piante; anch’esse sono permeate da un profondo spirito religioso e sono fondate su una visione simbolica del mondo naturale; le cronache, le opere storiografiche: si tratta per lo più della semplice registrazione dei fatti accaduti in un ristretto ambito territoriale, quasi sempre accompagnato da un’interpretazione provvidenzialistica; la poesia goliardica: è un genere di carattere esclusivamente profano, spesso in violenta contrapposizione polemica e parodica con la letteratura religiosa.
La voce dei testi | Opera: Fisiologo
Immaginario ed enciclopedismo medievali Uno dei testi che costituì il modello dei bestiari medievali è il Fisiologo (operetta anonima del II secolo d.C., scritta in greco), di cui riportiamo la descrizione della balena.
C’è un mostro nel mare detto balena: ha due nature. La sua prima natura è questa: quando ha fame, apre la bocca, e dalla sua bocca esce ogni profumo di aromi, e lo sentono i pesci piccoli e accorrono a sciami nella sua bocca, ed esso li inghiotte; non mi risulta invece che i pesci grandi e adulti si avvicinino al mostro. […] 5 L’altra natura del mostro: esso è di proporzioni enormi, simili a un’isola; ignorandolo, i naviganti legano ad esso le loro navi, come in un’isola, e vi piantano le ancore e gli arpioni; quindi vi fanno fuoco sopra per cuo10 cersi qualcosa: ma non appena esso sente caldo, s’immerge negli abissi marini e vi trascina le navi. Se dunque anche tu, o uomo, ti tieni sospeso alle speranze del demonio, questi ti trascina con sé nella geenna1 del 15 fuoco. Il Fisiologo, trad. it. di F. Zambon, Adelphi, Milano 1982
La balena, 1210 ca., miniatura tratta dal Bestiario Ashmole, codice Ashmole 1511, Oxford, University, Bodleian Library.
1. geenna: valle a Sud-Ovest di Gerusalemme, dove un tempo si offrivano sacrifici umani al dio Moloch; vi
ardeva continuamente il fuoco ed è quindi diventata, nei Vangeli, l’equivalente dell’inferno.
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Il Medioevo latino
Guida alla lettura Simbolismo della natura e simbolismo degli animali Il mondo, nella cultura medievale, è
concepito come un libro, fatto di segni che devono essere interpretati. La natura è piena di sovrasensi e di significati simbolici, che rinviano a una dimensione ultraterrena. Soprattutto gli animali vengono investiti di qualità simboliche, che riguardano sia l’essenza della divinità, sia il piano della creazione; per quanto si riferisce agli uomini, in particolare, gli attributi possono essere positivi o negativi, a seconda che rispecchino delle virtù o dei vizi. L’animale si presta a questa doppia interpretazione: da un lato è inferiore all’uomo, in quanto la sua condotta obbedisce ciecamente agli istinti; dall’altro sembra più vicino al mistero della natura e alle origini stesse del mondo primordiale. Animali = figure Proprio perché gli animali appaiono come “figura” o proiezione di un’altra realtà, non conta, in primo luogo, la verifica dei caratteri che vengono loro attribuiti: non solo sono descritte con sicurezza le abitudini di animali mai visti, ma gli stessi animali comuni e ben noti presentano tratti inventati e del tutto fantastici, per ricavarne comunque significati sovrasensibili. L’ascetismo Nella parte finale del testo si richiama l’uomo a non cadere nei tranelli del demonio, a non farsi illudere da una vita piena di piaceri, perché ciò che attende chi non ha seguito Dio è il fuoco della «geenna», cioè l’inferno. Il fine della vita umana nella mentalità medievale non è la felicità su questa terra, ma il raggiungimento della salvezza dell’anima. Di qui il rifiuto di tutto ciò che è immanente e lo sguardo volto verso il trascendente, di qui il disprezzo del mondo identificato col demonio che impedisce il raggiungimento del divino.
2 Filo rosso Storia della lingua Latino e volgare Latino letterario e latino parlato
La frammentazione linguistica
Il Concilio di Tours
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La lingua: latino e volgare La nascita delle lingue nazionali Nei primi secoli del Medioevo la lingua della cultura era esclusivamente il latino, impiegato da una ristretta cerchia di intellettuali, mentre tutto il resto della popolazione lo ignorava e usava per le necessità quotidiane della vita associata altre parlate, dette volgari. Già nel corso della civiltà romana, del resto, è possibile distinguere il latino letterario, usato dai grandi scrittori o nei documenti ufficiali, dal latino parlato correntemente. Durante i secoli dell’Impero questo latino parlato (sermo vulgaris) presenta una miriade di varietà locali, influenzate principalmente delle parlate precedenti alla conquista romana (lingue di sostrato). Con il crollo dell’Impero la frantumazione politica e l’indebolimento del sistema amministrativo e scolastico fanno sì che ogni regione resti praticamente isolata: ne deriva un’estrema frammentazione linguistica che non può più essere contrastata dall’uso del latino ufficiale come base comune di comprensione. Tutte le comunità dell’ex Impero romano sono coinvolte in questi processi di trasformazione e i linguaggi vanno sempre più distanziandosi tra di loro e dalla originaria matrice latina, anche a causa delle forti influenze esercitate dalle lingue dei popoli invasori, germani e arabi, che lasciano tracce considerevoli (lingue di superstrato). Una testimonianza preziosa a proposito della modificazione delle abitudini linguistiche è il Concilio di Tours dell’813, che prescrive ai chierici la predicazione in “lingua
Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari
romana rustica”, cioè in volgare: ne deduciamo che, a quella data, la massa della popolazione non era più in grado di comprendere il latino. Le nuove lingue si sviluppano in tutta l’area in cui si era anticamente parlato latino, quella a cui, già nella tarda età imperiale, si dava il nome di Romània: vale a dire l’Italia, la Francia (con parte del Belgio e della Svizzera), la penisola iberica e, più lontana e isolata, la Romanìa. Queste parlate daranno in seguito origine alle attuali lingue romanze: italiano, francese, provenzale, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno. Parallelamente, nei territori della Germania, Svizzera, Austria, Inghilterra, Scandinavia e Islanda si parlano volgari di ceppo germanico, e nella penisola balcanica Ugro-finnico Lingue slave e nell’Europa scandinave orientale si diffondono le lingue slave ( Distribuzione delle lingue in Europa). Estone Tutti questi linguaggi volgari, romanzi (o neolatini), germanici, slavi ecc., sono agli Lettone inizi lingue d’uso esclusivamente orale e vengono impiegati per tutte le necessità quotidiane (la lingua scritta, usata per la cultura e per i documenti ufficiali, resta ancora Lituano per molto tempo il latino). Una vera e propria rivoluzione culturale si ha quando si coInglese mincia a usare queste lingue anche per comporre opere letterarie. Da questa rivoluzioLingue slave ne nascono le letterature moderne dell’Europa. OCEANO
I volgari neolatini e le lingue romanze
occidentali
ATLANTICO
Tedesco
I primi documenti della formazione dei volgari romani Poiché le lingue romanze erano inizialmente Francese di uso soltanto orale, ci sono rimasti Magiaro rarissimi documenti della loro formazione. Le prime opere letterarie romanze, che comRumeno paiono dopo l’anno Mille, rispecchiano uno stadio già molto avanzato della lingua. Provenzale Delle fasi precedenti sappiamo poco, e soprattutto per via congetturale, cioè attraverso Lingue slave lo studio e la comparazione delle lingue Tuttavia alcuni Spagnolo volgari tra loro e con il latino. e meridionali Ita lia no documenti ci sono pervenuti: il più antico, per i volgari romanzi, riguarda il francese, Ca ta lan o
Por tog hes e
I “Giuramenti di Strasburgo”
Greco
Distribuzione delle lingue in Europa La carta illustra le
Ugro-finnico
Lingue slave scandinave
aree MARprincipali MEDITERRANEO
Estone Lettone Lituano
Russo
Inglese
linguistiche formatesi in Europa in seguito alla caduta dell’Impero romano e alle invasioni di popolazioni “barbariche” (V-X secolo).
Lingue slave occidentali
OCEANO ATLANTICO
Tedesco Francese Magiaro
Spagnolo
Ca ta lan o
Por tog hes e
Rumeno Provenzale Ita lia no
Lingue slave e meridionali
MAR NERO
Lingue romanze o “neolatine” Lingue germaniche Greco
Lingue slave Lingua greca Lingue baltiche Altri ceppi linguistici
MAR MEDITERRANEO
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Il Medioevo latino
ed è costituito dai cosiddetti “Giuramenti di Strasburgo”. Il 14 febbraio dell’842 due successori di Carlo Magno, Carlo il Calvo, sovrano della parte occidentale dell’Impero, e Ludovico il Germanico, sovrano della parte orientale, strinsero un’alleanza pronunciando una formula di giuramento dinanzi ai loro eserciti. Il giuramento venne fatto dai due re dapprima nelle rispettive lingue (in francese Carlo, in tedesco Ludovico), in modo da farsi capire dai loro soldati; poi essi si scambiarono le lingue, per impegnarsi ciascuno anche dinanzi all’esercito dell’altro: Carlo giurò in tedesco, Ludovico in lingua romanza. Uno storico del tempo, Nitardo, inserì le formule di questi giuramenti nel testo della sua cronaca in latino. Ecco il testo in antico francese: Pro deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d’ist di in avant, in quant deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo, et in adiudha, et in cadhuna cosa, sicum om per dreit son fradra salvar dift. In o quid il mi altresi fazet. Et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai qui meon vol cist meon fradre Karlo in damno sit.
Proponiamo una trascrizione nel francese moderno: Pour l’amour de Dieu et pour le salut commun du peuple chrétien et le nôtre, de ce jour en avant (dorénavant), autant que Dieu m’en donne savoir et pouvoir, je défendrai mon frère Charles, ici présent, et par aide et en chaque chose, comme on doit, par (le) droit (naturel), défendre son frère; à condition qu’il en fasse autant pour moi; et avec Lothaire je ne traiterai jamais aucun accord qui soit, par ma volonté, au préjudice de mon frère Charles, ici présent.
Ecco il testo in italiano (la versione è di Aurelio Roncaglia): Per amore di Dio e per la salute del popolo cristiano e nostro comune, da questo giorno in avanti, in quanto Dio me ne concede sapere e potere, io sovverrò questo mio fratello Carlo e d’aiuto e d’ogni cosa, come si deve secondo giustizia sovvenire il proprio fratello, a tal patto ch’egli faccia altrettanto nei miei riguardi, e con Lotario non verrò mai ad accordo alcuno che, di mia volontà, sia a danno di questo mio fratello Carlo.
I giuramenti di Strasburgo, 14 febbraio 842, manoscritto.
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Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari L’”Indovinello veronese”
Nel 1924 in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona fu scoperto il testo di un indovinello, risalente alla fine dell’VIII o al principio del IX secolo: Se pareba boves, alba pratalia araba, et albo versorio teneba; et negro semen seminaba. Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus.
Il Placito capuano
Noto come “Indovinello veronese”, è considerato da molti studiosi una delle più antiche testimonianze del volgare italiano, nonostante non presenti ancora un volgare maturo bensì una lingua di transizione fra un latino evoluto e una forma primitiva di lingua romanza. L’indovinello allude all’attività dello scrivere, e si può così rendere: «Spingeva avanti i buoi (le dita), arava bianchi prati (i fogli della pergamena), teneva un aratro bianco (la penna d’oca) e seminava un seme nero (l’inchiostro)». Dal punto di vista linguistico risulta evidente la differenza tra l’ultima riga, che contiene una formula corrente di ringraziamento a Dio in latino puro, e le quattro precedenti, che presentano già molti elementi fonetici e morfologici anticipatori di caratteristiche che saranno proprie dei volgari italiani. Si possono osservare, ad esempio, la caduta delle m finali delle desinenze di album, versorium, nigrum, e la trasformazione di u in o; parimenti è caduta la desinenza t dei verbi dell’imperfetto («araba», «teneba» ecc.). Per altro verso, del latino sono rimasti la desinenza dell’accusativo maschile plurale in «boves», quella dell’accusativo neutro plurale «pratalia», il neutro singolare «semen», la b intervocalica dell’imperfetto, che in italiano è divenuta v («teneva», «seminava»). Un documento più recente è il famosissimo Placito capuano. Nel 960, a Capua, un giudice deve decidere su una causa intentata dall’abate del monastero di Montecassino a un tale, accusato di aver occupato indebitamente terre di proprietà dell’abbazia. Nel verbale del processo ( placito, nel gergo giuridico del tempo), redatto naturalmente in latino, il giudice trascrive testualmente una testimonianza nella lingua in cui è stata pronunciata, il volgare: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trenta anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto trad. it. di A. Roncaglia
A livello linguistico nel placito si colgono notevoli trasformazioni rispetto all’indovinello veronese, anteriore di più di un secolo: si tratta ormai di un volgare italiano nettamente distinto dal latino.
Facciamo il punto 1. In che cosa consiste il principio della “separazione degli stili”? 2. Quali sono i generi letterari fondamentali nella produzione latina medievale? 3. Quali sono le finalità dell’exemplum? 4. Quali caratteristiche ha il genere dei bestiari? 5. In che modo nascono le lingue nazionali? 6. Che cosa sono le lingue romanze? 7. In quale lingua è scritto l’”Indovinello veronese”? A quale epoca risale? 8. Che cos’è il Placito capuano?
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Il Medioevo latino
Ripasso visivo
IL MEDIoEVo LATIno (V-XI SECoLo)
PoLITICA, EConoMIA E SoCIETà
• crollo definitivo dell’Impero Romano d’Occidente • invasioni da parte delle popolazioni germaniche • formazione dei regni romano-barbarici • Carlo Magno diventa imperatore del Sacro Romano Impero (800 d.c.)
• affermazione del sistema feudale • divisione della società in classi sociali rigide e
– sacerdoti – guerrieri – contadini • arretratezza dei modi di produzione • economia basata sull’agricoltura e sull’autoconsumo • progressivo calo demografico a causa di frequenti carestie e pestilenze
statiche:
CuLTurA E MEnTALITà
• visione teocentrica del mondo • esaltazione del sapere teologico • concezione trascendente della realtà:
– interpretazione simbolica del mondo – lettura allegorica dei testi antichi • atteggiamento ascetico: – disprezzo dei beni materiali e dei piaceri mondani – esaltazione della vita ultraterrena • affermazione del principio di autorità
• elaborazione di posizioni critiche nei confronti della cultura ufficiale (il carnevalesco)
• concezione elitaria della cultura • pubblico dotto e poco numeroso • affermazione della figura del chierico • egemonia dei monasteri come luoghi di elaborazione culturale: – studio degli autori antichi – riproduzione e conservazione dei testi scritti
LInGuA E LETTErATurA
• resistenza del latino come unica lingua di cultura • affermazione del volgare nell’uso orale • formazione delle lingue romanze
(italiano, francese, provenzale, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno) • contenuti dottrinali e intento edificante delle opere letterarie • pochi generi letterari: ProSA • agiografia
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• exemplum • opere teologiche • bestiari • lapidari • erbari • cronache PoESIA • poesia liturgica • “visioni” • poesia goliardica
In sintesi
IL MEDIoEVo LATIno (V-XI SECoLo) Verifica interattiva
EVoLuzIonE DELLE STruTTurE PoLITIChE l’inizio del Medioevo è fissato al 476 d.c. con la deposizione dell’ultimo imperatore romano d’occidente in seguito alle invasioni delle popolazioni germaniche e alla formazione dei regni romano-barbarici. la prima parte di questo lungo periodo della storia europea è definita alto Medioevo (dal 476 all’anno 1000) e i suoi primi secoli sono caratterizzati da un panorama politico e culturale estremamente frammentato, almeno fino all’anno 800, quando carlo Magno diventa imperatore del Sacro romano Impero, un organismo politico unitario che comprende i territori della Francia, della germania e dell’Italia. Per compensare i guerrieri che lo avevano sostenuto nelle imprese di conquista, carlo Magno assegna loro in godimento porzioni di territorio, definite con termine germanico “feudi”. Questi domini, in seguito ereditari, accentuano la frammentazione politica e determinano un clima di perpetua instabilità, dovuta ai frequenti conflitti dei feudatari tra loro e con il sovrano. l’assetto feudale è dunque caratterizzato da un debolissimo potere centrale, contrastato dal potere dei numerosi signori locali, che nei propri territori sono dei veri sovrani, con il diritto di esigere imposte, di assoldare milizie, di amministrare la giustizia.
SoCIETà ED EConoMIA la società medievale è fortemente gerarchizzata e statica; la popolazione è divisa in tre classi (guerrieri, sacerdoti e contadini) e la struttura sociale è ritenuta immutabile. I secoli dell’alto Medioevo vedono un progressivo aggravarsi della crisi economica. l’economia, rappresentata quasi esclusivamente dall’agricoltura, è chiusa, si basa sull’autoconsumo e i metodi di coltivazione sono rudimentali. le precarie condizioni di vita e le epidemie determinano un vistoso calo demografico. la situazione economica e demografica comincia a migliorare con il Basso Medioevo (dal 1000 al 1492), in concomitanza con una maggiore stabilità politica e con la cessazione delle invasioni da est.
MEnTALITà, ISTITuzIonI CuLTurALI, InTELLETTuALI E PubbLICo l’alto Medioevo è caratterizzato da una visione statica della realtà, in gran parte determinata da un atteggiamento profondamente dogmatico e religioso: poiché l’universo è stato creato da dio, esso è ritenuto perfetto e immutabile e le sue leggi non possono essere conosciute dall’uomo; l’unica verità alla quale si può avere accesso è quella rivelata da dio attraverso le Sacre Scritture. da questi presupposti risulta chiaro che l’unica sapienza a cui venga riconosciuto valore è la scienza di
dio, cioè la teologia, che contiene dentro di sé tutta la conoscenza possibile. Inoltre è molto diffusa l’abitudine di interpretare la realtà in modo simbolico, di riconoscere significati segreti nascosti dietro ogni aspetto della natura e perfino nei testi letterari della tradizione classica: da queste convinzioni deriva la tendenza medievale alla lettura allegorica, che mira a ritrovare nelle opere del passato un significato segreto che concordi con le verità rivelate. la mentalità ufficiale promossa dalla predicazione cristiana impone il disprezzo assoluto nei confronti dei beni materiali e dei piaceri mondani perché la vera vita per l’uomo sarà dopo la morte e per conquistare la salvezza della propria anima è necessario rispettare scrupolosamente la legge divina. Si oppongono a questa visione cupa e angosciante dell’esistenza terrena alcune posizioni critiche, che esaltano al contrario una concezione puramente edonistica: si tratta della poesia goliardica, che trae origine nell’ambito della cultura carnevalesca. Nel corso dell’alto Medioevo la chiesa rappresenta l’unica vera istituzione culturale e i monasteri esercitano un ruolo determinante nello studio e nella conservazione dei testi scritti, poiché al loro interno vengono creati laboratori per la produzione di libri. la figura dell’intellettuale in questo periodo coincide con quella del chierico, che è a tutti gli effetti un membro del clero. l’unica lingua usata per scopi letterari resta per molto tempo ancora il latino e l’accesso alla cultura rappresenta un privilegio concesso a una minima parte della società.
L’IDEA DELLA LETTErATurA, LE ForME LETTErArIE E LA LInGuA durante il Medioevo la letteratura non si distingue dalle altre discipline che si esprimono in forma scritta in base a un criterio di tipo artistico; per questo motivo le opere in versi o in prosa sono ricche di contenuti dottrinali e hanno come obiettivo l’edificazione morale e religiosa oppure l’insegnamento di nozioni scientifiche e filosofiche. I generi letterari di maggior diffusione in lingua latina sono: l’agiografia, l’exemplum, le “visioni”, gli inni liturgici, le opere teologiche, i bestiari, i lapidari, gli erbari, le cronache e la poesia goliardica. dal punto di vista linguistico si segnala all’inizio del IX secolo un’inversione di tendenza nei territori dell’ex Impero romano: nell’uso orale si sostituiscono al latino le parlate volgari locali, che daranno in seguito origine alle lingue romanze e che saranno utilizzate per comporre opere letterarie. da questa rivoluzione nascono le letterature moderne dell’europa.
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L’età cortese XI - XIII secolo
TOLEDO
LISBONA
CORDOVA
CORDOVA • È uno dei più grandi centri culturali della Spagna medievale. Nel XII secolo circola presso tutte le maggiori corti spagnole il poema epico anonimo Cantare del Cid.
VALENCIA
I luoghI della cultura AMBURGO LONDRA
PARIGI • Nell’area settentrionale della Francia si sviluppano la lirica e il romanzo cortese in lingua d’oïl. Da qui si diffondono in tutta Europa le chansons de geste e i romanzi bretoni di Chrétien de Troyes. PRAGA
PARIGI
AUGUSTA
BORDEAUX
BOLOGNA • Nel 1088 viene fondata la più antica Università d’Europa, meta di tanti studenti provenienti da tutta Italia e non solo.
LIONE MILANO
VENEZIA
TOLOSA
BOLOGNA PROVENZA
PROVENZA • Nel Sud-Est della Francia fiorisce la letteratura provenzale in lingua d’oc, diffusa soprattutto dai trovatori in viaggio presso le corti francesi ed europee.
LUCCA PISA
FIRENZE SIENA ASSISI
FIRENZE • Grazie alla fortissima crescita del commercio e dell’artigianato, il potere economico e politico della città cresce esponenzialmente. Firenze diviene così un polo di attrazione anche per gli uomini di cultura.
PALERMO • Con la conquista normanna la città diventa il polo culturale più importante del Mediterraneo, centro di diffusione di conoscenze artistiche e scientifiche che confluivano dai paesi arabi e bizantini.
ROMA
NAPOLI
PALERMO
NAPOLI • La città, che nel XII secolo vede il passaggio dalla dominazione sveva a quella angioina, acquisisce il titolo di capitale del Regno e accresce così la sua influenza in ambito politico e culturale.
Il contesto
Società e cultura
1
Le trasformazioni sociali
Il contesto sociale I presupposti culturali e sociali della letteratura in volgare
Si è visto che nell’Alto Medioevo, fino almeno al secolo XI, la cultura è monopolio della Chiesa, che la figura dell’intellettuale si identifica con quella del chierico e che la sua lingua esclusiva è il latino. La maggioranza della popolazione tuttavia non è più in grado di comprendere il latino, ma impiega altre parlate (i cosiddetti “volgari”) confinate a un uso solo orale e destinate alle finalità pratiche quotidiane. Perché si passi a usare il volgare anche per scopi culturali, e in particolare letterari, occorrono due condizioni: che un nuovo gruppo sociale, “laico”, abbastanza forte e fornito di una chiara coscienza di sé, senta il bisogno di esprimere la propria visione della vita e i propri valori; che ci sia un pubblico “laico”, di lingua esclusivamente volgare, che proponga una domanda di opere letterarie. Nei paesi dell’area linguistica romanza queste condizioni si verificano storicamente per la prima volta in territorio francese verso la fine dell’XI secolo. In Francia è infatti particolarmente sviluppata e forte la società feudale e il ceto dominante è composto da un’aristocrazia di origine guerriera, ma questa con il passare del tempo si dimostra insufficiente per sopperire ai bisogni di continue guerre. Il Fondazione Sorge a Bologna la prima università italiana dell’ordine (1088) monastico dei Basilica di Sant’Ambrogio a Milano: Cistercensi il Romanico giunge a piena maturità (1080) (1098)
Cultura Letteratura
Visione d’insieme
Chansons de geste: poemi cavallereschi in lingua d’oïl (XI secolo)
Chanson de Roland: poema del ciclo carolingio in lingua d’oïl (inizio XII secolo)
Storia e Società
Ripresa economica e incremento demografico (dopo il Mille)
Scienza e Tecnica
1000
Diffusione in Europa dell’aratro pesante e della rotazione triennale della semina (X-XI secolo)
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Intensificazione della Reconquista cristiana della Spagna (1031)
Scisma tra Chiesa cattolica e ortodossa (1054)
A Milano prende il via il movimento della Patarìa (1056-75)
Costruzione di grandi cattedrali in Italia (Aosta, Bari, Modena, Pisa, Venezia – XI secolo)
Inizia la lotta per le investiture tra Chiesa e Impero (1075)
Prima crociata (1096-99)
Il contesto · Società e cultura
Il codice cavalleresco
vecchio ceto feudale viene perciò lentamente affiancato nel controllo dei territori dalla cavalleria, la parte più importante degli eserciti, costituita dai soldati a cavallo. Entrano a far parte di questa nuova classe militare i figli non primogeniti dell’antica classe nobiliare, esclusi dalla successione ereditaria dei feudi, e gli appartenenti agli strati inferiori della nobiltà, che non avevano mai posseduto dei feudi o li avevano perduti. È per opera di questo ceto che si forma l’ideale cavalleresco, repertorio dei valori e dei modelli di vita e comportamento che saranno cantati nella letteratura dell’area linguistica romanza. I valori fondamentali del mondo cavalleresco possono essere considerati: »
la prodezza, vale a dire il valore nell’esercizio delle armi, il coraggio e lo sprezzo del pericolo;
»
la sete di gloria e il senso dell’onore, da tutelare ad ogni costo e con ogni mezzo;
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la lealtà, il rispetto dell’avversario e del codice minuzioso che regola il combattimento;
»
la generosità con i vinti;
»
il rispetto della parola data;
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la fedeltà al signore o al sovrano.
Un altro principio basilare proposto dalla visione cavalleresca è che la vera nobiltà è quella dell’animo, non quella esteriore, della nascita e del tenore di vita, un presupposto destinato ad avere grandi sviluppi in seguito, nella civiltà comunale italiana, che insisterà sul valore della “gentilezza” come dato naturale della persona.
L’evoluzione del codice cavalleresco e le canzoni di gesta Il compromesso tra valori cavallereschi e religiosi
Bernardo di Chiaravalle sostiene la regola benedettina di vita monastica (inizio XII secolo)
La Chiesa tenta ben presto di operare una mediazione tra la concezione guerresca e quella cristiana. Gli originari valori guerreschi, rozzi e barbarici, vengono mitigati, ingentiliti: il cavaliere deve mettere la sua prodezza al servizio dei deboli e degli
Pietro Abelardo pone le basi della logica medievale che si affermerà nella filosofia scolastica (1121)
L’edificazione della cattedrale di Notre-Dame contribuisce in modo determinante alla diffusione dello stile Gotico francese (1163-96) Fiorisce l’attività letteraria dei trovatori in lingua d’oc come Arnaut Daniel, Jaufré Rudel e Bernart de Ventadorn (metà XII secolo)
Cantare del Cid: poema cavalleresco in volgare spagnolo (1140)
Andrea Cappellano scrive il De amore (1185) Chrétien de Troyes: autore di romanzi legati al ciclo della Tavola Rotonda (1160-80)
1100 Il Concordato di Worms tra Chiesa e Impero pone fine alla lotta per le investiture (1122)
Introduzione in Europa del mulino a vento e della carta (XII secolo)
Canzone dei Nibelunghi: raccolta di saghe mitiche e cavalleresche di tradizione germanica (inizio XIII secolo) Francesco d’Assisi scrive il Cantico di Frate Sole (1224)
1150
Seconda crociata (1147-49)
Diffusione dei movimenti religiosi ereticali “pauperistici” ed “evangelici”, come i càtari (metà XII secolo)
1200 Federico Barbarossa diventa imperatore (1152)
Inizio della costruzione della Cattedrale di Chartres (1194)
Pace di Costanza: Federico II è eletto fine della guerra imperatore (1220) tra la Lega Terza Crociata contro lombarda crociata gli albigesi e Federico (1209-28) Barbarossa (1183) (1189-92)
Leonardo Fibonacci introduce in Europa la numerazione araba (inizio XIII secolo)
Inizia la costruzione della basilica di San Francesco ad Assisi (1228)
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L’età cortese
oppressi, in particolare in difesa delle donne; la guerra non è più l’esercizio brutale della pura forza, ma deve essere indirizzata alla difesa della vera fede da tutte le insidie che la minacciano. Nasce inoltre il concetto di “guerra santa” contro gli infedeli musulmani che occupavano i luoghi santi in Palestina e le terre cristiane nella penisola iberica. Non è un caso che questa visione della vita si affermi proprio nel periodo storico in cui cominciano a essere organizzate le prime crociate, attraverso le quali la casta militare della cavalleria acquista un ruolo sociale determinante. Proprio in concomitanza con le crociate nascono infatti in Francia le prime grandi opere letterarie in volgare, le canzoni di gesta, poemi epici che esaltano le imprese di eroici cavalieri in difesa della fede.
Gli ideali della società cortese
La vita di corte e i suoi ideali
Il culto della figura femminile
Le canzoni di gesta riflettono forme di vita feudale ancora semplici, fortemente caratterizzate dallo spirito di una casta militaresca. Ma col passare dei decenni, nel corso del XII secolo, si affacciano modelli di comportamento più raffinati ed eleganti. I valori cavallereschi della classe feudale, trapassano nell’ideale cortese (così chiamato perché i centri della vita associata sono le corti dei grandi signori feudali del Sud e del Nord della Francia), che ne è lo sviluppo e il compimento, e rappresenta la visione più matura della civiltà feudale. Alle virtù tipicamente militaresche, come la prodezza, l’onore e la lealtà, che continuano a esercitare grande fascino, si aggiungono altre virtù per così dire “civili”: »
la liberalità: il disprezzo di ogni meschino attaccamento all’interesse materiale e la generosità disinteressata nel donare;
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la magnanimità: la capacità di compiere gesti sublimi di rinuncia e di sacrificio, che rivelano la mancanza di ogni gretto interesse egoistico;
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il culto della misura: il sapiente dominio di sé, l’atteggiamento signorile che non scade mai in eccessi ritenuti volgari; il culto delle forme di vita lussuose e squisite, delle belle cose, cibi, vesti e così via.
La cortesia è un ideale di pochi, di un’élite gelosamente chiusa, che respinge tutti coloro che non sono spiritualmente all’altezza di quei valori e stili di vita. Costoro vengono sprezzantemente definiti “villani”: infatti la “villa”, cioè la campagna, abitata dai contadini che lavorano, è ritenuta il luogo per eccellenza della rozzezza. L’antitesi cortesia/ villania è uno dei fondamenti della concezione della vita di questa élite, e avrà un’importanza centrale anche nelle sue espressioni letterarie. In questa concezione acquista un rilievo primario la donna, che nelle rudi idealità militaresche della cavalleria originaria non aveva posto (se non come creatura debole da difendere), mentre ora diviene il simbolo stesso della “cortesia” Scena di corte, XIII secolo, affresco, part., Atina (FR), Museo Civico Archeologico.
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Il contesto · Società e cultura
e della “gentilezza”, il soggetto intorno a cui ruota tutto questo sistema di virtù; anzi, è ritenuta addirittura la fonte da cui esse si originano, perché ingentilisce tutti coloro che vengono in contatto con lei. Questo culto riflette il nuovo ruolo che la donna di aristocratica condizione assume all’interno della corte. Essa, pur essendo priva del potere reale, che resta in mano all’uomo, diventa il centro ideale della vita associata delle élites, specie quando il signore è assente per lunghi periodi. Il culto della donna diviene il tema dominante della letteratura di questo periodo, e si traduce in una particolare concezione dell’amore.
2 Gli aspetti basilari dell’amor cortese
L’amor cortese Il codice dell’amore cortese L’amor cortese è una concezione che appare per la prima volta, nel corso del XII secolo, nella poesia lirica dei trovatori ( La lirica provenzale, p. 31) provenzali, nella Francia meridionale, ma avrà poi lunga fortuna, sia nella letteratura del Nord della Francia sia nelle tradizioni poetiche italiana e germanica. Questa concezione subisce, a seconda delle epoche e degli ambienti, numerose trasformazioni, ma si possono riconoscere alcuni aspetti basilari: »
la donna è vista dall’amante come un essere sublime e irraggiungibile, in certi casi addirittura divino, tale da produrre effetti miracolosi e da essere degno di venerazione (culto della donna). L’uomo si pone pertanto in un atteggiamento di inferiorità rispetto alla donna amata, presentandosi come suo umile servitore; la sua sottomissione e la sua obbedienza alla volontà della donna sono totali (“servizio d’amore”). Talora l’uomo può innamorarsi della donna senza mai averla vista, solo per fama, e adorarla di lontano;
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nella sua totale devozione, l’amante non chiede nulla in cambio dei suoi servigi. L’amore è perpetuamente inappagato. Non si tratta tuttavia di amore spirituale, platonico, anzi, l’amore presenta spesso accese note sensuali, ma il possesso della donna è destinato a non concretizzarsi; l’amore impossibile genera sofferenza, tormento perpetuo, ma anche gioia, una forma di ebbrezza ed esaltazione, di pienezza vitale;
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l’esercizio di devozione alla donna ingentilisce l’animo, lo nobilita, lo purifica di ogni viltà o rozzezza. Amore si identifica infatti con “cortesia”: solo chi è cortese può amare “finamente”, ma a sua volta l’“amor fino” (la fin’amor, in provenzale) rende cortesi;
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si tratta di un amore adultero, che si svolge rigorosamente al di fuori del vincolo coniugale; anzi, si teorizza che nel matrimonio non può esistere veramente “amor fino”. Ciò si spiega anche storicamente col fatto che, nelle classi alte, il matrimonio era un puro e semplice contratto, stipulato per ragioni dinastiche o economiche. Il carattere adultero dell’amore esige il segreto, che tuteli l’onore della donna; per questo il suo nome non viene mai pronunciato dai poeti: alla donna si può alludere solo attraverso uno pseudonimo (senhal), per timore dei “malparlieri” (lauzengiers) che possono spargere dicerie maligne;
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l’amore è una passione esclusiva, totale, esaltante, dinanzi a cui tutto si svaluta, tanto che si parla appunto di “culto della donna” e di “religione dell’amore”: nasce così un conflitto tra amore e religione, tra culto per la donna e culto per Dio. È significativo che la Chiesa condanni l’amor cortese, come fonte di peccato e perdizione; a sua volta l’amante cortese sente questo antagonismo insanabile coi princìpi religiosi e ne prova un senso di colpa. 25
L’età cortese
La voce dei testi | Autore: Andrea Cappellano | operA: De amore, III, IV, VIII, X
Natura dell’amore e regole del comportamento amoroso Vissuto nella seconda metà del secolo XII, l’autore si può forse identificare con andrea di luyères, cappellano (di qui il nome con cui è conosciuto) della contessa Marie de champagne. Verso il 1185 scrisse, in tre libri, il trattato De amore o De arte honeste amandi (“l’amore” o “l’arte di amare onorevolmente”), in cui fissava le norme e i canoni dell’amore “cortese”, ritrattandoli poi nell’ultimo libro. condannata dalla chiesa, per l’affermazione di princìpi contrari all’ortodossia religiosa, l’opera ottenne uno straordinario successo, permeando profondamente la sensibilità e la cultura idealistico-aristocratica del Medioevo. tradotta ben presto dal latino nelle principali lingue europee, determinò il modo di impostare e di esprimere il rapporto fra amore e letteratura, esercitando direttamente il suo influsso fino alla trattatistica amorosa del rinascimento. alla definizione dell’essenza e degli effetti dell’amore, che si trova all’inizio del trattato, segue un elenco di precetti, che trasferiscono il discorso teorico-concettuale sul piano pratico del comportamento. I passi sono tratti da un volgarizzamento del XIII secolo.
Amore si è una passione naturale1, la quale si muove per veduta2 o per grandissimo pensiero di persona ch’abia altra natura3, per la quale cosa alcuno desidera d’averla sovre4 ogne altra cosa: ciò che ll’amore demanda per lo volere d’ambendui5. […] Che l’amore sia passione, lieve6 cosa è da vedere: imperciò che anzi che ll’amore tocchi7 5 ambendue le parti, niuna è magiore angoscia8, perciò che l’amante sempre teme che l’amore suo non vegna a compimento e che non lavori invano9. Anche teme lo romore10 della gente, anche teme ogn’altra cosa che nuocere li potesse per alcuno11 modo, perciò che lle cose che non sono compiute, per poca cosa vegnono meno. […] Questo è l’efetto dell’amore, che quelli ch’è diritto12 amante non può essere avaro, e 10 quelli ch’è aspro e no adorno e quelli ch’è di vil gente, sì ’l fa ben costumato13; e superbi fa14 1. naturale: che deriva dalla natura, innata (è questa la parola usata nel testo latino). 2. si muove per veduta: nasce dalla vista. 3. natura: sesso. 4. sovre: al di sopra di. 5. ciò che … ambendui: questa cosa l’amore richiede attraverso la volontà di entrambi (gli innamorati). 6. lieve: facile. 7. imperciò … tocchi: poiché prima che l’amore colpisca, coinvolga. 8. niuna … angoscia: nessuna sofferenza è più grande. 9. non vegna … invano: non giunga a buon fine (non si realizzi) e che si affatichi invano. 10. lo romore: le parole, le chiacchiere. 11. per alcuno: in qualche. 12. diritto: vero. 13. quelli … costumato: l’amore (soggetto sottinteso) nobilita, rende di nobili costumi (ben costumato) chi è rozzo, privo di grazia e di bassa condizione sociale (di vil gente). 14. superbi fa: i superbi rende.
Il congedo del cavaliere dall’amata, 1310-20, miniatura dal Codex Manesse, codice Pal. germ. 848, Heidelberg (Germania), Universitätsbibliothek.
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Il contesto · Società e cultura
umili e l’amoroso molti servigi fae con umilitade ad altrui. Molto è gran cosa l’amore, che fa l’uomo così vertudioso15 e ben costumato. Anche ne l’amar è16 una cosa molto da laudare, che fa l’amante quasi casto, perciò che quelli ch’è inamorato a pena17 potrebe pensarse a un’altra, e a pena può sofferire18 lo suo animo di guatare19 un’altra. 15 […] Aliquanti20 dicono che in cinque modi s’aquista l’amore, cioè per bellezza, per belli21 costumi e per savere bene parlare e per ricchezza e se la femina si dà tosto22 a l’uomo. Ma mia sentenzia è di23 tre primi modi che l’amore s’aquisti, e non per li due ultimi, sì come t’è mostrato en su’ luogo24. […] E sappie che sono .xiij25. i principali comandamenti de l’amore: Fugire come tempesta l’avarizia ed eser largo26. II Schifare al postutto27 di dire bugia. III Non dir mal d’altrui. IV Non mettere in boce gli amanti28. V Non manifestare il tuo amore a più d’uno. 25 VI Servare castitade29 al tuo amante. VII Non turbare con tua saputa30 l’amore altrui ch’è compiuto31. VIII Non volere amar femina che sia tua parente. IX Ubidire in tutto li comandamenti delle donne. X Sempre ti pena32 di volere amare. 30 XI Sie cortese e gentile in tutte cose. XII Non ti storre di fare sollazzi33 d’amore secondo che34 vuole lo tuo amante. XIII E non ti vergognare di dare e di ricevere sollazzi d’amore. 20 I
15. vertudioso: virtuoso. 16. Anche … è: nell’amore c’è ancora. 17. a pena: a malapena. 18. sofferire: tollerare. 19. guatare: guardare. 20. Aliquanti: alcuni (latinismo). 21. belli: onesti e lodevoli. 22. si dà tosto: si concede subito. 23. mia sentenzia è di: il mio parere è che (solo) attraverso i (il che è posposto). 24. t’è … luogo: ti sarà mostrato a suo luogo.
25. .xiij: tredici (scritto in numero romano). 26. largo: generoso, liberale. 27. Schifare al postutto: evitare in tutti i modi. 28. Non mettere … amanti: non diffondere voci, dicerie, sugli amanti. 29. Servare castitate: conservare fedeltà. 30. con tua saputa: coscientemente. 31. ch’è compiuto: che è perfetto in se stesso. 32. ti pena: sforzati. 33. Non ti storre … sollazzi: non rinunciare a fare piaceri. 34. secondo che: come.
Guida alla lettura Amore “naturale” Il trattato sull’amore, che ha lo scopo di offrirne una compiuta e sistematica rappresentazione, riguarda la sua origine e la sua essenza, gli effetti che ne derivano, i modi delle manifestazioni, la conoscenza delle sue alterazioni. Di questo sentimento viene sottolineato il carattere “naturale”, inteso come forza della natura, superiore a ogni altro vincolo o convenzione sociale (le conseguenze sono importanti, dal momento che l’amore teorizzato da Andrea Cappellano si colloca al di fuori e al di sopra del matrimonio, ponendo al vertice delle proprie aspirazioni la conquista e il “servizio” nei confronti della donna sposata). Amore = passione L’amore è visto insieme come “passione” (nel senso etimologico di sofferenza), fonte di una incertezza e instabilità da cui sprigionano angoscia e paura, sia quando venga corrisposto (per il timore di perdere la donna amata), sia quando rimanga insoddisfatto, accrescendo il tormento dell’amante.
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Amore = cortesia L’amore resta comunque il principale strumento di affinamento e di ele-
vazione morale, la cui compiutezza, espressa da una raffinata sensibilità e da aristocratiche maniere, coincide integralmente con la virtù “cortesia” ( pp. 24-25); da questi valori – e MARdella MEDITERRANEO non dalla ricchezza o dal ruolo sociale – deriva la vera nobiltà dell’uomo, identificato con il perfetto amante (è l’origine della contrapposizione fra nobiltà dell’animo e nobiltà del sangue, che verrà poi sviluppata da Guido Guinizzelli, L’età comunale in Italia, cap. 2, T6, p. 152). Codificazione dell’Amore L’impostazione teorica e trattatistica dell’opera giunge ad una minuta classificazione della casistica amorosa, fino a codificarla nella forma sintetica e imperativa di insegnamenti o precetti. È certo arbitrario stabilire un rapporto di dipendenza con le “tavole della legge”, date da Dio a Mosè sul monte Sinai; ma non si può dimenticare che il De amore ha fissato il rituale di una specie di religione, quella dell’“amore cortese”, che contravviene vistosamente, almeno in alcuni punti, ai comandamenti del decalogo. Questa morale laica viene destinata ai lettori del trattato che, essendo scritto in latino, sono necessariamente un’élite colta e aristocratica.
La genesi dell’amor cortese Interpretazioni contrastanti
È difficile spiegare come sia nata la concezione dell’amor cortese, tra XI e XII secolo. Al riguardo le interpretazioni sono state molte e contrastanti, senza che una soluzione definitiva sia ancora stataMARE trovata. DEL NORD
Le poetiche dell’amor cortese Lirica provenzale in lingua d’oc Lirica e romanzo cortese in lingua d’oïl Lirica in lingua provenzale Minnesang: poesia d’amore germanica Scuola siciliana Scuola toscana e «dolce stil novo» OCEANO ATLANTICO
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La carta mostra le principali aree d’influenza della concezione dell’amor cortese, sorta in Provenza nel XII secolo. La fortuna della lirica provenzale fu favorita dalla crociata contro gli albigesi (ossia i seguaci dell’eresia càtara, diffusa in Provenza), all’inizio del XIII secolo, in seguito alla quale molti trovatori furono costretti a cercare fortuna in altre regioni d’Europa, tra cui l’Italia.
Il contesto · Società e cultura
Secondo un’interpretazione politica l’amor cortese non sarebbe che la trascrizione metaforica, nel rapporto amoroso con la donna, del rapporto che lega vassallo e signore. Infatti la servitù d’amore, l’omaggio e la sottomissione dell’amante ricalcano da vicino le forme dei rapporti feudali di vassallaggio. Viene riprodotto perfino il linguaggio: il trovatore, ad esempio, si rivolge all’amata con l’appellativo di midons, che significa “mio signore”, al maschile. Un’interpretazione psicosociologica vedrebbe poi nelle corti e nei castelli una scarsa presenza femminile in un contesto per lo più maschile composto di parecchi uomini giovani, celibi e di condizione inferiore. La castellana è il centro intorno a cui tutto si raccoglie. Cavalieri e trovatori rendono omaggio alla dama nobile e colta, ricca e potente: «il pensiero sempre presente che la donna appartiene a uno e a uno solo, non può non suscitare una tensione erotica, che per lo più, non potendo trovare altro sbocco, si sublima nell’espressione dell’amor cortese» (Hauser). Altri invece hanno visto l’origine dell’amor cortese nell’influenza della poesia amorosa araba, altri nella devozione mistica alla Vergine (ma forse è vero l’opposto: la devozione alla Madonna ricalca le forme del contemporaneo amor cortese); altri ancora l’hanno messo in relazione con l’eresia càtara, sviluppatasi appunto in Provenza negli anni della fioritura della lirica trobadorica, ed hanno letto tale poesia come trascrizione cifrata delle dottrine mistiche professate dai càtari. Ricordiamo infine l’interpretazione sociologica di Erich Köhler, secondo cui l’amor cortese rappresenta la spiritualizzazione di aspetti economici e sociali fondamentali nella società feudale. La poesia d’amore sarebbe espressione di uno specifico gruppo sociale, una piccola nobiltà che non può più aspirare al feudo: l’irraggiungibilità della donna sarebbe la trascrizione metaforica di questa frustrazione sociale. Ma, insistendo sul valore nobilitante dell’“amor fino”, questo gruppo rivendica la sua parità ideale con l’alta nobiltà. L’“onore”, non essendo più un possesso materiale e tangibile, diviene un valore morale, e come tale può essere posseduto anche da un più ampio ceto sociale.
Facciamo il punto 1. Che cosa si intende per “età cortese”? 2. Quali sono i valori fondamentali dell’ideale cavalleresco? 3. Quale evoluzione subisce il codice cavalleresco nel corso del XII secolo? Quali sono le cause di questo
cambiamento? 4. In che cosa consiste il codice dell’amor cortese? 5. Quali sono le principali interpretazioni sull’origine dell’amor cortese? 6. Che cos’è il senhal e perché viene usato?
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Il contesto
Storia della lingua e fenomeni letterari
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Le tendenze generali della produzione letteraria e i generi principali Le nuove letterature romanze e la loro circolazione europea Il costituirsi delle lingue volgari dà luogo alle nuove letterature “romanze”, che meglio riflettono le esigenze di questa cosiddetta “età di mezzo”, adeguandosi alla mentalità delle popolazioni che si stanno costituendo. Per la scarsità dei documenti storici, la letteratura può così diventare anche un sussidio importante per ricostruire non solo la storia materiale, ma anche quella delle concezioni ideologiche, della sensibilità e della spiritualità, di questo periodo di transizione. Ma soprattutto è da sottolineare il carattere europeo che questa letteratura viene assumendo, con un fitto intreccio di scambi (anche attraverso la tradizione orale) che potrebbe adesso stupire, data la difficoltà delle comunicazioni di quei tempi. Per quanto riguarda le forme e i generi delle opere scritte in lingua volgare che ottengono maggior diffusione, è possibile riconoscere tre grandi gruppi: l’epica, il romanzo cavalleresco e la lirica provenzale.
L’epica Chanson de Roland
Arte L’epopea cavalleresca nelle immagini
Altri cicli epici
Lo spirito guerresco che, specie nei primi secoli, anima la società feudale dava vita al poema epico, le cosiddette “canzoni di gesta”, che celebravano le imprese degli antichi eroi appartenenti alle casate nobiliari e che avevano il loro contenuto centrale nella guerra. Al secolo XII risale la Chanson de Roland (“Canzone di Orlando”, cap. 1, T1, p. 37), scritta in lingua d’oïl (l’antico francese diffuso nel Nord della Francia), che narra le gesta del celebre paladino di Carlo Magno; l’opera ebbe un’ampia diffusione popolare e la sua fortuna, ripresa da giullari e cantastorie, durerà nei secoli a venire. Il costituirsi delle nuove nazionalità, con il differenziarsi delle parlate, dà origine ad altri cicli epici, tra cui il cantare germanico dei Nibelunghi, che esalta le gesta dell’eroe Sigfrido, e quello spagnolo del Cid, in cui il “campione” (campeador) combatte vittoriosamente contro i Mori e gli intrighi di corte.
Il romanzo Il romanzo cavalleresco
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L’ingentilirsi dei costumi e l’emergere di più complesse esigenze culturali segnano il passaggio dall’epica a un genere nuovo, il romanzo, detto “cavalleresco” o “cortese” sia perché nasce nell’ambito della vita delle corti feudali sia perché si fa espressione di quell’ideologia dell’amore cortese che era stata codificata nel trattato De amore di Andrea Cappellano ( La voce dei testi, p. 26). In queste opere, scritte in lingua d’oïl, alla guerra, come tema dominante, si sostituisce l’amore, come espressione di sentimenti più nobili e raffinati; sulle battaglie prevalgono adesso i duelli, in cui i campioni, seguendo gli ideali dei cavalieri erranti, si battono in difesa delle donne e dei deboli. Si afferma infine nettamente l’elemento magico e
Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari
Altre tematiche romanzesche
meraviglioso (dai mostri ai prodigi, dai filtri d’amore agli incantesimi), che non è più giustificato alla luce delle intenzioni divine. Al ciclo carolingio inaugurato dalla Chanson de Roland si deve aggiungere la cosiddetta “materia bretone”, animata da re Artù e dai suoi cavalieri della Tavola Rotonda. Il più noto è Lancillotto ( cap. 1, T2, p. 46), che dà il titolo a uno dei romanzi di Chrétien de Troyes, il più importante autore della narrativa cavalleresco-cortese. Enorme diffusione europea ebbe anche la storia di Tristano e Isotta, tipica vicenda di amore e morte che ci è giunta sotto forma di diverse redazioni. Accanto alla materia di Bretagna, compare nel romanzo, e sempre in lingua d’oïl, la materia classica. Ci riferiamo al Romanzo di Tebe (ca. 1150), al Romanzo di Troia di Benoît de Saint-Maure (1160), ai Romanzi di Alessandro (1112), nei quali, per la mancanza di ogni senso della prospettiva storica, i personaggi antichi sono presentati come cavalieri cortesi, con lo stesso modo di pensare e di comportarsi.
La lirica provenzale Se il romanzo francese usa la lingua d’oïl, in lingua d’oc (parlata nella Francia meridionale) viene composta la lirica “provenzale”, che si afferma in Provenza, da dove si diffonderà poi anche in Italia. Questi poeti, i cosiddetti “trovatori” (da trobar, “comporre versi”), accompagnano con la musica i loro componimenti, che fissano nell’immaginario un repertorio di immagini, legate soprattutto alle convenzioni dell’amore cortese, destinato ad avere anche in Italia un’enorme fortuna, dalla “scuola siciliana” fino allo «stil novo».
2 I lais
Il romanzo allegorico
Generi “bassi” e tematiche “carnevalesche”
I generi minori Anche se le opere di maggior successo appartengono ai generi sopra indicati, non bisogna dimenticare che nei primi secoli della produzione in volgare sono in circolazione altre tipologie di testi. In Francia si compongono i cosiddetti lais (il termine è sinonimo di chansons), poemetti narrativi in versi, che approfondiscono l’espressione del sentimento e della sofferenza amorosa, in toni malinconici ed elegiaci. È quanto accade nei dodici lais scritti da Maria di Francia, vissuta nella seconda metà del secolo XII alla corte di Enrico II d’Inghilterra e di Eleonora d’Aquitania. Notevole successo ebbe anche il romanzo allegorico, i cui contenuti sono raffigurati per via di personificazioni e di simboli. L’esempio più importante è il Roman de la rose (“Romanzo della rosa”, cap. 1, T4, p. 57) che racconta di un sogno in cui l’innamorato cerca di entrare nel giardino di Amore per ottenere i favori della donna amata (per “cogliere la rosa”). Questa prima parte è una sorta di “arte di amare” e contiene una serie di precetti d’amore. La seconda è invece zeppa di elementi didascalici, filosofici, satirici; contiene inoltre un’esaltazione della Natura che, discostandosi dai canoni dell’amore cortese, celebra l’amore fisico e sensuale. L’opera fu molto nota e diffusa nel Medioevo; la sua parziale traduzione, verso la fine del Duecento, in volgare fiorentino, intitolata Il fiore, è stata attribuita al giovane Dante. Accanto a questi generi “alti”, in quanto rappresentano i più nobili valori culturali e sociali, si diffonde un genere nuovo che ha lo scopo di contestare in modo ironico e anticonformistico l’ideologia ufficiale: si tratta dei fabliaux (“favolelli”), brevi racconti in versi che descrivono quadretti comici e popolari con un linguaggio libero e disinibito. Intenti satirici e caricaturali, legati ai contenuti morali della tradizione favolistica, si ritrovano anche nei racconti degli animali parlanti, come quelli, di varia provenienza (elaborati fra il XII e il XIII secolo), che costituiscono il Roman de Renart (“Il romanzo di Renart”, dal nome proprio della volpe, proverbiale protagonista delle vicende; il termine diventerà in seguito il nome comune dell’animale in lingua francese). 31
L’età cortese
Ripasso visivo
L’ETÀ CORTESE (XI-XIII SECOLO)
POLITICA, ECONOMIA E SOCIETÀ
• affermazione dell’ereditarietà dei feudi • crescita del ruolo sociale esercitato dalla cavalleria • lotta per le investiture tra la chiesa e l’Impero • proclamazione delle crociate per la liberazione della terra Santa • persecuzioni contro le eresie CULTURA E MENTALITÀ
• formazione dell’ ideale cortese • diffusione del codice dell’ amor cortese • affermazione della figura del trovatore • la donna è una creatura sublime • l’amante deve assicurare devozione assoluta • l’amore deve restare inappagato • l’esperienza d’amore consente l’elevazione morale
• esaltazione della virtù della cortesia • culto della donna • importanza dell’esperienza d’amore
LINGUA E LETTERATURA
• il volgare diventa lingua letteraria • nascono le letterature romanze • si affermano nuove forme poetiche in lingua volgare: – in lingua d’oïl (Nord della Francia): • canzoni di gesta • romanzo cavalleresco • fabliaux – in lingua d’oc (o provenzale, Sud della Francia): • lirica cortese
Facciamo il punto 1. Che cosa sono le “canzoni di gesta”? A quale genere appartengono? 2. Quali sono le caratteristiche del romanzo cavalleresco? 3. Chi sono i trovatori? 4. Quali caratteristiche hanno i lais? 5. Qual è il principale esempio di romanzo allegorico? Quali caratteristiche hanno le due parti in cui si può
suddividere? 6. Che cosa sono i fabliaux?
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In sintesi
L’ETÀ CORTESE (XI-XIII SECOLO) Verifica interattiva
IL CONTESTO SOCIALE E LA NASCITA dELLA LETTERATURA IN vOLGARE l’aristocrazia di origine guerriera, che costituisce la colonna portante della società di tipo feudale, verso la fine dell’XI secolo comincia a mostrare alcuni segni di debolezza e di decadimento, soprattutto in alcune aree dell’europa. Il suo ruolo di classe dominante viene lentamente affiancato da quello di un nuovo gruppo sociale che svolge un compito di grande importanza all’interno dell’esercito: si tratta dei cavalieri, ossia i figli non primogeniti dei grandi signori feudali e coloro che, pur essendo nobili di nascita, sono privi di possedimenti territoriali. In conseguenza del rapido affermarsi di questo nuovo ceto si forma l’ideale cavalleresco, il repertorio dei valori e dei modelli di comportamento che saranno cantati a lungo nelle letterature dell’area linguistica romanza. Inizialmente la chiesa considera rozzi e barbarici gli ideali guerreschi che ispirano la mentalità cavalleresca, ma essi vengono in seguito mitigati e ingentiliti, in modo da poter indirizzare questo nuovo sistema di valori verso la difesa della fede cristiana e delle persone più deboli (soprattutto le donne).
GLI IdEALI dELLA SOCIETÀ CORTESE Nel corso del XII secolo i valori cavallereschi, modificati e corretti, si trasferiscono nell’ideale cortese, che rappresenta la visione più matura della civiltà feudale. In questa nuova concezione acquistano un rilievo primario la virtù della cortesia (un misto di liberalità, magnanimità e sen-
so della misura) e il culto della donna, che diventa l’oggetto di un amore puro e capace di nobilitare l’animo di chi si sottomette ad esso (il cosiddetto amor cortese). Questo nuovo codice amoroso – che trova la sua formulazione nel trattato De amore di andrea cappellano – appare per la prima volta nella poesia lirica dei trovatori provenzali e si diffonde velocemente nelle esperienze letterarie che nascono in territorio italiano e germanico. la donna è considerata un essere sublime e inarrivabile e l’amore che essa genera nel cuore dell’amante è destinato a restare inappagato; il premio per la devozione dell’amante non è infatti il godimento dell’amore sensuale, ma il raggiungimento di un’elevazione morale che distingue l’uomo cortese da chi è totalmente privo di nobiltà d’animo.
CARATTERISTIChE E GENERI dELLA LETTERATURA EUROPEA IN ETÀ MEdIEvALE E CORTESE Il costituirsi delle lingue volgari dà luogo alle nuove letterature romanze: le prime testimonianze di una produzione rilevante di testi scritti a uso letterario in una lingua diversa dal latino provengono dal Nord della Francia, dove si diffondono le canzoni di gesta e il romanzo cavalleresco (composti in lingua d’oïl ), e dal Sud della Francia, dove ha origine la lirica cortese provenzale, quella praticata dai trovatori (che si esprimono nella lingua d’oc).
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Capitolo 1
Le forme della letteratura cortese
1 “Canzoni” di guerra e di eroi
Le canzoni di gesta Le origini del genere Tra l’XI ed il XIII secolo in Francia si diffonde una produzione letteraria che tratta di imprese di guerra e di eroi: sono le chansons de geste, pervenuteci anonime, espresse nel volgare parlato nella Francia del Nord (lingua d’oïl), così detta dalla parola che significa “sì”, in francese moderno oui, e quasi tutte celebranti vicende avvenute secoli prima. Il termine chansons (“canzoni”) allude al fatto che questi testi venivano cantati; il termine francese geste, invece, significa “imprese compiute”; esso allude anche alle “imprese raccontate”, mentre nel linguaggio feudale la parola richiama la tradizione eroica di un’antica famiglia. Molte di queste canzoni si incentrano su Carlo Magno e i “conti palatini” del suo seguito, quelli che poi saranno chiamati “paladini”. La base delle narrazioni è dunque storica, ma non vi è assolutamente fedeltà alla storia: le vicende del passato sono trasfigurate in una luce leggendaria, ma soprattutto sulla realtà dell’epoca di Carlo Magno (l’VIII-IX secolo) vengono proiettate mentalità e usanze del presente (XI-XII secolo), in particolare lo spirito della guerra santa contro gli infedeli. Ai tempi di Carlo Magno tale spirito era totalmente assente; l’imperatore anzi aveva ottimi rapporti con i principi musulmani della Spagna. Le canzoni di gesta quindi introducono nella rappresentazione dei secoli passati lo spirito delle crociate. Questo, sia chiaro, del tutto inconsapevolmente: il poeta non immaginava che i rapporti tra cristiani e musulmani avessero mai potuto essere diversi da quelli del periodo in cui viveva. Questi poemi erano dunque l’autocelebrazione di una casta guerriera che, in un momento in cui la sua funzione era essenziale e rivestita del massimo prestigio, mirava a presentarsi in una luce ideale ed eroica. Le canzoni di gesta costituiscono, in altre parole, l’espressione della visione della vita e dei valori della classe feudale e cavalleresca al culmine della sua potenza, ne interpretano la mentalità e i gusti. Il pubblico doveva essere essenzialmente composto di vassalli militari, ma gli ideali eroici della nobiltà guerriera esercitavano un grande fascino, e queste leggende si diffusero anche presso pubblici diversi, più larghi, grazie a cantori vaganti.
Principali caratteristiche delle canzoni di gesta Aspetti formali
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La trasmissione di questi testi era orale: venivano cantati da cantori dinanzi ad un uditorio, su una semplice melodia, con accompagnamento di uno strumento musicale. Erano in versi decasillabi, raggruppati in strofe di lunghezza diseguale, dette lasse. I versi non avevano rime, ma assonanze, cioè erano legati dal ricorrere, nelle parole finali, delle stesse vocali, a partire dall’accento tonico (ad esempio: «albe» / «chevalchet» / «Carles» / «passages» / «reregarde» ecc.). Il carattere orale di questi poemi si riflette nella loro forma, nel loro linguaggio e nella loro struttura: è frequente il rivolgersi all’uditorio, ricorrono costantemente formule stereotipate, sono continue le ripetizioni,
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
Gli autori
I giullari
I cicli
indispensabili per incidere nella memoria degli ascoltatori fatti e personaggi. Però poi le canzoni furono anche fissate dalla scrittura, e grazie a questo sono giunte sino a noi. Nell’età romantica questi poemi, che ci sono giunti anonimi, erano esaltati come opere collettive dello spirito ingenuo del popolo, formatesi attraverso una lenta evoluzione. Oggi si ritiene che essi siano opera di poeti individuali e consapevoli, che si valevano di una precedente tradizione di leggende trasmesse oralmente. In concomitanza con queste opere profane, in volgare, destinate ad un pubblico laico, si delinea una nuova figura di intellettuale: il giullare. Una figura complessa, non facile da definire, su cui si è molto discusso. Il giullare poteva essere un semplice giocoliere o un mimo, che girava di piazza in piazza per divertire il pubblico popolare, ma poteva anche essere un poeta fornito di cultura, accolto nelle corti e nelle grandi abbazie, per intrattenere un pubblico di condizione più elevata. Per la nascita delle canzoni di gesta si è anche ipotizzato un legame con i monasteri posti sulle strade dei grandi pellegrinaggi, che conservavano ricordi degli eroi popolari e che fornivano ai giullari i materiali su cui operare per comporre i loro testi. Tracce dell’influenza del clero si hanno nello spirito di devozione che si fonde col racconto delle imprese eroiche, ed inoltre nelle stesse forme metriche, che riprendono quelle degli inni religiosi. Si possono poi scorgere stretti legami con il genere dell’agiografia: vi è ad esempio affinità tra Orlando che, nella canzone a lui dedicata, affronta la morte a Roncisvalle combattendo contro i Mori, e la morte di un santo martire che si immola per la fede ( T1, p. 37). Le canzoni di gesta tendevano a raggrupparsi in cicli intorno ad un lignaggio, cioè ad una famiglia o discendenza nobiliare. Questo conferma come esse fossero l’espressione di una casta aristocratica, che attraverso la loro diffusione voleva celebrare la propria posizione nella società. Più tardi le canzoni persero il loro austero carattere di poemi guerreschi e religiosi, con l’introduzione del motivo d’amore, caro invece al romanzo cortese ( Il romanzo cortese-cavalleresco, p. 43).
La diffusione del genere La fortuna del ciclo carolingio
La Chanson de Roland
L’epica al di fuori della Francia
Motivi di queste canzoni, in specie le gesta dei paladini di Carlo Magno, ebbero grandissima popolarità anche al di fuori della Francia. In Italia si diffusero soprattutto al Nord, dando origine ad una serie di poemi in lingua ibrida, franco-veneta. La vita delle leggende del ciclo carolingio fu molto lunga: esse alimentarono le narrazioni dei canterini, poeti girovaghi che intrattenevano le folle sulle piazze con le epiche imprese dei paladini. A questi materiali attingeranno poi i poemi cavallereschi del Rinascimento, di Pulci, Boiardo, Ariosto. La più famosa delle chansons de geste è certamente la Chanson de Roland (“Canzone di Orlando”) in lingua d’oïl, la lingua parlata nel Nord della Francia, dove si diffuse inizialmente e di cui ci occuperemo più diffusamente qui di seguito. In campo europeo, al di fuori della Francia, si possono trovare componimenti epici che hanno affinità con le chansons de geste. Sul territorio spagnolo si diffonde il Cantare del Cid, composto intorno al 1140, centrato sulla figura reale di Rodrigo Diaz de Vivar, detto il Cid Campeador (il signore delle battaglie), che, dopo aver superato pericoli e difficoltà, conquista Valenza agli arabi, ricoprendosi di gloria. In area germanica intorno al 1200 un ignoto poeta raccoglie miti nazionali e saghe (racconti tradizionali germanici) nella Canzone dei Nibelunghi, in cui trovano posto la celebrazione della forza e del coraggio dell’eroe Sigfrido, ucciso a tradimento, e la narrazione dell’amore tremendo e della vendetta della sposa Crimilde. Intorno al 1185 un ignoto poeta compose il Cantare delle gesta di Igor, opera diffusa nella Russia di Kiev (città che raggiunge un notevole sviluppo grazie ai fiorenti commerci con Bisanzio), che celebra la guerra ed il coraggio dei nobili, appartenenti alla classe dominante. 35
L’età cortese
L’epica francese e la Chanson de Roland La difficile attribuzione dell’opera
La vicenda
La guerra santa e la fedeltà all’imperatore
La Canzone di Orlando ( T1, p. 37) si diffonde in Francia nel XII secolo; oggi è considerata «il monumento letterario più popolare del Medioevo francese» (Auerbach). Di essa ci sono state tramandate diverse redazioni; la più antica è quella del manoscritto di Oxford, redatto a metà del XII secolo in anglo-normanno. I critici sono divisi tra quelli che ritengono la canzone opera di un unico autore e coloro che la giudicano il risultato di una fusione di diverse leggende, eseguita successivamente alla diffusione orale del primo nucleo della vicenda (quello legato al sacrificio di Orlando a Roncisvalle). La canzone di circa 4000 decasillabi, in lasse assonanzate di diversa lunghezza, narra principalmente le avventure di Orlando e degli altri undici paladini del re Carlo Magno in guerra contro i musulmani di Spagna. Gano, patrigno di Orlando, che vuole vendicarsi di un presunto torto da lui ricevuto, d’accordo con il re saraceno Marsilio convince Carlo Magno ad affidare a Orlando e ai paladini la retroguardia dell’esercito francese che sta rientrando in patria. A Roncisvalle, nelle gole dei Pirenei, Orlando ed i compagni cadono in un’imboscata; potrebbero salvarsi, se Orlando suonasse il magico corno, l’olifante, per richiamare l’esercito di Carlo Magno, ma, per orgoglio e per non mettere a repentaglio la salvezza del re, il paladino lo fa solo in punto di morte. Quando Carlo Magno giunge a Roncisvalle, Orlando è ormai morto insieme a tutta la retroguardia: a Carlo resta il compito di vendicare i suoi dodici “pari” (titolo in età feudale spettante ai nobili, perché giudicabili solo da una giuria composta da loro pari). Fa strage di nemici; dopo un processo Gano viene condannato a morte. Questi avvenimenti si basano su un nucleo di verità storica: nel 778 Carlo Magno, al ritorno in Francia da una spedizione in Spagna, venne assalito sui Pirenei da bande di predoni baschi che distrussero la retroguardia francese. Nella canzone compaiono essenzialmente due temi: la guerra santa dei cristiani contro gli infedeli e la celebrazione del rapporto di onore e fedeltà che lega i paladini al sovrano. Queste sono situazioni tipiche della società francese del XII secolo, caratterizzata dalle crociate e dal rapporto di vassallaggio tra il potere centrale, rappresentato dal sovrano, ed i vari vassalli (conti, marchesi, duchi) a capo delle zone periferiche del regno. È chiaro allora come nel poema, ambientato nell’VIII secolo, ci sia la trasposizione di situazioni, usanze, ideologie tipiche dell’inizio del XII secolo, periodo di composizione dell’opera.
Visualizzare i concetti
La poesia epica CaNzoNi di gesta
Zona d’origine: Francia del Nord
Lingua usata: volgare d’oïl
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Repertorio di personaggi e vicende: ciclo carolingio (la corte di Carlo Magno e i suoi paladini)
Tema principale: guerra (in difesa della fede cristiana)
Trasmissione: inizialmente solo orale (giullari e canterini), poi orale e scritta
Pubblico: il popolo nelle piazze e nei mercati
Testi: Chanson de Roland (XII secolo) Cantare del Cid (1140 ca.) Canzone dei Nibelunghi (XII-XIII secolo)
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese Lo stile
T1
Certamente il primo canale di diffusione dell’opera fu quello orale, come testimoniano alcune delle sue caratteristiche formali. In primo luogo la scelta delle lasse assonanzate a due a due, tipiche della canzone popolare; la sintassi molto semplice, prevalentemente paratattica che rivela la destinazione popolare del testo; la ripresa in ogni lassa di elementi della lassa precedente per favorire la comprensione della vicenda anche all’ascoltatore distratto o appena giunto sul luogo del canto; la ripetizione di formule tipiche della trasmissione orale riferite a Carlo Magno: «Carlo, che ha la barba canuta» (v. 2308), «Carlo, che or ha la barba bianca» (v. 2334), «Carlo, che ha la barba fiorita» (v. 2353).
anonimo
temi chiave
Morte di orlando e vendetta di Carlo dalla Chanson de Roland, lasse CLXX-CLXXIII, CLXXV-CLXXVI, CLXXVIII-CLXXIX
• la fedeltà del paladino Orlando al re Carlo e a Dio
• la magnanimità di Carlo • la lotta contro gli infedeli • l’elemento magico-meraviglioso
Riportiamo l’episodio forse più famoso del poema, quello della morte di Orlando e dell’arrivo a Roncisvalle di Carlo Magno che vendica la perdita dei suoi pari. Il metro nell’originale è costituito da lasse di decasillabi francesi.
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CLXX Orlando sente che la vista ha perduta: si mette in piedi, si sforza più e più; anche il colore nella faccia ha perduto. Davanti a lui sorge una pietra scura. Egli vi dà dieci colpi con cruccio1: stride l’acciaio, non si scheggia per nulla. “Ah”, dice il conte “Santa Maria, qui aiuto! Ah, Durendala2, aveste assai sfortuna! Ora che muoio, di voi non avrò cura. Per voi sul campo tante vittorie ho avute e contro tanti paesi ho combattuto, che tiene or Carlo, che ha la barba canuta! Non v’abbia un uomo che innanzi ad altri fugga. Per lungo tempo un prode vi ha tenuta! La Francia santa così non ne avrà più!”. CLXXI Colpisce Orlando la pietra di Cerdagna3: stride l’acciaio, ma non si rompe affatto. Quando egli vede che non può proprio infrangerla, dentro se stesso così comincia a piangerla: “Ah! Durendala, come sei chiara e bianca4! Quanto risplendi contro il sole e divampi!
1. con cruccio: con rabbia e dolore. 2. Durendala: nome della spada miracolo-
sa donata da Carlo Magno ad Orlando. 3. la pietra di Cerdagna: la pietra di Cerri-
tania, regione dei Pirenei, ricca di granito. 4. chiara e bianca: luminosa e tersa.
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Fu nelle valli di Moriana5 che a Carlo Iddio dal cielo per mezzo del suo angelo disse di darti a un conte capitano: e a me la cinse il re nobile e grande. Con te gli presi allora Angiò e Bretagna, con te gli presi il Pittavo e la Mania, la Normandia, la quale è terra franca; con te gli presi Provenza ed Aquitania e Lombardia e tutta la Romània, con te gli presi la Baviera e le Fiandre, la Bulgaria, la terra dei Polacchi, Costantinopoli, che gli prestò l’omaggio, mentre in Sassonia fa quello che gli garba; con te gli presi e la Scozia e l’Irlanda, e l’Inghilterra, che diceva sua stanza6. Preso ho per lui tante terre e contrade che tiene Carlo, che or ha la barba bianca. Per questa spada ho dolore ed affanno: meglio morire che ai pagani lasciarla. Dio, non permettere che si umilii la Francia!”. CLXXII Colpisce Orlando sopra una pietra bigia, e più ne stacca di quanto io vi so dire. La spada stride, non si rompe o scalfisce, ma verso il cielo d’un balzo va diritta. Quando s’accorge che a infranger non l’arriva, piano tra sé a piangerla comincia: “Ah! Durendala, come sei sacra e fine7! Nell’aureo pomo i santi ne han reliquie: San Pietro un dente, del sangue San Basilio, qualche capello monsignor San Dionigi, e un pezzo d’abito anche Santa Maria. Di voi i pagani non hanno a impadronirsi: solo i cristiani vi debbono servire. Nessuno v’abbia che faccia codardia8! Di tante terre noi facemmo conquista, che tiene or Carlo, che ha la barba fiorita! L’imperatore n’è fatto forte e ricco!”. CLXXIII Orlando sente che la morte lo prende, che dalla testa sopra il cuore gli scende. Se ne va subito sotto un pino correndo e qui si corica, steso sull’erba verde: sotto, la spada e l’olifante9 mette;
5. Moriana: forse Maurienne, regione della Savoia. 6. Con te gli presi … stanza: rassegna di territori che Orlando dichiara essere stati conquistati da Carlo Magno, anche se alcuni di essi, ad esempio Polonia e Costantinopo-
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li, non sono mai stati possedimenti francesi. Angiò e Pittavo sono due regioni nel NordEst della Francia; Mania è una zona che corrisponde all’attuale Germania. 7. sacra e fine: sacra (è scesa dal cielo) e bella. 8. codardia: viltà.
9. olifante: corno di guerra, ricavato da una zanna d’elefante che consentiva ad Orlando di farsi sentire da Carlo Magno, da qualunque luogo lo suonasse.
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verso i pagani poi rivolge la testa: e questo fa perché vuole davvero che dica Carlo con tutta la sua gente che il nobil conte è perito vincendo. Le proprie colpe va spesso ripetendo, e a Dio per esse il suo guanto protende10. […] CLXXV Il conte Orlando è steso sotto un pino: verso la Spagna ha rivolto il suo viso. A rammentare molte cose comincia: tutte le terre che furon sua conquista, la dolce Francia, quelli della sua stirpe, il suo signore, Carlo, che l’ha nutrito: né può frenare il pianto od i sospiri. Ma non vuol mettere nemmeno sé in oblio: le proprie colpe ripete e invoca Dio: “O vero Padre, che mai non hai mentito, tu richiamasti San Lazzaro alla vita e fra i leoni Daniele custodisti11; ora tu l’anima salvami dai pericoli per i peccati che in vita mia commisi!”. Protende ed offre il guanto destro a Dio: dalla sua mano San Gabriele lo piglia. Sopra il suo braccio or tiene il capo chino: a mani giunte è andato alla sua fine. Iddio gli manda l’angelo Cherubino e San Michele che guarda dai pericoli. Con essi insieme San Gabriele qui arriva. Portano l’anima del conte in Paradiso. CLXXVI È morto Orlando; ne ha Dio l’anima in cielo. L’imperatore a Roncisvalle viene. Non vi si trova né strada né sentiero né terra vuota, nemmeno un braccio o un piede, dove non siano Saracini o Francesi. E Carlo grida: “Bel nipote, ove siete? e l’arcivescovo ed il conte Oliviero? dov’è Gerino e il compagno Geriero? e dove Ottone? e Berengario ov’è? ed Ivo e Ivorio, che io prediligevo? Che cos’è ora il guascone Engeliero, Sansone il duca ed Anseigi il fiero? Dov’è Gerardo di Rossiglione il vecchio, dove i miei dodici Pari, lasciati indietro?12” Ma a che gridare, se nessun rispondeva? “Dio!” disse il re “tanto affligger mi debbo, che non ci fui, quando a lottar si prese!”.
10. il suo guanto protende: protendere il guanto costituiva il segno estremo di fedeltà cavalleresca.
11. tu richiamasti … custodisti: i riferimenti biblici a san Lazzaro e a Daniele sono presenti nel rituale di preghiere per agonizzanti.
12. Bel nipote … indietro?: i dodici personaggi citati sono i dodici pari di Francia scelti da Carlo Magno per il suo seguito.
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Tutta la barba si strappa per lo sdegno. Piangono i suoi valenti cavalieri […]. CLXXVIII L’imperatore fa le trombe suonare, poi col suo grande esercito cavalca. Voltato il dorso hanno quelli di Spagna; e tutti i Franchi dànno insieme la caccia. Quando il re vede il vespro declinare13, sull’erba verde smonta in mezzo ad un prato, si stende a terra e incomincia a pregare perché il Signore faccia il sole fermarsi, tardar la notte e il giorno prolungarsi. Ed ecco un angelo che suol con lui parlare questo comando rapido viene a dargli: “Carlo, cavalca; la luce non ti manca. Dio sa che il fiore hai perduto di Francia14: puoi vendicarti della razza malvagia15”. L’imperatore allor monta a cavallo. CLXXIX Un gran prodigio fa Dio per Carlomagno, ché il sole in cielo immobile rimane. Allora fuggono i pagani ed i Franchi in Val di Tenebra a raggiungerli vanno, con l’armi verso Saragozza li incalzano, a pieni colpi di qua e di là li ammazzano, tagliano ad essi tutte le vie più grandi16. L’acqua dell’Ebro si stende loro avanti molto profonda e paurosa e rapida: non v’è una barca, un dromone17, una chiatta. I Saracini pregano Tervagante18 e giù si buttano, ma non han chi li salvi.
13. il vespro declinare: il sole al tramonto. 14. il fiore … di Francia: i dodici pari, i migliori cavalieri di Francia. 15. razza malvagia: i pagani. 16. tagliano … grandi: impediscono tutte le vie di fuga. 17. dromone: nave a vela e a remi, con tre alberi, usata nella lotta ai corsari. 18. Tervagante: divinità pagana.
Jean Fouquet, L’imperatore Carlo Magno trova il cadavere di Orlando dopo la battaglia di Roncisvalle, 1455-60, miniatura da Les Grandes Chroniques de France, codice Fr. 6465, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
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I più pesanti sono quelli che han l’armi e molti al fondo vengono trascinati; a valle gli altri van tutti fluttuando: ne bevon d’acqua quelli più fortunati! E tutti annegano. Gridano allora i Franchi: “Bene non fu per voi vedere Orlando!”. Testo originale in lingua d’oïl, in La Canzone di Orlando, trad. it. di R. Lo Cascio, a cura di C. Segre, Rizzoli, Milano 1985
Analisi del testo Le ripetizioni
La sintassi paratattica
Immagini complete nelle lasse Trasmissione orale della canzone e pubblico
> gli aspetti formali
I versi antologizzati presentano numerose ripetizioni con minime varianti sia di termini, «pietra scura» (v. 2300), «pietra di Cerdagna» (v. 2312), «pietra bigia» (v. 2338), sia di versi interi: «Orlando sente che la vista ha perduta» (v. 2297), «Orlando sente che la morte lo prende» (v. 2355). La sintassi ha per lo più una struttura paratattica. Erich Auerbach, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, nel capitolo dedicato all’analisi della Canzone di Orlando stabilisce un preciso legame tra le scelte formali e l’ideologia che l’opera veicola, affermando: «Tutto è fissato e stabilito, bianco e nero, bene e male, e non richiede più indagine o motivazione». «Il poeta» cioè «non spiega nulla, ma tutto ciò che succede è espresso con tanto vigore paratattico da convincere che nulla potrebbe succedere diversamente e che non ci sia bisogno di legami chiarificatori». Rispetto poi all’organizzazione del materiale narrativo nelle lasse, sempre Auerbach osserva come «ognuna delle strofe dà un’immagine completa, chiusa in sé», rafforzando quindi l’immagine per mezzo di più «quadri molto simili e ben delimitati». Tutti questi accorgimenti stilistici tengono conto del canale orale della trasmissione dell’opera e del pubblico a cui era rivolta: quello delle fiere, delle sagre religiose, un pubblico popolare che aveva bisogno, per ben fissare nella mente la canzone, di particolari ripetitivi, di formule semplici e chiare connesse ovviamente con temi familiari, in questo caso quelli tipici della mentalità feudale del tempo. Se ne ottiene un effetto di lentezza, di solenne maestosità, quasi di cerimoniale sacro.
> i temi Orlando, fedele vassallo di Carlo
Orlando, perfetto cristiano
Se ora spostiamo l’attenzione sul personaggio principale, Orlando, si nota che è rappresentato nel duplice aspetto sia di valoroso e fedele paladino del re Carlo, sia di perfetto cristiano. Il paladino ha combattuto e vinto tante battaglie per Carlo che «tanti paesi […] tiene or» (vv. 2307-2308). Esemplare a questo proposito è la lassa CLXXI, nella quale puntigliosamente Orlando passa in rassegna tutti i territori da lui conquistati e da fedele vassallo consegnati al re Carlo. Emerge qui la tipica organizzazione verticistica della società feudale: al vertice della piramide del potere sta l’imperatore, per il quale i vari vassalli combattono le guerre di conquista, spesso camuffate da guerre sante. L’imperatore manifesta la sua riconoscenza ai paladini valorosi con segni diversi della sua magnanimità; nel caso di Orlando, ad esempio, dandogli la straordinaria spada Durendala, «chiara e bianca» (v. 2316). Si comprende allora come la preoccupazione di Orlando per la mitica spada, invincibile e indistruttibile, che contiene preziose reliquie nell’aureo pomo (vv. 2346 e ss.) e ha consentito ad Orlando di sconfiggere tanti nemici, ribadisca lo stretto rapporto tra il tema della guerra e l’ispirazione religiosa. Il campione di Carlo è anche il campione della fede e, prima di morire, si comporta da perfetto cristiano, chiedendo perdono a Dio e ottenendo che la sua anima venga portata, dagli angeli e dai santi, in paradiso. 41
L’età cortese Il “meraviglioso”
Analogie della canzone con l’agiografia
Nell’episodio della difesa della spada compare il motivo del “meraviglioso” che, inteso in senso cristiano, sostituisce gli interventi soprannaturali degli dèi pagani nei poemi classici; ma la prospettiva divina, in cui la vicenda di Orlando si risolve, è anche un altro segno distintivo dell’epos, in cui gli avvenimenti vengono osservati da un punto di vista allontanato e assoluto, che non ammette incertezze e rappresenta l’indiscutibile “verità”. Di qui il carattere oggettivo della rappresentazione epica, con la precisa distinzione dei valori e dei ruoli: ad esempio fra i buoni (in questo caso i cristiani) e i cattivi (i Saraceni), fra i cavalieri senza macchia e i traditori. Nel momento della morte l’eroe da buon credente recita il mea culpa per tutti i peccati commessi, ma non dimentica la propria natura di cavaliere: protende infatti verso il cielo «il suo guanto», atto estremo di fedeltà guerriera, e richiama alla mente i ricordi di un passato di gloria e di affetti che sta per scomparire (vv. 2375 e ss.). In questo atteggiamento nostalgico c’è forse un riflesso del mitico mondo dell’epos, già al tramonto quando le canzoni di gesta venivano diffuse e tramandate. Sempre a proposito della componente religiosa del poema, secondo Cesare Segre la Canzone di Orlando rivela notevoli affinità con i poemetti agiografici, genere letterario diffuso tra i secoli IX e XI che tratta della vita dei santi, soprattutto rispetto alla fabula. Le vite dei santi si modellano cioè sulla vita di Cristo: racconto della nascita accompagnata da eventi straordinari, conquista delle virtù, prove a cui il santo è sottoposto, miracoli, martirio e premio celeste. Da questo punto di vista la vita di Orlando è simile a quella di un santo come «itinerario di virtù e guerra santa. E se ne ha una conferma clamorosa alla morte di Orlando, quando due arcangeli e un cherubino accorrono a raccogliere la sua anima per portarla in Paradiso (vv. 2393-2396)».
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Che cosa rappresentano la spada e il corno? Perché Orlando non vuole che cadano nelle mani degli infedeli? > 2. Orlando tende il guanto destro a Dio: qual è la risposta del cielo? aNaLizzare
> 3. Individua i momenti del racconto nei quali emerge il motivo del “meraviglioso” e illustrali, mettendone in
evidenza la componente religiosa. stile Tra le caratteristiche della Chanson de Roland riconducibili alla pubblicazione orale del testo, vi è la tendenza a ripetere in ogni lassa espressioni della lassa precedente. Individua nel brano antologizzato almeno due esempi di tale procedimento formale.
> 4.
aPProFoNdire e iNterPretare
> 5.
scrivere Attorno alla metà del XII secolo, nell’ambiente delle corti feudali della Francia del Nord, tra le forme della letteratura cortese, oltre alle canzoni di gesta, si afferma il romanzo cavalleresco. Specifica le caratteristiche e i contenuti di tale genere in un testo di circa 10 righe (500 caratteri).
Per iL PoteNziaMeNto
> 6.
esporre oralmente I fatti di Orlando a Roncisvalle sono stati sottoposti, nell’XI secolo, ad una curiosa “rilettura”: si è operata una sorta di attualizzazione del passato alla luce dei valori del presente. Esponi e spiega oralmente (max 3 minuti) il senso e le modalità di tale trasfigurazione mitica di un episodio storico. Passato e PreseNte guerre di religione ieri e oggi
> 7. Non credi che l’espressione “guerra santa” rappresenti un ossimoro? Ieri, ma soprattutto oggi, sembra im-
pensabile trovare motivazioni plausibili, religiose, politiche o ideologiche, per qualsiasi forma di violenza, eppure c’è chi continua a combattere in nome di princìpi che si pretendono assoluti e assolutizzabili. Discuti di ciò in un dibattito in classe con i compagni e l’insegnante.
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Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
2 Importanza dell’amore
La leggenda e la fiaba
L’avventura
La forma e lo stile
Il romanzo cortese-cavalleresco Le caratteristiche del genere La concezione della cortesia, e in particolare dell’amor cortese, trovò espressione nel Nord della Francia in forme narrative, in particolare nel romanzo cavalleresco, in lingua d’oïl; nel Sud invece prese vita in forme liriche, nella poesia dei trovatori, in lingua d’oc ( La lirica provenzale, p. 63). Il romanzo cortese, che si afferma nella seconda metà del XII secolo, ha al centro le imprese cavalleresche, ma l’amore, diversamente dalla canzone di gesta, ha un ruolo preponderante; dietro influenza delle concezioni già affermatesi nella poesia lirica del Sud, esso assume prevalentemente le forme dell’amor cortese; ne deriva l’importanza centrale dei personaggi femminili. Il romanzo è privo di ogni referente storico e tratta materie puramente leggendarie. C’è la presenza di un meraviglioso di tipo fantastico e fiabesco, che ha radici in antiche leggende celtiche precristiane (maghi, fate, incantesimi, mostri). Già di qui si può cogliere il carattere interamente profano di queste opere (se si eccettua il motivo mistico della ricerca del Graal, come vedremo). Nel romanzo i cavalieri partono a caso in cerca di avventure; l’avventura li allontana continuamente dal sovrano e li spinge a peregrinare in luoghi remoti e fantastici, selve, castelli, fontane fatate; l’avventura serve al cavaliere solo per provare se stesso, il suo valore, la sua forza nell’esercizio delle armi, la sua lealtà in scontri, duelli, nella liberazione di donzelle in pericolo: è una prova squisitamente individuale, finalizzata al perfezionamento, all’autoaffermazione. Talora la pura ricerca casuale di avventura si precisa nel motivo della queste, la ricerca di una donna o di un oggetto, in questo caso il Santo Graal, la coppa, dotata di virtù miracolose, in cui, secondo la leggenda, fu raccolto il sangue di Cristo. Queste tendenze centrifughe si riflettono nella forma: il romanzo ha una struttura aperta, in cui le avventure possono susseguirsi all’infinito, generandosi in modo imprevisto le une dalle altre, o addirittura intrecciandosi tra di loro; lo sviluppo è rapido e dinamico, ricco di sorprese, incontri, peripezie. Il romanzo usa l’ottonario a rima baciata, agile e scorrevole. Lo stile è improntato a grazia e piacevolezza.
il pubblico e gli autori Una letteratura di intrattenimento elegante
Gli autori e la fruizione delle opere
Tutto ciò ci rivela come queste opere siano destinate al diletto, all’intrattenimento di una società elegante e raffinata, la società di corte che si è affermata ormai nella seconda metà del XII secolo. Sono opere impregnate di grazia mondana ed esprimono la concezione della vita di quella società, dominata dai valori della cortesia. Anzi, spesso nella narrazione viene data una rappresentazione idealizzata della vita di questa società, nei suoi rituali più caratteristici, i banchetti, le feste, le conversazioni piacevoli ed eleganti in luoghi ameni, ritratti con pennellate delicate e vivacità di colori. Gli autori dei romanzi cavallereschi sono chierici colti, che vivono nelle corti feudali sotto la protezione dei grandi signori e scrivono per compiacerne i gusti. Le loro opere nascono subito per la lettura: e questo ci dà il senso di una società più evoluta, in cui scrittura e lettura sono già realtà familiari. La lettura poteva essere ancora pubblica, nell’ambito della corte, dinanzi ad un uditorio di dame e cavalieri, ma poteva anche essere soltanto “mentale”, silenziosa e solitaria. Un esempio del primo caso ci è offerto proprio da uno di questi romanzi, l’Ivano di Chrétien de Troyes, in cui viene appunto rappresentata una fanciulla che sta leggendo un romanzo ad un signore e ad una dama, i suoi genitori. 43
L’età cortese
La genesi del romanzo L’etimologia
Le fonti: le leggende bretoni
Il termine “romanzo” (roman, in antico francese), destinato poi a lunghissima fortuna sino ai giorni nostri, deriva da romanz, che in origine valeva a significare ogni discorso in lingua volgare (dal latino romanice loqui, “parlare in lingua romanza”); in seguito, nel XII secolo, venne a indicare solo quel particolare tipo di discorso in volgare, la narrazione in versi di argomenti avventurosi ed amorosi. La materia del romanzo cavalleresco è tratta prevalentemente da antiche leggende bretoni, risalenti cioè al patrimonio folklorico delle popolazioni celtiche della Francia e dell’Inghilterra. Esse si incentravano sulla figura di un mitico re britannico, Arthur (in italiano poi volgarizzato in Artù), che sarebbe vissuto nel VI secolo dopo Cristo. Insieme col sovrano, intorno alla “Tavola Rotonda”, cioè su un piede di parità, si ritrovavano vari cavalieri: Lancillotto, Ivano, Galvano, Perceval. Dalla corte arturiana essi partivano alla ricerca di avventure, per farvi ritorno periodicamente. Queste leggende erano state raccolte per la prima volta da un chierico, Goffredo di Monmouth, prima del 1140, in una Storia dei re di Britannia in dodici libri, a partire da Bruto, mitico progenitore dei Britanni e loro primo re, e in una Vita di Merlino in prosa latina. La materia era poi stata ripresa in volgare ed in versi nel Roman de Brut (“Romanzo di Bruto”) dal normanno Robert Wace (1155).
gli autori e i cicli più diffusi Chrétien de Troyes
Tristano e Isotta
La fortuna delle leggende bretoni
Testi Béroul • Il re sorprende gli amanti dal Romanzo di Tristano e Isotta Anonimo • Il filtro d’amore e l’avventura dal Tristano Riccardiano
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L’autore più significativo del genere del romanzo cavalleresco è Chrétien de Troyes ( A1, p. 45), un chierico che tra il 1160 e il 1180 compose una serie di romanzi dedicati ai cavalieri della Tavola Rotonda (Lancelot, Yvain, Erec e Enide, Cligès, Perceval). Sono romanzi fitti di avventure e di eventi magico-meravigliosi, in cui ha una parte molto importante l’amore. Sempre di origine bretone, ma non legata alla corte di re Artù, è un’altra famosissima leggenda, quella di Tristano e Isotta, che narra una tragica vicenda di amore e morte. La passione invincibile che, a causa di un filtro magico, lega indissolubilmente Tristano e Isotta si scontra con la fedeltà che il cavaliere deve dimostrare al re Marco di Cornovaglia, marito di Isotta e molto affezionato ad entrambi (Tristano è un coraggioso e fedele cavaliere del sovrano, al quale ha condotto in sposa Isotta). Il conflitto fra lealtà e amore, tipico anche del Perceval, conferma le radici cortesi del racconto, ma giunge qui ad esiti più radicali: la forza travolgente dell’amore, impossibile in vita, si realizza attraverso la morte dei protagonisti, che conclude il racconto. Al di là della sua soluzione romanzesca, la vicenda suggella il mito della passione fatale e di quella tematica amore-morte che avrà in seguito significative riprese, dallo «stil novo» al Romanticismo. Della vicenda di Tristano e Isotta abbiamo diverse redazioni francesi, purtroppo frammentarie, collocabili nella seconda metà del XII secolo: di Béroul, forse un giullare, che si rivolge ad un pubblico più rozzo; di Thomas ( A2, p. 52), più raffinato e sensibile all’influsso dell’amore cortese, vissuto alla corte di Enrico II d’Inghilterra e di Eleonora d’Aquitania ( T3, p. 52); un poema anonimo sulla Follia di Tristano (mentre un Tristano di Chrétien de Troyes è andato perduto). La leggenda ebbe enorme diffusione, ed esercitò il suo fascino anche al di fuori della Francia: in Germania fu ripresa da Goffredo di Strasburgo, in Italia da anonimi romanzi in prosa, il Tristano Riccardiano e la Tavola Ritonda. Le leggende di re Artù erano destinate anch’esse a lunga fortuna. Se le leggende carolinge si diffusero in prevalenza presso i ceti popolari, quelle bretoni, per la loro elegante raffinatezza, piacquero più ai ceti elevati. Un’eloquente testimonianza ce ne resta nell’episodio dantesco di Paolo e Francesca (Inferno, V), che si rivelano vicendevolmente il loro amore proprio leggendo una redazione del romanzo di Lancillotto.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese Il ciclo “classico”
Accanto alla materia di Bretagna compare nel romanzo cavalleresco una materia classica. Vi è un Romanzo di Tebe (ca. 1150), un Romanzo di Troia di Benoît de Sainte-Maure (1160), i Romanzi di Alessandro (1112 ad opera di Alberic, ampliato verso il 1120 da Alexandre de Berney). In questi romanzi i personaggi del mito o della storia classici sono trasformati in cavalieri cortesi, e ad essi sono attribuiti mentalità e comportamenti in tutto simili a quelli dei cavalieri bretoni di re Artù. Soprattutto Alessandro Magno subisce una curiosa trasformazione, divenendo un eroe avventuroso, che si spinge ad esplorare le regioni della terra più lontane e ignote, popolate di mostri e prodigi, e giunge sino ad immergersi nelle profondità marine in una campana di vetro.
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La poesia narrativa roMaNzo Cortese
Zona d’origine: Francia del Nord
Repertorio di personaggi e vicende: ciclo bretone (la corte di re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda)
Temi principali: – amore – avventura – magia
Lingua usata: volgare d’oïl
A1 Una biografia lacunosa
Le canzoni e i romanzi
Trasmissione scritta
Autori: chierici colti
Testi: – Lancillotto di Chrétien de Troyes (XII secolo) – Tristano e Isotta (XII secolo)
Pubblico: dame e cavalieri delle corti feudali
Chrétien de troyes La vita Considerato il maggior poeta medievale prima di Dante, originario della Cham-
pagne, operò tra il 1160 e il 1180 prevalentemente alla corte di Troyes, un centro a nordest di Parigi, sotto la protezione di Maria di Champagne, figlia del re di Francia Luigi VII il Giovane e della duchessa Eleonora di Aquitania (1145-98). Le scarse notizie sulla sua vita, tutte desumibili dalle introduzioni delle sue opere, non chiariscono il suo ruolo a corte: si parla di lui come giurista, araldo d’armi, chierico o ebreo convertito. Ha scritto canzoni d’amore alla maniera dei trovatori e cinque romanzi: Erec et Enide, Lancelot, ou Le chevalier de la charrette (“Lancillotto, o il cavaliere della carretta”), Yvain ou Le chevalier du lion (“Ivano o il cavaliere del leone”), Perceval ou Le Conte du Graal (“Perceval o il racconto del Graal”), Cligès. Sono romanzi fitti di avventure e di eventi magico-meravigliosi, in cui ha una parte importante l’amore. Soprattutto nel Lancillotto Chrétien celebra l’amore cortese, ma in altri romanzi, come Ivano ed Erec ed Enide, dà risalto anche all’amore coniugale. Nella sua ultima opera, il Perceval, utilizza leggende celtiche di fondo cristiano, cioè la ricerca del Santo Graal. Le opere
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I personaggi
Lo stile
L’amor cortese
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In tal modo un elemento mistico si introduce nell’atmosfera prevalentemente profana del romanzo cavalleresco. Chrétien scrisse anche sul mito di Tereo, Progne e Filomena un’opera dal titolo De la huppe et de l’aronde et du rossignol la muance (“La metamorfosi dell’upupa, della rondine e dell’usignolo”); si occupò della leggenda di Tristano e Isotta, ma l’opera è andata perduta. I personaggi sono i cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù, che affrontano le più straordinarie avventure, in un mondo immaginario e pieno di magie, per realizzare la queste (“ricerca”), il superamento di diversi ostacoli che si frappongono al loro perfezionamento o al raggiungimento dell’amore della dama per la quale si sono affrontate le avventure. «Lo stile diventa realistico – osserva Auerbach – appena si tratta di rappresentare la vita elegante dei castelli; l’alta società feudale dell’epoca viene descritta come viveva, o come desiderava vivere». Poiché l’amore era una componente essenziale della vita di corte, Chrétien, traduttore dell’Ars amandi (“Arte di amare”) di Ovidio, diventa l’elegante «artista della psicologia amorosa». La teoria dell’amor cortese voleva la donna come signora assoluta dell’amante che aveva nei suoi confronti un rapporto di servitù e vassallaggio, anche senza che la donna manifestasse attenzioni verso di lui; ammetteva l’adulterio, anzi lo teorizzava come l’unica vera forma di amore disinteressato. Sembra che Chrétien non condividesse fino in fondo questa teorizzazione, tanto che in Erec e Enide e nell’Ivano celebra l’amore coniugale.
Chrétien de troyes
temi chiave
La donna crudele e il servizio d’amore
• il servizio d’amore e le prove da affrontare
• la donna come divinità da adorare • la natura ineffabile dell’amor cortese
da Lancillotto, o il cavaliere della carretta Riportiamo alcuni passi del romanzo che illustrano soprattutto il servizio d’amore. [Pur di raggiungere la regina Ginevra, moglie di re Artù, che è stata rapita con uno stratagemma dal malvagio Meleagant, Lancillotto accetta di salire sulla «carretta», coprendosi di un indelebile marchio d’infamia.]
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La carretta serviva allora a ciò a cui servono oggi le gogne1, e in ogni città, ove ora ve ne sono più di tremila, non ve n’era a quei tempi che una, ed era un castigo riservato, come sono ora le gogne, a tutti gli omicidi e ai masnadieri2, a quelli che erano vinti in campo3, e ai ladri che avevano rubato gli averi altrui con l’astuzia o li avevano estorti con la violenza lungo la via. Chi era trovato in colpa era messo sulla carretta e condotto per tutte le strade; perdeva ogni onore, e non era più ascoltato in una corte, né onorato né bene accolto. Dato che a quel tempo le carrette erano tali, ed erano strumenti d’infamia, si cominciò a dire: «Quando vedrai una carretta, e la incontrerai, fatti il segno della croce e ricordati di Dio, affinché male non te ne incolga». Il cavaliere, a piedi, senza lancia, cammina dietro alla carretta, e vede un nano sopra le stanghe di essa, che teneva in mano, come un conduttore di carretta, una lunga verga. E il cavaliere dice al nano: – Nano – dice – in nome di Dio, dimmi se tu hai visto passare di qui la mia signora, la regina.
1. gogne: la gogna è propriamente il collare di ferro applicato ai condannati che venivano messi alla berlina, ossia esposti al pubblico, per lo più su un palco e con
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una scritta che indicava il delitto commesso (qui è sinonimo di “berlina”). 2. masnadieri: banditi, delinquenti. 3. in campo: in un duello giudiziario (consi-
derato come espressione del “giudizio di Dio”), e quindi ritenuti colpevoli.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
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Il vile nano, di ignobile origine, non gliene volle dare alcuna notizia, ma gli disse: – Se vuoi salire sulla carretta che io conduco potrai sapere prima di domani ciò che è accaduto alla regina. Il cavaliere prosegue per la sua strada, e non vi sale, per il momento; per sua disgrazia lo fece, e per sua disgrazia ebbe vergogna, tanto da non volere subito salirvi, poiché riconoscerà poi di essersi condotto male; ma la Ragione, che è lontana da Amore, gli dice che si guardi bene dal salire, e lo ammaestra e lo ammonisce a non fare e a non intraprendere nulla da cui riceva onta4 o biasimo. Ragione, che osa dirgli questo, non sta nel suo cuore, ma nella bocca; ma Amore, che è chiuso nel suo cuore, gli comanda e gli ingiunge di salire subito sulla carretta. Amore lo vuole, ed egli vi sale, poiché non gli importa dell’onta, dal momento che Amore glielo comanda e lo vuole. [Dopo avere superato duri ostacoli e pericolose avventure, Lancillotto combatte con Meleagant, che teneva prigionieri, oltre a Ginevra, molti sudditi di re Artù. Lancillotto, uscito vittorioso dal combattimento, rende la libertà a tutti i prigionieri, che acclamano il loro salvatore e gli fanno grandi feste. Solo la regina, incomprensibilmente, si mostra nei suoi confronti dura e sprezzante. Ma quando giunge la notizia della morte di Lancillotto, Ginevra cade nello sconforto.]
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Il pensiero della sua crudeltà e della sua durezza, e il fatto che veglia e digiuna, la rendono molto triste e scura in volto; raduna insieme tutte le sue colpe, e tutte le ritornano davanti. Tutte le ricorda, e dice spesso: – Ah! Me infelice! Che cosa mi venne in mente, quando il mio amico venne davanti a me, che io non mi degnai di fargli festa, e non lo volli nemmeno ascoltare! Quando gli negai il mio sguardo e le mie parole, non agii da folle? Da folle? Anzi agii – così mi aiuti Iddio – da perfida e da crudele. Io pensai di fare ciò per gioco, ma lui non la prese in questo senso, e non me lo ha punto perdonato. Nessuno all’infuori di me gli ha dato il colpo mortale, per quanto io so. Quando egli venne davanti a me ridente, e pensava che io gli avrei fatto gran festa, e che lo guardassi, ed io non lo volli affatto vedere, non fu dunque per lui un colpo mortale? Quando non volli parlargli, in quell’istante gli strappai il cuore e insieme la vita. Questi due colpi mortali lo hanno ucciso, mi sembra; non lo hanno ucciso altri soldati di ventura5. Ah, Dio! Potrò io trovare il modo di riscattare questo assassinio, questo peccato? In nessun modo: prima saranno seccati tutti i
4. onta: infamia, vergogna (anche questo termine indica una qualità tipicamente ne-
gativa, nell’ambito dei valori cortesi). 5. soldati di ventura: mercenari.
L’opera
Lancillotto, o il cavaliere della carretta di Chrétien de Troyes Ginevra, moglie di re Artù, è stata rapita dal malvagio Meleagant, figlio del re di Gorre, terra misteriosa nella quale è difficile entrare e dalla quale gli stranieri non possono uscire. Molti cavalieri partono per liberare la regina, tra cui Keu, Galvano e un cavaliere misterioso che poi si scoprirà essere Lancillotto, fedele innamorato di Ginevra. Un nano promette a Lancillotto di condurlo nel regno di Gorre, a patto che salga sulla carretta dei condannati a morte, gesto che comporterebbe per lui la perdita dell’onore. Lancillotto esita prima di salire, combattuto tra il desiderio di salvare il proprio onore e l’amore per la regina, poi sale e
viene condotto in un castello, dove gli si insegna la via da percorrere per arrivare a Gorre. Questo cammino presenta diversi ostacoli da superare, tra cui il Ponte della Spada, formato da una lama molto affilata sospesa su acque turbinose. Con l’aiuto di un anello incantato Lancillotto giunge a Gorre, dove Ginevra rifiuta di parlargli, offesa per l’esitazione che l’innamorato aveva mostrato prima di salire sulla carretta. Superate molte prove e umiliazioni, Lancillotto viene infine amorevolmente accolto da Ginevra, che gli si concede. Lancillotto uccide Meleagant in duello e libera la regina e gli altri prigionieri.
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fiumi, e il mare sarà prosciugato6! Ah! Sventurata me! Come mi sarei consolata, e come mi sarebbe stato di grande conforto se una volta, prima che fosse morto, l’avessi tenuto fra le mie braccia! Come? Certo, tutto nudo, essendo io nuda, affinché avessi più agio di amarlo. Dato che egli è morto, io sono veramente molto cattiva, se non procuro7 di morire. Non mi deve dunque esser di peso la vita se io sono viva dopo la sua morte, dal momento che nulla mi conforta, se non il dolore che io soffro per lui? Poiché di questo provo conforto dopo la sua morte, certo sarebbe stato molto dolce, se egli fosse stato in vita, quel male di cui ho ora grande desiderio. Malvagia è colei che preferisce morire che soffrire del male per il suo amico. Ma certo a me dà molto conforto farne lungo compianto. Preferisco vivere e soffrire gli assalti del dolore che morire ed avere pace. [La notizia però era falsa e Ginevra, incontrando nuovamente Lancillotto, si mostra adesso benevola, spiegandogli le ragioni della precedente ostilità. I due giungono finalmente alla realizzazione dei loro desideri.]
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La regina, allora, non lasciò punto cadere i suoi occhi verso terra, ma l’andò a prendere con gioia, e gli fece onore quanto poteva, e lo fece sedere al suo fianco. Poi parlarono a loro piacere di tutto quello che a loro piacque, e non mancava loro la materia, perché Amore ne dava loro in abbondanza. E quando Lancillotto vede la gioia di lei, poiché non dice nulla che molto non piaccia alla regina, allora, a bassa voce, le disse: – Signora, io mi domando, meravigliato, perché avant’ieri, quando mi vedeste, mi faceste così cattivo viso e non mi diceste neppure una parola: per poco voi non mi deste la morte, ed io non ebbi l’ardire di domandarvene la causa, come faccio ora. Signora, io sono pronto a fare ammenda, purché mi diciate qual è la mia colpa, per la quale sono stato molto afflitto. E la regina gli risponde: – Come? Non aveste voi vergogna della carretta, e non esitaste? Vi saliste molto a malincuore, poiché esitaste per lo spazio di due passi. Per questo, in verità, non volli parlarvi né rivolgervi lo sguardo. – Un’altra volta Iddio mi conceda – dice Lancillotto – di guardarmi da tale misfatto, e che Dio non abbia pietà di me se voi non aveste pienamente ragione. Signora, in nome di Dio, ricevetene subito da me l’ammenda, e se voi già me lo volete perdonare, in nome di Dio, ditemelo. – Amico, consideratevi del tutto assolto – dice la regina – in modo completo; io vi perdono ben volentieri. – Signora – egli dice – io vi ringrazio; ma non vi posso dire qui tutto ciò che vorrei; volentieri vi parlerei con più agio, se fosse possibile.
6. prima … prosciugato: utilizza la figura retorica dell’adýnaton, che indica cose impossibili da realizzarsi. 7. procuro: cerco.
Galvano e altri cavalieri scortano Lancillotto seduto sul carro, XIV secolo, miniatura da Le Roman de Lancilot du Lac, codice M.805, New York, The Pierpont Morgan Library.
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E la regina gli mostra una finestra, con l’occhio, non col dito, e dice: – Venite a parlarmi a quella finestra questa notte, quando tutti qua dentro dormiranno, e verrete attraverso quel verziere8. Voi non potrete entrare né essere accolto qua dentro; io sarò dentro e voi fuori, e qua dentro non potrete arrivare. Ed io non potrò arrivare fino a voi se non con la bocca o con le mani; e, se vi piace, fino a domani io rimarrò per amore verso di voi. Noi non potremmo riunirci insieme, poiché nella mia camera, davanti a me, giace Keu, il siniscalco, che langue per le piaghe di cui è coperto. E l’uscio non resta punto aperto, ma è ben chiuso e ben custodito. Quando voi verrete, guardate che nessuna spia vi sorprenda. – Dama – egli dice – qualora io possa farlo, non mi vedrà nessuna spia che pensi male o che dica male di noi. Così concludono il loro incontro, e si separano molto lietamente. […] [Lancillotto] si finge stanco e si fa condurre a letto; ma non ebbe certo tanto caro il suo letto da riposarvi per nessuna cosa al mondo: non avrebbe potuto né l’avrebbe osato, e non avrebbe voluto averne né l’ardimento né la possibilità. Si alzò molto presto e pian piano, e questo non gli fu punto difficile, perché non lucevano né la luna né le stelle, e nella casa non c’era né una candela né una lampada, né una lanterna che ardesse. Agì con tanta prudenza, che nessuno se ne accorse, ma tutti credevano che dormisse nel suo letto per tutta la notte. Senza compagnia e senza guida se ne va molto rapidamente verso il verziere, poiché non cercò qualcuno che lo accompagnasse, e fu fortunato, perché nel verziere da poco era caduto un pezzo di muro. Passa sveltamente attraverso quella breccia, e tanto cammina che giunge alla finestra, e se ne sta là tanto tranquillo, che non tossisce né starnuta, finché non venne la regina, vestita di una candida camicia; non vi aveva messo sopra né una tunica né una cotta9, ma un corto mantello di scarlatto10 e di marmotta. Quando Lancillotto vede la regina che si appoggia alla finestra, che era sbarrata da grossi ferri, la saluta con un dolce saluto. Essa gliene rende subito un altro, poiché essi erano pieni di desiderio, egli di lei ed essa di lui. Non parlano e non discutono di cose scortesi o tristi. Si avvicinano l’uno all’altra, e si tengono ambedue per mano. Rincresce loro a dismisura di non potersi riunire insieme, tanto che maledicono l’inferriata. Ma Lancillotto si vanta11 di entrare, se alla regina piacerà, là dentro con lei: non rinuncerà certo a ciò a causa dei ferri. E la regina gli risponde: – Non vedete voi come questi ferri sono rigidi, per chi voglia piegarli, e forti, a chi voglia spezzarli? Voi non potrete mai torcerli né tirarli verso di voi né farli uscire, tanto da poterli strappare via. – Signora – dice lui – non preoccupatevene! Io non credo che il ferro valga a qualcosa: nulla, all’infuori di voi, mi può trattenere dal giungere fino a voi. Se un vostro permesso me lo concede, la via è per me completamente libera; ma se la cosa non vi è gradita, essa per me è allora così sbarrata, che non vi passerò in alcun modo. – Certo – essa dice – io ben lo desidero; la mia volontà non vi trattiene; ma è opportuno che voi aspettiate che io sia coricata nel mio letto, perché non voglio che malauguratamente si faccia rumore; infatti non sarebbe né corretto né piacevole che il siniscalco, che dorme qui, si svegliasse per il rumore che noi facciamo. Per questo è giusto che io me ne vada, poiché non potrebbe immaginare nulla di buono, se mi vedesse stare qui. – Signora – egli dice – andate dunque, ma non temete che io faccia rumore. Io penso di togliere i ferri tanto facilmente che non avrò da affaticarmi, e non sveglierò nessuno.
8. verziere: giardino. 9. cotta: tunica ampia e con le maniche lunghe.
10. scarlatto: rosso vivo. 11. si vanta: il “vanto” ha un preciso significato nel linguaggio cavalleresco, indi-
cando le imprese di cui si gloriavano i paladini.
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La regina allora se ne torna e Lancillotto si prepara e si accinge a sconficcare l’inferriata. Si attacca ai ferri, li scuote e li tira, tanto che li fa tutti piegare e li trae fuori dei luoghi in cui sono infissi. Ma i ferri erano così taglienti che la prima giuntura del dito mignolo si lacerò fino ai nervi, e si tagliò tutta la prima falange dell’altro dito. Egli però, che ha la mente rivolta ad altro, non si accorge per nulla del sangue che gocciola giù né delle piaghe. La finestra non è punto bassa, tuttavia Lancillotto vi passa molto presto e molto agevolmente. Trova Keu che dorme nel suo letto, poi viene al letto della regina, e la adora e le si inchina, poiché in nessuna reliquia crede tanto. E la regina stende le braccia verso di lui e lo abbraccia, lo avvince strettamente al petto e lo trae presso di sé nel suo letto, e gli fa la migliore accoglienza che mai poté fargli, che le è suggerita da Amore e dal cuore. Da Amore venne la buona accoglienza che gli fece; e se essa aveva grande amore per lui, lui ne aveva centomila volte di più per lei, perché Amore sbagliò il colpo tirando agli altri cuori, a paragone di quel che fece al suo12; e nel suo cuore Amore riprese tutto il suo vigore, e fu così completo, che in tutti gli altri cuori [a confronto] fu meschino. Ora Lancillotto ha ciò che desidera, poiché la regina ben volentieri desidera la sua compagnia e il suo conforto, e egli la tiene tra le sue braccia, ed essa tiene lui tra le sue. Tanto gli è dolce e piacevole il gioco dei baci e delle carezze, che essi provarono, senza mentire, una gioia meravigliosa, tale che mai non ne fu raccontata né conosciuta una eguale; ma io sempre ne tacerò, perché non deve essere narrata in un racconto. La gioia più eletta e più deliziosa fu quella che il racconto a noi tace e nasconde. Ch. de Troyes, Romanzi, a cura di C. Pellegrini, trad. it. di M. Boni, Sansoni, Firenze 1962
12. Amore sbagliò il colpo … al suo: secondo la tradizionale figurazione, Amore,
armato di arco, colpiva con una freccia i cuori degli amanti. Mai nessuno, come
Lancillotto, subì così fortemente questo effetto.
Analisi del testo Il doppio volto dell’amor cortese
Il “servizio d’amore”
Ineffabilità dell’amore
Lo stile
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> i temi
Il testo rivela il doppio volto dell’amore cortese, prima negato (e datore di morte), poi finalmente concesso (e quindi datore di vita). Alla notizia della presunta morte di Lancillotto, Ginevra si pente di essersi mostrata «crudele» verso di lui, e, nella sua disperazione, accusa se stessa, metaforicamente, di averlo ucciso. Il ritorno del giovane la riempie di gioia, consentendo l’appagamento dei loro desideri. Pur di congiungersi con l’amata, Lancillotto vince anche gli ostacoli che apparivano insormontabili, facendo scorrere il suo sangue. Trova così il suo coronamento il lungo “servizio d’amore”, che trasforma la donna in una divinità da adorare, con l’uso di un linguaggio religioso (solo a Dio spetta l’adorazione degli uomini) ribadito dal termine «reliquia», proprio del culto dei santi (qui della “santità” di Ginevra, in cui Lancillotto, profanando la preghiera del Credo, ripone la sua fede più grande). Compiendosi sotto la regia di Amore (personificato secondo la convenzionale allegoria mitologica), il rapporto amoroso consente di raggiungere una felicità sovrumana, il cui carattere ineffabile (si noti l’uso della reticenza) non può essere espresso e rappresentato.
> La costruzione narrativa
Lo stile è di un’efficace semplicità, ottenuta attraverso la paratassi e la ripresa di forme lessicali, che imprimono al racconto una cadenza quasi memorizzabile, propria, per certi aspetti, di una narrazione orale.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese Spazi e tempi indeterminati
La narrazione non si svolge in uno spazio geografico preciso e determinato, e tanto meno in un tempo storico definibile: il paese di Gorre in cui Ginevra è prigioniera, ed in cui Lancillotto penetra per liberarla, è un paese del tutto fantastico, che ha una connotazione mitico-fiabesca: tant’è vero che agli interpreti ha richiamato il regno dei morti, quel paese da cui nessuno torna indietro; per cui l’impresa di Lancillotto appare un vero e proprio viaggio verso l’altro mondo, una discesa agl’inferi, che varca un confine pericoloso, precluso all’uomo (quello della discesa agl’inferi è un motivo tradizionale nella mitologia di molti popoli: si pensi solo all’impresa di Ulisse nell’Odissea e a quella di Enea nell’Eneide). Data questa impostazione, il racconto ignora tutti i fondamenti economici e sociali del mondo rappresentato, insistendo solo sulla sua superficie pittoresca e fantastica: come ha osservato Auerbach, l’atmosfera della fiaba domina tutto il romanzo cortese.
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Quali azioni compie Lancillotto per coronare il “servizio d’amore”? aNaLizzare
> 2. > 3. > 4. > 5.
Quali elementi della narrazione, a tuo parere, vanno ricondotti all’atmosfera della fiaba? Nel testo sono presenti esempi di personificazione: sono fondamentali per le dinamiche della narrazione? stile Quale passo del testo presenta la reticenza con cui l’autore rende l’ineffabilità dell’amore? Lingua Come si afferma nell’Analisi del testo, la paratassi caratterizza il racconto, determinandone la semplicità dello stile. Individua nel testo un esempio significativo di paratassi. Narratologia
stile
aPProFoNdire e iNterPretare
> 6.
esporre oralmente Prepara la scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) in cui rifletti sul personaggio di Ginevra, mettendo in luce i tratti convenzionali e quelli originali di questa figura femminile nel quadro della letteratura cortese. > 7. altri linguaggi: cinema Scegli un film che trasponga la storia d’amore di Lancillotto e Ginevra e commentane la visione avvalendoti di quanto appreso sull’argomento in letteratura.
Fotogramma dal film Il primo cavaliere di Jerry Zucker, con Julia Ormond e Richard Gere, usa 1995.
sCrittura CreatiVa
> 8. Immagina un cavaliere di fronte alla possibilità di ottenere, da parte di un potente mago, la rivelazione di un
itinerario avventuroso e segreto per raggiungere il Santo Graal o la donna amata; il cavaliere, però, deve scegliere l’oggetto a cui indirizzare la queste. Ipotizza la sua scelta, immaginandone le ragioni, e scrivi il testo del discorso in circa 15 righe (750 caratteri) con cui il cavaliere chiederà aiuto al mago. Puoi ispirarti, anche per l’ambientazione, a quanto appreso riguardo al romanzo cortese-cavalleresco.
51
L’età cortese
A2
T3
thomas d’inghilterra È l’autore della prima versione “cortese” del Romanzo di Tristano, della quale sono rimasti otto frammenti, per un totale di poco più di tremila ottosillabi (circa un sesto dei versi, si è ipotizzato, che l’opera doveva contenere). Era forse un chierico; nato quasi sicuramente in Inghilterra, fu attivo nell’ambito della corte normanno-angioina (come si può ricavare da un elogio di Londra e dalle inflessioni linguistiche dello stile). Il testo è databile intorno al 1168-70.
thomas d’inghilterra
temi chiave
amore e morte
• l’amore invincibile • la morte come unione eterna delle
dal Romanzo di Tristano
• il viaggio
anime innamorate
È il momento cruciale e risolutore della leggenda. Tristano, ferito a morte, ha mandato il fedele Caerdino alla ricerca di Isotta «la bionda», che sola avrebbe avuto il potere di guarirlo e di salvarlo; se la donna fosse stata trovata, la nave che la riportava da Tristano avrebbe dovuto innalzare una bandiera bianca.
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La vela bianca all’albero hanno issato e a gran forza veleggiano, finché Caerdino avvista la Bretagna. Allora son gioiosi, allegri e lieti, e issano la vela bene in alto che da lungi si possa riconoscere quale essa sia, la bianca o la nera: da lontano vuol mostrarne il colore perché s’era all’ultimo giorno che Tristano aveva fissato come termine quando partirono dal paese. Mentre essi navigano felicemente, si leva la bonaccia e cade il vento sì che non possono più veleggiare. Il mare è tranquillissimo e liscio: la nave non va né in qua né in là, se non quanto l’onda la sposta, né hanno scialuppa. Ora è grande l’angoscia. Dinanzi a loro, vicina vedono la terra e non hanno vento con cui possano raggiungerla. Su e giù vanno dondolando, ora indietro e poi avanti. Non possono proseguire il loro cammino, vengono a trovarsi in grandissimo impaccio. Isotta n’è molto addolorata: vede la terra che ha tanto desiderata e non vi può approdare; per poco non muore dal desiderio.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
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1. lene: debole, lieve. 2. Intesa: concentrata, determinata a realizzare.
Terra desiderano sulla nave, ma il vento spira troppo lene1. Spesso Isotta si chiama sventurata. La nave desiderano sulla riva: ancora non l’avevano avvistata. Tristano n’è dolente e infelice, sovente si lagna, sovente sospira per Isotta che tanto desidera, piange dagli occhi e si tormenta, per poco non muore dal desiderio. In quell’angoscia, in quel cruccio, viene dinanzi a lui sua moglie Isotta. Intesa2 al grande inganno che ha meditato, gli dice: «Amico, arriva Caerdino. Ho visto in mare la sua nave, a fatica l’ho veduta navigare, tuttavia l’ho veduta sì che per sua l’ho riconosciuta. Dio conceda che porti tal novella3 di cui nel cuore abbiate conforto!». All’annuncio Tristano ha un soprassalto, dice a Isotta: «Cara amica, siete sicura che è proprio la sua nave? Or ditemi: quale è la vela?». Così dice Isotta: «Sono sicura; sappiate che la vela è tutta nera: l’hanno issata e levata su in alto, perché manca loro il vento». Allora Tristano ha sì gran dolore, che più grande non ebbe mai né avrà, e si volta verso la parete, e dice: «Dio salvi Isotta e me! Poiché a me non volete venire, per vostro amore debbo morire. Io non posso più durare4 la vita, per voi muoio, Isotta, cara amica. Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo m’è, amica, gran conforto, che avrete pietà della mia morte». «Amica Isotta!» tre volte ha esclamato, alla quarta rende lo spirito5. Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Il clamore è alto, il pianto grande.
3. tal novella: la notizia cioè che la nave sta riportando a Tristano Isotta «la bionda». 4. durare: prolungare.
5. rende lo spirito: rende l’anima a Dio, muore.
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Accorrono cavalieri e serventi e lo traggon fuori dal suo letto, poi lo coricano sopra uno sciamito6 e lo coprono d’un drappo listato7. Sul mare s’è levato il vento e prende in pieno la vela. A terra sospinge la nave. Isotta dalla nave è scesa, ode i grandi pianti nella strada, le campane delle chiese, delle cappelle; domanda notizie alla gente, perché quei rintocchi e per chi sia quel compianto. Un vecchio allora le dice: «Bella signora, che Dio m’aiuti, noi abbiamo sì gran dolore che alcuno mai ne conobbe più grande. Tristano, il prode, il generoso, è morto». […] Isotta corre là dove scorge la salma, si volge verso oriente, prega piamente per lui: «Amico Tristano, dal momento che morto vi vedo, è ben ragione ch’io non debba più vivere! Siete morto per il mio amore, e io muoio, amico, di tenerezza, poiché a tempo non potei giungere voi e il vostro male a guarire. Amico, amico, per la vostra morte non avrò mai di nulla conforto, gioia, letizia, né piacere alcuno. Quel maltempo sia maledetto, che tanto mi fece, amico, in mare tardare, sì ch’io non potei giungere. Se io fossi a tempo arrivata, la vita v’avrei ridata, e dolcemente parlato con voi dell’amore ch’è stato tra noi; rimpianta avrei la nostra sorte, la nostra gioia, il nostro piacere, e la pena e il gran dolore ch’è stato nel nostro amore, tutto ciò avrei ricordato e baciato v’avrei e abbracciato. Ma se io non v’ho potuto guarire, che insieme dunque possiamo morire!
6. sciamito: drappo di seta. 7. listato: bordato di nero, in segno di lutto.
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La morte di Tristano e Isotta, XV secolo, miniatura dal Roman de Tristan, codice 645-647/315-317, Chantilly, Musée Conde.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
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Dal momento che non potei giungere in tempo e non seppi quel ch’era accaduto, e son giunta alla vostra morte, dello stesso filtro8 avrò conforto. Per me avete perduto la vita, ed io farò come verace amica: per voi del pari voglio morire». Lo abbraccia e s’abbandona distesa, gli bacia la bocca ed il viso e strettamente a sé lo stringe, corpo a corpo, bocca a bocca, s’abbandona, il suo spirito allora rende, e muore così al suo fianco per il dolore del suo amico. Tristano è morto per il suo desiderio, Isotta perché in tempo non poté giungere; Tristano è morto per suo amore e la bella Isotta di tenerezza. Le più belle pagine della letteratura d’oc e d’oïl, trad. it. di A. Roncaglia, Nuova Accademia, Milano 1961
8. filtro: bevanda, pozione magica (è usato in senso metaforico e ricorda il «filtro» che aveva provocato l’innamoramento dei due giovani).
Analisi del testo Mito di Amore e Morte
Amore matrimoniale e amore cortese
Valori simbolici
L’episodio, risolutivo e cruciale della leggenda di Tristano, ha fissato per secoli, nella letteratura e nell’immaginario occidentale, il mito dell’amore invincibile e indistruttibile, suggellato ed esaltato dalla morte. Questa rappresentazione dell’amore, che giunge sino al supremo sacrificio, rimarrà infatti presente in tutta la letteratura europea sino al Romanticismo. Andando al di là dell’unione terrena dei corpi, la morte congiunge le anime per l’eternità, consentendo di realizzare interamente le aspirazioni di un desiderio sovrumano. Essa appare così come la prova suprema e decisiva, in cui si riassumono tutti gli ostacoli in precedenza incontrati e superati. L’ultimo è quello che tenta di frapporre, con l’inganno, la moglie dell’eroe, Isotta «dalle bianche mani»; ed è l’estrema difesa tentata da un amore puramente terreno, qual è quello matrimoniale, regolato dalle norme comuni e da consuetudini puramente esteriori. L’amore cortese, come quello che Tristano prova per Isotta «la bionda», si colloca, invece, come valore assoluto, del tutto al di fuori delle regole sociali e l’adulterio diventa un vero e proprio diritto della donna. Certo i meccanismi dell’inganno di Isotta «dalle bianche mani» e i segni di riconoscimento appartengono ad una tipologia genericamente romanzesca, che si propone di dilazionare l’attesa e di accrescere la tensione; ma il colore delle vele, da cui dipende la salvezza degli amanti, assume un valore simbolico: il bianco rimanda all’esito felice della vicenda; il nero, da sempre associato alla morte, anticipa la crudele soluzione del dramma. Inoltre il viaggio per mare di Isotta «la bionda», che sta per raggiungere l’amore e la morte, è anche un viaggio verso il mistero delle terre ignote. 55
L’età cortese
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Quali fatti e/o situazioni presentati dal racconto rimandano rispettivamente alla sfera dell’amore coniugale e a quella dell’amore cortese?
aNaLizzare
> 2. Quali altri temi e/o motivi, oltre l’amore e la morte, sono presenti nel passo in relazione anche a personaggi minori e aspetti secondari del racconto? > 3. Lessico Il termine “amico/a” assume nel testo (tradotto dal volgare d’oïl) una particolare connotazione che sembra divergere dal significato comune nella lingua italiana: quale? aPProFoNdire e iNterPretare
> 4. testi a confronto: scrivere Il mito dell’amore nell’immaginario occidentale: in un testo di circa 24 righe (1200 caratteri) delinea un confronto fra i due esempi finora proposti, Lancillotto e Ginevra ( T2, p. 46) e Tristano e Isotta. > 5. Competenze digitali Organizza il testo in slides che facciano riferimento (anche nella scelta dei caratteri grafici, dei colori, delle forme…) alle due atmosfere prevalenti nel passo, la speranza e il dolore. Correda poi ognuna di esse di musiche – scelte anche nell’ambito della produzione contemporanea – adatte alla situazione rappresentata.
3 La prima parte del romanzo
Il cambiamento di impostazione
La traduzione italiana
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Il Roman de la rose e i fabliaux il Roman de la rose Grande fortuna ebbe nel Medioevo anche il Roman de la rose (“Romanzo della rosa”), che ci è giunto in due parti distinte, opera di diversi autori. La prima è stata composta verso il 1230 dal chierico Guillaume de Lorris, e consta di 4000 versi, ottonari a rima baciata. È il racconto di un sogno, in cui l’amante entra nel giardino inaccessibile di Amore per “cogliere la rosa”. Nella sua impresa viene accompagnato da un personaggio allegorico che si chiama Bell’Accoglienza e consigliato dalla “signora Ragione”, mentre cercano di ostacolarlo e respingerlo Vergogna, Paura, Pericolo, Maldicenza, che custodiscono la rosa, simbolo della donna e della passione amorosa. Ne risulta una sorta di “arte d’amare”, che, trasferendo il procedimento allegorico dalla letteratura religiosa a quella profana, si richiama ai valori e alle convenzioni dell’amore cortese codificati da Andrea Cappellano ( La voce dei testi, p. 26). Il Roman è stato continuato, circa quarant’anni più tardi, da un altro chierico, Jean de Meung, che ne ha decisamente mutato l’impostazione. All’amore cortese, che presuppone l’adorazione estatica della donna, si sostituisce un amore fisico, più scopertamente sensuale, che si traduce in un’esaltazione delle forze della Natura, presente nell’opera come personaggio allegorico. Conosciuta ben presto anche in Italia, l’opera ha avuto sul finire del XIII secolo una traduzione parziale in volgare fiorentino che, intitolata Il fiore, è costituita da una collana di 232 sonetti ( T4, p. 57). Sebbene ci sia giunta anonima, parte della critica ha ritenuto di poterla attribuire al giovane Dante, secondo un’ipotesi ribadita da un filologo illustre come Gianfranco Contini, che ne ha curato l’edizione critica.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
i fabliaux Un genere comico e popolare
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I generi di cui ci siamo occupati sono generi “alti”, in quanto rappresentano i più nobili valori culturali e sociali. Accanto a questa linea si può identificare una tendenza antagonistica, l’espressione di un diverso punto di vista, che si propone di irridere o contestare le forme e i modi dell’ideologia ufficiale. È quanto accade nei fabliaux (“favolelli”), componimenti narrativi in versi di varia estensione, che raccontano vicende comiche e popolari, con un taglio ironico e irriverente ( T5, p. 60). Se il loro contenuto appartiene al livello basso della realtà quotidiana, con il prevalere dell’elemento materiale-corporeo tipico della letteratura carnevalesca, il linguaggio appare particolarmente libero e disinibito, spingendosi sino all’aperta oscenità. Il mondo raffigurato è quindi antitetico rispetto a quello delle convenzioni cortesi e gli anonimi autori ne sono ben consapevoli, a conferma del carattere non spontaneo, ma letterario, di questa produzione. Il racconto delle vicende si risolve per lo più nel riso aperto e nella pura comicità, ma riveste talora anche un significato di polemica e di denuncia nei confronti delle differenze e delle ingiustizie sociali. Nei fabliaux confluisce una secolare tradizione di scherzi e di burle, di facezie e battute spiritose; a loro si ispirerà a sua volta la produzione novellistica e lo stesso Boccaccio ( L’età comunale in Italia, cap. 6, p. 490 e ss.) ne ricaverà spunti e suggerimenti, soprattutto per quanto riguarda le più salaci novelle di beffa.
il contrasto fra amore e ragione da Il fiore
temi chiave
• le sofferenze dell’amore • il “servizio d’amore” • l’invito della Ragione a evitare gli eccessi
I sonetti sono, rispettivamente, il V e il IX fra quelli che compongono Il fiore.
> Metro: ABBA, ABBA, CDC, DCD.
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V Con grande umilitate e pacïenza1 promisi a Amor a sofferir sua pena2, e ch’ogne membro, ch’ i’ avea, e vena disposat’era a farli sua voglienza3;
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e solo a lui servir la mia credenza è ferma4, né di ciò mai non allena5: insin ched i’ avrò spirito o lena6, i’ non farò da ciò già ma’ partenza7.
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1. pacïenza: pazienza. 2. a sofferir sua pena: di sopportare le sue sofferenze, i dolori che mi avrebbe provocato. 3. ch’ogne … voglienza: che ogni parte del mio corpo (membro) e ogni vena erano disposti a fare la sua volontà, a ubbidirgli. 4. a lui servir … ferma: per servirlo la mia
E quelli8 allor mi disse: “Amico meo, i’ ho da te miglior pegno che carte9. Fa’ che m’adori. Ched10 i’ son tu’ Deo; fede (credenza) è salda; è il “servizio d’amore” che si presta alla donna amata. 5. non allena: non allenta, non smetterà. 6. insin … lena: sino a quando avrò fiato; spirito e lena sono sinonimi. 7. i’ non … partenza: io non mi allontanerò mai da questo proposito (da ciò).
8. quelli: Amore. 9. i’ ho … carte: io ho da te una migliore garanzia (pegno) che se tu mi avessi firmato dei documenti (carte), delle obbligazioni. 10. Fa’ … Ched: fai in modo di adorarmi. Perché.
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L’età cortese
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ed ogn’altra credenza metti a parte11, né non12 creder né Luca né Matteo né Marco né Giovanni13”. Allor si parte14.
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IX Dogliendomi in pensando15 del villano16 che sì vilmente dal fior m’ha lungiato17, ed18 i’ mi riguardai dal dritto lato19, e sì vidi Ragion col viso piano20
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venir verso di me, e per la mano mi prese e disse: “Tu se’ sì smagrato, i’21 credo che tu ha’ troppo pensato a que’ che ti farà gittar in vano22,
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ciò è Amor, a cui dat’ hai fidanza23. Ma se m’avessi avuto al tu’ consiglio24, tu non saresti gito co·llu’ a danza25;
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ché sie certano26, a cu’ e’ dà di piglio27, egli ’l tiene in tormento e malenanza28, sì che su’ viso non è mai vermiglio29”.
11. ogn’altra … parte: metti da parte, lascia stare ogni altra fede. 12. né non: e; si tratta di una doppia negazione che afferma. 13. Luca … Giovanni: sono i quattro evangelisti, che rappresentano la religione cristiana. 14. si parte: si allontana. 15. Dogliendomi in pensando: mentre, pensando, mi lamentavo. 16. villano: è l’«“ortolano / d’esto giardin”, che, appostato, era sbucato fuori con una mazza impedendo all’amante di cogliere il
fiore» (Contini); villano è parola del mondo cortese e indica il personaggio negativo che ne rifiuta i valori. 17. lungiato: allontanato. 18. ed: ecco che. 19. i’ mi … lato: mi voltai dalla parte destra. 20. piano: «mite» (Contini), calmo e sereno. 21. sì smagrato, i’: così dimagrito, che. 22. gittar in vano: affaticare, affannare inutilmente; «metafora francese tratta dal gioco dei dadi, ‘“gettare a vuoto“» (Contini). 23. dat’ hai fidanza: hai giurato fedeltà; si riferisce al sonetto precedente.
24. al tu’ consiglio: a consigliarti. 25. non saresti … danza: non ti saresti messo d’accordo con lui; quasi accordando i tuoi passi ai suoi, come si fa nella danza. 26. sie certano: stai pur certo. 27. dà di piglio: afferra, impadronendosene. 28. ’l tiene … malenanza: lo tiene in continue angustie e sofferenze; malenanza è sinonimo di “tormento”. 29. vermiglio: propriamente rosso, nel senso di colorito. Il viso bianco, pallido, è invece proprio di chi soffre le pene d’amore.
Il duello tra Cuore e Ragione, 1465, miniatura dal Livre du cœur d’Amour épris di Renato d’Angiò, codice Vindobonensis 2597, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
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Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
Analisi del testo Il contrasto, allegoricamente raffigurato nei due sonetti, ha le sue radici nella letteratura del mondo classico e avrà anche in seguito svariate riprese e rielaborazioni. Le sofferenze del “servizio d’amore”
I richiami ad altri testi
Un sonetto antireligioso
I richiami della Ragione
> La sottomissione ad amore
Nel primo sonetto l’amante si mette nelle mani di Amore, offrendogli una dedizione e una sottomissione assolute, nonostante la consapevolezza della «pena», ossia delle sofferenze, che la passione amorosa finisce inevitabilmente per comportare. Anche qui, secondo i canoni dell’amor cortese, si profila la condizione di inferiorità dell’innamorato, il cui servizio, prestato ad Amore, equivale a quello nei confronti della donna amata; che è per definizione crudele, pretendendo da chi l’ama un atteggiamento di sudditanza totale. Non è difficile, in proposito, rinviare al rapporto fra Ginevra e Lancillotto, nella misura in cui l’amante è disposto, pur di non perdere la donna amata, a sopportare ogni tipo di imposizione. Si possono vedere più avanti gli effetti devastanti di questa condizione nella lirica stilnovistica di Guido Cavalcanti ( L’età comunale in Italia, cap. 2, T9, p. 162), mentre, nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore ( L’età comunale in Italia, cap. 2, T6, p. 152), Guido Guinizzelli sottolineerà le ambiguità e le contraddizioni fra l’amore per una creatura terrena e quello che invece spetta soltanto a Dio. In questo sonetto del Fiore la situazione tocca apertamente, invece, un tasto non solo laico, ma apertamente antireligioso: Amore chiede addirittura di essere adorato, con una disposizione che appartiene solo alla divinità; in parallelo nega il valore della fede, chiedendo di non credere alle parole del Vangelo.
> L’intervento di ragione
A questo atteggiamento addirittura blasfemo si oppone Ragione, che, rivolgendosi all’Amante, allontanato da un «villano» (si noti ancora la terminologia ricavata, qui in negativo, dalla scala dei valori cortesi) che gli ha impedito di raccogliere il “fiore” (metafora evidente del possesso amoroso), lo mette in guardia dai rischi di una passione che potrebbe divenire incontrollabile. Il rammarico della ragione, che non ha potuto impedire la sudditanza rispetto ad Amore, è anche il richiamo a una ragionevolezza che, ispirandosi alla concezione filosofica (e aristotelica in particolare) del giusto mezzo, si propone di evitare ogni eccesso, dannoso per chi non sa resistere alle passioni (l’essere «smagrato» e il pallore del volto, segni evidenti della malattia, insieme con il «tormento» e la «malenanza»). Non a caso Ragione si presenta «col viso piano» e, agli imperativi di Amore (sonetto V, «Fa’ che m’adori», v. 11; «né non creder», v. 13), oppone la logica di una pacata argomentazione, destinata tuttavia, proprio perché espressione di un più comune buon senso, a essere meno convincente ed efficace.
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Che cosa dice Amore all’amante nel sonetto V? > 2. Svolgi la parafrasi del discorso della Ragione nel sonetto IX. aNaLizzare
> 3. Al centro della vicenda narrata ne Il fiore c’è l’Amante che, divenuto seguace d’Amore, desidera ardentemen-
te un bellissimo fiore che si trova nel giardino di Piacere. Distingui nei due sonetti gli aiutanti dagli oppositori, rispetto allo scopo che il protagonista vuole raggiungere ad ogni costo, il possesso del fiore. > 4. stile Rintraccia nei due componimenti la figura retorica della personificazione.
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L’età cortese
> 5.
stile Individua nel sonetto V i seguenti artifici retorici, che ne evidenziano l’origine imitativa e parodica ed il forte sperimentalismo linguistico: a) le rime francesi in -enza; b) la rima derivativa e quella equivoca; c) la paronomasia; d) il poliptoto.
aPProFoNdire e iNterPretare
> 6.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) spiega i motivi per cui i due sonetti appartengono al filone della poesia allegorica.
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La donna fatale da Richeut
temi chiave
• il prototipo della donna perversa • un atteggiamento misogino • l’opposizione della donna cortese
Il poemetto, che risale a un periodo compreso fra il 1159 e il 1170, è stato considerato come il precursore dei fabliaux, racconti comici in versi ( p. 57), dai quali tuttavia si distingue per l’insolita lunghezza (1318 versi), per il metro (da due a quattro ottosillabi, seguiti da un quadrisillabo o da un bisillabo) e per qualche riferimento alla letteratura latina (l’autore era probabilmente un chierico). Riportiamo l’inizio del testo, che narra gli inganni della cinica e spregiudicata Richeut, la quale, per farsi mantenere, aveva addossato la paternità del figlio Sanson a più d’uno dei suoi amanti.
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1. il belletto: il trucco.
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Ora smettetela e ascoltate voi che volete udire di Richeut; avete sentito molte volte raccontare la sua vita. Fu maestra di dissolutezza, ebbe in suo potere molte donne di cui era l’esca e la guida con la sua astuzia. Ancora nessuna si libera di lei e ciascuna diventa la Richeut della vicina. Non si trova più una giovinetta che sia incline alla virtù: si mette supina per quattro soldi, quando trova chi glieli dà. Al mondo non ce ne sono di oneste, anzi, si contano sulle dita. Questo è il colmo del vizio; dànno il belletto1 alla loro foga lasciva2. Ciascuna si preoccupa di prepararsi bene. 2. foga lasciva: voglia licenziosa, dissoluta.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
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Quando un giovanotto ha di che dare, smaniano tutte per abbracciarlo, per raggirarlo e tormentarlo: questa si chiama dissolutezza, ma ce l’hanno in eredità dagli avi. Tutte sanno ingannare, senza distinzione, ma a insegnarglielo fu Richeut che viaggiò molto a lungo in tutto il mondo; le ammaestrò bene in ogni dove. Nostro Signore confonda Richeut che causò tanto male: prese l’abito di monaca ma lo tenne ben poco. Ascoltate, che Dio vi protegga, cosa le accadde: se ne andò dal convento, lì c’erano più di venti monache, non ci volle più stare, non solo, si tirò dietro anche il prete. Così gli tolse il regno celeste, perché fu preso con lei, ucciso e fatto a pezzi. Questo procurò ai suoi amanti che sono molti per il paese. […] Perfino ser Guillaume, il possidente, che era tutto dedito a pregare il Signore, per lei si bevve il destriero e i finimenti3. Richeut si prende gioco dei cortesi, chierici, cavalieri e borghesi, e dei villani. Ovunque Richeut metta le mani inganna le altre puttane. Richeut è sempre alla cerca, è fiera e temeraria. Se avessi ascolto, ora direi un racconto su di lei, superiore a tutti gli altri, e non rinuncerò per vergogna a raccontarvelo; chi narra la vita di Richeut non può usare un linguaggio cortese. Fabliaux. Racconti francesi medievali, trad. it. di R. Brusegan, Einaudi, Torino 1980
3. i finimenti: le bardature, gli ornamenti del cavallo.
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Analisi del testo Ritratto di Richeut
Richeut come “eroina negativa”
Dichiarazione di poetica
Richeut è presentata come il prototipo della donna perversa e crudele, «maestra di dissolutezza», il cui esempio è capace di corrompere ogni donna. Tutti e tutte inganna Richeut, nella sua inarrestabile carriera del vizio: siamo già nell’ambito della letteratura erotica e libertina, che avrà, nel Cinquecento, il suo più noto rappresentante in Pietro Aretino. Si può anche notare, in questi versi, un atteggiamento misogino, di odio cioè verso le donne, così come non manca, da parte di chi racconta, un tentativo di riprovazione, di condanna moralistica («Nostro Signore confonda Richeut / che causò tanto male», vv. 34-35). Ma si tratta di una condanna quasi obbligata e convenzionale; l’interesse vero sta nell’agilità del racconto, nella capacità di delineare una figura estremamente viva, e ciò proprio in virtù del carattere della donna e delle azioni che compie. Richeut non è raffigurata realisticamente, ma in maniera iperbolica e quasi simbolica: essa incarna la forza del sesso quale elemento dissolutore dell’ordine sociale, come risulta dall’elenco delle sue prime vittime, che occupavano posizioni rispettabili ed elevate (il prete del convento, il possidente ser Guillaume). Tutti coloro che la frequentano vedono rovesciarsi la loro fortuna e condizione, andando sia spiritualmente sia materialmente in rovina (il prete «fu […] ucciso e fatto a pezzi», vv. 45-46; ser Guillaume «per lei si bevve il destriero / e i finimenti», vv. 52-53). A questo esito conduce la forza travolgente della seduzione e dell’abbandono agli istinti. Richeut rappresenta l’opposto dell’immagine idealizzata e convenzionale della donna cortese, fonte di elevazione spirituale; di questi valori essa è la distruttrice e dissacratrice. L’autore mostra di averne piena coscienza, se è vero che, alla materia bassa proposta come oggetto di rappresentazione, si accompagna una precisa scelta stilistica: «chi narra la vita di Richeut / non può usare un linguaggio cortese», vv. 66-67. Il fabliau si pone così come alternativa alla letteratura alta, aristocratica e sublime, collegandosi al filone carnale, materiale, carnevalesco ( L’età comunale in Italia, Il carnevale e la letteratura carnevalizzata, p. 180) del Medioevo.
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Come è descritta Richeut? Quali sono le sue caratteristiche morali? > 2. Come si comportano le donne dopo aver ricevuto gli insegnamenti di Richeut? > 3. Spiega le espressioni «ciascuna diventa la Richeut / della vicina» (vv. 10-11) e «dànno il belletto / alla loro foga lasciva» (vv. 19-20).
aNaLizzare
> 4. > 5. > 6.
Quale figura retorica puoi rintracciare nei versi 11-12, 16-17, 28-29? Che cosa simboleggia Richeut? Lessico Leggiamo negli ultimi due versi: «Chi narra la vita di Richeut / non può usare un linguaggio cortese» (vv. 66-67); rintraccia, pertanto, nel componimento espressioni proprie della cosiddetta “letteratura carnevalizzata”, di cui i fabliaux sono espressione. stile stile
aPProFoNdire e iNterPretare
> 7. Contesto: storia Richeut è esattamente l’opposto della donna cortese: è una donna fatale, capace di sedurre e ammaliare chiunque con le sue arti e i suoi inganni; dissoluta e lasciva, sembra aver fatto un patto con il diavolo, come quelle donne-streghe che in età successiva, tra il XIII e il XVII secolo, saranno perseguitate da parte della Chiesa cattolica per i loro presunti poteri malefici. Approfondisci la conoscenza di tale fenomeno, con l’eventuale aiuto dell’insegnante di storia.
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Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
4 La lirica in lingua d’oc
I trovatori e i giullari
I principali trovatori
Testi Bertran de Born • Il piacere della guerra Rudel • Amore di terra lontana
La lirica provenzale gli autori Nel corso del XII secolo l’ideale cortese ( Il contesto, pp. 24-25) fu elaborato soprattutto nelle corti del Sud della Francia, la Provenza, dove si era sviluppata una società aristocratica estremamente elegante e raffinata che dava grande importanza anche alla letteratura. Qui la concezione cortese dell’amore trovò espressione nella poesia lirica in lingua d’oc (così detta dalla parola che significava “sì”). Era una poesia che veniva cantata in pubblico, con accompagnamento di musica. I poeti, che componevano sia i testi poetici sia la musica, erano detti trovatori (trobadors) dal verbo trobar, che significa appunto “comporre musica”. Talora erano gli stessi trovatori ad eseguire dinnanzi al pubblico le loro composizioni, talora invece l’esecuzione era demandata a cantori professionisti, i giullari, anch’essi non privi di cultura. Nel secolo XIII poi la trasmissione fu affidata anche alla scrittura ed alla lettura. Della produzione provenzale ci restano 2542 componimenti e conosciamo i nomi di ben 460 trovatori. Ciò testimonia che ormai l’autore aveva piena coscienza di sé, tanto da sentire il bisogno di tramandare il proprio nome insieme alla composizione. Il primo dei trovatori, secondo la tradizione, fu Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1126), un grande signore feudale amante della guerra e dei piaceri. Egli ci ha lasciato una decina di testi, tra i quali anche canzoni d’amore secondo il codice cortese. Altri poeti successivi appartengono a varie condizioni sociali. L’ambiente in cui si esercita l’attività dei trovatori, ed in cui si trova il loro pubblico, è la corte feudale. Tra i poeti più noti segnaliamo: Bertran de Born, ricordato in particolare per i suoi versi guerreschi; Jaufré Rudel, che canta le enigmatiche suggestioni dell’“amore lontano”; Bernart de Ventadorn ( A3, p. 65), considerato da molti il maggiore esponente della poesia sentimentale e amorosa, nella sua forma più scorrevole e musicale; Arnaut Daniel ( A4, p. 68), poeta d’amore in forme sottili e preziose, particolarmente ricercate ed elaborate.
temi e forme poetiche Il tema amoroso
I generi di componimenti
Il tema centrale della poesia trobadorica è l’amore, trattato secondo i canoni cortesi. Il poeta, seguendo un rituale codificato ed un sistema di topoi (luoghi comuni) letterari, esprime la sua adorazione e il suo omaggio alla donna, di cui si proclama umile servitore, senza pretendere nulla in cambio, manifesta il suo desiderio, spesso fortemente sensuale, ma anche il tormento di non poter ottenere il suo fine, perché la fedeltà della donna al marito è incrollabile. Indipendentemente dal senso di insoddisfazione e di sofferenza, dall’amore deriva egualmente un senso di felicità e di pienezza, la gioia, tema ricorrente nei trovatori, che si colloca generalmente sullo sfondo del rinascere rigoglioso della natura a primavera. L’amore è proclamato fonte di ogni bontà, bellezza, gentilezza d’animo. Poiché si tratta di un amore adultero, vi è però sempre il timore che i “malparlieri” possano diffondere maligne indiscrezioni, attentando all’onore e alla rispettabilità della donna. Per questo il suo nome nella poesia non viene mai citato ed essa viene indicata attraverso un soprannome fittizio (senhal). La tematica amorosa non è però esclusiva della lirica provenzale: i trovatori trattano anche temi politici, guerreschi, morali, satirici. Bertran de Born, ad esempio, canta la guerra, Guiraut de Bornelh temi morali. La poesia trobadorica è estremamente elaborata dal punto di vista formale, nel linguaggio, squisitamente letterario e raffinato, nella metrica, negli artifici retorici. 63
L’età cortese
Trobar clus e trobar leu
Il genere per eccellenza è la grande canzone d’amore, dal complesso sistema metrico. Ancora più elaborata è la sestina, ripresa poi da Dante e Petrarca. Altri generi di componimenti sono il sirventese (sirventes), lunga canzone di argomento morale, politico o polemico, collegata ad un fatto esterno o contemporaneo; il compianto (planh), che è un sirventese dedicato a piangere un personaggio famoso; la tenzone (joc partit), una discussione tra più poeti, in genere su argomento amoroso; la pastorella (pastorelle), in cui un cavaliere cerca di sedurre una contadina, che resiste alla sua seduzione; l’alba (aube), un lamento dell’amante o della donna, addolorati perché l’arrivo dell’alba li separa; il plazer (piacere), che è un’enumerazione di cose piacevoli; il suo contrario, l’enueg (noia), elenco di cose sgradevoli. All’interno della produzione trobadorica si delineano anche diverse tendenze di stile: il trobar clus (“poetare chiuso”), che consiste in uno stile elaboratissimo, artificioso ed oscuro, il cui maggiore rappresentante è Arnaut Daniel, ed il trobar leu (“poetare dolce, piano”), di cui l’esponente principale è Bernart de Ventadorn, che è più limpido ed aggraziato.
L’eredità della lirica provenzale La crociata contro gli albigesi
I trovatori in Italia
All’inizio del XIII secolo il papa Innocenzo III, con l’appoggio del re di Francia, sotto il pretesto di una crociata contro la setta degli albigesi o càtari, diffusa in Provenza, scatenò una terribile guerra che distrusse totalmente la potenza dei signori provenzali e di conseguenza anche la cultura sviluppatasi nelle loro corti. L’eredità di questa cultura sopravvisse in alcune corti del Nord della Francia, grazie a Maria di Champagne, di origine provenzale, che favorì lo sviluppo del romanzo cavalleresco. In queste corti settentrionali si sviluppò anche una poesia in lingua d’oïl, grazie ai trovieri (trouvaires). I trovatori stessi si dispersero nei paesi confinanti, come la Spagna e l’Italia. Ricordiamo Raimbaut de Vaqueiras, che compose a Genova una sorta di pastorella in cui la donna usa il dialetto genovese ed il trovatore la lingua d’oc, e Uc di Saint Circ, autore di biografie (vidas) di trovatori e commenti (razos) alle loro poesie. I trovatori si spinsero, oltre che nell’Italia settentrionale, anche al Sud, alla corte di Federico II, dove si sviluppò la scuola siciliana ( L’età comunale in Italia, cap. 2, p. 131).
Visualizzare i concetti
La poesia dei trovatori LiricA provenzALe (poesia per musica)
Zona d’origine: Francia del sud
Lingua usata: volgare d’oc
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Repertorio di situazioni e di luoghi comuni: il codice dell’amor cortese
Temi principali: – amore – attualità – politica
Autori: trovatori
Trasmissione scritta
Generi più diffusi: – canzone – sestina – sirventese – pastorella – plazer
Pubblico: dame e cavalieri delle corti feudali
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
A3 Testi Bernart de Ventadorn • Canzone della lodoletta
T6
Bernart de Ventadorn Vissuto nel secolo XII, frequentò la corte dei visconti di Ventadour (o Ventadorn), dove era nato, e poi quella prestigiosa di Eleonora d’Aquitania. Nel 1194 prese i voti nell’abbazia cistercense di Dalon, nella regione della Dordogna, dove morì qualche anno dopo. Fu in contatto con alcuni fra i più noti trovatori e con Chrétien de Troyes ( A1, p. 45). Le canzoni che ci sono pervenute (una quarantina, tutte d’argomento amoroso) fanno di lui uno dei più limpidi e suggestivi poeti della letteratura medievale. La vita e le opere
Bernart de Ventadorn
amore e poesia La forma del componimento è quella della canzone, la maggiore fra quelle della lirica trobadorica.
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temi chiave
• il rapporto amante/amato • un amore sofferto e inappagato • l’amore come fonte di ispirazione poetica
Non è meraviglia s’io canto meglio d’ogni altro cantore, perché più il cuore ad amore m’astringe1 e meglio son disposto al suo comando. Cuore e corpo e sapere e senno e forza e potere ci ho messo: Così il freno mi stringe2 ad amore che altrove non tendo. Davvero è morto chi d’amore non prova alcuna dolcezza nel cuore. Vita senza pregio3 a che giova, se non per dar uggia4 alla gente? Che mai tanto Iddio m’abbia in ira ch’io sopravviva un sol giorno, un sol mese quando verrò colto in uggia e piú d’amore non avrò desìo5. Con fede schietta e senz’alcuno inganno io amo la più bella e la migliore. Dal cuore sospiro, dagli occhi piango, perché tanto io l’amo che ne soffro. E che poss’io, se amore6 m’imprigiona e il carcere in cui m’ha gettato non può altra chiave aprire, se non pietà, e di pietà in lei nulla ritrovo?
1. m’astringe: mi costringe. 2. mi stringe: mi spinge. 3. pregio: solo l’amore conferisce valore alla vita.
4. uggia: nell’originale enoi, che è più forte del nostro “noia”. 5. desìo: desiderio. 6. io l’amo … amore: nell’originale l’am fina-
men, cioè l’amo “finamente”. “Fino” è appunto definito l’amor cortese (fin’amor).
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L’età cortese
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Così soavemente mi ferisce nel cuore di dolcezza questo amore, che cento volte ogni giorno muoio di dolore e rinasco di gioia altre cento. Invero il mio male è di dolce sembiante e più vale il mio male che altro bene; e poi che tanto m’è dolce il mio male, dolce il bene sarà dopo il tormento. Oh Dio! se si potessero distinguere di tra i falsi gli amanti leali, e adulatori e impostori portassero corna sulla fronte! Tutto l’oro del mondo e l’argento se fosse mio, vorrei averlo dato pur che madonna sapesse come io l’amo di perfetto amore. Quand’io la vedo, ben mi si pare7 agli occhi, al viso, al colore: ché così tremo di paura come fa la foglia nel vento. Di ragione non ho quanto un fanciullo, così d’amore sono soggiogato, e d’uomo ch’è così ridotto donna potrebbe avere gran pietà. Donna gentile, nulla vi domando se non che m’accettiate per servente, ch’io vi presterò servizio come a buon signore, comunque vada poi col guiderdone8. Eccomi al vostro comando, cuore gentile, mite, gaio, cortese; né orso, né leone voi siete, che m’uccidiate, se mi rendo9 a voi. Al Mio Cortese, là dove dimora, invio il mio canto e non gl’incresca che me ne sono sì a lungo astenuto. Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, trad. it. di A. Roncaglia, cit.
7. mi si pare: si manifesta.
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8. guiderdone: ricompensa.
9. rendo: consegno.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
Analisi del testo È un testo estremamente significativo, in cui è possibile ravvisare gli elementi essenziali dell’amor cortese.
Il culto della donna L’inferiorità dell’amante
L’amore inappagato
La sofferenza
La “gioia”
L’amore sublimante
> i temi principali dell’amor cortese
In primo luogo il culto della donna. L’amata è vista come creatura superiore, eccezionale («io amo la più bella e la migliore», v. 18). L’inferiorità dell’amante, che si proclama suo umile servitore e le presta omaggio come a «buon signore» (v. 51). Il rapporto amante/amata si modella sul rapporto di vassallaggio feudale e ne mutua persino il linguaggio. Se qui la donna è solo paragonata al signore, in altri testi è chiamata direttamente midons (mio signore, al maschile, latino mi domine). Nella sua totale dedizione l’amante non chiede alcuna ricompensa ai suoi servigi: vale a dire che la soddisfazione del desiderio amoroso è esclusa a priori. L’amor cortese è per essenza inappagato («nulla vi domando», v. 49; «comunque vada poi col guiderdone», v. 52), benché non si tratti affatto di amor platonico, spirituale. L’irraggiungibilità dell’oggetto e la forza della passione generano sofferenza («Dal cuore sospiro, dagli occhi piango, / perché tanto io l’amo che ne soffro», vv. 19-20; «Quand’io la vedo […] così tremo di paura / come fa la foglia nel vento», vv. 41-44). Lo smarrimento dell’amante dinanzi alla donna, e soprattutto il tremore che l’assale, saranno poi temi cari allo stilnovismo italiano, in particolare di Cavalcanti e del Dante della Vita nuova. L’amore è però anche esperienza esaltante, ragione unica di vita, fonte di “gioia” (la “gioia” d’amore è uno degli elementi caratterizzanti la cortesia, ed è parola tematica ricorrente nella poesia di Bernart de Ventadorn): «Davvero è morto chi d’amore non prova / alcuna dolcezza nel cuore» (vv. 9-10). Anzi, vi è una voluttà nel soffrire, di cui l’amante si compiace: «Invero il mio male è di dolce sembiante / e più vale il mio male che altro bene» (vv. 29-30); «tanto m’è dolce il mio male» (v. 31). La voluttà nel soffrire d’amore sarà poi un tema centrale del Canzoniere di Petrarca. L’amore innalza l’amante, ne sublima l’animo, tanto che diviene la fonte stessa dell’ispirazione poetica: «Non è meraviglia s’io canto / meglio d’ogni altro cantore, / perché più il cuore ad amore m’astringe / e meglio son disposto al suo comando» (vv. 1-4).
> Lo stile
Come testimonia questa canzone (ed è possibile coglierlo anche nella traduzione italiana), ciò che caratterizza lo stile di Bernart de Ventadorn è la limpidezza del dettato e l’estrema fluidità musicale. Per questo egli è considerato il rappresentante principale del trobar leu (“poetare lieve”).
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Quali riferimenti presenti nel testo rimandano al ruolo del poeta? > 2. Avvalendoti anche dell’Analisi del testo, spiega il significato dei versi 25-32. aNaLizzare
> 3. > 4. > 5.
Quale espediente espressivo particolarmente efficace è presente ai versi 5-6? Ai versi 21-24 sono presenti due figure retoriche di significato: quali? stile «[…] tremo di paura / come fa la foglia nel vento» (vv. 43-44): di quale figura retorica si tratta? Quale immagine suggerisce, in riferimento al tema trattato nella canzone? > 6. Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli e/o le espressioni che rimandano al rapporto di “vassallaggio feudale” che caratterizza l’inferiorità dell’amante nei confronti dell’amata. > 7. Lingua Come si afferma nell’Analisi del testo, il trobar leu (“poetare lieve”) caratterizza la canzone. Quali aspetti sintattici, a tuo parere, ne determinano la limpidezza del dettato e l’estrema fluidità musicale? stile stile
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L’età cortese
aPProFoNdire e iNterPretare
> 8.
Contesto: storia
Delinea il contesto storico che fa da sfondo alla genesi e al diffondersi della lirica provenzale.
Passato e PreseNte i giovani e il “vassallaggio” d’amore
> 9. Esistono oggi, nell’ambito delle modalità con cui i giovani vivono le esperienze amorose, forme di “vassallaggio” dell’amante nei confronti dell’amata? Oppure ritieni che la parità fra i sessi, l’apertura e la libertà nel vivere i sentimenti abbiano completamente annullato le differenze di ruolo di cui si è fatta portavoce la tradizione cortese? Rispondi dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
A4
arnaut daniel La vita Sono scarse le notizie sulla sua vita. Probabilmente di origine nobiliare, nacque verso il 1150-60 nel vescovado di Perigeux (Dordogna). Esercitò la sua attività di poeta tra il 1180 e il 1210, ospite di varie corti della Francia meridionale, forse anche di quella del re d’Aragona.
Ci sono stati tramandati 18 suoi componimenti: 16 canzoni, una sestina (forma metrica introdotta da lui e poi ripresa da Dante e Petrarca sino ad Ungaretti) e un sirventese. Significativo esponente del trobar clus, cioè del poetare difficile, artificioso ed ermetico, fu ammirato da Dante, che nel Purgatorio (XXVI, v. 117) lo ricorda come il «miglior fabbro del parlar materno». Le opere
T7
arnaut daniel
temi chiave
arietta In questo testo il poeta analizza la propria condizione di letterato.
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1. li digrosso e piallo: paragonando l’attività del poeta a quella del falegname, il poeta perfeziona i propri versi come l’artigiano elimina le impurità del legno grezzo piallandolo.
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• l’attività del poeta • il legame donna-poeta • la solitudine dell’amante e del poeta
Su quest’arietta leggiadra e leggera compongo versi e li digrosso e piallo1, e saran giusti ed esatti2 quando ci avrò passata su la lima; ché Amore istesso leviga ed indora3 il mio canto, ispirato da colei che pregio mantiene e governa4. In bene avanzo ogni giorno e m’affino perché servo5 ed onoro la più bella del mondo, ve lo dico apertamente. 2. giusti ed esatti: versi perfetti. 3. leviga ed indora: rende liscio e ricoperto d’oro; si allude alla preziosità del canto. 4. colei … governa: la donna amata dal poeta in confronto alla quale si valuta il valore.
5. In bene avanzo … servo: miglioro e mi raffino di giorno in giorno perché servo (poiché sono servo della donna che amo). Si allude all’amore inteso come servizio feudale da parte dell’amante.
Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
Tutto appartengo a lei, dal capo al piede, e per quanto una gelida aura spiri6, l’amore ch’entro nel cuore mi raggia7 mi tien caldo nel colmo dell’inverno. 15
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Mille messe per questo ascolto ed offro, per questo accendo lumi a cera e ad olio: perché Dio mi conceda felice esito di quella contro cui schermirsi è vano8; e quando miro9 la sua chioma bionda e la persona10 gaia, agile e fresca più l’amo che d’aver Luserna11 in dono. Tanto l’amo di cuore e la desidero, che per troppo desìo12 temo di perderla, se perdere si può per molto amare. Il suo cuore sommerge interamente tutto il mio, né s’evapora13. Tanto ha oprato d’usura che ora possiede officina e bottega14. Di Roma non vorrei tener l’impero, né bramerei esserne fatto papa, se non potessi tornare a colei per cui il cuore m’arde e mi si spezza. E se non mi ristora dell’affanno pur con un bacio, pria dell’anno nuovo, me fa morire e a sé l’anima danna. Ma per l’affanno15 ch’io soffro dall’amarla non mi distolgo, bench’ella mi costringa a solitudine, sì che ne faccio parole per rima. Più peno, amando, di chi zappa i campi, ché punto più di me non amò quel di Monclin donna Odierna16. Io sono Arnaldo che raccolgo il vento e col bue vado a caccia della lepre e nuoto contro la marea montante17. Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, trad. it. di A. Roncaglia, cit.
6. una gelida aura spiri: soffi un vento freddo. 7. nel cuore mi raggia: si diffonde nel mio cuore. 8. schermirsi è vano: è inutile cercare un riparo. 9. miro: ammiro. 10. la persona: il corpo. 11. Luserna: città immaginaria spagnola di Luiserne, citata nelle canzoni di gesta. 12. desìo: desiderio.
13. né s’evapora: non perde d’intensità (come la piena di un fiume non si esaurisce). 14. Tanto ha oprato … bottega: la donna è simile a un’usuraia che ha imposto alti interessi al debitore (in questo caso il poeta innamorato), e che si è impadronita di tutti i possedimenti del poeta, l’officina e la bottega. 15. per l’affanno: malgrado l’angoscia.
16. quel … Odierna: allusione ad una celebre coppia di amanti non identificati. 17. Io … montante: figure retoriche (adýnaton e iperbole) che indicano cose impossibili da ottenere, ad esempio raccogliere il vento e cacciare la lepre con il bue, ma anche la caparbia volontà del poeta che nuota contro la marea crescente.
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L’età cortese
Analisi del testo La riflessione sulla letteratura Il rapporto poeta-donna
L’uso di iperboli e adýnata
La solitudine Le caratteristiche dell’attività poetica
L’autopresentazione del poeta
Il testo si distingue dalla restante produzione cortese, in quanto costituisce un’interessante riflessione dell’autore sulla propria attività letteraria e sulla condizione del poeta, inserita all’interno del tradizionale omaggio alla donna, indicata come «colei / che pregio mantiene e governa», vv. 6-7. Egualmente tradizionale è la rappresentazione del rapporto poeta-donna amata come rapporto di vassallaggio: il poeta serve ed onora «la più bella / del mondo» (vv. 9-10) e interamente le appartiene. La donna viene fisicamente raffigurata secondo i tipici topoi cortesi, in quanto presenta «la […] chioma bionda / e la persona gaia, agile e fresca» (vv. 19-20). Per descrivere il proprio grandissimo amore, il poeta ricorre a tutta una serie di iperboli («Tutto appartengo a lei, dal capo al piede», v. 11; «Mille messe per questo ascolto ed offro, / per questo accendo lumi a cera e ad olio», vv. 15-16) e di adýnata («più l’amo che d’aver Luserna in dono», v. 21; «Di Roma non vorrei tener l’impero, / né bramerei esserne fatto papa», vv. 29-30), che hanno proprio la funzione di rendere poeticamente un amore incommensurabile. Non manca il topos della solitudine, alla quale il poeta è costretto dalla donna che non ricambia l’amore; la solitudine diventa, però, condizione utile per fare poesia. L’attività poetica richiede – afferma l’autore nella prima strofa della canzone – un attento lavoro di scrittura e riscrittura («compongo versi e li digrosso e piallo», per renderli «giusti ed esatti», vv. 2-3). Per fare poesia, dunque, occorre sì l’ispirazione poetica, ma sono necessarie anche capacità tecniche e riflessione critica, che rendono il poeta un vero e proprio artigiano che possiede «officina e bottega» (v. 28). I tre versi conclusivi, costituiti da due adýnata e da un’iperbole, contengono l’esplicita autopresentazione («Io sono Arnaldo»), che insiste sulla volontà di affrontare imprese difficili con caparbia volontà. L’impresa difficile è quella di scrivere versi, come si può intuire dal verso 45, «e nuoto contro la marea montante». Questi versi sono anche un chiaro esempio di quel trobar clus di cui Arnaut Daniel fu maestro.
Il poeta Gottfried von Neifen viene rifiutato da una donna sposata, 1310-20, miniatura dal Codex Manesse, codice Pal. germ. 848, Heidelberg (Germania), Universitätsbibliothek.
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Capitolo 1 · Le forme della letteratura cortese
Esercitare le competenze CoMPreNdere
> 1. Completa la tabella assegnando un titolo o una didascalia appropriati per ciascuna strofa del componimento, secondo l’esempio proposto. strofa
titolo
I
Il............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... poeta è un “artigiano” ispirato da Amore
II
...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
III
...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
IV
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V
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VI
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Congedo
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aNaLizzare
> 2. > 3.
In quale verso compare un accostamento di immagini e vocaboli di tipo ossimorico? Quale vocabolo esprime chiaramente il momento culminante del sentimento amoroso, ovvero il “guardare” la donna? stile
Lessico
aPProFoNdire e iNterPretare
> 4.
scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) metti a confronto la funzione che nel testo assumono le immagini dell’artigiano, dell’officina e della bottega con quella che assume il riferimento al lavoro del contadino.
Per iL reCuPero
> 5. Quali riferimenti presenti nel testo rimandano al contesto storico, sociale e culturale del tempo? > 6. Quali affermazioni sottolineano, invece, l’interiorizzazione del sentimento amoroso? Per iL PoteNziaMeNto
> 7.
testi a confronto: esporre oralmente Così nel XXVI canto del Purgatorio si presenta a Dante e a Virgilio, parlando in provenzale, Arnaut Daniel (l’anima è collocata nella settima cornice fra i lussuriosi):
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«Tan m’abellis vostre cortes deman, qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu’esper, denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!».
«Tanto mi piace la vostra cortese domanda, che non mi posso né voglio celare a voi. Io sono Arnaldo che piango e vado cantando, preoccupato vedo la passata follia [l’amore sensuale], e vedo gioioso il gaudio [del Paradiso] che spero, dinanzi. Ora vi prego, per quel valore [Dio o la donna celeste che guida Dante] che vi guida alla sommità della scala, vi sovvenga a tempo del mio dolore!» D. Alighieri, Purgatorio, XXVI, 140-147, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 1984
Dopo aver letto il passo, prova a rispondere alle seguenti domande. a) Quali affermazioni del poeta rimandano alla trattazione della tematica amorosa nel testo analizzato? b) Quali vocaboli e/o espressioni del volgare d’oc (ricostruito da Dante) risultano più prossimi all’italiano?
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L’età cortese
I generi letterari dell’età cortese
romAnzo corTese-cAvALLeresco Materia bretone (Chrétien de Troyes) e materia classica
Chansons de geste Chanson de Roland (XII secolo)
cAnzoni di gesTA Canzone dei Nibelunghi (1200 ca.)
MARE DEL NORD
romAnzo corTese-cAvALLeresco Leggenda di Tristano (Goffredo di Strasburgo)
Lingua d’oïl
Lingua d’ oc
cAnzoni di gesTA Poemi in lingua franco-veneta
Fabliaux
cAnzoni di gesTA Cantare del Cid (1140 ca.)
cAnzoni di gesTA Cantare delle gesta di Igor (1185)
romAnzo corTese-cAvALLeresco Romanzi anonimi in prosa del ciclo bretone MAR MEDITERRANEO
LiricA provenzALe
La carta mostra la distribuzione geografica delle principali forme della letteratura in lingua volgare attestate in Europa fra l’XI e l’inizio del XIII secolo.
Facciamo il punto 1. Compila la seguente tabella che ha il compito di mettere in luce le differenze più significative tra le
canzoni di gesta e il romanzo cortese-cavalleresco. Canzoni di gesta
romanzo cortese-cavalleresco
Ruolo dell’amore
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Presenza della storia
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..............................................................................................................................................
Presenza della leggenda
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Cause del combattere
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Linguaggio
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Stile
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Caratteristiche degli autori
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Pubblico
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2. Qual è la differenza tra il trobar clus e il trobar leu? 3. Quando e come terminò la lirica provenzale?
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In sintesi
Le ForMe deLLa Letteratura Cortese Verifica interattiva
Le ChaNsoNs de gesTe Nella Francia dell’XI secolo si verificano condizioni favorevoli alla nascita di una letteratura laica in lingua volgare. La formazione di una nobiltà “minore”, rappresentata dai cavalieri, crea infatti una committenza e un pubblico nuovi, alimentando nello stesso tempo un ideale di vita in cui le virtù militari e feudali si fondono con i valori cristiani. La celebrazione di questo ideale di vita è il motivo ispiratore delle chansons de geste, poemi in lingua d’oïl composti nel Nord della Francia tra l’XI e il XIII secolo e destinati alla recitazione orale con l’accompagnamento musicale. Esse trattano di vicende di guerra del passato, rielaborando il dato storico in chiave leggendaria e trasfigurandolo alla luce di valori e mentalità del presente. La materia privilegiata è costituita dalle imprese di Carlo Magno e dei suoi conti: è questo lo sfondo della più celebre tra le canzoni di gesta, la Chanson de Roland (XII secolo), incentrata sulle avventure di Orlando. Anche se ci sono pervenute anonime, le chansons de geste sono probabilmente opera di poeti individuali che sfruttano un repertorio di leggende orali e che si rivolgono a un pubblico inizialmente ristretto ai soli cavalieri e poi allargatosi a comprendere diversi ceti sociali. Il genere ebbe vasta risonanza a livello europeo e stimolò in Italia una produzione epica in lingua mista franco-veneta.
iL roMaNzo Cortese-CaVaLLeresCo Nel XII secolo la vita delle corti francesi si evolve in forme sempre più raffinate, nelle quali la signorilità dei modi e l’esaltazione della donna e dell’amore trovano spazio accanto alle tradizionali virtù cavalleresche. Questo nuovo ideale “cortese” e profano si esprime nel romanzo cavalleresco, un genere in lingua d’oïl sorto nella Francia del Nord e diffusosi poi in Germania e in Italia. Le vicende, ambientate in un contesto leggendario ricco di elementi fantastici e fiabeschi, traggono la loro materia prevalentemente da antiche leggende bretoni imperniate sulla figura del mitico re britannico Artù e dei suoi cavalieri, ma è attestata anche una produzione ispirata alla materia classica. A differenza delle canzoni di gesta, i romanzi cortesi hanno al loro centro l’amore e ammettono quindi la presenza di personaggi femminili. Altro tema ampiamente sfruttato è quello avventuroso, che si precisa talora nel motivo della queste (“ricerca”) di un oggetto (come il Santo Graal) o dell’amata. Destinati all’intrattenimento dei raffinati ambienti di corte, i romanzi cavallereschi nascono per la lettura, che poteva avvenire sia in pubblico nell’ambito della corte stessa sia a livello individuale. L’au-
tore più significativo di questo genere letterario è Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1180: della sua produzione ci sono pervenuti cinque romanzi del ciclo bretone, in cui ha una parte importante l’amore, non solo quello adultero tipico della concezione cortese, ma anche quello coniugale.
iL RomaN de La Rose e i fabLIaux Grande fortuna riscuote anche il romanzo allegorico, in cui il racconto procede attraverso l’uso di personificazioni e di simboli. L’esempio più importante è il Roman de la rose (“Romanzo della rosa”), il racconto di un sogno, in cui l’amante entra nel giardino inaccessibile d’Amore per “cogliere la rosa”, ossia le grazie della donna amata. Accanto a questi generi “alti” si può individuare una tendenza che si propone di irridere o contestare le forme e i modi dell’ideologia ufficiale: i fabliaux (“favolelli”), brevi racconti in versi che descrivono quadretti comici e popolari con un linguaggio libero e disinibito.
La LiriCa ProVeNzaLe Tra il XII e l’inizio del XIII secolo nel Sud della Francia l’ideale cortese fu elaborato nelle forme della poesia lirica in lingua d’oc a opera di poeti detti “trovatori”. I componimenti venivano cantati con l’accompagnamento musicale direttamente dal poeta-compositore o da cantori professionisti, i giullari, di fronte al pubblico delle corti feudali. Estremamente raffinata dal punto di vista formale, la lirica provenzale tocca diversi temi (politici, guerreschi, morali, satirici), ma quello principale è l’amore, trattato secondo i canoni cortesi: l’amata è oggetto di venerazione e fonte di gioia, ma nello stesso tempo oggetto di desiderio inappagato e dunque anche di tormento, poiché si tratta sempre di una donna già sposata. A livello stilistico, la poesia trobadorica manifesta due diverse tendenze: il trobar clus, “poetare chiuso”, che consiste in uno stile elaboratissimo, artificioso ed oscuro, il cui maggiore rappresentante è Arnaut Daniel (attivo tra il 1180 e il 1210), ed il trobar leu, “poetare dolce, piano”, più limpido ed aggraziato, il cui esponente principale è Bernart de Ventadorn (XII secolo). La produzione trobadorica si esaurì all’inizio del XIII secolo, quando la crociata contro l’eresia càtara distrusse le corti feudali della Provenza; la conseguente emigrazione dei trovatori provenzali nelle regioni confinanti fu tuttavia di stimolo alla diffusione della loro cultura e alla nascita di “scuole” poetiche, come quella siciliana, che ne raccolsero l’eredità.
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito letterario Marco Grimaldi
Perché il Nobel a Bob Dylan è una rivoluzione Marco Grimaldi (1979) è ricercatore di Filologia della letteratura italiana presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Il testo seguente è tratto da un suo articolo apparso sul sito internet leparoleelecose.it, dedicato alla saggistica letteraria.
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I trovatori, i primi poeti in lingua volgare, quelli che hanno “inventato” la poesia moderna e senza i quali non sarebbero esistiti né Giacomo da Lentini né Petrarca, erano in fondo più simili a Bob Dylan che agli altri poeti che hanno vinto il premio Nobel e che invece si studiano normalmente a scuola, come Salvatore Quasimodo o Eugenio Montale1. […] L’ovvia conclusione sembra essere che se i trovatori, i poeti più importanti del Medioevo, quei poeti che oggi studiamo come una parte della letteratura, erano quasi come dei cantautori, allora è legittimo assegnare a un cantautore il Nobel per la letteratura. Ma le cose non sono così semplici. Il Nobel a Bob Dylan è una rivoluzione. Anche chi come me si occupa di letteratura italiana e romanza dei primi secoli, quei secoli in cui la maggior parte della poesia era cantata o accompagnata dalla musica, e che quindi dovrebbe considerare del tutto normale che delle canzoni siano trattate come letteratura, non può evitare di fermarsi a riflettere quando per la prima volta il più importante premio letterario al mondo è assegnato non a un autore che scrive per essere letto, ma a un autore che scrive per essere ascoltato. Quello che conta, infatti, non è che Bob Dylan e i trovatori possano sembrare molto vicini tra loro (una visione che però non tutti condividono), ma che con il Nobel a Dylan finisce un’idea di letteratura che è nata dopo i trovatori e che è durata fino a oggi. La nostra idea di letteratura, almeno in Occidente, nasce infatti quando le opere scritte nelle lingue moderne raggiungono lo stesso livello di dignità culturale delle opere greche e latine e quando a scuola non si studiano più solo Virgilio e Cicerone ma anche Dante, Petrarca e Boccaccio. Questo fenomeno va di pari passo con la separazione della poesia dalla musica. Si può discutere di quando si sia prodotta la frattura; si può precisare che per molto tempo il distacco non è stato netto, che Dante faceva ancora cantare alcune delle sue poesie […] e che molta “poesia per musica” […] è parte integrante di quello che chiamiamo letteratura. Ma fino a qualche giorno fa quello che si intendeva per letteratura (moderna) era esattamente questo: l’insieme delle opere scritte in una lingua moderna e in particolare quelle sulle quali si impara a leggere e a scrivere.
1. altri poeti … Montale: i premi Nobel sono stati assegnati a Salvatore Quasimodo (1901-1968) nel 1959 e a Eugenio Montale (1896-1981) nel 1975.
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Nuovo esame di Stato
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Già il caso di Dario Fo2, che a differenza di altri premi Nobel che erano scrittori e anche drammaturghi ha scritto quasi solo per il teatro, aveva complicato un po’ il quadro. Tuttavia, sebbene il teatro sia fatto per essere rappresentato e non solo per essere letto, da molti secoli l’altissima qualità letteraria di alcuni autori (Shakespeare3, Molière4 […]) aveva trasportato di diritto il teatro nella letteratura. Ed è un dato di fatto che moltissime persone leggono il teatro invece di assistere agli spettacoli. […] Quante persone invece leggono le canzoni di Bob Dylan slegate dalla musica? Non è tanto importante che la destinazione ideale del testo di Amleto sia la scena; è più importante che finora molte generazioni, e non solo di parlanti inglesi, abbiano letto Shakespeare ben prima di vederlo rappresentato. La stessa cosa si può dire per i trovatori: è vero che senza la musica si percepisce forse solo metà della bellezza di quelle canzoni, ma il trascorrere del tempo ha destinato quei componimenti prevalentemente alla lettura e non più all’ascolto (anche perché sappiamo molto poco di come venivano eseguiti, mentre siamo più o meno sicuri di come fossero fatti i testi). Ed è questo uno dei motivi per i quali i trovatori fanno parte della letteratura. Nel caso di Dylan, sembra che la giuria del Nobel abbia voluto anticipare i tempi. Non so se si siano ripromessi di fare sì che le canzoni di Bob Dylan conseguano in futuro una certa autonomia rispetto alla musica. A mio parere è molto difficile, ma non impossibile, che ciò accada, considerato il ruolo di media come You Tube nella nostra vita quotidiana. Non riesco infatti a immaginare che Dylan diventi un classico della letteratura così come la intendevamo ieri e che il pubblico inizi a leggerlo più che ad ascoltarlo; mi aspetto piuttosto che lo statuto della letteratura muti ancora e che da qui a qualche anno il Nobel venga assegnato a un autore di graphic novels.
2. Dario Fo: drammaturgo di origini lombarde (1926-2016), ottiene il premio Nobel per la letteratura nel 1997. 3. Shakespeare: William Shakespeare
(1564-1616), considerato il più grande drammaturgo inglese, è autore, tra le altre opere, dell’Amleto, citato più avanti (r. 36).
4. Molière: pseudonimo di Jean-Baptiste de Poquelin (1622-1673), drammaturgo e attore francese.
COMPRENSIONE E ANALISI
> 1. Scrivi la sintesi del testo in circa 150 parole. > 2. Qual è la tesi sostenuta dall’autore del testo? > 3. Quali sono le somiglianze e le differenze fra i trovatori e Bob Dylan? > 4. Qual è secondo Marco Grimaldi la definizione di letteratura moderna? > 5. Qual è la funzione del riferimento a Dario Fo nell’argomentazione dell’autore? PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno all’articolo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri). Se sei d’accordo con l’idea che anche le opere di tutti i cantautori debbano essere considerate letterarie, sostienila con argomentazioni pertinenti. Se intendi sostenere un’altra tesi, porta elementi a favore della tua posizione. In entrambi i casi puoi riferirti ad esempi di altri cantautori del Novecento o di altri scrittori incontrati nel tuo percorso di studi.
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L’età comunale in Italia XIII - XIV secolo
I luoghI della cultura COLONIA
PARIGI
PRAGA
PARIGI • Meta di clerici vagantes e sede di antiche e prestigiose università, nel XIII secolo la città è uno dei più importanti centri culturali europei.
BOLOGNA • In città risiedono e operano i maggiori poeti del Duecento, e in particolare i padri dello Stilnovo, dal bolognese Guinizzelli al toscano Cavalcanti.
PADOVA • Nel 1222 viene fondata l’Università, la seconda più antica d’Italia e tra le più autorevoli d’Europa. Vi risiederà Petrarca che ad Arquà, poco distante, trascorrerà gli ultimi anni della sua vita.
AVIGNONE • Sede della curia papale dal 1309 al 1377, questa città della Provenza accoglie numerosi intellettuali, tra cui Petrarca, e diviene un centro artistico tra i più fiorenti dell’intero continente.
MILANO VERONA
TOLOSA
AVIGNONE
GENOVA
PADOVA
MANTOVA
VENEZIA
BOLOGNA LUCCA
FIRENZE • Grande potenza economica dell’Europa del Duecento, diviene presto il principale centro della cultura volgare in Italia. Tra il XIII e il XIV secolo vi nascono o vi soggiornano i più grandi interpreti della nostra storia letteraria, a cominciare da Dante, Petrarca e Boccaccio.
PISA SIENA
AREZZO • Nel XIII secolo, già sede di un’Università, è una città culturalmente vivace. Vi nasce Guittone, considerato l’esponente più autorevole della poesia siculo-toscana.
FIRENZE AREZZO PERUGIA ASSISI
NAPOLI • La città assiste a una grande crescita urbanistica tra la fine del XIII e i primi decenni del XIV secolo. Già sede della prima Università statale d’Europa, voluta da Federico II, ospita molti intellettuali e artisti. Boccaccio vi trascorrerà gli anni della sua adolescenza.
PALERMO • Sede della corte di Federico II di Svevia, è una delle città più vive di tutto il Mediterraneo del XIII secolo. Qui fiorisce soprattutto la poesia. Nasce così la “scuola siciliana” a cui afferisce, tra gli altri, il siciliano Iacopo da Lentini.
ASSISI • Sono umbri i maggiori esponenti della poesia religiosa del XIII secolo: san Francesco e Iacopone da Todi.
ROMA
NAPOLI SALERNO AMALFI
PALERMO MESSINA
Il contesto
Società e cultura
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L’evoluzione delle strutture politiche e sociali
Visione d’insieme
La situazione politica nell’Italia del Due e Trecento Le città del Centro-Nord
Cultura
Il Sud e lo Stato della Chiesa
Il panorama politico dell’Italia nel Duecento e nel Trecento vede una netta bipartizione tra il Centro-Nord della penisola e il Sud: nell’area settentrionale e centrale si afferma a partire dal secolo XI una fitta rete di città politicamente autonome, i Comuni, che si reggono con ordinamenti di tipo repubblicano. L’area meridionale, invece, è stabilmente retta da forme monarchiche: prima il regno normanno, poi quello degli Svevi, infine, la dinastia angioina che si installa a Napoli e quella aragonese che s’impadronisce della Sicilia. Il sistema feudale rimane forte e diffuso, al punto che l’imperatore Federico II di Svevia (1220-50) cerca di contrastare la frammentazione del potere organizzando saldamente lo Stato attraverso un apparato efficiente di funzionari imperiali. Nell’Italia centrale si consolida lo Stato della Chiesa, una particolare monarchia di tipo teocratico, in cui il potere temporale e quello spirituale sono nelle mani della stessa persona, il pontefice.
Nasce l’Università della Sorbona a Parigi (1257)
Viene fondata l’Università di Napoli (1224)
Letteratura
Scuola siciliana
Storia e Società Scienza e Tecnica
Giotto avvia il ciclo di affreschi nella basilica di Assisi (1290)
Stilnovo Dino Compagni (1255 ca. - 1324)
Cielo d’Alcamo Iacopo da Lentini (1210 ca. - 1260)
Guido Guinizzelli (1235 ca. - 1276)
Federico II è proclamato re di Sicilia (1208)
Cecco Angiolieri (1260 ca. - 1312)
Giovanni Villani (1280 ca. - 1348)
Dante Alighieri (1265-1321)
Guido Cavalcanti (1250 ca. - 1300)
1200-1250
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Cimabue affresca la Crocifissione (1280 ca.)
Stesura del Milione di Marco Polo
1250-1300 Onorio III approva la regola domenicana (1216) e francescana (1223)
Federico II favorisce l’antica scuola medica salernitana (prima metà del XIII secolo)
Muore Federico II (1250)
A Firenze i Ghibellini sconfiggono i Guelfi e li esiliano (1260)
A Fabriano cresce l’industria della carta (prima metà del XIII secolo)
Gli Angioini conquistano il Regno di Sicilia (1266)
Inizia la dominazione aragonese in Sicilia (1282)
Battaglia di Campaldino: i Guelfi sconfiggono i Ghibellini (1289)
Il contesto · Società e cultura
Quindi, mentre nelle città del Centro-Nord si sviluppano una vivace vita civile e un’intensa vita economica basata sullo scambio, nello Stato della Chiesa e nel Sud le strutture sociali ed economiche rimangono più arretrate e statiche.
La crisi dell’Impero e della Chiesa La crisi del potere imperiale
Il ruolo politico della Chiesa
I movimenti di riforma e le eresie
Domenicani e Francescani
Dopo la morte dell’imperatore Federico II (1250), si crea un vero e proprio vuoto di potere in Italia, poiché i suoi successori non si occupano più dei loro domini d’oltralpe, presi dalla necessità di consolidare quelli germanici. La crisi del potere universale dell’Impero consente ai Comuni italiani del Centro-Nord di affermare la loro autonomia. Ciò da un lato favorisce lo sviluppo civile ed economico, ma dall’altro provoca un forte aumento delle conflittualità municipali, cioè delle continue guerre delle città tra di loro e delle fazioni rivali all’interno di esse. Anche lo Stato della Chiesa cerca di difendere e di ampliare i suoi privilegi, sia politici sia territoriali, e partecipa attivamente alle vicende che coinvolgono l’Impero, le monarchie nazionali e i Comuni. Dopo un aspro conflitto con la forte monarchia nazionale francese, ai primi del Trecento la Chiesa vede iniziare un lungo periodo di crisi e decadenza, che si concreta nel trasferimento della sede papale ad Avignone, durato ben settant’anni (la cosiddetta cattività avignonese: 1309-77). Per altro verso, la Chiesa è impegnata sul fronte, per così dire interno, dei problemi religiosi. Particolarmente difficile risulta l’atteggiamento da tenere nei confronti dei movimenti ereticali, che spesso rappresentano l’esigenza spirituale di un profondo rinnovamento della vita e dei costumi ecclesiastici per riportare la Chiesa alla purezza evangelica delle origini. Un fenomeno riformatore meno radicale e non finalizzato a negare l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche e la validità della dottrina cattolica è costituito dalla fondazione degli ordini mendicanti, caratterizzati da un forte richiamo alla povertà: quello dei Domenicani, creato da Domenico di Guzmán (1170-1221 ca.), e quello dei Francescani, fondato da Francesco d’Assisi (1181-1226). I seguaci di questi ordini si propongono di mettere in pratica l’insegnamento di Cristo attraverso una vita semplice, fatta di predicazione, di penitenza e di opere di carità.
Giotto affresca la cappella degli Scrovegni a Padova (1303)
A Firenze si conclude la costruzione del Palazzo della Signoria (1334-37)
Si diffonde in Europa il tardo Gotico (seconda metà del XIV sec.)
Inizia la costruzione del duomo di Milano (1386)
Giovanni Boccaccio (1313-75) Francesco Petrarca (1304-74)
1300-1350 Bonifacio VIII indice il Giubileo (1300)
La sede pontificia si trasferisce ad Avignone (1309)
Inizia la cattività avignonese (1309-77)
Inizia la Guerra dei Cent’anni (1337)
Un’epidemia di peste colpisce Firenze (1348)
Vengono costruiti i primi orologi meccanici (prima metà del XIV secolo)
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L’età comunale in Italia MILANO
VERONA
La civiltà comunale e le Signorie in Italia nel VENEZIA XIV secolo La ripresa delle città dopo il Mille
Il Comune
Guelfi e Ghibellini
Dal Comune alla Signoria
La situazione politica intorno al 1400
BOLOGNA conferiscono Dopo il Mille, la ripresa economica e quella demografica un nuovo imRAVENNA pulso alle città italiane: nascono forme di organizzazione politica nuove, rivoluzionarie RIMINI GENOVA rispetto al sistema feudale. Le città divengono deiPISA piccoli FIRENZE Stati autonomi, che si governano con ordinamenti repubblicani, fondati su Consigli composti PERUGIA dai cittadini più SIENA influenti e su cariche pubbliche elettive. Nascono in questo modo i Comuni, che si sottraggono al potere imperiale e affermano ROMAdelle entrate fiscai loro pieni poteri nell’amministrazione della giustizia, nell’esazione li, nell’organizzazione militare. I contrasti tra i vari Comuni sono numerosi e altrettanto violenta è la conflittualità interna. NAPOLI Questi scontri I Comuni sono soprattutto lacerati dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini. riflettono il grande conflitto che, su scala europea, contrappone i fautori dell’Impero (i Ghibellini) e quelli del Papato (i Guelfi). Ma nella situazione particolare di ogni città MAR MEDITERRANEO questi grandi schieramenti ideologici si mescolano in modo inestricabile con interessi locali, rancori e vendette tra famiglie e gruppi. In generale, laPALERMO parte guelfa si identifica più con gli interessi del ceto “popolare”, cioè della ricca borghesia mercantile e bancaria, mentre quella ghibellina risponde piuttosto agli interessi dell’aristocrazia cittadina. Dei sanguinosi e continui conflitti tra fazioni, che generano instabilità politica, approfittano uomini ambiziosi (spesso di origine nobile) per imporre la loro supremazia personale e in breve tempo l’ascesa di queste figure politiche porterà al consolidamento di nuove organizzazioni statali, le Signorie. Alla svolta del nuovo secolo, il XV, segnato da una grave crisi economica e sociale provocata dalle numerose pestilenze, dai frequenti tumulti popolari e dal fallimento di grandi istituzioni bancarie, Signorie e Principati (ossia Signorie riconosciute dall’autorità imperiale o papale) costituiscono ormai la regola sulla scena politica italiana.
L’Italia politica intorno al 1300
Impero germanico Repubblica di Genova Repubblica di Venezia Stato della Chiesa
MILANO
VERONA
VENEZIA
BOLOGNA GENOVA PISA
RAVENNA RIMINI FIRENZE
SIENA
PERUGIA
ROMA
NAPOLI
MAR MEDITERRANEO
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Regno di Napoli, retto dagli Angioini dal 1266 (venuti dopo i Normanni e gli Svevi). Nel 1302 gli Aragonesi acquisiscono la Sicilia Area di diffusione dei Comuni e, successivamente, delle Signorie La carta illustra l’assetto geopolitico dell’Italia tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. Esso è caratterizzato da tre distinti soggetti politici: l’Impero, la Chiesa e la dinastia angioina (di origine francese). La reale capacità di controllo territoriale di tali soggetti è tuttavia fortemente limitata dalle autonomie comunali o signorili nel Centro-Nord, e dalle spinte centrifughe della Sicilia nello Stato angioino. Ne risulta un quadro di estrema frammentazione politica, che si riflette anche a livello linguistico e culturale.
Il contesto · Società e cultura
Società ed economia nell’età comunale L’economia mercantile
La struttura sociale delle città
Con l’avvento della civiltà comunale il centro della vita economica e sociale si sposta dalla campagna alle città: sono questi i luoghi in cui ci si incontra, si fa politica, si svolge l’attività economica, si fa cultura. Se nel sistema feudale l’economia si basa essenzialmente sulla produzione agricola, nella società comunale l’attività fondamentale diviene quella mercantile; se quella feudale è un’economia chiusa, quella urbana è un’economia aperta, fondata sullo scambio e sulla rapida e intensa circolazione di capitali. La figura sociale tipica della nuova età è quella del mercante. Originariamente egli è un semplice intermediario nello scambio di merci tra un venditore e un compratore, ma ben presto, grazie alla sua intraprendenza e agli ingenti capitali accumulati, si dedica a un gran numero di attività ( p. 82). L’intensificarsi delle attività economiche nelle città attrae i nobili, che desiderano entrare a far parte della realtà urbana, divenendo essi stessi imprenditori. Si assiste pertanto a una graduale fusione tra i due ceti più influenti: ai primi del Trecento al potere vi è una nuova aristocrazia, proveniente in parte dalla vecchia nobiltà feudale, che ha ormai interessi economici nelle attività mercantili e bancarie, e in parte dall’alta borghesia, che ha acquisito terre e stili di vita aristocratici. Sono attratti dalla città anche i contadini, che sperano di migliorare le proprie condizioni di vita. L’inurbamento delle masse rurali, unito all’incremento demografico stimolato dalla crescita economica, determina un aumento a volte impressionante della popolazione e delle dimensioni delle città. Schematizzando, la struttura sociale tipica delle città italiane viene a essere così composta: » i magnati (o grandi): sono per lo più di origine nobiliare e vivono delle loro rendite immobiliari; » il popolo grasso (o alta borghesia): è composto dai non nobili che esercitano le professioni (uomini di legge, giudici, notai, medici, farmacisti, insegnanti) e sono organizzati in corporazioni di mestiere, le Arti; da questi gruppi proviene il personale politico del Comune, e anche la maggior parte del ceto intellettuale; » il clero: è composto da coloro che appartengono alla gerarchia ecclesiastica o si occupano della conduzione dei monasteri o dell’amministrazione del culto; la loro presenza è un elemento essenziale della vita cittadina, dato il ruolo che la religione ricopre nella società medievale; » il popolo minuto: è composto dal popolo dedito ai mestieri meno remunerativi (bottegai, impiegati, piccoli funzionari); » i lavoranti a giornata: prestano il loro lavoro nelle botteghe o a domicilio dietro pagamento di un salario e svolgono i lavori più duri e faticosi; non hanno la facoltà di organizzarsi in corporazioni di mestiere e sono esclusi dai diritti politici; » i poveri, i nullatenenti, i mendicanti: vivono di espedienti, di carità o di attività illecite. Questa struttura sociale contiene elementi di mobilità, in quanto la classe mercantile ascende proprio grazie alla sua energia e alla sua abilità spregiudicata, acquistando sempre maggior peso economico e politico (anche se poi, raggiunto il potere, la nuova classe egemone tende a ristabilire un nuovo equilibrio statico a proprio vantaggio, impedendo l’ascesa di ceti inferiori).
Facciamo il punto 1. Quali sono le principali conseguenze della crisi dell’Impero e della Chiesa tra XIII e XIV secolo? 2. Che cosa si intende con il termine “eresie”? Che cosa sono gli “ordini mendicanti”? 3. Quali trasformazioni subiscono i Comuni italiani nel corso del XIII e del XIV secolo? 4. Da quali classi è composta la società tipica dei Comuni italiani? 5. Quali attività caratterizzano il ruolo sociale ed economico del mercante?
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L’età comunale in Italia
Visualizzare i concetti
Le attività del mercante InTermeDIazIone CommerCIaLe
ImPrenDITorIa
InVeSTImenTI ImmoBILIarI
aTTIVITà BanCarIa
Il mercante acquista dei prodotti per rivenderli ad altri, e con i proventi di questa intermediazione accumula un capitale che viene usato per intraprendere nuove attività di diverso tipo
Il mercante diventa imprenditore in proprio, producendo egli stesso le merci da vendere sul mercato: importa le materie prime (come la lana e la seta) e le fa lavorare nella propria bottega oppure al domicilio degli operai
Il mercante acquista proprietà immobiliari (terreni, case, palazzi cittadini) e li concede in affitto
Il mercante presta denaro a interesse, spesso anche in grandissima quantità; i banchieri italiani, specie quelli fiorentini, arrivarono a prestare denaro ai sovrani europei, costretti a indebitarsi per finanziare le spese delle corti o quelle militari
Profitto In ogni attività di tipo imprenditoriale – manifatturiero o commerciale – si definisce con questo termine la somma di denaro derivante dalla differenza tra i costi dell’attività e i ricavi che se ne ottengono
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Rendita Con questo termine si indicano i guadagni che derivano dalla pura proprietà di un bene, senza la necessità di intraprendere alcuna attività
Mentalità, istituzioni culturali, intellettuali e pubblico nell’età comunale Una nuova concezione del mondo e dell’uomo
Una visione dinamica della realtà
L’esperienza diretta del reale
La rivalutazione della sfera mondana
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La nuova organizzazione dell’economia e della società in ambito comunale ha riflessi evidenti sulla mentalità e sulla concezione del mondo. Si può dire che nelle città di questo periodo sia in gestazione un uomo nuovo, rispetto a quello del mondo feudale. La realtà cittadina è caratterizzata da un’economia aperta, dinamica, e da una struttura sociale che consente una sia pur relativa mobilità e spezza la rigida struttura in caste: la conseguenza più naturale è una visione dinamica del mondo, l’idea che la realtà può trasformarsi. Grazie alla figura ideale del mercante, un uomo attivo e intraprendente, che incide sulla realtà che lo circonda con la sua capacità di calcolare e prevedere, nasce una nuova fiducia nella forza dell’uomo che può trasformare la realtà e modellarla secondo la sua volontà, mediante l’intelligenza e l’energia. Da questo atteggiamento scaturisce la curiosità di esplorare anche ciò che non è noto, al di là dei limiti fissati alla conoscenza dalla tradizione, in obbedienza ai propri interessi: è il caso dei mercanti che si spingono nelle contrade più lontane pur di trovare fonti di merci e mercati, e scoprono così realtà nuove e impensate, che studiano con attenzione e rigore (si pensi a Marco Polo nel Milione, cap. 3, A2, p. 197). Questa aderenza alla realtà concreta rende anche l’uomo più attaccato alla vita terrena e più incline a giustificare il godimento dei beni materiali. Entrano così in crisi i fondamenti dell’ascetismo medievale, caratterizzato dal “disprezzo del mondo”, e si delinea una rivalutazione della sfera mondana, che non viene più condannata come peccaminosa e fonte di perdizione.
Il contesto · Società e cultura
La voce dei testi | Autore: Marco Polo | oPerA: Il Milione
La salamandra e le pietre che ardono Il primo grande libro di viaggio della nostra letteratura, Il Milione di Marco Polo ( cap. 3, A2, p. 197), inaugura anche un modo nuovo di rappresentare il reale. recatosi in cina con una missione commerciale, Marco mette a frutto, nei suoi viaggi, un senso dell’osservazione acuto e preciso, volto a cogliere e a registrare gli aspetti inconsueti delle cose. Nei passi seguenti viene proposta una particolare definizione della salamandra (capitolo 59) e viene presentato l’uso del carbon fossile (capitolo 101).
Quivi àe1 montagne ove à buone vene2 d’acciaio e d’andanico3; e in queste montagne è un’altra vena, onde si fa4 la salamandra5. La salamandra non è bestia, come si dice, che vive nel fuoco, ché neuno6 animale puote7 vivere nel fuoco; ma dirovi8 come si fa la salamandra. [...] Egli è vero9 che quella vena si cava e stringesi insie[me]10, e fa fila come di lana; e poscia la 5 fa11 seccare e pestare in grandi mortai di covro12; poscia la fanno e la terra sì·ccade13, quella che v’è apiccata14, e rimane le file come di lana; e questa si fila e fassine15 panno da tovaglie. Fatte le tovaglie, elle sono brune; mettendole nel fuoco diventano bianche come nieve; e tutte le volte che sono sucide16, si pognono17 nel fuoco e diventano bianche come neve. E queste sono le salamandre, e l’altre sono favole. 1. àe: ci sono (come à). 2. vene: piccoli filoni minerali. 3. andanico: antimonio. 4. onde si fa: da cui si produce. 5. salamandra: animale favoloso che, secondo i “bestiari” medievali, viveva nel fuoco; per Marco Polo il termine indica invece l’amianto, da cui si ricava un tessuto resistente alle fiamme. 6. neuno: nessuno. 7. puote: può.
8. dirovi: vi dirò. 9. egli è vero: è vero (egli è pleonastico). 10. si cava … insie[me]: si estrae e si rende compatta. 11. poscia la fa: poi si fa. 12. covro: rame. 13. sì·ccade: così si stacca. 14. apiccata: attaccata. 15. fassine: se ne fa. 16. sucide: sudice, sporche. 17. si pognono: si pongono, si mettono.
Egli è vero che per tutta la provincia del Catai àe una miniera di pietre nere, che·ssi cavano de le montagne come vena, che ardono come bucce1, e tegnono più lo fuoco che·nno2 fanno le legna. E mettendole la sera nel fuoco, se elle s’aprendono3 bene, tutta notte mantegnono lo fuoco. E per tutta la contrada del Catai no ardono altro; bene ànno legne, ma queste pie5 tre costan meno, e sono grande risparmio di legna. 1. bucce: cortecce secche. 2. che·nno: che non.
3. s’aprendono: si accendono.
Guida alla lettura marco Polo, osservatore distaccato di nuovi fenomeni Posto di fronte a fenomeni sconosciuti, Marco Polo si limita a prenderne atto e a registrarli, come un osservatore distaccato, sospendendo il giudizio sulle cose che non riesce a spiegarsi. È un atteggiamento che potremmo definire pre-scientifico, e che segna comunque un notevole distacco dalla disposizione a-scientifica dell’enciclopedismo medievale, per il quale anche gli elementi più assurdi e irreali venivano interamente giustificati alla luce di una interpretazione allegorico-simbolica. Le «pietre nere … che ardono come bucce» avrebbero offerto il pretesto, in un “lapidario”, alle più bizzarre considerazioni di tipo religioso e morale; Marco Polo, al contrario, si arresta quasi rispettoso di fronte alle manifestazioni della natura, senza cercare di forzarne i significati. Per questo, nel testo sulla salamandra, respinge decisamente («e l’altre sono favole») l’immagine tradizionale della salamandra offerta dai “bestiari”, in quanto l’esperienza ci insegna che «neuno animale puote vivere nel fuoco».
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L’età comunale in Italia
nuova mentalità moderna È evidente che Marco Polo, proprio in quanto mercante, ha una
mentalità nuova, aperta ad insolite esperienze, disposta ad esaminare fenomeni sconosciuti; il Medioevo sta per finire, presto sostituito dall’Umanesimo: nasce la modernità.
I valori mercantili La masserizia borghese
Il conflitto con i valori della Chiesa
Accanto a una nuova visione generale del mondo e dell’individuo si affermano nuovi valori che regolano la vita associata degli uomini. Se nella concezione feudale il valore centrale era la liberalità (il saper donare generosamente, il rifiuto di ogni calcolo interessato, il disprezzo del denaro), nella mentalità mercantile la virtù fondamentale prende il nome di masserizia (l’oculata amministrazione dei propri beni, il calcolo avveduto e prudente che evita ogni sperpero che potrebbe intaccare irrimediabilmente il patrimonio). Quelle che per il signore feudale erano manifestazioni di grettezza da disprezzare, per il mercante divengono virtù. La visione della realtà propria della società mercantile è in sé antagonistica, oltre che a quella feudale, anche a quella della Chiesa. Il mercante, se era un buon cristiano, non poteva non provare sensi di colpa nell’esercitare le sue attività, nell’accumulare ricchezze e nel ricavare profitti dalle operazioni bancarie, perché la sua religione condannava l’attaccamento ai beni materiali. In questo caso, la Chiesa mostra ai suoi seguaci un modo sicuro per tacitare i sensi di colpa attraverso le donazioni, la beneficenza e le penitenze.
nuovi centri di produzione e diffusione culturale Arte Architetture nuove per il Comune
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Come si è visto, nell’Alto Medioevo e nella società cortese i principali centri di elaborazione della cultura erano per lo più il monastero e la corte feudale. Nella società urbana invece le occasioni di incontro e di confronto diventano più frequenti e si rafforzano alcune istituzioni che avevano avuto origine nei secoli precedenti: » la Chiesa: essa conserva un ruolo di primaria importanza soprattutto per quanto riguarda la produzione dei testi scritti; accanto al latino, che rimane la lingua ufficiale della cultura, i chierici utilizzano il volgare per opere finalizzate all’insegnamento morale e religioso e indirizzate a un pubblico comune (vite di santi, raccolte di prediche e di esempi edificanti, visioni dell’aldilà, laude [ cap. 1, p. 106] e sacre rappresentazioni); » la scuola: anche il ceto mercantile, in seguito alla propria affermazione economica e politica, necessita di elevarsi culturalmente, sia per sostenere il prestigio sia per esigenze pratiche (contabilità, stipula di contratti, redazione di lettere commerciali); tutto ciò determina il bisogno di una formazione scolastica, che fornisca le necessarie conoscenze; in città esistono scuole tenute da religiosi, anche se le famiglie borghesi più facoltose preferiscono assumere maestri privati per l’educazione dei figli; più avanti si formano vere e proprie scuole laiche, anche a cura degli stessi Comuni che determinano di fatto la nascita di un nuovo tipo di istruzione; » l’università: originariamente è un’associazione privata e spontanea di maestri e allievi, una corporazione (universitas è infatti il termine che designa l’associazione che raggruppa la “totalità” dei docenti e dei discenti); più tardi queste associazioni ricevono una consacrazione istituzionale, che può provenire dal vescovo (come a Parigi), dal Comune (come a Bologna) o dal sovrano (come per la scuola di medicina di Salerno, promossa da Federico II); in esse si impartivano insegnamenti di livello superiore, che si organizzavano in quattro facoltà: arti, diritto, teologia e medicina; il corso di studi durava di regola parecchi anni e terminava con il conferimento della “laurea”, così detta dalla corona d’alloro che tradizionalmente indicava la vittoria e che divenne il simbolo del titolo acquisito; l’insegnamento era impartito in latino, quindi non vi erano barriere linguistiche nazionali, e gli studenti accorrevano da tutta Europa, attratti dalla
Il contesto · Società e cultura
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fama dell’uno o dell’altro maestro; le università hanno un’importanza incalcolabile nell’elaborazione della cultura del Basso Medioevo: in esse si consolida l’organizzazione enciclopedica della conoscenza ( Il Medioevo latino, p. 8), l’idea cioè di un sapere che abbracci organicamente tutto il reale, ordinandolo in un sistema gerarchico, che ha come centro la teologia; la corte: un fenomeno unico nel suo genere è costituito dalla corte dell’imperatore Federico II di Svevia in Sicilia; intorno all’imperatore, che è uomo colto, studioso e poeta egli stesso, si forma tra il 1230 e il 1250 una scuola poetica, costituita dai funzionari della stessa corte: è la “scuola siciliana”, che riprende nel volgare locale i temi dell’amore cortese della poesia provenzale; di qui prende le mosse la tradizione della lirica illustre italiana, destinata ad ampi sviluppi; con l’affermarsi delle Signorie in varie città italiane ai primi del Trecento, nascerà poi un altro tipo di corte, con caratteristiche urbane: i signori amano circondarsi di uomini di cultura e di letterati, per ricavarne lustro e prestigio, e affidano ad essi varie mansioni, ambascerie, redazioni di epistole e documenti diplomatici; gli spazi urbani ( La nuova realtà urbana): nonostante il diffondersi dell’alfabetizzazione, il canale ancora predominante nella diffusione della cultura è quello orale; centri di elaborazione culturale possono essere considerati il Consiglio a cui partecipano i cittadini, la bottega dove avviene la formazione professionale, perfino la strada, la piazza, il mercato, dove giullari e canterini intrattengono il pubblico popolare con spettacoli e recitazione di cantari cavallereschi; la lettura era un fatto eminentemente pubblico: il testo veniva letto ad alta voce in un circolo di persone, come un gruppo di dame, una brigata elegante, una famiglia; anche la poesia lirica era spesso accompagnata dalla musica, e quindi veniva eseguita da un cantore dinanzi ad un pubblico.
La nuova realtà urbana Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in città, 1338-39, affresco da Il Buono e il Cattivo governo, part., Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio dei Nove.
Ambrogio Lorenzetti (1290 ca. - 1348), uno dei grandi protagonisti della pittura senese del Trecento, tra il 1338 e il 1339 realizzò nel Palazzo Pubblico di Siena, su commissione del Consiglio dei Nove, che governava la città-Stato, il ciclo di affreschi noto come Il Buono e il Cattivo governo. Questa straordinaria rappresentazione, concepita come un vero e proprio manifesto politico, illustra le virtù a cui i nove magistrati si ispiravano e i benefici che il loro operato assicurava alla città e alla campagna circostante, mettendoli a confronto con i vizi e le conseguenze nefaste di una cattiva amministrazione. Negli Effetti del Buon Governo in città, attraverso l’immagine idealizzata di Siena, Lorenzetti ci trasmette uno spaccato di vita quotidiana delle città di età comunale, luoghi di produzione artigianale, scambi commerciali, elaborazione e diffusione culturale, oltre che di svago. Nel particolare riprodotto vediamo muratori all’opera, artigiani nelle loro botteghe, studenti che seguono una lezione, compratori, nobili a cavallo e fanciulle che danzano al suono di un tamburello.
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L’età comunale in Italia
La figura dell’intellettuale
Gli intellettuali laici alla corte di Federico II
Gli intellettuali cittadini
Gli intellettuali cortigiani
Nella società urbana due e trecentesca i chierici conservano un ruolo importante: elaborare e trasmettere la cultura di ispirazione religiosa. Tuttavia la figura più tipica di questa fase è quella dell’intellettuale laico. Il primo gruppo omogeneo e organizzato di intellettuali laici in Italia è quello che si forma, nei primi decenni del Duecento, alla corte siciliana dell’imperatore Federico II. I poeti della “scuola siciliana”, a differenza dei trovatori e dei giullari, non fanno dell’attività poetica la loro professione, ma sono funzionari dell’amministrazione che operano nella cancelleria imperiale e si dedicano alla letteratura per svago e per divertimento. Ben diversa è la fisionomia dell’intellettuale che si afferma poco più tardi nei Comuni centro-settentrionali: qui prevale la figura dell’intellettuale-cittadino, che partecipa attivamente alla vita politica del suo Comune, ricopre cariche pubbliche, vive intensamente le passioni di parte e i conflitti civili. Anche questi intellettuali non traggono sostentamento dalla loro attività di scrittori, ma la affiancano all’esercizio di altre professioni (spesso sono giudici, notai, insegnanti, mercanti). Lo scopo fondamentale delle loro opere è quello di “educare” la coscienza dei concittadini, poiché la divulgazione e l’ammaestramento sono l’abito mentale dominante nella letteratura di questo periodo. Accanto all’intento didattico l’intellettuale comunale porta poi nella sua produzione la passione politica e, ricorrendo ad una terminologia moderna, un forte “impegno” civile, che testimonia il suo attaccamento al Comune. Talora invece, come nel caso della poesia lirica di ispirazione amorosa, si tratta di una produzione altamente aristocratica, rivolta ad un’élite chiusa ed esclusiva. Con l’affermarsi delle Signorie, nel corso del Trecento compare un tipo nuovo di intellettuale, il cortigiano, che si pone al servizio di un signore, dando lustro alla sua corte con la propria presenza o utilizzando le proprie competenze “tecniche” di letterato in qualità di estensore di documenti ufficiali o di ambasciatore. Viene meno la partecipazione politica alla vita cittadina, e con essa il carattere “impegnato” della produzione letteraria, vista piuttosto come esercizio altamente disinteressato, lontano da ogni finalità pratica. Alla partecipazione politica si sostituisce un atteggiamento di distacco dalla realtà per immergersi nello studio e nella meditazione, al fine di elevare spiritualmente se stessi. I destinatari della produzione culturale tornano a identificarsi con una cerchia ristretta di letterati o di gentiluomini di corte. Si riafferma l’uso del latino, ma al tempo stesso il volgare diviene una raffinata lingua letteraria, che sfrutta fino in fondo l’eredità della cultura classica.
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L’ i n t e l l e t t u a l e c i t t a d i n o e l ’ i n t e l l e t t u a l e c o r t i g i a n o InTeLLeTTUaLe CITTaDIno
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InTeLLeTTUaLe CorTIGIano
Atteggiamento nei confronti del suo tempo
Forte impegno civile
Distacco dalla politica e dai problemi sociali
Lingua
Prevalentemente volgare
Prevalentemente latino
Pubblico
Tutti i concittadini
La corte, una ristretta cerchia di persone colte
Fonte di sostentamento
Svolge le libere professioni e partecipa all’amministrazione pubblica
Si mantiene grazie all’appoggio dei signori o gode di benefici ecclesiastici
Il contesto · Società e cultura
La circolazione della cultura Un nuovo pubblico
Il libro
Si è visto che nell’Alto Medioevo la cultura scritta aveva una circolazione chiusa: i dotti scrivevano per altri dotti. Nella società urbana invece il pubblico dei lettori si allarga decisamente grazie alla diffusione delle scuole e all’alfabetizzazione dei ceti emergenti (soprattutto i ricchi mercanti e le donne appartenenti alla borghesia urbana). Per quanto riguarda poi la produzione dei libri, nelle città nascono vere e proprie botteghe di copisti professionali, che producono libri dietro pagamento. I prezzi rimangono altissimi perché sono condizionati anche dall’alto costo dei materiali e il libro resta perciò un oggetto di lusso che pochi possono permettersi, e spesso il lettore provvede egli stesso a copiare il libro, per poterlo possedere. Accanto alle biblioteche ecclesiastiche, si vanno però formando quelle delle università, dei grandi signori o dei grandi intellettuali abbastanza ricchi da potersi permettere di accumulare libri, come Petrarca, che possedeva oltre duecento testi, un numero altissimo per quei tempi.
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Età feudale ed età comunale: economia, società e mentalità a confronto eTà FeUDaLe
eTà ComUnaLe
Economia
Chiusa: con scambi limitati e scarsa circolazione monetaria
Aperta e dinamica: in cui i beni si scambiano, anche a lunghe distanze, e la ricchezza circola
Struttura sociale
Statica: caratterizzata da scarsa mobilità sociale
Dinamica: consente una sia pur relativa mobilità
Visione del mondo
Statica e chiusa: la realtà appare organizzata in un ordine eterno e immutabile, rispondente alla volontà di Dio
Dinamica: la realtà può trasformarsi grazie all’azione dell’uomo
Visione dell’uomo
È ritenuto un essere misero e debole, che s’inserisce passivamente in un ordine voluto da Dio
È un essere attivo, che grazie alla sua intelligenza ed energia può trasformare la realtà, modellandola secondo la sua volontà
Conoscenza
È adeguamento a ciò che è stato tramandato dall’auctoritas
È il frutto della curiosità di esplorare ciò che non è noto, di sperimentare direttamente la realtà concreta
Natura / realtà terrena
È condannata come peccaminosa e fonte di perdizione
È una forza sana e benefica da assecondare
Facciamo il punto 1. Quali sono i valori fondamentali su cui si fonda la mentalità mercantile? 2. Quale concezione del mondo si afferma in età comunale? Quali differenze si possono riscontrare rispet-
to all’epoca precedente? 3. Quali sono i nuovi centri di elaborazione e diffusione della cultura in età comunale? 4. Quale figura di intellettuale si afferma nella società urbana due e trecentesca?
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Il contesto
Storia della lingua e fenomeni letterari
1 Filo rosso Storia della lingua Una nuova lingua per una nuova società
La situazione linguistica in Italia e il ruolo egemone della Toscana Le ragioni della diffusione del volgare letterario In Francia l’introduzione del volgare come lingua di espressione culturale si verifica già nel corso del X secolo, in un contesto ancora pienamente feudale, per rispondere alle richieste di un nuovo pubblico laico, quello delle corti. In Italia, invece, una svolta di tale portata è il prodotto di un diverso contesto: l’ascesa di una classe nuova all’interno delle città, quella borghese-mercantile, che sta acquistando coscienza della propria individualità, ha bisogno di strumenti di cultura per la propria attività in campo economico e politico, e avverte l’esigenza di esprimere la propria visione del mondo e i propri valori. Poiché tale processo coinvolge anche coloro che non sono letterati e non conoscono il latino, è necessario impiegare il volgare, che sino ad allora era stato relegato alla comunicazione orale oppure, nello scritto, agli usi eminentemente pratici e occasionali (libri di conti, atti notarili ecc.).
Il caso del siciliano letterario alla corte di Federico II
L’imitazione della poesia trobadorica
Un fenomeno a parte nel panorama italiano è costituito dalla scuola poetica siciliana. Qui il volgare non risponde alle esigenze di diffusione della cultura presso strati più ampi della popolazione, ma al contrario rappresenta l’espressione di una cerchia chiusa e raffinata, il gruppo dei funzionari della corte di Federico II (1220-50), i quali cercano nella poesia una forma di nobilitazione, di squisito ornamento, di segno dell’appartenenza ad una cerchia eletta. Questi poeti, per riprendere i modelli dei trovatori provenzali, non impiegano la lingua d’oc, ma elaborano una lingua letteraria raffinatissima, selezionando rigorosamente i vocaboli, regolarizzando certe forme poetiche e impiegando termini di origine latina o provenzale: si tratta del cosiddetto siciliano illustre. Della forma originale di questa lirica abbiamo però scarsissime testimonianze: poiché questi testi erano molto diffusi e ammirati in Toscana, ci sono pervenuti trascritti da copisti toscani, che hanno sovrapposto le caratteristiche della loro parlata a quelle del siciliano.
Il policentrismo linguistico nell’Italia comunale e il primato del toscano letterario Nel Centro-Nord della penisola la promozione del volgare a lingua letteraria avviene su uno sfondo ben diverso: non la corte imperiale, ma il Comune. Il panorama dell’Italia comunale è caratterizzato dalla pluralità di centri della vita associata e al policentrismo politico corrisponde un analogo policentrismo linguistico. Di conseguenza nel 88
Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari
Il primato del toscano
Lingua letteraria e lingua comune
Duecento, agli inizi dell’uso del volgare come lingua letteraria, non esiste una lingua letteraria italiana unica e comune: ogni centro si esprime nel proprio volgare. Nella produzione sia in versi sia in prosa la Toscana acquista sempre più una posizione di prestigio: per cui tra i vari volgari si impone progressivamente il toscano. Nel secolo successivo i tre grandi modelli di Dante, Petrarca e Boccaccio consacrano poi il fiorentino come lingua letteraria per eccellenza, la lingua di tutti gli intellettuali, al di là dei particolarismi locali. Da questo momento, il fiorentino letterario diventa di fatto la lingua italiana, anche se bisogna precisare che l’unificazione linguistica rimane limitata al solo campo letterario, mentre nella vita comune si continua a usare la miriade di parlate locali di cui l’Italia era ricca. La mancata unificazione linguistica dell’Italia è da ascrivere all’assenza di una struttura politica unitaria, che avrebbe potuto promuovere un processo di uniformazione anche nell’ambito della lingua parlata. Questo fenomeno si verifica ad esempio in Francia, dove il formarsi di una forte monarchia nazionale impone l’uso della lingua della regione di Parigi come lingua dell’intera nazione.
La permanenza del latino e il prestigio del francese
Influssi del latino sul volgare
Il francese
Il provenzale
L’espandersi e l’affermarsi di una letteratura in volgare non comportano però la scomparsa del latino. In latino continua a essere composto un gran numero di opere: è la lingua della cultura dotta, specialistica, quella in cui si trattano le materie più ardue e più nobili, la teologia, la filosofia, il diritto, la medicina; nelle università è la lingua corrente tra docenti e studenti; in latino si esprimono le cancellerie, nello stilare i documenti ufficiali. Questa vitalità del latino fa sì che esso sia il modello permanente del volgare che si sta affermando come lingua di cultura. Il latino infatti esercita il suo influsso sul lessico (molti sono i termini prestati dalla cultura filosofica e scientifica universitaria) e sulla sintassi (per questo motivo le opere in volgare saranno a lungo caratterizzate da complesse costruzioni di subordinate). Nel corso del Duecento non va poi trascurata la presenza del francese. La lingua d’oïl gode di un largo prestigio, per la grande fioritura letteraria cominciata già dal secolo precedente: essa appare come moderna lingua d’uso, ma anche come lingua di cultura. Per questo, in certi casi, scrittori italiani la preferiscono al proprio idioma (Rustichello da Pisa ad esempio scrive in francese il Milione, il racconto dei viaggi di Marco Polo). Accanto al francese resiste in Italia l’uso del provenzale, impiegato dagli imitatori settentrionali dei trovatori, e nella tradizione successiva dei poeti d’amore, dalla Sicilia alla Toscana, resta forte l’impronta linguistica lasciata da quel modello. Nel Duecento è pertanto ampio l’apporto che dalle lingue di Francia viene al vocabolario italiano, soprattutto nel lessico guerresco e feudale (arnese, stendardo, omaggio, codardo, giostra, torneo, paladino, prence, prode), ma dal francese vengono anche termini più comuni come viaggio, passaggio, mestiere, pensiero ecc.
Facciamo il punto 1. Quali sono i motivi della diffusione del volgare letterario? 2. Quali sono le caratteristiche del siciliano illustre? 3. Per quale motivo il volgare toscano esercita la sua egemonia in ambito letterario? 4. In quali contesti si utilizza ancora il latino? 5. Perché alcuni scrittori ricorrono alla lingua d’oïl o al provenzale?
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L’età comunale in Italia
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Caratteristiche e generi della letteratura italiana in età comunale La diversa varietà dei volgari che si parlano in Italia fa sì che la letteratura dell’età comunale presenti caratteristiche distinte e diversificate, sia per quanto riguarda gli elementi più strettamente linguistici, sia per l’attestarsi delle forme e dei generi entro particolari aree geografiche. Tuttavia, pur radicandosi entro situazioni più circoscritte, la letteratura italiana elabora e rafforza ben presto una sua tradizione particolarmente elevata e raffinata; soprattutto alla Toscana e a Firenze, il Comune in cui si registrano le più vivaci spinte economiche e culturali, fanno capo quelle opere – di Dante, Petrarca e Boccaccio – a cui guarderà con ammirazione, spesso cercando di imitarle, l’intera Europa.
La letteratura religiosa Se le manifestazioni della devozione religiosa sono diffuse in tutta la penisola, le espressioni letterarie più significative si registrano nell’Italia centrale, tra Umbria e Toscana. Umbri sono san Francesco d’Assisi, autore del celebre Cantico delle creature ( cap. 1, T1, p. 99), in cui l’amore divino si manifesta in tutta la vita del creato, e Iacopone da Todi, le cui “laudi” (tra le quali la più nota è la lauda drammatica Donna de Paradiso, cap. 1, T2, p. 107) riflettono una visione antitetica, in cui i beni terreni e lo stesso corpo umano vengono considerati alla stregua di realtà corrotte e spregevoli, dal momento che la sola esperienza valida consiste nell’annullamento di sé nella mistica comunione con Dio. L’amore mistico è anche il momento culminante delle lettere scritte da santa Caterina da Siena ( cap. 1, A4, p. 123), mentre fra i predicatori vanno almeno ricordati, oltre a san Bernardino da Siena, francescano, i domenicani Domenico Cavalca e Iacopo Passavanti, anch’essi toscani.
La lirica e la poesia popolare e giullaresca Dalla scuola siciliana al «dolce stil novo»
La poesia comicoparodica e moraleggiante
La poesia popolare e giullaresca
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Tra i generi letterari che giungono a più alta maturazione in questo periodo è da segnalare la lirica, che, ispirandosi agli schemi già forniti dai trovatori provenzali, ha il suo primo momento significativo nella cosiddetta “scuola siciliana”, costituitasi nell’Italia meridionale alla corte di Federico II nella prima metà del XIII secolo; di qui l’esercizio del poetare passa in Toscana, in una società assai diversa, dove si stanno affermando i Comuni. Si spiega così la presenza di una tematica politico-civile in uno dei poeti di transizione, detti anche siculo-toscani, come Guittone d’Arezzo ( cap. 2, A3, p. 142) (ma si ricordi anche Bonagiunta Orbicciani), che preludono all’esperienza decisiva del «dolce stil novo», con cui la lirica amorosa raggiunge un alto livello di consapevolezza critica e di elaborazione formale. Il capostipite di questa tendenza è il bolognese Guido Guinizzelli ( cap. 2, A4, p. 151), ma la sua diffusione avrà come centro d’irradiazione Firenze e la Toscana, dove nascono i maggiori stilnovisti: Guido Cavalcanti ( cap. 2, A5, p. 159), Dante ( cap. 4, p. 224) e Cino da Pistoia. Se il «dolce stil novo», con la sua raffigurazione tutta idealizzata e spirituale dell’amore, rappresenta la linea “alta”, sublime e per così dire ufficiale della letteratura, in contrapposizione si delinea una tendenza che ne degrada lo stile e i contenuti: è la poesia che si può definire comico-parodica. Il suo più noto esponente è Cecco Angiolieri ( cap. 2, A7, p. 176), autore di versi irridenti e beffardi; ma si ricordino anche, su posizioni meno estremistiche, altri poeti toscani come Rustico di Filippo e Folgòre da San Gimignano. Nel filone più propriamente popolare e giullaresco si può collocare Cielo d’Alcamo ( cap. 2, A6, p. 170), autore del contrasto (uno scambio alternato di battute tra due interlocutori) Rosa fresca aulentissima, che si presenta come parodia delle tematiche dell’amore cortese.
Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari
In forma popolareggiante sono anche i cantàri, ampi poemetti in ottave che riprendevano le leggende del ciclo carolingio e venivano recitati sulle piazze o nelle fiere.
La poesia didattica e la poesia allegorica La poesia didattica
Testi Bonvesin de la Riva Disputa della rosa con la viola
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La poesia allegorica
Nel Nord dell’Italia si afferma invece un particolare filone di poesia didattica, i cui temi – anche quando sono di carattere religioso – appaiono ormai strettamente legati alla vita civile del tempo. Tra i suoi esponenti, i più noti sono Giacomino da Verona (di cui sappiamo pochissimo) e Bonvesin de la Riva (1240 ca. - 1315 ca.). Il primo è autore di un poemetto diviso in due parti, De Jerusalem caelesti (“La Gerusalemme celeste”) e De Babilonia civitate infernali (“Babilonia città infernale”), in cui, in forme ingenuamente immaginose, vengono descritte le gioie dei beati e le pene dei dannati. L’opera rientra in un genere – le visioni dell’oltretomba – che verrà ripreso, a ben altri livelli di complessità e profondità, da Dante nella Commedia. Su questa linea si colloca anche il Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva, che ricordiamo però soprattutto per i suoi scritti di impianto laico e civile: De magnalibus urbis Mediolani (“Le meraviglie della città di Milano”), che contiene un entusiastico elogio della città, raffigurata negli elementi concreti del suo sviluppo; De quinquaginta curialitatibus ad mensam (“Le cinquanta cortesie a tavola”), un manuale di buone maniere; una serie di contrasti, fra cui la Disputa della rosa con la viola, dove l’umile violetta, che rappresenta le virtù borghesi, è contrapposta alla rosa, che simboleggia la superbia nobiliare. Tornando alla Toscana, al genere allegorico-didattico appartiene il Tesoretto di Brunetto Latini, che Dante considererà suo maestro. Il poemetto riprende i temi di un’opera precedente dell’autore, il Trésor, vasta enciclopedia in lingua d’oïl che tratta di storia, scienze, retorica, politica. In volgare fiorentino è scritto anche Il fiore ( L’età cortese, cap. 1, T4, p. 56), poemetto composto da 232 sonetti in forma di discorso continuo, che si presenta come un volgarizzamento del Roman de la rose, riprendendone la visione naturalistica e borghese della seconda parte. Nell’autore, che si nomina Durante, una parte della critica ha creduto di poter riconoscere il giovane Dante.
La trattatistica La retorica
La divulgazione scientificoenciclopedica
L’affermarsi della prosa (nella seconda metà del secolo XIII) è successivo a quello della poesia e corrisponde, soprattutto all’inizio, a esigenze pratiche, legate alle attività della vita dei Comuni. Di qui l’interesse per la retorica, l’arte di saper scrivere e parlare, che diventa fondamentale per la stesura delle lettere e dei documenti ufficiali, di tipo politico, giuridico e amministrativo. I cultori di questa disciplina si ispirano alle regole già stabilite, per il latino medievale, dalle artes dictandi (“arti dello scrivere”), che avevano individuato l’efficacia della scrittura nell’ornato, ossia nell’eleganza del periodo prodotta dalle figure retoriche e dagli artifici formali, e nel cursus, ossia nelle clausole e cadenze ritmiche (il ritmo scandito da una particolare collocazione degli accenti) che avvicinano la prosa alla poesia. La necessità di applicare queste regole anche al volgare dà luogo a volgarizzamenti e a specifici trattati, da usare nelle scuole e nelle università. L’opera più significativa è la Rettorica del già ricordato Brunetto Latini, concepita come volgarizzamento, con ampio commento, del De inventione (“Sull’invenzione”) di Cicerone. Una funzione didattica, legata alla formazione culturale di un nuovo pubblico, è svolta anche dalla divulgazione scientifico-enciclopedica, che si adegua alla mentalità e alle concezioni della conoscenza del tempo, in particolare per quanto riguarda il ricorso ad autorità ritenute indiscutibili. Accanto al Trésor di Brunetto Latini, ricordiamo un’ampia compilazione di frate Ristoro d’Arezzo, la Composizione del mondo (completata verso il 1282), che descrive la struttura dell’universo utilizzando, come fonti, Aristotele ma anche il pensiero arabo. L’opera eserciterà la sua influenza sul Convivio di Dante. 91
L’età comunale in Italia
Libri di viaggio, cronache e libri dei mercanti I libri di viaggio
Le cronache
I libri dei mercanti
Più spiccati elementi di modernità introducono altri generi letterari, che, presentandosi come fortemente innovatori, risultano aperti verso sviluppi e soluzioni future. Il libro di viaggio, tipica espressione del dinamismo e dello spirito commerciale che caratterizzano l’età dei Comuni, giunge ben presto a risultati di grande rilievo con il Milione del mercante veneziano Marco Polo ( cap. 3, A2, p. 197), che racconta il suo viaggio in Cina basandosi sull’osservazione diretta dei luoghi e dei costumi. Un progresso analogo si può osservare per quanto riguarda la tipica forma della storiografia medievale, la cronaca, che, assumendo un carattere municipale, legato alle vicende politiche della vita del Comune, si lascia progressivamente alle spalle un’idea della storia come disegno provvidenziale, per considerarla come esclusivo frutto dell’agire umano; al tempo stesso – anche se è difficile tracciare linee nette di demarcazione – viene abbandonata l’abitudine, tipicamente medievale e universalistica, di raccontare la storia della propria città risalendo alle sue origini mitiche e favolose. A Firenze questi processi si avvertono in maniera più spiccata: nella sua Cronica, Dino Compagni ( cap. 3, A3, p. 207) narra solo le vicende che l’hanno visto partecipe o spettatore; la Cronica di Giovanni Villani ( cap. 3, A4, p. 211), pur partendo ancora dalla fondazione di Firenze, dà del presente un quadro di grande rilievo, per la ricchezza dei dati concreti – sociali, economici, urbanistici, demografici – che ci fornisce. Valore storico e socio-economico avranno anche, fra Tre e Quattrocento, i cosiddetti libri dei mercanti, libri “di famiglia” a carattere privato che, oltre alla registrazione delle attività commerciali, contengono annotazioni, insegnamenti, osservazioni di tipo sociale e politico.
La prosa d’invenzione La letteratura romanzesca
La novella
Microsaggio Geoffrey Chaucer e i Racconti di Canterbury
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Traduzioni e rifacimenti sono molto frequenti in questo periodo, a conferma della rapida circolazione europea della letteratura delle origini. Ampia diffusione hanno le leggende dei cicli carolingio e bretone, che tendono ormai a fondersi e a confondersi fra di loro. Accanto ai cantàri popolareggianti, una produzione più colta si registra, nel Nord-Est dell’Italia, con la letteratura cosiddetta franco-veneta (la Gesta Francor, l’Entrée d’Espagne, la Prise de Pampelune), perché i volgarizzatori mescolavano il volgare natio con le forme dell’originaria lingua d’oïl. Sempre nell’ambito della prosa d’invenzione si assiste al costituirsi e all’affermarsi di un genere nuovo, quello della novella, che attinge i suoi argomenti alle fonti più disparate ed eterogenee: leggende, fabliaux, exempla, aneddoti, fatti e detti memorabili ecc. La prima raccolta anonima, il Novellino, rappresenta uno stadio ancora embrionale nell’evoluzione del genere: i racconti, dalla struttura schematica ed elementare, sono brevi e spesso brevissimi, abbozzi di racconto e talora semplici spunti di una sorta di enciclopedia del narrabile. Se nel Novellino è ancora evidente la genesi orale della novella, ben diverso è il discorso da fare per il Decameron di Giovanni Boccaccio ( cap. 6, p. 503), con cui questo genere raggiunge il più alto livello di elaborazione letteraria. Con il Trecentonovelle di Franco Sacchetti ( cap. 3, A1, p. 191), la novella torna al livello meno impegnato di una scioltezza ricca di umori municipali, anche per quanto riguarda la vivacità dell’espressione stilistica. Ma il più importante autore di novelle, dopo Boccaccio, è Geoffrey Chaucer, che scrive la prima grande opera della letteratura inglese: i Racconti di Canterbury, raccolta incompiuta di racconti in versi (ne restano ventuno). Questi sono collegati da una cornice che narra il pellegrinaggio di un gruppo di persone, che si riuniscono in una osteria. Fin dal prologo emerge la scioltezza “realistica” della rappresentazione, con la descrizione dei caratteri di personaggi che appartengono a diversi ceti sociali.
Ripasso visivo
L’eTà ComUnaLe In ITaLIa (XIII-XIV SeCoLo) PoLITICa, eConomIa e SoCIeTà
• generale ripresa economica e demografica • fenomeno dell’inurbamento • intensificazione dei traffici commerciali • ascesa del ceto mercantile • affermazione dei comuni nel Nord e nel Centro dell’Italia • alternanza di monarchie straniere nel Sud dell’Italia • indebolimento dell’autorità imperiale • trasferimento della sede papale ad Avignone
• diffusione dei movimenti ereticali • fondazione degli ordini mendicanti:
– Francescani – Domenicani • intensificazione delle lotte tra Guelfi e Ghibellini all’interno dei comuni italiani • trasformazione di alcuni comuni in Signorie nel corso del trecento
(1309-77)
CULTUra e menTaLITà
• nuova fiducia nelle capacità dell’uomo • esaltazione della vita attiva e dell’intraprendenza • apertura di nuovi spazi di conoscenza • ampliamento del pubblico dei lettori • affermazione della figura dell’ intellettuale laico • aumento dei luoghi di produzione e diffusione della cultura
• cittadino
(professionisti e funzionari comunali) • cortigiano (al servizio di un signore)
• scuole • università • corti signorili • spazi pubblici (piazze e mercati) • botteghe dei copisti LInGUa e LeTTeraTUra
• affermazione dei volgari italiani come lingue
letterarie: – siciliano – toscano • consacrazione del fiorentino come volgare illustre • sopravvivenza del latino come lingua della cultura dotta • uso del francese e del provenzale come lingue di prestigio • numerose tendenze letterarie in Italia:
PoeSIa • religioso-didattica • lirica • comico-realistica ProSa • novellistica • cronache • trattati di retorica e di argomento scientifico
Facciamo il punto 1. Quali sono i filoni principali della poesia in età comunale? 2. Quali sono le caratteristiche della trattatistica? 3. Nel panorama letterario dell’età comunale quali generi rispecchiano maggiormente la mentalità mercantile? 4. Qual è l’origine della novella? Quali sono gli autori principali in età comunale?
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L’età comunale in Italia
In sintesi
L’eTà ComUnaLe In ITaLIa (XIII-XIV SeCoLo) Verifica interattiva
eVoLUzIone DeLLe STrUTTUre PoLITIChe e SoCIaLI neLL’eUroPa meDIeVaLe Sotto il profilo politico l’Italia del XIII e del XIV secolo è segnata da profonde differenze tra il centro-Nord e il Sud: nell’area settentrionale e centrale si affermano (già a partire dal secolo XI) i comuni, entità urbane che si reggono con ordinamenti di tipo repubblicano; nell’Italia centrale si consolida lo Stato della chiesa, mentre l’area meridionale è stabilmente retta da forme monarchiche e il sistema feudale rimane stabile. dopo il Mille, grazie alla generale ripresa economica e demografica, i comuni si sottraggono al potere imperiale e affermano i loro pieni poteri nell’amministrazione della giustizia, nell’esazione delle entrate fiscali, nell’organizzazione militare. Il centro della vita economica e sociale si sposta perciò dalla campagna alle città, dove si vengono a creare nuovi luoghi di incontro, di discussione politica, di contrattazione economica e di elaborazione della cultura. rispetto all’alto Medioevo la struttura sociale tipica delle città italiane risulta caratterizzata da maggiori elementi di mobilità e viene a essere così composta: i magnati (nobili proprietari terrieri), il popolo grasso (i mercanti e coloro che esercitano le professioni), il clero, il popolo minuto (bottegai, impiegati, piccoli funzionari) e i poveri.
ComUnI e SIGnorIe dopo la morte dell’imperatore Federico II (1250), si crea un vuoto di potere in Italia, e questa crisi consente ai comuni di affermare una volta per tutte la propria autonomia. l’equilibrio di questi piccoli Stati viene però scosso frequentemente dagli scontri per il dominio territoriale e commerciale e dai sanguinosi conflitti tra le fazioni. approfitteranno ben presto di questa situazione uomini ambiziosi (spesso di origine nobile), che imporranno la loro supremazia personale attraverso il consolidamento di nuove organizzazioni statali, le Signorie.
La ChIeSa la chiesa nel frattempo, a causa di un aspro conflitto con la monarchia francese, perde il suo prestigio politico ed entra in un periodo di decadenza, che raggiunge il suo culmine con il trasferimento della sede papale ad avignone, durato ben settant’anni (1309-77). l’esigenza spirituale di un profondo rinnovamento della vita e dei costumi ecclesiastici determina inoltre due fenomeni di grande rilievo: la diffusione dei movimenti ereticali e la fondazione degli ordini mendicanti (domenicani e Francescani).
menTaLITà, ISTITUzIonI CULTUraLI, InTeLLeTTUaLI e PUBBLICo neLL’eTà ComUnaLe le profonde trasformazioni sociali che si realizzano in età comunale grazie alla rapida ascesa del ceto mercan-
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tile, attivo e intraprendente, influenzano notevolmente il pensiero e l’immaginario collettivo. entra in crisi l’atteggiamento ascetico che aveva caratterizzato in gran parte l’alto Medioevo con il suo disprezzo per i beni materiali e per i piaceri mondani e si delinea una nuova fiducia nelle capacità dell’uomo e nella possibilità di aprire nuovi spazi di conoscenza. I principali centri di elaborazione della cultura nella società urbana diventano la scuola, l’università, la corte signorile e gli spazi pubblici (la piazza e il mercato). I chierici conservano un ruolo importante, ma la figura più tipica di questo periodo è quella dell’intellettuale laico che partecipa attivamente alla vita politica del suo comune e spesso anche ai violenti conflitti che dividono i concittadini, oppure si pone al servizio di un signore allo scopo di celebrare la corte e conferirle nuovo prestigio attraverso la sua opera. Il pubblico dei lettori aumenta in modo considerevole grazie alla diffusione delle scuole e all’alfabetizzazione dei ceti emergenti.
La SITUazIone LInGUISTICa In ITaLIa e IL rUoLo eGemone DeLLa ToSCana l’introduzione del volgare come lingua di espressione culturale in Italia è la conseguenza dell’ascesa della classe borghese-mercantile, che avverte l’esigenza di esprimere la propria visione del mondo e i propri valori attraverso una lingua diversa dal latino, che in pochi ormai conoscono. alla corte siciliana di Federico II per la prima volta viene elaborata una lingua letteraria raffinatissima, il cosiddetto siciliano illustre; quando l’esperienza di questi poeti si esaurisce, la loro eredità viene raccolta dalla toscana e nel secolo successivo i tre grandi modelli di dante, Petrarca e Boccaccio consacrano il fiorentino come lingua letteraria per eccellenza. Il latino resta la lingua della cultura dotta, mentre acquistano sempre maggior prestigio il francese (lingua d’oïl) e il provenzale (lingua d’oc), che lasceranno un segno profondo nel vocabolario italiano.
CaraTTerISTIChe e GenerI DeLLa LeTTeraTUra ITaLIana In eTà ComUnaLe Il repertorio delle forme e dei generi si arricchisce notevolmente rispetto ai secoli precedenti e risulta più difficile fornire una visuale completa degli interessi mostrati dagli autori. Per quanto riguarda la produzione in versi, i generi più diffusi sono la poesia religiosa e didattica, la lirica e la poesia comico-realistica. Nel campo della prosa invece riscuotono molto successo la novellistica, le cronache e le opere divulgative (di argomento retorico o scientifico).
Capitolo 1
La letteratura religiosa nell’età comunale La Chiesa e i movimenti ereticali
L’Impero e la Chiesa
Le eresie
Pàtari e càtari
La reazione della Chiesa
La penisola italiana nel corso del XIII secolo è interessata da trasformazioni socioeconomiche che determinano conseguenze evidenti sul piano politico e culturale. In particolare sono investite da mutamenti profondi le due più importanti istituzioni del tempo, l’Impero e il Papato, che risultano entrambe indebolite: la prima a causa delle lotte con i Comuni cittadini, sempre più desiderosi di autonomia, la seconda a causa di un processo che la porta a perdere sempre più le caratteristiche di spiritualità e a trasformarsi in una potenza temporale in grado di determinare i giochi politici ai più alti livelli. L’ascesa del nuovo ceto mercantile, in concomitanza con l’affermarsi del Comune, favorisce la diffusione di modelli di vita eleganti e raffinati che richiedono per la loro realizzazione una grande disponibilità di denaro e che si differenziano in modo netto da quelli delle classi più povere. Si accentuano così le situazioni di emarginazione, di disagio esistenziale non solo nel campo politico e sociale, ma anche in quello morale e religioso; queste diverse esperienze favoriscono la nascita delle cosiddette “eresie”, movimenti religiosi differenziati tra loro, ma accomunati dal forte desiderio di ritornare allo spirito evangelico della Chiesa originaria, caratterizzata dalla povertà, dall’amore disinteressato per il prossimo, dalla vita semplice in comunità. Si pensi a un movimento come quello della “patarìa”, che, diffusosi dalla seconda metà dell’XI secolo soprattutto in area lombarda, combatte i costumi corrotti del clero locale, raggiungendo la sua massima forza e autonomia a Milano, dove si collega alle origini del Comune di quella città. I pàtari (o patarini) verranno poi impropriamente confusi con i “càtari” (dal greco katharós, “puro”), una setta ereticale che, ispirandosi a posizioni rigoriste, si affermò soprattutto nella Francia meridionale, tra Tolosa e Albi (di qui il nome di “albigesi”). Contro di loro fu indetta da Innocenzo III una crociata, che, nel 1209, determinò la distruzione e la dispersione del movimento, contribuendo ad accelerare la fine della civiltà occitanica e della letteratura provenzale (nella persecuzione fu coinvolto anche il movimento dei valdesi, che, fondato a Lione intorno al 1170 da Pietro Valdo, si diffonderà più tardi anche in Italia). È evidente che il modello di Chiesa perseguito dagli eretici è in netta opposizione con quello della Chiesa ufficiale, dedita alle pratiche mondane e pervasa dalla corruzione. I movimenti ereticali hanno successo e si diffondono in tutta Europa, perché rappresentano un’esigenza sentita di rinnovamento e di adesione fedele ai princìpi del Vangelo.
Gli ordini mendicanti Francescani e Domenicani
La Chiesa ufficiale reagisce alla diffusione delle eresie con modalità diverse, ad esempio con la creazione di ordini monastici che si richiamano alla povertà (l’ordine dei Francescani) e alla fedeltà all’ortodossia (l’ordine dei Domenicani), approvati da papa Onorio III, il primo nel 1223, il secondo nel 1216. Entrambi gli ordini si 95
L’età comunale in Italia
dedicarono alla predicazione: per i Francescani essa si espresse soprattutto attraverso il racconto delle parabole evangeliche narrate al popolo, per i Domenicani essa si realizzò essenzialmente nell’interpretazione dei passi della Scrittura. Il francescanesimo ebbe una larga diffusione soprattutto tra i ceti popolari che trovarono in esso la risposta alle proprie esigenze di purificazione e di vita condotta secondo i princìpi del Vangelo. Il successo dell’ordine non riuscì però ad evitare la scissione dei confratelli tra “conventuali”, sostenitori più blandi della Regola, e gli “spirituali”, rigidi ed intransigenti seguaci della medesima ( Il tema della povertà nelle Storie di san Francesco di Giotto).
1 La predicazione e la diffusione del francescanesimo
I Francescani e la letteratura In una società dominata dalla violenza, dalle sopraffazioni, dal disprezzo per il debole, qual è quella del XIII secolo, i Francescani si distinguono per il loro comportamento dettato dall’amore per la natura e tutte le creature che esistono sulla terra. Fedeli al messaggio del fondatore del loro ordine, predicano la pace e l’amore per il prossimo, prestando la loro opera a favore dei più deboli e rifiutati dalla società, come i lebbrosi. La predicazione dei Francescani utilizza il volgare, in quanto il loro messaggio d’amore deve raggiungere un pubblico il più vasto possibile; la forma della comunicazione è semplice e immediata, ricorrendo spesso alle parabole evangeliche.
Il tema della povertà nelle Storie di san Francesco di Giotto Giotto di Bondone, Il dono del mantello, 1290-95, affresco dalle Storie di san Francesco, Assisi, Basilica superiore di San Francesco.
L’ordine francescano, all’interno del quale prevalse un’adesione sempre meno letterale all’insegnamento della povertà assoluta, nel 1263 approvò la biografia del fondatore scritta da san Bonaventura di Bagnoregio, la cosiddetta Legenda Maior. A questa, che mitigava gli aspetti più radicali e scomodi del messaggio di san Francesco, tanto cari agli spirituali, si ispirò lo straordinario ciclo di affreschi sul santo realizzato tra il 1290 e il 1295 dal pittore fiorentino Giotto di Bondone (1267-1337) e dai suoi collaboratori nella Basilica superiore di Assisi. Nelle ventotto scene che compongono il ciclo, tutte corredate di una didascalia che descrive l’episodio raffigurato, non compaiono mai né medicanti, né lebbrosi, figure fondamentali nella vita di san Francesco. Soltanto due affreschi, inoltre, affrontano il tema della povertà. In uno di questi, Il dono del mantello, il santo, al centro dell’immagine, offre con generosa umiltà il proprio mantello al cavaliere bisognoso, che soltanto la didascalia qualifica come povero e malvestito: egli indossa infatti un elegante abito rosso.
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
Il francescanesimo ebbe un’enorme diffusione (in Europa nel 1250 si contavano più di mille conventi francescani), segno che il suo messaggio di fraternità cristiana rispondeva alle profonde esigenze di rinnovamento spirituale degli uomini del tempo.
Il Cantico di Frate Sole, i Fioretti e la cronaca su fra Michele da Calci Il Cantico di Frate Sole
I Fioretti
Testi Anonimo • Il lupo di Gubbio dai Fioretti di san Francesco
In una rassegna di testi letterari legati alla tematica religiosa, il primo di assoluto valore appartiene a san Francesco ( A1, p. 98), che seppe rinnovare profondamente la spiritualità del suo tempo. Il Cantico di Frate Sole ( T1, p. 99) nasce come preghiera, come inno da cantare coi fedeli, ma appare subito come il frutto di una sensibilità nuova, più cordialmente aperta verso i molteplici aspetti del reale, non irrigidita entro formule convenzionali. Intorno alla figura di san Francesco, circondata da un alone di incantata semplicità, fiorirono aneddoti più o meno leggendari, che furono raccolti nelle prime biografie, come quella latina di Tommaso da Celano. L’opera più significativa in tale ambito furono però i Fioretti (termine che significa “esempi gentili, edificanti”), raccolta anonima di episodi esemplari riguardanti la vita del santo. In questi testi si è scorto lo spirito fanciullesco del francescanesimo, il cantico dell’amore per tutte le creature, l’ingenua fiaba della purezza cristiana. In effetti un’atmosfera di sogno e di fiaba avvolge queste pagine, ma questa atmosfera nasce da un nucleo profondo di ottimismo evangelico: la speranza di una rinnovata innocenza, l’attesa di una terra promessa, di una liberazione di tutte le creature dalla schiavitù del dolore, dell’odio, del peccato, della corruzione, in cui si celebri la fratellanza di tutti gli esseri (Getto). È questo tema che spiega nel loro significato più profondo le pagine famose della predica agli uccelli e quelle del lupo di Gubbio ammansito.
Visualizzare i concetti
Movimenti ereticali e ordini mendicanti nel Basso Medioevo Indebolimento dell’Impero a causa della lotta con i Comuni
Affermazione del ceto mercantile: acuirsi del divario tra ricchezza e povertà
Disagio politico e sociale
Movimenti “ereticali” combattuti dalla Chiesa
• pàtari (area lombarda, dall’XI secolo): combattono la corruzione del clero • càtari (Francia meridionale, XII-XIII secolo): praticano un modello di vita ascetico
Corruzione e “politicizzazione” della Chiesa
Crisi spirituale: esigenza di rinnovamento religioso e di ritorno ai princìpi del Vangelo (povertà, spiritualità, solidarietà)
FERMENTI DI RINNOVAMENTO SOCIALE E RELIGIOSO
Ordini mendicanti approvati dalla Chiesa
• Francescani (riconosciuti nel 1223): si richiamano alla povertà e all’umiltà evangeliche; svolgono attività di sostegno ai bisognosi • Domenicani (riconosciuti nel 1216): si propongono la difesa della fede contro le eresie
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L’età comunale in Italia Gli “spirituali” e i “conventuali”
Dopo la morte del santo e la divisione dell’ordine nei due tronconi degli “spirituali” e dei “conventuali”, l’intransigenza degli “spirituali” portò questi ultimi a veri scontri con il papato che li accusò anche di eresia. Si crearono gruppi di francescani ribelli, i fraticelli, che a loro volta accusarono il papa di eresia. Ai “fraticelli” apparteneva fra Michele da Calci, condannato al rogo nel 1389 per essersi rifiutato di riconoscere l’autorità del pontefice. La cronaca anonima che ci racconta la cattura, il processo e l’esecuzione di fra Michele, nota con il titolo di Storia di fra Michele minorita, è un testo eccezionale per la forza delle immagini, soprattutto legate al martirio ( cap. 3, T10, p. 217).
Iacopone da Todi La passione politica e il misticismo
Francescano è anche il maggior poeta religioso del periodo, Iacopone da Todi ( A2, p. 105), i cui versi riflettono una complessità di esperienze talora opposte e contrastanti, sempre vissute con animosa e persino violenta partecipazione. Ne emerge una prepotente personalità, priva di reticenze e di freni, espressa in un dettato che non trascura i toni lividi e cupi. Il disprezzo per il corpo e per i beni terreni non esclude, all’interno dei contrasti tra “spirituali” e “conventuali”, l’accesa passione politica; questa, a sua volta, non contraddice l’esperienza mistica, considerata non come fuga dal mondo o rifiuto della realtà, ma come testimonianza viva e polemica di ciò che è “diverso” in quanto contraddice e contesta le norme e le convenzioni prestabilite. Nella sua produzione si incontrano i toni violenti, apocalittici e profetici, ma anche accenti di straordinaria pietà quando “umanizza” il motivo religioso, come nel suo componimento più celebre, Donna de Paradiso, che inaugura la tradizione delle laude drammatiche ( La lauda, p. 106), coinvolgendo il “destinatario” in una forma attiva di partecipazione.
San Bernardino da Siena Le prediche
A1
La Regola
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Al primo Quattrocento appartiene la figura di san Bernardino da Siena (1380-1444), anch’egli francescano, famoso per le prediche in volgare, trascritte e tramandate dai suoi uditori. Si tratta di prediche di carattere spiccatamente popolare.
San Francesco d’Assisi La vita San Francesco è il più alto esponente della spiritualità religiosa del XIII secolo.
Nacque ad Assisi nel 1181 o 1182 in una famiglia della borghesia mercantile. Compì buoni studi, imparando il latino e il francese. Nella sua giovinezza, agiata e brillante, mostrò propensioni per il mestiere delle armi: nel 1204 cadde prigioniero nella guerra fra Assisi e Perugia. Cercava di raggiungere le truppe di Gualtieri di Brienne in Puglia, quando, ammalatosi a Spoleto, dovette tornare ad Assisi. Inizia a questo punto quel travaglio interiore che lo porta, nel 1206, a mutare radicalmente le sue abitudini di vita: si ritira in un eremo e si dedica alla cura dei lebbrosi. L’anno dopo il padre lo accusa di fronte al vescovo, per indurlo a rinunciare ai suoi propositi; Francesco si spoglia degli abiti che indossa e glieli restituisce, dichiarando di riconoscere per padre solo «Colui che è nei cieli». L’episodio ha un valore emblematico, in quanto segna un rovesciamento e un rifiuto dei valori della società borghese del tempo, a cui Francesco era appartenuto, sostituiti dalla scelta della povertà, dalla cura degli altri e dall’amore per il prossimo. Con i primi discepoli stabilisce nel 1209 una Regola andata perduta, che verrà approvata l’anno successivo da papa Innocenzo III. Animato dal desiderio di diffondere il Vangelo anche fra gli infedeli, nel 1219 raggiunge l’Egitto ed è trattato benevolmente dal Sultano, che gli consente di recarsi in Terrasanta. Rientrato in Italia elabora una nuova Regola che, poi riassunta e abbreviata, verrà definitivamente approvata dal pontefice Onorio III il 29 novembre 1223. Gli ultimi anni, trascorsi in solitudine e in pre-
Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
ghiera presso vari conventi dell’Italia centrale, sono segnati da dolori fisici e dalle preoccupazioni per i contrasti che cominciavano a serpeggiare all’interno dell’ordine. Le opere Tra i fatti ricordati dai biografi ci sono le “stimmate”, ricevute sul monte Verna Il Cantico di Frate Sole
T1
e la certificatio (“certificazione”, “attestazione”), ossia una visione in cui Dio approvava il suo operato e gli preannunciava la salvezza eterna; il mattino seguente san Francesco avrebbe composto il Cantico di Frate Sole, o delle creature. Prima di morire (nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 1226) si congedò dai suoi seguaci con un Testamento, che integrava la Regola. Oltre alla Regola e al Testamento indicati, restano altri suoi scritti in latino, legati all’insegnamento e alla pietà religiosa: consigli e ammaestramenti spirituali, sei lettere e cinque orazioni. Ma è soprattutto il Cantico a imporsi come evento di assoluta evidenza, per la sua carica di altissima testimonianza spirituale e per l’intensità del messaggio poetico, straordinario esempio di poesia religiosa che inaugura, nello stesso tempo, la nostra letteratura in volgare.
San Francesco d’Assisi
Cantico di Frate Sole
Temi chiave
• la comunanza tra l’uomo e il creato • la beatitudine dopo la morte • l’amore e l’umiltà di fronte a Dio
Il Cantico di Frate Sole venne composto, secondo la tradizione, nel 1224, quando il santo, dopo una notte trascorsa fra il male che lo affliggeva agli occhi e il tormento dei topi, avrebbe avuto una visione divina, che lo faceva certo della salvezza eterna. Secondo la stessa tradizione i versetti sul perdono sarebbero stati aggiunti quando Francesco rappacificò tra loro il vescovo e il podestà (a quel tempo il magistrato supremo) di Assisi, quelli sulla morte quando sentì approssimarsi la fine (ma queste interpretazioni, con cui si cercò forse di giustificare certe asimmetrie di struttura e l’evidente cambiamento di tono, non sono confermate).
> Metro: prosa ritmica, suddivisa in gruppi di due, tre, cinque versetti, sull’esempio dei salmi biblici.
Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Audio
Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu Te mentovare1. 5
Laudato sie, mi’ Signore, cum2 tucte le Tue creature, spetialmente messor3 lo frate4 Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione5.
versi 1-4 Altissimo, onnipotente, eccellente (bon) Signore, a Te appartengono la lode, la gloria, l’onore e ogni benedizione. A Te solo, Altissimo, convengono (konfano), e nessun uomo è degno di pronunciare il tuo nome (mentovare). 1. et nullu … mentovare: il concetto risale al Decalogo di Mosè («Non nominare il nome di Dio invano»), integrato con altre celebri espressioni bibliche («non sono degno di essere chiamato figlio tuo», oppure «non sono degno che tu entri nella mia casa»).
L’autorevolezza di questi riferimenti giustifica i latinismi: nullus homo, dignus; mentovare deriva invece dal francese antico mentevoir. versi 5-9 Lodato sii, mio Signore, così come (cum) tutte le Tue creature, specialmente messer fratello (frate) Sole, che rappresenta la luce del giorno, e ci illumini attraverso di (per) lui. Ed esso è bello e raggiante e con grande splendore: di Te, Altissimo, porta testimonianza (significatione).
2. cum: secondo l’interpretazione di Mario Casella sta per così come, non assieme a. 3. messor: è forma umbra di messere ed è distinto da Signore, che indica invece la divinità. 4. frate: termine attribuito a tutte le creature (come sora, sorella), per indicare appunto la comune origine del creato ed il sentimento che deve unire tutti gli esseri viventi. 5. significatione: intendi, il Sole è l’emanazione della luce divina sulla Terra.
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L’età comunale in Italia
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Laudato si’, mi’ Signore, per6 sora Luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite7 et pretiose et belle. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento et per aere et nubilo et sereno8 et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
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Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua, la quale è multo utile et humile9 et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini10 la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso11 et forte.
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Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione.
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Beati quelli ke ’l12 sosterrano in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. 13
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: versi 10-14 Lodato sii, mio Signore, per sorella Luna e le stelle: le hai create (formate) nel cielo luminose (clarite) e preziose e belle. Lodato sii, mio Signore, per fratello Vento e per il cielo (aere) nuvoloso e sereno, e per ogni tempo (atmosferico), grazie al quale dai vita alle tue creature. 6. per: è il principale nodo da sciogliere per l’interpretazione del componimento. Secondo l’ipotesi tradizionale per è inteso come causale (per aver creato…), cioè la lode viene rivolta direttamente a Dio come artefice del mondo. Meno convincente ci sembra la sua interpretazione come complemento d’agente (da, francese par), a indicare la lode resa dalle creature al loro creatore. Ma per potrebbe anche significare attraverso (conformemente all’uso del per che precede), sottolineando il rapporto di mediazione che si stabilisce, nell’universo, fra Dio e l’uomo; ed è, questa, l’ipotesi più suggestiva, per il carattere di comunione e di partecipazione
che permea, nel componimento, la vita del tutto. 7. clarite: latino clarus, francese clair. 8. nubilo et sereno: probabilmente sostantivi, anche se hanno funzione di attributo rispetto ad aere, aria. versi 15-19 Lodato sii, mio Signore, per sorella Acqua, la quale è molto umile e utile e preziosa e pura (casta). Lodato sii, mio Signore, per fratello Fuoco, attraverso il quale illumini (ennallumini) la notte: ed esso è bello e giocondo e robusto (iocundo et robustoso) e forte. 9. utile et humile: bisticcio di parole, cioè accostamento di due parole molto simili per il suono ma di diverso significato. 10. ennallumini: riprende, rafforzandolo col prefisso, l’allumini del verso 7 (francese antico enluminer). 11. robustoso: il suffisso -oso è aggiunto in funzione espressiva. versi 20-24 Lodato sii, mio Signore, per nostra sorella madre Terra, la quale ci nutre e
alleva (sustenta et governa), e produce molti frutti con fiori colorati ed erba. Lodato sii, mio Signore, per quelli che perdonano attraverso il Tuo amore e sopportano malattie e dolori (infirmitate et tribulatione). versi 25-33 Beati quelli che sopporteranno ciò (’l) in pace, perché (ka) saranno (sirano) da Te incoronati. Lodato sii, mio Signore, per nostra sorella Morte corporale, dalla quale nessun vivente (nullu homo) può scappare: guai a quelli (a·cquelli) che moriranno (trovandosi) nei peccati mortali; beati quelli che (la Morte, quando sopraggiungerà) troverà nelle Tue santissime volontà (voluntati), perché la dannazione (morte secunda) non farà loro (’l) male. Lodate e benedicete il mio Signore e ringraziatelo e servitelo con grande umiltà. 12. ’l: lo, nel senso di ciò, riferito a infirmitate et tribulatione del verso 24. 13. ka: riprende, con evidente parallelismo, la struttura delle Beatitudini evangeliche.
Pesare le parole Skappare (v. 28)
> Qui significa “scampare”, con il gruppo /mp/ che diventa /pp/ per l’assimilazione delle due consonanti, fenomeno tipico dell’antico volgare umbro in cui si esprime san Francesco. Deriva da campo, con il prefisso s- (dal latino ex) che indica l’uscire fuori da qualche cosa: quindi propriamente, in origi-
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ne, valeva “uscire fuori dal campo”. Diversa etimologia è invece quella del nostro attuale scappare, che deriva dal latino colloquiale excappare, composto da ex- e cappa, “mantello”, e vale letteralmente “togliersi la cappa” per essere più liberi nel fuggire, quindi in senso traslato “darsi alla fuga”.
Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
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guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda14 no ’l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli15 cum grande humilitate.
14. la morte secunda: cioè irrevocabile e definitiva (è espressione usata nell’Apocalisse e ripresa poi da Dante). 15. serviateli: si tratta propriamente di un
congiuntivo esortativo, col valore degli imperativi che precedono; -li è dativo, a lui, come il caso retto dal latino servire. I destinatari degli ultimi due versi sono i fedeli, per i
quali il Cantico è stato espressamente concepito.
Analisi del testo La lingua volgare
La struttura
Un’interpretazione critica
I modelli biblici
La ricerca formale
> La religiosità del Cantico
Il Cantico è l’unico testo scritto in volgare umbro da Francesco, che utilizzò per tutti gli altri suoi scritti il latino. La scelta della lingua volgare assume allora un particolare significato, in quanto rivela la volontà da parte di Francesco di rivolgere ai propri confratelli una sorta di ammonizione sul tipo di predicazione da destinare al popolo dei fedeli, popolani e illetterati, che dovevano essere messi in grado di capire senza fraintendimenti il contenuto del messaggio religioso. Nella prima parte (vv. 1-22) il Cantico è una lode a Dio per tutti gli elementi del mondo creato: il sole, la luna e le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra; nella seconda parte (vv. 23-33) è una preghiera penitenziale di fronte alla morte, dopo la quale per coloro che saranno nelle «sanctissime voluntati» di Dio ci sarà la beatitudine. Nel testo sono evidenti gli elementi tipici della religiosità francescana: il senso di comunanza dell’uomo con tutti gli elementi della natura, l’amore e l’umiltà del fedele nei confronti di Dio creatore. La religiosità di san Francesco, secondo l’interpretazione del filologo Mario Casella, non respinge il mondo terreno in quanto totalmente negativo, come è proprio di altre tendenze religiose del Medioevo che insistono sul contemptus mundi (“disprezzo del mondo”) e sulla vita mondana come cumulo di miserie ed orrori: le cose sono belle di per sé, ma anche perché portano «significatione» di Dio che le ha create.
> Gli aspetti formali
Per quanto riguarda gli aspetti formali, il Cantico non è affatto opera ingenua e spontanea, che sgorghi da una religiosità semplice e incolta: al contrario è opera nutrita di cultura, che rivela un’accurata elaborazione formale. Essa si rifà a modelli biblici ed evangelici: ad esempio, il Salmo 148 di Davide («Sole e luna, lodatelo, / lodatelo tutte, o fulgide stelle. / Lodatelo, o cieli dei cieli…») e il discorso evangelico delle beatitudini («Beati i poveri in spirito… Beati gli afflitti… Beati i miti…»). Il Cantico vuole dunque essere un salmo in volgare destinato per l’uso liturgico ad essere cantato in pubblico (di Francesco era anche la musica, che però non ci è pervenuta). Il Cantico non è in versi, ma in una prosa ritmica, suddivisa in gruppi di due, tre, cinque versetti, proprio sull’esempio dei salmi biblici. A questi rimanda la litania, cioè la ripetizione costante della formula «Laudato si’». Sono poche le rime vere e proprie («stelle» / «belle», vv. 10-11, «rengratiate» / «humilitate», vv. 32-33, a cui si può aggiungere «Signore» / «honore» dei vv. 1-2, con una sorta di rima al mezzo); prevalgono invece decisamente le assonanze («Sole» / «splendore»/«significatione», «Vento» / «tempo» / «sustentamento», «Terra» / «governa» / «herba». 101
L’età comunale in Italia Il volgare illustre
La lingua non è dialettale, ma rivela l’aspirazione a un volgare illustre: infatti regolarizza e purifica le caratteristiche del volgare umbro, che dovevano apparire troppo plebee. Qualche caratteristica umbra tuttavia permane: la -u finale alternata con -o, l’iniziale di «iorno», desinenze come quelle di «sirano» e «konfano», «ène» per “è”, «messor» per “messere”. Il testo si propone quindi di avere un valore letterario; ciò è confermato anche dalla cura con cui sono costruite le serie aggettivali: «Altissimu, onnipotente, bon»; «bellu e radiante»; «clarite et pretiose et belle»; «utile et humile et pretiosa et casta»; «bello et iocundo et robustoso et forte».
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Proponi una sintesi per ciascuna delle due parti in cui il Cantico è diviso (vv. 1-22 e 23-33). > 2. In quale delle due parti in cui è suddiviso il Cantico (vv. 1-22 e 23-33) l’essere umano sembra essere al centro, come protagonista, della meditazione di san Francesco? Perché?
ANALIzzARE
> 3.
Stile Individua nel testo le rime: che cosa osservi? Sono frequenti e/o regolari? Quali altri espedienti conferiscono musicalità alla lettura? > 4. Stile Quale funzione ha, sul piano espressivo, la ripetizione dell’invocazione a Dio? > 5. Lessico Prova a spiegare il preciso significato di «morte secunda» (v. 31). > 6. Lingua Rintraccia i numerosi latinismi presenti nel testo. > 7. Lingua Per quale motivo nel testo prevale la coordinazione? Sono presenti soltanto due tipologie di subordinate: sapresti dire quali? > 8. Lingua Indica qual è il tempo verbale prevalente in ciascuna delle due parti in cui il Cantico è diviso e spiegane il motivo.
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 9.
Esporre oralmente Il Cantico, in linea con il francescanesimo che andava diffondendosi soprattutto fra i ceti popolari, è testimonianza di una religiosità basata sull’esaltazione di una vita umile e povera: quali ragioni, relative al contesto storico-sociale, determinano questa profonda esigenza di spiritualità? Rispondi oralmente in circa 3 minuti. > 10. Altri linguaggi: cinema Leggiamo un passo dal Testamento di Francesco, nel quale il santo difende, con un atto di disperata energia, la propria esperienza, proclamandola direttamente ispirata da Dio, contro chi la voleva e la volesse ridimensionare. Francesco riconosce nell’incontro con i lebbrosi il momento in cui la sua vita cambiò radicalmente:
Essendo io nel peccato, mi sembrava troppo amaro vedere i lebbrosi; fu il Signore a condurmi fra loro e usai con essi misericordia. Quando venni via da loro, ciò che mi era parso amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. Dopo stetti un poco e poi uscii dal mondo. C. Frugoni, Le storie di San Francesco. Guida agli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, Einaudi, Torino 2010
Rifletti sul significato della citazione e descrivi la scena dell’incontro con il lebbroso – evento cruciale dell’esperienza francescana – tratta dal film di Roberto Rossellini Francesco giullare di Dio. > 11. Competenze digitali Il testo, di fondamentale importanza sul piano storico, religioso e linguistico, inaugura la nostra letteratura in volgare, rivelando ancora forme ed elementi fonici prossimi al latino. Effettua la registrazione di una tua personale lettura del Cantico e archiviala in un podcast audio, che potrai corredare di immagini tratte ad esempio dal ciclo di affreschi di Giotto della Basilica superiore di Assisi. PER IL RECuPERO
> 12. Quali caratteristiche degli elementi naturali vengono evidenziate? Fra queste, quale sembra essere la più comune? E quali si riflettono direttamente sugli esseri viventi?
> 13. Individua e spiega gli appellativi che nel testo sono attribuiti a Dio. > 14. Quali apposizioni vengono utilizzate per introdurre gli elementi naturali? Perché?
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale SCRITTuRA CREATIVA
> 15. Scrivi in circa 20 righe (1000 caratteri) una breve lettera che Pietro di Bernardone, padre di Francesco, in-
dirizza al figlio in seguito alla sua rinuncia ai beni paterni. Puoi ispirarti agli studi effettuati; nel tuo elaborato, però, il punto di vista adottato deve essere quello di un ricco mercante dell’epoca, al quale la scelta della povertà assoluta doveva sembrare del tutto incomprensibile e folle. Il contesto di riferimento è Assisi.
LETTERATuRA E CINEMA
Lo spirito francescano secondo Rossellini e altri registi
Video da Francesco giullare di Dio
La genesi del film Il film Francesco giullare di Dio di Roberto Rossellini (1950) è formato da undici episodi che rielaborano liberamente situazioni e motivi tratti da vari testi della tradizione francescana. La principale fonte di ispirazione del regista sono stati I fioretti di san Francesco. L’intento di Rossellini non è quello di ricostruire la vita del santo, ma di rappresentare, all’interno di frammenti tra di loro autonomi, degli esempi di spiritualità francescana. Grazie a questa impostazione, dovuta al fatto che il regista era profondamente credente, i personaggi perdono la loro specificità storica e diventano “universali”. Di questi, quindi, non ci interessa più il percorso esistenziale, ma la qualità del sentimento religioso di cui sono espressione e personificazione. L’uomo e la natura Il film si apre con i versi del Cantico di Frate Sole, testo in volgare che, secondo la tradizione, fu composto da san Francesco nel 1224 ( T1, p. 99). La scelta dichiara quello che sarà uno degli obiettivi del film: esprimere l’amoroso senso di comunione tra uomo e natura tipico della religiosità francescana, così come la profonda umiltà con cui il fedele deve avvicinarsi a Dio. La scelta degli attori La volontà di rappresentare l’umana semplicità di san Francesco e
dei suoi compagni spinge Rossellini a ingaggiare degli attori non professionisti per i ruoli principali: il Poverello di Assisi è interpretato dal frate Nazario Gerardi, invece fra’ Ginepro dal frate Severino Pisacane. La scelta di lavorare con attori non professionisti aveva già caratterizzato alcuni dei più felici lavori del regista, in particolare Paisà (1946) e Germania anno zero (1948), riconosciuti ancora oggi come due capolavori assoluti della storia del cinema. Nel caso di Francesco giullare di Dio la scelta di coinvolgere dei veri frati francescani fa sì che, attraverso la loro recitazione (fatta anche di momenti di improvvisazione), traspaia l’autentico sentimento d’amore che i frati provano per Dio e per i loro confratelli. L’episodio centrale del film mette in scena l’incontro tra san Francesco e un lebbroso. Il poverello di Assisi è spaventato dalla terribile malattia ed esita ad avvicinarsi. Presto il santo vincerà la propria titubanza e abbraccerà il malato, perché anch’egli è una creatura di Dio, ma non potrà fare a meno di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla sua sofferenza e alla sua solitudine.
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L’età comunale in Italia
La fortuna cinematografica della figura di san Francesco San Francesco è rimasto,
anche dopo l’uscita nelle sale del film di Rossellini, un soggetto cinematografico molto popolare. Tra le opere realizzate in Italia negli anni successivi, anche se non necessariamente con registi e attori italiani, ricordiamo innanzitutto il kolossal hollywoodiano Francis of Assisi, girato nel 1961 da Michael Curtiz tra l’Umbria e gli stabilimenti di Cinecittà. Segue poi, in ordine cronologico, Francesco d’Assisi di Liliana Cavani (1966), nel quale Lou Castel interpreta un san Francesco ribelle, in sintonia con il tipo di rifiuto della società espresso da alcuni movimenti giovanili di quegli anni. Al contrario la pellicola di Franco Zeffirelli Fratello Sole, Sorella Luna (1972) cerca il successo di pubblico puntando su scenografie sfarzose, costumi coloratissimi e sulle canzoni di Riz Ortolani e Claudio Baglioni. Liliana Cavani riprenderà il soggetto ancora una volta nel 1989 con Francesco, ricostruzione sontuosa della vita del santo, interpretato da Mickey Rourke. Questo fotogramma è relativo all’incontro tra fra’ Ginepro e il tiranno Nicolaio, interpretato da Aldo Fabrizi. Il conflitto tra i personaggi è suggerito anche dalla distanza tra due tipi di recitazione molto diversi. Severino Pisacane mette in scena la propria autentica spiritualità francescana e interpreta Ginepro con semplicità e immediatezza. Aldo Fabrizi invece, unico attore professionista del film, rende evidente la superbia del tiranno grazie a una recitazione grottesca fatta di movimenti ed espressioni volutamente esagerate.
Esercitare le competenze STABILIRE NESSI TRA LETTERATuRA E CINEMA
> 1. Quali sono a tuo parere i motivi della “popolarità”, in un ambito cinematografico mondiale, della figura di san Francesco?
> 2. Quale funzione hanno, all’inizio di un film dedicato a san Francesco come quello di Rossellini, i versi del Cantico? Esprimi un tuo parere.
> 3. Perché Rossellini propone nel suo film la figura, non corrispondente alla realtà storica in cui visse e operò il Santo, del tiranno Nicolaio? Esprimi un tuo parere.
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
A2
La scomunica
Le Laude
L’avversione per il corpo e il pessimismo
Testi Iacopone da Todi • Omo, mìttete a pensare • O iubelo del core • Que farai, Pier dal Morrone? dalle Laude
Il rifiuto della vita sociale
Iacopone da Todi Iacopo dei Benedetti nacque a Todi fra il 1230 e il 1236. Dopo avere studiato diritto, forse a Bologna, si dedicò all’attività di procuratore legale, conducendo una vita gaudente e spregiudicata. Anche se le notizie sono insicure e leggendarie, non si può sottovalutare l’influenza esercitata su di lui dalla moglie, una Vanna dei conti di Coldimezzo. La tradizione ha anche stabilito l’avvenimento luttuoso destinato a modificare la sua vita, inducendolo a ripudiare il passato: la morte della moglie, per il crollo del pavimento durante una festa, e la scoperta sotto le sue vesti di un cilicio, strumento di penitenza e di dolore. L’episodio sottolinea il carattere repentino e radicale della conversione di «fra’ Iacopone», che bene corrisponde alla sua indole intransigente ed estremistica, aliena da accomodamenti e compromessi. Per un decennio (1268-78) conduce vita ascetica e raminga, mendicando e sottoponendosi a dure fatiche e umiliazioni, prima di entrare nell’ordine francescano dei Minori. In tale ambito si schiera animosamente a favore degli “spirituali”, che difendono la purezza della Regola, e prende posizione contro la politica temporale della Curia romana. Quando viene eletto al pontificato Celestino V (1294), l’eremita abruzzese Pier da Morrone, Iacopone lo ammonisce a portare avanti il processo di rinnovamento della Chiesa, ma dubita delle effettive capacità del nuovo papa (dal quale ottiene il riconoscimento di un nuovo ordine religioso, i Poveri eremiti di Celestino). L’abdicazione del debole Celestino V e l’elezione di Bonifacio VIII, che scioglie l’ordine appena costituito e perseguita i protetti dal suo predecessore, determina un rapido precipitare della situazione. Poiché Iacopone contrasta le ambizioni del pontefice, contestando anche la validità dell’elezione pontificia, Bonifacio VIII risponde con la scomunica e assalta la rocca di Palestrina dove si trovava Iacopone insieme ai cardinali Pietro e Iacopo Colonna, costringendola a capitolare dopo un anno e mezzo di assedio. Iacopone è condannato al carcere a vita ma, dai sotterranei del convento in cui è rinchiuso, non cessa di scrivere e di difendere le proprie convinzioni. Solo si umilia perché gli venga tolta la scomunica, senza tuttavia ottenere ascolto dal pontefice. Uscirà dal carcere e sarà liberato dalla scomunica nel 1303, con l’elezione del nuovo papa, Benedetto XI. Muore nella notte di Natale del 1306 nel convento di Collazzone, fra Todi e Perugia.
La vita
La sua opera comprende un folto gruppo di Laude (92 di sicura attribuzione, p. 106), un Trattato sull’unione mistica, lo Stabat mater, sequenza liturgica sulla Passione di Cristo di non certa attribuzione, come i Detti, osservazioni morali. Come ha osservato Giovanni Getto, l’aspetto che immediatamente colpisce nel Laudario di Iacopone è l’ossessiva presenza del corpo, a cui il poeta guarda con odio e paura, come ad un nemico insidioso, da cui provengono il male e il peccato. La visione di Iacopone è infatti ispirata ad un crudo pessimismo: egli insiste sull’infelicità della condizione umana con un gusto di immagini cupe e forti che richiama il genere del contemptus mundi, del “disprezzo del mondo”. Nel campo della realtà egli sceglie sistematicamente gli aspetti negativi: le sofferenze fisiche, i vizi, i peccati, la morte. Per questo il suo linguaggio è folto di termini che si riferiscono alle realtà più concrete e corpose ed investono gli oggetti con una luce violenta, che crea ombre e contrasti senza sfumature. Oltre alla realtà fisica, Iacopone rifiuta radicalmente la vita sociale, che gli appare dominata dall’egoismo, dall’interesse, dall’ambizione, dalla sensualità peccaminosa. Egli nega e rovescia violentemente le convenzioni correnti della vita associata, si compiace di ciò che il mondo respinge, la povertà, la malattia, la follia. Arriva deliberatamente a umiliarsi, a degradarsi, riducendosi ad oggetto di derisione e di beffa. Le opere
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L’età comunale in Italia La polemica contro la cultura
Il percorso ascetico
Il linguaggio
Polemizza poi aspramente contro ogni forma di cultura e di intellettualismo e si oppone alle sofisticate speculazioni della cultura teologica universitaria, di cui i Francescani erano ormai i protagonisti, perché vi vede la negazione degli ideali di umiltà di Francesco. Queste posizioni lo inducono a polemizzare anche contro la Chiesa come istituzione, che gli sembra protesa solo a perseguire fini di ambizione e potenza mondana. Da questo rifiuto del mondo scaturisce la posizione ascetica: il corpo aborrito deve essere mortificato con le armi adatte, con il digiuno, le privazioni, l’astensione dal sonno, la flagellazione, per arrivare ad una liberazione che riscatti l’uomo dal suo peso insopportabile. Attraverso questa ascesi Iacopone persegue la purificazione dell’anima, la tensione verso il trascendente. Nel Laudario un tema caro a Iacopone è quello dell’amore divino, che si presenta con un ardore passionale violento come quello dell’eros umano e spinge a cantare e a gridare senza vergogna e inibizioni, come per un impulso irrefrenabile. Quella comunione d’amore con Dio è ineffabile, non può essere resa con parole umane. Ma, proprio attraverso la confessione dell’impotenza a parlare, il poeta riesce a rendere il senso dell’«esmesuranza» (parola a lui assai cara e continuamente ricorrente nei suoi testi), della dismisura, della sproporzione incolmabile tra i due piani, quello umano e quello divino. Il linguaggio di Iacopone ha un’originalità ed un’intensità straordinarie. Egli respinge il volgare “illustre”, selezionato e raffinato, e si volge al nativo dialetto umbro, di cui esalta i caratteri scabri e corposi, nei suoni, nella morfologia, nel lessico. Tuttavia non si tratta affatto, come a lungo si è creduto, di una lingua rozza ed incolta: nel suo lessico, accanto alle forme più schiettamente dialettali e umbre, ricorrono anche provenzalismi e latinismi.
Microsaggio
La lauda La lauda è un componimento poetico e musicale in volgare di argomento religioso; si è espressa in un primo tempo con quartine monorime (strofe di quattro versi con la medesima rima) e poi nel metro della ballata. La sua origine è da ricercarsi nell’accompagnamento ai riti liturgici, in particolare nei cosiddetti “pianti”, ossia in quelle lamentazioni della Madonna e delle pie donne per la morte di Cristo che venivano «cantate in coro dalle donne che in chiesa assistevano, e prendevano parte, al rito-spettacolo» (Toschi). Ma i contenuti riguardavano, più in generale, i diversi aspetti della devozione e della pietà religiosa, legati ai problemi della fede; in tale ambito rientra anche il testo più noto, il Cantico delle creature di san Francesco.
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La lauda ebbe un grande impulso con il movimento dei Flagellanti o Disciplinati, che, nato in Umbria, a Perugia, nell’inverno 1259-60 per opera di Ranieri Fasani, dava luogo a delle processioni in cui i fedeli, passando da una città all’altra, si flagellavano pubblicamente, intendendo così esprimere il loro disprezzo per i beni del mondo e la loro aspirazione verso i valori spirituali dell’anima. La loro contestazione riguardava soprattutto l’interesse del clero per i beni mondani e si collegava ad altri analoghi movimenti, come quello dei Francescani spirituali, che si battevano per un ritorno della Chiesa alla purezza del messaggio evangelico.
Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
T2
Iacopone da Todi
Temi chiave
Donna de Paradiso
• la Passione di Cristo • il dolore e la tenerezza della Madonna
dalle Laude
• le attenzioni di Cristo morente per la
per il figlio sofferente
Si tratta di una lauda drammatica in cui la Madonna, Cristo, il popolo ed il Nunzio dialogano tra loro sul Calvario, dinnanzi alla croce sulla quale è deposto Cristo.
madre
> Metro: ballata di settenari; schema delle rime: aaax e mmx per la ripresa. Anacrusi ai vv. 25, 28, 56, 69, 76 e 128.
«Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso, Iesù Cristo beato.
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versi 8-15 «Com’è possibile (porria, potrebbe) che qualcuno abbia imprigionato (pigliato) Cristo, la mia speranza (spene), dal momento che non commise alcuna colpa (follia)?» «Madonna, egli è stato tradito: Giuda l’ha proprio (sì) venduto; ne ha ricavato trenta denari, ne ha fatto un grande affare (mercato)». 2. Com’essere … pigliato?: om (latino homo, francese on) introduce una proposizione impersonale. L’oggetto (Cristo) è prolettico. 3. fatto … mercato: è detto ironicamente, perché Giuda ha venduto Cristo per pochi denari.
Accurre, donna e vide che la gente l’allide1: credo che lo s’occide, tanto l’ho flagellato». «Com’essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?2» «Madonna, ell’ è traduto: Iuda sì l’ha venduto; trenta denar n’ha avuto, fatto n’ha gran mercato3». «Soccurri, Maddalena!4 Ionta m’è adosso piena: Cristo figlio se mena5, com’ è annunzïato6».
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«Soccurre, donna, adiuta, ca ’l tuo figlio se sputa e la gente lo muta7; hòlo dato a Pilato».
versi 1-7 «Donna celeste (de Paradiso), tuo figlio, Gesù Cristo beato, è stato catturato (è preso). Accorri, donna e guarda che la gente lo percuote (l’allide): credo che lo
uccidano, tanto l’hanno (l’ho) flagellato». 1. l’allide: latinismo, come le precedenti forme imperative accurre, accorri, e vide, guarda.
versi 16-23 «Aiutami, Maddalena! Mi è giunta (Ionta) addosso una sciagura improvvisa e inarrestabile (piena): Cristo, mio figlio, viene portato via, come è stato profetizzato». «Soccorrilo, donna, aiutalo (adiuta), perché gli si sta sputando e la gente lo trasferisce (lo muta); lo hanno (hòlo) consegnato a Pilato». 4. Soccurri, Maddalena!: più semplicemente con valore esclamativo: aiuto!. È sinonimo di adiuta, che lo rafforza al verso 20. Maddalena è una donna guarita da Gesù, a cui appare subito dopo la Resurrezione. 5. se mena: ha valore passivo, come i successivi se sputa (v. 21), se prende (v. 68) ecc. 6. com’ è annunzïato: si riferisce alla profezia delle Sacre Scritture; è il calco di una formula evangelica, che collega le vicende di Cristo alle antiche profezie (vedi anche il verso 131). 7. lo muta: «lo trasferisce (dal sinedrio al tribunale di Pilato)» (Contini). Oppure «lo muta d’abito» (Ageno). In entrambi i casi, vedi Matteo, 27, 2 e 28.
Pesare le parole Preso (v. 2)
> Qui significa “prigioniero”. L’origine è dal latino prehèns-
us, participio passato del verbo prehèndere (ma anche prèndere, prensus), che vale “prendere, afferrare”, come il verbo italiano che da esso proviene. Alla stessa radice risale il sostantivo prehensionem, da cui deriva l’italiano prigione, e quindi prigioniero. Si può notare invece che in un’altra lingua neolatina come lo spagnolo il termine equivalente è preso, che quindi, come nel volgare di Ia-
>
copone, deriva dal participio latino, non dal sostantivo prehensionem. Sinonimo di prendere prigioniero è catturare, dal latino captura, derivante da capere, che significa egualmente “prendere”. Si può osservare che da due verbi latini che hanno lo stesso significato derivano anche in italiano parole che appartengono alla stessa sfera semantica, prigione, prigioniero, cattura, catturare.
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«O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mustrare como a torto è accusato». «Crucifige8, crucifige! Omo che se fa rege9, secondo nostra lege contradice al senato».
8. Crucifige: è il popolo che si rivolge adesso, in latino, a Pilato, richiamandolo all’applicazione della legge romana (vedi Giovanni, 19, 15). Si noti l’efficace alternanza delle battute, che obbediscono a motivazioni contrastanti. 9. se fa rege: Cristo si era autoproclamato, sì, re, ma in un senso del tutto spirituale. Il verso 31, che significa “è in contrasto con la legge del Senato, la legge di Roma”, è ricalcato sul «contradicit Caesari» del Vangelo di Giovanni (19, 12).
«Prego che me ’ntennate, nel mio dolor pensate: forsa mo vo mutate de che avete pensato10». «Traàm for li ladruni, che sian suoi compagnuni11: de spine se coroni, ché rege s’è chiamato!»
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versi 32-39 «Vi prego di capirmi (’ntennate), pensate al (nel) mio dolore: forse (forsa) adesso (mo) vi ricrederete (vo mutate) di quello che avete pensato». «Tiriamo fuori (Traàm, dalla prigione) i ladroni, affinché siano i suoi compagni (sulla croce): si coroni di spine, visto che si è proclamato re!». 10. forsa … pensato: riconoscerete cioè che sono ingiuste le accuse contro di lui. 11. Traàm … compagnuni: il popolo chiede invece che vengano fatti uscire dalla prigione i ladroni, perché siano compagni di Cristo sulla croce (vedi Matteo, 27, 38).
«O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! figlio, chi dà consiglio al cor mio angustïato? Figlio occhi iocundi12, figlio, co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si’ lattato?»
versi 24-31 «O Pilato, non far torturare mio figlio, perché io ti posso dimostrare come è accusato a torto». «Crocifiggilo,
crocifiggilo! Un uomo che si proclama re (rege), secondo la nostra legge va contro al senato».
Pesare le parole ’ntennate (Intendiate, v. 32)
Angustïato
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Il verbo ha conservato lo stesso significato nell’italiano moderno. Un suo sinonimo è capire, e può essere interessante riflettere sulle rispettive etimologie dei due verbi. Il primo proviene dal latino tèndere più il prefisso in-, “verso”, e letteralmente vale “tendere verso”, da cui deriva il senso traslato “rivolgere la mente o i sensi per acquisire o approfondire la conoscenza di qualcosa”; capire viene invece dal latino càpere, “prendere, afferrare”: intendere indica quindi un moto dal soggetto verso l’oggetto della conoscenza, capire il movimento in senso inverso, afferrare l’oggetto per portarlo a sé, per impadronirsene. Un altro sinonimo è comprendere, dal latino cum-prehèndere, che ha pressappoco lo stesso significato di càpere, “prendere”, con il cum che indica l’atto di mettere insieme. Intendere nel nostro linguaggio attuale è parola più dotta di capire e di comprendere. È interessante osservare che in altre lingue neolatine i verbi che indicano il capire derivano da in-tèndere (francese entendre, spagnolo entender) o da cum-prehendere (francese comprendre, spagnolo comprender), non da càpere.
>
versi 40-47 «O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi consolerà (dà consiglio al) il mio cuore angosciato? Figlio dagli occhi lieti (iocundi), figlio, perché (co’) non rispondi? Figlio, perché ti nascondi al seno al quale sei stato allattato (o’ si’ lattato)?». 12. occhi iocundi: uso dell’apposizione al posto di un complemento di qualità.
(v. 43)
Angustia è voce dotta usata ancora da noi oggi nel senso di “angoscia” (oppure anche “povertà, ristrettezze”). Deriva dal latino angùstia, che ha come senso letterale “ristrettezza di spazio”: di qui si passa al restringimento delle vie respiratorie, che provoca affanno, e di qui ancora al senso psicologico di “angoscia”, che si manifesta appunto fisicamente come oppressione al petto, mancanza di respiro. Ma anche il termine per noi più comune, angoscia, deriva dalla stessa parola latina, attraverso le trasformazioni linguistiche subite lungo i secoli nel passaggio dal latino al volgare; mentre angustia, parola dotta, a partire dal Duecento è stata presa direttamente dal latino, senza subire trasformazioni. In italiano è un fenomeno abbastanza frequente che da una stessa parola latina derivino due termini, uno più comune proveniente dalle trasformazioni secolari, e uno dotto più vicino alla forma latina: ad esempio oro/aureo (da àurum), ghiaccio/glaciale (da glàcies), povero/pauperismo (da pàuper).
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«Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce13, ove la vera luce dèi essere levato14». «O croce, e che farai? El figlio mio torrai? Como tu ponirai chi non ha en sé peccato?» «Soccurri, piena de doglia, ca’ l tuo figlio se spoglia: la gente par che voglia che sia martirizzato!»
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«Se i tollete el vestire, lassatelme vedere, como el crudel ferire tutto l’ha ensanguenato!» «Donna, la man li è presa, ennella croce è stesa; con un bollon l’ho fesa15, tanto lo ci ho ficcato. L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è più moltiplicato. Donna, li pè se prenno e chiavellanse al lenno; onne iontur’ aprenno, tutto l’ho sdenodato». «E io comenzo el corrotto: figlio, lo mio deporto, figlio, chi me t’ha morto16, figlio mio dilicato?
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Meglio averiano fatto che ’l cor m’avesser tratto, che ne la croce è tratto, stace descilïato!»
versi 48-55 «Madonna, ecco la croce, che la gente sta portando, dove la vera luce (Cristo) deve essere sollevato». «O croce, e tu che cosa farai? Mi prenderai (torrai) mio figlio? Di che cosa accuserai (ponirai) chi non ha in sé alcun peccato?». 13. l’aduce: l’ è pleonastico. 14. ove … levato: concorda a senso con Cristo e non con il soggetto grammaticale, la vera luce. versi 56-63
«Soccorrilo, piena di dolore
(doglia), perché stanno spogliando tuo figlio: pare che la gente voglia che sia ammazzato (martirizzato)!». «Se gli togliete i vestiti, lasciatemelo vedere, come le crudeli ferite l’hanno tutto insanguinato!». versi 64-75 «Donna, gli si prende la mano, e la si stende sulla (ennella) croce; con un chiodo (bollon) l’hanno spaccata (fesa), tanto glielo hanno conficcato (lo ci ho ficcato). Gli si prende l’altra mano, e la si stende sulla croce, e il dolore brucia
(s’accende), perché è raddoppiato (moltiplicato). Donna, i piedi vengono presi e sono inchiodati al legno (chiavellanse al lenno); aprendo ogni giuntura (iontur’), tutto l’hanno slogato (sdenodato)». 15. fesa: dal verbo “fendere”, qui anche nel senso di “penetrare”. versi 76-83 «E io comincio il lamento (corrotto): figlio, mia consolazione (deporto), figlio, chi ti ha ucciso, figlio mio tenero e bello (dilicato)? Meglio avrebbero (averiano) fatto a strapparmi (tratto) il cuore, che sulla croce è trascinato (tratto) e lì sta straziato (descilïato)!». 16. chi … morto: si noti l’intensa partecipazione affettiva espressa dal me, mi, a me.
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«Mamma, ove si’ venuta? Mortal me dài feruta, ca ’l tuo planger me stuta17, che ’l veio sì afferrato». «Figlio, che m’aio anvito, figlio, pate18 e marito! Figlio, chi t’ha ferito? Figlio, chi t’ha spogliato?» «Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei compagni, ch’al mondo aio acquistato19». «Figlio, questo non dire: voglio teco morire; non me voglio partire fin che mo m’esce ’l fiato20.
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C’una aiam sepoltura21, figlio de mamma scura: trovarse en afrantura mate e figlio affocato22!» «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanne, mio eletto: sia tuo figlio appellato. Ioanni, èsto23 mia mate: tollela en caritate, aggine pïetate, ca’l cor sì ha furato». «Figlio, l’alma t’è ’scita, figlio de la smarrita24, figlio de la sparita, figlio attossecato25! Figlio bianco e vermiglio26, figlio senza simiglio, figlio, a chi m’apiglio? Figlio, pur m’hai lassato27!
versi 84-91 «Mamma, dove sei venuta? Mi dai una ferita mortale poiché il tuo pianto mi uccide (stuta), che lo vedo (’l veio) così angoscioso (afferrato)». «Figlio, ne ho ben motivo (m’aio anvito), figlio, padre e marito! Figlio, chi ti ha ferito? Figlio, chi ti ha spogliato?». 17. stuta: dal francese tuer. 18. pate: latinismo. Cristo non è solo il figlio di Maria ma è anche Dio, oltre ad essere marito, in quanto amore, che proviene dallo Spirito Santo (vengono così riunite le persone della Trinità divina).
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versi 92-103 «Mamma, perché ti lamenti (lagni)? Voglio che tu resti (in vita), che sia utile ai (ei) miei compagni, che ho acquistato per il (al) mondo». «Figlio, non dire ciò: voglio morire con te (teco); non voglio andarmene fino a quando avrò fiato. Così avremo almeno una sola sepoltura, figlio di mamma sventurata (scura): che madre e figlio soffocato siano nel fondo della prostrazione!». 19. che serve … acquistato: i compagni che Cristo ha reclutato per la salvezza del mondo; ei: «forma arcaica dell’articolo» (Contini).
20. fin che … fiato: cioè sino alla morte. 21. C’una … sepoltura: è forma ottativa, che esprime desiderio. 22. trovarse … affocato: «infinitiva a modo di apposizione» (Contini). Solo la comune sepoltura sembra poter recare un qualche sollievo a tanta disperazione. versi 104-111 «Mamma, dal cuore afflitto, ti affido (entro … metto) a Giovanni (Ioanne), il mio discepolo prediletto (eletto): sia chiamato tuo figlio. Giovanni, ecco (èsto) mia madre (mate): prendila per amore filiale (caritate), abbine (aggine) pietà, perché ha il cuore così trafitto (furato)». 23. èsto: ancora in uso nel dialetto umbro. versi 112-119 «Figlio, l’anima (alma) ti è uscita (t’è ’scita) (dal corpo), figlio della smarrita, figlio della distrutta (sparita), figlio a cui è stato fatto bere del tossico (attossecato; sostanza amara e velenosa)! Figlio bianco e rosso (vermiglio), figlio che non assomigli a nessun altro (senza simiglio), figlio a chi mi appoggio? Figlio, mi hai per sempre (pur) lasciato! 24. smarrita: sostantivo, per indicare Maria (smarrita, perché ha perso ogni ragione di vivere, mentre sparita, nel verso che segue, significherà distrutta, annichilita, in un crescendo che sottolinea gli effetti di un dolore insostenibile). 25. attossecato: è detto in senso figurativo, in quanto Cristo si è addossato, per redimerli, i peccati e le ingiustizie del mondo. Ma allude anche a un episodio preciso della Passione, quando un soldato passa sulle labbra di Gesù una spugna imbevuta d’aceto (vedi Matteo, 27, 48). 26. vermiglio: più che alla carnagione, il termine sembra alludere al sangue, assumendo un valore simbolico (anche in opposizione al bianco, simbolo della purezza). 27. pur … lassato: è detto con tono di dolorosa partecipazione.
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Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, per che t’ha ’l mondo, figlio, così sprezzato? Figlio dolze e placente, figlio de la dolente, figlio, hatte la gente malamente trattato! Ioanni, figlio novello, mort’è tuo fratello; ora sento ’l coltello che fo profitizzato28. Che moga figlio e mate d’una morte afferrate: trovarse abraccecate mate e figlio impiccato29».
versi 120-127 Figlio bianco e biondo, figlio dal volto lieto (iocondo), figlio, perché il mondo ti ha, o figlio, così disprezzato (sprezzato)? Figlio dolce e bello (placente), figlio della addolorata (dolente), figlio la gente ti ha (hatte) maltrattato! versi 128-135 Giovanni, nuovo figlio, tuo fratello è morto; ora sento (la ferita del) coltello che fu profetizzato. Che muoiano (moga) figlio e madre, portati via (afferrate) da una sola morte: che madre e figlio appeso si trovino abbracciati». 28. profitizzato: allude alla profezia di Simeone a Maria, nel Vangelo di Luca (2, 35). 29. trovarse … impiccato: «altra infinitiva per apposizione» (Contini).
Analisi del testo La lauda drammatica
Drammaticità e tensione narrativa
Maria
> Il dialogo polifonico
È l’esempio più antico e famoso di lauda drammatica, costruita interamente sotto forma di dialogo (tra Gesù, Maria, gli ebrei e il Nunzio, che è forse san Giovanni), in dialetto umbro con qualche latinismo (ad esempio «Accurre»). Tale forma dialogica prelude a quella che nei secoli XIV e XV sarà la prima forma teatrale moderna: la sacra rappresentazione, eseguita in genere nelle piazze e negli spazi davanti alle chiese. Il carattere polifonico, di poesia a più voci, è strettamente associato a una concitazione narrativa che esprime i sentimenti drammatici e contrastanti da cui la scena è dominata: stupore, dolore, odio, amore. Fino a distendersi, nell’ultima e più lunga battuta pronunciata da Maria, in una sofferta e quasi ininterrotta invocazione, dove si sommano il più tenero affetto e il dolore più straziante. La continuità della sequenza è affidata all’accorgimento retorico dell’anafora, in particolare alla ripresa, ad inizio di ogni verso, della medesima parola «figlio» (che si collega, a sua volta, al motivo dei versi 40 e ss. e 77 e ss.). Altri accorgimenti retorici presenti in queste strofe, come le interrogative e le esclamative, riguardano più in generale l’intero componimento, contribuendo a conferirgli il suo peculiare aspetto drammatico e dinamico, con frequenti mutamenti del punto di vista e scarti di prospettiva. Analoga, in questo senso, la funzione delle numerose invocazioni, spesso unite agli imperativi con intonazione di comando o di preghiera.
> I personaggi
All’interno della lauda particolare rilievo assume il personaggio di Maria, rappresentata essenzialmente nella sua umanità di madre. La Madonna appare come una donna disperata per la vicenda del figlio, la cui condanna e morte le sono del tutto incomprensibili, dal momento che Cristo «non fece follia» (v. 9), «a torto è accusato» (v. 27), «non ha en sé peccato» (v. 55). La madre vede il proprio figlio «martirizzato», «ensanguenato», «ne la croce […] tratto» e vuole allora morire con lui, salendo sulla stessa croce. La sua disperazione prorompe nel famoso «corrotto» (lamento funebre), nel quale con i più dolci appellativi si rivolge alla sua creatura che non è riuscita a sottrarre al martirio. La Madonna non coglie nella morte del figlio l’esperienza necessaria per la redenzione dell’umanità dal peccato originale, ma solo l’aspetto terreno di terribile sofferenza. 111
L’età comunale in Italia Cristo
Il Nunzio
Il popolo
Anche Cristo rivela attenzioni da figlio per la propria madre terrena, che affida alle cure amorevoli di Giovanni, esortandola a restare in vita per servire i «compagni, / ch’al mondo» ha «acquistato» (vv. 94-95), ma c’è in Cristo quella consapevolezza della sua missione salvifica che manca alla semplice donna del popolo. Compito del Nunzio è quello di riferire alla Madonna tutto quanto avviene intorno alla croce; svolge con scrupolo il suo compito di cronista, non risparmiando alla madre nessuna delle torture inflitte al figlio e senza una sua partecipazione emotiva al dramma. Due soli sono gli interventi del popolo presente alla scena ed entrambi con la funzione di affermare che in nome della legge Cristo dev’essere condannato.
> La Passione e le fonti
È evidente da queste osservazioni che l’alta materia della Passione dal piano teologico è scesa a quello umano e si è spettacolarizzata: questo consente al pubblico, a cui è destinata la lauda, di identificarsi nel dramma della madre e del figlio e di parteciparvi. Iacopone nel descrivere la Passione di Cristo segue fedelmente i testi sacri della tradizione cristiana (le Sacre Scritture ed i Vangeli); inoltre la drammaticità che permea la sua opera è analoga a quella presente in alcune opere dell’arte figurativa contemporanea, come dimostra l’osservazione, ad esempio, della Crocifissione di Cimabue, conservata nella basilica di San Francesco ad Assisi.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Qual è il personaggio al centro della lauda? Perché Iacopone compie questa scelta? ANALIzzARE
> 2. Rintraccia e descrivi all’interno della lauda le due parti principali da cui è costituita: la descrizione della Passione e il lamento di Maria. Stile Osserva nel testo, già in volgare umbro, il carattere popolare ed espressivo della lingua, orientato al coinvolgimento emotivo del pubblico. Sottolinea il lessico crudo e diretto, le espressioni immediate, proprie del parlato, le frequenti interrogazioni ed esclamazioni. > 4. Stile Quale figura retorica individui nei versi 112-126? Quale effetto produce? > 5. Stile Quale figura retorica è presente nell’ultima strofa? Qual è la sua funzione nel testo?
> 3.
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Testi a confronto Individua l’elemento di novità che caratterizza il racconto della passione di Cristo da parte di Iacopone rispetto ai Vangeli. > 7. Altri linguaggi: arte La crocifissione di Cimabue, come si legge nell’Analisi del testo, richiama per drammaticità ed espressività la lauda di Iacopone. Confronta le due rappresentazioni, rispondendo alle seguenti domande. a) Quale episodio della lauda si presta ad essere rappresentato dal dipinto? b) Quali personaggi ricorrono in entrambe le opere?
Cimabue, Crocifissione, 1277-83, affresco, part., Assisi, Basilica superiore di San Francesco, transetto sinistro.
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale PER IL RECuPERO
> 8. Completa la seguente tabella con le varie fasi della Passione di Cristo, secondo l’esempio proposto. Versi
Fase
Voci narranti
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Cattura di Gesù .................................................................................................................................
Nunzio, Maria .................................................................................................................................
20-39
.................................................................................................................................
.................................................................................................................................
48-75
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128-131
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.................................................................................................................................
E c h i n e l Te m p o
La figura della mater dolorosa Lo Stabat mater
I precedenti letterari Donna de Paradiso ha un precedente ben noto in uno dei più celebri inni cristiani, lo Stabat mater (come si è detto opera forse dello stesso Iacopone), che inizia così: «Stabat mater dolorosa…» (“Stava la madre addolorata…”). L’innovazione sostanziale del testo di Iacopone consiste nel pathos della concitazione drammatica, dovuto anche al carattere dialogico della lauda.
La fortuna
Le persistenze artistiche Il motivo della Mater dolorosa ha avuto una straordinaria fortuna attraverso i secoli: in ambito letterario, soprattutto per quanto riguarda la poesia religiosa cinque-secentesca, nelle arti figurative, che rappresentano il dolore di Maria ai piedi della croce, e anche nella tradizione musicale: si ricordano ad esempio le composizioni dello Stabat mater di Vivaldi, Pergolesi, Rossini.
Fabrizio De André
Le rivisitazioni moderne Ma le suggestioni legate all’episodio si avvertono anche in scrittori dall’ispirazione essenzialmente laica, in cui si esprime una religiosità non ortodossa o convenzionale. Una ripresa diretta si è avuta, in tempi recenti, presso un cantautore come Fabrizio De André, che, ispirandosi liberamente ai Vangeli apocrifi (ossia a quell’insieme di testi sulla vita di Gesù che non sono ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa), ha rievocato la vicenda di Cristo – dall’Annunciazione alla sua Passione e morte – in un disco del 1973, La buona novella. De André accentua l’aspetto umano della situazione, contrapponendo alla Vergine le madri dei due ladroni (che hanno nome Tito e Dimaco). Sono loro che iniziano a parlare, in un testo – di indubbia forza e suggestione – che riprende la struttura dialogica propria della lauda drammatica. Si rivolgono dapprima, separatamente, ai propri figli crocifissi, sottolineando l’atrocità di un dolore che significa la loro stessa morte:
«Tito, non sei figlio di Dio, ma c’è chi muore nel dirti addio»; «Dimaco, ignori chi fu tuo padre, ma più di te muore tua madre». Le parole indirizzate alla Vergine esprimono quasi un sentimento di rancore, di invidia per quella che appare come una condizione di privilegio:
Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine di un’agonia: sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno: lascia noi piangere un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte. Ma Maria non ammette questa distinzione ed insiste sulla comunanza di una sofferenza tutta umana e terrena, che non trova alcun’altra compensazione:
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L’età comunale in Italia
Piango di lui ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora. Figlio nel sangue, figlio nel cuore, e chi ti chiama “nostro Signore”, nella fatica del tuo sorriso cerca un ritaglio di paradiso. Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre, come nel grembo, e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce.
Dario Fo
Si sprigiona così quasi un grido finale di rifiuto e di protesta: «Non fossi stato figlio di Dio, / t’avrei ancora per figlio mio». Solo apparentemente blasfema, la lamentazione esprime un umanissimo sentimento religioso, nel sofferto legame che può unire, alle soglie della morte (e del suo mistero), lo strazio del dolore e la fede. A un livello di elaborazione stilistica completamente diversa, questa scena è presente anche nell’opera teatrale Mistero buffo (1969), in cui Dario Fo, ricollegandosi all’antica tradizione della cultura giullaresca e “carnevalesca” ( cap. 2, Il carnevale e la letteratura carnevalizzata, p. 180), dà voce alle esigenze e alla devozione popolari, usando un linguaggio di sua invenzione, il grammelot, costruito sulla base di vari dialetti padani. Riportiamo qui le parole pronunciate da Maria, accompagnandole con la traduzione: maria
Déime ’na scala… a voi montarghe a renta al me nann… Nan, oh ’l me belo smorto fiol de mi, stait seguro, me ben, che ’des la riva la toa mama… Come i t’han combinat sti assasit becari. Maleditt purscel rugnusi! ’Gnim a cunsciam ol fiol de sta manera! Cosa ol ’veva fait, sto me tarloch, de véghel inscí a scann de fav tanto canaja con lü… Ma am burlerí in ti mani: a vün a vün! Oh m’la pagarí, anc’ duarisi ’gniv in cerca in capp al mund, ’nimal besti sgrasiò! cristo Mama, no stat a criar, mama. maria Sí, sí, at gh’et rason… pardúnam, ol me nan, sto burdeleri c’ho fait e sti parol d’inrabit che hu dit, ch’l’è stait stu strench dulur de truvate impatacat de sangu, s’ciuncat chí loga sü ste trave, sbiutat, de bott pestà… sbusà in de’ i me bej man si delicat, e i pie… oh i pie, che gota sangu, gota a gota… ohj che dua es gran mal! [maria Datemi una scala… voglio salire vicino al mio bene. Mio bene… oh, mio bello smorto figlio di me (mio), stai tranquillo mio bene, che adesso arriva la tua mamma! Come ti hanno combinato questi assassini, macellai: maledetti, porci rognosi! Venirmi a conciare il figlio in questa maniera! Cosa vi aveva fatto questo mio tontolone, d’averlo così in odio, da (essere) farvi tanto canaglie con lui… ma mi cadrete nelle mani: a uno a uno! Oh, me la pagherete, anche se dovessi venirvi a cercare in capo al mondo. Animali bestie disgraziati! cristo Mamma, non stare a gridare, mamma. maria Sì, sì, hai ragione… perdonami mio bene, questo baccano che ho fatto e queste parole da arrabbiata che ho detto, che è stato questo stretto dolore di trovarti imbrattato di sangue, spezzato qui, su questa trave, denudato, di botte pestato… bucato nelle mie belle mani così delicate, e i piedi… oh, i piedi, che gocciolano sangue, goccia a goccia… oh, dev’essere un gran male!]
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
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Iacopone da Todi
Temi chiave
O Segnor, per cortesia
• il rifiuto del corpo • l’invocazione di mali fisici e sofferenze
dalle Laude Al Signore Iacopone non chiede grazie o favori, ma lo prega di punirlo con i peggiori mali corporali e spirituali.
> Metro: ballata di ottonari e novenari (con rari endecasillabi); schema delle rime: dopo una ripresa di due versi a rima baciata, ogni strofetta di quattro versi presenta i primi tre con la stessa rima (o talora assonanza), l’ultimo invece sempre con la rima della ripresa, in -ìa. Nei versi non allineati si registra il fenomeno dell’anacrusi.
O Segnor, per cortesia, manname la malsania.
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A me la freve quartana, la contina e la terzana, la doppia cotidïana co la granne etropesia1. A me venga mal de denti, mal de capo e mal de ventre, a lo stomaco dolor pognenti, e ’n canna la squinanzia. Mal degli occhi e doglia de fianco e l’apostema dal canto manco; tiseco me ionga en alco e d’onne tempo la fernosia.
versi 1-6 O Signore, per cortesia, mandami la lebbra (malsania). A me (manda) la febbre quartana, la febbre continua (contina) e la terzana, quella che provoca due attacchi al giorno, con la grande idropisia (etropesia). 1. quartana … etropesia: le prime tre so-
no forme di malaria: la quartana provoca attacchi ogni quattro giorni, la terzana colpisce ogni tre giorni; l’idropisia è invece una malattia che gonfia di liquidi il ventre, disseccando tutte le altre membra. versi 7-14 A me venga mal di denti, mal di testa e mal di pancia, dolori acuti (pognenti)
allo stomaco e nella gola l’angina (’n canna la squinanzia). (A me vengano) male agli occhi e dolori al (doglia de) fianco e un ascesso (apostema) al fianco sinistro (manco); mi sopraggiunga la tisi (tiseco) in qualche parte (alco) e sempre il delirio (fernosia).
Pesare le parole Fernosia (v. 14)
> È la forma del volgare umbro per frenesia, che viene dal
>
greco phrén, “mente”. Originariamente aveva il senso di “pazzia”, che è quello ricorrente nella lauda di Iacopone. Nella lingua attuale il senso si è attenuato e il termine equivale a “esaltazione, furore”, oppure semplicemente a “capriccio smanioso e irragionevole”, “desiderio smodato” (es. sotto Natale la gente ha la frenesia dei regali); così l’aggettivo frenetico, che in origine significava “pazzo furioso”, ora equivale a “appassionato, delirante” (es. il cantante rock ha suscitato applausi frenetici), oppure a “eccessivamente movimentato, che non conosce sosta” (es. si sono lanciati in un’attività frenetica). In questo senso sinonimo è convulso, participio passato del latino convèllere, “sconvolgere”. Dalla radice greca phrén derivano vari termini composti
>
usati nel linguaggio medico, come schizofrenia, una forma di follia che dà dissociazione mentale, dal greco schízein, “dividere”, perché la psiche è come divisa in due, o oligofrenia, insufficiente sviluppo delle facoltà mentali, dal greco olígos, “poco, scarso”. Dalla stessa radice viene anche il verbo farneticare (da una variante più arcaica di frenetico, farnetico), che vuol dire “parlare in modo sconnesso per delirio, follia o simili”; è usato anche in senso figurato per “fare discorsi assurdi, irragionevoli” (es. tu stai farneticando e non ti sto ad ascoltare). Sinonimi: delirare, dal latino deliràre, che propriamente significa “uscire (de-) dal solco (lira)”; vaneggiare, da vano, quindi “dire cose vane, senza senso”; smaniare, di etimologia discussa, ma probabilmente dal greco manía, “follia”, col prefisso rafforzativo s-.
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Aia ’l fecato rescaldato, la milza grossa, el ventre enfiato, lo polmone sia piagato con gran tossa e parlasia. A me vegna le fistelle con migliaia de carvoncigli, e li granchi siano quilli che tutto repien ne sia. A me vegna la podagra, mal de ciglio sì m’agrava; la disenteria sia piaga e le morroite a me se dia. A me venga el mal de l’asmo, iongasece quel del pasmo2, como al can me venga el rasmo ed en bocca la grancìa. A me lo morbo caduco3 de cadere en acqua e ’n fuoco, e ià mai non trovi luoco che io affritto non ce sia.
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A me venga cechetate, mutezza e sordetate, la miseria e povertate, e d’onne tempo en trapparia. Tanto sia el fetor fetente, che non sia null’om vivente che non fugga da me dolente, posto ’n tanta ipocondria4. En terrebele fossato, ca Riguerci5 è nomenato,
versi 15-22 (Che io) abbia il fegato infiammato (rescaldato), la milza ingrossata e il ventre gonfio (enfiato), il polmone sia piagato con forte (gran) tosse e paralisi (parlasia). A me venga(no) le fistole con migliaia di bubboni (carvoncigli), e i cancri (granchi) siano tanti che io ne sia tutto pieno. versi 23-30 A me venga la gotta (podagra), il male agli occhi (ciglio) mi metta in pericolo di vita (sì m’agrava); la dissenteria sia una piaga e mi si diano le emorroidi (morroite). A me venga l’asma (mal de l’a-
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smo), e vi si aggiunga (iongasece) l’angina pectoris (quel del pasmo), come al cane mi venga la rabbia (rasmo) e le ulcere (grancìa) in bocca. 2. quel del pasmo: l’angina pectoris è lo spasmo dell’arteria aorta. versi 31-38 A me (venga) l’epilessia (morbo caduco) che mi faccia cadere nell’acqua e nel fuoco, e giammai (ià mai) trovi luogo dove io non sia afflitto (affritto). A me vengano cecità, mutismo e sordità (cechetate … sordetate), la miseria e la povertà, e resti per sempre rattrappito (trapparia).
3. morbo caduco: l’epilessia è detta ancora adesso “mal caduco”. versi 39-46 Tanto sia il puzzo fetido (fetor) (che da me emana), che non vi sia nessuno che non fugga da me dolente, posto di fronte a tanto male schifoso (ipocondria). Nel terribile (terrebele) fossato, che si chiama Riguerci, là (loco) io sia abbandonato da tutti (onne … compagnia). 4. ipocondria: è un’interpretazione congetturale, per altri enfermaria, infermità. 5. Riguerci: un fossato un tempo affluente nel Tevere presso Todi.
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loco sia abandonato da onne bona compagnia. Gelo, granden, tempestate, fulgur, troni, oscuritate, e non sia nulla avversitate che me non aia en sua bailia. Le demonia enfernali sì me sian dati a ministrali, che m’essercitin li mali c’aio guadagnati a mia follia.
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Enfin del mondo a la finita sì me duri questa vita, e poi, a la scivirita, dura morte me se dia. Aleggome en sepoltura un ventre de lupo en voratura, e l’arliquie en cacatura en espineta e rogaria6. Li miracul’ po’ la morte: chi ce viene aia le scorte e le vessazione forte con terrebel fantasia7. Onn’om che m’ode mentovare sì se deia stupefare e co la croce signare, che rio scuntro8 no i sia en via. Signor mio, non è vendetta tutta la pena c’ho ditta: ché me creasti en tua diletta e io t’ho morto a villania.
versi 47-54 Gelo, grandine (granden), tempesta, lampi, tuoni (fulgur, troni), oscurità, e non vi sia nessuna (nulla) avversità che non (mi) abbia (aia) in sua balìa (bailia). I demoni infernali mi siano dati come servitori (a ministrali), che (essi) mi infliggano (m’essercitin) i mali che mi sono meritati con le mie colpe (mia follia). versi 55-62 Fino alla fine del mondo (Enfin … finita), tanto (sì) mi duri questa vita, e poi, al momento della dipartita (scivirita), mi si dia una morte crudele (dura). Mi scelgo (Aleggome) come sepoltura un ventre
Taddeo di Bartolo, Gli avari, 1394 ca., affresco dall’Inferno, part., San Gimignano (Siena), Collegiata.
di lupo che mi abbia divorato (en voratura), e i miei resti (arliquie) siano ciò che (dal lupo) sarà stato defecato tra spine e rovi (espineta e rogaria). 6. e l’arliquie … rogaria: qui Iacopone vuole mortificare ogni presunzione alla fama di santità nell’altra vita. versi 63-70 I miracoli (siano da me compiuti) dopo (po’) la morte: chi viene sulla mia tomba (ce vene) sia perseguitato da una schiera di spiriti maligni (scorte) e abbia grandi tormenti (vessazione forte), con terribili visioni (terrebel fantasia). Chiunque
(Onn’om) mi oda menzionare deve inorridire (stupefare) e farsi il segno della croce, in modo da non fare per strada (en via) cattivi incontri (rio scuntro). 7. Li miracul’… fantasia: continua la negazione di ogni aspirazione alla santità. 8. rio scuntro: cioè fantasmi e spiriti maligni. versi 71-74 Mio Signore, non sono espiazione sufficiente (vendetta) tutte le pene che ho raccontato: perché tu mi hai creato per amore (diletta), ed io ti ho ucciso per la mia folle ingratitudine (a villania).
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo Il rifiuto del corpo
Il rifiuto delle forme letterarie auliche
Il senso di colpa
Il rovesciamento delle opinioni comuni
Emerge con cruda violenza da questa lauda il rifiuto del corpo, visto come nemico da mortificare con ogni mezzo. Per questo Iacopone invoca su di sé tutte le malattie, anche le più atroci e repellenti. La prima parte del componimento assume così la forma dell’elenco: i mali si accumulano in un crescendo grandioso, e i loro nomi, tecnici o popolari, sono pronunciati quasi con un compiacimento delirante di sofferenza, dando origine a una visione allucinata e apocalittica. Di qui risulta con chiarezza come la visione pessimistica induca Iacopone ad assumere in poesia gli aspetti più “impoetici”, più turpi e ripugnanti della realtà: in questo si rivela il suo rifiuto radicale delle forme elette della poesia aulica contemporanea, delle atmosfere rarefatte e aristocratiche della lirica d’amore cortese e stilnovistica. Anche la scelta tematica e stilistica risponde alla sua volontà di rifiuto del mondo e di umiliazione totale. La visione cupa della vita si prolunga dopo la morte: nella seconda parte il poeta chiede che la sua sepoltura sia il ventre di un lupo, che i suoi resti si trasformino nello sterco dell’animale deposto tra spine, e che il suo nome crei terrore tra gli uomini. Queste terribili pene sono invocate come punizione per un terribile peccato, l’uccisione di Cristo, che pesa sull’umanità. Si coglie di qui come la religiosità di Iacopone sia lontana da quella di san Francesco: nelle sofferenze che l’uomo deve subire, per il santo vi è «perfetta letizia»; per Iacopone invece la penitenza è abiezione totale, desiderio di annientamento, senza speranza e senza scampo. Non vi è neppure, come ci si potrebbe aspettare, la prospettiva di un riscatto nell’altra vita: è come se per lui nessuna punizione potesse espiare la colpa enorme, irriscattabile, che grava sull’uomo. Il senso di colpa, la volontà di annientamento, il rifiuto totale della vita e del mondo si traducono in una posizione paradossale, in una volontà di rovesciare radicalmente le opinioni correnti: mentre gli uomini comunemente pregano per ottenere da Dio la salute e si augurano di lasciare buon ricordo di sé dopo la morte, Iacopone invoca i più terribili mali fisici e la sorte più angosciosa dopo la morte, come un favore di Dio; e usa ironicamente la parola «cortesia», rovesciando anche in questo caso i parametri dominanti nella visione del tempo (mentre il componimento si chiude con il termine che ne è l’esatta antitesi, «villania», attribuito alla malvagità dell’uomo, di ogni uomo).
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Fra le malattie invocate dal poeta sono citate sciagure non direttamente riferite alla mortificazione del corpo: quali? ANALIzzARE
> 2.
Stile Come indica la nota metrica, il componimento è una ballata di ottonari e novenari in cui compaiono rari endecasillabi: prova a individuarli nei versi 11-34. > 3. Stile Individua le anafore presenti nel testo. > 4. Lessico Analizza i vocaboli con cui l’autore indica le malattie: quali di essi presentano una forma più prossima a quella dell’italiano corrente? > 5. Lingua Quale modo e tempo verbale caratterizza la lingua del testo? > 6. Lingua Analizza l’espressione «io t’ho morto» (v. 74): che cosa osservi riguardo l’uso del verbo?
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Testi a confronto: scrivere Elabora in circa 10 righe (500 caratteri) un confronto tra la concezione della morte presente nel Cantico di san Francesco ( T1, p. 99) e quella emersa dal componimento di Iacopone. > 8. Esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) metti in relazione l’argomento trattato nella ballata e la figura dell’autore: quali eventi della sua vita e/o elementi della sua opera rimandano al tema della mortificazione del corpo e del senso di colpa da espiare?
PER IL POTENzIAMENTO
> 9.
Scrivere In un testo di circa 15 righe (750 caratteri) indica quali affermazioni presenti nel testo rimandano a una visione/condizione dopo la morte e quali al concetto di peccato, di colpa.
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
2 Iacopo da Varazze e la Legenda aurea Domenico Cavalca e Iacopo Passavanti
I Domenicani e la letteratura Predicatori e agiografi Più strettamente legata alle esigenze della predicazione appare la letteratura prodotta dall’ordine fondato da san Domenico, che si proponeva specificamente il compito di diffondere la dottrina cristiana e che, con il tribunale dell’Inquisizione, era il principale strumento della lotta contro le eresie. All’ordine domenicano appartiene Iacopo da Varazze (1228 ca. - 1298), autore in latino della Legenda aurea, un’opera che ebbe una diffusione vastissima ed esercitò un profondo influsso sulla letteratura religiosa successiva: si tratta di vite di santi, in cui si concede larga parte all’elemento sovrannaturale e fantastico. Domenicani, nel Trecento, sono Domenico Cavalca (1270 ca. - 1342) e Iacopo Passavanti ( A3), che scrivono le loro opere in volgare toscano. Il primo è l’autore delle Vite dei santi padri che insistono sugli aspetti meravigliosi e fiabeschi di comportamenti esemplari ed edificanti. Invece l’opera di Passavanti, come vedremo nello specifico, è caratterizzata da una visione cupa e dolorosa dell’esistenza, tutta dominata dal male, dal senso del peccato.
Santa Caterina da Siena Una religiosità complessa
La riabilitazione della dimensione terrena
A3
A differenza di quella di Passavanti la visione religiosa di santa Caterina Benincasa da Siena ( A4, p. 123) è caratterizzata da un senso prevalentemente lieto e luminoso, anche se non mancano descrizioni cupe e morbose: ciò ci fa capire come la sensibilità religiosa del Medioevo non fosse affatto univoca, ma conoscesse tendenze tra loro molto diverse, persino antitetiche. La produzione letteraria della santa, costituita dalle Lettere e dal Dialogo della divina provvidenza, non rispecchia una religiosità semplice e popolare, ma al contrario un complesso travaglio spirituale ed una ricca dottrina. L’amore per Dio è sentito come gioia, serenità e pace. Si delinea anche un modo di concepire la vita spirituale più libero, che già si allontana dal Medioevo: l’uomo non è più la fragile creatura inevitabilmente vittima del peccato, poiché la caduta è il risultato di una libera scelta dell’uomo stesso, padrone del proprio destino; il corpo non è più sentito, a differenza di Iacopone, come nemico dell’anima, da combattere e mortificare, e l’ideale ascetico si avvicina alla vita normale.
Iacopo Passavanti Iacopo Passavanti nacque a Firenze nel 1302 circa da una nobile famiglia. Domenicano, studiò a Parigi ed insegnò a Roma. Morì nel 1357.
La vita
Le opere Le prediche da lui tenute a Firenze durante la Quaresima del 1354 furono
raccolte nello Specchio di vera penitenza, una sorta di trattato che comprende 48 exempla, racconti che offrono al lettore un modello di comportamento morale. Sia l’argomentazione trattatistica, nutrita di dottrina scolastica, sia la parte narrativa sono pervase da un’atmosfera tetra e fosca, che nasce da un’insistenza ossessiva sul male, sul peccato e sui termini ultimi della storia dell’anima, la morte, il giudizio, le pene eterne. Sempre presente alla sua mente è il pensiero del peccato originale, che ha corrotto irrimediabilmente l’uomo; Passavanti avverte con angoscia il continuo pericolo che lo minaccia e che scaturisce dalle tentazioni della carne e dalle insidie del demonio. Il tema della paura domina tutto il libro, come paura del peccato e delle terribili punizioni, della dannazione e dei tormenti infernali (Getto). Nella seconda parte del libro ci sono toni più sereni: verso la fine compare il tema della speranza, fondata soprattutto sulla misericordia della Vergine. 119
L’età comunale in Italia
T4
Iacopo Passavanti
Temi chiave
Il carbonaio di Niversa dallo Specchio di vera penitenza
• la caccia infernale • la condanna dell’amore adulterino • l’insistenza sul male
Il conte di Niversa spiega ad un semplice carbonaio il significato di una visione: un cavaliere insegue una donna nuda, la ferisce con un coltello, la getta nei carboni ardenti, poi fugge con lei.
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Leggesi scritto da Elinando1, che nel contado di Niversa2 fu uno povero uomo, il quale era buono, e temeva Iddio; ed era carbonaio, e di quell’arte3 si viveva. E avendo egli accesa la fossa de’ carboni4, una volta, istando la notte in una sua capannetta a guardia dell’accesa fossa, sentì, in su l’ora della mezzanotte, grandi strida5. Uscì fuori per vedere che fusse, e vide venire in verso la fossa correndo e stridendo una femmina iscapigliata e ignuda6; e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero, correndo, con uno coltello ignudo in mano; e della bocca, e degli occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina7 alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva8 di gittarsi, ma correndo intorno alla fossa fu sopraggiunta dal cavaliere, che dietro le correva: la quale traendo guai9, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente la ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E, cadendo in terra10, con molto spargimento di sangue, sì la riprese per li insanguinati capelli, e gittolla11 nella fossa de’ carboni ardenti: dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa12 e arsa la ritolse; e ponèndolasi13 davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò per la via onde era venuto. E così la seconda e terza notte vide il carbonaio simile visione. Onde, essendo egli dimestico del14 Conte di Niversa, tra per l’arte sua de’ carboni e per la bontà sua la quale il Conte, che era uomo d’anima, gradiva15, venne al Conte, e dìssegli la visione che tre notti avea veduta. Venne il Conte col carbonaio al luogo della fossa. E vegghiando16 il Conte e il carbonaio insieme nella capannetta, nell’ora usata17 venne la femmina stridendo, e il cavaliere dietro, e feciono18 tutto ciò che il carbonaio aveva veduto. Il Conte, avvegna che19 per l’orribile fatto che aveva veduto fosse molto spaventato, prese ardire20. E partendosi il cavaliere ispietato con la donna arsa21, attraversata in su ’l22 nero cavallo, gridò iscongiurandolo che dovesse ristare23, e isporre la mostrata visione24. Volse il cavaliere il cavallo, e fortemente piangendo rispose e disse: – Da poi, Conte, che25 tu vuoi sapere i nostri martiri, i quali Dio t’ha voluto mostrare, sappi ch’io fui Giuffredi tuo cavaliere, e in tua corte nutrito26. Questa femmina contro alla quale io sono tanto crudele e fiero27, è dama Beatrice, moglie che fu28 del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere di disonesto amore29 l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato30; il quale a tanto condusse lei che, per
1. Elinando: autore francese di cronache e di opere morali e religiose attivo nel XII-XIII secolo. 2. Niversa: Nevers, città francese della Borgogna. 3. arte: mestiere. 4. la fossa de’ carboni: luogo nel quale si brucia il legname per la preparazione del carbone. 5. grandi strida: forti grida. 6. iscapigliata e ignuda: spettinata e nuda. 7. Giugnendo la femmina: dopo che la donna giunse. 8. non ardiva: non osava. 9. guai: alti lamenti.
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10. cadendo in terra: mentre la donna cadeva a terra. 11. gittolla: la gettò. 12. focosa: avvolta dal fuoco. 13. ponèndolasi: collocandosela. 14. essendo egli dimestico del: avendo familiarità con. 15. tra … gradiva: sia per il suo mestiere di carbonaio sia per la bontà del conte che aveva un animo generoso. 16. vegghiando: vegliando. 17. nell’ora usata: nell’ora consueta. 18. feciono: fecero. 19. avvegna che: sebbene. 20. prese ardire: si fece coraggio.
21. partendosi … arsa: mentre il cavaliere crudele si allontanava con la donna bruciata. 22. attraversata in su ’l: posta di traverso sul. 23. ristare: fermarsi. 24. isporre la mostrata visione: spiegare la visione. 25. Da poi … che: poiché. 26. nutrito: allevato. 27. fiero: feroce. 28. moglie che fu: che fu moglie. 29. disonesto amore: l’amore è disonesto perché adultero. 30. ci conducemmo … peccato: ci spingemmo a cedere al peccato.
Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
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potere più liberamente fare il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato insino alla infermitade della morte31, ma nella infermitade della morte in prima ella e poi io tornammo a penitenzia32; e, confessando il nostro peccato, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna dello inferno in pena temporale33 di purgatorio. Onde sappi che non siamo dannati, ma facciamo in cotale guisa come hai veduto, per nostro purgatorio34, e averanno fine, quando che sia35, i nostri gravi tormenti. – E domandando il Conte che gli desse ad intendere36 le loro pene più specificatamente, rispuose con lacrime e con sospiri, e disse: – Imperò che37 questa donna per amore di me uccise il marito suo, le è data questa penitenzia, che ogni notte, tanto quanto ha istanziato38 la divina iustizia, patisca per le mie mani duolo di penosa morte di coltello39; e imperò ch’ella ebbe in verso di me ardente amore di carnale concupiscienzia40, per le mie mani ogni notte è gittata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già41 ci vedemmo con grande disio e con piacere di grande diletto, così ora ci veggiamo con grande odio, e ci perseguitàmo con grande sdegno. E come l’uno fu cagione all’altro d’accendimento42 di disonesto amore, così l’uno è cagione all’altro di crudele tormento: ché ogni pena ch’io fo patire a lei, sostengo io43, ché il coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco che non si spegne; e, gittandola nel fuoco, e traèndonela44 e portandola, tutto ardo io di quello medesimo fuoco che arde ella. Il cavallo è uno dimonio, al quale noi siamo dati che ci ha a tormentare. Molte altre sono le nostre pene. Pregate Iddio, per noi, e fate limosine45 e dire messe, acciò che Dio alleggèri46 i nostri martìri. – E detto questo sparirono come fussono47 una saetta.
31. alla infermitade della morte: alla malattia che ci portò alla morte. 32. tornammo a penitenzia: ci pentimmo. 33. temporale: temporanea, limitata nel tempo. 34. per nostro purgatorio: per purificarci dalle colpe commesse. 35. quando che sia: quando Dio lo vorrà. 36. gli desse ad intendere: gli facesse com-
prendere. 37. Imperò che: poiché. 38. tanto quanto ha istanziato: per tutto il tempo fissato. 39. patisca … coltello: subisca dalle mie mani il dolore di una morte atroce, inferta dalla lama di un coltello. Le pene rispondono ad un minuzioso criterio di contrappasso. 40. concupiscienzia: desiderio.
41. già: un tempo. 42. accendimento: nascita (della passione). 43. sostengo io: la sopporto io. 44. traèndonela: togliendola dalle fiamme. 45. limosine: elemosine. 46. alleggèri: alleggerisca. 47. fussono: fossero.
Pesare le parole Cadendo … sì la riprese / Partendosi il cavaliere … gridò / E domandando il Conte … rispuose (righe 11-12; 21-22; 34-35) > Secondo le regole dell’italiano moderno si tratterebbe
di un errore sintattico, perché il gerundio deve sempre riferirsi al soggetto della frase in cui si trova. Ma qui in realtà equivale a un participio, che sarebbe predicativo del complemento oggetto di riprese, cioè la, con valore temporale (in forma esplicita suonerebbe: “mentre ca-
deva … la riprese”). Lo stesso avviene più avanti: «Partendosi il cavaliere … gridò», che vale egualmente: “Mentre il cavaliere si allontanava … gridò”. Ancora: «E domandando il Conte … rispuose», dove il gerundio ha valore causale (“Poiché il conte domandava … rispose”).
Analisi del testo
> Il tema della caccia infernale
La condanna della passione
L’autore riprende in questo exemplum il tema della “caccia infernale”, diffuso nella cultura del tempo, presente nella Commedia di Dante (Inferno, XIII, vv. 109-129) ed in Boccaccio (Decameron, V, 8, cap. 6, T10, p. 584), che forse aveva direttamente ascoltato la predica del frate, per rovesciarne poi il significato nella sua novella. Per Passavanti la passione d’amore dev’essere repressa e punita: i due amanti, che in vita cedettero alla forza dei sentimenti, nell’aldilà sono sottoposti ad una sorta di contrappasso 121
L’età comunale in Italia
Tinte cupe e violente
La minaccia del peccato
dantesco, in quanto si odiano e provano sofferenza dalla reciproca vicinanza; inoltre la donna, che in vita aveva ucciso il marito per poter liberamente vivere la relazione adulterina, nel purgatorio viene uccisa dal cavaliere. L’ambiente in cui si svolge la vicenda è cupo, dominato dai rossi bagliori del fuoco e lordato dal sangue della donna. I gesti dei personaggi rivelano il terrore della donna che fugge «iscapigliata e ignuda» (r. 5) e la violenza del cavaliere che tiene «uno coltello ignudo in mano» (rr. 6-7), con il quale ferisce a morte l’antica amante, che getta «nella fossa de’ carboni ardenti» (rr. 12-13).
> L’insistenza sul male
Si riscontra nell’episodio un’insistenza ossessiva sul male, sul peccato; traspare una visione realistica dell’uomo e una sfiducia nelle sue forze, derivante dalla consapevolezza, fortissima nel Medioevo, del peccato originale che ha corrotto irrimediabilmente la natura umana. Tale sfiducia fa sentire con angoscia, nel corso di tutta l’opera, il continuo pericolo che minaccia l’uomo e che scaturisce dalle tentazioni della carne e dalle insidie del demonio. Il testo, inserito all’interno di una predica rivolta ai fedeli, bene rappresenta l’aspetto punitivo della religione, strumento del clero per spaventare, se non addirittura terrorizzare il popolo, che deve essere distolto dal godimento dei piaceri mondani e indirizzato all’espiazione della colpa originaria.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Completa la tabella dividendo il brano in sequenze e assegnando a ciascuna un titolo, secondo l’esempio proposto.
Sequenze
Titolo
rr. 1-4
il........................................................................................................................................................................................................................................................................... carbonaio
rr. 4-15
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
..............................................................................................................................
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
..............................................................................................................................
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
..............................................................................................................................
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
..............................................................................................................................
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
> 2. Riassumi il contenuto della visione. > 3. Qual è la colpa di Giuffredi e Beatrice? Quale la loro pena? ANALIzzARE
> 4.
Narratologia Ricostruisci, schematizzandone il contenuto, la fabula. Coincide con l’intreccio? Quale effetto vuole ottenere il narratore? > 5. Narratologia Qual è la focalizzazione del racconto? > 6. Lessico Riconosci nella parte iniziale (rr. 1-15) e finale (rr. 34-48) i sostantivi, gli aggettivi e gli avverbi che hanno lo scopo di sottolineare l’atmosfera cupa e violenta della narrazione. A quali campi semantici appartengono?
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente
Esponi oralmente (max 3 minuti) il motivo per cui i due amanti si trovano nel purgatorio
e non nell’inferno. PASSATO E PRESENTE Dove il divieto può più che la convinzione!
> 8. Iacopo Passavanti scrive le sue prediche per mostrare attraverso un racconto i comportamenti da seguire per non attirare su di sé la punizione divina. In questo modo, però, le scelte degli uomini risultano influenzate più dalla paura delle conseguenze che dalla volontà di non commettere il male. In una discussione in classe guidata dal docente rifletti con i tuoi compagni sul ruolo della coscienza individuale nelle decisioni di tipo etico.
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Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
A4
Santa Caterina da Siena Nata a Siena nel 1347, morì a Roma nel 1380. Suora terziaria (o mantellata), appartenne all’ordine dei Domenicani. Svolse un’intensa attività assistenziale e s’impegnò concretamente anche sul piano politico: predicò la crociata, si batté per la riforma della Chiesa e per favorire il ritorno del Papato da Avignone. Fu al centro di vaste relazioni intellettuali e a lei fece capo anche una sorta di cenacolo religioso-culturale, attento ai problemi letterari.
La vita
Le opere Non sapendo scrivere, dettò ai discepoli la sua opera: un Libro della Divina Dottrina o Dialogo della Divina Provvidenza (1378), e il vasto e importante epistolario: 381 Lettere, scritte a partire dal 1370, in cui si rivolge, per esortare e ammonire, a persone della condizione più disparata, compresi i re e i pontefici.
T5
Santa Caterina da Siena
Lettera a frate Raimondo da Capua
Temi chiave
• l’esperienza mistica femminile • l’esaltazione e la gioia religiosa
dalle Lettere La lettera, indirizzata al confratello Raimondo da Capua, padre spirituale e futuro biografo di Caterina, narra gli ultimi momenti di un condannato a morte (presumibilmente il perugino Nicolò di Toldo), assistito dalla santa, nel 1375, sul patibolo.
Questa lettera mandò essa Caterina al padre dell’anima sua frate Ramondo, notificandogli una singulare grazia impetrata per uno giovane perugino, al quale in Siena fu tagliata la testa, ed ella la ricolse in mano. 5
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Al nome di Gesù Cristo crucifisso e di Maria dolce. A voi1, dilettissimo e carissimo padre e figliuolo mio caro in Cristo Gesù. Io Caterina, serva e schiava de’ servi di Dio2, scrivo a voi e raccomandomivi nel prezioso sangue del Figliuolo di Dio, con desiderio di vedervi affogato e anegato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, el quale sangue è intriso3 col fuoco dell’ardentissima carità sua. Questo desidera l’anima mia, cioè di vedervi in esso sangue, voi e Nanni e Iacomo4. Figliuolo, io non veggo altro remedio che veniamo a quelle virtù principali le quali sono necessarie a noi; non potrebbe venire, dolcissimo padre, l’anima vostra, la quale mi s’è fatta cibo, e non passa ponto di5 tempo che io non prenda questo cibo alla mensa del dolce Agnello6, svenato con tanto ardentissimo amore. Dico che, se non fuste anegati nel sangue, non perverreste alla virtù piccola della vera umiltà, la quale nasciarà dell’odio7, e l’odio dell’amore. E così l’anima n’esce con perfettissima purità, sì come el ferro esce purificato della fornace. Così voglio che vi serriate8 nel costato uperto9 del Figliuolo di Dio, el quale è una bottiga10 aperta, piena d’odore in tanto11 che ’l peccato diventa odorifero. Ine12 la dolce sposa13 si riposa nel letto del fuoco e del sangue, ine vede ed è manifestato el segreto del cuore del Figliuolo di Dio. O botte spillata14,
1. A voi: Caterina si rivolge al confratello Raimondo da Capua. 2. serva … Dio: formula di umiltà, usata anche dai pontefici. 3. intriso: permeato. 4. Nanni e Iacomo: nomi di altri confratelli. 5. ponto di: punto di, mai.
6. Agnello: simbolo di Cristo, nell’iconografia cristiana. 7. nasciarà dell’odio: nascerà dall’odio. 8. serriate: chiudiate. 9. uperto: aperto. 10. bottiga: bottiglia. 11. in tanto: tanto.
12. Ine: ivi, lì. 13. la dolce sposa: si tratta dell’anima di cui si è parlato in precedenza. 14. botte spillata: metafora per indicare il cuore di Cristo che versa sangue per redimere l’uomo.
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la quale dài bere e inebbrii ogni inamorato desiderio, e dài letizia e illumini ogni intendimento, e riempi ogni memoria che ine s’affadiga15, in tanto che altro non può ritenere16, né altro intendere, né altro amare se non questo dolce e buono Gesù, sangue e fuoco, ineffabile amore! Poi che l’anima mia sarà beata di vedervi così anegati, io voglio che facciate come colui che attegne17 l’acqua con la secchia, cioè per smisurato desiderio versare l’acqua sopra ’l capo de’ fratelli vostri, e quali sono membri nostri, legati nel corpo della dolce Sposa18. E guardate che per illusioni di dimonio (le quali so che v’hanno dato impaccio19 e daranno) o per detto di creatura20 non tiriate adietro21, ma sempre perseverate, ogni otta22 che vedeste la cosa più fredda, infine che23 vediamo spargere el sangue con dolci e amorosi desiderii. Su, su, padre mio dolcissimo, e non dormiamo più, ché io odo novelle24 che io non voglio più né letto né testi25. Ho cominciato già a ricévare uno capo26 nelle mani mie, el quale mi fu di tanta dolcezza che ’l cuore no ’l può pensare, né la lingua parlare, né l’occhio vedere, né orecchio udire27. […] Andai a visitare colui28 che vi sapete, e elli ricevette tanto conforto e consolazione che si confessò e disposesi29 molto bene. E fécemisi promettere per l’amore di Dio che, quando venisse el tempo della giustizia30, io fusse con lui: e così promisi e feci. Poi, la mattina inanzi la campana31, andai a lui, e ricevette grande consolazione; mena’lo32 a udire la messa e ricevette la santa comunione, la quale mai più33 non aveva ricevuta. Era quella volontà accordata34 e sottoposta alla volontà di Dio; solo v’era rimaso uno timore di non essere forte in su quello punto35: ma la smisurata e affocata36 bontà di Dio lo ingannò37, creandoli tanto affetto e amore nel desiderio di me in Dio, che non sapeva stare senza lui38, dicendo: – Sta meco39, e non m’abandonare, e così non starò altro che bene, e morrò contento –, e teneva el capo suo in sul petto mio. Io sentivo uno giubilo40, uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio, el quale io aspetto di spandere41 per lo dolce sposo Gesù. Crescendo el desiderio nell’anima mia e sentendo42 el timore suo, dissi: – Confòrtati, fratello mio dolce, ché tosto giogneremo43 alle nozze. Tu n’andarai44 bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca della memoria; io t’aspettarò al luogo della giustizia45. – Or pensate, padre e figliuolo, che ’l cuore suo perdé ogni timore, la faccia sua si transmutò di tristizia in letizia46, godeva e esultava e diceva: – Unde47 mi viene tanta grazia che la
15. s’affadiga: si affatica. 16. ritenere: ricordare. 17. attegne: attinge, tira su. 18. corpo … Sposa: allude al corpo mistico della Chiesa. 19. impaccio: fastidio, tormento. 20. detto di creatura: parola di qualche persona. 21. tiriate adietro: torniate indietro. 22. ogni otta: ogni momento, ogni volta. 23. infine che: affinché. 24. novelle: notizie, novità. 25. testi: opere, su cui meditare (la conoscenza mistica non è un fatto razionale). 26. capo: la testa di un condannato a morte, probabilmente il perugino Nicolò di Toldo, giustiziato dalla Repubblica senese, assistito da santa Caterina sul patibolo. 27. ’l cuore … udire: le espressioni indicano, per via negativa, il carattere indicibile e incomunicabile dell’esperienza mistica. È una ci-
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tazione dalla Prima lettera ai Corinzi di san Paolo, 2, 9, che dimostra la conoscenza delle Sacre Scritture di Caterina. («Ma come sta scritto: “Quel che occhio non vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare, questo Dio ha preparato a coloro che lo amano”»). 28. colui: il condannato, Nicolò di Toldo. 29. disposesi: si predispose (ad affrontare la morte). 30. giustizia: esecuzione della condanna. 31. inanzi la campana: prima dei rintocchi della campana, che annunciava l’esecuzione. 32. mena’lo: lo condussi, lo accompagnai (in seguito aspetta’lo). 33. mai più: da moltissimo tempo. 34. accordata: pienamente concorde, in totale accordo. 35. in su quello punto: in punto di morte (così anche più avanti). 36. affocata: infuocata, in quanto traboc-
cante di un fuoco che vivifica e consente di superare qualsiasi prova. 37. lo ingannò: in quanto egli dimostrò che i suoi timori erano infondati. 38. senza lui: senza Dio, presente dentro – e attraverso – la figura della santa, in un rapporto di compenetrazione che la lega, nell’amore per il sangue divino, al condannato. 39. meco: con me. 40. uno giubilo: una gioia soave e infinita. 41. aspetto di spandere: spero di versare. 42. sentendo: avvertendo. 43. tosto giogneremo: ben presto giungeremo (le nozze sono quelle con Dio e con il sangue di Cristo). 44. n’andarai: te ne andrai (da questa vita). 45. al luogo della giustizia: sul patibolo. 46. si transmutò … letizia: da triste divenne lieta. 47. Unde: donde, da dove (parola latina).
Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
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dolcezza dell’anima mia48 m’aspettarà al luogo santo della giustizia? – (è gionto a tanto lume49 che chiama el luogo della giustizia luogo santo!). E diceva: – Io andarò tutto gioioso e forte, e parrammi mille anni che io ne venga50, pensando che voi m’aspetterete ine –; e diceva parole tanto dolci che è da scoppiare della51 bontà di Dio. Aspetta’lo al luogo della giustizia, e aspettai ine con continua orazione e presenzia52 di Maria e di Caterina vergine e martire. Prima che giognesse elli, posimi giù e distesi el collo in sul ceppo53; ma non mi venne fatto che io avessi l’effetto pieno di me ine su54. Pregai e costrinsi55 Maria che io volevo questa grazia, che in su quello punto gli desse uno lume e pace di cuore, e poi el vedesse tornare al fine suo56. Empissi57 tanto l’anima mia che, essendo la moltitudine del popolo58, non potevo vedere creatura59, per la dolce promessa fatta a me. Poi egli gionse, come un agnello mansueto, e vedendomi cominciò a rìdare60, e volse61 che io gli facesse el segno della croce; e, ricevuto el segno, dissi: – Giuso alle nozze62, fratello mio dolce, ché testé63 sarai alla vita durabile64. – Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi el collo, e china’mi giù e ramenta’li el sangue dell’Agnello65: la bocca sua non diceva se non Gesù e Caterina, e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, fermando66 l’occhio nella divina bontà; dicendo: – io voglio! Allora si vedeva Dio e Uomo67, come si vedesse la chiarità del sole, e stava aperto e riceveva sangue nel sangue suo: uno fuoco di desiderio santo, dato e nascosto nell’anima sua per grazia, riceveva nel fuoco della divina sua carità. Giovanni di Paolo, Santa Caterina da Siena scambia il suo cuore con Cristo, XV secolo, tempera e olio su tavola, New York, The Metropolitan Museum of Art.
48. la dolcezza … mia: la stessa santa, intermediaria della grazia divina, che gli ha reso dolce l’idea della morte (il patibolo diventa così il luogo santo della giustizia). 49. è gionto … lume: è giunto a tanta luce, è stato talmente illuminato da Dio. 50. parrammi … venga: mi sembreranno mille anni, non vedo l’ora di poter salire sul patibolo. 51. tanto … della: così dolci da impazzire (che è da scoppiare) sulla. 52. con continua … presenzia: pregando continuamente, alla presenza (è come se la Madonna e santa Caterina d’Alessandria [287-305 ca.] fossero realmente presenti). 53. Prima … ceppo: prima che egli giungesse, mi chinai e posi il capo, il collo, sul ceppo (imitando cioè gli atti del condannato, per
cercare di vivere le sue stesse sensazioni). 54. non mi … ine su: la critica ha affermato che il passo non è molto chiaro. Ma si può cercare di spiegarlo in questo modo: non riuscii (non mi venne fatto) a provare (che io avessi) pienamente lo stesso effetto sulla mia persona (di me) mettendo il capo lì (ine) sopra (su). 55. costrinsi: convinsi (anche qui il rapporto con la Vergine è presentato come un colloquio diretto, reale). 56. el vedesse … suo: lo vedesse rientrare nei suoi disegni (permettendogli di raggiungere la salvezza eterna). 57. Empissi: si riempì (di commozione, dovuta al desiderio e alla grazia di Dio). 58. essendo … popolo: sebbene fosse presente molta gente.
59. creatura: nessuno. 60. rìdare: sorridere. 61. volse: volle. 62. Giuso alle nozze: giù (nel senso del movimento fisico che il condannato deve compiere, ma con il significato di incoraggiamento), andiamo alle nozze. 63. testé: ben presto. 64. durabile: eterna. Ricalca le parole dette da Cristo al buon ladrone: «Oggi sarai con me in paradiso». 65. china’mi … Agnello: mi chinai giù e gli ricordai il sangue versato da Cristo. 66. fermando: chiudendo. 67. Dio e Uomo: l’unione, la compenetrazione della natura divina e umana.
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[…] Così ricevuto da Dio – per potenzia fu potente a poterlo fare68 –, el Figliuolo, sapienzia, Verbo incarnato69, gli donò e feceli partecipare el crociato amore70, col quale elli ricevette la penosa e obrobbiosa71 morte, per l’obedienzia che elli osservò del Padre in utilità dell’umana natura e generazione72. Le mani dello Spirito Santo el serravano73 dentro. Ma elli faceva un atto dolce, da trare74 mille cuori (non me ne maraviglio, però che75 già gustava la divina dolcezza): volsesi come fa la sposa quando è gionta all’uscio dello sposo, che volle76 l’occhio e ’l capo adietro, inchinando77 chi l’ha acompagnata, e con l’atto dimostra segni di ringraziamento. Riposto che fu78, l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue che io non potei sostenere79 di levarmi el sangue, che m’era venuto adosso, di lui. Oimè misera miserabile, non voglio dire più: rimasi nella terra80 con grandissima invidia. Parmi che la prima pietra sia già posta, e però non vi maravigliate se io non v’impongo che ’l desiderio di vedervi altro che anegati nel sangue e nel fuoco che versa el costato del Figliuolo di Dio. Or non più negligenzia, figliuoli miei dolcissimi, poi che ’l sangue cominciò a versare e a ricevere vita.
68. per potenzia … fare: si noti l’artificio retorico della figura etimologica (potentia … potente … poterlo) che esalta la straordinaria forza dell’amore divino. 69. el Figliuolo … incarnato: Cristo, il figlio di Dio, che rappresenta la sapienza e la parola (il Verbo), l’immagine stessa di Dio fatto uomo (incarnato). Si ricordi l’inizio del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. […] Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi». Dopo il Padre e
il Figlio, santa Caterina ricorda poco oltre anche lo Spirito Santo, completando le allusioni al mistero della Trinità. 70. feceli … amore: lo fece partecipare, lo rese partecipe all’amore della croce (crociato), ossia dimostrato da Cristo morendo sulla croce. 71. penosa e obrobbiosa: dolorosa e obbrobriosa, vergognosa. 72. generazione: genere. 73. el serravano: lo stringevano. 74. trare: trarre, trascinare, incantare.
75. però che: perché. 76. volle: volge. 77. inchinando: facendo inchini a. 78. Riposto che fu: quando fu ritirato (il corpo del condannato). 79. non potei sostenere: non ebbi la forza, il coraggio. 80. nella terra: sulla terra, in questo mondo (l’invidia è nei confronti di chi è morto in quel modo, raggiungendo così la pienezza della beatitudine divina).
Analisi del testo Religiosità al femminile
Le immagini del sangue e del fuoco
L’invito all’amore mistico
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> L’amore per Dio
La lettera costituisce un altro esempio della religiosità del tempo, in particolare dell’esperienza mistica femminile, caratterizzata da una forte passionalità e dall’unità di umano e divino, vissuta nel quotidiano. A differenza della tradizione mistica dominante, l’amore per Dio, in Caterina, non si atteggia mai nelle forme di un eros struggente per l’impossibilità dell’appagamento, pieno di ardori e tormenti, ma presenta l’aspetto dell’amore familiare, materno e filiale, rivolto non solo a Dio, ma a tutto il mondo (Getto). Esaminando il testo antologizzato, si può osservare che anche questa lettera, come tutte le altre che ci sono pervenute, inizia con la formula «Io Caterina, serva e schiava de’ servi di Dio, scrivo a voi e raccomandomivi nel prezioso sangue del Figliuolo di Dio» (rr. 5-7). Caterina prosegue poi affermando il desiderio di immergersi nel «sangue dolce del Figliuolo di Dio» (r. 7) e di cibarsi «alla mensa del dolce Agnello, svenato con tanto ardentissimo amore» (rr. 12-13). Da questi esempi è evidente che l’immagine del sangue, con quella del fuoco, apre e percorre quasi ossessivamente tutto lo scritto, rimandando alla sofferta Passione di Cristo. L’invito a perseverare nell’amore mistico (quello che lega Dio ed il fedele come se vivessero una passione d’amore) è rivolto in una forma non astratta ma strettamente collegata ad un programma di vita, che ha come scopo il conseguimento dell’umiltà e il rafforzamento della missione pastorale.
Capitolo 1 · La letteratura religiosa nell’età comunale
Il misticismo
Il linguaggio metaforico
Le “nozze” spirituali con Cristo
La scena della decapitazione
> Il linguaggio
In tale ambito il misticismo è caratterizzato da un’espressione che tende a comunicare un messaggio che supera l’esperienza umana diventando di fatto incomunicabile, nella sua essenza ultima di comunione con il divino. Il sentimento di esaltazione e di gioia che pervade l’anima umana è reso, intanto, da immagini di limpida purezza e trasparenza (si noti l’uso di aggettivi come «dolce», «prezioso», spesso di grado superlativo: «perfettissima purità»), o da vocativi, che indicano sbigottito stupore e meraviglia. Le immagini di freschezza, di ardore e di ebbrezza vengono a loro volta costruite con un linguaggio metaforico («O botte spillata, la quale dài bere e inebbrii ogni inamorato desiderio», rr. 1819), come trama portante di un discorso che si basa sul Vangelo e sui testi sacri dell’amore divino. Gesù è «sangue e fuoco» (r. 21) e, per analogia, il sangue e il fuoco diventano la sostanza e l’espressione dell’«ineffabile amore» (r. 22), come simboli, strettamente correlati, del martirio e dell’«ardentissima carità sua» (r. 8). Occorre quindi bruciare di questo fuoco e annegare in questo sangue per poter realizzare l’esperienza mistica, che è unione profonda e quasi compenetrazione con l’oggetto del proprio desiderio; il linguaggio spirituale, in questo senso, ricorre ad espressioni del linguaggio erotico, come nell’immagine della «dolce sposa» che, solo riposandosi «nel letto del fuoco e del sangue», può comprendere il «segreto del cuore del Figliuolo di Dio» (l’amore e l’ardore mistico, in altri termini, sono visti come “nozze” spirituali, rr. 17-18). L’episodio della decapitazione è ancora descritto ricorrendo alle metafore del sangue e del fuoco. La crudeltà oggettiva della scena appare sublimata e trasfigurata, mentre l’avvicinarsi dell’evento introduce una più serrata concitazione e trepidazione narrativa. La celebrazione delle nozze è santificata dal sangue, che unisce Caterina alla vittima decapitata, nel soddisfacimento mistico dell’amore e del desiderio: «Allora si vedeva Dio e Uomo, come si vedesse la chiarità del sole, e stava aperto e riceveva sangue nel sangue suo: uno fuoco di desiderio santo, dato e nascosto nell’anima sua per grazia, riceveva nel fuoco della divina sua carità» (rr. 74-79).
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Quali caratteristiche del testo rivelano che si tratta di una lettera? Quale rapporto sembra legare l’autrice al
destinatario? > 2. Quale comportamento caratterizza il condannato a morte nella scena della decapitazione? Quale atteggiamento assume Caterina? ANALIzzARE
> 3. Sottolinea nel testo tutte le riflessioni dell’io narrante sulla propria condizione interiore presente e/o futura. > 4. Stile Individua nel testo esempi significativi di similitudine e metafora. > 5. Lessico Ricerca nella lettera tutti i sostantivi che appartengono al campo semantico delle virtù e completa la tabella, indicando per ciascuno di essi una definizione e l’aggettivo corrispondente, secondo l’esempio proposto. Riga
Termine
Definizione
Aggettivo
8; 79
carità .............................................................................
amore e disponibilità verso il prossimo, ................................................................................................................................................................
caritatevole .............................................................................
.............................................................................
soprattutto i bisognosi ................................................................................................................................................................
.............................................................................
14
.............................................................................
................................................................................................................................................................
.............................................................................
39; 53; 72
.............................................................................
................................................................................................................................................................
.............................................................................
66-67
.............................................................................
................................................................................................................................................................
.............................................................................
80-81
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.............................................................................
82
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L’età comunale in Italia
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Scrivere In un testo di circa 20 righe (1000 caratteri) commenta i tratti caratteristici dell’esperienza mistica femminile emersi dal passo: in quali atteggiamenti di santa Caterina ravvisi passionalità? In quali l’unità dell’umano e del divino vissuta nel quotidiano? PASSATO E PRESENTE La donna intellettuale fra cultura laica e cultura ecclesiastica
> 7. Scrive la studiosa Marina Zancan, a proposito di santa Caterina da Siena e altre figure di religiose nel Medioevo: la cultura laica […] vede la donna, ne usa l’immagine in termini metaforici e tendenzialmente astratti, ma non è in grado, in questa fase, di assumerla profondamente al proprio interno, come referente e interlocutore reale (lo farà, come diremo, due secoli più tardi, nel corso del XVI secolo); la cultura ecclesiastica, invece, già in questa fase, è in grado di assumere la figura femminile non solo all’interno della propria autorappresentazione, ma anche più complessivamente all’interno del proprio progetto culturale e politico. La donna intellettuale, dunque, si muove all’interno di questo spazio culturale […]. M. Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Einaudi, Torino 1998
Discuti in classe, con i compagni e con l’aiuto del docente, su questo delicato tema, facendo riferimento alla realtà odierna e documentandoti su figure di religiose esemplari della tua epoca, come ad esempio la beata Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la pace nel 1979.
Visualizzare i concetti
La letteratura religiosa in età comunale: tendenze a confronto FRANCESCANI
DOMENICANI
Periodo
fine XII e XIII secolo
XIV secolo
Contesto
Umbria
Toscana
Autori
san Francesco, Iacopone da Todi
Iacopo Passavanti, santa Caterina da Siena
Lingua
volgare umbro
volgare
Stile
paratattico, brevi frasi con molte ripetizioni
ipotattico; linguaggio metaforico (santa Caterina)
Temi
lode a Dio e alle sue creature (san Francesco); disprezzo per il corpo (Iacopone da Todi)
il male, la paura (Passavanti); l’esaltazione religiosa (santa Caterina)
Facciamo il punto 1. Quale immagine di Dio, dell’uomo e della natura è presente in questi testi? 2. A quale pubblico si rivolgono gli autori sopra esaminati? 3. In che cosa consiste la dimensione mistica che caratterizza gran parte di questa produzione? 4. In quale modo san Francesco e Iacopone da Todi vivono l’esperienza religiosa ed il rapporto con il corpo? 5. A quale ordine appartiene santa Caterina? Quali attività svolse principalmente?
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In sintesi
LA LETTERATuRA RELIGIOSA NELL’ETà COMuNALE Verifica interattiva
FATTORI DI CRISI E MOVIMENTI RELIGIOSI Nel corso del XIII secolo la corruzione e la “politicizzazione” della Chiesa, sempre meno vicina alle esigenze spirituali dei fedeli, e l’acuirsi del disagio esistenziale legato alle trasformazioni politiche, sociali ed economiche del tempo favorirono la nascita e la diffusione di movimenti religiosi, accomunati dal richiamo all’ideale evangelico. Alcuni di essi, come la patarìa sorta nell’area lombarda e il catarismo affermatosi nella Francia meridionale, furono considerati “ereticali” e aspramente perseguitati dalla Chiesa. Alla repressione delle eresie si accompagnò un’intensa attività di predicazione, affidata a nuovi ordini monastici che incarnavano gli ideali evangelici di povertà e carità (quello francescano) o la difesa dell’ortodossia (quello domenicano).
IL MOVIMENTO FRANCESCANO L’ordine dei Francescani, fondato da Francesco d’Assisi e approvato nel 1223, si caratterizza per l’aspirazione all’umiltà, intesa come povertà e semplicità di vita, alla pace e alla fratellanza solidale con il prossimo. Dopo la morte del suo fondatore, il movimento si divise in due diversi tronconi, quello dei “conventuali”, che concepiva in modo più blando la regola di vita dell’ordine, e quello più intransigente degli “spirituali”: una parte di questi ultimi, i “fraticelli”, si scontrò apertamente con la Chiesa, fu accusata di eresia e perseguitata.
LA LETTERATuRA D’ISPIRAzIONE FRANCESCANA Dal punto di vista culturale, il francescanesimo produsse alcune esperienze di alto valore letterario. San Francesco d’Assisi, il massimo esponente della spiritualità religiosa del XIII secolo, è autore di alcuni scritti in latino e di un solo testo in volgare, il primo della letteratura italiana: il Cantico di Frate Sole (1224). Si tratta di una lode a Dio, nella quale si riconoscono gli elementi tipici della religiosità francescana: l’amore e l’umiltà del fedele nei confronti del suo Creatore, il senso di comunanza dell’uomo con tutti gli elementi della natura, visti come simbolo della realtà divina. Il fascino esercitato dalla figura di Francesco alimentò una tradizione di racconti
leggendari sulla sua vita, confluita nelle prime biografie del santo e nei Fioretti, raccolta anonima di aneddoti pervasa da un’atmosfera incantata e fiabesca. Francescano è anche il maggior poeta religioso del periodo, Iacopone da Todi (1230 ca. - 1306), autore di un folto gruppo di Laude e di un Trattato sull’unione mistica dell’uomo con Dio (altre opere sono di attribuzione incerta). Scritte in un volgare umbro di straordinaria vivacità espressiva, le sue Laude esprimono una religiosità mistica e ascetica, permeata dal disprezzo per il corpo e per i beni terreni, dal rifiuto della vita sociale e di ogni forma di intellettualismo. Si ricorda infine Bernardino da Siena (1380-1444), autore di prediche che affrontano temi morali legati alla vita quotidiana con un linguaggio vivace e popolare, com’è tipico della predicazione francescana.
I DOMENICANI E LA LETTERATuRA Il movimento fondato da Domenico di Guzmán (approvato dalla Chiesa nel 1216) si proponeva il compito di difendere la dottrina cristiana attraverso lo studio delle Scritture e la predicazione. Strettamente legata a quest’ultima attività è la produzione letteraria del fiorentino Iacopo Passavanti (1302-57), autore dello Specchio di vera penitenza, raccolta di prediche quaresimali che comprende parti argomentative ed exempla narrativi. L’opera esprime una visione cupa della realtà terrena, che appare dominata dal peccato e dal male. Assai diversa è la sensibilità religiosa di santa Caterina Benincasa da Siena (1347-80), suora terziaria domenicana impegnata nell’attività assistenziale e nel dibattito politico del tempo. Analfabeta, santa Caterina dettò ai suoi discepoli il Libro (o Dialogo) della Divina provvidenza e le Lettere, opere nelle quali emerge una religiosità mistica, caratterizzata da un forte slancio passionale e dal senso gioioso di comunione col divino. Al genere agiografico si dedicarono i domenicani Iacopo da Varazze (1228 ca. - 1298), che scrisse in latino una fortunata raccolta di vite di santi (Legenda aurea), e Domenico Cavalca (1270 ca. - 1342), autore delle Vite dei santi padri in volgare; in entrambi gli scritti si concede largo spazio all’elemento soprannaturale e fantastico.
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Capitolo 2
La poesia dell’età comunale
1
Lingua, generi letterari e diffusione della lirica Il volgare come lingua letteraria e il policentrismo linguistico
Uso del volgare
I volgari italiani
I generi letterari e le aree geografiche
La letteratura volgare in Italia nasce nel Duecento in corrispondenza di fenomeni economici, politici, sociali e culturali quali, ad esempio, l’affermazione dell’economia mercantile; la formazione di regni, corti signorili, Comuni cittadini; la creazione di importanti università, come quelle di Bologna e di Napoli; la trasformazione del ruolo e della funzione dell’intellettuale e del letterato in particolare ( Il contesto, p. 86). Questa produzione nel Centro-Nord utilizza il volgare poiché è la lingua d’uso della classe in ascesa nelle città del tempo, la borghesia mercantile, che vuole imporre la propria visione del mondo ed i propri valori con lo strumento linguistico che le è proprio (diverso è il caso dei poeti siciliani, come si è visto, Il contesto, p. 88). Non esistendo, però, ancora un volgare per così dire “nazionale”, dal momento che ogni centro geografico usa una propria lingua, i vari letterati del tempo, a seconda del luogo dove si trovano ad operare, si esprimono nella lingua locale, dando origine ad un vero e proprio fenomeno di policentrismo linguistico ( Il contesto, p. 88), che si accompagna al policentrismo politico tipicamente italiano. Dante nel De vulgari eloquentia riconosce quattordici volgari: «I quali poi si differenziano al loro interno, come ad esempio in Toscana il Senese e l’Aretino […] senza dire che qualche variazione possiamo coglierla anche nella stessa città». I diversi volgari non solo si sviluppano in aree geografiche diverse, ma danno anche origine a generi letterari diversi. Ad esempio la poesia lirica nasce in Sicilia e si sviluppa sull’asse Bologna-Toscana; parimenti in Toscana si colloca la produzione di poesia comico-parodica e di poesia allegorica; la poesia religiosa ha come centro d’irradiazione l’Umbria, mentre nella Pianura padana si afferma una poesia religiosa attenta agli aspetti didattici; prevalentemente bolognese e toscana è poi la produzione, in prosa, di opere trattatistiche e storiche, ma anche narrative.
Le origini della lirica italiana Un genere soggettivo
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In Italia nel corso del Duecento si svolge un’esperienza poetica in volgare che si propone esclusivamente fini d’arte, ricerca un livello espressivo “alto” ed una raffinata elaborazione formale, usa il volgare per rivolgersi ad élites colte, ristrette ed esclusive. È una produzione che appartiene al genere lirico, quel genere cioè in cui il soggetto esprime direttamente se stesso, tratta delle proprie esperienze e dei propri sentimenti, anche se per la lirica del Duecento l’espressione non è immediata, ma filtrata attraverso precise convenzioni letterarie.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale Influenza della lirica provenzale
La corte di Federico II
2 La prima poesia in volgare italiano
Testi Pier della Vigna • Però ch’amore non si pò vedere
L’esclusività del tema amoroso nei siciliani
I temi tipici dell’amor cortese nella poesia siciliana
La stilizzazione convenzionale
La tradizione lirica italiana prende le mosse dalla poesia cortese provenzale ( L’età cortese, cap. 1, p. 63). Sono gli stessi trovatori, dopo aver abbandonato la Provenza in seguito alla crociata di Innocenzo III contro gli albigesi, a diffondere questo gusto nel Nord dell’Italia ai primi del Duecento, stabilendosi nelle corti feudali del Monferrato o della Marca trevigiana, ma anche in ambienti cittadini. Ben presto, nelle regioni settentrionali, sorgono imitatori che ne riprendono fedelmente temi e forme metriche, e ne usano anche la lingua. Non poteva poi restare escluso dall’influenza della lirica provenzale, così ricca di prestigio e di fascino, il centro di cultura più vivo ed aperto in Italia nei primi decenni del secolo, la corte siciliana di Federico II.
La scuola siciliana Nella corte siciliana di Federico II, tra il 1230 e il 1250, sorgono imitatori della poesia trobadorica che non usano più la lingua d’oc, bensì il loro volgare locale, per quanto depurato e nobilitato. L’importanza di questa scelta è enorme: i poeti siciliani creano la prima poesia d’arte in volgare italiano. I loro testi tuttavia, salvo pochissime eccezioni, non ci sono pervenuti nella forma originale, bensì nella trascrizione di copisti toscani, che hanno sovrapposto le caratteristiche del loro volgare a quelle del siciliano. Uno dei rarissimi documenti rimasti è la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro da Messina ( T3, p. 138) La poesia siciliana riprende fedelmente i temi amorosi, i procedimenti stilistici, le forme metriche dei modelli provenzali (rinunciando solo all’accompagnamento musicale ed introducendo una forma originale, il sonetto). I poeti siciliani sono tutti funzionari dello Stato, notai come Iacopo da Lentini ( A1, p. 132), esperti di arti cancelleresche come Pier della Vigna (1190 ca. - 1249), giudici come Guido delle Colonne (1210 ca. - dopo il 1287), e nei loro versi trattano esclusivamente il tema dell’amore. Questa chiusura esclusiva sul tema amoroso si può comprendere tenendo conto del diverso ambiente sociale e politico in cui nasce la poesia siciliana, rispetto alla contemporanea poesia in lingua d’oc nel Nord d’Italia. Qui troviamo un mondo ricco di contrasti, tra corti guelfe e ghibelline, tra Comuni o fazioni nemiche all’interno dello stesso Comune; nelle città vi è una vita sociale intensa e multiforme, a cui l’intellettuale è indotto a partecipare attivamente; in Sicilia invece vi è un forte potere monarchico assoluto e accentratore, per cui tutta la vita politica si conforma ad un unico volere; non ci sono contrasti e dinamiche, di cui si possa nutrire una poesia civile e politica. Per questi funzionari di corte la poesia è solo evasione dalla realtà, oppure ornamento elegante e segno di appartenenza ad un’élite, e l’amore, unico tema dei loro versi, è un puro gioco, aristocratico e raffinato ( T3, p. 138). Nella poesia siciliana ricorrono quindi i temi tipici dell’amor cortese ( L’età cortese, Il contesto, p. 25): l’omaggio feudale alla dama, cantata come depositaria di ogni virtù e di ogni pregio, di fronte alla quale l’amante si professa umile servitore, come un vassallo dinanzi al suo signore; le lodi dell’eccellenza della donna, delle sue doti fisiche e spirituali, della sua superiorità su tutte le altre donne, della sua bellezza, paragonata agli astri, alle pietre preziose, ai fiori, in un gioco di immagini e di paragoni che insistono su una natura luminosa, profumata, preziosa; la speranza di ottenere una ricompensa al “servizio” d’amore, la rassegnazione se la donna per orgoglio non si piega all’omaggio; il ritegno a rivelare il proprio amore, il timore che i “malparlieri” possano diffondere il segreto; il dolore per la lontananza, il rimpianto per le gioie d’amore perdute. Tutti questi motivi, già codificati in un’elegante convenzione dai trovatori, sono dai siciliani ulteriormente stilizzati, privati di ogni legame con situazioni psicologiche comuni e concrete, astratti da ogni preciso riferimento di luogo e di tempo, immersi in un’atmosfera estremamente rarefatta, che ignora sfondi e paesaggi. 131
L’età comunale in Italia
Testi Iacopo da Lentini • Amor è un[o] desio
A1
Iacopo da Lentini Nato a Lentini, nei pressi di Siracusa, intorno al 1210, morì nel 1260 circa. Notaio alla corte di Federico II, con questo titolo “si firmò” in alcune poesie. Dante, nel canto XXIV del Purgatorio, lo cita come autorevole rappresentante della scuola siciliana ( p. 131). Codificò le forme metriche della canzone (gliene sono attribuite 13) e fu probabilmente l’inventore del sonetto (23 quelli a lui assegnati).
T1
Iacopo da Lentini
Temi chiave
Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire
• il “servo” di Dio e il “servizio” amoroso • la bellezza della donna amata • il paradiso come luogo di gioco e riso
Il poeta nel sonetto che segue unisce l’amore sacro all’amore profano: egli, infatti, intende servire Dio per andare in paradiso con la sua donna.
> Metro: sonetto in endecasillabi; schema delle rime: ABAB, ABAB, CDC, DCD.
4
Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire1, com’io potesse gire in paradiso, al santo loco ch’ag[g]io audito dire, u’ si mantien sollazzo, gioco e riso2.
erano codificate in un repertorio di termini poetici convenzionali. versi 5-8 Non vorrei andarci senza la mia donna, quella dalla testa bionda e dal viso luminoso (claro), perché senza di lei non potrei provare gioia (gaudere), stando lontano (diviso) dalla mia donna. 3. non … gire: parallelo al non poteria – po trei – gaudere del verso in rima che segue. 4. blonda … viso: attributi convenzionalmente tipici della bellezza femminile nella poesia cortese.
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Sanza mia donna non vi voria gire , quella c’ha blonda testa e claro viso4, ché sanza lei non poteria gaudere, estando da la mia donna diviso.
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Ma no lo dico5 a tale intendimento, perch’io pec[c]ato ci volesse fare; se non veder lo suo bel portamento
versi 1-4 Io mi sono posto in cuore (il pensiero) di servire Dio, in modo da poter andare in paradiso, al luogo santo di cui ho sentito parlare dove (u’) la gioia, il gioco e l’allegria durano eternamente (si mantien). 1. Io m’a[g]gio … servire: l’uso dell’ausilia-
re “avere”, al posto di “essere”, è caratteristica meridionale, come pure la forma aggio. 2. u’ … riso: u’ viene dal latino ubi; i soggetti che seguono sollazzo, gioco e riso indicano le caratteristiche e le consuetudini piacevoli della vita delle corti, così come si
versi 9-14 Ma non dico ciò perché io voglia commettere un peccato; bensì solo per vedere la sua virtuosa condotta (bel portamento), e il suo bel viso e il suo soave sguardo (morbido sguardare): perché sarebbe per me una grande consolazione, vedere la mia donna stare nella gloria (ghiora). 5. Ma no lo dico: cioè di voler servire Dio per andare in paradiso con la mia donna.
Microsaggio Il sonetto È una forma poetica che nasce in Italia nel Duecento e compare per la prima volta tra le rime della scuola siciliana. Il nome è diminutivo di “suono”, quindi fa intuire un legame con la musica. La sua origine è discussa: forse proviene da una forma di poesia popolare precedente, lo strambotto, che consta di otto oppure sei endecasillabi (versi di undici sillabe) con vari schemi di rime; dalla fusione di uno strambotto di otto versi con uno di sei può essere nato il sonetto. Per altri invece deriva da una strofa della canzone ( La canzone, p. 137) isolata come componimento a sé. Esso è composto di quattordici endecasillabi ed è
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diviso in due strofe di quattro versi (quartine) e in due di tre (terzine). Le quartine possono avere rime alternate (ABAB, ABAB) oppure incrociate (ABBA, ABBA); maggiore varietà presentano le terzine, che possono avere rime alternate (CDC, DCD), incrociate (CDC, CDC), ripetute (CDE, CDE) o invertite (CDE, EDC). Il sonetto sarà impiegato per tutto il corso della tradizione italiana, da Dante, Petrarca, Tasso, Alfieri, Foscolo, Carducci, d’Annunzio, Pascoli, sino alla rivoluzione metrica del Novecento, che abbandonerà gli schemi chiusi (ma alcuni poeti, come Saba, resteranno fedeli alle forme tradizionali).
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
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e lo bel viso e ’l morbido sguardare: ché lo mi teria6 in gran consolamento, veg[g]endo la mia donna in ghiora7 stare.
6. lo mi teria: letteralmente me lo terrei, con inversione dei pronomi.
7. ghiora: sinonimo di paradiso (forma popolare toscana, introdotta dal copista).
Analisi del testo La fusione di amore e religione
La metafora religiosa
Il conflitto amore-religione
La divinizzazione della figura femminile Il linguaggio: i residui siciliani
Provenzalismi
All’interno della lirica cortese del XIII secolo questo sonetto rappresenta una novità significativa, in quanto in esso Iacopo da Lentini fonde il tema amoroso con quello religioso: il poeta siciliano da un lato si mostra fedele alla tradizione poetica provenzale omaggiando la donna nei termini consueti di quella poesia d’amore, dall’altro il richiamo al “servizio” di Dio e alla presenza della donna in paradiso è un motivo religioso che prelude alla successiva angelizzazione della figura femminile, propria dello Stilnovismo. La materia religiosa, tuttavia, appare pur sempre trascritta in termini schiettamente feudali: il rapporto di devozione con Dio assume infatti le vesti del rapporto vassallo-signore, fondato sul «servire». Attraverso il servizio il poeta mira ad un particolare beneficio, la beatitudine paradisiaca; ed anche tale beatitudine è concepita come ammissione ad una corte feudale: il paradiso è rappresentato in modo terreno, infatti appare secondo un aspetto tipicamente cortese, come luogo dove perdurano ininterrottamente «sollazzo, gioco e riso». La sua raffigurazione evoca la corte di Federico II dove lavora il poeta. In questo contesto cortese non può mancare la donna, che della cortesia, come sappiamo, è il centro e la fonte. Perciò il poeta afferma che non potrebbe andare in paradiso senza la sua donna. Dietro l’omaggio all’amata, però, si delinea una forte ambiguità tra amore celeste e amore terreno, anzi addirittura un conflitto: se all’interno della metafora amorosa cortese è scontato affermare che non vi potrebbe essere “gioia” senza la donna, sul piano letterale affermare che la beatitudine paradisiaca non può essere completa senza la sua presenza rasenta la bestemmia. È quel conflitto costitutivo dell’amor cortese che tornerà nei poeti successivi, specie gli stilnovisti: se la donna è sublimata sino a divenire una sorta di divinità, l’amore, anzi, il culto per lei, non può non entrare in conflitto con quello per Dio. La pericolosità dell’accostamento induce il poeta a giustificarsi, nei primi due versi delle terzine, che il «Ma» stacca fortemente dai precedenti: precisa pertanto che non vuole aver la donna con sé in paradiso per commettere peccato, bensì solo per contemplarla e ciò sarebbe per lui motivo di grande consolazione.
> Gli aspetti formali
È questo uno dei primi esempi del processo di divinizzazione della figura femminile, che poi sarà proseguito da Guinizzelli e dagli stilnovisti: la trasfigurazione della donna in creatura sovrannaturale, angelica, capace di mediare il rapporto dell’uomo con il trascendente. Il sonetto merita qualche considerazione linguistica. Nella trascrizione toscana restano visibili alcuni elementi dell’originario testo siciliano: il verbo «ag[g]io» (ripetuto due volte, v. 1 e v. 3), la rima «gire» / «gaudere» (v. 5 e v. 7). Nell’originale infatti si aveva una rima vera e propria, giri / gaudiri, in quanto in siciliano la e lunga del latino si trasformava in i; in toscano invece essa dà e chiusa, che elimina la rima. In realtà tutta la poesia toscana continua a mantenere questa pseudo-rima, in omaggio ai modelli siciliani: per questo si parla di rima siciliana. Ciò che connota il linguaggio del sonetto a livello del lessico è la forte presenza di provenzalismi, da cui si può comprendere la volontà dei poeti siciliani di riprendere come modello la lirica provenzale, ma anche il desiderio di dar vita ad un siciliano illustre, lontano dalle forme dialettali, purificato e nobilitato: «sollazzo», «blonda», «claro», «intendimento», «portamento», «consolamento»; viceversa «ghiora» è forma tipicamente toscana per gloria, ed è un elemento introdotto dal copista. Si possono ancora rilevare forme latineggianti («audito» e «gaudere», che conservano il dittongo originale). 133
L’età comunale in Italia Gli artifici metrici e stilistici
Ricorrono, inoltre, numerosi artifici metrici e stilistici: in primo luogo si notano le rime ricche, in cui cioè l’identità di suono coinvolge almeno una consonante prima della vocale accentata: «viso» / «diviso», vv. 6 e 8; «dire» / «gaudere», vv. 3 e 7, «intendimento» / «portamento» / «consolamento », vv. 9, 11, 13. Vi sono poi riprese di termini e di costrutti sintattici, dalla collocazione estremamente studiata: «gire», v. 2, e «gire», v. 5, il primo alla cesura del verso, il secondo in rima; «mia donna», v. 5, e «la mia donna», v. 8, nel verso iniziale e in quello finale della quartina; «voria», v. 5, «volesse», v. 10, entrambi a fine verso, seguiti da infinito; «veder», v. 11, «veg[g]endo», v. 14 entrambi in chiusura di strofa e all’inizio del verso.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Qual è il ruolo del poeta nei confronti di Dio e della religione? E nei confronti della donna? AnALIzzAre
> 2. Quali elementi della figura femminile vengono messi in evidenza? > 3. Lessico Quali vocaboli del testo mostrano, almeno in apparenza, maggiore prossimità alla lingua latina? > 4. Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli e/o le espressioni collegati all’azione del “vedere”. ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 5.
Scrivere Il motivo del “servizio”, con cui si apre il sonetto, è di origine feudale ed è presente anche nel romanzo cortese-cavalleresco. Effettua un confronto tra le due concezioni e illustralo sinteticamente in circa 10 righe (500 caratteri).?
T2
Iacopo da Lentini
Meravigliosamente Il componimento affronta il tema, tipicamente provenzale, dell’innamorato timido che non osa esprimere all’amata i propri sentimenti. Questi però si rivelano ugualmente attraverso gli sguardi, i sospiri, i pianti.
Temi chiave
• un amore totalizzante • l’interiorizzazione del sentimento d’amore
• la donna bellissima e irraggiungibile
> Metro: canzonetta di settenari ( pag. 137); schema delle rime: la fronte è divisa in due piedi (abc, abc), il cui ultimo verso rima con l’ultimo della sirima (ddc).
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Meravigliosamente un amor mi distringe e mi tene1 ad ogn’ora. Com’om che pone mente in altro exemplo pinge la simile pintura, così, bella, facc’eo, che ’nfra lo core meo porto la tua figura. In cor par ch’eo vi porti, pinta como parete, e non pare di fore. O Deo, co’ mi par forte. Non so se lo sapete, con’ v’amo di bon core: ch’eo son sì vergognoso ca pur vi guardo ascoso e non vi mostro amore.
versi 1-9 Straordinariamente un amore mi avvince (distringe) e mi tiene occupato (tene) continuamente (ogn’ora). Come un uomo che osserva attentamente un modello (altro exemplo) lo raffigura (pinge) in un dipinto (pintura) che gli assomiglia (la simile), così, o bella, faccio io (eo), che nel (’nfra lo) mio cuore porto la tua immagine (figura). 1. tene: il verbo indica un possesso al quale non si può sfuggire. versi 10-18 In cuore è evidente che io vi porto, dipinta come apparite, e non si vede di fuori. O Dio, come mi sembra duro (forte). Non so se lo sapete, come vi ami con devozione ineccepibile (di bon core): sono così timido (vergognoso) che vi guardo solo (pur) di nascosto (ascoso) e non vi mostro l’amore (che porto per voi).
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Avendo gran disio, dipinsi una pintura, bella, voi simigliante, e quando voi non vio2, guardo ’n quella figura, e par ch’eo v’aggia avante: come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante3. Al cor m’arde una doglia, com’om che ten lo foco a lo suo seno ascoso, e quando più lo ’nvoglia4, allora arde più loco e non pò stare incluso: similemente eo ardo quando pass’e non guardo a voi, vis’amoroso. S’eo guardo, quando passo, inver’ voi, no mi giro, bella, per risguardare. Andando, ad ogni passo getto un gran sospiro che facemi ancosciare5; e certo bene ancoscio, c’a pena mi conoscio, tanto bella mi pare.
Giovannino de’ Grassi, Poetesse, XIV secolo, disegno su pergamena, dal Taccuino di disegni detto di Giovannino de’ Grassi, codice Cassaf. 1.21, Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai.
Assai v’aggio laudato, madonna, in tutte parti6 di bellezze7 ch’avete. Non so se v’è contato ch’eo lo faccia per arti, che voi pur v’ascondete8. Sacciatelo per singa, zo ch’eo no dico a linga, quando voi mi vedrite. Canzonetta novella, va’ canta nova9 cosa; lèvati da maitino10 davanti a la più bella, fiore d’ogni amorosa,
versi 19-27 Desiderando(vi) così tanto, dipinsi un quadro (pintura), bello, simile a voi (voi simigliante), e quando non vi vedo (vio), guardo verso (’n) quella figura, e mi sembra che io vi abbia davanti (v’aggia avante): come quello che crede di salvarsi perché ha fede, sebbene non veda davanti ai suoi occhi ciò in cui crede (ancor … inante). 2. vio: si noti il gioco di parole voi/vio. 3. ancor … inante: chi affida cioè la sua salvezza a una speranza che si basa sulla fede e
non su garanzie oggettive, riscontrabili nella realtà. versi 28-36 Mi brucia (m’arde) in cuore un dolore (doglia), come chi tiene nascosto nel (a lo) suo seno un fuoco, e quanto più lo avvolge (’nvoglia), tanto più brucia in quel luogo e non può stare chiuso (incluso): allo stesso modo io brucio quando (vi) passo (accanto) e non vi guardo, o viso adorabile (amoroso). 4. più lo ’nvoglia: cerca cioè di tenerlo nascosto.
versi 37-45 Se io guardo verso (inver’) di voi, quando (vi) passo (accanto), non mi giro, o bella, per riguardar(vi). Proseguendo (Andando), ad ogni passo emetto (getto) un gran sospiro che mi fa singhiozzare (ancosciare); e tanto (mi) accoro (bene ancoscio), che a mala pena mi riconosco, tanto bella mi apparite (pare). 5. facemi ancosciare: effetto del doloroso smarrimento e dell’“angoscia” su cui il poeta torna, in un senso più generico, nel successivo bene ancoscio (v. 43). versi 46-54 Vi ho (v’aggio) lodato assai, madonna, per quanto riguarda tutti gli aspetti della bellezza che possedete. Non so se vi è stato detto, che io lo faccio ad arte (per arti), e perciò anche voi vi nascondete. Sappiatelo dai segni esteriori (singa), ciò che io non dico con la lingua, quando voi mi vedrete. 6. in tutte parti: «dappertutto» (Contini). 7. in tutte … bellezze: originariamente singolare, anche se inteso, dal copista toscano, come plurale. 8. che … v’ascondete: cioè fate finta di niente. versi 55-63 Canzonetta appena nata (novella), va’ a cantare (questa) cosa straordinaria (nova); àlzati di buon ora (maitino), (e rècati) davanti alla (donna) più bella, eletta tra tutte le donne che sanno amare (fiore d’ogni amorosa), bionda più dell’oro prezioso (auro fino): «Il vostro amore, che è prezioso (caro), donatelo al Notaio che è originario di Lentini». 9. nova: altri intendono nuova; in questo caso novella/nova insiste sull’originalità della poesia e dell’esperienza amorosa descritta. 10. da maitino: dal provenzale maiti.
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bionda più c’auro11 fino: «Lo vostro amor, ch’è caro, donatelo al Notaro ch’è nato da Lentino12».
11. auro: dal latino aurum, latinismo. 12. da Lentino: il verso è stato interpretato da alcuni critici come indicazione del luogo di provenienza o come cognome: che si chiama da Lentino.
Analisi del testo
> Una passione totalizzante
Un processo di interiorizzazione Amore paralizzante
Amore come sofferenza
L’avverbio «meravigliosamente», che occupa per esteso il primo verso, introduce un’atmosfera di eccezione, che corrisponde alla «nova cosa» del verso 56, verso la conclusione. L’amore è subito dopo presentato come una passione esclusiva, che occupa ad ogni istante la mente del poeta. Attraverso un processo di interiorizzazione, l’immagine della donna viene dipinta nel cuore (un motivo, questo, che avrà fortuna fino allo «stil novo»), a sottolineare la gelosia del possesso e, insieme, il carattere arduo, straordinario e difficile della conquista. La seconda strofa sottolinea, infatti, la paralisi dell’innamorato, l’incapacità di comunicare il suo amore, la posizione quasi irraggiungibile dell’amata. Non a caso nei versi finali della strofa successiva, e sia pure attraverso un semplice suggerimento, la donna tende ad essere trasferita in una dimensione ultraterrena, come creatura capace di dare la salvezza (anche questo motivo sarà ampiamente sviluppato dagli stilnovisti). Il riferimento alla «fede» prelude alla metafora del fuoco, simbolo di una passione amorosa che arde e consuma. Di qui la tematica della sofferenza d’amore, sviluppata in un senso più propriamente “psicologico” nella quinta strofa e mediata dal motivo dello “sguardo”, appartenente a una convenzione ricca di sviluppi.
> La struttura e l’intento della canzone Ripresa di motivi e parole tematiche
Il “congedo”
Si definisce così un processo di stilizzazione che rappresenta su un piano tutto ideale le prerogative della bellezza femminile. Questo procedimento è confermato dalla struttura compositiva del testo, che riprende da una strofa all’altra motivi e parole tematiche («pinge» / «pintura» / «pinta» / «dipinsi una pintura»; «core meo» / «In cor» / «di bon core» / «Al cor»), rielaborandoli all’interno di variazioni che confermano il manierismo e l’alto esercizio di perizia tecnica connaturato con questo tipo di esperienza. La penultima strofa dichiara l’intento della canzone, riassumendolo nel motivo della lode e nella ragione profonda che l’ha ispirata. Il “congedo” segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica (da Arnaut Daniel a Guido Cavalcanti, A5, p. 159): la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che “firma” così la sua composizione.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Completa la tabella assegnando un titolo a ogni strofa in cui è suddivisa la canzone, secondo l’esempio proposto.
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Strofa
Titolo
I
l’immagine dell’amata nel cuore ..........................................................................................................................................................................................................................................................................
II
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
III
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
IV
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
V
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
VI
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
VII (congedo)
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
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> 2. Che cosa dice il poeta alla canzonetta? ANALIZZARE
> 3. La poesia svolge alcuni topoi della lirica provenzale, di seguito indicati; specifica in quali parti del testo ricorrono:
a) l’amore “nascosto”; b) la donna “dipinta” nel cuore; c) il fuoco segreto che divampa; d) i “malparlieri”. > 4. Stile Rintraccia nel testo le rime siciliane. > 5. Stile Nella II strofa è ripetuto il verbo “parere”; quale altro verbo è ripetuto nella IV? Con quale effetto? > 6. Stile Rintraccia le similitudini presenti nel componimento. > 7. Lessico Il verbo “parere” si ripete frequentemente nei versi 10-13. Assume sempre lo stesso significato o è possibile cogliere delle differenze? > 8. Lingua Osserva e descrivi come è costruito nell’italiano antico il verbo “somigliare”, al verso 21. APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 9.
Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) indica in quale passo del componimento l’esperienza d’amore viene accostata all’esperienza religiosa e spiega il significato dei versi.
Microsaggio
La canzone È una forma che proviene dai poeti provenzali ed era originariamente accompagnata dalla musica, come indica il suo nome. È un componimento di intonazione elevata: infatti Dante nel De vulgari eloquentia, come vedremo, considererà la canzone come la forma in cui si deve usare il livello più alto di linguaggio poetico, il «volgare illustre», per trattare gli argomenti più elevati: le armi, l’amore, i temi morali. La canzone sarà poi ripresa da Petrarca, Tasso, Leopardi, d’Annunzio. Lo schema Consta di un numero variabile di strofe, o stanze, composte di endecasillabi e settenari, tutte eguali fra loro, metrico salvo l’ultima, detta commiato, congedo o licenza, in cui il poeta si congeda dal componimento stesso, ed è di norma più breve. Ogni strofa è divisa in due parti, fronte e sirma (o sirima); a sua volta la fronte è divisa in due piedi, la sirma in due volte. Tra la fronte e la sirma ci può essere un verso di collegamento detto chiave. Nella canzone Al cor gentil di Guinizzelli ( T6, p. 152), ad esempio, in ogni strofa la fronte è costituita dai primi quattro versi endecasillabi a rima alternata, ABAB, ed è divisa in due piedi di due versi ciascuno; la sirma comprende gli altri sei, con rime cDc, EdE, ed è divisa in due volte di tre versi. Manca il congedo.
L’intonazione elevata
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Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: ch’adesso con’ fu ’l sole, sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole; e prende amore in gentilezza loco così propïamente come calore in clarità di foco.
piede fronte piede
volta sirma volta
Una forma semplificata è la canzonetta, che usa versi brevi. La canzone libera Leopardi con A Silvia, scritta nel 1828, introdurrà la canzone libera che abbandona lo schema rigido delle di Leopardi strofe tutte eguali e alterna liberamente in ogni strofa endecasillabi e settenari, con rime che ricorrono an-
ch’esse al di fuori di ogni schema.
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Stefano protonotaro Si può forse identificare con uno Stefano di Messina, che tradusse dal greco in latino due opere arabe di contenuto astronomico, dedicandole a Manfredi, figlio di Federico II. Delle sue tre canzoni rimaste, particolare rilievo assume Pir meu cori alligrari, conservataci nella forma linguistica originale dal filologo cinquecentesco Giovanni Maria Barbieri, che la inserì nella sua Arte del rimare. Stefano protonotaro
Temi chiave
pir meu cori alligrari
• il “servizio” d’amore • la bellezza della donna amata • l’amore come ispirazione poetica
A differenza degli altri testi, assimilati dai copisti alla forma toscana, questa canzone conserva la sua veste linguistica originale, quella del siciliano illustre in cui composero i poeti della Magna Curia (il testo, pubblicato solo alla fine del Settecento, era stato trascritto da un erudito del Cinquecento, Giovanni Maria Barbieri, da un codice che è poi andato perduto). È quindi il documento più esteso e più importante che ci resti della forma originaria della poesia siciliana. Le differenze più appariscenti rispetto al toscano riguardano il sistema vocalico. Lo schema di derivazione dal latino è il seguente: Latino classico Siciliano
a¯ a˘ \/ a
e˘ | e
e¯ ˘ı ¯ı \ / i
o˘ | o
o¯ u˘ u¯ \ / u
In toscano invece /e/ ¯ e /˘ı/ danno e chiusa, /o/ ¯ e /u/ ˘ danno o chiusa. Il siciliano ha dunque un sistema di cinque sole vocali toniche, e non distingue tra /e/ aperta ed /e/ chiusa, /o/ aperta ed /o/ chiusa. Inoltre le vocali atone sono solo tre (/a/, /i/, /u/), contro le cinque del toscano (/a/, /e/, /i/, /o/, /u/): in sillaba non accentata /e/ ed /i/ danno sempre /i/, /o/ e /u/ sempre /u/. Vengono inoltre conservati i gruppi consonante +/l/ (plui-più - latino plus; speclu-specchio - latino spec(u)lum), mentre /l/ diventa /u/ davanti ad altra consonante (autru-altro). Si vedano infine cantau-cantò, eu-io, preju-pregio, lanza-lancia, ecc.
> Metro: canzone di endecasillabi e settenari, con le strofe divise in due piedi (abC, abC) e una sirma (dDEeFF). Se-
condo uno schema provenzale le strofe sono unissonans, hanno cioè rime costanti per l’intero componimento; il congedo riprende la struttura della sirma.
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Pir meu cori alligrari, chi multu longiamenti senza alligranza e joi d’amuri è statu, mi ritornu in cantari, ca forsi levimenti da dimuranza turniria in usatu di lu troppu taciri1; e quandu l’omu ha rasuni di diri2, ben di’ cantari e mustrari alligranza, ca senza dimustranza joi siria sempri di pocu valuri: donca ben di’ cantar onni amaduri.
versi 1-12 Per rallegrare il mio cuore, che è stato molto lungamente senza allegrezza e gioia d’amore, ritorno a cantare, ché forse facilmente potrei trasformare in abitudine
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(in usatu) l’indugio (dimuranza) del troppo tacere; e quando l’uomo ha ragione di poetare (diri): ben deve cantare e mostrare allegrezza, ché senza manifestazione (se
non esprimesse cioè quello che sente) la gioia sarebbe sempre di poco valore: dunque ben deve cantare ogni innamorato (amaduri). 1. ca forsi … taciri: ossia, “a furia di star zitto, non riuscirei più a parlare”: così Contini, che suggerisce anche la possibilità di leggere la dimuranza come soggetto della frase. 2. diri: stesso senso di cantari, v. 4, ossia poetare.
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versi 13-18 E se per ben amare cantò gioiosamente chi (omu chi) ha in alcun tempo amato, ben lo dovrei fare più (plui) dilettevolmente io, che sono di tal donna innamorato. 3. omu chi: uomo che, impersonale come il francese on. versi 19-24 dove (nella quale, dundi) si trova dolce piacere, pregio e valore e gioiosa sembianza (jujusu pariri) e tanta abbondanza di bellezza che mi sembra (chi illu m’è pir simblanza); quando io (eu) la guardo, di sentire la dolcezza che sente (fa) la tigre (quando si guarda) nello specchio. 4. illu: egli, è il soggetto neutro della frase impersonale, come il francese il. 5. miraturi: specchio; traduce il provenzale mirador, contenuto nel passo del trovatore Rigaut de Berbezilh dal quale derivano questi versi. Il riferimento al comporta-
E si pir ben amari cantau jujusamenti omu chi3 avissi in alcun tempu amatu, ben lu diviria fari plui dilittusamenti eu, chi son di tal donna inamuratu, dundi è dulci placiri, preju e valenza e jujusu pariri e di billizzi cutant’ abundanza chi illu4 m’è pir simblanza, quandu eu la guardu, sintir la dulzuri chi fa la tigra in illu miraturi5; chi si vidi livari multu crudilimenti sua nuritura6, chi ill’ha nutricatu: e7 sì bonu li pari mirarsi dulcimenti dintru unu speclu chi li esti amustratu, chi l’ublïa siguiri. Cusì m’è dulci mia donna vidiri: ca ’n lei guardandu met[t]u in ublïanza tutta autra mia intindanza8, sì chi istanti mi feri sou amuri d’un colpu chi inavanza tutisuri9. Di chi eu putia sanari multu leg[g]eramenti, sulu chi fussi a la mia donna a gratu meu sirviri e pinari; m’ eu duttu10 fortimenti chi, quandu si rimembra di sou statu, nu·lli dia displaciri.
mento della tigre, precisato nella strofa successiva, è ricavato dai bestiari medievali, raccolte enciclopediche sulle qualità degli animali che mescolavano indiscriminatamente elementi reali e fantastici. versi 25-31 la quale si vede portar via (livari) molto crudelmente i suoi piccoli (nuritura), che essa ha nutrito (nutricatu): ma (e) così bello le sembra mirarsi dolcemente dentro uno specchio che le viene posto innanzi, che dimentica di seguirli (chi l’ublïa siguiri). 6. nuritura: è un francesismo, nourriture; il termine è ripreso poco dopo da nutricatu. 7. e: in questo caso ha valore avversativo. versi 32-36 Così m’è dolce vedere la mia donna: ché guardandola (guardando in lei,
come appunto in uno specchio) dimentico (me[t]tu in ublïanza) ogni altro mio interesse (intindanza), sì che sùbito (istanti) mi ferisce il suo amore con una ferita che aumenta sempre, continuamente (tutisuri). 8. intindanza: si tratta di iperprovenzalismo (Debenedetti). 9. tutisuri: dal francese antico totes hores, letteralmente “tutte le ore”. versi 37-43 Della quale (ferita) io sarei potuto guarire molto facilmente, (multu leg[g]eramenti), solo che fosse stato alla mia donna gradito il mio servire e penare; ma io temo (duttu) fortemente che, quando considera il suo stato (si rimembra di sou statu), le dia dispiacere. 10. duttu: nel francese attuale è douter; il verbo regge il successivo nu·lli, con costruzione alla latina dei verbi di timore.
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Ma si quistu putissi adiviniri, ch’Amori la ferissi di la lanza chi mi fer’e mi lanza11, ben crederia guarir di mei doluri, ca sintiramu engualimenti arduri. Purrïami laudari d’Amori bonamenti com’omu da lui beni ammiritatu12; ma beni è da blasmari Amur virasimenti quandu illu dà favur da l’unu latu e l’autru fa languiri: chi si l’amanti nun sa suffiriri, disia d’amari e perdi sua speranza. Ma eu suf[f]ru in usanza, ca ho vistu adess’13 a bon suffirituri14 vinciri prova et aquistari unuri. E si pir suffiriri ni15 per amar lïalmenti e timiri omu16 acquistau d’amur gran beninanza17, dig[i]u avir confurtanza eu, chi amu e timu e servi[vi] a tutturi18 cilatamenti plu[i] chi autru amaduri19.
versi 44-48 Ma se questo potesse avvenire, che Amore la ferisse con la lancia che mi ferisce e mi trafigge (mi fer’e mi lanza), ben crederei di guarire dei miei dolori, ché sentiremmo ugualmente ardore. 11. mi fer’e mi lanza: si tratta di un gioco di parole basato sull’effetto della rima identica. versi 49-57 Potrei lodare Amore francamente (bonamenti) come uomo da lui bene
ricompensato (ammiritatu); ma bene è da biasimare Amore in verità (virasimenti) quando favorisce (dà favur) da un lato e dall’altro fa languire: ché se l’amante non sa sopportare, desidera amare e perde la sua speranza. 12. ammiritatu: deriva dal verbo “meritare”. versi 58-66 Ma io sopporto per abitudine (in usanza), ché ho visto sempre (adess’) chi sa coraggiosamente sopportare (suffirituri) vin-
cere la prova e acquistare onore. E se per sopportare o (ni) per amare lealmente e temere ci fu chi (omu) acquistò un grande bene (gran beninanza) d’amore, devo avere conforto io, che amo e temo e ho servito sempre (tutturi) nascostamente (cilatamenti) più che (ogni) altro innamorato. 13. adess[u]: è un termine di origine provenzale. 14. suffirituri: richiama il suf[f]ru che precede. 15. ni: è un provenzalismo. 16. omu: vale “uomo”, impersonale, nel senso di qualcuno ( nota 3). 17. beninanza: è un provenzalismo. 18. tutturi: è variante di tutisuri, v. 36. 19. cilatamenti … amaduri: si allude qui ad un precetto del codice cortese, per il quale l’amore dev’essere segreto e celata l’identità della donna.
Analisi del testo Assimilazione della poesia al canto Dipendenza dalla lirica provenzale
140
Il componimento tocca il motivo del canto come espressione della passione amorosa; risale cioè direttamente alla radice di questo tipo di esperienza e alla codificazione che ne aveva dato la poesia trobadorica. Di qui, anche se il procedimento è molto più antico, deriva l’assimilazione della “poesia” al “canto”, in quanto i testi provenzali si servivano dell’accompagnamento musicale; e dalla lirica provenzale vengono ripresi concetti come quello del “servizio” d’amore («meu sirviri», v. 40), della prova e dell’onore («vinciri prova et aquistari unuri», v. 60), l’immagine della tigre allo specchio, proveniente dai bestiari ma ricavata direttamente da una canzone del poeta provenzale Rigaut de Berbezilh, oltre alla consueta raffigurazione della donna amata; conferma di questa stretta derivazione è la presenza dei molti provenzalismi, come «alligranza», «levimenti», «dimuranza», «dulzuri», «miraturi», «m’è pir simblanza» ecc.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale Amore determina la poesia
Topoi della poesia d’amore
La prima strofa collega il sorgere della passione amorosa con la necessità dell’espressione poetica, stabilendo tra questi due fenomeni un rapporto di derivazione inscindibile, esclusiva (si ricordi che la poesia siciliana è unicamente poesia d’amore): l’assenza d’amore è condanna al silenzio, inaridisce l’ispirazione e sancisce una mediocrità che mortifica il valore dell’uomo; l’amore, al contrario, promuove naturalmente la nascita del “canto”, come espressione della felicità («alligranza» e «joi», sinonimi) ed esaltazione del «valore» dell’uomo. Posta in questi termini la motivazione logica e psicologica del componimento, le strofe successive sviluppano il motivo della nuova passione, secondo schemi collaudati: l’eccellenza della donna amata; il motivo dello sguardo; il segreto in cui l’amore deve essere tenuto; la speranza che l’amore venga contraccambiato, come premio della devozione e della fedeltà dell’amante.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Perché il poeta, in base a quanto afferma nel testo, “ritorna a cantare”? > 2. Quale particolare condizione potrebbe accomunare il poeta e la donna amata? > 3. Come vengono sviluppati nel componimento i concetti – di origine provenzale – del servizio d’amore, della prova e dell’onore?
AnALIzzAre
> 4. > 5.
Quale significato assume, nel testo, l’immagine della tigre allo specchio? Facendo riferimento ai versi del componimento, completa la tabella relativa ai topoi elencati nell’Analisi del testo, secondo l’esempio proposto. Stile Stile
Topoi
Versi
L’eccellenza della donna amata
19-24; 32-36 ...........................................................................................................................................................................................................................
Il motivo dello sguardo
...........................................................................................................................................................................................................................
Il segreto in cui l’amore deve essere tenuto
...........................................................................................................................................................................................................................
La speranza che l’amore venga contraccambiato, come
...........................................................................................................................................................................................................................
premio della devozione e della fedeltà dell’amante
...........................................................................................................................................................................................................................
> 6.
Lessico Con l’aiuto delle note, completa la tabella inserendo accanto ai provenzalismi presenti nel testo il termine corrispettivo nell’italiano corrente, secondo l’esempio proposto.
provenzalismi nel siciliano illustre
Italiano
levimenti (v. 5)
allegrezza ...........................................................................................................................................................................................................................
dimuranza (v. 6)
...........................................................................................................................................................................................................................
alligranza (v. 9)
...........................................................................................................................................................................................................................
m’è pir simblanza (v. 22)
...........................................................................................................................................................................................................................
dulzuri (v. 23)
...........................................................................................................................................................................................................................
miraturi (v. 24)
...........................................................................................................................................................................................................................
intindanza (v. 34)
...........................................................................................................................................................................................................................
ni (v. 62)
...........................................................................................................................................................................................................................
gran beninanza (v. 63)
...........................................................................................................................................................................................................................
> 7.
Lingua Dopo aver letto attentamente l’introduzione al testo, spiega per quale motivo quasi tutti i versi della canzone terminano con le vocali -i e -u (raramente -a).
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 8.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) delinea il contesto storico-letterario a cui fanno riferimento l’influenza della lirica provenzale e il ruolo dei copisti toscani riguardo la diffusione della poesia siciliana.
141
L’età comunale in Italia
3 L’elaborazione stilistica
L’allargamento delle tematiche
Guittone d’Arezzo
A3
Le Lettere
Le Rime
Uno stile arduo e complesso
Il rappresentante italiano del trobar clus
142
I rimatori toscani di transizione Il modello della poesia siciliana acquistò subito grande prestigio e trovò diffusione in altre zone della penisola, soprattutto in Toscana. Ne è testimonianza il fatto che noi possediamo i testi dei poeti siciliani attraverso la trascrizione di copisti toscani, che ne toscanizzano la lingua. Dopo il crollo della monarchia sveva, con la morte di Federico II (1250) e del figlio Manfredi (1266), e la conseguente dissoluzione della scuola siciliana, l’eredità di questa viene raccolta proprio dai poeti toscani. Essi riprendono, nel loro volgare, i temi d’amore e le convenzioni stilistiche dei poeti della Magna Curia, ma introducono un interessante allargamento tematico. L’ambiente politico e sociale della Toscana non è costituito da una monarchia accentratrice come quella di Federico II, ma da liberi Comuni – Firenze, Arezzo, Siena, Pisa, Lucca –, dove la vita civile è dinamica e percorsa da conflitti e lotte, tra città, tra classi, tra fazioni. Il poeta non è più il burocrate ligio e il cortigiano raffinato, ma il cittadino che è inserito nella vita politica della sua città, e ne vive intensamente le passioni, riversandole nella sua attività poetica. Pertanto si può veder affiorare, nella lirica toscana, quella tematica civile e morale che era ignota ai poeti siciliani: l’esempio più evidente è la grande canzone politica con cui Guittone d’Arezzo ( A3), il poeta più significativo di questa esperienza poetica, dopo la battaglia di Montaperti (1260), compiange la sconfitta di Firenze guelfa ed esalta la sua passata grandezza.
Guittone d’Arezzo La vita Guittone di Michele del Viva nacque ad Arezzo intorno al 1235 e morì a Bologna nel 1294. Appartenente ad una famiglia dell’agiata borghesia ed esponente di spicco del guelfismo conservatore ( Il contesto, p. 80), si recò in esilio, intorno al 1263, per l’acuirsi dei contrasti cittadini. Nel 1265 entrò nell’Ordine dei Cavalieri di Santa Maria, i cosiddetti Frati Godenti, che si richiamavano a un francescanesimo piuttosto moderato e permissivo (Guittone era sposato con figli).
In tale ambito svolse comunque un’efficace opera di pacificazione fra le parti, come risulta anche dalle 50 Lettere che gli appartengono, in cui sviluppa di preferenza, con una ricerca retorica particolarmente complessa ed elaborata, argomenti di tipo edificante e morale. Le sue Rime (50 canzoni e più di 250 sonetti) percorrono tre distinti filoni tematici: i componimenti politici, le liriche d’amore, che rielaborano originalmente modi e motivi della tradizione provenzale e siciliana, e le poesie religiose, scritte dopo la conversione.
Le opere
Caratteristica della sua poesia è la scelta di uno stile arduo e complesso, che spinge fino all’oscurità il gioco delle allusioni e degli effetti verbali. Accantonata da Dante, in quanto lontana dall’ideale di armonica musicalità proprio dello «stil novo», l’attività di Guittone è stata anche in seguito accusata di astrusità e di intellettualismo. È considerato il più alto rappresentante del trobar clus ( L’età cortese, cap. 1, p. 64) nella poesia italiana delle origini. Lo stile
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
T4
Guittone d’Arezzo
Temi chiave
Tuttor ch’eo dirò «gioi’», gioiva cosa
• la gioia e la donna amata sono la stessa cosa (senhal)
dalle Rime Il sonetto, retoricamente molto elaborato e artefatto, è interamente costruito sulla ripresa di «gioia» e dei suoi derivati aggettivali.
> Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
4
Tuttor1 ch’eo dirò «gioi’», gioiva cosa2, intenderete che di voi favello3, che gioia sete di beltà gioiosa e gioia di piacer gioi[o]so e bello,
8
e gioia in cui gioioso avenir posa4, gioi’ d’adornezze5 e gioi’ di cor6 asnello, gioia in cui viso7 e gioi’ tant’amorosa ched8 è gioiosa gioi’ mirare in ello.
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Gioi’ di volere e gioi’ di pensamento e gioi’ di dire e gioi’ di far9 gioioso e gioi’ d’onni gioioso movimento:
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per ch’eo, gioiosa gioi’, sì disïoso di voi mi trovo, che mai gioi’ non sento se ’n vostra gioi’ il meo cor non riposo10.
1. Tuttor: ogni volta. 2. gioiva cosa: è un vocativo che si riferisce alla donna, come essere che porta con sé e dona la “gioia”. Si può intendere come sinonimo e variante del più comune aggettivo gioioso, ripetuto per sette volte nei versi successivi, mentre il sostantivo gioia è usato ben diciassette volte. La loro unione compare al v. 8 e al v. 12, all’inizio dell’ultima terzina, con funzione di
vocativo parallela a quella del verso iniziale. 3. favello: parlo. 4. posa: si fonda, riposa. 5. adornezze: le bellezze, le grazie di cui la donna è adornata. 6. cor: non cuore, ma “corpo”, come si ricava dall’attributo asnello (snello) che l’accompagna (dal francese antico cors). 7. viso: forma verbale, “guardo”.
8. ched: che (dipende dal tant’ del verso precedente e introduce la proposizione consecutiva). 9. volere … far: la gioia di cui la donna è portatrice riguarda la volontà, il pensiero, la parola e il modo di comportarsi (ulteriormente specificato dal movimento che segue). 10. riposo: acquieto, dopo averlo riposto (riprende, da un punto di vista sia fonico sia concettuale, il posa del v. 5).
Analisi del testo Ripresa del termine «gioia»
Corrispondenze di suoni e di rime
Il sonetto è un esempio di trobar clus, che risale forse a qualche perduto modello provenzale; ma l’abilità tecnica, pur essendo particolarmente insistita, fino al virtuosismo, non produce i risultati meccanici di un freddo e astratto artificio: il motivo del componimento si risolve felicemente sul piano fonico e verbale in un susseguirsi di suoni che stanno appunto ad indicare uno straripante e incontenibile sentimento di «gioia» (si noti il gruppo vocalico /ioi/, che, spesso ripetuto all’interno del singolo verso, si ripercuote sui suoni vicini, ad esempio in «dirò», «viso», «onni», «movimento», «disïoso», «mi trovo», «riposo»; nel solo verso in cui il termine della «gioia» manca, il secondo, viene sostituito da «di voi», che ricompare al v. 13). Un raffinato gioco di corrispondenze è anche nelle rime, che contengono assonanze (-ello, -ento) o consonanze con varianti minime (-osa, -oso), oltre a figure etimologiche del tipo «posa» / «riposo», «gioiosa» / «gioioso», in cui la stessa radice è ripetuta in parole diverse. 143
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Svolgi la parafrasi del testo. > 2. Che cosa descrive il poeta nella prima terzina? AnALIzzAre
> 3.
Stile Nel testo, come si legge nella nota 2, ricorrono con una certa frequenza il termine «gioia» e l’aggettivo corrispondente, in particolare due volte nella forma della figura etimologica. In quali versi? > 4. Lessico Nelle due quartine è celebrata la bellezza fisica della donna: quali termini sono utilizzati?
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 5. esporre oralmente Guittone d’Arezzo, con il suo stile complesso e artificioso, è considerato il massimo rappresentante, nella nostra lirica delle origini, del trobar clus di tradizione provenzale. In un’esposizione orale (max 3 minuti) esamina le differenze tra le due tendenze di stile del trobar clus e del trobar leu e soffermati ad illustrare i temi e le forme poetiche della lirica provenzale.
T5
Guittone d’Arezzo
Temi chiave
Ahi lasso, or è stagion de doler tanto dalle Rime
• grandezza della Firenze antica e decadenza di quella moderna
• infelicità del poeta per la scomparsa della giustizia a Firenze
• crescita politica di Siena ai danni di Firenze
• critica alla parte ghibellina asservita Argomento della canzone è la sconfitta subita a Montaperallo straniero ti (1260) dai fiorentini della parte guelfa, nella quale militava Guittone. Nella prima strofa l’attenzione di Guittone è rivolta al presente, al crollo della potenza fiorentina. La rievocazione della grandezza di Firenze, attuata anche per mezzo del paragone con Roma, occupa la seconda strofa. La polemica contro i Ghibellini, colpevoli di tanta rovina, è presente nella terza, quarta e quinta strofa, a metà della quale compare un amaro sarcasmo, presente anche nella sesta strofa e nel congedo. > Metro: canzone di endecasillabi e settenari; schema delle rime: ABBA, CDDC (fronte); EFGgFfE (sirima).
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Ahi lasso, or è stagion de doler tanto1 a ciascun om che ben ama Ragione, ch’eo meraviglio u’2 trova guerigione3, ca morto no l’ha già corrotto4 e pianto, vedendo l’alta Fior5 sempre granata6 e l’onorato antico uso7 romano ch’a certo pèr, crudel8 forte9 villano10, s’avaccio ella no è ricoverata: ché l’onorata sua ricca11 grandezza e ’l pregio quasi è già tutto perito e lo valor e ’l poder si desvia12.
versi 1-4 Ahimè, ora è tempo di affliggersi (tanto) da parte di ogni persona che ama con senso di giustizia (ben) la Ragione, tanto che io mi meraviglio se (u’) può trovare salvezza, perché il dolore e il pianto (corrotto) non l’ha ancora (già) ucciso (morto). 1. tanto: si collega con il ch’ del verso 3. 2. u’: latino ubi.
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3. trova guerigione: il soggetto è ciascun om. 4. corrotto: lamento, è sinonimo di pianto, e i due sostantivi soggetti. versi 5-11 vedendo il nobile (alta) Fiore (Firenze) sempre fruttifero (granata) e l’antico e onorato costume romano che di sicuro è destinato a perire (pèr), crudeltà molto (forte) villana, se presto (avaccio)
(Firenze) non viene soccorsa e salvata (ricoverata): dato che la sua potente (ricca) e onorata grandezza e il valore (pregio) sono già quasi del tutto finiti e il valore e la potenza si perdono (si desvia). 5. Fior: emblema di Firenze (più precisamente il giglio) e antico nome – secondo una tradizione diffusa – della città. L’uso del femminile è un francesismo, proveniente dalla scuola siciliana. 6. granata: «fruttificante» (Contini). Prosegue la trasposizione metaforica del fiore. 7. uso: si credeva che Firenze derivasse direttamente dagli antichi Romani; nel proemio della sua Cronica Dino Compagni la definisce «nobile città figliuola di Roma» ( cap. 3, A3, p. 207). 8. crudel: è aggettivo sostantivato. 9. forte: è avverbio. 10. villano: è il termine che nega ogni virtù e cortesia. 11. ricca: «potente» secondo l’interpretazione di Contini. È un francesismo. 12. si desvia: «cambia strada» (Contini). Il verbo ha per soggetti valor e poder.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
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Oh lasso, or quale dia13 fu mai tanto crudel dannaggio audito? Deo, com’hailo sofrito, deritto pèra e torto entri ’n altezza? Altezza tanta êlla sfiorata14 Fiore fo, mentre ver’ se stessa era leale, che ritenëa modo imperïale, acquistando per suo alto valore provinci’ e terre, press’o lunge, mante15; e sembrava che far volesse impero16 sì como Roma già fece, e leggero li era, c’alcun no i potea star avante17. E ciò li stava ben certo a ragione, ché non se ne penava per pro tanto, como per ritener giustizi’ e poso; e poi folli amoroso de fare ciò, si trasse avante tanto, ch’ al mondo no ha canto u’ non sonasse il pregio del Leone18. Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo tratto l’onghie e li denti e lo valore, e ’l gran lignaggio suo mort’ a dolore, ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo19.
versi 12-15 Ahimè (Oh lasso), in quale giorno (dia) fu mai udito un danno (dannaggio) tanto crudele? O Dio, come hai potuto sopportare (sofrito, sofferto) che la giustizia perisca (deritto pèra) e l’ingiustizia (torto) trionfi? 13. dia: è forma siciliana. versi 16-23 Tanta gloria (Altezza) ci fu (fo) nella (êlla, en la) Firenze (ora) privata dei suoi fiori (sfiorata), finché (mentre) era leale verso se stessa, che conservava (ritenëa) uno stile proprio di chi regge un impero, conqui-
stando grazie al suo elevato valore numerose (mante) province e città (terre) vicino e lontano; e sembrava voler costituire un impero, così come fece Roma in passato (già) e le sarebbe stato facile (leggero), perché nessuno poteva starle davanti. 14. sfiorata: cioè della sua potenza. 15. mante: francesismo. 16. far … impero: riprende il paragone con Roma e il suo impero. 17. alcun … avante: cioè nessuna città era più forte di lei.
versi 24-30 Ed esercitava questo ruolo (ciò) per giusto diritto (ragione), perché non si affaticava solo per ottenere vantaggio (pro), bensì (como) per mantenere giustizia e pace (poso, tranquillità); poiché le piacque di fare ciò, divenne tanto potente (si trasse avante tanto) che non c’è luogo al mondo in cui non fosse celebrato (sonasse) il valore del Leone. 18. Leone: il leone è rappresentato nello stemma di Firenze, detto il Marzocco. versi 31-34 Leone, ahi (lasso), ora non è più, perché vedo che gli sono stati strappati le unghie, i denti e la forza e la sua gloriosa stirpe (lignaggio) è stata uccisa con dolore e crudelmente imprigionata con grande colpa (a gran reo). 19. gran … reo: si noti la ripresa, per antitesi, di gran (vv. 33 e 34).
pesare le parole Corrotto (v. 4)
> Qui significa “pianto, lamento”, probabilmente dal lati-
>
no cor ruptum, “cuore spezzato” (dal dolore). È una forma arcaica, in disuso. Non è da confondere con il participio passato di corrompere, verbo che deriva sempre da rùmpere, ma con il prefisso cum-, e che vuol dire “esercitare un’azione di disfacimento, deterioramento” (es. corrompere l’aria con sostanze nocive). Di qui poi si passa al senso morale di “pervertire” o “indurre con denaro a compiere azioni contrarie alla legge o al dovere” (che è il senso oggi purtroppo più diffuso). Nell’italiano moderno pianto deriva dal latino plàngere, che propriamente vale “battersi il petto” (per il dolore); in latino invece piangere è flère, da cui deriva
il nostro flebile, che si riferisce a voce lamentosa, ma poi, per estensione, anche fioca, sommessa. Oggi l’aggettivo è usato (a dire il vero alquanto impropriamente) anche in luogo di “debole” (es. flebili speranze). Dal latino flèbilis proviene anche fievole. Si può osservare che in altre lingue neolatine il termine equivalente a piangere viene invece da un altro verbo latino, ploràre: francese pleurer, spagnolo llorar. In italiano da plorare sono derivati verbi con altri significati, implorare (“chiedere con preghiere, invocare piangendo”: es. implorare il perdono), deplorare (“lamentare qualcosa di spiacevole”: es. deplorare la fine di un’amicizia; “compiangere”: es. deplorare le disgrazie di qualcuno; “biasimare”: es. deplorare la condotta scorretta di qualcuno).
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E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono de la schiatta gentil sua stratti e nati, che fun per lui cresciuti e avanzati sovra tutti altri, e collocati a bono; e per la grande altezza ove li mise ennantîr sì, che ’l piagâr quasi a morte20; ma Deo di guerigion feceli dono, ed el fe’ lor perdono21; e anche el refedier22 poi, ma fu forte e perdonò lor morte: or hanno lui e soie membre conquise23. Conquis’è l’alto Comun fiorentino, e col senese24 in tal modo ha cangiato, che tutta l’onta e ’l danno che dato li ha sempre, como sa ciascun latino, li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto: ché Montalcino av’ abattuto a forza, Montepulciano miso en sua forza, e de Maremma ha la cervia e ’l frutto25; Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle e Volterra e ’l paiese a süo tene; e la campana, le ’nsegne e li arnesi e li onor tutti presi ave con ciò che seco avea di bene26. E tutto ciò li avene per quella schiatta27 che più ch’altra è folle28. Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno, e l’onor suo fa che vergogna i torna, e di bona libertà, ove soggiorna a gran piacer, s’aduce a suo gran danno sotto signoria fella e malvagia, e suo signor fa suo grand’ enemico.
versi 35-40 E chi gli ha fatto questo? Quelli che sono discesi (stratti) e nati dalla sua nobile stirpe (schiatta), che furono da lui (dal Leone) cresciuti e innalzati al di sopra di tutti gli altri e collocati in una posizione di prestigio e di potere (a bono); e questi per la posizione privilegiata (per la grande altezza) alla quale il Leone di Firenze li collocò salirono tanto (ennantîr sì), che lo ferirono (piagâr) quasi a morte; 20. e per … morte: «allusioni alla prima cacciata dei guelfi» (Contini), nel 1248. versi 41-45 ma Dio gli fece il dono della guarigione, ed egli concesse loro il perdono; e ancora lo ferirono di nuovo (refedier) dopo, ma (il Leone) resistette (fu forte) e non volle punirli con la morte: ora lo hanno conquistato e hanno diviso le sue membra. 21. ma Deo … perdono: «allusione alla pace fra le parti del gennaio 1251» (Contini).
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22. el refedier: «allusione alla congiura ghibellina del 1258» (Contini). 23. or … conquise: cioè dopo la battaglia di Montaperti e la sconfitta guelfa. Il verbo è ripreso da quello iniziale della strofa successiva, che segna il passaggio dall’impostazione allegorica del discorso (riferito al Leone) alla sua traduzione in termini concretamente storico-politici (il Comun fiorentino, v. 46). versi 46-50 Il nobile (alto) Comune di Firenze è stato conquistato, ed ha scambiato (cangiato) le parti con il Comune di Siena, dato che tutta la vergogna e il danno che Firenze gli ha sempre inflitto, come sanno tutti gli italiani, (Siena) gli restituisce, e gli toglie tutto il potere (pro) e l’onore: 24. col senese: suo nemico tradizionale. versi 51-55 perché (Siena) ha abbattuto
con la forza Montalcino, ha sottoposto al suo potere Montepulciano, della Maremma ha la cerva e la rendita (frutto); tiene come cosa sua (a süo) Sangimignano, Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, e Volterra e il suo contado; 25. ché Montalcino … frutto: si riferisce all’abbattimento delle mura di Montalcino, a sud di Siena, cui alluderà ancora ironicamente al v. 83. La cervia era un tributo simbolico versato dai conti di Santa Fiora. Nella battaglia di Montaperti Siena era alleata dei Ghibellini fuorusciti da Firenze, che avevano riportato la vittoria. versi 56-60 (Siena) ha conquistato la campana di guerra (la Martinella), le insegne, le armi (arnesi), gli arredi (onor), con tutto ciò che c’era insieme ad essi di bene. E tutto ciò gli succede per colpa di quella stirpe che è più folle di qualunque altra. 26. la campana … bene: la Martinella era la campana che in battaglia dava i segnali di comando dal Carroccio. La conquista di tutto ciò costituisce un disonore per i fiorentini. 27. schiatta: è ovviamente quella dei Ghibellini. 28. folle: perché provoca il danno della città. versi 61-66 È folle chi fugge il proprio utile (prode) e ricerca (cher) il danno, e fa sì che il suo onore si trasformi in vergogna, e dalla buona libertà, in cui vive con gran piacere, si riduce con suo gran danno sotto un potere sleale (fella) e malvagio, e sceglie come signore il suo grande nemico.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
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versi 67-75 A voi che siete ora in Firenze dico queste cose, poiché quello che è accaduto (divenuto), a quanto pare (par), vi piace (v’adagia); e poiché avete in casa i Tedeschi (Alamanni), serviteli per bene, e fatevi mostrare le loro spade, con le quali vi hanno tagliato (fesso) i visi e uccisi (aucisi) i padri e i figli; sono contento (piacemi) che, poiché nel fare ciò dovettero sopportare grande fatica, gli dobbiate dare gran quantità delle vostre monete. 29. v’adagia: francesismo. 30. e poi … aucisi: i mercenari tedeschi furono mandati in aiuto dei Ghibellini da Manfredi, figlio di Federico II, capo del partito ghibellino in Italia. 31. en ciò fare: ossia nel ferire voi e uccidere i vostri familiari. versi 76-81 Offrite in dono molte monete e gran quantità di pietre preziose (gran gioi’) ai conti (Guidi) e agli Uberti e a tutti gli altri che vi
A voi che siete ora in Fiorenza dico, che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia29; e poi che li Alamanni in casa avete, servite·i bene, e faitevo mostrare le spade lor, con che v’han fesso i visi, padri e figliuoli aucisi30; e piacemi che lor dobiate dare, perch’ebber en ciò fare31 fatica assai, de vostre gran monete. Monete mante e gran gioi’ presentate ai Conti e a li Uberti32 e alli altri tutti ch’a tanto grande onor v’hano condutti, che miso v’ hano Sena in podestate33; Pistoia e Colle e Volterra fanno ora guardar vostre castella a loro spese; e ’l Conte Rosso34 ha Maremma e ’l paiese, Montalcin sta sigur35 senza le mura; de Ripafratta36 temor ha ’l pisano, e ’l perogin che ’l lago37 no i tolliate, e Roma vol con voi far compagnia. Onor e segnoria adunque par e che ben tutto abbiate: ciò che disïavate potete far, cioè re del toscano. Baron’ lombardi e romani e pugliesi e toschi38 e romagnuoli e marchigiani, Fiorenza, fior che sempre rinovella, a sua corte v’apella, che fare vol de sé rei39 dei Toscani, dapoi che li Alamani ave conquisi per forza e i Senesi.
hanno condotto a tanto onore, che hanno messo Siena in vostro potere (podestate); Pistoia e Colle (di Val d’Elsa) e Volterra fanno custodire le vostre fortezze a loro spese; 32. Conti … Uberti: due delle famiglie ghibelline più potenti. 33. Monete … podestate: è ovviamente un’affermazione ironica, com’è ironica tutta quest’ultima parte del componimento. versi 82-86 il conte Aldobrandino di Sovana domina ora la Maremma e il suo territorio, Montalcino è al sicuro (sigur) senza le mura; i pisani temono (temor ha) (il castello di) Ripafratta, e i perugini (temono) che togliate loro il lago, e Roma vuole fare alleanza (compagnia) con voi. 34. ’l Conte Rosso: uno dei Ghibellini vincitori. 35. sigur: vedi v. 51. 36. Ripafratta: «castello vicinissimo a Pisa
(presso San Giuliano), già dai Fiorentini tolto ai Pisani e dato ai Lucchesi» (Contini) nel 1254. 37. ’l lago: il «Trasimeno, allora detto lago di Perugia» (Contini). versi 87-90 Dunque sembra che abbiate onore, potere (segnoria) e ogni vantaggio (ben tutto): quello che desideravate (disïavate) potete farlo, cioè essere i signori della Toscana. versi 91-97 Baroni settentrionali (lombardi) e romani e meridionali (pugliesi) e toscani (toschi) e romagnoli e marchigiani, Firenze, fiore che si rinnova (rinovella) sempre, vi chiama (v’apella) alla sua corte, (lei) che vuol eleggersi (fare … de sé) re dei toscani, dopo che ha sconfitto con la forza i tedeschi e i senesi. 38. toschi: variazione e ripresa di toscano, cui si aggiunge il successivo Toscani. 39. rei: si noti il parallelismo della costruzione rispetto al v. 90.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo Il compianto per la decadenza di Firenze
L’antica grandezza
Il sarcasmo
Lo stile
Nella canzone Ahi lasso, or è stagion de doler tanto il poeta, tipico rappresentante del comune cittadino, appare tutto immerso nelle tensioni derivanti dalla sconfitta subita dalla parte guelfa di Firenze a Montaperti nel 1260. La prospettiva dalla quale si narrano gli eventi risulta quindi soggettiva. Il guelfo Guittone è attivamente partecipe dell’attività politica che riguarda la propria città e si presenta nelle vesti dell’intellettuale che è testimone, interprete e giudice di quanto succede. Inoltre vuole con chiarezza definire i princìpi ed i valori che regolano il vivere civile, trasmettendoli ai concittadini presenti e futuri. Questo avviene soprattutto attraverso il confronto tra l’attuale decadenza di Firenze e la sua antica grandezza, amplificata dal ricordo del mito di Roma e dei successi del recente passato. Il Leone, simbolo della potenza fiorentina, viene prima ricordato dal poeta-cittadino con orgoglio («[…] al mondo no ha canto / u’ non sonasse il pregio del Leone», vv. 29-30), poi con disperazione («Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo / tratto l’onghie e li denti e lo valore, / e ’l gran lignaggio suo mort’ a dolore, / ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo», vv. 31-34). L’immagine del Leone privato ormai della sua forza introduce il discorso sulle divisioni interne e sulle ingratitudini politiche che hanno causato l’attuale decadenza. La sofferta partecipazione di Guittone alle vicende di Firenze è avvertibile anche dall’uso del sarcasmo e dell’ironia (vedi quinta strofa) che rendono più vibrato e sferzante lo sdegno dell’intellettuale costretto ad assistere, impotente, alla caduta della propria città. Che non ci sia speranza alcuna di riscossa, l’afferma sconsolatamente il congedo, amaramente ironico. Il poeta in questo componimento è debitore della tradizione provenzale sia per il genere letterario sia per lo stile: si rifà, infatti, sia al sirventese ed al planh (compianto) sia al trobar clus. Il suo forte sentire e l’appassionata condivisione delle sorti della sua città lo accomunano ai numerosi poeti civili della letteratura italiana, primo fra tutti Dante, che però lo criticò duramente sul piano delle scelte poetiche.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Quali affermazioni presenti nel testo evidenziano la prospettiva soggettiva del poeta? > 2. Dove compaiono nel testo riferimenti ai Ghibellini? AnALIzzAre
> 3. A quale contesto storico-politico si riferisce la terza strofa in cui il poeta propone l’immagine del leone per indicare Firenze?
> 4. Commenta, in riferimento alla quinta strofa, le immagini relative all’intervento degli «Alamanni». > 5. Stile Spiega, attraverso esempi ricavati dal testo, il ricorso alle coblas capfinidas, procedimento tipico della poesia trobadorica provenzale.
> 6. Stile Quali vocaboli e/o espressioni sono collegati alla trasposizione metaforica del fiore con cui viene indicata Firenze?
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 7. Contesto: storia Delinea, con l’eventuale aiuto del docente di storia, il contesto a cui fa riferimento Guittone, ovvero la battaglia di Montaperti e le sorti del ghibellinismo e del guelfismo in Italia nella seconda metà del Duecento. > 8. Competenze digitali Con l’aiuto di idonee applicazioni (ad esempio Google Earth®), progetta un ideale percorso che attraversi i luoghi geografici citati nella canzone. Oppure, in alternativa e avvalendoti sempre delle nuove tecnologie, realizza una cartina in cui compaiano le città menzionate nel testo contrassegnate dai rispettivi stemmi dell’epoca, che potrai reperire anche in rete.
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Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
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Caratteri comuni: lo stile «dolce»
La donna angelicata
Il «dolce stil novo» Una nuova tendenza poetica Negli ultimi decenni del secolo, a Firenze, che è all’avanguardia nello sviluppo delle nuove forme di vita economica, sociale e politica e si avvia a divenire il centro guida della cultura italiana, si forma il nucleo più importante di una tendenza poetica, il «dolce stil novo», con cui la lirica amorosa di ispirazione cortese tocca la sua fase culminante in Italia. I poeti che ne sono esponenti, i fiorentini Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, a cui si aggiunge il pistoiese Cino de’ Sigibuldi, si staccano nettamente dagli orientamenti dei rimatori toscani della generazione di Guittone e dalla precedente tradizione siciliana e provenzale. Si tratta di poeti dalla forte e spiccata personalità, per cui è difficile fissare i tratti distintivi di una vera e propria scuola. Si possono però individuare alcune tendenze comuni. Innanzitutto ciò che li distingue con più evidenza, sul piano formale, è il rifiuto degli astrusi artifici stilistici cari a Guittone e ai suoi seguaci e la scelta di uno stile più limpido e piano, che viene appunto definito col termine tecnico «dolce». Per quanto riguarda i contenuti, all’omaggio feudale rivolto alla dama, che era tipico dell’amor cortese, si sostituisce una visione più spiritualizzata della donna, che viene esaltata come angelo in terra e dispensatrice di salvezza (anche se per questi temi la novità non è assoluta, in quanto spunti affini si potevano già rinvenire sporadicamente nella tradizione precedente).
La corte ideale e il binomio «amore» e «gentilezza» L’attenzione all’interiorità e l’intellettualismo La corte ideale
Più sensibile è invece lo stacco dalla tradizione in due altri aspetti: l’attenzione concentrata con più rigore sull’interiorità dell’amante, con l’esclusione di ogni riferimento a situazioni esterne, e il fervore intellettualistico, che si rifà ad un bagaglio filosofico e scientifico di provenienza universitaria. Inoltre si coglie l’aspirazione a sostituire la corte reale, che era lo sfondo della poesia provenzale e siciliana, con una corte tutta ideale, composta da una cerchia ristretta di spiriti eletti, dotati di
Monte da Bologna, Nozze di San Giuliano, 1350 ca., affresco da Storie di San Giuliano, part., Trento, Duomo.
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L’età comunale in Italia
Amore e gentilezza
alta cultura e disdegnosi del volgo “villano” e per questo uniti fra loro da un vincolo geloso ed esclusivo. Questa sostituzione di una corte ideale a quella reale risponde al nuovo ambiente sociale cittadino in cui si sviluppa questa poesia, che esclude ovviamente la presenza della corte. Lo «stil novo» si rivela l’espressione dello strato più elevato delle nuove classi dirigenti comunali che aspirano a presentarsi come una nuova aristocrazia, fondata non più sulla nobiltà di sangue ma sull’«altezza d’ingegno» (la formula è di Dante, Inferno, X, v. 59) e sulla raffinatezza del sentire, per distinguersi dai ceti inferiori. Uno dei temi centrali è appunto l’identificazione di «amore» e «gentilezza» (che ha il senso di “nobiltà”): proprio il saper amare «finamente» (che vuol poi dire saper scrivere poesia d’amore, cioè essere di raffinata cultura) è indizio di una superiore nobiltà d’animo. E la «gentilezza» è un dato di natura, legato alle qualità personali, non alla nascita e al titolo ereditario. Questi motivi erano già presenti nella tradizione cortese precedente, ma il contesto in cui vengono ripresi ne modifica profondamente il senso. Nella lirica trobadorica la rivendicazione della nobiltà dello spirito di contro a quella del sangue rispondeva alla visione di un’aristocrazia inferiore, di recente acquisizione, che voleva entrare a far parte a pieno diritto dell’aristocrazia feudale. Negli stilnovisti si tratta invece della rivendicazione dei ceti emergenti nel contesto urbano, che si contrappongono alla vecchia aristocrazia e vogliono collocarsi al suo posto nella posizione egemone all’interno della società.
L’origine dell’espressione «dolce stil novo» Il canto XXIV del Purgatorio
La formula «dolce stil novo», usata comunemente per designare il gruppo, è stata coniata da Dante, nel canto XXIV del Purgatorio. Al rimatore guittoniano Bonagiunta da Lucca (Lucca 1220 ca. - 1290 ca.) che gli chiede se egli sia colui che «fòre / trasse le nove rime» (vv. 49-50: inventò un nuovo modo di fare poesia), componendo la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, Dante risponde: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (vv. 52-54: Io sono un poeta che, quando Amore mi ispira, scrivo, ed esprimo esattamente ciò che mi detta nel cuore). Dopo aver ascoltato questa dichiarazione di poetica, Bonagiunta proclama di aver finalmente compreso l’ostacolo («il nodo», v. 55) che trattenne Iacopo da Lentini, Guittone e lui stesso «di qua dal dolce stil novo» (v. 57). Si può cogliere qui il forte distacco polemico nei confronti della precedente poesia cortese italiana, individuata in due delle sue manifestazioni più significative, la maniera siciliana e quella guittoniana. La discriminante tra la poesia vecchia e quella nuova è indicata da Dante in una più stretta aderenza dei poeti a ciò che Amore «ditta dentro».
I protagonisti dello Stilnovismo
Testi Cino da Pistoia • Io fu’ ’n su l’alto e ’n sul beato monte
Dante e lo Stilnovismo: adesione e distacco
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Precursore del gruppo degli stilnovisti è da considerare il bolognese Guido Guinizzelli (1235-76, A4, p. 151), appartenente alla generazione precedente a quella dei maggiori esponenti del gruppo degli stilnovisti, Guido Cavalcanti ( A5, p. 159) e il giurista Cino de’ Sigibuldi da Pistoia (1270 ca. - 1336 o 1337), che presenta già la fisionomia dell’epigono: si ripetono in lui, ridotti a schemi, tutti i motivi dello Stilnovismo. Anche Dante Alighieri ( cap. 4, p. 225), nella sua giovinezza, fa parte del gruppo, e scrive liriche in cui riprende temi e forme di Guinizzelli e Cavalcanti. Ma ben presto si stacca da queste tendenze, per seguire altre direzioni. Lo dimostra l’operetta in cui raccoglie parte di queste liriche, corredandole con un commento in prosa, la Vita nuova. Qui la successione studiata delle liriche e il commento che le
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
accompagna trasformano la vicenda amorosa in una complessa vicenda mistica e simbolica, un viaggio verso Dio con la donna amata per guida, che prelude da vicino al disegno della Commedia. La contraddizione tra amore e religione, che attraversava tutta la tradizione della poesia cortese ( L’età cortese, p. 25), è risolta da Dante a favore della religione, con il rifiuto di ogni ambigua contaminazione. Nella Commedia la trasfigurazione teologale dell’amore, per cui la donna, Beatrice, diviene allegoria della Teologia, si accompagna alla condanna senza remissione dell’amor cortese e stilnovistico, visto come sentimento peccaminoso e pieno di insidie (confronta l’episodio di Paolo e Francesca, Inferno, V). Non solo, ma Guido Guinizzelli, pur ammirato da Dante per la sua grandezza letteraria, è collocato nel purgatorio tra i lussuriosi.
A4
Guido Guinizzelli La vita La sua figura è stata identificata con quella di un giudice, nato a Bologna intorno al 1235 e attivamente impegnato nelle vicende politiche della sua città. Di famiglia ghibellina, si schierò dalla parte dei Lambertazzi; quando questi vennero sconfitti dai Geremei, nel 1274, si rifugiò in esilio sui colli Euganei, a Monselice presso Padova, dove morì nel 1276.
La produzione che gli si può attribuire con certezza comprende 5 canzoni e 15 sonetti. Inizialmente legato alla maniera guittoniana e al suo stile artificioso, se ne staccò in seguito, facendosi iniziatore della nuova poesia e fornendo ad essa, con la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore ( T6, p. 152), un “manifesto” programmatico ed esemplare. Anche se la critica ha limitato l’originalità di questo suo ruolo, restano i riconoscimenti a lui attribuiti ad esempio da Dante, che lo definisce suo maestro, e nel canto XXVI del Purgatorio lo chiama «padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (vv. 97-99: padre mio e degli altri poeti migliori di me che hanno composto rime d’amore soavi ed eleganti). Se si tiene conto che Guinizzelli, in un sonetto, aveva chiamato Guittone «caro padre meo», la sua poesia appare comunque come un fondamentale momento di transizione e di rinnovamento. Nel Canzoniere guinizzelliano vi sono testi ancora legati al gusto di Guittone, ma la maggior parte dei componimenti è impostata su nuove tonalità stilistiche e offre un campionario dei più tipici temi stilnovistici: l’identificazione tra amore e «gentilezza», l’equiparazione della donna ad un angelo proveniente dal regno di Dio, la lode dell’eccellenza della donna, paragonata alle bellezze più elette della natura, il valore miracoloso del suo saluto che dona salvezza, gli effetti della passione d’amore sull’amante, che si consuma e strugge. Sono tutti motivi che saranno poi ripresi da Cavalcanti, da Dante e dagli altri poeti. Un’altra caratteristica che spicca nella poesia guinizzelliana, e che sarà poi tipica dello Stilnovismo, è il gusto per il sottile ragionamento filosofico, nutrito della cultura della Scolastica ( Il Medioevo latino, p. 8): non per nulla Guinizzelli è di Bologna, la città che è la sede di una delle più prestigiose università europee. La poesia di Guinizzelli costituisce infine un esempio perfetto di stile «dolce e leggiadro», cioè di uno stile limpido e piano in contrapposizione alla contorta e artificiosa oscurità guittoniana. Le opere
Al cor gentil: “manifesto” di una nuova tendenza poetica
Testi Guinizzelli • Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo • Vedut’ho la lucente stella diana
Le caratteristiche formali
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L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
T6
Guido Guinizzelli
Temi chiave
Al cor gentil rempaira sempre amore
• la nobiltà dell’animo, non delle origini • l’indissolubilità della «gentilezza» e
Questa canzone è il testo più celebre di Guinizzelli, e si può considerare il vero e proprio “manifesto” di una nuova tendenza poetica, quella che in Toscana assumerà il nome di «stil novo».
• l’amore non peccaminoso per una
dell’amore
• l’identificazione tra amore e poesia • l’obbedienza dell’uomo alla donna come degli angeli a Dio
donna che abbia sembianze dell’angelo
> Metro: canzone di sei strofe composte di dieci versi (endecasillabi e settenari); schema delle rime: ABAB, cDc, EdE.
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Al cor gentil rempaira1 sempre amore come l’ausello2 in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor3, natura: ch’adesso con’ fu ’l sole, sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole4; e prende amore in gentilezza loco così propïamente come calore in clarità di foco. Foco d’amore in gentil cor s’aprende come vertute in petra prezïosa, che da la stella valor no i discende anti che ’l sol la faccia gentil cosa; poi che n’ha tratto fòre per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore: così lo cor ch’è fatto da natura asletto, pur, gentile, donna a guisa di stella lo ’nnamora5. Amor per tal ragion sta ’n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su’ diletto, clar, sottile; no li stari’ altra guisa, tant’ è fero6. Così prava natura recontra amor come fa l’aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco com’adamàs7 del ferro in la minera.
versi 1-10 Al cuore nobile (gentil) torna regolarmente (rempaira) amore, come l’uccello (ritorna) fra il verde nel bosco (selva); la natura non creò amore prima che (anti che) il cuore nobile, né il cuore nobile prima dell’amore: perché (ch’) non appena (adesso con’) fu creato il sole, subito lo splendore
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rifulse, e (non rifulse) prima della creazione del sole; e amore prende posto nella nobiltà di cuore in modo così naturale (propïamente) come il calore nella luce del fuoco. 1. rempaira: cioè «ha la sua vera dimora» (Contini); gallicismo (dal latino repatriare). 2. ausello: è un provenzalismo (auzel).
3. né fe’ … amor: amore e cuore nobile furono creati contemporaneamente. 4. ch’adesso … sole: anche il sole e la luce furono creati contemporaneamente. versi 11-20 Il fuoco d’amore si accende (s’aprende) nel cuore nobile come le sue più alte proprietà (vertute) nella pietra preziosa, nella quale (che) la proprietà (valor) non deriva dalla stella (no i discende), prima che (anti che) il sole la trasformi in nobile cosa; dopo che il sole con la sua forza ha tirato fuori (fòre) ciò che in lei è vile, la stella le infonde valore: nello stesso modo il cuore che dalla natura è stato reso eletto (asletto), puro, nobile, la donna simile (a guisa) alla stella lo fa innamorare. 5. Foco … lo ’nnamora: si veda, più in generale, l’interpretazione di Contini: «Tutta la stanza precisa le nozioni di potenza e atto: il sole purifica la pietra e la rende atta a ricevere dal suo specifico astro le concrete proprietà di gemma; la natura corrisponde al sole, il cuore (nobile) alla pietra (preziosa), la donna (che fa passare all’atto la virtualità amorosa) all’astro». Secondo i lapidari medievali le stelle infondevano alle varie pietre preziose le loro proprietà. versi 21-30 Amore risiede nel cuore nobile per lo stesso motivo per il quale il fuoco risiede in cima alla torcia (doplero): lì splende (splendeli) a suo piacere (al su’ diletto), chiaro, sottile; non gli converrebbe (no li stari’) altro modo di essere, tanto esso è indomabile (fero). Così la vile natura (prava natura) avversa (recontra) l’amore come fa l’acqua (aigua) fredda con il fuoco caldo. Amore prende dimora (rivera) nel cuore gentile, come nel luogo che gli è affine (consimel), come il diamante (adamàs) nel minerale del ferro. 6. fero: il fuoco, essendo l’elemento più leggero, tende verso l’alto, da qui la “fierezza” attribuita all’elemento. 7. adamàs: nei lapidari si affermava che il diamante aveva la proprietà di attirare il ferro, come la calamita.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
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Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno: vile reman, né ’l sol perde calore; dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»; lui semblo al fango, al sol gentil valore: ché non dé dar om8 fé che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d’ere’ sed a vertute non ha gentil core, com’aigua porta raggio e ’l ciel riten le stelle e lo splendore9. Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; e con’ segue, al primero, del giusto Deo beato compimento, così dar dovria, al vero, la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende del suo gentil, talento che mai di lei obedir non si disprende10.
versi 31-40 Il sole colpisce (Fere) il fango continuamente: (il fango) resta cosa vile e il sole non perde il suo calore; dice l’uomo (dis’omo) superbo (alter): «Sono (torno) nobile per schiatta (sclatta)»; io lo paragono (semblo) al fango, al sole paragono la vera nobiltà: perché non si deve (ché non dé dar om) credere che la nobiltà (gentilezza) risie-
da fuori del cuore (coraggio) nella dignità ereditata col sangue (degnità d’ere’), se non possiede un cuore nobile incline alla virtù, come l’acqua si lascia attraversare dalla luce (porta raggio) e il cielo contiene (ritien) le stelle e la loro luminosità (splendore). 8. om: impersonale, corrisponde al francese on. 9. com’… splendore: alcuni critici vedono
pesare le parole Gentil(e) (vv. 1, 3, 4, 11, 14, 19, 21, 28, 33, 34, 38, 49), vertute vile (vv. 16, 32), coraggio (v. 36) > Sono tutte parole che si incontrano ancora nell’italiano
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qui una contrapposizione tra l’acqua (animo vile che non sa accogliere la nobiltà ricevuta in eredità) e il cielo (animo nobile); Contini, invece, interpreta il cielo come immagine della donna, da cui emana il valore, e l’acqua come immagine dell’animo nobile, incline a ricevere il valore.
moderno, pressoché nella stessa forma ma con significati diversi da quelli del testo poetico duecentesco. Gentile viene dal latino gentem, “stirpe”, e vale “di buona stirpe”, quindi “nobile”. Nella lirica cortese si riferisce però, più che alla nobiltà di sangue, alla nobiltà d’animo, come viene affermato nella stessa canzone di Guinizzelli (vv. 31-40). Nell’italiano moderno invece indica comunemente chi ha maniere garbate e affabili (per inciso, affabile viene dal latino ad + fari, “parlare a”, quindi designa una persona a cui si può parlare, che è aperta a stabilire una comunicazione con gli altri). Qualcosa del senso antico è però rimasto nella formula animo gentile, che vale “di sentimenti elevati”, mentre in termini come gentiluomo, gentildonna l’aggettivo conserva il riferimento alla nobiltà di sangue. Vertute (dal latino virtùtem) nella canzone di riferisce alle proprietà magiche che erano attribuite a certe pietre, e che erano descritte nei trattati detti lapidari (làpidem in latino = “pietra”); valor ha lo stesso significato. Invece in latino virtùtem indicava forza d’animo, valore guerriero, e nell’italiano attuale ha un significato essenzialmente morale e designa una qualità positiva,
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Versi 41-50 Dio creatore splende all’intelligenza angelica (del cielo) più che il sole nei nostri occhi: essa conosce il proprio creatore (suo fattor) al di sopra del moto celeste (oltra ’l cielo) e facendo girare il cielo (e ’l ciel volgiando) (che è il compito che Dio le assegna) prende (tole) a ubbidirgli. Così, istantaneamente (al primero), consegue la perfezione dell’alto compito (di far girare il cielo) (beato compimento) secondo la volontà del giusto Dio, così la bella donna quando splende agli occhi del suo nobile fedele (gentil), dovrebbe infondergli (dar dovria), in verità (al vero), un desiderio (talento) (altrettanto forte) di non staccarsi mai (non si disprende) dall’obbedienza a lei. 10. Splende … disprende: strofa di lettura difficile e controversa. La parafrasi proposta è di Contini. Più liberamente: «Chiaro è il senso generale: come Dio splende all’intelligenza angelica, e in tale intuizione essa trova quell’impulso a ubbidirgli che si manifesta nel moto impresso al cielo, così la donna splende agli occhi dell’uomo nobile, che di lì dovrebbe trarre incentivo a ubbidirle di continuo» (Contini).
(vv. 12, 38), valor(e) (vv. 13, 17, 34),
un pregio, una dote, un amore per il bene che induce l’uomo a praticarlo costantemente; per contro valore nell’accezione più frequente indica oggi in campo morale il coraggio, militare o civile (es. medaglia al valor militare), oppure il pregio di un oggetto o di una merce (es. il valore dell’usato di un’auto). Nel testo vile conserva il senso latino “di poco o nullo valore, spregevole”, mentre nella lingua attuale è sinonimo di “vigliacco, che non ha coraggio”. Resta però il senso antico anche oggi in una parola come vilipendere, propria del linguaggio giuridico, che alla lettera significa “stimare di poco valore” (in latino pèndere = “pesare”) e in senso traslato “disprezzare, ingiuriare” (es. vilipendere la bandiera, la religione). Infine nel testo coraggio (dal latino cor, ma attraverso la forma provenzale coratge) significa genericamente “cuore, animo”, mentre per noi è la forza d’animo che ci consente di affrontare pericoli e avversità (es. durante la rapina ha mostrato molto coraggio). Tutti questi confronti possono offrire l’occasione di riflettere su come la lingua muti nel tempo e i significati si trasformino, anche se le parole restano quasi uguali nella loro forma esteriore.
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Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?», sïando l’alma mia a lui davanti. «Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per semblanti: ch’a Me conven le laude e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude». Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
versi 51-60 Donna, Dio mi dirà: «Qual è stata la tua presunzione (presomisti)?» quando l’anima mia sarà (sïando, essendo) davanti a lui. «Attraversasti il cielo e giungesti fino a Me e prendesti (desti) Me come termine di paragone (per semblanti) per un amore vano (in quanto terreno): soltanto a Me (ch’a Me) convengono le lodi, e alla Madonna regina del cielo (a la reina del regname degno), grazie alla quale (per cui) viene meno ogni peccato (cessa onne fraude)». Gli potrò rispondere: «(La donna mia) ebbe l’aspetto (sembianza) di un angelo del tuo regno; non commisi peccato (non me fu fallo), se indirizzai a lei il mio amore (amanza)».
Analisi del testo
> I motivi
La nobiltà nel contesto feudale… … e nella società urbana
Una nuova aristocrazia dell’intelligenza
Amore e gentilezza
Gentilezza e poesia
Linguaggio cortese e linguaggio filosofico
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Problema centrale della canzone è quello della nobiltà («gentilezza»). Era un problema già ampiamente trattato in precedenza dalla cultura cortese: ad esempio Andrea Cappellano ( L’età cortese, Il contesto, La voce dei testi, p. 26), il massimo teorico dell’amor «fino», nel suo trattato De amore affermava che solo la prodezza dei costumi fa conoscere gli uomini per nobiltà. In tali concetti si rispecchiavano le aspirazioni di una piccola aristocrazia senza feudi ad essere riconosciuta a pieno diritto come facente parte della classe feudale; per questo, già in quel contesto, si sosteneva che la nobiltà non dipendeva solo dalla nascita, ma dal valore della persona. Il concetto è però ripreso da questa canzone in un contesto del tutto diverso. Guinizzelli è un intellettuale che fa parte del ceto dirigente della società urbana (era un giudice, a quanto risulta), che, in questi decenni di fine Duecento, aspira a sostituirsi alla vecchia classe dirigente nobiliare del Comune. Per legittimare la propria affermazione sociale e politica, questo ceto afferma che per essere «gentili» non è sufficiente la nascita da una famiglia di sangue nobile, ma occorre anche il valore personale dell’animo, che è dato dalla natura al singolo individuo. Si delinea così la fisionomia di una nuova “nobiltà” cittadina, che fonda la propria egemonia sulle proprie doti di intelligenza e di cultura, sull’«altezza d’ingegno», per usare un’espressione di Dante (riferita a se stesso, ma che coinvolge anche Cavalcanti: cfr. Inferno, X, v. 59). Il fondamento della «gentilezza» è trovato nell’amore, come enuncia subito il primo verso: amore e «gentilezza» sono tutt’uno, non sono pensabili separatamente: il saper amare “finemente” è indizio di «gentilezza», e viceversa chi ha per natura cuor gentile non può che manifestarlo amando “finemente”. Anche qui è chiaramente ereditato un concetto cortese, quello secondo cui l’amore si identifica con un’elevazione e un raffinamento dell’animo. Ma anche in questo caso il motivo feudale, usato in altro contesto, si trasforma, assume un senso diverso: il saper amare cortesemente diviene il segno dell’elezione spirituale della nuova classe dirigente cittadina. L’amore però, a veder bene, assume qui un significato metaforico: saper amare vuol dire in sostanza saper poetare d’amore, saper scrivere versi raffinati; amore e poesia si identificano, sono indistinguibili: quindi all’identità amore-gentilezza si somma quella gentilezza-altezza d’ingegno. Per questo ciò che più visibilmente caratterizza la canzone guinizzelliana è la mescolanza del tipico linguaggio cortese, proveniente dalla tradizione trobadorica e siciliana, con il linguaggio della nuova cultura universitaria, ignoto a quella tradizione. Il tessuto discorsivo della canzone, infatti, è tutto fondato su un sottile argomentare, che si vale continuamente di paragoni filosofici e scientifici: amore che «prende loco» in gentilezza così propriamente come il calore nella chiarità del fuoco; la «virtù» della pietra preziosa, in cui il
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Le immagini teologiche
Il conflitto amore-religione
Lo stile «dolce»
Assenza di suoni aspri e di rime rare e difficili
Lessico comune
Sintassi piana e ritmo fluido
Rare figure retoriche
«valore» non può discendere dagli influssi celesti prima che il sole la purifichi; il fuoco che sta in cima alla torcia, cioè tende all’alto per sua intrinseca natura; il diamante che attira il minerale del ferro, e così via. Con la quinta strofa si introduce un nuovo ambito di comparazione, non più solo filosofico-scientifico, ma teologico. Il discorso è impostato su un’equazione: come le intelligenze angeliche, intendendo immediatamente il Creatore, prendono ad obbedirgli, così l’amante, appena la bella donna risplende ai suoi occhi, acquista la volontà di obbedirle sempre. Al centro del paragone vi è ancora un concetto cortese, quello dell’“obbedienza” dell’amante alla donna, cioè della “servitù d’amore”, ma l’ambito metaforico è profondamente diverso rispetto a quello della poesia cortese precedente: il rapporto uomo-donna non è più equiparato a quello tra vassallo e signore, bensì a quello tra gli angeli e Dio, lo scenario non è più feudale, ma teologico. L’amore si ammanta di valori religiosi: non solo è segno di superiorità spirituale, ma diviene una sorta di culto mistico della donna, che è trasformata in un essere sovrannaturale, miracoloso, equiparabile alla stessa divinità. Questa trasformazione risuscita e accentua quel conflitto tra amore e religione insito in tutto l’amor cortese. Il conflitto emerge in piena luce ed è consapevolmente individuato nell’ultima strofa: il poeta immagina che, il giorno in cui si presenterà dinanzi a Dio, questi lo rimprovererà di aver osato salire sino a lui indegnamente dopo aver attribuito sembianze sacre ad un peccaminoso amore terreno («e desti in vano amor Me per semblanti», v. 54: che è proprio quanto il poeta ha appena fatto nella strofa precedente); simili lodi non si convengono ad una donna di carne, ma solo a Dio e alla Vergine. Il poeta si salva elegantemente (Contini parla di uno «spiritoso epigramma») con una nuova lode alla donna: aveva sembianza di un angelo che venisse dal paradiso; non era quindi una colpa amarla.
> Gli aspetti formali
Resta ancora da chiarire, a livello delle forme dell’espressione, perché questa maniera di poetare fu connotata con l’aggettivo «dolce», in primo luogo da Dante (rime d’amore «dolci e leggiadre», Purgatorio, XXVI, v. 99, «dolce stil novo», Purgatorio, XXIV, v. 57). Il termine «dolce» non ha un valore generico e impressionistico, ma è una formula tecnica, che designa precisi procedimenti stilistici, poi ripresi dai successori di Guinizzelli. Cerchiamo di mettere in evidenza i principali. Livello fonico Sono evitati accuratamente suoni aspri, in particolare scontri di consonanti. Livello metrico Non vi sono rime rare o difficili, cioè con combinazioni di suoni rari e poco comuni, quindi molto difficili da trovare (si pensi a Dante, che nell’Inferno usa rime «aspre e chiocce» come «scuffa» / «muffa» / «zuffa», XVIII, vv. 104-108). Poco frequenti sono anche rime che presentino particolari artifici: vi sono solo due rime univoche, «sole» / «sole», vv. 5 e 7, «cielo» / «cielo», vv. 41 e 43, ed una rima siciliana, «natura» / «’nnamora», vv. 18 e 20. Livello lessicale Non vi sono termini particolarmente rari e ricercati, ma il lessico è in genere piano e comune. Sono pochi i francesismi e i provenzalismi: «rempaira», «clar» (che può essere anche un latinismo), «aigua», «coraggio», «semblo», «semblanti», «sembianza», «amanza». Livello sintattico La sintassi è in genere piana, senza dure inversioni (con qualche eccezione: la posposizione del soggetto «natura» al v. 4, «del ferro in la minera», v. 30, i vv. 45-50). Livello ritmico Il ritmo è fluido, senza spezzature violente: non vi sono versi che presentino pause forti al loro interno (punti fermi, punti e virgola), e sono rari gli enjambements dalla forte inarcatura (vv. 26-27, «foco / caldo», e vv. 48-49, «splende / del suo gentil»). Livello retorico Le figure retoriche sono rare: la più frequente è il paragone. Queste caratteristiche danno origine ad un discorso che, pur nella sua complessità concettuale, è fluido e scorrevole. 155
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Completa la tabella assegnando ad ogni strofa un titolo che ne riassuma il contenuto, secondo l’esempio proposto. Strofa
Titolo
I
amore e nobiltà sono una cosa sola ..........................................................................................................................................................................................................................................................................
II
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
III
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
IV
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
V
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
VI
..........................................................................................................................................................................................................................................................................
AnALIzzAre
> 2. Individua nel testo i seguenti termini: «core», «valore», «natura», «loco». Quante volte ricorrono in rima? Si tratta di termini rilevanti dal punto di vista del contenuto? > 3. Stile Individua e analizza le similitudini presenti nelle prime tre strofe del componimento. > 4. Stile Individua la tecnica del coblas capfinidas: tra quali strofe individui la ripresa dello stesso temine? Che cosa accade nelle altre? > 5. Lessico L’aggettivo «gentile» compare nella poesia ben dodici volte: indica in ciascun caso a chi o a che cosa si riferisce. In un solo caso l’aggettivo è sostantivato: quale? ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 6. Testi a confronto: scrivere Rifletti sul carattere innovativo della poesia di Guinizzelli rispetto alla tradizione della lirica d’amore precedente e in circa 15 righe (750 caratteri) svolgi un confronto tra questo componimento e la canzonetta Meravigliosamente di Iacopo da Lentini ( T2, p. 134). > 7. Competenze digitali Realizza una presentazione in PowerPoint in cui a ogni strofa del componimento siano associate delle immagini, atte ad illustrarne il senso. per IL reCUpero
> 8. Completa il riassunto del sonetto nelle parti mancanti, inserendo opportunamente i termini di seguito elencati, secondo l’esempio proposto.
Dio • un cuore virtuoso • sede • raffinare • una donna • la virtù • qualità superiori • intelligenze • un cuore gentile • la nobiltà • l’animo dell’amato • l’universo • dalla nascita • gli angeli • doti spirituali • dall’animo
L’amore ha la sua naturale sede in ................................................................................................, che possiede come sue proprie doti ................. ............................................................................... e ................................................................................................ d’animo; quest’ultima non dipende .......................................................... ......................................, ma ................................................................................................... ricco di .................................................................................................... A far nascere l’amore in ................................................................................................ non può essere che ................................................................................................ dotata di ......................................................................... .......................: la sua funzione sarà quella di ................................................................................................ ulteriormente ......................................................................................, per condurlo a .........................................................................................................., come fanno .........................................................................................................., che con le loro .................................................................................................. ordinano .................................................................................................., che naturalmente si muove verso Dio. pASSATo e preSenTe I modelli virtuosi oggi
> 9. La donna-angelo guinizzelliana rappresenta per l’uomo una guida di natura spirituale, che lo induce ad affinare i comportamenti virtuosi. Chi, a tuo avviso, induce oggi alla virtù? Quali sono i modelli di comportamento? Motiva la tua risposta dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
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Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
T7
Guido Guinizzelli
Temi chiave
Io voglio del ver la mia donna laudare
• la lode della donna • la bellezza della donna e della natura • gli effetti miracolosi della donna
L’incontro con la donna consente al poeta la celebrazione della sua bellezza fisica e spirituale attraverso il paragone con gli elementi belli della natura.
> Metro: sonetto.
4
Io voglio del ver la mia donna laudare ed asemblarli la rosa e lo giglio: più che stella dïana1 splende e pare2, e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
8
Verde river’ a lei rasembro e l’âre3, tutti color di fior’, giano4 e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare: medesmo Amor per lei rafina meglio5.
11
Passa per via adorna6, e sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute, e fa ’l de nostra fé se non la crede;
14
e no·lle pò apressare om che sia vile; ancor ve dirò c’ha maggior vertute: null’om pò mal pensar fin che la vede.
versi 1-4 Io voglio lodare la mia donna veridicamente (del ver) e paragonarla con (asemblarli) la rosa e il giglio: (ella) appare più splendente della stella che annuncia il giorno (stella dïana, Venere), e paragono (somiglio) a lei ciò che è bello in cielo (lassù). 1. dïana: dal latino dies. 2. pare: ha, con splende, valore di endiadi: la donna si rivela cioè nella sua luminosità, in tutto il suo splendore.
verde campagna e l’aria, tutti i colori dei fiori, giallo (giano) e rosso (vermiglio), l’oro e i lapislazzuli (azzurro) e i gioielli preziosi degni di essere regalati (gioi per dare): perfino Amore grazie a lei vieppiù si perfeziona. 3. âre: dal provenzale aire. 4. giano: dal francese antico jalne, francese moderno jaune. 5. medesmo … meglio: la parafrasi del verso è tratta da Contini.
versi 5-8 A lei paragono (rasembro) la
versi 9-14 (La mia donna) cammina per la
strada ornata (adorna), e così nobile che rende umile (abbassa orgoglio) colui al quale concede il proprio saluto (dona salute), e lo converte alla nostra fede se non è credente; e non le si può avvicinare uomo che sia ignobile (vile); vi dirò inoltre (ancor) che (la mia donna) ha un potere miracoloso (maggior vertute): nessun uomo può concepire pensieri malvagi (mal pensar) fin che la vede. 6. adorna: ornata della sua bellezza fisica, ma soprattutto spirituale.
pesare le parole Salute (v. 10) > Deriva
dal latino salùtem, “salvezza”. Qui indica propriamente il saluto, ma reca anche sotterraneamente l’idea che il saluto della donna gentile doni la salvezza spirituale all’uomo (concetto cardine nella teoria stilnovistica dell’amore), quindi recupera il senso origina-
rio del termine latino. Per noi invece indica comunemente la buona condizione fisica (o mentale). Il senso antico resta solo in formule religiose dotte come salute eterna, salute dell’anima.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo La lode
La sublimazione della donna
Lo stile «dolce»
Una struttura ricercata
> I motivi
Il tema dominante è quello della lode, che le quartine esemplificano attraverso il confronto con le più elette e preziose realtà naturali: i fiori, idealmente rappresentati dalla rosa e dal giglio, che possono simboleggiare una vasta gamma di sentimenti, in particolare l’amore e la purezza; i corpi celesti, che già trasferiscono le virtù della donna su un piano soprannaturale; le bellezze della natura con i loro colori, compresi quelli cangianti delle pietre preziose. La donna è ispiratrice e quasi purificatrice dello stesso Amore (introdotto mediante il solito processo di personificazione), e la sua apparizione produce effetti benefici e miracolosi: può addirittura convertire gli infedeli, oltre ad allontanare ogni male e ogni cattivo pensiero. Si compie così quel processo di sublimazione della donna – da creatura terrena a creatura celeste – che contraddistingue la poetica stilnovistica. Non a caso Dante avrà ben presente questo sonetto, soprattutto nei versi giovanili e, particolarmente, in Donne ch’avete intelletto d’amore e in Tanto gentile e tanto onesta pare ( cap. 4, TT5-6, pp. 242 e 247).
> Gli aspetti formali
Il sonetto è un altro perfetto esempio di stile «dolce»: assenza di suoni aspri e di rime rare e difficili, fluidità del ritmo e mancanza di spezzature all’interno dei versi, lessico piano, senza termini ricercati e rari e senza mescolanze linguistiche ardite, sintassi lineare, senza dure inversioni ed enjambements fortemente inarcati, assenza di artifici retorici preziosi e lambiccati. Questa linearità cela però una costruzione particolarmente elaborata: è cioè una precisa scelta di stile, che presuppone un perfetto dominio dei mezzi espressivi. Ad esempio la prima strofa si apre e si chiude con verbi alla prima persona: «Io voglio» e «somiglio». Poi, tra il verso 1 e il verso 2 si nota il nesso paratattico tra due infiniti, «laudare / ed asemblarli», uno collocato al termine di un verso, l’altro all’inizio di quello successivo. Ne deriva una costruzione simmetricamente speculare: complemento oggetto + verbo («la mia donna laudare»), verbo + complemento oggetto («ed asembrarli la rosa e lo giglio»).
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. In quali versi è espresso il tema della lode della donna? > 2. Quale ruolo ha la natura nel sonetto? > 3. Quali sono gli effetti miracolosi del passaggio della donna? AnALIzzAre
> 4.
Lessico Analizza il significato dei termini «gentile» (v. 9), «salute» (v. 10), «vile» (v. 12), «vertute» (v. 13), e verifica la loro presenza, con la medesima accezione, in Al cor gentil rempaira sempre amore ( T6, p. 152). > 5. Lingua Svolgi l’analisi sintattica delle quartine, distinguendo e classificando tutte le proposizioni (ad esempio, v. 1: proposizione reggente; v. 2: proposizione coordinata alla reggente ecc.). Si può parlare di una coincidenza tra sintassi e metro, ossia tra proposizioni e versi? Nel resto del sonetto si notano significative differenze in tal senso?
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 6.
Testi a confronto: esporre oralmente Prepara una scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) in cui mettere a confronto i due componimenti di Guinizzelli proposti in antologia: quali analogie riscontri riguardo i temi chiave? Quali differenze? > 7. Competenze digitali Prova a leggere ad alta voce il sonetto, a registrarlo con l’ausilio delle nuove tecnologie, e a realizzare un podcast audio da collocare in un personale “archivio multimediale” riferito alla lirica d’amore. Durante la lettura presta particolare attenzione alla punteggiatura, al rispetto delle pause e del ritmo in modo tale da renderla corretta e fluida.
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Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
A5
Guido Cavalcanti Figlio di Cavalcante (collocato tra gli eretici nel canto X dell’Inferno), Guido nacque a Firenze intorno al 1250 da una famiglia tra le più potenti di Firenze, di orientamento guelfo; si schierò dalla parte dei Bianchi e partecipò intensamente alle vicende politiche della città. Nel 1280 fu uno dei garanti della pace tra Guelfi e Ghibellini. Il carattere deciso e animoso del suo temperamento emerge dal tentativo di uccidere il capo dei Guelfi Neri, Corso Donati, che pare avesse in precedenza attentato alla sua vita. Nel 1284 e nel 1290 fu eletto fra i rappresentanti del Consiglio del Comune. Nel giugno del 1300 fu tra i capi delle opposte fazioni condannati dai priori (fra cui sedeva l’amico Dante) all’esilio, per riportare la pace in città. Dal confino di Sarzana fu richiamato a Firenze il 19 agosto ma, ammalato probabilmente di malaria, morì poco dopo.
La vita
Di Cavalcanti ci sono pervenuti 52 componimenti, fra cui 36 sonetti, 11 ballate e 2 canzoni. La profonda cultura filosofica del poeta si rivela nella sua canzone “manifesto”, Donna me prega, un testo estremamente arduo e oscuro, di difficile interpretazione. La critica più recente vi ha individuato un’impostazione che si rifà alle tesi di Averroè, un interprete arabo di Aristotele, il cui pensiero affascinò molti intellettuali italiani, in particolare nell’università di Bologna, per il suo carattere eterodosso. Al centro della canzone sono gli effetti prodotti dall’amore; dalla vista della bellezza della donna nasce una figura ideale e intellettuale, che esercita il suo influsso sull’anima sensitiva dell’uomo. Cadendo in balìa dell’anima sensitiva, l’amore, che è in origine luminoso, perde la sua qualità, diventa una forza oscura, che esclude ogni dominio razionale. Di qui scaturiscono gli effetti sconvolgenti dell’amore sul soggetto che ama: esso appare come una forza tenebrosa e terribile, che si impossessa dell’anima generando paura, angoscia, sofferenza.
Le opere Donna me prega
L’amore come forza devastante
Nascono da queste concezioni i temi più caratteristici che ricorrono nella poesia cavalcantiana: lo sbigottimento, il tremore, le lacrime, i sospiri, che conducono l’amante alla distruzione fisica e spirituale. L’immagine della donna, avvolta come da un alone mistico, resta lontana, irraggiungibile, inconoscibile. Il dramma si svolge tutto nell’interno dell’animo dell’amante. Ed è un dramma che si oggettiva in una serie di personificazioni, che agiscono come autentici personaggi: l’immagine ideale della donna, adorata nel suo «valore», che è una pura realtà mentale, gli «spiriti» che presiedono alle varie facoltà dell’anima, la «figura» esteriore del poeta, che ha solo l’apparenza della vita, dopo che gli spiriti sono stati dispersi, la «voce sbigottita e deboletta», che «parla dolore». Su queste personificazioni piomba la violenza devastante dell’amore, che le aggredisce, le disperde: ne deriva una dolorosa scissione interiore, che conduce alla morte. I temi
Le personificazioni
Testi Cavalcanti • Fresca rosa novella • Tu m’hai sì piena di dolor la mente
Lo stile Molto sapiente è la costruzione tecnica della poesia cavalcantiana. In essa tocca le punte più alte e significative, prima di Dante, lo stile «dolce» che connota tutto il gruppo di poeti, secondo la definizione dantesca. I versi di Cavalcanti possiedono, ben più di quelli di Guinizzelli, una squisita fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall’assenza di spezzature, pause, inversioni sintattiche.
159
L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
T8
Guido Cavalcanti
Temi chiave
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira
• la lode della donna • l’apparizione della donna come
creatura miracolosa e irraggiungibile
Si tratta di un sonetto in lode della donna, la cui superiorità è tale che il poeta non ha strumenti adeguati per descriverla.
• l’ineffabilità della realtà sovrannaturale
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, EDC.
4
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira1, che fa tremar di chiaritate l’âre e mena seco Amor2, sì che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira?
8
O Deo, che sembra quando li occhi gira, dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare: cotanto d’umiltà donna mi pare, ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira3.
Audio
11
Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, e la beltate per sua dea la mostra.
14
Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, che propiamente4 n’aviàn canoscenza.
versi 1-4 Chi è questa che avanza (vèn) (per la via), che ognuno (ogn’om) ammira, la quale fa tremare l’aria (âre) di luminosità (chiaritate) e conduce con sé (mena seco) Amore, così che nessuno (null’omo) può parlare, ma ciascuno sospira? 1. la mira: anche l’osserva meravigliato. L’inizio riecheggia il Cantico dei Cantici (6, 9: «Quae est ista quae progreditur?») e Isaia (63, 1: «Quis est iste, qui venit?»). Risultano quindi evidenti l’ispirazione e la costruzione religiose del sonetto.
2. mena … Amor: cioè fa innamorare chi la guarda. versi 5-8 O Dio, che cosa sembra quando gira gli occhi, lo dica Amore, perché io non saprei (savria) esprimerlo (contare): mi sembra a tal punto donna umile, che ogni altra (donna) nei suoi confronti io la chiamo fastidio (ira). 3. ira: cioè malvagia. Ira qui è contrapposto a umiltà del verso precedente. versi 9-11 La sua bellezza (piagenza) non si potrebbe descrivere (contar), dal momen-
to che davanti a lei ogni nobile virtù s’inginocchia in atteggiamento di riverenza (s’incchin’), e la bellezza indica in lei una veridica rappresentazione di sé (per … mostra). versi 12-14 La nostra mente non fu mai (già) così acuta (alta) e non fu posta in noi tanta capacità (salute), che adeguatamente possiamo averne conoscenza. 4. propiamente: in questo senso l’avverbio è usato da Guinizzelli al v. 9 di Al cor gentil ( T6, p. 152).
pesare le parole Mira (v. 1) > Qui
vale “contemplare con ammirazione” (dal latino miràri), ma generalmente nell’italiano antico e poi nella lingua letteraria, che fino a tutto l’Ottocento ha usato forme arcaiche, significa semplicemente “guardare” (Leopardi, La ginestra, vv. 52-53: «Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco»). Mirar nel senso di “guardare” è rimasto invece nello spagnolo corrente. Nell’italiano attuale mirare è “puntare verso un bersaglio” (es. mirare al cuore) o “tendere a qualcosa” (es. mirare al potere). Dalla medesima radice derivano am-
160
>
mirare, miracolo, miraggio (attraverso il francese mirage). Da miràri in francese proviene miroir, “specchio” (come pure nell’inglese mirror, attraverso il francese). L’italiano specchio (come pure lo spagnolo espejo) deriva invece dal latino spèculum, che a sua volta viene dalla radice del verbo spectàre, che vuol dire anch’esso “guardare”. Sempre dalla radice di spectàre provengono spettacolo, spettatore, rispettare (“guardare con stima e considerazione”), spettabile (“degno di rispetto”).
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Analisi del testo
> I motivi
Rimandi a Guinizzelli
L’apparizione miracolosa
Il motivo dell’ineffabilità
La donna è assimilata a Dio
Le riprese interne
Lo stile «dolce»
Il sonetto reca ulteriori apporti alla definizione dell’amore stilnovistico e all’immagine della donna angelicata. Si rifà chiaramente a Guinizzelli, riprendendo il motivo della lode della donna già presente nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare ( T7, p. 157). Da un lato però cadono i paragoni naturali, concreti, che sono propri del sonetto guinizzelliano (la «rosa» e il «giglio», la «stella dïana», la «verde river[a]» ecc.), e il discorso si fa più astratto e metafisico; dall’altro l’atteggiamento del poeta risulta qui più radicale nella sublimazione della donna, trasformandola in un essere sovrumano e irraggiungibile. Già l’interrogazione iniziale, che racchiude nel suo giro l’intera quartina, accentua l’atmosfera di stupore creata dall’apparizione di una creatura miracolosa. L’attacco rimanda al linguaggio biblico ( nota 1); e poiché, come osserva Contini, nel Medioevo gli studiosi della Bibbia riferivano questi passi biblici a Maria, è evidente che nel sonetto cavalcantiano la figura della donna è assimilata a quella della Vergine, rafforzando così l’impressione di un’apparizione sovrannaturale. L’impressione è ulteriormente accentuata dall’immagine successiva, «fa tremar di chiaritate l’âre» (v. 2), che richiama l’alone di luce che circonda appunto, nelle rappresentazioni del tempo, le figure sovrannaturali; parimenti «sì che parlare / null’omo pote» (vv. 3-4) dà l’idea della stupefazione che coglie i mortali dinanzi alle manifestazioni del divino. Però già qui si introduce un elemento profano, la presenza del dio Amore, che dal clima mistico riporta all’ambito consueto della cortesia, ricordando quali sono i termini reali del discorso. Il clima mistico è ancora accentuato dall’invocazione a Dio che apre la seconda quartina («O Deo», v. 5). Ma soprattutto si propone qui un motivo centrale dell’esperienza mistica e del suo linguaggio, quello dell’ineffabilità: la realtà sovrannaturale supera ogni possibilità di linguaggio umano, per cui l’uomo dinanzi ad essa non può che confessare la sua impotenza. Il tema dell’ineffabilità percorre tutta la poesia, costituendone la struttura portante («i’ nol savria contare», v. 6; «Non si poria contar», v. 9), per culminare nell’ultima terzina, che è tutta dedicata ad esso: «Non fu sì alta già la mente nostra / e non si pose ’n noi tanta salute, / che propiamente n’aviàn canoscenza». Qui il discorso non riguarda solo la poesia, ma viene a toccare direttamente il problema della conoscenza, in senso filosofico e teologico: la mente mortale dichiara la sua sconfitta, l’intelligenza dell’uomo non può raggiungere vertici così alti, non ha tanta «salute» (che verrebbe da spiegare come “Grazia”) da poter avere conoscenza adeguata della donna. A questo punto essa viene davvero assimilata a Dio, l’essere infinito ed assoluto, di cui non è possibile per l’uomo aver conoscenza totale. Cavalcanti conduce ben oltre il processo inaugurato da Guinizzelli, di conferire alla donna le caratteristiche della divinità e di modellare il culto ad essa tributato sul culto dovuto a Dio (si ricordi la penultima strofa di Al cor gentil, T6, p. 152, dove si instaura il paragone tra l’obbedienza degli angeli a Dio e quella dell’amante alla donna).
> Gli aspetti formali
Per quanto concerne l’organizzazione formale del testo, si può rilevare una costruzione per così dire “a gradini”: la poesia è cioè costruita su una serie di riprese interne, per cui un motivo proposto nella prima strofa è ripreso nella seconda, uno proposto nella seconda è ripreso nella terza: «Amor», che compare al verso 3 («e mena seco Amor»), è richiamato al verso 6 («dical’ Amor»); «nol savria contare» del verso 6 è ripreso al verso 9 «Non si poria contar», con un allargamento da un’incapacità soggettiva e individuale ad un’incapacità generale ed assoluta; il paragone tra l’«umiltà» della donna e l’«ira» di tutte le altre, vv. 7-8, è ripreso al verso 10, «a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute»; infine l’ultima terzina, come si è visto, riprende il concetto della seconda, l’impossibilità di «contar» la «piagenza» della donna, allargandolo dalla poesia alla conoscenza in assoluto. Questo sonetto cavalcantiano, oltre al motivo della lode, mutua da Guinizzelli anche le caratteristiche dello stile «dolce», di cui abbiamo già sottolineato le caratteristiche. 161
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Descrivi la donna e gli effetti che produce intorno a lei, in chi la vede. Da chi è accompagnata? > 2. Quale concetto è espresso nell’ultima terzina? AnALIzzAre
> 3. Nella lirica prevale un punto di vista collettivo: individua le espressioni che fanno riferimento a un’esperienza
comune a tutti gli uomini. > 4. Stile Individua le personificazioni. Quale funzione svolgono? > 5. Stile Attraverso quali artifici stilistici e retorici è espressa l’impossibilità di descrivere la bellezza e il valore dell’amata? > 6. Stile Descrivi lo stile «dolce» del sonetto. ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 7. Testi a confronto: esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) confronta questo sonetto con il sonetto di Guinizzelli Io voglio del ver la mia donna laudare ( T7, p. 157).
T9
Guido Cavalcanti
Temi chiave
Voi che per li occhi mi passaste ’l core
• la forza prorompente di Amore • gli effetti dolorosi e drammatici
Lo sguardo della donna provoca effetti devastanti sul poeta, privato delle funzioni vitali («deboletti spiriti») e con il cuore colpito a morte.
• l’annullamento dell’io poetico di fronte
dell’amore
• la metafora dell’amore visto come una caccia
all’amore
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
4
Voi che per li occhi mi passaste ’l core1 e destaste2 la mente che dormia, guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando3 la distrugge Amore.
8
E’ vèn tagliando di sì gran valore4, che’ deboletti spiriti5 van via: riman figura sol en segnoria e voce alquanta, che parla dolore6.
Audio
11
Questa vertù7 d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’ occhi gentil’ presta8 si mosse: un dardo mi gittò dentro dal fianco.
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Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto9, che l’anima tremando si riscosse10 veggendo morto ’l cor nel lato manco11.
1. Voi … core: «voi che, servendovi degli sguardi, mi trafiggeste il cuore» (Contini). 2. destaste: risvegliaste. 3. sospirando: a forza di sospiri (si riferisce a vita, mentre il la che segue è pleonastico). 4. E’ vèn … valore: egli (cioè Amore) viene spaccando («col ferro della saetta», precisa Contini) con così grande forza.
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5. deboletti spiriti: gli spiriti vitali. Tipica espressione cavalcantiana, tratta dalla filosofia naturale del tempo, che nominava “spiriti” o “corpi sottili” le facoltà psichiche o fisiche dell’uomo. 6. riman … dolore: resta solo l’aspetto del viso in suo potere e poca voce, una voce fioca, che esprime dolore.
7. vertù: variazione di valore del v. 5 (disfatto riprende, a sua volta, il distrugge del v. 4). 8. presta: rapida, veloce (aggettivo con inflessione avverbiale). 9. tratto: lo scoccare dell’arco. 10. si riscosse: ebbe una scossa, si risvegliò. 11. lato manco: fianco sinistro.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Competenze attivate
Analisi attiva CoMprenDere > Gli effetti distruttivi dell’amore
In questo sonetto il poeta esamina gli effetti devastanti dell’amore sul soggetto amante.
• Leggere, comprendere e interpretare
testi letterari: poesia
> 1. Svolgi la parafrasi del testo. > 2. Attraverso quali mezzi si scatena la potenza dell’amore?
> 3. Che cosa intende il poeta con l’espres-
sione «destaste la mente che dormia» (v. 2)?
AnALIzzAre > La forza cieca e violenta dell’amore
L’amore è concepito come una forza cieca, irrazionale, che genera angoscia e dolore nell’amante. Infatti la struttura portante del sonetto è costituita da una serie di immagini di violenza distruttiva e di sofferenza e non vi è quasi verso che non contenga un riferimento a questo nucleo tematico.
> 4. Rintraccia nel testo tutte le espressioni relative agli effetti distruttivi dell’amore.
> 5. L’allegoria amorosa assume le forme di una vicenda bellica. Individua i termini e le metafore che rinviano al linguaggio militare.
> 6. Analizza il sonetto dal punto di vista fonico: prevalgono i suoni aspri o dolci?
> Una struttura circolare
> 7. Sulla base della parafrasi eseguita, confronta il contenuto delle quartine e delle terzine ed evidenziane i legami di simmetria.
> L’oggettivazione dei moti interiori
> 8. Individua tutti i soggetti (persone ed
Il testo è costruito su un doppio movimento, distribuito fra le quartine e le terzine. Nelle quartine si delinea, sia pur in forme astratte e simboliche, una vera e propria sequenza narrativa, scandita in una serie di microsequenze. Nelle terzine la stessa vicenda viene ripresa e raccontata una seconda volta, seguendo fasi analoghe, con qualche variazione negli attori del dramma. In questa vicenda di personaggi astratti, i moti interiori del poeta assumono forma oggettivata. È questa una caratteristica tipica, oltre che della poesia cavalcantiana, anche della lirica amorosa del Medioevo in generale. In essa i sentimenti non hanno l’immediatezza di un’espressione soggettiva e individuale (come accade nella poesia moderna, dal Romanticismo in poi), ma si traducono in un’esperienza che vuole essere svincolata da ogni riferimento strettamente personale e da contingenze reali di tempo e di luogo, che aspira ad avere un significato universale, assoluto, e per di più è fissata da precisi codici e convenzioni. Proprio perché non confessa se stesso ma rappresenta sentimenti generali, Cavalcanti è portato a obiettivare la sua vita interiore in personificazioni astratte.
ApprofonDIre e InTerpreTAre > L’annullamento della personalità
In questa forma oggettivata, drammatizzata si traduce la concezione, propria di Cavalcanti, dell’amore come passione che esclude ogni controllo razionale, che fa soffrire e distrugge l’amante, annullando ogni facoltà sensibile e ogni energia vitale. L’annullamento della personalità, che ne deriva, ricorda gli effetti dell’amore mistico; ma mentre il mistico nell’annullamento dell’io entro l’infinità divina sottolinea gli aspetti di ebbrezza e di gioia, perché l’annientamento è in realtà un potenziamento infinito in Dio, qui il senso di morte non conduce ad alcuna rinascita spirituale, e si risolve in cupa e paurosa disperazione.
elementi personificati) che agiscono, i loro attributi, i valori che essi incarnano, le azioni compiute e i loro effetti.
> 9. La vicenda è ambientata in uno spazio fisico reale o in quello dell’introspezione psicologica?
> 10. L’esperienza d’amore secondo Caval-
canti può condurre all’annullamento e alla disperazione. Descrivi i diversi effetti che la vista della donna amata determina nell’animo dell’uomo, confrontando questo sonetto con Io voglio del ver ( T7, p. 157) e con Chi è questa che vèn ( T8, p. 160).
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L’età comunale in Italia
T10
Guido Cavalcanti
Temi chiave
perch’i’ no spero di tornar giammai
• la lontananza dalla patria e dalla donna amata
• l’incombere della morte • il servizio d’amore consiste nel poetare
Il poeta affida alla «ballatetta» il suo ultimo saluto per la donna amata. Il componimento è una ballata, forma metrica di livello stilistico minore rispetto a quello elevato della canzone. Nella sua piana scorrevolezza accentua gli aspetti dello stile «dolce».
> Metro: ballata; schema delle rime: fronte di due piedi di endecasillabi (ABAB), sirima Bccddx (le strofe terminano tutte con la stessa rima in -ore). La ripresa segue lo schema della sirima.
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Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta1, in Toscana, va’ tu, leggera e piana, dritt’ a la donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore. Tu porterai novelle di sospiri piene di dogli’ e di molta paura; ma guarda che persona non2 ti miri3 che sia nemica di gentil natura4: ché certo per la mia disaventura tu saresti contesa, tanto da lei5 ripresa che mi sarebbe angoscia; dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore. Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte per quel che ciascun spirito ragiona6. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire7: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core. Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate8 quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate, a quella bella donna a cu’ ti mando.
versi 1-6 (O) mia cara ballata, poiché io (Perch’i’) non spero di tornare mai più (giammai), in Toscana, va’ tu, veloce e chiara (piana), senza fermarti (dritt’) dalla mia donna, che ti accoglierà degnamente (ti … onore) grazie alla (per) sua cortesia.
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1. ballatetta: vezzeggiativo che ha valore affettivo e confidenziale. versi 7-10 Tu (le) porterai notizie (novelle) dei (miei) sospiri, (notizie) piene di dolore (dogli’) e di molta paura; ma bada a (guarda)
che nessuno (persona non) ostile alla natura gentile ti osservi (miri): 2. persona non: dal francese personne ne. 3. ti miri: fuor di metafora, ti legga. 4. nemica … natura: cioè ostile all’amore cortese. versi 11-16 perché certamente per mia disgrazia (disaventura) tu saresti ostacolata (contesa), rimproverata (ripresa) da tutti (da lei), tanto che (questo) mi provocherebbe (mi sarebbe) angoscia; dopo la morte, poi (poscia), (questo mi provocherebbe) pianto e nuovo dolore. 5. da lei: si riferisce a persona del verso 9. versi 17-20 O ballata, tu senti che la morte m’incalza (mi stringe), tanto che la vita mi abbandona; e senti come il cuore si agita (si sbatte) violentemente (forte) per il contrasto degli spiriti che vi hanno dimora (per … ragiona). 6. per … ragiona: cioè gli spiriti sono scossi dalla discussione animata. Secondo la concezione medico-scientifica del tempo, ripresa dalla poesia cavalcantiana, gli «spiriti» o «spiritelli», che hanno sede nel cuore, rappresentano i sentimenti e gli istinti vitali. versi 21-26 La mia persona è ormai (già) tanto distrutta che io non posso più sopportare oltre (soffrire) (questo dolore): se tu mi vuoi rendere un servizio, conduci (mena) la (mia) anima con te (di questo ti prego tantissimo) quando uscirà dal cuore. 7. non … soffrire: cioè sto per morire. versi 27-30 O (Deh) mia cara ballata, affido (raccomando) alla tua amicizia (amistate) quest’anima che trema: portala con te, nella condizione dolorosa in cui si trova (nella sua pietate), a quella bella donna da cui ti mando. 8. amistate: dal provenzale amistat.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
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Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’ presente: «Questa vostra servente vien per istar con voi, partita da colui che fu servo d’Amore». Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta va’ ragionando della strutta mente. Voi9 troverete una donna piacente, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora10. Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore.
versi 31-36 O cara ballata, dille sospirando, quando sarai davanti a lei: «Questa vostra serva (l’anima del poeta) viene per sta-
re (istar) con voi, separata(si) (partita) da colui che fu servo d’Amore». versi 37-40 O tu, (mia) voce scossa (sbi-
gottita) e flebile (deboletta) che esci piangendo dal cuore sofferente (dolente), riferisci (va’ ragionando), insieme alla (mia) anima e a questa ballata, della (mia) mente distrutta (strutta). versi 41-46 Voi troverete una donna ornata di ogni bellezza (piacente), di carattere (intelletto) tanto gentile (dolce) che sarà per voi un piacere (diletto) stare sempre (ognora) in sua compagnia. Anima, e tu adorala sempre, nelle sue virtù. 9. Voi: riferito a voce, anima e ballatetta personificate. 10. starle … ognora: come verrà ribadito nell’ultimo verso.
pesare le parole Pietate (v. 29)
> Nell’italiano antico vale “angoscia, condizione doloro-
sa”. In questo senso ricorre anche nella Commedia dantesca: «la notte ch’i’ passai con tanta pieta» (Inferno, I, v. 21); «pietà mi giunse, e fui quasi smarrito» (Inferno, V, v. 72); «di pietade / io venni men così com’io morisse» (Inferno, V, vv. 140-141). Nell’italiano moderno indica invece un senso di compassione dinanzi a sofferenze altrui. Bisogna quindi stare attenti, leggendo
>
testi del Due e Trecento, a non attribuire meccanicamente alle parole il senso attuale, perché ne possono nascere travisamenti gravi nell’interpretazione. In qualche locuzione si è conservato nella lingua di oggi il senso latino di pietàtem, “rispetto, venerazione verso cose ritenute sacre” (es. pietà filiale); oppure, nel linguaggio religioso, pietà può significare “devozione” (es. pratiche di pietà).
Analisi del testo
L’oggettivazione dei processi interiori
Il “servizio” della donna
Lontano dalla patria e dalla donna amata, il poeta consegna alla ballata il suo estremo saluto, dialogando con la poesia stessa, alla quale affida la propria anima con il compito di condurla in Toscana dalla propria donna. Cavalcanti rivela in questo testo la propensione all’autoanalisi, la capacità di oggettivare i processi interiori in una serie di entità astratte personificate: la «ballatetta» in primo luogo, la «vita», gli «spiriti», l’«anima», la «voce». Queste entità divengono veri e propri personaggi di una vicenda drammatica molto mossa e intensa: Cavalcanti non analizza la propria vita interiore, ma la mette in azione, oggettivandola. In obbedienza ai modelli cortesi, Cavalcanti riprende l’idea del “servizio” della donna, ma in questo caso la metafora abusata si inserisce in un altro sistema di significazioni: il rapporto tra uomo e donna non rimanda più a quello tra vassallo e signore; la vera nobiltà è data solo dalle elevate qualità intellettuali, che si manifestano nello scrivere raffinati e dotti versi d’amore. Per questi poeti che operano nell’ambito della città alla corte feudale si sostituisce una corte ideale, costituita dall’élite dei nobili spiriti, che si isolano dalla gente comune (i nemici della «gentil natura») orgogliosi della loro cultura superiore (un motivo che si può riconoscere anche nel sonetto dell’amico Dante, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, cap. 4, T9, p. 257). 165
L’età comunale in Italia L’intellettualismo di Cavalcanti
La complessità del meccanismo messo in atto dal poeta per realizzare il suo “servizio” d’amore è la spia dell’intellettualismo che contraddistingue Cavalcanti all’interno degli spiriti eletti che costituivano la “corte” dei poeti stilnovisti. Cavalcanti è in questo testo intellettuale esperto dei meccanismi dell’anima e della poesia, che sa fondere sapientemente i topoi della poesia cortese (si ricordi l’«amore di terra lontana» di Jaufré Rudel) con la propria personale visione del mondo caratterizzata dal dolore, dall’angoscia, dalla paura, dalla distruzione fisica e psichica, dalla morte. In questa prospettiva appare errata la lettura autobiografica della ballata come confessione di una condizione d’esilio, fatta in età romantica.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Completa la tabella proponendo una breve sintesi per ogni strofa della ballata, secondo l’esempio proposto. Strofa
Sintesi
I
il........................................................................................................................................................................................................................... poeta, che non spera di tornare in Toscana, invita la ballata a raggiungere la propria donna, che a sua volta la onorerà ...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
II
............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
III
............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
IV
............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
V
...............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
AnALIzzAre
> 2.
Stile Di quante sillabe sono costituiti i versi più brevi rispetto all’endecasillabo? Come vengono indicati, convenzionalmente, nello schema delle rime? > 3. Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli e/o le espressioni che fanno riferimento al modello cortese. > 4. Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli e/o le espressioni che, riguardo il poeta e/o la donna, fanno riferimento alla sfera dei sentimenti, a quella dell’intelletto e a quella del comportamento.
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 5.
Scrivere Rintraccia nel testo gli aspetti fondamentali dello Stilnovismo, illustrandoli in un elaborato di circa 10 righe (500 caratteri). > 6. Altri linguaggi: arte Osserva attentamente l’immagine e rispondi alle seguenti domande. a) La rappresentazione della scena ti sembra realistica? Motiva la tua risposta. b) Perché, secondo te, l’amante è trafitto negli occhi e nel costato dalle frecce scoccate da Amore?
SCrITTUrA CreATIVA
> 7. Ispirandoti al componimento analizzato, elabora un testo che,
nella forma che riterrai opportuna (poesia, prosa ecc.) e attraverso i canali del web (blog, social network ecc.), possa raggiungere la persona amata comunicandole il tuo stato d’animo. Indica in modo chiaro la forma e il canale scelti, e non superare le 30 righe (1500 caratteri). Amante trafitto dai dardi di Amore, XIV secolo, miniatura dal Roman de la rose, Londra, British Library.
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Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
5 L’elogio dei piaceri materiali
T11
La poesia goliardica Intorno al 1100 fiorisce in tutta Europa per opera di chierici, membri del clero che non avevano l’obbligo di rimanere in una diocesi (in latino clerici vagantes, Il Medioevo latino, Il contesto, p. 11), il filone della poesia goliardica. Tale poesia, usando il latino, canta la donna, la taverna, il gioco d’azzardo; esalta il denaro in grado di assicurarne il godimento, lamenta la povertà che costringe a vivere senza i piaceri terreni, usa in modo parodico le formule ecclesiastiche. La raccolta più famosa è quella dei Carmina burana del secolo XIII (che comprende i carmina potatoria, T11), che rielabora materiali del XII e che ispirerà i successivi esponenti della poesia popolare e giullaresca.
Anonimo
In taberna quando sumus È forse il testo più famoso dei carmina potatoria (carmi in onore del vino). Vi compaiono i classici temi di questa produzione: l’esaltazione del vino e del gioco in un continuo crescendo.
> Metro: strofe di otto ottonari piani; schema delle rime: coppie di rime baciate.
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In taberna quando sumus, non curamus quid sit humus, sed ad ludum properamus, cui semper insudamus. Quid agatur in taberna, ubi nummus est pincerna, hoc est opus ut queratur: si quid loquar audiatur. Quidam ludunt, quidam bibunt, quidam indiscrete vivunt. Sed in ludo qui morantur, ex his quidam denudantur, quidam ibi vestiuntur, quidam saccis induuntur. Ibi nullus timet mortem, sed pro Baccho mittunt sortem. Giotto, L’assaggiatore, 1303-06, affresco dalle Nozze di Cana, part., Padova, Cappella degli Scrovegni.
Quando siamo alla taverna Quando siamo alla taverna, / non ci curiamo più del mondo; / ma al giuoco ci affrettiamo, / al quale soltanto ci accaniamo. / Che si faccia all’osteria, / dove il soldo fa da coppiere1, / questa è cosa da chiedere: / si dia ascolto a ciò che dico. // C’è chi gioca, / c’è chi beve, / c’è chi vive senza decenza. / Tra coloro che attendono al giuoco, / c’è chi viene denudato, / chi al contrario si riveste, / chi di sacchi si ricopre. / Qui nessuno teme la morte, / ma per Bacco gettano la sorte2. //
1. coppiere: chi versava il vino ai commensali durante i banchetti.
2. per Bacco … sorte: in onore di Bacco (dio del vino) gettano i dadi, cercando la sor
te favorevole.
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Primum pro nummata vini: ex hac bibunt libertini. Semel bibunt pro captivis, post hec bibunt ter pro vivis, quater pro christianis cunctis, quinquies pro fidelibus defunctis, sexies pro sororibus vanis, septies pro militibus silvanis, octies pro fratribus perversis, novies pro monachis dispersis, decies pro navigantibus, undecies pro discordantibus, duodecies pro penitentibus, tredecies pro iter agentibus. Tam pro papa quam pro rege bibunt omnes sine lege. Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus, bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla, bibit velox, bibit piger, bibit albus, bibit niger, bibit constans, bibit vagus, bibit rudis, bibit magus, bibit pauper et egrotus, bibit exul et ignotus, bibit puer, bibit canus, bibit presul et decanus, bibit soror, bibit frater, bibit anus, bibit mater, bibit ista, bibit ille, bibunt centum, bibunt mille. Poesia latina medievale, trad. it. di G. Vecchi, Guanda, Parma 1952
Prima si beve a chi paga il vino: / indi bevono i libertini3. / Un bicchiere per i prigionieri, / poi tre bicchieri per i viventi, / quattro per i cristiani tutti, / cinque per i fedeli defunti, / sei per le sorelle leggere4, / sette per i cavalieri erranti5. // Otto per i fratelli traviati, / nove per i monaci vaganti, / dieci per i naviganti, / undici per i litiganti, / dodici per i penitenti, / tredici per i partenti. / Sia per il papa sia per il re / tutti bevono senza misura. // Beve la signora, beve il signore, / beve il cavaliere, beve il clero, / beve quello, beve quella, / beve il servo con l’ancella, / beve il lesto, beve il pigro, / beve il bianco, beve il negro, / beve il fermo, beve il vago6, / beve il rozzo, beve il mago. // Beve il povero e il malato, / beve l’esule e l’ignorato7, / beve il piccolo e l’anziano, / beve il presule e il decano8, / beve la sorella, beve il fratello, / beve la vecchia, beve la madre, / beve questa, beve quello, / bevono cento, bevono mille.
3. libertini: dissoluti, coloro che vivono cercando unicamente il piacere. 4. sorelle leggere: donne di facili costumi. 5. cavalieri erranti: propriamente: i cadet-
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ti delle nobili famiglie che non avevano una fissa dimora, ma si spostavano alla ricerca di avventure. 6. il vago: l’instabile, o colui che trema.
7. l’ignorato: lo sconosciuto. 8. presule … decano: gli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Analisi del testo Il gioco e il vino
Casualità e imprevisto
La mescolanza caotica
Si tratta di un inno che esalta il gioco ed il vino, come momenti di libertà incontenibile e di gioia sfrenata. Ogni forma di rispetto e di paura, compresa quella della morte, viene abolita, mentre si affida il proprio destino, metaforicamente, alla protezione del dio dell’ebbrezza, Bacco. Il relativismo di questa visione della realtà caleidoscopica e aperta è ribadito nella seconda strofa, dove la molteplicità dei punti di vista («Quidam…», ripetuto per ben sei volte) pone l’accento sull’anticonformismo dei comportamenti più disparati ed eterogenei. Il luogo in cui queste condizioni di indipendenza e di rovesciamento dell’ordine costituito si possono realizzare è rappresentato non a caso dalla taverna, dove predominano la casualità e l’imprevisto, l’atmosfera di disinibita sregolatezza e l’occasione dell’incontro fortuito. Le strofe intermedie contengono una specie di rituale bacchico, un brindisi dedicato alle persone più diverse (le «sorelle leggere» e i «cavalieri erranti», ad esempio), mescolate e confuse pur nell’ordine formale della crescente enumerazione progressiva. La varietà diviene mescolanza caotica nelle strofe finali, dove, alla numerazione, si sostituisce il verbo «bibit», che imprime ai versi un andamento sempre più frenetico e incalzante. I numerali conclusivi, con valore indefinito («centum […] mille»), riprendono, con elegante corrispondenza, il «bibunt omnes» del verso 32, dilatando i confini di questo inno bacchico in una dimensione iperbolica e quasi cosmica.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Descrivi l’ambiente della taverna evidenziandone le caratteristiche e i temi fondamentali presenti nel testo. AnALIzzAre
> 2.
Stile La figura retorica predominante in questa poesia è l’anafora. Indica i versi in cui essa è presente e rifletti sull’effetto parodistico che produce rispetto ai componimenti di ispirazione religiosa.
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 3.
esporre oralmente Illustra, in un’esposizione orale (max 3 minuti), gli aspetti formali e contenutistici che consentono di inserire questo componimento nello spirito goliardico-carnevalesco e che ci forniscono informazioni preziose sulla figura dei clerici vagantes. > 4. Competenze digitali Realizza una presentazione multimediale sui clerici vagantes e sui giullari. Puoi avvalerti del paragrafo Gli intellettuali: chierici, goliardi e giullari ( Il Medioevo latino, Il contesto, p. 11) e consultare la sezione, a fine volume, Il teatro per immagini, in cui è descritta ed analizzata la figura del giullare ( p. 658); assai interessante risulta anche, a questo proposito, il testo di Dario Fo, La nascita del giullare in Mistero buffo, in cui l’autore offre una spiegazione tutta personale sulla nascita di questa figura.
per IL poTenzIAMenTo
> 5. Audio
Altri linguaggi: musica Dopo aver fatto una ricerca sui componimenti medievali dei Carmina burana, tra i quali si trovano i carmina potatoria come In taberna quando sumus, ascolta O Fortuna e In taberna, due tra i brani che il compositore tedesco Carl Orff musicò nel 1937, nell’ambito di un suo progetto ispirato alla raccolta: quale operazione ha compiuto l’artista? Ha riprodotto fedelmente musica e testo?
Copertina dei Carmina Burana di Carl Orff eseguiti dal coro e dall’orchestra del Deutschen Oper Berlin, diretti da Eugen Jochum, 1968.
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L’età comunale in Italia
6 Le caratteristiche della poesia popolare
Temi amorosi
Testi Ruggieri Apugliese • Il maestro di tutte le arti Matazone da Caligano • Il «detto»
A6
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La poesia popolare e giullaresca Contemporanea alla lirica “alta”, opera di letterati di elevata cultura, esiste anche una tradizione di poesia “popolare”, le cui caratteristiche possono così essere definite: è destinata ad un pubblico di modesta cultura o comunque eterogeneo; è legata ad occasioni pratiche, feste, intrattenimenti vari; la trasmissione è orale, anche se poi molti componimenti vengono fissati per iscritto. La diffusione è opera dei giullari, i poeti vaganti che potevano esibirsi nelle piazze e nelle fiere ma anche nei palazzi signorili e, pur provenendo da ceti inferiori, erano spesso dotati di un certo livello di cultura. La forma di questa poesia è di norma semplice, elementare, caratterizzata da un linguaggio popolaresco e da ritmi rapidi e facili; non mancano però componimenti che rivelano legami con la cultura alta e procedimenti stilistici scaltriti. Vi è innanzitutto un filone di poesia amorosa, che riprende anche i temi della poesia cortese, in forme più ingenue: albe (cioè l’addio dei due amanti al sorgere del giorno), serenate, lamenti di donne abbandonate o malmaritate, imprecazioni contro padri severi o mariti gelosi. Le forme ricorrenti sono quelle della ballata, della frottola, del rispetto, del contrasto (che è uno scambio alternato di battute tra due interlocutori). Vi sono anche componimenti di argomento politico, come il Sirventese dei Lambertazzi e dei Geremei, che tratta in forma epica popolaresca le lotte tra le fazioni a Bologna nel 1274. Tutta questa produzione popolare è in genere anonima. I manoscritti ci hanno conservato solo tre nomi di autori: Cielo d’Alcamo ( A6), a cui è attribuito il contrasto tra un uomo e una donna, Rosa fresca aulentissima ( T12, p. 171), che mette in parodia le tematiche cortesi, ed in particolare il genere della “pastorella”; Ruggieri Apugliese, autore tra le altre opere di una canzone tutta giocata su una serie di opposizioni in cui il poeta attribuisce a sé le qualità più antitetiche, e di un sirventese in cui si proclama maestro di tutte le arti; infine Matazone da Caligano, autore di un poemetto in cui si satireggiano i contadini.
Cielo d’Alcamo Il codice Vaticano 3793, che ci ha conservato i canzonieri dei poeti siciliani, riporta anche un contrasto, in cui si affrontano un giullare e una donna, ma senza l’indicazione dell’autore. Il testo è citato anche da Dante nel De vulgari eloquentia sempre senza il nome dell’autore. Però in una nota al Canzoniere Vaticano il filologo del Cinquecento Angelo Colocci chiama l’autore Cielo, che è probabilmente la forma fiorentina di un diminutivo siciliano Celi, da Michele; in un altro luogo precisa «cielo dal camo», che è stato inteso come riferimento alla città siciliana di Alcamo. Dalle caratteristiche metriche e stilistiche del componimento sembra potersi desumere che l’autore fosse un poeta colto che imitava i modi giullareschi. Le caratteristiche linguistiche confermano la provenienza siciliana. Da indicazioni interne al testo (vv. 22-24) possiamo datare la composizione del contrasto fra il 1231 e il 1250, proprio gli anni in cui fioriva la produzione della scuola della corte di Federico II. Però il testo è estraneo al filone aulico di quella scuola, come si vedrà nell’analisi del testo.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
T12
Cielo d’Alcamo
Temi chiave
rosa fresca aulentis[s]ima
• l’adattamento popolare dei codici cortesi
Presentiamo una parte (vv. 1-80) del contrasto di Cielo d’Al• il desiderio erotico e l’amore fisico • gli elementi simbolici e allusivi del camo che vede in scena un uomo (definito «canzoneri», cioè discorso giullare) e una donna, che pronunciano una strofa ciascuno. L’uomo cerca di sedurre la donna e di indurla a soddisfare il suo desiderio erotico, ma la donna resiste, minacciando di chiamare i suoi parenti. Alla fine, dietro giuramento sul Vangelo da parte del giullare, essa acconsente a compiacerlo.
> Metro: contrasto di 32 strofe di 5 versi ciascuna. I primi tre versi sono settenari doppi monorimi con il primo emistichio sempre sdrucciolo, i secondi sono endecasillabi; schema delle rime: AAA, BB.
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«Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state1, le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: tràgemi d’este focora2, se t’este a bolontate3; per te non ajo abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia».
10
«Se di meve4 trabàgliti, follia lo ti fa fare. Lo mar potresti arompere5, a venti asemenare, l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare6: avere me non pòteri a esto monno; avanti li cavelli m’aritonno7».
15
«Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto, ca’n is[s]i [sì] mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto. Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto, bono conforto dónimi tut[t]ore: poniamo che s’ajunga il nostro amore».
20
«Ke ’l nostro amore ajùngasi, non boglio m’atalenti: se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti, guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti. Como ti seppe bona la venuta, consiglio che ti guardi a la partuta».
25
«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare? Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari8: non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari9. versi 21-25 «Se i tuoi parenti mi trovano, Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo! e che cosa mi possono fare? Propongo (mèt[t]oci) una multa (difensa) di duemila Intendi, bella, quel che ti dico eo?».
versi 1-5 «Rosa fresca profumatissima (aulentis[s]ima), che sbocci verso l’estate (inver’ la state), le donne ti desiderano, nubili (pulzell’) e coniugate (maritate): toglimi (tràgemi) da questi fuochi (este focora), se ne hai volontà (bolontate); a causa tua (per te) non ho pace (ajo abento) né di giorno (dia) né di notte, pensando sempre (pur) a voi, mia signora (madonna)». 1. Rosa … state: la donna è paragonata a una rosa. 2. este focora: la passione amorosa. 3. se … bolontate: cioè se vuoi farmi questa grazia.
versi 6-10 «Se soffri per me (di meve trabàgliti), te lo fa fare la follia. Potresti arare (arompere) il mare, seminare (asemenare) i venti, le ricchezze (l’abere) di questo mondo (secolo) tutte quante ammassare (asembrare): non potrai avermi a nessun costo; piuttosto (avanti, prima) mi taglio (m’aritonno) i capelli». 4. meve: me; più avanti anche teve, te. 5. arompere: in questa immagine e nelle seguenti il poeta utilizza la figura dell’adý naton, che presenta cose impossibili da realizzare. 6. asembrare: gallicismo.
7. avanti … m’aritonno: ossia la donna piuttosto di concedersi si fa monaca. versi 11-15 «Se tu ti tagli i capelli, è meglio che io muoia, perché con essi (ca’n is[s]i) perderei ogni mio piacere e conforto (lo solacc[i]o e ’l diporto). Quando passo di qui e ti vedo (véjoti), o rosa fresca del giardino (orto), mi dài sempre (tut[t]ore) molto piacere (bono conforto): facciamo in modo che il nostro amore si congiunga (ajunga)». versi 16-20 «Non mi va (non … atalenti) che il nostro amore si congiunga: se mio padre (pàremo) con gli altri miei parenti ci scopre, bada (guarda) che non ti raggiungano (t’ar[i]golgano) (perché sono) corridori veloci (forti cor[r]enti). Così come ti piacque (seppe bona) venire qui (la venuta), ti consiglio di fare attenzione (che ti guardi) quando parti (a la partuta)».
augustali: tuo padre non mi toccherà anche se possedesse tutte le ricchezze che ci sono (ha) a Bari. Viva l’imperatore, grazie a Dio! Capisci, o bella, quel che io (eo) ti dico?». 8. agostari: moneta d’oro su cui era effigiato l’imperatore, indicato con l’appellativo romano di Augusto. Allude a una legge delle Costituzioni di Melfi, promulgate da Federico II nel 1231, secondo cui l’aggredito doveva invocare il nome dell’imperatore e proporre una multa nei confronti dell’aggressore. Il riferimento consente di datare il contrasto fra il 1231 e il 1250, anno della morte di Federico II. 9. per quanto … Bari: è un modo di dire, un’espressione proverbiale (che non giustifica, come alcuni hanno proposto, un’origine pugliese del componimento).
171
L’età comunale in Italia
30
«Tu me no lasci vivere né sera né maitino. Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino10. Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino11, e per ajunta quant’ha lo soldano, toc[c]are me non pòteri a la mano».
35
«Molte sono le femine c’hanno dura la testa, e l’omo con parabole l’adimina e amonesta: tanto intorno procàzzala fin che·ll’ ha in sua podesta. Femina d’omo non si può tenere: guàrdati, bella, pur de ripentere».
40
«K’eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa ca nulla bona femina per me fosse ripresa12! [A]ersera13 passàstici, cor[r]enno a la distesa. Aquìstati riposa, canzoneri14: le tue parole a me non piac[c]ion gueri15».
45
«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core, e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore16! Femina d’esto secolo tanto non amai ancore quant’amo teve, rosa invidïata17: ben credo che mi fosti distinata».
50
«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze18, ché male messe fòrano in teve mie bellezze. Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze, e consore m’arenno a una magione19, avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone».
55
«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri20, a lo mostero vènoci e rènnomi confleri: per tanta prova vencerti fàralo volonteri. Conteco stao la sera e lo maitino: besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino».
60
«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato! Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato: concepìstimi a abàttare in omo blestiemato. Cerca la terra ch’este gran[n]e assai, chiù bella donna di me troverai». «Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia, Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria, Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia21:
versi 26-30 «Tu non mi (me no) lasci vivere né sera né mattino. Io sono padrona (Donna) di molte ricchezze. Se tu mi dessi tutte le ricchezze del Saladino e per giunta (ajunta) quanto possiede il sultano, non potresti (pòteri) toccarmi nemmeno con una mano». 10. pèrperi … massamotino: bisanti, monete d’oro di grande valore. 11. Saladino: il sultano d’Egitto, che coincide con il soldano (v. 29), anche se qui i termini sono considerati distinti. Non si tratta quindi di riferimenti storici, ma di paragoni dell’uso popolare.
172
versi 31-35 «Sono molte le femmine con la testa dura, e l’uomo le domina e ammonisce (amonesta) con parole (parabole): la incalza (procàzzala) tanto, finché ce l’ha in suo potere (podesta). La femmina non può fare a meno dell’uomo: attenta, o bella, a non pentirti (ripentere)». versi 36-40 «Che io me ne debba pentire? Possa essere uccisa prima che (davanti … ca) qualche (nulla) donna onesta (bona) sia rimproverata (ripresa) per il mio comportamento (per me)! Ieri sera ([A]ersera) passa-
sti di qui, correndo a perdifiato (a la distesa). Prendi fiato, canterino (canzoneri): le tue parole non mi piacciono affatto (gueri)». 12. K’eo … ripresa: un comportamento arrendevole getterebbe il discredito anche sulle altre donne. 13. [A]ersera: francese ersoir; secondo Contini, «tempo fa». 14. canzoneri: francesismo. 15. gueri: altro francesismo. versi 41-45 «Quante sono le paure (schiantora) che mi hai messo nel cuore, anche solo a pensarti (purpenzànnome) durante la giornata (la dia) quando vado fuori! Non ho mai (ancore) amato tanto una femmina di questo mondo quanto amo te (teve), o rosa invidiata: credo proprio che mi fosti destinata (dal cielo)». 16. e solo … fore: tanto più, quindi, la pena si acuisce quando l’innamorato è solo e durante la notte. 17. invidïata: nel senso di «bramata» (Contini). versi 46-50 «Se ti fossi stata destinata, cadrei dall’alto, perché nelle tue mani (in teve) le mie bellezze sarebbero (fòrano) mal riposte (male messe). Se tutto ciò accadesse, mi taglierei le trecce (trezze), e suora (consore) mi farei (m’arenno, mi rendo) in un monastero (magione), piuttosto che mi tocchi (artoc[c]hi) nella persona». 18. caderia de l’altezze: cioè dall’altezza in cui la donna si trova. 19. magione: propriamente casa. versi 51-55 «Se tu ti fai suora, o donna dal viso luminoso (cleri), vengo (vènoci) in monastero e mi faccio (rènnomi) frate (confleri): per ottenerti (vencerti), attraverso una così grande (per tanta) prova lo farei (fàralo) volentieri. Starei (stao) con te (Conteco) la sera e il mattino: è necessario che io ti tenga in mio potere (dimino)». 20. cleri: francesismo, è un aggettivo tipico della lirica cortese. versi 56-60 «Ohimè (Boimè) infelice (tapina) misera, che crudele destino (distinato) ho! Gesù Cristo l’altissimo è adirato (airato) contro di me: mi generasti (concepìstimi) per farmi imbattere in un uomo blasfemo (blestiemato). Percorri (Cerca) la terra che è (este) tanto vasta, troverai una donna più (chiù) bella di me». versi 61-65 «Ho percorso (Cercat’) Calabria, Toscana e Lombardia, Puglia, Costantinopoli, Genova, Pisa e Siria (Soria), Germania (Lamagna) e il Cairo (Babilonïa, oppure Baghdad) e tutta l’Africa del Nord (Barberia): non vi trovai donna tanto nobile d’animo e di modi (cortese), per questo ti scelsi (te prese) come mia (di meve) regina». 21. Calabr[ï]a … Barberia: le diverse località geografiche elencate hanno, anche in questo caso, un significato puramente fantastico.
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
65
donna non [ci] trovai tanto cortese, per che sovrana di meve te prese».
70
«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon22 peri. Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri23, e sposami davanti da la jente; e poi farò le tuo comannamente».
75
«Di ciò che dici, vìtama, neiente non ti bale, ca de le tuo parabole fatto n’ho ponti e scale24. Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l’ale25; e dato t’ajo la bolta sot[t]ana26. Dunque, se po[t]i, tèniti villana». «En paura non met[t]ermi di nullo manganiello27: istòmi ’n esta grorïa d’esto forte castiello; prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.
80
Se tu no levi e va’tine di quaci, se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».
versi 66-70 «Poiché tanto ti desti pena (trabagliàsti[ti]), ti rivolgo la mia preghiera (fac[c]ioti … pregheri) che tu vada a domandarmi (in sposa) a mia madre e a mio
padre. Se si degnano di darmi in sposa a te, conducimi in chiesa (mosteri), e sposami pubblicamente (davanti … jente); e poi obbedirò al tuo comando (comannamente)».
22. mon: francese. 23. mosteri: propriamente monastero, con un rapido rovesciamento della situazione dei versi 10, 49 e 52. versi 71-75 «Di ciò che dici, o vita mia (vìtama), niente ti serve, perché (ca) delle tue parole non ne parlo nemmeno più (fatto … scale). Pensavi di mettere le piume, (e invece) ti son (sonti) cadute le ali; e ti ho dato il colpo di grazia (dato … sot[t]ana). Dunque se puoi continua a essere (tèniti) contadina (villana)». 24. neiente … scale: l’interpretazione è di Contini. 25. Penne … ale: cioè, hai fatto una richiesta pretenziosa, del tutto sproporzionata alla si tuazione. 26. dato … sot[t]ana: è ancora l’interpretazione di Contini. versi 76-80 «Non mi metti paura con (di) nessuna macchina da guerra (manganiello): me ne sto (istòmi) nella gloria di questo castello che resiste agli attacchi (forte); stimo (prezzo) le tue parole meno che quelle di un bambino (zitello). Se tu non ti levi di torno e te ne vai via di qua (quaci), anche se tu qui (ci) giacessi ucciso (morto), la cosa mi farebbe piacere (chiaci, piace)». 27. manganiello: macchina usata per lanciare pietre (l’immagine bellica è completata dal castello attaccato, del verso successivo).
Analisi del testo Lo schema della “pastorella”
La mescolanza di registri linguistici
L’intenzione parodica
> Il modello e gli aspetti linguistici
Il contrasto di Cielo ricalca lo schema provenzale della “pastorella”, in cui un cavaliere, partecipe della civiltà cortese, tenta di convincere una donna del popolo a cedere all’amore. Nel contrasto di Cielo entrambi gli interlocutori appartengono ad un livello popolare e diversi piani linguistici (il registro alto e quello basso) sono compresenti all’interno di ogni battuta, sia dell’uomo sia della donna, sicché in ognuna di esse si hanno registri ora aulici ora volgari (Segre). Il tratto più interessante del componimento è proprio questo dualismo linguistico, questa mescolanza di registri stilistici. Nelle battute ricorrono frequentemente espressioni che rimandano alla letteratura cortese: per esempio «donna non [ci] trovai tanto cortese», v. 64; «lo solacc[i]o e ’l diporto», v. 12; «donna col viso cleri», v. 51. A contrasto si trovano invece espressioni tipicamente popolari e dialettali: «Lo mar potresti arompere, a venti asemenare», v. 7; «avanti li cavelli m’aritonno», v. 10; «Molte sono le femine c’hanno dura la testa», v. 31. Così avviene sul piano del lessico: ricorrono spesso francesismi crudi, evidentemente derivanti dalle letterature d’oc e d’oïl: «asembrare», v. 8; «amonesta», v. 32; «gueri», v. 40; «viso cleri» v. 51; «mon peri», v. 67; e, accanto ad essi, sovente in immediata contiguità, compaiono termini propri del dialetto siciliano (magari con influenze di altre parlate meridionali): «fòcora», v. 3; «abento», v. 4; «pàremo», v. 17; «pàdreto», v. 23; «schiantora», v. 41. In questo dualismo stilistico di modi aulici e plebei si coglie un’intenzione parodica, la scoperta volontà di creare un contrappunto: l’autore mira a caratterizzare due personaggi di bassa estrazione sociale, ognuno dei quali vuole apparire più di quanto non sia e cerca di imitare il prestigioso modello cortese, facendo uso di concetti e di espressioni consacrati da quella illustre tradizione, senza però poter evitare che la sua reale condizione sociale emerga. Il gioco dei due registri, letterario e dialettale, risponde così perfettamente alla situazione: il livello alto corrisponde alla volontà di mascherare cortesemente il desiderio, quello basso all’emergere manifesto di una volgare brama sensuale. 173
L’età comunale in Italia
> Il contesto culturale La parodia della lirica cortese
La cultura letteraria dell’autore
Il pubblico
Ma non bisogna pensare che si tratti di una semplice operazione di imitazione del vissuto, della rappresentazione di un quadretto realistico di vita quotidiana, animato da gustose macchiette. Il bersaglio del gioco parodico si colloca più in alto: è proprio la poesia aulica, l’apparato tematico e il formulario della lirica d’amore cortese, che tanta diffusione aveva avuto dalla Provenza alla Sicilia; l’erompere del desiderio carnale («A lo letto ne gimo a la bon’ora», vale dire: “Andiamocene a letto”, sarà l’ultima battuta della donna) rovescia le convenzioni sublimanti dell’amor cortese e l’affiorare del linguaggio plebeo e dialettale rovescia il linguaggio raffinato della poesia aulica. E questa parodia nasce proprio all’interno dell’ambiente siciliano, che di cortesia era tutto impregnato, sviluppandosi in parallelo con le forme illustri e “serie”. Difatti l’autore del contrasto è evidentemente un poeta colto che usa con disinvoltura le formule cortesi ed i termini francesi e provenzali, riprende lo schema colto della “pastorella” provenzale, utilizza le coblas capfinidas (procedimento tipico della lirica provenzale, per cui l’ultima parola di una strofa è ripresa all’inizio della strofa successiva, vedi ad esempio i vv. 10-11, 15-16, 35-36 ecc.), costruisce abilmente la strofa di cinque versi, con l’originale combinazione di tre settenari doppi e due endecasillabi. L’esecuzione doveva avvenire dinanzi ad un pubblico popolare, nelle piazze. Naturalmente questo pubblico poteva cogliere solo gli aspetti più superficiali del contrasto amoroso (che riprendeva schemi molto diffusi nella poesia popolare), divertendosi alle battute salaci e alla finale capitolazione della donna dopo tanta resistenza. Ma l’abilità letteraria del poeta poteva far apprezzare il testo anche ad un pubblico colto, in grado di gustare la parodia, di cogliere le finezze stilistiche e tutte le allusioni e le citazioni letterarie sotterranee.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Su quali concetti si fondano gli scambi di battute dei due protagonisti? Nel rispondere, opera una distinzione fra l’uomo e la donna.
AnALIzzAre
> 2.
Stile A quale figura retorica va ricollegata l’immagine della «rosa»? Quale importanza assume nell’ambito della tradizione letteraria cui fa riferimento il testo? > 3. Stile Rintraccia nel testo le coblas capfinidas. > 4. Stile Individua le rime siciliane presenti nel componimento. > 5. Stile Nel testo assume grande importanza la figura retorica dell’iperbole. Individua qualche esempio e spiega quale effetto produce a livello espressivo. > 6. Lessico Ricerca nel testo, ai versi 31-35, i termini che appartengono al campo semantico del potere. > 7. Lingua Esamina le forme verbali presenti nel componimento ai versi 11-40: individua i modi imperativi e indica quale dei due personaggi usa più spesso un tono di comando. Sono presenti verbi al modo condizionale? Si fa largo uso del tempo futuro? > 8. Lingua Che tipo di periodo riconosci al verso 3 («tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate»)? Come si chiamano le proposizioni da cui è costituito?
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 9.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) indica quale contesto (culturale, sociale, economico, politico ecc.) emerge dal componimento attraverso le affermazioni dei due personaggi.
SCrITTUrA CreATIVA
> 10. Immagina, insieme a un tuo compagno o compagna di classe, di dare vita a un contrasto, ispirandoti all’esempio letterario analizzato. Per il testo che elaborerai, però, dovrai considerare temi, genere, lingua, espressione vicini alla sensibilità contemporanea e alla tua quotidianità: considera, ad esempio, la realtà della vita scolastica, o le occasioni di incontro e aggregazione dei giovani come te. Scegli un titolo per il componimento e non superare le 40 righe (2000 caratteri).
174
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
7
La poesia comico-parodica Il ribaltamento dei canoni stilnovistici
Il comico e il “realismo”
La parodia
Testi Rustico di Filippo • Oi dolce mio marito Aldobrandino • Quando Dio messer Messerino fece
Con il termine di poesia comico-parodica, o anche comico-realistica, è stata indicata l’esperienza di alcuni poeti che seguono un percorso diverso rispetto a quello della linea poetica dominante nella lirica italiana del XIII secolo. Questa linea – che si afferma con la scuola siciliana e ha la sua prima grande espressione con lo «stil novo» – canta sentimenti elevati (l’amore) e usa un linguaggio selezionato e raffinato, inaugurando una tradizione illustre che tende al sublime, al puro ideale, a un distacco dalla realtà materiale e comune. Proprio il rifiuto di queste convenzioni caratterizza la poesia “comica” che, per definizione, usa uno stile basso, occupandosi degli elementi quotidiani di una realtà spesso volgare e degradata. Di qui l’uso del termine “realismo” per indicare poesie come quelle di Rustico di Filippo e Cecco Angiolieri, dove vengono presentati personaggi laidi e deformi, ambienti malfamati e corrotti. Si tratta comunque di un’operazione squisitamente letteraria, che si propone di rovesciare gli schemi e le convenzioni della poesia elevata, con intento caricaturale e grottesco, riferendosi però ad altri schemi letterari. Il procedimento prevalente è quello della parodia, che consiste, per lo più, nel trattare con linguaggio nobile e sublimato soggetti che sono in realtà vili e spregevoli (ad esempio la “lode” dell’uomo deforme e della donna brutta). Più in generale, i valori della cortesia e dell’amore vengono capovolti nei loro significati più seri ed ufficiali, con l’intento di mostrare il loro risvolto alternativo, deformato o ridicolo: all’amore sublimante si sostituisce il desiderio sessuale, alla dama raffinata la donna plebea, all’elogio della virtù quella del vizio, e così via. Questo è un vero e proprio genere poetico, che si collega, da un lato, alla precedente tradizione della letteratura comica (in particolare agli irriverenti canti dei chierici vaganti che proprio nel XIII secolo erano stati riuniti nei Carmina burana), mentre prelude, dall’altro, ai successivi sviluppi dei generi giocosi, parodici, bizzarri, “carnevaleschi”, di tipo irriverente e demistificante ( Il carnevale e la letteratura carnevalizzata, p. 180).
Gli autori La voce della diversità Cecco Angiolieri
Testi Folgòre da San Gimignano • Cortesia cortesia cortesia chiamo • Di gennaio
Proprio nel suo possibile valore anticonformistico e alternativo consiste il significato ideologico di questa poesia, che, rifiutando le visioni del mondo gerarchiche ed ufficiali, può dare spazio alla voce della diversità, del dissenso, dell’emarginazione. Sono elementi presenti nella poesia del senese Cecco Angiolieri ( A7, p. 176). Dalle sue poesie si delinea l’immagine di una vita irregolare e inquieta, spesa tra le taverne, il gioco, le donne. Infatti i temi ricorrenti nel suo canzoniere sono l’amore tutto sensuale per una fanciulla plebea, l’odio per il padre avaro, le imprecazioni contro la sorte avversa, la «malinconia», nel senso di umor nero, di una disposizione irosa e cupa verso il mondo. La poesia di Cecco Angiolieri è soprattutto un gioco letterario, che si rifà ad una tradizione ben precisa, la poesia latina dei chierici vaganti, da cui ricava temi, situazioni, caratteri stilistici ( T11, p. 167). L’insistenza sui temi della vita sregolata, dell’abiezione, dell’odio verso il padre, della «malinconia», degli amori volgari risponde ad un intento di esagerazione parodistica, in aperta polemica con i modi sublimanti dello Stilnovismo. Nella poesia del fiorentino Rustico di Filippo (1230 ca. - 1300 ca.) compare la vena satirica, che si manifesta nel ritrarre in toni grottescamente caricaturali persone e scene dell’ambiente borghese fiorentino, con linguaggio corposo e violentemente espressivo. Del tutto diversi sono le tematiche e i toni della poesia di Folgòre da San Gimignano, che è autore di due “corone” di sonetti: nella prima augura per ogni mese gioie e piaceri ad una brigata nobile e cortese di Siena, nell’altra consiglia il modo più piacevole di trascorrere i giorni della settimana. Questi sonetti si risolvono in una serie di piccoli quadri, 175
L’età comunale in Italia
•
Testi Guinizzelli Chi vedesse a Lucia un var capuzzo
Testi Cavalcanti • Guata, Manetto, quella scrignutuzza
Testi Angiolieri • La stremità mi richer per figliuolo • Becchin’amor
A7
T13
in cui vengono ritratti in forme aggraziate e vivide i momenti più tipici della vita cittadina: feste, banchetti, cacce, tornei, cortesie d’amore. La poesia di Folgòre esprime un ideale di vita cortese, animato dalla liberalità, dalla gioia, dalla magnificenza, dalla prodezza: documenta quindi come la borghesia comunale in ascesa faccia propri i valori della società feudale e cavalleresca, proiettandoli in un mondo ideale in cui è bello evadere, ma proponendoli anche come modelli di vita effettivamente praticabili. Questo culto di un raffinato saper vivere mondano troverà di lì a poco il suo grande celebratore in Boccaccio. Tra la poesia stilnovistica e quella comico-parodica non esisteva una barriera invalicabile, come si vede nell’esperienza di Folgòre. Rustico è anche autore di rime d’amore, e, viceversa, Guinizzelli, Cavalcanti e Dante si cimentano anche in rime scherzose.
Cecco Angiolieri Appartenente a una ricca famiglia, nacque a Siena intorno al 1260; era già morto nel 1313, quando i figli rinunciarono alla sua dissestata eredità. Morì in miseria, dopo aver sperperato il patrimonio paterno; dagli atti giudiziari del tempo risulta coinvolto in risse e in processi. Questa esistenza sregolata e violenta trova conferma nei temi delle sue poesie, ma è senza dubbio esagerata l’immagine del poeta ribelle, in lotta contro la famiglia e la società, per lui creata dalla critica romantico-positivistica. Cecco Angiolieri
Temi chiave
S’i’ fosse fuoco, ardereï ’l mondo
• l’invettiva contro “tutti e tutto” • l’esaltazione dei piaceri materiali
È forse il più noto sonetto del poeta che inveisce contro “tutti e tutto”.
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.
4
S’i’ fosse fuoco, ardereï ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo;
8
s’i’ fosse papa, allor serei giocondo, ché tutti cristïani imbrigarei; s’i’ fosse ’mperator, ben lo farei: a tutti tagliarei lo capo a tondo.
11
S’i’ fosse morte, andarei a mi’ padre; s’i’ fosse vita, non starei con lui: similemente faria da mi’ madre.
14
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: le zop[p]e e vecchie lasserei altrui.
Audio
versi 1-8 Se io fossi (fosse) il fuoco, brucerei il mondo; se io fossi il vento, lo tormenterei con tempeste (tempestarei); se io fossi l’acqua, io lo annegherei; se io fossi
176
Dio, lo farei sprofondare; se io fossi il papa, allora sarei felice (giocondo), perché metterei nei guai (imbrigarei) tutti i cristiani; se io fossi l’imperatore, lo farei bene: taglierei
la testa a tutti quelli che mi stanno intorno (a tondo). versi 9-14 Se io fossi la morte, andrei da mio padre; se io fossi la vita, non starei con lui: allo stesso modo farei (faria) nei confronti di mia madre. Se io fossi Cecco, come io sono e fui, prenderei le donne giovani e le belle (leggiadre): le zoppe e le vecchie le lascerei ad altri (altrui).
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Analisi del testo Un intellettuale “irregolare”
Il gioco letterario
Lo smorzarsi dei toni nel finale
L’educazione letteraria
Un intellettuale “contro” la famiglia, la società, la religione, l’intera umanità: così tutta una tradizione critica dell’Ottocento ed anche del Novecento ha letto la produzione di Cecco Angiolieri ed in particolare il sonetto antologizzato. In realtà questa è un’interpretazione anacronistica, che utilizza i propri schemi interpretativi moderni per accostarsi ad un poeta vissuto in un contesto culturale diverso e con una diversa concezione della letteratura. Cecco, infatti, opera all’interno di una precisa convenzione letteraria, quella comica e burlesca, che discende dalla tradizione goliardica medievale, che ama le figure di irregolari, gli atteggiamenti dissacratori ed irriverenti verso ciò che è nobile e degno, l’esaltazione dei piaceri materiali. Proprio l’accentuazione truculenta ed iperbolica delle affermazioni, presenti nel sonetto, rivela il loro carattere di posa e di gioco. La conferma è data anche dallo smorzarsi dei toni nella terzina finale: il sonetto si chiude con una sorta di bonaria strizzatina d’occhi, con la sostituzione, all’atteggiamento irosamente distruttivo, di una più spicciola filosofia di vita, ispirata al principio del godimento immediato e libero da freni e impedimenti. Le elaborate soluzioni formali usate dal poeta (ad esempio, l’uso ripetuto dell’anafora, il condizionale in chiusura di verso) tradiscono la raffinata educazione letteraria di cui Cecco si serve per raggiungere effetti parodistici. Al pubblico borghese comunale, di cui fa parte, l’intellettuale Cecco consegna un prodotto letterario in grado di farlo divertire ridendo dei propri vizi.
Esercitare le competenze CoMprenDere
> 1. Quali elementi naturali sono elencati nella prima quartina? > 2. Quali sono gli ultimi bersagli polemici dell’autore? > 3. Quali desideri sono espressi nell’ultima terzina? Si tratta di desideri realizzabili? AnALIzzAre
> 4. Quali personaggi sono nominati nella seconda quartina? Che cosa rappresentano all’interno della società medievale? > 5. Stile Individua nel sonetto le seguenti figure retoriche: iperbole, anafora, chiasmo, antitesi, poliptoto. > 6. Lessico Individua nel testo i termini che appartengono al lessico basso. > 7. Lingua Fai l’analisi del periodo della prima quartina: quale proposizione vi compare ripetuta? ApprofonDIre e InTerpreTAre
> 8.
Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) indica quali sono le componenti ideologiche che fanno di questo sonetto un tipico esempio di poesia comico-realistica. Rifletti in particolare sulla concezione del potere e della società che emerge dai versi 5-11.
per IL reCUpero
> 9. Completa la tabella, registrando gli elementi con cui il poeta vorrebbe identificarsi, secondo l’esempio proposto. Strofa
elementi presentati nel testo
I quartina
elementi naturali e Dio ...........................................................................................................................................................................................................................................................................
II quartina
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
I terzina
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
II terzina
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
> 10. Specifica e distingui le caratteristiche della poesia comico-parodica da quelle della poesia popolare e giullaresca. pASSATo e preSenTe Anticonformismo o rifiuto delle regole?
> 11. Il rifiuto dei valori tradizionali può essere alla base dell’atteggiamento critico dell’anticonformista oppure il
punto di partenza per l’assunzione di comportamenti devianti. Qual è, secondo te, la differenza tra queste due situazioni? Motiva la tua risposta dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
177
L’età comunale in Italia
T14
Cecco Angiolieri
Temi chiave
Tre cose solamente m’ènno in grado
• un inno ai piaceri della vita: le donne, la taverna, il gioco
• l’odio nei confronti del padre
Nel testo seguente Cecco Angiolieri, rifacendosi alla produzione dei chierici, canta i valori fondamentali in cui crede: la donna, la taverna, il gioco d’azzardo. Il sonetto può essere considerato una sorta di “manifesto” della produzione comico-parodica.
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABAB, ABAB, CDC, DCD.
4
Tre cose solamente m’ènno in grado1, le quali posso non ben ben fornire2, cioè la donna, la taverna e ’l dado3: queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.
8
Ma sì·mme le convene usar di rado4, ché la mie borsa5 mi mett’al mentire6; e quando mi sovien7, tutto mi sbrado8, ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire9.
11
E dico: «Dato li sia d’una lancia10!», ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro11, che tornare’ senza logro di Francia12.
14
Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro, la man di Pasqua che·ssi dà la mancia, che far pigliar la gru ad un bozzagro13.
Audio
1. m’ènno in grado: mi sono gradite. 2. posso … fornire: non posso raggiungere perfettamente (ben ben) come vorrei. 3. la donna … ’l dado: gli amori, il bere, il gio co d’azzardo. 4. sì … rado: pure, purtroppo, sono costretto a permettermele raramente. 5. la mie borsa: le mie sostanze. 6. mett’al mentire: mi smentisce (impedendomi di soddisfare questi desideri).
7. mi sovien: mi ricordo, ci penso. 8. mi sbrado: «prorompo in invettive» (Contini). È simile a “sbraitare” e al provenzale braidar. 9. ch’i’ … disire: poiché devo rinunciare, per mancanza di soldi, a quello che desidero. 10. Dato … lancia: sia trafitto con una lancia. 11. sì magro: così a corto di quattrini. 12. tornare’… Francia: tornerei da un viag gio in Francia senza dimagrire (logro, dima
gramento), dal momento che sono già ridotto all’osso. 13. Ché … bozzagro: poiché sarebbe più malagevole (agro) togliergli un denaro (tôrli un dinar[o]), la mattina (la man) di Pasqua in cui si dà la mancia, che far catturare la gru da una poiana (rapace che si nutre solo di piccole prede).
Memmo di Filippuccio, Il bagno degli amanti, 1305-11, affresco da Esiti positivi e negativi dell’iniziazione amorosa di un giovane, part., San Gimignano, Torre Grossa, Camera del Podestà.
178
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Competenze attivate
Analisi attiva CoMprenDere
> Il tema goliardico
Rifacendosi al filone della poesia goliardica in latino dei chierici vaganti, Cecco Angiolieri canta in questo sonetto le tre sole cose che gli procurano piacere, e che gli sono negate: gli amori, il bere, il gioco d’azzardo.
• Leggere, comprendere e interpretare
testi letterari: poesia • Produrre testi di vario tipo in relazione
ai differenti scopi comunicativi
> 1. Svolgi la parafrasi del sonetto. > 2. Che cosa desidera il poeta? Per quale
motivo non può soddisfare i suoi desideri? Come reagisce alla frustrazione delle sue aspirazioni?
AnALIzzAre
> La donna, la taverna, il dado
Il componimento esemplifica l’ostentata e cinica indifferenza nei confronti dei valori umani e sociali. L’amore (ovviamente inteso in un senso opposto a quello stilnovistico), la bettola e il gioco d’azzardo sono presentati come gli unici ideali di felicità in cui credere. Questo concetto materialistico della vita, collocandosi all’opposto di ogni idealizzazione spirituale o cortese della realtà, fa sì che l’unico rimpianto del poeta sia quello di non poter soddisfare a suo piacimento i propri desideri. Particolare importanza assume, in tale contesto, il motivo economico del denaro, sul quale si veniva edificando la nuova società mercantile e borghese.
> 3. Quale concezione della vita emerge dal sonetto? In quale misura essa si contrappone a quelle elaborate dalla tradizione religiosa e dalla letteratura cavalleresca e cortese? > 4. Individua all’interno della poesia i termini che fanno riferimento al denaro.
> L’odio per il padre
> 5. L’invettiva contro il padre costituisce il punto focale del sonetto: quali strofe occupa? Come si articola?
> Gli aspetti stilistici
> 6. Sono presenti nel sonetto vocaboli che fanno riferimento a realtà quotidiane o a detti proverbiali e popolari? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo.
Il motivo “empio” dell’odio verso il padre, con l’augurio della sua morte, torna di frequente nella poesia di Cecco. La rivolta contro il padre si collega strettamente con gli atteggiamenti di ribellione: la figura paterna rappresenta infatti per eccellenza la norma, l’ordine, l’autorità sociale, proprio quegli obiettivi contro cui il “ribelle” (anche solo per posa letteraria) si scaglia. Il sonetto è frutto di una sapiente rielaborazione letteraria. Il linguaggio è crudo e realistico, con termini fortemente espressivi sottolineati dalle allitterazioni. I toni risentiti e irriverenti sono ribaditi dalle rime aspre (anti-stilnovistiche) in -ado (vv. 1, 3, 5, 7) e in -agro (vv. 10, 12, 14), dalle imprecazioni o dall’inserimento di espressioni della tradizione cortese con intenzioni parodistiche. Per amplificare l’effetto comico, il poeta fa ricorso alle figure retoriche dell’iperbole e dell’adýnaton.
> 7. Rintraccia le figure retoriche presenti nel testo: spiega in che cosa consistono e poi valutane la funzione.
ApprofonDIre e InTerpreTAre
> Un manifesto di poetica
Il sonetto, che apparentemente si qualifica come uno spontaneo e personalissimo programma di vita, può essere in realtà considerato una sorta di “manifesto” della produzione comico-parodica.
> 8. Motiva questa affermazione in un
breve testo espositivo di circa 15 righe (750 caratteri) sulla poesia comico-parodica, che tenga conto dell’origine e dello sviluppo del genere, dei temi, della lingua e dello stile.
179
L’età comunale in Italia
Microsaggio
Il carnevale e la letteratura carnevalizzata
Il carnevale
Il «mondo alla rovescia»
La maschera
Il carnevale nella letteratura
Accomunate dal motivo del riso, provocato dalla trattazione di temi per lo più irriverenti e scanzonati, sono delle produzioni letterarie, presenti in tutta la cultura medievale, che appartengono alla letteratura cosiddetta “carnevalesca”. Il più importante studioso di questa letteratura, il russo Bachtin, ha individuato un nesso tra lo spettacolo carnevalesco e certe forme di letteratura. Infatti, durante il periodo del carnevale, soprattutto nelle epoche antiche, venivano sovvertite le regole della vita sociale e le gerarchie ufficiali; vigeva un «nuovo modo di rapporti tra uomo e uomo» che favoriva la libertà dei comportamenti, dei gesti e della parola; «sacro e profano, sublime e infimo, grandioso e meschino, saggio e stolto» potevano mescolarsi tra loro, proponendo una specie di «mondo alla rovescia», in cui i valori ufficiali e gli ideali più alti, propri dell’ideologia dominante, potevano essere irrisi, rovesciati e “smascherati” attraverso un procedimento di deformazione parodica. La cerimonia burlesca dell’«incoronazione e successiva scoronazione del re del carnevale» può essere letta come esempio di un procedimento parodico, in quanto usa in senso derisorio e irriverente i simboli e le insegne del potere; rappresenta inoltre la visione del «mondo alla rovescia», in quanto viene incoronato «uno schiavo o un buffone», un re finto, un re per burla. Infine nel carnevale c’è una continua mobilità delle forme, che si basa sulla trasformazione e sul travestimento (la maschera), e sul rovesciamento dei ruoli. Si pensi al poveraccio che si traveste da ricco, alla pastorella che si finge principessa. In certi periodi storici alcune forme letterarie, soprattutto nei generi serio-comici, presentano caratteristiche carnevalesche, che sintetizziamo qui di seguito: 1. il comico, non solo com’era inteso nella “teoria degli stili” (stile umile, adatto a una materia bassa e popolare), ma soprattutto in quanto permeato dal “riso”, che sottopone a una trattazione scherzosa e beffarda anche gli aspetti più seri della realtà; 2. la presenza di elementi materiali-corporei (il cibo, il vino, i piaceri dei sensi, fino alle realtà più vili e degradate), in quanto rappresentano un’antitesi, talora urtante e provocatoria, rispetto a una visione delle cose idillica o idealizzante; 3. la parodia (corrispondente alle azioni carnevalesche della «scoronazione» e del rovesciamento) che, riprendendo temi e forme della letteratura sublime e aristocratica, ne rovescia i significati, abbassandone e degradandone i contenuti; 4. la presenza di voci e di lingue diverse, sia come situazioni dialogiche di tipo irriverente o scanzonato (ad esempio certi “contrasti”), sia come mescolanza di stili, con risultati di deformazione ideologico-espressiva; 5. tutti gli altri elementi che si possono ricondurre alla categoria carnevalesca dell’“eccentricità”, dalla ricerca del bizzarro al rifiuto delle regole sociali.
Alcuni esempi Non pochi fra i testi raccolti nell’antologia si possono ricondurre a questo tipo di letteratura, che non rappre-
senta un genere, ma una tendenza, una linea alternativa rispetto alla tradizione dominante. Ci limitiamo a segnalarne alcuni esempi, rinviando per il resto alle analisi particolari: 1. i fabliaux ( L’età cortese, cap. 1, p. 57), con il loro contenuto comico, popolare e farsesco, che introduce spesso il punto di vista dei poveri e dei diseredati; 2. i Carmina burana ( T11, p. 167), che celebrano l’elogio dei piaceri materiali e dei beni fuggenti, non senza un fondo di amaro e disincantato pessimismo; 3. la poesia comico-parodica, che rovescia i canoni della poesia cortese (l’immagine della donna brutta e deforme, opposta alla donna angelicata), insiste sui godimenti terreni (la donna, la taverna e il gioco d’azzardo in Cecco Angiolieri, T14, p. 178), sviluppa argomenti cinici o blasfemi (il desiderio della morte del padre, ancora nell’Angiolieri); 4. certe descrizioni crude e raccapriccianti del corpo umano, come in Iacopone da Todi ( cap. 1, A2, p. 105).
180
Capitolo 2 · La poesia dell’età comunale
Visualizzare i concetti
La poesia italiana del Duecento SCUoLA ToSCAnA
«DoLCe STIL noVo»
poeSIA popoLAre e GIULLAreSCA
poeSIA CoMICopAroDICA
1230-66
Seconda metà del Duecento
Ultimi decenni del Duecento
Seconda metà del Duecento
Seconda metà del Duecento, prima metà del Trecento
Area geografica
Corte di Federico II di Svevia (Sicilia)
Comuni dell’Italia centrale (Bologna e Firenze)
Comune di Firenze
Italia ed Europa (piazze, fiere, corti signorili)
Toscana
Principali autori
Iacopo da Lentini, Protonotaro
Guittone d’Arezzo
Guinizzelli, Cavalcanti
Cielo d’Alcamo
Cecco Angiolieri, Rustico di Filippo, Folgòre da San Gimignano
Lingua
Volgare siciliano, depurato e nobilitato
Volgare toscano
Volgare toscano
Volgare toscano
Volgare toscano
Arduo e complesso
Limpido e piano: si evitano suoni aspri, rime difficili, termini rari, inversioni sintattiche
Linguaggio popolaresco; ritmi rapidi
Mescolanza di registri alti e popolari
Amor cortese; temi politici e morali
Tema amoroso, ma con una visione più spiritualizzata della donna e un’analisi più attenta dell’interiorità dell’amante
Amore; temi politici
Ribaltamento dei modelli della poesia elevata; temi legati alle realtà quotidiane
SCUoLA SICILIAnA
Periodo
Stile
Temi
Ripresa dei procedimenti stilistici provenzali
Amor cortese
facciamo il punto 1. Quali sono i presupposti storici, sociali e culturali che concorrono alla nascita della lirica in volgare? 2. Quale concezione dell’amore è possibile riconoscere nei componimenti dei poeti della scuola siciliana? 3. Quali differenze e quali analogie rintracci tra la scuola siciliana e i rimatori toscani di transizione? 4. Quali caratteristiche contraddistinguono la figura femminile nell’esperienza del «dolce stil novo»? 5. Nei testi di Guido Cavalcanti l’attenzione si concentra maggiormente sulla descrizione dei sentimenti
del poeta-amante o sulla lode della donna amata? Dimostra la tua affermazione attraverso precisi riferimenti ai testi antologizzati. 6. Quali caratteristiche presenta la lingua usata dai poeti della tradizione comico-realistica e popolare?
181
L’età comunale in Italia
In sintesi
LA poeSIA DeLL’eTà CoMUnALe Verifica interattiva
VoLGArI e GenerI LeTTerArI In Italia, la produzione letteraria in volgare, nata nel Duecento, è caratterizzata da un policentrismo linguistico che si accompagna al policentrismo politico; in assenza di una lingua nazionale unitaria, ciascun centro geografico utilizza infatti un proprio idioma. In Sicilia nasce la poesia lirica, che poi si diffonde sull’asse Bologna-Toscana; nella medesima area si sviluppa la prosa, mentre la poesia comico-parodica e quella allegorica sono fenomeni prettamente toscani; la poesia religiosa ha il suo centro d’irradiazione in Umbria.
Le orIGInI DeLLA poeSIA LIrICA: LA SCUoLA SICILIAnA
GUIDo GUInIzzeLLI e IL TeMA DeLLA “GenTILezzA” Precursore del «dolce stil novo» è il bolognese Guido Guinizzelli (1235 ca. - 1276), autore della canzone “manifesto” della nuova tendenza, Al cor gentil rempaira sempre amore. Il tema del componimento è quello della “gentilezza” (nobiltà), intesa come qualità personale legata non alla nascita, ma all’intelligenza e alla cultura: solo chi possiede queste qualità può “amare”, vale a dire essere poeta d’amore. La canzone dà dunque voce all’aspirazione dei ceti emergenti comunali a presentarsi come nuova “aristocrazia” fondata sulla superiorità culturale.
GUIDo CAVALCAnTI
Mentre nel Nord d’Italia si sviluppa una produzione lirica in lingua d’oc, i poeti attivi presso la corte di Federico II (1230-50), utilizzano il loro idioma locale, seppur depurato e nobilitato, creando così la prima poesia d’arte in volgare italiano. I siciliani riprendono i procedimenti stilistici e le forme metriche dei modelli provenzali, concentrandosi esclusivamente sulla tematica amorosa, trattata secondo i canoni dell’ideale cortese. La fisionomia di questi intellettuali configura la loro poesia come raffinato passatempo aristocratico. Il maggior esponente della scuola siciliana è Iacopo da Lentini (1210 ca. - 1260 ca.), cui si deve probabilmente l’invenzione del sonetto.
Insieme con Dante, figura di spicco dello Stilnovismo è il fiorentino Guido Cavalcanti (1250 ca. - 1300). La sua poetica si caratterizza per la sapiente costruzione tecnica e per la complessità concettuale. Tema ricorrente nella produzione cavalcantiana è l’analisi degli effetti sconvolgenti che l’amore, forza terribile e oscura, produce sull’amante, mentre la donna resta lontana e irraggiungibile.
LA SCUoLA ToSCAnA
LA poeSIA popoLAre e GIULLAreSCA
Con la caduta della monarchia sveva (1266), l’eredità della scuola siciliana viene raccolta dai poeti toscani, che ne riprendono i principali aspetti utilizzando tuttavia la propria lingua e affiancando la tematica civile e morale a quella amorosa. Il poeta più significativo di questa tendenza è Guittone d’Arezzo (1235 ca. 1294), le cui Rime si caratterizzano per l’ispirazione politica, oltre che per la tematica amorosa e religiosa. A livello formale la sua poesia presenta uno stile arduo e complesso.
IL «DoLCe STIL noVo» A Firenze, negli ultimi decenni del secolo, un gruppo di poeti si allontana dalle precedenti esperienze poetiche, dando vita a una nuova tendenza, definita da Dante «dolce stil novo» (Purgatorio, XXIV, v. 57). A livello formale, tali poeti si distinguono dai loro predecessori per l’adozione di uno stile più limpido e piano; al livello dei contenuti, si afferma una visione più spiritualizzata della donna, esaltata come dispensatrice di salvezza, e si approfondisce l’analisi degli effetti che l’amore produce sull’interiorità dell’amante.
182
LA poeSIA GoLIArDICA Ai clerici vagantes si deve la nascita e la diffusione della poesia goliardica, che canta in latino i piaceri terreni, fondendo tradizione letteraria classica e nuovi generi volgari. I testi più significativi di questa produzione sono i Carmina burana (XIII secolo). Parallelamente alla lirica “alta” fiorisce in Italia, come nel resto d’Europa, una poesia popolare, destinata alla fruizione orale in occasione di feste e intrattenimenti. La sua produzione e la diffusione avvengono a opera di giullari che utilizzano un linguaggio popolare, adatto al pubblico di modesta cultura cui si rivolgono. I temi sono gli stessi della tradizione cortese trattati tuttavia in chiave “leggera” e scanzonata, non di rado parodica.
LA poeSIA CoMICo-pAroDICA Il rifiuto delle convenzioni della lirica “alta” caratterizza anche la poesia comica, così definita per l’uso di uno stile volutamente “basso”: essa tratta temi legati alla realtà quotidiana, indugiando spesso su situazioni volgari e rovesciando parodicamente i valori della tradizione cortese. Apparentemente popolare, la produzione comico-parodica (detta anche comico-realistica) è in realtà frutto di un’operazione squisitamente letteraria, un “gioco” colto che si rifà alla tradizione goliardica dei clerici vagantes. Il suo principale esponente è il senese Cecco Angiolieri (1260 ca. - 1313 ca.), che esalta nelle sue poesie uno stile di vita sregolato e anticonformistico.
PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
T15
Guido Cavalcanti
Noi siàn le triste penne isbigotite In questo sonetto di Cavalcanti gli strumenti per la scrittura si animano e prendono la parola in prima persona rivolgendosi ai lettori.
4
Noi siàn1 le triste penne2 isbigotite, le cesoiuzze e ’l coltellin dolente, ch’avemo scritte dolorosamente quelle parole che vo’ avete udite.
8
Or vi diciàn perché noi siàn partite e siàn venute a voi qui di presente3: la man che ci movea4 dice che sente cose dubbiose5 nel core apparite6;
11
le quali hanno destrutto sì7 costui ed hannol posto sì presso8 a la morte, ch’altro non n’è rimaso9 che sospiri.
14
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte che non sdegn[i]ate di tenerci noi10, tanto ch’ un poco di pietà vi miri11.
1. siàn: siamo. 2. penne: penne d’oca per scrivere; strumenti antichi per la scrittura sono anche le cesoiuzze (piccole forbici utilizzate per appuntire le penne) e il coltellin (per raschiare macchie d’inchiostro o segni di scrittura). 3. di presente: adesso, in questo momento. 4. ci movea: ci muoveva, ci guidava nella scrittura. 5. dubbiose: incerte, confuse, e quindi tali da impaurire. 6. apparite: apparse, manifestatesi. 7. hanno destrutto sì: hanno a tal punto distrutto. 8. hannol … presso: lo hanno condotto così vicino. 9. rimaso: rimasto. 10. tenerci noi: conservarci, tenerci presso di voi, come cosa cara (il noi è un rafforzativo pleonastico). 11. tanto … miri: «finché vi guardi un poco di pietà» (Contini).
COMPRENSIONE E ANALISI
> 1. Il sonetto si può dividere in tre parti distinte: versi 1-4, versi 5-11, versi 12-14. Sintetizza il contenuto di ogni parte e poi assegna a ciascuna di esse un titolo appropriato.
> 2. Che cosa si deve intendere per «quelle parole» al verso 4?
> 3. Perché le «penne», «le cesoiuzze e ’l coltellin» si sono allontanati dal poeta? > 4. Quale procedimento retorico si può individuare nell’uso dei diminutivi-vezzeggiativi del verso 2, da mettere in relazione con il contenuto dell’ultima terzina?
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti.
GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dal sonetto di Cavalcanti, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: la particolarità nello schema delle rime, che presentano in rilievo due precisi termini; la valenza e il significato del termine «sospiri» (v. 11), in un confronto con il sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core; il tema dell’ineffabilità, declinato nel componimento in modo del tutto originale. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo. Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: la frammentazione dell’identità nella poesia cavalcantiana; la “fenomenologia” dell’amore nella lirica del XIII secolo; la trasformazione della scrittura e dei suoi strumenti: dai pittogrammi all’alfabeto alle emoticons, dalla penna d’oca alla biro e alla tastiera del computer. Evoluzione o involuzione?
183
Capitolo 3
La prosa dell’età comunale
La prosa e la divulgazione
Espressione di valori e realtà nuovi
1 Caratteristiche del Novellino Personaggi e temi
Testi Anonimo • Qui conta come Narcis s’innamorò de l’ombra sua • Qui conta della reina Isotta e di messere Tristano di Leonis dal Novellino
La novella
184
La nota dominante della cultura dell’età comunale è l’intento didascalico, la volontà di fornire ammaestramenti non solo in campo morale e religioso, ma anche in quello della vita civile, del comportamento sociale, della diffusione di conoscenze scientifiche. Tutto ciò ci dà il senso del fervore culturale della vita dei Comuni, in cui nuovi ceti sociali salgono alla ribalta della storia, avidi di impadronirsi di quella cultura che era stata per secoli monopolio dei chierici. È particolarmente la prosa volgare, che compare solo nella seconda metà del Duecento, a fornirci il quadro di questo vasto processo di assimilazione culturale, da cui traspaiono con chiarezza i valori e la visione della realtà che la nuova civiltà andava elaborando. I testi in prosa prevalentemente hanno lo scopo di diffondere conoscenze; troviamo allora opere di retorica, di divulgazione scientifico-enciclopedica, di semplice narrazione come gli exempla ( Il Medioevo latino, Il contesto, p. 12), gli aneddoti, le novelle, le opere ancora legate al ciclo cavalleresco, i libri di viaggi, le cronache legate agli avvenimenti storici.
Le raccolte di aneddoti: il Novellino Nel corso del Duecento compaiono raccolte di aneddoti indirizzati all’edificazione morale, all’insegnamento di comportamenti sociali, all’arte di ben vivere e di ben parlare: il Fiore e vita de’ filosafi, il Libro dei sette savi. La più famosa di queste compilazioni è il Novellino ( T1, T2 e T3, pp. 185, 187 e 188). Si tratta di una raccolta di racconti in volgare, risalente alla fine del Duecento, di autore fiorentino rimasto anonimo. Ce ne sono pervenute diverse redazioni, nessuna delle quali però è il testo originario. I racconti talora sono brevissimi e schematici ed offrono semplicemente un repertorio di spunti destinati ad essere ampliati in una narrazione orale, talora invece si distendono in più ampie strutture narrative. I personaggi sono tratti dalla storia biblica, da quella greco-romana o medievale, e sono in genere personaggi illustri, imperatori, re, governanti, o filosofi e sapienti, oppure sono personaggi del mito classico o delle leggende bretoni. Diversi sono gli argomenti, che vanno dall’esempio morale o di comportamento profano al motto arguto, alla beffa. Gli intenti dell’opera sono esposti nel proemio: l’autore vuole fornire modelli di comportamento cortese ai ceti borghesi. Questo conferma come gran parte della letteratura di questa età risponda al bisogno di assimilazione, da parte degli strati sociali emergenti del Comune, del patrimonio di valori della civiltà feudale e cavalleresca. Il Novellino appartiene ancora ai generi medievali dell’exemplum e dell’aneddoto, ma nell’opera si va delineando un nuovo genere narrativo, la novella, in quanto all’intento
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
esemplare si affianca il gusto del narrare storie, al fine di intrattenere piacevolmente l’uditore o il lettore. I testi del Novellino tendono a liberarsi da ogni schema moralistico o pedagogico prefissato e si tramutano in osservazione più viva e immediata della realtà, sorretta da un puro gusto del narrare fine a se stesso ( La novella, p. 190).
T1
Anonimo
Il proemio dal Novellino La prefazione al Novellino è un documento importante, in quanto afferma, per la prima volta, la consapevolezza critica che l’autore dell’opera assume nei confronti del genere letterario.
Questo libro tratta d’alquanti fiori1 di parlare, di belle cortesie2 e di be’ risposi3 e di belle valentie4 e doni, secondo che per lo5 tempo passato hanno fatti6 molti valenti uomini.
5
10
15
20
Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente7 con noi, infra8 l’altre sue parole, ne9 disse che dell’abondanza del cuore parla la lingua10. Voi ch’avete i cuori gentili e nobili infra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio11, parlando, onorando e temendo e laudando12 quel Signore nostro che n’amò prima che elli ne criasse13, e prima che noi medesimi ce amassimo. E [se] in alcuna parte14, non dispiacendo a lui, si può parlare, per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare15, facciasi con più onestade e [con] più cortesia che fare si puote. E acciò che16 li nobili e gentili sono nel parlare e ne l’opere quasi com’uno specchio appo i minori17, acciò che il loro parlare è più gradito18, però ch’esce di più dilicato stormento19, facciamo qui memoria20 d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori21, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti22. E chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile sì l[i] potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi23, e argomentare e dire e raccontare24 in quelle parti dove avranno luogo25, a prode e a piacere26 di coloro che non sanno e disiderano di sapere. E se i fiori che proporremo fossero misciati intra27 molte altre parole, non vi dispiaccia; ché […] per 28 un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino. Non gravi a’ leggitori29: ché sono stati molti, che sono vivuti30 grande lunghezza di tempo, e in vita hanno loro appena tratto uno bel parlare, od alcuna cosa da mettere in conto fra i buoni31.
1. fiori: esempi scelti (di qui il termine “florilegio”, raccolta di passi ed esempi significativi). 2. cortesie: magnanimità e liberalità proprie dell’ambiente e dell’ideologia cortese. 3. risposi: risposte. 4. valentie: atti di coraggio e nobiltà. 5. secondo che per lo: così come nel. 6. fatti: fatto. 7. umanamente: in quanto uomo. 8. infra: fra. 9. ne: a noi. 10. dell’abondanza … lingua: la lingua parla di quello che c’è in abbondanza nel cuo re; vedi Luca, VI, 45: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore». 11. acconciate … Dio: adattate nel parlare le vostre menti e le vostre parole affinché piac ciano a Dio.
12. onorando e temendo e laudando: si riferiscono a parlando: parlate in modo da onorare, rispettare e lodare. 13. n’amò … criasse: ci amò prima ancora di averci creato. 14. in alcuna parte: in qualche caso. 15. sovenire e sostentare: soccorrere e so stenere (il corpo). 16. acciò che: poiché. 17. com’uno specchio … i minori: come un modello per le persone meno nobili e colte. 18. gradito: gradevole. 19. però … stormento: in quanto esce da uno strumento più delicato (è detto da persone più raffinate). 20. facciamo qui memoria: ricordiamo qui. 21. fiori di parlare … belli amori: di alcuni esempi scelti, di bei nobili comportamenti (caratterizzati da magnanimità e liberalità) e di belle risposte e di atti di coraggio e di nobiltà, di bei doni e di begli amori.
22. secondo … molti: così come nei tempi passati molti hanno fatto. 23. sì l[i] potrà … innanzi: li potrà bene imi tare in futuro. 24. argomentare … raccontare: (li potrà usare) come argomenti di persuasione, usare alcuni modi di dire come fossero propri, raccontarli. L’autore parla qui dei tre modi del racconto. 25. in quelle parti … luogo: in quelle circo stanze in cui siano opportune. 26. a prode e a piacere: in favore e per il di vertimento. 27. misciati intra: mischiati tra. 28. per: per la presenza di. 29. Non gravi a’ leggitori: non sia sgradito ai lettori. 30. ché … vivuti: poiché sono molti coloro che sono vissuti. 31. hanno … buoni: sono a mala pena riu sciti a pronunciare una bella risposta o a com piere un’azione notevole.
185
L’età comunale in Italia
Analisi del testo
Microsaggio Il testo narrativo
> Il genere e il pubblico
Importanza della parola
Il pubblico di «gentili e nobili»
Divulgazione del Novellino
Analogie con il racconto orale
Contenuti delle novelle Concezione del mondo cortese
186
Chi scrive questa pagina è consapevole di attribuire alla novella una precisa dignità letteraria, a partire dal solenne riferimento all’autorità di Cristo, che si appoggia sul Vangelo di Luca («Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava…», r. 3). Cristo stesso ha sostenuto il valore della parola, che esprime la ricchezza del cuore, l’umanità dei sentimenti e l’intelligenza del pensiero; un’esigenza che, nella mente divina, sembra precedere la creazione, collocandosi quindi all’origine dei bisogni dell’uomo. Dopo queste premesse, il discorso acquista via via un più rilevante significato sul piano della storia e, soprattutto, della contemporaneità. La parola come compimento e ornamento del disegno divino («acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio», r. 5) è rivolta a coloro che hanno «i cuori gentili e nobili infra li altri» (rr. 4-5). Le caratteristiche non sono diverse, per certi aspetti, da quelle che contraddistinguono anche l’esperienza dello «stil novo». Se si considera che il Novellino è stato composto a Firenze negli ultimi decenni del Duecento, è possibile ipotizzare che il pubblico al quale lo scrittore si rivolge sia il pubblico della società comunale, identificato nei suoi elementi culturalmente più preparati. Resta, tuttavia, una differenza di fondo, che va individuata nella scelta del genere e dei relativi strumenti linguistico-espressivi: la lirica da un lato e la novella dall’altro. Gli stilnovisti si rivolgono a un’élite piuttosto ristretta, avendo alle spalle una consolidata tradizione letteraria. Il Novellino, che si propone per la prima volta di raccogliere un materiale già esistente, ma sparso e non ancora giunto a maturazione artistica, si rivolge invece ad un pubblico più ampio, con lo scopo di dilettare, di «rallegrare il corpo e sovenire e sostentare» (r. 8). «Li nobili e gentili», che costituiscono i destinatari privilegiati della narrazione, svolgono un compito di mediazione e di esempio: quello di essere «nel parlare e ne l’opere quasi com’uno specchio appo i minori» (rr. 9-10), soprattutto «a prode e a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere» (rr. 15-16). Viene qui enunciato un vero e proprio programma di divulgazione, che fa della prosa lo strumento privilegiato della diffusione di modelli di comportamento cortese presso i ceti borghesi, confermando il bisogno di assimilazione dei valori della civiltà feudale da parte degli strati sociali emergenti del Comune.
> Lo stile e i temi
La novella, come risulta anche da questa pagina, dipende strettamente dal racconto orale: di qui derivano certe sue caratteristiche, come la brevità, la linearità, il riferimento a fatti che, anche quando possono apparire fantastici, si fingono realmente accaduti. Ma soprattutto il passaggio alla redazione scritta richiede il conseguimento di una nuova dignità letteraria. Una fondamentale importanza assumono allora le norme della retorica, quando si precisa che il «parlare è più gradito, però ch’esce di più dilicato stormento» (rr. 10-11). A questi princìpi si adeguano anche i contenuti delle novelle, indicati in una sequenza enumerativa che inizia con i «fiori di parlare», e prosegue con «belle cortesie», «belli risposi», «belle valentie», «belli donari» e «belli amori». È una prima codificazione di temi novellistici, che appare ancora limitata e parziale, in quanto si riferisce esclusivamente ai nobili valori di una concezione del mondo cortese. Non si fa cenno, ad esempio, al motivo della beffa, che, pur presente nella raccolta (e fondamentale per tutta l’esperienza novellistica), avrebbe comportato un abbassamento di tono, in una presentazione preoccupata di fornire una giustificazione elevata all’intera operazione letteraria. La quale, mentre si presenta come una novità nell’ambito della cultura italiana, intende pure richiamarsi al passato, come summa di una tradizione precedente («secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti», rr. 12-13). Sotto questo aspetto il Novellino chiude un’epoca, ma risulta anche aperto verso il futuro (si pensa, è ovvio, a Boccaccio), proponendosi come un libro-cerniera nello sviluppo di questo genere letterario.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Quale modello di vita il narratore propone al suo pubblico? > 2. Chi sono «coloro che non sanno e disiderano di sapere» (rr. 15-16)? AnALIzzAre
> 3.
narratologia Delinea, con precisi riferimenti al testo, il rapporto che l’autore intende instaurare direttamente con il pubblico. > 4. Stile Sono presenti nel testo paragoni ispirati al mondo naturale? Se sì, quali? > 5. Lessico Individua nel testo i vocaboli e/o le espressioni che fanno riferimento alle facoltà sentimentali e razionali dell’uomo. > 6. Lingua Perché, a tuo parere, l’autore scrive il Proemio adottando la prima persona plurale?
ApprofondIre e InterpretAre
> 7.
testi a confronto: scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) metti a confronto il concetto di gentilezza del cuore emerso dal brano con quello presente nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizzelli ( cap. 2, T6, p. 152), e delinea eventuali analogie e differenze.
T2
Anonimo
temi chiave
della grande limosina che fece un tavoliere per dio
• un banchiere presentato come nuovo san Francesco
dal Novellino, XVII È il racconto più breve del Novellino.
Della grande limosina1 che fece un tavoliere2 per Dio Piero tavoliere fu grande uomo d’avere3, e venne4 tanto misericordioso che ’mprima5 tutto l’avere dispese6 a’ poveri per7 Dio, e poi, quando tutto ebbe dato, ed elli8 si fece vendere, e ’l prezzo diede a’ poveri tutto. 1. limosina: elemosina. 2. tavoliere: banchiere. 3. grande … d’avere: uomo molto ricco.
4. venne: diventò. 5. ’mprima: dapprima. 6. dispese: distribuì.
7. per: nel nome di, per onore di. 8. ed elli: anch’egli.
Analisi del testo Genesi orale della novella
La tematica religiosa
Siamo qui ai livelli minimi di elaborazione narrativa della novella. È come se il narratore volesse semplicemente offrire uno spunto per il racconto, da elaborare poi a voce, da parte del lettore, in maniera autonoma. In questo senso si può dire che queste semplici indicazioni confermino la genesi orale della novella, nata come un tipico genere d’ascolto, prima ancora di essere tramandata attraverso la scrittura. L’estrema concisione del testo potrebbe forse avvalorare l’ipotesi che la tematica religiosa in essa presente fosse oramai, nell’età comunale, meno sentita, e che potesse anche sembrare anacronistico il fatto che un «tavoliere» venisse presentato come un nuovo san Francesco. Da un lato veniva perdendo significato e vigore, nella società borghese mercantile, la polemica religiosa nei confronti del denaro e dell’usura, di cui i banchieri venivano accusati. Ma è anche vero che molti borghesi arricchiti, quasi sentendosi in colpa, per testamento lasciavano parte dei loro beni in eredità alla Chiesa. 187
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Spiega la formulazione del titolo attraverso quanto narrato nel testo. AnALIzzAre
> 2. > 3.
Individua le ripetizioni presenti nel testo e spiegane l’efficacia rispetto alla brevità della narrazione. Quale significato assume l’espressione «si fece vendere» rispetto ad altra eventuale forma con lo stesso significato (ad esempio “si vendette”)? > 4. Lingua Perché le forme verbali presentano tempi coniugati al passato o al trapassato remoto? Nel rispondere, considera la frequenza, nel testo, delle proposizioni temporali. Stile
Lessico
ApprofondIre e InterpretAre
> 5. esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) confronta il personaggio del banchiere, frutto di invenzione, con quello, storicamente accreditato, di san Francesco d’Assisi ( cap. 1, A1, p. 98): quali analogie presenta la loro scelta di vita? SCrItturA CreAtIvA
> 6. Prendendo come spunto il racconto, riscrivi in circa 20 righe (1000 caratteri) la vicenda in modo più ampio e articolato, ricorrendo all’invenzione di esperienze verosimili ricavate dallo studio del contesto dell’età comunale ( pp. 78 e ss.).
T3
Anonimo
temi chiave
Come il soldano volle coglier cagione a un giudeo
• l’importanza della parola • la giustizia • la libertà di scelta religiosa
dal Novellino, LXXIII L’interesse del breve racconto consiste nell’intelligenza e nell’efficacia della risposta.
Come il soldano1, avendo bisogno di moneta2, volle coglier cagione a3 un giudeo.
5
10
Il soldano, avendo bisogno di moneta, fo consigliato che cogliesse cagione a un ricco giudeo4, ch’era in sua terra5, e poi gli togliesse il mobile6 suo, ch’era grande oltre numero7. Il soldano mandò per8 questo giudeo, e domandolli qual fosse la migliore fede9, pensando: – S’elli dirà la giudea, io dirò ch’elli pecca contra la mia. E se dirà la saracina10, e io dirò: dunque, perché tieni11 la giudea? – El giudeo, udendo la domanda del signore, rispuose: – Messere, elli fu12 un padre ch’avea tre figliuoli, e avea un suo anello con una pietra preziosa la miglior del mondo. Ciascuno di costoro pregava il padre ch’alla sua fine li13 lasciasse questo anello. El padre, vedendo che catuno14 il voleva, mandò per un fine orafo, e disse: – Maestro, fammi due anella così a punto come15 questo, e metti in ciascuno una pietra che somigli questa –. Lo maestro fece l’anella così a punto,
1. il soldano: è il protagonista di alcuni racconti del Novellino. Corrisponde alla figura storica, qui ovviamente idealizzata, di Saladino (1138-93), sultano dell’Egitto e della Siria, che conquistò Gerusalemme e fu poi sconfitto da Riccardo Cuor di Leone. 2. moneta: denaro. 3. coglier cagione a: «accusare pretestuosamente» (Contini).
188
4. giudeo: ebreo (dal nome della tribù di Giuda, la più popolosa e importante fra le dodici tribù d’Israele). 5. terra: città, stato. 6. il mobile: «il denaro liquido» (Conte). 7. oltre numero: oltre misura. 8. mandò per: mandò a chiamare, fece venire. 9. fede: religione. 10. la saracina: la religione saracena, mus
sulmana. 11. tieni: professi, segui. 12. elli fu: ci fu. 13. li: gli. 14. catuno: ciascuno. 15. così … come: esattamente come, perfet tamente uguali a.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
15
che niuno conoscea il fine16, altro che17 ’l padre. Mandò per li figliuoli ad uno ad uno, e a catuno diede il suo in secretto18. E catuno si credea avere il fine, e niuno ne sapea il vero19 altri che ’l padre loro. E così ti dico ch’è delle fedi, che sono tre20. Il Padre di sopra21 sa la migliore; e li figliuoli, ciò siamo22 noi, ciascuno si crede avere la buona –. Allora il soldano, udendo costui cosie riscuotersi23, non seppe che si dire di24 coglierli cagioni, sì25 lo lasciò andare.
16. il fine: quello vero. 17.altro che: eccetto (come, più avanti, altri che). 18. secretto: segreto. 19. il vero: la verità.
20. tre: alle religioni ebraica e mussulmana, prima ricordate, si aggiunge qui la cristiana. 21. Il Padre di sopra: Dio. 22. ciò siamo: che siamo, cioè.
23. cosie riscuotersi: così trarsi d’impaccio, cavarsela in questo modo. 24. che si dire di: cosa dire, come fare per. 25. sì: e così, quindi.
Analisi del testo La ripresa da parte di Boccaccio
Struttura paratattica e racconto nel racconto
L’interesse per la parola
L’atteggiamento laico
L’interesse del testo è dovuto anche al fatto che Boccaccio ne prenderà lo spunto per la novella terza della prima giornata del Decameron, che ha come protagonista Melchisedech giudeo ( cap. 6, T5, p. 540), ma non mancano di questo racconto altre attestazioni duecentesche. Vedremo poi, più nei dettagli, le differenze nella conduzione boccacciana del racconto, soprattutto per quanto riguarda il “discorso”; differenze che rientrano nell’evoluzione del genere letterario della novella, che nel Decameron raggiungerà il suo momento più alto. Qui, nel Novellino, predomina ancora una struttura sintattica piuttosto semplice, con collegamenti paratattici e un uso limitato delle subordinazioni; il che favorisce, grazie anche all’inserzione di parti del discorso diretto (la prima si riferisce al pensiero, le altre alle parole pronunciate), l’andamento sciolto e vivace della narrazione. Da segnalare ancora l’abile uso di una tecnica particolare, quella del “racconto nel racconto”: in questa pur breve narrazione ci sono due racconti: il primo è riferito al narratore di primo grado; il secondo si riferisce al narratore di secondo grado, il «ricco giudeo». Per quanto riguarda il programma del proemio (i «fiori di parlare», i «belli risposi»), si nota l’interesse per la parola, che prende forma nella risposta sottile e intelligente, che – coincidendo con un sintetico aneddoto – spiazza l’avversario, ribaltando il ruolo dei personaggi e impedendo di commettere un sopruso (il motivo della giustizia ricorre spesso nel Novellino e corrisponde a un modo nuovo, più democratico, di considerare i rapporti sociali e umani). Una tendenza laica e più aperta si può ravvisare nell’impostazione del problema religioso, che rifiuta il dogmatismo a favore di una più libera scelta individuale. Al tempo stesso una nuova mentalità, pragmatica e concreta, si propone di rimanere aderente alla realtà delle cose, senza avventurarsi in speculazioni metafisiche, senza indagare e giudicare quelle verità assolute che solo un essere superiore potrebbe conoscere.
Giotto di Bondone, Il Sultano, 1325 ca., affresco dalla Prova del fuoco davanti al Sultano, part., Firenze, Basilica di Santa Croce, Cappella Bardi.
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L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Scrivi un sommario in cui sia sintetizzata la seconda parte dell’aneddoto. AnALIzzAre
> 2.
narratologia Come si configura, nel carattere appena tratteggiato della breve narrazione, il personaggio del soldano? > 3. narratologia Rispetto alla precisione con cui vengono indicati i protagonisti della narrazione di primo grado, quali caratteristiche presenta il “racconto nel racconto”? Motiva la tua risposta. > 4. Stile Individui una valenza simbolica nella figura del padre di famiglia protagonista della narrazione di secondo grado? Se sì, perché? > 5. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni fanno riferimento alla ricchezza del giudeo? Sono presenti nel testo, invece, termini riferiti alla sua intelligenza e alla sua prontezza verbale?
ApprofondIre e InterpretAre
> 6.
Contesto: storia Delinea il contesto storico cui fa riferimento la questione religiosa posta dalla novella: quali eventi avevano compromesso nel Mediterraneo l’equilibrio fra popoli di diverso credo religioso?
2
La novella Le fonti della novella medievale Abbiamo fatto rientrare il Novellino nel genere medievale dell’exemplum e dell’aneddoto; ma nell’opera si va delineando un nuovo genere narrativo, la novella, che assumerà poi la sua forma più compiuta (ed anche il nome) nel secolo successivo, con il Decameron di Boccaccio, ed è un genere destinato a lunga fortuna e a numerose metamorfosi sino ai giorni nostri. Nel genere della novella, quale è fissato dal capolavoro boccacciano, viene a confluire, oltre agli exempla dell’agiografia ( Il Medioevo latino, Il contesto, p. 12) e della predicazione religiosa e a quelli della cultura laica e profana, una vasta e disparata serie di fonti provenienti dalla cultura folklorica orale (motti, facezie, proverbi, parabole, favole, apologhi, sentenze), i fabliaux francesi ( L’età cortese, cap. 1, p. 57), la novellistica araba e orientale, il romanzo cavalleresco, il romanzo avventuroso e amoroso ellenistico, la storiografia, la tradizione orale dei racconti popolari e quella tipicamente cittadina del narrare per passatempo in liete brigate. Però, pur assorbendo in sé questa massa di materiali, la novella si distingue da essi, assumendo forme specifiche.
Le principali caratteristiche del genere Novella e fabliaux
Il pubblico
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Dai fabliaux ad esempio deriva la componente “comica”, lo spirito salace e mordace, spesso irriverente e spregiudicato, se non addirittura osceno, con lo stile basso e gli effetti di riso che ne derivano. Rispetto ai fabliaux, tuttavia, la novella sceglie decisamente la prosa, come mezzo stilistico più adatto ad esprimere una visione duttile e aperta alla realtà, capace di assecondare il movimento naturale del racconto. Muta anche la fisionomia del pubblico, che non è più l’ascoltatore delle piazze, ma il lettore cittadino, non privo di cultura. Questa destinazione non solo alla diffusione orale, ma anche alla lettura, come fatto individuale o privato, verrà acutamente individuata da Boccaccio.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale L’osservazione della realtà e il gusto del narrare
L’ambiente
I personaggi individualizzati
La visione laica
Franco Sacchetti
A1
La novella si distingue nettamente anche dall’exemplum religioso e dall’aneddoto profano, da cui pur spesso deriva i materiali. Caratteristica dell’exemplum era la riduzione dei personaggi a tipi astratti, incarnazioni esemplari di vizi e virtù, e la subordinazione totale della vicenda ad uno schema morale predeterminato, a fini di ammaestramento (non importa se religioso e profano). Come si può cogliere embrionalmente già nel Novellino, la novella si libera da ogni schema moralistico per tramutarsi in osservazione viva della realtà, sorretta dal gusto del narrare fine a se stesso. Con l’evolversi poi del genere, nel Decameron il racconto si caratterizza in senso realistico, come imitazione del vissuto. L’ambiente non è più uno sfondo convenzionale, indeterminato e astratto, semplice cornice esteriore del fatto esemplare, ma viene colto nelle sue specifiche coordinate di spazio e di tempo, e coincide con un luogo preciso e identificabile concretamente, collocato in un tempo storicamente individuabile: ad esempio la Firenze due e trecentesca di tante novelle del Decameron, o la Napoli di Andreuccio da Perugia ( cap. 6, T7, p. 551). Gli ambienti sono socialmente ben riconoscibili nei valori e nelle consuetudini che regolano i comportamenti: si pensi alla pittura degli ambienti mercantili nelle novelle boccacciane, quale quella di ser Ciappelletto ( cap. 6, T4, p. 526), o di ambienti signorili, come in quella di Federigo degli Alberighi ( cap. 6, T11, p. 594), e popolari. Anche i personaggi non sono più incarnazioni astratte di vizi e virtù, ma raggiungono una spiccata identità personale, una fisionomia più ricca, complessa e sfumata. Le parole e i comportamenti dei personaggi consentono di ricostruire una psicologia individualmente caratterizzata, da cui, anche attraverso l’analisi dei pensieri e degli stati d’animo, si può comprendere la visione della realtà che ne determina le azioni. Tutto ciò presuppone una diversa visione della realtà, ormai decisamente laica. La realtà non appare più come il prodotto di un piano provvidenziale, ma come effetto del libero agire dell’uomo, che si scontra con alterni esiti con il capriccio della Fortuna, entità impersonale e casuale. In questa nuova struttura possono venire assorbiti tutti quei vari materiali che costituiscono le fonti della novella, romanzeschi, folklorici, fiabeschi, insieme ai motti arguti e agli esempi di comportamento: tutti questi elementi vengono ad integrarsi nell’immagine di un mondo infinitamente vario, complesso e sfaccettato. Tutte queste caratteristiche del genere “novella” troveranno perfetta realizzazione nelle novelle di Boccaccio, come vedremo nel capitolo a lui dedicato. Il modello di Boccaccio esercitò grande influenza nei secoli successivi, generando una lunga serie di imitatori. La lezione boccacciana è subito ripresa nello stesso Trecento. La si coglie nell’opera di Franco Sacchetti ( A1), autore del Trecentonovelle, che pure ha tratti fortemente originali.
franco Sacchetti La vita Franco Sacchetti nacque a Ragusa (oggi Dubrovnik), in Dalmazia, intorno al 1330. Discendente da un’antica famiglia fiorentina dedita all’attività finanziaria ed ai commerci fu anch’egli mercante e uomo politico. Il Comune di Firenze gli affidò molteplici incarichi di carattere diplomatico in diverse zone della penisola. I viaggi, determinati dalla «ragion di mercatura» e dall’attività politica, furono essenziali anche dal punto di vista della formazione letteraria dell’autore. Il contatto con realtà culturali, umane e linguistiche diverse fornì allo scrittore nuovi spunti e ne accrebbe la varietà linguistica. Gli anni cruciali della sua vicenda umana ed artistica furono comunque il
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L’età comunale in Italia
1378 ed il 1379, che videro l’instaurazione del governo popolare dei Ciompi e la condanna a morte per cospirazione contro la Repubblica del fratello di Sacchetti, Giannozzo, anch’egli poeta. Ripresa in seguito l’attività pubblica, morì a Firenze nel 1400. Il prodotto, in termini letterari, di questi drammatici avvenimenti, che portarono a maturare nel Sacchetti una nuova riflessione sulla vita umana, sono innanzitutto alcune Rime di forte impronta morale. Tra il 1378 ed il 1381 egli redasse, inoltre, le Sposizioni di Vangeli, scritti nei quali gli spunti di carattere morale e spirituale si intrecciano ad una vivace vena narrativa che prelude, per certi aspetti, al Trecentonovelle. È questa la più importante raccolta novellistica – pervenutaci incompleta – dopo il Decameron. Rispetto al modello boccacciano, Sacchetti rifiuta l’artificio della cornice, come collegamento fra le diverse novelle. I racconti del Trecentonovelle, composti per la maggior parte fra il 1392 e il 1396, si susseguono indipendentemente fra di loro, senza essere coordinati in un disegno unitario. Significativa la presenza dell’“io” dell’autore, chiamata spesso a confermare la veridicità del racconto. La volontà di intervento del narratore si manifesta poi soprattutto nella conclusione delle novelle, in cui si ricava, dall’avvenimento narrato, un insegnamento morale. Ma si tratta di una morale spicciola, in cui prevalgono il buon senso borghese e la concretezza del mercante. Siamo lontani dalla complessa elaborazione di un progetto ideologico come quello realizzato da Boccaccio. L’interesse del Sacchetti si concentra di volta in volta sull’episodio raccontato, sulla sua varietà e singolarità, che vengono rappresentate in una prospettiva di immediatezza “realistica”, quasi visiva; a questa impostazione si adegua anche il linguaggio, particolarmente sciolto e vivace, che riprende, soprattutto nei dialoghi, espressioni e forme del parlato. Le opere
Testi Sacchetti • Proemio dal Trecentonovelle
La struttura del Trecentonovelle
Insegnamento morale spicciolo La rappresentazione “realistica” degli episodi
T4
franco Sacchetti
temi chiave
fazio da pisa
• l’importanza del buon senso e della
dal Trecentonovelle, CLI
• la condanna della cultura astratta e
pratica
libresca
La novella rivendica la necessità di rimanere aderenti alla concretezza delle cose, senza perdersi nelle astrazioni e nei sogni.
Fazio da Pisa, volendo astrologare 1 e indovinare innanzi a molti valentri 2 uomeni, da Franco Sacchetti è confuso per molte ragioni a lui assegnate per forma che 3 non seppe mai rispondere.
5
Nella città di Genova io scrittore trovandomi già fa più anni4, essendo nella piazza de’ mercatanti in uno gran cerchio di molti savi uomeni d’ogni paese, tra’ quali era messer Giovanni dell’Agnello5 e alcuno suo consorto6 e alcuni Fiorentini confinati7 da Firenze, e Lucchesi che non poteano stare8 a Lucca, e alcuno Sanese che non potea stare in Siena, e ancora v’era certi Genovesi; quivi si cominciò a ragionare di quelle
1. astrologare: prevedere il futuro per mezzo dell’astrologia. 2. valentri: esperti, capaci. 3. è confuso ... che: è messo in imbarazzo a causa di molte questioni a lui sottoposte in modo tale che.
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4. già ... anni: parecchi anni fa (nel 1383, come si ricava dalla novella CLXXVII). 5. Giovanni dell’Agnello: doge di Pisa dal 1364 al 1368, fu cacciato dal popolo e morì nel 1387 in esilio a Genova. 6. suo consorto: della sua consorteria (rag-
gruppamento di persone unite da vincoli di parentela e da motivi di interesse economico-politico). 7. confinati: inviati al confino. 8. non ... stare: perché erano stati banditi, mandati in esilio.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
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cose che spesso vanamente pascono9 quelli che sono fuori di casa loro, cioè di novelle10, di bugie e di speranza, e in fine di astrologia; della quale sì efficacemente parlava uno uscito di Pisa che avea nome Fazio, dicendo pur che per molti segni del cielo comprendea11 che chiunque era uscito di casa sua, fra12 quello anno vi dovea tornare, allegando13 ancora che per profezia questo vedea; e io contradicendo14 che delle cose che doveano venire, né elli né altri ne potea esser certo; ed elli contrastando, parendogli essere Alfonso o Tolomeo15, deridendo verso me16, come egli avesse innanzi17 ciò che dovea venire, e io del presente non vedesse alcuna cosa. Onde io gli dissi: – Fazio, tu se’ grandissimo astronomaco18, ma in presenza di costoro rispondimi a ragione19: qual è più agevole a sapere, o le cose passate o quelle che debbono venire? Dice Fazio: – O chi nol sa? ché bene è smemorato chi non sa le cose che ha veduto adrieto; ma quelle che debbono venire non si sanno così agevolmente. E io dissi: – Or veggiamo come tu sai le passate che sono così agevoli: Deh, dimmi quello che tu facesti in cotal dì, or fa un anno. E Fazio pensa. E io seguo: – Or dimmi quello che facesti or fa sei mesi. E quelli smemora20. – Rechianla a somma21: Che tempo fu or fa tre mesi? E quelli pensa e guata22, come uno tralunato23. E io dico: – Non guatare; ove fusti tu già fa due mesi a questa ora? E quelli si viene avvolgendo24. E io il piglio per lo mantello e dico: – Sta’ fermo, guardami un poco: Qual navilio ci giunse già fa un mese? e quale si partì? Eccoti costui quasi un uomo balordo25. E io allora dico: – Che guati? mangiasti tu in casa tua o in casa altrui oggi fa quindici dì? E quelli dice: – Aspetta un poco. E io dico: – Che aspetta? io non voglio aspettare: Che facevi tu oggi fa otto dì a quest’ora? E quelli: – Dammi un poco di rispitto26. E io dico: – Che rispitto si de’ dare a chi sa ciò che dee venire? Che mangiasti tu il quarto dì passato? E quelli dice: – Io tel dirò. – O che nol di’?27 E quelli dicea: – Tu hai gran fretta. E io rispondea: – Che fretta? di’ tosto, di’ tosto: Che mangiasti iermattina? o che nol di’?
9. vanamente pascono: nutrono senza uno scopo preciso, inutilmente. 10. novelle: intese non come genere letterario, ma nel senso più generico di “novità, notizie” (spesso false e illusorie, come viene precisato subito dopo). 11. comprendea: pensava. 12. fra: entro. 13. allegando: aggiungendo. 14. contradicendo: non infrequente è, in
Sacchetti, l’uso del gerundio al posto dell’imperfetto: lo contraddicevo affermando che. 15. Alfonso o Tolomeo: Alfonso X di Castiglia, morto nel 1284, e il celebre geografo Tolomeo (II secolo d.C.), erano allora molto noti come astronomi. 16. deridendo verso me: deridendomi. 17. innanzi: davanti agli occhi. 18. astronomaco: astronomo. 19. a ragione: in maniera ragionevole.
20. smemora: non se ne ricorda. 21. Rechianla a somma: insomma, in con clusione. 22. guata: guarda. 23. tralunato: stralunato. 24. avvolgendo: confondendo. 25. quasi ... balordo: che sembrava istupidito. 26. rispitto: tempo. 27. che nol di’?: perché non lo dici?
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E quelli quasi al tutto ammutolòe28. Veggendolo così smarrito, e io il piglio per il mantello e dico: – Diece per uno ti metto29 che tu non sai se tu se’ desto o se tu sogni. E quelli allora risponde: – Alle guagnele30, che ben mi starei, se io non sapessi che io non dormo. – E io ti dico che tu non lo sai e non lo potresti mai provare. – Come no? o non so io che io son desto? E io rispondo: – Sì ti pare a te; e anche a colui che sogna par così. – Or bene, – dice il Pisano – tu hai troppi sillogismi31 per lo capo. – Io non so che sillogismi: io ti dico le cose naturali e vere; ma tu vai drieto al vento di Mongibello32; e io ti voglio domandare d’un’altra cosa: Mangiastù33 mai delle nespole? E ’l Pisano dice: – Sì mille volte. – O tanto meglio! Quanti noccioli ha la nespola? E quelli risponde: – Non so io, ch’io non vi misi mai cura34. – E se questo non sai, ch’è sì grossa35 cosa, come saprai mai le cose del cielo? Or va’ più oltre, – diss’io: – Quant’anni se’ tu stato nella casa dove tu stai? Colui disse: – Sonvi stato sei anni e mesi. – Quante volte hai salito e sceso la scala tua? – Quando quattro, quando sei, e quando otto. – Or mi di’: Quanti scaglioni36 ha ella? Dice il Pisano: – Io te la do per vinta. Ed io gli rispondo: – Tu di’ ben vero che io l’ho vinta con ragione, e che tu e molti altri astronomachi con vostre fantasie volete astrologare e indovinare, e tutti sete più poveri che la cota37; e io ho sempre udito dire: «Chi fosse indovino sarebbe ricco». Or guarda bello indovino che tu se’, e come la ricchezza è con teco! E per certo così è, che tutti quelli che vanno tralunando38, stando la notte su’ tetti come le gatte, hanno tanto gli occhi al cielo che perdono la terra, essendo sempre poveri in canna. Or così co’ miei nuovi argomenti confusi Fazio pisano. Essendo domandato da certi valentri uomeni se le ragioni con che io avea vinto Fazio avea trovato mai in alcun libro, e io dissi che sì, che io l’avea trovate in uno libro che io portava sempre meco, che avea nome il Cerbacone39; ed eglino rimasono per contenti, facendosene gran maraviglia.
28. al tutto ammutolòe: del tutto ammutolì. 29. Diece ... metto: dieci contro uno scom metto. 30. Alle guagnele: per i Vangeli. Guagnele è un’alterazione popolare del latino Evange lia, “Vangeli”; è usato in esclamazioni di giuramento o meraviglia. 31. sillogismi: nel senso improprio di sofi smi, pensieri solo in apparenza logici, ma di fatto falsi e tendenziosi (il sillogismo era il
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tipo fondamentale del ragionamento deduttivo nella logica aristotelica). 32. vai ... Mongibello: corri dietro a cose im palpabili ed evanescenti come il vento, che sono frutto di pura fantasia (il Mongibello è l’altro nome dell’Etna). 33. Mangiastù: mangiasti tu. 34. vi ... cura: ci feci mai attenzione. 35. grossa: materiale, concreta. 36. scaglioni: scalini.
37. più ... cota: poverissimi (la “cote” è l’arnese di pietra abrasiva che si usa per affilare coltelli e altri utensili di ferro). 38. vanno tralunando: hanno la testa tra le nuvole. 39. il Cerbacone: «è inventato dall’autore, come immaginario testo da opporre alle “autorità” citate dai dotti, e vale per il buon senso, il cervello, l’esperienza dell’autore» (Borlenghi).
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Analisi del testo Una novella atipica
L’io narrante
Predominanza del dialogo
Il significato ideologico
Concretezza del buon senso
È un esempio di novella atipico, che consente tuttavia di esemplificare la tendenza, da parte dello scrittore, ad autorappresentarsi come testimone oculare o comunque figura vicina agli avvenimenti narrati. Il procedimento raggiunge qui il suo esito estremo in quanto il narratore coincide con il protagonista, occupando interamente lo spazio della rappresentazione. L’«io scrittore» (ossia l’io narrante) introduce brevemente e saporosamente la scena, ricordando una conversazione avvenuta anni prima «nella piazza de’ mercatanti» di Genova e attribuendo così alla narrazione le caratteristiche di un avvenimento realmente accaduto. Il racconto si sviluppa poi, in forme essenziali, come un dialogo fra un astrologo e Franco Sacchetti (così indicato nel sommario), che ne confuta la presunzione di poter conoscere il futuro. L’impostazione della novella risulta quindi molto ristretta, concentrandosi esclusivamente sul ruolo degli interlocutori. L’azione è completamente assente e tutto l’interesse viene spostato sul dialogo, attraverso una incalzante sequenza di battute, di domande e di risposte, che mettono in risalto la superiorità del protagonista e l’imbarazzo crescente dell’antagonista, incapace di controbattere. Assai scarse e limitate le notazioni descrittive, che traducono le reazioni dei personaggi («pensa», «smemora», «pensa e guata, come uno tralunato», «si viene avvolgendo», «il piglio per lo mantello» ecc.), mentre tutta l’impalcatura del racconto è basata sui verbi del dire, che ne scandiscono, senza dispersioni, la serrata e stringente progressione dialogica. Il significato ideologico, precisato nel commento, è nella condanna di chi vive e ragiona con la testa fra le nuvole; una condanna, che esprime il punto di vista pratico e “realistico” proprio della borghesia mercantile, attenta alla realtà concreta e soprattutto sensibile al guadagno. Al contrario, quelli che «hanno tanto gli occhi al cielo [...] perdono la terra, essendo sempre poveri in canna» (rr. 81-82). Prevale, in altri termini, una visione ispirata alla concretezza del buon senso, che sembra opporre l’esperienza della vita alle forme di una cultura astratta e libresca, come risulta dal guizzo della battuta finale, che coinvolge, nell’irriverenza dello sberleffo, «certi valentri uomeni», ossia intellettuali o presunti tali.
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. A chi si riferisce l’autore con l’espressione «quelli che sono fuori di casa loro» (r. 8)? In che senso «vanamente pascono […] di novelle, di bugie e di speranza, e in fine di astrologia» (rr. 8-9)? > 2. Che cosa sostiene Fazio da Pisa? Che cosa, invece, il narratore? > 3. Quale significato ha l’ultima risposta del narratore ai «valentri uomeni» (rr. 82-86)? AnALIzzAre
> 4.
narratologia Riassumi la situazione iniziale, specificando chi è il narratore, in quale città e in quale luogo si svolge la vicenda. > 5. Stile Rifletti sull’espressione «parendogli essere Alfonso o Tolomeo» (rr. 13-14). Quali figure retoriche vi rintracci?
ApprofondIre e InterpretAre
> 6.
Scrivere Tutta la novella è percorsa da un tono ironico e sarcastico, che pone il protagonista-narratore in una condizione di superiorità rispetto ai personaggi che lo circondano. In un testo di circa 15 righe (750 caratteri) rifletti sui valori e sulle convinzioni che sono alla base di questo atteggiamento.
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L’età comunale in Italia
visualizzare i concetti
I caratteri del genere novellistico
fontI
formA
Prosa
LInguA
Volgare
deStInAtArI
modALItà dI fruIzIone
ArgomentI
non letterarie: – cultura folklorica orale (motti, facezie, favole, apologhi ecc.) – racconti popolari – tradizione cittadina di storie narrate in compagnia per diletto
Lettore cittadino di media e buona cultura Per lo più lettura privata e individuale Tratti dalla vita reale o frutto d’invenzione; seri oppure comici, con intrusioni dell’elemento osceno
AmbIentAzIone SpAzIALe deLLe StorIe
Lo spazio coincide con un luogo preciso e identificabile concretamente; è rappresentato in modo realistico
AmbIentAzIone temporALe deLLe StorIe
Il tempo coincide con un periodo storicamente individuabile, presente o passato
perSonAggI
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Letterarie: – exempla religiosi – aneddotica profana – fabliaux – novellistica araba e orientale – romanzo cortese-cavalleresco – romanzo ellenistico – storiografia
Dotati di una spiccata identità personale, di una fisionomia ricca, complessa e sfumata; la loro psicologia è costruita tramite il racconto di azioni e comportamenti, l’analisi di pensieri e stati d’animo, l’inserzione di discorsi
I libri di viaggi Anche gli altri generi della prosa, nell’età comunale, si staccano via via dalle consuetudini ideologiche e mentali della cultura alto-medievale, per cercare un rapporto più libero e diretto fra la scrittura e la realtà rappresentata. Si avvia, sia pure per gradi, quel rinnovamento degli strumenti e dei metodi conoscitivi che porterà al senso critico e problematico dell’età moderna: la realtà comincia ad essere osservata e interpretata in se stessa, nelle leggi immanenti che regolano il suo funzionamento, mentre maggiore risalto assume, parallelamente, il ruolo attivo svolto dal soggetto, nel determinare i criteri della comprensione e del giudizio.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale Il Milione: un nuovo modo di rappresentare la realtà
L’interesse documentario
A2 La vita all’insegna dei viaggi
Il Milione: la lingua e il titolo
Testi Polo Il proemio da Il Milione •
I temi
Nel Duecento, in rispondenza all’espansione dell’Occidente, che verso oriente era stata avviata dalle crociate, e all’estendersi dei commerci, si sviluppò un genere nuovo: la relazione di viaggi in terre lontane e ignote. Il testo più significativo di questo genere è Il Milione di Marco Polo ( A2, TT5-6, pp. 198 e 202), il primo grande libro di viaggi della nostra letteratura. Esso inaugura anche un modo nuovo di rappresentare il reale. Recatosi in Cina con una missione commerciale, Marco Polo mette a frutto nei suoi viaggi un senso dell’osservazione acuto e preciso, volto a cogliere e a registrare gli aspetti inconsueti delle cose. L’attenzione è attratta dalle condizioni umane, sociali ed economiche, da usi e costumi inusuali, che la mentalità del mercante esamina con curiosità e interesse. Se non manca la presenza di elementi favolosi e fantasiosi, che si accompagna ad un certo gusto per il romanzesco, prevale tuttavia, nell’opera, un carattere documentario, attento alla registrazione e alla visualizzazione dei fatti. Il meraviglioso – che dovette certamente suggestionare i contemporanei, contribuendo alla grande fortuna del testo – deriva piuttosto dagli aspetti straordinari delle cose descritte, con uno stile lineare ed esatto, attento ai particolari; la scrittura asseconda la descrizione, rivelando un atteggiamento per così dire scientifico.
marco polo Marco Polo (Venezia, 1254-1324) apparteneva ad una famiglia di mercanti e viaggiatori; Niccolò e Matteo, rispettivamente padre e zio del giovane Marco, intorno al 1260, durante il viaggio di ritorno da una spedizione che avevano intrapreso nella regione del Volga, trovando la strada interrotta a causa di una guerra scoppiata nel frattempo, si erano spinti attraverso l’Asia centrale, fino all’Estremo Oriente, giungendo così alla corte di Kublai Khan, «Signore di tutti i Tartari». Questi li aveva accolti con tutti i riguardi. Ritornati in Occidente (1269) con una missione per il papa Gregorio X da parte del sovrano tartaro, partirono nuovamente alla volta dell’Oriente nel 1271 (questa volta accompagnati anche da Marco) con lettere e doni da parte del pontefice. Il viaggio si svolse per via di terra con un itinerario ricostruibile attraverso il preciso racconto di Marco Polo. Accolto benevolmente (1275) dal Khan, egli venne a più riprese incaricato di svolgere missioni diplomatiche per suo conto, entrando in diretto contatto con nuove regioni e civiltà. Nel 1292, accompagnando alle nozze la figlia dell’imperatore di Persia, si avviò verso la strada del ritorno, giungendo a Venezia nel 1295. Ripresa l’attività di mercante, fu catturato durante uno scontro navale fra veneziani e genovesi, e successivamente liberato nel 1299. La vita
Durante la prigionia egli dettò a Rustichello da Pisa, prigioniero come lui, l’opera a cui rimase legata la sua fama di viaggiatore e scopritore. Rustichello scrisse nella lingua più diffusa a quel tempo dopo il latino, e cioè la lingua d’oïl. Il primo titolo con cui l’opera di Marco Polo fu conosciuta è dunque quello in antico francese Divisament dou monde (“Descrizione del mondo”), poi tradotto anche in italiano come Il libro delle meraviglie del mondo. Il titolo Il Milione, con cui si indica oggi comunemente il libro, deriva dalla riduzione toscana di alcuni codici trecenteschi, ed è dovuto al nomignolo di Emilione, per aferesi Milione, con cui veniva designato Marco Polo. Il Milione offre una rassegna organica di paesi e di popoli asiatici e di aspetti caratteristici del paesaggio esotico che Marco Polo ebbe la ventura di osservare. A ciò va aggiunta una colorita descrizione di usi e costumi curiosi, di forme di vita sociale e
L’opera
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L’età comunale in Italia
La circolazione
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famigliare, di credenze e superstizioni, e soprattutto un enorme quantitativo di notizie di carattere commerciale. Molto particolareggiata è la descrizione concernente la Cina settentrionale (Catai) e meridionale. Viva è la simpatia e l’ammirazione per i tartari e per Kublai Khan. Grandissima fu la circolazione del Milione, come attestano i 149 manoscritti nelle varie redazioni, traduzioni e riduzioni, e le numerosissime edizioni a stampa, che si moltiplicarono in tutte le lingue dopo quella di Norimberga nel 1477.
marco polo
temi chiave
usi e costumi dei tartari
• la narrazione documentaria • la meraviglia determinata dal racconto di fatti nuovi
da Il Milione, 68-69 Dopo avere brevemente delineato una genealogia dei loro imperatori, Marco Polo presenta le popolazioni dei Tartari.
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Sappiate veramente ch’apresso Cinghin Cane1 fue Cin Kane, lo terzo Bacchia Kane, lo quarto Alcon, lo quinto Mogui, lo sesto Cublam2 Kane. E questi àe più podere3, ché·sse tutti gli altri fossero insieme, non poterebboro4 avere tanto podere com’àe questo Cane dirieto5 ch’à6 oggi, e à nome Cablam Kane. E dicovi più, ché se tutti li signori del mondo, e saracini e cristiani, ‹fossero insieme›, non potrebboro fare tanto fra tutti come farebbe Coblam Kane. E dovete sapere che tutti li Grandi Cani disces[i] da Cinghi Cane sono sotterati a una montagna grande, la quale si chiama Alcai7; e ove8 li grandi signori de’ Tartari muoiono, se morissono .c.9 giornate di lungi a10 quella montagna, sì·cconviene ch’egli vi siano portati. E sì vi dico un’altra cosa, che quando l[i] corp[i] de li Grandi Cani sono portati a sotterare a questa montagna, e egli sono lungi .xl. giornate e più e meno11, tutte le gente che sono incontrate per quello viaggio dove si porta lo morto, tutti sono messi a le spade e morti12. E dicogli, quando gli uccidono: «Andate a servire lo vostro signore ne l’altro mondo», ché credono che tutti quegli che sono morti, per ciò lo debbiano servire ne l’altro mondo. E così uccidono gli cavagli13, e pure gli migliori, perché ’l signore gli abbia ne l’altro mondo. E sappiate, quando Mo[gui] Kane morìo, furo morti più di .xxm.14 uomini che ’ncontravano lo15 corpo che s’anda ‹va› a sotterare. Da che ò cominciato de’ Tartari16, sì ve ne dirò molte cose. Li Tartari dimorano lo verno in piani luoghi17 ove ànno erba e buoni paschi18 per loro bestie; di state i·luoghi freddi, in montagne e in valle, ov’è acqua e ‹a›sai19 buoni paschi. Le case loro sono di legname, coperte di feltro20, e sono tonde, e pòrtallesi21 dietro in ogni luogo ov’egli vanno, però ch’egli22 ànno ordinate sì bene le loro pertiche23, ond’egli le fanno, che troppo bene le
1. Cane: col nome di khan vennero indicati i signori dell’Impero mongolo, fondato da Temujin (1167 ca. - 1227 ca.), detto Gènghiz Khan (per Marco Polo Cinghin Cane). 2. Cublam: Kublai (scritto poi Cablam e Coblam), presso cui soggiornò Marco Polo. 3. àe più podere: ha più potere, potenza. 4. poterebboro: potrebbero. 5. dirieto: dietro di sé. 6. ch’à: che c’è. 7. Alcai: a nord del deserto dei Gobi. 8. ove: ovunque.
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9. .c.: 100. 10. di lungi a: lontano da. 11. lungi … meno: lontani 11 giornate di cammino circa. 12. messi … morti: passati a fil di spada. 13. cavagli: cavalli (più avanti camegli, fanciugli ecc.). 14. .xxm.: 20000; l’esponente m indica le migliaia (xxm = 20000; più avanti cm= 100000). 15. ’ncontravano lo: si imbattevano nel. 16. Da che … Tartari: poiché ho cominciato a parlare dei Tartari.
17. lo verno … luoghi: d’inverno in luoghi pianeggianti. 18. paschi: pascoli. 19. ‹a›sai: assai, molti. 20. feltro: tessuto composto da fibre di lana, con eventuale aggiunta di pelli animali. 21. pòrtallesi: se le portano. 22. però ch’egli: perché essi. 23. pertiche: bastoni di legno, con cui costruiscono le capanne (ond’egli le fanno).
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
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possono portare leggeremente. In tutte le parti ov’egli vogliono24 queste loro case, sempre fanno l’uscio verso mezzodie25. Egli ànno carette26 coperte di feltro nero che, per che27 vi piova suso, non si bagna nulla che entro vi sia. Egli le fanno menare a28 buoi e a camegli, e ’n su le carette pongono loro femmine e loro fanciugli. E sì vi dico che le loro femmine comperano e vendono e fanno tutto quello che agli loro mariti bisogna, però che gli uomini non sanno fare altro che cacciare e ucellare29 e fatti d’oste30. Egli vivono di carne e di latte e di cacci‹a›gioni; egli mangiano di pomi de faraon31, che vi n’à32 grande abondanza da tutte parti; egli mangiano carne di cavallo e di cane e di giument’e di buoi e di tutte carni, e beono latte di giumente. E per niuna cosa l’uomo non toccarebbe la moglie de l’altro, però che l’ànno33 per malvagia cosa e per grande villania. Le donne sono buone e guarda34 bene l’onore de’ l[oro] signori, e governano bene tutta la famiglia. Ciascheuno puote pigliare tante mogli quant’egli vuole infino in35 .c., se egli àe da poterle mantenere; e l’uomo dàe36 a la mad‹r›e della femina, e la femina non dà nulla a l’uomo; ma ànno per migliore e per più veritier[a] la prima moglie che l’altre. Egli ànno più figliuoli che l’altra gente per le molte femmine. Egli prende37 per moglie le cugine e ogni altra femina, salvo la madre; e prendono la moglie del fratello, s’egli muore. Quando piglia·moglie fanno grandi nozze. Sappiate che loro legge è cotale, ch’egli ànno un loro idio ch’à nome Natigai, e dicono che quello è dio terreno, che guarda38 loro figliuoli e loro bestiame e loro biade. E’ fannogli grande onore e grande riv‹er›enza, ché ciascheduno lo tiene in sua casa. E’ fannogli di39 feltro e di panno, e ’l tengono i·loro casa […]. Loro vestimenta sono cotali: gli ricchi uomini vestono di drappi d’oro e di seta, e ricche pelli cebeline e ermine40 e de vai41 e de volpi molto riccamente; e li loro arnesi42 sono molto di grande valuta43. Loro arme sono archi, spade e mazze, ma d’archi s’aiutano44 più che d’altro, ché egli sono troppi buoni archieri45; i·loro dosso46 portano armadura di cuio di bufalo e d’altre cuoia forti. Egli sono uomini in battaglie vale‹n›tri duramente47. E dirovi48 come egli si possono travagliare49 più che l’altri uomini, ché, quando bisognerà, egli andrà e starà u·mese senza niuna vivanda, salvo che viverà di latte di giumente e di carne di loro cacciagioni che prendono50. Il suo cavallo viverà d’erba ch’andrà pascendo, che no gli bisogna51 portare né orzo52 né paglia. Egli sono molto ubidienti a loro signore; e sappiate che, quando bisogna, egli andrà e starà tutta notte a cavallo, e ’l cavallo sempre andarà pascendo. Egli sono quella gente che più sostengono travaglio e [male], e meno vogliono di spesa53, e che più vivono, e sono per54 conquistare terre e regnami. Egli sono così ordinati che, quando uno signore mena in oste55 .cm. cavalieri, a ogne mille fa56 uno capo, e a ‹o›gne .xm., sicché non àe a parlare57 se non con .x. uomini lo signore de
24. vogliono: sottinteso “collocare”. 25. verso mezzodie: rivolto a mezzogiorno. 26. carette: carrette, carri. 27. per che: per quanto. 28. menare a: trasportare da. 29. ucellare: andare a caccia di uccelli. 30. fatti d’oste: battaglie, combattimenti militari (oste, esercito, è un latinismo). 31. pomi de faraon: «l’espressione ratti di fa raone designa di solito le manguste» (Ronchi). 32. che vi n’à: di cui c’è. 33. però che l’ànno: perché la ritengono, la considerano (anche più avanti). 34. guarda: custodiscono, conservano (francesismo). 35. infino in: fino a. 36. dàe: dà la dote.
37. Egli prende: essi prendono (la solita alternanza tra il plurale e il singolare). 38. guarda: protegge. 39. fannogli di: li costruiscono con (con significato diverso dal precedente, gli fanno). 40. cebeline e ermine: di zibellino e di er mellino. 41. vai: tipi di scoiattolo. 42. arnesi: attrezzi, ornamenti. 43. valuta: valore (in senso economico). 44. d’archi s’aiutano: degli archi si servono. 45. troppi … archieri: ottimi arcieri. 46. i·loro dosso: sul loro dosso, addosso. 47. vale‹n›tri duramente: molto valenti, co raggiosi. 48. dirovi: vi dirò. 49. travagliare: stancare, affaticare (poi tra-
vaglio: disagio, fatica). 50. di loro … prendono: che si procurano con la loro caccia (si noti, anche qui, l’alternanza fra il singolare e il plurale). 51. che no gli bisogna: perché non hanno bisogno di. 52. orzo: pianta delle graminacee, è usato anche come foraggio. 53. vogliono di spesa: richiedono spese (per il loro sostentamento). 54. sono per: sono adatti, pronti per. 55. mena in oste: conduce in guerra. 56. a ogne mille fa: per ogni migliaia elegge. 57. àe a parlare: deve parlare, trasmettere gli ordini.
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li .xm., e quello de’ .cm. non à a pa‹r›lare se no co .x.; e così ogni uomo risponde al suo capo. E quando l’oste58 vae per monti e per valle, sempre vae59 inanzi .cc. uomini per sguardare60, e altretanti dirietro e da·lato, perché l’oste non possa essere asalito che nol sentissoro61. E quando egli vanno in oste da la lunga62, egli portano bottacci63 di cuoio ov’egli portano loro latte, e una pentolella u’ egli cuocono64 loro carne. Egli portano una picciola tenda ov’egli fuggono65 da l’acqua. E sì vi dico che quando egli è bisogno66, eglino cavalcano bene .x. giornate senza vivanda di fuoco67, ma vivono del sangue delli loro cavagli, ché ciascheuno pone la bocca a la vena del suo cavallo e bee. Egli ànno ancora loro latte secco come pasta68, e mettono di quello latte nell’acqua e disfannolovi69 entro e poscia ’l beono. Egli vincono le battaglie altresì fuggendo come cacciando70, ché fuggendo saettano tuttavia71, e gli loro cavagli si volgoro72 come fossero cani; e quando gli loro nemici gli credono avere isconfitti cacciandogli, e e’ sono sconfitti eglino73, perciò che tutti li loro cavagli sono morti per le74 loro saette. E quando li Tartari veggono gli cavagli di quegli che gli cacciano morti, egli si rivolgono a loro e sconfiggoli per la loro prodezza; e in questo modo ànno già vinte molte battaglie.
58. oste: esercito. 59. vae: vanno (solita oscillazione nelle concordanze tra singolare e plurale). 60. per sguardare: per esplorare, in avan scoperta. 61. che nol sentissoro: senza essere avvista to. 62. da la lunga: in paesi lontani.
63. bottacci: recipienti. 64. pentolella … cuocono: pentolina dove essi cuociono. 65. fuggono: si riparano. 66. egli è bisogno: c’è necessità. 67. di fuoco: cotta, cucinata sul fuoco. 68. latte … pasta: latte condensato. 69. disfannolovi: lo fanno sciogliere.
70. altresì … cacciando: sia fuggendo che inseguendo. 71. saettano tuttavia: continuano a lancia re frecce. 72. si volgoro: si volgono, si girano. 73. e e’ … eglino: sono loro, invece, ad essere sconfitti. 74. morti per le: uccisi dalle.
Analisi del testo Genealogia dei Khan e descrizione di usi e costumi dei Tartari Esposizione documentaria
Novità delle cose narrate
Stile enunciativo
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Al breve profilo iniziale di ricostruzione storica (la successione dei sovrani), derivata ovviamente da notizie indirette, segue una lunga parte fondata in prevalenza sull’osservazione, che ha lo scopo di illustrare usi e costumi di popolazioni sconosciute. L’interesse appare qui più circoscritto e dettagliato, attento a cogliere anche i minuti aspetti di una realtà inconsueta, sul piano antropologico, economico, sociale. All’interno di questa realtà, Marco Polo si muove oramai con un atteggiamento per molti aspetti consapevole e moderno, che è quello – diremmo oggi – del reporter o del “documentarista”. Alla scrittura, in altri termini, attribuisce soprattutto un compito informativo, che si basa sulla chiarezza di una esposizione ordinata e precisa, senza cercare interpretazioni bizzarre o sorprendenti. O meglio: il senso di stupore è affidato alla novità delle cose narrate, che rendono superflua ogni insistita ricerca di effetti retorici e verbali. Le ragioni riguardano, da un lato, l’estrema distanza rispetto alle consuetudini della vita occidentale; dall’altro la vastità degli spazi e delle proporzioni del mondo scoperto e illustrato, quale si rivela nella semplice indicazione dei dati, con le loro cifre iperboliche («se morissono .c. giornate di lungi a quella montagna», «furo morti più di .xxm. uomini», «Ciascheuno puote pigliare tante mogli quant’egli vuole infino in .c.», «quando uno signore mena in oste .cm. cavalieri», «eglino cavalcano bene .x. giornate senza vivanda di fuoco» ecc.). Nel fornire queste indicazioni lo stile si fa semplicemente, ma eloquentemente, enunciativo, disponendosi secondo sequenze di una elementare e simmetrica efficacia: «Loro vestimenta sono cotali...», «Egli sono...» (ripetuto più volte), «Egli portano...», «Egli ànno».
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. In quali passaggi dell’esposizione compaiono riferimenti ai riti di sepoltura? > 2. Nel testo compaiono riferimenti alla natura dei luoghi in cui sono stanziati i Tartari: quali? > 3. Come viene descritta nel testo la condizione della donna? > 4. Quale singolare caratteristica presenta il dio Natigai? Quale usanza sembra sottolineare tale peculiarità? > 5. Quali punti di forza l’autore attribuisce ai Tartari riguardo le tattiche militari? Quali fatti curiosi sembrano colpirlo?
AnALIzzAre
> 6.
narratologia Descrivi in modo sintetico l’atteggiamento prevalente del narratore nei confronti della materia trattata. > 7. Stile Nel brano l’autore si rivolge continuamente al lettore con brevi formule (r. 1: «Sappiate veramente ch[e]»; r. 4: «E dicovi più, ché» ecc.). Individua tutte queste espressioni alle righe 1-17 e spiega quale funzione possono avere. > 8. Lessico Completa la tabella indicando il corrispondente, nell’italiano corrente, delle parole riportate, secondo l’esempio proposto.
riga
parola
forma attuale
1
apresso
presso ................................................................................................................................................................................................................................................................................
9
morissono
................................................................................................................................................................................................................................................................................
26
camegli
................................................................................................................................................................................................................................................................................
34
ciascheduno
................................................................................................................................................................................................................................................................................
44
vestimenta
................................................................................................................................................................................................................................................................................
67
poscia
................................................................................................................................................................................................................................................................................
72
prodezza
................................................................................................................................................................................................................................................................................
> 9.
Lingua Alla riga 58 compare la parola «sicché»: indica qual è la sua funzione grammaticale e fornisci alcune parole che possono essere usate in alternativa nel contesto della frase senza modificarne il significato.
ApprofondIre e InterpretAre
> 10.
Scrivere In un testo di circa 5 righe (250 caratteri) indica quali aspetti del passo di Marco Polo possono essere ricondotti alla mentalità mercantile dell’autore. > 11. Competenze digitali La professione del reporter o del documentarista, rispetto ai tempi di Marco Polo, si avvale oggi delle nuove tecnologie, per quanto riguarda sia la registrazione dei dati, sia la loro trasmissione e divulgazione. Dopo aver predisposto strumenti e modalità per effettuare un reportage, scegli il luogo e l’occasione (ad esempio il viaggio di istruzione) per realizzare un personale “servizio” multimediale, che proporrai nella forma da te ritenuta più opportuna.
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L’età comunale in Italia
L e t t e r a t u r a e Economia
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marco polo
La circolazione della cartamoneta da Il Milione, 95 In questo capitolo viene illustrato il sistema monetario cinese, allora ignoto ai paesi occidentali.
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Il brano spiega le origini dell’impiego della cartamoneta e dimostra come tale sistema, affermatosi prima in Oriente, suscitasse stupore anche in una società ormai evoluta e dedita ai commerci.
Egli è vero che in questa città di Canbalu1 è·lla tavola2 del Grande Sire3; e è ordinato4 in tal maniera che l’uomo puote ben dire che ’l Grande Sire àe5 l’archimia6 perfettamente; e mosterovilo incontanente7. Or sappiate ch’egli fa fare8 una cotal moneta com’io vi dirò. Egli fa prendere scorza9 d’un àlbore ch’à nome10 gelso – èe11 l’àlbore le cui foglie mangiano li vermi12 che fanno la seta –, e cogliono la buccia13 sottile che è tra la buccia grossa14 e·legno dentro, e di quella buccia fa fare carte come di bambagia15; e sono tutte nere. Quando queste carte sono fatte16 così, egli ne fa de le piccole, che vagliono una medaglia di tornesegli picculi17, e·ll’altra18 vale uno tornesello, e l’altra vale un grosso d’argento da Vinegia19, […]; e così va infino .x. bisanti20. E tutte queste carte sono sugellate del sugello del Grande Sire21, e ànne22 fatte fare tante che tutto ’l tesoro n’appagherebbe23. E quando queste carte sono fatte, egli ne fa fare tutti li pagamenti e spendere per tutte le province e regni e terre ov’egli à segnoria24; e nessuno gli osa refiutare, a pena della vita25. E sì vi dico che tutte le genti e regioni che sono sotto sua segnoria si pagano di questa moneta d’ogne mercatantia26 di perle, d’oro, d’ariento27, di pietre preziose e generalemente d’ogni altra cosa. E sì vi dico che la carta che·ssi mette28 diece29 bisanti, no ne pesa uno; e sì vi dico che più volte li mercatanti la cambiano questa moneta a perle e ad oro e a altre cose care30. E molte volte è regato31 al Grande Sire per li mercatanti che vale .ccccm. bisanti32, e ’l Grande Sire fa tutto pagare di quelle carte33, e li mercatanti le pigliano volontieri, perché le spedono per tutto il paese.
1. Canbalu: o Cambaluc, antico nome della città di Pechino. 2. è·lla tavola: c’è la zecca, la banca. Il termine “banca”, di origine germanica, indicherebbe proprio la “panca”, il “tavolo” al quale in passato sedevano banchieri e mercanti per attendere a varie operazioni commerciali e finanziarie. 3. Grande Sire: Kublai Khan (1215-94), nipote di Gengis Khan, condottiero mongolo e fondatore del primo impero cinese. Nel Milione Marco Polo racconta delle esperienze maturate durante i soggiorni in quelle terre durati oltre diciassette anni. 4. e è ordinato: la cosa è disposta. 5. aè: possiede. 6. archimia: l’alchimia è l’arte magica, di cui si favoleggiava, capace di trasformare in oro i metalli. 7. mosterovilo incontanente: lo dimostrerò (mosterovilo) immediatamente.
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testo e realtà
8. fare: coniare. 9. scorza: corteccia. 10. àlbore ch’à nome: un albero che si chia ma. 11. èe: è. 12. vermi: bachi da seta. 13. cogliono la buccia: prendono lo strato. 14. buccia grossa: corteccia. 15. bambagia: cotone. 16. fatte: ridotte. 17. vagliono … picculi: hanno il valore di una medaglia di torneselli piccoli. I “torneselli” (il nome deriva dai “tornesi” coniati da Carlo Magno), come i “grossi d’argento” e i “bisanti d’oro” sono le monete veneziane, di valore crescente, con cui Marco Polo paragona il valore della cartamoneta diffusa nell’impero del Gran Khan. 18. e·ll’altra: e una. 19. da Vinegia: di Venezia. 20. e … bisanti: e così avanti fino a dieci bi
santi. 21. sugellate … Sire: contrassegnate dal si gillo del Gran Re. 22. ànne: hanno. 23. tutto … n’appagherebbe: potrebbe com prare tutte le ricchezze del mondo. 24. ov’egli … segnoria: ove egli ha il domi nio. 25. a pena della vita: se non vuole essere condannato a morte. 26. si pagano … mercatantia: pagano con questa moneta ogni merce. 27. ariento: argento. 28. che·ssi mette: che si usa. 29. diece: dieci. 30. care: di gran valore. 31. è regato: è recato. 32. che vale .ccccm. bisanti: un quantitati vo di merce che vale quattrocentomila bisanti. 33. di quelle carte: con quelle carte.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Analisi del testo Lo stupore di fronte alla cartamoneta Le caratteristiche della cartamoneta
Il valore delle nuove monete
Nel suo viaggio fra i tartari il mercante Marco Polo, abituato all’uso delle monete coniate col metallo, si trova di fronte all’uso della cartamoneta, sconosciuta allora nei paesi dell’Occidente. L’iniziale stupore sembra attribuire la creazione di questo sistema finanziario a un’opera di magia («àe l’archimia perfettamente», r. 2); ma la prospettiva viene subito dopo corretta e mutata. Pur non conoscendone i meccanismi, Marco Polo si preoccupa di descriverne la natura e le caratteristiche, a partire dai procedimenti di fabbricazione delle monete, che ricavano dal gelso il materiale per la produzione della carta, per giungere ai meccanismi di circolazione del denaro, che consentono di acquistare con un semplice biglietto di carta oro e pietre preziose (la validità del sistema è garantita direttamente dal Gran Khan, a cui fa capo quella che noi adesso chiameremmo la “zecca di Stato”). Ma soprattutto appare interessato a stabilire e a quantificare il valore di quelle strane monete rispetto a quelle da lui usate, avendo evidentemente di mira lo scopo degli scambi commerciali e della loro concreta funzionalità operativa. Ancora una volta lo sguardo del mercante cerca di cogliere le ragioni e i meccanismi che regolano il funzionamento dei fenomeni da lui osservati. Il pagamento delle tasse alla corte del Gran Cane, che utilizza corteccia d’albero come moneta, 1400-20, miniatura da Le livre des merveilles di Marco Polo, codice Fr. 2810, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Rintraccia nel testo le affermazioni dell’autore relative all’utilità della cartamoneta come nuovo strumento di scambio. > 2. Attraverso quali affermazioni dell’autore è percepibile l’autorità del Gran Khan e la vastità del suo impero? AnALIzzAre
> 3. Quale particolare aspetto della tipica formazione del mercante rivela l’inciso «èe l’àlbore le cui foglie mangia-
no li vermi che fanno la seta» (rr. 5-6) riferito all’albero del gelso? > 4. Ritieni che nel brano l’autore sia un osservatore distaccato di nuovi fenomeni? Motiva la tua risposta attraverso riferimenti al testo. > 5. Stile L’affermazione riguardo l’«archimia» posseduta dal Grande Sire è da intendersi in senso letterale ( nota 6) o figurato? Motiva la tua risposta. ApprofondIre e InterpretAre
> 6.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) spiega i motivi che fanno del brano un esempio di visione dinamica della realtà ed esperienza diretta del reale, tipica della mentalità dell’età comunale. pASSAto e preSente oltre la cartamoneta: ricchezze reali e virtuali
> 7. Leggi e discuti in classe con l’insegnante e i compagni il passo di seguito riportato. […] il capitalismo moderno è diventato un gioco di specchi. Al punto che non si riesce a distinguere la realtà dalla sua immagine. Se è il diavolo che muove la coda o la coda che muove il diavolo. Dobbiamo rassegnarci a una economia del segno e dell’oscurità del suo disegno? […] Un capitalismo fatto di segni più che di ricchezze reali? Eppure, c’è qualcuno che ci si trova perfettamente a suo agio. E qualche altro che non ha perso le speranze che l’economia possa essere messa al servizio dell’uomo, non il contrario. G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia dell’economia dal Paradiso terrestre all’inferno della finanza, Einaudi, Torino 2006
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L’età comunale in Italia
E c h i n e l Te m p o
Riletture e suggestioni novecentesche del Milione Il viaggio come crescita morale
L’interesse scientifico
La componente fantastica
primo Levi Nel 1981 Primo Levi ha pubblicato La ricerca delle radici, un’antologia personale ricavata dalle opere che più avevano influito sulla sua formazione e maturazione di scrittore. Fra i testi prescelti figurano anche alcuni passi del Milione. Le ragioni della scelta sono indicate nell’«amore per l’avventura e il viaggio», che consente anche di misurare la «statura dell’uomo», la dignità di chi affronta i pericoli e resiste alle difficoltà per realizzare un ideale di maturazione e di progresso; tutto l’opposto di chi ha calpestato i più elementari diritti degli uomini nel nome di princìpi aberranti e disumani (è appena il caso di ricordare che Primo Levi ha legato il suo nome alla rievocazione dell’orrore dei Lager nazisti, da Se questo è un uomo, del 1947, all’ultima tragica testimonianza di I sommersi e i salvati, apparso nel 1986). I passi del Milione che Primo Levi ha antologizzato riguardano la salamandra, il carbon fossile, il coccodrillo, il rinoceronte, l’isola di Sumatra e «gli uomini con la coda». La scelta è anche motivata dall’interesse scientifico ben presente nell’opera di Primo Levi, che, laureato in chimica e attivo in quel settore industriale, ha introdotto il mondo della tecnica e della fabbrica nel volume di racconti La chiave a stella (1978). Per la prima volta infatti, come si è visto, Marco Polo fonda il resoconto dei suoi viaggi sull’osservazione diretta della realtà, cercando di spiegarsi – e di spiegare ai lettori – le caratteristiche intrinseche di fenomeni allora sconosciuti in Occidente (come ad esempio il carbon fossile appena ricordato, le «pietre nere, che·ssi cavano de le montagne come vena, che ardono come bucce», o la circolazione della cartamoneta). Se compaiono ancora elementi del tutto fantastici e irreali («gli uomini con la coda» e, nel medesimo brano, «gli unicorni»), questi sono piuttosto riferiti a delle dicerie non verificate personalmente, o assumono caratteristiche ben diverse rispetto a quelle che venivano loro abitualmente attribuite. Prendiamo l’unicorno, di cui Il fisiologo – il modello di tutti i bestiari medievali – così scriveva:
È un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo. Non può avvicinarglisi il cacciatore a causa della sua forza straordinaria; ha un solo corno in mezzo alla testa. E allora come gli si dà la caccia? Espongono davanti ad esso una vergine immacolata, e l’animale balza nel seno della vergine, ed essa lo allatta, e lo conduce al palazzo del re. umberto eco Il passo che segue, raccolto poi nel volume Sugli specchi (Bompiani, Milano 1985), fa parte di un articolo pubblicato da Umberto Eco, il 28 novembre 1982, sul settimanale “L’Espresso”, in occasione dello sceneggiato televisivo tratto dal Milione e diretto da Giuliano Montaldo (e dello stile giornalistico presenta l’andamento agile e brillante, con divertiti ammiccamenti ironici):
Poteva Marco Polo non cercare unicorni? Li cerca, e li trova. Voglio dire, non può evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura. Ma una volta che ha guardato, e visto, in base alla cultura passata, ecco che si mette a riflettere da inviato speciale, e cioè come colui che non solo fornisce informazioni nuove ma anche critica e rinnova i cliché del falso esotismo. Perché gli unicorni che lui vede sono di fatto dei rinoceronti, un poco diversi da quei caprioli graziosi e bianchi, col cornetto a spirale, che appaiono sullo stemma della corona inglese. Polo è spietato: gli unicorni hanno “pelo di bufali e piedi come leonfanti”, il corno è nero e grosso, la lingua è spinosa, la testa sembra un cinghiale e, in definitiva, “ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella [dalla giovane], ma è il contrario”. Come dire: non mandate le ragazzine, che ve le incorna a testa bassa. Triste, ma è così. L’altra cosa che colpisce in Polo, in questo dire le cose come stanno, è che il suo libro è dominato dalla curiosità, ma mai da una forsennata meraviglia, e men che mai dallo sgomento. Racconta come un antropologo moderno, se c’è una civiltà in cui si usa dare la moglie ai forestieri, ed anzi i mariti ne provano gusto, lo racconta, e amen.
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Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Ne ha viste (ma viste, non sentite dire) tante che non si stupisce più di niente. Quindi il mondo di cui parla non è incredibile, anche se è stupefacente: è, semplicemente, e proprio per questo lui ne racconta. Certo, sente voci misteriose nel deserto di Lop, ma provate a cavalcare per settimane e settimane nel deserto. [...] Prende i coccodrilli per serpentoni con le sole zampe anteriori, ma non dovete pretendere che ci andasse troppo vicino. Mi sa che trova più antropofagi di quelli che vi fossero, ma alla fin fine viaggiava raccogliendo testimonianze in terre in cui si parlavano lingue che lui doveva imparare a fatica. Però trova il petrolio, e il carbon fossile, e ne parla in modo molto corretto. Attualità del metodo e del messaggio dell’opera
Lo spunto induce Eco a riflettere sul significato del libro di Marco Polo, la cui attualità si può recuperare solo a condizione di rimanere fedeli alla storicità del messaggio originale. Rispetto alla mentalità allegorico-simbolica della cultura enciclopedica medievale, lo sguardo con cui il viaggiatore osserva i fenomeni naturali e sociali introduce un radicale mutamento delle prospettive conoscitive, difficilmente comprensibile per i contemporanei. Basando l’opera sull’esperienza diretta, e non più sull’autorità mai verificata di una tradizione priva di fondamenti, Marco Polo prelude alla nostra figura dell’«inviato speciale» e «racconta come un antropologo moderno», inventando un “genere” e lasciandosi alle spalle i pregiudizi del passato.
Il Milione riscritto secondo nuove prospettive
Italo Calvino Assai diverso e del tutto originale è il caso di Italo Calvino, che, con Le città invisibili, del 1972, si è proposto di riscrivere Il Milione. Calvino costruisce un’opera completamente diversa, addirittura opposta, rispetto al modello originale. In primo piano, nelle Città invisibili, viene posto il problema di poter comunicare, attraverso la letteratura, le conoscenze e le esperienze acquisite. Marco Polo descrive a Kublai Khan, imperatore dei mongoli, i luoghi che ha visitato e che quest’ultimo, per la vastità dei suoi domini, non ha mai potuto conoscere. Le singole città sono nitidamente raffigurate attraverso immagini stilizzate, limpide ed essenziali, che si susseguono, affiancate, seguendo lo schema di un disegno lineare, ma al tempo stesso particolarmente complesso ed elaborato. L’opera è divisa in nove parti, che comprendono cinquantacinque descrizioni: dieci la prima e l’ultima, cinque quelle intermedie. Queste riguardano diverse tipologie di città (che sulla carta geografica non sono mai esistite), variamente intrecciate fra di loro («le città e la memoria», «le città e il desiderio», «le città e i segni», «le città sottili», «le città e gli occhi», «le città e il nome», «le città e i morti», «le città nascoste» ecc.). Ogni sezione è incorniciata da brevi presentazioni, in cui si situano gli incontri e i dialoghi con Kublai, che ascolta i resoconti di Marco e subisce il fascino impalpabile di raffigurazioni allusive e irreali. Non a caso le più suggestive sembrano quelle in cui il narratore, ancora ignaro della lingua, è costretto a esprimersi a gesti; ma anche le parole escludono ogni rappresentazione diretta della realtà, trasferendola su un piano totalmente “altro”, di pura e fantastica astrazione simbolica.
Una rappresentazione astratta e simbolica della realtà
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Ricordano Malespini
Le cronache una nuova concezione della storia Nel Duecento muta il concetto di storia, che comincia a staccarsi dall’esclusiva impostazione provvidenziale e finalistica che era propria del Medioevo, secondo la quale tutti i fatti della storia umana rientravano in un disegno provvidenziale, all’interno del quale ciascuno di essi era indirizzato ad un preciso fine voluto da Dio. Naturalmente il processo si compie per gradi, e presenta, soprattutto nella sua fase iniziale, evidenti soluzioni di compromesso. Ciò risalta nella Istoria fiorentina di Ricordano Malespini (1220 ca. - 1290 ca.), che racconta le vicende della città fino al 1282. L’opera rientra pienamente nei limiti della storiografia medievale, poiché vede la storia come opera esclusivamente provvidenziale, non dell’attività autonoma dell’uomo: e tuttavia la passione politica che la anima reca in germe una visione già diversa della realtà, più immediata e concreta, in cui l’uomo si avvia a divenire il protagonista. 205
L’età comunale in Italia
La Cronica di Compagni
Il metodo
La tensione politica
Più interessante è l’impostazione dei cronisti trecenteschi. All’inizio della Cronica di Dino Compagni ( A3, p. 207) è da sottolineare il ruolo attribuito dall’autore al soggetto nel selezionare gli avvenimenti registrati. Compagni esordisce affermando princìpi di metodo non diversi da quelli di Marco Polo, manifestando cioè l’intenzione di raccontare le cose di cui è stato testimone diretto o di cui ha avuto sicura conoscenza. L’opera di Compagni è poi di grande importanza perché non è una semplice elencazione cronachistica di fatti, ma ne fornisce già un’interpretazione politica. L’autore era stato priore in Firenze nell’ottobre del 1301, quando la fazione dei Guelfi neri, grazie agli intrighi del papa Bonifacio VIII, aveva preso il potere nella città cacciando i Guelfi bianchi ( L’età comunale, Il contesto, p. 80). Nella Cronica, redatta circa dieci anni più tardi, Compagni rivive quegli avvenimenti, collocandoli sullo sfondo delle lotte civili che avevano travagliato Firenze negli ultimi decenni del Duecento. Di qui deriva il carattere particolare dell’opera, che la distingue dalle cronache precedenti e contemporanee. Dino non comincia, come gli altri, dalla creazione del mondo, ma si concentra su un preciso periodo di storia politica, di ancor bruciante attualità, di cui egli stesso è stato partecipe. Perciò la sua opera, più che di un’arida e scolorita cronaca, ha la fisionomia di un’appassionata discussione politica. Lo storico difende con fervore il proprio operato, polemizza contro gli avversari infidi e feroci, contro i compagni deboli e vili; ma soprattutto dal suo racconto emerge lo sdegno di una tempra morale robusta, che vede offeso dalla realtà il suo ideale di giustizia e di amor patrio. Da questo atteggiamento derivano la forza drammatica del racconto, l’incisività dei giudizi, il vigore dei ritratti umani, che fanno di quest’opera un capolavoro della storiografia medievale.
La Cronica di villani
Aspetti moderni e residui medievali
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Più arcaico e tradizionale appare invece lo schema storiografico della Cronica di Giovanni Villani ( A4, p. 211), tipico rappresentante della borghesia mercantile fiorentina, piena di senso pratico e di amore per la concretezza. Il racconto riconduce la storia del mondo alla biblica torre di Babele e risale, per Firenze, fino alle favolose origini della città. Il procedimento, proprio della storiografia medievale, conserva un’evidente finalità esemplare e, soprattutto, si propone di riaffermare il mito della nobile discendenza dei fiorentini dai Romani. Nonostante i suoi limiti la Cronica del Villani ha un suo particolare interesse, perché illumina aspetti importanti della civiltà fiorentina del Trecento, cioè di un periodo di transizione tra Medioevo e Rinascimento. Trovandosi a Roma per il Giubileo del 1300, vedendo i monumenti antichi e leggendo i «grandi fatti de’ Romani» in Virgilio e Livio, il buon mercante fiorentino si accende di entusiasmo e decide di prendere a modello questi scrittori per scrivere la storia della sua città, «degna figliola e fattura di Roma». Da tempo i fiorentini si sentivano eredi dei Romani e avevano cominciato a considerarli come modelli esemplari di vivere civile, ma qui Villani sembra già vicino all’ammirazione per l’antico che caratterizzerà l’Umanesimo. Eppure egli resta per altri aspetti legato a concezioni tipicamente medievali: per lui la storia non è opera degli uomini ma del disegno di Dio, e la causa delle lotte interne della città sono i peccati dei cittadini istigati dal diavolo. Parimenti lo storico guarda con favore e soddisfazione all’espandersi della ricchezza fiorentina, esalta il fervore dei traffici, registra con interesse, a differenza degli altri cronisti, tutta una serie di fatti economici, sino ad esaltare come fatto di capitale importanza la coniazione del fiorino d’oro (quello che per Dante era invece il «maladetto fiore»): ma poi, per influenza della visione cristiana medievale della ricchezza e delle condanne della Chiesa contro l’usura, finisce per biasimare moralmente il desiderio di ricchezza che ha reso grande e potente la città e per esaltare
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
la povertà come garanzia di moralità; allo stesso modo, mentre guarda compiaciuto il prodigioso sviluppo edilizio di Firenze e si entusiasma dinanzi al moltiplicarsi di palazzi e ville, che sono «magnifica cosa a vedere», è come preso dal rimorso e si affretta a bollare come «peccato» la febbre delle grandi costruzioni, in obbedienza ai precetti dell’umiltà cristiana (Garin).
La Cronica dell’Anonimo romano e la Storia di fra Michele minorita
La contrapposizione tra passato e presente
Testi Anonimo Romano • La tragica morte di Cola di Rienzo dalla Cronica
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Una straordinaria immediatezza si riscontra nella Cronica dell’Anonimo Romano, composta verso il 1360 prima in latino e poi volgarizzata dal suo stesso autore, in un linguaggio romanesco che raggiunge risultati di grande suggestione evocativa. L’opera – che ha il suo momento culminante nelle vicende di Cola di Rienzo, il tribuno che cercò di restaurare la repubblica a Roma – sottolinea la contrapposizione fra la passata grandezza della città e la miseria del presente; ma il suo stile potentemente “primitivo”, come è stato definito, e la visione pessimistica della condizione umana escludono ogni impostazione di tipo idealistico e retorico. Una cronaca del tutto particolare è la Storia di fra Michele minorita ( T10, p. 217), che rappresenta al tempo stesso uno dei momenti più alti e suggestivi della letteratura religiosa. Fra Michele da Calci presso Pisa (al secolo Giovanni Berti), appartenente all’ordine francescano dei Minoriti, o “fraticelli della povera vita”, aveva predicato a Firenze durante la quaresima e le feste pasquali. Terminato l’incarico, si apprestava a partire, quando fu accusato presso il vescovo da alcune gentildonne, che si era rifiutato di confessare. Messo in carcere e processato nell’aprile del 1389, sostenne coraggiosamente le accuse che gli venivano rivolte, ritorcendole contro gli avversari, accusati di non seguire la regola della povertà predicata da san Francesco. A determinare la condanna al rogo fu però il rifiuto di riconoscere l’autorità e i decreti del pontefice, Giovanni XXII, da fra Michele ritenuto eretico.
dino Compagni Nacque a Firenze intorno al 1255, morì nel 1324. Impegnato intensamente nella vita politica come sostenitore della frangia popolana della parte guelfa, ricoprì i più alti incarichi pubblici contribuendo, in tali occasioni, al felice esito di avvenimenti importanti (la vittoria di Campaldino su Arezzo e la stipulazione della pace con Pisa). Dopo la scissione dei Guelfi in Bianchi e Neri, pur simpatizzando per i primi, si adoperò per una politica di riappacificazione e di equidistanza fra i partiti. Nel 1301 si dimise polemicamente dalla carica di priore, per protestare contro l’invio a Firenze, da parte di Bonifacio VIII, di Carlo di Valois, che determinò l’affermazione dei Neri. Diversamente da Dante, non venne mandato in esilio per le garanzie legislative di cui godeva (in quanto priore uscente), ma si allontanò dalla vita politica.
La vita
La Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi («occorrenti» sta per “accadute”), composta probabilmente tra il 1310 e il 1312, è animata dalle speranze riaccese dalla discesa di Enrico VII in Italia (è un tratto, questo, che accomuna l’esperienza del Compagni a quella dantesca). L’opera, che narra le lotte di Firenze dal 1280 al 1312, vive nella partecipazione soggettiva agli avvenimenti, trasformandosi quasi nel «memoriale di un vinto» (Contini), di chi, politicamente sconfitto, cerca un equilibrio fra giustizia umana e giustizia divina. L’opera
Testi Compagni • La battaglia di Campaldino • «Piangete sopra voi e la vostra città» dalla Cronica
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dino Compagni
temi chiave
politica, leggi e giustizia nel Comune di firenze
• la ricerca di un equilibrio tra le fazioni politiche
• la difficoltà di regolare la vita cittadina • una concezione pessimistica della storia
dalla Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi Il costituirsi dei Comuni comporta una diversa organizzazione politica, un sistema di governo che prevede la partecipazione dei cittadini alle decisioni della vita pubblica. In questi passi – che riguardano l’istituzione dei Priori delle Arti (IV-V) e del Gonfaloniere di Giustizia (XI e XIII) – Dino Compagni ci fa conoscere come funzionassero a Firenze i meccanismi del potere e come fossero soggetti a frequenti mutazioni.
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Stando amendue1 le parti nella città, godendo i beneficî della pace, i Guelfi che erano più potenti cominciorono di giorno in giorno a contraffare a’2 patti della pace. […] E tanto montò il soprastare3, che levorono in tutto gli onori4 e’ beneficî a’ Ghibellini, onde5 crebbe tra loro la discordia. Onde alcuni, pensando ciò che ne potea advenire6, furono con alcuni de’ principali7 del popolo, pregandoli ci ponessono rimedio8, acciò che per discordia la terra9 non perisse. Il perché, alcuni popolari gustando le parole si porgeano10, si raunorono11 insieme sei cittadini popolani, fra’ quali io Dino Compagni fui, che per giovaneza12 non conoscea le pene delle leggi13, ma la purità de l’animo e la cagione che la città venìa in mutamento14. Parlai sopra ciò15, e tanto andamo convertendo16 cittadini, che furono eletti tre cittadini capi dell’Arti17, i quali aiutassono i mercatanti e artieri18 dove bisognasse: i quali furono Bartolo di messer Iacopo de’ Bardi, Salvi del Chiaro Girolami, e Rosso Bucherelli; e raunoronsi19 nella chiesa di San Brocolo. E tanto crebbe la baldanza de’ popolani co’ detti tre, vedendo che non erano contesi20; e tanto li riscaldorono le franche parole de’ cittadini, i quali parlavano della loro libertà e delle ingiurie ricevute; e presono21 tanto ardire, che feciono22 ordini e leggi, che duro sarebbe suto23 di rimuoverle. Altre cose non feciono, ma del24 loro debile25 principio ferono assai. Il detto uficio fu creato per due mesi, i quali cominciorono a dì XV di giugno 1282; il quale finito, se ne creò sei, uno per sestiero26, per due mesi, che cominciorono a dì XV d’agosto 1282. E chiamoronsi Priori dell’Arti […]. Le loro leggi in effetto furono, che avessono a guardare27 l’avere del Comune, e che le signorie facessero ragione28 a ciascuno, e che i piccoli e impotenti non fussono oppressati da’ grandi e potenti. E tenendo questa forma29, era grande utilità del30 popolo: ma tosto si mutò, però che31 i cittadini che entravano in quello uficio, non attendeano a observare le leggi, ma ad corromperle. Se l’amico o il parente loro cadea nelle pene32, procuravano con le signorie e con li uficiali a nascondere le loro colpe, acciò che rima-
1. amendue: entrambe. 2. contraffare a’: trasgredire i. 3. montò il soprastare: salirono, aumenta rono le sopraffazioni. 4. gli onori: le cariche. 5. onde: perciò. 6. ciò che ne potea advenire: ciò che pote va derivarne. 7. principali: le persone più autorevoli e influenti. 8. ci ponessono rimedio: di porre fine alle discordie. 9. la terra: la città. 10. gustando … porgeano: apprezzando le parole che venivano dette. 11. si raunorono: si radunarono, si riunirono. 12. per giovaneza: per la giovane età.
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13. le pene delle leggi: le condanne inflitte dalle leggi, in quanto non aveva esperienza giuridica. 14. la cagione … mutamento: la causa per cui la città subiva questi rivolgimenti. 15. sopra ciò: su questo argomento. 16. andamo convertendo: andammo con vincendo. 17. Arti: erano le corporazioni che riunivano gli appartenenti a una medesima professione. 18. aiutassono i mercatanti e artieri: avreb bero dovuto aiutare i mercanti e gli artigiani. 19. raunoronsi: si riunirono. 20. non erano contesi: non erano contra stati, non trovavano opposizione. 21. presono: presero.
22. feciono: fecero. 23. duro sarebbe suto: sarebbe stato diffi cile. 24. del: tenendo conto del. 25. debile: debole. 26. sestiero: i sestieri erano le zone, i quartieri in cui era divisa la città. 27. avessono a guardare: dovessero custo dire. 28. le signorie facessero ragione: le auto rità preposte rendessero giustizia. 29. tenendo questa forma: operando in questo modo. 30. del: per il. 31. però che: poiché. 32. cadea nelle pene: incorreva in qualche pena.
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nessono impuniti. Né l’avere del Comune non guardavano, anzi trovavano modo come meglio il potessono rubare; e così nella camera33 del Comune molta pecunia traevano34, sotto protesto di meritare uomini l’avesson servito35. L’impotenti36 non erano aiutati, ma i grandi gli offendevano, e così i popolani grassi37 che erano negli ufici e imparentati con grandi: e molti per pecunia erano difesi38 dalle pene del Comune, in che cadevano39. Onde i buoni cittadini popolani erano malcontenti, e biasimavano l’uficio de’ Priori, perché i Guelfi grandi40 erano signori41. Ritornati i cittadini in Firenze, si resse il popolo alquanti anni in grande e potente stato; ma i nobili e grandi cittadini insuperbiti faceano molte ingiurie a’ popolani, con batterli e con altre villanie. Onde molti buoni cittadini popolani e mercatanti, tra’ quali fu un grande e potente cittadino (savio, valente e buono uomo, chiamato Giano della Bella, assai animoso e di buona stirpe, a cui dispiaceano queste ingiurie) se ne fe’ capo e guida, e con l’aiuto del popolo (essendo nuovamente eletto de’ Signori42 che entrarono a dì XV di febraio 1292), e co’ suoi compagni, afforzorono43 il popolo. E al loro ufficio de’ Priori aggiunsono uno con la medesima balìa44 che gli altri, il quale chiamorono Gonfaloniere di Giustizia (Baldo Ruffoli per Sesto di Porta Duomo), a cui fusse dato uno gonfalone dell’arme del popolo, che è la croce rossa nel campo bianco, e mille fanti tutti armati con la detta insegna o arme, che avessono a esser presti45 a ogni richiesta del detto Gonfaloniere, in piaza o dove bisognasse. E fecesi leggi, che si chiamorono Ordini della Giustizia, contro a’ potenti che facessono oltraggi a’ popolani: e che l’uno consorto46 fusse tenuto per l’altro; e che i malifìci si potessono provare per due testimoni di pubblica voce e fama; e diliberorono che qualunque famiglia avesse avuti cavalieri tra loro, tutti s’intendessono esser Grandi, e che non potessono esser de’ Signori, né Gonfaloniere di Giustizia, né de’ loro collegi […]. I potenti cittadini (i quali non tutti erano nobili di sangue, ma per altri accidenti erano detti Grandi), per sdegno47 del popolo, molti modi trovorono per abbatterlo.
33. camera: cassa. 34. molta pecunia traevano: prendevano molto denaro. 35. sotto … servito: con il pretesto di remu nerare, premiare uomini che avessero reso servizi per il Comune. 36. L’impotenti: i più deboli.
37. popolani grassi: i più ricchi appartenenti al ceto popolare. 38. erano difesi: erano protetti, salvati. 39. in che cadevano: nelle quali incorrevano. 40. grandi: più potenti e influenti. 41. signori: i padroni della situazione. 42. Signori: Priori.
43. afforzorono: diedero forza. 44. balìa: potere. 45. presti: pronti. 46. consorto: consorte, appartenente a una consorteria, associazione di famiglie unite a difesa di interessi comuni. 47. sdegno: disprezzo.
Analisi del testo La concordia tra le parti e la partecipazione del cronista
In maniera sintetica, ma non per questo meno incisiva ed efficace, il cronista rende conto delle condizioni di Firenze, nel momento in cui il Comune sta mettendo a punto e consolidando le sue istituzioni politiche. Per Dino Compagni il problema di fondo è quello della concordia fra le “parti”, che corrispondono anche alle divisioni sociali fra il Popolo e i Grandi; proponendosi di difendere «i mercatanti e artieri» contro i soprusi dei potenti, e di evitare così la rovina della città, il cronista sottolinea, con la conoscenza delle cause del problema, la propria disinteressata partecipazione, quella «purità de l’animo» che lo spinge a impegnarsi per introdurre un più equo senso della giustizia (la presenza dell’“io” fa risaltare, con la sua funzione di testimonianza diretta, il rapporto ravvicinato e partecipe con gli avvenimenti narrati). 209
L’età comunale in Italia La difficoltà di ottenere giustizia
L’oggettività di Compagni
Il motivo della giustizia non è però un’astrazione, ma deve concretamente tradursi nella creazione di quegli ordinamenti civili e politici capaci di regolare il buon andamento della vita cittadina. Si delinea così la necessità di attuare delle opportune riforme democratiche, a partire dalla creazione dei Priori delle Arti. Non per questo il problema giunge a soluzione, dal momento che le stesse persone scelte dal popolo per governare tradiscono il mandato, venendo meno ai loro doveri; come scrive Compagni, con semplice ed efficace chiarezza: «i cittadini che entravano in quello uficio, non attendeano a observare le leggi, ma ad corromperle» (rr. 23-24). I favoritismi e la corruzione, quando la malvagia volontà degli uomini prevale sul diritto e sull’applicazione delle leggi, rischiano così di minare alla base – e qui il discorso conserva tutta la sua attualità – il buon funzionamento degli istituti della democrazia. Anche la creazione di una magistratura come quella del Gonfaloniere di Giustizia, oltre a ribadire l’attenzione per le ragioni economiche che sono alla base della scelte politiche, obbedisce per l’autore a un profondo bisogno di pacificazione e di giustizia sociale. Su tutto c’è però l’amara consapevolezza delle difficoltà di sottrarre la guida della cosa pubblica all’interesse dei “potenti”, se è vero che il tentativo di Giano della Bella sarà destinato al fallimento (i suoi avversari, infatti, «molti modi trovorono per abbatterlo»). La cercata oggettività del cronista, che si esprime nell’aderenza delle brevi frasi al racconto dei fatti narrati, corrisponde all’impostazione e all’indignazione di un giudizio morale, che, dettato da una concezione profondamente pessimistica della storia (e dei comportamenti umani), può ricordare quello del suo contemporaneo Dante.
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Quale delle due fazioni comincia «di giorno in giorno a contraffare a’ patti della pace» (r. 2)? > 2. Chi si raduna per porre rimedio affinché la situazione non degeneri? > 3. Quale magistratura viene istituita? Con quali compiti? Quanto durano in carica i magistrati? > 4. Come è descritto e che cosa fa Giano della Bella? Qual è la sua sorte? > 5. Chi è e quale incarico ha il Gonfaloniere di Giustizia? AnALIzzAre
> 6.
Stile Quali elementi conferiscono al brano un tono appassionato e polemico, dietro il quale si intravede l’uomo politico di parte più che il rigore del cronista?
ApprofondIre e InterpretAre
> 7.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) indica in che cosa consiste la novità dell’opera storiografica di Dino Compagni. pASSAto e preSente La corruzione in politica
> 8. Dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe rifletti su quali siano,
anche oggi, le tentazioni e i rischi di coloro che si trovano a gestire la “cosa pubblica”. Se è vero che i politici sono gravati da una serie di doveri e responsabilità, è vero anche, secondo alcuni, che non sono pochi i privilegi di cui godono, per cui è forte il rischio che i deboli o gli approfittatori finiscano facilmente con l’abusarne. Che cosa vuol dire, insomma, essere al servizio dello Stato e del bene pubblico? Da che cosa nasce e a che cosa porta la corruzione della classe politica?
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Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
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giovanni villani La vita Nato intorno al 1280 a Firenze, vi morì durante la peste del 1348. Mercante della ricca borghesia cittadina, fu socio della Compagnia dei Peruzzi, che rappresentò, dal 1302 al 1307, in Belgio e in Francia, intrattenendo rapporti d’affari con i più importanti personaggi. Tornato in Toscana nel 1308, si dedicò intensamente alla vita politica e fu più volte priore.
Dopo il ritorno a Firenze, iniziò a compilare la sua Cronica, proseguendone la stesura fino alla morte (l’opera rimase inedita sino al Cinquecento). I primi sei libri, riprendendo una collaudata tradizione medievale, offrono un compendio della storia universale, a partire dalla torre di Babele sino al racconto delle origini favolose delle città italiane, e di Firenze in particolare. Gli ultimi sei, che entrano nel vivo della contemporaneità e risultano i più interessanti, riferiscono gli avvenimenti del Comune fiorentino dal 1266 al 1346. La narrazione (condotta seguendo un ordine annalistico, con uno stile scarno e misurato, quasi compilativo) tende a una oggettivazione rigorosa dei fatti, fornendo indicazioni precise, con ricchezza di dati statistici, sui più diversi aspetti della vita economica e sociale. La Cronica verrà continuata fino al 1364 dal fratello Matteo e dal nipote Filippo.
L’opera
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giovanni villani
temi chiave
Le discordie fra i bianchi e i neri
• la condizione felice di Firenze nel passato e la decadenza attuale
• l’elenco delle principali famiglie fiorentine
dalla Cronica, VIII, 39 Dopo la sconfitta subita dai Ghibellini a Campaldino (1289), i Guelfi rimasero padroni di Firenze ma si divisero anch’essi, ben presto, in due partiti rivali: i Bianchi, guidati dalla famiglia dei Cerchi (ricchi borghesi provenienti dal contado), più sensibili ai valori laici e vicini all’idea imperiale; i Neri, di cui era a capo la famiglia dei Donati, di antica nobiltà cittadina, che sostenevano invece la politica del pontefice. Qui Villani narra gli avvenimenti dei primi mesi del 1300, con cui ebbe inizio la lotta delle due fazioni, destinata a concludersi con la vittoria dei Neri.
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Nel detto tempo, essendo la nostra città di Firenze nel maggiore stato1 e più felice che mai fosse stata dappoi ch’ella fu redificata2, o prima, sì di3 grandezza e potenza, e sì di numero di genti, […] avvenne che per le invidie si cominciarono tra’ cittadini le sètte4; e una principale e maggiore s’incominciò nel sesto dello scandolo di porte San Piero5, tra quegli della casa de’ Cerchi e quegli de’ Donati: l’una parte per invidia, e l’altra per salvatica ingratitudine6. […] E’ detti Cerchi furono in Firenze capo della parte bianca: e con loro tennero7 della casa degli Adimari quasi tutti, se non se il lato8 de’ Cavicciuli; tutta la casa degli
1. nel maggiore stato: nella condizione di maggiore splendore e benessere. 2. dappoi … redificata: da quando fu riedi ficata. Secondo una leggenda raccolta dallo stesso Villani (Cronica, II, 3, e III, 1), la ricostruzione di Firenze, distrutta da Attila, sarebbe stata opera di Carlo Magno. 3. sì di: sia per.
4. sètte: fazioni, divisioni politiche. 5. nel sesto … Piero: nel sestiere (quartiere) di porta san Piero, dove iniziò la discordia (lo scandolo). 6. l’una … ingratitudine: i Donati erano invidiosi dell’aumento delle ricchezze e del potere dei Cerchi; questi erano ingrati verso Firenze, che aveva contribuito a creare le
fortune della famiglia. L’aggettivo salvatica, come verrà chiarito poco dopo, allude all’origine sociale dei Cerchi, che non erano nobili come i Donati, ma borghesi arricchiti provenienti dal contado. 7. tennero: parteggiarono. 8. se non … lato: eccetto il ramo.
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Abati, la quale era allora molto possente, e parte di loro erano guelfi e parte ghibellini; grande parte de’ Tosinghi, spezialmente il lato del Baschiera; parte di casa i Bardi9 e parte de’ Rossi, e così de’ Frescobaldi, e parte de’ Nerli e de’ Mannelli, e tutti i Mozzi, che allora erano molto possenti di ricchezza e di stato10; tutti quegli della casa degli Scali, e la maggiore parte de’ Gherardini, tutti i Malispini, e gran parte de’ Bostichi e’ Giandonati, de’ Pigli e de’ Vecchietti e Arrigucci, e quasi tutti i Cavalcanti, ch’erano una grande e possente casa, e tutti i Falconieri, ch’erano una possente casa di popolo11. E con loro s’accostarono molte case e schiatte di popolani e artefici minuti12, e tutti i grandi e popolani ghibellini; e per lo seguito grande ch’aveano i Cerchi, il reggimento13 della città era quasi tutto in loro podere. Della parte nera, furono tutti quegli della casa de’ Pazzi quasi principali14 co’ Donati, e tutti i Visdomini, e tutti i Manieri e’ Bagnesi, e tutti i Tornaquinci, e gli Spini, e’ Bondelmonti, e’ Gianfigliazzi, Agli e Brunelleschi e Cavicciuli e l’altra parte de’ Tosinghi, e tutto il rimanente; e parte di tutte le case guelfe nominate di sopra, che quegli che non furono co’ bianchi, per contrario furono co’ neri. E così, delle dette due parti, tutta la città di Firenze e ’l contado ne fu partita e contaminata15. Per la qual cagione, la parte guelfa per tema che le dette parti non tornassono in favore de’ ghibellini, sì mandarono a corte a papa Bonifazio16, che ci mettesse rimedio. Per la qual cosa il detto papa mandò per17 messer Vieri de’ Cerchi, e come fu dinanzi a lui, sì ’l pregò che facesse pace con messer Corso Donati e colla sua parte, rimettendo in lui le differenze18, e promettendogli di mettere lui e’ suoi in grande e buono stato e di fargli grazie spirituali come sapesse domandare19. Messer Vieri tutto20 fosse nell’altre cose savio cavaliere, in questo fu poco savio e troppo duro e bizzarro21, che della richiesta del papa nulla volse fare22, dicendo che non avea guerra con niuno; onde si tornò in Firenze, e ’l papa rimase molto sdegnato contro a lui e contro a sua parte. Avvenne poco appresso che andando a cavallo dell’una setta e dell’altra23 per la città armati e in riguardo24, che con parte de’ giovani de’ Cerchi era Baldinaccio degli Adimari e Baschiera de’ Tosinghi e Naldo de’ Gherardini e Giovanni Giacotti Malispini co’ loro seguaci più di trenta a cavallo; e con gli giovani de’ Donati erano de’ Pazzi e Spini e altri loro masnadieri25, la sera di calen di maggio anno 1300, veggendo uno ballo di donne che si facea nella piazza di Santa Trinita, l’una parte contra l’altra si cominciarono a sdegnare26, e a pignere27 l’uno contro l’altro i cavalli, onde si cominciò una grande zuffa e mislea, ov’ebbe più fedite28: e a Ricoverino di messer Ricovero de’ Cerchi per disavventura fu tagliato il naso dal volto; e per la detta zuffa la sera tutta la città fu per gelosia29 sotto l’arme. Questo fu il cominciamento dello scandalo e partimento30 della nostra città di Firenze e di parte guelfa, onde molti mali e pericoli ne seguiro appresso […].
9. di casa i Bardi: della casata dei Bardi, celebri banchieri (si noti l’abitudine di lasciare solo l’articolo fra il nome comune casa e la specificazione del nome proprio). 10. stato: condizione. 11. casa di popolo: famiglia popolana. 12. schiatte … minuti: strati sociali di popo lani e di piccoli artigiani. I Cerchi raccolgono anche, in questo modo, l’eredità della tradizione ghibellina, provocando le reazioni del papato. 13. reggimento: governo, controllo. 14. principali: di pari grado e importanza, e quindi anch’essi a capo del movimento. 15. partita e contaminata: divisa e guasta ta, rovinata (come per il contagio di una malattia). 16. la parte … Bonifazio: il partito guelfo (che deteneva il potere a Firenze), per timore
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che le parti sopraindicate risultassero a van taggio dei Ghibellini (ossia finissero per fare il loro gioco, favorendone il ritorno al potere), mandò (il verbo concorda a senso con il soggetto) dei rappresentanti (sottinteso) alla cor te di Bonifacio VIII. Il pontefice, che il Villani ci presenta come un mediatore disinteressato, cercò di consolidare la sua influenza su Firenze, favorendo l’affermazione dei Neri. 17. mandò per: mandò a chiamare, con vocò. 18. rimettendo … differenze: affidando a lui la soluzione dei dissensi e delle contese. 19. fargli … domandare: concedergli tutte le grazie spirituali che volesse chiedere (oltre ai favori materiali prima promessi). 20. tutto: benché, sebbene. 21. bizzarro: scontroso, scostante (è da collegare alla natura salvatica della sua gente). 22. nulla … fare: non volle farne nulla, rifiu-
tandosi di accettarla. 23. dell’una … altra: alcuni giovani dell’una e dell’altra fazione (dell’ è partitivo). 24. in riguardo: in guardia, perché sospettosi e pronti a usare le armi. 25. masnadieri: non nel senso peggiorativo che il termine acquisterà in seguito, ma in quello etimologico di appartenenti alla “masnada”, schiera di giovani al servizio di una famiglia. 26. sdegnare: trattare in maniera sprezzante e sdegnosa. 27. pignere: spingere. 28. mislea … fedite: mischia, combattimen to (francesismo), dove si ebbero numerosi feri menti. 29. per gelosia: per sospettosa rivalità e paura. 30. partimento: divisione.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Analisi del testo La situazione di Firenze
Le famiglie fiorentine
Un’analisi semplicistica della situazione politica
Uno stile monotono e impersonale
L’inizio del brano rappresenta in positivo la situazione del Comune di Firenze, che, alla fine del XIII secolo, domina sull’intera Toscana «sì di grandezza e potenza, e sì di numero di genti». Si tratta anche di un diffuso topos letterario che, basandosi su una concezione moralistica e conservatrice della storia, oppone la negatività e la decadenza del presente alla felicità del passato. Villani presenta poi, con un’attenzione minuziosamente analitica, una specie di mappa topografica delle più importanti famiglie fiorentine, che, nella schematica semplicità delle annotazioni (relative al carattere e alle condizioni degli opposti schieramenti), oltre che per i limiti delle risorse stilistiche (si noti la ripetizione dell’aggettivo «possente», quasi fosse difficile trovare delle variazioni lessicali), presenta nella prospettiva di una elementare immediatezza le vicende della vita municipale. Le capacità di comprensione e di interpretazione del cronista restano superficiali e lacunose. Manca, in primo luogo, un’analisi delle condizioni socio-economiche e politiche, che chiarisca le ragioni profonde delle divisioni cittadine, semplicisticamente riportate all’«invidia» e alla «salvatica ingratitudine» (rr. 4-5). Per il resto la «grande zuffa e mislea» avvenuta «la sera di calen di maggio» (rr. 35-37) del 1300 non è che un motivo occasionale, così come insufficiente appare la spiegazione dell’intervento di Bonifacio VIII, che mirava in realtà a estendere la propria influenza egemonica su Firenze. Lo stile piatto e monotono, impersonale e da resoconto ufficiale (si vedano le numerose ripetizioni e l’uso continuo della paratassi, che conferisce un’impressione di accumulo, fino a una frase elementare come questa: «quegli che non furono co’ bianchi, per contrario furono co’ neri», rr. 20-21), conferma il giudizio di Francesco De Sanctis, per il quale, mentre Compagni e Dante «scrivono con il pugnale», Giovanni Villani e i suoi continuatori, Matteo e Filippo, raccontano con indifferenza «come facessero un inventario».
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Quali sono, a detta dell’autore, le cause scatenanti delle discordie fra Bianchi e Neri? > 2. Chi si rivolge a Bonifacio VIII? Che cosa fa il papa e quale funzione svolge, secondo Villani? > 3. Qual è l’episodio a cui l’autore fa risalire l’inizio delle contese? AnALIzzAre
> 4.
Stile A livello stilistico nel brano prevale l’uso dell’ipotassi o della paratassi? Si notano ripetizioni di termini o di aggettivi? Quale altra figura retorica ricorre? > 5. Lessico Consultando eventualmente un dizionario on line rintraccia l’etimologia ed il significato originario del termine “cronaca”.
ApprofondIre e InterpretAre
> 6.
testi a confronto: esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) confronta la “cronaca” di Giovanni Villani con quella di Dino Compagni, tenendo conto del giudizio di Francesco De Sanctis, ricordato nell’Analisi del testo, per cui mentre Compagni scrive «con il pugnale», Giovanni Villani racconta con indifferenza come per un inventario.
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L’età comunale in Italia
L e t t e r a t u r a e Economia
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giovanni villani
ricchezza e magnificenza del Comune di firenze dalla Cronica, XI, 94
testo e realtà L’autore fornisce una descrizione assai accurata, e improntata a concretezza, della realtà socio-economica della Firenze del 1338, fornendo dati statistici e demografici, informazioni sulle professioni, sui prodotti e perfino sui prezzi di alcune merci al minuto.
Se la Cronica di Giovanni Villani presenta, rispetto a quella di Compagni, caratteristiche ancora arcaiche (il risalire alle origini favolose di Firenze), non mancano elementi di indubbia modernità, per l’attenzione minuziosa e analitica rivolta alle condizioni economiche e sociali della città.
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Stimavasi d’avere1 in Firenze da2 novantamila bocche3 tra uomini e femmine e fanciulli, per l’avviso4 del pane che bisognava al continuo5 alla città, come si potrà comprendere; ragionavasi6 avere continui nella città da millecinquecento uomini forestieri e viandanti7 e soldati: non contando nella somma de’ cittadini religiosi e frati e monache rinchiusi, onde8 faremo menzione appresso. Ragionavasi avere in questi tempi9 nel contado e distretto10 di Firenze da ottantamila uomini. Troviamo dal piovano11 che battezzava i fanciulli (imperocché12 ogni maschio che si battezzava in San Giovanni13, per averne il novero14 metteva una fava nera; e per ogni femmina una fava bianca) che erano l’anno in questi tempi dalle cinquantacinque alle sessanta centinaia, avanzando più il sesso masculino che ’l femminino da trecento in cinquecento per anno. Troviamo ch’e’ fanciulli e fanciulle che stanno a leggere15, da otto a dieci mila. I fanciulli che stanno ad imparare l’abbaco e algorismo16 in sei scuole, da mille in milledugento. E quegli che stanno ad apprendere la grammatica e loica17 in quattro grandi scuole, da cinquecentocinquanta in seicento. [...] Le botteghe dell’arte della lana18 erano dugento o più: e facevano da settanta in ottantamila panni, che valevano da uno milione e dugento migliaia di fiorini d’oro19, che bene il terzo più rimaneva nella terra per ovraggio20, senza21 il guadagno de’ lanaiuoli22 del detto ovraggio, e viveane23 più di trentamila persone. […] I banchi de’ cambiatori24 erano da ottanta. La moneta dell’oro che si batteva25 era da trecentocinquanta migliaia di fiorini d’oro e talora quattrocentomila; e di danari da quattro piccioli26 l’uno si batteva l’anno circa ventimila libbre27. Il collegio de’ giudici era da ottanta; i notai da secento; medici fisichi e ceruschi28 da sessanta; botteghe di speziali29 erano da cento. Mercatanti30 e merciai erano grande numero; da non potere stimare le botteghe de’ calzolai,
1. Stimavasi d’avere: si stimava che ci fossero. 2. da: circa. 3. bocche: abitanti. 4. per l’avviso: stando all’indicazione. 5. bisognava al continuo: occorreva ogni giorno. 6. ragionavasi: si riteneva. 7. viandanti: viaggiatori. 8. onde: di cui. 9. in questi tempi: intorno al 1338. 10. contado e distretto: i dintorni e le zone poste sotto la giurisdizione di Firenze. 11. Troviamo dal piovano: veniamo a sa pere dal sacerdote. 12. imperocché: poiché. 13. San Giovanni: il Battistero di Firenze, dedicato a san Giovanni Battista.
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14. per averne il novero: per saperne il numero. 15. stanno a leggere: imparano a leggere. 16. l’abbaco e algorismo: indica i primi rudimenti della matematica (l’abaco era propriamente una sorta di pallottoliere per insegnare a fare i conti, l’algoritmo un sistema di calcolo numerico). 17. grammatica e loica: nel Medioevo le cosiddette “arti liberali”, ossia lo studio di quelle discipline che comportavano un impegno intellettuale (in opposizione alle “arti meccaniche”), si dividevano in “arti del Trivio” (grammatica, retorica e logica) e “arti del Quadrivio” (aritmetica, geometria, musica e astronomia). 18. arte della lana: l’«arte della lana», o «di Calimala», era la più importante delle associazioni o corporazioni in cui si dividevano
le attività degli imprenditori e dei lavoratori. 19. fiorini d’oro: il fiorino era l’antica moneta fiorentina. 20. che bene … ovraggio: di cui un buon terzo rimaneva in città (terra) per la lavorazio ne (ovraggio). 21. senza: per non parlare. 22. lanaiuoli: lavoratori della lana. 23. viveane: ci vivevano. 24. cambiatori: cambiavalute. 25. si batteva: si coniava. 26. piccioli: la moneta di minor valore. 27. libbre: la libbra era un’unità di misura di peso dal valore variabile. 28. ceruschi: chirurghi. 29. speziali: venditori di spezie. 30. Mercatanti: mercanti.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
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pianellai e zoccolai31; erano da trecento e più quegli ch’andavano fuori di Firenze a negoziare32, e molti altri maestri33 di più mestieri, e maestri di pietra e di legname34. Aveva allora in Firenze centoquarantasei forni, e troviamo per la gabella della macinatura e per li fornai35, che ogni dì bisognava alla città dentro centoquaranta moggia36 di grano, onde si può estimare quello che bisognava l’anno; non contando che la maggior parte de’ ricchi e nobili e agiati cittadini con loro famiglie, stavano quattro mesi l’anno in contado, e tali più37. Troviamo nell’anno 1280, ch’era la città in felice e buono stato, che volea38 la settimana da ottocento moggia. [...] Ell’era dentro bene situata e albergata di molte belle case39, e al continovo40 in questi tempi s’edificava, migliorando i lavorii di fargli agiati41 e ricchi, recando di fuori42 belli esempli d’ogni miglioramento. Chiese cattedrali e di frati d’ogni regola43 e magnifichi monasteri; e oltre a ciò non v’era cittadino popolano o grande44 che non avesse edificato o che non edificasse in contado grande e ricca possessione, e abitura45 molto ricca, e con begli edifici e molto meglio che in città: e in questo ciascuno ci peccava46, e per le disordinate spese erano tenuti47 matti.
31. pianellai e zoccolai: venditori di panto fole e zoccoli. 32. negoziare: commerciare. 33. maestri: lavoratori. 34. maestri … legname: muratori e falegnami. 35. per la gabella … fornai: dai registri del la tassa sul grano macinato e dai libri contabi li dei fornai. 36. moggia: il moggio è un’unità di misura
di capacità per il grano e gli altri cereali. 37. tali più: qualcuno anche di più. 38. volea: occorrevano. 39. Ell’era … case: la città (Ell’) all’interno era ben sistemata (situata) e dotata (albergata) di molte case belle. 40. al continovo: di continuo. 41. di fargli agiati: per farli comodi. 42. recando di fuori: derivando dall’esterno.
43. d’ogni regola: di ogni ordine. 44. cittadino … grande: “grandi” erano detti i cittadini più potenti e influenti, i “magnati”, per distinguerli dal “popolo”, diviso a sua volta in popolo “grasso” e popolo “minuto”. 45. abitura: abitazione. 46. ci peccava: eccedeva. 47. erano tenuti: erano considerati.
Analisi del testo
statistica di firenze >Inun’indagine apertura del capitolo Villani aveva mostrato la consapevolezza del cronista sull’utilità
Dati statistici e demografici
La ricchezza di Firenze
Uno stile chiaro e preciso
della propria opera, augurandosi che il suo «ricordo e esemplo» potesse fornire in futuro un valido strumento di confronto tra la Firenze del 1338 e quella dei posteri. L’attenzione viene rivolta qui in particolare alla realtà socio-economica, indagata minutamente nei suoi aspetti più vari e, soprattutto, concreti. Veniamo così informati sui dati statistici e demografici relativi alle persone presenti in Firenze (a partire dalle «novantamila bocche tra uomini e femmine e fanciulli», r. 1) e alla distribuzione dei cittadini nelle varie classi sociali. Questi dati vengono calcolati sulla base di esperienze della vita pratica, come l’«avviso del pane» – sulla quantità necessaria per soddisfare ogni giorno il fabbisogno dei cittadini – e le fave nere o bianche, depositate in San Giovanni dal «piovano» a seconda che battezzasse un maschio o una femmina. Con la stessa scrupolosità vengono fornite informazioni non solo sulle attività commerciali e professionali, ma anche sull’istruzione, considerata non in maniera astratta ma pienamente inserita nel contesto dei bisogni cittadini. Non manca neppure il confronto con il passato, a proposito della macinatura del grano (nel 1338, 140 moggi di grano al giorno; nel 1280, 800 moggi la settimana). È proprio la mentalità del mercante che induce lo scrittore a precisare, di volta in volta, la consistenza quantitativa e numerica del fenomeno considerato. Emerge così una vera e propria “fotografia” di Firenze, città dalle attività differenziate e ricca di «dignità e magnificenze», quali «molte belle case … Chiese cattedrali e di frati … magnifichi monasteri, e … in contado grande e ricca possessione, e abitura molto ricca» (rr. 30-34). Su queste ricchezze Villani esprime la propria ammirazione, ma, da oculato mercante borghese, condanna anche «le disordinate spese», fatte solo per rappresentanza.
scientifica >Perun’impostazione tutte queste ragioni il passo costituisce il documento importante di una concezione più
ampia e completa della storia, che aspira, attraverso la raccolta dei dati, a una impostazione di tipo statistico e scientifico. Al carattere essenziale e funzionale delle indicazioni che 215
L’età comunale in Italia
ci vengono fornite corrisponde la costruzione enumerativa del periodo, basata su una struttura simmetrica e parallela, di semplice chiarezza e di rigorosa efficacia (si osservino anche le riprese e le anafore sostenute da verbi come «ragionavasi», «troviamo» ecc.).
Come in Firenze fu fatto il tempio di Marti, il quale oggi si chiama Duomo di Santo Giovanni, XIV secolo, miniatura dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, codice Chigi L. VIII.296, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. In base a quale parametro è calcolato il numero degli abitanti di Firenze? Fra i nati prevalgono i maschi o le femmine? > 2. Qual è il numero dei ragazzi che imparano a leggere? Tra loro, sono in maggior numero quelli che si dedicano ad apprendere le arti del Trivio o quelli che imparano le arti del Quadrivio? > 3. Quanti sono i forni? In base a quali elementi è calcolata la quantità di grano utilizzata ogni giorno per rifornire di pane la città? AnALIzzAre
> 4. Quanti sono coloro che si dedicano alla lavorazione della lana? In percentuale, quanti rispetto agli abitanti di Firenze? Che cosa deduci da ciò?
> 5. Lessico Rintraccia i termini appartenenti al campo semantico del denaro. > 6. Lessico Prendi in considerazione le prime 16 righe del passo ed individua e sottolinea (anche se si ripetono) una volta i termini che si riferiscono alla realtà concreta, due volte quelli che indicano concetti astratti. Che cosa rilevi?
ApprofondIre e InterpretAre
> 7.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) approfondisci la questione dell’educazione dei fanciulli e delle fanciulle, riflettendo sui numeri di coloro che nella città si dedicavano ai diversi studi, distinti nel Medioevo, in arti del Trivio e del Quadrivio. Quali erano considerati i più prestigiosi? pASSAto e preSente Le due culture
> 8. A proposito dell’eterna querelle tra cultura scientifica ed umanistica scrive Piergiorgio Odifreddi: Il 7 maggio 1959 Charles Snow, chimico per educazione e romanziere per vocazione, tenne una conferenza […] su Le due culture e la rivoluzione scientifica […]. La tesi di Snow era semplice: mentre gli scienziati, come tutte le persone acculturate, frequentano la letteratura, la musica, l’arte e la filosofia, gli umanisti non sanno un accidente di matematica, fisica, chimica e biologia. Ma mentre chi non conosce Dante, Beethoven, Michelangelo o Aristotele viene giustamente considerato un ignorante, non è affatto così per chi non abbia mai frequentato Archimede, Galileo, Lavoisier o Darwin. Cinquant’anni e infinite discussioni dopo, le cose rimangono esattamente com’erano: basta sfogliare le pagine culturali (appunto) dei giornali per accorgersi che la scienza non si pubblica, se si pubblica la si banalizza, e se non si banalizza non la si valorizza. P. Odifreddi, Quel titolo ha segnato un’epoca, in “la Repubblica”, 1° giugno 2009
Qual è la tua opinione in proposito? Motiva la tua risposta dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in un dibattito in classe.
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Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
T10
Anonimo
temi chiave
La passione e il martirio di fra michele
• un richiamo all’insegnamento di san Francesco
• la povertà di vita • l’isolamento di fra Michele
dalla Storia di fra Michele minorita, XIX-XXVII e XXXV Concluso il processo con la condanna, fra Michele viene condotto al patibolo. xix.
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Letta che fu la confessione, e ’l capitano si tornò dentro, non dando sentenzia come è usanza agli altri; e niuno ordine si tenne a lui1 che s’usasse di tenere agli altri che vanno alla giustizia2. Tornato che fu il capitano dentro, la famiglia con grande impeto lo trassono3 fuori della porta del capitano. E rimase tutto solo tra’ mascalzoni; scalzo, con una gonnelluccia in dosso, parte de’ bottoni isfibiati4. E andava col passo larghetto, e col capo chinato, dicendo ufficio5, che veramente parea uno de’ martiri. E tanto popolo v’era che appena si potea vedere. E a tutti increscendone6, diceano: – Deh, non voler morire! – et esso rispondea: – Io voglio morir per Cristo. – E dicendogli: – Oh, tu non muori per Cristo – e desso7 dicea: – Per la verità. – E a cui gli dicea: – Oh, tu non credi in Dio – et esso rispondea: – Io credo in Dio e nella vergine Maria e nella santa Chiesa. – E alcuno gli dicea: – Sciagurato, tu hai il diavolo a dosso che ti tira – et e’rispondea: – Idio me ne guardi. – E così andando, rispondea di rado, e non rispondea se non alle cose che gli pareano di necessità8, e rade volte alzando gli occhi altrui9. 10 xx. E quando giunse dal canto del Proconsolo , essendovi grande romore del popolo 11 che traeva a vedere, e alcuno fedele vegendolo si mischiò tra gli altri dicendo: – Frate Michele, priega Idio per noi. – A’ quali egli alzando gli occhi, disse: – Andate, che siate benedetti, catolici cristiani. 12 xxi. E da’ Fondamenti di Santa Liperata, dicendogli alcuno: – Sciocco che tu se’, credi nel papa – e que’ disse, alzando il capo: – Voi ve n’avete fatto Idio, di questo vostro papa; come vi conceranno13 ancora! – E più oltre, essendogli anche14 detto, et esso disse quasi sorridendo: – Questi vostri paperi v’hanno ben conci. – Onde molti, maravigliandosi, diceano: – E’ va alla morte allegramente. xxii. Quando giunse a Santo Giovanni, essendogli detto: – Pentiti, pentiti, non voler morire – et esso dicea: – Io mi pento de’ peccati miei. – E alcuno gli dicea: – Campa la vita15 – et esso dicea: – Campate i peccati. xxiii. E di là del Vescovado, dicendogli alcuno: – Tu non ti raccomandi a persona che prieghi Idio per te – et esso disse con voce alta: – Io priego tutti i fedeli cristiani catolici, che prieghino Idio per me. xxiv. E da Mercato Vecchio a Calimala, essendogli detto: – Campa, campa – et esso rispuose: – Campate lo ’nferno, campate lo ’nferno, campate lo ’nferno. xxv. E giugnendo in Mercato Nuovo, essendogli detto: – Pentiti, pentiti – et e’rispondea: – Pentetevi de’ peccati, pentetevi de l’usure16, delle false mercatanzie.
1. niuno … lui: nessuna delle consuete pro cedure fu osservata per lui, nei suoi confronti. 2. giustizia: condanna. 3. lo trassono: lo trassero (concorda a senso con il nome collettivo). 4. isfibiati: fuori dell’asola, sbottonati. 5. dicendo ufficio: recitando l’ufficio, le pre ghiere contenute nel breviario. 6. increscendone: siccome dispiaceva, rin cresceva. 7. desso: egli.
8. di necessità: essenziali, tali da meritare ri sposta. 9. altrui: verso gli altri. 10. Proconsolo: il percorso di fra Michele è scandito, d’ora innanzi, da precisi riferimenti topografici. 11. traeva: si recava. 12. da’: dalla parte di, presso. 13. conceranno: ridurranno; l’espressione, ancora di uso corrente, è ripresa poco dopo: conci, conciati.
14. anche: ancora. 15. Campa la vita: scampa, salva la vita; più avanti si trova Campate i peccati, salvatevi dai peccati. 16. usure: prestiti concessi ad un eccessivo tasso di interesse. Era uno degli strumenti, condannato da ampi settori della Chiesa, che avevano consentito l’arricchimento della classe mercantile; le false mercatanzie sono i commerci praticati con la frode e l’inganno.
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L’età comunale in Italia xxvi. E in su la Piazza de’ Priori, essendogli detto: – Pentiti di cotesto errore, non voler morire
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– et e’ diceva: – Anzi17 è la fede catolica, anzi è la verità alla quale è obligato ciascuno cristiano. 18 xxvii. E alla Piazza del Grano, essendovi molte donne alle finestre, e tavolieri e gente che giucava, gli diceano: – Pentiti, pentiti – e que’ diceva: – Pentetevi de’ peccati, de l’usure, del giucare, delle fornicazioni19. – E più oltre, dicendogli molti: – Non voler morire, sciocco che tu se’ – ed egli diceva: – Io voglio morir per Cristo. – E uno infra gli altri gli andò dando molta briga20 per più d’una balestrata21, dicendogli: – Tu se’ martire del diavolo; credi tu saper più che tanti maestri? credi tu che se ’l maestro Luca22 conoscesse che cotesta fosse la verità, che volesse perdere l’anima? vuogli tu sapere più di lui, che non sai leggere a petto a23 lui? – Et e’ disse: – Se bene mi ricorda, il maestro Luca sa bene che tiene cotanti danari contro alla regola sua24, e non gli lascia. – E colui dicendogli: – O, voi dite che noi non siamo battezati né cristiani – et e’ disse, guatandolo25: – Anzi, dico che voi siete cristiani e battezati, ma non fate quello che dee fare il cristiano. – E colui cominciò a dire: – Voce di popolo, voce di Dio – et e’ disse: – La voce del popolo fece crucifiggere Cristo, fe’ morire santo Pietro. – E qui gli fu data molta briga; chi diceva: – Egli à il diavolo a dosso – chi: – Egli muore eretico. – Quegli rispondea: – Eretico non fu’ io mai né voglio essere. – E qui, chiamandolo uno fedele per nome gli disse che pensasse alla passione di Cristo; et esso si rivuolse con volto lieto e disse: – O fedeli cristiani catolici, pregate Idio che mi facci forte. […] 26 xxxv. Giunto che fu al capanuccio , frate Michele, secondo mi parve vedere e ch’io udi’ dalla gente, arditamente v’entrò dentro; et essendo legato alla colonna, molti mettevano il capo dentro pregandolo che si svuolgesse27; et egli stava sempre più forte28. E secondo che disse uno di certezza29, che gli avea detto: – Che è questo? il perché tu vuogli morire? – rispuose: – Questa è una verità ch’io ò albergata in me30, della quale non se ne può dare testimonio se non morte31. – Poi, per ispaurillo32, alquante vuolte fecero fummo intorno al capanuccio con molti ispaurimenti. E la gente d’intorno il pregava che si svolgessi, eccetto alcuno fedele che ’l confortava. Oltra questo, udi’ che gli fu mostrato uno giovane co’ fanti33 de’ Priori, che venia da parte de’ Dieci per rimenarlo sano e salvo, se si svolgesse. E veggendo uno comandatore la sua fermezza disse: – Ch’è ch’ha atraversato il diavolo a dosso34? – E quel giovane rispuose: – Forse hae Cristo. – In fene35 delle molte battaglie36 che gli diedono, mìssono fuco37 di sopra nel capanuccio. Fatto questo, frate Michele, dappoi ch’ebbe detto il Credo, che il cominciò all’entrata del capanuccio, e dopo le risposte che fece, come sentì appicato il fuoco cominciò a cantare il Tadeo38 e, secondo che dice alcuno, ne cantò forse otto versi, e poi tenne un atto39 come se starnutisse, dicendo la sezaia40 parola: – In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum41. – Arsi che furono i legami, cadde in terra ginochione, colla faccia verso il cielo e la bocca tonda42, morto.
17. Anzi: al contrario; si oppone a errore. 18. tavolieri: tavoli da gioco. 19. fornicazioni: peccati carnali. 20. briga: noia, fastidio. 21. balestrata: tratto di cammino equivalente alla gittata di una freccia lanciata da una balestra. 22. maestro Luca: «Luca Manzuoli, teologo allora famoso, creato cardinale da Gregorio XI nel 1408» (De Luca). 23. a petto a: nei confronti di. 24. regola sua: la regola – francescana – alla quale dovrebbe attenersi. 25. guatandolo: guardandolo. 26. capanuccio: capannuccio; è la catasta di
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legna a cui, salito il condannato, si appiccava il fuoco. 27. si svuolgesse: ritrattasse, rinnegasse la sua fede. 28. forte: saldo, fermo nei suoi princìpi. 29. di certezza: veridicamente, con sicurezza. 30. ò albergata in me: ho conservata dentro di me. 31. dare … morte: dare testimonianza se non con la morte. 32. ispaurillo: spaventarlo; poco dopo si ha ispaurimenti, spaventi. 33. fanti: guardie; i Priori e i Dieci sono magistrature cittadine. 34. Ch’è … a dosso?: «Che cosa è che ha il
diavolo, per così dire, sulle spalle, messo di traverso?» (De Luca). 35. In fene: alla fine. 36. battaglie: assalti (i tentativi per indurlo a ritrattare). 37. mìssono fuco: misero, accesero il fuoco. 38. Tadeo: Te Deum, inno di gioia, che si canta nelle solenni funzioni di ringraziamento. 39. tenne un atto: fece un gesto. 40. la sezaia: l’ultima. 41. In manus … meum: nelle tue mani, o Signore, raccomando l’anima mia. 42. tonda: aperta, spalancata.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
Analisi del testo
Espressione essenziale Stile breve e incalzante
Simmetria tra domande e risposte
Fra Michele seguace di Cristo e di Francesco
Isolamento di fra Michele
Via crucis di fra Michele
L’invito alla costanza e alla fermezza, presente nelle regole e nell’insegnamento francescano, ha un’intensa e drammatica testimonianza in questa “storia” di fra Michele minorita, uno dei testi più alti non solo delle cronache del tempo ma di tutta la letteratura religiosa in volgare dei primi secoli. La drammaticità della vicenda è sostenuta da una scrittura tesa e concentrata, che nulla concede al gusto della divagazione e degli abbellimenti formali. Lo stile, che procede con rapida e incalzante brevità sintattica, tutta tesa ad assecondare i movimenti del discorso e dell’azione, è anzi chiuso e monotono, in corrispondenza con l’ostinata intransigenza dimostrata dal frate nel difendere le proprie convinzioni. Di grande efficacia, in questo senso, la struttura essenziale dei paragrafi più brevi, che si susseguono con una cadenza parallela, rafforzata, all’interno, da una costruzione simmetrica del discorso: quella che si basa, in prevalenza, sugli inviti rivolti al frate perché ritratti le sue affermazioni e sulle risposte da lui prontamente fornite, che escludono ogni possibile cedimento o concessione (le battute del discorso diretto sono a loro volta introdotte da formule scarne e ripetitive, del tipo «dicendogli», «essendogli detto» / «et esso», «et e’», ecc., in cui la congiunzione finisce per assumere il valore avversativo di un “ma”). Le parole di fra Michele chiariscono il senso della sua scelta di vita, fedele alla rigorosa povertà predicata da Cristo e da Francesco («Io credo in Cristo, povero, crocifisso; e credo che Cristo, in quanto uomo viatore e mortale, mostrando via di perfezione, non avesse nulla e in ispeziale e in comune…»), tanto che rimprovera i mercanti in Mercato Nuovo per l’usura e le «false mercatanzie». Dal dialogo scarno e serrato deriva l’effetto drammatico del racconto, nel senso di un’azione visivamente rappresentata, in cui si staglia la figura del protagonista e si contrappone, per una sorta di incomunicabile estraneità, agli umori della folla, la cui commozione e concitazione non è descritta collettivamente, ma attraverso le voci che si levano verso di lui. C’è qualcosa di ieratico e di teatrale in questa descrizione, concepita e svolta come se si trattasse di una sacra rappresentazione; e non c’è dubbio che l’anonimo autore intende conformare il racconto ai modelli della passione di Cristo e dei martiri, presentando le tappe dell’ultimo cammino di fra Michele come altrettante stazioni di una nuova via crucis.
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Riassumi il passo relativo al martirio di fra Michele (capitolo XXXV). AnALIzzAre
> 2. Spiega, in base a quanto appreso dall’Analisi del testo, il significato delle seguenti affermazioni riferite a fra Michele.
a) «Sciagurato, tu hai il diavolo a dosso che ti tira» (r. 11). b) «Onde molti, maravigliandosi, diceano: – E’ va alla morte allegramente» (rr. 21-22). > 3. narratologia Individua nel testo i momenti fondamentali in cui la folla, con la sua voce anonima, compare sulla scena della cronaca. > 4. Lessico Individua nel testo i vocaboli e/o le espressioni riferiti ai concetti di “eresia” e “santità”: in quali momenti della narrazione sono presenti? > 5. Lingua Individua nel testo un passo che funga da esempio significativo di brevità sintattica ispirata allo stile rapido e incalzante della cronaca medievale. ApprofondIre e InterpretAre
> 6. testi a confronto: esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) rifletti su quali elementi della narrazione, in particolare, autorizzano un diretto confronto con la dimensione teatrale della sacra rappresentazione. Nel rispondere, prova a fare riferimento alle testimonianze più importanti della letteratura religiosa del Due-Trecento, ad esempio a Donna de Paradiso di Iacopone da Todi ( cap. 1, T2, p. 107).
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L’età comunale in Italia
La voce del Novecento
La Storia di fra Michele minorita nel Nome della rosa di umberto eco Il successo mondiale del Nome della rosa, il romanzo di Umberto Eco uscito nel 1980, è stato amplificato dal film, interpretato da Sean Connery, che ne ha tratto il regista Jean-Jacques Annaud. Ambientata in un’abbazia benedettina del XIV secolo, la vicenda consiste nella ricerca di un misterioso assassino, di cui si incarica un monaco-detective, Guglielmo da Baskerville. Particolarmente attenta alla ricostruzione storica del periodo, ma anche di grande rilievo per i problemi politico-filosofici che vengono dibattuti (ne risulta un quadro dell’ultimo Medioevo molto dettagliato e approfondito), l’opera presenta anche un grande interesse per il modo in cui è stata concepita e costruita. Nello svolgimento della trama Eco ha ampiamente utilizzato il procedimento dell’intertestualità, che consiste nella ripresa di riferimenti e citazioni tratte da altre opere, antiche e moderne. Tra queste c’è anche la Storia di fra Michele minorita, che viene seguita nei suoi sviluppi e riassunta utilizzando, ovviamente, il linguaggio del nostro tempo. A narrarla è l’assistente di Guglielmo, Adso da Melk, che afferma di avere assistito a quei fatti di persona (così nel voluto anacronismo della finzione narrativa, dal momento che l’ambientazione del romanzo è di alcuni decenni precedente rispetto all’episodio in esso narrato).
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Arrivai alla chiesa di San Salvatore dove si teneva il processo, ma non potei entrare, per la gran folla che vi era davanti. Però alcuni stavano issati e attaccati alla inferriata delle finestre e vedevano e udivano quanto vi avveniva, e ne riferivano agli altri di sotto. Stavano allora rileggendo a frate Michele la confessione che aveva fatta il giorno prima, in cui diceva che Cristo e gli apostoli suoi “non ebber niuna cosa né in speziale1 né in comune per ragione di proprietà2”, ma Michele protestava che il notaio vi aveva aggiunto ora “molte false consequenzie3” e gridava (e questo lo udii da fuori) “N’avete a render ragione al dì del giudizio4!”. Ma gli inquisitori lessero la confessione così come l’avevano redatta e alla fine gli chiesero se voleva umilmente attenersi alle opinioni della chiesa e di tutto il popolo della città. E sentii Michele che gridava a voce alta che egli voleva attenersi a ciò che credeva, e cioè che “voleva tenere5 Cristo povero crocifisso e papa Giovanni XXII eretico, poiché diceva il contrario”. Ne seguì una gran discussione, in cui gli inquisitori, tra cui molti francescani, gli volevano far intendere che le scritture6 non avevano detto quel che diceva lui, e lui li accusava di negare la loro stessa regola dell’ordine7, e quelli gli davano addosso chiedendogli se mai lui credesse di intendere le scritture meglio di loro che ne erano maestri. E fra Michele, molto pertinace8 davvero, li contestava, sì che quelli prendevano ad assalirlo con provocazioni come “e allora vogliamo che tu tenga Cristo come fosse proprietario9 e papa Giovanni
1. in speziale: come beni privati, personali. 2. per ragione di proprietà: in quanto proprietari. Tra virgolette sono riportate più o meno alla lettera citazioni tratte dalla cronaca trecentesca (a questo punto fra Michele dice: “Io credo in Cristo povero, crocifisso; e credo che Cristo […]
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non avesse nulla e in ispeziale e in comune”). 3. consequenzie: conclusioni. 4. giudizio: il Giudizio universale, quando Dio, alla fine dei tempi, giudicherà tutti gli uomini. 5. tenere: ritenere, credere. 6. le scritture: le Sacre Scritture, in par-
ticolare il Vangelo. 7. ordine: l’Ordine francescano, o Ordine dei frati minori, fondato da san Francesco nel 1209, la cui regola prescriveva il voto di povertà. 8. pertinace: tenace, caparbio. 9. proprietario: possessore di beni privati.
Capitolo 3 · La prosa dell’età comunale
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come cattolico e santo”. E Michele, non deflettendo: “No, eretico”. E quelli dicevano che non avevano mai visto alcuno così duro nella propria nequizia10. Ma tra la folla fuori del palazzo ne udii molti che dicevano che egli era come Cristo tra i farisei11, e mi avvidi che tra il popolo molti credevano nella santità di frate Michele. Infine gli uomini del vescovo lo riportarono in prigione in ceppi. E la sera mi dissero che molti dei frati amici del vescovo erano andati a insultarlo e a chiedergli di ritrattare, ma egli rispondeva come uno che fosse sicuro della propria verità. E ripeteva a ciascuno che Cristo era povero e che così avevano detto anche santo Francesco e santo Domenico12, e che se a professare questa retta opinione avesse dovuto essere condannato al supplizio, tanto meglio, perché in breve tempo avrebbe potuto vedere ciò che dicono le scritture, e i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse13 e Gesù Cristo, e san Francesco, e i gloriosi martiri. E mi dissero che disse: “Se leggiamo con tanto fervore la dottrina di certi santi abati14 con quanto maggior fervore e gioia dobbiamo desiderare di stare in mezzo a loro”. E a parole del genere gli inquisitori uscivano dal carcere col viso scuro gridando sdegnati (e io li udii): “Ha il diavolo addosso15!”. Il giorno dopo sapemmo che la condanna era stata pronunziata. U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980
10. nequizia: malvagità. 11. farisei: appartenenti alla setta ebraica condannata da Gesù Cristo per il suo formalismo (il termine“fariseo”è poi diventato sinonimo di persona falsa, ipocrita). 12. santo Domenico: fondatore nel 1216 dell’Ordine dei frati predicatori, o
Domenicani. 13. ventiquattro … Apocalisse: l’Apo calisse, attribuita all’apostolo Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, che preannuncia la fine del mondo. Opera dall’interpretazione simbolica particolarmente dibattuta e complessa, nella
sua parte compaiono ventiquattro vecchi che adorano Dio. 14. abati: indica i cosiddetti Padri della Chiesa, autori di opere teologiche e devozionali. 15. Ha … addosso: è posseduto dal diavolo, è indemoniato.
Analisi del testo Le Postille a Il nome della rosa
> «Il medioevo è la nostra infanzia»
In alcune pagine dedicate al modo in cui è stato ideato e costruito il suo romanzo, le Postille a Il nome della rosa, Eco ha giustificato la scelta del Medioevo come periodo in cui ambientare il racconto sulla base di una consapevolezza precisa: «Inutile dire che tutti i problemi dell’Europa moderna si formano, così come li sentiamo oggi, nel Medioevo, dalla democrazia comunale alla economia bancaria, dalle monarchie nazionali alle città, dalle nuove tecnologie alle rivolte dei poveri: il Medioevo è la nostra infanzia a cui occorre sempre tornare per fare l’anamnesi». Il ritorno al passato non vuole quindi essere una forma di evasione ma confrontarsi con alcuni dei problemi che, sia pure in forme e modi diversi, ancora ci riguardano, tant’è che della vicenda è stata proposta anche una lettura allegorica, cercando le corrispondenze fra situazioni e personaggi del romanzo con la realtà del nostro tempo.
> dogmatismo e fanatismo
Un insegnamento attuale
Se si considera che la dialettica dell’opera è basata sul confronto (e lo scontro) fra la linea progressista (rappresentata dal protagonista) e la linea antidemocratica, oscurantista e reazionaria (di cui è espressione l’antagonista, Jorge da Burgos), non è difficile capire che l’episodio in questione ripropone, come un monito, il grave problema del dogmatismo e del fanatismo, di chi detiene un potere e impone con la forza, o in qualsiasi altro modo, le proprie idee e convinzioni, frutto spesso di interessi particolari, di superstizione o di ignoranza. È l’atteggiamento di chi condanna ed emargina le diversità (di razza, di fede, di pensiero e di opinioni) e finisce per fare dell’intolleranza un pregiudizio ideologico e politico, negando quel principio della libertà che dovrebbe essere alla base della civile convivenza. 221
L’età comunale in Italia
L’intertestualità
È questo l’insegnamento anche attuale che Eco pensa di dover ricavare “immergendosi” in quel Medioevo che può sembrare a noi, per molti aspetti, così lontano; con un’adesione che cerca anche, pur nella contemporaneità dello stile, di adeguarsi alle cadenza di una cronaca antica. Scrive ancora nelle Postille: «Mi sono messo a leggere o a rileggere i cronisti medievali, per acquistarne il ritmo e il candore. Essi avrebbero parlato per me». Non solo, ma il procedimento dell’intertestualità, da lui adottato, poteva trovare precisi riscontri nella letteratura medievale (si pensi alle tante versioni delle leggende di Lancillotto e di Tristano): «Ho scoperto così ciò che gli scrittori hanno sempre saputo (e che tante volte ci hanno detto): i libri parlano sempre di altri libri e ogni storia racconta una storia già raccontata».
Esercitare le competenze Comprendere
> 1. Proponi un breve riassunto del brano. AnALIzzAre
> 2.
narratologia Nel testo proposto, il narratore esterno si limita a registrare i fatti o interviene con giudizi personali su quanto accade? Si tratta di una narrazione sempre oggettiva? Motiva la tua risposta. > 3. Lessico Rintraccia nel brano i vocaboli (in particolare verbi e aggettivi) che delineano i tratti fondamentali del temperamento del protagonista. > 4. Lingua Riscontri nel testo la stessa brevità sintattica, tipica della cronaca medievale, presente nel brano dell’Anonimo? Motiva la tua risposta.
ApprofondIre e InterpretAre
Film Il nome della rosa
Video da Il nome della rosa
> 5. testi a confronto: scrivere Dopo aver confrontato i passi del brano di Eco, di seguito riportati per intero, con i passi della cronaca medievale ( T10, p. 217) indicati tra parentesi, individua e commenta in un testo di circa 12 righe (600 caratteri) alcuni degli elementi comuni che attestano il procedimento dell’intertestualità adottato dall’autore novecentesco. a) «Ma tra la folla fuori del palazzo ne udii molti che dicevano che egli era come Cristo tra i farisei, e mi avvidi che tra il popolo molti credevano nella santità di frate Michele» ( cap. XXVII). b) «E a parole del genere gli inquisitori uscivano dal cercare col viso scuro gridando sdegnati (e io li udii): “Ha il diavolo addosso!”» ( rr. 7-13, 39-50). > 6. Altri linguaggi: cinema Dopo aver preso visione dello spezzone tratto dal film Il nome della rosa di JeanJacques Annaud, analizza i seguenti elementi tenendo conto della specificità del linguaggio cinematografico. a) L’incontro tra i francescani e gli alti prelati della delegazione papale: quali battute della sceneggiatura sono dedicate al tema della povertà di Cristo? b) I costumi indossati dai personaggi: riflettono l’opposizione tra movimenti pauperistici e gerarchie ecclesiastiche? c) Le luci e i colori della scena: caratterizzano i rappresentanti delle due parti in contrapposizione?
Fotogramma dal film Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, con Sean Connery e F. Murray Abraham, Italia, Francia, Germania Ovest 1986.
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In sintesi
LA proSA deLL’età ComunALe Verifica interattiva
L’Intento dIdASCALICo La prosa in volgare, che compare nella seconda metà del Duecento, fornisce un quadro del processo di assimilazione, da parte degli strati sociali emergenti del Comune, del patrimonio di valori e di conoscenze che era stato fino ad allora monopolio dei chierici. I testi in prosa, infatti, sono generalmente mossi da un intento didascalico: diffondere cognizioni nei diversi ambiti culturali (retorico, scientifico ecc.) e fornire ammaestramenti in campo sia morale e religioso sia civile e sociale. Tale finalità alimenta una vasta produzione di opere ascrivibili a diversi generi letterari, da quelli narrativi, come l’aneddoto e la novella, ai libri di viaggi e alle cronache storiche.
Le rACCoLte dI AneddotI Al Duecento risalgono alcune raccolte di aneddoti finalizzati all’edificazione morale e all’insegnamento dell’arte del ben vivere e del ben parlare. La più famosa è il Novellino (fine del XIII secolo), raccolta anonima d’ambiente fiorentino, che si propone espressamente di fornire modelli di comportamento cortese ai ceti borghesi. Pur appartenendo ancora ai generi medievali dell’exemplum religioso e dell’aneddoto profano, l’opera rivela talvolta un gusto per la narrazione a fini di puro intrattenimento, che sarà proprio della novella.
LA noveLLA Spunti tratti da diverse esperienze letterarie precedenti (exempla e aneddoti, romanzo cortese-cavalleresco, fabliaux ecc.) confluiscono in un nuovo genere narrativo in prosa, la novella, che assume la sua forma definitiva e il nome stesso nel Trecento, con il Decameron di Boccaccio. Destinata alla lettura privata e individuale da parte del pubblico cittadino di media e buona cultura, la novella si caratterizza per il gusto del narrare fine a se stesso, libero dagli schemi moralistici o pedagogici prefissati che erano tipici dell’exemplum e dell’aneddoto. La nuova visione laica della vita che si sta affermando nel Comune determina la tendenza a rappresentare in modo più realistico gli ambienti, che coincidono con luoghi precisi e concreti, e i personaggi, dotati di una psicologia più ricca e complessa. La lezione di Boccaccio è ripresa da Franco Sacchetti (13301400), che nel Trecentonovelle esprime una concezione della realtà improntata al buon senso del ceto mercantile,
cui egli stesso appartiene. Rispetto al modello boccacciano, nell’opera manca una cornice narrativa e sono frequenti le intrusioni dell’autore nelle vicende, come testimone o personaggio coinvolto.
I LIbrI dI vIAggI L’espansione dei paesi europei verso Oriente, avviata dalle crociate, e l’estendersi delle attività commerciali stimolano la nascita di un nuovo genere letterario: la relazione di viaggi in terre lontane e ignote. L’opera più significativa di tale genere è Il Milione, il primo grande libro di viaggi della nostra letteratura: è il resoconto di un viaggio in Cina, dettato dal mercante veneziano Marco Polo (1254-1324) a Rustichello da Pisa, che l’ha redatto in lingua d’oïl (il titolo originale è Divisament dou monde, cioè “Descrizione del mondo”; Milione è quello di una versione toscana trecentesca, derivato dal soprannome “Emilione” di Marco Polo). Il Milione si rivolge dichiaratamente sia alle grandi personalità della politica sia a tutte le persone desiderose di conoscere realtà diverse. La finalità informativa e divulgativa dell’opera ne spiega il carattere documentario, che si mescola tuttavia con un certo gusto per l’elemento favoloso e “meraviglioso”.
Le CronAChe Nel Duecento la concezione tipicamente medievale della storia come manifestazione del disegno provvidenziale divino incomincia a incrinarsi; nei resoconti storiografici del Trecento (“cronache”) emerge infatti la tendenza a interpretare gli avvenimenti anche in modo laico, dando loro una spiegazione umana e politica. Tale impostazione caratterizza la Cronica di Dino Compagni (1255 ca. - 1324): essa narra le lotte di Firenze dal 1280 al 1312, avvenimenti di cui l’autore era stato protagonista in quanto priore nel 1301 (l’anno che vede la vittoria dei Guelfi neri e l’esilio di Dante). D’impianto più tradizionale è invece la Cronica di Giovanni Villani (1280 ca. - 1348), anch’egli fiorentino, che svolge la storia della sua città dai primordi biblici e mitici con chiare finalità celebrative. Per quanto l’opera resti ancorata all’interpretazione religiosa degli avvenimenti, essa riveste grande valore documentario, perché illustra anche gli aspetti socio-economici della vita fiorentina del Trecento. La Storia di fra Michele minorita è invece la cronaca della condanna al rogo, per eresia, del francescano fra Michele da Calci.
facciamo il punto 1. L’affermazione della prosa in volgare è legata allo sviluppo della borghesia cittadina comunale. Verifica
l’assunto rispetto ai generi letterari trattati in questo capitolo. 2. Quali caratteristiche presenta il genere della novella? Quali sono i testi più significativi di tale genere? 3. A quale genere appartiene Il Milione? A chi si rivolge e quali sono le sue finalità? 4. Quali sono le analogie tra la Cronica di Dino Compagni e quella di Giovanni Villani? Quali le differenze?
223
Capitolo 4
Dante Alighieri La Commedia: una summa della civiltà medievale Dante è il poeta che nella sua opera, in particolare nella Commedia, assomma la civiltà del Medioevo. Della sua epoca ha soprattutto la concezione religiosa, secondo la quale la realtà intera è sottoposta all’ordine stabilito da Dio, in cui ogni particolare ha un senso e una giustificazione, e ciò gli consente, nel suo poema, di affrontare tutta la realtà, senza selezioni ed esclusioni, dalle manifestazioni più basse a quelle più alte. Come egli stesso la definisce, la Commedia è «’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra»: nei suoi versi si può trovare così un’immagine totale del mondo, in tutti i suoi aspetti, da quelli più corposi e materiali, persino turpi e spregevoli (nell’Inferno), ai più delicati drammi interiori (nel Purgatorio), al vertiginoso slancio ascensionale verso la luce di Dio (nel Paradiso). 224
Se mai continga che ’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per molti anni macro (Paradiso, XXV, vv. 1-3)
Il plurilinguismo e la vivezza narrativa Come le realtà, tutti i livelli stilistici si presentano nel poema, da quelli più colloquiali o addirittura plebei a quelli più ardui e sublimi: per questo la Commedia è all’origine di un filone fondamentale della nostra letteratura, che si è prolungato sino ai giorni nostri, quello plurilinguistico, connotato dalla mescolanza degli stili (in alternativa al monolinguismo di cui è capostipite Petrarca). Ma se il poema ci restituisce l’immagine multiforme del mondo, è anche opera di straordinaria vivezza narrativa, caratterizzata dall’intensità drammatica,
Videolezione d’autore
diana: per questo ci vollero ancora secoli, e soprattutto l’unificazione politica della penisola).
La visione politica Politicamente Dante è in opposizione ai suoi tempi, rimpiange un ordine, quello fondato sull’autorità universale del papa e dell’imperatore, che il processo storico aveva superato, ed è ostile allo sviluppo delle nuove forze della borghesia mercantile nelle città, che negano i valori della società feudale; ma proprio grazie a questa sfasatura all’indietro rispetto alla sua epoca riesce, con l’acutezza prodigiosa del suo sguardo, a individuare con più chiarezza gli aspetti negativi della realtà che si andava affermando, la smania del profitto e il culto del denaro, da cui si originavano infiniti mali, discordie intestine, conflitti sanguinosi, sopraffazioni, violazioni della giustizia, corruzione: riesce cioè a cogliere nel loro germinare i mali che, sia pure in forme diverse, affliggono ancora il nostro presente. Dante è un poeta difficile, ma proprio la sua difficoltà è una sfida all’intelligenza, che, superati gli ostacoli linguistici e concettuali, potrà affacciarsi a un panorama straordinario di arte e umanità. dalla densità potente della rappresentazione, dalla forza concentrata dell’espressione, capace di dire tutto in pochissime battute.
È adunque manifesto che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l’avrebbe data (Convivio, I, 9)
Dante padre della lingua italiana Con la sua salda fiducia nel volgare, affermata sia nelle opere teoriche sia in quelle poetiche, Dante si pone come il padre della lingua italiana: dopo la Commedia, che ebbe una diffusione vastissima e suscitò subito entusiastica ammirazione, non vi fu dubbio che il volgare fiorentino dovesse essere la lingua della letteratura e della vita culturale italiana (anche se non della vita quoti225
L’età comunale in Italia
1
La formazione
Beatrice
La filosofia
La vita La formazione e l’incontro con Beatrice
Dante nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia della piccola nobiltà cittadina di parte guelfa (anche se oggi l’appartenenza degli Alighieri all’aristocrazia, vantata da Dante stesso, è messa in dubbio dagli storici, in quanto non si trovano conferme nei documenti del tempo). La famiglia era in condizioni economiche poco felici, ma Dante poté in giovinezza condurre vita da gentiluomo e procurarsi una raffinata educazione. Non abbiamo notizie certe sulla sua prima formazione. Egli stesso, nel canto XV dell’Inferno, presenta con grande devozione Brunetto Latini come suo maestro. Può darsi che da lui avesse appreso la retorica, l’arte del ben parlare e dello scrivere elegante, indispensabile per chi volesse partecipare alla vita pubblica cittadina; ma può anche avere tratto esempio dalle opere di Latini, il Trésor e il Tesoretto, per una poesia di tipo dottrinale e didascalico. Accanto agli interessi dottrinali, si manifestò presto la vocazione alla poesia. Come egli stesso ci dice nella Vita nuova, imparò da sé «l’arte di dire parole per rima», leggendo i poeti provenzali, i siciliani, Guittone, Guinizzelli, subendo anche l’influenza dell’amico Cavalcanti, più anziano di lui. La sua esperienza intellettuale e sentimentale di questi anni giovanili si compendia intorno alla figura di una donna, che egli chiama Beatrice, e che si carica di complessi significati, restando poi il cardine di tutto il suo percorso successivo. La morte di Beatrice, nel 1290, segna per Dante un periodo di smarrimento, ma costituisce anche lo stimolo ad uscire dal mondo chiuso e rarefatto dello Stilnovismo, ad ampliare i suoi orizzonti culturali e a stabilire un rapporto con la realtà della vita civile e politica. Innanzitutto, per trovare conforto al dolore per la morte della «gentilissima», si rivolge agli studi filosofici, provandone tanto entusiasmo che l’amore della filosofia «cacciava e distruggeva ogni altro pensiero». Al tempo stesso approfondisce la sua cultura poetica leggendo i poeti latini, in particolare Virgilio, che considera il
Dante e il suo tempo
Nasce a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà cittadina
Linea del tempo
Studia retorica e coltiva interessi dottrinali e poetici. Amicizia con Cavalcanti
Vita nuova
Si avvicina alla filosofia. Approfondisce la Morte di conoscenza dei classici latini Beatrice
Intraprende la carriera politica
Periodo giovanile
1265
1290
È eletto Priore; si avvicina alla fazione dei Bianchi
Esperienza politica
1293 1294 1295 A Firenze gli Ordinamenti di giustizia escludono i nobili dalle cariche pubbliche
226
Videolezione
Gli Ordinamenti di giustizia vengono attenuati Bonifacio VIII è eletto papa
1300 Il movimento guelfo si divide in due fazioni: i Bianchi e i Neri
Capitolo 4 · Dante Alighieri
suo «maestro» e il suo «autore», poi Ovidio, Lucano, Stazio; riscopre inoltre i grandi poeti provenzali, soprattutto il caposcuola del trobar clus, della poesia astrusa e raffinata, Arnaut Daniel; ma al tempo stesso si accosta anche alla poesia burlesca e realistica.
L’esperienza politica A partire dal 1295, a queste esperienze culturali si aggiunge quella politica. Nel 1293 Giano della Bella, con i suoi Ordinamenti di giustizia, aveva escluso la nobiltà cittadina dalle cariche pubbliche; nel 1295 il provvedimento fu poi attenuato e fu consentito ai nobili di ricoprire cariche, purché fossero iscritti ad una corporazione. Dante entrò nell’Arte dei Medici e Speziali (più o meno ciò che oggi sono i farmacisti; allora erano stretti i rapporti tra filosofia e scienze naturali), e negli anni successivi ricoprì varie cariche, finché, nel bimestre giugno-luglio 1300, fu eletto tra i Priori, la suprema magistratura cittadina. Era quello un periodo difficile per il Comune fiorentino, lacerato fra le fazioni dei Guelfi bianchi e dei Guelfi neri e minacciato nella sua autonomia dalle manovre del papa Bonifacio VIII, che, approfittando del fatto che gli imperatori di Germania si disinteressavano dell’Italia, mirava ad imporre il dominio della Chiesa sulla Toscana. Dante aveva a cuore sia la pace interna sia l’autonomia esterna del Comune, e si adoperò con ogni mezzo per ristabilire la concordia fra i cittadini e per contrastare i maneggi del papa. Per questo, pur essendo al di sopra delle parti, fu più vicino ai Bianchi, che difendevano la libertà di Firenze, mentre i Neri appoggiavano sempre più scopertamente la politica di Bonifacio VIII. L’inviato pontificio Carlo di Valois, mandato col pretesto di far da paciere tra le due fazioni, favorì invece i Neri, e questi nell’autunno del 1301 si impadronirono di Firenze, scatenando le persecuzioni contro la parte sconfitta. Dante in quel momento non si trovava a Firenze, poiché era stato inviato a Roma come ambasciatore. E probabilmente a Siena, nel gennaio 1302, apprese di essere stato condannato all’esilio con l’accusa di baratteria (cioè di corruzione nell’esercizio delle cariche pubbliche). Non essendosi presentato per discolparsi, due mesi dopo un’altra sentenza lo condannava al rogo.
L’elezione a Priore
Bianchi e Neri
De monarchia Epistole a Enrico VII
Convivio De vulgari eloquentia
Si trova fuori Firenze, impegnato in una missione diplomatica presso il papa
Epistola a Cangrande Già pubblicati l’Inferno e il Purgatorio
Inizia a comporre la Commedia È condannato prima all’esilio, poi a morte
Rinuncia a beneficiare di un’amnistia
Periodo dell’esilio
1301 1302
1303 Morte di Bonifacio VIII
I Neri, appoggiati dal papa, s’impadroniscono di Firenze
in Lunigiana
1307
1309
Trasferimento della Curia papale ad Avignone
a Verona
1310 Discesa di Enrico VII in Italia
1313
Muore a Ravenna
a Ravenna
1315
1319
1321
Morte di Enrico VII
227
L’età comunale in Italia
Gli anni dell’esilio
I soggiorni presso le corti italiane
L’utopia politica della restaurazione imperiale
Incominciò così l’esperienza dell’esilio. Nei primi tempi Dante non rinunciò alla speranza di ritornare in patria e si unì agli altri esuli Bianchi. Ma dopo un tentativo di rientrare con la forza, fallito miseramente, egli si sdegnò contro la «compagnia malvagia e scempia», e preferì «far parte per se stesso». Ebbe allora inizio il suo pellegrinaggio per varie regioni italiane. La sua funzione era quella di uomo di corte presso signori magnanimi (di ascendenza feudale come i marchesi Malaspina di Lunigiana, o signori cittadini come gli Scaligeri di Verona e i Da Polenta di Ravenna), che ospitavano uomini di cultura per ricavarne lustro e prestigio, ma anche per servirsene per vari compiti, come le funzioni di segretario ed ambasciatore. È comprensibile perciò come Dante, che era il tipico intellettuale-cittadino, inserito nella vita di un libero Comune, fiero del proprio valore e geloso della propria autonomia, dovesse soffrire dell’umiliante condizione di dover ricorrere alla generosità altrui per vivere e di dover assoggettare ad altri la propria attività intellettuale. A Firenze, dove aveva lasciato «ogni cosa diletta più caramente», rivolgeva sempre il pensiero, e tale nostalgia affiora frequentemente dalle sue opere. Accarezzava così il sogno di tornare al «bell’ovile» dove aveva «dormito agnello», non solo per essere riscattato da ogni accusa infamante, ma anche per ricevere il giusto riconoscimento del suo valore. Frattanto però l’esilio valeva ad allargare ulteriormente i suoi orizzonti da Firenze all’Italia e al mondo intero. Lo spettacolo delle città italiane lacerate da lotte civili, sopraffazioni e violenze, pervase solo dalla cupidigia di denaro e dallo spirito affaristico, il quadro di una Chiesa mondanizzata e corrotta, i cui membri, invece di guidare il loro gregge, si trasformavano in «lupi rapaci», lo inducevano a ricercare la «cagion che il mondo ha fatto reo». Ed egli credette di individuarla nell’assenza di un imperatore, che si ponesse come supremo regolatore della vita civile, facendo rispettare le leggi ed obbligando così la Chiesa a tornare alla sua missione spirituale. Fu convinto allora di essere investito da Dio della missione di indicare all’umanità le
Carta interattiva
I luoghi e la vita di Dante 1 FIRENZE Nasce a Firenze nel 1265. Nel 1300 è eletto fra i Priori della città.
6 RAVENNA Intorno al 1318 si reca a Ravenna presso la corte dei Da Polenta. Qui muore nel 1321.
VERONA
5
RAVENNA
4
LUNIGIANA FIRENZE
2 ROMA
Giunge a Roma per il giubileo del 1300. Forse vi fa ritorno l’anno successivo come ambasciatore di Firenze.
3 SIENA È probabilmente a Siena, nel gennaio 1302, quando apprende di essere stato condannato all’esilio.
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5 VERONA I Della Scala, signori di Verona, gli offrono ospitalità, prima con Bartolomeo poi con Cangrande.
6
1 3
SIENA
2
ROMA
4 LUNIGIANA È in Lunigiana, ospite dei Malaspina, dove ricopre incarichi diplomatici.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Gli ultimi anni
2
La fase stilnovistica
Il distacco dallo Stilnovismo
La raccolta di liriche e il commento in prosa
cause della sua abiezione e di condurla sulla via del riscatto. Da questa vocazione profetica nacque il disegno della Commedia, alla quale lavorò per quasi tutti gli anni dell’esilio. Nel 1310 il suo sogno di una restaurazione del potere imperiale, che sanasse tutti i mali presenti nel mondo, parve doversi tradurre in realtà: il nuovo imperatore, Enrico VII di Lussemburgo, scendeva in Italia per essere incoronato, con il consenso del papa Clemente V. Ma ben presto le illusioni del poeta svanirono di fronte alla condotta ambigua del papa, alla resistenza delle città italiane ed infine alla morte dell’imperatore, avvenuta nel 1313. Frattanto erano svanite anche le ultime speranze di un ritorno in patria: nel 1315 Dante rifiutò sdegnato un’amnistia che aveva come prezzo il riconoscimento della propria colpevolezza ed un’umiliazione pubblica. Negli ultimi anni visse a Ravenna, presso i Da Polenta, circondato ormai dalla fama di altissimo poeta. A Ravenna, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, morì il 14 settembre del 1321.
La Vita nuova La genesi dell’opera
Videolezione
Firenze, ai tempi della giovinezza di Dante, era un ambiente culturale ricco di fermenti, in cui varie tendenze poetiche coesistevano: la lirica d’amore cortese di tipo guittoniano; la nuova maniera cavalcantiana; lo stile comico e realistico; l’enciclopedismo didascalico di Brunetto Latini; la poesia allegorica. In questo ambiente così stimolante il giovane Alighieri cominciò ben presto a dedicarsi alla poesia. Tra i vari indirizzi culturali che si trova di fronte, Dante sceglie quelli più ardui e raffinati, orientandosi verso la lirica d’amore di ascendenza cortese. Le sue prime prove riprendono il modello guittoniano e ne ripetono gli schemi psicologici convenzionali, il linguaggio astruso e gli artifici formali. Ma subentra l’amicizia con Guido Cavalcanti, e nasce quel gruppo di spiriti eletti, orgogliosi della propria «altezza d’ingegno», che viene designato comunemente con la formula dantesca di «dolce stil novo» (Purgatorio, XXIV, v. 57). La svolta implica l’adozione di uno stile diverso da quello guittoniano, uno stile «dolce e leggiadro» (Purgatorio, XXVI, v. 99): la sintassi e il ritmo si fanno più piani e scorrevoli, vengono preferite parole prive di aspri scontri consonantici, scompaiono artifici formali troppo concettosi e astrusi. Nei temi, il giovane Dante subisce l’influsso del più anziano Cavalcanti: difatti i suoi versi, dopo la fase guittoniana, insistono sul motivo dell’amore come tormento e sofferenza e sull’analisi esclusiva dell’io dolente. Da questa influenza però Dante ben presto si libera, intraprendendo una strada che lo distacca nettamente dallo Stilnovismo precedente. Ma per comprendere questa nuova e decisiva svolta è necessario rifarsi all’interpretazione che Dante stesso, ad esperienza conclusa, ne dà nella Vita nuova. Dopo la morte di Beatrice, Dante decise di raccogliere, dal complesso delle liriche scritte fino a quel momento, quelle più significative, facendole precedere da un commento in prosa che spiegasse l’occasione da cui i singoli componimenti erano nati, e facendole seguire da un commento retorico (prosimetro). Era questa una novità di grandissima portata: tutti i poeti d’amore precedenti avevano semplicemente messo insieme dei “canzonieri”, cioè delle serie di liriche staccate che si affiancavano l’una all’altra. La prosa dantesca vale invece ad individuare nelle poesie un senso profondo ed unitario, la linea di svolgimento di una decisiva vicenda interiore. L’opera, compiuta fra il 1293 e il 1295, fu intitolata Vita nuova proprio ad indicare il rinnovamento spirituale determinato nel poeta da un amore eccezionale ed altissimo. 229
L’età comunale in Italia
I contenuti Il saluto
Testi La seconda apparizione di Beatrice • Il «gabbo» dalla Vita nuova •
La lode di Beatrice
Dante narra di aver incontrato Beatrice all’età di nove anni, e di averne provato una tale impressione che da quel momento Amore era divenuto il signore del suo animo. Dopo nove anni (nella narrazione torna costantemente il numero nove, che, rimandando alla Trinità, possiede una scoperta valenza simbolica e allude al carattere miracoloso della donna, T2, Analisi attiva, p. 236), Dante incontra ancora Beatrice, e al suo saluto gli sembra di vedere «tutti li termini» della sua «beatitudine». Al saluto si connette l’idea di “salute”, nel senso del latino salutem, “salvezza”, cioè appunto la beatitudine celeste. Da allora nel saluto della «gentilissima» egli ripone tutta la sua felicità. Però, seguendo rigorosamente i rituali dell’amor cortese, si sforza di tener nascosta a tutti l’identità della donna amata; perciò finge di rivolgere il suo amore ad altre donne, che chiama «dello schermo» perché proteggono il suo amore dall’invidia dei «malparlieri» (si tratta di figure tipiche della tradizione dell’amor cortese, L’età cortese, Il contesto, p. 25). La finzione suscita tuttavia le chiacchiere della gente, e ciò provoca lo sdegno di Beatrice, che gli nega il saluto ( T3, p. 237). La privazione del saluto della sua donna genera nel poeta uno stato di profonda sofferenza: in questa sezione del libro viene utilizzata come modello la poesia di imitazione cavalcantiana, imperniata sull’analisi dei tormenti provocati dall’amore. Dante si rende conto però che il fine del suo amore deve essere posto non più nel saluto, ma in qualche cosa che non gli «puote venire meno»: le parole che lodano la sua donna. Di conseguenza decide di assumere per la sua poesia una «materia nuova e più nobile che la passata», non più la descrizione delle sue sofferenze, ma la lode della «gentilissima» ( T4, p. 240). Comincia così la sezione dedicata alle rime in lode di Beatrice. Ma una visione, avuta durante una malattia, preannuncia al poeta la morte della donna. Dopo poco tempo, Beatrice muore realmente. Per il poeta trascorrono giorni di grande dolore, ed egli trova consolazione nello sguardo pietoso di una «donna gentile». La tentazione di un nuovo amore è vinta da una visione, in cui Bea-
Il vero volto di Dante Video
Bottega di Giotto, Ritratto di Dante, 1332-37, affresco dal Paradiso, part., Firenze, Museo del Bargello, Cappella della Maddalena.
La tradizione figurativa, a partire dal Quattrocento, ci ha consegnato come ritratto di Dante il volto di un uomo dal marcato naso aquilino, il mento prominente e l’espressione accigliata. Un’immagine ben radicata nell’immaginario collettivo, che sembra però tradire le reali sembianze del poeta fiorentino, studiate in anni recenti da un’équipe di antropologi, ingegneri e maestri di ricostruzione facciale. La loro ricerca, che è partita dalla ricognizione sulle ossa di Dante compiuta nel 1921 e che si è avvalsa delle più aggiornate tecnologie, ha portato alla definizione di un volto meno spigoloso di quello a noi familiare, con il naso pronunciato ma non proprio adunco. Una fisionomia vicina a quella del profilo, tradizionalmente identificato come ritratto di Dante, presente nel Paradiso affrescato dalla bottega di Giotto negli anni Trenta del Trecento sulle pareti della cappella del Palazzo del Podestà di Firenze, oggi Museo del Bargello.
230
Capitolo 4 · Dante Alighieri
La «mirabile visione»
Autobiografia o simbolo?
Il carattere irrealistico della narrazione
trice appare al poeta. Tutti i pensieri di Dante tornano allora a Beatrice e l’«intelligenza nova» che Amore mette in lui lo innalza sino all’Empireo, la sede dei beati, dove ha la visione ineffabile di Beatrice splendente di tutta la gloria del paradiso. È questo l’argomento dell’ultima poesia del libro, Oltre la spera che più larga gira ( T7, p. 251). Nel capitolo successivo, che chiude l’opera, Dante narra di aver avuto un’altra «mirabile visione», che lo induce a non parlare più «di questa benedetta» sino a quando non possa «più degnamente trattare di lei». Si augura perciò di poter vivere tanto da arrivare a «dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». La Vita nuova si presenta dunque come ricapitolazione di un’esperienza passata, e al tempo stesso come ricostruzione del suo significato profondo: un’esperienza sentimentale e intellettuale insieme, di vita e di poesia, così unite tra loro da non potersi distinguere. Di qui scaturiscono le dispute tra coloro che interpretano la Vita nuova come reale documento autobiografico e coloro che la ritengono una pura trascrizione simbolica di idee e sentimenti. Ma il libro non è né una cosa né l’altra, ed è difficile da penetrare con la nostra mentalità di lettori moderni, così distante dall’universo culturale del Medioevo. Nel libro è probabilmente contenuta una trama di esperienze reali, ma Dante mira soprattutto a cogliere i significati segreti che stanno al di là di esse e a comporli in una vicenda esemplare, valida universalmente, sottratta ai limiti del tempo e dello spazio. Deriva di qui il carattere irrealistico della narrazione dantesca, che vanifica ogni tentativo di leggerla in chiave moderna come romanzo psicologico. Luoghi e persone perdono la loro fisionomia concreta e individuale e sfumano in un’estrema indeterminatezza. Ne deriva l’impressione di un mondo diverso da quello reale, impalpabile ed evanescente, immerso come in un’atmosfera stranita, di sogno. Tant’è vero che alle vicende reali si mescolano spesso autentici sogni e visioni, senza che si crei alcuno stridore, alcuna sfasatura di tono e di atmosfera.
I significati segreti Le tre parti e i tre stadi dell’amore
Testi e ’l cor gentil sono una cosa • Ben converrà che la mia donna mora dalla Vita nuova
• Amore
Le «nove rime» e l’amore mistico
Si tratta ora di ricostruire la trama di significati segreti che è dissimulata dietro la trama delle azioni. Il libro, come si può vedere dalla ricostruzione della sua linea narrativa, è suddiviso in tre parti: nella prima si tratta degli effetti che l’amore produce sull’amante; nella seconda si ha la lode della donna; nella terza, la morte della «gentilissima». A queste tre parti corrispondono tre diversi stadi dell’amore. Nel primo esso rientra ancora pienamente in quelli che erano i canoni dell’amor cortese, secondo cui l’amante poteva sempre sperare in una ricompensa al suo amore da parte della donna: il saluto era divenuto appunto il simbolo, estremamente sublimato, di questo appagamento esteriore e materiale. La negazione del saluto fa scoprire a Dante che la felicità deve nascere non da un appagamento esterno, ma tutta dentro di lui, dalle parole dette in lode della sua donna. È questo il secondo stadio dell’amore. Egli non ama più la donna per averne qualcosa in cambio, ma l’amore diviene fine a se stesso: l’appagamento consiste solo nel contemplare e lodare la creatura altissima, che è in terra come un «miracolo» ( T6, p. 247). A questa scoperta, che avviene a metà dell’opera, al capitolo XVIII, Dante attribuisce un valore decisivo. Nel canto XXIV del Purgatorio afferma che la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore ( T5, p. 242), che è il prodotto di quella scoperta, dà inizio a delle «nove rime», cioè ad una nuova maniera di poetare. In che cosa consiste tale “novità”? Come ha indicato Charles Singleton, questo modo di intendere l’amore ha una stretta affinità con la visione dell’amore mistico, elaborata dai teologi medievali precedenti, come Bernardo di Chiaravalle e Riccardo da San Vittore: è l’amore dei beati in cielo, che non mira a ricompense materiali e trova la sua beatitudine solo nella contemplazione e nella lode di Dio. L’amore per Beatrice si è innalzato ad un livello ben superiore a quello cortese dei trovatori. L’amore non è 231
L’età comunale in Italia
La Vita nuova e la Commedia
più una passione terrena, sia pur sublimata e raffinata, non si limita a ingentilire l’animo: è la forza che muove tutto l’universo, che innalza le creature sino a ricongiungersi con Dio. Ma vengono superati anche i termini dello Stilnovismo precedente: Guinizzelli e Cavalcanti cantavano bensì la donna come miracolo e dono di Dio, ma l’amore era solo un processo discendente, da Dio al poeta (Dio ➝ donna ➝ poeta); il processo ascendente si arrestava alla donna (poeta ➝ donna), al di sopra della quale per l’amante non vi poteva esser nulla. Era inevitabile quindi un conflitto tra l’amore per la donna e l’amore per Dio (si ricordi l’ultima strofa di Al cor gentil di Guinizzelli, cap. 2, T6 , p. 152). In Dante il conflitto è superato: il processo ascendente torna sino a Dio proprio per il tramite della donna. L’amore per la donna innalza l’anima sino alla contemplazione del cielo: ed è questo appunto il terzo stadio dell’amore nella Vita nuova, perfettamente identificabile nell’ultimo sonetto dell’opera, Oltre la spera che più larga gira, in cui Amore mette nel pensiero del poeta un’«intelligenza nova», che gli consente di contemplare Beatrice nella gloria dell’Empireo. Non solo, ma quando Guinizzelli e Cavalcanti lodavano la donna come angelo del cielo non si trattava che di un’iperbole retorica, che rientrava in una precisa convenzione poetica. Nella Vita nuova invece l’elemento inedito della prosa che accompagna le liriche, rivelando il senso profondo e unitario di tutta la vicenda, attesta che non si tratta di semplici metafore poetiche, e risponde della serietà di tutto il discorso. Dietro le apparenze di una vicenda d’amore, la Vita nuova narra dunque di un’esperienza mistica. Già il libretto giovanile, quindi, è un viaggio a Dio con Beatrice come guida, come sarà poi la Commedia. E nel proposito che chiude l’opera, di dire un giorno di Beatrice «quello che mai non fue detto d’alcuna», è probabilmente da vedere l’indizio che nella mente di Dante si è formato il primo germe del futuro «poema sacro». Ma, nonostante questo legame, il passaggio dalla Vita nuova alla Commedia non è affatto diretto e immediato: in mezzo si pongono due grandi esperienze che maturano la visione di Dante e allargano immensamente i suoi orizzonti, colmando la distanza tra il chiuso e rarefatto mondo dell’operetta giovanile e quell’immensa sintesi del reale in tutta la molteplicità delle sue forme che è il capolavoro: sono l’esperienza filosofica e quella politica.
Visualizzare i concetti
Struttura tematica e concettuale della Vita nuova
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I parte
II parte
III parte
NUCLEI NARRATIVI
Gli effetti che l’amore produce sull’amante
La lode della donna
La morte della «gentilissima»
I TRE STADI DELL’AMORE
Amor cortese: l’innamorato spera in una ricompensa al suo amore da parte della donna (il saluto)
Amore fine a se stesso: l’appagamento scaturisce unicamente dalla contemplazione e dalla lode della donna amata
Amore mistico: l’amore per la donna innalza l’anima sino alla contemplazione di Dio
Capitolo 4 · Dante Alighieri
T1
Il libro della memoria
Temi chiave
dalla Vita nuova, cap. I Il primo capitolo costituisce un brevissimo proemio, che esprime le intenzioni dell’autore nel comporre l’opera.
• la vita come un libro • una nuova fase della vita
In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere1, si trova una rubrica2 la quale dice: Incipit vita nova3. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole4 le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello5; e se non tutte, almeno la loro sentenzia6.
1. In quella … leggere: tra i primi ricordi chiari. Secondo un uso consueto nella cultura medievale l’autore ricorre all’immagine metaforica del libro de la mia memoria per indicare il ricordo. 2. rubrica: continua la metafora; il libro è un
codice manoscritto articolato in capitoli (rubrica). Il titolo era scritto in rosso (latino ruber). 3. Incipit vita nova: comincia una vita nuova. Nova non nel senso di “giovanile”, ma di “rinnovata spiritualmente” dall’amore per Beatrice.
4. le parole: i ricordi. 5. d’assemplare … libello: ricopiare in questo libretto. 6. sentenzia: il significato simbolico ed esemplare.
Pesare le parole Parole (r. 3)
> Parola viene dal latino paràbolam, “paragone”, poi, nei
>
Vangeli, “racconto di Gesù con valore di esempio”. La forma attuale è il risultato di fenomeni tipici del passaggio dal latino ai volgari italiani: caduta della consonante /b/ tra le due vocali, chiusura del dittongo /ao/ in /o/, caduta della /m/ finale del caso accusativo. Così parlare deriva dal latino colloquiale parabolàre. In latino parola si dice vèrbum, da cui il nostro verbo, nel suo senso più comune “parola che indica un’azione o un modo di essere” (quindi con una restrizione di significato rispetto a quello originario). In alcune locuzioni è rimasto però il senso latino: es. non proferìr verbo, “tacere”, o, nel linguaggio religioso, predicare il verbo
divino, cioè “la parola di Dio”. Nella fede cristiana, poi, il Verbo è la seconda persona della Trinità, il Figlio, ed è traduzione dell’originale greco del Vangelo di Giovanni, il Logos, cioè la Ragione o la Sapienza divina incarnata. Da verbum derivano ancora gli aggettivi verboso, “che parla o scrive con troppe parole” (es. un oratore verboso), e verbale, “che è fatto di parole” (es. violenza verbale). Come sostantivo, verbale è il documento in cui vengono registrati gli interventi e le delibere di un’assemblea (es. verbale dell’assemblea di condominio) o le dichiarazioni di un interrogatorio (da parte della polizia, di un giudice; es. le sue dichiarazioni sono state messe a verbale).
Analisi del testo Autobiografia e letteratura
Il capitoletto iniziale è molto importante per intendere la concezione generale dell’opera. Dante afferma di voler trascrivere nel suo «libello» una parte dell’esperienza registrata nella sua memoria. Il termine «memoria» indica il carattere autobiografico dell’operazione che Dante si accinge a compiere. Ma questa ricerca interiore non deve essere intesa come confessione immediata, in senso moderno, come una sorta di “diario” intimo: la materia dell’esperienza vissuta è sottoposta ad una rigorosa selezione, che privilegia solo ciò che è essenziale, ed è disposta entro un ordinato disegno letterario, sulla base di precise convenzioni retoriche ed allegoriche. 233
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Svolgi la parafrasi del testo. > 2. Quale fine si propone l’autore nello scrivere il libro? Perché affianca alle liriche un commento in prosa? ANALIzzARE
> 3. > 4.
Chi svolge la funzione di narratore e chi è il protagonista dell’opera? Il proemio introduce la metafora del libro della memoria; individua, pertanto, tutti i vocaboli riconducibili a tale campo semantico. > 5. Stile A quale genere è ascrivibile l’opera? Si tratta di un’autobiografia o di un’interpretazione simbolica della realtà? > 6. Lingua Svolgi l’analisi del periodo del brano. Narratologia Lessico
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente Rifletti sull’accostamento dei termini «libro» (r. 1) e «libello» (r. 3) e, dopo aver indicato con precisione a che cosa fanno riferimento, riferisci le tue considerazioni in merito in un’esposizione orale (max 5 minuti).
PER IL RECUPERO
> 8. Spiega l’espressione vita nova. > 9. Spiega il significato dei termini «rubrica» e «assemplare». > 10. Sottolinea nel brano i pronomi personali e gli aggettivi possessivi di prima persona singolare: quale caratteristica di quest’opera suggeriscono?
SCRITTURA CREATIVA
> 11. Quale incontro ha determinato in te un cambiamento tale da indurti a credere di cominciare una nuova vita? Immagi-
na di scrivere una lettera a un editore disposto a pubblicare un tuo racconto breve che narra di come e quando è avvenuto questo incontro. Puoi ispirarti alla vicenda amorosa di Dante che ha originato la Vita nuova, o puoi immaginare una storia completamente diversa: l’obiettivo che devi perseguire è quello di convincere il destinatario della straordinaria importanza e originalità della tua esperienza. Ambienta la narrazione nel contesto reale o verosimile della tua quotidianità. La lunghezza del testo deve essere di circa 30 righe (1500 caratteri). Proponi anche il titolo del racconto che progetti di scrivere.
Analisi interattiva
T2
La prima apparizione di Beatrice dalla Vita nuova, cap. II
• l’inizio del servizio d’amore di Dante nei confronti di Beatrice
• la fisiologia dell’amore • la simbologia del nove e del colore rosso
Il capitolo narra il primo incontro di Dante con Beatrice, all’età di nove anni.
Laboratorio interattivo
5
Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto1, quanto a la sua propria girazione2, quando a li miei occhi apparve prima3 la gloriosa donna4 de la mia mente5, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare6. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono7. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno8, cinta e ornata
1. Nove fiate … punto: all’età di nove anni; letteralmente: dal giorno della mia nascita il cielo aveva percorso nove volte la sua orbita. Il cielo de la luce è il cielo del Sole. Le indicazioni astronomiche rientrano nella concezione cosmologica tolemaica. 2. girazione: orbita. 3. prima: per la prima volta. 4. la gloriosa donna: quando Dante scrive
234
Temi chiave
la Vita nuova Beatrice è già morta e sta fra gli spiriti che contemplano la gloria di Dio. Donna nel senso del latino domina, “signora”. 5. mente: animo. 6. fu chiamata … chiamare: Beatrice significa “colei che dà beatitudine”. Dante afferma che molti pronunciavano il suo nome ignorandone il valore. 7. Ella … mio nono: dal momento della nasci-
ta di Beatrice il cielo delle stelle fisse si era mosso verso est la dodicesima parte di un grado, cosicché se io avevo quasi compiuto nove anni, ella era all’inizio del suo nono anno (aveva otto anni e quattro mesi; il risultato si ricava dividendo cento per dodici, poiché il cielo delle stelle fisse si muove di un grado in cento anni). 8. umile … sanguigno: modesto e dignitoso, di colore rosso.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
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a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia9. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita10, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore11, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi12 orribilmente; e tremando disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi13. In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni14, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso15, sì disse queste parole: Apparuit iam beatitudo vestra16. In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro17, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps18! D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò19 la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata20, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente21. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola22 giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili23 portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero24: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo». E avvegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me25, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile26 a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse27; e trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre de l’essemplo onde nascono queste28, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi29.
9. cinta … si convenia: stretta da una cintura e adornata convenientemente alla sua età. 10.lo spirito de la vita: lo spirito vitale, ossia, nella dottrina di sanTommaso d’Aquino ( Il medioevo latino, Il contesto, p. 8), l’anima vegetativa. 11. secretissima … cuore: nella più interna cavità del cuore. 12. che … polsi: che si avvertiva perfino nelle più piccole arterie. 13. Ecce … michi: ecco un dio (Amore) più forte di me, che, venendo, mi dominerà. Riecheggia testi evangelici e biblici: ad esempio Luca, 3,16: «Verrà chi è più forte di me». 14. lo spirito … percezioni: l’anima sensitiva, che dimora nel cervello, ove confluiscono tutte le sensazioni. Secondo le concezioni medievali, le varie funzioni dell’anima erano presiedute da “spiriti”. 15. spiriti del viso: lo spirito della vista (ossia la facoltà visiva). 16. Apparuit … vestra: apparve ormai la vostra beatitudine.
17. spirito … nostro: lo spirito naturale risiede nel fegato, organo che presiede alla distribuzione delle sostanze nutritive. 18. Heu … deinceps: ahimè, misero, perché d’ora in poi spesso sarò impedito (questo perché se il nutrimento verrà impedito, la passione d’amore annienterà il poeta). 19. segnoreggiò: dominò. 20. fu … disponsata: fu così subitamente congiunta, sposata. 21. e cominciò … compiutamente: (Amore) cominciò ad assumere con me un atteggiamento baldanzoso e prepotente per il potere (vertù) che gli veniva dal mio continuo immaginare Beatrice, che ero costretto a obbedire totalmente alla sua volontà. 22. angiola: l’espressione sottolinea il carattere celestiale di Beatrice. 23. laudabili: lodevoli. 24. poeta Omero: allude forse alle parole rivolte da Ulisse a Nausicaa in Odissea, VI, vv. 149 e ss.: «Sei dea o sei mortale?...».
25. E avvegna … me: e sebbene la sua immagine, che stava sempre fissa nel mio animo, rendesse Amore ostentatamente fiducioso di dominarmi. 26. tuttavia … utile: tuttavia aveva una potenza così straordinaria che mai permise che Amore mi dominasse senza il fedele consiglio della ragione nelle cose (la sfera morale) in cui quel consiglio fosse utile. 27. E però … esse: e poiché soffermarsi sulle passioni e sulle azioni compiute in età così giovane può apparire a qualcuno un discorso (parlare) non verosimile (fabuloso), le lascerò da parte. 28. trapassando … queste: tralasciando molte cose che si potrebbero desumere, copiare, dall’esemplare (essemplo) del libro della memoria, da cui derivano queste che ho esposto. 29. verrò … paragrafi: verrò a quei ricordi (parole) che sono scritti nel libro della mia memoria in paragrafi più significativi (cioè passerò a trattare eventi di un’età più adulta). Il capitolo si conclude riprendendo la metafora iniziale.
Pesare le parole Si ministra (r. 15)
> Nell’italiano attuale viene usato il verbo in forma compo-
sta con un prefisso derivante dal latino sub-, “sotto”: somministrare. L’etimologia è dal latino ministrum, che fondamentalmente significa “servitore”, col relativo verbo ministràre che, oltre a “servire”, vale anche “governare, dirigere, provvedere”. Per noi ministro è un membro del governo, cioè del potere esecutivo (es. ministro degli
>
Esteri, degli Interni, dell’Economia). Se ne potrebbe ricavare un’osservazione: sarebbe bene che i ministri si ricordassero dell’origine della parola che li designa, di essere cioè “servitori” del pubblico. Un’accezione particolare, in ambito religioso, è ministro del culto, cioè sacerdote che dice messa e amministra i sacramenti o, nelle confessioni evangeliche, pastore.
235
L’età comunale in Italia
Competenze attivate
Analisi attiva COMPRENDERE
> Il primo incontro con Beatrice
Il racconto vero e proprio della Vita nuova si apre nel capitolo secondo del proemio con la descrizione del primo incontro tra Dante e Beatrice, entrambi al nono anno d’età. La visione della fanciulla causa alterazioni nel ritmo vitale del poeta: lo «spirito de la vita», che ha sede nel cuore, riconosce in Amore un Dio più forte che lo dominerà; lo «spirito animale», che presiede alla sensibilità e ha sede nel cervello, proclama l’apparizione, nella figura di Beatrice, della somma beatitudine degli occhi; lo «spirito naturale», che sovrintende al nutrimento e ha sede nello stomaco e nel fegato, comprende che da questo momento in poi sarà spesso ostacolato nelle sue funzioni. Dopo l’incontro, la passione d’amore domina il poeta ma l’immagine vagheggiata della donna è di tale straordinaria potenza da non permettere che all’amore venga meno il consiglio della ragione.
• Leggere, comprendere e interpretare
testi letterari: poesia • Dimostrare consapevolezza della
storicità della letteratura
> 1. Quali diverse reazioni fisiche suscita nel poeta la prima apparizione di Beatrice?
> 2. Qual è il soggetto di «era di sì nobilissima vertù» (rr. 24-25)?
ANALIzzARE
> L’esperienza umana trasfigurata in simbolo
> 3. Il poeta rievoca l’esperienza autobiografica del primo incontro con Beatrice come un evento eccezionale. Anche il verbo «apparve» ripetuto più volte (in un’occasione in latino) interviene a rendere il senso di un’apparizione sovrannaturale. Individua nel testo i momenti in cui il verbo ricorre e l’effetto che produce.
> I sensi simbolici
> 4. Dopo aver evidenziato nel testo tutte le espressioni riferite a Beatrice, ricava le caratteristiche che la donna possiede.
Il racconto del primo incontro con Beatrice conferma che non ci troviamo di fronte ad un semplice “diario” autobiografico, ma che l’esperienza è intensamente trasfigurata in senso letterario e simbolico. L’ampia perifrasi astronomica d’apertura vale subito a dare un senso di solennità al racconto, sottolineando l’eccezionalità di ciò che viene comunicato. Egualmente solenne è la perifrasi con cui è designata Beatrice, «la gloriosa donna de la mia mente» (r. 3).
Il nome della donna Si inseriscono poi elementi simbolici. Innanzitutto si allude al significato del nome proprio della donna, Beatrice, che vale «colei che dà la beatitudine» (Dante si rifà qui alla concezione medievale per cui i nomi sono «conseguenza delle cose»). Il numero nove In secondo luogo, Dante insiste sul numero nove. Il valore simbolico dei numeri è un altro dato fondamentale della visione medievale; in particolare il ricorrere del nove sottolinea il fatto che Beatrice è un «miracolo». Spiega Dante stesso nel capitolo XXIX che il nove è il numero tre moltiplicato per se stesso, ed il tre è il numero della Trinità, che è «fattore per se medesimo de li miracoli». Il numero nove ricorrerà poi costantemente nell’opera a sottolineare il carattere sovrannaturale della donna: Dante incontrerà Beatrice dopo altri nove anni, il primo saluto ricorrerà all’ora nona del giorno. Il colore rosso Simbolico è anche il colore del vestito di Beatrice, il rosso «sanguigno», che secondo i canoni del tempo sta a significare l’ardore di carità (caritas è l’amore divino, spirituale, una delle tre virtù teologali, insieme a fede e speranza).
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
> La cultura filosofica e scientifica
A trasfigurare i semplici dati dell’esperienza vissuta, accentuando il senso della loro eccezionalità, intervengono poi la cultura filosofico-scientifica (la minuziosa distinzione dei tre spiriti, vitale, animale e naturale, o vegetativo) e l’uso solenne del latino, lingua dei testi scientifici (o dei testi sacri: e difatti le frasi latine hanno qualcosa della sacralità rituale).
> I riferimenti letterari e gli elementi stilnovistici
Il tremore che coglie Dante all’apparizione della donna è un tratto tipicamente cavalcantiano, così come al formulario stilnovistico rimanda l’immagine dell’«angiola giovanissima» (r. 20). La ricerca di una solennità rituale, quasi liturgica, è confermata anche dalle caratteristiche dello stile, fondato su simmetrie, parallelismi, rispondenze interne.
> 5. Quale momento della vicenda sottolineano le tre frasi latine? Perché, secondo te, sono collocate in quel punto?
> 6. A quale modello letterario rinviano la drammatizzazione del mondo interiore e la personificazione delle facoltà vitali? > 7. Rintraccia la triplice anafora «In quello punto» e spiegane il significato e la funzione nel testo. Sai indicare altre simmetrie o parallelismi presenti nel brano?
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> Una vicenda esemplare
Nella prosa della Vita nuova è probabilmente contenuta una trama di esperienze reali, ma il poeta mira soprattutto a cogliere i significati segreti che stanno al di là di tali esperienze e a comporli in una vicenda esemplare, valida universalmente, sottratta ai limiti del tempo e dello spazio. Deriva di qui il carattere irrealistico della narrazione dantesca, dove luoghi e persone perdono la loro fisionomia concreta e individuale, sfumando nell’indeterminatezza, e tutto appare immerso in una stranita atmosfera di sogno, impalpabile ed evanescente.
Analisi interattiva
T3
Il saluto
> 8. Il racconto del primo incontro tra Dante e Beatrice permette di cogliere alcuni aspetti che caratterizzano le parti narrative della Vita nuova. Illustrali, riflettendo sull’ambientazione dell’episodio, sui personaggi che partecipano all’azione, sul valore simbolico delle indicazioni cronologiche e di alcuni particolari descrittivi.
Temi chiave
dalla Vita nuova, capp. X, XI
• il saluto come fine dell’amore, secondo la tradizione cortese
• gli effetti del saluto Per difendere il segreto del suo amore (secondo le convenzio• il miracolo della «gentilissima» ni provenzali), Dante finge che la sua attenzione sia rivolta a due altre donne, indicate come le donne «dello schermo», in quanto coprono e nascondono il reale oggetto del desiderio. Ma la finzione va tanto oltre, nei commenti della gente, da superare i limiti della convenienza, sì che Beatrice toglie al poeta il suo saluto. Cap. X Appresso la mia ritornata1 mi misi a cercare di questa donna che lo mio segnore m’avea nominata ne lo cammino de li sospiri2; e acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa3 tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini de la cortesia4; onde molte fiate mi pensava duramente5. E per questa cagione, cioè di que-
1. ritornata: ritorno. 2.che lo mio segnore…sospiri: che Amore (lo mio segnore) mi aveva indicato durante un viaggio compiuto malvolentieri, sospirando. Dante allude al suggerimento ricevuto da Amore di sce-
gliere una donna come “schermo” di Beatrice. 3. la feci mia difesa: la resi mio “schermo”. 4. troppa … cortesia: due sono le interpretazioni più frequenti: a) troppa gente parlava di questo amore in modo indiscreto (oltre li
termini de la cortesia); b) troppa gente parlava di questo amore conferendogli una connotazione sconveniente, immorale. 5. onde … duramente: e questo molte volte era motivo di pensieri dolorosi.
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L’età comunale in Italia
5
sta soverchievole voce6 che parea che m’infamasse viziosamente7, quella gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina de le vertudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine. E uscendo alquanto del proposito presente8, voglio dare a intendere quello che lo suo salutare in me vertuosamente operava9.
6. soverchievole voce: diceria, che (come tale) oltrepassava la verità. 7. m’infamasse viziosamente: mi attribuis-
se fama di uomo dedito al vizio. 8. del proposito presente: dall’intenzione della presente esposizione.
9. quello … operava: gli effetti virtuosi operati dal suo saluto.
Cap. XI
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Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea1, anzi mi giugnea una fiamma di caritade2, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso; e chi allora m’avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione3 sarebbe stata solamente ‘Amore’, con viso vestito d’umilitade4. E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare5, uno spirito d’amore6, distruggendo tutti gli altri spiriti sensitivi7, pingea fuori li deboletti spiriti del viso8, e dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de li occhi miei9. E quando questa gentilissima salute salutava10, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine11, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata12. Sì che appare manifestamente che ne le sue salute13 abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade14.
1. per la speranza … mi rimanea: per la speranza del mirabile saluto di Beatrice non avevo più sentimenti ostili verso alcuno. 2. giugnea … caritade: subentrava all’astio un sentimento di carità. 3. risponsione: risposta. 4.‘Amore’… umilitade: Dante risponde «Amore» a qualsiasi domanda: è il miracoloso effetto dell’apparizione e del saluto di Beatrice che induce l’uomo ad un atteggiamento di umiltà che risulta dall’insieme di gentilezza, comprensione, mitezza. 5. propinqua al salutare: vicina ad espri-
mere il saluto. 6. spirito d’amore: un sentimento d’amore. 7. spiriti sensitivi: gli spiriti erano ritenuti corpi sottili con sede nel cuore. L’anima li utilizzava per le operazioni relative all’attività dei sensi. 8. pingea … viso: sospingeva fuori i deboli spiriti della vista. 9. E chi … miei: chi avesse voluto conoscere Amore, non aveva che da considerare il mio sguardo tremante. 10. quando … salutava: Beatrice è gentilissima salute, la personificazione della no-
bilissima salvezza. 11. non che … beatitudine: non solo Amore non era tale da attenuare (obumbrare) l’insostenibile beatitudine. 12. ma elli … inanimata: ma a causa dell’estrema dolcezza provocata dal saluto diventava tale che il mio corpo, che era totalmente in suo potere, sovente si muoveva come un oggetto pesante (grave) e inanimato. 13. ne le sue salute: nelle sue manifestazioni di saluto. 14. redundava … capacitade: oltrepassava le mie facoltà.
Analisi del testo Il significato del saluto
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La privazione del saluto da parte di Beatrice offre a Dante lo spunto per chiarire il significato che esso ha per lui. Il fine dell’amore posto nel saluto è caratteristico della prima delle tre fasi della vicenda della Vita nuova, in cui, come ha indicato Singleton, Dante ricerca una ricompensa esteriore, materiale, al suo amore, sia pure in forme estremamente rarefatte e sublimate. Qui Dante si muove ancora nei termini tradizionali dell’amor cortese, in cui l’amante poteva sempre sperare in una ricompensa dall’amata. All’amor cortese risale anche l’idea che l’amore per la donna sia fonte di virtù, che porti ad un’elevazione e ad un raffinamento dell’animo dell’amante. Si notano inoltre influssi guinizzelliani (il saluto della donna induce a perdonare le offese) e cavalcantiani (la distruzione degli spiriti sensitivi, i «deboletti spiriti» visivi, il tremore degli occhi, il corpo che diviene cosa grave e inanimata).
Capitolo 4 · Dante Alighieri Il gusto intellettualistico e retorico del testo
I due passi rivelano la sapiente costruzione retorica della prosa dantesca. Si può notare, nel capitolo X, la simmetria della costruzione a membri paralleli che oppone vizio e virtù: «m’infamasse viziosamente» – «vizi» / «vertudi» – «vertuosamente operava» (rr. 5-9). Il capitolo XI è pausato in tre momenti, segnati in apertura dalla ripresa dello stesso avverbio («Dico che quando», «E quando», «E quando»), a cui corrispondono tre gradazioni del sentimento e tre diversi atteggiamenti. Come ha dimostrato Sapegno, poi, nella prosa è dissimulata tutta una serie di endecasillabi: «e chi allora m’avesse domandato / di cosa alcuna, la mia risponsione / sarebbe stata solamente ‘Amore’» (rr. 3-4), «li deboletti spiriti del viso» (r. 6), «redundava la mia capacitade» (r. 13) : il fenomeno comprova il carattere poetico, lirico, di questa prosa. Tutta la pagina si regge poi sul consueto gioco di parole «saluto» / «salute», che culmina nella figura etimologica «questa gentilissima salute salutava» (rr. 8-9). Il lessico impiegato è aulico e poetico, ricco di latinismi («obumbrare», «redundava»). Le sottili distinzioni, le studiate simmetrie, le cadenze ritmiche rimandano a tutto un gusto intellettualistico e retorico, tipico della cultura medievale, che il giovane Dante trasferisce nel volgare con una sicurezza e una maestria eccezionali.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Formula, per ciascuno dei due capitoli, un sommario articolato ed esplicativo. ANALIzzARE
> 2. > 3.
Descrivi, nelle sue emozioni e nei suoi stati d’animo, il “personaggio” Dante. Spiega in che cosa consiste una figura etimologica facendo riferimento a «questa gentilissima salute salutava» (cap. XI, rr. 8-9). > 4. Stile Analizza metricamente e stilisticamente uno degli endecasillabi dissimulati nella prosa dantesca cui fa riferimento l’Analisi del testo, secondo l’esempio proposto. Narratologia Stile
Li de-bo-let-ti spi-ri-ti del ví-so: l’accento tonico dell’endecasillabo è sulla decima sillaba; si ha un’assonanza in /i/ e l’allitterazione di /t/, /s/.
> 5. Lessico Rintraccia nel brano i termini e le espressioni che descrivono Beatrice: si riferiscono al suo aspetto o alle sue virtù morali e comportamentali? Quali, fra questi, hanno una valenza religiosa? APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 6. Testi a confronto: esporre oralmente Effettua un con-
fronto con il sonetto di Guido Cavalcanti Voi che per li occhi mi passaste ’l core ( cap. 2, T9, p. 162) e indica le analogie e le differenze rispetto ai brani danteschi. > 7. Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato attentamente l’immagine, rispondi alle seguenti domande. a) Oltre a Dante e Beatrice, quali personaggi sono rappresentati nella scena? Ritieni che la loro presenza sia rispondente al passo analizzato? b) Descrivi l’atteggiamento di Dante: corrisponde a quanto il testo evidenzia? c) Dopo aver descritto il personaggio di Beatrice, prova a spiegare per quale ragione la sua figura è collegata alla presenza della pianta (in basso verso sinistra, accanto a Dante) e del fiore della rosa (nella sua mano sinistra).
Evelyn Paul, Beatrice nega il saluto a Dante, illustrazione per la Vita nuova di Dante, Londra 1899.
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L’età comunale in Italia
T4
Una presa di coscienza ed una svolta poetica: le «nove rime» dalla Vita nuova, cap. XVIII
Temi chiave
• l’abbandono del tema del saluto • la nuova poesia nasce dalla lode dell’amata
• la preoccupazione di Dante di iniziare una forma poetica nuova e di difficile trattazione
Dopo aver manifestato in alcune poesie lo sconforto e la sofferenza prodotti in lui dalla privazione del saluto di Beatrice, Dante ritiene che sia opportuno non parlarne più oltre, e di «ripigliare materia nuova e più nobile che la passata» (cap. XVII). Nel successivo capitolo XVIII spiega quale è stata l’occasione che lo ha spinto a questa svolta determinante, da cui prendono inizio, con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, le «nove rime», come Dante stesso sottolineerà, più tardi, nel Purgatorio (XXIV, vv. 49-51).
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Con ciò sia cosa che per la vista mia1 molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s’erano dilettandosi l’una ne la compagnia de l’altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte2; e io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato3, fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m’avea chiamato era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand’io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi4 le salutai, e domandai che piacesse loro5. Le donne erano molte, tra le quali n’avea certe che si rideano tra loro. Altre v’erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Altre v’erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza?6 Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo7». E poi che m’ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l’altre cominciaro ad attendere in vista8 la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, e in quello dimorava9 la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede10, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m’avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta11 questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento12». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partio13 da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?14». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre
1. Con … mia: poiché dal mio aspetto. 2. sapeano … sconfitte: conoscevano bene i miei sentimenti per il fatto che ciascuna di loro aveva assistito a molti dei miei smarrimenti dinanzi a Beatrice. 3. da la fortuna menato: condotto dal caso. 4. rassicurandomi: Dante torna padrone di sé dopo essersi accertato che Beatrice non è con loro. 5. che piacesse loro: che cosa desiderassero. 6. A che fine … presenza?: quale fine ti pro-
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poni amando questa donna, visto che non riesci a sopportare la sua presenza? 7. Dilloci … novissimo: diccelo, poiché il fine di tale amore deve essere molto singolare. 8. in vista: nel loro atteggiamento. 9. dimorava: risiedeva. 10. la sua merzede: per la sua benevolenza. 11. che tu … sta: che tu ci dica in che cosa consiste. 12. Se tu … intendimento: se tu dicessi la verità a riguardo (ne), le poesie che tu hai scrit-
to per manifestare la tua situazione (le angosce provocate dall’amore), le avresti realizzate con fini diversi (cioè per ottenere di nuovo il saluto di Beatrice; ma l’interpretazione del passo è controversa). La donna gentile rileva le contraddizioni tra il proposito di lodare in poesia Beatrice, affermato da Dante, e lo scrivere invece dei suoi tormenti personali. 13. mi partio: mi allontanai. 14. perché … mio?: perché le mie poesie hanno trattato argomenti diversi?
Capitolo 4 · Dante Alighieri
mai quello che fosse loda di questa gentilissima15; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me16, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai17 alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare. 15. però … gentilissima: perciò (però) mi proposi di assumere come argomento delle mie poesie sempre solo la lode di Beatrice.
16. pareami … quanto a me: innalzare un canto di lode a Beatrice sembra a Dante un’impresa troppo impegnativa rispetto
agli strumenti espressivi di cui dispone. 17. dimorai: indugiai.
Analisi del testo La stilizzazione del reale
Una presa di coscienza
Il secondo stadio dell’amore
Il capitolo presenta un incontro con un gruppo di «donne gentili» e il dialogo di Dante con una di esse. Lo scambio di battute non ha però alcuna intenzione realistica, non vuole offrire una scena di vita cittadina, ma si compone in linee estremamente stilizzate (si noti l’assoluta assenza di elementi descrittivi esteriori, sui luoghi in cui avviene l’incontro, sull’aspetto fisico delle donne gentili ecc.), e segue un percorso sottilmente intellettualistico. Il dialogo offre a Dante l’occasione per una presa di coscienza fondamentale. La «donna gentile» gli chiede quale sia il fine del suo amore per Beatrice, dato che non può sostenere la sua presenza. Dante risponde che in un primo tempo il suo fine era stato il saluto, da cui scaturiva tutta la sua beatitudine; poi, negatogli Beatrice il saluto, aveva riposto la sua felicità in ciò che non gli poteva essere sottratto, cioè nel lodare con i versi la sua donna. Ma a questo punto la «donna gentile» coglie una contraddizione tra tale affermazione ed il comportamento effettivo di Dante: invece di lodare Beatrice, la sua poesia ha insistito solo sulla sua condizione di sofferenza. Profondamente colpito da questa osservazione, Dante vi riflette, vergognoso, e giunge al proposito, da quel momento in poi, di assumere come materia dei suoi versi solo le lodi della «gentilissima». Una materia che si rende conto essere troppo alta rispetto alle sue capacità; per cui resta parecchio tempo senza osare cominciare. Ha inizio da questo capitolo la seconda sezione della Vita nuova, il secondo stadio dell’amore per Beatrice ( I significati segreti, p. 231), un amore che si modella sull’amore mistico per Dio.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Che cosa intende Dante con «lo secreto» del cuore (rr. 1-2)? ANALIzzARE
> 2.
Narratologia
Individua le tre sequenze in cui si articola il brano e assegna un titolo a ciascuna di esse.
Sequenze
Titolo
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> 3.
Lessico L’intervento della donna «di molto leggiadro parlare» (r. 5), così come le risposte e le riflessioni di Dante, sono da ricollegare alla frequenza nel brano di una parola chiave, espressa sotto forma di sostantivo o verbo: quale? > 4. Lingua Analizza la costruzione del verbo «sapeano» (rr. 2-3): è del tutto rispondente a quella dell’italiano corrente di oggi? Con quale forma lo sostituiresti?
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 5.
Esporre oralmente Considera quali sono le riflessioni espresse da Dante a conclusione del capitolo («e pensando … di cominciare», rr. 27-29): perché la lode della «gentilissima» è materia troppo alta per le sue capacità? E perché, secondo te, tale consapevolezza scaturisce da un colloquio con alcune donne? Rispondi in max 5 minuti.
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L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
T5
Donne ch’avete intelletto d’amore dalla Vita nuova, cap. XIX
Temi chiave
• la sublimazione della donna e dell’amore
• un pubblico ristretto di donne con esperienza d’amore
La canzone compresa in questo capitolo costituisce la prima delle rime della «lode».
> Metro: canzone di endecasillabi, composta di cinque strofe; schema delle rime: ABBCABBCCDDCEE.
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Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia1 uno rivo chiaro molto2, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse3; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona4, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine5. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente6 con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade7, pensando alquanti die8, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione9. La canzone comincia: Donne ch’avete. Donne ch’avete intelletto d’amore, i’ vo’ con voi de la mia donna dire, non perch’io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando il suo valore10, Amor sì dolce mi si fa sentire, che s’io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente. E io non vo’ parlar sì altamente, ch’io divenisse per temenza vile; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui11. Angelo clama in divino intelletto12 e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l’atto che procede d’un’anima che ’nfin qua su risplende».
1. sen gia: se ne andava, correva. 2. rivo … molto: ruscello dalle acque molto trasparenti. 3. io cominciai … tenesse: cominciai a pensare al modo in cui potessi farlo. 4. se io … persona: se io non mi fossi rivolto direttamente a donne (quindi senza rivolgersi direttamente a Beatrice). 5. sono … femmine: Dante distingue fra donne (capaci di gentilezza, di animo elevato, che non ignorano la cortesia) e femmine (incapaci di elevarsi alla cortesia). 6. Queste … mente: io impressi queste parole nella memoria.
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7. sopradetta cittade: la suddetta città (Firenze). 8. die: giorni. 9. ordinata … divisione: dopo ogni poesia, nella Vita nuova, Dante inserisce un commento retorico. versi 1-4 Donne che comprendete rettamente (avete intelletto) (l’esperienza) d’amore, io voglio (vo’) parlare con voi della mia donna, non perché io creda di poter esaurire compiutamente (finire) la sua lode, ma (voglio) parlare (ragionar) per sfogare i sentimenti del mio animo (mente).
versi 5-8 Io voglio dire che considerando il suo valore, Amore si fa sentire in me così dolcemente (dolce), che se io a quel punto (allora) non perdessi il coraggio (ardire), parlando farei innamorare la gente. versi. 9-14 Eppure io non voglio parlare in stile tanto sublime (sì altamente) da dover poi desistere, temendo di non essere all’altezza del compito (ch’io … vile); ma parlerò della sua nobiltà (stato gentile) superficialmente (leggeramente), rispetto all’altezza del suo valore, (parlandone) con voi, donne e fanciulle esperte d’amore (amorose), perché non è argomento di cui parlare con altri. 10. valore: le qualità che compongono la cortesia (è termine di origine provenzale). 11. altrui: perché solo le donne gentili sanno comprendere l’esperienza d’amore, come è detto nel primo verso. versi 15-18 Un angelo si rivolge direttamente alla mente divina e dice: «Signore, nel mondo (si vedono) gli effetti miracolosi (maraviglia) negli atti di un’anima che risplende fin quassù in cielo». 12. clama … intelletto: questo perché gli angeli comunicano direttamente con Dio senza ricorrere alla comunicazione verbale.
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Lo cielo, che non have altro difetto che d’aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede. Sola Pietà nostra parte difende, ché parla Dio, che di madonna intende: «Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto me piace là ’v’è alcun che perder lei s’attende13, e che dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati». Madonna è disiata in sommo cielo: or voi di sua virtù farvi savere. Dico, qual vuol gentil donna parere vada con lei, che quando va per via, gitta nei cor villani14 Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e pere; e qual soffrisse di starla a vedere diverria nobil cosa, o si morria15. E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien, ciò che li dona, in salute, e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia. Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l’ha parlato. Dice di lei Amor: «Cosa mortale come esser pò sì adorna e sì pura?». Poi la reguarda, e fra se stesso giura che Dio ne ’ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben pò far natura; per essemplo di lei bieltà si prova. De li occhi suoi, come ch’ella li mova, escono spirti d’amore inflammati, che feron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che ’l cor ciascun retrova16: voi le vedete Amor pinto nel viso, là ’ve non pote alcun mirarla fiso.
versi 19-28 Il cielo, a cui non manca nulla (non … difetto) se non (che d’) avere lei, la chiede al suo Signore e ogni santo invoca Dio che gli conceda la grazia di averla in cielo (ne grida merzede). La sola misericordia divina (Pietà) difende la nostra causa (parte), in quanto Dio, che parla alludendo a (intende) Beatrice (madonna), dice: «Miei cari (i beati), (per) adesso sopportate con pazienza che (l’oggetto della) vostra speranza (spene) (Beatrice) rimanga per tutto il tem-
po che a me piacerà sulla terra (sia … piace), là dove c’è qualcuno (alcun) che teme di perderla e che dirà nell’inferno: O dannati (mal nati), ho conosciuto (vidi) (Beatrice) la speranza dei beati». 13. alcun … s’attende: forse riferito a Dante. versi 29-36 Madonna (Beatrice) è desiderata nel cielo più alto (l’Empireo) e ora voglio (voi) farvi sapere della sua virtù. Sostengo (Dico) (che) chiunque (qual) voglia apparire una donna nobile, deve andare con lei, per-
ché quando (Beatrice) cammina per strada Amore produce (gitta) nei cuori non nobili (villani) uno sgomento (gelo), in conseguenza del quale (per che) ogni (onne) loro pensiero diventa di ghiaccio e perisce (pere); e chi (non nobile) sostenesse la sua vista (soffrisse … vedere), diventerebbe una creatura (cosa) nobile o morirebbe. 14. villani: intende pensieri vili, spregevoli. 15. e qual … morria: è questa la funzione purificante di Beatrice. versi 37-42 E quando (la mia donna) trova qualcuno che sia degno di contemplarla, quello sperimenta il suo potere (vertute), perché tutto quello che (ella) gli dona si tramuta per lui in occasione di salvezza (salute) e (ella) lo rende tanto umile (l’umilia) da permettergli di dimenticare qualsiasi offesa ricevuta. (Inoltre) Dio le ha concesso come grazia ancora maggiore che chi parla con lei (l’ha parlato) non può essere punito con una condanna eterna (mal finir). versi 43-50 Amore dice di lei: «Una creatura (Cosa) mortale come può essere così bella (adorna) e così pura?». Poi la guarda attentamente, e si dice (giura) che Dio intende farne una cosa straordinaria (nova). Ha un colorito quasi di perla, nella misura che conviene a una donna, non in modo eccessivo (for misura): ella è il massimo di bellezza che la natura può creare (ben … natura); la bellezza si può misurare (si prova) sulla base del modello da lei rappresentato (per essemplo … bieltà). versi 51-56 Dai suoi occhi, non appena li muove, escono spiriti infiammati d’amore, che feriscono gli occhi a chiunque la guardi (guati) in quel momento (allor), e penetrano a tal punto (passan sì) che ciascuno degli spiriti raggiunge (retrova) il cuore: voi le vedete Amore dipinto sul viso, in quel punto in cui nessuno può guardarla fissamente (fiso). 16. e passan … retrova: è un motivo tipicamente cavalcantiano.
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L’età comunale in Italia
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Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand’io t’avrò avanzata17. Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata per figliuola18 d’Amor giovane e piana19, che là ’ve giugni tu dichi pregando: «Insegnatemi gir, ch’io son mandata a quella di cui laude so’ adornata». E se non vuoli andar sì come vana, non restare ove sia gente villana20: ingegnati, se puoi, d’esser palese21 solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana. Tu troverai Amor con esso lei; raccomandami a lui come tu dei.
versi 57-63 Canzone, io so che andrai (girai) a parlare a molte donne (donne assai) quando io ti avrò (terminata e quindi) resa nota (avanzata). Ora, dato che io (perch’io) ti ho creata (allevata) come giovane e soave (piana), frutto (figliuola) di Amore, (fai, per
Pesare le parole Villania (vv. 33, 65), cortese >
cortesia) che là dove arrivi tu (essa, la canzonetta) dica pregando: «Insegnatemi la strada (gir, andare), perché sono mandata a colei, delle cui lodi sono adornata». 17. Canzone … avanzata: è la strofa del congedo.
(v. 67)
Villania è il comportamento di chi è villano, cioè rozzo, maleducato, scortese, incivile. Il senso si è conservato sino a noi, anche se nel Medioevo era più forte di oggi. Originariamente villano indicava l’abitante della villa (“fattoria, casa di campagna, villaggio”), cioè il contadino, il campagnolo. Il valore spregiativo del termine riflette il disprezzo con cui i membri delle corti signorili e gli abitanti delle città guardavano coloro che vivevano in campagna e lavoravano la terra, ritenuti esseri primitivi e animaleschi.
18. figliuola: la canzone è definita figlia di Amore perché tutta ispirata a lui. 19. piana: è quasi sinonimo di “dolce”, il termine che connota la poesia stilnovistica. versi 64-70 E se non vuoi muoverti inutilmente (sì … vana), non fermarti dove ci sia gente priva di nobiltà, adoperati, se puoi, in modo di rivelarti solo a donne o uomini cortesi, che ti porteranno a Beatrice per la via più rapida (tostana). Insieme a lei (con esso lei) troverai Amore; raccomandami a lui meglio che puoi (dei). 20. villana: è il contrario di “cortese”. 21. ingegnati … palese: cioè, fuor di metafora, fatti leggere.
> Il contrario di villania era cortesia, cioè il saper rispet-
tare le regole della raffinata vita di corte. Il culto della cortesia si trasferì poi anche nella vita cittadina e fu ereditato dalla borghesia mercantile (lo si vedrà chiaramente nelle novelle di Boccaccio). L’opposizione villano-cortese si è mantenuta anche nella lingua attuale, seppur impoverita dei significati originari (cortese per noi oggi è semplicemente chi rispetta le buone maniere).
Analisi del testo
> Una svolta determinante
Le «nove rime»
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Dante stesso, in un episodio del Purgatorio, insiste sul fatto che la canzone segna una svolta determinante nella sua poesia, dando inizio alle «nove rime». Nel canto XXIV il rimatore Bonagiunta da Lucca, seguace di Guittone, gli chiede se sia colui che ha tratto fuori le «nove rime» dicendo «Donne ch’avete intelletto d’amore». Dante risponde: «I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando». Al che Bonagiunta esclama: «Oh frate, issa vegg’io [...] il nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo» (Purgatorio, XXIV, vv. 50-57). Il rimatore della vecchia maniera, ora che nel purgatorio può avere una visione diretta della verità, riconosce qual è il «nodo» che ha trattenuto i poeti siciliani e i guittoniani di qua dal «dolce stil novo» di cui sente parlare da Dante, e che si concreta esemplarmente nella canzone Donne ch’avete. La canzone dantesca inaugura una nuova fase poetica perché assume una nuova mate-
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Elementi ancora tradizionali
Il nuovo significato
ria, esprime una mutata direzione dell’amore, un amore che «s’innalza ad un livello superiore a quello trobadorico», poiché «tende alla perfezione dell’amore celeste» (Singleton). È vero che singoli elementi della canzone rimandano ancora alla tradizione della poesia amorosa precedente: nella terza strofa l’immagine della donna che, quando va per la via, fa sparire ogni pensiero villano dai cuori e dona la salvezza è di ascendenza guinizzelliana ( cap. 2, T7, p. 157), il colore di perle del viso di Beatrice rimanda a un modo di raffigurare la bellezza femminile che torna costante sin dai trovatori e dai siciliani, gli «spirti d’amore inflammati» risalgono a Cavalcanti ( cap. 2, pp. 151 e ss.). Ma nonostante tutti questi materiali tradizionali che in essa confluiscono, la poesia nella sua completezza assume un diverso significato a causa del contesto in cui è inserita: il suo significato deriva insomma dalla collocazione in un preciso punto della struttura narrativa, che è organizzata in modo da presentare un progressivo distacco dall’amor cortese ed un’ascesa verso un amore totalmente spiritualizzato che innalza a Dio. È la prosa, in altre parole, a garantire il senso mistico-teologico del libro nella sua interezza.
> Lo stile
La «dolcezza» dello stile
La nuova materia deve portare con sé anche un nuovo stile poetico. All’amore del tutto disinteressato corrisponde infatti uno stato d’animo pacificato, liberato dal conflitto amore-dolore che caratterizzava lo stadio precedente, influenzato da Cavalcanti. E questo nuovo stato d’animo, che nasce dall’appagamento della «lode», trova appunto espressione nella «dolcezza» dello stile (Mineo). A questo proposito si può notare che Dante, quando nel Purgatorio usa la formula «dolce stil novo», si riferisce alla sua poesia, non a quella dei predecessori; e la usa proprio per sottolineare la “novità” di una canzone che si allontana da Guinizzelli e Cavalcanti. Sarà ora necessario vedere da vicino ciò che caratterizza lo stile della canzone. Livello fonico: sono evitati i suoni aspri e ridotti al minimo gli scontri duri di consonanti. Livello ritmico: si ricerca una grande scorrevolezza musicale dei versi. Essi sono molto raramente spezzati da pause; allo stesso modo, limitatissimo è l’uso dell’enjambement: le clausole sintattiche coincidono prevalentemente con la misura del verso. Sono totalmente assenti inarcamenti molto aspri, come l’enjambement che separi aggettivo e sostantivo, o soggetto e verbo. Il ritmo degli accenti ricalca le modulazioni più consuete e piane dell’endecasillabo (1º, 7º, 10º; 2º, 6º, 10º; 2º, 4º, 8º, 10º); non vi sono accentazioni abnormi, fuori del comune. Livello lessicale: al ritmo piano e dolce contribuisce il fatto che le parole sono in gran prevalenza piane, con l’accento sulla penultima; rare sono le sdrucciole e le tronche. Il lessico usato è composto di parole di livello medio, ed esclude termini rari, preziosi, eccessivamente aulici, o termini di intensa espressività. Si possono osservare alcuni gallicismi («temenza», «merzede», «tostana») e latinismi («clama», «spene», «essemplo»), ma nessuno di essi è veramente un termine raro, che spicchi nel tessuto verbale come un’intensa macchia di colore. Livello sintattico: la limpidezza e la dolcezza del dettato è data anche da una sintassi piana, priva di dure inversioni o di periodi troppo complessi, ricchi di subordinate. Basta confrontarla con la sintassi di Guittone, ma anche del Guinizzelli di Al cor gentil ( cap. 2, T6, p. 152), che pure è maestro e iniziatore delle rime «dolci e leggiadre». Livello retorico: è assente un’ornamentazione retorica lambiccata e astrusa. Ricorrente è la personificazione di Amore, ma è dato così costante del linguaggio della poesia amorosa che non si avverte neppure più come figura retorica. Si possono solo segnalare alcune metonimie: «cielo» per «beati», «Pietà» per «Dio», «spene» per «oggetto di speranza». Rare sono le metafore: il pensiero dei cuori villani che «agghiaccia», Amore «pinto» nel viso di madonna; lo stesso vale per i paragoni: «Color di perle ha quasi». 245
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Indica il tema centrale della canzone. > 2. Rintraccia nella prima strofa della canzone, che funge da proemio di tutto il componimento, il programma poetico di Dante, specificando: a) il pubblico cui intende rivolgersi (v. 1, v. 13 e il congedo); b) l’argomento che intende trattare; c) il motivo per cui intende farlo (v. 4); d) lo stile adottato. > 3. Riassumi con un titolo il contenuto delle singole strofe, secondo l’esempio proposto. Strofa
Titolo
I
Dante spiega perché vuole parlare di Beatrice ...........................................................................................................................................................................................................................................................................
II
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III
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
IV
...........................................................................................................................................................................................................................................................................
V
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> 4. Rileggi la seconda strofa e rispondi.
a) Che cosa chiedono gli angeli a Dio? b) Che cosa si dice di Dante? > 5. A partire dalle strofe III e IV, rileva quali sono le virtù di Beatrice, gli effetti che produce in chi le sta intorno e in che cosa consiste la sua bellezza. ANALIzzARE
> 6.
Stile Analizza la canzone dal punto di vista formale e rintraccia gli elementi tipici dello stile «dolce» e «nuovo» ( Analisi del testo della canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizzelli, cap. 2, T6, p. 154). > 7. Stile Rintraccia le figure retoriche presenti nel componimento. > 8. Lessico Individua nella I strofa le parole chiave della poetica stilnovistica. > 9. Lessico Individua nel primo verso delle tre strofe centrali (II, III, IV), la parola chiave che anticipa, e in qualche modo riassume, i vari momenti della lode.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 10. Testi a confronto: esporre oralmente In un’esposizione orale (max 8 minuti) procedi ad un confronto tra la
seconda strofa di questa canzone e l’ultima della canzone Al cor gentil rempaira sempre amore ( cap. 2, T6, p. 154) di Guido Guinizzelli rispondendo alle domande seguenti. a) In entrambe le liriche ricorre il motivo del dialogo in paradiso, tuttavia diversi sono gli interlocutori: rintraccia e descrivi le singole situazioni. b) Che cosa risponde Guinizzelli a Dio, quale scusante adduce ai suoi rimproveri? c) Che cosa risponde Dio agli Angeli nella canzone di Dante? d) Che cosa rappresenta Beatrice rispetto alla donna amata da Guinizzelli? PER IL RECUPERO
> 11. Facendo riferimento all’Analisi del testo, rintraccia nella canzone gli elementi che rimandano alla tradizione d’amore precedente, secondo l’esempio proposto.
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Strofa
Elementi della tradizione
L’immagine ricorre in…
II
Motivo della donna-angelo ............................................................................................................................
Guido Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre amore, ultima strofa ...............................................................................................................................................................................................................................
III
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IV
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IV
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IV
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi interattiva
T6
Tanto gentile e tanto onesta pare dalla Vita nuova, cap. XXVI
Temi chiave
• l’apparizione miracolosa della donna • il saluto salvifico di lei • la lode del poeta
Qualche tempo dopo il presagio della morte della «gentilissima», Dante vede venire verso di sé Beatrice preceduta da un’altra donna, Giovanna, detta Primavera per la sua bellezza (cap. XXIV). Ispirato da Amore, capisce che questa donna è stata chiamata Primavera perché «prima verrà», cioè perché in questo giorno era predestinata a precedere Beatrice nella sua apparizione. Ma anche il nome Giovanna per Dante significa la stessa cosa, perché è il nome di Giovanni Battista, colui che precedette la venuta di Cristo. Viene così ribadito il significato di Beatrice come «figura» di Cristo, e quindi della salvezza divina. Qui il senso mistico della donna e dell’intera narrazione diviene pressoché esplicito. Il capitolo successivo (XXV) contiene una riflessione sull’amore e risponde alla possibile obiezione di averlo inserito nell’opera come persona reale. A sua difesa Dante rivendica il diritto dei poeti, a cui è consentito di far parlare anche le cose inanimate «sotto veste di figura». Si introduce così il discorso sull’interpretazione allegorica, che Dante svilupperà nel Convivio. Nel capitolo XXVI Dante ritiene di dover «ripigliare lo stilo de la sua loda» per magnificare ulteriormente le virtù di Beatrice, che viene esaltata in una forma di apoteosi.
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, EDC.
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Questa gentilissima donna, di cui ragionato è1 ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti2, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade3 giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare4 a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia5. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia6; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare7!». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri8, che quelli che la miravano comprendeano9 in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare10. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente11: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda12, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni13; acciò che non pur14 coloro che la poteano sensibilemente15 vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.
1. di cui … è: della quale si è parlato. 2. venne … genti: fu tanto ammirata dalla gente. 3. onestade: cortesia (che induce a un atteggiamento di umiltà e sottomissione). 4. e di questo … testimoniare: e molti potrebbero testimoniare questo per averne fatta esperienza. 5. nulla gloria … udia: non mostrando alcuna superbia al vedere l’ammirazione susci-
tata fra la gente. 6. maraviglia: miracolo. 7. mirabilemente sae adoperare: che sa operare tali miracoli. 8. li piaceri: grazie. 9. comprendeano: sentivano nascere. 10. né alcuno … sospirare: e nessuno poteva contemplarla, senza essere costretto subito a sospirare mentre la guardava. 11. procedeano virtuosamente: si trasmet-
tevano da lei con effetti virtuosi. 12. lo stilo … loda: il modo poetico della sua lode. 13. io dessi … operazioni: io spiegassi gli effetti miracolosi e straordinari da lei prodotti. 14. non pur: non solo. 15. sensibilemente: personalmente, coi loro occhi.
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L’età comunale in Italia
4
Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia16 quand’ella altrui17 saluta, ch’ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare.
8
Ella si va18, sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta19; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare20.
Audio
11
Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core, che ’ntender no la può chi no la prova:
14
e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d’amore, che va dicendo a l’anima: Sospira.
Dante Gabriel Rossetti, Il saluto di Beatrice, 1869, olio su tela, Collezione privata.
versi 1-4 La mia signora, quando porge il saluto a qualcuno (altrui), appare (pare) tanto nobile e onesta, che ogni lingua si zittisce (deven muta) per la trepidazione (tremando) e gli occhi non osano (ardiscon) guardarla. 16. Tanto … mia: la donna (signora, alla latina domina) appare manifestamente (pare) connotata dagli attributi stilnovistici gentile (nobile, in senso spirituale) e onesta (decorosa quanto ad atteggiamenti esteriori). 17. altrui: non significa “qualcun altro”, ma semplicemente “qualcuno”, pronome indefinito che funge da oggetto del verbo transitivo secondo l’uso dell’italiano dell’epoca.
Pesare le parole Gentile, onesta, pare
versi 5-8 Ella procede (si va), sentendosi lodare, con quell’atteggiamento di umiltà che rivela (al suo apparire) benevolenza; e appare (par) come un essere (cosa) sceso dal cielo sulla Terra a manifestare (mostrare) in concreto la potenza divina (miracol). 18. Ella si va: Contini: «si impegna nel suo andare». 19. benignamente … vestuta: si tratta di una metafora per indicare le virtù morali di Beatrice. 20. e par … mostrare: par riprende il pare del verso 1; Contini: «si fa evidente la sua natura»; da Contini è tratta anche la parafrasi
versi 9-14 (La mia donna) si manifesta con una tale bellezza a chi la contempla (mira), che dona attraverso (per) gli occhi una dolcezza al cuore, che chi non la prova non può capire (’ntender): e sembra che dal suo viso (labbia) emani una soave ispirazione amorosa (spirito … d’amore), che suggerisce (va dicendo) all’anima: Sospira.
(v. 1)
> Come osserva Contini, ricordato nell’analisi, nessuna
delle parole fondamentali del primo verso del sonetto ha il senso dell’italiano moderno. Si è già visto (Guinizzelli, Al cor gentil, cap. 2, T6, p. 152) che gentile ha il significato di “nobile, dall’animo elevato”; onesta vale “piena di decoro, di dignità”, in riferimento al termine
248
del verso 8. Si noti la ripetizione mostrare/ Mostrasi, tra la fine della seconda quartina e l’inizio della terzina successiva.
latino honèstum, che ha la radice di honòrem, “onore, dignità”; pare non significa semplicemente “sembra”, come per noi, ma “appare in modo evidente”, e reca implicita l’idea dell’apparizione sovrannaturale, legata all’angelicazione della donna («una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare», vv. 7-8).
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi del testo
> Un’apparizione miracolosa
Testo critico G. Contini
La parola chiave: «pare»
La lentezza del ritmo
Assenza di concretezza visiva
I sostantivi
I verbi
Sia la prosa sia il sonetto contengono la più compiuta raffigurazione dell’ideale femminile, quale Dante ha elaborato personalmente partendo dallo «stil novo». Tra la prosa e i versi vi è una stretta corrispondenza, ma la poesia trascrive la materia in linee più essenziali e nitide. Come per tutte le rime della «lode», lo stile è quello «dolce», delle cui caratteristiche si è detto ( La Vita nuova, pp. 229 e ss.). Possiamo pertanto compiere dei sondaggi in altre direzioni, cogliendo alcuni spunti da una celebre analisi di Gianfranco Contini (1947). La parola chiave, che costituisce la struttura portante del sonetto, è il verbo «pare», che si offre nella I, II, IV strofa. Ma, a ben vedere, non è assente neppure nella III, che si apre con un suo perfetto equivalente, «Mostrasi». Quindi ciascuno dei quattro periodi che compongono il discorso poetico, coincidenti esattamente con le quattro strofe del sonetto, ha al centro l’idea del “parere”. Il verbo però, come ha messo in chiaro Contini (che ha sottolineato come nessun termine del sonetto abbia il significato che ha nell’italiano attuale), non vale banalmente “sembrare”, ma “apparire”, o meglio “apparire in piena evidenza”. Basta già questa essenziale trama verbale a indicare il carattere di apparizione miracolosa che possiede la figura femminile.
> La contemplazione estatica
All’apparizione corrisponde poi, dal punto di vista soggettivo del poeta, un atteggiamento di contemplazione estatica. Esso è espresso soprattutto dal ritmo particolarmente lento del verso, che rende appunto il senso di un’immobile, stupefatta contemplazione. La lentezza è data non dalla presenza di pause, ma dal fatto che la maggioranza dei versi è segnata da un numero molto alto di accenti ritmici. Si prenda solo il campione dei primi due versi: «Tànto gentìle e tànto onèsta pàre / la dònna mìa quand’élla altrùi salùta». Sono cinque accenti, di contro ai due o tre che sono abituali nell’endecasillabo. Il fatto che non vi siano pause evita però che il verso sia spezzato: la lentezza trasognata non esclude la fluidità musicale dello stile «dolce».
> La smaterializzazione dell’immagine
Il carattere sovrannaturale dell’apparizione fa sì che l’oggetto della contemplazione non si concreti in un’immagine di tipo visivo. Come scrive sempre Contini, l’intento di Dante «non è affatto quello di rappresentare uno spettacolo, bensì di enunciare, quasi teoreticamente, un’incarnazione di cose celesti e di descrivere l’effetto necessario sullo spettatore». In effetti nella poesia non si staglia un quadro dal forte carattere visivo, non si delinea uno sfondo concreto, non spicca una descrizione fisica della donna, in termini di colori, volumi, chiaroscuri. Si veda la serie dei sostantivi impiegati: «donna», «lingua», «occhi», «umiltà», «cosa», «cielo», «terra», «miracol», «dolcezza», «core», «labbia», «spirito», «amore», «anima»: nessuno di essi evoca una realtà concreta e fisica. Anche quelli più concreti («lingua», «occhi», «cielo», «terra») assumono un significato metaforico o un valore puramente spirituale (ciò vale anche per «labbia», che non indica tanto il volto nella sua realtà materiale, quanto l’espressione di esso, cioè la manifestazione di una realtà interiore). I verbi sono una presenza molto rilevante nel testo. Netta prevalenza essi hanno tra le parole in rima, cioè quelle in posizione forte, di maggior spicco: sono ben 11 su 14. Ma spesso compaiono anche nell’altra posizione forte, all’inizio di verso: «si va» (v. 5) «e par» (v. 7), «Mostrasi» (v. 9), «che dà» (v. 10), «che ’ntender» (v. 11), «e par» (v. 12), «che va» (v. 14). Poiché il verbo serve a indicare l’azione, tanti verbi (22 in tutto, non contando quelli servili) dovrebbero dare un’impronta di intenso movimento dinamico
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L’età comunale in Italia
al componimento, e ciò contrasterebbe con l’atmosfera di estatica contemplazione che si è sottolineata. Ma, a ben vedere, solo uno dei verbi indica un movimento reale nello spazio, «si va». Altri verbi di movimento sono puramente metaforici («venuta / da cielo in terra», vv. 7-8; «de la sua labbia si mova», v. 12). Parimenti tutti gli altri verbi hanno o un valore metaforico, o un senso spirituale («pare», «saluta», «vestuta», «mostrare», «Mostrasi», «Sospira»); oppure indicano addirittura un arresto del moto, dell’azione: «deven tremando muta» (v. 3), «no l’ardiscon di guardare» (v. 4). Quindi il folto numero di verbi, anziché dare un senso di dinamicità al discorso, contribuisce, in unione con i sostantivi, a smaterializzare l’immagine, a conferirle il senso non di quadro visivo di una realtà fisica, ma di figura astratta, densa di significati metafisici, oggetto di pura contemplazione mentale.
Esercitare le competenze
Laboratorio interattivo
COMPRENDERE
> 1. Sottolinea, nella parte in prosa, i periodi che si presentano come parafrasi o commento del sonetto. > 2. Come viene descritta Beatrice? Quali sono le sue qualità? Quali azioni compie e quali reazioni suscita in chi la osserva?
ANALIzzARE
> 3. Stile Sottolinea le parole che rimano con «pare». Quale tema viene messo in evidenza? > 4. Stile Individua nei versi 3-4 le sineddochi. > 5. Stile Individua nel sonetto le ripetizioni lessicali, la figura del poliptoto e gli enjambements. Quale effetto producono?
> 6. Stile Individua le allitterazioni presenti nei versi 8-9 e 13-14. > 7. Stile Nel verso 13 è presente una personificazione, quale? > 8. Stile Quale figura retorica si individua nell’espressione «benignamente d’umiltà vestuta»? > 9. Lessico Completa la tabella secondo l’esempio proposto, inserendo il significato delle seguenti parole chiave e avvalendoti di quanto riportato nella rubrica Pesare le parole e nelle note al testo. Parole chiave
Significato nel sonetto
«gentile» (v. 1)
nobile d’animo ............................................................................................................................................................................
«onesta» (v. 1)
............................................................................................................................................................................
«pare» (v. 1)
............................................................................................................................................................................
«par» (v. 7)
............................................................................................................................................................................
«Mostrasi» (v. 9)
............................................................................................................................................................................
«donna» (v. 2)
............................................................................................................................................................................
«cosa» (v. 7)
............................................................................................................................................................................
«mostrare» (v. 8)
............................................................................................................................................................................
«labbia» (v. 12)
............................................................................................................................................................................
> 10.
Lessico Le virtù di Beatrice sono riconosciute da tutti gli uomini, non solo dal poeta: individua nel testo i termini che sottolineano tale prospettiva. > 11. Lingua Quale effetto produce la ripetizione nei versi 4, 7 e12 della congiunzione coordinante «e» in posizione iniziale di verso? > 12. Lingua Quali subordinate sono introdotte dalla congiunzione «che» rispettivamente nei versi 3-4, 10, 11, 14?
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 13. Testi a confronto: scrivere In un testo di circa 8 righe (400 caratteri) svolgi un confronto tra questo sonetto e la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore ( T5, p. 242), illustrando le affinità tematiche tra le due liriche.
250
Capitolo 4 · Dante Alighieri
T7
Oltre la spera che più larga gira dalla Vita nuova, cap. XLI
Temi chiave
• la luce, lo splendore di Beatrice e la sua vicinanza a Dio
• la difficoltà di esprimere a parole la visione della beatitudine di Beatrice
La morte di Beatrice (cap. XXVIII) viene semplicemente annunciata, non dà luogo ad alcun episodio narrativo. Piuttosto, offre lo spunto per una divagazione sul numero nove, a conferma di una sempre più accentuata giustificazione in chiave allegorico-simbolica della vicenda. Insistendo sulla simbologia del numero nove, Dante chiarisce compiutamente l’origine e la natura divina dell’amore ispirato da Beatrice, e lo può fare adesso che la sua donna è salita in paradiso, sciogliendo se stessa o il poeta da ogni forma di legame terreno. Seguono alcune poesie in morte di Beatrice, finché avviene l’incontro (cap. XXXV) con una «gentile donna giovane e bella molto», che si mostra particolarmente pietosa e amorevole verso il poeta, a cui pare trovare in tal modo conforto al suo dolore. Inizia così a rivolgersi a lei in poesia, ma avverte, nello stesso tempo, il rischio di essere sviato dal vero oggetto del suo amore, provandone rabbia e vergogna (inizio del capitolo XXXVII: «Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade de gli occhi miei»). Anche questo episodio, nell’economia del racconto, ha soprattutto una rilevanza simbolica: indica le tentazioni dell’amore terreno, opposto a quello tutto spirituale per Beatrice. Nel Convivio, poi, l’amore per questa «donna gentile» sarà assunto come allegoria dell’amore per la filosofia, cioè sempre di un legame con qualcosa di terreno, l’orgoglio della ragione; e forse proprio di questo Beatrice rimprovera Dante nel paradiso terrestre. A spezzare il legame pericoloso sopraggiunge (cap. XXXIX) una «forte imaginazione»: «Che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi». È un rimprovero muto ma decisivo, che induce il poeta a pentirsi e a tornare sulla retta via. Nel capitolo XL Dante si rivolge ai fedeli che solevano recarsi in pellegrinaggio a Roma, la settimana santa, componendo un mesto sonetto di glorificazione e di compianto, che implicitamente stabilisce un nuovo rapporto fra la morte di Beatrice e la morte di Cristo. Nel capitolo seguente, un sonetto descrive la visione di Beatrice in cielo.
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, DCE.
5
Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandasse loro di queste mie parole rimate1; onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandasse a loro con esse, acciò che più onorevolemente adempiesse li loro prieghi2. E dissi allora uno sonetto, lo quale narra del mio stato, e manda’lo a loro co lo precedente sonetto accompagnato3, e con un altro che comincia: Venite a intender. Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera [...]
4
Oltre la spera che più larga gira4 passa ’l sospiro5 ch’esce del mio core: intelligenza nova, che l’Amore piangendo mette in lui, pur su lo tira.
8
Quand’elli è giunto là dove disira, vede una donna, che riceve onore, e luce6 sì, che per lo suo splendore lo peregrino spirito la mira.
1. Poi … rimate: poi due donne gentili mi mandarono a pregare di inviare loro alcune mie poesie. 2. propuosi … prieghi: mi proposi di mandare loro [le poesie] e di comporre anche un testo nuovo, da inviare loro con gli altri già scritti, in modo da soddisfare più convenientemente le loro preghiere.
3. manda’lo … accompagnato: e lo mandai a loro insieme con il precedente sonetto (Deh peregrini che pensosi andate). versi 1-4 Il sospiro (per Beatrice) che esce dal mio cuore oltrepassa la sfera celeste (spera) che ruota con moto più largo (che … gira): una capacità di comprendere straordinaria (intelligenza nova), che Amore, malgrado
pianga (piangendo, la morte di Beatrice) mette in lui, lo eleva verso l’alto (su lo tira). 4. Oltre … gira: ossia il Primo Mobile, quindi il sospiro sale nell’Empireo, sede delle anime dei beati. 5. sospiro: in luogo di pensiero o desiderio, è una metonimia, effetto per la causa. versi 5-8 Quando esso (il sospiro) è giunto là dove desidera (disira), vede una donna, che riceve onore (da tutti i beati), e la luce (della grazia illuminante di Dio) a tal punto (sì), che lo spirito, peregrino (perché uscito dal mondo) l’osserva stupefatto (la mira) per lo splendore che emana. 6. luce: altri lo intende come verbo (nel senso di “risplende”) riferito al soggetto che (Beatrice) del v. 6.
251
L’età comunale in Italia
11
Vedela tal, che quando ’l mi ridice, io no lo intendo, sì parla sottile al cor dolente, che lo fa parlare7.
14
So io che parla di quella gentile, però che spesso ricorda Beatrice, sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care8.
versi 9-14 (Il mio sospiro) vede Beatrice tale che, allorché (ritornato presso di me) me ne riferisce la gloria (quale l’ha vista in
cielo) (’l mi ridice), io non lo comprendo (intendo), tanto elevato e complesso (sottile) è il suo discorso rivolto al cuore dolente
che lo fa parlare. Io so che parla di quella nobile (donna), per il fatto (però) che spesso nomina (ricorda) Beatrice, cosicché (almeno questo) io lo capisco bene, donne mie care. 7. Vedela … parlare: cioè lo splendore di Beatrice è tale che la sua descrizione supera le facoltà di comprensione umane. 8. sì ch’io … care: il vocativo è riferito alle due donne gentili alle quali Dante dedica il sonetto.
Analisi del testo Il terzo stadio dell’amore
Il viaggio mistico
L’ineffabilità della visione Prefigurazione della Commedia
Con la morte di Beatrice e la sua assunzione al cielo si apre il terzo stadio dell’amore ( I significati segreti, p. 231), e l’ultima sezione della Vita nuova: l’amore per la donna eleva le facoltà dell’anima dell’amante sino al cielo. Questo processo ascendente dell’anima culmina nell’ultimo componimento della Vita nuova, che è appunto questo sonetto, in cui il pensiero di Dante si innalza a contemplare Beatrice splendente nella gloria del paradiso. Giunge così a compimento quel simbolico viaggio dell’anima a Dio, che è il «libello» amoroso di Dante: secondo lo schema seguito da tutti i mistici, l’amore divino, perfettamente disinteressato, ci innalza al di sopra di noi sino al cielo. Ciò che il sonetto descrive è infatti un vero e proprio viaggio mistico della mente (il «peregrino spirito», v. 8). La contemplazione del «miracolo», che nelle rime della «lode» si svolgeva in terra, ora ha raggiunto la sua sede propria. La collocazione del sonetto in chiusura dell’opera risponde ad un’architettura attentamente studiata, e si carica di profondi significati. Poi lo spirito ridiscende in terra a ridire la sua visione al poeta. Una visione mistica, per sua natura, è ineffabile, non può essere espressa in parole umane: perciò Dante non riesce ad intendere ciò che lo spirito gli riferisce; capisce solo che oggetto del discorso è Beatrice. Il viaggio dell’anima a Dio, la contemplazione di Beatrice nella gloria del paradiso, il ritorno in terra a ridire quanto può essere ripetuto dell’esperienza ineffabile fanno già presagire il disegno della Commedia, ed in particolare gli ultimi canti del Paradiso. Con una differenza però: qui oggetto della contemplazione mistica è ancora la donna, nella Commedia l’oggetto sarà direttamente Dio.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Individua per ogni strofa del sonetto i concetti chiave. > 2. Qual è la causa del dolore cui il poeta accenna ai versi 4 e 11? ANALIzzARE
> 3. > 4.
Spiega la funzione dell’anastrofe dell’intero verso 1 rispetto al verso 2. Individua i termini appartenenti ai campi semantici del movimento e della vista: quali esperienze di Dante descrivono? > 5. Lingua Individua nel testo i nessi che introducono le proposizioni temporali, consecutive e causali.
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Stile
Lessico
Capitolo 4 · Dante Alighieri APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Scrivere In un testo di circa 10-12 righe (500-600 caratteri) illustra i tre stadi dell’amore facendo riferimento a questo sonetto, al testo tratto dal capitolo II ( T2, p. 234) e a quello tratto dal capitolo XVIII ( T4, p. 240). > 7. Testi a confronto: esporre oralmente Dopo aver individuato nel testo le parole chiave che rimandano alla poetica di Guinizzelli, effettua un confronto in un’esposizione orale (max 5 minuti) con Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 41-60 ( cap. 2, T6, pp. 153-154), sul tema della donna angelo.
PER IL POTENzIAMENTO
> 8. La vicinanza a Dio di Beatrice e la visione della sua beatitudine rimandano direttamente alla dimensione del
Paradiso nella Commedia, in cui la presenza della donna amata da Dante assume un altro significato. Facendo riferimento alla trattazione del libro di testo ( L’allegoria nella Commedia e La concezione figurale, pp. 285 e 286), prova a delineare i tratti fondamentali del cambiamento del personaggio.
Analisi interattiva
T8
La «mirabile visione»
Temi chiave
• l’allusione a una nuova opera • la lode di Beatrice
dalla Vita nuova, cap. XLII È il capitolo conclusivo della Vita nuova.
5
Appresso questo sonetto1 apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta2 infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente3. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono4, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna5. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus6.
1. questo sonetto: quello che inizia Oltre la spera... 2. benedetta: mutano gli epiteti di Beatrice: da «cortesissima», «gentilissima», «nobilissima» a benedetta; è segno del superamento della concezione stilnovistica e preludio di quella nuova concezione della donna e dell’amore presente nella Divina Commedia.
3. E di … veracemente: e io mi impegno quanto più posso per giungere a questo, come sa Beatrice. Cioè Dante si impegna ad affinare i suoi strumenti concettuali e poetici, per poter trattare degnamente di lei. 4. se piacere … vivono: se Dio vorrà. Dio è indicato con una perifrasi, “colui che fa vivere tutte le cose”. 5. io spero … d’alcuna: un impegno di Dan-
te con se stesso, quasi una scommessa che l’autore vincerà nella Divina Commedia. 6. E poi … benedictus: e poi voglia Dio, che è il signore della cortesia, che la mia anima possa andare a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente contempla il viso di colui che è benedetto per tutti i secoli (Dio).
Pesare le parole Studio (r. 3)
> Il verbo conserva qui il senso del latino studère, “appli-
carsi con impegno a qualcosa, aspirare a, cercare di ottenere con sforzo”: in questo significato generale rientra quello più particolare di “dedicarsi allo studio”. L’italiano attuale nell’uso comune ha conservato solo quest’ultimo significato, cioè “applicare la mente nell’apprendimento
di una disciplina, valendosi di libri o di altri strumenti, spesso sotto la guida di un insegnante” (es. studiare la letteratura, la musica…). Il verbo può essere usato anche intransitivamente, specie nel senso di “seguire i corsi di una scuola o di una università” (es. la famiglia fa dei sacrifici per farlo studiare)
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo Il preannuncio della Commedia
Il capitolo conclusivo allude ancora ad una «mirabile visione», di cui nulla viene detto. L’opera quindi si chiude sempre in una prospettiva mistica, e per di più con un oscuro presagio del futuro: il proposito di dire un giorno della «benedetta» quanto «mai non fue detto d’alcuna» (rr. 5-6). Vi è qui un’allusione abbastanza chiara alla Commedia, in cui Beatrice assumerà il ruolo della sapienza divina che guida l’anima nel viaggio a Dio. Può darsi che già in questa fase a Dante fosse balenato il progetto del futuro poema; oppure queste righe possono essere state aggiunte in seguito, quando il disegno aveva già assunto linee precise. Dante si rende conto però che, per poter «più degnamente trattare» di Beatrice, deve abbandonare i confini troppo ristretti della forma autobiografica e trovare una forma più degna, in cui la «lode» possa caricarsi di ben altri significati e divenire il punto d’incontro di un vasto sapere e di una vasta esperienza del reale.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Perché Beatrice «sae veracemente» (r. 4) che Dante si sta impegnando al fine di trattare degnamente di lei? ANALIzzARE
> 2. > 3. > 4.
Quale figura retorica di suono dà risalto al nesso «benedetta Beatrice» (r. 7)? Individua nel testo le perifrasi che indicano Dio e spiegale. Lessico Individua tutti i vocaboli appartenenti all’area semantica della vista, precisando, se possibile, il soggetto e l’oggetto della visione (chi compie l’azione di vedere e che cosa vede). > 5. Lessico Con l’aiuto di un dizionario, consultabile anche on line, spiega l’etimologia dei vocaboli «mirabile» e «visione». > 6. Lingua Perché, secondo te, la conclusione del passo e dell’intera opera è affidata a un’espressione latina? A quale ambito appartiene? Stile Stile
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente Il poeta italiano Salvatore Quasimodo (Modica 1901 - Napoli 1968), premio Nobel per la letteratura nel 1959, profondo conoscitore dei classici greci e latini e interprete raffinatissimo della tradizione italiana, così si esprime riguardo la Vita nuova di Dante:
La Vita Nuova è divisione dalla realtà, uno sprofondare nelle visioni medioevali: l’allegoria vi rimane allegoria, cioè non va oltre il senso della rappresentazione predestinata, tanto che la figura umana di Beatrice viene messa in dubbio tra gl’innumerevoli rapporti del visibile e di ciò che non è. S. Quasimodo, Il poeta e il politico e altri saggi, Mondadori, Milano 1967
Video
Prepara una scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) sull’importanza che riveste il tema della «visione» all’interno della Vita nuova. Puoi soffermarti su come si modifica il significato del “vedere” nel passaggio da uno stadio all’altro dell’amore e illustrare questi aspetti facendo riferimento alla citazione proposta e a testi esemplificativi. > 8. Altri linguaggi: musica Al Ravenna Festival 2015, dal titolo L’amor che move il sole e l’altre stelle, interamente dedicato all’opera di Dante, in occasione degli eventi per i 750 anni dalla nascita, la cantata La Vita nuova di Nicola Piovani si è avvalsa del suggestivo accostamento di linguaggi diversi: poesia e musica. Così la performance è stata recensita: […] con Piovani, la carezza [si faceva] lieve, dolce, fin troppo dolce, chiara e trasparente. […] degli ampi estratti della Vita Nuova ogni minima sfumatura veniva tornita, addirittura in doppia versione: prima recitata, dal fantastico e davvero profondo Elio Germano, e poi intonata da Rosa Feola, soprano rotondo, maliosissima. […] la Cantata di Piovani veniva presentata francescanamente spoglia. C. Moreni, Dante a tempo di musica, in “Il Sole 24 Ore”, 14 giugno 2015
Dopo aver ascoltato e visto l’esecuzione nel video on line, prova a spiegare, anche in base alle tue conoscenze sull’argomento letterario, le definizioni attribuite dal recensore all’opera musicale.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
3 Le rime giovanili
L’amore per la filosofia
Le canzoni del Convivio
La condanna della propria epoca
La scoperta della politica
Le Rime Una raccolta eterogenea: il poeta d’amore e il «cantor rectitudinis»
Videolezione
Le Rime non sono un canzoniere organico costruito dal poeta secondo un disegno, ma una raccolta messa insieme e ordinata da moderni editori, che riunisce il complesso della produzione lirica dantesca dalle prove giovanili sino a quelle dell’età matura. Le rime giovanili comprendono componimenti che riflettono le varie tendenze della lirica cortese del tempo, quella guittoniana, quella guinizzelliana, quella cavalcantiana ( T9, p. 257). Tra questo gruppo di testi, si ricordi, Dante aveva scelto quelli che dovevano entrare a far parte della Vita nuova. Dopo quest’opera, che segna una svolta capitale nel percorso della sua produzione, Dante nella sua attività poetica intraprende altre strade. Nel Convivio racconta come, dopo la morte di Beatrice, fosse sorta in lui una passione ardente per la filosofia (identificata allegoricamente con la «donna gentile» che aveva consolato il suo dolore). Da questo nuovo amore nascono alcune canzoni, in cui perdura lo stile «dolce» della fase precedente, ma si afferma un’impostazione esclusivamente allegorica, per cui, sotto l’immagine della donna di cui il poeta canta l’amore, si cela in realtà un’astrazione, la Filosofia. Due di queste canzoni, Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete e Amor che ne la mente mi ragiona (probabilmente del 1294) saranno successivamente raccolte e commentate nel Convivio, già nel periodo dell’esilio. Nell’allegoria amorosa si esprimono l’ardore intellettuale e l’ansia di conoscenza, che da questo momento divengono aspetti essenziali della poesia dantesca. Ma già la terza canzone del Convivio, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia (1295 ca.), abbandona l’allegoria ed affronta direttamente la materia concettuale, passando a trattare problemi morali, in questo caso la definizione della vera nobiltà. L’adozione di nuovi contenuti implica anche l’abbandono dello stile «dolce» tipico della poesia amorosa precedente (come avverte proprio l’inizio della canzone, in cui il poeta afferma di voler lasciare le «dolci rime» d’amore) e determina l’uso di una rima «aspra e sottile», che traduca lo sforzo di esporre nudi concetti, non più velati di leggiadre immagini amorose. Accanto a questa canzone può essere ricordata un’altra contemporanea, Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato, in cui affiora un tema che tornerà nella Commedia, l’aspra condanna della propria epoca, che ha abbandonato le virtù cortesi del passato. Come si vede, in queste canzoni Dante si misura con problemi vivi nella società del suo tempo, assumendo la posizione del conservatore, del difensore dei valori del passato contro la corruzione del presente. Nel suo atteggiamento polemico si manifesta una rigorosa tempra morale, una visione della vita sorretta da incrollabili princìpi: al poeta d’amore, chiuso nel rarefatto mondo dello Stilnovismo, subentra l’austero «cantor rectitudinis» (“cantore della virtù”), come Dante stesso amerà chiamarsi in seguito. Nella svolta dovette giocare un ruolo decisivo la scoperta della politica, che avvenne proprio in quel periodo e suggerì al poeta un ideale di vita attiva, di impegno civile ispirato al rigore morale e alle più alte idealità cavalleresche.
Lo sperimentalismo: la poesia comica, le Rime petrose e le canzoni allegoriche Ma questi anni che intercorrono tra la morte di Beatrice e l’esilio costituiscono per Dante un periodo di intense sperimentazioni. Se nelle grandi canzoni allegoriche e morali egli ricerca uno stile sublime, dotto ed elevato («lo bello stilo che m’ha fatto onore», dirà nel I canto dell’Inferno), percorre poi anche la via della poesia comica e burlesca, viva nella cultura del suo tempo (anche Cavalcanti l’aveva tentata). 255
L’età comunale in Italia La poesia comica: la “tenzone” con Forese
Le Rime petrose
Le rime dell’esilio: la visione apocalittica
Testi Se vedi li occhi miei di pianger vaghi dalle Rime
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Documento di questo interesse è la “tenzone” con l’amico Forese Donati, composta tra il 1293 e il 1296, uno scambio di sonetti pieni di mordaci invettive, in cui Dante sperimenta un linguaggio basso e plebeo, denso di rimandi alle realtà più quotidiane e corpose, ma impiegato con estrema abilità tecnica; un linguaggio che gli servirà poi, nella Commedia, per affrontare il mondo degradato del basso inferno. Quasi contemporaneamente si verifica l’incontro di Dante con la poesia trobadorica del periodo aureo (conosciuta nella prima giovinezza più che altro per via indiretta), e soprattutto con il trobar clus dell’elaboratissimo e astruso Arnaut Daniel. Nasce di qui il gruppo delle Rime petrose (scritte forse tra il 1296 e l’esilio, secondo altri invece dopo il Convivio), così chiamate perché dedicate ad una madonna Pietra, bella e insensibile (è incerto se si tratti di una donna reale o di una personificazione allegorica, forse ancora della Filosofia). In queste rime si riversa una passione sensuale, dalla forte carica erotica, lontanissima dalle estasi e dai rapimenti stilnovistici. Tale passione viene espressa in modi estremamente intellettualistici e preziosi, con una ricerca di suoni aspri che sono l’antitesi dello stile «dolce» di un tempo, con i tecnicismi più esasperati nella metrica, nelle immagini, nella scelta delle parole, in ossequio al modello del poetare «chiuso» provenzale. Eppure nella canzone Io son venuto al punto della rota e nella sestina (forma metrica tecnicamente molto ardua, tipica di Arnaut Daniel, composta di strofe di sei versi, dove in rima ritornano sempre, in ordine diverso, le stesse parole) Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra un sottile fascino emana da quadri di paesi e stagioni, specie di una natura irrigidita dal gelo invernale (la terra che «par di smalto», l’«acqua morta» che si tramuta in ghiaccio che pare vetro), «ritratti con quella lucidità secca e cristallina che s’appunta nella nitidezza preziosa del singolo vocabolo, e ritornerà nei punti della Commedia dove la fantasia di Dante si fa, nel descrivere, più elegante e metafisica, densa a un tempo e irreale» (Sapegno). Nell’altra canzone, Così nel mio parlar voglio esser aspro ( T10, p. 259), si manifesta una vigorosa drammaticità, una forza di immagini ed un’asprezza di linguaggio che fa presentire il tono di certi episodi dell’Inferno. Nelle rime scritte dopo l’esilio spicca la canzone allegorica Tre donne intorno al cor mi son venute (forse del 1302), dedicata alla giustizia, in cui è incisivamente affermata la dignità dell’esule innocente per il quale, in un mondo in cui tutti i valori sono degradati e stravolti, la pena stessa è un onore, che testimonia la sua purezza d’animo: «l’essiglio che m’è dato, onor mi tegno». In questi anni la visione di Dante si fa sempre più cupa: il mondo ai suoi occhi pare sprofondare in una totale abiezione. Perciò nel sonetto Se vedi li occhi miei di pianger vaghi (posteriore al 1305) eleva a Dio una preghiera perché ristabilisca in terra la giustizia, «ché sanza lei non è in terra pace». È questo il nodo di sentimenti e di concetti che in questi anni si esprime anche nella Commedia: un intenso desiderio di pace e giustizia, che componga il mondo umano secondo l’ordine perfetto del mondo divino; e dal vedere una realtà che è il rovesciamento totale delle sue aspirazioni e dei suoi ideali nascono gli sdegni e le ire di Dante. Nella canzone Doglia mi reca (forse anch’essa destinata al Convivio) egli si scaglia contro l’avarizia e il culto del denaro che ormai dominano il mondo, ed usa il tono duramente polemico e apocalittico che è proprio delle grandi invettive del poema, indirizzate contro «la gente nova e i sùbiti guadagni», contro la nuova realtà mercantile che distrugge i valori di uno splendido passato feudale e cortese.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi interattiva
T9
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
• l’amicizia tra poeti • il motivo del vascello incantato come
dalle Rime
• il «ragionar d’amore» in poesia
Temi chiave
immagine di isolamento tra iniziati
Tra le Rime, il sonetto appartiene al periodo giovanile di Dante.
> Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, EDC.
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Guido1, i’ vorrei che tu e Lapo2 ed io fossimo presi per incantamento3, e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio4,
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sì che fortuna5 od altro tempo rio6 non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio7.
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E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore8:
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e quivi ragionar9 sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi.
1. Guido: il destinatario del sonetto, Guido Cavalcanti; risponderà a Dante a sua volta con un sonetto, S’io fosse quelli che d’amor fu degno. 2. Lapo: presente in altri due sonetti della corrispondenza fra Dante e Guido, Lapo Gianni de’ Ricevuti, notaio e poeta stilnovista, è citato nel De vulgari eloquentia come raro esempio, fra i poeti toscani, di eccellenza nell’uso del volgare. 3. per incantamento: per incantesimo. 4. in un vasel … mio: in un vascello che andasse per mare, spinto da qualunque vento, secondo la volontà vostra e mia. In Dante, secondo Contini, agisce il ricordo del motivo presente
nel ciclo arturiano e più generalmente nella letteratura del Duecento, della «nef de joie et de deport» (“nave di gioia e divertimento”) del mago Merlino, il precettore di re Artù. 5. fortuna: fortunale, burrasca o altre condizioni meteorologiche avverse. 6. rio: letteralmente cattivo. 7. vivendo … disio: vivendo sempre con unità di propositi, crescesse il desiderio di stare insieme. 8. E … incantatore: e poi vorrei che il bravo mago (Merlino) ponesse con noi sulla nave monna Vanna e monna Lagia, insieme a quella che occupa la trentesima posizione. Dante allude al catalogo delle sessanta donne più belle di Firenze contenuto in un suo sirven-
tese oggi perduto, e citato nel capitolo VI della Vita nuova. Qui annovera Beatrice al nono posto («in alcuno altro numero non sofferse lo nome della mia donna di stare se non in sul nove»). Pertanto con quella che si colloca al trentesimo posto, Dante non intenderebbe Beatrice ma, probabilmente, la «donna dello schermo», citata nel medesimo capitolo della Vita nuova. Vanna e Lagia sono le donne rispettivamente di Cavalcanti e Lapo Gianni. Il termine monna è titolo di rispetto per donne di condizione elevata. 9. ragionar: parlare; si tratta di un infinito sostantivato con valore desiderativo-condizionale.
Pesare le parole Fortuna (v. 5)
> Conserva qui il senso latino di “caso”. In latino il termi-
ne indicava sia la buona sia la cattiva sorte, mentre per noi ha generalmente valore positivo (es. chi vince al Superenalotto ha molta fortuna; fortuna che ti ho incontrato); però anche noi diciamo “caso fortuito”, dove l’aggettivo viene dalla stessa radice di fortuna. Può anche avere il senso di “patrimonio, ricchezza” (es. lasciare agli eredi una grande fortuna), oppure, nel linguaggio marinaro, di “tempesta”, ma è ormai disusato e letterario (Petrarca, La vita fugge, e non s’arresta un’ora, v. 12: «Veggio fortuna in porto»); più comune è il
termine derivato di fortunale, che indica una tempesta molto violenta.
Ragionar(e)
>
(v. 12)
Deriva dal latino ratiònem, “ragione”. Nell’italiano antico e poi nella lingua letteraria vale “parlare, discorrere” (Leopardi, A Silvia, vv. 47-48 : «Né teco le compagne ai dì festivi / ragionavan d’amore»). Per noi invece significa “usare la ragione per riflettere, argomentare” (es. quando è arrabbiato non ragiona).
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L’età comunale in Italia
Competenze attivate
Analisi attiva COMPRENDERE
> Il desiderio di un viaggio incantato
Il poeta vorrebbe esser rapito da un incantesimo che lo trasportasse su un vascello con gli amici e poeti Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, così che andassero per mare senz’altra meta che quella dettata dal loro concorde volere, sempre più uniti dal desiderio di stare insieme anche di fronte alle eventuali difficoltà del viaggio. Del sortilegio operato dal benevolo mago farebbero parte anche le tre donne amate dai poeti, lietamente accomunate ad essi nel «ragionar sempre d’amore».
• Leggere, comprendere e interpretare
testi letterari: poesia • Dimostrare consapevolezza della
storicità della letteratura
> 1. Dopo aver svolto la parafrasi, individua il significato del magico viaggio per mare. > 2. Con quale enigmatica perifrasi Dante si riferisce alla donna amata? Si tratta di Beatrice?
ANALIzzARE
> La cerchia iniziatica e il tema dell’amicizia
Il sonetto propone innanzitutto il motivo dell’amicizia poetica, sin dal vocativo d’apertura, indirizzato all’amico Cavalcanti. Seguendo la tradizione provenzale del plazer (genere di componimento in cui si enumerano realtà piacevoli e desiderate), esprime il desiderio di un isolamento perfetto in una cerchia di iniziati, legati da un’unione degli spiriti, da una comunanza di affetti e di gusti che escluda rigorosamente il mondo esterno. Questo desiderio traduce gli ideali aristocratici del gruppo degli stilnovisti, orgogliosi della loro cultura e della loro «altezza d’ingegno».
> 4. Quali elementi consentono di definire il sonetto come appartenente al genere del plazer?
> Il tema dell’amore
> 5. L’amore è qui il necessario supporto all’esperienza d’amicizia? Motiva la tua risposta.
> Un sogno di vita cortese
> 6. Rintraccia nel sonetto le immagini che sottolineano la particolare dimensione di vita prospettata dal sogno.
> L’atmosfera fiabesca
> 7. Individua nel sonetto altri elementi fiabeschi mutuati dal ciclo arturiano.
> Le parole chiave
> 8. Evidenzia tutti i termini e tutte le espressioni attinenti al campo semantico del desiderio.
Al motivo dell’amicizia intellettuale, nelle terzine si aggiunge quello dell’amore. Esso è il centro di quel sodalizio poetico: ciò che stringe in ideale comunanza gli amici è il «ragionar […] d’amore» in poesia. Si delinea così un sogno di vita cortese, collocato fuori del tempo e dello spazio, in un mondo rarefatto e prezioso, in cui tra vita e poesia non vi è distacco e al cui centro si colloca il «ragionar […] d’amore» in una cerchia di spiriti eletti, tra i quali esiste una perfetta corrispondenza d’anime. Il sogno si colloca in un’atmosfera fantastica e fiabesca, che proviene dai romanzi cavallereschi arturiani, col loro senso del magico e del meraviglioso (romanzi che erano cari a Dante, come prova l’elogio ad essi tributato nel De vulgari eloquentia: «gli intrecci bellissimi di re Artù»): infatti «l’incantamento» (v. 2) e «l’incantatore» (v. 11) si riferiscono al mago Merlino, personaggio centrale di quei romanzi. Si può riconoscere nel sonetto una rete di parole tematiche, che si riferiscono tutte al nucleo semantico del “desiderare”, a partire dall’«i’ vorrei» del v. 1. Il ricorrere insistente di que-
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> 3. Evidenzia i diversi aspetti attraverso i quali l’amicizia, intesa come sodalizio tra spiriti eletti, è rappresentata nel sonetto.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
ste parole chiave si collega al motivo centrale, il sogno che dovrebbe tradursi in realtà grazie al magico incantesimo: la magia consiste appunto nel conferire una fantastica onnipotenza al desiderio, che in tal modo non trova più ostacoli a realizzarsi e supera ogni limite imposto dalla vita reale. Altra parola tematica è l’avverbio «sempre», che ribadisce la perennità fuori del tempo di questa vita vagheggiata di cortesia, amore e poesia.
> 9. Indica quante volte e in quali versi è ripetuto l’avverbio «sempre».
> La lentezza del ritmo
> 10. Quale funzione assolve la virgola subito in apertura del sonetto, dopo l’invocazione all’amico?
Al clima di trasognato incantesimo e di fissità atemporale contribuisce il ritmo dei versi: si noti la lenta cadenza dell’avvio, subito interrotto dalla pausa della virgola, e poi il susseguirsi di vocaboli brevissimi, che spezzano il verso. La stessa funzione, sul piano sintattico, ha il frequente ricorrere del polisindeto.
> 11. Individua quali altre pause spezzano il primo verso.
> 12. Rintraccia i punti nel testo in cui si fa ricorso al polisindeto con la frequente ripresa della congiunzione e.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> L’adesione alla cultura stilnovistica
Nel sonetto, dove il sogno di evasione in un mondo sereno e fuori del tempo s’intreccia con il motivo dell’amicizia tra spiriti eletti, si riflette il clima spirituale della stretta cerchia degli stilnovisti.
Analisi interattiva
T10
Così nel mio parlar voglio esser aspro dalle Rime
> 13. Svolgi un commento di circa 10 righe (500 caratteri) di questo sonetto, mettendo in luce gli aspetti riconducibili alla poetica stilnovistica e in particolare gli autori e i destinatari, i temi, il retroterra letterario, la concezione della poesia.
Temi chiave
• l’amore come forza devastante • la crudeltà della donna amata • il desiderio di vendetta
La canzone è la più significativa del gruppo delle rime cosiddette “petrose”, perché indirizzate ad una donna crudele e insensibile, indicata col nome di madonna Pietra (con ogni probabilità un senhal, cioè un nome fittizio che allude alle qualità della persona designata, secondo le consuetudini provenzali).
> Metro: canzone di sei strofe più un congedo; schema delle rime: ABbC, ABbC (fronte); CDdEE (sirima).
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Così nel mio parlar voglio esser aspro1 com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra2 maggior durezza e più natura cruda, e veste sua persona d’un dïaspro3 tal che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda;
versi 1-8 Nel mio (modo di) parlare voglio essere duro (aspro) allo stesso modo in cui lo è nell’atteggiamento (ne li atti) questa don-
na bella ma dura (insensibile) come una pietra, la quale rinchiude saldamente (impetra) maggior durezza e una natura più insensibile
(cruda) e si ricopre vestendosi di un diaspro in modo tale che, grazie alla protezione da esso esercitata (per lui), o perché ella indietreggia (s’arretra), non esce dalla faretra freccia (saetta) che la colga indifesa (ignuda); 1. Così … aspro: dichiarazione di poetica: il poeta intende essere duro nell’espressione e nel ritmo. 2. impetra: rima derivata, si veda Inferno, XXIII, v. 27. 3. dïaspro: pietra dura; al tempo considerata un amuleto cui era attribuito il potere di rendere invulnerabile chi l’indossava; veste … dïaspro: è una metafora che allude all’impenetrabilità della donna amata.
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ed ella ancide4, e non val ch’om si chiuda né si dilunghi da’ colpi mortali, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme: sì ch’io non so da lei né posso atarme5. Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi né loco che dal suo viso m’asconda: ché, come fior di fronda, così de la mia mente tien la cima. Cotanto del mio mal par che si prezzi quanto legno di mar che non lieva onda; e ’l peso che m’affonda è tal che non potrebbe adequar rima. Ahi angosciosa e dispietata lima che sordamente la mia vita scemi6, perché non ti ritemi sì di rodermi il core a scorza a scorza com’io di dire altrui chi ti dà forza7? Ché più mi triema il cor qualora io penso di lei in parte ov’altri li occhi induca, per tema non traluca lo mio penser di fuor sì che si scopra, ch’io non fo de la morte, che ogni senso co li denti d’Amor già mi manduca8: ciò è che ’l pensier bruca la lor vertù, sì che n’allenta l’opra9. E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra con quella spada ond’elli ancise Dido10, Amore, a cui io grido merzé chiamando, e umilmente il priego: ed el d’ogni merzé par messo al niego. Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida la debole mia vita, esto perverso, che disteso a riverso mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco11: allor mi surgon ne la mente strida12; e ’l sangue, ch’è per le vene disperso, fuggendo corre verso lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco13.
versi 9-13 e (però) ella uccide (ancide), e non serve (val) che ci si protegga (chiuda) né ci si allontani (dilunghi) dai colpi mortali, che, come se avessero le ali, raggiungono chiunque (giungono altrui) e distruggono qualsiasi arma: tanto che io non so né posso difendermi (atarme) da lei. 4. ed … ancide: ha valore avversativo. 5. atarme: letteralmente “aiutarmi”. versi 14-21 Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi né luogo che mi nasconda dalla sua vista (viso): poiché, come il fiore sta sulla
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cima di un ramo (fronda), così la donna è in cima ai miei pensieri (mente). (Ella) sembra curarsi (si prezzi) del mio male tanto (Cotanto), quanto una imbarcazione (legno) (si preoccupa) del mare in cui non si alza un’onda; e il peso che mi affonda è tale che nessuna espressione potrebbe descriverlo adeguatamente (adequar rima). versi 22-26 Ahi, passione dilacerante e spietata (dispietata lima) che logori (scemi) sotterraneamente (sordamente) la mia vita, perché non ti trattieni (ritemi) dal rodermi a
poco a poco (scorza a scorza) il cuore così come io (ho ritegno) di rivelare (dire altrui) il nome di chi ti alimenta (dà forza)? 6. scemi: come una lima rode il ferro. 7. com’io … forza: il ritegno consiste nell’abitudine, propria dei lirici provenzali, di non rivelare il nome dell’amata, ricorrendo al suo posto al senhal. versi 27-34 Perché il cuore mi trema, ogni volta che (qualora) io penso a lei in un posto dove (ov’) altri possano vedermi (li occhi induca), per paura (tema) che si manifesti (traluca … di fuor) il mio sentimento così da essere scoperto, più di quanto non faccia (tremi, per la paura) della morte, che divora (manduca) con i denti di Amore ogni mio sentimento (senso): in altre parole (ciò è che), la loro (dei denti d’Amore) forza (vertù) logora (bruca) l’intelletto (pensier), così da annientarne la facoltà (opra). 8. che ogni … manduca: metafora la cui forza è affidata al verbo manducare, divorare. 9. ciò è … opra: «poiché, in altre parole, la potenza dei denti di Amore logora pian piano l’intelletto [...] sì da invalidarne l’operazione» (Contini). Vertù è soggetto, pensier oggetto di bruca. versi 35-39 Egli (E’, Amore) mi ha gettato (percosso) a terra, e incombe su di me (stammi sopra) con quella spada con cui egli uccise Didone, Amore, a cui io grido invocando pietà (merzé chiamando), e (che io) prego umilmente: ed egli pare deciso a negarmi (par … niego) ogni pietà. 10. ond’elli … Dido: allusione al mito di Didone abbandonata e suicidatasi con la spada dell’amante Enea, figlio di Venere e per questo fratellastro di Amore (la vicenda è raccontata nel IV libro dell’Eneide). versi 40-47 Egli (Amore), questo perverso, alza continuamente (ad ora ad or) la mano (per colpire), e toglie ogni speranza (sfida) alla mia debole vita, (Amore) che mi tiene disteso a terra in posizione rovesciata (a riverso) spossato a tal punto da non avere più alcun moto vitale (guizzo): allora immagino (mi … mente) di gridare (strida); e il sangue, che circola nelle vene, scorre fuggendo verso il cuore, il quale chiama (a sé) il sangue (lo); cosicché io impallidisco (rimango bianco). 11. disteso … stanco: stanco è predicativo del pronome mi, e d’ogni guizzo è complemento di specificazione di stanco. 12. allor … strida: cioè immagina di gridare ma non riesce a dar voce a ciò che prova. 13. rimango bianco: perché il sangue, per l’angoscia, si concentra tutto nel cuore, come è detto nei versi precedenti.
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Elli mi fiede sotto il braccio manco14 sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza; allor dico: «S’elli alza un’altra volta, Morte m’avrà chiuso prima che ’l colpo sia disceso giuso». Così vedess’io lui fender per mezzo lo core a la crudele che ’l mio squatra15; poi non mi sarebb’atra la morte, ov’io per sua bellezza corro: ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo16 questa scherana micidiale e latra17. Omè, perché non latra per me, com’io per lei, nel caldo borro18? ché tosto griderei: «Io vi soccorro»; e fare’l volentier, sì come quelli che ne’ biondi capelli ch’Amor per consumarmi increspa e dora metterei mano, e piacere’le allora. S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza19, con esse passerei vespero e squille20: e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’orso quando scherza21; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille. Ancor ne li occhi, ond’escon le faville che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face; e poi le renderei con amor pace. Canzon, vattene dritto a quella donna che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola22, e dàlle per lo cor d’una saetta: ché bell’onor s’acquista in far vendetta.
versi 48-52 Amore (Elli) mi ferisce (fiede) sotto il braccio sinistro (manco), con così tanta forza che il dolore si ripercuote (rimbalza) nel cuore; allora dico: «Se egli alza un’altra volta (la mano per ferirmi), la morte mi avrà finito (chiuso) prima che un altro colpo sia disceso verso il basso (giuso)». 14. sotto … manco: dove ha sede il cuore. versi 53-58 Allo stesso modo (Così) potessi io vedere aperto in due (fender per mezzo) da Amore il cuore della (donna) crudele che squarta (squatra) il mio; dopodiché (poi) non mi apparirebbe terribile (atra) la morte, verso cui io (ov’io) corro a causa della (per) sua (della donna amata) bellezza: poiché tanto colpisce di giorno (dà nel sol) quanto di
notte (nel rezzo) questa assassina (scherana), micidiale e ladra (latra). 15. Così … squatra: come indica Contini, lui è complemento d’agente; fender è passivo (soggetto lo core). 16. rezzo: letteralmente “ombra”. 17. ché tanto … latra: anche in Inferno, VI (vv. 18 e ss.) si presentano in rima «isquatra», «latra» (che là è verbo e non sostantivo) e «atra», ma in ordine diverso. versi 59-65 Ahimè (Omè), perché la donna non urla di dolore (latra), per causa mia (per me), nel baratro (borro) ardente, come io (urlo di dolore) per lei? perché subito griderei: «Io vi vengo ad aiutare»; e lo farei volentieri, afferrandola per (ne’… mano) i
biondi capelli che Amore per distruggermi (consumarmi) rende dorati e ricciuti (increspa e dora), e allora le piacerei (piacere’le). 18. perché … borro: borro è propriamente un burrone; per metafora, unito all’aggettivo caldo, sta ad indicare l’inferno (in questo caso della passione). versi 66-73 Se io avessi afferrato (prese) le belle trecce, che ora sono diventate per me come strumenti di tortura (scudiscio e ferza), afferrandole prima dell’ora terza, con esse trascorrerei l’ora del vespro e della compieta: e non sarei né pietoso né cortese, anzi farei come l’orso quando scherza, e se Amore mi frusta con esse (ne), io mi vendicherei restituendo per ogni colpo mille colpi (di più di mille). 19. anzi terza: ossia prima delle nove antimeridiane. 20. vespero e squille: l’ultima ora canonica; sta ad indicare la sera. Cioè la terrei afferrata per i capelli per ore, al fine di farla soffrire. 21. orso … scherza: allude al proverbio «Non scherzare con l’orso, se non vuoi esser morso» (Contini). versi 74-78 Oltre a questo (Ancor), per punirla del suo sottrarsi a me (lo fuggir … face), (la) guarderei da vicino fissamente negli occhi da cui escono le faville che mi incendiano il cuore, che io reco in me ferito a morte (anciso); allora le offrirei l’amore insieme al perdono (pace). versi 79-83 (O) canzone, vattene direttamente da quella donna che mi ha ferito il cuore e che mi sottrae (m’invola) ciò di cui io ho più desiderio (gola), e trafiggile (dàlle per) il cuore con una freccia (saetta): perché ci si procura un gradevole (bell’) onore nel vendicarsi. 22. che m’invola … gola: perifrasi per indicare la persona della donna amata.
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Analisi del testo
> L’allontanamento dallo Stilnovismo
Il rovesciamento dei temi amorosi
L’assenza di sublimazione
La canzone, come le altre rime “petrose”, si distacca talmente dal giovanile Stilnovismo dantesco da costituirne per molti aspetti il radicale rovesciamento, nei temi come nello stile. La tematica è sempre amorosa; ma nel periodo stilnovistico la donna era un miracolo mandato in terra da Dio e l’amore per lei purificava l’amante, elevandolo al cielo; ora invece la donna è creatura crudele e insensibile, e l’amore è una forza sensuale e devastante, che fa soffrire e conduce alla morte; in secondo luogo, nella fase stilnovistica l’amante si poneva di fronte all’oggetto amato in un atteggiamento di contemplazione estatica; qui invece il rapporto è conflittuale e violento: l’amante vuole infliggere all’amata gli stessi tormenti che egli prova. La novità tematica non è assoluta. L’amore come forza crudele che ferisce e distrugge l’amante era già presente in Cavalcanti e nelle poesie di Dante stesso che imitavano la maniera cavalcantiana. Ma le differenze sono sostanziali. In Cavalcanti e nel Dante giovane, crudele era solo la forza d’Amore, non la donna, che restava immune da tratti negativi, anzi poteva essere egualmente sublimata; mentre qui è direttamente la donna ad essere crudele, e ciò esclude ogni idealizzazione della figura femminile; in secondo luogo quella poesia insisteva solo sulla sofferenza soggettiva dell’amante, mentre qui la violenza si ritorce anche contro la donna, nel desiderio di vendetta. Anche per questo la donna non è più creatura sovrannaturale, lontana e irraggiungibile, oggetto solo di culto mistico, ma è donna di carne e di sangue, e non consente alcuna sublimazione. Si pensi all’immagine della donna che «latra» (v. 59) nel «caldo borro» (v. 60): anche lei deve essere coinvolta dall’ardore devastante della passione.
> Lo stile
Lo stile «aspro»
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Se le rime della «lode» di Beatrice e della sublimazione della figura femminile esigevano uno stile «dolce», come si è visto a suo luogo ( T5, p. 242), qui all’asprezza dei sentimenti deve corrispondere uno stile egualmente aspro. Lo afferma subito il primo verso, «Così nel mio parlar voglio esser aspro», che è una chiara enunciazione del programma poetico a cui si ispira il componimento (in questo Dante obbedisce ad un principio basilare della poetica medievale, che esige una stretta rispondenza tra la materia e gli strumenti formali usati per trattarla). Lo stile «aspro» di questa canzone è dunque l’esatto contrario dello stile «dolce» delle poesie della Vita nuova. L’asprezza si manifesta in primo luogo a livello fonico. Dante ricerca insistentemente lo scontro aspro di due o tre consonanti, soprattutto in rima, nella collocazione che ha maggiore evidenza: «aspro/diaspro», «petra/impetra», «squatra/atra/latra». Sul piano del lessico spicca la ricerca di termini rari: «atarme», «squatra», «rezzo» (per buio), «latra» (per ladra). Come si vede, la rarità del termine e l’asprezza del suono spesso coincidono. Non solo, ma questi termini sono collocati anch’essi prevalentemente in rima: ne nascono rime difficili, preziose, in quanto sono rare da trovare nel lessico italiano. Anche la sintassi è lontana da quella piana e scorrevole dello stile «dolce»: si tratta di una sintassi complessa, ricca di subordinate e di faticose circonvoluzioni, di inversioni («mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco», v. 43), di ellissi («com’io [ho ritegno] di dire altrui chi ti dà forza?», v. 26). Al livello retorico si nota un uso esorbitante del linguaggio figurato (mentre nello stile «dolce» l’ornamentazione retorica era estremamente sobria): tutta la poesia è un susseguirsi incalzante di metafore, immagini e paragoni. E si tratta costantemente di immagini che richiamano idee di violenza, sofferenza, morte. Tentiamo una sommaria campionatura: la persona di madonna Pietra è rivestita di un diaspro così duro che non esce dalla faretra alcuna saetta che la possa cogliere ignuda; i colpi mortali, come avessero le ali, spezzano ogni arma; l’amore è una lima che rode il cuore a scorza a scorza; la morte «manduca» ogni senso del poeta con i denti d’Amore; Amore gli sta sopra con la spada che uccise Didone, e l’amante invoca pietà; il perverso alza la mano
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Lo sperimentalismo linguistico come esercizio formale
su di lui riverso a terra, incapace di ogni guizzo, lo ferisce sotto il braccio sinistro; la donna, «scherana micidiale e latra», ferisce alla luce del sole quanto al buio; le trecce di madonna sono scudiscio e sferza; la canzone deve trafiggere il cuore della donna come una saetta. Lo sperimentalismo linguistico è condotto a tali livelli di virtuosismo da indurre a pensare che l’interesse vero del poeta non sia tanto contenutistico, quanto formale, o che, comunque, il gusto dell’esercizio formale prenda il sopravvento sulla materia trattata. In tal caso la nuova materia amorosa assumerebbe un valore strumentale, diverrebbe non il fine della rappresentazione, ma un mezzo per condurre un diverso discorso poetico. Naturalmente definire la poesia esercizio formale non implica affatto svalutarla, anzi: il gioco formale di per sé può avere altissimi significati, a prescindere da che cosa la poesia dica, cioè anche se la materia è solo un pretesto. La poesia si esprime in prima istanza attraverso le sue forme; e si vedrà nella Commedia come il plurilinguismo di Dante rifletta tutta una concezione della realtà multiforme e complessa ( Il plurilinguismo dantesco, p. 287). Lo sperimentalismo stilistico delle “petrose” è già una manifestazione di quel plurilinguismo, che avrà la più alta e la più vasta applicazione nella Commedia.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Illustra sinteticamente i ruoli della donna e del poeta nella canzone. ANALIzzARE
> 2.
Stile Individua, nell’ambito della canzone, un esempio di similitudine e un esempio di metafora, e spiega in che cosa differiscono. > 3. Stile Nella quarta strofa compaiono alcune rime ricche: rintracciale e spiega, con l’aiuto del Glossario, in che cosa consiste questo tipo di rima. > 4. Lessico Individua tutti i termini e le espressioni che fanno riferimento alla descrizione della donna-pietra. > 5. Lessico Individua i termini che appartengono al campo semantico della guerra, della caccia e della tortura. > 6. Lingua Nel testo prevale la coordinazione o la subordinazione? Per quale motivo il poeta ha fatto questa scelta?
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente Il contenuto sentenzioso dell’ultimo verso della canzone («bell’onor s’acquista in far vendetta», v. 83) introduce il lettore al tema dell’amore non corrisposto da una donna crudele e vissuto anche in modo drammatico. Facendo riferimento alla tradizione letteraria precedente e contemporanea a Dante, cita in un’esposizione orale (max 3 minuti) alcuni esempi significativi in merito.
PER IL RECUPERO
> 8. Completa la tabella indicando se, nei versi proposti, il pronome relativo «che» assume valore di soggetto o di complemento oggetto, secondo l’esempio. Verso
Termine sostituito
Soggetto
Complemento oggetto
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colpi
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X
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L’età comunale in Italia
4 Il disegno e i fini dell’opera
Convivio e Vita nuova
Convivio e Commedia
Il Convivio La genesi dell’opera
Videolezione
Frutto degli studi filosofici e dell’allargamento d’orizzonti prodotto dall’esperienza politica è anche la prima opera dottrinaria di Dante, il Convivio, scritto tra il 1304 e il 1307. Negli intenti dell’autore doveva essere una vasta enciclopedia, in cui si raccogliesse tutto lo scibile umano. Con essa, Dante si proponeva di dimostrare la propria dottrina, per difendere la propria fama dalle accuse ingiuste che gli erano state mosse dai concittadini che l’avevano esiliato. Doveva comprendere quindici trattati, il primo introduttivo, mirante a spiegare le ragioni dell’opera, gli altri costruiti come commenti ad altrettante canzoni, allegoricamente interpretate. Viene in certo modo ripresa la struttura della Vita nuova, una serie di poesie inserite in un commento in prosa, ma non si tratta più di narrare una squisita esperienza soggettiva, bensì di esporre dottrine e concetti: l’amore di cui qui Dante parla è solo quello, in lui ardentissimo, per la sapienza; in secondo luogo non vi è più il disegno mistico e la problematica individuale del libretto giovanile, ma un fattivo impegno con la realtà morale e civile, che si apre ad un pubblico più largo e si propone un vero e proprio compito di promozione culturale. Il mutamento di scopi e di intenzioni è spiegato da Dante attribuendo la Vita nuova ad una fase ancora giovanile, il Convivio a quella di una raggiunta maturità («quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene»). Il progetto però non fu portato a compimento; furono composti solo i primi quattro trattati, in cui venivano commentate tre canzoni, Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, Amor che ne la mente mi ragiona, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia. Il motivo dell’interruzione non ci è noto: forse l’opera fu superata dal delinearsi, nella mente di Dante, del grande disegno della Commedia. Come da taluno è stato proposto, all’eccessiva fiducia nella filosofia come strumento per raggiungere la verità si sostituisce, nello scrittore, una maggiore umiltà, il proposito di valersi della guida della rivelazione divina. Per questo la Commedia segna un ritorno a Beatrice: la «donna gloriosa» della mente del poeta soppianta la «donna gentile» del Convivio, cioè, in termini allegorici, la Verità rivelata soppianta la Filosofia.
I contenuti Il I trattato: il pubblico e la lingua volgare
Testo interattivo Difesa ed elogio del volgare dal Convivio
Testi Il pubblico del «Convivio» dal Convivio
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Nel I trattato, che ha funzione di introduzione all’opera intera, lo scrittore ne espone ragioni e scopi ( T11, p. 265). Per questo suo carattere introduttivo e preliminare il trattato è autonomo, non è cioè concepito come commento di una poesia. Dante vuole offrire un «banchetto» di sapienza (donde il titolo), ma non ai dotti, bensì a tutti coloro che, per «cura [occupazione] familiare e civile», non abbiano potuto dedicarsi agli studi, pur essendo dotati di spirito «gentile», elevato e virtuoso. Per questo non scrive in latino, la lingua che la tradizione imponeva alle opere dottrinali, ma in volgare; anzi, del volgare pronuncia un’appassionata esaltazione, proclamando che la sua dignità è pari a quella del latino. Non bisogna però pensare ad un’opera divulgativa destinata ad un pubblico popolare: il pubblico a cui il libro si rivolge è di elevata condizione, «principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine; che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati» (I, IX, 2). Si può notare come il pubblico a cui Dante mira non sia quello tradizionale dei chierici, ma neppure quello borghese-cittadino, composto di intellettuali professionisti, giudici, notai, professori, che era il pubblico della nuova cultura comunale. Dante mira ad un pubblico nobile, di una nobiltà che può essere di nascita ma anche solo spirituale ed etica; un pubblico quindi che sia capace di rivolgersi alla cultura in forma disinteressata, per puro amore di conoscenza, non per motivi di lucro, come fanno gli intellettuali di professione. Per Dante questa nuova aristocrazia, in contrapposizione alla
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Il II e III trattato
Testi Poesia e allegoria dal Convivio
Il IV trattato: la vera nobiltà
La prosa del Convivio
T11
borghesia mercantile e bancaria cittadina, avida e corrotta, dovrà costituire la nuova classe dirigente di una compagine politica rigenerata, capace di richiamare l’umanità alla «diritta via» (Mineo). È quest’ansia civile, questa volontà appassionata di contribuire con le parole al ristabilimento di un’ordinata convivenza umana, che soprattutto dà calore alla prosa del Convivio, greve di dottrina medievale, impostata sugli schemi astratti e aridi del ragionamento sillogistico ( Analisi del testo, p. 268). Nel II trattato Dante spiega il metodo che seguirà nel commento alle proprie canzoni, un metodo di lettura allegorico. Distingue infatti quattro sensi delle scritture: quello letterale, quello allegorico (cioè la verità nascosta sotto la veste poetica), quello morale (l’insegnamento morale che viene impartito al lettore) e quello anagogico (che allude alle «superne cose de l’etternal gloria», cioè alla realtà trascendente di Dio). Poi, passando a commentare la prima canzone, offre una descrizione dei cieli e delle gerarchie angeliche da cui essi sono governati, in cui si può ravvisare l’impianto che sarà alla base del Paradiso. Il III trattato è tutto un inno alla sapienza, che per Dante è la somma perfezione dell’uomo; vi tocca il culmine quell’entusiasmo filosofico, quel culto dell’intelligenza e del sapere che anima tutta l’opera, e che sarà uno dei filoni poetici più importanti della Commedia (Getto). Nel IV trattato viene infine affrontato un problema morale a quel tempo molto discusso, quello della vera nobiltà (lo si è già incontrato nella canzone Al cor gentil di Guinizzelli, cap. 2, T6, p. 152). Dante, confutando una tesi dell’imperatore Federico II, sostiene che la nobiltà non è solo privilegio di sangue, ma conquista personale attraverso l’esercizio della virtù. In quest’ultimo libro trova posto anche una prima enunciazione della teoria politica di Dante, incentrata sulla necessità di un impero universale, che qualche anno più tardi sarà sviluppata nella Monarchia. La prosa volgare del Convivio è diversa da quella della Vita nuova: non più una prosa lirica, pervasa di afflato mistico, ma una prosa costruita per il ragionamento e l’argomentazione, più tesa e robusta. Vi si nota già la volontà di riprendere il modello degli scrittori latini, facendo gravitare intorno alla proposizione principale le proposizioni subordinate, disposte per grado di subordinazione. La sicurezza nell’impianto della scrittura fa del Convivio il primo esempio di vera prosa volgare italiana, lontana dagli impacci e dalle goffaggini così come dalla gracilità di tanta prosa duecentesca.
Il significato del Convivio dal Convivio, I, i In questo primo capitolo Dante spiega gli intenti che lo hanno indotto a scrivere l’opera e dà ragione del titolo.
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Temi chiave
• l’importanza della conoscenza • la metafora del “cibo della scienza”
Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere1. La ragione di che2 puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti3. Veramente4 da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso
1. come dice … sapere: come afferma il filosofo greco Aristotele nella Metafisica, parte della filosofia che tratta i princìpi primi dell’essere, «tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza». 2. di che: di ciò.
3. ciascuna … subietti: ogni creatura (cosa), sospinta dalla predisposizione della propria natura voluta dalla Provvidenza, è incline alla propria perfezione; per questo motivo, dal momento che la conoscenza rappresenta il più elevato grado di perfezio-
ne della natura umana ed in essa sta la nostra massima felicità, tutti noi uomini, per natura, siamo soggetti al desiderio di sapere. 4. Veramente: tuttavia.
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lui rimovono da l’abito di scienza5. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte6, sì che nulla ricevere7 può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia8 vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni9, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile10. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese11, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia12. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono13. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano14. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori15, non sono da vituperare16, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione17. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire18, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca19! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo20! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando21. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete
5. diverse … scienza: diverse cause, interne ed esterne all’uomo, lo allontanano dall’esercizio, per lui abituale, della conoscenza. 6. indebitamente disposte: conformate in modo non regolare. 7. ricevere: apprendere. 8. la malizia: la disposizione al male. 9. seguitatrice … delettazioni: l’anima persegue piaceri illeciti. 10. ne le quali … vile: nei quali (piaceri) subisce così grandi inganni che a causa di essi disprezza ogni altra cosa. 11. possono … intese: si possono individuare similmente due cause. 12. l’una … pigrizia: l’una di esse induce l’anima a preoccuparsi delle esigenze materiali, l’altra induce alla pigrizia. 13. la cura … possono: gli impegni familiari e pubblici, che necessariamente (convene-
volemente) legano a sé la maggior parte degli uomini, di modo che non possono avere il tranquillo raccoglimento (ozio) per dedicarsi alla speculazione filosofica. 14. L’altra … lontano: l’altra ragione è costituita dalle carenze del luogo nel quale la persona nasce e cresce, talvolta non solo privo di un centro di studi (studio) e di scambi culturali, ma anche lontano da una comunità di studiosi. 15. la prima … fuori: la prima di quelle interne (le menomazioni fisiche) e la prima di quelle esterne (gli impegni familiari e pubblici). 16. vituperare: rimproverare. 17. le due altre … abominazione: le altre due cause (la disposizione al male e il luogo) sono degne di biasimo e di ferma condanna, sebbene (avvegna che) una delle due lo sia di più. 18. Manifestamente … pervenire: chi be-
ne riflette può dunque vedere chiaramente che pochi restano quelli che possono giungere a quella disposizione al sapere, acquistata attraverso l’abitudine, che tutti desiderano. 19. Oh beati … si manuca: beati i pochi ammessi alla mensa dove si mangia il pane degli angeli (ossia si assimila la scienza filosofica e teologica). 20. miseri … cibo: infelici coloro che si occupano solo di cose materiali (come gli animali). 21. però che … mangiando: poiché ogni uomo è per natura amico di ciascun altro uomo, e ogni amico si addolora dei difetti di colui che ama, i pochi che hanno avuto il privilegio di essersi cibati all’alta mensa della scienza hanno pietà di quelli che vedono vagare (sen gire) nutrendosi di erba e ghiande, cibo (pastura) da animali. Ghiande ed erba rappresentano gli interessi materiali e i bassi piaceri.
Pesare le parole Abito (rr. 7 e 21)
> Deriva dal latino hàbitum, da habère, “avere, possedere”.
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Qui vale “disposizione”, e il senso è rimasto nella lingua attuale (es. abito letterario). Affine è il senso di “abitudine”, parola che ha la stessa origine (es. abito mentale, “modo abituale di pensare”). L’altro senso corrente nel nostro linguaggio è “capo di abbigliamento, vestito”. Dalla stessa radice di habère, ma nella forma frequen-
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tativa habitàre, deriva abitare, in senso transitivo “avere come dimora” (es. abitare una casa), o in senso intransitivo “risiedere, vivere in un luogo” (es. abitare in campagna). Sempre da habitàre viene abitacolo, “lo spazio di un veicolo destinato alle persone” (es. quell’auto ha un ampio abitacolo).
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che di sopra è nominata22. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi23. Per che ora volendo loro apparecchiare24, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata25. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata26. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore di vizii, perché lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe27. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti28; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati29, che non sono degni di più alto sedere30: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la farà loro e gustare e patire31. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata32, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate33, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado34. Ma questo pane, cioè la presente disposizione35, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente36. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare37, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perché certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata38. E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa
22. E acciò che … nominata: e poiché la solidarietà è all’origine della volontà di fare del bene, coloro che sanno offrono sempre generosamente la loro ricchezza ai veri poveri (coloro a cui manca la vera ricchezza, quella spirituale), e sono quasi fonte viva della cui acqua si sazia (si refrigera, letteralmente si rinfresca) la sete naturale (di sapere), che si è sopra menzionata. 23. E io adunque … vogliosi: e io dunque, che non siedo alla beata mensa (dove si mangia lo pane de li angeli, ci si nutre di sapienza) ma, essendo riuscito ad abbandonare i piaceri e gli interessi volgari (pastura del vulgo), che costituiscono il cibo della maggioranza, ai piedi di coloro che siedono a quella mensa raccolgo le briciole che essi lasciano cadere (non sono uno studioso di professione, ma, semplice scolaro dei dotti, raccolgo le briciole della loro sapienza) e conosco la vita miserevole di coloro (gli ignoranti) da cui mi sono staccato, per la dolcezza che io provo di quel poco di sapienza che riesco a raccogliere, spinto da pietà, senza dimenticare la mia precedente condizione, ho tenuto da parte per i miseri alcune composizioni che avevo rese note già da tempo e con questo ho accresciuto il loro desiderio di conoscere. Allude alle canzoni che intende commentare nell’opera.
24. apparecchiare: preparare la mensa. 25. intendo … mangiata: intendo offrire un generale banchetto di ciò che ho già pubblicato (le canzoni) e di quel pane (i trattati in prosa) che occorre (ch’è mestiere) per (accompagnare) una tale vivanda, senza il quale non potrebbe essere mangiata dagli incolti (che senza il commento in prosa non potrebbero capire il significato delle canzoni). 26. E questo … ministrata: e questo è il banchetto, servito con quel pane (il commento) e con quella vivanda che io intendo non sia imbandita invano. 27. E però … non terrebbe: e perciò non si sieda a questo convito chi non abbia organi di assimilazione adatti, come coloro che non hanno né denti, né lingua, né palato; o chi sia seguace (assettatore) di vizi, il cui stomaco è pieno di umori velenosi, contrari alla digestione, per cui nessuna vivanda potrebbe essere assimilata. 28. qualunque … s’assetti: al contrario, venga al banchetto chiunque, impedito da doveri familiari o civili, non abbia potuto dedicarsi adeguatamente allo studio e si sieda alla stessa mensa insieme con gli altri che hanno subito simili impedimenti. 29. si sono stati: se ne sono astenuti.
30. di più … sedere: di sedere più in alto, ossia direttamente alla mensa. 31. patire: tollerare (digerire e assimilare). 32. sarà … ordinata: sarà di quattordici portate. 33. d’amor … materiate: che hanno come materia l’amore e la virtù. 34. le quali … in grado: le quali, senza il pane dei trattati, non apparivano chiare, per qualche difficoltà in esse contenute, così che molti gradivano più la loro bellezza che la qualità dei contenuti (bontade). 35. disposizione: esposizione commentata. 36. luce … parvente: la luce che renderà chiaro ogni aspetto del loro contenuto. 37. E se … derogare: e se nella presente opera, che è intitolata Convivio e tale voglio che sia, si tratta la materia in modi più maturi di quanto non sia avvenuto per la Vita nuova, non intendo però in alcun modo rinnegare quell’opera. 38. veggendo … mostrata: vedendo come giustamente quella era fervida e appassionata, questa invece deve essere moderata e matura. Perché in un’età è conveniente parlare e agire in modo diverso che in un’altra; perché certi costumi sono adatti e lodevoli in un’età, mentre in un’altra sono vergognosi e biasimevoli, come più avanti, nel quarto trattato di questo libro, sarà convenientemente dimostrato.
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dipoi, quella già trapassata39. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata40; sì che l’una ragione e l’altra41 darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida42, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace43.
39. E io … trapassata: composi la Vita nuova mentre entravo nella giovinezza, mentre scrivo la presente opera quando la giovinezza è già trascorsa. 40. con … ragionata: poiché la mia vera intenzione era diversa da quella che mostrano
esteriormente le canzoni ricordate, intendo commentare il senso allegorico di quei testi dopo aver chiarito il loro significato letterale. 41. l’una … l’altra: il senso allegorico e quello letterale. 42. grida: invito.
43. non … seguace: imputino ogni mancanza non alla mia volontà ma alla mia capacità, perché la mia volontà obbedisce fedelmente al bisogno di essere perfettamente generoso (la mia voglia è soggetto di è … seguace).
Analisi del testo L’importanza di questa pagina è notevole, per varie ragioni, sia per la sua organizzazione formale, sia per i temi trattati.
> La struttura argomentativa Il principio di autorità
Il ragionamento sillogistico
Distinzioni binarie
Ci troviamo di fronte, innanzitutto, ad un esempio di prosa filosofica in volgare, che presenta una struttura argomentativa e raziocinante tipica della cultura medievale. L’inizio si richiama all’autorità di Aristotele (definito il «Filosofo» per antonomasia). Vi è implicita la concezione del sapere che è propria del Medioevo: la conoscenza non è ricerca e conquista critica (come lo è per noi moderni), ma rivelazione di una verità data una volta per tutte da parte di un’auctoritas, le cui affermazioni non si possono mettere in discussione. Segue poi una dimostrazione che presenta il tipico procedimento sillogistico, dominante nel pensiero della Scolastica e derivante da Aristotele: prima una premessa generale, evidente senza bisogno di dimostrazione («ciascuna cosa [...] è inclinabile a la sua propria perfezione»); poi una premessa minore, di estensione più particolare («la scienza è ultima perfezione de la nostra anima»); di qui scaturisce la conclusione («tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti»), che è appunto l’asserzione da cui il discorso è partito. È un ragionare di tipo deduttivo, che dal generale, assunto senza dimostrazione, discende al particolare. Il ragionare proprio della mentalità moderna è invece soprattutto induttivo, parte dall’osservazione di una serie di dati particolari, e da essi si innalza a conclusioni generali. Seguono poi sottili distinzioni, organizzate secondo uno schema binario, anch’esso tipico del ragionare scolastico medievale. Due cagioni rimovono da l’abito di scienza
dentro l’uomo
da la parte del corpo
La struttura retorica
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da la parte de l’anima
fuori da esso
cure familiari e civili (necessitade)
difetto del luogo (pigrizia)
Da tutte queste distinzioni emerge la fiducia in un sicuro possesso della verità, che nasce da un giusto criterio e da una retta misura del pensare. Il discorso si regge su una struttura fortemente retorica. Di qui deriva anche l’insistita metafora con cui Dante spiega il titolo e la finalità dell’opera: il «convivio» è l’ideale banchetto in cui si somministra il «cibo» della scienza, diviso in «vivanda» (le canzoni) e
Capitolo 4 · Dante Alighieri Lo scopo divulgativo
«pane» (il commento in prosa). Ma Dante non siede «a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca» (r. 23), non appartiene cioè a quell’alta cultura che elabora i problemi generali della filosofia e della teologia: il suo ruolo è piuttosto quello della divulgazione.
> Il pubblico
Emerge allora un problema importante, quello del pubblico a cui il Convivio è destinato. Dante sceglie come destinatari non i dotti, ma coloro che non hanno potuto dedicarsi professionalmente agli studi, perché gli impegni della famiglia e della vita civile li hanno obbligati ad attività eminentemente pratiche: si tratta quindi non di un pubblico popolare, ma della classe dirigente urbana. L’interessante è che anche coloro che vivono lontano dai centri di cultura per Dante possono entrare a far parte di questo pubblico; a loro infatti si riferisce parlando di chi è privato degli studi per «difetto del luogo» (r. 15). Ad essi è riservata però una posizione più marginale. Collegata a questo pubblico è la scelta del volgare come strumento di comunicazione.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Dividi il testo in otto sequenze e assegna a ciascuna un titolo, secondo l’esempio proposto. Sequenza
Titolo
rr. 1-5
Tutti gli uomini per loro natura desiderano sapere ...........................................................................................................................................................................................................................................................................
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> 2. Completa lo schema inserito nell’Analisi del testo, indicando quali fra le cause che impediscono all’uomo
l’esercizio della conoscenza sono scusabili e quali degne di biasimo (rr. 18-20) e a quali categorie di individui (impediti nel corpo/nell’anima dalle cure familiari e civili/dal luogo) si rivolge il Convivio (rr. 39-45). > 3. Quali categorie di persone non devono sedersi al banchetto? > 4. Quale doveva essere la struttura complessiva dell’opera, stando alle informazioni fornite da Dante in questo capitolo? ANALIzzARE
> 5. Stile Chiarisci l’allegoria che dà il nome all’opera. > 6. Stile Spiega l’espressione «lo pane de li angeli» (r. 23). > 7. Stile Oltre alla metafora del banchetto e del cibo, sono presenti nel testo altre due metafore, riferibili alla
conoscenza: dopo averle rintracciate, spiegane il senso. APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 8.
Esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) individua le ragioni per cui Dante sceglie di scrivere il Convivio in lingua volgare.
PER IL RECUPERO
> 9. A quale pubblico si rivolge Dante con il Convivio? PASSATO E PRESENTE Il fascino della cultura
> 10. Dante afferma che «la scienza è l’ultima perfezione de la nostra anima» (r. 4): sei d’accordo con questa opi-
nione? Quale fascino esercita su di te la cultura? Solitamente nutri stima o rispetto per coloro – un amico, un parente, un insegnante – che mostrano di conoscere molte cose o di essere esperti in qualche campo del sapere? Discuti il tema proposto in classe, con il docente e con i compagni.
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L’età comunale in Italia
5 La consacrazione del volgare come lingua della cultura
Il I libro: il volgare «illustre»
Il De vulgari eloquentia Scritto nello stesso periodo del Convivio, il De vulgari eloquentia ne riprende ed amplia il discorso sulla dignità del volgare. L’opera nasce infatti dal proposito di fornire un trattato di retorica che fissi le norme per l’uso della lingua volgare, come avevano fatto le retoriche antiche e medievali per la lingua latina: con la sistemazione teorica dantesca si conclude perciò, toccando il massimo livello di consapevolezza, il processo di affermazione del volgare come lingua della cultura che si era svolto lungo tutto il corso del Duecento. Una “retorica” dedicata al volgare veniva a consacrarne definitivamente la legittimità e il valore come strumento di espressione letteraria. Bisogna infatti tener presente che l’obiettivo della trattazione di Dante è la lingua letteraria, non la lingua dell’uso comune; anzi, più precisamente un determinato livello di tale lingua, quello più elevato e sublime. Scritta in latino, e quindi destinata esclusivamente ai dotti, l’opera doveva comprendere almeno quattro libri, ma rimase interrotta a metà circa del secondo. Il primo libro imposta il problema del volgare «illustre», cioè della formazione di un linguaggio adatto ad uno stile sublime, che tratti argomenti elevati ed importanti ( T11, p. 265). La retorica medievale, infatti, sulle orme di quella classica, dava enorme importanza alla distinzione degli stili a seconda della materia trattata, e classificava uno stile sublime o «tragico», uno mezzano o «comico» ed uno umile o «elegiaco». Il volgare «illustre», destinato al più alto livello di stile, secondo Dante deve essere «cardinale», «aulico» e «curiale»: «cardinale» nel senso che esso è il cardine intorno a cui devono ruotare tutti i volgari municipali; «aulico» (dal latino medievale aula, reggia) perché se gli italiani avessero la reggia, esso sarebbe proprio del palazzo reale; «curiale» perché risponde a quelle esigen-
Visualizzare i concetti
I caratteri del volgare «illustre» Stili
Retorica medievale
Sublime o «tragico»
Mezzano o «comico»
Umile o «elegiaco»
DANTE TEORIzzA UN VOLGARE
Caratteristiche
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«Illustre»
«Cardinale»
Adatto allo stile sublime, tratta argomenti elevati e importanti
È il cardine intorno a cui devono ruotare tutti i volgari municipali
Argomenti
«Regale» o «aulico»
«Curiale»
Sarebbe il linguaggio proprio del palazzo reale (aula), se gli italiani avessero la reggia
È il linguaggio elegante e dignitoso che si addice alle curiae, “le corti”
Epico-guerreschi
Amorosi
Morali
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Testi Natura e variabilità del linguaggio dal De vulgari eloquentia
Il II libro: le armi, l’amore, la virtù
Testi Lo stile tragico della canzone dal De vulgari eloquentia
T12
ze di eleganza e dignità che si possono avere solo nelle eccellentissime corti (in latino curiae). Gli italiani non hanno una corte nel senso proprio del termine, mancando in Italia un monarca, ma ne esistono le «membra», rappresentate dagli uomini di cultura sparsi per il suolo italiano. Dopo aver tracciato una storia del linguaggio a partire dalla confusione babelica, Dante passa in rassegna tutti i dialetti d’Italia alla ricerca di quel volgare «illustre» al quale egli mira, ma non riesce a rintracciarlo in alcuno di essi. L’elaborazione del volgare «illustre» toccherà allora, secondo lui, a quelle «membra» della corte che sono sparse nelle varie città d’Italia, cioè ai letterati e ai dotti. Nel secondo libro sono definiti invece gli argomenti per i quali occorre lo stile «tragico»: e sono per Dante le armi, l’amore, la virtù. La forma poetica in cui si deve concretare quello stile è la canzone, forma illustre e consacrata da una tradizione già lunga, che dai trovatori provenzali, attraverso siciliani, guittoniani e stilnovisti, arriva sino alle grandi canzoni del Convivio. Mentre nella Vita nuova Dante affermava che solo gli argomenti amorosi potevano essere trattati in volgare, il De vulgari eloquentia ammette anche gli argomenti epico-guerreschi e quelli morali, segnando un notevole allargamento del campo poetico della nuova lingua letteraria. In tal modo testimonia la presa di coscienza teorica di quell’ampliamento d’orizzonti che si era verificato nella poesia dantesca, e che si era manifestato nelle rime di argomento morale e politico posteriori al giovanile periodo stilnovistico. Per ora Dante fissa la sua attenzione esclusivamente sullo stile sublime; ma non per nulla il trattato è interrotto: è l’indizio che già sta maturando in Dante il disegno della Commedia, cioè un’opera non più in stile «tragico», il «bello stilo» delle canzoni, ma in stile «comico», in cui possano trovare posto tutte le infinite manifestazioni della realtà, dalla turpe bassezza dell’inferno alla gloria luminosa del paradiso.
Caratteri del volgare «illustre» dal De vulgari eloquentia, I, XVI-XVIII
Temi chiave
• l’unità linguistica come presupposto dell’unità politica e culturale
• il valore della poesia Scopo del trattato è definire le norme retoriche di uno stile illustre in lingua volgare. Dante va dunque alla ricerca del volgare che possa essere adatto allo stile sublime: passa in rassegna i vari dialetti della penisola italiana, ma nessuno di essi possiede le caratteristiche necessarie, poiché tutti sono troppo gravati da caratteristiche locali, municipali. Il volgare che egli cerca è in ogni città, ma non si identifica con la parlata di nessuna di esse.
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xVI. Dopo che abbiamo cacciato per monti boscosi e pascoli d’Italia e non abbiamo trovato la pantera1 che bracchiamo, per poterla scovare proseguiamo la ricerca con mezzi più razionali2, sicché, applicandoci con impegno, possiamo irretire totalmente coi nostri lacci la creatura che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo. [...] Perciò nelle nostre azioni, nella misura in cui si dividono in specie, occorre trovare l’elemento specifico sul quale anch’esse vengano misurate. Così, in quanto operiamo in assoluto come uomini, c’è la virtù (intendendola in senso generale), secondo la quale infatti giudichiamo un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini di una città, c’è la legge, secondo la quale un cittadino è definito buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini dell’Italia, ci sono alcuni semplicissimi tratti, di abitudini e di modi di vestire e di lingua, che permettono di soppesare e misurare le azioni degli Italiani. Ma le operazioni più nobili fra quante ne compiono gli Italiani non sono specifiche di nessuna città d’Italia, bensì comuni a tutte; e fra queste si può a questo punto individuare quel volgare di cui più sopra andavamo in caccia,
1. pantera: secondo quanto contenuto nei Bestiari, la pantera dopo ogni pasto dormiva tre giorni e quando si svegliava ruggiva emettendo un profumo irresistibile agli al-
tri animali che accorrevano attratti. Qui rappresenta il volgare illustre che Dante ha ricercato in tutte le parlate locali, senza trovarlo in nessuna di esse.
2. mezzi più razionali: con il rigore del metodo deduttivo.
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che fa sentire il suo profumo in ogni città, ma non ha la sua dimora in alcuna. E tuttavia può spargere il suo profumo più in una città che in un’altra3, come la sostanza semplicissima, Dio, dà sentore di sé più nell’uomo che nella bestia, più nell’animale che nella pianta, più in questa che nel minerale, in quest’ultimo più che nell’elemento semplice, nel fuoco più che nella terra4; e la quantità più semplice, l’unità, si fa sentire più nei numeri dispari che nei pari; e il colore più semplice, il bianco, si rivela più nel giallo che nel verde. Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati. xVII. A questo punto occorre esporre con ordine le ragioni per cui chiamiamo con gli attributi di illustre, cardinale, regale e curiale questo volgare che abbiamo trovato: procedimento attraverso il quale ne faremo risaltare in modo più limpido l’intrinseca essenza. E in primo luogo dunque mettiamo in chiaro cosa vogliamo significare con l’attributo di illustre e perché definiamo quel volgare come illustre. Invero, quando usiamo il termine “illustre” intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce, risplende chiaro su tutto: ed è a questa stregua5 che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché, depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare: come Seneca6 e Numa Pompilio7. Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere8 che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l’onore e la gloria. Che possieda un magistero9 che lo innalza è manifesto, dato che lo vediamo, cavato fuori com’è da tanti vocaboli rozzi che usano gli italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli, emergere così nobile, così limpido, così perfetto e così urbano come mostrano Cino Pistoiese e l’amico suo nelle loro canzoni10. Che abbia poi un potere che lo esalta, è chiaro. E quale maggior segno di potere della sua capacità di smuovere in tutti i sensi i cuori degli uomini, così da fare volere chi non vuole e disvolere chi vuole, come ha fatto e continua a fare? Che anche sollevi in alto con l’onore che dà, salta agli occhi. Forse che chi è al suo servizio non supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente? Non c’è nessun bisogno di dimostrarlo. E quanto renda ricchi di gloria i suoi servitori11, noi stessi lo sappiamo bene, noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l’esilio12. Per tutto ciò è a buon diritto che dobbiamo proclamarlo illustre. xVIII. E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui cioè si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro al cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge, sia che si pieghi verso l’interno sia che si apra verso l’esterno, così l’intero gregge dei volgari municipali si volge e rivolge, si muove e s’arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi della selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? Per cui merita pienamente di fregiarsi di un epiteto così nobile. Quanto poi al nome di regale13 che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la
3. spargere … altra: fuor di metafora, elementi del volgare illustre si possono cogliere più nella parlata di una città che di un’altra. 4. Dio … terra: l’immagine di Dio si vede più nell’uomo (essere spirituale) che nella bestia, e così via via nella scala delle creature, i vegetali, i minerali, gli elementi (fuoco, terra). 5. a questa stregua: con questo criterio.
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6. Seneca: filosofo latino di età imperiale, maestro e poi vittima di Nerone. 7. Numa Pompilio: secondo re di Roma, mitico legislatore, considerato giusto e religioso. 8. magistero … potere: il concetto è spiegato nei due capoversi successivi. 9. magistero: importanza. 10. Cino Pistoiese … canzoni: Cino da Pi-
stoia (Guittoncino dei Sigibuldi, Pistoia 1270-1336; giurista amico di Dante, autore di un vasto Canzoniere) e Dante stesso. 11. servitori: seguaci. 12.buttiamo…esilio: non ci curiamo dell’esilio. 13. regale: proprio della reggia. Nel testo originale aulicus, da aula, “reggia”.
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casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve necessariamente abitare nella reggia e praticarla, e non vi è altra dimora degna di un così nobile inquilino: tale veramente appare il volgare del quale parliamo. Di qui deriva che tutti coloro che frequentano le reggie parlano sempre il volgare illustre; e ne deriva anche che il nostro volgare illustre se ne va pellegrino come uno straniero e trova ospitalità in umili asili14, dato che noi siamo privi di una reggia15. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale, poiché la curialità non è altro che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie16 più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza, viene chiamato curiale17. Per cui questo volgare, poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli Italiani, è degno di essere definito curiale. Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli Italiani sembra una burla, dato che siamo privi d’una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata – come quella del re di Germania –, tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, così le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli Italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa18. D. Alighieri, Opere minori, tomo II, trad. it. di P. V. Mengaldo, Ricciardi, Milano-Napoli 1979
14. umili asili: sono le corti signorili italiane. Qui Dante allude alla propria esperienza di esule. 15. reggia: l’Italia non ha una reggia, in quanto gli imperatori la trascurano, restando in Germania. 16. curie: con “curia” s’intende il consesso di
nobili e prelati riuniti attorno al sovrano con mansioni di legislatori e giudici. 17. curiale: quanto viene disciplinato dalla ragione e dalla legge. 18. non esiste … dispersa: non esiste in Italia una curia in senso materiale, come quella dell’imperatore di Germania, Alberto
d’Asburgo; ma, «benché materialmente dispersa esiste nelle persone accomunate dalla luce della ragione che si riflette nell’uso del volgare illustre, e questi sono i suoi membri ideali» (Mengaldo).
Analisi del testo
Artificialità del linguaggio poetico
La mancanza di un centro di potere
Valore della poesia
Seguendo la logica di un ragionamento tipicamente medievale, che affida la dimostrazione a una ricerca di analogie (si noti, all’inizio, la metafora della pantera), Dante definisce il volgare illustre sotto forma di astrazione, quasi per via negativa: il volgare illustre non coincide con quello di nessuna città, ma tutti li rappresenta, costituendo la sintesi, per così dire, delle loro migliori qualità, il modello ideale a cui essi devono tendere. Di qui deriva il carattere esemplare, ma anche artificiale, del linguaggio poetico, nelle sue più alte espressioni: la tendenza della letteratura a staccarsi dalle realtà politico-sociali dei singoli centri (dalla realtà quotidiana e comune, quindi) per costituire, piuttosto, l’ideale di una comunità sovraregionale, che vada al di là delle singole comunità dei parlanti per rappresentare delle aspirazioni più generali, ma limitate agli interessi, ai gusti e alla cultura di più ristrette élites intellettuali. Dante si rende conto che il problema non è solo sociale (la distanza che separa la minoranza degli uomini colti dalla stragrande maggioranza degli illetterati e analfabeti), ma politico, in quanto riguarda la mancanza di un centro di potere capace di attrarre e di unificare le forze anche culturali della penisola. Non a caso, tra le altre definizioni del volgare illustre, quella che lo indica come «aulico» è fondata di fatto su un’assenza (quella di una corte centrale ed egemonica) e assume quindi un significato soprattutto ideale, che Dante identifica, alla fine, con la «ragione». In opposizione alla debolezza del potere politico (o forse, anzi, proprio per questo), Dante esalta il valore della grande poesia, che conferisce ai suoi cultori una gloria superiore a quella dei regnanti e ha, in se stessa, il potere di muovere i sentimenti, di persuadere e di spingere all’azione. 273
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Rintraccia nel testo le definizioni fondamentali riferite al volgare e spiegale. ANALIzzARE
> 2. In quale punto del testo compare il riferimento al supremo principio divino? > 3. In quali punti del testo Dante sembra affrontare il tema politico? APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 4. Scrivere Prendendo spunto dalle affermazioni di Dante, componi un breve testo di circa 10 righe (500 caratteri) per spiegare le ragioni della diffusione del volgare letterario e della resistenza del latino come lingua della cultura “alta” durante l’età comunale. > 5. Competenze digitali Predisponi in digitale una cartina dell’Italia in cui siano evidenziati (attraverso l’inserimento di parole, frasi, simboli, immagini ecc.) i luoghi geografici a cui fanno riferimento le esperienze letterarie in volgare precedenti a Dante. Se lo ritieni opportuno, puoi impostare il lavoro in modo creativo avvalendoti anche degli strumenti multimediali (ad esempio, inserendo suoni, voci, musiche, video ecc.), e puoi conservare la tua “mappa”, aggiornandola di volta in volta, in un personale archivio riferito agli studi di lingua e letteratura italiana dell’anno in corso. PASSATO E PRESENTE Italiano e dialetti oggi
> 6. Rispetto all’epoca di Dante, oggi noi ci avvaliamo di una lingua unitaria che ha rappresentato e rappresen-
ta un importante mezzo di promozione sociale, culturale e letterario finalizzato anche alla formazione di una coscienza nazionale. Tuttavia, sono numerosi i contesti e frequenti le circostanze in cui preferiamo adottare il dialetto del territorio a cui apparteniamo come lingua privilegiata per comunicare. Discuti il tema proposto in classe, con il docente e i compagni, facendo eventualmente riferimento a esperienze personali.
6 La crisi della Chiesa e dell’Impero
Il sogno della restaurazione imperiale
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La Monarchia I presupposti storici e sociali
Videolezione
La grande costruzione della Commedia, in cui viene a confluire tutta l’esperienza intellettuale e pratica di Dante in questo periodo, è accompagnata da un intenso lavoro di riflessione politica, che pone le fondamenta dell’architettura concettuale del poema e prende corpo nella Monarchia e in alcune delle Epistole. La Monarchia non è un’opera di speculazione astratta, ma ha le radici nel terreno vivo della realtà contemporanea. L’inizio del Trecento aveva assistito a un rapido logoramento delle due massime istituzioni del Medioevo, l’Impero e la Chiesa: il primo aveva perso completamente il suo dominio sull’Italia, la seconda aveva cercato di colmare il vuoto politico, ma nel far questo si era sempre più mondanizzata e corrotta ed era praticamente divenuta vassalla della potente monarchia francese. In questa duplice decadenza Dante individua le cause dell’abiezione in cui è piombata l’umanità, privata delle due guide, quella temporale e quella spirituale, stabilite per essa da Dio. Già nel Convivio aveva tracciato il disegno di una restaurazione dell’autorità imperiale, che riportasse la pace, la giustizia, il rispetto della legge, i buoni costumi in un mondo dominato dalla cupidigia di denaro, dalla volontà di sopraffazione e dalle lotte civili tra città e partiti. Questa aspirazione pare doversi tradurre in realtà, agli occhi di Dante, nel 1310, alla notizia che il nuovo imperatore Enrico VII di Lussemburgo sta calando in Italia per ristabilire l’autorità imperiale. L’arrivo dell’imperatore è accolto da Dante con tre epistole politiche in latino, indirizzate ai reggitori d’Italia, agli scellerati fiorentini e ad Enrico stesso, in cui vibrano le sue speranze per l’impresa, lo sdegno per gli intrighi di chi la ostacola, i timori di un fallimento.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Struttura e contenuti dell’opera
Il disegno dell’opera
I rapporti tra Chiesa e Impero
I fini dell’Impero e della Chiesa
L’utopia dantesca
Sotto lo stimolo di questo capitale evento politico nasce anche il De monarchia (la cui data di composizione non è però certa). Scritto in latino, quindi rivolto ad un pubblico di dotti, esso è l’opera dottrinale più organica di Dante, e l’unica delle tre che sia compiuta. La materia è suddivisa in tre libri. Nel primo, con il consueto impianto argomentativo sillogizzante, si dimostra la necessità di una monarchia universale, cioè di un imperatore al di sopra di tutti i regnanti, che sia supremo arbitro tra le loro contese e garante della giustizia. Il secondo dimostra come l’autorità imperiale sia stata concessa da Dio, nel suo disegno provvidenziale, al popolo romano, che ebbe il compito di unificare e pacificare il mondo per renderlo adatto ad accogliere il messaggio di Cristo. Il terzo libro affronta il tema più importante e di più immediata attualità: i rapporti tra Impero e Chiesa. In quegli anni una corrente di pensiero politico sosteneva che la suprema potestà era quella dell’imperatore, e che quella del papa derivava da essa; un’altra corrente propugnava la tesi esattamente opposta del potere supremo della Chiesa, da cui derivava la sua investitura quello imperiale. Controbattendo ambedue queste tesi, Dante afferma che i due poteri sono autonomi, poiché entrambi derivano direttamente da Dio ( T13, p. 276). Il loro rapporto non è come quello del sole, che brilla di luce propria, con la luna, che brilla di luce riflessa, ma come quello fra “due Soli”. La loro sfera d’azione è però diversa: l’Impero ha per fine la felicità dell’uomo in questa vita, la Chiesa invece il raggiungimento della beatitudine eterna. Per quanto ciascuna delle due guide sia autonoma, la loro azione è tuttavia complementare, in quanto solo se è in pace e in concordia l’umanità può seguire la guida del papa e giungere alla salvezza. L’opera della Chiesa richiede perciò, come presupposto indispensabile, l’azione dell’imperatore. E poiché il fine della Chiesa è più alto di quello dell’Impero, il secondo deve alla prima una naturale riverenza. La costruzione concettuale di Dante era grandiosa, ma anche superata dal corso effettuale della storia, che aveva sancito la crisi irreversibile dei due poteri universali; perciò era destinata a rimanere nei limiti di una magnanima quanto irrealizzabile
Arrigo (Enrico) VII è incoronato imperatore a Roma, XIV secolo, miniatura dalla Cronica di Giovanni Villani, codice Chigi L. VIII. 296, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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L’età comunale in Italia
utopia, un’utopia regressiva, tendente cioè a riportare indietro il corso degli eventi. E tuttavia proprio da questo sogno di un’impossibile restaurazione delle istituzioni e dei valori del passato, da questo rifiuto amaro e sdegnoso di un presente caotico, da quest’ansia visionaria e profetica di un’universale rigenerazione doveva scaturire la straordinaria costruzione poetica della Commedia.
Analisi interattiva
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L’imperatore, il papa e i due fini della vita umana dal De monarchia, III, xv, 7-18
Temi chiave
• la distinzione tra potere temporale e potere spirituale
• la giustificazione divina dell’Impero • l’aspirazione alla pace
È il capitolo conclusivo dell’opera, in cui Dante ne riassume la tesi di fondo: l’autorità dell’Impero non deriva da quella del papa, ma direttamente da Dio. L’imperatore, in altri termini, non è sottoposto al pontefice, ma le due autorità sono indipendenti.
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Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni diverse, conviene arrivare con procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine filosofiche, purché le seguiamo praticando le virtù morali e quelle intellettuali; alla seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità. Benché queste conclusioni e questi procedimenti siano stati a noi mostrati, quelli dalla ragione umana, tutta quanta per noi spiegata ad opera dei filosofi, questi dallo Spirito Santo che per mezzo dei profeti e degli scrittori ispirati1, per mezzo di Gesù Cristo, figliuol di Dio, a lui coeterno, e dei suoi discepoli ci ha rivelato la verità sovrannaturale a noi necessaria, tuttavia l’umana cupidigia se li butterebbe dietro le spalle, se gli uomini, a guisa di2 cavalli, portati dalla loro bestialità ad andar vagando, non fossero trattenuti nel loro viaggio «con la briglia e col freno». Per questo fu necessaria all’uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: cioè il sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degl’insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto nessuno, o soltanto pochi, e anche questi con soverchia3 difficoltà, possono arrivare, se il genere umano, sedati i flutti della blanda cupidigia, non riposa libero nella tranquillità della pace, a questo fine appunto deve tendere con tutte le forze colui che ha cura del mondo e che dicesi Principe romano4, che si possa cioè vivere liberamente in pace in questa aiuola dei mortali5. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione risultante dal ruotare dei cieli, perché gli utili insegnamenti della libertà e della pace vengano applicati senza intoppo ai luoghi e ai tempi, è necessario che a questo curatore sia provveduto da Colui che ha presente al suo sguardo tutta quanta la di-
1. degli scrittori ispirati: taluni traducono l’espressione qui usata da Dante con il termine “agiografi”, scrittori di cose sacre.
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2. a guisa di: come. 3. soverchia: grande. 4. Principe romano: l’imperatore.
5. aiuola dei mortali: la metafora sta ad indicare la Terra.
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sposizione dei cieli6. Or questi è soltanto colui7 che tal disposizione preordinò, sì che per mezzo di essa, nella sua provvidenza, ogni cosa ha legato al posto che le spetta. Se così è, egli solo elegge8, egli solo conferma poiché non ha alcuno sopra di sé. Dal che si può inoltre ricavare che né quelli dei nostri giorni né altri che in qualunque modo sono stati detti “elettori”9, han da chiamarsi con questo nome; ma piuttosto son da ritenere “annunciatori del provvedere divino”. Onde avviene che talvolta quelli cui è stato conferito l’onore di dare questo annuncio son tra loro discordi, o perché tutti o perché alcuni di loro, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono a discernere la faccia della divina disposizione. Così appar dunque evidente che l’autorità del Monarca temporale discende in esso senza alcun intermediario dal Fonte dell’universale autorità10; il qual Fonte, unito nella rocca della sua semplice natura, si spande in molteplici rivi per sovrabbondanza della sua bontà11. E ciò mi par che basti ormai al raggiungimento della mèta propostami. Giacché è stata svelata appieno la verità sul problema, se al benessere del mondo fosse necessario l’ufficio del Monarca, e sul problema se il popolo romano a buon diritto si sia arrogato l’Impero, nonché sull’ultimo quesito, se l’autorità del Monarca dipendesse immediatamente da Dio oppure da qualche altro12. La verità, per altro, a riguardo dell’ultima questione non va intesa così strettamente, nel senso che il Principe romano non sottostia in qualche cosa al romano Pontefice, essendo la beatitudine di questa vita mortale ordinata in qualche modo alla beatitudine immortale. Usi pertanto Cesare quella riverenza verso Pietro13, che il figlio primogenito ha da usare verso il padre; sì che, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa con maggiore efficacia irraggiare la terra, al cui governo è stato preposto soltanto da Colui14 che di tutte le cose spirituali e temporali ha il dominio. D. Alighieri, Opere minori, tomo II, trad. it. di B. Nardi, Ricciardi, Milano-Napoli 1979
6. E siccome … cieli: siccome l’ordine del mondo terreno dipende dalle influenze esercitate dal ruotare dei cieli, è necessario che l’imperatore (questo curatore) sia guidato da Dio, che domina tutta la disposizione dei cieli; solo così gli insegnamenti della libertà e della pace possono essere applicati nei diversi paesi e nei diversi momenti storici. 7. soltanto colui: Dio, che nel suo disegno provvidenziale ha collocato ogni elemento del creato al suo posto.
8. egli solo elegge: è Dio che elegge l’imperatore, non gli uomini. Dante sostiene che il potere imperiale deriva direttamente da Dio. 9.“elettori”: si intende dell’imperatore; Dante infatti pensa al Sacro Romano Impero tedesco in cui i principi erano gli elettori dell’imperatore. 10. Fonte … autorità: Dio, che è la fonte del potere politico dell’imperatore. 11. Fonte … bontà: continua l’immagine
della fonte: Dio è uno, ed è chiuso nella sua perfezione come in una fortezza (rocca), ma, per la sua infinita bontà, si degna di distribuire la sua grazia in molteplici forme. 12. svelata … altro: Dante riassume qui le tre tesi fondamentali del trattato. 13. Cesare … Pietro: Cesare è l’imperatore, Pietro il pontefice. 14. Colui: Dio.
Analisi del testo L’impostazione bipolare
Si noti come l’argomentazione, essendo tesa a definire le caratteristiche distinte e indipendenti delle due autorità, sia tutta impostata sulla contrapposizione di membri paralleli: • «il sommo Pontefice» - «l’Imperatore»; • «vita eterna» - «felicità temporale»; • «dottrine rivelate» - «insegnamento della filosofia». La struttura del discorso traduce, sul piano dell’organizzazione retorica, l’assunto centrale dell’opera, quello di «una duplice guida corrispondente al duplice fine». La natura dell’uomo per Dante è di per sé incline al male; ora, essendo lo scopo principale dell’umanità quello di conservare la libertà e la pace (dal momento che il mondo è un riflesso della perfezione celeste), acquista un particolare risalto il ruolo dell’imperatore, che dispone della forza materiale per realizzare queste condizioni (ed è questa, data l’omologia fra ordine celeste e terreno, un’ulteriore conferma, per Dante, della giustificazione divina dell’Impero). 277
L’età comunale in Italia L’aspirazione alla pace
Non c’è dubbio che Dante, nel formulare tale ipotesi, vi proiettava soprattutto le sue aspirazioni deluse: il desiderio di una pace garantita dall’alto, che risolvesse le discordie cittadine e i contrasti particolari. Pur senza intaccare la sostanza della sua tesi, Dante ne corregge alla fine la formulazione: essendo superiori i valori spirituali a quelli puramente umani, l’imperatore deve rendere omaggio e «riverenza» al pontefice.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Quali fini la Provvidenza ha assegnato all’uomo? Con quali strumenti l’uomo può raggiungerli? > 2. Quali sono i ruoli rispettivamente del pontefice e dell’imperatore? > 3. Da chi dipende l’autorità dell’imperatore? > 4. Come si conclude il brano? Esegui la parafrasi delle righe 49-52. ANALIzzARE
> 5. > 6.
Quale figura retorica è presente alle righe 15-17? Specifica il senso delle seguenti metafore: «porto» (r. 21); «flutti della … cupidigia» (rr. 22-23); «aiuola dei mortali» (rr. 25-26); «Fonte» (r. 39). Stile Stile
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7. Contesto: esporre oralmente Alle righe 26-30 si fa cenno al ruotare dei cieli e, dunque, alla concezione aristotelico-tolemaica: illustrala in un’esposizione orale (max 3 minuti). PER IL POTENzIAMENTO
> 8. Rifletti sul modo in cui, in questo capitolo, Dante affronta il tema della pace, facendo opportuni riferimenti al contesto storico e alle vicende personali dell’autore. PASSATO E PRESENTE Dante e la laicità dello Stato
> 9. Dante e la laicità dello Stato: rifletti su tale assunto dopo esserti confrontato in una discussione in classe con il docente e i compagni. Considera inoltre in quali ambiti o situazioni ai nostri giorni, l’autonomia dei due diversi “poteri” risulta difficile o impossibile da mantenere.
7 Le epistole politiche
L’Epistola a Cangrande
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Le Epistole Di Dante ci sono giunte tredici lettere scritte in latino. Si tratta di lettere ufficiali, composte secondo le regole medievali delle artes dictandi, quindi in uno stile estremamente elaborato, ricco di artifici retorici e di riferimenti dotti ai classici latini e alla Bibbia. Le più interessanti sono quelle in cui si esprimono il pensiero e la passione politica di Dante. Abbiamo già ricordato le tre epistole suggerite dalla discesa in Italia di Enrico VII. Di carattere politico è ancora l’Epistola XI (1314), contenente un solenne rimprovero ai cardinali italiani, responsabili di aver trasferito, sotto la spinta della cupidigia, la sede papale ad Avignone. Torna sempre in tutte queste epistole politiche il senso della tristezza dei tempi e la ferma coscienza di una missione profetica da esercitare. Al clima della Commedia si collega l’epistola all’amico fiorentino (1315), in cui Dante rifiuta la possibilità, da lui ritenuta infamante, di ritornare in Firenze, e in cui vibra il senso della propria dignità e del proprio valore, misconosciuti e offesi, insieme all’attaccamento alla propria libertà. Strettamente collegata al poema è anche l’Epistola a Cangrande della Scala (della cui autenticità però si discute), che dovrebbe risalire agli anni tra il 1315 e il 1317
Capitolo 4 · Dante Alighieri
( T14). L’epistola contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, che era stato generoso con il poeta, ma è resa preziosa dal fatto che contiene fondamentali indicazioni di lettura del poema: il soggetto, che è la condizione delle anime dopo la morte; la pluralità dei sensi, letterale, allegorico, morale, anagogico; il titolo, che deriva dal fatto che l’inizio è aspro e luttuoso e la fine è lieta e dal fatto che lo stile è «dimesso e umile»; la finalità dell’opera, che non è solo speculativa, ma pratica, poiché la Commedia mira a «togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato della felicità».
T14
L’allegoria, il fine, il titolo della Commedia dall’Epistola a Cangrande
Temi chiave
• la pluralità di significati della Commedia • la funzione salvifica del poema • la poesia come portatrice di verità
L’epistola XIII è indirizzata a Cangrande della Scala, signore di Verona, presso cui Dante aveva trovato ospitalità durante l’esilio (e che è celebrato anche in Paradiso, XVII); con essa, viene dedicata a Cangrande la terza cantica. L’epistola contiene tutta una serie di indicazioni di lettura del poema. Si è molto discusso se essa sia autentica o no. Ma, come ha osservato Umberto Eco, anche qualora non fosse stata scritta da Dante, «rifletterebbe comunque un atteggiamento interpretativo assai comune a tutta la cultura medievale», e «spiegherebbe il modo in cui nei secoli Dante è stato letto».
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Per la chiarezza di ciò che va detto si deve sapere che il senso di quest’opera non è semplicemente uno, anzi essa può dirsi polisignificante, cioè di più sensi; infatti il primo senso è quello che si ha dalla lettera, ma altro è quello che si ottiene al di là delle cose significate letteralmente. Il primo si chiama letterale, il secondo allegorico, o morale, o anagogico. Questo modo di esporre, perché sia più chiaro, si può considerare in questi versi: «All’uscita di Israele dall’Egitto, della casa di Giacobbe da una nazione barbara, la Giudea diventò il suo santuario, Israele il suo dominio»1. Ora, se guardiamo solo alla lettera, ci vien significato che i figli d’Israele uscirono dall’Egitto al tempo di Mosè; se badiamo all’allegoria, ci vien significata la nostra redenzione attuata da Cristo; se al senso morale, la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se all’anagogico, ci vien significata la liberazione dell’anima santa dalla servitù della corruttibilità terrena verso la libertà della gloria eterna. E benché questi sensi mistici si chiamino con vari nomi, si possono generalmente dire tutti allegorici, in quanto sono traslati dal senso proprio o narrativo. Dicesi infatti «allegoria» da «alleon» greco2, che in latino vuol dire «alienum» cioè «diversum». Visto ciò, è chiaro che il soggetto deve essere duplice, e che i due sensi3 vi si intreccino alternati. E perciò si deve vedere riguardo al soggetto di quest’opera, secondo che sia preso alla lettera e secondo che sia preso nel significato allegorico. Il soggetto dell’insieme dell’opera dunque preso solo letteralmente è lo stato delle anime dopo la morte descritto in modo puro e semplice; e intorno a questo tema si svolge tutto il processo dell’opera. Se lo si prende allegoricamente, il soggetto è l’uomo, in quanto meritando o demeritando sulla base del libero arbitrio è suscettibile di giusto premio o di giusto castigo.
1. «All’uscita … dominio»: è il salmo 113. Va ricordato che gli eventi della storia del popolo ebraico raccontati nella Bibbia vengono interpretati come prefigurazione della vita e rivelazione di Cristo. Nel canto II del
Purgatorio, il salmo è intonato dalle anime che pervengono alla montagna dopo la morte. 2. Dicesi … greco: Dante ebbe evidentemente qualche vaga notizia del greco, ma la
grafia della parola qui indicata è errata. 3. due sensi: intende il letterale e l’allegorico, che può includere anche il morale e l’anagogico.
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Ma anche la forma è duplice: la forma del trattato e la forma di trattare4. La forma del trattato è triplice, secondo una triplice divisione. La prima divisione è quella per cui l’insieme dell’opera è ripartito in tre cantiche. La seconda, perché ogni cantica è ripartita in canti. La terza, perché ogni canto è ripartito in gruppi ritmici. La forma o modo di trattare è poetica, inventiva, descrittiva, digressiva, transuntiva, e insieme definitiva, divisiva, probativa, reprobativa ed esemplificativa. Il titolo del libro è «Comincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi». E per capire che cosa significa bisogna sapere che «commedia» si dice da «comos» contado, e «oda» cioè canto, onde commedia è quasi «canto rustico». E la commedia è un genere di narrazione poetica differente da tutti gli altri. Infatti è diversa dalla tragedia nella materia in questo, che la tragedia dapprincipio è ammirabile e quieta, e nella fine o esito è rivoltante e terrificante; e perciò è detta così da «tragos» che significa caprone, e «oda», quasi canto caprino, cioè fetido a guisa di capro5; come è evidente nelle tragedie di Seneca. La commedia comincia dalle difficoltà di un soggetto qualunque, ma la sua materia termina felicemente, com’è evidente nelle commedie di Terenzio. E di qui alcuni scrittori presero l’abitudine di dire nei loro saluti invece dell’augurio «tragico principio e comica fine». Similmente differiscono nel modo di esprimersi: la tragedia volendo elocuzione elevata e sublime, la commedia invece dimessa ed umile, come impone Orazio nella sua Arte poetica6 dove permette ai comici di esprimersi qualche volta come tragici, e viceversa […]. Per tutto ciò è chiaro che la presente opera si dica Commedia. Infatti se si guarda alla materia, è orribile e repellente dal principio, perché è l’Inferno, mentre alla fine è prospera, desiderabile e attraente, perché è il Paradiso; se al modo di esprimersi, è il modo dimesso e umile, perché è la lingua volgare in cui comunicano anche le donnette. Ci sono altri generi ancora di narrazione poetica, come il carme bucolico, l’elegia, la satira, e il canto votivo, come può risultare anche da Orazio nella sua Arte poetica; ma non è ora il momento di trattarne […]. Il fine del tutto e della parte potrebbe essere molteplice, cioè prossimo e remoto; ma, tralasciando un minuzioso esame, si può dire brevemente che il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato della felicità. Il genere di filosofia, poi, secondo il quale si procede qui nel tutto e nella parte, è l’attività morale ovvero etica; perché tanto il tutto quanto la parte non hanno un fine speculativo, ma concreto7. Infatti se in qualche luogo o passaggio vi si tratta alla maniera dell’attività speculativa, ciò non avviene mirando alla speculazione, ma all’opera concreta; perché, come dice il Filosofo nel secondo della Metafisica, «talora i filosofi pratici speculano in relazione a cose e momenti particolari». D. Alighieri, Tutte le opere, trad. it. di F. Chiappelli, Mursia, Milano 1965
4. forma … trattare: con la prima espressione, forma del trattato, l’autore intende la struttura generale, con la seconda, forma di trattare, la struttura formale, interna all’opera. 5. cioè … capro: l’interpretazione dell’etimo dei due generi (commedia e tragedia) è tratta dalle Magnae Derivationes di Uguccio-
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ne da Pisa, da cui proviene anche la distinzione dei generi operata in base allo svolgimento narrativo della materia. 6. Orazio … poetica: si tratta dell’Epistula ad Pisones di Orazio, un trattato di poetica noto e seguito nel Medioevo come testo fondamentale, tanto da costituire una vera e propria “autorità”, sulla base della quale
Dante giustifica la commistione di stile umile e sublime, presente nella Commedia ma vietata dalle rigide norme della retorica medievale. 7. ma concreto: Dante non nega la componente dottrinale dell’opera ma chiarisce che essa non tocca la filosofia teoretica bensì quella morale.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi del testo
L’allegoria della Commedia è dei «teologi»
Il soggetto dell’opera
Il titolo e lo stile
In questo passo famoso Dante tocca alcuni punti essenziali per l’interpretazione del poema. In primo luogo l’allegoria. Nel Convivio distingueva l’allegoria «dei poeti», in cui il senso letterale è fittizio, da quella «dei teologi», in cui il senso letterale è reale, e affermava di voler seguire la prima. Ma qui l’esempio che dà non è più tratto da un poeta, Ovidio, come in quell’opera, bensì dalla Sacra Scrittura (il salmo In exitu Israel de Aegypto). Ciò presumibilmente vuole indicare, come ha mostrato Singleton che l’allegoria della Commedia vuol essere l’allegoria «dei teologi»: in essa il senso letterale non è una «bella menzogna», ma è un fatto reale. Non vi è più una «donna gentile» del tutto fittizia, puro personaggio letterario, ma un Virgilio storico, una Beatrice storica, un san Bernardo storico. Il viaggio non è una finzione poetica, ma un evento storico, reale. Il poema si propone dunque di imitare il modello della Sacra Scrittura, e in certo qual modo di offrirsi quale «prosecuzione del libro divino» (Eco): non per nulla è il «poema sacro». Dante passa poi a definire il soggetto dell’opera. Letteralmente è «lo stato delle anime dopo la morte» (r. 19); allegoricamente è il modo in cui la giustizia di Dio si esercita sull’uomo, sui suoi meriti e le sue colpe. Per quanto riguarda la forma della trattazione, Dante usa dieci definizioni: le prime cinque sono le proprietà che la tradizione assegnava al discorso poetico; le altre cinque sono tipiche del discorso teologico e filosofico: Dante cioè ritiene che la poesia abbia dignità filosofica; e difatti legge i poeti classici come se fossero portatori di verità, al pari della Scrittura (Eco). Il passo successivo dà ragione del titolo, Commedia, che deriva sia dalla materia, che all’inizio è aspra ma termina felicemente, sia dallo stile, che è «dimesso e umile» (su questi problemi, Il titolo della Commedia e la concezione dantesca degli stili, p. 287). Infine è importante l’affermazione che l’opera è stata scritta non per puri fini speculativi, ma per l’azione, per rimuovere l’umanità dallo stato presente di miseria e condurla alla felicità in questa e nell’altra vita.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Rintraccia nel testo le definizioni fondamentali riferite ai sensi delle scritture e spiegale. > 2. Spiega, facendo riferimento alle vicende biografiche dell’autore, la formulazione del titolo che compare alle righe 29-30. ANALIzzARE
> 3. Quale funzione assume nel testo l’ampia e documentata spiegazione della definizione di «commedia» attra-
verso il confronto con quella di «tragedia» (rr. 30-42)? > 4. Stile Con l’ausilio del Glossario e/o del dizionario della lingua italiana, focalizza l’attenzione sulle figure retorico-stilistiche della similitudine e della metafora: in che cosa differiscono dall’allegoria? APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 5.
Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri), rifletti sull’importanza attribuita da Dante al significato allegorico della Commedia. In che misura la sua teoria dell’interpretazione rispecchia la mentalità medievale?
SCRITTURA CREATIVA
> 6. Immagina di essere Dante Alighieri e di scrivere a Cangrande della Scala una lettera di ringraziamento per l’ospitalità ricevuta presso la corte di Verona. Il tuo elaborato dovrà fare riferimento non solo ai dati biografici utili per delineare il contesto, ma anche allo stato d’animo del poeta, ormai esule da anni e impegnato nella stesura della Commedia. Non superare le 40 righe (2000 caratteri). PASSATO E PRESENTE Le finalità della letteratura oggi
> 7. In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) scrivi un commento personale alle righe 50-52 del brano («Il fine del tutto … allo stato della felicità») rispondendo alla seguente domanda: può ancora oggi la letteratura porsi questo fine? Dopo aver elaborato il testo, danne lettura in classe, avviando poi una discussione guidata dal docente.
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Incontro con l’Opera La Commedia
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Il degrado della realtà presente
Mappa interattiva
La missione profetica
Testi La missione di Dante dall’Inferno, II
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La genesi politico-religiosa del poema
Videolezione
La Commedia nasce da una visione cupa e apocalittica della realtà presente e dalla ansiosa speranza di un riscatto futuro. Dante vede dinanzi a sé, proprio attraverso la sua esperienza diretta di uomo politico prima, e di esule in varie regioni d’Italia poi, un mondo caotico, violento e corrotto, «diserto d’ogne virtude» e «di malizia gravido e coverto», in cui l’ordine voluto da Dio per assicurare agli uomini la pace, la giustizia e l’esercizio delle virtù è sconvolto. L’imperatore dimentica la sua funzione di supremo arbitro della vita civile, che dovrebbe assicurare agli uomini la felicità di questa vita, e trascura di esercitare la sua autorità sull’Italia, che così è fatta «indomita e selvaggia» come un cavallo imbizzarrito; la Chiesa, invece di perseguire il fine della salvezza delle anime, pensa solo alla potenza terrena, cercando di sostituirsi all’imperatore, ma così facendo, non avendo i mezzi per esercitare il potere temporale, accresce solo il caos, e al tempo stesso si corrompe nella ricerca di beni mondani; venuto a mancare il «freno» di chi doveva far rispettare la legge, tutti i valori che nel passato assicuravano un tranquillo e ordinato vivere civile, come la sobrietà, la pudicizia, il culto della famiglia, sono sovvertiti; si scatena negli uomini la volontà di sopraffarsi a vicenda, e di qui nascono i conflitti tra le fazioni e le infinite lotte civili che insanguinano le città italiane; l’assenza di ogni freno dall’alto fa sì che si scateni anche la cupidigia di denaro, ed una «gente nova», che spesso reca ancora addosso il «puzzo» della campagna, invade le città, ansiosa di «sùbiti guadagni», dandosi all’attività mercantile e bancaria ( T18a, p. 325); di conseguenza l’antica nobiltà feudale è calpestata e oppressa, «cortesia e valor», le splendide virtù cavalleresche di un tempo, «li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia», scompaiono. Dante coglie con grande acutezza i termini essenziali della crisi contemporanea; ma la guarda dal punto di vista del passato, della classe nobiliare sconfitta dalla storia e ormai pressoché spodestata dai nuovi ceti in ascesa: per lui, quindi, la crisi non segna semplicemente il passaggio da un mondo vecchio, ormai esaurito, ad un mondo nuovo e più vitale, ma è la fine del mondo, in assoluto. Nella sua prospettiva radicalmente apocalittica, infatti, la punizione divina non può tardare: le forze del male saranno battute da un inviato di Dio, un «veltro» che sconfiggerà la «lupa», cioè l’avarizia, la cupidigia del «maladetto fiore» del fiorino (la moneta di Firenze), e riporterà l’ordine e la virtù sulla terra. Allora la flotta del genere umano «le poppe volgerà u’ son le prore, / sì che la classe correrà diretta; / e vero frutto verrà dopo il fiore». Dante ritiene di essere stato investito da Dio della missione di indicare all’umanità la via della rigenerazione e della salvezza. Per questo, obbedendo alla volontà divina, deve compiere il viaggio nei tre regni dell’oltretomba, esplorare tutto il male del mondo che si concentra nell’inferno, trovare la via dell’espiazione e della purificazione nel purgatorio, ascendere di cielo in cielo sino alla visione diretta di Dio. Tutto quanto apprenderà in questo viaggio miracoloso, una volta tornato sulla terra dovrà ripeterlo agli uomini mediante il suo poema, in modo che essi possano vedere la «diritta via» che
Capitolo 4 · Dante Alighieri
hanno smarrita. Egli è il terzo mortale a compiere da vivo, per grazia divina, un viaggio nell’oltretomba, dopo Enea, da cui scaturì l’Impero romano, e dopo san Paolo, che diede i fondamenti alla fede cristiana. La sua missione si colloca a fianco delle loro, le riprende e le completa, perché egli deve appunto indicare la via della rigenerazione dell’Impero e della Chiesa, da cui dipende la salvezza dell’umanità. La Commedia, nascendo da questo complesso di sollecitazioni politiche e religiose, assume quindi un carattere di messaggio profetico, che si modella sui libri profetici della Bibbia e sull’Apocalisse di Giovanni. Spesso Dante, nel corso del poema, assume l’atteggiamento del profeta biblico, che proferisce oscuri ed ispirati messaggi sul futuro dell’umanità, invoca terribili castighi divini sui peccati e fa balenare la radiosa prospettiva del riscatto. Il viaggio è dunque la storia della redenzione personale di Dante, come individuo particolare, ma Dante rappresenta anche tutta quanta l’umanità, incamminata verso la sua collettiva redenzione: redenzione che ha come fine ultimo la salvezza eterna nella città celeste, ma prima ancora la «felicità di questa vita», nella città terrena.
Gli antecedenti culturali del poema
Le visioni dell’aldilà
Il poema allegorico
La letteratura enciclopedica Il “viaggio”
La Bibbia L’Eneide
Dante cominciò a scrivere la Commedia probabilmente dopo il 1307 (anche se Boccaccio afferma che i primi sette canti furono composti prima dell’esilio). Dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo dedurre che nel 1319 l’Inferno e il Purgatorio erano già pubblicati, mentre il Paradiso, a cui il poeta lavorò sino agli ultimi tempi della sua vita, comparve ormai postumo. Per tradurre in atto il suo grandioso disegno, Dante mise a frutto tutti gli strumenti che gli forniva la cultura del suo tempo. Innanzitutto adottò lo schema della “visione” dei regni oltremondani, delle pene dell’inferno e delle gioie del paradiso, di cui la tradizione medievale, sia in latino sia in volgare, era ricca di esempi (basti ricordare, per il Duecento, il Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva e il De Ierusalem coelesti et de Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona). L’opera si collegava anche al genere del poema allegorico, consacrato soprattutto dall’esempio del Roman de la rose ( L’età cortese, cap. 1, T4, p. 57). Una tradizione del genere era particolarmente viva nell’ambiente fiorentino, come testimoniano il poema anonimo L’intelligenza ed il Fiore, parziale traduzione del Roman de la rose in una collana di sonetti (che oggi si tende con validi argomenti ad attribuire a Dante stesso: se fosse vero, il giovane poeta avrebbe fatto il suo apprendistato proprio traducendo il famoso modello francese). Non è estraneo poi l’apporto della letteratura didattico-enciclopedica, anch’essa viva a Firenze: non si dimentichi che Dante venerava come un maestro Brunetto Latini, l’autore di due opere del genere, il Trésor e il Tesoretto. Inoltre lo schema del viaggio, come ricerca dell’espiazione e della salvezza, rimanda al romanzo cavalleresco del ciclo bretone (che Dante conosceva bene e ammirava); ma anche la letteratura mistica presentava l’ascesa a Dio come un “viaggio”: un esempio è costituito dall’Itinerarium mentis in Deum di san Bonaventura (1221-74), già sotterraneamente presente nel disegno della Vita nuova. Agisce poi ancora la suggestione dei libri profetici della Bibbia e dell’Apocalisse di Giovanni, da cui, come si è già indicato, Dante trae ispirazione per l’impianto e per il tono apocalittico-profetico del suo messaggio. D’altro lato agisce potentemente, soprattutto per i primi canti dell’Inferno, un modello classico, quello della discesa agl’inferi di Enea, nel VI libro dell’Eneide, da cui sono ripresi nomi e immagini di luoghi (l’Acheronte, lo Stige ecc.) e figure (Caronte, Cerbero, Flegiàs).
I fondamenti filosofici San Tommaso
La base filosofica del poema è costituita dalla Scolastica, e soprattutto da san Tommaso, che aveva compiuto una geniale opera di fusione della filosofia aristotelica con il cristianesimo. Spesso è possibile un rimando preciso di passi dottrinali della Commedia (in particolare del Paradiso) a luoghi delle Summae di Tommaso. Il poema dantesco 283
L’età comunale in Italia
Il filone mistico
si può considerare, per certi aspetti, un equivalente in volgare delle grandi Summae del Medioevo, quegli edifici di pensiero che abbracciavano il reale nella sua totalità, chiudendolo in un armonico sistema concettuale, in cui trovava collocazione e spiegazione ogni minimo particolare del creato; con la differenza che Dante, con la sua opera, non vuole solo spiegare concettualmente il mondo, come i teologi, ma trasformarlo in conformità della missione profetica che ritiene a lui destinata, restaurandone l’ordine sconvolto: come scrive nell’Epistola a Cangrande, il poema è stato scritto «non per la pura speculazione, ma per l’azione», per «togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato della felicità» ( T14, p. 279). Nel poema però non confluisce solo il filone razionalistico del pensiero medievale, che, sulla scorta di Aristotele, mirava a fondare la fede su basi razionali, dimostrandone rigorosamente le verità, secondo il principio «capire per credere»; vi confluisce anche il filone mistico, che si rifaceva ad Agostino, e concepiva l’ascesa a Dio non come lucido percorso intellettuale, ma come slancio d’amore, come ebbrezza di identificarsi ed annullarsi nell’infinità di Dio. Dante, oltre a utilizzare Tommaso, ha ben presente Agostino; inoltre subisce fortemente l’influenza dei grandi mistici medievali, san Bernardo, Riccardo da San Vittore, san Bonaventura, probabilmente tramite correnti francescane. Non è un caso che nel cielo del Sole, dove sono raccolti gli spiriti sapienti, i rappresentanti dei due indirizzi, il razionalistico e il mistico, si trovino fianco a fianco. E l’ultima guida nell’ascesa di Dante, che invoca per lui l’intercessione della Madonna, è proprio san Bernardo.
Visione medievale e “pre-umanesimo” di Dante La fede in una verità data
L’ordine dell’universo
L’ammirazione per gli antichi
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Sorretta da tutto il lavoro teologico e filosofico del Medioevo, la visione del mondo di Dante è caratterizzata da un’incrollabile fede nel possesso della verità, dalla convinzione che il senso ultimo dell’universo è stato definitivamente spiegato dalla rivelazione divina e dalla filosofia, e che non resta più alcun margine di dubbio o di errore. Dante ritiene che nella conoscenza risieda la perfezione della natura umana (proprio con l’enunciazione di questo concetto si apre il Convivio); ma la conoscenza per lui non è avventura di ricerca personale, esplorazione dell’ignoto, capace di sfidare ogni limite: è adeguazione ad un patrimonio di nozioni già dato una volta per tutte. Per questo Dante condanna il viaggio di Ulisse ( T19, p. 329), che, animato da un eccessivo orgoglio nelle forze dell’«ingegno» umano, si è spinto al di là dei limiti segnati da Dio alla conoscenza dell’uomo, ed a quel «folle volo» contrappone il proprio viaggio di conoscenza, compiuto con la consacrazione di un’investitura divina e con la guida della Rivelazione. Grazie a questa certezza del possesso della verità, l’universo a Dante appare retto da un ordine mirabile, regolato perfettamente dalla volontà divina, in cui ogni elemento, dal più basso al più sublime, trova una giustificazione e un fine. È proprio grazie a questa fede nell’ordine divino del mondo che Dante può osare di raccogliere nel suo poema tutti gli aspetti della realtà, dai più turpi e plebei ai più elevati e spirituali, dallo sterco di Malebolge al tripudio di luce e musica dell’Empireo. Dante non teme di accostare nella stessa opera elementi tra loro così stridenti perché nell’ordine divino tutto ha un suo posto e un suo senso, ed il poema che riproduce questo ordine, che imita il «libro di Dio», può registrare tutto impavidamente, senza esclusioni. Se la visione di Dante si colloca tutta all’interno della mentalità medievale, caratterizzata da una concezione dogmatica della conoscenza, per altri aspetti fa presentire già tendenze che saranno proprie della cultura dell’epoca successiva. Riprendendo l’esempio prima citato, se Dante condanna Ulisse per la temerarietà e la follia con cui ha superato i limiti umani, il suo ardore di conoscenza gli appare tuttavia nobile: in Ulisse si riflette la dignità dell’umanità antica che, pur non sorretta dalla rivelazione divina, ha saputo raggiungere un livello altissimo di conoscenza. Questa ammirazione per il valore del mondo antico si riflette essenzialmente nella figura di Virgilio:
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Pre-umanesimo di Dante?
Una concezione ancora medievale dell’antico
non è un caso che proprio un grande poeta classico sia chiamato nel poema a rappresentare la ragione umana nella sua più alta espressione, e per questo sia assunto da Dante come guida nella parte terrena del suo viaggio. Si è per questo parlato di un pre-umanesimo di Dante: ed effettivamente questa venerazione per i classici fa già presentire il culto che ad essi sarà tributato nella stagione umanistica. Ma se Dante preannuncia un clima culturale che verrà, non bisogna dimenticare che egli è ancora tutto al di qua del confine che separa il Medioevo dalla modernità (di cui l’Umanesimo è la prima manifestazione). La prova migliore è che non vi è ancora in lui quel senso di una frattura rispetto al mondo antico, che stimolerà negli umanisti il bisogno di ricostruire quel mondo nella sua fisionomia autentica, superando la barriera costituita da un’«età di mezzo». Ad esempio, per quanto Dante veneri Virgilio, il poeta latino nella Commedia appare del tutto assimilato alla mentalità e alla cultura medievali, si presenta cioè con quella fisionomia di grande sapiente, di «savio gentil che tutto seppe», che gli aveva conferito il Medioevo; non solo, ma Dante legge l’Eneide secondo moduli del tutto medievali, in chiave allegorica, ravvisando dietro alle vicende narrate significati morali e dottrinali.
L’allegoria nella Commedia Allegoria «dei poeti» e «dei teologi»
Senso allegorico, morale e anagogico
Mappa interattiva
L’allegoria della Commedia è quella «dei teologi»
Alla cultura medievale appartiene anche l’impianto allegorico del poema. Nel Convivio Dante distingue un’«allegoria dei poeti» dall’«allegoria dei teologi». Nel primo caso il piano letterale è una «bella menzogna», un’invenzione fittizia, sotto cui si nasconde una verità; nel secondo caso il piano letterale non è fittizio ma vero, è un evento reale e storico, che rimanda a significati ulteriori. Così infatti si leggeva abitualmente nel Medioevo la Sacra Scrittura: essa racconta fatti realmente verificatisi a persone reali, ma nel disegno di Dio questi fatti assumono altri significati. Una lunga tradizione medievale, che Dante riprende, distingueva ben tre livelli di senso ulteriori a quello letterale: l’allegorico vero e proprio, che comprende verità generali della dottrina; quello morale, da cui si ricavano insegnamenti per la condotta dell’uomo; quello anagogico, che allude al piano trascendente di Dio. La distinzione dei quattro sensi delle Scritture era così riassunta in un distico molto famoso di Agostino di Dacia: «La lettera insegna i fatti, l’allegoria ciò a cui devi credere, il senso morale ciò che devi fare, l’anagogico ciò a cui devi tendere». Nel passo citato del Convivio Dante specifica che nell’interpretazione delle sue canzoni intende seguire l’allegoria dei poeti: infatti la donna da lui cantata è una pura finzione letteraria, sotto cui si nasconde la Filosofia. Ma diverso appare il caso della Commedia. Nell’Epistola a Cangrande, in cui fornisce le chiavi di interpretazione del poema, Dante riprende la distinzione del senso letterale da quello allegorico ( T14, p. 279), ma dà un esempio tratto dalla Sacra Scrittura, il salmo In exitu Israel de Aegypto: la fuga degli Ebrei dall’Egitto è il piano letterale, ma, allegoricamente, essa significa la redenzione dell’umanità per opera di Cristo. Il fatto che l’esempio sia tratto dal testo sacro, e non da un testo poetico, indica come Dante ritenga che l’allegoria della Commedia sia quella «dei teologi», non quella «dei poeti». Il suo poema va letto come si leggono le Scritture: ciò che narra la lettera non è finzione ma verità storica, un evento realmente accaduto. Non vi agisce più una pura astrazione, Madonna Filosofia, ma un uomo reale, Dante, a cui fanno da guida un Virgilio storico, una Beatrice storica, un Bernardo storico. Virgilio, Beatrice, Catone hanno anche un significato ulteriore, allegorico: ma benché Virgilio rappresenti la Ragione, Beatrice la Teologia, Catone la Libertà, ciascuno di essi conserva pienamente la sua fisionomia individuale di persona realmente esistita, che il significato allegorico non compromette. Dante non vuole che si legga il suo poema come una finzione poetica, una «bella favola», ma come un’esperienza realmente verificatasi. Così come reali sono i fatti narrati nella Bibbia: il libro dantesco vuol imitare la struttura del libro scritto da Dio (Singleton). 285
L’età comunale in Italia
La concezione figurale La storia come realizzazione di un piano divino
«Figura» e allegoria
Il realismo figurale
Testo critico E. Sanguineti
Immagine interattiva Il realismo nell’arte figurativa
Ma il carattere reale e storico dei personaggi del poema rimanda ad un’altra importante concezione, presente in tutto il Medioevo cristiano a partire da Agostino, quella figurale. La visione cristiano-medievale concepiva la storia non come una catena di fatti puramente terreni, legati fra loro da rapporti immediati di causa ed effetto, ma li vedeva in continua correlazione con un piano divino. In questo disegno divino ogni fatto poteva essere visto come anticipazione di altri fatti, verificatisi posteriormente. Così veniva letta la storia biblica: ad esempio Mosè che salva gli Ebrei dall’Egitto era considerato come profezia di Cristo che salva l’umanità dal peccato. In tal caso Mosè è la «figura», Cristo l’«adempimento» della profezia reale in essa contenuta. Allo stesso modo il sacrificio di Isacco era visto come «figura» del sacrificio di Cristo. In questa concezione «figurale», sia la «figura» sia l’«adempimento» sono persone o eventi reali, storici, non pure allegorie. Mosè, Isacco non “significano” un concetto astratto, ma preannunciano un’altra persona reale che è Cristo. È chiara quindi la differenza tra «figura» e allegoria: nella «figura» significante e significato sono storici e reali, nell’allegoria il significante può essere storico, ma il significato è sempre un concetto astratto, non un evento o un personaggio individuale e concreto. Naturalmente l’una concezione non esclude l’altra: ambedue sono compresenti nella cultura medievale. Ebbene, nella Commedia, oltre all’allegoria, ha un ruolo determinante anche la concezione figurale. Virgilio, Beatrice, Catone, e tutti gli altri innumerevoli personaggi che compaiono nelle tre cantiche, nella loro esistenza terrena erano la «figura» della loro vita nell’aldilà, e, viceversa, la loro apparizione nell’aldilà è l’«adempimento» della loro esistenza sulla terra. L’esistenza dell’individuo nella vita terrena ha qualcosa di provvisorio e imperfetto, che trova un completamento solo nella collocazione eterna nel sistema delle pene e delle beatitudini. Ciò dà ragione del potente realismo che caratterizza la rappresentazione dantesca: la condizione eterna in cui i personaggi si trovano, essendo l’«adempimento» della loro «figura» terrena, non cancella affatto la loro personalità, ma al contrario potenzia al massimo livello le loro qualità individuali, palesa ciò che fu essenziale e decisivo nel loro carattere e nelle loro azioni. Perciò ciascuno, comparendo al suo posto nell’ordine oltremondano, recita il suo dramma con straordinaria densità e potenza, manifestando nel modo più incisivo ciò che caratterizzava la sua personalità nella vita terrena. Il giudizio divino e la condizione eterna consistono proprio nella piena estrinsecazione del carattere terreno dei personaggi: nell’aldilà dantesco si trasferisce così la concreta storicità terrena, con tutte le sue passioni e le sue tensioni (ci riferiamo alle note tesi di Erich Auerbach).
Beatrice addita a Dante il Sole, XIV secolo, miniatura dalla Divina Commedia di Dante, Paradiso, canto I, codice It. IX, 276, Venezia, Biblioteca Marciana.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Il titolo della Commedia e la concezione dantesca degli stili
Lo stile «umile»
Un nuovo sublime
Il «poema sacro»
Anche il titolo di Commedia fu posto da Dante al suo poema in obbedienza alle concezioni retoriche medievali. Si è già visto a proposito del De vulgari eloquentia come la cultura medievale desse molta importanza alla distinzione dei tre stili, «tragico», «comico» o «mezzano» ed «elegiaco» o «umile». Nell’Epistola a Cangrande ( T14, p. 279) Dante spiega perché la sua opera appartenga al livello «comico»: innanzitutto perché ha un inizio doloroso (l’Inferno) ed una fine lieta (il Paradiso), mentre la «tragedia» ha un inizio lieto e un finale doloroso; in secondo luogo per lo stile, che è quello «dimesso e umile» in cui «comunicano anche le donnette». Sarebbe errato pensare che Dante definisca «umile» il suo stile perché il poema è scritto in volgare: sappiamo dal De vulgari eloquentia come Dante fosse convinto che anche in volgare si può scrivere in stile «tragico»; e lui stesso riteneva di averlo dimostrato nelle grandi canzoni, in cui aveva usato il «bello stilo» che gli aveva «fatto onore». Quindi per Dante lo stile della Commedia è umile indipendentemente dal fatto che la lingua usata sia quella volgare. L’affermazione citata dell’Epistola a Cangrande può sembrare sorprendente, in quanto l’argomento del poema è dei più sublimi, la realtà eterna delle anime dopo la morte, e pare anche essere in contraddizione con i vari punti del poema in cui Dante dimostra piena coscienza dell’altezza della sua opera. La realtà è che Dante propone un nuovo tipo di sublime: non più quello della classicità, che si limitava a rappresentare solo ciò che fosse nobile ed elevato, con rigorosa e aristocratica esclusione di tutto ciò che fosse umile e quotidiano, ma un sublime ispirato alla visione cristiana della vita, che non teme di accogliere in sé anche gli aspetti più concreti e dimessi del reale, sino a quelli più bassi e più turpi, senza per questo veder sminuita la sua sublimità. Alla base di questa nuova idea di sublime sta, come si è già visto, la fede in un perfetto ordine divino del mondo, in cui tutta la realtà, nei suoi aspetti molteplici e opposti, trova un senso, un fine e quindi anche una dignità. Per definire questo nuovo tipo di sublime che informa la sua opera Dante giunge poi ad elaborare una formula nuova, che esce dagli schemi retorici classici del «tragico» e del «comico»: il «poema sacro», a cui «ha posto mano e cielo e terra» (Paradiso, XXV, vv. 1-2), il poema che abbraccia la realtà imperfetta degli uomini e l’eterna verità di Dio, il caos e la miseria della terra e l’immobile perfezione del cielo, chiudendo il tutto in una salda sintesi (Auerbach).
Il plurilinguismo dantesco L’innalzamento dello stile nelle tre cantiche
L’Inferno: lo stile «aspro»
Lo stile elevato nell’Inferno
La molteplicità degli aspetti reali, dai più bassi ai più elevati, che sono accolti nel poema, si riflette nella molteplicità dei piani stilistici e linguistici. Lingua e stile si innalzano progressivamente nelle tre cantiche in corrispondenza con l’innalzarsi della materia. Un diagramma esemplificativo di questo innalzamento può essere segnato da tre vocaboli diversi che nelle tre cantiche Dante usa via via per designare oggetti analoghi: nell’Inferno Caronte è un «vecchio», nel Purgatorio Catone è un «veglio», nel Paradiso san Bernardo è un «sene»; come si vede, si passa dal termine più usuale e corrente («vecchio») ad un termine più eletto e letterario, di origine francese («veglio»), per giungere al puro latinismo, dotto e solenne («sene»). Ma, una volta individuato questo diagramma ascendente, bisogna precisare che in nessuna delle tre cantiche il livello stilistico è unico. Nell’Inferno spicca l’intensa espressività dello stile «aspro», fatto di termini rari e a volte crudamente dialettali («piote», «berze», «accaffi», «accocchi», «introcque»), vocaboli plebei e scurrili («puttana», «merda», «cul»), di rime rare e difficili, dai suoni striduli e sgradevoli («incrocicchia», «nicchia», «picchia»; «scuffa», «muffa», «zuffa»). Questo stile «aspro» compare in genere di fronte alla materia più turpe, a segnare il distacco polemico del poeta. Ma non mancano passi di linguaggio letterario elevato, come i versi dedicati a Beatrice nel II canto («O donna di 287
L’età comunale in Italia
Testo interattivo Pier della Vigna dall’Inferno, XIII
La mescolanza degli stili nel Purgatorio
Testi interattivi • L’esordio del canto I dal Purgatorio, I • «Ahi serva Italia…» dal Purgatorio, VI
Il Paradiso
Testo interattivo L’esordio del canto I dal Paradiso, I
Il filone del plurilinguismo
virtù, sola per cui / l’umana spezie eccede ogni contento / di quel ciel ch’ha minor li cerchi sui», vv. 76-78), o le terzine del racconto di Francesca, che riprendono il linguaggio e le formule della poesia cortese («Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», Inferno, V, v. 100), oppure anche le formule artificiose e lambiccate del maestro di retorica Pier della Vigna (canto XIII). In questo crogiolo linguistico non mancano parole del linguaggio domestico («mezzul», «lulla»), termini tecnici della marineria («terzaruolo», «artimon»), della medicina («idropesì»), per giungere sino all’invenzione di linguaggi cifrati o barbarici (il famoso «Pape Satàn, pape Satàn aleppe» di Pluto, VII, v. 1, e il grido dei giganti, «Raphèl maì amecche zabì almi», XXXI, v. 67). Nel Purgatorio il linguaggio si fa più elevato e nobile, coerentemente con il carattere della cantica, ma anche qui la varietà dei livelli stilistici è notevole. Si pensi solo all’invettiva sarcastica contro Firenze nel canto VI, dove ricompare il linguaggio plebeo («non donna di province ma bordello», v. 78), e, all’estremo opposto, al livello della sublimità ardua o preziosa, si ricordino le terzine filosofico-politiche di Marco Lombardo al canto XVI, o l’inserzione di versi in lingua d’oc, messi in bocca ad Arnaut Daniel nel canto XXVI («Tan m’abellis vostre cortes deman...», vv. 140-148), o il tripudio mistico dell’apparizione di Beatrice, in cui si mescolano il latino di Virgilio («Manibus o date lilia plenis», v. 21), quello biblico («Veni sponsa de Libano», v. 11), e quello evangelico («Benedictus qui venis», v. 19). Nel Paradiso, a rendere il senso di un’ardua esperienza, l’ascesa verso la visione ineffabile di Dio e l’acquisizione di una conoscenza sempre più profonda della verità, Dante ricorre ad un linguaggio di eccezionale sublimità, composto di latinismi («verba», «requievi», «festino», «cerne», «fleto», «concipio», «lude»), provenzalismi e francesismi preziosi («fallanza», «donnea», «dolzore»), neologismi arditissimi («insemprarsi», «adimare», «immiarsi», «intuarsi», «immillarsi», «trasumanar»); nonostante questo, non esita a ridiscendere a termini concreti e plebei nei passi di più violenta invettiva politica e morale, come quella contro i villani inurbati in Firenze («... e sostener lo puzzo / del villan d’Aguglion, di quel da Signa, / che già per barattare ha l’occhio aguzzo!», XVI, vv. 55-57, dove tornano le rime «aspre e chiocce» già viste nell’Inferno), o quella di san Pietro contro i suoi successori degeneri («Quelli ch’usurpa in terra il loco mio / [...] fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza», XXVII, vv. 22-26), o ancora quella di Cacciaguida contro la «coscienza fusca» dei personaggi menzionati da Dante («... e lascia pur grattar dov’è la rogna», XVII, v. 129). Con questa pluralità di piani linguistici, perseguita con oltranza estrema per tutta l’opera, Dante inaugura un filone della nostra letteratura che si compiace delle ardite mescolanze stilistiche, dei forti contrasti che intensificano l’espressività del linguaggio. Questo filone nei secoli successivi assumerà sempre una funzione di polemica e di rottura, mentre il modello dominante e “regolare” della tradizione poetica italiana sarà fissato dallo stile petrarchesco, rigorosamente monolinguistico, schifiltoso della quotidiana e ruvida realtà, dominato da un ideale classico di equilibrio, armonia e decoro, che rifiuta ogni violenza espressiva ed ogni stridore di livelli stilistici.
La pluralità dei generi La Commedia non coincide con nessun genere
Testi La farsa “carnevalesca” dei diavoli dall’Inferno, XXI-XXII
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Il poema totale, che abbraccia tutto il reale nella sua molteplicità, non può restare chiuso nell’ambito di un unico genere letterario. Come si è visto ( Gli antecedenti culturali del poema, p. 283), la Commedia ha molti antecedenti culturali, classici e medievali, ma non coincide con nessun genere specifico consacrato dalla tradizione. Nella sua struttura, voracemente disponibile, confluisce una somma di generi diversi: il poema didascalico e allegorico, l’enciclopedia, la profezia apocalittica, la commedia (proprio nel senso teatrale: si veda l’episodio dei diavoli nella bolgia dei barattieri, Inferno, XXI-XXII), la tragedia (la morte di Ugolino e dei figli, scandita da rare battute, lunghi silenzi, gesti disperati), l’epica (l’ultimo viaggio di Ulisse), la satira sarcastica («Godi, Fiorenza, poi
Capitolo 4 · Dante Alighieri
La struttura narrativa
che se’ sì grande / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande!», Inferno, XXVI, vv. 1-3), l’invettiva («Faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme...», Inferno, XV, vv. 73-74), la lirica elegiaca («Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio», Purgatorio, VIII, vv. 1-3). Ma la struttura che costituisce il supporto di questa pluralità di generi è la narrazione. Fondamentalmente la Commedia è un’opera narrativa. È su questa base che si innestano i vari generi, trovando in essa l’unità. In altri climi culturali, come quello idealistico e decadente fra le due guerre, il poema dantesco veniva spesso letto come una serie di frammenti lirici; la struttura narrativa (quella che Croce chiamava, con formula scopertamente spregiativa, «romanzo teologico-politico») era svalutata e spinta in secondo piano, come fondamentalmente estranea alla «poesia» dantesca. Oggi invece si tende a mettere in primo piano la narratività del poema, la struttura essenzialmente di racconto che esso possiede, percorsa da una tensione che è fatta di sospensioni, sorprese, accelerazioni del ritmo, rallentamenti, pause descrittive e riflessive. L’opera è soprattutto il racconto di un viaggio-esperienza, proteso inesorabilmente verso un punto terminale, che imprime a tutta la vicenda la sua dinamicità: la visione di Dio.
La tecnica narrativa della Commedia: la focalizzazione
Dante narratore e Dante personaggio nella Commedia
Testo critico J. Freccero
La focalizzazione sul personaggio
Gerione
Accertata la natura eminentemente narrativa del poema, diviene essenziale stabilire come esso è raccontato, mediante quali tecniche e quali procedimenti. Un’analisi dettagliata, che renda conto di tutte le varietà di tecniche impiegate, è qui ovviamente impossibile; ci limiteremo perciò ad alcune indicazioni generali. La vicenda è narrata in prima persona dal suo stesso protagonista: la Commedia è perciò un racconto autodiegetico. È indispensabile però avere ben chiara la distinzione tra Dante narratore e Dante personaggio, che ha una funzione determinante nella costruzione del racconto. Il Dante che narra non coincide col Dante che vive gli avvenimenti narrati. Il racconto avviene a distanza di tempo dai fatti, quando già l’esperienza è conclusa: pertanto il Dante narratore ha una conoscenza infinitamente superiore a quella del Dante personaggio, che vive progressivamente l’esperienza del viaggio e dell’apprendimento. Questa superiorità spesso emerge in piena evidenza, perché il narratore interviene con avvertimenti o appelli al lettore, preannunci di cosa accadrà in seguito, spiegazioni, commenti, considerazioni generali, da cui risulta la sua più ampia conoscenza. Può tuttavia instaurarsi anche il procedimento contrario, cioè la focalizzazione del racconto sul protagonista. La vicenda spesso viene presentata dal punto di vista del Dante personaggio, che vive immerso nei fatti e non sa ancora come essi andranno a finire, o non riesce a coglierne subito tutto il senso, o addirittura non capisce bene che cosa stia succedendo. L’adozione del punto di vista del personaggio determina cioè una restrizione del campo visivo, una limitazione temporanea dell’informazione fornita al lettore. Un esempio chiarirà subito il procedimento. Nel canto XVI dell’Inferno Virgilio, dal ciglio del burrone che separa il cerchio dei violenti dalle Malebolge, getta nell’abisso la corda che cingeva i fianchi di Dante, e avverte che ben presto verrà su dal fondo ciò che Dante attende. A questo punto si verifica la focalizzazione sull’ottica del personaggio. Il Dante narratore, che ovviamente sa già tutto, non spiega che cosa sia ciò che sale dal fondo dell’abisso; la scena viene vista con l’occhio del Dante personaggio, che è del tutto ignaro. Pertanto anche il lettore resta all’oscuro, e scopre le cose man mano che si rivelano alla vista del personaggio: una figura indistinta viene «notando» in su, ma Dante non riesce a distinguere di che cosa si tratti a causa dell’aria scura e caliginosa. Su questa incertezza, che accomuna personaggio e lettore, termina il canto. La pausa tra i due canti accentua ulteriormente la sospensione narrativa. Solo all’inizio del canto XVII, quando la figura emerge pienamente alla vista del Dante personaggio, si ha la rivelazione del mistero, e la curiosità del lettore è finalmente soddisfatta: si tratta del mostro Gerione, «sozza imagine di 289
L’età comunale in Italia
La funzione della focalizzazione interna
froda», con la «faccia d’uom giusto» e il resto del corpo in forma di serpente con la pelle maculata e con la coda di scorpione velenoso. La focalizzazione sull’ottica del personaggio crea un effetto di sospensione narrativa, conferendo al racconto una forte tensione dinamica. Il procedimento ha dunque una funzione centrale nella costruzione del poema: fa vivere dall’interno, e perciò con maggiore intensità drammatica, ciò che costituisce l’essenza del viaggio, l’ardore inesausto di conoscenza, la tensione della continua scoperta del pellegrino, che si protende avanti verso la sua meta, vivendo un’eccezionale esperienza intellettuale, morale, religiosa. La forma narrativa adottata risponde perfettamente al senso profondo dell’opera.
La descrizione dinamica
Caronte
Oltre alla focalizzazione sul Dante personaggio altri procedimenti contribuiscono a determinare la tensione dinamica della narrazione. Non sono frequenti nella Commedia gli indugi descrittivi, cioè passi in cui il fluire della storia narrata si arresti completamente per fornire il ritratto di una figura o un quadro di paesaggio (tempo della storia = 0). Dante preferisce di gran lunga la descrizione dinamica: il ritratto o il quadro paesistico risultano da una somma di particolari forniti via via mentre la narrazione continua a scorrere e i personaggi agiscono. Un esempio significativo è la presentazione di Caronte, nel canto III dell’Inferno. Non vi è un ritratto del personaggio “in posa”, mentre la narrazione è sospesa, o, per usare un’immagine cinematografica, Dante non si sofferma su un fotogramma fisso, arrestando l’avanzare della pellicola: dissemina qua e là nel racconto delle azioni di Caronte alcuni cenni, che, sommandosi, rendono l’idea della figura complessiva. Al suo primo apparire ci vien detto che è un «vecchio, bianco per antico pelo»; poi si fa cenno alle «lanose gote», che si quietano quando Virgilio spiega che Dante è mosso dalla volontà divina; subito dopo sono menzionate le «rote» di fiamma intorno agli occhi, poi ancora si insiste sugli «occhi di bragia» di «Caron dimonio», mentre questi batte col remo le anime lente a salire sulla barca. I particolari della figura riproducono fedelmente quelli già fissati da Virgilio nel VI libro dell’Eneide; ma le tecniche narrative usate dai due poeti sono opposte: se Dante punta sulla costruzione dinamica, in azione, del ritratto, Virgilio ferma invece il fluire della narrazione, per dare un ritratto completo del personaggio “da fermo”, in tutti i dettagli; e solo dopo che il ritratto è completato il racconto riprende a scorrere.
Aligi Sassu, Caronte, 1980-86, pittura ad acrilico.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri Il paesaggio dell’Acheronte
Con la stessa tecnica Dante evoca il paesaggio in cui si situa Caronte. Anche in questo caso non vi è una descrizione statica, ma una serie di particolari che si inseriscono nello scorrere dell’azione. Prima è il «gran fiume» sulla cui riva Dante scorge una folla di anime; poi l’accenno al «fioco lume» che non gli permette di discernere chiaramente la scena, accenno che basta da solo ad evocare un’atmosfera e uno scenario; poi quello alla «livida palude», che dà l’idea dell’Acheronte come una corrente fangosa e lenta, quasi immobile; ed infine ancora un altro cenno rende più netta l’impressione, l’«onda bruna» su cui avanza la barca di Caronte.
I racconti di secondo grado: lo scorcio e l’ellissi
Le infinite prospettive dei narratori di secondo grado
Lo scorcio e l’ellissi
Sinora si è tenuto presente il filone centrale del racconto, il viaggio di Dante. Ma da questo tronco si diparte tutta una serie di diramazioni narrative laterali: sono i racconti fatti dalle varie anime, che rivelano a Dante le loro storie. Si tratta di narrazioni di secondo grado, inserite all’interno della prima: quelli che nel racconto 1° sono personaggi, nel racconto 2° divengono narratori. Alla prospettiva del Dante narratore si aggiungono quindi le innumerevoli altre prospettive di questi narratori di secondo grado. Il rifrangersi della realtà vissuta attraverso queste infinite prospettive rende anch’esso, insieme con la pluralità dei livelli linguistici e dei generi letterari, il senso della molteplicità del reale che viene a confluire nel «poema sacro» a cui «ha posto mano e cielo e terra». Tutte queste storie sono accomunate da una stessa tecnica narrativa, quella dello scorcio e dell’ellissi. I personaggi non narrano per disteso, dall’inizio alla fine, le loro vicende. Il racconto insiste solo sul momento centrale, quello in cui tocca il culmine la tensione drammatica e si addensa tutto il significato dell’esperienza vissuta. Così Francesca (Inferno, V, T16, p. 308), dopo aver riassunto il senso della sua storia nelle tre terzine che incominciano con la parola «amore», si sofferma solo sul momento della lettura del romanzo di Lancillotto, che determina la rivelazione reciproca dell’amore; Ulisse (Inferno, XXVI, T19, p. 329) insiste solo sul suo ultimo viaggio; Ugolino (Inferno, XXXIII, T20, p. 338) proclama esplicitamente di voler sorvolare sull’antefatto della vicenda e indugia solo sugli ultimi giorni, in cui matura la sua tragedia di padre che vede morire i figli sotto i suoi occhi senza poter fare nulla; Buonconte da Montefeltro (Purgatorio, V) narra solo dal momento in cui si allontana dal campo di battaglia di Campaldino, ferito alla gola e «sanguinando il piano», per andare a spirare con il nome di Maria sulle labbra sulla riva del fiume; Piccarda Donati (Paradiso, III) racconta solo dal momento in cui viene strappata con la forza dalla «dolce chiostra», e stende un velo di riserbo sulla sua vita successiva («Iddio si sa qual poi mia vita fusi»). Da questa tecnica dello scorcio deriva quella densità potente, quella forza concentrata che caratterizza il racconto di Dante, quel dire tutto in poche battute essenziali, attraverso pochi particolari altamente significativi.
Lo spazio e il tempo
Lo spazio verticale
Poiché la struttura portante del poema è narrativa, la dimensione spaziale e quella temporale assumono una funzione determinante: non vi può essere infatti movimento narrativo che non si articoli lungo l’asse dello spazio e quello del tempo, dato che la narrazione è una serie di azioni che si dispongono in un certo scenario e in una certa successione cronologica. In particolare la dimensione spaziale è connaturata con l’esperienza del viaggio, che è appunto movimento nello spazio. Nella Commedia si tratta di uno spazio non solo fisico, naturale, ma metafisico, simbolico. Il suo significato fondamentale risiede nella sua verticalità. Vi è nella configurazione spaziale del mondo dantesco una fondamentale opposizione “basso” vs “alto”, che implica una gerarchia morale: il “basso” è il luogo della materialità e del peccato, ed è costituito dall’inferno, una voragine nelle viscere della terra, al cui fondo vi è Lucifero, pura massa di materia 291
L’età comunale in Italia
La direzione prestabilita del viaggio
senza luce spirituale. L’“alto” è invece il luogo della salvezza, della beatitudine, dello spirito, il paradiso, sede di Dio. Una connotazione accessoria dell’opposizione “basso” vs “alto” è l’altra opposizione “buio” vs “luce”, anch’essa carica di significati simbolici. Il viaggio di Dante segna appunto una traiettoria verticale, dal basso verso l’alto, dal buio alla luce. Ed è una traiettoria rigorosamente prestabilita: non si aprono dinanzi a Dante bivi, biforcazioni, che generino il dubbio e pongano dinanzi alla possibilità di una scelta tra due vie diverse; tanto meno Dante ha di fronte una gamma aperta di infinite direzioni, quindi di possibilità, tra cui scegliere (come avranno poi i cavalieri di Ariosto, nel loro continuo errare in un mondo dominato dalla Fortuna). La direzione verticale del viaggio e l’opposizione spaziale “basso” vs “alto” si collocano quindi all’interno di quella visione di un perfetto ordine divino del mondo, in cui ogni particolare ha una sua collocazione disposta da Dio. La libertà dell’uomo non consiste per Dante nello sperimentare direzioni diverse, nel costruire cioè un suo ordine del reale, ma solo nella possibilità di adeguarsi all’ordine dato o di rifiutarlo, con le terribili conseguenze che ne derivano; cioè, nei termini della simbologia spaziale, solo di salire o scendere secondo un’unica direzione verticale.
Visualizzare i concetti
La tecnica narrativa della Commedia NARRATORE DI I GRADO
NARRATORI DI II GRADO
autodiegetici
Le anime che Dante-personaggio incontra nel suo viaggio gli narrano le loro vicende terrene; questi racconti sono caratterizzati dalle tecniche dello scorcio e dell’ellissi, poiché insistono sul momento cruciale della vita di ciascun personaggio, tralasciando il resto
variabile
Il punto di vista dal quale sono raccontati i fatti è ora quello di Dante-narratore, ora quello di Dante-personaggio, ora quello dei vari personaggi secondari (nelle narrazioni di II grado)
oggettivo / soggettivo
I regni oltremondani e la condizione ultraterrena delle anime dannate o beate si collocano nella dimensione oggettiva dell’eterno; il viaggio di Dante-personaggio e le vicende terrene evocate dalle anime si collocano invece sull’asse del tempo soggettivo (percepito e vissuto dai personaggi), che è quello umano e storico
VELOCITà DEL RACCONTO
descrizioni dinamiche
Raramente il tempo della storia si interrompe per dar luogo a una pausa descrittiva; quasi sempre i personaggi e i paesaggi sono descritti mentre la narrazione della storia continua a procedere
SPAzIO
significato reale e simbolico
L’aldilà è uno spazio fisico e naturale reale, ma ha nello stesso tempo un significato simbolico, nel quale riveste un’importanza fondamentale l’opposizione “basso” (= peccato) vs “alto” (= salvezza)
fOCALIzzAzIONE
TEMPO
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autodiegetico
Il narratore della vicenda, Dante, è il protagonista della stessa; la distanza temporale tra il viaggio e la sua narrazione fa sì che Dante-narratore abbia una conoscenza dei fatti maggiore rispetto a Dante-personaggio
Capitolo 4 · Dante Alighieri La dimensione temporale
Tempo oggettivo e soggettivo
L’eterno e la storia
Arte Rappresentazioni dell’aldilà
Anche la dimensione temporale è essenziale a strutturare i significati del poema. I regni oltremondani rappresentano l’eterno: la condizione delle anime è fissata per l’eternità (con l’eccezione del purgatorio, che è condizione transitoria, destinata a scomparire dopo il Giudizio, risolvendosi in quella paradisiaca). La dimensione temporale oggettiva della Commedia è quindi costituita dall’eterno, che è propriamente assenza di tempo. Ma questo non significa affatto che il tempo manchi, nel poema. Oltre al tempo oggettivo vi è anche un tempo soggettivo, quello del pellegrino che compie il viaggio: ed è un tempo finito, tutto scandito dall’ansia di avanzare nella conoscenza, di giungere all’ultima meta. Questo tempo soggettivo è fatto di timori, scoramenti, speranze, momenti di slancio e di entusiasmo, di rapimento mistico. È questa dimensione soggettiva del tempo che conferisce la spinta dinamica al movimento narrativo. Ma si è anche visto che sulla struttura centrale del viaggio si innestano altri racconti, quelli degli innumerevoli personaggi che rievocano le loro vicende terrene. Grazie ad essi, nella fissità immobile dell’eterno si aprono continuamente spiragli di temporalità storica, contingente. Che rapporto si instaura tra le due dimensioni, l’eterno e il tempo umano dei personaggi? La risposta può essere trovata nella concezione figurale di Dante ( La concezione figurale, p. 286): come sappiamo, l’eterno non nega affatto quella temporalità umana; anzi, essendo «adempimento» definitivo di ciò che nella vita era solo prefigurazione provvisoria, potenzia al massimo grado l’individualità concreta di ciò che è storico. Si capisce perciò come «l’aldilà sia eterno e nondimeno fenomeno, senza mutamento e senza tempo e nondimeno pieno di storia. [...] Le onde della storia battono fino nell’aldilà, in parte come ricordo del passato terreno, in parte come partecipazione al terreno presente, in parte come ansia per il terreno futuro, ma ovunque come, in senso figurale, temporalità contenuta nell’eternità senza tempo» (Auerbach).
La struttura simmetrica del poema
La simbologia dei numeri
Se la molteplicità di prospettive narrative, di livelli stilistici, di generi letterari riflette la molteplicità di aspetti del reale che il «poema sacro» deve raccogliere in sé, non bisogna mai dimenticare che Dante ha la salda fede che questa pluralità sia racchiusa in un ordine unitario che regola tutto l’universo, ed in cui si manifesta l’impronta stessa di Dio («forma / che l’universo a Dio fa simigliante», Paradiso, I, vv. 104-105). Questa fede nell’ordine universale che si sovrappone alla molteplicità del reale si riflette nella strutturazione rigorosamente geometrica entro cui si organizza la sterminata e proliferante materia del poema. Queste simmetrie racchiudono in sé un senso profondo, che si esprime essenzialmente nella simbologia dei numeri. I princìpi regolatori dell’architettura del poema sono il numero tre e il numero dieci, numeri fondamentali per la mistica medievale: il primo è il simbolo della trinità, l’altro racchiude in sé sia il tre sia l’uno, alludendo sempre al mistero di Dio. Tre sono le cantiche, come i regni dell’oltretomba, ciascuna divisa in trentatré canti, più un canto che funge da proemio a tutto il poema, in modo da dare il totale di cento canti, che è il numero dieci moltiplicato per se stesso. L’inferno è suddiviso in nove cerchi, più un vestibolo detto anche Antinferno; i dannati sono ripartiti in tre grandi sezioni, che comprendono rispettivamente i peccati di incontinenza, violenza, frode. Il purgatorio è suddiviso in sette cornici, più un antipurgatorio e il paradiso terrestre, che danno di nuovo il numero nove (che è tre moltiplicato per se stesso; si ricordi la simbologia della Vita nuova). Anche qui vi sono tre sezioni: le anime espianti sono distribuite a seconda che l’amore sia stato diretto al male, o, se al bene, con troppo o troppo poco vigore. Il paradiso è distinto in nove cieli, più l’Empireo, che è la sede esclusivamente spirituale di Dio: di nuovo l’uno e il nove; i beati sono suddivisi in tre grandi sezioni, a seconda che il loro amore per Dio fu mescolato di interessi mondani, o si manifestò in una vita attiva o contemplativa. Anche il metro è governato dal numero tre, e rimanda pertanto all’idea della trinità: la terzina a rime incatenate, secondo lo schema ABA, BCB, CDC ecc. 293
L’età comunale in Italia
Interpretazioni critiche
Pietro Cataldi Dante e la logica del guadagno bassa
La Commedia nasce dall’intuizione di una catastrofe della civiltà, quella medievale fondata sul potere universale dell’Impero e della Chiesa e sull’organizzazione feudale della società. Dante individua l’origine della rovina nel denaro, nella ricerca della ricchezza, che, dando un prezzo Pietro Cataldi mira a collocare l’opera alle cose, toglie loro il significato fissato dall’ordine divino entro precise coordinate storiche, con del mondo: di conseguenza i valori fondamentali su cui si particolare riferimento al contesto sociale reggeva la vita umana gli appaiono cancellati. Per formaed economico e alle idee che ne scaturizione Dante apparteneva a una società non ancora condiscono. Al tempo stesso però il suo intenzionata dai nuovi falsi valori borghesi, per cui, con gli occhi to è evitare che la Commedia divenga solo soggetto di studio specialistico, di di una diversa civiltà, è nella condizione di meglio vedere scarso interesse per i lettori comuni e sonel suo sorgere un mondo dominato esclusivamente dalla prattutto per i giovani, e di far sì, al contralogica del guadagno e di coglierne l’orrore. Nel canto I rio, che sia ancora una lettura viva e di dell’Inferno questi temi prendono corpo nell’immagine stimolo per il presente. della «lupa», in cui si riconosce la personificazione allegorica della logica economica, dell’avidità di denaro, che si avvia a dominare il mondo. Ancora nel canto IX del Paradiso Dante si scaglierà contro il «maladetto fiore» del fiorino, la moneta di Firenze, che era la moneta di riferimento negli scambi internazionali, e vede dietro al trionfo del denaro l’azione di Satana.
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Se è lecito – e forse doveroso – chiederci perché Dante abbia scritto il poema, non meno lecito – e non meno doveroso – sarà chiederci se noi si sia oggi ancora interessati a quelle ragioni, e nella condizione di condividerle, almeno in parte. Ora, l’idea di salvarsi da una condizione catastrofica inventando nuove forme di ricostruzione del senso appare particolarmente attuale, non solo per la nostra percezione di vivere all’interno di una spaventosa catastrofe di civiltà, ma per la connessa difficoltà a ricostruire i legami fra parole e cose, cioè ad attribuire significato e valore all’esperienza e alla vita. La Commedia è stata composta anche contro qualcosa; anzi, si ha spesso l’impressione che gli obiettivi polemici siano nel poema ancor più nettamente definiti che non le finalità positive. Dante si scaglia contro religiosi e politici corrotti, contro valori sociali che hanno pervertito ogni possibile buona convivenza umana, contro abitudini degli individui che li distolgono dalla salvezza per asservirli ai disvalori collettivi e alla corruzione pubblica; ma fissa anche l’origine comune di tutta questa rovina in un’entità di alto valore simbolico, che anima il male nelle sue varie forme: il denaro, l’oro, la ricchezza. D’altra parte la civiltà del guadagno fondava proprio in quei decenni una possibilità di relazione fra cose e significati che ne ridislocava1 fatalmente il valore: acquistando un prezzo, e sempre più coincidendo nella communis opinio2 con un prezzo, le cose vedevano attenuarsi il proprio significato trascendente. La secolarizzazione3 del mondo procedeva quale secolarizzazione dei valori del mondo; secolarizzandosi, il valore delle cose rivelava un fondamento esclusivamente convenzionale, cioè nessun fondamento. […] Dante, appartenendo per formazione a una società ancora non pregiudicata dai nuovi
1. ridislocava: spostava, trasferiva su altro. 2. communis opinio: opinione comune.
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3. secolarizzazione: privazione del valore religioso.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
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valori borghesi, e avendo anzi istintivamente rafforzato i propri legami culturali con una fase perfino precedente dello sviluppo storico, idealizzandone i valori, era nella specialissima condizione di vedere i lineamenti albali4 di un mondo colonizzato dalla logica del guadagno senza averne ancora interiorizzato i valori e la inevitabilità. Dante riesce dunque a vedere tragicamente, per così dire nella sua interezza, l’orrore; quell’orrore del quale è parte non secondaria la facoltà di assuefare e omologare5. Dante vede infine un mondo già simile per molti aspetti al nostro, e dal quale comunque il nostro sarebbe derivato, con gli occhi di una diversa e contraria epoca storica. Ne deriva, come sappiamo, che la Commedia è forse l’opera più duramente distruttiva della letteratura occidentale: l’intera società contemporanea del poeta è rifiutata e scagliata dentro la nera voragine dell’Inferno. Contro la secolarizzazione del mondo, Francesco d’Assisi è promosso, nell’XI del Paradiso, al titolo di «sole» (v. 50) e anche in altro modo paragonato a Cristo (v. 72) […]. L’«ignota ricchezza» (Par. XI, v. 82) esaltata nella povertà6 costituisce un consapevole rovesciamento del comune sentire. Nel primo canto dell’Inferno questi temi si presentano già con forza, occupando subito il centro del quadro. L’ostacolo decisivo che impedisce al pellegrino di proseguire il cammino verso il colle e la salvezza è infatti costituito dalla lupa, le notizie sulla quale fornite dal testo impongono di leggervi una personificazione perturbante della logica economica scesa a dominare il mondo («mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ’l pasto ha più fame che pria»: vv. 98-99). […] Fra gli innumerevoli luoghi del poema nei quali Dante avrà modo di riprendere la critica, qui implicita, alla civiltà del guadagno, uno ha un rilievo particolare rispetto all’assetto complessivo del canto proemiale:
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La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ’nvidia tanto pianta, produce e spande il maladetto fiore c’ha disvïate le pecore e li agni però che fatto ha lupo del pastore7. (Par. IX, 127-132)
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Il maledetto fiorino era, nel mercato internazionale dei cambi, la principale valuta di riferimento (come oggi il dollaro o l’euro), anche in forza della scelta di coniarlo in oro zecchino; e la fortuna economica e mercantile di Firenze dipendeva anche dalla centralità della sua moneta. Tanto più forte risulta dunque l’invettiva dantesca, intenzionata a cogliere, come dietro la povertà francescana un’autentica ricchezza, la rovina disposta dal successo apparente della ricchezza. Fra denaro e Lucifero non c’è differenza: la città seminata da Satana è la stessa che trionfa nei mercati con la sua moneta d’oro; anzi da quel trionfo deriva che la città sia figlia di Lucifero. P. Cataldi, Dante e la nascita dell’allegoria. Il canto I dell’«Inferno» e le nuove strategie del significato, Palumbo, Palermo 2008
4. albali: colti nel loro formarsi. 5. quell’orrore … omologare: la logica del guadagno orrenda di per sé lo è ancor di più perché genera assuefazione e induce tutti a pensare allo stesso modo, per cui la gente non percepisce neppure più l’orrore.
6. povertà: la povertà francescana. 7. La tua città … pastore: la tua città (Firenze), che è la pianta seminata da Lucifero, colui che alle origini si ribellò al suo creatore e il cui odio (invidia) è stato la causa di tanti pianti (per l’umanità), produce e diffonde il
maledetto fiorino (su cui era effigiato il fiore del giglio, lo stemma della città), che ha messo sulla cattiva strada il gregge dei cristiani (agni, agnelli), per cui ha trasformato il pastore (il papa, che dovrebbe guidare il gregge) in lupo.
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L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Dopo aver letto attentamente il brano, riassumi sinteticamente i concetti principali che ti sembra di aver
compreso espressi alle righe 1-27, facendo soprattutto riferimento alle affermazioni già sottolineate nel testo. > 2. Alle righe 27-32 il critico espone l’idea centrale, cioè la sua tesi: danne una definizione sintetica in circa 5-6 righe (300 caratteri). ANALIzzARE
> 3.
Lessico Dopo aver consultato il dizionario, definisci l’esatto significato dei vocaboli «disvalori» (r. 12), «entità» (r. 13), «pregiudicata» (r. 21), «colonizzato» (r. 24), «perturbante» (r. 40).
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 4.
Esporre oralmente Alle righe 33-60, dove il critico presenta a dimostrazione della propria tesi tre esempi tratti dalla Commedia, vengono citati i versi 98-99 relativi alla lupa del I canto dell’Inferno. Perché la fiera è la «personificazione perturbante della logica economica scesa a dominare il mondo»? Nel rispondere (max 3 minuti), puoi considerare anche gli altri versi danteschi che la riguardano ( T15 , vv. 49-54 e 88-102, pp. 301 e 303-304). PASSATO E PRESENTE Catastrofe e salvezza
> 5. Rifletti sulle seguenti affermazioni: «l’idea di salvarsi da una condizione catastrofica inventando nuove forme di ricostruzione del senso appare particolarmente attuale» (rr. 3-5) e «Dante vede infine un mondo già simile per molti aspetti al nostro, e dal quale comunque il nostro sarebbe derivato» (rr. 27-29). Condividi, in base ai tuoi studi e alla tua esperienza personale, quanto affermato dal critico sull’attualità di Dante? Motiva la tua risposta dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe
Microsaggio
La configurazione fisica e morale dell’oltretomba dantesco Il prologo: la selva, il colle, le fiere, Virgilio Dante racconta inizialmente di essersi smarrito, all’età di 35 anni, in una «selva oscura», che rappresenta il peccato. Riesce ad uscire dalla selva dopo una notte di angoscia, comincia a salire un colle illuminato dal sole, che rappresenta la salvezza, ma il cammino gli è sbarrato da tre fiere, una lonza, un leone e una lupa, che rappresentano le tre grandi categorie di peccati che ostacolaVirgilio no il cammino dell’umanità verso la salvezza, la frode, la violenza, la cupidigia. In suo soccorso viene il poeta latino Virgilio, che gli rivela come, per raggiungere la salvezza, debba percorrere una via più lunga, attraverso l’inferno e il purgatorio, sino a salire di cielo in cielo verso Dio. Virgilio gli fungerà da guida sino alla cima del purgatorio; poi subentrerà una guida più alta, Beatrice. Virgilio rappresenta la ragione umana, che può guidare Dante solo nel campo in cui la ragione può arrivare; Beatrice rappresenta la teologia, la Verità rivelata, perciò guiderà Dante sino alla realtà sovrannaturale e ai misteri divini. La scelta di Virgilio come guida del viaggio nella sfera terrestre (sia l’inferno sia il purgatorio sono collocati in questa terra) ha varie motivazioni. Nel Medioevo Virgilio era considerato l’uomo più sapiente dell’antichità, per questo poteva essere assunto a rappresentare il culmine massimo a cui può giungere la ragione umana affidata alle sue sole forze, senza l’aiuto della rivelazione. Ma Virgilio nel Medioevo era anche ritenuto profeta inconsapevole della venuta di Cristo, a causa della IV Bucolica, in cui si parla della nascita di un «puer», un fanciullo che riporterà tra gli uomini l’età dell’oro: se dunque Virgilio è la ragione, si tratta non di una ragione orgogliosa delle proprie forze e ribelle, ma sottomessa alla verità divina. Inoltre Virgilio nel suo poema aveva cantato Enea, il capostipite dell’Impero romano, la cui restaurazione è uno dei fini essenziali del viaggio di Dante. Infine Virgilio per Dante è anche «maestro» di «bello stilo».
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Capitolo 4 · Dante Alighieri colle
Viaggio virtuale L’inferno
Il Limbo
La distribuzione dei peccatori
Gli incontinenti
La «città di Dite»
I violenti
Le bolge: i fraudolenti
Cocito: i traditori e Lucifero
Il contrappasso I mostri
I diavoli
ger usale m m e
L’inferno Prima di accingersi al suo viaggio nell’aldilà, porta dell’inferno Dante è preso da un momento di sconforto: ha il dubbio di affrontare un’impresa «folle», temeraria, selva oscura contraria alle leggi divine; ma Virgilio lo rassicura che la sua missione è voluta da Dio stesso. anti n f er no L’inferno è un’immensa voragine a forma di imbo/non battezza i cer ch io: l ti ii cerchio: lussuriosi ache cono rovesciato, che si apre nei pressi di Gerusaro nt iii cerchio: golosi e lemme e si sprofonda sino al centro della terra. Le : avari e prodighi iv ce rch io sue pareti sono divise in cerchi, in cui sono distriv cerchio: iracondi e acci diosi buiti i dannati a seconda dei peccati commessi. mur vi cerchio: eretici a de lla Prima dell’inferno vero e proprio, al di qua del fiucitt à d stige id me Acheronte che ne segna il confine, Dante colite vii cerchio: violenti bu loca gli ignavi, quelli che non seppero scegliere né rr ato f le ge il bene né il male. Il primo cerchio è costituito dal to nt e Limbo, in cui sono accolti non solo i bambini non ripa battezzati, ma anche gli antichi giusti vissuti prima di sco sc es a Cristo. Qui, in un «nobile castello» avvolto in una sfera luminosa, che si stacca dalle tenebre infernali, Dante trova r c h io: f r au d o le n t vi i i ce i i grandi poeti e filosofi del mondo classico, ma anche dotti arabi come Averroè. I peccatori veri e propri sono distinti da Dante, secondo un criterio derivante da Aristotele, in tre grandi sezioni, a seconda che le loro colpe derivino da incontinenza, violenza, malizia. La prima sezione (cerchi dal II al V) comprende peccatori che non hanpozzo dei giganti hio: tradito no saputo porre freno alle passioni: i lussuriosi, travolti da una bufera ix cerc ri incessante; i golosi, sferzati da pioggia e neve fetide; avari e prodighi, cocito che spingono col petto dei pesanti macigni; iracondi e accidiosi, immersi nelle acque fangose della palude Stigia. Le altre due sezioni sono lucifero racchiuse entro le mura infocate della «città di Dite», sorvegliate da diavoli che sbarrano l’accesso a Dante e Virgilio. Solo l’intervento di un angelo che fa fuggire i diavoli rimuove l’ostacolo. Subito al di là delle mura vi è il VI cerchio, quello degli eretici, che sono sepolti in sarcofagi di pietra infonatural burella cati. Il VII cerchio comprende i violenti. È diviso in tre gironi: i violenti contro il prossimo, immersi in un fiume di sangue bollente; i violenti contro se stessi (suicidi) trasformati in alberi nodosi e contorti; infine, in un sabbione rovente su cui piove fuoco, i violenti contro Dio (bestemmiatori), la natura (omosessuali) e l’arte (nel senso di mestiere: sono gli usurai, che violano la legge divina di ricavare un giusto compenso dal lavoro). Ai piedi di uno strapiombo roccioso si apre l’VIII cerchio, Malebolge, che comprende i fraudolenti, coloro che hanno usato inganno verso chi non si fida. Essi sono distribuiti in dieci fosse concentriche (bolge): i ruffiani e seduttori sono sferzati da diavoli, gli adulatori sono immersi nello sterco, i papi simoniaci cacciati a capofitto dentro delle buche, gli indovini hanno il viso stravolto verso la schiena, i barattieri sono tuffati nella pece bollente, gli ipocriti sono gravati da cappe di piombo dorato, i ladri si trasformano continuamente in serpenti, i consiglieri di frode sono avvolti da fiamme, i seminatori di scismi e discordie sono mutilati e sventrati da diavoli, i falsari sono colpiti da malattie ripugnanti come scabbia e idropisia. Il IX cerchio infine è costituito dal grande lago ghiacciato di Cocito, in cui sono immersi i traditori, coloro che hanno ingannato chi si fida (traditori dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori). Al centro del lago, che è anche il centro della terra, sta conficcato sino alla cintola Lucifero, immane mostro peloso con sei ali di pipistrello, con tre volti (parodia della Trinità divina), le cui tre bocche maciullano Bruto e Cassio, che tradirono Cesare, e Giuda, che tradì Cristo. Le pene obbediscono al principio del contrappasso: la pena risponde di norma al peccato (ad esempio la bufera dei lussuriosi rimanda alla forza travolgente della passione, i suicidi che distrussero il loro corpo sono privati del corpo, i seminatori di discordie hanno il corpo diviso). Custodi dei vari cerchi sono figure mostruose. All’inizio Dante le ricava dalla mitologia classica (ed in specie dal VI libro dell’Eneide): Minosse, Cerbero, Caronte, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione. Di queste creature mitologiche Dante accentua i tratti mostruosi, in certi casi trasformandole addirittura in demoni («Caron dimonio»). Dalle Malebolge in poi entrano in scena i diavoli (già comparsi brevemente sulle mura della città di Dite). Essi sono rappresentati secondo l’immagine tradizionale, con grandi ali di pipistrello, corna, zanne, e sono caratterizzati da una comicità beffarda e plebea, che riprende tutta una tradizione medievale.
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L’età comunale in Italia pa r a d i s o t e r r e s t r e
Viaggio virtuale Il Purgatorio
L’antipurgatorio
Le sette cornici
an
Il purgatorio Dante e Virgilio scendono lungo il corpo di Lucifero, aggrappandosi al vello del mostro. Attraverso un cunicolo risalgono vii cor nice: lussuriosi quindi nell’altro emisfero, ed emergono all’aria aperta sulla spiagv i cornic getta del purgatorio. Questo è un monte altissimo, che si erge e: golosi dall’oceano agli antipodi di Gerusalemme. Qui approdano gli v co rnice: avari e prodighi spiriti destinati alla purificazione, che si raccolgono dopo la iv corni ce: accidiosi morte alla foce del Tevere e sono trasportati al purgatorio da una navicella condotta da un angelo. iii cornice: iracondi Il monte è distinto in tre zone: in un antipurgatorio, che costituisce lo zoccolo del monte, devono sostare, ii cornice: invidiosi prima di iniziare la purificazione vera e propria, gli scomunicati, i pigri a pentirsi, i morti di morte violeni cornice: superbi ta, i principi negligenti. Dante accede al purgatorio attraverso una porta custodita da un angelo, che con una spada traccia sette P sulla sua fronte valletta fiorita (simbolo dei setti peccati capitali). Il purgatorio porta del purgatorio vero e proprio è distinto in sette cornici che contornano il monte. In ciascuna di esse è 2° balzo punito uno dei peccati capitali: i superbi sono gravati da macigni, gli invidiosi hanno le palpebre cucite, gli iracondi sono avvolti 1° balzo da un fumo acre, gli accidiosi corrono intorno alla cornice, gli avari e prodighi giacciono distesi a terra, i golosi sono scarnificati dal desiderio dei frutti profumati di un albero miracoloso, i lussurioia litar spiaggia so si sono immersi nel fuoco. Come si vede, anche qui le pene rispondono al principio del contrappasso, ora per somiglianza (il fuoco dei lussuriosi), ora per contrasto (i macigni che schiacciano a terra i superbi). In ogni cornice, in varie forme sono dati esempi di vizio punito e della virtù ad esso contraria. Custodi di ogni cornice sono gli angeli. Sulla cima del monte vi è la terza zona, il paradiso terrestre, sotto forma di un giardino, che Dante raffigura tenendo presenti le descrizioni dell’età dell’oro proposte dai poeti classici, oltre alla tradizione medievale del “luogo di delizie”. Il fatto che in cima al purgatorio vi sia il paradiso terrestre significa che, al termine della purificazione, l’uomo torna alla condizione di innocenza originaria, in cui si trovava nell’Eden, prima della colpa di Adamo. Qui Dante incontra una fanciulla che in riva a un limpido ruscello canta e coglie fiori: è Matelda, che simboleggia la felicità terrena perfettamente innocente, prima del peccato originale. Agli occhi di Dante si offre quindi una processione simbolica, che rappresenta i libri dell’Antico Testamento, le virtù teologali e cardinali, i sette doni dello Spirito Santo. Al termine di essa, su un carro trionfale trainato da un grifone, tra angeli tripudianti che cantano gettando fiori, compare Beatrice, che indirizza a Dante duri rimproveri, inducendolo a confessare le sue colpe. Attraverso un’altra scena allegorica gli rivela poi profeticamente la storia futura, in particolare la corruzione della Chiesa, e gli indica la sua missione. D’ora innanzi Beatrice (la Teologia) si sostituirà a Virgilio (la Ragione) come guida al viaggio di Dante. Questi viene immerso nel fiume Lete, che fa dimenticare le colpe, poi nel fiume Eunoè, che fa ricordare il bene compiuto, e a questo punto è «puro e disposto a salire a le stelle».
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La comparsa di Beatrice
Il paradiso La sede vera e propria dei beati è nell’Empireo, un cielo non fisico ma puramente spirituale che è al di là dei cieli materiali; però le anime, eccezionalmente, scendono a incontrare Dante nei vari cieli, per rendere manifesto alla sua percezione ancora umana l’ordinamento morale del paradiso. Viaggio virtuale Il Paradiso Ognuna di esse si presenta nel cielo che, con il suo influsso, è in relazione con la virtù da essa praticata. I cieli I cieli sono nove sfere concentriche, composte di materia cristallina e incorruttibile, che ruotano intorno alla terra. In ognuno di essi, tranne l’ultimo, è infisso un pianeta o una stella.
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o : n eg l i g e n t i ator i
Matelda
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Il paradiso terrestre
Capitolo 4 · Dante Alighieri e m p i r eo
I beati Nel cielo della luna vi sono le anime che, forzate dalla volontà
altrui, vennero meno ai voti; nel cielo di Mercurio coloro che furono attivi nel bene per amore di fama e onore; nel cielo di Venere quelli che seppero rivolgere a degno oggetto il loro impulso amoroso. Nei primi tre cieli compaiono quindi anime di minore perfezione, mentre nei candida rosa cieli successivi vi saranno spiriti più perfetti. Ma questa ripartizione non comporta gradi diversi di beatitudine: essa infatti consiste nell’adeguamento totale della creatura al volere di Dio, che l’assegna a quella determinata ix c ielo posizione; quindi, soggettivamente, ogni anima è perfethe (primo m el i c ang obile o crist archie r e a g l l : i ) n o tamente appagata, e non desidera una collocazione suvi i i c periore. La beatitudine paradisiaca è un assoluto, quindi ielo (d anti elle stelle fisse): spiriti trionf non può avere in sé distinzioni o gradazioni. vii ci elo (di Nel cielo del sole appaiono gli spiriti dei sapienti, i gransaturno): spiriti ontemplanti c di filosofi e mistici del Medioevo, quali san Tommaso e vi cielo (di giove): spiriti giusti san Bonaventura, nel cielo di Marte coloro che morirono v ci elo ( f ed e d i ma r combattendo per la fede, in quello di Giove i giusti, in te): spiriti combattenti per la quello di Saturno i contemplativi. Nel cielo delle stelle iv cielo (del sole): spiriti sapienti fisse tutti i santi celebrano il trionfo di Cristo e di Maria. Qui Dante subisce un vero e proprio esame teologico i i i ci e l o (di venere): spiriti amanti sulla fede, la speranza e la carità, da parte dei tre apostoli ii cielo Pietro, Giacomo e Giovanni. Nel nono cielo, il Primo Mo(di mercurio): spiriti attivi i ci bile, che è il più ampio e il più veloce, appare un’immagine elo i (della vot luna): spiriti mancanti ai simbolica di Dio come punto luminoso, circondato da nove sfera del fuoco cerchi di luce, che rappresentano le nove gerarchie angeliche L’Empireo che presiedono ai vari cieli. Di qui Dante passa al cielo di pura luce intellettuale, l’Empireo, vera sede dei beati. Nei vari cieli essi gli si erano presentati fasciati di luce (tranne quelli del cielo della luna, che conservavano diafane parvenze umane), e disposti in modo da formare varie figurazioni simboliche (due corone, una croce, la testa dell’aquila imperiale, una scala di luce). La rosa dei beati Nell’Empireo invece appaiono con quelle sembianze che avranno il giorno del Giudizio, vestiti di bianche stole e disposti sui gradini di un immenso anfiteatro, paragonato dal poeta a una candida rosa. Il centro di essa è dato dal raggio della luce divina che si riflette sulla superficie esterna del Primo Mobile. Tra la rosa dei beati e Dio fanno la spola gli angeli tripudianti, che volano in alto Testi «… di Fiorenza in popol per attingere la grazia e poi scendono a distribuirla di gradino in gradino tra le anime. Qui Beatrice torna al giusto e sano» dal Paradiso, XXXI suo seggio nell’anfiteatro, e ad essa subentra san Bernardo, il grande mistico, che rivolge la sua preghieSan Bernardo ra alla Vergine affinché interceda per Dante presso Dio. La sostituzione delle guide è significativa: la Teologia ha guidato Dante sino all’Empireo, ma per la visione ultima di Dio essa non è sufficiente, occorre uno slancio mistico. Dante segue con gli occhi il raggio della luce divina, finché arriva a fondersi colla divinità, e a cogliere i sommi misteri, l’unità e trinità di Dio e la doppia natura di Cristo.
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L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
Audio
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L’inizio del viaggio dall’Inferno, I Riportiamo integralmente il canto iniziale del poema.
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Nel mezzo del cammin di nostra vita1 mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita2. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia3 e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’ è amara che poco è più morte4; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte5. Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai6. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle7 giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta8 che mena dritto9 altrui10 per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor11 m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
versi 1-6 A metà del percorso della vita umana mi ritrovai per un bosco oscuro, poiché (che) avevo smarrito la via del bene (diritta). Ahimè, quanto è difficile e penoso (cosa dura) dire qual era questa selva selvaggia, intricata (aspra) e difficile da attraversare (forte), che al solo ripensarlo (nel pensier) fa rinascere (rinova) la paura! 1. Nel mezzo … vita: a trentacinque anni, come conferma un passo del Convivio (IV, XXVI, 6-10): «Tutte le terrene vite [...] convengono essere quasi ad imagine d’arco assimiglianti [...]; lo punto sommo di questo arco [...] io credo che ne li perfettamente naturati esso sia nel trentacinquesimo anno». Essendo Dante nato nel 1265, il viaggio oltremondano si colloca nel 1300, l’anno del primo giubileo, indetto da Bonifacio VIII, e più esattamente, come si desume da altri passi dell’Inferno, nel venerdì santo, non si è sicuri se il 25 marzo o l’8 aprile (vedi anche più oltre, vv. 38-40). La formula richiama un passo biblico, Isaia, 38, 10: «Nel mezzo dei miei giorni andrò alle porte dell’Inferno». L’aggettivo nostra indica come nel compie-
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re la sua esperienza Dante rappresenti tutta l’umanità. 2. mi ritrovai … smarrita: la selva allegoricamente rappresenta il peccato, in cui Dante singolo e tutta l’umanità sono sprofondati, smarrendo la via giusta (diritta), quella del bene. Il che ha valore causale. Smarrita indica una perdita temporanea, non definitiva. 3. selva selvaggia: figura etimologica. versi 7-12 (La selva) è tanto piena di angoscia (amara) che poco più (angosciosa) è la morte; ma per parlare compiutamente (trattar) del bene che io vi trovai, racconterò di altre cose che vi ho viste (scorte). Io non so bene spiegare (ridir) come io vi entrai, tanto ero addormentato (pien di sonno) nel momento in cui (che) abbandonai la via del bene (verace). 4. morte: si intende la morte eterna dell’anima, la dannazione. 5. ma per … scorte: il passo non è di agevole interpretazione. Il ben può essere Virgilio, cioè il soccorso divino, e l’altre cose possono essere i tentativi di uscire dalla selva, frustrati dall’ostacolo delle tre fiere di
Temi chiave
• l’allegoria del viaggio • la condanna dell’avidità • la figura di Virgilio • il punto di vista di Dante narratore e Dante personaggio
Luogo selva oscura Personaggi Dante e Virgilio
cui si parla più avanti (però né Virgilio né le fiere propriamente appaiono nella selva). 6. Io non so … abbandonai: il sonno indica il torpore dell’anima che l’abitudine al peccato ha ottenebrata, tanto che essa non si avvede più di peccare. L’immagine è ricavata dalle Sacre Scritture. versi 13-18 Ma dopo che (poi ch’) io (i’) fui giunto ai piedi di un colle, là dove terminava quella valle che mi aveva trafitto (compunto) il cuore di paura, guardai in alto e vidi i suoi pendii (spalle) già illuminati dai raggi del sole, che guida sempre l’uomo (altrui) nella direzione giusta, qualunque cammino (calle) percorra. 7. un colle: allegoricamente rappresenta la via della virtù, la felicità terrena che porta alla salvezza. 8. pianeta: nella concezione aristotelico-tolemaica il Sole è un pianeta che gira intorno alla Terra, centro immobile dell’universo. 9. dritto: avverbio. 10. altrui: pronome indefinito. versi 19-21 Allora si calmò (fu … queta) un poco la paura, che mi era durata nella cavità (lago) del cuore per tutta la notte che io passai (nella selva) con tanta angoscia (pieta). 11. lago del cor: è immagine cara allo Stilnovismo e proviene dalla medicina medievale, che riteneva che, quando per una forte emozione gli spiriti vitali si concentravano tutti nella cavità cardiaca, venissero meno le forze.
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E come quei che con lena12 affannata, uscito fuor del pelago13 a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva14. Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso15. Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, una lonza leggiera e presta molto, che di pel macolato era coverta16; e non mi si partia dinanzi al volto17, anzi ’mpediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto18. Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle19; sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione20; ma non sì che paura non mi desse la vista che m’apparve d’un leone. Questi parea che contra me venisse con la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse21. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza22.
versi 22-27 E come colui che con il respiro (lena) affannato, uscito fuori dal mare (pelago) sulla riva, si volge a guardare (guata) lo scampato pericolo (a l’acqua perigliosa), così il mio animo, ancora desideroso di fuggire, si voltò indietro a guardare il passaggio (passo, la selva), che non lasciò mai vivo nessuno. 12. lena: francesismo. 13. pelago: latinismo. 14. lo passo … viva: cioè il peccato, che conduce inevitabilmente alla morte dell’anima. versi 28-30 Dopo che ebbi (èi) fatto riposare un poco il corpo stanco (lasso), ripresi il cammino (via) per il luogo solitario (piaggia diserta), in modo tale che il piede su cui poggiavo (fermo) era sempre quello più basso. 15. sì che … basso: in senso allegorico può voler dire che Dante è ancora incerto nel suo cammino verso la virtù.
versi 31-36 Ed ecco, quasi all’inizio della ripida pendice del colle (erta), una lonza molto agile e veloce (presta), che era ricoperta da un pelame maculato; e non mi si allontanava (partia) dal volto, anzi ostacolava tanto il mio cammino, che io fui più volte sul punto di ritornare indietro (ritornar … vòlto). 16. una lonza … coverta: la lonza è un felino non ben identificato, simile a un leopardo o a una lince. 17. e non … volto: la belva è più in alto sul pendio, per cui Dante la vede proprio dinanzi al proprio viso. 18. ch’i’ fui … vòlto: si noti la figura della paronomasia volte/vòlto e la rima equivoca col volto del verso 34, cioè con una parola composta dalle stesse lettere ma di significato diverso. versi 37-40 Era il momento intorno al
principio del mattino e il sole saliva nel cielo congiunto con quella costellazione in cui si trovava quando Dio, con un atto d’amore (amor divino), impresse per la prima volta il movimento (mosse) alla volta celeste (quelle cose belle); 19. Temp’era … belle: la costellazione è quella dell’Ariete. Si credeva che quando Dio creò l’universo il Sole occupasse quel segno dello zodiaco, fosse cioè l’inizio della primavera. versi 41-45 cosicché l’ora del giorno e la stagione primaverile (dolce) mi inducevano (m’era cagione) a sperare di poter sfuggire a quella fiera dal pelo maculato (gaetta); ma non al punto (sì) che non mi incutesse (desse) paura l’aspetto (vista) di un leone che mi apparve (all’improvviso). 20. sì … stagione: secondo le credenze del tempo la primavera, stagione in cui Dio aveva creato il mondo, era bene augurale. Gaetta proviene dal provenzale caiet, “screziato”. versi 46-48 Sembrava che il leone (Questi) si dirigesse contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, tanto che pareva che l’aria intorno ne tremasse. 21. sì che … tremesse: si noti la rima siciliana con venisse, verso 46. versi 49-54 Ed una lupa, che per (ne) la sua magrezza sembrava (sembiava) carica (carca) di tutte le bramosie, e aveva già provocato sofferenze a (fé viver grame) molte persone, mi causò (porse) una tale angoscia (gravezza), con la paura suscitata dal suo aspetto (ch’uscia di sua vista), che perdetti la speranza di raggiungere la cima del colle (altezza). 22. Ed una lupa … altezza: le tre fiere rappresentano allegoricamente tre fondamentali disposizioni peccaminose che ostacolano l’umanità sulla via della salvezza, ma si è molto discusso sulla loro precisa identificazione. Per alcuni la lonza è la lussuria, il leone è la superbia e la lupa è la cupidigia. Secondo noi è preferibile intendere le tre fiere rispettivamente come frode, violenza e incontinenza (di cui la cupidigia è l’aspetto essenziale), cioè i vizi che corrispondono alle tre grandi ripartizioni dell’inferno. Il senso della lupa infatti è quasi esplicito (di tutte brame); certa ci sembra anche l’identificazione della lonza con la frode, poiché il mostro che simboleggia quel vizio nel canto XVII, nel passaggio al cerchio dei fraudolenti, cioè Gerione, presenta appunto la pelle maculata; non solo, ma Virgilio lo evoca gettando nell’abisso una corda con cui Dante aveva tentato di catturare «la lonza a la pelle dipinta» (canto XVI, v. 108); per coerenza, dopo frode e incontinenza, il leone non può allora che rappresentare la violenza.
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E qual è quei che volontieri acquista, e giugne ’l tempo che perder lo face, che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ’ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove ’l sol tace23. Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco24. Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere25 di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!». Rispuosemi: «Non omo, omo già fui26, e li parenti27 miei furon lombardi28, mantoani per patrïa ambedui. Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi29, e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ’l superbo Ilïón fu combusto30. Ma tu perché ritorni a tanta noia31? perché non sali il dilettoso monte32 ch’è principio e cagion di tutta gioia?». «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?33», rispuos’io lui con vergognosa fronte.
versi 55-60 E come colui (qual è quei) che volentieri accumula ricchezze (acquista), quando giunge il momento che gli fa perdere tutto, non cessa più di piangere e di rattristarsi; tale mi rese la bestia insaziabile (sanza pace) che, venendomi incontro, a poco a poco mi risospingeva (ripigneva) là dove non giungeva la luce del sole. 23. là … tace: cioè nella selva a fondo valle; è una sinestesia, una figura retorica che gioca su uno scambio di sensazioni, qui tra quella visiva e quella uditiva. versi 61-63 Mentre io precipitavo (rovinava) verso il basso, mi apparve (mi si fu offerto) davanti agli occhi qualcuno la cui voce era divenuta fioca perché era stato a lungo in silenzio. 24. chi … fioco: si è obiettato, da parte di alcuni commentatori, che Dante non poteva ancora sapere che l’apparizione avesse la voce fioca, non avendola ancora sentita parlare, perciò si è preferito intendere fioco come una sinestesia simile a quella del verso 60, cioè in senso visivo, “dai contorni sfumati e incerti”, per il buio del fondo valle e perché si tratta di un’ombra, non di un uomo vivo. Ma forse non è necessario: qui, sul punto di vista di Dante personaggio, predomina quello di Dante narratore, che raccontando a fatti compiuti sa già tutto. Resta certo il
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senso allegorico: la figura (apprenderemo poco dopo che si tratta di Virgilio) rappresenta la ragione, che nell’animo di Dante ha taciuto tanto a lungo, quindi ora che ha ripreso a parlargli ha la voce fioca. versi 64-69 Quando vidi costui in questo grande deserto, gli gridai: «Abbi pietà (Miserere) di me chiunque tu sia (qual che tu sii), o ombra o uomo in carne ed ossa (omo certo)!». (Questi) mi rispose: «Non sono uomo, ma già lo fui, e i miei genitori (parenti) furono lombardi, mantovani entrambi (ambedui) di nascita (per patrïa)». 25. Miserere: è la formula latina impiegata nel linguaggio liturgico. 26. Non omo … fui: cioè l’ombra di un defunto. 27. parenti: è un latinismo. 28. lombardi: nel Medioevo indicava genericamente tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale. A parlare è il poeta latino Virgilio, nato appunto ad Andes presso Mantova nel 70 e morto nel 19 a.C. a Brindisi. Dante sceglie Virgilio come guida al suo viaggio in quanto il poeta nel Medioevo era considerato come il più grande sapiente dell’antichità pagana, che nella sua opera aveva concentrato tutte le conoscenze umane, quindi poteva agevolmente essere assunto come allegoria del punto massimo a cui era in grado di giungere
la ragione dell’uomo con le sue sole forze, senza l’aiuto della rivelazione divina. In secondo luogo si riteneva che Virgilio avesse profetizzato la venuta di Cristo con alcuni versi della IV Bucolica, dove si annunciava la nascita di un fanciullo che avrebbe riportato sulla terra l’età dell’oro, e questo autorizzava ad assumerlo come allegoria di una ragione non ribelle a Dio ma pronta a servirlo. In terzo luogo Virgilio aveva cantato la grandezza dell’Impero romano, la cui funzione universale era uno dei capisaldi del pensiero politico di Dante. versi 70-75 Nacqui sotto Giulio Cesare (sub Iulio), benché troppo (ancor che) tardi (perché potesse apprezzarmi come poeta), e vissi a Roma sotto il buon (imperatore) Augusto, al tempo della religione pagana (dèi) falsa e ingannevole (bugiardi). Fui poeta, e cantai del pio Enea, figlio di Anchise, che giunse (in Italia) da Troia, dopo che Ilio, la superba rocca della città, fu bruciata (combusto). 29. Nacqui … tardi: Cesare morì nel 44 a.C., mentre la prima opera importante di Virgilio, le Bucoliche, fu scritta fra il 42 e il 39. 30. Poeta … combusto: Virgilio, fra le sue opere, cita qui solo il capolavoro, l’Eneide. Combusto è un latinismo. versi 76-81 Ma tu perché ritorni verso un luogo pieno di dolore (a tanta noia)? Perché non sali il colle, fonte di felicità (dilettoso monte), che conduce alla perfetta beatitudine del paradiso (cagion … gioia)?». «Sei proprio tu quel (famoso) Virgilio e quella fonte che sparge un fiume così abbondante di eloquenza (parlar)?», gli risposi io chinando il capo in segno di umile riverenza (con vergognosa fronte). 31. noia: nel linguaggio medievale ha un significato molto più forte dell’attuale ed è usato a indicare una forte pena. 32. il dilettoso monte: simbolo della felicità terrena. 33. quella fonte … fiume?: è un’interrogazione retorica, che esprime il moto di stupore e ammirazione di Dante al trovarsi di fronte al grande poeta.
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«O de li altri poeti onore e lume, vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore34, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo35 che m’ha fatto onore. Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio36, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». «A te convien tenere altro vïaggio37», rispuose, poi che lagrimar mi vide, «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide38; e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria39.
versi 82-90 «O (tu) che con la tua grandezza onori tutta la categoria dei poeti e li illumini con il tuo modello, mi siano di giovamento presso di te (vagliami) il lungo studio e il profondo amore che mi hanno fatto esplorare in ogni sua parte (cercar) il volume delle tue opere. Tu sei il mio maestro e lo scrittore che ha su di me maggior autorità (’l mio autore), tu sei il solo da cui ricavai (tolsi) il bello stile (poetico) che mi ha assicurato la fama (m’ha fatto onore). Guarda la bestia a causa della quale (per cu’) mi volsi (indietro verso la selva); salvami (aiutami) da lei, (o) famoso saggio, perché (per la paura) essa mi fa tremare il sangue nelle vene e nelle arterie (polsi)».
34. autore: è un latinismo ed ha la stessa radice di auctoritas, “autorevolezza”. Dante stesso nel Convivio definisce «autore» una «persona degna d’essere creduta e obedita» (IV, VI, 4-5). 35. bello stilo: è lo stile «tragico», il più alto secondo la retorica medievale, di cui si tratta nel De vulgari eloquentia. Qui Dante si riferisce alle sue grandi canzoni (sempre in quel trattato Dante sostiene che è la canzone il genere poetico a cui lo stile «tragico» si conviene). 36. famoso saggio: la formula conferma come Dante vedesse in Virgilio non solo il poeta ma anche il grande sapiente. versi 91-99 «È necessario per te (A te con-
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Autore
vien) prendere un’altra strada (vïaggio)», rispose (Virgilio), dopo che mi vide piangere, «se vuoi salvarti (campar) da questa selva (loco selvaggio); poiché questa bestia, a causa della quale tu invochi aiuto (gride), non lascia passare nessuno per la sua via, ma ostacola ciascuno (lo ’mpedisce) a tal punto da causargli la morte; e ha una natura così malvagia e crudele (ria) che non sazia (empie) mai le sue voglie bramose, e dopo il pasto ha più fame di prima (pria). 37. altro vïaggio: Dante non può salire direttamente il colle, il cammino più breve per la salvezza, a causa delle fiere: dovrà quindi percorrere una via più lunga, attraverso inferno, purgatorio e paradiso. 38. questa bestia … l’uccide: è la cupidigia quindi, per Dante, il peccato più grave, che porta l’umanità alla dannazione. 39. e ha natura … pria: allegoricamente indica l’insaziabilità della cupidigia.
(v. 85)
> Viene dal provenzale enoja. Nella lingua arcaica (ma an- > Viene dal latino auctòrem, “colui che fa avanzare, il procora nel Cinquecento, in cui si prendeva a modello la lingua del Trecento) aveva un valore molto più forte che oggi, “dolore, pena, afflizione”. Nella lingua attuale indica invece una condizione di fastidio, di tristezza che deriva dalla mancanza di interessi, di occasioni di divertimento, o dalla ripetizione monotona delle stesse attività (es. la domenica è una gran noia; che noia ripetere sempre le stesse cose), oppure equivale a “seccatura, guaio” (es. ho avuto delle noie con il fisco; l’auto ha avuto delle noie al motore). Sinonimo è tedio (dal latino taedium), voce più colta di noia e di senso più forte; uggia (di etimologia incerta) è di uso più raro e ormai quasi solo della lingua colta e letteraria, salvo che in Toscana; un suo senso arcaico è “ombra degli alberi che danneggia le piante sottostanti”, donde il verbo composto aduggiare, “coprire d’ombra”, quindi “inaridire, nuocere al terreno circostante”.
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motore”, da augère, “accrescere”. Qui ha un senso un po’ diverso da quello attuale, “lo scrittore che ha su di me maggiore autorità”: agisce cioè la connessione etimologica con autorità (“ascendente che si esercita sugli altri, grazie alla stima di cui si gode”), che deriva dalla stessa radice; per noi invece autore è semplicemente chi ha creato un’opera letteraria, artistica, scientifica (es. Manzoni è autore del primo grande romanzo della nostra letteratura), oppure, più genericamente, “chi dà origine, promuove” (es. è stato autore di un efferato delitto). Sempre dalla stessa radice proviene autorevole, “che possiede autorità” (es. è un critico autorevole e molto ascoltato). Autoritario indica invece la degenerazione dell’autorevolezza, cioè chi esercita l’autorità in modo dispotico, senza ammettere opposizione né lasciare libertà di critica (es. quella scuola è diretta da un preside autoritario; nel paese vige un regime autoritario).
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versi 100-108 Sono molti gli animali a cui (la lupa) si unisce e saranno sempre di più, finché giungerà un veltro, che la farà morire con dolore (doglia). Il veltro (Questi) non sarà avido di (ciberà) ricchezze (peltro) né di terra, ma (si ciberà solo di) sapienza, amore e virtù, e la sua nascita (nazion) sarà tra feltro e feltro. Sarà (fia) la salvezza (salute) di quella umile Italia, per cui morirono di ferite la vergine Camilla, Eurialo, Niso e Turno. 40. Molti … s’ammoglia: l’immagine allegoricamente può voler dire che molti sono gli uomini contaminati da questo vizio, oppure che l’avidità va continuamente unita a molti altri vizi. 41. veltro: è un cane da caccia, e allegoricamente rappresenta l’inviato da Dio che dovrà liberare l’umanità dai suoi vizi e salvarla. 42. Questi … feltro: questi è complemento oggetto di ciberà, terra e peltro sono soggetti; il peltro era una lega di piombo e stagno e qui sta per metonimia a indicare le monete. Il verso 104 significa che il veltro sarà ispirato dalla Trinità divina (sapïenza, amore e virtute sono gli attributi delle tre persone). Il verso 105 è volutamente oscuro, come si conviene a una profezia. L’espressione tra feltro e feltro è di difficile interpretazione: il feltro è un panno ruvido e umile, quindi forse vuol dire che l’inviato da Dio sarà di umili origini; oppure può indicare il saio francescano e alludere a un pontefice proveniente da quell’ordine religioso; altri hanno interpretato la formula in senso
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Molti son li animali a cui s’ammoglia40, e più saranno ancora, infin che ’l veltro41 verrà, che la farà morir con doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro42. Di quella umile43 Italia fia salute44 per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso45 di ferute. Questi la caccerà per ogne villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, là onde ’nvidia prima46 dipartilla. Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, che la seconda morte ciascun grida47; e vederai color48 che son contenti nel foco49, perché speran di venire quando che sia a le beate genti.
geografico, tra Feltre (nel Veneto) e il Montefeltro (la zona di Urbino), quindi in Romagna; altri ha pensato al feltro che foderava le urne per l’elezione del papa; altri ancora legge feltro come “filtro”, a indicare le nuvole, nel senso che il veltro scenderà dal cielo. Oltre alla difficoltà dell’indicazione, ogni tentativo di individuare un personaggio preciso a cui Dante alluderebbe è stato infruttuoso; ma forse il poeta ha intenzionalmente lasciato la profezia nel vago, non ha voluto indicare una particolare persona. Getto invece ha supposto che col veltro Dante intendesse designare se stesso, in quanto investito della missione divina di indicare agli uomini la via della salvezza. 43. umile: riprende l’espressione di Eneide, III, versi 522-523, dove però l’aggettivo umile, riferito all’Italia, indica semplicemente la costa bassa e pianeggiante scorta dai Troiani. 44. salute: latinismo. 45. Cammilla … Niso: i personaggi citati compaiono nell’Eneide e rappresentano le vittime della guerra che portò Enea a stabilire il suo dominio sul Lazio. Eurialo e Niso sono di parte troiana, Camilla e Turno latina. Si può notare la disposizione a chiasmo dei nomi. versi 109-111 Il veltro (Questi) caccerà la lupa per ogni città, finché l’avrà ricacciata (rimessa) nell’inferno, nel luogo da cui l’odio del demonio per gli uomini (’nvidia prima) la fece uscire (dipartilla). 46. ’nvidia prima: nel senso di “odio” è un
latinismo; può essere il rovesciamento di «primo amore», espressione che Dante usa per designare Dio. Però prima può anche essere avverbio, anziché aggettivo, e significare per la prima volta. versi 112-120 Per cui (Ond’) io per il tuo meglio (me’) ritengo e decido che tu mi segua, e io sarò la tua guida, e ti porterò via (trarrotti) da questo luogo (passando) attraverso l’inferno, le cui pene sono eterne (loco etterno); dove udirai le grida (strida) disperate (dei dannati), vedrai le anime dannate che soffrono le pene sin dai tempi più antichi, tanto che ciascuna di esse invoca (grida) la morte dell’anima (la seconda morte, la dannazione); e vedrai coloro che sono contenti di patire le pene (nel foco), perché sperano di unirsi quando sarà il momento (quando che sia) con i beati in paradiso. 47. che … grida: espressione di significato controverso. La seconda morte per taluni è la dannazione eterna, per cui grida vale impreca contro; per altri invece vuol dire invoca e la seconda morte sarebbe l’annientamento totale, che annullerebbe anche i tormenti (cosa però impossibile, perché l’anima è eterna, e destinata a rivestirsi anche della carne dopo il Giudizio finale). 48. color: le anime del purgatorio. 49. contenti nel foco: foco indica le pene in senso generico; le anime del purgatorio sono contente, perché le pene sono un mezzo di espiazione.
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versi 121-126 Se poi vorrai salire tra i beati (A le quai), ci sarà un’anima più degna di me che assumerà il compito di guidarti (a ciò): ti lascerò con lei separandomi da te (nel mio partire); perché Dio, che è l’imperatore che regna lassù nel paradiso, non permette che io (non vuol … per me) entri (si vegna) nella sua città, poiché non seguii la sua religione (fu’ ribellante a la sua legge). 50. A le quai … partire: si riferisce a Beatrice, che rappresenta la verità rivelata. Virgilio non può salire al paradiso perché è pagano; allegoricamente, la ragione non basta da sola per condurre a Dio: a tal fine è necessaria la rivelazione. 51. per me: complemento di agente (mo-
A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna: con lei ti lascerò nel mio partire50; ché quello imperador che là sù regna, perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge, non vuol che ’n sua città per me51 si vegna. In tutte parti impera e quivi regge; quivi è la sua città e l’alto seggio: oh felice colui cu’ ivi elegge!52». E io a lui: «Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, a ciò ch’io fugga questo male e peggio, che tu mi meni là dov’ or dicesti, sì ch’io veggia la porta di san Pietro53 e color cui tu fai cotanto mesti». Allor si mosse, e io li tenni dietro.
dellato sul francese par, “da”), in un costrutto impersonale alla latina. versi 127-136 Dio impera su tutto l’universo (In tutte parti), ma nell’Empireo (quivi) è la sede del suo regno (regge); qui è la sua città e il suo trono (alto seggio): o felice colui che Egli vi destina (elegge)!». E io (rivolgendomi) a lui: «Poeta, io ti richiedo (richeggio) per quel Dio che tu non conoscesti, affinché (a ciò ch’) io fugga dalla lupa (questo male) e dal peggio che ne conseguirebbe (la dannazione), che tu mi conduca là dove hai appena (or) detto, affinché io veda (veggia) la porta di san Pietro e coloro che hai descritto (fai) come tanto infelici (mesti, i dannati)». Allora (Virgilio) si mosse
e io lo seguii (li tenni dietro). 52. In tutte … elegge!: l’“impero” indica la giurisdizione universale, il “regno” il luogo dove risiede e governa direttamente l’imperatore. Dante usa metaforicamente termini e concetti del linguaggio giuridico e politico. 53. la porta di san Pietro: può essere il paradiso, di cui tradizionalmente san Pietro è considerato il custode (però, nella Commedia, il paradiso non ha alcuna porta); oppure il purgatorio, dove però la porta è custodita da un angelo. La seconda interpretazione appare più plausibile, perché con la guida di Virgilio Dante giungerà solo sino al purgatorio.
Pesare le parole Elegge (v. 129)
> La parola conserva qui il senso del verbo latino elìg-
ere, “scegliere”. Il senso del nostro eleggere proviene fondamentalmente da quello, ma ha assunto un valore più particolare, “scegliere qualcuno a una carica mediante votazione”. Dal verbo deriva elettorato, il complesso dei cittadini che hanno diritto di eleggere i propri rappresentanti nei vari consigli (comunale, provinciale, regionale) o nel Parlamento; elettiva è la carica a cui si accede per elezioni. Il senso originario di “scegliere” è rimasto solo nel linguaggio giuridico e burocratico (es. eleggere il proprio domicilio in un luogo), oppure in quello letterario (Leopardi, Nelle nozze della sorella Paoli-
>
na, vv. 16-17: «O miseri o codardi / figliuoli avrai. Miseri eleggi», cioè “avrai figli o infelici o vigliacchi. Preferisci che siano infelici”). Così, sempre nel linguaggio colto, elezione, oltre all’operazione di eleggere, può conservare il senso originario di “scelta” (es. patria di elezione; una patria scelta, diversa da quella in cui si è nati: es. per molti immigrati l’Italia è divenuta patria di elezione). Il participio passato eletto, nel linguaggio colto, può indicare chi è chiamato da Dio per una missione (es. il popolo eletto, gli ebrei), e si trova anche sostantivato (es. egli è l’eletto), oppure è sinonimo di “superiore, distinto, nobile” (es. un’anima eletta).
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo
> L’impianto allegorico e il senso del viaggio Le allegorie
Il viaggio
La prefigurazione dei tre regni
È il canto introduttivo dell’intero poema e si presenta folto di motivi, proponendo una serie di aspetti che saranno le costanti fondamentali dell’opera. Si affaccia innanzitutto in piena evidenza l’impianto allegorico, che rimanda al contesto in cui nasce ed ha le radici l’opera, quello medievale: la selva oscura, il colle illuminato, le tre fiere, la figura stessa di Virgilio possiedono un’evidenza concreta, fisica e drammatica, ma al tempo stesso rimandano a significati ulteriori. Lo scacco di Dante nel tentativo di trovare la via della salvezza salendo il colle costituisce poi il presupposto della spiegazione di Virgilio, che chiarisce il senso del viaggio nell’oltretomba, e cioè della scrittura del poema: la via della salvezza per Dante e per l’umanità del suo tempo, prigioniera del peccato, non potrà essere diretta, ma dovrà passare attraverso un cammino eccezionale, arduo e faticoso, cioè prima attraverso la conoscenza di tutto il male che contamina il mondo, poi della purificazione e della misericordia di Dio, infine della gloria del paradiso. I tre regni che Dante dovrà percorrere si possono scorgere già qui prefigurati dalla selva oscura (l’inferno), dal colle (il purgatorio, collocato per l’appunto su un monte che Dante dovrà salire, illuminato dalla luce della Grazia) e dal sole (la Grazia illuminante di Dio, il paradiso).
> Il carattere profetico del poema La dimensione storica e politica La polemica contro lo spirito mercantile
Mondo biblico e mondo classico Virgilio e Dante
Dante ha ricevuto da Dio il privilegio di visitare i regni dell’oltretomba per indicare all’umanità la via per scampare alla perdizione. Questo carattere profetico che l’opera assumerà emerge in piena luce con la profezia del veltro che dovrà scacciare la lupa, allegoria della cupidigia. Alla dimensione morale ed esistenziale della salvezza si unisce così quella storica e politica, che nella prospettiva di Dante è inscindibile dalla prima. L’avidità non è solo un vizio generico, riscontrabile nell’umanità di tutti i tempi, ma è il vizio proprio del tempo di Dante, in cui si è scatenata la corsa alla ricchezza, causata dalla «gente nova» bramosa di «sùbiti guadagni», la classe mercantile dei Comuni ( T18a, p. 325); e questo vizio si unisce fatalmente ad infiniti altri, lo spirito di sopraffazione, la violenza, l’ambizione, che hanno trasformato l’Italia, e Firenze in particolare, in un “inferno” in terra. Compito di Dante, con la sua opera, sarà dunque indicare la via d’uscita da questa specifica situazione storica.
> Il ruolo di Virgilio
Se nella prima parte del canto domina il mondo biblico, nella seconda, come ha osservato Giovanni Getto, domina quello classico. Nella seconda parte si impone infatti la figura di Virgilio. Si chiarisce subito il suo ruolo di guida intellettuale e morale, autorevole e al tempo stesso paternamente sollecita, nei confronti del pellegrino, e contemporaneamente si definisce il rapporto di Dante col maestro, fatto di sconfinata ammirazione, di devozione, di riverenza per chi è stato modello e guida artistica e intellettuale.
> Il ruolo di Dante narratore e personaggio Dante personaggio La Danteide
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Nel primo canto si delinea ancora con piena evidenza quello che sarà il ruolo di Dante stesso nello svolgersi della narrazione successiva. In primo luogo come personaggio al centro di azioni e passioni di forte intensità drammatica: si pensi alla paura e all’angoscia suscitate dalla selva tenebrosa, alla speranza che nasce in lui nel salire il colle luminoso, all’angoscia che nuovamente risorge nel vedersi il cammino sbarrato dalle tre fiere. Dante personaggio sarà continuamente al centro della vicenda del viaggio, come protagonista assoluto, con le sue curiosità intellettuali, le reazioni di fronte alle varie figure incontrate, i rapporti con Virgilio e Beatrice, per cui è stata proposta per il poema la definizione di Danteide. Se Dante rappresenta l’umanità intera e la sua esperienza acquisisce una portata universale, ciò non toglie nulla alla sua concretezza umana individuale.
Capitolo 4 · Dante Alighieri Dante narratore: superiorità rispetto al personaggio
Il perdurare delle emozioni
Il gioco dei punti di vista
Si specifica subito anche il ruolo di Dante narratore, che si volge a considerare le vicende passate dall’alto delle conoscenze acquisite, ma che al tempo stesso può ancora partecipare con intensa emotività alle passioni vissute. Per il primo aspetto, la maggiore conoscenza di Dante narratore rispetto al Dante personaggio, si può sottolineare il preannuncio della soluzione positiva dei travagli patiti («ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte», vv. 8-9); per il secondo, il perdurare delle emozioni, la confessione «esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!», dove «esta» dà come l’impressione di una scena ancor viva e presente dinanzi agli occhi di chi narra, capace di suscitare nella loro originaria violenza i sentimenti un tempo provati. Si precisa in tal modo anche l’impianto tecnico della narrazione del poema, in cui il gioco tra il punto di vista di Dante narratore e quello di Dante personaggio avrà spesso un ruolo determinante.
Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Riassumi in un massimo di 15 righe (750 caratteri) il contenuto dei versi 1-66. > 2. In quale punto del canto si fa riferimento a Dio? Chi ne parla e perché? ANALIzzARE
> 3. In che modo si presenta Virgilio e come è descritto da Dante? > 4. Stile Indica, nell’ambito del testo, almeno un esempio significativo di plurilinguismo dantesco e commentalo. > 5. Lessico Evidenzia nel testo, distinguendoli con colori diversi, i vocaboli riferiti, anche sul piano simbolico e
allegorico, al tema del peccato e della salvezza. > 6. Lessico Evidenzia nel testo i vocaboli appartenenti all’ambito giuridico e politico. APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) rintraccia i riferimenti al mondo biblico presenti nella prima parte del canto e i riferimenti al mondo classico presenti nella seconda. > 8. Altri linguaggi: arte L’artista inglese William Blake, vissuto fra Sette e Ottocento, dedicò alla Commedia oltre un centinaio di illustrazioni, acquerelli a vari stadi di elaborazione, giungendo a soluzioni estremamente originali. Lo dimostra l’immagine, di seguito riportata, riferita al momento del I canto dell’Inferno in cui Dante fugge dalle tre fiere e incontra Virgilio, raffigurato in volo come se fosse un angelo. Dopo aver attentamente osservato la scena, rispondi alle domande, motivando sempre le tue affermazioni. a) La comparsa di Virgilio è da considerarsi fedele al canto dantesco? Perché l’artista gli ha attribuito tali movenze e sembianze, anche in rapporto alla posizione di Dante? b) Nella raffigurazione delle tre fiere, poste sulla destra, ti sembra che Blake abbia dato particolare rilievo alla lupa così come risulta dal canto? c) Come si manifesta, rispetto al canto, la presenza della Grazia illuminante di Dio? d) A quali versi del canto riconduci la suggestiva rappresentazione del cielo?
> 9. Competenze digitali A proposito del bestiario dantesco, presente nel canto, elabora un file in PowerPoint di supporto ad un’esposizione orale in cui le immagini agevolino l’illustrazione del significato simbolico e allegorico della lonza, del leone, della lupa in rapporto anche alla dibattuta descrizione del veltro.
William Blake, Dante fugge dalle tre fiere, 1824-27, acquerello e inchiostro su carta, Melbourne (Australia), National Gallery of Victoria.
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L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
Video L’episodio nella musica classica
Audio
T16
francesca e Paolo
Temi chiave
dall’Inferno, V, vv. 70-142 Dante e Virgilio dal primo cerchio infernale, costituito dal Limbo, scendono nel secondo, dove sono puniti i lussuriosi e dove hanno inizio le pene vere e proprie. Vi si erge Minosse, il giudice infernale, che giudica le colpe e assegna i peccatori al luogo che loro compete. Il cerchio è privo di ogni luce e percorso da una «bufera infernal» che non si arresta mai e che affligge i dannati travolgendoli violentemente. La pena risponde al principio del contrappasso: come in vita i peccatori si erano lasciati trascinare dalla lussuria, che aveva vinto ogni controllo razionale sugli istinti, così ora sono trascinati senza scampo dal turbine. Dante vede avanzare una schiera di ombre disposte in una lunga fila; Virgilio spiega che sono coloro che furono condotti alla morte dall’amore e ne indica un gran numero, tra cui Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Tristano, Achille, Paride.
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Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito nomar le donne antiche e ’ cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito1. I’ cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che ’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri2». Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena3, ed ei verranno». Sì tosto come il vento a noi li piega4, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s’altri nol niega!5».
versi 70-75 Dopo (Poscia) che io ebbi udito il mio maestro (dottore) nominare le eroine (donne antiche) e gli eroi del passato (cavalieri), mi prese (giunse) un turbamento angoscioso (pietà) e fui sul punto di perdere i sensi (smarrito). Io cominciai (a dire): «Poeta, parlerei volentieri a quei due che sono trascinati insieme dal turbine (’nsieme vanno) e sono spinti dal vento con maggiore velocità, come se fossero più leggeri degli altri».
1. Poscia … smarrito: dottore proviene dal latino doceo, “insegnare”. Cavalieri sono definiti Achille e Paride al pari di Tristano, poiché il Medioevo, privo del senso della distanza storica, trasformava abitualmente in senso cortese la storia e i miti classici. 2. ’nsieme … leggieri: questa leggerezza sarà da intendere come segno di una maggior gravità della loro colpa: oppongono minore resistenza al vento perché non hanno cercato di resistere alla violenza della
• l’allontanamento dalla letteratura cortese • la condanna della passione d’amore • la narrazione da parte della donna
Luogo secondo cerchio Peccatori e pena lussuriosi: sono travolti incessantemente da un vento impetuoso Personaggi Dante, Virgilio, Francesca da Rimini, Paolo Malatesta
passione. È questo particolare, insieme al fatto che a differenza degli altri peccatori volano uniti, ad attirare l’attenzione di Dante. versi 76-81 Ed egli mi (disse): «Ti sarà possibile (Vedrai) quando saranno più vicini a noi; e allora pregali in nome di (per) quell’amore che li trascina (mena), ed essi (ei) verranno». Non appena il vento li volse (piega) verso di noi, dissi ad alta voce: «O anime tormentate (affannate), venite a parlare con noi, se qualcuno (altri) non ve lo impedisce (niega)!». 3. i mena: qui la bufera è esplicitamente identificata con la passione amorosa. Anche ora, nella morte, i due obbediscono solo all’amore. 4. piega: presente storico. 5. Sì tosto … niega!: il tormento delle due anime deriva dalla loro pena infernale, ma non a caso affannate è termine tecnico della letteratura amorosa (di origine provenzale), a designare le sofferenze provocate dall’amore. Altri è Dio, che ha stabilito le leggi del regno infernale.
Pesare le parole Pietà (v. 72)
> Nell’italiano antico vale abitualmente “angoscia, condizio-
ne dolorosa”, e questo è il senso che qui ricorre. Nell’italiano moderno indica invece un sentimento di compassione dinanzi a sofferenze altrui. Bisogna quindi stare attenti, leggendo testi del Due e Trecento, a non attribuire meccanicamente alle parole il senso attuale, perché ne
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possono nascere travisamenti gravi nell’interpretazione.
> In qualche locuzione si è conservato nella lingua di oggi il senso latino di pietàtem, “rispetto, venerazione verso cose ritenute sacre” (es. pietà filiale); oppure, nel linguaggio religioso, pietà può significare “devozione” (es. pratiche di pietà).
Capitolo 4 · Dante Alighieri
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Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, sì forte fu l’affettüoso grido6. «O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso7. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi8, mentre che ’l vento, come fa, ci tace9.
versi 82-87 Come due colombe, spinte (chiamate) dal desiderio amoroso, volano per l’aria con le ali spiegate (alzate) e ferme verso il loro dolce nido, condotte dalla volontà di accoppiarsi (dal voler portate); così i due uscirono dalla schiera (di anime) dove si trovava Didone, venendo verso di noi attraverso (per) l’aria infernale (maligno), tanto forte era stato il mio grido, in cui risuonava l’intenso mio sentimento (affettüoso). 6. Quali … grido: la similitudine è una reminiscenza di Virgilio, Eneide, VI, versi 190192. Le colombe, nella tradizione classica e medievale, erano ritenute animali particolarmente lussuriosi: per questo sono paragonate ai due amanti. Altri invece le interpreta come simbolo di amore fedele e di innocenza e ritiene che volino verso il nido per la nostalgia dei piccoli. Se è valida la prima interpretazione, si muovono
verso il nido perché è la sede dell’accoppiamento. versi 88-93 «O essere vivente (animal) cortese e benevolo (grazïoso e benigno), che attraverso l’oscura aria infernale (aere perso) vai visitando noi che macchiammo il mondo di sangue, se Dio (il re de l’universo) ci fosse amico, lo pregheremmo di concederti la pace interiore, poiché hai pietà della nostra terribile sofferenza (mal perverso). 7. O animal … perverso: Francesca si è subito accorta che Dante è un uomo vivo. Grazïoso e benigno sono termini ricorrenti nella letteratura cortese e stilnovistica: in tutto il suo discorso il personaggio impiegherà parole e formule tratte da quella letteratura. Perso originariamente indicava il colore delle stoffe orientali, porpora scuro, quindi vale cupo, oscuro. Sanguigno: in
questa schiera, si ricordi, sono puniti coloro che andarono incontro alla morte per amore. Francesca avverte nel grido di Dante una partecipazione intensa alla loro sofferenza, e per questo vorrebbe, in segno di riconoscenza, invocare da Dio per lui la pace, cioè l’immunità dalla passione turbinosa che ha portato lei alla morte, ma sa bene che è impossibile, perché Dio non ascolta le preghiere dei dannati. In questo verso, pietà è più vicino al senso moderno del termine, implicando anche una sfumatura di compassione. versi 94-96 Noi parleremo di ciò che desiderate ascoltare e ascolteremo ciò di cui desiderate parlare, sinché il vento qui (ci) non soffia. 8. Di quel … voi: si noti la studiatissima costruzione del discorso di Francesca, che propone un parallelismo tra udire e udiremo, parlar e parleremo, ma anche una forma di chiasmo, perché l’“udire” di Dante presuppone il “parlare” della donna, e l’“udire” dei due amanti il “parlare” di Dante. Voi è rima di tipo siciliano con fui e sui, versi 97 e 99. 9. mentre … tace: poiché il luogo dove Dante e Virgilio si trovano e dove i due amanti li hanno raggiunti è riparato dalla bufera. Ci è avverbio di luogo. Altri invece interpreta ci come pronome di persona (per noi) ad indicare che il luogo per volere della Provvidenza è temporaneamente risparmiato dal turbine per consentire il colloquio. Altri ancora legge si tace e intende che nella bufera si verificano ogni tanto delle pause (ma al verso 31 viene detto che «mai non resta»).
Pesare le parole Affettüoso (v. 87)
> Dal latino affìcere, “influire, porre in una data condizio-
>
>
ne”. Qui unito a grido ha il senso di “carico di sentimento, di emozione”. Nella lingua attuale possiede un senso meno forte, indicando ciò che manifesta affetto, cioè un sentimento tenero, delicato, di amore o amicizia per qualcuno (es. ho molto affetto per gli amici che mi hanno aiutato nelle difficoltà). Dalla stessa radice proviene una famiglia di parole che rientra nella medesima sfera di significato: affettività, “la capacità affettiva, il complesso dei sentimenti proprio di un individuo” (es. per convincerlo si è fatto leva sull’affettività); affettivo (es. ha un legame affettivo con la città in cui è vissuto a lungo); affezione (es. nutre profonda affezione per la famiglia); affezionato (es. è affezionato alle proprie abitudini). Da una forma frequentativa di affìcere, affectàre, deri-
vano invece termini che appartengono a un’altra sfera semantica: affettare, “mostrare con ostentazione sentimenti o qualità” (es. affetta indifferenza dinanzi alle critiche), o anche “simulare” (es. affetta grande amicizia, in realtà è invidioso e maligno); affettazione, “mancanza di naturalezza, comportamento artificioso” (es. in presenza di persone di riguardo parla e si comporta con affettazione). Sinonimi: leziosaggine, da (de)liciòsum, a sua vota da delìciae, “delizie, seduzioni”: è l’atteggiamento di chi fa lezi, cioè si comporta in modo caricato, ostentato, eccessivamente manierato, che suona falso; sussiego, “contegno dignitoso e sostenuto, non privo di una certa ostentazione di importanza” (dallo spagnolo sosiego, “calma, contegno”, a sua volta dal latino volgare sessicàre, da sedère, “stare seduto”).
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Siede la terra dove nata fui su la marina dove ’l Po discende per aver pace co’ seguaci sui10. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende11. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona12. Amor condusse noi ad una morte13. Caina14 attende chi a vita ci spense15». Queste parole da lor ci fuor porte. Quand’io intesi quell’anime offense16, china’ il viso, e tanto il tenni basso, fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?». Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier17, quanto disio menò costoro al doloroso passo18!».
versi 97-99 La città (terra) dove nacqui ha sede (Siede) sulla riva del mare, dove il Po sfocia (discende), insieme con i suoi affluenti (co’ seguaci sui), confondendo le proprie acque con quelle marine (per aver pace). 10. Siede … seguaci sui: si noti come la metafora aver pace richiami il tormento dei dannati e il loro ossessivo bisogno di trovar pace. La città indicata con l’ampia perifrasi è Ravenna, che nel Medioevo si trovava quasi sul mare. Dopo il preambolo, il personaggio qui si presenta. Si tratta di Francesca, figlia di Guido da Polenta il Vecchio, signore di Ravenna sino al 1310. Intorno al 1280 sposò Giovanni Malatesta signore di Rimini, detto “il Ciotto”, lo zoppo. Il matrimonio, come avveniva spesso al tempo, aveva lo scopo di pacificare le due famiglie nemiche. Solo questo sappiamo dalla storia. Secondo il racconto di Dante, Francesca si innamorò del fratello di Gianciotto, Paolo, ed ebbe con lui una relazione adulterina. Scoperta dal marito, fu uccisa con l’amante fra il 1283 e il 1285. L’episodio dovette suscitare grande sensazione al tempo. Sulla base del racconto dantesco fiorirono poi molte leggende romanzesche, ad opera dei commentatori duecenteschi della Commedia e di Boccaccio, non suffragate però da alcuna notizia nelle cronache contemporanee. La vicenda ispirerà, in epoca romantica, una tragedia di Silvio Pellico e, più tardi, una tragedia di Gabriele d’Annunzio. versi 100-108 Amore, che subito trova accesso (ratto s’apprende) in un cuore no-
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bile (gentil), fece innamorare costui (Paolo) del mio bel corpo (bella persona), che mi fu tolto (con la morte violenta), e il modo ancora mi strazia (offende). Amore, che non consente (perdona) a nessuna persona che sia amata (nullo amato) di non ricambiare l’amore, mi indusse ad innamorarmi (mi prese) della bellezza di Paolo (del costui piacer) con tale intensità (sì forte) che, come vedi, la passione ancora non mi ha lasciata. Amore ci condusse a morire insieme (ad una morte). Caina attende chi spense le nostre vite». Queste parole ci furono dette da loro. 11. Amor … offende: Francesca riprende le teorie dell’innamoramento proprie della cultura cortese, quali erano state espresse nel trattato De amore di Andrea Cappellano ( L’età cortese, La voce dei testi, p. 26) e da tanti poeti: è inevitabile che un cuore nobile subito si innamori, e fonte dell’innamoramento è la bellezza, rivelata dallo sguardo. Il primo verso della terzina riprende il famoso inizio della canzone di Guinizzelli, (Al cor gentil rempaira sempre amore, cap. 2, T6, p. 152, dove, al verso 11, si legge anche: «Foco d’amore in gentil cor s’aprende»), nonché di un sonetto di Dante stesso compreso nella Vita nuova, Amore e ’l cor gentil sono una cosa. L’interpretazione della formula e ’l modo ancor m’offende è discussa. Per taluni modo va riferito a prese: cioè il modo in cui l’amore conquistò Paolo, ispirandogli una passione sensuale e adultera, ha condannato Francesca alle pene infernali; per altri invece va riferito a mi fu tolta: cioè offende ancora la donna il modo in cui fu uccisa, in
peccato mortale e senza la possibilità di pentirsi, per cui deve patire i tormenti eterni. 12. Amor … abbandona: viene proposta di nuovo una massima di Andrea Cappellano e si ribadisce che fonte della passione è anche per la donna la bellezza fisica. Piacer è un provenzalismo per “bellezza” (anche il lessico usato da Francesca rimanda vistosamente all’ambito della cultura cortese). L’eternità e l’indissolubilità del legame d’amore costituivano uno dei dogmi della teoria cortese: però qui, con doloroso rovesciamento, l’eternità coincide con la dannazione infernale (vedi anche verso 135). 13. Amor … morte: anche l’amore che unisce gli amanti nella morte, poiché era impossibile in vita, era un tipico motivo cortese, proposto dalla famosa vicenda di Tristano e Isotta. 14. Caina: la zona dell’ultimo cerchio dove sono puniti i traditori dei parenti. 15. chi … spense: il marito di Francesca, Gianciotto. versi 109-114 Quando io ebbi ascoltato (il racconto di) quelle anime straziate (offense), abbassai lo sguardo (viso) e lo tenni basso fino a quando il poeta mi disse: «A che cosa pensi?». Quando risposi, cominciai (a dire): «Ohimè (Oh lasso), quanti pensieri dolci, quanto desiderio (disio) condusse costoro al peccato che causa la dannazione (doloroso passo)!». 16. offense: in vita e in morte (vedi offende al verso 102). 17. dolci pensier: la formula allude alla particolare configurazione del sentimento d’amore cortese. Secondo Andrea Cappellano l’amore è una passione che nasce «dal forte pensiero della bellezza dell’altro sesso» e nei rimatori torna spesso il motivo del pensiero della donna amata che occupa insistentemente l’animo dell’amante. 18. doloroso passo: il passaggio dalla passione alla colpa, e quindi alle sue conseguenze, la morte e la dannazione.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
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Video Lettura dantesca di V. Gassman
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Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?»19. E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria20; e ciò sa ’l tuo dottore21. Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice22. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto23. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse24. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante25». Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangëa; sì che di pietade26 io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade.
versi 115-120 Poi mi rivolsi a loro e parlai io, e cominciai: «Francesca, le tue pene (martìri) mi rendono triste e pietoso (pio) sino alle lacrime (a lagrimar). Ma dimmi: quando il vostro amore si esprimeva solo con i dolci sospiri (non a parole), per quali indizi e in quale modo (a che e come) Amore vi concedette di conoscere i vostri desideri pieni di dubbi? 19. «Francesca … disiri?»: dubbiosi disiri perché non ancora rivelati. Anche qui è riconoscibile un riferimento alle teorie dell’amor cortese. Scrive Andrea Cappellano: «Prima che l’amore si manifesti da parte di entrambi gli amanti, non vi è maggior angoscia del fatto che l’amante sempre teme che il suo amore non possa ottenere l’effetto desiderato». versi 121-126 E Francesca (quella) mi (disse): «Nessun dolore è più grande che ricordarsi del tempo felice (quando si è) nell’infelicità (miseria); e lo sa bene il tuo maestro (dottore). Ma se hai così vivo desiderio (affetto) di (a) conoscere la prima
origine (radice) del nostro amore, ti risponderò piangendo e parlando insieme. 20. miseria: latinismo. 21. dottore: i più intendono Virgilio (vedi verso 70, dove è designato con quel termine), perché, essendo relegato nel Limbo, può paragonare la sua condizione attuale a quella più felice della vita terrena. Secondo Boccaccio, invece, Dante fa riferimento al racconto dei propri travagli che Enea fa a Didone e al dolore della stessa Didone abbandonata. Altri pensa ad un riferimento a Boezio, che nella Consolazione della filosofia scrive: «In ogni avversità della fortuna la maggiore infelicità è essere stati felici». 22. Ma … dice: in queste parole è ravvisabile una citazione virgiliana: «Se tanto è il desiderio di conoscere le nostre peripezie» (Eneide, II, v. 10). versi 127-132 Un giorno noi leggevamo insieme per divertimento (diletto) la storia di Lancillotto e di come l’amore si impossessò di lui (lo strinse); eravamo so-
li e senza alcun presentimento (sospetto). Più volte (fïate) quella lettura ci indusse a guardarci (ci sospinse) negli occhi e ci fece impallidire (scolorocci il viso); ma solo un passo (punto) vinse ogni nostra resistenza alla passione (ci vinse). 23. Noi leggiavamo … sospetto: il sospetto, cioè, dei pericoli che avrebbe comportato quella lettura. La storia di Lancillotto, cavaliere della Tavola Rotonda, e del suo amore per Ginevra, moglie di re Artù, era narrata in un notissimo romanzo in prosa antico-francese, Lancelot (1220-35), che Francesca e Paolo potevano leggere, se non nell’originale, in un volgarizzamento italiano. La vicenda era un tipico esempio di amor cortese, in cui la passione adultera era avvolta in un’aura nobile e suggestiva. 24. Per più … vinse: Francesca e Paolo subiscono prepotentemente la suggestione che emana dalla vicenda cortese, e dal suo esempio sono indotti all’imitazione. Il fascino del racconto romanzesco di un aristocratico amore adultero vince ogni resistenza morale, anzi con le sue nobili apparenze fa dimenticare ogni senso del peccato, offrendosi come autorevole giustificazione della passione colpevole. versi 133-138 Quando leggemmo che la bocca desiderata (disïato riso) di Ginevra fu baciata da un così nobile ed eroico (cotanto) amante, Paolo (questi), che non sarà mai separato (fia diviso) da me per l’eternità, mi baciò la bocca tutto tremante (per la passione). Il libro e il suo autore furono il tramite che ci indusse a rivelarci il nostro amore (Galeotto fu). Quel giorno non proseguimmo più la lettura (non … avante)». 25. Quando … avante: riso per bocca è una preziosa immagine letteraria (una metonimia). Galeotto, cioè Galehaut, era il siniscalco della regina Ginevra, che aiutò i due amanti a manifestare il proprio amore; per Francesca e Paolo la stessa funzione fu invece esercitata dal romanzo. La formula che chiude il racconto di Francesca (v. 138) è volutamente ellittica. versi 139-142 Mentre una delle due anime (l’uno spirto, Francesca) diceva ciò, l’altra (Paolo) piangeva; tanto che, per il turbamento (pietade), io mi sentii mancare (venni men) come se stessi per morire. E caddi come cade un corpo morto. 26. pietade: da intendere qui, secondo il senso corrente all’epoca, come turbamento angoscioso nel contemplare l’infelicità eterna e senza scampo dei due amanti (vedi v. 72).
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo Un’eroina redenta dalla passione
La critica attuale La «pietà»
> Il conflitto delle interpretazioni
L’episodio di Francesca e Paolo è forse quello della Commedia che meglio permette di porre in evidenza la diversità delle interpretazioni critiche tra l’età romantica e l’attuale. Per la prima, che va dal Foscolo al De Sanctis, Francesca è un’eroina redenta dalla forza invincibile dell’amore, che supera ogni altro valore: Dante come teologo la condanna, ma, come uomo, ha compassione («pietà») di lei e la assolve. La critica attuale rovescia questa interpretazione cercando di porsi nell’ottica effettiva del poeta medievale. La chiave di volta è data proprio dal significato da attribuire al termine «pietà» che, nel linguaggio dantesco, ha un’accezione diversa da quella attuale e non significa “compassione” ma indica un turbamento angosciato che coglie il poeta nel considerare le terribili conseguenze della passione cantata dai poeti.
> La presa di distanza dalla letteratura cortese
Lo svelamento dei “falsi ideali” della letteratura cortese
«Disïato riso» e «bocca», letteratura e vita
Perché è Francesca a parlare
La meditazione di Dante
La problematicità
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L’episodio si pone come una presa di distanza del Dante ormai maturo, che sta scrivendo il «poema sacro», dalla letteratura cortese in cui egli stesso si era esercitato nella sua giovinezza e che ora ritiene di aver superato definitivamente, approdando a una ferma conquista religiosa e morale, a un’idea di poesia del tutto diversa. Infatti la letteratura cortese sublima la passione d’amore, che presenta in termini idealizzati, come fonte di elevazione dell’animo o addirittura di salvezza spirituale, e di conseguenza la rende affascinante, spinge a cedere a essa, facendo dimenticare il suo carattere carnale e sensuale, nascondendo la sua natura peccaminosa e i pericoli per l’anima che comporta: è proprio leggendo del bacio di Lancillotto e Ginevra che Paolo e Francesca, suggestionati e come indotti all’imitazione, cedono alla passione adultera commettendo peccato mortale. Il fascino insidioso esercitato dalla letteratura cortese è rivelato dal sottile gioco stilistico: la bocca dell’eroina letteraria, Ginevra, è designata con una formula ricercata e preziosa, «disïato riso», mentre quella della donna reale, Francesca, è indicata col termine più usuale e diretto di «bocca». Emerge così la distanza incolmabile tra letteratura e vita: ciò che nella prima può apparire come qualcosa di prezioso, puro, disincarnato, è in realtà qualcosa che ispira desiderio carnale ed è fonte di colpa. Si capisce così perché sia Francesca a raccontare la vicenda: nella letteratura cortese è l’uomo che canta le lodi della donna, idolo adorato, ma remoto e muto, avvolto in una luce idealizzata e mistica. Ora, invece, è proprio la donna a prendere la parola: fuori della letteratura, nella realtà vissuta, la sensualità coinvolge anche lei, che risulta soggetto e non solo oggetto della passione.
> La condanna morale di Dante
Si chiariscono anche il coinvolgimento emotivo e il turbamento del Dante personaggio che, benché abbia superato la fase cortese, si trova a dover considerare un nodo cruciale di tutta la sua esperienza poetica e umana e che resta quasi smarrito di fronte alla condanna eterna di un sentimento che è ritenuto così nobile ed elevato, quale l’amore, fatto di dolci pensieri e desideri. La sua condanna del peccato e della letteratura cortese è ferma, senza equivoci o cedimenti. Tuttavia l’angoscia, nutrita di ragioni intellettuali e umane, e la comprensione profonda dei meccanismi psicologici della passione tolgono ogni schematicità al giudizio morale e conferiscono all’episodio un carattere di alta problematicità (un carattere che, in diverse forme, sarà proprio di tutte le grandi figure dell’Inferno, come vedremo).
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Completa la tabella, assegnando un titolo ad ogni sequenza, secondo l’esempio proposto. Versi
Titolo
70-87
Desiderio di Dante di parlare con due anime tra i lussuriosi ..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
88-108
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109-120
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121-138
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139-142
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> 2. A quale altra celebre storia d’amore si fa riferimento in questi versi? Quali analogie è possibile riconoscere tra tale vicenda e quella che ha come protagonisti Francesca e Paolo?
ANALIzzARE
> 3. Distingui un narratore di primo grado e uno di secondo grado. Si tratta di narratori interni o esterni alla storia? > 4. Stile Il discorso di Francesca è ricco di riferimenti letterari ed è assai elaborato dal punto di vista formale: individua le figure retoriche presenti nei versi 100-138. Lessico Rileva nel lessico utilizzato da Francesca i riferimenti alla cultura dell’amor cortese.
> 5.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Esporre oralmente Descrivi in un’esposizione orale (max 3 minuti) l’atteggiamento e le reazioni di Dante personaggio al cospetto dei due amanti, a partire da quando egli esplicita a Virgilio il desiderio di conoscerne l’identità e la sorte, alla perdita dei sensi finale.
PER IL RECUPERO
> 7. Perché è Francesca a parlare? > 8. Quale figura retorica riconosci rispettivamente nei versi 82-85 e 97-99? > 9. Dopo aver rintracciato e sottolineato nel passo la ricorrenza del termine «pietà», spiegane il significato nel linguaggio dantesco, facendo ricorso all’Analisi del testo.
PASSATO E PRESENTE L’invidia di Dante per francesca e Paolo
> 10. Leggi
e commenta con il docente e con i compagni questo passo dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, che interpreta in chiave biografica la Commedia.
Che Dante abbia professato per Beatrice un’adorazione idolatrica è una verità innegabile; che lei si sia burlata di lui e l’abbia respinto sono fatti testimoniati nella Vita Nuova. […] Beatrice esistette infinitamente per Dante. Dante, molto poco, forse per niente, per Beatrice […]. Leggo e rileggo le traversie del suo illusorio incontro e penso a due amanti […] che sono emblemi oscuri […] di quella felicità che non ottenne. Penso a Francesca e a Paolo, uniti per sempre nel loro inferno (questi, che mai da me non fia diviso). Con un amore spaventoso, con angoscia, con ammirazione, con invidia, deve aver forgiato questo verso. J. L. Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001
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L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA
Video La Commedia nell’arte figurativa
La fortuna di Paolo e francesca nell’arte figurativa La Divina Commedia, grazie alla potenza visiva e alla carica emotiva dei versi danteschi, ha stimolato l’immaginazione di numerosi artisti di epoche e culture diverse, che si sono cimentati nell’impresa di illustrare l’intero poema o di raffigurarne singoli episodi. Dal Trecento fino ai giorni nostri si è formato un ricco patrimonio di immagini che, se da un lato riflette la maggiore o minore fortuna del capolavoro di Dante nei secoli, dall’altro fa emergere la personalità degli artisti che si sono confrontati con esso. Si hanno quindi trasposizioni visive
Priamo della Quercia, Virgilio indica a Dante le anime dei lussuriosi; Virgilio parla con Francesca, mentre Dante sviene, 1444-50, miniatura dalla Divina Commedia di Dante, codice Yates-Thompson 36, Londra, The British Library.
Il codice Yates-Thompson 36, realizzato a Siena verso la metà del Quattrocento per Alfonso V d’Aragona, è uno dei più importanti manoscritti illustrati della Divina Commedia. Al pittore senese Priamo della Quercia (1400-67) sono attribuite le miniature delle prime due cantiche, caratterizzate da un linguaggio che, attento alla realtà naturale e ai moti dell’animo, adotta forme rudi e colori accesi. L’immagine dedicata a Paolo e Francesca visualizza il canto quinto dal verso 46 e ne articola il contenuto in due momenti narrativi, segnalati dalla ripetizione dei protagonisti. Nel primo, Virgilio, vestito di rosso, mostra a Dante le anime travolte dalla bufera infernale, personificata dal volto demoniaco alle loro spalle. L’esigua schiera di dannati è guidata da Paolo e Francesca, la cui grazia cortese è evidenziata dalla treccia bionda. Nel secondo momento la lettura procede da destra a sinistra. I due amanti, che nel poema si intrattengono con Dante, sono di fronte a Virgilio, al quale Francesca narra la storia del loro amore. Chiude il racconto il poeta fiorentino, dipinto al centro della scena chino e con gli occhi chiusi. 314
che differiscono tra loro per tecnica, stile e contenuto, nelle quali la fedeltà ai versi danteschi non è sempre una priorità. La cantica privilegiata dagli artisti di tutti i tempi è l’Inferno e uno degli episodi più raffigurati, in particolare nell’Ottocento, è quello di Paolo e Francesca, la cui storia di amore e morte è narrata nel canto quinto. Se alcune opere ci restituiscono l’immagine dei due amanti nella bufera infernale, da soli o di fronte a Dante e Virgilio, altre fissano i momenti salienti della loro vicenda terrena: il bacio, Gianciotto Malatesta (fratello di Paolo e marito di Francesca) che li spia o li sorprende, l’uccisione per sua mano. Il percorso proposto si compone di quattro raffigurazioni pittoriche di varie epoche particolarmente interessanti, che ci offrono un sintetico spaccato della varietà di approcci al soggetto dantesco.
Johann Heinrich Füssli, Paolo e Francesca, 1786, olio su tela, Aarau (Svizzera), Aargauer Kunsthaus.
La dimensione figurativa, tanto originale quanto stupefacente, del pittore e poeta svizzero Johann Heinrich Füssli (1741-1825) traeva ispirazione non dalla realtà naturale, ma dal mondo letterario. La Divina Commedia di Dante, che l’artista conobbe e amò sin dalla giovinezza, fu una delle opere da cui attinse ripetutamente soggetti per i suoi dipinti, sempre poco fedeli allo spirito del poema. Füssli del resto non ebbe mai l’intenzione di realizzarne delle vere e proprie illustrazioni. Nel 1786 eseguì una tela incentrata sul momento saliente delle vicenda terrena di Paolo e Francesca, quello in cui i due giovani sono sorpresi da Gianciotto mentre si baciano. Füssli interpretò l’episodio come una scena galante dal carattere fortemente teatrale, in cui l’espressività dei volti e la gestualità dei personaggi fanno emergere passioni forti e contrastanti. Un potente chiaroscuro contribuisce inoltre ad accentuare la drammaticità dell’immagine. 315
L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA
Dante Gabriel Rossetti, Paolo e Francesca da Rimini, 1855, acquerello su carta, Londra, Tate Gallery.
Il pittore e poeta inglese Dante Gabriel Rossetti (1828-82) pose al centro della sua produzione artistica i soggetti letterari medievali, manifestando un particolare interesse per le opere di Dante. Dopo una lunga gestazione, nel 1855 l’artista terminò un acquerello che offre una sintesi idealizzata, priva di elementi angoscianti, della vicenda terrena e di quella ultraterrena di Paolo e Francesca. L’immagine concepita da Rossetti si compone di tre riquadri, ciascuno dei quali riporta un verso del canto quinto. Il primo raffigura i due giovani mentre si baciano («Quanti dolci pensier, quanto disio»); il secondo, Dante e Virgilio colti da pietà per il loro destino («O lasso!»); il terzo, le anime di Paolo e Francesca trascinate dalla bufera infernale («Menò costoro al doloroso passo!»). Seguendo la successione dei versi danteschi, la lettura dell’acquerello dovrebbe procedere dal secondo riquadro al primo e infine al terzo.
Esercitare le competenze STABILIRE NESSI TRA LETTERATURA E ARTI VISIVE
> 1. In quale immagine è rappresentato l’ambiente infernale? Quali gli elementi e i personaggi che caratterizzano la scena?
> 2. In quale immagine compare la figura di Gianciotto? Con quali parole e in quali versi è solo evocata nel canto della Commedia?
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Renato Guttuso, Paolo e Francesca, tecnica mista su carta, illustrazione da Il Dante di Guttuso, Milano 1970.
Il pittore siciliano Renato Guttuso (1911-87), la cui arte è incentrata sull’impegno politico e sociale, si dedicò all’illustrazione della Divina Commedia su commissione dell’editore Mondadori. Dal 1959 al 1961 realizzò quasi mille disegni, a fronte delle cento tavole richieste, spinto come sempre dall’amore «per tutto ciò che di umano, sofferente e ribelle può essere tradotto in segno». In questa tavola di Paolo e Francesca l’artista raffigurò in modo sintetico e fortemente espressivo, grazie all’adozione di una linea dinamica e di sferzanti pennellate di colore, i due giovani amanti nell’aldilà, sospinti dalla bufera infernale. I corpi fluttuanti, l’abbraccio, le labbra che si cercano, sono tutti elementi che pongono l’accento sull’intensità della passione fisica che ancora li lega, nonostante la drammaticità della loro condizione di anime dannate.
> 3. L’elemento ricorrente del bacio a quali versi del canto corrisponde? In quali immagini è presente? > 4. Quale rappresentazione si distingue dalle altre per la presenza di una vera e propria “narrazione” dell’episodio dantesco? > 5. Quale raffigurazione ritieni, pur nella diversità dei codici espressivi, più fedele al canto dantesco? E quale invece più vicina al tuo gusto personale? Motiva la tua risposta.
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L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
Audio
T17
farinata e Cavalcante dall’Inferno, X, vv. 22-93
• la passione politica • la faziosità e la magnanimità
del personaggio Varcate le mura della città di Dite, agli occhi di Dante si pre• l’amore paterno senta una vasta distesa, cosparsa di sarcofagi spalancati e avvolti dalle fiamme: dentro di essi sono puniti gli eretici. I due poeti si incamminano per uno stretto sentiero che corre fra il muro e i sepolcri. Dante esprime a Virgilio il desiderio di vedere i dannati che vi sono puniti, e Virgilio spiega che da quella parte sono sepolti Epicuro e i suoi seguaci, che ritengono che l’anima muoia col corpo; assicura Dante che ben presto la sua curiosità sarà soddisfatta, e lo sarà anche il Luogo sesto cerchio desiderio segreto che non ha espresso. A questo punto, una voce apostrofa all’improvviso il poeta. Peccatori e pena eretici: giacciono in sepolcri arroventati; Occorre tener presente che ai tempi di Dante col termine l’arsura del fuoco è proporzionale alla “epicurei” si designavano genericamente coloro che profesgravità dell’eresia savano concezioni materialistiche, negavano l’immortalità Personaggi dell’anima e riponevano il fine della vita solo nella felicità Dante, Virgilio, Farinata degli Uberti, terrena. A rigore il filosofo greco Epicuro non poteva dirsi Cavalcante de’ Cavalcanti eretico, essendo vissuto ben prima del cristianesimo, fra il IV e il III secolo a.C. Egli sosteneva che tutto ciò che esiste è formato da atomi, particelle materiali che si aggregano e si disgregano muovendosi nel vuoto. Anche l’anima è composta di atomi e si disgrega insieme col corpo: è da escludere perciò ogni sopravvivenza dopo la morte. Il fine dell’uomo è la felicità, intesa come piacere, cioè assenza di dolore e di turbamento (atarassia). Epicuro non negava l’esistenza degli dèi, ma sosteneva che essi non si curano delle vicende umane
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«O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patrïa natio, a la qual forse fui troppo molesto»1. Subitamente questo suono uscìo d’una de l’arche2; però m’accostai, temendo, un poco più al duca3 mio. Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: da la cintola in sù tutto ’l vedrai».
versi 22-27 O toscano che te ne vai vivo per la città infuocata di Dite (del foco vivo) parlando con tanta dignità (onesto), abbi la compiacenza (piacciati) di fermarti in questo luogo. La tua parlata (loquela) rivela chiaramente che sei nato in (ti fa manifesto di) quella nobile patria (Firenze), alla quale arrecai forse troppi danni (fui … molesto). 1. «O Tosco … molesto»: il personaggio, le cui parole risuonano all’improvviso e di cui apprenderemo il nome solo al verso 32, è Manente degli Uberti, detto Farinata. Nato ai primi del Duecento, fu una delle personalità più cospicue della vita politica
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Temi chiave
fiorentina nella generazione antecedente a quella di Dante. Capo dei Ghibellini di Firenze, scacciò dalla città i Guelfi nel 1248. Dopo la morte di Federico II fu il suo partito a dover andare in esilio, nel 1258. Nel 1260 sconfisse i Guelfi nella battaglia di Montaperti e poté rientrare in patria. Si oppose però energicamente ai Ghibellini che volevano distruggere la città. Morì nel 1264, un anno prima della nascita di Dante e due anni prima della battaglia di Benevento, che segnò la vittoria definitiva del partito guelfo. In conseguenza di essa i Guelfi fiorentini poterono rientrare in città. Le case degli Uberti furono distrutte, i
beni di famiglia confiscati e i discendenti esiliati in perpetuo. Le stesse spoglie di Farinata e della moglie, dopo una condanna postuma per eresia, furono riesumate e disperse. I cronisti antichi lo presentano come «savio e valente cavaliere», alto di statura e forte, di intelligenza acuta e coraggioso nelle armi. Un commentatore di Dante, Benvenuto da Imola, ne fornisce questo ritratto: «Imitatore di Epicuro, non credeva vi fosse altro mondo se non questo, per cui in ogni modo si studiava di eccellere in questa vita breve, poiché non sperava in un’altra migliore». versi 28-36 Questa voce (suono) uscì all’improvviso (Subitamente) da uno dei sepolcri; perciò (però) mi avvicinai un po’ di più al mio maestro (duca), per la paura (temendo). Ed egli mi disse: «Voltati! Che cosa fai? Vedi là Farinata che si è rizzato in piedi (fuori dalla tomba): lo vedrai interamente dalla cintola in su». Io avevo già fissato (fitto) il mio sguardo (viso) nel suo; ed egli si ergeva con il petto e con la fronte, come se avesse un grande disprezzo (dispitto) per l’inferno. 2. arche: i sepolcri di pietra infuocati che sono disseminati per la pianura. 3. duca: maestro, guida (dal latino ducere, guidare, condurre).
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Io avea già il mio viso4 nel suo fitto; ed el s’ergea col petto e con la fronte5 com’avesse l’inferno a gran dispitto. E l’animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte6». Com’io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?»7. Io ch’era d’ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel’apersi8; ond’ei levò le ciglia un poco in suso9; poi disse: «Fieramente furo avversi a me e ai miei primi e a mia parte, sì che per due fïate10 li dispersi»11. «S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», rispuos’io lui, «l’una e l’altra fïata; ma i vostri non appreser ben quell’arte»12. Allor surse a la vista scoperchiata un’ombra, lungo questa, infino al mento13: credo che s’era in ginocchie levata.
4. viso: latinismo. 5. el s’ergea … fronte: il petto e la fronte erano considerate le parti più nobili del corpo umano, sede del coraggio e dell’intelligenza; l’atteggiamento fisico è perciò indizio di dignità, fierezza, alta statura morale. versi 37-42 E le mani premurose (animose) e sollecite (pronte) della mia guida mi spinsero (pinser) fra i sepolcri verso di lui, dicendo: «Le tue parole siano ben soppesate (conte)». Non appena (Com’) io mi trovai ai piedi del suo sepolcro, (egli) mi guardò per un poco, e poi, quasi con atteggiamento di fierezza superba (sdegnoso), mi domandò: «Chi furono i tuoi antenati?». 6. conte: il termine deriva dal latino comptus, “adatto”, oppure da cognitus, “consapevole”. 7. «Chi … tui?»: Farinata non conosce Dante, che non è vissuto nel suo tempo, e vuole sapere quali fossero i suoi antenati, che egli aveva potuto conoscere essendo suoi contemporanei. Ma il senso vero della doman-
da è un altro: ciò che gli preme di sapere è a quale partito appartenessero, e di conseguenza appartenga anche Dante. versi 43-48 Io, che ero desideroso di ubbidire, non glielo nascosi, ma glielo dissi apertamente (gliel’apersi); per cui egli aggrottò le sopracciglia; poi disse: «(I tuoi avi) furono fieri avversari miei, dei miei antenati (miei primi) e del mio partito (parte), tanto (sì) che per due volte (fïate) li cacciai (dispersi) (da Firenze)». 8. apersi: Dante non ha timore di rivelare al capo ghibellino la propria appartenenza ad una famiglia guelfa. 9. ond’ei … suso: la stizza di Farinata è dovuta al fatto che scopre di avere di fronte un rappresentante del partito avverso. 10. due fïate: nel 1248 e nel 1260. 11. «Fieramente … dispersi»: si può notare come lo scontro politico tra fazioni nelle città medievali si concretasse in odio personale per individui e famiglie, non si limitasse ad una contrapposizione astratta e imperso-
nale tra schieramenti; di conseguenza è impossibile, e persino scorretto, voler distinguere, nelle parole di Farinata, tra Alighieri e Guelfi, Uberti e Ghibellini. Il dialogo che qui si svolge tra Farinata e Dante ricalca un costume tipicamente comunale, quello del “rinfaccio”, in cui due avversari ricorrevano al vituperio dei mali altrui e al vanto delle proprie vittorie. Si ricrea nell’oltretomba il clima rovente dei conflitti cittadini. versi 49-54 «Se i miei antenati (ei) furono cacciati», gli risposi, «l’una e l’altra volta tornarono da ognuno dei luoghi dove erano fuggiti (tornar … parte); ma gli Uberti e i Ghibellini di Firenze (i vostri) non impararono bene quel mestiere (arte) (di ritornare in patria)». Allora si levò sino all’apertura (vista) priva di coperchio (dello stesso sepolcro) un’anima (ombra), accanto a questa (di Farinata), ma solo fino al mento: credo che si fosse alzata sulle ginocchia. 12. «S’ei … arte»: il termine cacciati corregge e attenua quello usato da Farinata, dispersi: infatti i Guelfi poterono riunirsi e passare alla riscossa. Il termine arte ha un evidente valore ironico. I Guelfi ritornarono in Firenze rispettivamente nel 1251, dopo la morte di Federico II, e nel 1267, dopo la battaglia di Benevento. Dante, al momento in cui compie il suo viaggio (1300), non sa ancora che dovrà andare anche lui per sempre in esilio. Una vaga profezia l’aveva già ricevuta da Ciacco, nel canto VI, e Farinata più avanti la ribadirà. 13. infino al mento: invece Farinata si ergeva dalla cintola in su. Questa seconda anima è quella di Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del poeta Guido, il primo amico di Dante. Appartenente ad un’insigne famiglia guelfa fiorentina, fu famoso ai suoi tempi per le sue posizioni laiche: per questo Dante lo colloca tra gli epicurei. Farinata e Cavalcante erano imparentati, in quanto Guido aveva sposato Beatrice, figlia di Farinata, al fine di pacificare le due famiglie avversarie.
Pesare le parole Dispitto (v. 36)
> Viene dal latino despìcere, composto di de e spècere,
“guardare”, quindi “guardare dall’alto in basso”. La forma oggi corrente è dispetto. Qui è usato nel senso di “disprezzo, sdegno”, ormai disusato e raro. I sensi oggi usuali sono: “azione compiuta con l’intento di dispiacere, contrariare, irritare ecc.” (es. rifiuta di rispondere ai miei messaggi solo per farmi dispetto);
altro senso è “stizza, irritazione, invidia” (es. non riesce a nascondere il dispetto per il mio successo). Stizza viene da tizzo, “pezzo di legno che sta bruciando”, e indica un accesso d’ira di breve durata, dovuto a contrarietà o impazienza. A dispetto di equivale a “nonostante” (es. salperemo a dispetto del mare grosso).
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Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s’altri era meco; e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? e perché non è teco?»14. E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno15». Le sue parole e ’l modo de la pena m’avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena16. Di sùbito drizzato gridò: «Come? dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?17». Quando s’accorse d’alcuna dimora ch’io facëa dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora18.
versi 55-60 Guardò intorno a me, come se desiderasse (talento avesse) di vedere se qualcun altro mi accompagnasse (era meco); e dopo che questa supposizione (sospecciar) fu del tutto smentita (spento), disse piangendo: «Se vai per la buia prigione infernale (cieco carcere) grazie alle tue elevate capacità intellettuali (per altezza d’ingegno) dov’è mio figlio? Perché non è con te?». 14. Dintorno … teco?»: coerentemente con le proprie concezioni laiche, Cavalcante è convinto che Dante possa compiere da vivo il suo viaggio nell’oltretomba solo grazie alla sua intelligenza umana, ignorando l’intervento della Grazia divina. Di conseguenza, siccome sul piano delle doti intellettuali Guido era pari a lui, si meraviglia di non vedere il figlio a fianco di Dante nel suo viaggio. versi 61-66 E io (dissi, rivolgendomi) a lui: «Non vengo qui grazie alle mie sole forze (Da me stesso): colui che aspetta là (Virgilio) mi conduce attraverso questo luogo (per qui), di lui (cui) il vostro Guido forse provò disprezzo». Le sue parole e il tipo (modo) di pena mi avevano già fatto indovinare (letto) il nome di costui; perciò la (mia) risposta fu tanto esauriente (piena). 15. forse … disdegno: l’espressione è va-
riamente interpretata. Secondo taluni cui è complemento oggetto di ebbe, quindi il disdegno di Guido Cavalcanti è indirizzato a Virgilio (come allegoria della ragione che non si sostituisce alla teologia o entra in conflitto con essa, ma è al suo servizio nel diffondere la verità); secondo altri in cui sarebbe implicito anche un complemento di luogo, per cui varrebbe da una persona che, cioè da Beatrice, allegoria della teologia, ispiratrice di una poesia permeata di religiosità. In ogni caso Dante sottolinea come Guido Cavalcanti abbia disdegnato le verità religiose, e quindi non sia in grado, a differenza di Dante stesso, di compiere il viaggio soprannaturale, in quanto non sorretto dalla Grazia, in altri termini non sia in grado di scrivere poesia come quella della Commedia. Guido infatti era attratto dall’aristotelismo radicale del filosofo arabo Averroè, diffuso soprattutto all’Università di Bologna, e quindi riteneva che bastassero gli strumenti razionali nella ricerca della verità, prescindendo dalla rivelazione. Dante prende così le distanze dall’amico, a cui era stato accomunato negli anni giovanili dall’esperienza stilnovistica e di cui aveva per un periodo condiviso le curiosità filosofiche eterodosse, allontanandosi poi per seguire altri indirizzi filosofici e poetici che lo ave-
vano portato a concepire la Commedia. Non potendo collocare Guido nell’inferno, in quanto ancora vivo nella primavera del 1300 in cui avviene il viaggio nell’oltretomba, ve lo colloca indirettamente con questa citazione, che sottolinea i suoi gravi errori in materia religiosa. 16. Le sue parole … piena: Dante ha riconosciuto Cavalcante dalle sue parole, cioè dalle sue domande intorno al figlio, e dal tipo di pena, sapendolo eretico. versi 67-72 Improvvisamente (Di sùbito) levatosi in piedi (drizzato), gridò: «Come? Hai detto “egli ebbe”? Egli non vive più? La dolce luce (del sole) non colpisce (fiere) i suoi occhi?». Quando si accorse della (mia) esitazione (dimora) nel fornirgli la risposta, ricadde supino e non apparve più fuori (dal sepolcro). 17. Di sùbito … lume?: sentendo che Dante a proposito di Guido usa il passato remoto, Cavalcante teme che il figlio sia morto; invece Dante usa il passato per sottolineare il proprio distacco presente dalle posizioni dell’amico, un tempo da lui condivise. L’immagine della luce, in cui si compendia la vita, e l’aggettivo dolce rivelano lo struggente attaccamento del dannato al mondo terreno che, nel suo epicureismo, egli ritiene l’unica fonte di felicità. Anche Farinata userà lo stesso aggettivo, dolce mondo (v. 82). Si noti la rima siciliana nome / come / lume. 18. Quando … fora: più avanti Dante spiegherà il motivo della propria esitazione: dalla profezia di Ciacco nel canto VI aveva tratto la convinzione che i dannati potessero vedere il futuro; ora invece il fatto che Cavalcante non sappia se il figlio sia vivo o morto lo lascia sconcertato. Sarà Farinata a chiarire il dubbio: i dannati, come i presbiti che vedono da lontano ma non da vicino, possono conoscere il futuro più lontano ma non quello prossimo.
Pesare le parole Dimora (v. 70)
> Deriva dal latino de e mora, “indugio”, e qui conserva
appunto questo significato, che nella lingua attuale è disusato e letterario. Il senso più comune è “luogo in cui si
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abita, casa” (es. abita in una dimora lussuosa); prendere dimora vuol dire “stabilirsi, risiedere”.
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Ma quell’altro magnanimo19, a cui posta restato m’era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa; e sé continüando20 al primo detto, «S’elli han quell’arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa21. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?22». Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio»23. Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo sanza cagion24 con li altri sarei mosso. Ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto»25.
versi 73-78 Ma quell’altro (dannato) magnanimo, a richiesta (posta) del quale mi ero fermato, non mutò espressione (aspetto), né piegò il collo, né volse il fianco (costa); e continuando il discorso precedente (primo detto), disse: «Se quelli della mia famiglia e del partito ghibellino (elli) non hanno appreso il mestiere (arte) (di ritornare dall’esilio) ciò mi tormenta più di questo sepolcro infuocato (letto) (in cui giaccio). 19. magnanimo: l’aggettivo è rivelatore del giudizio che Dante scrittore dà del personaggio. Già al canto VI aveva chiesto della sorte sua e di altri illustri fiorentini, «che fuor sì degni» e che «a ben far puoser gli ’ngegni» (vv. 79-81). 20. sé continüando: il riflessivo “continuarsi” per “continuare” è comune nell’uso trecentesco. Farinata, incurante del dramma paterno di Cavalcante, ha continuato a riflettere sull’ultima risposta di Dante, «ma i vostri non appreser ben quell’arte» (v. 51). versi 79-84 Ma non passeranno cinquanta mesi (fia … regge), che tu stesso saprai quanto quel mestiere sia difficile e doloroso (pesa). Voglia il cielo che tu possa tornare nel dolce mondo terreno (E … regge), dimmi: perché il popolo fiorentino è così spietato (empio) contro la mia famiglia in ogni sua legge?». 21. Ma non … pesa: l’indicazione temporale è fornita attraverso un’immagine mitologica. La donna che qui regge, la regina degl’inferi, Proserpina (si noti la sovrapposizione dell’oltretomba pagano sull’inferno cristia-
no: ma Farinata è in effetti “pagano”), è anche la dea della luna; la faccia è allora la superficie illuminata della luna piena, che ricompare al trascorrere di ogni mese lunare. Farinata qui profetizza a Dante l’esilio. Più esattamente il termine di cinquanta mesi porta alla data della battaglia della Lastra (1304), che segnò una dura sconfitta dei fuoriusciti bianchi e ghibellini e il tramonto definitivo delle loro speranze di tornare a Firenze. Già prima di quel tentativo fallito Dante si era staccato dalla «compagnia malvagia e scempia» degli altri esuli (Paradiso, XVII, vv. 61-69), ed aveva preferito “far parte per sé stesso”. 22. E se … legge?: La formula E se... ha un valore desiderativo, di augurio, e mira a catturare la benevolenza dell’interlocutore. Si noti l’aggettivo dolce, già comparso nelle parole di Cavalcante a indicare l’attaccamento dei dannati, e in particolare degli epicurei, alla vita terrena. Regge è un latinismo, da redeas, “ritorni”. Il termine dà origine a una rima equivoca col regge del verso 80, che ha la stessa forma ma significato diverso, “regna”. versi 85-93 Quindi, io (mi rivolsi) a lui: «La strage (strazio e ’l grande scempio), che (per il sangue versato) tinse di rosso il torrente Arbia, indusse noi Guelfi fiorentini a prendere tali provvedimenti nei nostri consigli (tal … tempio). Dopo che (Farinata) ebbe scosso (mosso) il capo sospirando, disse: «Non fui io solo il responsabile della strage di Montaperti (ciò), né certamente mi sarei mosso con gli altri senza una buona ragione (cagion). Ma fui io solo a difendere
a viso aperto Firenze, quando tutti erano disposti a tollerare (sofferto fu per ciascun) la distruzione (tòrre via) della città». 23. «Lo strazio … tempio»: la strage si consumò durante la battaglia di Montaperti. L’Arbia scorreva vicino al campo di battaglia. Strazio e scempio sono sinonimi, quindi formano un’endiadi. L’espressione tal orazion fa far nel nostro tempio è metaforica ed implica un sottinteso termine di paragone: “Come si prega Dio contro le catastrofi, così prendemmo provvedimenti contro gli Uberti”. L’immagine religiosa sembra controbattere la qualifica di empio attribuita da Farinata al popolo fiorentino (v . 83). 24. sanza cagion: cioè la necessità di sconfiggere i Guelfi per poter rientrare in Firenze. 25. «A ciò … aperto»: Farinata si riferisce alla Dieta di Empoli dove tutti gli altri Ghibellini riuniti dopo la vittoria di Montaperti avevano deciso di radere al suolo Firenze. Si noti la contrapposizione di ma fu’ io solo a a ciò non fu’ io sol del verso 89. Sofferto fu per ciascun è una costruzione passiva impersonale; il per equivale al par francese che introduce il complemento d’agente (in italiano “da”). A viso aperto è espressione metaforica che proviene dal linguaggio cavalleresco, dove indicava il combattere con la celata dell’elmo alzata, quindi mettendo a rischio la propria incolumità: vale a dire che la presa di posizione di Farinata comportava un rischio personale. La metafora non è usata casualmente, in quanto mette in evidenza la magnanimità cavalleresca del personaggio.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo La sequenza che riportiamo del canto X è articolata in tre momenti: vv. 22-51, incontro con Farinata; vv. 52-72, incontro con Cavalcante; vv. 73-93, ripresa del dialogo con Farinata. L’episodio di Farinata risulta così spezzato in due, con effetti che occorrerà studiare attentamente.
> Il primo “atto” del dramma: farinata fazioso
La faziosità
Farinata ferito dalla risposta di Dante Farinata si eleva dalla faziosità all’etica politica
Il dubbio di aver danneggiato Firenze
I meriti verso la «patria»
Il rapido scambio di battute che anima il primo “atto” del colloquio drammatico mette in luce come Farinata sia dominato da un interesse esclusivo, intorno a cui si arrovella continuamente, tanto da avere «a gran dispitto» (v. 36) la pena infernale che lo affligge: la passione politica, l’attaccamento alla propria fazione e l’avversione per quella nemica. Ma Dante, di fronte a lui, si rivela non meno appassionato, nel ricordare, con una battuta dura e tagliente, come i Ghibellini non abbiano saputo risollevarsi dalla sconfitta. Si delinea qui quel clima di passioni roventi e irriducibili che caratterizzava la scena politica dei comuni medievali, di Firenze in particolare. La nota che contraddistingue Farinata, in questo primo “atto” del suo dramma, appare quindi la faziosità, a cui si contrappone una faziosità non minore del suo interlocutore.
> Il secondo “atto”: farinata «magnanimo»
Quando il dialogo riprende, dopo l’intermezzo di Cavalcante, Farinata appare mutato, come se la battuta di Dante lo avesse ferito nel profondo. Non appare più orgoglioso e baldanzoso, piuttosto si ripiega dolorosamente su se stesso, rivelando il pensiero quasi ossessivo della sconfitta politica che ancora lo assilla. Ma, sempre sull’onda delle riflessioni generate dalla dura battuta di Dante, nel chiedere perché i vincitori siano stati così crudeli con gli sconfitti dimostra anche di essersi elevato a un piano di considerazioni più alte, che riguardano la sfera dell’etica nella politica, il problema della giustizia. La nuova risposta tagliente di Dante, che gli ricorda le stragi disumane nella battaglia di Montaperti, tocca ancora in lui un punto dolente: si comprende a questo punto come, ad ossessionare Farinata durante la sua pena infernale, non fosse solo la rabbia dello sconfitto, ma anche il dubbio tormentoso di aver provocato con la propria condotta il male della città amata (a cui alludevano già le parole da lui subito pronunciate all’inizio nell’apostrofare Dante, «quella nobil patrïa … a la qual forse fui troppo molesto», vv. 26-27). Per questo, ora, cerca conforto sottolineando un suo alto merito, quello di aver impedito che i Ghibellini vincitori a Montaperti distruggessero Firenze. Farinata appare davvero, in questo secondo “atto” del dramma, in una luce diversa: non è più prigioniero di anguste passioni faziose, ma sa elevarsi ad un piano etico-politico più alto, sa innalzarsi all’amore per la sua «patria», che è per lui al di sopra di ogni interesse di partito.
> farinata personaggio problematico
Un modello esemplare di magnanimità
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Si definisce così la fisionomia fortemente problematica del personaggio. Nella prospettiva di Dante scrittore Farinata è per un verso una figura negativa, in quanto incarna quello spirito fazioso che per il poeta era l’aspetto più tragico della vita politica del tempo, poiché seminava stragi, sofferenze e rovine nelle città italiane; per altro verso però è un esempio di politico che sa elevarsi al di sopra degli interessi di parte e guardare solo al bene della «patria». Per questo aspetto Dante lo propone come modello esemplare per i suoi tempi, attraverso il messaggio affidato al poema: in un’epoca così buia, in cui virtù come la magnanimità sono scomparse, quella figura del passato può indicare ancora la via per un riscatto della politica. È illuminante allora l’epiteto con cui, proprio all’aprirsi del secondo “atto”, Dante designa Farinata: «quell’altro magnanimo» (v. 73): la magnanimità è l’esatto contrario della faziosità, è la grandezza d’animo che sa superare ogni meschino interesse egoistico e proporsi solo il bene collettivo.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Le passioni private e familiari
Un effetto di chiaroscuro Lo stacco e l’intensificazione della drammaticità Dante riassume il suo credo politico e quello letterario
> Cavalcante e l’amor paterno
L’episodio di Cavalcante è giocato su note completamente diverse: se Farinata è occupato solo dalla passione politica ed è estraneo al dramma di colui che condivide il suo sepolcro, questi, simmetricamente, è estraneo al dramma politico di Farinata ed è occupato solo da passioni private e familiari, l’amore per il figlio, l’ammirazione e l’orgoglio per la sua «altezza d’ingegno», l’angoscia sulla sua sorte e il timore che non goda più del «dolce lume» della vita. Anche dal punto di vista fisico i due personaggi si presentano in forme antitetiche: Farinata si erge «col petto e con la fronte» (v. 35), Cavalcante è in ginocchio e compare fuori dal sepolcro solo dal mento in su; se Farinata si esprime in tono fermo e dignitoso, Cavalcante invece parla «piangendo» e grida per l’angoscia. È inevitabile chiedersi quali ragioni abbiano indotto Dante scrittore ad impiegare questo singolare montaggio a incastro dei due episodi. Senz’altro si può ravvisare un’esigenza artistica. I due personaggi contrapposti, con i loro caratteri così antitetici, sortiscono un effetto di chiaroscuro: la passione politica di Farinata fa risaltare la passione privata di Cavalcante, e inversamente l’esclusiva concentrazione di questi sugli affetti familiari fa risaltare il rovello politico dell’altra figura. In secondo luogo l’inserzione dell’intermezzo di Cavalcante stacca nettamente i due momenti dell’episodio di Farinata, mettendo maggiormente in rilievo la sua trasformazione da fazioso a «magnanimo» ed intensificando così la dinamicità drammatica. Ma la giustapposizione dei due personaggi possiede forse una motivazione più profonda, assume una funzione di più vasta portata: con Farinata Dante riassume un aspetto centrale del suo credo politico, la condanna delle fazioni che, scatenatesi in assenza dell’autorità imperiale, rovinano l’Italia ( i canti XV e XVI del Paradiso, TT22-23, pp. 350 e ss.); con i versi dedicati al «disdegno» di Guido sintetizza invece il nucleo del suo credo letterario, le ragioni per cui scrive il poema, rifiutando la poesia amorosa, magari intrisa di filosofia eretica averroistica come quella di Guido Cavalcanti, e puntando ad una poesia sorretta da più elevati valori etico-religiosi, indirizzata a più alte finalità. I due piani, quello politico e quello letterario, come sappiamo, non sono separati ma profondamente uniti, perché proprio con il messaggio divinamente ispirato del suo poema Dante si proponeva di indicare la via della salvezza all’umanità dei suoi tempi. L’episodio quindi, oltre al suo intrinseco, straordinario valore poetico, è di fondamentale importanza perché concentra in sé il nodo essenziale dei temi della Commedia.
Johann Heinrich Füssli, L'incontro con Farinata e Cavalcante, 1774, penna e acquerello, Zurigo, Kunsthaus.
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L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Dove si trovano Dante e Virgilio? Chi sono i dannati? Qual è la loro pena? > 2. Dante e Farinata danno vita, in due tempi (prima nei versi 22-51 e poi nei versi 73-93), ad un rinfaccio, tipi-
co contrasto dell’età comunale. Completa l’esercizio, in cui sono registrati gli attacchi verbali dei due contendenti, secondo l’esempio proposto. vv. 22-51 • Farinata: «Chi furono i tuoi antenati?». appartenere ad una famiglia guelfa . • Dante senza timore rivela di ............................................................................................................. • Farinata: «I tuoi avi furono miei avversari, tanto che .........................................................................................................................................................................................». • Dante: «Se i miei furono cacciati, ............................................................................................................................................................................................................................., cosa che non impararono .............................................................................................................................................................................................................................». vv. 73-93 • Farinata: «Il fatto che i miei non abbiano appreso bene il mestiere ................................................................................................................................., mi tormenta più ........................................................................................................................................................................................................................ Ma non passeranno cinquanta ................................................................................................................... sperimenterai quanto l’arte ................................................................................................................................................................. Ma dimmi: perché i fiorentini sono ....................................................................................................................................................................?». • Dante: «Per la strage .........................................................................................». • Farinata, sospirando: «Non fui io il solo ........................................................................... di quella strage, ................................................................................................. a viso aperto Firenze dalla .................................................................................................».
ANALIzzARE
> 3. Descrivi il personaggio di Farinata così come ce lo presenta Dante. > 4. L’episodio di Cavalcante si pone, a livello strutturale, nel mezzo dell’episodio di Farinata: completa la tabella riassumendone schematicamente il contenuto, secondo l’esempio proposto. Versi
Contenuto
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Cavalcante, credendo che Dante si trovi lì per i suoi meriti d’ingegno, gli chiede perché non vi sia .................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................. anche suo figlio ..................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
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> 5. Stile Quale tipo di rima si trova ai versi 43-45? > 6. Stile Quale figura è presente ai versi 22-23? Quale nel verso 80? > 7. Stile Esamina i versi dal punto di vista metrico: sono presenti enjambements? A quale concetto danno risalto? > 8. Stile Tutto il canto X, a livello stilistico, risulta alquanto composito: ai toni colloquiali e ai discorsi diretti si in-
trecciano toni elevati e l’uso di latinismi lessicali. Distingui, nei versi 22-42, i due diversi registri linguistici. > 9. Lessico Analizza i seguenti termini di derivazione latina, avvalendoti di un dizionario etimologico (eventualmente anche delle risorse della rete): «loquela» (v. 25), «viso» (v. 34), «conte» (v. 39), «maggior» (v. 42). APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 10. Contesto: storia Raccogliendo le informazioni storiche presenti nel brano e nelle note, ricostruisci brevemente la situazione politica di Firenze nel periodo preso in considerazione e rifletti sull’influenza che essa esercita sulla vita privata di Farinata e di Dante. PER IL RECUPERO
> 11. Chi è l’anima che appare improvvisamente? Che cosa la spinge a parlare? Che cosa dice a Dante? > 12. A partire dall’Analisi del testo, rileva l’evoluzione del personaggio di Farinata.
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L e t t e r a t u r a e Società
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«La gente nova e i sùbiti guadagni» dall’Inferno, XVI, vv. 64-78
Testo e realtà
Dante con Virgilio sta percorrendo il girone dei sodomiti, che sono colpiti da una pioggia di fuoco su una distesa di sabbia rovente. A lui si rivolge Iacopo Rusticucci, un fiorentino vissuto nella prima metà del Duecento, che aveva ricoperto varie cariche politiche nel Comune ed era stato particolarmente stimato dai concittadini. Costui, al sentire che Dante è della sua stessa città, prova l’impulso di chiedere notizie sulla condizione attuale di Firenze.
I due passi attestano l’ascesa e il consolidamento, rapidi e spregiudicati, dell’avida borghesia dei banchieri e dei mercanti, e la degradazione della nobiltà corrotta dedita all’usura
«Se lungamente l’anima conduca le membra tue» rispose quelli allora, «e se1 la fama tua dopo te luca, cortesia e valor2 dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n’è gita fora; ché Guglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco3 e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole». «La gente nova e i sùbiti guadagni4 orgoglio e dismisura5 han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Così gridai con la faccia levata6; e i tre, che ciò inteser per risposta, guatar l’un l’altro com’al ver si guata.
versi 64-72 «Possa tu vivere a lungo (lett. possa la tua anima guidare a lungo il tuo corpo)» rispose allora quello, «e possa la tua fama risplendere dopo la tua morte, dimmi se nella nostra città risiedono cortesia e virtù, come è solito avvenire, oppure sono scomparse del tutto; perché Guglielmo Borsiere, che da poco patisce con noi le pene e se ne va là con i compagni, ci preoccupa molto con le sue parole». 1. se … se: hanno valore desiderativo, non ipotetico, e introducono un augurio che ha la funzione di conquistare la benevolenza di Dante. A questo mira soprattutto l’auspicio che la sua fama duri dopo la sua morte, cosa a cui il poeta teneva particolarmente, come risulta da vari passi della Commedia. Iacopo Rusticucci sa cogliere con sensibilità questo aspetto della psicologia dantesca. 2. cortesia e valor: l’interpretazione di questa coppia di sostantivi non è facile ed è stata molto discussa. C’è chi la intende come
un’endiadi, cioè un unico concetto espresso con due termini, e allora l’idea fondamentale è quella della cortesia; altri invece intendono valor come “valore militare, coraggio”, alla latina. Si tratti sia di un concetto unico sia di due concetti distinti, essi fanno comunque riferimento ai valori della civiltà cortese-cavalleresca, ereditati dalla nobiltà cittadina di Firenze. Può però avvalorare l’ipotesi del concetto unico il fatto che il verbo dimora è al singolare. 3. Guglielmo Borsiere … poco: di lui non si hanno notizie certe. Boccaccio ne sottolinea le virtù cortesi, il che spiega perché sia angustiato dalla degenerazione della cortesia in Firenze e senta il bisogno di darne notizia ai compagni di pene infernali. I dannati non sono in grado di conoscere la realtà presente, e per questo necessitano delle informazioni fornite da chi è morto da poco. versi 73-78 «La classe nuova (gente nova) e i rapidi guadagni hanno generato or-
Luogo settimo cerchio (terzo girone) Peccatori e pena tutti i violenti contro Dio: sono nel sabbione infuocato tormentati da una pioggia di fuoco. I bestemmiatori sono distesi supini, i sodomiti camminano senza mai fermarsi, gli usurai sono rannicchiati Personaggi Dante, Virgilio, Iacopo Rusticucci
goglio ed eccessi in te, Firenze, cosicché già devi dolertene». Così gridai con il volto levato verso l’alto; e i tre peccatori, che capirono che quelle parole erano la risposta, si guardarono l’un l’altro come chi si rende conto di una verità. 4. La gente … guadagni: la gente nova è la borghesia mercantile, composta di gente immigrata dal contado per cercare in Firenze la possibilità di un rapido arricchimento con i commerci. Questa nuova classe non rispetta più i valori cortesi di cui era depositaria la piccola nobiltà cittadina, ma è mossa solo dal desiderio di profitto. 5. orgoglio e dismisura: la nuova classe ha la superbia e l’arroganza di chi è arrivato di colpo a una condizione di ricchezza e potere; proprio per questo non conosce la misura e l’equilibrio che erano le virtù proprie della vecchia classe nobiliare. 6. con … levata: verso la terra, dove si trova Firenze, oppure verso Dio.
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L’età comunale in Italia
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I nobili degradatisi a usurai dall’Inferno, XVII, vv. 46-78 Proseguendo lungo il sabbione, Dante e Virgilio giungono sull’orlo di uno strapiombo, da cui sale una creatura mostruosa, Gerione, allegoria della frode, destinata a trasportarli sulle sue spalle nel cerchio successivo, quello dei fraudolenti. Ma Dante scorge poco oltre sulla sabbia altri peccatori colpiti dalla pioggia di fuoco, gli usurai, e Virgilio lo invita a completare la propria esperienza parlando con loro.
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Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là, soccorrien1 con le mani quando a’ vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi gli occhi porsi, ne’ quali ’l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch’avea certo colore e certo segno, e quindi par che ‘l loro occhio si pasca2. E com’io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d’un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro3, vidine un’altra come sangue rossa mostrando un’oca più bianca che burro4. E un che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco5, mi disse: «Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se’ vivo anco, sappi che ’l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco6.
versi 46-51 Il loro dolore esplodeva fuori dagli occhi (sotto forma di lacrime); di qua, di là cercavano di ripararsi con le mani ora dalla pioggia di fuoco (vapori) ora dal suolo che scottava: non diversamente si comportano d’estate i cani ora col muso ora con le zampe, quando sono morsi o da pulci o da mosche o da tafani. 1. soccorrien: portavano soccorso. versi 52-57 Dopo che fissai gli occhi nel volto di certuni, su cui cade la pioggia di fuoco dolorosa, non ne riconobbi alcuno; ma mi accorsi che dal collo a ciascuno pendeva una borsa, con un colore e un segno ben distinti, della quale sembrava che i loro sguardi si nutrissero bramosamente. 2. una tasca … pasca: è la borsa dove gli usurai tenevano il proprio denaro quando esercitavano la loro opera per le strade delle città. Lo sguardo fisso avidamente su di essa rivela come l’attaccamento morboso al de-
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naro sia ancora vivo anche nell’Inferno. È una forma di totale alienazione nei beni materiali, che erano per gli usurai l’unica ragione di vita. Ogni borsa reca lo stemma nobiliare della famiglia a cui i peccatori appartenevano: il fatto di essere di stirpe nobile accresce per essi l’abiezione di essersi dedicati all’accumulo di ricchezza, come la «gente nova». versi 58-63 E come passai tra loro guardandoli, vidi su una borsa gialla una figura azzurra, che aveva i lineamenti e l’atteggiamento di un leone. Quindi, spingendo oltre la traiettoria del mio sguardo, ne vidi un’altra rossa come il sangue, che mostrava un’oca bianca più del burro. 3. procedendo … il curro: alla lettera “spingendo oltre il carro del mio sguardo”; curro dal latino currus, “carro”; o forse sostantivo ricavato dal verbo currere, “correre”, nel qual caso il termine equivarrebbe a “il corso”. 4. borsa gialla … burro: sono rispettivamen-
te gli stemmi della famiglia fiorentina dei Gianfigliazzi e di quella pure fiorentina degli Obriachi. versi 64-75 E uno che sulla sua sacca bianca portava l’immagine di una scrofa azzurra e gravida, mi disse: «Che fai in questa voragine (infernale)? Ora vattene; e poiché sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino Vitaliano siederà qui al mio lato sinistro. Tra questi fiorentini io sono l’unico padovano; spesse volte mi rintronano le orecchie gridando: “Venga il grande cavaliere, che porterà la borsa con tre caproni!”». A questo punto storse la bocca e tirò fuori la lingua, come un bue che si lecchi il naso. 5. un … bianco: come indica lo stemma della scrofa, è un appartenente alla famiglia degli Scrovegni, nobile casata padovana. Si tratta probabilmente di Reginaldo Scrovegni, noto per aver esercitato l’usura, tanto che il figlio, per espiare le colpe paterne, fece erigere a Padova la famosa cappella, affrescata da Giotto. 6. e perché … fianco: il dannato è irritato per il fatto che Dante è ancora vivo e potrà tornare sulla terra a raccontare della sua pena: per questo lo scaccia bruscamente. La profezia della venuta del suo concittadino è una sorta di ripicca o vendetta per questa vergogna che deve subire. Si riferisce a Vitaliano del Dente, genero di Reginaldo Scrovegni e famoso usuraio anch’egli.
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Con questi Fiorentin son padoano; spesse fiïte mi ’ntronan li orecchi gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!”7». Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ’l naso lecchi. E io, temendo no ’l più star crucciasse lui che di poco star m’avea ’mmonito, torna’mi in dietro da l’anime lasse.
7.“Vegna … becchi!”: si tratta di Giovanni di Buiamonte, della famiglia fiorentina dei Becchi, il cui stemma recava appunto l’im-
magine di tre caproni. Viene chiamato cavalier sovrano perché era stato insignito del titolo di miles e della carica di Gonfaloniere
di Giustizia nel 1293: il richiamo alle onorificenze ha evidentemente un valore di scherno, da parte dei dannati. versi 76-78 E io, temendo che l’indugiare oltre dispiacesse a Virgilio, che mi aveva ammonito di trattenermi poco, tornai indietro da quelle anime prostrate dalla sofferenza.
Analisi del testo
> Il valore cortese della liberalità e l’avidità della «gente nova»
Contro mercanti e banchieri
Avidità borghese e valori cortesi «Orgoglio e dismisura»
Uno sdegno da profeta biblico
Nel primo passo risalta il rimpianto di Dante per i valori cortesi, propri della nobiltà cittadina, che secondo la sua visione dominavano nella Firenze del passato. Nella sua risposta a Iacopo Rusticucci il poeta si scaglia contro l’ascesa di una nuova classe sociale («la gente nova», v. 73), che ha soppiantato la vecchia classe dirigente: sono i mercanti e i banchieri, gente venuta su dal nulla grazie alla propria intraprendenza, mossa solo dall’avidità di accumulare profitti il più in fretta possibile. Si tratta di un comportamento ispirato a una visione della vita opposta a quella cortese vagheggiata da Dante, che era fondata invece sulla «liberalitate», la generosità disinteressata. Non solo, la ricerca del guadagno ad ogni costo ha generato «orgoglio e dismisura» (v. 74), due vizi anch’essi diametralmente contrari a «cortesia e valor»: non più la misura e l’equilibrio del comportamento nella vita civile, ma la superbia di cui si gonfia chi ha improvvisamente conquistato il potere, l’arroganza prevaricatrice, il perseguimento senza scrupoli del proprio interesse, violando ogni regola, che hanno generato nella vita associata disordine e conflitti insanabili. Per il poeta ne sono derivati effetti devastanti sulla città. Si manifesta qui la posizione politica di Dante, esponente della piccola nobiltà cittadina, che è avverso alla trasformazione di Firenze in senso borghese, quindi guarda al passato con accorata nostalgia e alla situazione presente con amaro sdegno, come a una profanazione di valori sacri. La sua risposta al fiorentino di una generazione precedente è proferita in un tono solenne, a voce alta e con lo sguardo al cielo, con un’apostrofe rivolta alla città che può far pensare alle invettive dei profeti biblici. Al grido di Dante risponde il gesto dei tre fiorentini, che si guardano l’un l’altro smarriti, consapevoli della terribile realtà presente a cui non possono recare ormai alcun rimedio.
> La nobiltà fiorentina e la pratica dell’usura I nobili divenuti usurai
Le immagini degradanti
Nel secondo passo Dante viene direttamente a contatto con esponenti di spicco di quella classe dirigente borghese contro cui prima si scagliava, i banchieri. Ma in tal caso non si tratta di «gente nova»: al contrario sono tutti individui provenienti dalla classe nobiliare, che invece di coltivare le antiche virtù cortesi e disinteressate si sono degradati a maneggiar denaro per profitto, fatto che per il poeta è ancor più grave e aumenta il suo disprezzo nei loro confronti. Per la visione cristiana medievale prestare denaro a interesse era usura, un peccato mortale, e Dante rispecchia perfettamente tale visione (a cui si aggiunge lo sdegno del cultore dei valori cortesi). Il disdegno del poeta per simili individui non si esprime più in forma esplicita, come nell’apostrofe dell’episodio precedente, ma è implicito nell’oggettività del discorso e risalta in particolare dalle immagini usate: in primo luogo la similitudine dei cani in lotta con i pa327
L’età comunale in Italia
La meschinità del personaggio
rassiti, che degrada questi personaggi a un livello animalesco (e a connotare inequivocabilmente la rappresentazione Dante indulge anche a uno stile molto basso, specie con quell’enumerazione di insetti schifosi, «pulci», «mosche», «tafani»); in secondo luogo la smorfia dello Scrovegni che storce la bocca e tira fuori la lingua, come il bue che si lecca il naso, che richiama di nuovo una figura animale. Ma a dare un’immagine degradata e ripugnante dell’uomo contribuiscono anche la sua reazione stizzita contro Dante, per essere stato sorpreso all’inferno da un vivo che potrà tornare a riferire sulla terra della sua pena infamante, e l’astio vendicativo con cui profetizza la prossima venuta di altri usurai in quel cerchio, tutti comportamenti meschini e squallidi.
Dante parla con gli usurai e Virgilio con Gerione, XV secolo, miniatura dalla Divina Commedia di Dante, Inferno, canto XVII, codice It. 2017, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Quali differenze, in base ai testi, individui fra le due categorie sociali rappresentate da Dante? ANALIzzARE
> 2. Nei testi Dante presenta due modalità di rappresentazione dissimili, la prima basata sull’azione del “parlare”,
la seconda su quella del “vedere”. Illustrane rispettivamente le caratteristiche. Stile Quali figure retoriche individui nella terzina «La gente nova … ten piagni» (canto XVI, vv. 73-75)? Lessico Quale dei due testi proposti presenta un lessico realistico accanto a vocaboli di derivazione colta? Motiva la tua risposta attraverso esempi significativi. > 5. Lessico Quale forma verbale risulta presente in ambedue i testi? Dopo averla individuata, indicane l’etimologia consultando un apposito dizionario, anche on line, e spiega se il significato del termine implica un coinvolgimento emotivo. > 6. Lingua Individua le proposizioni causali e quelle consecutive presenti nel primo testo, e le temporali presenti nel secondo.
> 3. > 4.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente Analizza il bestiario che compare nel passo: da un lato gli animali a cui sono paragonati condizione ed espressioni degli usurai, dall’altro le figure animalesche degli stemmi nobiliari effigiate, o considerate come termini di paragone, sulle borse appese al collo. Che cosa osservi? Prepara la scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) su tale tematica in cui istituire anche un confronto con il bestiario presentato nel canto primo. PASSATO E PRESENTE Guadagni facili e usura
> 8. Ispirandoti ai due passi proposti, prova ad effettuare dei confronti tra l’epoca di Dante e il contesto odierno:
da chi è rappresentata, oggi, la «gente nova» dai «sùbiti guadagni»? Quali categorie sociali sono coinvolte nella piaga dell’usura? Dopo aver selezionato articoli di giornale sulla tematica affrontata nei due passi proposti dalla Commedia, poni la questione per una discussione in classe con i tuoi compagni.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi interattiva
Echi nel tempo La figura di Ulisse nella letteratura moderna
Audio
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Ulisse
Temi chiave
dall’Inferno, XXVI, vv. 85-142 Varcando il ponte che sormonta l’ottava fossa di Malebolge, Dante la vede disseminata di fiamme, entro le quali sono celati i peccatori, coloro che con i loro consigli incitarono alla frode. Attira la sua attenzione una fiamma biforcuta, nella quale, come spiega Virgilio, sono racchiusi Ulisse e Diomede, i due eroi greci che compirono insieme varie imprese, narrate nell’Iliade di Omero. Sono qui puniti per tre loro consigli fraudolenti: l’inganno del cavallo di Troia, quello mediante cui fu smascherato Achille (costretto dalla madre Teti a rifugiarsi nell’isola di Sciro travestito da donna per sfuggire alla morte in guerra) e il furto della statua di Pallade che proteggeva Troia. Dante prova un intenso desiderio di parlare con loro. Virgilio, che ha letto il desiderio nella mente di Dante, invita Ulisse a narrare le vicende che lo avevano condotto alla morte.
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Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica1; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pieta2 del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore3; ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto4.
versi 85-90 Il corno maggiore della fiamma in cui erano racchiusi i due personaggi antichi (fiamma antica) cominciò ad agitarsi (crollarsi) emettendo un mormorio, come una fiamma scossa dal vento (cui … affatica); quindi, muovendo la cima qua e là, come fosse la lingua che parlasse, emise la voce e disse: 1. Lo maggior … affatica: cui è complemento oggetto. Il corno è più grande perché racchiude Ulisse, il più famoso dei due eroi. versi 90-102 «Quando mi allontanai (diparti’) da Circe, che (nel viaggio di ritorno
da Troia a Itaca) mi trattenne (sottrasse me) per più di un anno presso Gaeta, prima che così Enea chiamasse quella località (la nomasse), né il tenero legame (dolcezza) con mio figlio (Telemaco), né il rispetto affettuoso (pieta) per il mio vecchio padre (Laerte), né il dovuto (debito) amore coniugale che avrebbe dovuto rendere felice mia moglie Penelope, poterono vincere in me l’ardente desiderio (ardore) di divenire esperto del mondo e di conoscere i vizi e le virtù (valore) degli uomini; ma mi avventurai (misi me) per il profondo (alto) mare aperto (il Mediterraneo) solo con una nave (legno) e
• la sete di conoscenza • i limiti posti da Dio alla conoscenza • l’ammirazione di Dante per Ulisse
Luogo ottavo cerchio (ottava bolgia) Peccatori e pena consiglieri fraudolenti: si muovono qua e là per la bolgia avvolti in fiammelle che li nascondono completamente Personaggi Dante, Virgilio, Ulisse e Diomede
con quella piccola compagnia dalla quale non fui abbandonato (diserto). 2. pieta: latinismo. 3. Quando … valore: Circe abitava nei pressi di Gaeta, nella località che oggi dal suo nome è chiamata promontorio del Circeo. Dotata di poteri magici, affascinava gli uomini e poi li trasformava in maiali (sorte che appunto toccò ai compagni di Ulisse, come è narrato nell’Odissea). Il nome di Gaeta fu attribuito a quel luogo della costa laziale da Enea, per ricordare la propria nutrice che lì era morta (Eneide, VII, vv. 1-4). Dante non conosceva il poema omerico, ma neppure le numerose rielaborazioni romanzesche medievali del mito di Ulisse, sia in latino sia in francese, in cui era narrato il suo ritorno a Itaca: i dati li ricava da vari passi di classici latini che parlano di lui. In tutti questi autori Ulisse era presentato come eroe pronto ad affrontare le più ardue imprese e i più gravi pericoli per la sua sete di conoscenza (in Orazio, Cicerone, Seneca), ma talora anche come consigliere di frodi grazie alla propria astuzia ed abilità di parola (in Virgilio, Ovidio, Stazio). Su questi scarsi spunti il poeta elabora originalmente la sua invenzione dell’ultimo viaggio dell’eroe. 4. ma misi … diserto: si notino l’allitterazione ma, misi, me, mare, l’insistenza sulle vocali aperte a (alto mare aperto), che danno un senso di vastità, e la posposizione del pronome personale me, intesa a mettere in rilievo l’audacia del singolo, che osa sfidare i pericoli del mare per soddisfare la sua sete di conoscere. Diserto è un latinismo.
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Video Lettura dantesca di R. Herlitzka
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L’un lito e l’altro5 vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre6 che quel mare intorno bagna. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta7 dov’Ercule segnò li suoi riguardi8 acciò che l’uom più oltre non si metta9; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta10. “O frati”, dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente11. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino12, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino13.
versi 103-105 Vidi l’una e l’altra sponda (lito) (del Mediterraneo) fino alla Spagna, fino al Marocco, e (vidi) la Sardegna e le altre (isole) che quel mare bagna. 5. L’un lito e l’altro: cioè la costa europea e quella africana. 6. l’altre: cioè la Corsica, la Sicilia, le Baleari. versi 106-111 Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti (tardi) quando giungemmo a quello stretto sbocco (foce), dove Ercole pose i suoi segnali (riguardi) per
ammonire i naviganti a non avventurarsi oltre; sulla destra mi lasciai Siviglia, a sinistra (da l’altra) avevo già lasciato Ceuta. 7. foce stretta: lo stretto di Gibilterra. 8. riguardi: le leggendarie colonne d’Ercole. 9. acciò … metta: il verbo si metta riprende studiatamente il misi me del verso 100, a ribadire l’audace violazione del divieto da parte di Ulisse. Come ha sottolineato Maria Corti, nella tradizione greca non vi è cenno a un divieto di passaggio dello stretto: furono
gli Arabi nel Medioevo a inventarlo. Ed anche di origine araba è la leggenda di un monte in mezzo all’oceano sede del paradiso (nella Commedia, del purgatorio e del paradiso terrestre). 10. Sibilia … Setta: rispettivamente in Spagna e in Marocco. versi 112-120 “O fratelli”, dissi, “che attraverso centomila pericoli siete giunti all’estremo limite occidentale del mondo, non vogliate negare l’esperienza di conoscere il mondo disabitato (sanza gente), seguendo il corso del (di retro al) sole, a questo tanto breve periodo di vita sensibile (terrena) che ci rimane (picciola … rimanente). Considerate la vostra origine (semenza): non siete stati creati per vivere come gli animali (bruti), ma per cercare la virtù e la conoscenza”. 11. sanza gente: la concezione corrente ai tempi di Dante era che l’emisfero opposto a quello di Gerusalemme fosse tutto coperto dalle acque, e quindi disabitato. versi 121-126 Con questo breve discorso (orazion picciola) resi i miei compagni così desiderosi (aguti) di continuare il viaggio (cammino), che a stento poi li avrei trattenuti (ritenuti); e volta la poppa della nave verso oriente (nel mattino) trasformammo i remi in ali per il folle volo, continuando ad avanzare (acquistando) verso sinistra (lato mancino). 12. nel mattino: cioè verso occidente. 13. e volta … mancino: Ulisse si spinge verso sud-ovest (dal lato mancino), cioè nell’altro emisfero. Si tenga presente che a quel tempo il continente africano era ritenuto molto più breve, limitato al solo emisfero settentrionale. L’aggettivo folle indica un eccesso di ardimento, che trasforma una virtù in vizio.
Pesare le parole Riguardi (v. 108)
> Da re e guardare, dal francone wardon, “stare in guar-
dia”. Qui è usato nel senso di “segno di confine”, che bisogna rispettare, non bisogna oltrepassare. Il senso comune oggi è “cura, attenzione, cautela nel maneggiare qualcosa o nel trattare qualcuno” (es. tratta con riguardo i libri che ti ho prestato; abbi riguardo alla tua salute), oppure “rispetto, considerazione” (es. abbi riguardo per le persone anziane). Riguardo a vale “in relazione a, per quanto si riferisce a” (es. riguardo a quanto mi hai chiesto, la mia risposta è no).
Vigilia
(v. 114)
> Dal latino vigìliam, “tempo della veglia”. Qui indica il
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tempo in cui i sensi sono ancora svegli, quindi si è ancora in vita. Oggi vigilia nel senso di “veglia”, “notte trascorsa senza dormire”, è ormai in disuso; il senso corrente nel linguaggio religioso è “giorno che precede una solennità” (es. vigilia di Natale, di Pasqua…); più genericamente, “giorno che precede un fatto di rilievo” (es. vigilia degli esami, del matrimonio…), oppure “periodo di tempo che precede un evento di grande risonanza” (es. alla vigilia della Prima guerra mondiale l’opinione pubblica era divisa tra le posizioni degli interventisti e degli antinterventisti). Dalla medesima parola latina deriva anche veglia, che a differenza di vigilia ha subito nel passaggio dal latino all’italiano consistenti trasformazioni fonetiche.
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Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo14. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna15, poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna16. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
versi 127-135 La notte faceva vedere già tutte le stelle del polo Sud (l’altro polo), e quelle del nostro polo (quello artico) così basse, che non si elevavano sopra (surgëa fuor del) la superficie del mare (marin suo-
lo). Cinque volte si era illuminata (racceso) e altrettante si era spenta (casso) la faccia inferiore (lo lume … sotto) della luna, da che avevamo intrapreso (’ntrati) l’arduo viaggio (alto passo), quando ci apparve una
montagna scura (bruna) per la distanza, alta quanto non ne avevo mai vista alcuna altra. 14. Tutte … suolo: Ulisse ha dunque varcato l’Equatore. Altri intende la notte come complemento di tempo, durante la notte, e vedea come prima persona singolare, io vedevo. 15. Cinque … luna: la faccia inferiore della luna è quella rivolta verso la terra; la perifrasi dei versi 130-131 significa che erano passati cinque mesi. 16. montagna … alcuna: è la montagna del purgatorio che si trova nel mezzo dell’oceano, agli antipodi di Gerusalemme. versi 136-142 Noi ci rallegrammo (a quella vista), ma subito (tosto) la gioia si trasformò in dolore, perché dalla terra sconosciuta (nova) scaturì (nacque) un turbine di vento (turbo) che colpì la prua (primo canto) della nave (legno). Tre volte (il turbine) fece girare su stessa la nave (il) con tutte le acque (che la circondavano); la quarta volta fece levare la poppa in alto (suso) e fece andare la prua in giù, come volle Dio (altrui), fin che il mare non si fu richiuso sopra di noi».
Analisi del testo L’«ardore» di «divenir del mondo esperto»
Nella conoscenza è la massima nobiltà dell’uomo I limiti posti da Dio alla conoscenza
> Il problema della conoscenza
Motivo centrale dell’episodio è quello della conoscenza: Ulisse si avventura nel suo viaggio verso l’ignoto spinto dall’«ardore» di «divenir del mondo esperto» (v. 98), anche a costo di sacrificare valori sacri come gli affetti domestici, e nella sua «orazion picciola» ai compagni ricorda che nel seguir «virtute e canoscenza» consiste l’essenza dell’uomo, ciò che lo distingue dagli animali. Il problema che si pone è stabilire quale sia l’atteggiamento di Dante verso il personaggio e quale il giudizio nei confronti della sua impresa. Dante condivide certamente l’idea che nella conoscenza consista la massima nobiltà dell’uomo: lo afferma esplicitamente nel Convivio, dove sostiene che la scienza è «l’ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade» (I, 1), e a confermarlo basta la riverenza per Virgilio, il «savio gentil che tutto seppe». Però è anche convinto che la conoscenza abbia precisi limiti, che non è lecito all’uomo varcare, limiti imposti da Dio stesso. Ulisse ha varcato questi limiti: ha affrontato un’impresa superiore alle forze umane, che inevitabilmente deve concludersi con un fallimento, ma ha anche tentato di giungere alle rive del purgatorio, lui uomo vivo e per di più pagano, non sorretto dalla Grazia. Se l’impresa fosse riuscita, sarebbero state violate le leggi divine dell’universo.
> Il significato dell’exemplum
La necessità di frenare l’ingegno
La chiave per intendere l’episodio va allora cercata in due terzine poste all’inizio del canto (vv. 19-24), in cui Dante anticipa l’insegnamento che egli ha tratto dall’incontro con Ulisse e quello che egli vuole sia tratto dal lettore: «Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, / e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, / perché non corra che virtù nol guidi; / sì che, se stella bona o miglior cosa / m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi». L’insegnamento è quello di frenare l’ingegno, di non lasciarlo correre liberamente, senza la guida della virtù, se non ci si vuole privare del bene concesso dalla Grazia: che è proprio l’errore commesso da Ulisse. Quello proposto attraverso il racconto 331
L’età comunale in Italia
Il viaggio «folle»
L’ammirazione di Dante
Ulisse e l’aristotelismo radicale
del suo ultimo viaggio è dunque un exemplum negativo, di un uso errato dell’intelligenza e della volontà di conoscere (pur in sé lodevoli), che porta alla rovina. Per questo, attraverso le parole dell’eroe stesso, il suo viaggio è definito «folle» (ed ancora in Paradiso, XXVII, vv. 82-83, Dante ripete l’aggettivo: «il varco folle d’Ulisse»). Tuttavia il poeta non può esimersi dall’ammirare quell’ardore di conoscenza, quella virtù che solo per eccesso, per mancanza di un freno, si è rovesciata in vizio. Ne deriva l’aura di eroica, epica dignità che avvolge il racconto del viaggio e che distingue nettamente il personaggio di Ulisse dalle altre figure che popolano Malebolge, degradate spesso al di sotto del livello umano. L’atteggiamento di Dante verso Ulisse è quindi profondamente problematico, come sempre avviene nei grandi episodi dell’Inferno. La problematicità deriva anche dal significato autobiografico che il poeta proietta nell’episodio. Nell’ardore di conoscenza di Ulisse, come ha indicato Maria Corti, si possono chiaramente riconoscere le posizioni dei filosofi aristotelici radicali del tempo di Dante, convinti che l’uomo potesse con le sole forze della sua intelligenza arrivare alla verità, senza la guida offerta da Dio; posizioni che Dante stesso, negli anni giovanili, insieme con l’amico Cavalcanti aveva condiviso, ma che poi aveva superato (e proprio dal superamento era nata la Commedia). Con l’episodio di Ulisse Dante prende dunque le distanze da concezioni che erano state anche le proprie in passato, affascinanti certo, e dotate di un’intrinseca nobiltà, ma di cui aveva riconosciuto l’erroneità e la pericolosità.
> Il viaggio di Ulisse e quello di Dante L’impresa di Dante non è «folle»
Nell’episodio è ravvisabile un’implicita contrapposizione tra il viaggio di Ulisse e il viaggio di Dante stesso, che è anch’esso un viaggio di conoscenza oltre i limiti umani, ad esplorare il mistero dell’aldilà. Ma mentre l’impresa di Ulisse non è sorretta dalla Grazia e quindi è destinata allo scacco, quella di Dante si svolge in obbedienza ad una missione affidata da Dio stesso, quindi non implica alcuna trasgressione, alcuna forma di «folle» superbia intellettuale.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Nel suo racconto, Ulisse propone un’esperienza individuale o collettiva? Motiva la tua risposta attraverso riferimenti al testo.
ANALIzzARE
> 2.
Stile Analizza la celebre terzina «Considerate … canoscenza» (vv. 118-120): su quali figure retoriche è basata la sua efficacia espressiva? > 3. Lessico Individua nel testo esempi significativi di vocaboli o espressioni che appartengono allo stile elevato. > 4. Lessico Evidenzia il ricorrere dell’aggettivo «picciolo»/«picciola»: quale significato assume? > 5. Lingua Il passo, che consiste in buona parte nel discorso di Ulisse rivolto a Dante, comprende a sua volta un altro discorso: quale? Effettuane l’analisi del periodo.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) indica da quali elementi del passo si evince la diversità dell’Ulisse dantesco dalla figura riferita alla tradizione omerica. > 7. Competenze digitali L’ultimo viaggio di Ulisse nel Mediterraneo: avvalendoti delle nuove tecnologie, realizza una mappa o cartina degli spazi in cui si svolge la navigazione, inserendo anche immagini o elementi grafici di altro tipo.
PER IL RECUPERO
> 8. Per quale motivo Ulisse cita suo figlio, suo padre e sua moglie? > 9. Come si conclude l’ultima avventura dell’eroe greco? Qual è il significato simbolico di questo finale? > 10. Spiega l’immagine «de’ remi facemmo ali al folle volo» (v. 125).
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
La voce del Novecento
Primo Levi e il canto di Ulisse nell’inferno del Lager nazista Primo Levi (1919-87) in Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947, descrive la sua esperienza nei campi di sterminio nazisti. È una testimonianza straordinaria sulla barbarie dell’universo concentrazionario, che mirava a distruggere fisicamente e psicologicamente i deportati.
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Appeso con una mano alla scala oscillante, mi indicò: – Aujourd’hui c’est Primo qui viendra avec moi chercher la soupe1. Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano strabico; ora questi era caduto in disgrazia per non so che storia di scope rubate in magazzino, e Pikolo era riuscito ad appoggiare la mia candidatura come aiuto nell’«Essenholen2», nella corvée quotidiana del rancio. Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ciglia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe3, e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno. Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero. – Tu es fou de marcher si vite. On a le temps, tu sais4 –. Il rancio si ritirava a un chilometro di distanza; bisognava poi ritornare con la marmitta di cinquanta chili infilata nelle stanghe. Era un lavoro abbastanza faticoso, però comportava una gradevole marcia di andata senza carico, e l’occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine. Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri! Anche sua madre lo rimproverava di non saper mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l’era cavata, che giorno per giorno se la cavava.
1. Aujourd’hui … soupe: oggi verrà Primo a ritirare la zuppa con me. 2. Essenholen: l’andare a prendere il
cibo. 3. stanghe: per reggere il recipiente della zuppa.
4. Tu es … sais: sei matto a camminare così in fretta. Abbiamo tempo, sai.
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Passò una SS in bicicletta. È Rudi, il Blockführer5. Alt, sull’attenti, togliersi il berretto. – Sale brute, celui-là. Ein ganz gemeiner Hund6 –. Per lui è indifferente parlare francese o tedesco? È indifferente, può pensare in entrambe le lingue. È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l’altra, l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora. Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi, con una gamella7 nascosta sotto la giacca. Pikolo sta attento, coglie qualche parola del nostro dialogo e la ripete ridendo: – Zuppa, cam-po, ac-qua. Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa mai, quello fa il male per il male. … Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. … Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua che parlasse Mise fuori la voce, e disse: Quando8… Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «... la pietà Del vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto? ... Ma misi me per l’alto mare aperto.
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Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk9, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare. «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il
5. Blockführer: erano così chiamati i militi incaricati della sorveglianza di singoli reparti della fabbrica a cui erano adibiti i detenuti. 6. Sale … Hund: la frase è metà in francese e metà in tedesco (gli alsaziani so-
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no bilingui): è uno sporco bruto, quello là. Un cane malvagio. 7. gamella: recipiente metallico in dotazione ai soldati usato per contenere il rancio. 8. Lo maggior … Quando: in un’edi-
zione da lui stesso commentata, l’autore precisa in una nota che i passi danteschi sono citati a memoria, perciò contengono molte inesattezze. 9. Kraftwerk: centrale elettrica.
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viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: … Acciò che l’uom più oltre non si metta.
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«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie10; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Li miei compagni fec’io sì acuti...
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… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «… Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine. – Ça ne fait rien, vas-y tout de même11. ... Quando mi apparve una montagna, bruna Per la distanza, e parvemi alta tanto Che mai veduta non ne avevo alcuna.
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Sì , sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Renato Guttuso, Ulisse, tecnica mista su carta, illustrazione da Il Dante di Guttuso, Inferno, canto XXVI, Milano 1970.
10. riguarda … specie: Levi commenta: «La famosa terzina appena citata acquista un valore terribilmente attua-
le per l’autore e per il suo amico: in Lager si vive “come bruti”, la “semenza” umana è calpestata, virtù e conoscenza
sono relegate a rari attimi di pace». 11. Ça … même: non importa, continua egualmente.
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Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento…» no, un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, Alla quarta levar la poppa in suso E la prora ire in giù, come altrui piacque…
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Trattengo Pikolo, assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo12, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui13… Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Kaposzta és répak14. Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso15. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1981
12. anacronismo: il fatto che il pagano Ulisse faccia riferimento al Dio cristiano («come altrui piacque»). 13. il perché … qui: intravede un’analogia tra il naufragio di Ulisse e la sorte dei prigionieri: sono stati gli uni e gli altri puniti, l’eroe greco per aver infran-
to i vincoli imposti da Dio, i detenuti perché hanno osato opporsi all’ordine fascista in Europa. 14. Choux … répak: «cavoli e rape» è ripetuto in francese e in polacco, oltre che in tedesco e in italiano, poiché i deportati provengono da diversi paesi europei.
15. Infin … rinchiuso: il verso che chiude l’episodio di Ulisse pone fine anche a un altro «volo», lo sforzo dei due prigionieri per sollevarsi al di sopra della realtà spaventosa del Lager.
Analisi del testo Un senso alla vita
Salvare qualcosa di umano
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Il canto dantesco di Ulisse ha una funzione essenziale in questo famoso episodio del libro di Primo Levi. Nei versi del poeta trecentesco, l’uomo di una tragica epoca del Novecento, quella della guerra mondiale, della follia nazista e dello sterminio del popolo ebraico, trova un’illuminazione che può dare un senso alla vita, proprio al centro dell’orrore assoluto. La semplice descrizione delle condizioni di vita nei campi di concentramento rappresenta di per sé un implacabile atto di accusa nei confronti del nazismo, senza che l’autore si abbandoni a espressioni di odio o di rancore. Nell’estrema degradazione provocata dal Lager, in cui l’uomo è ridotto a un bruto che non pensa e che obbedisce istintivamente ai soli bisogni primordiali, mangiare ed evitare il dolore, l’aggrapparsi al ricordo letterario può ancora esprimere il disperato tentativo di salvare qualcosa di umano. La chiave del passo è quindi nella citazione dei famosi versi: «Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e conoscenza», che costituiscono per il narratore un’illuminazione e risuonano in lui come per la prima volta. È un messaggio «che riguarda tutti gli uomini in travaglio», specie chi, come i due prigionieri, è costretto a parlare con le stanghe del recipiente della zuppa sulle spalle. Ma poi l’episodio dantesco suscita l’affollarsi di riflessioni e di ricordi: è tutta la parte
Capitolo 4 · Dante Alighieri
La resistenza all’annientamento
spirituale dell’individuo, quella che l’organizzazione del Lager mira sistematicamente ad annientare, che riaffiora, ha la meglio sulla riduzione dell’uomo ad animale o a cosa. L’ostinato tentativo di ricomporre nella memoria i versi di Dante diviene una forma di resistenza all’annientamento. Il recupero dell’umanità si unisce indissolubilmente al bisogno di socialità: la letteratura serve anche a stabilire immediatamente il legame con l’altro uomo. L’arrivo tra la folla sordida dei «porta-zuppa» segna la reimmersione nel quotidiano inferno concentrazionario, ed è suggellato emblematicamente dal parallelismo fra la ripetizione degli ingredienti della zuppa in varie lingue, che allude al ritorno a una condizione animalesca attenta solo ai bisogni primari, e l’ultimo verso dell’episodio dantesco, «Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso».
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Riassumi in circa 15 righe (750 caratteri) il contenuto del brano. > 2. Analizzando le citazioni dal canto dantesco, ricostruisci il percorso della memoria effettuato da Levi; completa la tabella secondo l’esempio proposto. Citazioni dantesche
Ricordi di Levi
(«Lo maggior corno… Quando…») rr. 39-44 ...................................................................................................................
Presentazione dell’anima di Ulisse sotto forma di lingua di fuoco .......................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 48-51......................................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
r. 67 .................................................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 73-75 ...................................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
r. 83 ................................................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 91-93 ...................................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 106-108 ..........................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
r. 119 .............................................................................................................................
.......................................................................................................................................................................................................................................................
ANALIZZARE
> 3.
Narratologia Quali aspetti della vita del Lager emergono dal brano? E quali aspetti, filtrati dalla memoria, della vita privata precedente alla deportazione? > 4. Lessico Quali vocaboli appartengono al lessico utilizzato nei campi di concentramento? > 5. Lingua Individua nel testo un esempio significativo di sintassi spezzata, ma dall’impianto ordinato e logico, e motiva la tua scelta. > 6. Lingua Alle righe 52-54 l’autore si sofferma su una scelta di traduzione effettuata con convinzione: il dantesco «misi me» non vale je me mis, ovvero “io mi misi”. Perché?
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Esporre oralmente Avvalendoti eventualmente anche della tabella dell’esercizio 2, in un’esposizione orale (max 5 minuti) prova ad immaginare liberamente, per ogni fase della versione dantesca dell’esperienza di Ulisse, una o più analogie e/o corrispondenze con momenti e situazioni del racconto di Levi.
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L’età comunale in Italia
T20
Analisi interattiva
Ugolino
Temi chiave
dall’Inferno, XXXII e XXXIII, vv. 124-139 e vv. 1-90 Dante e Virgilio sono scesi nell’ultimo cerchio dell’inferno, il nono, che racchiude i traditori. Esso è costituito da un immenso lago ghiacciato per il gelo prodotto dalle ali di Lucifero. Nel ghiaccio sono immersi i peccatori, taluni interamente, altri lasciando emergere la testa.
• la fame • la tragedia di un padre • la condanna del clima di odio politico
Canto XXXII
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Noi eravam partiti già da ello1, ch’io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l’un capo a l’altro era cappello; e come ’l pan per fame si manduca, così ’l sovran li denti a l’altro pose là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca2: non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno3, che quei faceva il teschio e l’altre cose. «O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi ’l perché», diss’ io, «per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch’io parlo non si secca4».
versi 124-132 Noi ci eravamo già allontanati da lui (ello), quando vidi due dannati confitti nel ghiaccio (ghiacciati) in un’unica buca, in modo tale che la testa dell’uno sovrastava quella dell’altro, come un cappello; e come si mangia (manduca) avidamente il pane quando si è affamati, così il dannato che stava di sopra (’l sovran) addentava l’altro (li denti … pose) là dove il cervello si attacca (s’aggiugne) al midollo spinale (nuca): non diversamen-
te da come Tideo divorò (si rose) per odio feroce (disdegno) il cranio di Menalippo, così il dannato (quei) rosicchiava il teschio e l’interno del cranio (altre cose) (all’altro). 1. ello: Bocca degli Abati, un fiorentino che aveva tradito i Guelfi alla battaglia di Montaperti. 2. nuca: midollo spinale, tale è il senso di nuca nel linguaggio della medicina medievale. 3. non altrimenti … disdegno: Tideo era uno dei sette re che assediarono Tebe du-
Pesare le parole Manduca (v. 127)
Convegno
Luogo nono cerchio Peccatori e pena traditori: giacciono in modalità diverse in un lago ghiacciato Personaggi Dante, Virgilio, Ugolino della Gherardesca
rante la guerra fra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice. Come narra Stazio nella Tebaide (VIII, vv. 732-766), ferito a morte dal tebano Menalippo, riuscì a sua volta ad ucciderlo e prima di morire addentò ferocemente la testa troncata del nemico. versi 133-139 «O tu che con una manifestazione così animalesca (per … segno) mostri odio nei confronti (sovra) di colui che ti stai mangiando, dimmi il perché», io dissi, «a questo patto (convegno): che se tu hai ragione di dolerti (ti piangi) di lui, conoscendo chi siete e il suo peccato (pecca), io possa ancora compensarti nel mondo dei vivi (suso) (riferendo le sue colpe verso di te), se la mia lingua (quella … parlo) non si secca». 4. se … secca: è una formula augurale.
(v. 135)
> Forma arcaica, modellata sul latino manducàre, “mangiare” > Deriva da cum e venìre, quindi “venire insieme”. Qui il
>
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(da màndere, “masticare”, da cui deriva anche mandibola). Nell’italiano moderno ha dato luogo appunto a mangiare, in seguito a un processo abituale nel passaggio tra latino e italiano, la palatalizzazione del gruppo /duc/ in /gi/. In latino il termine più consueto per “mangiare” era èdere, con il composto comèdere: da quella radice viene il nostro commestibile, “che si può mangiare”, oppure il termine dotto e scientifico edule (funghi eduli, “non velenosi, commestibili”). Da comèdere proviene la parola spagnola per “mangiare”, comer, mentre il termine francese come quello italiano proviene da manducare (manger).
termine è usato nel senso di “patto, accordo” (a sua volta accordo viene da corda di uno strumento musicale, è perciò un uso figurato che rimanda all’armonizzazione di diversi suoni). Il senso corrente di convegno è “incontro di due o più persone a un’ora e in un luogo stabiliti” (es. ci siamo dati convegno alle tre davanti al duomo); in senso più particolare è un incontro di studiosi per esaminare e discutere un problema (es. si è tenuto un convegno medico sulle nuove tecniche chirurgiche).
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Canto XXXIII
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La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator5, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli6. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme7. Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand’io t’odo8. Tu dei saper ch’i ’fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri9: or ti dirò perché i son tal vicino10. Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri11; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso12. Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha ’l titol de la fame13, e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
versi 1-6 Quel peccatore sollevò la bocca dal feroce (fiero) pasto, pulendola (forbendola) con i capelli della testa che egli aveva rosicchiato nella nuca (di retro guasto). Poi cominciò (a dire): «Tu vuoi che rinnovi (rinovelli) il disperato dolore che mi opprime (mi preme) il cuore, già solo al pensiero, prima ancora che io ne parli (favelli). 5. quel peccator: si tratta di Ugolino della Gherardesca, di nobile famiglia ghibellina, che possedeva feudi in territorio pisano e in Sardegna. Nel 1275, d’accordo con il genero Giovanni Visconti, capo dei Guelfi pisani, tramò contro i Ghibellini per difendere i propri possedimenti dal Comune di Pisa. Bandito dalla città, vi rientrò nel 1276, assumendo posizioni di potere. Come podestà, dopo che Pisa fu sconfitta dai Genovesi nella battaglia della Meloria nel 1284, cedette alcuni castelli a Lucca e Firenze per dividere l’alleanza fra queste città e Genova. I Ghibellini, sotto la guida dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, insorsero con l’appoggio di alcune grandi famiglie e del popolo pisano e cacciarono il nipote Nino Visconti che Ugolino si era associato al potere, poi bandirono Ugolino stesso. Ruggieri lo fece tornare con il pretesto di stabilire un accordo e lo rinchiuse, insieme a
due figli, Gaddo e Uguccione, e a due nipoti, Nino detto il Brigata e Anselmuccio, in una torre. Dopo nove mesi di prigione i cinque furono lasciati morire di fame. 6. Tu vuo’ … favelli: le parole di Ugolino riecheggiano un passo virgiliano, in cui Enea, prima di iniziare il racconto delle sue sventure, così si rivolge a Didone: «Regina, tu mi inviti a rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 3). Anche l’espressione ’l cor mi preme è virgiliana: «Premit altum corde dolorem» (soffoca nel cuore il profondo dolore, Eneide, I, v. 209). versi 7-12 Ma se le mie parole devono essere l’origine (esser … seme) che generi (frutti) disonore (infamia) al traditore che io rodo, mi vedrai parlare anche se ciò mi costa dolore e lacrime. Io non so chi tu sia né come sei giunto quaggiù; ma quando ti odo (parlare) mi sembri davvero fiorentino. 7. parlare … insieme: il verbo vedrai propriamente dovrebbe essere riferito solo a lagrimar (è la figura che si chiama zeugma). 8. Io non … t’odo: a differenza di altri dannati, a Ugolino non interessa sapere nulla del suo interlocutore, neanche come ha potuto, lui vivo, scendere nell’inferno. Gli interessa solo che Dante possa riferire nel mon-
do terreno l’atrocità della sua morte, che getta infamia su Ruggieri. Gli basta quindi intuire dalla parlata che Dante è fiorentino. versi 13-21 Tu devi sapere che io fui Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché io sono per lui un vicino così feroce (tal). Non è necessario dire (dir … mestier) che, a causa dei suoi malvagi disegni (mai pensieri), fidandomi di lui io fui imprigionato (preso) e poi ucciso (morto); però udrai ora ciò che non hai potuto sapere, cioè come la mia morte fu crudele (cruda), e saprai se costui (e’) mi ha arrecato offesa. 9. Tu … Ruggieri: Ugolino accenna solo al proprio nome e a quello del nemico, perché è sicuro che Dante conosca la sua storia, che aveva suscitato enorme sensazione all’epoca. 10. i son … vicino: i vale gli. Nella parola vicino si avverte una nota ironica. 11. Che per … mestieri: Ugolino sorvola sugli antefatti ben noti a Dante e vuol concentrarsi solo sulla crudeltà della morte che è stata inflitta a lui e ai suoi figli. 12. però … offeso: Ugolino risponde alla domanda del verso 136 del canto precedente: «se tu a ragion di lui ti piangi». versi 22-27 Una stretta feritoia (Breve pertugio) nella torre della Muda, che a causa mia porta ora il nome (’l titol) di torre della fame, e nella quale altri ancora dovranno essere imprigionati (si chiuda), attraverso la sua fessura (per … forame) mi aveva già mostrato il succedersi di più mesi (lune), quando io feci l’orribile sogno (mal sonno) che squarciò il velo del futuro. 13. la qual … fame: perché Ugolino vi è morto d’inedia.
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Video Lettura dantesca di C. Bene
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m’avea mostrato per lo suo forame più lune14 già, quand’io feci ’l mal sonno che del futuro mi squarciò ’l velame15. Questi pareva a me maestro e donno16, cacciando il lupo e’ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno17. Con cagne magre18, studïose19 e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi da la fronte20. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ’ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi21. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane22. Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli23 pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e l’ora s’appressava che ’l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti’ chiavar24 l’uscio di sotto a l’orribile torre; ond’io guardai nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio25 disse: “Tu guardi sì26, padre! che hai?”.
14. lune: propriamente mesi lunari. 15. Breve … velame: Ugolino e i figli (così nel racconto li presenta Dante, per ragioni poetiche, anche se nella realtà si trattava di due figli e di due nipoti) erano stati rinchiusi nella torre dei Gualandi, allora adibita a prigione. Si chiamava anche “della Muda” perché vi si tenevano le aquile del Comune a mutare le penne. Il verso 24 può significare che Ugolino prevede che altri prigionieri politici vi saranno ancora rinchiusi dopo di lui, ma può anche esprimere l’augurio che vi siano imprigionati a loro volta i suoi nemici. Del futuro mi squarciò ’l velame: cioè preannunciò a Ugolino la sua fine. versi 28-33 (Nel sogno) costui (Ruggieri) mi appariva come capo (maestro) e signore (donno) (di una brigata di cacciatori), che inseguiva il lupo e i suoi piccoli sul monte San Giuliano, che separa le città di Pisa e di Lucca. Aveva messo dinanzi alla compagnia i Gualandi, i Lanfranchi ed i Sismondi, con cagne magre, accanite nell’inseguimento (studïose) ed esperte nella caccia (conte). 16. maestro e donno: sono sinonimi. Donno proviene dal latino dominus, “signore”. È
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evidente che il lupo rappresenta Ugolino stesso e i lupicini sono i suoi figli. 17. che i Pisan … ponno: le città, pur essendo vicine, non si possono vedere, in quanto sono separate dal monte San Giuliano. 18. magre: cioè affamate. 19. studïose: latinismo. 20. Con cagne … fronte: le cagne rappresentano la plebe pisana, sobillata da Ruggieri contro Ugolino. Gualandi, Sismondi e Lanfranchi sono tre nobili famiglie ghibelline di Pisa, nemiche di Ugolino. versi 34-39 Dopo una breve corsa (In picciol corso) il padre e i figli mi apparivano stanchi, e mi pareva di vedere le cagne squarciare (fender) loro i fianchi con le zanne aguzze (agute scane). Quando mi svegliai prima che facesse giorno (innanzi la dimane), udii piangere nel sonno i miei figli, che erano con me, e chiedere del pane. 21. In picciol … fianchi: si noti l’umanizzazione del lupo e dei sui piccoli, chiamati padre e figli: il simbolo onirico si fa trasparente. 22. e dimandar del pane: Ugolino capisce che anche i figli stanno facendo sogni premonitori della loro morte.
versi 40-48 Sei davvero (Ben) crudele, se tu già non provi dolore pensando a ciò che il mio cuore prediceva a se stesso (s’annunziava); e se non piangi (per questo), per che cosa sei solito (suoli) piangere? (I miei figli) erano già svegli, e si avvicinava l’ora in cui quotidianamente soleva esserci portato (essere addotto) il cibo, e ciascuno era invaso da dubbi e timori (dubitava) a causa dei sogni (premonitori); e io udii inchiodare (chiavar) (in modo che non si potesse più aprire) la porta d’ingresso (l’uscio di sotto) all’orribile torre; per cui io guardai negli occhi (viso) i miei figli senza pronunciar parola (far motto). 23. Ben … duoli: da questa apostrofe di Ugolino gli interpreti hanno dedotto che Dante personaggio non manifesta umana partecipazione al racconto. In effetti il suo contegno abituale è di fermo distacco dal clima infame di odi e tradimenti che domina nell’Antenora, il girone dei traditori politici. 24. chiavar: significa che nessuno entrerà più a recare cibo. versi 49-54 Io non piangevo, tanto divenni come di pietra (impetrai) (per l’angoscia): piangevano loro (elli, i miei figli); e il mio Anselmuccio disse: “Tu guardi in un modo strano (sì), padre! Che cos’hai?”. Perciò non piansi, né risposi per tutto il giorno, né la notte seguente, finché non spuntò il nuovo giorno (l’altro sol … uscìo). 25. Anselmuccio mio: è il più giovane dei figli, donde il diminutivo e il possessivo che esprimono la tenerezza paterna. 26. Tu guardi sì: il ragazzo legge con spavento il terrore nello sguardo del padre, che ha già capito quale sarà la loro sorte.
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Perciò non lagrimai27 né rispuos’io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscìo. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso28, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni29, e tu le spoglia”30. Queta’mi allor per non farli più tristi; lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi?31 Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”. Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti32. Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno33». Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ’l teschio misero co’ denti, che furo a l’osso, come d’un can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ’l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti,
27. Perciò non lagrimai: Ugolino si impone di frenare il pianto e di non parlare, per non spaventare ulteriormente i figli. versi 55-63 Non appena penetrò (si fu messo) un debole raggio di sole nel carcere doloroso, ed io scorsi nei quattro volti (dei miei figli) il mio stesso aspetto, mi morsi entrambe le mani per la disperazione; ed essi, pensando che lo facessi (’l fessi) per desiderio di mangiare (manicar), subito si alzarono e dissero. “Padre, ci sarebbe meno doloroso (ci … doglia) se tu ti cibassi di noi: tu ci hai rivestito di queste misere carni, ed ora spogliaci di esse”. 28. io scorsi … stesso: Ugolino scorge nei visi dei figli la stessa disperazione che si legge nel suo. Anche loro ormai sanno di non avere scampo. 29. tu … carni: cioè ci hai dato la vita. 30.“Padre … spoglia”: i figli offrono cioè le loro carni in pasto al padre, con un gesto di sublime dedizione. versi 64-69 Allora mi calmai (Queta’mi)
per non accrescere la loro tristezza; quel giorno ed il seguente restammo tutti in silenzio; ahi, terra crudele (dura), perché non ti apristi (per inghiottirci)? Dopo che fummo giunti al quarto giorno, Gaddo mi si gettò disteso ai piedi, dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?”. 31. ahi … apristi?: è un’altra reminiscenza virgiliana: «Ormai la terra profonda si apra per inghiottirmi» (Eneide, X, vv. 675-676). versi 70-75 In quel momento (Quivi) morì; e come tu vedi me, io vidi cadere (cioè morire) i tre (figli rimanenti) a uno a uno, tra il quinto giorno e il sesto; per cui io mi diedi, già cieco, a brancolare su ciascuno (dei loro corpi), e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti. Poi, sul dolore ebbe la meglio la fame». 32. a brancolar … morti: continua a chiamarli, non rassegnandosi alla loro morte. È presente qui il ricordo di un passo di Ovidio, in cui Niobe si china sui corpi dei figli morti e li copre di baci (Metamorfosi, I, vv. 977 e ss.). 33. Poscia … digiuno: il verso conclusivo
del racconto di Ugolino si basa sulla figura della reticenza. Ne sono state date diverse interpretazioni. Per taluni significa: Non potei morire per il dolore, mi fece morire la fame. Altri, riferendosi al racconto di alcune cronache del tempo, interpretano: Poi sul dolore ebbe la meglio la fame, e finii per cibarmi delle carni dei miei figli. A favore di quest’ultima interpretazione stanno alcuni indizi disseminati da Dante nell’episodio. Innanzitutto il fatto che Ugolino nell’inferno azzanni il cranio di Ruggieri può essere letto come una forma di contrappasso: lui che aveva mangiato carne umana è dannato a mordere per l’eternità carne umana. Il cannibalismo è sottolineato ulteriormente dalla similitudine con Tideo e Menalippo. Si ha poi l’offerta delle proprie carni fatta dai figli al padre. Se fosse vera questa interpretazione, essa getterebbe una diversa luce sull’odio di Ugolino per il proprio nemico: esso sarebbe motivato non solo dalla crudeltà della morte inflitta ai prigionieri, ma sarebbe esasperato sino all’estremo limite dal fatto che il padre per colpa dell’arcivescovo era stato costretto a cibarsi delle carni dei propri figli che teneramente amava. Per questo l’odio diviene tanto accanito e bestiale. Anche l’espressione ahi dura terra, perché non t’apristi? (v. 66) acquisterebbe un diverso significato: se la terra lo avesse inghiottito, non avrebbe solo risparmiato a lui e ai giovani una morte atroce, ma gli avrebbe impedito di compiere l’orrendo misfatto del cannibalismo sui propri stessi figli. Un diverso significato acquisterebbe anche il motivo della fame e del mangiare, che percorre quasi ossessivamente tutto l’episodio, e che andrebbe letto in continuo controcanto con il pasto abominevole compiuto da Ugolino. Si può anche supporre che Dante abbia volutamente lasciata incerta l’interpretazione alludendo solo oscuramente all’atroce esito. versi 76-84 Quando ebbe detto ciò, con gli occhi biechi (torti) riprese il misero teschio con i denti, che si conficcarono (furo a) nell’osso forti come quelli di un cane. Ahi Pisa, vergogna (vituperio) dei popoli che abitano il bel paese dove risuona (suona) la lingua italiana (’l sì), poiché le città vicine sono lente a punirti, si muovano le isole Capraia e Gorgona, e vengano a chiudere (faccian siepe) la foce dell’Arno, sì che il fiume (straripando) anneghi ogni tuo abitante!
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34. Ahi Pisa … persona!: durante il racconto di Ugolino Dante personaggio tace, non manifesta le sue reazioni e i suoi giudizi. Al termine prende la parola Dante autore, scagliando una violenta invettiva contro Pisa, che ha condannato a una morte disumana quattro innocenti. L’Italia è designata con una perifrasi che si riferisce alla sua lingua, definita da Dante anche nel De vulgari eloquentia «volgare del sì», dalla particella affermativa (così come si parla analogamente di lingua d’oc e d’oïl). La Capraia e la Gorgona sono due isole dell’arcipelago toscano.
muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona!34 Che se ’l conte Ugolino aveva voce35 d’aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l’età novella36, novella Tebe37, Uguiccione e ’l Brigata e li altri due che ’l canto suso appella38.
versi 85-90 Poiché se il conte Ugolino aveva fama (voce) di averti tradito riguardo ai castelli, non avresti dovuto (dovei) sottoporre a tale supplizio (porre … croce) i (suoi) figli. La loro giovane (novella) età li rendeva innocenti, o nuova Tebe (Pisa), Uguccione, il Brigata e gli altri due (Anselmuccio e Gaddo) che il canto prima nomina (appella). 35. aveva voce: così dicendo Dante ammette solo in forma ipotetica che il tradimento di Ugolino consistesse nell’aver ceduto alcuni castelli a Lucca. Probabilmente il
motivo per cui pone il conte tra i traditori è il suo passaggio dai Ghibellini ai Guelfi. 36. età novella: in realtà i figli e i nipoti di Ugolino erano già adulti, tranne Anselmuccio, quindicenne. 37. novella Tebe: Pisa è così detta in riferimento alle feroci lotte fratricide che la dilaniano, come quelle che afflissero Tebe nel mito greco, tra Eteocle e Polinice (alle quali alludevano anche i versi 130-132 del canto XXXII). 38. appella: latinismo.
Analisi del testo La ferocia bestiale e il tema della fame
Il tema politico
Il racconto di Ugolino Il dettaglio della feritoia Lo spazio angusto e il tempo monotono I sogni premonitori
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> La cornice narrativa
In questo episodio di straordinario rilievo drammatico si propongono subito in apertura due temi: la ferocia con cui il peccatore azzanna il capo dell’altro dannato, degradandosi a un livello bestiale, e il tema della fame, che percorre tutta la sequenza narrativa e anticipa l’orribile morte di Ugolino e dei suoi figli, effetto della barbarie delle lotte civili. Nella “cornice” dell’episodio si presenta quindi il tema politico. Difatti poi, in chiusura, Dante assumerà l’atteggiamento del profeta biblico, invocando su Pisa un apocalittico castigo divino.
> La tragedia di Ugolino
Come è sua abitudine, Dante delega poi la narrazione al personaggio stesso e non racconta per disteso la vicenda, ma si concentra solo, con potente sintesi, sul suo culmine. E, come sempre, rivela le sue doti di straordinario narratore. Il racconto vero e proprio inizia con quello che, nel linguaggio cinematografico, si potrebbe definire il primo piano di un dettaglio della scena, la stretta feritoia della torre, che è l’unico segno attraverso cui i prigionieri possono aver nozione del passare dei giorni. La concentrazione su questo particolare evoca, con mirabile economia ed efficacia di mezzi, lo spazio angusto, claustrofobico della cella in cui i prigionieri sono reclusi senza scampo, oltre allo scorrere monotono e inesorabile del tempo, segnato dall’alternarsi sempre uguale di luce e buio al breve spiraglio. Poi, con uno stacco netto, la narrazione si sposta dal piano reale a quello onirico: il «mal sonno» (v. 26) che preannuncia a Ugolino il futuro luttuoso. L’incubo sveglia Ugolino prima che si faccia giorno. Il padre può così avvertire che i suoi figli, ancora dormienti, stanno facendo analoghi sogni premonitori della morte che li aspetta («dimandar del pane», v. 39).
Capitolo 4 · Dante Alighieri
La forza scenica del racconto Il precipitare della tragedia Il verso conclusivo del racconto
La tragedia del padre
L’odio barbarico e l’amore paterno La condanna del clima di odi e tradimenti
La pietà
I sogni hanno infuso nei prigionieri un senso di indistinto timore. L’apprensione si materializza in un suono, quello dei chiodi che serrano definitivamente la porta della torre e significano la condanna ad una morte orribile per fame. Tutto lo svolgimento successivo dell’episodio è segnato dall’alternanza di lunghi periodi di silenzio angosciato e di immobilità, di esclamazioni e grida, di gesti improvvisi e violenti (come quello di Ugolino che si morde le mani per la disperazione). Il racconto assume quindi grande forza visiva, scenica. La tragedia precipita di colpo, con la morte di tutti i giovani e lo strazio del padre che deve assistervi impotente, brancolando cieco sui loro corpi. Il racconto si chiude infine con quel verso secco, «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno», che nella sua reticenza allusiva spalanca prospettive cupe e orrorose, quelle del padre che, vinto dalla fame, arriva a cibarsi delle carni dei propri figli. Tali prospettive si collegano alla ferocia bestiale che connota Ugolino dannato nell’inferno: infatti, terminato il suo racconto, il personaggio perde la sua umanità di padre e torna ad azzannare ferocemente il cranio del nemico. La tragedia del padre risulta così incastonata tra le due immagini di bestialità che rispettivamente la precedono e la seguono.
> La problematicità di Ugolino
Il personaggio appare quindi connotato da due passioni estreme e tra loro antitetiche, apparentemente inconciliabili, l’odio barbarico, animalesco per il nemico e il tenerissimo, disperato amore paterno. Anche Ugolino, come le altre grandi figure dell’Inferno, Francesca, Farinata, Ulisse, appare un personaggio non univoco, ma altamente problematico. L’atteggiamento di Dante nei suoi confronti si muove infatti tra due poli opposti: come testimoniano l’insistenza sulla degradazione bestiale e l’invettiva finale contro Pisa, il poeta condanna senza scampo il clima di odi e tradimenti che caratterizza le città del suo tempo e di cui Ugolino è un rappresentante tipico; però, anche se come attore nella vicenda non dà segni di partecipazione al suo dramma, come autore non può non provare profonda pietà. A testimoniarlo può essere portata l’alta dignità stilistica conferita alle parole del conte.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Individua nel testo i momenti della narrazione in cui sono evidenziati:
a) il tema della fame e della ferocia; b) i sentimenti paterni di Ugolino caratterizzati da un angoscioso patetismo; c) il tema politico.
ANALIzzARE
> 2. Analizzando l’atmosfera onirica del «mal sonno» di Ugolino (vv. 28-36), rintraccia nel testo gli elementi reali-
stici e quelli allegorici. Stile Analizza i celebri versi «parlare e lagrimar vedrai insieme» (v. 9) e «Poscia … digiuno» (v. 75): su quali figure retoriche è basata la loro efficacia espressiva? > 4. Lessico Individua nel testo i vocaboli e/o le espressioni che rendono il “silenzio” che caratterizza gli ultimi giorni di vita di Ugolino e dei suoi discendenti. > 5. Lingua In relazione al tema del trascorrere del tempo, individua le proposizioni temporali in forma esplicita presenti nel passo.
> 3.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Testi a confronto: scrivere Delinea, in una breve trattazione di circa 20 righe (1000 caratteri), un confronto tra il personaggio del conte Ugolino e quello di Farinata degli Uberti ( T17, p. 318) in relazione al grado di coinvolgimento di Dante.
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L’età comunale in Italia
> 7. Altri linguaggi: arte L’immagine sotto riportata è una tavola della Commedia illustrata nell’Ottocento dal pittore francese Gustave Doré, che realizzò una traduzione visiva tanto fedele quanto suggestiva del testo dantesco. Le sue incisioni, rese spettacolari da un chiaroscuro fortemente contrastato e da grandiosi effetti scenografici, conquistarono subito i lettori del poema, diventando un modello di riferimento per gli artisti che da allora si sono cimentati nell’illustrazione delle tre cantiche, in particolare dell’Inferno. Dopo aver osservato attentamente la tavola, rispondi alle domande facendo soprattutto riferimento al canto XXXII, versi 124-139. a) Riguardo al contesto dell’episodio proposto, quale ambientazione infernale presenta l’immagine? Come si configura? b) A quale momento dell’episodio si riferisce la rappresentazione dei due dannati – il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri – al centro della scena? c) Quale atteggiamento caratterizza Dante e Virgilio?
Gustave Doré, Ugolino addenta la testa dell’arcivescovo Ruggieri, incisione dalla Divina Commedia di Dante, Inferno, canto XXXII, New York-LondraParigi 1885. PASSATO E PRESENTE Le due agonie di Ugolino
> 8. Fra gli scritti apparsi su giornali e riviste alla fine degli anni Quaranta dedicati alla Divina Commedia, poi raccolti in un volume del 1982, Jorge Luis Borges (1899-1986) propone una personale e originale interpretazione dell’episodio dantesco: Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a più alternative opta per una di esse ed elimina e perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che assomiglia a quello della speranza o a quello dell’oblio. Amleto, in quel particolare tempo, è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future. J. L. Borges, Il falso problema di Ugolino, in Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001
In base al passo analizzato, spiega l’affermazione del celebre scrittore argentino dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
T21
Beatrice
Temi chiave
dal Purgatorio, XXX, vv. 22-99
• Beatrice figura di Cristo e portatrice di salvezza
• il dolore per il distacco da Virgilio, Nel paradiso terrestre Dante assiste a una grandiosa procesmaestro e guida sione allegorica: essa è aperta da sette candelabri, che rap• la requisitoria di Beatrice e il traviamento presentano i sette doni dello Spirito Santo, seguiti da ventidi Dante quattro anziani vestiti di bianco, i libri dell’Antico Testamento, e da quattro animali con sei ali cosparse di occhi, i quattro Vangeli. Al centro di questi avanza un carro trionfale trainato da un grifone, rispettivamente la Chiesa trionfante e Cristo (il grifone, che ha corpo di leone e testa d’aquila, rimanda alla doppia natura, umana e divina, del figlio di Dio). A destra del carro avanzano danzando tre donne, che rappresentano le Luogo tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità; a sinistra danzano paradiso terrestre altre quattro donne, le virtù cardinali, Sapienza, Fortezza, GiuPersonaggi stizia e Temperanza. Dietro il carro vengono due vecchi, che Dante, Virgilio, Beatrice, Stazio simboleggiano gli Atti degli Apostoli e le Epistole di san Paolo, poi altri quattro, le Epistole di san Pietro, san Giovanni, san Giacomo e san Giuda; dietro ad essi viene un vecchio solo che dorme «con la faccia arguta», l’Apocalisse di Giovanni, libro visionario e profetico. Quando il carro è di fronte a Dante si ode un tuono e la processione si ferma. I ventiquattro vecchi si volgono verso il carro, e uno di loro, che rappresenta il Cantico dei cantici, canta tre volte un versetto del libro biblico, «Vieni, sposa, dal Libano». Sul carro allora si levano innumerevoli angeli, che gettano fiori e dicono: «Benedetto tu che vieni!» e «Offrite gigli a piene mani!». La prima frase è, nei Vangeli, l’acclamazione rivolta a Gesù al suo ingresso a Gerusalemme, e indica il fatto che qui Beatrice, che sta per apparire, è “figura” di Cristo come portatrice di salvezza; la seconda frase è tratta invece dall’Eneide, libro VI, ed è l’esortazione di Anchise, nei Campi Elisi, a onorare Marcello, il nipote di Augusto morto prematuramente. I gigli simboleggiano la purezza di Beatrice. Va osservato che Dante mette l’Eneide alla pari con le Sacre Scritture: per lui, in conformità alla visione medievale, anch’essa è un libro sacro, portatore di verità che anticipano quelle cristiane.
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versi 22-27 Io vidi già, all’inizio del giorno, la parte orientale del cielo tutta rosata, e il resto abbellito (addorno) dal sereno; (e vidi) la faccia del sole nascere velata (ombrata), in modo tale (sì) che, per il velo (temperanza) di vapori (che mitigavano la sua luce), l’occhio poteva sostenerne a lungo (lunga fïata) la vista:
Io vidi già nel cominciar del giorno la parte orïental tutta rosata, e l’altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vapori l’occhio la sostenea lunga fïata: così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva1. versi 28-33 (come il sole è velato dai vapori) così, dentro una nuvola di fiori che era gettata in alto dalle mani degli angeli e ricadeva dentro e fuori (di fori) del carro, m’apparve una donna, cinta da un ramo d’ulivo (d’uliva) sopra un candido velo, vestita d’un colore rosso fiamma sotto un manto verde.
1. donna … viva: la donna (latino domina) è Beatrice, come Dante comprenderà prima ancora di vederla in viso. I colori di cui è vestita rimandano alle tre virtù teologali, alla Fede il bianco, alla Speranza il verde, alla Carità il rosso. L’ulivo che cinge il velo è simbolo della Sapienza, in quanto è pianta sacra a Minerva, dea della sapienza.
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E lo spirito mio, che già cotanto tempo era stato ch’a la sua presenza non era di stupor, tremando, affranto, sanza de li occhi aver più conoscenza2, per occulta virtù che da lei mosse, d’antico amor sentì la gran potenza3. Tosto che ne la vista mi percosse l’alta virtù che già m’avea trafitto prima ch’io fuor di püerizia fosse, volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli è afflitto, per dicere a Virgilio: “Men che dramma di sangue m’è rimaso che non tremi: conosco i segni de l’antica fiamma”4. Ma Virgilio n’avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die’mi5; né quantunque perdeo l’antica matre, valse a le guance nette di rugiada che, lagrimando, non tornasser atre6. «Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non pianger ancora; ché pianger ti conven per altra spada»7. Quasi ammiraglio che in poppa e in prora vien a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l’incora; in su la sponda del carro sinistra, quando mi volsi al suon del nome mio, che di necessità qui si registra, vidi la donna che pria m’appario velata sotto l’angelica festa, drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio8.
versi 34-39 Ed il mio spirito, che da tanto tempo non era stato vinto da meraviglia (non … stupor), tremando, alla sua presenza, senza poter avere dagli occhi una maggior conoscenza, sentì la gran potenza dell’antico amore, per un segreto potere (occulta virtù) che da lei emanava (mosse). 2. sanza … conoscenza: Beatrice ha il volto velato ed è avvolta dalla nuvola di fiori. 3. E lo spirito … potenza: sembra ripetersi qui la situazione tante volte descritta nella Vita nuova, lo smarrimento di Dante alla vista di Beatrice. Il tremore dinanzi all’amata è un topos stilnovistico (si pensi a Paolo che bacia Francesca «tutto tremante»), ma qui perde ogni connotazione sensuale divenendo solo lo smarrimento di fronte alla manifestazione del sovrannaturale. Cotanto tempo: dieci anni, poiché Beatrice era morta nel 1290 e il viaggio si compie nel 1300.
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versi 40-48 Non appena (Tosto che) quel profondo potere (alta virtù), che già mi aveva colpito (trafitto) prima che io uscissi dalla fanciullezza (püerizia), mi balenò (mi percosse) negli occhi (la vista), mi volsi a sinistra con l’ansia (respitto) con cui il bambino (fantolin) corre dalla mamma, quando ha paura o è afflitto, per dire a Virgilio: “Non mi è rimasta goccia (dramma) di sangue che non tremi: riconosco in me i segni dell’antico amore (fiamma)”. 4. Tosto che … fiamma”: anche qui vediamo ricorrere temi e stilemi stilnovistici: l’alta virtù che percuote la vista, il participio trafitto, il tremore. Respitto può venire dal provenzale respit, “attesa”, “ansia”, o dal latino respìcere, “guardare”, a indicare lo sguardo smarrito. Dramma è un’unità di misura minima, l’ottava parte di un’oncia. Il verso 48 è la fedele traduzione del virgiliano agnosco
veteris vestigia flammae, frase pronunciata da Didone quando diventa cosciente del suo amore per Enea, che richiama il sentimento da lei provato per il marito morto (Eneide, IV, v. 23). Dante deliberatamente si rivolge al maestro citando un suo verso. versi 49-54 Ma Virgilio ci aveva lasciati privi (scemi) della sua presenza (di sé), Virgilio dolcissimo padre, Virgilio a cui mi ero affidato per la mia salvezza (a cui … die’mi); e la vista delle bellezze del paradiso terrestre, che Eva (l’antica matre) aveva perduto (a causa del suo peccato), non valse ad impedire che le mie guance, purificate dalla (nette di) rugiada, ritornassero sporche (atre) (per le lacrime). 5. Ma Virgilio … die’mi: si notino l’immagine del patre (che ribadisce quella della mamma al verso 44, a indicare il legame intensamente affettivo del discepolo col maestro) e l’iterazione del nome di Virgilio, che esprime un dolore incredulo. Dante usa il plurale (n’, che significa ci) perché con lui resta sempre Stazio. La scomparsa di Virgilio allegoricamente significa che la ragione umana ha raggiunto i limiti delle sue possibilità ed ha esaurito il suo compito. Per procedere oltre nel viaggio occorre la sapienza divina, la Teologia, che arriverà là dove la sapienza umana, rappresentata al massimo grado da Virgilio, non è in grado di arrivare. 6. né quantunque … atre: Dante allude al rito di purificazione compiuto all’inizio del viaggio purgatoriale, ancora sulla spiaggetta del monte, quando Virgilio gli aveva ripulito il viso dalle impurità infernali con la rugiada e lo aveva cinto con il giunco, simbolo di umiltà. La purificazione evidentemente non era stata sufficiente ed ora occorre un pentimento più profondo e definitivo, prima che Dante possa proseguire il cammino. versi 55-57 «Dante, non piangere ancora, per il fatto che Virgilio se ne vada, perché dovrai piangere per un altro dolore (ché … spada)». 7. «Dante … spada»: la metafora della spada indica i duri rimproveri che Beatrice rivolgerà a Dante. Il nome del poeta compare qui per la prima e unica volta nella Commedia. versi 58-66 Come un (Quasi) ammiraglio che (spostandosi) da poppa a prua viene a visitare gli uomini che svolgono i loro compiti (ministra) sulle altre navi (per … legni), e li incoraggia (l’incora) a fare bene; quando mi volsi al suono del mio nome, che sono costretto qui a registrare (che … registra), vidi la donna, che prima mi apparve (m’appario) sotto la nuvola di fiori (festa) gettati dagli angeli, sulla sponda sinistra del carro, rivolgere (drizzar) gli occhi verso di me, rimasto al di qua del fiumicello (di qua dal rio). 8. in su la sponda … rio: drizzar è retto da vidi la donna. Il rio è il Lete, restando al di là del quale Dante ha assistito alla processione e all’apparizione di Beatrice. Potrà immergersi in esso e dimenticare i suoi peccati solo dopo un’aperta confessione delle sue colpe.
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Tutto che ’l vel che le scendea di testa, cerchiato de le fronde di Minerva, non la lasciasse parer manifesta, regalmente ne l’atto ancor proterva continuò come colui che dice e ’l più caldo parlar dietro reserva: «Guardaci ben! Ben sem, ben sem Beatrice. Come degnasti d’accedere al monte?9 non sapei tu che qui è l’uom felice?». Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, tanta vergogna mi gravò la fronte. Così la madre al figlio par superba, com’ella parve a me; perché d’amaro sente il sapor de la pietade acerba10. Ella si tacque; e li angeli cantaro di sùbito “In te, Domine, speravi”; ma oltre “pedes meos” non passaro11. Sì come neve tra le vive travi per lo dosso d’Italia12 si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi13, poi, liquefatta, in sé stessa trapela, pur che la terra che perde ombra14 spiri, sì che par foco fonder la candela; così fui sanza lagrime e sospiri anzi ’l cantar di quei che notan sempre dietro a le note de li etterni giri; ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre lor compartire a me, più che se detto avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”, lo gel che m’era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi uscì del petto.
versi 67-75 Benché (Tutto che) il velo che le scendeva sul viso dalla sommità del capo, cinto dalle foglie d’ulivo (di Minerva), non la lasciasse apparire in piena vista (parer manifesta), sempre (ancor) regalmente altera (proterva) continuò a parlare come colui che riserva a dopo il maggior calore del discorso (’l più … reserva): «Guarda bene qui (ci)! Sono proprio (ben) Beatrice. Come ti sei degnato di salire al monte (del purgatorio)? Non sapevi che qui è la piena realizzazione della felicità umana?». 9. Come … monte?: il verso è da intendere in senso ironico: ti sei degnato finalmente di venire nel paradiso terrestre. Altri intende invece alla lettera: come hai potuto ritenerti degno …?: ma si può obiettare che proprio Beatrice lo aveva indotto a compiere quel viaggio, mandando come sua guida Virgilio. Beatrice sottolinea che solo nel paradiso terrestre è la vera felicità perché Dante aveva
creduto in una felicità raggiungibile sulla terra, solo con le forze umane, disdegnando quella celeste. versi 76-84 Gli occhi mi caddero giù, verso l’acqua limpida del fiumicello (chiaro fonte); ma vedendomi (specchiato) in essa, li volsi (trassi) verso l’erba, tanto la vergogna mi costringeva a chinare (mi gravò) la fronte. Così la madre appare severa (superba) al figlio, come essa apparve a me; perché l’amore materno (pietade), divenuto aspro (acerba) (per il rimprovero) sa di (sente) amaro. Ella tacque, e gli angeli immediatamente cantarono “In Te, Signore, sperai”, ma non andarono (non passaro) oltre (l’espressione) “i miei piedi”. 10. Così la madre … acerba: Dante coglie l’amore che sta dietro le aspre parole di Beatrice, che è così dura solo per indurlo al necessario pentimento.
11. Ella … passaro: gli angeli hanno pietà del dolore di Dante e intercedono per lui, intonando un salmo (il 30), che ricorda come l’uomo possa sempre sperare nella misericordia e nel perdono di Dio. Gli angeli si fermano al versetto 9: «Hai posto saldamente i miei piedi in un luogo spazioso». versi 85-90 Come la neve fra i tronchi (vive travi) (delle foreste) dell’Appennino (lo dosso d’Italia) si congela, quando soffiano su di essa i venti da nord-est (schiavi), poi, sciogliendosi, gocciola dagli strati superiori a quelli inferiori (in sé … trapela) solo che il vento spiri dall’Africa (pur … spiri), sì che sembra il fuoco che fa sciogliere la candela; 12. lo dosso d’Italia: gli Appennini costituiscono la dorsale della penisola. 13. venti schiavi: sono quelli che soffiano dalle regioni slave di là dall’Adriatico. 14. la terra … ombra: l’Africa, dove, al tropico, il sole quando è allo zenit non getta ombra in quanto è a perpendicolo. Entro la similitudine, espressa con immagini ricercate preziose, se ne inserisce un’altra, quella della candela sciolta dal fuoco. versi 91-99 così, prima che cantassero (anzi ’l cantar) gli angeli, che accompagnano (notan … dietro) sempre con le loro note la musica delle sfere celesti (etterni giri), io restai senza lacrime e sospiri; ma dopo che capii che essi, nel loro canto dolcemente modulato (dolci tempre), erano partecipi (compartire) della mia sofferenza, come se (più che se) avessero detto “Donna, perché lo avvilisci così?”, il gelo che mi si era indurito intorno al cuore (al cor ristretto), si sciolse in sospiri e lacrime (fessi, si fece) e con angoscia uscì fuori dal petto attraverso la bocca (i sospiri) e gli occhi (il pianto).
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L’età comunale in Italia
[Poi Beatrice si rivolge agli angeli, affermando che la sua maggiore preoccupazione è che comprenda le sue parole colui che piange di là dal Lete, Dante, affinché il dolore del pentimento sia proporzionato alla colpa. Per l’abbondanza dei doni della Grazia divina le potenzialità di questi, nella sua giovinezza, erano tali che ogni sua disposizione avrebbe potuto avere mirabile riuscita. Ma tanto più si perverte un’anima quanto più ha disposizioni buone, se riceve cattivi insegnamenti. Per qualche tempo Beatrice lo aveva guidato con la sua presenza, indirizzandolo verso la retta via (Beatrice qui ripercorre la vicenda della Vita nuova). Ma quando morì e passò alla vita eterna, Dante si staccò da lei e si diede a un’altra (la «donna gentile» di cui si parla al termine dell’opera giovanile, che a quanto Dante stesso ci dice nel Convivio rappresenta la filosofia: il suo traviamento, possiamo dunque desumere combinando ciò che ora afferma Beatrice e quanto viene detto nel trattato, consiste in studi filosofici non conformi alla dottrina della Chiesa, pericolosi per la salvezza dell’anima). Beatrice continua osservando, sferzante, che quando con la morte si era elevata dalla vita corporea a quella puramente spirituale, e la sua bellezza e la sua virtù erano cresciute, a Dante divenne meno cara e meno gradita, ed egli rivolse i passi per una via erronea, inseguendo false immagini del bene (cioè le teorie che promettevano ingannevolmente la felicità solo su questa terra, ricavate dalle tesi del filosofo arabo Averroè, a cui si interessava anche Guido Cavalcanti). Né le servì ottenere da Dio buone ispirazioni, con le quali cercò di ricondurlo al bene mediante sogni e altri mezzi, così poco ormai gliene importava. Cadde così in basso che tutti i mezzi erano insufficienti per la sua salvezza, tranne che mostrargli le pene infernali, cioè farlo assistere direttamente alle terribili conseguenze del peccato. Per questo Beatrice era scesa nel regno dei morti e aveva pregato piangendo Virgilio, che poi l’aveva guidato sino al paradiso terrestre. Beatrice termina la sua requisitoria precisando che la volontà divina sarebbe infranta se Dante potesse varcare il fiume Lete e giungere al paradiso senza il prezzo del pentimento.]
Analisi del testo L’esordio solenne Un’apparizione miracolosa
Un cambiamento di tono
Un nuovo stacco L’asprezza di Beatrice
La confessione degli errori
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> L’apparizione di Beatrice
Il canto ha un esordio solenne e arduo, che, come è consuetudine nella Commedia, è il preannuncio dell’importanza della materia che in esso verrà trattata: vi si verifica infatti l’apparizione di Beatrice, che è la condizione per l’ascesa di Dante al cielo, sino alla visione suprema di Dio. Beatrice si presenta in un clima di apparizione miracolosa, sovrannaturale, ed è avvolta in un’aura sacrale, segnata dalle invocazioni tratte da testi sacri, la Bibbia, il Vangelo, l’Eneide, che proiettano sulla figura che sta per comparire quella di Cristo salvatore. La scena è tutto un tripudio festante di cori angelici, tra piogge di fiori e canti. La stessa similitudine che anticipa la sua apparizione accosta Beatrice al sole, con un evidente senso allegorico, in quanto il sole nel sistema delle immagini medievali rappresenta l’illuminazione divina.
> La scomparsa di Virgilio
La scomparsa di Virgilio determina in questa atmosfera tripudiante un netto cambiamento di tono, dal sublime dell’apparizione sovrannaturale all’intensità drammatica di sentimenti più umani e terreni: il dolore del discepolo per il distacco dall’amato maestro, il senso di smarrimento che nasce in Dante al venire meno di una guida che aveva garantito sicurezza e calore e che aveva rivestito il ruolo di un «dolcissimo patre». La similitudine del «fantolin» che corre «a la mamma», così legata alla comune quotidianità, anche nel registro linguistico umile, se paragonata a quella precedente del sorgere del sole riferita a Beatrice segna perfettamente lo stacco tonale tra i due momenti.
> La requisitoria di Beatrice
Il concentrarsi dell’attenzione sulla figura velata di donna determina ancora un nuovo stacco. Al clima di tripudio angelico, ebbro di gioia paradisiaca, a cui risponde la «gran potenza» dell’«antica fiamma» che Dante sente rinascere in sé, fa seguito l’asprezza della requisitoria che Beatrice rivolge all’antico amante e che provoca il gelo nel suo animo. È questo un momento fondamentale del poema, il suo centro ideologico e poetico. Tutto il viaggio di Dante è un «viaggio a Beatrice», come ha scritto un grande dantista, Charles Singleton. Se il peccato di Dante era stato un traviamento intellettuale, che lo aveva indotto a confidare solo nella ragione umana per il raggiungimento della verità e della felicità,
Capitolo 4 · Dante Alighieri
su suggerimento di filosofie tanto affascinanti quanto erronee e pericolose, come l’aristotelismo radicale, ora è venuto il momento di staccarsi completamente da quegli errori, di confessare e ripudiare le proprie colpe per poter continuare l’ascesa verso la meta suprema, la contemplazione di Dio nel paradiso. All’orgoglio della ragione si contrappone l’ossequio alla verità rivelata, che si incarna in Beatrice: vengono qui alla luce le motivazioni profonde della nascita del poema.
> I rimandi alla Vita nuova
I mutamenti del personaggio di Beatrice
La drammaticità del colloquio
Viene anche a compimento il proposito di dire di Beatrice «quello che mai non fue detto d’alcuna», che chiudeva il giovanile libretto della Vita nuova. E difatti il canto è fitto di rimandi a quell’opera, la cui sostanza viene riassunta da Beatrice stessa nell’ultima parte del suo discorso. Ma ora Beatrice è inserita in un disegno concettuale e poetico incalcolabilmente più vasto. Anche il personaggio muta, di conseguenza: non è più la figura stilnovisticamente stilizzata, diafana e remota, oggetto di adorazione trepidante; qui Beatrice è ammantata di sublime autorità, è «regalmente proterva», tanto da poter essere paragonata a un «ammiraglio» e, pur rivelando l’amore che ancora la lega a Dante, il sentimento si manifesta attraverso la durezza implacabile della requisitoria, intesa a liberare l’uomo da ogni scoria e a renderlo degno di compiere l’ultima parte del suo viaggio. Nella Vita nuova non si assisteva mai a un dialogo diretto tra Dante e Beatrice: qui invece i due protagonisti sono uno di fronte all’altro e il colloquio (per ora Dante resta muto, smarrito per il senso di colpa, ma nel canto successivo prenderà la parola) è impostato su un registro di alta drammaticità.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Come appare Beatrice al poeta? > 2. Quali sono le reazioni di Dante? In che modo riesce a riconoscerla? > 3. In quale momento Dante si accorge dell’assenza di Virgilio? E quali reazioni manifesta? ANALIzzARE
> 4.
Stile Esamina le ripetizioni contenute ai versi 49-51, 55-57 e 73 e indica quale effetto producono e a quali momenti della narrazione danno risalto. > 5. Lessico L’apparizione di Beatrice si sviluppa in un contesto poetico di tono solenne e fortemente intriso di «stil novo». a) Spiega il significato di «donna m’apparve» (v. 32). b) Al verso 36 a che cosa allude il verbo «tremando»? c) Rintraccia ancora dal verso 37 altri termini o espressioni di stampo stilnovistico.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Scrivere Illustra in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) i mutamenti del personaggio di Beatrice da donna gentile a figura Christi. > 7. Contesto L’abbondanza e la mescolanza di riferimenti di ascendenza classica e cristiana mostrano una caratteristica tipica non soltanto della Commedia, ma in generale della mentalità medievale: il sincretismo culturale. Rintraccia nel canto XXX alcuni elementi che possano aiutarti a spiegare in che cosa consiste il fenomeno in questione e rifletti su come esso si inserisca nel contesto storico e culturale a cui appartiene Dante.
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L’età comunale in Italia
L e t t e r a t u r a e Società
Analisi interattiva
T22
«fiorenza» tra passato e presente nei canti di Cacciaguida dal Paradiso, XV e XVI, vv. 97-135 e vv. 46-72
Testo e realtà
Nel cielo di Marte appare a Dante una grande croce luminosa. Sui suoi bracci si muovono le luci dei beati, che intonano una musica celestiale: si tratta di coloro che morirono per la fede. Gli spiriti sospendono concordemente il loro canto per consentire il colloquio di Dante con uno di essi. Dal braccio destro della croce trascorre infatti sino alla sua base una luce: si apre così l’episodio di Cacciaguida, che è centrale nel Paradiso e nell’intero poema ed occupa ben tre canti. Cacciaguida, un trisavolo di Dante, con formule altamente intonate ringrazia Dio per aver aperto al suo discendente la porta del cielo ed esprime l’ardente affetto per lui e la gioia per l’incontro a lungo atteso con un linguaggio che supera le possibilità d’intendimento umano. Questi solenni preliminari conferiscono un’aura di sacralità all’incontro. Poi Cacciaguida spiega a Dante chi egli sia ed evoca la Firenze antica in cui ebbe i natali.
I testi ricostruiscono il quadro, seppur parziale, del confronto tra l’assetto sociale della Firenze del XII secolo e quello, profondamente mutato per usi e costumi, della città al tempo di Dante.
Canto XV
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Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond’ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica1. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona2. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura3. Non avea case di famiglia vòte; non v’era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che ’n camera si puote4.
versi 97-102 Firenze, (quando era) racchiusa entro l’antica cerchia delle mura, da cui ancora oggi riceve il suono delle ore (ond’ella … nona), era pacifica, temperante (sobria) e di casti costumi (pudica). (Le donne fiorentine) non portavano collane preziose (catenella), né diademi, né gonne ornate di fregi e ricamate (contigiate), né cinture che fossero più appariscenti (a veder) della persona (che le indossava). 1. Fiorenza … pudica: la prima cerchia di mura fu eretta fra il IX e il X secolo; man mano poi che la città si espandeva dovettero essere costruite altre due cinte, una nel 1173 e una terza iniziata nel 1284. Sulle vecchie
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mura sorgeva la chiesa di Badia, il cui campanile ancora ai tempi di Dante suonava terza e nona (le nove e le quindici, le ore di inizio lavoro delle arti). 2. Non avea … persona: il soggetto è Firenze personificata, ma per metonimia sono da intendere le donne fiorentine (altri invece interpreta non avea, sul modello del francese il n’y avait pas, come non c’erano). La polemica di Dante è contro l’esibizione di lusso eccessivo, contro l’uso di portare ornamenti troppo vistosi. La contrapposizione è con l’estrema sobrietà antica. versi 103-108 (Nel tempo antico) i padri non avevano ancora paura quando nasceva
Luogo cielo di Marte (V cielo) Beati spiriti combattenti per la fede Personaggi Dante, Beatrice, Cacciaguida
una figlia, al pensiero di doverla sposare in età troppo giovane oppure di dover sborsare una dote spropositata (’l tempo … misura). Non c’erano case sproporzionate in grandezza rispetto al numero dei familiari (Non … vòte); non vi era ancora arrivata la lussuria (Sardanapalo) ad insegnare gli eccessi che si possono compiere nel chiuso delle stanze (ciò … puote). 3. Non faceva … misura: i matrimoni erano fissati quando ancora le bambine erano nella culla. Nel tempo antico invece l’età (tempo) e la dote non eccedevano ancora la misura, poiché le figlie si sposavano ad un’età conveniente e le doti erano commisurate alle possibilità della famiglia. 4. Non avea … puote: le case ora sono prive di prole per il dilagare dell’immoralità, a causa della quale il sesso non è più finalizzato alla procreazione (questo aspetto si contrappone alla città pudica di un tempo). Sardanapalo è il sovrano assiro Assurbanipal (667-26 a.C.), famoso come simbolo di depravazione. Qui per metonimia rappresenta la lussuria, che nel tempo antico non era ancora diffusa a Firenze.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
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Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio5, che, com’è vinto nel montar sù, così sarà nel calo. Bellincion Berti vid’io andar cinto di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza ’l viso dipinto; e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio6. Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta7. L’una vegghiava a studio8 de la culla, e, consolando, usava l’idïoma che prima i padri e le madri trastulla; l’altra, traendo a la rocca la chioma9, favoleggiava con la sua famiglia d’i Troiani, di Fiesole e di Roma10. Saria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Salterello, qual or saria Cincinnato e Corniglia11. A così riposato, a così bello viver di cittadini, a così fida cittadinanza12, a così dolce ostello, Maria mi diè, chiamata in alte grida; e ne l’antico vostro Batisteo insieme fui cristiano e Cacciaguida13.
versi 109-117 Roma (Montemalo) non era ancora superata (per fasto e corruzione) dalla vostra Firenze (Uccellatoio), la quale, come Roma è stata vinta nell’ascesa (montar sù), così lo sarà nella decadenza (calo) (che sarà rapida e rovinosa). Io vidi Bellincion Berti indossare cinture (cinto) semplicissime di cuoio con fibbie d’osso, la moglie allontanarsi (venir da) dallo specchio senza avere il viso imbellettato (dipinto); e vidi i Nerli e i Vecchietti accontentarsi di vestire pelli non foderate (scoperta) e le loro donne contente di esercitare umili mansioni domestiche, come filare la lana (al fuso e al pennecchio). 5. Non era … Uccellatoio: Montemalo è il Monte Mario, che rappresenta la città di Roma; Uccellatoio è il Belvedere dell’Uccellatoio, sineddoche per Firenze. 6. Bellincion … pennecchio: Cacciaguida porta ad esempio della sobrietà antica fatti di cui ha avuto esperienza diretta. Cita tre famiglie illustri che, nonostante la loro nobiltà, conducevano vita spartana: Bellincion Berti della famiglia dei Ravignani, i Nerli e i Vecchietti (quel del Vecchio). Andar cinto di cuoio e d’osso è da leggersi in contrapposizione alle cinture che ora sono a veder più che la persona dei versi 101-102. Il fuso era lo strumento su cui si avvolgeva il pennecchio, cioè il filo.
versi 118-126 Oh fortunate (donne d’un tempo)! Ciascuna era certa d’essere sepolta in patria (sua sepultura) e non era ancora abbandonata (diserta) da suo marito, partito per la Francia (a curare i suoi affari). L’una (la sposa più giovane) vegliava a protezione (studio) del bambino nella culla e, per calmare il suo pianto (consolando), usava quel linguaggio (idïoma) infantile che diverte (trastulla) le madri e i padri prima che lo sentano dai piccoli; l’altra (la matrona più anziana), filando (traendo … chioma), attorniata dalla servitù (famiglia), raccontava le antiche leggende della nascita di Roma e di Firenze. 7. Oh fortunate … diserta: risuona qui una condanna sia delle lotte tra le fazioni, che costringevano i cittadini ad andare in esilio lontano dalla loro patria (e ciò si contrappone all’antica Firenze che stava in pace), sia dello spirito mercantile, che spingeva i mariti ad allontanarsi da casa in cerca di guadagno con i loro traffici, lasciando sole le mogli e compromettendo così i legami familiari. Come sempre, Dante dà un giudizio negativo sullo sviluppo mercantile dei Comuni. 8. studio: latinismo. 9. rocca … chioma: la rocca è un altro strumento della filatura, la chioma è la lana.
10. d’i Troiani … Roma: secondo la leggenda, Roma è stata fondata dai discendenti dei Troiani e Firenze dagli abitanti di Fiesole, distrutta dai Romani per aver seguito Catilina. L’accostamento di Roma antica a Firenze è significativo perché indica come per Dante la sua città fosse l’erede delle virtù civili di Roma. versi 127-135 A quei tempi una donna immorale come Cianghella o un politico corrotto come Lapo Salterello sarebbero stati oggetto di stupore (Saria … maraviglia), come oggi (qual or) lo sarebbero un Cincinnato o una Cornelia. La Madonna, invocata (chiamata) con alte grida (da mia madre durante il travaglio del parto), mi fece nascere (mi diè) in una vita civile così pacifica e serena, tra cittadini così fiduciosi gli uni degli altri (a così … cittadinanza), in una dimora (ostello) così dolce; e nell’antico battistero fiorentino fui (battezzato) cristiano ricevendo il nome di Cacciaguida. 11. Saria tenuta … Corniglia: Cianghella, figlia di Arrigo della Tosa e sposata a Lito degli Alidosi di Imola, rimasta vedova ebbe molti amanti; qui è assunta come sinonimo per antonomasia di donna scostumata. Lapo Salterello, giurista e rimatore contemporaneo di Dante, fu un politico senza scrupoli e viene proposto dal poeta come simbolo di corruzione politica. Lucio Quinzio Cincinnato, come narra Livio, fu nominato dittatore nella guerra contro gli Equi; dopo la vittoria, restituì la carica e tornò a coltivare i propri campi. È citato quindi come esempio di politico integerrimo. Cornelia, madre di Tiberio e Caio Gracco, è citata dagli storici antichi come matrona di altissima virtù, dedita solo all’educazione dei figli. 12. a così fida cittadinanza: perché ignara di odi di parte e di intrighi disonesti. 13. insieme … Cacciaguida: solo a questo punto il personaggio rivela il suo nome. Intorno a lui le notizie storiche sono pressoché inesistenti. Da un documento riguardante il figlio Alighiero (da cui trae nome la casata di Dante) risulta già morto alla data del 1189.
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L’età comunale in Italia
[Cacciaguida spiega che fu fatto cavaliere dall’imperatore Corrado III e che lo seguì alla crociata, dove trovò la morte, venendo direttamente dal martirio alla pace del paradiso. L’accenno alla dignità cavalleresca del suo antenato stimola in Dante l’orgoglio aristocratico, che gli fa dimenticare come la nobiltà ereditata col sangue sia poca cosa e come il pregio di una stirpe si esaurisca in breve se non è continuamente rinnovato dai meriti personali dei singoli discendenti. Dante chiede quindi a Cacciaguida quali furono i suoi antenati e in quali anni si svolse la sua fanciullezza, quanto numerosa fosse allora la popolazione di Firenze e quali fossero le famiglie più insigni. La luce del beato diviene più splendente per l’ardore di carità che ha modo di manifestarsi rispondendo a tali quesiti. Cacciaguida dà pochi ragguagli sulla propria famiglia, sottolineando solo che abitava entro la cerchia antica di Firenze. Ricorda poi come il numero degli abitanti fosse allora molto limitato, e questo gli offre l’occasione per scagliare una veemente invettiva contro la Firenze del presente.]
Canto XVI
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Tutti color ch’a quel tempo eran ivi da poter arme tra Marte e ’l Batista1, erano il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne l’ultimo artista2. Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo e a Trespiano3 aver vostro confine, che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d’Aguglion, di quel da Signa, che già per barattare ha l’occhio aguzzo!4 Se la gente ch’al mondo più traligna5 non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, tal fatto è fiorentino e cambia e merca, che si sarebbe vòlto a Simifonti6, là dove andava l’avolo a la cerca7;
versi 46-51 Tutti coloro che a Firenze (tra Marte … e ’l Batista) a quel tempo erano in grado di portare le armi erano un quinto degli abitanti attuali (quei … vivi). (La città era piccola) ma la popolazione in compenso era composta tutta da fiorentini puri, sino al più umile artigiano (artista), mentre ora è mescolata di gente che proviene dal contado (di Campi … Fegghine). 1. Tutti color … Batista: la città è designata mediante l’indicazione di quelli che erano allora i suoi estremi, il Ponte Vecchio, dove si trovava una statua creduta di Marte, e il Battistero di San Giovanni. 2. Ma la cittadinanza … artista: Campi è un borgo nella valle del Bisenzio, Certaldo è in Valdelsa, Fegghine (oggi Figline) è in Valdarno: sono tutte località intorno a Firenze. La crescita della città era dovuta a un fenomeno di urbanesimo: attratti dalla prospettiva di far fortuna con i traffici, molti si trasferivano in città dalla campagna. Per Dante, che guarda con evidente disprezzo i “villani”inurbati, questo è un fenomeno estremamente negativo, perché contamina la purezza della cittadinanza e crea pericoloso disordine scatenando appetiti, volontà di sopraffazione, conflitti.
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versi 52-57 Oh come sarebbe (fora) meglio se quelle popolazioni del contado fossero rimaste confinanti (vicine) (con Firenze), e se i confini del territorio comunale fossero ancora al Galluzzo e al Trespiano, piuttosto che averle dentro (le mura) e dover sopportare il puzzo del contadino (villan) di Aguglione, di quello da Signa, che sempre aguzza l’occhio per cogliere occasioni di traffici disonesti (barattare)! 3. Galluzzo … Trespiano: rispettivamente sulla via di Siena, a sud, e sulla via di Bologna, a nord. 4. Oh quanto … aguzzo!: il primo personaggio a cui Dante allude è Baldo d’Aguglione, uomo politico insignito di cariche importanti, che nel 1311 riformò gli Ordinamenti di Giustizia e concedette un’amnistia agli esuli ghibellini e bianchi, confermando però il bando per le personalità maggiori (tra gli esclusi fu Dante). Il secondo, di cui per colmo di disprezzo non è neppure fatto il nome, è Fazio de’ Morubaldini, che tradì la parte bianca per passare ai Neri e nel 1310 fu ambasciatore di Firenze presso il papa Clemente V per chiedere il suo aiuto contro l’imperatore Arrigo VII.
versi 58-66 Se le persone che al mondo più si allontanano dalla retta via (traligna) non fossero state così ostili (noverca) all’imperatore (Cesare), ma lo avessero sostenuto come fa una madre benevola (benigna) con il suo bambino, chi ora è divenuto fiorentino ed esercita l’attività bancaria (cambia) e mercantile (merca) sarebbe rimasto nel paese originario di Simifonti, dove il suo antenato esercitava il commercio al minuto (andava … a la cerca); il castello di Montemurlo sarebbe (sariesi) ancora dei conti Guidi; i Cerchi sarebbero ancora nelle parrocchie (piovier) di Acone, e forse i Buondelmonti (starebbero ancora) nel loro castello di val di Greve. 5. gente … traligna: indica il papa e la sua curia. 6. Simifonti: in Valdelsa. 7. Se la gente … cerca: il papa traligna perché non esercita il suo compito di guida spirituale e si immischia nelle questioni politiche. La curia è indicata metaforicamente come matrigna (noverca, latinismo) nei confronti dell’imperatore, mentre dovrebbe essere come una madre benevola verso il proprio figlio. Gli ostacoli frapposti dal papa all’imperatore (Dante allude al contegno di Clemente V verso Arrigo VII, in occasione della sua discesa in Italia) impediscono a quest’ultimo di esercitare la sua autorità. E siccome l’imperatore è il garante dell’ordine sociale e della giustizia, il venire meno della sua azione apre la strada allo scatenarsi degli appetiti, che sconvolgono l’ordine sociale, determinando l’ascesa di ceti un tempo umili e portando alla confusione del vivere civile. L’espansione delle attività mercantili e bancarie, che per Dante è fonte di ogni male, è da lui vista come conseguenza di questa abdicazione dell’imperatore ai propri poteri e dell’intromissione del papa nelle faccende politiche. L’ordine esistente è identificato da Dante con la volontà stessa di Dio: violarlo, come avviene con l’ascesa della classe mercantile, significa violare la legge che regola l’universo. Per questo Dante è così ostile alla «gente nova». Egli è convinto inoltre che l’avidità connaturata allo spirito mercantile (la «lupa» del canto I dell’Inferno) sia all’origine di infiniti altri vizi, sopraffazioni, violenze, devastazioni, conflitti, corruzione dei costumi.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
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sariesi Montemurlo8 ancor de’ Conti; sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone, e forse in Valdigrieve i Buondelmonti9. Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade, come del vostro il cibo che s’appone; e cieco toro più avaccio10 cade che cieco agnello; e molte volte taglia più e meglio una che le cinque spade11.
8. Montemurlo: i conti Guidi furono costretti a cedere il castello a Firenze, divenendo semplici cittadini. 9. sariesi … Buondelmonti: cioè se l’autorità imperiale fosse rimasta salda, i grandi feudatari non sarebbero stati costretti a cedere i loro possedimenti alle città. All’ascesa sociale della classe mercantile si accompagna la decadenza di quella feudale,
altro fenomeno deleterio per Dante, che vede nella nobiltà la garanzia di sopravvivenza delle virtù cortesi e cavalleresche. I Cerchi, la famiglia che capeggiava la parte bianca, sarebbero rimasti nella pieve di Acone (in Val di Sieve) da cui provenivano (il duro giudizio sui capiparte bianchi rivela come Dante sia ormai al di sopra delle parti). I Buondelmonti, infine, originari della
Val di Greve, sono la famiglia che fu all’origine delle contese civili in Firenze, secondo la leggenda. Cioè secondo Dante, se non vi fosse stata l’immigrazione massiccia dal contado in città, non vi sarebbe stata neppure l’occasione per la divisione in fazioni. versi 67-72 La mescolanza di popolazioni di origini diverse fu sempre causa del male delle città, come (è causa delle infermità umane) il nuovo cibo che si sovrappone (s’appone) (ad altro cibo non ancora digerito); e un toro cieco cade più rapidamente (avaccio) di un agnello cieco; e spesso una spada sola taglia meglio di cinque. 10. avaccio: latinismo, da vivacius. 11. Sempre … spade: fuori di metafora: uno Stato privo di guida va in rovina più rapidamente se è grande, ed un esercito piccolo ma compatto è più forte di uno grande ma diviso al suo interno.
Analisi del testo L’antitesi col presente negativo La sobrietà dei costumi Il valore della famiglia
Il ruolo tradizionale della donna
La nostalgia del poeta
> La coesione sociale e la solidità della firenze antica
Il quadro ideale di Firenze antica è tutto costruito in antitesi al presente negativo, che si può intravedere in controluce nella serie di terzine (XV, vv. 100-108) scandite dall’insistita anafora del «non»: «stava in pace», cioè non era dilaniata dalle lotte tra le fazioni; era «sobria», cioè non conosceva gli eccessi del lusso generati dallo spirito mercantile; era «pudica», cioè non era contaminata dalla corruzione dei costumi e dall’immoralità. Insieme alla sobrietà dei costumi il valore centrale su cui si impernia questa rievocazione del passato è la famiglia, quella istituzione che ai suoi tempi, secondo Dante, era minata da due mali intollerabili: la smania di lucro propria della classe mercantile, che spingeva gli uomini a cercar guadagni lontano da casa, lasciando deserto il letto coniugale, e l’immoralità che faceva sì che le case restassero vuote di figli. Questo culto della famiglia si compendia in una serie di quadretti domestici, in cui la donna riveste i ruoli tradizionali tipici della società patriarcale, da Dante vagheggiati come ideali, con struggente nostalgia per un bene ormai perduto: la donna intenta a filare, quella che veglia la culla blandendo il bambino con il tenero linguaggio infantile, quella che racconta alla famiglia le antiche leggende. Lo stato d’animo con cui Dante guarda a questi quadri è rivelato, ai versi 130132, dalla ripetizione di «così» e dalla serie degli aggettivi, «bello viver», «fida cittadinanza», «dolce ostello», che con il loro incalzare rendono l’impeto del sentimento.
> La degradazione dei valori civili nella firenze attuale La polemica contro la crescita della città La condanna delle attività mercantili e bancarie
Il tono cambia radicalmente con l’immagine della Firenze attuale delineata nel canto successivo. Al trasporto emotivo segue l’aspra, tagliente polemica civile. Il bersaglio principale è la crescita abnorme della città e della sua popolazione, sotto la spinta dei traffici e della smania di ricchezze della nuova classe mercantile. Gli aspetti tipici dello sviluppo economico e civile dei Comuni sono visti da Dante in chiave apocalittica, come fonte di corruzione e infamia, che distruggono un mondo equilibrato e sereno. La crescita economica infatti ha attirato entro le mura della città la gente del contado, che ha contaminato la cittadinanza, prima pura sino all’ultimo artigiano, portandovi la sua cupidigia e incrementando le nefaste attività mercantili e bancarie («tal fatto è fiorentino e cambia e merca», v. 61), oltre alla 353
L’età comunale in Italia
Le colpe della Chiesa
corruzione politica («già per barattare ha l’occhio aguzzo», v. 57). In questa degenerazione è coinvolta anche l’antica nobiltà feudale (come i conti Guidi), di cui Dante ammira i valori di prodezza, cortesia, liberalità. La colpa primaria di questo sfacelo civile e di questa obbrobriosa confusione delle classi, che viola gerarchie stabilite da Dio stesso, è attribuita da Dante alla Chiesa, che invece di sostenere l’opera dell’imperatore, garanzia suprema dell’ordine gerarchico della società, ha cercato di ostacolarlo in ogni modo, impedendogli di esercitare la sua autorità: è il leitmotiv costante del pensiero politico dantesco.
Niccolò di Pietro Gerini, Banchieri al lavoro, 1395 ca., affresco dalle Storie di San Matteo, part., Prato, Chiesa di San Francesco, Cappella Migliorati.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Compila un elenco sintetico delle caratteristiche della cittadinanza di Firenze al tempo di Cacciaguida. Quale categoria sociale viene posta in primo piano da Dante?
> 2. Perché Cacciaguida si presenta soltanto dopo la descrizione di Firenze? ANALIzzARE
> 3. In quale punto del secondo testo Dante introduce una riflessione sulla tematica politica più in generale? > 4. Stile A i versi 70-72 del secondo passo, le immagini della caduta del toro e dell’agnello ciechi e delle cinque
spade costituiscono una figura retorica: quale? Nel rispondere, considera la terzina precedente a quella analizzata. Lessico Individua, nel primo testo, gli aggettivi direttamente riferiti a Firenze, e, dopo averne analizzato l’etimologia, indica se alludono o meno a virtù tipicamente femminili. > 6. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni, nel secondo testo, rendono con efficacia il disprezzo di Dante per la «gente nova»? > 7. Lingua Analizza nel primo passo l’alternanza, fra i tempi verbali, dell’imperfetto e del passato remoto: quale funzione assume? > 8. Lingua Quale struttura sintattica individui ai versi 58-63 del secondo passo?
> 5.
APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 9.
Esporre oralmente Organizza la scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) in cui analizzare il contenuto dei passi proposti: quali elementi rivelano la mentalità conservatrice e tradizionalista di Dante?
PER IL RECUPERO
> 10. Quali sono le cause della corruzione della Firenze attuale? E in che modo Dante offre un quadro del feno-
meno non generico, ma puntuale e attendibile? > 11. Individua le anafore presenti nel primo testo e spiegane la funzione. > 12. Avvalendoti delle note, spiega l’importanza nel primo passo della figura della metonimia e della sineddoche.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi interattiva
Testi L’Empireo e la rosa dei beati dal Paradiso, XXX
T23
La preghiera alla Vergine e la visione di Dio dal Paradiso, XXXIII, vv. 1-48; 109-145 Nell’Empireo, dove i beati si dispongono a formare come una rosa alla guida di Beatrice, che ritorna al suo seggio, si sostituisce quella di san Bernardo: a lui tocca il compito di sostenere il pellegrino sino all’ultima meta del suo viaggio. Il santo infatti invoca la Vergine affinché interceda presso Dio e quindi a Dante sia concesso di superare i limiti umani sino alla visione dell’Altissimo. San Bernardo (1091-1154), monaco cistercense, fondatore dell’abbazia di Chiaravalle (Clairvaux), fu personaggio eminente della spiritualità cristiana del suo tempo, come teologo e come promotore della seconda crociata. Le sue opere dedicate al culto mariano, che dimostrano un’ardente devozione, spiegano perché Dante lo scelga come intercedente in suo favore presso la Madonna.
Temi chiave
• la lode di Maria • la supplica di Bernardo in favore di Dante
• l’ineffabilità della visione di Dio • l’intervento della Grazia
Luogo Empireo Beati i beati sono disposti in una sorta di anfiteatro, simili ai petali di una rosa, con un centro giallo (un lago di luce); sono visibili in vesti bianche Personaggi Dante, san Bernardo, Maria
Video Lettura dantesca di R. Benigni
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versi 1-6 (Maria), vergine e madre al tempo stesso, figlia del tuo figlio (Gesù), la più umile e la più nobile fra tutte le creature, punto fisso predestinato nel disegno eterno di Dio, sei colei che nobilitasti tanto la natura umana, che il suo creatore non disdegnò di farsi sua creatura. 1. Vergine … figlio: Maria è madre vergine perché Gesù fu concepito per intervento dello Spirito Santo, ed è figlia del suo figlio perché Gesù è Dio, creatore di tutti gli esseri. 2. umile … creatura: Maria possiede in sommo grado la virtù dell’umiltà: nel Magnificat (Vangelo di Luca, 1, 46-49) ringrazia Dio perché «ha rivolto i suoi sguardi all’umiltà della sua serva»; al tempo stesso, come madre del Redentore, è la più nobile fra tutte le creature. In umile però si scorge anche il
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio1, umile e alta più che creatura2, termine fisso d’etterno consiglio3, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura4. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore5. Qui se’ a noi meridïana face6 di caritate, e giuso, intra ’ mortali, se’ di speranza fontana vivace.
senso latino, “di bassa condizione”: l’antitesi con alta sottolinea come la sposa del povero falegname sia stata scelta per il compito più sublime. 3. termine … consiglio: nel disegno eterno di Dio Maria era un punto fermo, essendo destinata a generare Gesù. Consiglio, nel senso di “piano, disegno”, è un latinismo. 4. ’l suo fattore … fattura: Dio ha creato la natura umana, ma non ha disdegnato di diventare egli stesso creatura, incarnandosi, grazie alla nobiltà conferita all’umanità da Maria. Suo e sua si riferiscono a l’umana natura. versi 7-12 Nel tuo ventre si riaccese nuovamente l’amore, grazie al cui calore nella pace eterna (dell’Empireo) è germogliato questo fiore (la rosa dei beati). Qui per noi
(beati e angeli) sei fiaccola (face) d’amore (caritate), che illumina e riscalda come il sole a mezzogiorno (meridïana), e giù sulla terra, fra gli uomini, sei una fonte inesauribile (vivace, lett. “dalla lunga vita”) di speranza. 5. si raccese … fiore: grazie a Maria che ha generato il Redentore si è riacceso l’amore fra Dio e l’uomo, che era stato spento dal peccato di Adamo ed Eva, per cui gli uomini hanno avuto di nuovo la possibilità di salvarsi, dopo che generazioni di giusti erano stati relegati nel Limbo: di conseguenza il Paradiso si è popolato di beati. 6. meridïana face: il sole a mezzogiorno è paragonato a una fiaccola, e a sua volta Maria è paragonata al sole, a causa del calore del suo amore per l’umanità.
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versi 13-21 Signora, sei tanto grande e hai tanta potenza (vali), che chiunque desidera una grazia e non ricorre a te, il suo desiderio pretende di volare senz’ali. La tua benignità viene in aiuto non solo a chi la richiede, ma molte volte anticipa spontaneamente la domanda. In te si raccoglie misericordia, pietà, generosità (magnificenza), tutto quanto vi può essere di buono in una creatura. 7. Donna: è il latino domina, “signora”. Anche il termine Madonna proviene dal latino mea Domina. 8. sua disïanza … ali: il suo desiderio non può essere esaudito, cioè chi vuole una grazia da Dio deve passare per l’intercessione della Madonna. “Volare senz’ali” è espressione proverbiale a indicare un desiderio che non si ha la facoltà di realizzare. Nei versi 1415 si nota un anacoluto, cioè un cambio di soggetto, da qual a disïanza, mentre a norma di grammatica fra la relativa introdotta da “colui che” e la principale il soggetto dovrebbe essere lo stesso (qual vuol dire appunto “colui che”). 9. liberamente … precorre: essere generosi nel donare senza esserne richiesti era una virtù cortese. versi 22-27 Ora costui (Dante), che dal
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Donna7, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disïanza vuol volar sanz’ali8. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre9. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo10 infin qui ha vedute le vite spiritali11 ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute12 tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute13. E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità14 co’ prieghi tuoi, sì che ’l sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina15, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi16. Vinca tua guardia i movimenti umani17: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!». luogo più basso dell’universo fino a qui ha veduto le condizioni delle anime a una a una, ti supplica per grazia divina che gli sia concessa tanta forza (virtute) da potersi elevare con la sua vista più in alto fino all’estrema salvezza (Dio). 10. l’infima … universo: il centro fisico dell’universo coincide con il lago ghiacciato di Cocito, posto al fondo dell’Inferno, dove è infisso Lucifero: per questo Dante usa il termine lacuna. 11. vite spiritali: i vari stati delle anime dopo la morte, private del corpo, puri spiriti: cioè dannati, purganti e beati. 12. virtute: nel senso di “forza d’animo” è un latinismo. Anche il costrutto tanto di è ricalcato sul genitivo partitivo latino. 13. con li occhi … salute: il culmine dell’ascesa di Dante sarà la visione di Dio. In Dio è per l’uomo la più alta possibilità di salvezza. Con questo senso salute è un latinismo. versi 28-39 E io, che mai arsi dal desiderio di vedere (Dio) più di quanto ora desideri che lo veda lui (Dante), ti porgo tutte le mie preghiere, e prego che non siano insufficienti, affinché tu sciolga con le tue preghiere ogni impedimento causato dalla sua condizione mortale, così che la suprema beatitudine
(Dio) gli si manifesti interamente. Ti prego ancora, regina (del cielo), che puoi ciò che vuoi, che tu conservi pure le sue inclinazioni dopo una così alta visione. La tua custodia freni le umane passioni (di Dante): vedi come Beatrice e tanti beati congiungono le mani in preghiera, perché tu esaudisca la mia. 14. ogne nube … mortalità: il fatto che Dante sia legato alla materialità corporea dell’essere vivente, con tutte le sue imperfezioni, è un ostacolo alla visione di Dio, come una nube che impedisca la vista del sole. 15. regina: ripete l’epiteto della litania alla Vergine, Regina coeli. 16. conservi … suoi: Bernardo prega la Vergine che Dante possa mantenere pure le sue inclinazioni (affetti), dopo la vista di Dio, senza cedere alle tentazioni del mondo terreno e ricadere nel peccato. Si può anche intendere che dopo un’esperienza così sconvolgente, una vista che di tanto supera le facoltà umane, al contatto con il mondo terreno Dante potrebbe restare smarrito, non essere più in grado di affrontarlo. 17. Vinca … umani: Maria deve essere una vigile custode, affinché le passioni umane (movimenti), che sono incostanti e mutevoli, non lo distolgano dalla retta via ritrovata.
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Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator18, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro19. E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii.
[Bernardo sorridendo accenna a Dante che guardi in su, ma egli spontaneamente aveva già compiuto il gesto. E la sua vista, divenendo limpida, penetra sempre più nel raggio della luce divina. Da questo momento in avanti ciò che vede è superiore alle facoltà della parola e della memoria. È simile a colui che sogna, e dopo il sogno gli rimane la passione da esso suscitata, senza che riesca a ricordarne il contenuto: il ricordo di ciò che ha visto è quasi del tutto dileguato, ma gli resta nel cuore la dolcezza suscitata dalla visione. Come la neve si scioglie al sole, così il responso della Sibilla, scritto su lievi foglie, si disperdeva nel vento. Dante prega quindi Dio che conceda alla sua memoria un’immagine anche solo parziale di ciò che gli apparve e renda la sua parola così potente che possa lasciare ai posteri una favilla della gloria divina. Sostenendo la viva luce del raggio, si fa sempre più ardito, tanto che arriva a congiungere la sua vista con la potenza infinita di Dio. Nella profondità della sua essenza vede come rilegato in un solo volume ciò che nell’universo è disperso in pagine sciolte. Crede di aver scorto il nodo che lega fra loro tutte le realtà del creato, perché parlandone sente un intenso piacere. Però la visione precisa è caduta nell’oblio: il suo linguaggio, da questo punto in avanti, è più inadeguato a rendere quel poco che ricorda, di quello di un lattante attaccato alla mammella della madre.]
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Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal è sempre qual s’era davante; ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom’ io, a me si travagliava20. Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza; e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ‘l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri21.
versi 40-48 Gli occhi (della Vergine) da Dio amati e venerati, restando fissi su colui che pregava (Bernardo), ci dimostrarono quanto le devote preghiere le fossero gradite; poi si indirizzarono verso la luce eterna (di Dio), nella quale non si deve credere che si possa inoltrare altrettanto chiara la vista da parte di altre creature. E io che mi avvicinavo al fine ultimo di tutti i miei desideri, portai al massimo (finii) in me l’ardore del desiderio, come dovevo. 18. orator: è colui che prega (latino orare), ma è possibile cogliervi un’altra sfumatura, “patrocinatore, avvocato difensore” (latino orator). 19. nel qual … chiaro: l’occhio di Maria è limpido e puro, quindi può penetrare più a fondo e più chiaramente in Dio, più di quanto sia concesso a qualunque altra creatura (compresi gli angeli).
versi 109-114 Non perché ci fosse più di una sola immagine nella vivida luce che contemplavo, che è sempre tale quale era prima, ma, per la mia vista che diveniva più acuta man mano che guardavo, un’unica parvenza si trasformava ai miei occhi (a me si travagliava) mentre io mutavo. 20. Non perché … travagliava: nella luce di Dio Dante scorge un susseguirsi di immagini, non perché esse si trasformino, dato che Dio è immutabile in sé, ma perché la sua vista, divenendo sempre più acuta grazie alla contemplazione, gli consente di vedere sempre meglio: Dio cioè si rivela all’occhio mortale per successive approssimazioni (così come nel canto XXX il fiume di luce si trasforma nella rosa dei beati perché la vista di Dante si rafforza).
versi 115-120 Nella profonda e limpida essenza della grande luce divina mi apparvero tre cerchi di tre colori diversi e dalla stessa circonferenza, e un cerchio pareva riflesso dall’altro come arcobaleno (iri) da un altro arcobaleno, mentre il terzo sembrava un fuoco che provenisse egualmente dal primo e dal secondo. 21. tre giri … spiri: l’immagine raffigura la Trinità: il primo cerchio è il Padre, il secondo, quello riflesso, è il Figlio, il terzo, che spira egualmente dall’uno e dall’altro, è lo Spirito Santo. Il fatto che i tre cerchi sovrapposti siano di tre colori diversi ma della stessa dimensione (contenenza), cosa impossibile, allude al mistero per cui Dio è uno in tre persone eguali e distinte, cosa che la ragione non può comprendere. Iri per “arcobaleno” è un latinismo.
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145 versi 121-126 Oh come sono inadeguate le mie parole e come sono deboli rispetto a quanto ho capito della visione (mio concetto)! E ciò, a paragone di quanto vidi, è così misero che non basta dire “poco”. Oh luce eterna che in te sola consisti, che sola ti comprendi, e intesa da te e intendendo te ti ami e ti sorridi! 22. sola … arridi!: viene ribadito il mistero della Trinità. Dio è un essere assoluto, che non può essere contenuto che da se stesso, e solo può comprendersi; in quanto comprende sé è il Padre, in quanto è compreso da sé è il Figlio, e in quanto amore che nasce da questo comprendersi è lo Spirito Santo. versi 127-132 Quel cerchio che appariva generato in te (nella luce etterna) come luce riflessa, contemplata attentamente per un certo tempo dai miei occhi, al suo interno mi pareva dipinta con il suo stesso colore di una figura umana: per la qual cosa la mia vista era tutta fissa su di essa. 23. del suo colore … effige: si riferisce al mistero della doppia natura di Cristo, divina e umana insieme. Il concetto è espresso mediante l’immagine della figura di un uomo dipinta all’interno del secondo cerchio con il suo stesso colore. In effetti è impossibile distinguere una figura dipinta con lo stesso colore dello sfondo: così è impossibile alla ragione umana capire come Gesù sia contemporaneamente uomo e Dio.
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Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer “poco”. O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi!22 Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige23: per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ’l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio24 ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova25; ma non eran da ciò le proprie penne26: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne27. A l’alta fantasia qui mancò possa28; ma già volgeva il mio disio e ’l velle29, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle30. versi 133-141 Come lo studioso di geometria che si concentra con tutte le sue facoltà intellettuali per misurare il cerchio, e pur impegnandosi con la mente non trova il principio di cui ha bisogno, tale ero io di fronte a quella vista straordinaria (nova): volevo vedere come l’immagine umana si adattasse al cerchio e come potesse trovarvi posto (indova); ma le mie facoltà non erano sufficienti: senonché la mia mente fu colpita da un lampo di luce che venne a soddisfare il suo desiderio. 24. quel principio: è il rapporto fra circonferenza e diametro, pi greco. Misurar lo cerchio significa propriamente “misurare un cerchio trasformandolo in un quadrato di superficie equivalente”: ma essendo pi greco un numero irrazionale, l’equivalenza perfetta è impossibile. 25. tal … indova: come il matematico cerca vanamente il principio che gli permetta la quadratura del cerchio, così Dante fallisce nello sforzo di comprendere razionalmente il mistero della doppia natura di Cristo. Il neologismo dantesco indova è un verbo ricavato dall’avverbio dove. 26. penne: nel senso di “ali”. Dante a proposito della conoscenza usa la metafora del volo, come fa spesso: l’uomo non riesce con le sue limitate facoltà a elevarsi a simili altezze. 27. un fulgore … venne: il fulgore è l’illuminazione della Grazia divina, che consente a Dante di superare i propri limiti e di compren-
dere intuitivamente il mistero dell’incarnazione, inesplicabile per la ragione umana. versi 142-145 Alla mia facoltà immaginativa, che si era elevata così in alto, a questo punto vennero meno le forze: ma ormai Dio, l’amore che imprime il moto al sole e alle stelle, muoveva il mio desiderio (di conoscenza) e la mia volontà (velle), come una ruota che gira uniformemente in ogni punto (rispetto al proprio asse). 28. A l’alta … possa: la fantasia è la facoltà che fornisce all’intelletto la visione, affinché esso la conosca; quindi il venir meno della fantasia equivale alla rinuncia alla conoscenza intellettuale. La visione di Dio può essere solo un rapimento mistico, che esclude la ragione. 29. già volgeva … velle: il disio è il desiderio di conoscenza di Dio, il velle (infinito del verbo latino volo, “volere”, qui reso sostantivo) è l’adesione della volontà umana al Bene supremo. Quindi Dante ha raggiunto una condizione di beatitudine, che consiste nel perfetto adeguarsi alla volontà divina. Il verbo volgeva, con la similitudine successiva del moto della ruota, assimila gli impulsi dell’anima individuale al moto rotatorio che caratterizza le sfere celesti, i cori danzanti dei beati, così come i cerchi angelici che ruotano intorno al punto centrale che è Dio. 30. l’amor … stelle: Dio è definito, secondo la concezione aristotelica ereditata dal Medioevo, come il motore di tutto l’universo.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Analisi del testo Le lodi alla Vergine
La richiesta
I rimandi Le figure retoriche
Commisurare il linguaggio della materia
> La preghiera di san Bernardo
Il canto inizia con la preghiera di san Bernardo alla Vergine. Essa si suddivide in due parti: le lodi di Maria (vv. 1-21) e la supplica vera e propria in favore di Dante (vv. 22-39). Nei versi 1-9 è rievocata la funzione terrena assegnata da Dio alla Vergine, dare i natali al Redentore che riconcilierà a Dio l’umanità afflitta dal peccato originale, consentendo ai giusti di ascendere al Paradiso. Segue l’elencazione delle virtù della Madonna, la carità con cui illumina i beati e la speranza che dona agli uomini, la sua funzione di mediatrice fra gli uomini e Dio, la generosità con cui anticipa le grazie chieste da essi, la misericordia, la pietà. Dopo questo elogio, viene la richiesta che è il fine della preghiera: che Dante possa portare a termine il suo viaggio, di cui sono ricapitolati sinteticamente i termini, l’«infima lacuna» (v. 22) dell’inferno e la rosa dell’Empireo, sino a giungere alla visione di Dio, in cui risiede la suprema salvezza. Perché ciò possa avvenire, Dio deve liberare il pellegrino dei limiti che sono connessi con la sua condizione mortale e che impedirebbero la suprema visione.
> Una sofisticata elaborazione retorica
La preghiera ha un sostrato estremamente colto ed è fitta di rimandi a tutta una serie di testi della tradizione cristiana, dai Vangeli agli inni paleocristiani, alle preghiere quali l’Ave Maria, il Salve regina e le litanie della Vergine, sino ai Sermoni dello stesso san Bernardo. La sua costruzione retorica è sofisticatissima, intessuta di ossimori («Vergine Madre», v. 1), antitesi («umile e alta», v. 2), paradossi («figlia del tuo figlio», v. 1), chiasmi («meridïana face» / «fontana vivace», vv. 10-12, dove il chiasmo è messo in rilievo anche dalla rima), metafore (la «face» e la «fontana», il «caldo» dell’amore grazie a cui è germinato il «fiore» del Paradiso, vv. 8-9, la «nube» della mortalità che deve essere dissolta, vv. 31-32), anafore («In te… in te… in te… in te», vv. 19-20), persino un forte anacoluto (vv. 14-15), figure etimologiche («prieghi… priego… prieghi», vv. 32-39), latinismi («consiglio», «face», «Donna», «virtute», «salute», «iri», «velle»), arditi neologismi («indova»). L’elaborazione retorica risponde all’intento, consueto nel Paradiso, di commisurare la dizione poetica all’altissima materia, ma antitesi, ossimori e paradossi hanno anche una funzione più specifica, rendere l’idea del mistero insito nella figura della Vergine, in cui si fondono la condizione umana e le virtù sublimi che la fanno degna del suo compito e la innalzano al di sopra di tutta l’umanità.
> La rappresentazione simbolica dei misteri L’inneffabile
La trinità e la duplice natura di Cristo
Concisione e complessità
Intendere il mistero
Nell’ultima parte del canto Dante si cimenta con un compito che supera incommensurabilmente le possibilità della poesia, rendere con parole la visione di Dio. I suoi versi devono affrontare l’ineffabile, ciò che non si può dire con la parola umana. Di questo il poeta è ben consapevole, e sul tema dell’ineffabilità insiste più volte nel canto: per cui, per avvicinarsi almeno al fine, ricorre al mezzo che solo è consentito alle forze mortali, dare l’idea di Dio attraverso rappresentazioni simboliche. Nascono così le mirabili figurazioni dei tre cerchi «di tre colori e d’una contenenza», che esprimono in forma visiva il mistero del Dio uno e trino, e dell’effigie umana emergente sullo sfondo del secondo cerchio, che rimanda all’altro mistero della duplice natura di Cristo.
> L’intensa espressività dei versi
Ma al di là delle figurazioni visive di suprema astrazione, Dante accetta la sfida di tradurre in versi i più ardui concetti teologici, i rapporti fra Padre, Figlio e Spirito Santo, con una concisione e una sinteticità ineguagliabili, ricorrendo, a rendere la complessità estrema dei problemi a un’analogamente complessa struttura sintattica (vv. 124-126), rafforzata da un grandinare di allitterazioni tra /s/ e /t/.
> La ragione illuminata dalla Grazia
Il pellegrino non rinuncia agli strumenti della ragione umana per cercare di intendere razionalmente il mistero dell’Incarnazione, e il suo sforzo è espresso nella similitudine del 359
L’età comunale in Italia
Lo slancio mistico
L’armonia con l’universo
La parola «stelle»
«geomètra» che si affanna a risolvere il problema della quadratura del cerchio, ma deve confessarsi vinto, perché il mistero non può essere penetrato in termini razionali. La visione di Dio non può essere raggiunta per questa via, troppo legata alla materialità mortale: può darsi solo per un intervento della Grazia illuminante, cioè attraverso uno slancio mistico supremo, che porti la creatura, in un attimo di estasi, a coincidere con Dio.
> L’esperienza mistica di Dante
Gli ultimi versi del canto sono pervasi dal senso di limitatezza e debolezza dell’uomo di fronte all’infinito, ma al tempo stesso riescono a rendere, sempre con potente sintesi, il vertiginoso rapimento estatico che, in forma misteriosa e non razionale, consente di attingere all’assoluto, di sentirsi in armonia perfetta con il moto impresso da Dio a tutto l’universo.
> Un epilogo sublime
Il canto, e con esso l’intera cantica, terminano con la parola «stelle», in simmetria con le chiuse della altre due cantiche: se nell’Inferno le stelle esprimevano il sollievo di evadere dall’oppressione dell’abisso infernale, dove si raccoglie tutto il male del mondo («E quindi uscimmo a riveder le stelle»), nel Purgatorio la gioia per l’avvenuta purificazione e lo slancio dell’ascesa al cielo («puro e disposto a salire a le stelle»), qui sono il segno della conquista definitiva, dell’approdo al punto terminale del viaggio oltremondano.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Quali affermazioni di Dante attestano la debolezza delle forze umane nell’esprimere il divino? Dove si concentrano tali espressioni? > 2. In quali passi del testo è presente il riferimento a Cristo nella sua natura umana e divina? ANALIzzARE
> 3. Evidenzia i passi in cui emergono i temi della luce e dello sguardo, frequenti nel Paradiso, e indica il loro significato. > 4. Stile Dopo aver analizzato nel testo le similitudini e le metafore, prova a motivare l’assenza di allegoria nel canto, l’ultimo della Commedia. > 5. Lessico Rintraccia ulteriori latinismi rispetto agli esempi citati nell’Analisi del testo, e rifletti sulla necessità del poeta di avvalersene insieme ai neologismi. > 6. Lingua Perché la struttura sintattica dei versi 124-126 può essere definita complessa? APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7.
Testi a confronto: scrivere In riferimento alla preghiera di san Bernardo alla Vergine (vv. 1-39), quale immagine della Madonna emerge dal canto rispetto alla figura proposta da Iacopone da Todi nella lauda drammatica Donna de Paradiso ( cap. 1, T2, p. 107)? Rispondi in non più di 15 righe (750 caratteri). > 8. Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato attentamente l’immagine riportata a lato, rispondi alle domande.
Paolo di Giovanni, La preghiera di san Bernardo alla Vergine, 1450 ca., miniatura dalla Divina Commedia di Dante, codice Yates Thompson 36, Londra, The British Library.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
a) Dov’è collocata la Vergine con il Bambino? Riguardo l’ambientazione, noti delle differenze rispetto a quanto delineato da Dante? b) Quale tipo di veste indossa san Bernardo? Quale altro elemento caratterizza il suo essere santo? c) Quale atteggiamento mostra san Bernardo nei confronti di Dante? È coerente con quanto espresso dai versi analizzati? Motiva la tua risposta. d) Da quale colore predominante è resa, attraverso il linguaggio delle arti figurative, l’ambientazione celeste dell’Empireo?
Interpretazioni critiche
Erich Auerbach La concezione figurale e il realismo dantesco Il critico parte dal constatare il prepotente realismo della rappresentazione dantesca dell’individuo e del mondo terreno. Ne ravvisa quindi la base nella concezione della storia che è propria di Dante e della sua cultura, la concezione «figurale». Alle concezioni cristiano-medievali per Auerbach vanno anche ricondotte le caratteristiche dello stile dantesco: è un nuovo sublime, che non ha più nulla a che vedere con quello classico, perché può comprendere in sé ciò che è individuale e concreto, e persino il grottesco e il triviale: ciò è possibile in quanto tutti gli aspetti della realtà acquistano dignità nell’eternità del giudizio divino.
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Erich Auerbach offre un magistrale esempio di critica stilistica: dall’individuazione delle caratteristiche dello stile si ricostruisce tutto il mondo intellettuale e la cultura che ha espresso l’opera. Ed è una ricostruzione che si basa su un perfetto dominio filologico e storico del mondo studiato. Il critico non sovrappone il suo gusto moderno al testo, scartando ciò che non è in sintonia con esso, ma ne restituisce il senso collocandosi all’interno della cultura e della mentalità da cui il testo è nato.
Nel mio saggio Figura ho dimostrato sufficientemente, così spero, che la Commedia si fonda ovunque su una concezione figurale. Riguardo a tre dei più importanti personaggi che appaiono 5 in essa, Catone Uticense, Virgilio e Beatrice, ho cercato di provare che la loro apparizione nell’aldilà è un compimento della loro apparizione sulla terra, e che questa è invece una figura di quella dell’aldilà; e ho messo in rilievo come la struttura figurale assicuri ai due poli, tanto alla figura quanto al compimento, il carattere storico e concreto della realtà – diversamente da quanto avviene per le forme simboliche e allegori10 che; cosicché figura e compimento si corrispondono senza però che il significato di ciascuna ne escluda la realtà; un avvenimento di significato figurale conserva il suo significato letterale e storico, non diventa un puro simbolo, rimane avvenimento. Già i Padri della Chiesa, specialmente Tertulliano, Girolamo e Agostino1, hanno difeso vittoriosamente il realismo figurale, cioè la conservazione del carattere storico e reale delle 15 figure contro correnti spiritualistico-allegoriche. 1. Tertulliano … Agostino: Tertulliano, retore ed avvocato, nato a Cartagine intorno alla seconda metà del II secolo d.C., morì poco dopo il 220; convertitosi al cristianesimo fu un apologista di intransigente inte-
gralismo. Girolamo (347-419 o 420) è considerato uno dei Padri della Chiesa. Autore di numerose opere, una delle più note delle quali è la Vulgata, la traduzione in latino della Sacra Scrittura. Agostino (354-430)
rappresenta il vertice della letteratura cristiana del periodo. Vastissima la sua produzione, di cui vanno ricordate le Confessioni e La città di Dio.
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Tali correnti che, per così dire, svuotano il carattere reale dell’accadere e in esso vedono soltanto simboli e significato extrastorici, hanno defluito dalla tarda antichità anche nel Medioevo; il simbolismo e l’allegorismo medievale è spesso, come si sa, oltremodo astratto, e anche nella Commedia se ne trovano molte tracce. Ma di gran lunga prevalente nella vita cristiana dell’alto Medioevo è il realismo figurale, che s’incontra nella sua più piena fioritura nelle prediche, nella pittura, nella scultura e nei misteri sacri, ed esso domina anche la concezione di Dante. L’aldilà è, come abbiamo detto più sopra, l’atto realizzato del piano divino; in rapporto a esso i fenomeni terreni sono figurali, potenziali e bisognosi di compimento. Ciò vale anche per le singole anime dei defunti; soltanto nell’aldilà esse conquistano il compimento, la vera realtà della loro persona; il loro apparire sulla terra fu soltanto la figura di questo compimento, e nel compimento stesso esse trovano castigo, espiazione o premio [...]. Figura e compimento hanno ambedue, come dicemmo, essenza di fenomeni e di avvenimenti storico-reali; il compimento la comporta in grado ancor più alto e intenso, perché di fronte alla figura è forma perfectior2. Con ciò si spiega il prepotente realismo dell’aldilà dantesco. Dicendo «si spiega», naturalmente non dimentichiamo il genio del poeta, che fu capace di darci tali creazioni [...], ma spieghiamo con la concezione figurale il modo speciale in cui prese forma il suo genio realistico: essa permette d’intendere come l’aldilà sia eterno e nondimeno fenomeno, senza mutamento e senza tempo e nondimeno pieno di storia. Essa permette anche di chiarire come questo realismo dell’aldilà si distingua da ogni altro puramente terreno. Nell’aldilà l’uomo non è più irretito nelle azioni e nei traffici terreni, come in ogni semplice imitazione delle vicende umane; è chiuso invece in una condizione eterna che è la somma e la risultante di tutte le sue azioni, e che a lui nello stesso tempo palesa quello che fu decisivo per la sua vita e per il suo carattere. Con ciò la sua memoria, anche se con dolore e senza frutto per il dannato dell’Inferno, viene condotta sulla strada che svela tutto quello che fu decisivo nella sua vita. È in tale condizione che i defunti si palesano a Dante ancor vivente; è cessata l’ansietà per il futuro ancora celato, che è propria d’ogni condizione terrena e d’ogni sua imitazione artistica, specialmente di quella seria e drammatica. Solo Dante può sentire quell’ansietà nella Commedia. I molti drammi compiuti si riuniscono tutti in un unico grande dramma in cui si tratta di lui stesso e dell’umanità, e tutti sono soltanto «exempla»3 per l’acquisto o la perdita della beatitudine eterna. Ma le passioni, gli affanni e le gioie sono rimaste e trovano espressione nella condizione, nei gesti e nelle parole dei trapassati. Davanti a Dante tutti quei drammi vengono recitati ancora una volta con straordinaria condensazione, talora in poche righe come quello di Pia de’ Tolomei (Purg., V, 130), e in essi si dispiega, apparentemente sparsa e spezzata, e pur sempre dentro un piano, la storia fiorentina, l’italiana e l’universale. Ansietà e svolgimento, le due note fondamentali dell’accadere terreno, hanno cessato di essere, e tuttavia le onde della storia battono fino nell’aldilà, in parte come ricordo del passato terreno, in parte come partecipazione al terreno presente, in parte come ansia per il terreno futuro, ma ovunque come, in senso figurale, temporalità contenuta nell’eternità senza tempo. Ogni trapassato sente la propria condizione nell’aldilà come l’ultimo atto in corso ancora e per sempre del suo dramma terreno. E. Auerbach, Farinata e Cavalcante, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. di A. Romagnoli e H. Hinterhäuser, Einaudi, Torino 1964, vol. I (1a ed. 1949)
2. forma perfectior: la figura è anticipazione del compimento, pertanto quest’ultimo risulta “forma più perfetta”, più compiuta.
3. «exempla»: letteralmente: “vicende esemplari” con finalità di costituire un modello di comportamento per tutti, essendo portatrici
di valori etici e religiosi assoluti.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Spiega in modo sintetico la «concezione figurale» (r. 3). > 2. Quale tendenza determinano nella cultura medievale le «correnti spiritualistico-allegoriche» (r. 15)?
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
> 3. Come si configura il realismo nel mondo ultraterreno rispetto a quello terreno? > 4. Spiega il significato dell’affermazione con cui si conclude il brano: «Ogni trapassato … dramma terreno» (rr. 55-56) in base a quanto precedentemente affermato nelle righe 35-55.
ANALIzzARE
> 5. In riferimento alla concezione figurale rapportata al «genio realistico» di Dante, la definizione «essa permette d’in-
tendere come l’aldilà sia eterno e nondimeno fenomeno, senza mutamento e senza tempo e nondimeno pieno di storia» presenta vocaboli e/o espressioni riferiti a concetti apparentemente antitetici? Se sì, quali? Motiva la tua risposta. > 6. Lessico Qual è l’esatto significato dell’aggettivo «prepotente» (r. 29)? APPROfONDIRE E INTERPRETARE
> 7. Scrivere Elabora una breve trattazione di circa 20 righe (1000 caratteri) per sostenere, a proposito di Catone Uticense, Virgilio e Beatrice, l’affermazione del critico secondo cui «la loro apparizione … una figura di quella dell’aldilà» (rr. 5-7). > 8. Esporre oralmente A proposito di “realismo”, proponi, in un’esposizione orale (max 5 minuti), esempi significativi da te studiati o conosciuti che dimostrino la validità della tesi di Auerbach.
facciamo il punto L’ESPERIENzA DI VITA
1. Esamina in quale modo le esperienze biografiche dell’incontro con Beatrice, dell’attività politica e dell’e-
silio vengano assorbite nella produzione letteraria di Dante. LA fORMAzIONE
2. Rifletti sulle componenti culturali che hanno formato l’intellettuale Dante (ad esempio la conoscenza
dei classici latini, della filosofia, della retorica…). 3. Si può dire che la letteratura latina classica, quella medievale, quella franco-provenzale abbiano influenzato Dante? Quale valutazione Dante esprime di queste tradizioni letterarie? IL MODELLO D’INTELLETTUALE
4. Quale tipo d’intellettuale rappresenta Dante? Rifletti sulla realtà politico-sociale, il Comune, nella quale
è inserito, sulle caratteristiche della sua formazione culturale, sul pubblico a cui si rivolge. 5. Quali elementi caratterizzano l’ideologia politica di Dante? (Come giudica il presente, il passato, l’operato del pontefice e quello dell’imperatore? Quali valori caratterizzano la sua società ideale?) LE OPERE
6. Come si colloca l’esperienza poetica di Dante nella Vita nuova rispetto allo Stilnovismo di Guinizzelli e
Cavalcanti? 7. Completa la seguente tabella. Opere
Lingua usata
Pubblico
Temi trattati
Rime
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Vita nuova
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Convivio
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De vulgari eloquentia
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De monarchia
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Epistole
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Commedia
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Dal confronto tra le caratteristiche delle opere emergono delle tendenze comuni? Ci sono dei motivi, presenti nelle opere minori, che passeranno nella Commedia?
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ChE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI
Dante DISTANzA E VICINANzA DI DANTE Come abbiamo cercato di mostrare in questo capitolo, la Divina Commedia è un grande monumento letterario, in cui si riassume tutta una civiltà, e al tempo stesso è un’opera di straordinaria forza rappresentativa e stilistica. Al pari di tutti i capolavori, una volta che si sia riusciti a penetrare nel suo universo, non può che lasciare stupiti, quasi intimoriti. La fede di Dante Noi viviamo in un’epoca in cui, nella coscienza comune, le visioni totalizzanti del mondo sono entrate in crisi; di conseguenza non riusciamo più a inquadrare il reale entro moduli d’ordine certi e stabili, dati come oggettivi, e ad esso possiamo attribuire solo sensi precari e soggettivi; neppure la scienza è in grado di offrirci certezze definitive, e la fede religiosa moderna è infinitamente più inquieta e problematica di quella medievale: per cui non possiamo che guardare con ammirazione alla fede dantesca in un ordine perfetto che racchiude il cosmo, in cui tutte le manifestazioni trovano una collocazione e un senso, ma al tempo stesso la sentiamo diversa e lontana. I giovani poi, dinanzi all’estrema difficoltà concettuale e linguistica del poema, possono anche provare un senso di estraneità, di incolmabile distanza. Ma al di là del rispetto quasi sacrale e del senso di distanza che il capolavoro ispira, in realtà numerosissimi temi o aspetti del poema dantesco ci parlano ancora particolarmente da vicino, facendosi sentire da noi attuali, contemporanei. Ciascuno potrà individuarli secondo la propria sensibilità e i propri interessi: noi proponiamo alcuni spunti di riflessione tra i tanti che si possono offrire.
LE DIVISIONI fAzIOSE Dante è uomo dalle forti passioni politiche, ma anche di estremo rigore morale e capace di una visione superiore. Il bene comune Per lui è il bene della città che deve essere posto al di sopra di tutto: per questo si sdegna dinanzi all’esplodere delle lotte tra fazioni, che lacerano il corpo delle città italiane, provocando sofferenze, morti, rovine. Il suo ideale è un «riposato viver di cittadini», in cui regnino concordia e giustizia, ed esalta gli uomini politici che sanno elevarsi al di sopra degli odi faziosi
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per amore della loro «nobil patria», come Farinata degli Uberti. Anche noi oggi vediamo da tempo il panorama politico lacerato da conflittualità esasperate, che vanno ben al di là di una giusta dialettica fra diverse concezioni del governo della cosa pubblica, fondamento di ogni sana vita democratica. La condanna dantesca della deleteria faziosità, l’appello a guardare sempre al bene comune come fine supremo, costituiscono un messaggio che ci coinvolge ancora direttamente.
LA CORRUzIONE POLITICA Uno dei mali della società attuale, particolarmente diffuso in Italia, è la corruzione di chi ricopre cariche pubbliche, che solleva costantemente l’indignazione delle persone comuni, inducendo spesso a fare di ogni erba un fascio, senza distinguere caso da caso, e generando di-
Alberto Sughi, Dante parla agli italiani, 2002, tempera su carta intelata.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
spregio puramente qualunquistico della politica in quanto tale, oppure pessimismo, sconforto, rassegnazione.
Barattieri e tangentisti Nei versi di Dante troviamo una condanna della corruzione politica estremamente precisa e circostanziata, che per noi risulta di bruciante, sorprendente attualità. Nei canti XXI-XXII dell’Inferno i «barattieri», noi diremmo i politici che si fanno corrompere con tangenti, sono dannati a pene atroci: stanno immersi nella pece bollente e, se cercano di affiorare alla superficie per trovare un qualche sollievo, vengono ricacciati giù a colpi di uncini dai diavoli, che indirizzano loro scherni crudeli. La pena e lo scherno sono il modo con cui il poeta traduce il suo sdegno verso una colpa infame. E nel canto XVI del Paradiso Dante depreca che Firenze debba sopportare il «puzzo» di governanti corrotti, che già hanno «l’occhio aguzzo» per individuare fonti di guadagno disonesto. Le leggi inapplicate Di singolare attualità è poi l’affermazione che troviamo nel canto XVI del Purgatorio, «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?»: ci fa andare con la mente alle tante leggi in vigore, magari ben pensate e opportune, che però restano inapplicate, o per inerzia e cattiva volontà di chi dovrebbe attuarle, e non sa opporsi ai grandi interessi che tendono ad aggirarle e a renderle inefficaci, o per disorganizzazione, o per lentezze burocratiche. Per altro verso la frase dantesca ci richiama alle porzioni di territorio controllate dalla criminalità organizzata, dove lo Stato non riesce a far rispettare le sue leggi, o in certi casi non “vuole”, diciamo così, a causa delle connivenze di certi politici e amministratori con le varie mafie, come ci mostrano le cronache più o meno recenti.
L’ESIBIzIONE DEL LUSSO Nel canto XV del Paradiso Dante si scaglia contro l’ostentazione sfacciata del lusso che si registra nella classe dominante fiorentina del suo tempo, al contrario dell’estrema sobrietà dei tempi antichi («Non avea catenella, non corona, / non gonne contigiate [ricamate], non cintura / che fosse al veder più che la persona»). L’ostentazione dei privilegiati e la crisi Come non pensare alle analoghe ostentazioni odierne di abiti firmati da grandi sarti, gioielli, auto costosissime, yacht, grandi ville con piscina, da parte di un’élite di privilegiati, sempre più ricchi in un’epoca di crisi economica che vede aumentare continuamente il numero di famiglie sotto il livello di povertà assoluta, e l’impoverimento di ceti che prima potevano godere di redditi e tenori di vita decenti?
Speculazione finanziaria e «sùbiti guadagni» E, sempre restando alla crisi attuale, l’avidità speculativa della grande finanza internazionale, che è all’origine della crisi e quindi è la prima responsabile del disastro, può far correre col pensiero alle invettive di Dante contro l’avidità dei «sùbiti guadagni» che riscontra nel proprio tempo, e alla deprecazione del «maladetto fiore», cioè del fiorino, la moneta fiorentina che era alla base degli scambi in tutta l’Europa.
I VALORI UMANISTICI La dignità umana e la conoscenza In un’epoca in cui i valori umanistici della letteratura e del pensiero sono sempre più marginalizzati, se non disprezzati, suona quanto mai attuale il monito dantesco, contenuto nel canto di Ulisse, «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Anche se Dante, in ossequio alla visione del suo tempo, poneva limiti precisi all’ardore di conoscenza e condannava come «folle» chi li superava, il suo culto della conoscenza come culmine della perfezione umana, dichiarato nel Convivio e ribadito in quel motto famoso, ci appare un modello quanto mai attuale, che si vorrebbe operante anche oggi (magari nella maggiore diffusione della lettura e del libro, che come si sa in Italia è alquanto scarsa). Il culto della poesia A quel monito si può poi accostare il suo culto della poesia (quello di poeta per lui è il «nome che più dura e più onora»), che nella Commedia traspare dai tanti incontri con intellettuali e scrittori, da Virgilio ai grandi antichi del Limbo, a Stazio, ai poeti “moderni” nel purgatorio, come Guido Guinizzelli, definito «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre», o come Arnaut Daniel, «miglior fabbro del parlar materno».
LA fEDE NEL VOLGARE La difesa della lingua Se poi pensiamo alla fede di Dante nel volgare, celebrato nel Convivio e usato per scrivere il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra», possiamo in quella fede trovare stimoli a combattere in difesa della nostra lingua, insidiata oggi da mille fattori di degradazione e corruzione, come l’impoverimento e l’improprietà del lessico e della sintassi, l’imporsi di gerghi stereotipati, goffi e generalmente incomprensibili ai più, come il “burocratese” o il “politichese”, l’invadenza di anglismi spesso del tutto inutili o usati a sproposito e magari erroneamente nella pronuncia e nella grafia. Si potrebbero proporre tanti spunti ancora, ma ci fermiamo qui, lasciando a insegnanti e studenti, se lo ritengono opportuno, il compito di individuarne altri.
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L’età comunale in Italia
Ripasso visivo
DANTE ALIGhIERI (1265-1321) Mappe interattive
Ripasso interattivo
ELEMENTI BIOGRAfICI
• Nasce a Firenze da una famiglia di piccola nobiltà di parte guelfa • Negli anni giovanili la sua esperienza intellettuale e sentimentale si compendia intorno alla figura di Beatrice, che si caricherà di complessi significati, restando poi il cardine di tutto il suo percorso successivo
• In gioventù stringe amicizia con i poeti della scuola stilnovista
• Considera la cultura come impegno morale e civile, partecipando alla vita politica della sua città
• È condannato all’esilio con l’accusa di baratteria; dopo aver cercato ospitalità presso diverse corti italiane, trascorre gli ultimi anni a Ravenna
POETICA E PENSIERO
• Critica la società del suo tempo per il degrado
bancaria e mercantile
morale, evidente nella crisi delle due maggiori istituzioni quali l’Impero e la Chiesa, che considera autonome e complementari • Alla base di tutto ciò, per Dante, oltre alla decadenza degli antichi valori, ci sono la corruzione e la cupidigia della classe politica, la conflittualità delle fazioni nei Comuni e l’ascesa della nuova borghesia
• Considera la storia umana guidata da un disegno
provvidenzialistico e applica un’interpretazione simbolica ai fatti umani • Aderisce allo Stilnovismo, esaltando la figura della donna-angelo (Beatrice) ed elaborando uno stile “dolce e leggiadro“, considerando l’amore come un’esperienza spirituale e mistica di elevazione a Dio
OPERE IN VOLGARE POESIA • Vita nuova – genere: prosimetro (poesie con commento in prosa) – racconta la storia dell’amore per Beatrice, con intento simbolico – è il racconto di un’esperienza spirituale e letteraria • Rime
•
IN LATINO
PROSA • Convivio – genere: prosimetro, trattato di argomento filosofico
Commedia
PROSA De vulgari eloquentia – genere: trattato di retorica – analizza le caratteristiche del volgare «illustre» e fissa le norme d’uso del volgare letterario • De monarchia – genere: trattato politico – auspica l’autonomia e la divisione delle sfere d’influenza tra l’Impero e la Chiesa (teoria dei “due Soli”) • 13 Epistole
•
Commedia
LA STRUTTURA
• Poema didascalico-alle-
gorico in terzine incatenate di endecasillabi, costituito di 100 canti, distribuiti in tre cantiche
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LA REALTà RAPPRESENTATA
• La Commedia è il
racconto del viaggio nell’aldilà, compiuto dal poeta e simbolicamente dall’umanità per liberarsi dal male
I TEMI PRINCIPALI
• Al centro del poema è il
tema morale e politico, fondato sulla nostalgia per i valori del passato e su una visione assai cupa della realtà presente
LA LINGUA E LO STILE
• Una pluralità di livelli
linguistici e stilistici (plurilinguismo) tende a innalzarsi dall’Inferno al Paradiso
In sintesi
DANTE ALIGhIERI (1265-1321) Verifica interattiva
Figura centrale della letteratura medievale, Dante visse in un’epoca di convulsi cambiamenti politici e sociali, incarnando il modello dell’intellettuale-cittadino, che concepisce la cultura come fattivo impegno morale e civile.
LA Vita nuoVa È una raccolta, composta tra il 1293 e il 1295, delle rime più significative scritte in precedenza, raccordate da commenti in prosa che conferiscono un carattere narrativo all’insieme dell’opera. Dante vi ricostruisce la propria vicenda poetica e sentimentale dal primo incontro con Beatrice fino al momento in cui la donna, ormai morta, gli appare nella gloria dell’Empireo. Il percorso delineato segna il progressivo superamento della concezione cortese dell’amore: se nella parte iniziale dello scritto il sentimento si nutre ancora della speranza di una ricompensa da parte della donna, successivamente esso trova appagamento nella contemplazione disinteressata di lei, avviandosi a divenire un’esperienza puramente spirituale di elevazione a Dio. Al nuovo atteggiamento dell’amante-poeta corrisponde uno stile più “dolce”, espressione di uno stato d’animo libero dal quel tormento interiore che caratterizzava l’amore cortese.
LE Rime Sono il complesso della produzione lirica di Dante, dagli esordi fino al periodo dell’esilio. Le rime giovanili riflettono le tendenze della lirica cortese del tempo, che ha al suo centro il tema amoroso, mentre la produzione successiva alla Vita nuova appare più diversificata: il poeta affronta temi filosofico-morali, sperimenta la via della poesia comica e burlesca e i modi intellettualistici e preziosi della lirica amorosa provenzale. Dopo l’esilio, prevalgono nettamente i temi morali, con un accentuarsi della visione negativa della realtà contemporanea.
IL ConViVio Frutto degli studi filosofici e dell’esperienza politica, l’opera, scritta negli anni 1304-07 e rimasta incompiuta, avrebbe dovuto configurarsi come una vasta enciclopedia di tutto il sapere umano articolata in 14 trattati, ciascuno dei quali concepito come commento in chiave allegorica di una canzone.
IL de VuLgaRi eLoquentia Composto in latino negli stessi anni del Convivio e lasciato incompiuto, lo scritto intende fornire al pubblico dotto un trattato di retorica che fissi le norme d’uso del volgare letterario («illustre»), di cui Dante afferma la piena dignità nel trattare argomenti non solo amorosi, ma anche morali ed epico-guerreschi. Tale lingua non coincide con alcun dialetto italiano e la sua elaborazione toccherà ai letterati e agli intellettuali, “corte” ideale di un’Italia priva di unità politica.
IL de monaRChia È un trattato politico in latino, la cui composizione si deve collocare nel periodo della discesa in Italia di Enrico VII (1310-13), che suscitò in Dante l’illusione di una restaurazione dell’Impero universale. L’autore affronta la questione dei rapporti tra il potere imperiale e quello religioso, affermando la loro autonomia reciproca e nello stesso tempo la loro complementarità: l’imperatore deve riverenza al papa, guida spirituale dell’umanità, e il papa ha bisogno, per operare, della pace che solo il potere politico può garantire.
LE epistoLe D’argomento politico sono anche molte delle 13 Epistole, lettere ufficiali scritte in latino. Di notevole interesse è l’Epistola a Cangrande della Scala, risalente al periodo compreso tra il 1315 e il 1317, che dà fondamentali indicazioni di lettura della Commedia.
LA Commedia Il poema, composto probabilmente a partire dal 1307, è animato da una struggente nostalgia per i valori del passato e da una visione assai cupa della realtà presente: la crisi dei poteri universali (l’Impero e la Chiesa), l’ascesa del ceto borghese, la decadenza dell’antica nobiltà feudale e la conflittualità interna ai Comuni sono interpretati come segni di un degrado morale, contro il quale l’ira di Dio non tarderà a scagliarsi. Al tema morale e politico si collega la riflessione sulla propria vicenda personale, segnata dalla dolorosa esperienza dell’esilio. Vittima dell’ingiustizia, Dante si propone come profeta investito da Dio perché denunci la corruzione dilagante e indichi agli uomini la via della salvezza: la Commedia è appunto il racconto del viaggio nell’aldilà, compiuto dal poeta e simbolicamente dall’umanità ch’egli rappresenta, per liberarsi dal male e giungere a Dio. Anche se gli antecedenti culturali del poema sono molteplici, la concezione dantesca appare unitaria e tipicamente medievale per la fiducia dogmatica nella verità rivelata e nell’ordine divino, manifesto in ogni aspetto della realtà. Alla mentalità medievale è d’altra parte riconducibile l’impianto allegorico della narrazione, che cela dietro i significati letterali, di per sé reali, ulteriori significati morali e religiosi. Lo stile dell’opera è definito dal poeta stesso, nell’Epistola a Cangrande, «dimesso e umile», perché accoglie tutti gli aspetti della realtà, da quelli più alti a quelli più turpi, che hanno comunque un loro senso in quanto parte del creato. Alla molteplicità della materia corrisponde la pluralità dei livelli linguistici e stilistici, che tendono a innalzarsi dall’Inferno al Paradiso, ma che risultano comunque disomogenei anche all’interno di ciascuna cantica. Diversi sono anche i generi letterari confluiti nel poema “sacro”, che trova il suo fattore unificante essenzialmente nell’impianto narrativo che lo caratterizza, in quanto racconto di un viaggio-esperienza proteso verso la meta finale della visione di Dio.
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L’età comunale in Italia
Bibliografia La critica
` EDIZIONI DELLE OPERE Per la ricerca nel web
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L’Edizione Nazionale delle Opere di Dante, a cura della Società Dantesca Italiana, ha pubblicato presso l’editore Le Lettere di Firenze i seguenti volumi: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi (1994, seconda ristampa riveduta); Convivio, a cura di F. Ageno Brambilla (1995, da cui sono tratti i brani in antologia); Rime, a cura di D. De Robertis (2002); Monarchia, a cura di P. Shaw, Firenze (2009, sostituisce l’edizione del 1965 curata da P. G. Ricci), Fiore e Detto d’amore, a cura di P. Allegretti (2011). La stessa Società ripropone le importanti edizioni della Vita nova curate da M. Barbi (Bemporad, Firenze 1932, da cui si cita) e G. Gorni (Einaudi, Torino 1996). I passi antologizzati delle Rime, del De vulgari eloquentia, del De monarchia sono tratti da Opere minori, Ricciardi, Milano-Napoli 1979 (a cura, rispettivamente, di G. Contini, P. V. Mengaldo e B. Nardi); per le Epistole si cita invece dalla relativa sezione di Tutte le opere (Mursia, Milano 1965) curata da F. Chiappelli. Tra le innumerevoli edizioni complessive si segnalano i due volumi delle Opere della collana “I Meridiani” Mondadori, Milano 2011-14: il primo, che contiene Rime, Vita nova, De vulgari eloquentia, è a cura C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, con introduzione di M. Santagata; il secondo, che raccoglie Convivio, Monarchia, Epistole ed Egloghe, è curato da G. Fioravanti, C. Giunta, D. Quaglioni, C. Villa e G. Albanese; tutte le opere sono corredate di un nutrito commento critico. Tra le tante edizioni commentate della Commedia si ricordano quella a cura di: N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1955-57 (edizione riveduta); U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 1979; a cura di F. Pasquini e A. E. Quaglio, Garzanti, Milano 1988; a cura di B. Garavelli, con la supervisione di M. Corti, Bompiani, Milano 1993; A. Chiavacci Leonardi, di recente ripubblicazione nella collana “I Meridiani” Mondadori (prima edizione 1991, edizione assunta come testo di riferimento).
BIOGRAFIE M. BarBi, Dante: vita, opere, fortuna, Sansoni, Firenze 1933 • G. Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, Roma-Bari 1983 • J. Risset, Dante. Una vita, Rizzoli, Milano 1995 • E. Pasquini, Vita di Dante. I giorni e le opere, Bur, Milano 2006.
`STORIA E ANTOLOGIA DELLA CRITICA D. Mattalia, Dante Alighieri, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, La Nuova Italia, Firenze 1960 (e successive edizioni) • L. Martinelli, Dante, Palumbo, Palermo 1973 • A. Vallone, Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, La Nuova Libraria, Padova 1981 • A. Pagliaro (a cura di), La «Divina Commedia» nella critica, D’Anna, Firenze 1966 • C. Salinari (a cura di), Dante nella critica, Laterza, Bari 1968 • E. Esposito (a cura di), Dalla bibliografia alla storiografia: la critica dantesca nel mondo dal 1965 al 1990, Longo, Ravenna 1995. `STUDI CRITICI
B. Croce, La poesia di Dante, Laterza, Bari 1921 • B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, Bari 1942 • G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Sansoni, Firenze 1947 • E. AuerBach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956 (1949) • A. Passerin D’Entrèves, Dante politico e altri saggi, Einaudi, Torino 1955 • E. Sanguineti, Tre studi danteschi, Le Monnier, Firenze 1961 • E. AuerBach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1963 • Ch. S. Singleton, Saggio sulla «Vita nuova», Il Mulino, Bologna 1968 (1958) • M. FuBini, Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Ricciardi, Milano-Napoli 1966 • E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Sansoni, Firenze 1966 • S. Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Liguori, Napoli 1967 • U. Bosco (a cura di), Enciclopedia dantesca, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1970-78 • D. De RoBertis, Il libro della «Vita nuova», Sansoni, Firenze 1970 • E. Raimondi, Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Einaudi, Torino 1970 • G. BárBeri Squarotti, L’artificio dell’eternità, Fiorini, Verona 1972 • G. Contini, Un’idea di Dante,
Einaudi, Torino 1976 • L. Spitzer, Studi italiani, a cura di C. Scarpati, Vita e Pensiero, Milano 1976 • Ch. S. Singleton, La poesia della «Divina Commedia», Il Mulino, Bologna 1978 • P. Boyde, L’uomo nel cosmo. Filosofia della natura e poesia in Dante, Il Mulino, Bologna 1984 (1981) • E. Bigi, Forma e significato nella «Divina Commedia», Cappelli, Bologna 1981 • G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d’amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Olschki, Firenze 1981 • G. Gorni, Lettera nome numero. L’ordine delle cose in Dante, Il Mulino, Bologna 1990 • F. Ferrucci, Il poema del desiderio. Poetica e passione in Dante, Leonardo, Milano 1990 • E. Sanguineti, Dante reazionario, Editori Riuniti, Roma 1992 • G. Padoan, Il lungo cammino del «poema sacro». Studi danteschi, Olschki, Firenze 1993 • M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino 1993 • P. Boyde, V. Russo (a cura di), Dante e la scienza, Longo, Ravenna 1995 • G. Gorni, Dante nella selva, Il primo canto della «Commedia», Pratiche, Parma 1995 • E. Malato, Dante, Salerno, Roma 1999 • G. Inglese, L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, La Nuova Italia, Firenze 2000 • E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della «Commedia», B. Mondadori, Milano 2001 • M. A. Balducci, Classicismo dantesco. Miti e simboli della morte e della vita nella «Divina Commedia», Le Lettere, Firenze 2004 • L. Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella «Commedia» di Dante, Il Mulino, Bologna 2007 • E. Minguzzi, La struttura occulta della «Divina commedia», Scheiwiller, Milano 2007 • P. Cataldi, Dante e la nascita dell’allegoria. Il canto I dell’«Inferno» e le nuove strategie del significato, Palumbo, Palermo 2008 • G. Gorni, Dante: storia di un visionario, Laterza, Roma-Bari 2008 • G. BárBeri Squarotti, Tutto l’Inferno. Lettura integrale della prima cantica del poema dantesco, Franco Angeli, Milano 2010 • M. Santagata, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Il Mulino, Bologna 2011. • A. Casadei, Dante oltre la Commedia, Il Mulino, Bologna 2013.
PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Parafrasi interattiva
T24
Dante Alighieri
Ne li occhi porta la mia donna Amore dalla Vita nuova, XXI Nel capitolo seguente Dante illustra come Amore abbia origine dagli occhi di Beatrice.
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XXI. Poscia che trattai d’amore ne la soprascritta rima1, vennemi volontade di volere dire anche, in loda di questa gentilissima2, parole, per le quali io mostrasse come per lei3 si sveglia questo Amore, e come non solamente si sveglia là ove dorme4, ma là ove non è in potenzia5, ella, mirabilemente operando, lo fa venire. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Ne li occhi porta.
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Ne li occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch’ella mira6; ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core7,
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sì che, bassando il viso, tutto smore8, e d’ogni suo difetto allor sospira9: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore.
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Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond’è laudato chi prima la vide10.
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Quel ch’ella par11 quando un poco sorride, non si pò dicer né tenere a mente, sì è novo12 miracolo e gentile13.
1. Poscia che … rima: il riferimento è al sonetto Amore e ’l cor gentil sono una cosa, presentato nel capitolo precedente (cap. XX), di cui questi versi appaiono come completamento e sviluppo. 2. questa gentilissima: Beatrice. 3. per lei: grazie a lei, alle sue virtù. 4. dorme: è al momento latente. 5. là ove non è in potenzia: là dove non esiste come potenzialità, cioè nei cuori
non gentili; il termine potenzia appartiene al lessico aristotelico. 6. Ne li occhi … mira: la mia donna porta Amore negli occhi, per cui ciò che ella guarda diventa nobile d’animo (gentil). 7. e cui … core: e fa tremare il cuore a colui che saluta. 8. smore: diventa smorto, impallidisce. 9. sospira: prova pentimento, pena. 10. laudato … vide: «ne ha lode e bea-
titudine» (Gorni) chi la vide per primo. Chi può indicare una persona generica; altri intende Dante stesso, o Dio che l’ha creata, o anche il genitore. 11. par: appare. 12. novo: straordinario, mai visto. 13. gentile: può essere riferito a miracolo, come novo, ma altri lo intende riferito a ella.
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L’età comunale in Italia
COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Analizza la struttura del componimento e poi riassumilo seguendo le indicazioni fornite da Dante stesso nella prosa che segue i versi: Questo sonetto si ha tre parti: ne la prima dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto [= mette in azione la forza dell’Amore] secondo la nobilissima parte [del corpo] de li suoi occhi; e ne la terza dico questo medesimo secondo la nobilissima parte della sua bocca; e intra queste due parti è una particella, ch’è quasi domandatrice d’aiuto a la precedente parte e a la sequente, e comincia quivi: Aiutatemi donne. La terza comincia quivi: Ogne dolcezza.
> 2. Quali effetti produce la donna in chi la vede e in chi la sente? > 3. Quale valenza assume l’atto del “sospirare” (v. 6)? > 4. Riflettendo sulla prosa che introduce il sonetto, in che cosa consiste, in particolare, il «miracolo» (v. 14) operato da Beatrice?
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti. GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dal sonetto Ne li occhi porta la mia donna Amore di Dante, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: – lo stretto rapporto fra quartine e terzine, rinsaldato da due coppie di termini opposti disposti a chiasmo; – le caratteristiche dello stile «dolce» presenti nel sonetto, considerando in particolare il livello fonico, lessicale e sintattico; – la ripresa di motivi convenzionali della lirica amorosa stilnovista e il loro superamento, in un confronto con testi a te noti di Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo. Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: – la Vita nuova come itinerario dall’amore sensuale all’amore mistico; – la funzione salvifica della donna nella letteratura e nell’arte; – il ruolo della letteratura e di altre forme espressive nella costruzione degli stereotipi femminili: dalla donna-angelo alla donna-vampiro, dalla fata alla strega, dalla moglie fedele alla seducente incantatrice.
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito letterario e sociale Marco Santagata
Dante conservatore Marco Santagata (1947) è uno studioso, autore di numerosi saggi di critica letteraria, e docente di Letteratura italiana all’Università di Pisa. Il testo che segue è tratto da un articolo pubblicato sulla “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” in cui egli analizza l’atteggiamento di Dante nei confronti dell’evoluzione culturale, politica e sociale del suo tempo.
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Tra le molte contraddizioni della personalità di Dante spicca il modo antitetico nel quale egli valuta le innovazioni a seconda che incidano sulla sfera artistico-culturale o su quella politico-sociale. Dante ritiene, ed è un pensiero del tutto originale, che lo scorrere del tempo abbia un ruolo decisivo nel trasformare i fenomeni culturali: le lingue naturali sono instabili e incessantemente mutevoli; le arti e la letteratura sono anch’esse in movimento: Franco Bolognese supera l’arte di miniare di Oderisi da Gubbio1, Giotto soppianta Cimabue2, Cavalcanti toglie a Guinizelli la gloria della lingua, il “dolce stil novo” si lascia alle spalle tutta la produzione lirica da Giacomo da Lentini a Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca. Ebbene, l’intellettuale che mostra di avere una così acuta percezione della storicità dei fenomeni culturali, quando volge lo sguardo alle dinamiche sociali, economiche e politiche della sua epoca vorrebbe bloccare il corso della storia, anzi, riportare indietro le lancette dell’orologio. Rifiuta in blocco gli assetti produttivi basati sulla manifattura, il commercio e la finanza, il rimescolamento del tessuto sociale dei Comuni da essi prodotto (la «cittadinanza, ch’è or mista»), le nuove forme signorili di governo (che lui chiama «tirannidi»), il deperimento delle giurisdizioni feudali, la centralità della finanza nei rapporti tra Stati e signorie. Dante considera il dinamismo sociale degenerazione dei costumi e perversione dei valori; la perdita di ruolo e di potere degli antichi ceti dominanti, caduta dei pilastri dell’ordine comunitario; la concorrenza aspra tra le città e l’affermarsi di istituzioni signorili, disordine esiziale3 per la pacifica convivenza della cristianità. È convinto che la salvezza verrà solo ritornando indietro alla serena e domestica Firenze premercantile, all’epoca in cui la cristianità poggiava sull’equilibrio tra i due “soli” (papato e impero), a un assetto sociale gerarchico e stabile imperniato sulla nobiltà feudale. Tornare indietro e bloccare il tempo. Ricostituire un mondo immobile, garantito da un disegno istituzionale immutabile, simile in questo all’eterna corte celeste del Paradiso. (M. Santagata, Dante conservatore, in “Domenica” de “Il Sole 24 Ore”, 26 agosto 2012)
1. Franco Bolognese … Oderisi da Gubbio: furono entrambi miniatori. In un passo del Purgatorio, vengono messi
a confronto da Dante. 2. Cimabue: celebre pittore, maestro di Giotto.
3. esiziale: rovinoso.
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L’età comunale in Italia
COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Scrivi la sintesi del testo in circa 70 parole.
> 2. Qual è la tesi di fondo sostenuta nel testo? Spiegala con le tue parole. > 3. Alle righe 3-16 («Dante ritiene […] Stati e signorie») Marco Santagata afferma che Dante
fu consapevole dei mutamenti in atto nell’ambito dei fenomeni culturali del suo tempo. Quali sono tali fenomeni?
> 4. Con quale congiunzione l’autore introduce il riferimento alla posizione contraddittoria di Dante nei confronti delle dinamiche economiche, politiche e sociali della sua città?
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti. PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno all’articolo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le quattro colonne di metà di foglio protocollo (circa 3000 caratteri) sul rapporto tra cultura e società. Considera in particolare l’evoluzione attuale della lingua, dell’arte e della letteratura e quella della società, dell’economia e della politica: esiste un rapporto di reciproco condizionamento tra le innovazioni culturali e quelle politiche, economiche e sociali? Cita alcuni esempi e argomenta in modo tale da organizzare il tuo elaborato in un testo coerente e coeso che potrai, se lo ritieni utile, suddividere in paragrafi.
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito sociale e politico argomento
Potere politico e potere religioso
Nella Monarchia Dante affronta il tema del rapporto tra l’autorità politica e quella religiosa del suo tempo, e sostiene la necessità della separazione dei ruoli; inoltre egli considera complementari le due istituzioni nella direzione della vita degli individui e della società. Quale rapporto esiste oggi tra potere politico e potere religioso in Italia e in altri paesi del mondo? Esprimi le tue considerazioni in proposito avvalendoti di argomenti ed esempi tratti dalle tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto.
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito letterario argomento
La lingua della creatività
Dante, alla ricerca della lingua perfetta per l’espressione poetica, passa in rassegna i diversi volgari d’Italia, non riconoscendo a nessuno di essi le virtù necessarie. Quale pensi sia oggi la lingua ideale per la scrittura creativa (poesie, racconti, testi teatrali e musicali)? L’italiano standard o un italiano arricchito da elementi tratti dai vari dialetti d’Italia e dalle lingue straniere? Esprimi le tue considerazioni in proposito avvalendoti di argomenti ed esempi tratti dalle tue conoscenze ed esperienze.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Competenze attivate
Prova di competenza SIMULAzIONE DI ESPERIENzA REALE
• Imparare a imparare attraverso
metodi e strategie riferiti a contesti nuovi e reali • Collaborare e partecipare per un progetto comune e un risultato finale • Consolidare le competenze digitali per l’apprendimento e la comunicazione di saperi
Area tematica > Gli inferni della contemporaneità
Risultato atteso > Articolo di giornale destinato alla pubblicazione Fasi di lavoro Prima fase La classe è invitata dal docente, in una sorta di brainstorming, ad effettuare una ricerca (anche in rete) sui significati che la parola “inferno” assume nella lingua italiana, sui vari corrispettivi nelle principali lingue straniere, sulle immagini o link che i motori di ricerca del web pongono all’attenzione del lettore in base alla parola cercata ecc., per poi passare ad una fase di appropriazione personale della definizione, lasciando spazio ad eventuali interventi individuali o ad un vero e proprio dibattito, sempre guidato dal docente.
• Che cos’è l’inferno per ciascuno di noi? • In quale misura è presente il paradigma dantesco nella definizione di tale immaginario? L’allegoria, pertanto, non si configura come espediente retorico-stilistico medievale, ma come modalità anche contemporanea per “dire altro”, da intendersi come racconto in cui figure concrete sono dotate di significato autonomo e danno luogo ad una interpretazione non esclusivamente in chiave letterale.
Seconda fase In seguito al dibattito, il docente chiederà agli studenti di suddividersi in piccoli gruppi di opinione e di lavoro (3-4 persone al massimo), affidando a ciascuno di essi l’analisi di un solo documento (da impostare attraverso le attività suggerite) finalizzata alla raccolta dei dati (insieme all’individuazione di passi da citare eventualmente nell’elaborato finale) e all’interazione di questi con conoscenze personali ed esperienze di studio. Riserverà però a un solo gruppo di studenti – una redazione giornalistica – il compito di rielaborare, nella fase successiva, i dati emersi dal confronto delle relazioni dei vari gruppi, e di programmare, in direzione di tale operazione, una linea editoriale adatta alla stesura di un articolo preferibilmente destinato alla pagina culturale di un quotidiano a tiratura nazionale o ad un blog di settore.
Terza fase Il docente coordinerà l’esposizione dei lavori di gruppo e provvederà a guidare le operazioni previste e ad agevolare il lavoro del gruppo redazionale, che procederà per sistemazione e selezione di dati (preferibilmente su supporto digitale). Egli provvederà poi ad orientare le proposte interpretative scaturite da ciascuna esposizione dei vari gruppi, e solo in ultimo discuterà con l’intera classe la formulazione di una tesi, che dovrà essere il più possibile condivisa. Quarta fase Il gruppo redazionale stenderà l’articolo guidato dal docente, con il supporto dei portavoce dei vari gruppi. L’esperimento di scrittura “collettiva” risulterà agevolato dall’impiego di opportuna strumentazione digitale (Lim, applicazioni ecc.) e si concluderà con la revisione dell’elaborato, articolata su una precisa check-list, da parte degli studenti non impegnati nel precedente lavoro dei portavoce, ma comunque attivi nel prendere appunti su argomenti non svolti nell’ambito del proprio gruppo.
Quinta fase Il docente, allo scopo di predisporre l’impaginazione, incaricherà i vari gruppi di reperire in rete materiale a corredo del testo scritto (immagini per una pubblicazione cartacea; musiche, video ecc. per una pubblicazione su supporto digitale); la raccolta dei nuovi documenti verrà infine posta al vaglio del gruppo redazionale, che provvederà ad operare una selezione (con l’approvazione dei portavoce di ogni gruppo) e a conseguire il risultato atteso.
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L’età comunale in Italia
Documenti >
> 1. C. S. Nobili, Inferno Se il vero e proprio viaggio nell’aldilà conosce un declino nella letteratura moderna, l’inferno assume una nuova centralità come metafora dai significati più diversi. Tre, in particolare, sono le situazioni frequentemente assimilate al viaggio nell’aldilà: la vita frenetica della città industriale, l’esperienza della guerra e della prigionia, la discesa nel mondo sotterraneo dell’io. […] L’inferno diventerà la metafora più usata, dopo la seconda guerra mondiale, per descrivere il trauma del campo di concentramento: nel romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo (1947) l’esperienza del lager è assimilata a un «viaggio all’ingiù, verso il fondo», un percorso all’inferno dal quale pochi possono ritornare. «Questo è l’inferno», commenta il narratore ricordando l’ingresso ad Auschwitz… […] Pensare, continuare a sentirsi uomini e non bruti: in uno dei momenti più degradanti della vita nel lager Primo Levi cerca di ricordare, e di ripetere a un amico, il canto dell’Ulisse dantesco e la sua «orazion picciola» ai compagni: «Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio»1. L’inferno letterario emancipa da quello reale, o almeno permette di salvaguardare, anche nel campo di concentramento, un minimo di dignità altrimenti negato. Alla fine del Novecento, l’inferno diventa il termine di paragone più diffuso per descrivere le condizioni di chi vive nel sud del mondo: un universo sempre più povero, sempre più degradato rispetto ai paesi ricchi che ne drenano progressivamente le risorse. In una recente intervista, dedicata proprio all’inferno in letteratura e al suo significato, Edoardo Sanguineti […] conclude osservando: «Alla luce delle considerazioni sullo stato attuale delle cose, potrei dire che l’inferno è la terra. È un inferno globalizzato. Per lo meno nel senso dei “dannati della terra” 2, che oramai occupano la maggior parte dello spazio disponibile»3. C. S. Nobili, Inferno, in Luoghi della letteratura italiana, a cura di G. M. Anselmi e G. Ruozzi, Bruno Mondadori, Milano 2003
1. «Come … Dio»: P. Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Torino 1947. 2.“dannati della terra”: l’espressione rimanda al titolo originale dell’opera Les damnés de la terre, pubblicata nel 1961 da Frantz Fanon, psichiatra, scrittore e filosofo nato nella colonia francese della Martinica. 3. «Alla luce … disponibile»: E. Sanguineti, La terra è un inferno globalizzato, a cura di R. Bonavita, “Griselda on line”, Università degli Studi, Bologna 2002
Dopo aver letto attentamente il Documento 1, svolgi le seguenti attività. a) Perché il concetto e la rappresentazione dell’aldilà hanno un declino nell’età moderna e si incarnano in metafore tipiche della contemporaneità? b) L’inferno del lager: perché Primo Levi recupera il personaggio dantesco? c) In che senso Sanguineti parla dell’inferno del mondo globalizzato? Condividi la sua affermazione alla luce della lezione di Dante?
> 2. D. Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo Il cunicolo terminava, dopo una ventina di metri, ai piedi di una stretta scala; e lassù c’era l’Inferno. Dall’alto veniva una luce grigia ed opaca come di giorno. Era una sola rampa di una trentina di scalini. In cima, un cancelletto in ferro. Di là dal cancelletto passavano sagome di uomini e di donne, tutti camminavano in fretta, ne vedevo soltanto la parte superiore, le spalle, le teste. Dall’alto non veniva frastuono di traffico ma un ininterrotto brusio, o meglio un sommesso rombo, con dentro, sparsi qua e là, piccoli colpi di clacson. Col batticuore salii, raggiunsi il cancelletto, i passanti non mi badavano. Che strano Inferno, era gente come voi come me, avevano in apparenza la medesima compattezza corporea, i medesimi vestiti che si vedono da noi tutti i giorni. Che avesse ragione l’ingegnere Vicedomini1? Che fosse tutto uno scherzo, e io imbecille a bere una fandonia simile? L’inferno quello. Semplicemente un quartiere di Milano a me sconosciuto. Eppure non si spiegava la stessa circostanza che aveva impressionato l’assistente Torriani: pochi minuti prima, nella stazione della Metropolitana, erano le due di notte, e qui adesso era giorno. Oppure era tutto un sogno? 1. Vicedomini: è l’ingegnere che con Torriani, citato più avanti, si occupa degli scavi della metropolitana.
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Capitolo 4 · Dante Alighieri
Guardai intorno. Esattamente la scena descritta dal Torriani: in cui non c’era niente, a prima vista, di infernale e diabolico. Tutto anzi, assomigliava alle nostre esperienze quotidiane, più ancora: non c’era nessuna differenza. Il cielo era il cielo grigio e bituminoso, che conosciamo fin troppo bene, fatto di fumo e di caligini, e di là dal funesto strato si sarebbe detto non ci fosse il sole bensì una lampada smisurata, una squallida lampada come le nostre, un gigantesco tubo al neon, tanto le facce degli uomini risultavano livide e stanche. Anche le case erano come le nostre, ne vedevo di vecchie e di modernissime, dai sette ai quindici piani in media, né belle né brutte, come le nostre molto abitate, con quasi tutte le finestre accese, dietro le quali si scorgevano uomini e donne seduti al lavoro. Rassicurante il fatto che le insegne dei negozi e i manifesti pubblicitari erano scritti in italiano e riguardavano gli stessi prodotti che giornalmente pratichiamo. La strada pure non aveva nulla di straordinario. Solo che era interamente stipata di automobili ferme, come appunto aveva descritto il Torriani. Le automobili non erano ferme perché desiderassero restare ferme o per ordine di un semaforo. Esisteva un semaforo infatti a una quarantina di metri, e stava dando luce verde. Le macchine erano semplicemente intasate per un gigantesco ingorgo che può darsi si propagasse all’intero corpo della città, non potevano andare né avanti né indietro. Nell’interno delle automobili ferme stavano le persone, per lo più uomini soli. Anch’essi, non sembravano ombre bensì individui in carne ed ossa. Con le mani sul volante, immobili, sulle facce pallide una ottusa atonia2 come per effetto di stupefacenti. Essi non potevano uscire neppure se avessero voluto, tanto le macchine erano serrate le une sulle altre. Guardavano fuori, attraverso i finestrini, guardavano lentamente, con espressione di, anzi senza nessuna espressione. Ogni tanto qualcuno toccava il clacson, emetteva un flebile colpetto, senza fiducia, così, neghittosamente. Pallidi, svuotati, castigati e vinti. E più nessuna speranza. Allora mi chiesi: è forse questo il segno che siamo veramente all’Inferno? O incubi del genere avvengono abitualmente anche nelle città dei vivi? Non sapevo rispondere. D. Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo, ne Il Colombre, in 180 racconti, Mondadori, Milano 1982
2. ottusa atonia: espressione apatica e inerte.
Guida alla lettura Il passo è tratto da un racconto pubblicato nel 1966, Viaggio agli inferni del secolo, in cui, durante gli scavi per la metropolitana nella Milano del boom economico, si scopre una porta dell’inferno e un oltretomba costituito da una città speculare a quella terrestre. A narrare la surreale vicenda è un giornalista: si chiama «Buzzati» (anche lo scrittore, fin da giovane, esercitò a lungo questa professione per il “Corriere della Sera”) e viene convocato dal direttore del giornale che, seppure con qualche esitazione, gli affida un «servizio difficile», ovvero visitare il regno dei dannati cantato da Dante, molto diverso però da come il poeta del Trecento lo aveva descritto. Dopo
lo stupore iniziale, dovuto alla scoperta di un ambiente del tutto simile a quello della quotidianità cittadina, il protagonista sarà coinvolto in una serie di incontri, frequentazioni e circostanze amaramente stranianti che lo porteranno a chiedersi, a conclusione della singolare esperienza: «E poi, a me stesso che ci sono stato, non è ben chiaro se l’Inferno sia proprio di là, o se non sia invece ripartito fra l’altro mondo e il nostro. Considerando ciò che ho potuto udire e vedere, mi domando anzi se per caso l’Inferno non sia tutto di qui, e io mi ci trovi ancora, e che non sia solamente punizione, che non sia castigo, ma semplicemente il nostro misterioso destino».
Dopo aver letto attentamente il Documento 2, svolgi le seguenti attività. a) Quale immagine di inferno si presenta agli occhi del protagonista? b) Quali elementi della rappresentazione hanno caratteristiche chiaramente negative? c) Come vengono descritte le «persone»? Sono paragonabili a creature infernali così come Dante le ha descritte nella sua opera?
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L’età comunale in Italia
> 3. P. Levi, Se questo è un uomo, dal cap. xI, La voce del Novecento, p. 333 > 4. P. P. Pasolini, La Divina Mimesis Canto I Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella «Selva» della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità. Non direi di nausea, o di angoscia: anzi, in quella oscurità, per dire il vero, c’era qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia verità, se vogliamo, quella davanti a cui non c’è più niente da dire. P. P. Pasolini, La Divina Mimesis, nota introduttiva di W. Siti, Einaudi, Torino 1993
Guida alla lettura Il passo è l’incipit di La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini, opera incompiuta pubblicata nel 1975 subito dopo la sua morte, ma concepita fin dal 1963 come “riscrittura” della Commedia dantesca: comprende infatti una prefazione dai toni polemici, seguita dai primi due canti, da appunti e frammenti per la scrittura del terzo, del quarto e del settimo, e infine, quasi in funzione di appendice critica, da alcune note. L’autore aveva previsto anche una raccolta di fotografie che dovevano integrarsi con il “poema” attraverso un racconto per immagini: ne risulta così un progetto letterario ambizioso, in cui si intrecciano e si sovrappongono riflessioni, citazioni colte, allusioni, sferzanti giudizi, tutti riferiti ad un contesto assai complesso in cui la sfera privata dell’intellettuale finisce per incontrare quella pubblica, anche sul piano ideologico e politico. Il documento proposto mostra l’inizio del viaggio: Pasolini, «intorno ai quarant’anni» (era nato nel
1922), comprende che il mondo è mutato sotto la spinta del neocapitalismo, e che la società dei consumi ha reso l’uomo irrimediabilmente solo, escluso dalla vita degli altri che, a loro volta, sono tutti uomini soli. Da una periferia di Roma, egli avvia la “discesa” nel suo io più profondo, ponendolo – in una sorta di sdoppiamento – di fronte ad un alter ego, alle prese con il difficile compito non di cercare una salvezza personale, ma di resistere moralmente e civilmente ad uno dei tanti “inferni” della contemporaneità. La «verità» di un tempo, quella vissuta come certezza e ora non più credibile secondo il poeta, è probabilmente identificabile con quella religiosa e quella del riscatto sociale che, per il suo pensiero, sono inseparabili. E se una verità certa «riempie di gioia» ma «porta con sé, essa sì, realmente, la fine di tutto», come è detto poche pagine dopo, la mancanza di questa verità certa, oggi, è di stimolo a continuare a lottare: per uno scrittore lottare vuol dire, appunto, scrivere.
Dopo aver letto attentamente il Documento 4, svolgi le seguenti attività. a) Quali richiami al canto I dell’Inferno di Dante presenta la rielaborazione pasoliniana? b) Quali elementi del testo autorizzano una possibile chiave di lettura di tipo introspettivo?
> 5. P. Greenaway, T. Phillips, da Inferno Cantos I-VIII, Channel Four, 1988
Video da Inferno Cantos I-VIII
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L’immagine di Dante nella prima sequenza del film: con una dissolvenza incrociata, si trasformerà nel volto della voce recitante.
Capitolo 4 · Dante Alighieri
Guida alla visione Lo spezzone è tratto da Inferno Cantos I-VIII di Peter Greenaway e del pittore Tom Phillips, film in cinque puntate realizzato per la rete televisiva inglese Channel Four nel 1988, e propone la rappresentazione del celebre incipit della Commedia, in cui la voce è costituita dalle parole di Dante (recitate da Bob Peck, in un piano ravvicinato). La tecnica utilizzata dai due autori è basata sia sulla sovrapposizione di immagini
e suoni (che si avvale di similitudini, metafore e analogie, proprio come la poesia tradizionale), sia sulla lettura e sull’interpretazione in chiave contemporanea del testo dantesco. Malgrado gli effetti spettacolari e le perplessità che la proiezione del presente sul passato talvolta suscita nello spettatore, l’opera ha il pregio di non distogliere mai l’attenzione dalla parola del poema.
Dopo aver preso visione attentamente del Documento 5, svolgi le seguenti attività. a) Come viene rappresentata la selva oscura? A quale contesto contemporaneo i registi riferiscono l’idea di smarrimento in essa e di inferno? b) Quali elementi del testo dantesco sono stati “tradotti” in un altro linguaggio, fatto anche di inserimenti di apporti “altri”?
> 6. L. Lambertini, Maratona infernale. In viaggio con Dante, Arcus - Società Dante Alighieri, 2011 Le sculture di Elio Mazzella, poste fra gli edifici diroccati del paese bombardato, sono assemblaggi di materiali ferrosi recuperati fra le macerie.
Video da Maratona infernale. In viaggio con Dante
Guida alla lettura Lo spezzone è tratto da Maratona infernale. In viaggio con Dante, film di 7 ore in 34 episodi (uno per ogni canto della prima cantica) realizzato da Lamberto Lambertini (che è anche voce recitante) per la Arcus e la Società Dante Alighieri nel 2011, nel quadro delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il regista coniuga la potenza dell’incipit del canto III con scene di grande forza evocativa: l’ingresso del primo regno è associato alle immagini delle rovine di San Pietro Infine, che richiamano fasi tra le più cruente del Secondo conflitto, sul finire del 1943,
nella zona bellica di Montecassino. Il progetto, infatti, ha come finalità quella di riscoprire il nostro Paese, attraversato da contrasti millenari e caratterizzato da contraddizioni così come da un’inguaribile desiderio di riscatto, attraverso gli “occhi” di Dante: d’altronde, assunto del lavoro stesso è la citazione da Jorge Luis Borges (dalla quarta di copertina del libretto che accompagna il dvd) secondo cui «La Commedia può essere molte cose, forse tutte le cose, in principio è un sogno di Dante e l’anima, quando sogna, si sa, è insieme autore, protagonista e spettatore».
Dopo aver preso visione attentamente del Documento 6, svolgi le seguenti attività. a) Quale concezione di inferno emerge dalla visione dello spezzone del film? b) Quali emozioni hanno suscitato in te – e potrebbero suscitare in un comune spettatore – le immagini associate ai versi del canto III?
Bibliografia di riferimento Oltre ai riferimenti già indicati nel testo, si segnalano: AA.VV., Dante nel cinema, a cura di G. Casadio, Longo Editore, Ravenna 1996. AA.VV., Luoghi della letteratura italiana, introduzione e cura di G. M. Anselmi e G. Ruozzi, Bruno Mondadori, Milano 2003.
379
Capitolo 5
Francesco Petrarca consentendoci di addentrarci nei labirinti di Petrarca è un uomo di un’età di crisi, di tra- un’anima. passo fra due epoche, il Medioevo cristiano e ascetico da un lato e dall’altro l’età moderna, I’ vo pensando, et nel penser m’assale incentrata sull’autonomia dell’uomo e della realtà terrena. Da questa collocazione gli deriuna pietà sì forte di me stesso, va un perpetuo dissidio interiore. La sua è una che mi conduce spesso personalità tormentata, lacerata da contraddiad altro lagrimar ch’i’ non soleva zioni insolute, tra l’aspirazione a una vita (Canzoniere, CCLXIV, vv. 1-4) pura, la tensione all’assoluto e all’eterno, al fine di trovare la pace e la salvezza in Dio, e dall’altro lato il richiamo dei beni mondani, i Conflitti dell’anima e classicità piaceri, la ricchezza, la gloria. La scrittura è formale per lui soprattutto scavo interiore, analisi di una coscienza divisa: ed è questo l’aspetto più Bisogna però stare attenti a non leggere l’omoderno e coinvolgente della sua opera, che pera petrarchesca in chiave troppo romantica, la fa sentire ancora vicina a noi. Le sue pagi- come trascrizione immediata del groviglio intene, quelle di confessione come quelle liriche, riore. Il poeta fu molto amato in età romantica, ci offrono un’avventura umana affascinante, da Alfieri a Foscolo a Leopardi, ma noi dobbia-
La scrittura come scavo interiore
380
Videolezione d’autore
gli attriti e gli stridori tra livelli diversi e le torsioni sintattiche. Petrarca si pone così all’origine di un filone che percorrerà la nostra letteratura sino al Novecento, caratterizzato dal culto della perfezione formale, dell’eleganza nitida e fluida del dettato. L’imitazione di Petrarca sarà per secoli un fenomeno non solo italiano ma europeo: il petrarchismo influenzerà la letteratura spagnola, quella francese, quella inglese, e se ne trovano tracce persino in Shakespeare.
Veggio senza occhi, e non ho lingua e grido, e bramo di perir, e cheggio aita; ed ho in odio me stesso ed amo altrui. (Canzoniere, CXXXIV, vv. 9-11)
Petrarca umanista L’amore per il mondo classico fa sì che Petrarca sia anche l’iniziatore della tradizione umanistica, con la sua attività di scoperta dei testi antichi dimenticati e il lavoro filologico di restauro compiuto su di essi. In questo fu davvero un maestro, ammirato dai dotti del suo tempo e venerato dagli umanisti delle generazioni successive. mo porci dinanzi a lui con strumenti di lettura meno soggettivi. Infatti nel suo caso i conflitti dell’anima non si riversano sulla pagina con il calore e la violenza scomposta con cui nascono nell’intimo. Petrarca, oltre a convogliare in sé la tradizione spirituale del Medioevo cristiano, è anche grande ammiratore della classicità e mira a riprodurre nella sua opera le belle forme della letteratura antica. I modelli classici sono il filtro attraverso cui la materia torbida dei sentimenti, degli impulsi, dei conflitti si depura e si illimpidisce. Lo stesso effetto lo ottiene la cura estrema impiegata a rendere perfetti il verso, la frase. Di qui deriva il nitore, la limpidezza che caratterizzano soprattutto la dizione poetica di Petrarca nel suo capolavoro, il Canzoniere. Anche la sua lingua, a differenza di quella di Dante, è selezionatissima, esclude gli estremi o eccessivamente aulici o plebei, evita 381
L’età comunale in Italia
1 Gli studi
I classici e sant’Agostino
La poesia d’amore in volgare Laura
La vita Videolezione
La formazione e l’amore per Laura
Petrarca nacque ad Arezzo il 20 luglio 1304, da una famiglia fiorentina di condizione borghese. Il padre, ser Petracco, era notaio, ed era stato mandato in esilio dopo che i Guelfi neri si erano impadroniti del potere in Firenze. Nel 1312 ser Petracco, in cerca di una sicura sistemazione, si trasferì con la famiglia ad Avignone, dove allora risiedeva la Curia papale. Francesco a sedici anni intraprese studi giuridici, prima a Montpellier poi a Bologna, ma la sua vocazione era già irresistibilmente letteraria, quindi nel 1326, senza terminare i corsi, tornò ad Avignone. Qui condusse una vita frivola e dissipata, ma al contempo si dedicò allo studio degli scrittori classici, per i quali nutriva una sconfinata ammirazione. Accanto ad essi teneva sempre con sé un piccolo libro, le Confessioni di sant’Agostino: già negli anni della formazione si delineano così le due tendenze fondamentali della cultura petrarchesca, il culto dei classici ed un’intensa spiritualità cristiana. La lingua in cui pensava e scriveva abitualmente, come ci rivelano gli appunti a margine dei suoi manoscritti, era il latino; ma parallelamente coltivava anche il genere della poesia lirica volgare, sulle orme degli stilnovisti e di Dante. Seguendo il modello dei poeti d’amore volle raccogliere tutti i motivi della sua poesia intorno ad un’unica immagine femminile, a cui diede il nome di Laura, ricco di risonanze simboliche, in quanto richiamava il lauro, la pianta sacra ad Apollo, dio della poesia. Sono nate molte discussioni sull’effettiva realtà di questo amore e si è giunti anche a dubitare dell’esistenza storica di Laura. Ora si è abbastanza concordi nel ritenere che alla base della lirica del Canzoniere vi sia un’esperienza reale; tuttavia, nella vita pratica dell’uomo Petrarca, l’amore per Laura dovette essere un episodio effimero e fu assunto nell’esperienza letteraria con il valore di un simbolo, intorno a cui il poeta concentrò tutti gli elementi della sua travagliata vita interiore, le sue contraddittorie aspirazioni, le debolezze, le colpe, i ripiegamenti, le sconfitte.
Petrarca e il suo tempo
Linea del tempo
Africa
Nasce ad Arezzo da una famiglia fiorentina di condizione borghese
Si trasferisce con la famiglia ad Avignone, sede Intraprende della Curia studi papale giuridici a Montpellier e a Bologna
Primo incontro con Laura Interrompe gli studi e torna ad Avignone
Prende gli ordini minori
A Roma riceve la corona poetica Alterna viaggi a lunghi ritiri a Valchiusa
Periodo avignonese
1304 1309 1312 Trasferimento della Curia papale ad Avignone
382
1320
1326
1327 Affermazione delle Signorie nell’Italia centro-settentrionale
1337
1341
Inizia la guerra dei Cent’anni, tra Francia e Inghilterra
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
I viaggi e la chiusura nell’interiorità La sicurezza materiale
I viaggi
La ricerca interiore e il ritiro a Valchiusa
Concepisce il Secretum
Crisi religiosa
La vita del giovane Petrarca non era solo occupata dai rapporti mondani, dagli studi severi, dall’amore e dalla poesia: egli sentiva fortemente anche l’esigenza della sicurezza materiale, il bisogno degli agi e della tranquillità; prese perciò gli ordini minori, che non implicavano la cura delle anime, ma consentivano di accedere a cariche e a rendite lucrose. Al bisogno di sicurezza materiale e di tranquillità si contrapponeva però, nella complessa e contraddittoria personalità del poeta, un’inquietudine perpetua, una curiosità inesausta di conoscere, che lo spingeva a viaggiare, a mutar climi e ambienti. Ogni viaggio era per lui l’occasione per arricchire la propria cultura: nei vari luoghi dove si recava frugava nelle biblioteche di monasteri, abbazie, vescovadi, scoprendo testi di classici latini che giacevano dimenticati; inoltre stringeva amicizia con diversi letterati europei e italiani (in particolare con Boccaccio), con cui negli anni a venire continuerà a intrattenere una fitta corrispondenza. Tuttavia a questa irrequietudine che lo spingeva ad esplorare continuamente il mondo esteriore si contrapponeva una tendenza di segno opposto, il bisogno di chiudersi nell’interiorità, di approfondire la conoscenza di sé. Questa tendenza al raccoglimento interiore si concretò nel ritiro a Valchiusa, presso le sorgenti del Sorga, poco lontano da Avignone. Qui, nel paesaggio sereno e idillico, Petrarca amava rifugiarsi lontano dalle preoccupazioni quotidiane e dal tumulto della vita cittadina, dedicandosi alla lettura dei classici, alla scrittura, alla meditazione. Da questo otium letterario, cioè da un distacco da ogni attività pratica per un impegno totale nella cultura dello spirito, nacque gran parte delle sue opere, sia in latino sia in volgare. Valchiusa divenne per Petrarca il simbolo di un’attività spirituale indipendente, libera dai legami e dai condizionamenti che derivano dalla vita sociale e dai rapporti con il potere politico, nella quale l’intellettuale realizza più compiutamente il suo ideale di una vita autentica, non dispersa dietro cose vane e futili.
Trionfi De remediis utriusque fortunae
Scrive il De vita solitaire
Appoggia il progetto politico di Cola di Rienzo. Abbandona la Curia avignonese
Morte di Laura
Si stabilisce definitivamente in Italia
Milano
Periodo italiano:
1343
1347
1348
Prima repubblica popolare di Cola di Rienzo e suo fallimento
Un’epidemia di peste si diffonde in Italia
1353 Secondo governo di Cola di Rienzo e nuovo fallimento
Ultima redazione del Canzoniere
Conduce vita ritirata, intento a scrivere e studiare
Venezia
1361
Muore ad Arquà
Arquà
1374
Calo demografico, crisi economica e rivolte popolari in tutta Europa
383
L’età comunale in Italia
ll bisogno di gloria e l’impegno politico
L’incoronazione poetica La crisi religiosa
L’impegno politico
Tuttavia l’attività letteraria per Petrarca non derivava solo dalla scelta di allontanarsi dalle attività pratiche, non mirava solo all’elevazione e all’affinamento dello spirito nella solitudine. In primo luogo, vi era in lui un prepotente bisogno di gloria, di riconoscimenti, di onori. Tale desiderio fu appagato dall’incoronazione poetica, che avvenne a Roma, sul Campidoglio, nel 1341, in una solenne cerimonia che agli occhi del poeta pareva risuscitare i fasti di Roma antica. Dopo il soddisfacimento di questa vanità terrena toccò però il culmine in Petrarca una crisi religiosa, fatta precipitare dal ritiro in convento dell’amato fratello Gherardo: la sua drastica decisione di lasciare il mondo suonava come un ammonimento, che colpì profondamente Francesco. Ma egli non riuscì ad approdare ad una decisione così radicale e definitiva come quella del fratello, pur vagheggiandola: in lui la crisi si tradusse in un tortuoso processo interiore senza alcuno sbocco risolutivo, in cui si alternavano l’ansia di purificazione, nutrita di sottili esami di coscienza che mettevano implacabilmente a nudo la sua umana debolezza, e il risorgere ineliminabile di interessi mondani, letterari e politici. Emerge chiaramente di qui quel “dissidio” fondamentale della sua personalità, il continuo oscillare della volontà, che non riesce mai ad acquietarsi in un approdo definitivo. In secondo luogo, oltre che di affermazione personale, l’esercizio letterario è anche strumento di impegno politico e civile. In contrasto col bisogno di solitudine tranquilla e studiosa, Petrarca sente vivamente i grandi problemi del suo tempo e mira ad incidervi, proprio in quanto intellettuale. Egli usa il suo prestigio e la sua eloquenza per perorare il ritorno del papa a Roma, per bollare la corruzione della Curia avignonese ed incitare la Chiesa a ricuperare la sua purezza originaria; rivolge appelli all’imperatore Carlo IV di Boemia perché scenda in Italia a ristabilire l’autorità imperiale; deplora le lotte civili tra le fazioni e tra i signori italiani e invoca una pace durevole;
Carta interattiva
I luoghi e la vita di Petrarca 6 ARquà
ARQUÀ
6
AVIGNONE
2 4
VALCHIUSA
1 ARezzo
3
BOLOGNA
AREZZO
Vi si stabilisce definitivamente dopo vari soggiorni in diverse città italiane e vi trascorre gli ultimi anni della sua vita. Muore nel 1374.
1
5 RomA
Viene incoronato poeta nel 1341.
Nasce nel 1304.
5 2 Avignone Sede della Curia papale, vi soggiorna, non stabilmente, dal 1312 al 1347.
384
3 BolognA Prosegue gli studi di diritto avviati a Montpellier, ma nel 1326 abbandona l’Università e torna ad Avignone.
ROMA 4 vAlchiusA Luogo di ritiro e di attività letteraria durante il periodo avignonese, vi concepisce gran parte delle sue opere.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca Cola di Rienzo
Il ritorno in Italia
2
partecipa ad ambascerie e missioni diplomatiche. Soprattutto si entusiasma per il tentativo politico di Cola di Rienzo, che, restaurata la repubblica nella Roma abbandonata dal papa, sogna di riportare la città alla grandezza antica, facendola centro di una rinnovata cristianità. Petrarca, ispirato dagli stessi ideali e dallo stesso culto della Roma classica, invia varie lettere a Cola, per esortarlo a perseverare e indicargli la via da seguire. Si pone anche in viaggio per poter essere a Roma al suo fianco, ma, giunto a Genova, la notizia del degenerare dell’azione di Cola lo distoglie dai suoi propositi. L’insofferenza per la corruzione della Curia avignonese giunge al limite di rottura nel 1347: Petrarca lascia Avignone e tra il 1348 e il 1351 soggiorna a lungo in Italia, stabilendovisi definitivamente nel 1353: prima a Milano, presso i Visconti, poi nel 1361, per sfuggire ad una pestilenza, a Venezia, infine presso Arquà nei colli Euganei, vicino a Padova. In questo sereno soggiorno di Arquà trascorre gli ultimi anni, assorto sempre nelle attività a lui più care, studiare e scrivere. Si spegne nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374; la leggenda vuole che la morte lo abbia colto chino su un codice del suo amato Virgilio.
Petrarca come nuova figura di intellettuale L’intellettuale cosmopolita, il cortigiano, il chierico
L’ansia di viaggiare
L’intellettuale cortigiano
Petrarca rappresenta una figura di intellettuale nuova rispetto agli scrittori del Duecento e a Dante, e anticipa la figura che dominerà poi nei periodi successivi. Non è più l’intellettuale comunale, legato ad un preciso ambiente cittadino, ma un intellettuale cosmopolita, senza radici in una tradizione municipale. Ciò si manifesta nella sua perpetua ansia di viaggiare, nel variare continuamente il luogo dei suoi soggiorni, Avignone, Parma, Milano, Venezia, Padova. È evidente la distanza che lo separa da Dante, che, esule per l’Italia, rimpiangeva di aver lasciato nella sua città «ogni cosa diletta più caramente» e non pensava che a ritornare al «bell’ovile» dove aveva «dormito agnello». In Petrarca è semmai significativa la scelta “italiana”, in nome di un ideale non più municipale, ma nazionale (seppur sentito in termini solo culturali e letterari, non politici, T13, p. 444). In secondo luogo Petrarca non è più l’intellettuale-cittadino che partecipa attivamente alla vita politica del suo Comune (come è ancora Boccaccio) e ne riflette le caratteristiche nella propria opera. È ormai pienamente un intellettuale cortigiano: accetta la nuova istituzione della Signoria, che si è ampiamente affermata in Italia ( Il contesto, p. 80), e sceglie di sostenerla con il suo prestigio e la sua autorevolezza di grande intellettuale, di uomo di vasta cultura e di fama europea. In questo ha una funzione pubblica: dà consigli e ammonimenti ai signori, dà lustro con la sua fama alla corte, è impiegato in incarichi prestigiosi; in cambio ne ha rendite, pubblici onori, protezione. Tuttavia resta geloso della sua autonomia di intellettuale, e per questo rifiuta incarichi che lo vincolerebbero troppo istituzionalmente alla struttura del potere, come quello di segretario papale. Con i vari signori, i Visconti, i da Correggio, i da Carrara, non ha veri rapporti istituzionali, resta più che altro un illustre ospite, con rapporti di amicizia e deferenza personali, ma conservando tutta la sua libertà e dignità. Garanzia di questa indipendenza sono le rendite ecclesiastiche, che lo preservano dal dipendere, per il mantenimento materiale, dai favori di un signore. Anche in questo Petrarca anticipa una figura di intellettuale che diverrà in seguito sempre più diffusa: il chierico, colui che trae sostentamento da cariche e benefici ecclesiastici e da essi ricava la possibilità di dedicarsi agli studi a tempo pieno, senza doversi disperdere 385
L’età comunale in Italia
in attività professionali o di altro genere. Grazie alle rendite (e ai favori dei signori) Petrarca può considerarsi ricco, conduce una vita agiata, ha il privilegio di risiedere nei luoghi più ameni e incantevoli, propizi al raccoglimento interiore dell’attività intellettuale (Valchiusa, Selvapiana presso Parma, la casetta milanese presso la basilica di Sant’Ambrogio, Arquà). Può anche disporre di tutti i libri che vuole: era questo un lusso riservato a pochi, dato il costo altissimo che allora avevano i libri manoscritti.
L’humanitas Il prestigio della letteratura
La concezione pre-umanistica della cultura
I privilegi e i favori di cui Petrarca può godere si spiegano col grande prestigio che ha assunto, presso i gruppi dirigenti italiani, la letteratura. Essa viene considerata come la più alta manifestazione dello spirito umano, l’attività in cui si compendia l’essenza stessa dell’umanità, l’humanitas. Il letterato è colui che, con i suoi studi e la sua dottrina, fa rivivere il mondo antico, a cui si guarda sempre più con riverenza come modello della vita spirituale e di quella civile; d’altro lato è colui che, con i suoi scritti, assicura l’immortalità della fama presso i posteri. Si va già delineando, nell’opinione “pubblica” delle classi dirigenti, quella concezione della cultura che caratterizzerà l’Umanesimo. E Petrarca ne è l’interprete più consapevole; per lui nelle lettere si compendiano i più alti valori umani, e si possono individuare gli strumenti per la formazione complessiva della persona. Perciò esse non devono essere asservite a fini pratici, ma devono restare un’attività assolutamente disinteressata. Petrarca ostenta disprezzo per un sapere puramente tecnico e scientifico, per le “arti meccaniche”; le “lettere” invece, che apparentemente non sono necessarie, sono veramente utili e costruttive, perché riconducono alla meditazione e alla riflessione interiore e perché portano alla vera conoscenza di sé e confortano l’animo, rendendolo saldo di fronte ai colpi della fortuna. Per questo Petrarca ha un’idea altissima della dignità del poeta, che per lui è il sacerdote di un vero e proprio culto, ed ha il potere di consacrare
Una rappresentazione di Valchiusa Paesaggio di Valchiusa, XIV secolo, disegno dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, codice Lat. 6802, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
Il codice contenente la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, che Petrarca acquistò a Mantova il 6 luglio del 1350, presenta molte annotazioni, vari elementi grafici e alcuni disegni, tra i quali spicca un paesaggio stilizzato. In esso è raffigurata una rupe, alla cui sommità si erge una chiesa, mentre ai suoi piedi si apre una voragine dalla quale sgorga un ruscello. Sulla riva, in primo piano, compaiono un airone con un pesce in bocca e un’epigrafe latina, vergata dallo stesso Petrarca, che recita «Transalpina solitudo mea iocundissima» (“La mia dolcissima solitudine al di là delle Alpi”). Questa identifica il disegno come una rappresentazione, sicuramente non realistica, di Valchiusa, la località francese tanto amata dal poeta. Secondo alcuni studiosi il paesaggio, come la scritta, è opera di Petrarca, mentre altri lo attribuiscono a Giovanni Boccaccio, disegnatore dilettante ma prolifico, per il quale il poeta nutriva un affetto paterno e al quale aveva prestato il codice.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
all’immortalità se stesso e coloro di cui tratta. Questa concezione della letteratura e dell’attività intellettuale, ispirata ai classici latini, anticipa quella che trionferà nel secolo successivo con l’Umanesimo (il quale, infatti, guarderà a Petrarca come ad un iniziatore e ad un maestro).
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Invectivae contra medicum quendam e De sui ipsius et multorum ignorantia
Il rifiuto della Scolastica
Le differenze intellettuali tra Dante e Petrarca
Le opere religioso-morali Il modello di Agostino
Videolezione
La parte di gran lunga maggiore dell’opera petrarchesca è in latino; in volgare egli scrisse soltanto il Canzoniere e i Trionfi. La vastissima produzione latina può essere suddivisa in due gruppi di opere, quelle religioso-morali e quelle “umanistiche” (ma è una distinzione puramente esteriore e di comodo, come avremo modo di verificare, in quanto i tratti comuni, sul piano delle tematiche come dello stile, sono moltissimi). Senza osservare strettamente l’ordine cronologico, può essere utile partire da due opere di polemica filosofica, scritte nella maturità, che forniscono la chiave per capire la visione del mondo su cui Petrarca fonda tutta la sua attività di scrittore: le Invectivae contra medicum quendam (“Invettive contro un medico”, 1352-55) e De sui ipsius et multorum ignorantia (“Sull’ignoranza propria e di molti altri”, 1367-70). In esse Petrarca esprime il suo profondo fastidio per la filosofia scolastica, che aveva costituito il più poderoso sforzo di sistemazione concettuale del Medioevo ( Il Medioevo latino, Il contesto, p. 8). Per lui la vera filosofia non è quella che, seguendo l’aristotelismo, presume di catalogare nei suoi schemi astratti e aridi tutte le manifestazioni della realtà, della natura come di Dio stesso, ma quella che mira a comprendere l’uomo, a esplorare la sua interiorità per insegnargli a sopportare le miserie della sua esistenza e indicargli la via dell’autentica felicità e della salvezza. Non all’insegnamento di Aristotele e di san Tommaso guarda Petrarca, ma semmai a quello più inquieto di sant’Agostino, che aveva proclamato che «la verità abita nell’interiorità dell’uomo». Tra Dante e Petrarca corre solo lo spazio di una generazione, ma le due esperienze intellettuali sono divise da una distanza incolmabile. Dante, come si è visto, poneva alla base della sua visione del mondo proprio la filosofia scolastico-aristotelica e da essa essenzialmente traeva quell’incrollabile fede in un ordine perfetto che racchiudesse tutte le manifestazioni della realtà. In Petrarca la fede dantesca è venuta meno, e con essa anche la certezza di poter dominare la realtà con rigorosi schemi concettuali. Perciò egli rinuncia ad affrontare il mondo esterno nella sua concretezza e nella molteplicità dei suoi aspetti e si rinchiude esclusivamente nella contemplazione del proprio io, nell’analisi delle proprie inquietudini e delle proprie contraddizioni interiori.
Il Secretum
I personaggi del dialogo
Questo continuo esame di coscienza si traduce in primo luogo nelle opere di meditazione religiosa e morale. La più importante è il Secretum (il titolo completo è De secreto conflictu curarum mearum, “Il segreto conflitto dei miei affanni”), concepito probabilmente nel 1342-43, all’epoca in cui aveva toccato il culmine la crisi religiosa del poeta, ma ripreso e rimaneggiato successivamente, forse nel 1353. L’opera, divisa in tre libri, è strutturata come un dialogo tra Francesco stesso e Agostino, il santo e filosofo che Petrarca considerava la sua autentica guida spirituale. Il dialogo si svolge in tre giorni alla presenza di una donna bellissima, figurazione allegorica della Verità, che non prende mai la parola (l’impostazione allegorica denunzia chiaramente il permanere in Petrarca di schemi della cultura medievale). Nel dialogo 387
L’età comunale in Italia
Gli argomenti del dialogo
La mancanza di una soluzione ai conflitti
Il significato storico della crisi
Il latino di Petrarca
lo scrittore si sdoppia in due personaggi, che sono entrambi proiezioni della sua interiorità inquieta e lacerata. Agostino rappresenta l’istanza superiore della coscienza, che fruga nell’animo di Francesco, smonta implacabilmente le sue giustificazioni speciose e i suoi alibi morali, per portare alla luce la verità, spesso sgradevole; Francesco rappresenta la fragilità del peccatore, disposto a imparare ma anche riluttante a staccarsi dalle lusinghe mondane e dai beni che gli sono più cari. Nel primo libro Agostino rimprovera a Francesco la debolezza della volontà, che gli impedisce di tradurre in atto le sue velleitarie aspirazioni ad una vita più pura e virtuosa. Nel secondo libro passa in rassegna i sette peccati capitali e si sofferma su quello che più gravemente affligge Francesco, l’accidia, una sorta di inerzia morale, di languida debolezza del volere, che annulla ogni possibilità di scelta e di azione e getta l’animo in una tristezza perenne ( T1, p. 389). Ma due sono le colpe più gravi, esaminate nel terzo libro: il desiderio di gloria terrena, che distoglie il pensiero dalle cose eterne, e l’amore per Laura ( T2, p. 394). Per Francesco si tratta di inclinazioni innocenti, mentre per Agostino sono le più basse passioni. In particolare Francesco si inganna nel ritenere che l’amore per Laura sia stato spirituale e fonte di virtù; al contrario, dimostra Agostino, da esso ha avuto inizio la sua degradazione morale. Il dialogo è tutto pervaso da un ansioso bisogno di raggiungere, mediante il lucido esame di coscienza, la pace interiore, ma quando si conclude tutte le contraddizioni del poeta restano aperte: Francesco non giunge ad un saldo proposito di cambiar vita; anche se vorrebbe farlo subito, riconosce che non può vincere la sua natura. A differenza del suo maestro Agostino, che nelle Confessioni ha delineato il passaggio dal peccato alla purificazione, Petrarca non riesce, al termine del travagliato percorso del Secretum, ad approdare ad un’autentica e definitiva conversione. In ciò si può di nuovo misurare la distanza che separa l’esperienza spirituale di Petrarca da quella di Dante. Petrarca non riesce più a delineare l’esemplare vicenda dell’anima che, dalla «selva» del peccato, attraverso il pentimento e la purificazione riesce a giungere alla pace e alla salvezza. Dal suo orizzonte sono escluse le soluzioni definitive, le salde e confortanti certezze: Petrarca è ormai l’uomo della crisi. Tale crisi non è solo un dato biografico individuale, limitato alla persona di Petrarca, ma assume un più vasto significato storico. Il dissidio sempre aperto tra il richiamo dell’ascesi e gli allettamenti della realtà mondana, la nostalgia di un totale annegamento in Dio, sentito ormai come impossibile, e d’altro lato l’incapacità di aderire senza sensi di colpa, con atteggiamento interamente laico, ai valori terreni, fanno di Petrarca il rappresentante emblematico di un’età di trapasso, che vede il disgregarsi della spiritualità medievale ma è ancora lontana dall’assestarsi entro i confini di una civiltà nuova, quella umanistico-rinascimentale. Questo travaglio spirituale, che sostanzia intimamente l’opera, non si riflette però nella sua tessitura stilistica. Il latino del Secretum non è tormentato e contorto come la vicenda che deve esprimere, ma è limpido, armonioso, strutturato sintatticamente sull’esempio dei classici; e di citazioni dai classici sono continuamente punteggiate queste pagine. Il modello degli antichi consente a Petrarca di osservare i suoi processi interiori con sguardo lucido e sicuro e di esprimerli con ferma chiarezza. Se dunque egli non giunge a dare una soluzione reale ai suoi conflitti, riesce però a comporli formalmente nel nitore della bella pagina: nella forma letteraria si trova quella catarsi che sul piano morale appare irraggiungibile. La fede nei valori della cultura classica gli consente una forma di superamento del dissidio e gli fornisce un centro stabile, intorno a cui organizzare le forze disperse del suo animo.
Altre opere religioso-morali Il De vita solitaria
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Questa tendenza alla conciliazione tra cultura classica e spiritualità cristiana è confermata dalle altre opere religioso-morali di Petrarca. Ad esempio il De vita solitaria (“La vita solitaria”), scritto nel 1346, pochi anni dopo il Secretum, esalta la solitudine, che è un tema caro all’ascetismo cristiano, ma per Petrarca essa deve essere qualche cosa di diverso dalla rigida solitudine dei monaci e degli eremiti: deve essere rallegrata
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
La conciliazione tra cultura classica e religiosità cristiana
L’umanesimo cristiano
T1
dalle bellezze della natura, dalla conversazione con pochi ed eletti amici, ma soprattutto dalla presenza dei libri, perché «senza il conforto delle lettere la solitudine è esilio, carcere, tormento; al letterato invece è patria, libertà, diletto» ( T3, p. 400). La solitudine può essere fonte di purificazione interiore mediante la meditazione e la preghiera, ma anche di elevazione dell’animo mediante lo studio dei classici e l’esercizio della poesia. Tra la cultura classica e la religiosità cristiana non vi è per Petrarca alcun contrasto: anzi, la saggezza che si trova nei libri antichi non è che un’anticipazione di quelle verità che saranno poi consacrate dal cristianesimo; perciò le massime degli antichi scrittori possono confortare e guidare anche l’animo del cristiano (Petrarca guarda soprattutto a quelli, come Cicerone e Seneca, che si isipirarono allo Stoicismo, la dottrina filosofica antica che poneva la vera saggezza nell’accettare con impassibilità i mali e considerava la virtù come sommo bene). In questa esaltazione della solitudine occupata dall’esercizio letterario, che innalza lo spirito e lo prepara alla meditazione religiosa, si conciliano così l’ideale cristiano della rinuncia ai piaceri mondani e quello classico dell’otium letterario, a cui si è già accennato ( I viaggi e la chiusura nell’interiorità, p. 383). In certo qual modo Petrarca, consapevole che per lui l’ideale assoluto di un’eroica ascesi è irraggiungibile, ripiega verso un ideale più modesto e praticabile, la vita appartata e tranquilla del letterato, che non contraddice la religione, perché l’attività intellettuale è un modo per migliorare se stessi, e non distoglie dalla perfezione cristiana, ma va nella stessa direzione, costituendo un avviamento ad essa. Per queste posizioni di Petrarca si è parlato di un umanesimo cristiano.
Una malattia interiore: l’«accidia» dal Secretum, II
Temi chiave
• un desiderio sempre inappagato • la debolezza della volontà • la precarietà dei beni terreni
Il passo è tratto dal II libro del dialogo, in cui Agostino passa in rassegna i sette peccati capitali, per cercare di quali Francesco si sia macchiato. Si sofferma infine sul più grave di tutti, l’accidia, insistendo a sviscerarne l’essenza e le origini con le sue implacabili domande.
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agostino Tu sei preda di una terribile malattia dello spirito, che i moderni chiamano accidia1 e gli antichi chiamarono «aegritudo». francesco Il solo nome della malattia mi fa paura. agostino E si spiega, dal momento che ne hai sofferto a lungo e seriamente. francesco È vero; inoltre, in quasi tutti gli altri mali che mi affliggono è misto un che di dolce, sia pur falso; in quest’ambascia invece tutto è amaro e misero e spaventoso, e la via alla disperazione è sempre aperta, e c’è tutto ciò che spinge alla morte le anime infelici. Aggiungi che delle altre passioni sono sottoposto ad attacchi tanto frequenti quanto brevi e passeggeri; questo morbo invece mi afferra talvolta con tale tenacia da tormentarmi fra le sue spire notti e giorni interi; e allora il tempo per me non equivale alla luce e alla vita, ma alle tenebre dell’inferno e alla morte più crudele. E tanto mi pasco2 di lagrime e di dolore con una certa qual sinistra voluttà3, che – questo si può definire davvero il colmo delle miserie! – me ne strappo a malincuore. agostino Conosci alla perfezione la tua malattia; ora ne conoscerai le cause. Dimmi dunque: cos’è che ti affligge tanto? La labilità4 dei beni terreni o un dolore fisico o un qualche grave colpo della fortuna particolarmente aspra?
1. accidia: uno stato d’animo a cui concorrono inerzia ed insoddisfazione, originate
dalla delusione delle aspettative. 2. mi pasco: mi nutro.
3. sinistra voluttà: amaro compiacimento. 4. labilità: precarietà.
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Non uno di questi mali avrebbe di per sé tanto peso. Se fossi messo alla prova in un duello, resisterei comunque; ma ora sono travolto da un esercito intero. agostino Dimmi più esattamente che cosa ti preme. francesco Ogni volta che la fortuna m’infligge un suo colpo resisto imperterrito, ricordando che spesso, pur violentemente percosso da lei, sono riuscito vincitore. Se subito dopo quella raddoppia il colpo, incomincio a vacillare un po’; se poi ai primi due seguono il terzo e il quarto, allora indietreggio, non certo costretto a una fuga precipitosa, ma ritirandomi a poco a poco nella roccaforte della ragione. Se lì la fortuna mi viene addosso circondandomi con tutta la sua schiera e per espugnarmi ammassa le miserie della condizione umana e il ricordo dei travagli passati e la paura dei futuri, allora finalmente, incalzato da ogni parte e atterrito da una tanta massa di sciagure, incomincio a lamentarmi. Questa è l’origine di quell’acerbo dolore. È come se per uno, chiuso da ogni parte da un gran numero di nemici, non si aprisse nessuna via di scampo, non ci fosse nessuna speranza di pietà, nessun motivo di conforto, ma tutto fosse ostile (le macchine di guerra5 già montate, scavati i cunicoli sotterranei; le torri già oscillano, le scale son già drizzate e accostate ai bastioni, le «vigne»6 sono appoggiate alle mura, e il fuoco lambisce gli assiti7): se egli scorgesse da ogni parte il luccichio delle spade e il volto minaccioso dei nemici e si vedesse davanti agli occhi la morte ormai prossima, non tremerebbe forse di paura e non piangerebbe, quando, sia pur scomparsi questi pericoli, la sola perdita della libertà è quanto mai dolorosa per gli uomini forti? agostino Benché la tua esposizione sia piuttosto confusa, pure comprendo che causa di tutti i mali è un’idea sbagliata, un’idea che ha già abbattuto e abbatterà moltissimi altri. Tu credi di star male? francesco Malissimo, anzi. agostino Per qual motivo? francesco Non c’è un motivo solo, ma moltissimi. agostino Succede a te come a quelli che per un qualsiasi torto di nessuna importanza ritornano con la mente agli antichi contrasti. francesco Non c’è in me nessuna ferita tanto vecchia da essere cancellata dalla dimenticanza: quelle che mi tormentano sono tutte recenti. E se qualcuna il tempo avesse potuto cancellarla, la fortuna è tornata sul posto tante volte, che nessuna cicatrice ha potuto far mai rimarginare la ferita aperta. Aggiungi l’odio e il disprezzo per la condizione umana8, che mi opprimono, sicché non riesco a non essere infelicissimo. Chiamala «aegritudo», chiamala accidia, chiamala in qualche altro modo: non ha importanza; sul fatto in sé siamo d’accordo. agostino Poiché, come vedo, il male è alimentato da radici ben profonde, non basterà tagliarlo alla superficie, ché subito rigermoglierà. Bisogna estirparlo fin dalle radici, ma non so bene da dove incominciare, tanto mi rende perplesso la complessità di quel che devo dirti. Ma per facilitare la riuscita di un lavoro col suddividerlo bene, affronterò un argomento per volta. Dimmi dunque: che cosa soprattutto consideri molesto? francesco Tutto ciò che mi cade davanti agli occhi, tutto ciò che ascolto, tutto ciò che penso. agostino Che diamine! Nessuna di queste cose ti piace? francesco Nessuna, o proprio pochissime. agostino Almeno ti piacesse quel che è più utile! Ma che cosa ti dispiace più di tutto? Rispondimi, per piacere.
5. le macchine di guerra: segue una lunga serie di metafore guerresche, a indicare come il suo animo sia assediato dall’accidia. 6. «vigne»: tettoie di legno montate su
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ruote che, spinte sotto le mura nemiche, permettevano agli assalitori di operare al riparo. 7. lambisce gli assiti: tocca le palizzate.
8. condizione umana: l’autore si sente limitato dalla finitezza della vita umana e tale consapevolezza suscita in lui un senso di insoddisfazione.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca francesco
Ti ho già risposto. agostino Tutte queste sono le caratteristiche di ciò che ho definito accidia. Tutto ciò che appartiene a te ti dispiace. F. Petrarca, Opere latine, a cura di A. Bufano, utet, Torino 1975
Analisi del testo
L’inquietudine e la debolezza del volere
Il significato storico del dissidio
È una delle pagine più lucide dell’opera. Qui Petrarca va a fondo nello scandagliare essenza e manifestazioni del suo dissidio interiore, che assume le caratteristiche di una vera e propria malattia. Alla base vi è un desiderio che non riesce a individuare un oggetto preciso e resta sempre inappagato e inquieto. Di qui nasce una forma di inerzia morale, di languida debolezza del volere, che annulla ogni possibilità di scelta e di azione, in quanto ogni oggetto rivela la sua vanità. Il desiderio è inquieto perché si accompagna alla coscienza del carattere effimero e vacuo dei beni terreni, della precarietà di tutte le cose, della miseria della condizione umana, che getta l’anima in una tristezza perenne, senza via di scampo. Eppure in questa sofferenza vi è una sorta di compiacimento, una certa qual voluttà di soffrire: ed è proprio questo che impedisce a Petrarca di riscattarsi, e genera in lui come un’accettazione rassegnata della propria natura. Si è visto il significato storico generale di questa malattia interiore, che non è solo un dato individuale e privato: l’inquieto inappagamento scaturisce dall’aspirazione a conferire alle cose terrene la dignità e l’eternità delle cose celesti, di conciliare umano e divino. Aspirazione che fa già presentire il clima rinascimentale, ma che Petrarca sente ancora irrimediabilmente impossibile.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Completa la tabella attribuendo un titolo alle sequenze in cui è stato diviso il brano. Sequenza
Titolo
rr. 1-4
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rr. 5-36
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rr. 37-64
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> 2. In quali aspetti l’accidia si distingue dagli altri «mali» (r. 5) da cui Francesco è oppresso? > 3. Quali sono le cause dell’accidia? Che cosa risponde Petrarca ad Agostino? AnALIzzAre
> 4. > 5.
Rintraccia e distingui nel testo le similitudini dalle metafore. Spiega la metafora «roccaforte della ragione» (r. 24) e quella della «perdita della libertà» (r. 36). Si tratta di una libertà fisica o spirituale? Stile Stile
APProfondIre e InTerPreTAre
> 6.
Contesto: scrivere In un testo di circa 20 righe (1000 caratteri) rifletti su che cos’è l’accidia per il pensiero medievale cristiano; pensa a Dante e a dove colloca gli accidiosi. Che cosa significa per Petrarca?
Per IL reCUPero
> 7. Quale nome attribuiscono gli antichi alla «terribile malattia dello spirito» (r. 1) che domina Francesco? In che cosa consiste?
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L’età comunale in Italia
La voce del Novecento
Il male dell’anima in Petrarca e Montale Eugenio Montale, il maggiore poeta italiano del Novecento, nacque a Genova nel 1896 e morì a Milano nel 1981. La sua prima raccolta poetica, Ossi di seppia, uscì nel 1925. Questo testo, tratto da essa, è datato 11 dicembre 1923.
> Metro. Due quartine, la prima composta da tre endecasillabi e un settenario in chiusura, la seconda da quattro endecasillabi, con un irregolare sistema di rime: ABBC, DACD (ma B è una rima imperfetta, «possessi» / «stesso»).
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Mia vita, a te non chiedo lineamenti fissi, volti plausibili o possessi1. Nel tuo giro inquieto2 ormai lo stesso sapore han miele e assenzio3.
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Il cuore che ogni moto tiene a vile raro è squassato da trasalimenti4. Così suona talvolta nel silenzio della campagna un colpo di fucile5. E. Montale, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984
1. Mia vita … possessi: il poeta rinuncia a trovare nella propria vita linee certe e stabili (lineamenti fissi), immagini di sé coerenti e accettabili (volti plausibili), conquiste definitive (possessi). 2. giro inquieto: la vita è un giro, un ripetersi sempre uguale degli stessi gesti e degli stessi eventi; inquieto, perché la ripetitività genera ansia, insofferenza.
3. lo stesso … assenzio: le esperienze piacevoli e quelle dolorose provocano in me gli stessi effetti, non vedo tra esse alcuna differenza. Se il miele è dolce, l’assenzio ha un sapore amaro. 4. Il cuore … trasalimenti: il cuore, che disprezza ogni propria emozione, raramente è scosso da trasalimenti (che rompano tale indifferenza, tale
atonia emotiva). Vile ha il senso classico, “di poco valore, disprezzabile”. 5. Così … fucile: nella similitudine, il silenzio della campagna corrisponde alla mancanza di emozioni, il colpo di fucile agli improvvisi trasalimenti che la interrompono. Si riferisce alla fucilata di qualche cacciatore.
Analisi del testo L’atonia interiore di Petrarca
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> L’indifferenza
Nel T1, tratto dal Secretum, il poeta medievale analizza con lucidità la sua malattia interiore: uno stato di cupa prostrazione, in cui la vita appare priva di senso, la giornata sembra non avere più luce, nulla della realtà esteriore muove più l’animo e suscita interesse, sembrano spente le stesse possibilità di scegliere e agire. Uno stato d’animo per certi versi affine è rappresentato nella poesia di Montale, acuto interprete di un analogo malessere esistenziale.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca La mancanza di certezze in Montale L’impossibilità di sentimenti ed emozioni
La malattia esistenziale nel poeta medievale e in quello moderno
Il poeta confessa di aver rinunciato a dare alla propria vita una fisionomia stabile, ben riconoscibile, fondata su conquiste certe e definitive, su punti fermi. Ne deriva alla sua esistenza un andamento ripetitivo, che torna sempre su se stesso, tormentato da perenne inquietudine («giro inquieto», v. 3). L’animo è dominato dall’indifferenza e dall’atonia, non riesce più a provare sentimenti: nulla suscita il suo interessamento, le cose piacevoli e quelle spiacevoli non smuovono alcuna reazione, tutto appare uguale («lo stesso / sapore han miele e assenzio», vv. 3-4). L’io, prigioniero di questa sorta di paralisi, non desidera neppure più di provare sentimenti vivi ed emozioni: ben raramente qualche impressione proveniente dal mondo esterno arriva a scuoterlo.
> Una situazione storica di trapasso
La condizione moderna, che ha inaridito la vita e tolto tutte le certezze, cancellando la possibilità del senso, nel poeta novecentesco ha acuito e complicato il male dell’anima. Ma anche nel poeta trecentesco si riflette, a livello psicologico e individuale, una situazione storica incerta, di trapasso tra civiltà diverse, che genera uno stato d’animo perplesso e turbato. Ciò fa sì che l’analisi petrarchesca del male di vivere suoni molto anticipatrice e attuale, vicina alla sensibilità moderna.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Dopo un’attenta lettura della poesia, attraverso l’aiuto delle note, fai la parafrasi. ANALIZZARE
> 2.
Stile Rintraccia e spiega, a livello del significato, le tematiche che emergono dall’insistita allitterazione della consonante /s/ doppia.
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 3.
Esporre oralmente Come interpreti il vocativo affettuoso con cui il poeta si rivolge, come a una persona, alla sua esistenza? Anche in Montale come in Petrarca, in fondo, si può leggere un segreto desiderio di aderire con slancio alla vita? Rispondi alle domande in un’esposizione orale (max 5 minuti). PASSATO E PRESENTE La noia adolescenziale: un’occasione di crescita
> 4. L’accidia, l’indolenza mista a malinconia che abbiamo rintracciato negli scritti di Petrarca e Montale, rappresenta la spia di un disagio esistenziale che, come si legge nell’Analisi del testo, caratterizza spesso i momenti di trapasso tra civiltà ed epoche diverse. Lo stesso può accadere nella vita di ciascuno di noi, soprattutto in un periodo come l’adolescenza in cui, anzi, tale condizione sembra essere fisiologica, salvo poi uscirne rafforzati, come si legge nel brano che segue. Professionisti della noia, funamboli dell’apatia, molti adolescenti si annoiano […] alla disperata ricerca di qualcosa che li attragga […]. Gli psicologi […] si sono convinti che essa [la noia] può essere considerata al servizio dello sviluppo […]. L’adolescente concentra l’interesse all’interno per poter scoprire il proprio vero “sé”, […] con un volontario esilio […]; poi risorge e riprende con grande slancio la rincorsa verso la realtà. Quando questo cambiamento non avviene bisogna cercare i motivi che ostacolano la sua rinascita sociale. La noia di un sistema organizzato si fa avvertire subito […]. La delinquenza giovanile è il prodotto di questa società troppo comoda e senza fantasia. G. P. Charmet, in “Corriere della Sera”, 24 maggio 2002
Rifletti su tale affermazione confrontandoti con il docente e i compagni in una discussione in classe.
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L’età comunale in Italia
T2
L’amore per Laura
Temi chiave
• il dissidio interiore • l’amore terreno e l’amore divino • il continuo vacillare della fede in Dio
dal Secretum, III
Nel III libro del Secretum Agostino mira a liberare l’animo di Francesco dai due errori più pericolosi, l’amore per la gloria e l’amore per Laura. Francesco si difende sostenendo che il suo amore è stato solo spirituale e che lo ha purificato e innalzato interiormente. Agostino, al contrario, con abili e stringenti argomentazioni, lo induce a confessare che ha amato la bellezza fisica di Laura e che questo amore è stato origine non di elevazione, ma di traviamento; è stato la radice da cui sono scaturite tutte le più basse passioni del suo animo. francesco
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Una sola cosa non tacerò, sia essa dovuta al mio senso della gratitudine o alla mia insipienza: io, tal quale mi vedi, piccolo quanto vuoi, esisto grazie a lei1; né avrei mai raggiunto questo grado di notorietà o di gloria – valga esso quello che vale – se ella non avesse alimentato con il suo nobile amore il gracilissimo seme di virtù posto dalla natura nel mio cuore. Ella tenne lontano il mio animo giovanile da ogni bruttura e lo ritrasse con un uncino, come suol dirsi, e lo costrinse a nutrire nobili desideri. E perché non avrei dovuto trasformarmi per adattarmi ai costumi di lei, che amavo? In effetti non si è mai trovato un offensore tanto mordace da attaccare con dente acuminato la fama di lei2, che osasse affermare di aver trovato qualcosa di riprovevole non dico nelle azioni, ma nei gesti e nelle parole di lei; talché coloro che nulla avevano mai lasciato intatto, non toccavano questa, pieni di ammirata venerazione. Non c’è dunque da meravigliarsi affatto se questa fama tanto rinomata fece nascere pure in me l’aspirazione a una fama più alta e addolcì le fatiche durissime con cui cercavo di soddisfare il mio desiderio. Che altro desideravo, da giovane, se non piacere a lei, anzi a lei sola, che sola era piaciuta a me? Per ottenere questo, tu lo sai a quante pene e fatiche mi sono sottoposto prima del tempo, disprezzando le lusinghe di mille piaceri. E vorresti che la dimenticassi o che l’amassi di meno, lei che mi ha tenuto lontano dalla massa del volgo3; lei che, guidandomi sempre nel mio cammino, ha dato di sprone alla mia fiacca natura e ha risvegliato il mio animo quasi addormentato? agostino O misero, quanto sarebbe stato meglio tacere, che parlare! È vero che anche se tu tacessi ti vedrei dentro qual sei, ma l’affermazione in sé stessa, così ostinata, mi muove la bile e mi dà la nausea. francesco Perché, scusa? agostino Perché, se credere il falso è indizio d’ignoranza, sostenerlo impudentemente è indizio d’ignoranza e di orgoglio. francesco che cosa dimostra che io ho pensato o sostenuto un tal falso? agostino Ma è chiaro, tutto quello che hai ricordato! e soprattutto la tua affermazione di essere quello che sei grazie a lei. Se intendi dire che è lei che ti ha permesso di essere così, sei nel falso di sicuro; se invece vuoi dire che non ti ha consentito di essere di più, sei nel vero. Oh che uomo potevi riuscire4, se lei non ti tirava indietro con le lusinghe dell’avvenenza! Dunque, quello che sei te l’ha dato la bontà della natura; quello che potevi essere te l’ha portato via lei; anzi tu stesso te lo sei portato via, ché lei è innocente. Gli è che la sua bellezza ti è parsa così attraente, così dolce, da distruggere in te con le fiamme di un desiderio ardentissimo e la pioggia incessante delle lagrime tutta la messe che i semi innati delle virtù avrebbero prodotta. Quanto poi all’averti ella preservato da
1. lei: intende Laura. 2. non si è … di lei: non si è mai trovata una persona così maligna che potesse compromettere con le sue maldicenze mordaci il suo buon nome (la metafora del dente acuminato
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riprende l’idea del “mordere” racchiusa in mordace). 3. del volgo: delle persone comuni. Si coglie qui il residuo della concezione cortese dell’amore che innalza e nobilita.
4. Oh che uomo … riuscire: Francesco avrebbe potuto diventare un grand’uomo, nel senso cristiano del termine per cui grande è l’animo di colui che vince il peccato ed ottiene la grazia.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
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ogni bruttura, te ne vanti a torto: te ne ha preservato da molte, forse, ma ti ha spinto in più gravi sventure. In verità, non può dirsi tuo liberatore piuttosto che tuo uccisore, né chi ti ha consigliato di evitare una strada insozzata da brutture di ogni genere, se poi ti ha condotto in un precipizio, né chi, mentre sanava le piaghe meno gravi, t’inferiva alla gola una ferita mortale. Anche costei, che tu vai celebrando come tua guida, allontanandoti da molte brutture, ti ha sospinto in uno splendido baratro. L’averti poi ella insegnato ad avere nobili aspirazioni, l’averti tenuto distinto dalla massa, cos’è altro se non far sì che tu pensassi solo a lei, e disprezzassi ogni cosa (in quanto preso dalla dolcezza di un solo oggetto), e tutto prendessi a noia e trascurassi? che, come sai, è l’atteggiamento che più dà fastidio nella società umana. Ma quando dici che ella ti ha coinvolto in fatiche senza numero, allora soltanto dici la verità. Qual grazia tanto apprezzabile trovi poi in tutto questo? pensaci. Ci sono già tante fatiche di vario genere che non è possibile evitare: che pazzia andarsene a cercare volontariamente di nuove! Quanto poi al tuo vantarti di esser divenuto, grazie a lei, avido di una più nobile fama, ho proprio compassione del tuo errore. Fra tutti i pesi che gravano sul tuo animo, ti dimostrerò che non ce n’è nessuno più micidiale. Ma non siamo ancora arrivati a parlare di questo. francesco Il combattente instancabile minaccia e ferisce. Io però sono turbato e dalle ferite e dalle minacce, e incomincio ormai a barcollare forte. agostino Quanto più forte barcollerai quando ti avrò inferto la ferita più grave! Ma è proprio questa che vai esaltando, cui affermi di dovere ogni cosa, è questa che ti ha portato alla rovina. francesco Dio buono, come potrò persuadermene? agostino Ha distolto l’animo tuo dall’amore del divino, dal Creatore lo ha indirizzato a desiderare la creatura5. Questa, e solo questa, è stata la via più rapida verso la morte. francesco Non dare un giudizio affrettato, ti prego: l’amore per lei mi ha consentito di amare Dio, non c’è dubbio. agostino Ma ha invertito l’ordine. francesco In che senso? agostino Nel senso che ogni creatura dev’essere amata per amore verso il Creatore, mentre tu, invece, preso dal fascino della creatura, hai amato il Creatore non come si conviene: tu hai ammirato l’artefice come se non avesse creato niente di più bello, mentre l’avvenenza fisica è l’ultima delle cose belle. francesco Chiamo a testimone questa che è qui presente6, e accanto a lei la mia coscienza, che – l’ho già detto prima – di lei non ho amato il corpo più che l’anima. Potrai capirlo da questo: quanto più lei è andata avanti negli anni (questo è un colpo irreparabile per la bellezza fisica), tanto più saldamente sono rimasto fermo nella mia idea. Sebbene infatti col passar del tempo il fiore della giovinezza s’illanguidisse visibilmente, aumentava con gli anni la bellezza dell’animo, che mi diede la perseveranza per continuare nel mio amore, come mi aveva dato la spinta ad amare. Del resto, se mi fossi lasciato trascinare dal corpo, il tempo di mutar proposito sarebbe venuto da un pezzo. agostino Ti prendi gioco di me? Ma se il medesimo animo avesse sede in un corpo rugoso e angoloso, ti sarebbe piaciuto ugualmente? francesco Non oso certo affermarlo, ché vedere l’animo è impossibile, né l’aspetto esteriore me l’avrebbe promesso tale. Ma se l’animo si mostrasse allo sguardo, ne amerei senza dubbio la bellezza, anche se fosse posto in una dimora brutta7.
5. Ha distolto … creatura: alla concezione cortese dell’amore proposta da Francesco, Agostino contrappone quella cristiana: l’amore per la donna svia dall’amore per Dio
( Analisi del testo, p. 398). 6. Chiamo … presente: si tratta della Verità che assiste al colloquio ed è il segno dell’atteggiamento sincero con cui avviene la con-
fessione. 7. dimora brutta: anche se l’animo risiedesse in un corpo brutto.
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Tu vai cercando un sostegno nelle parole, ché se puoi amare soltanto quello che appare alla vista, dunque hai amato il corpo. Non potrei negare tuttavia che anche l’animo e il modo di vivere di lei abbiano alimentato la tua fiamma, dal momento che, come dirò fra poco, il nome stesso ha certamente dato un contributo8 non trascurabile, anzi grandissimo, a questo tuo furore. Come in tutte le passioni dell’animo, specialmente in questa avviene che da piccolissime scintille si sviluppi spesso un violento incendio. francesco Vedo dove mi spingi: ad ammettere, con Ovidio, che «ho amato l’animo insieme col corpo»9. agostino Devi ammettere anche quel che segue: che non hai amato né l’uno né l’altro come si conveniva. francesco Dovrai ben tormentarmi per farmelo ammettere. agostino Un’altra cosa ancora: che a causa di questo amore sei caduto in gravi disgrazie. francesco Questo non lo ammetterò nemmeno se mi metti alla tortura. agostino Anzi, tra breve ammetterai tu stesso l’una cosa e l’altra, se segui i miei ragionamenti e le mie domande. Dimmi dunque: ti rammenti degli anni dell’infanzia, oppure nella massa degli affanni attuali ti è svanito il ricordo di tutto quel periodo? francesco L’infanzia e la puerizia ce l’ho davanti agli occhi proprio come il giorno d’oggi. agostino Ti ricordi quanto sentivi allora il timor di Dio, quanto pensavi alla morte, quanto eri legato alla religione, quanto amavi il pudore? francesco Certo che me ne ricordo, e mi dispiace che con l’aumentare degli anni siano diminuite le virtù. agostino Per la verità io ho sempre temuto che l’aria dell’inverno sciupasse quel fiore così precoce: se fosse rimasto proprio intatto, avrebbe portato a suo tempo frutti straordinari. francesco Non fare digressioni. Che c’entra questo col discorso che avevamo incominciato? agostino Te lo dirò. Ripercorri fra te e te, in silenzio, tutto il corso della tua vita, visto che ne hai un ricordo intatto e vivissimo, e rammentati quando si è verificato un tal mutamento di abitudini. francesco Ecco che, come in un batter di occhi spaventati, ho ripercorso il numero e il succedersi dei miei anni. agostino Che cosa vi trovi dunque? francesco Che la dottrina della lettera pitagorica10, di cui ho sentito parlare e che ho letto, non è priva di fondamento. Giunto infatti al bivio pieno di senno e ben costumato, salendo per la via diritta, e invitato a prendere a destra, piegai a sinistra11 – per imprudenza o per presunzione? –; né mi servì quello che spesso da fanciullo avevo letto: «Questo è il punto dove la strada si biforca: quella di destra porta alle mura del gran Dite, e di qua noi andremo all’Elisio; quella di sinistra invece fa scontare le pene dei peccati, e conduce all’empio Tartaro»12. Queste cose naturalmente, benché le avessi lette prima,
8. il nome … contributo: il nome Laura contribuì a incitare Petrarca alla ricerca del lauro, la gloria poetica. L’amore per la gloria è l’altra grande colpa che Agostino gli rimprovera in questa parte del dialogo. 9. Ovidio … corpo»: Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 17 d.C.), autore delle Metamorfosi, dell’Arte di amare e di opere di carattere ero-
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tico; fu uno degli autori più conosciuti nel Medioevo. 10. la dottrina … pitagorica: la lettera pitagorica su cui è costruita la teoria è la Y, segno assunto, nel Medioevo, a simbolo della vita degli uomini che ad un tratto del suo sviluppo presenta una biforcazione: la scelta tra virtù e piacere.
11. destra … sinistra: la destra è la via della virtù, la sinistra è quella della colpa. 12. «Questo è … Tartaro»: Virgilio, Eneide, VI, vv. 540-543. Secondo una tradizione pagana di matrice platonica nell’Elisio si trovavano le anime di coloro che avevano vissuto giustamente, mentre nel Tartaro andavano le anime dei malvagi.
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non le compresi se non dopo averle sperimentate. Da allora, deviato per un sentiero storto e brutto e volgendomi spesso indietro tra le lagrime, non ho più potuto seguire la strada di destra: quando l’ho abbandonata, allora, proprio allora, le mie abitudini si sono sconvolte. agostino Ma in qual periodo della tua vita è avvenuto tutto questo? francesco Proprio nel pieno fervore dell’adolescenza. Se aspetti un pochino, mi sarà facile ricordare quanti anni avevo allora. agostino Non mi occorre un calcolo così preciso. Dimmi questo piuttosto: quand’è che ti apparve per la prima volta il viso di quella donna? francesco Non me lo dimenticherò mai di certo. agostino E dunque collega i due momenti. francesco Certo l’incontro con lei e il mio traviamento avvennero nello stesso tempo. agostino Ecco quel che volevo. Ne rimanesti stordito, suppongo, e i tuoi occhi furono colpiti da un fulgore straordinario. Dicono infatti che lo stupore sia la prima fase dell’amore, per cui il poeta, che ben conosceva la natura umana, disse: «rimase stupita al primo apparire la sidonia Didone»13. E dopo continua: «Didone arde d’amore»14. Questo, come sai benissimo, è un racconto tutto fantastico15, ma il poeta, pur inventando, guardò all’ordine naturale. Ma essendo rimasto attonito all’incontro di lei, per qual motivo in particolare piegasti a sinistra? francesco Forse perché sembrava la strada più agevole e più larga, ché quella di destra è difficile e stretta. agostino Dunque hai avuto paura della fatica. Ma perché questa donna tanto famosa, che tu ti rappresenti come una guida infallibile ai superni16, non ti ha indirizzato, mentre tu esitavi e tremavi? perché non ti ha tenuto stretto per mano, come si fa con gli altri ciechi, e non ti ha mostrato da che parte dovevi andare? francesco L’ha fatto, per quanto ha potuto. Cos’altro fece, infatti, quando, senza lasciarsi commuovere dalle preghiere né vincere dalle lusinghe, conservò la sua dignità femminile, e – contro l’età sua e nello stesso tempo mia, contro le molte e varie vicende che avrebbero piegato uno spirito sia pure adamantino17 – rimase inespugnabile e salda? Certo quest’animo di donna m’insegnava quel che conviene a un uomo e si adoperava perché, come dice Seneca18, nel mio seguire la pratica della virtù non mi venisse meno né l’esempio né la riprensione. Da ultimo, quando vide che precipitavo spezzando le briglie, preferì abbandonarmi anziché seguirmi. agostino Dunque di tanto in tanto avesti qualche desiderio riprovevole: prima avevi detto di no. Ma questa è una forma di pazzia comune tra gli amanti, o per dir meglio fra i dementi, talché di tutti si può dire a buon diritto: «voglio, non voglio, non voglio, voglio». Non sapete nemmeno voi quel che volete e quel che non volete. francesco Sono caduto nella rete, da sconsiderato. Ma se in passato ho avuto per caso qualche desiderio di altro genere, l’amore e l’età mi vi costrinsero; ora so che cosa voglio e che cosa bramo, ho finalmente rinsaldato il mio animo tentennante. Lei invece è rimasta ferma e immutabile nel suo proposito, con una costanza che in una donna più ammiro quanto più me ne rendo conto; e se mai mi dolsi di questa sua decisione, ora ne godo e la ringrazio.
13. «rimase … Didone»: Virgilio, Eneide, I, v. 613. Didone è detta sidonia perché proveniva dalla città di Sidone, nella Fenicia. 14. «Didone … amore»: idem, IV, v. 101. 15 Questo … fantastico: a differenza di Dante, Petrarca non crede nella storicità de-
gli eventi narrati da Virgilio nell’Eneide. Lo confermano in ciò Agostino e Girolamo. 16. superni: dèi celesti. 17. adamantino: duro come un diamante. 18. Seneca: Lucio Anneo Seneca (4 a.C. ca. 65 d.C.) fu un filosofo, politico e dramma-
turgo latino. Tra le sue opere pervenuteci figurano i Dialoghi, le Naturales quaestiones (“Ricerche sulla natura”), e nove tragedie; la citazione e tratta da una di queste, Fedra, vv. 105-106.
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L’età comunale in Italia
agostino
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A chi ha sbagliato una volta non si deve dar facilmente nuova fiducia. Tu potresti mutare abitudini e atteggiamenti e tenor di vita prima di persuadermi di aver mutato l’animo. Tu forse ti sei addolcito e moderato, ma il tuo fuoco certo non è spento. Ma tu che attribuisci tanto alla tua diletta, non vedi quanto condanni te stesso, assolvendo lei? Si può anche ammettere che lei fu purissima, ma devi ammettere che tu sei stato stolto e scellerato; che lei fu anche felicissima, ma tu infelicissimo per l’amore di lei. Così avevo incominciato, se te ne ricordi. francesco Me ne ricordo, certo, e non son capace di negare che sia così, e vedo dove mi hai portato, a poco a poco. F. Petrarca, Opere latine, cit.
Analisi del testo Il contrasto interiore oggettivato in due personaggi
Il codice cortese e il codice cristiano
La Vita nuova
Petrarca: la soluzione irraggiungibile
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> Il dialogo interiore
Il dialogo del Secretum avviene in realtà interiormente; i due interlocutori non sono che due istanze dell’animo di Petrarca stesso: se «Francesco» rappresenta l’io lacerato e angosciato, «Agostino» rappresenta l’istanza superiore della coscienza, che giudica e ammonisce. La difesa che «Francesco» fa del proprio amore, insistendo sul suo carattere puro e sulla sua funzione di elevazione spirituale, rappresenta le resistenze e gli alibi opposti dalla psiche alle verità sgradevoli, che comprometterebbero il suo ingannevole equilibrio e metterebbero a nudo la sua miseria. Ma Petrarca, nell’indagine implacabile che conduce su se stesso, come suscita gli alibi così li distrugge. «Agostino», con l’abilità impietosa delle sue domande, fa emergere il fondo autentico dell’animo di «Francesco»: gli fa confessare che il suo amore è stato sensuale, che ha amato il bel corpo di Laura, non l’anima, e che l’inizio del suo traviamento ha coinciso esattamente con l’inizio della sua passione.
> Lo scontro di due codici culturali
Ma il dialogo non è solo uno scavo interiore, teso a portare alla luce contraddizioni e autoinganni: rappresenta anche in forma drammatica lo scontro di due codici culturali, storicamente configurati. Quella enunciata e appassionatamente difesa da «Francesco» è la concezione cortese e stilnovistica dell’amore che raffina, ingentilisce e innalza moralmente, della donna che costituisce il tramite fra l’amante e il cielo. Ad essa, per bocca di «Agostino», si contrappone la concezione cristiana che smaschera il carattere sensuale e peccaminoso che si cela dietro quelle sublimazioni. È questo un conflitto che ha accompagnato tutta la tradizione dell’amor cortese, sin dalle origini provenzali: da sempre i poeti cortesi hanno avvertito che il culto della donna non poteva conciliarsi con l’amore per Dio. Col Dante della Vita nuova il conflitto si era sanato, con la trasformazione dell’amor cortese in amor mistico ( cap. 4, p. 231, e lo studio di Singleton ivi citato). Il conflitto si riapre in tutta la sua acutezza con Petrarca, il quale sente in sé la forza della contraddizione tra amore terreno e amore divino. Egli sa anche indicare chiaramente quale dovrebbe essere la soluzione cristiana, la negazione dell’amore profano, ma non riesce a raggiungerla. «Francesco» ammette dinanzi ad «Agostino» il suo errore e la colpevolezza della sua passione; ma il dialogo non si conclude con un approdo definitivo.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
La forma classica
> Gli aspetti stilistici
La pagina presenta un groviglio irrisolto di impulsi contrastanti, ma la forma che li esprime è tersa e nitida, di classica perfezione. Si può constatare qui la catarsi nella bella forma letteraria di cui si tratterà più avanti ( Il superamento dei conflitti nella forma, p. 419), e che avremo modo di verificare costantemente leggendo il Canzoniere.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Completa la tabella attribuendo un titolo alle sequenze in cui è stato diviso il brano, secondo l’esempio proposto.
Sequenza
Titolo
rr. 1-94
la concezione cortese e stilnovistica a confronto con quella cristiana .........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 95-132
.........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 133-172
.........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
> 2. Quale prova adduce Francesco a dimostrazione del fatto che ha amato Laura non solo nel corpo, ma anche nello spirito? («di lei non ho amato il corpo più … da un pezzo», rr. 68-74)
> 3. Con quali argomenti Agostino dimostra che l’amore per Laura non ha reso migliore l’animo di France-
sco?
AnALIzzAre
> 4. Quali diversi ruoli assumono i personaggi di Agostino e di Petrarca nel dialogo? > 5. A che cosa allude l’affermazione di Agostino «il nome stesso ha certamente dato un contributo non trascurabile, anzi grandissimo, a questo tuo furore» (rr. 83-84)? Stile Commenta la seguente metafora: «Gli è che la sua bellezza ti è parsa così attraente … da distruggere in te con … la pioggia incessante delle lagrime tutta la messe che i semi innati delle virtù avrebbero prodotta» (rr. 32-34). Le piogge non dovrebbero far crescere la messe? > 7. Stile Che significato simbolico ha l’immagine del precipizio evocato due volte da Agostino («precipizio», r. 38 e «baratro», r. 40)? > 8. Stile Spiega la metafora del fiore presente in una battuta di Agostino («Per la verità io ho sempre temuto che l’aria dell’inverno sciupasse quel fiore così precoce: se fosse rimasto proprio intatto, avrebbe portato a suo tempo frutti straordinari», rr. 103-105): che cosa rappresentano il fiore, l’aria dell’inverno, i frutti?
> 6.
APProfondIre e InTerPreTAre
> 9.
Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) indica a quale concezione dell’amore fanno rispettivamente riferimento Francesco e Agostino. > 10. esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) metti in luce gli aspetti in cui la rappresentazione petrarchesca della donna diverge dal codice stilnovista («di lei non ho amato il corpo più … rugoso e angoloso, ti sarebbe piaciuto ugualmente?», rr. 68-76). > 11. Contesto: filosofia Analizza, eventualmente con l’aiuto dell’insegnante di filosofia, il tipo di procedimento argomentativo dei due interlocutori: l’uno induttivo e l’altro deduttivo.
SCrITTUrA CreATIvA
> 12. Immagina di dover intervistare, nel contesto della loro epoca, Francesca da Rimini, Beatrice e Laura, tre donne simbolo, che rappresentano rispettivamente l’amore cortese passionale e colpevole, così come descritto da Dante nell’Inferno, l’amore stilnovistico che conduce a Dio e infine quello tutto terreno. Immagina che i tre personaggi femminili siano finalmente liberi di esprimere la loro autentica personalità. Dopo aver preparato le domande, ipotizza le risposte, e scrivi il testo dell’intervista in circa 60 righe (3000 caratteri).
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L’età comunale in Italia
T3
L’ideale dell’otium letterario
Temi chiave
• la solitudine • il contatto con la natura • i fastidi della vita cittadina
dal De vita solitaria, I
Il passo, tratto dal I libro del De vita solitaria, esalta la solitudine come libertà dello spirito, propizia all’attività intellettuale. Lo scrittore si rivolge all’amico Philippe de Cabassole, vescovo di Cavaillon.
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Dimmi, o padre, quanto valuti tu questi beni che sono alla portata di tutti: vivere come vuoi, andare dove vuoi, stare dove vuoi, riposare di primavera sopra un giaciglio di fiori purpurei, d’autunno tra mucchi di foglie cadute; ingannare l’inverno con lo starsene al sole, l’estate con l’ombra e non sentire né l’una né l’altra stagione se non fin dove tu vuoi? Ma in ogni stagione essere padrone di te, e, dovunque ti trovi, vivere con te stesso, lontano dai mali, lontano dall’esempio dei cattivi, senza essere spinto, urtato, influenzato, incalzato; senza essere trascinato a un banchetto mentre preferiresti aver fame, costretto a parlare mentre brameresti star zitto, o salutato in un momento inopportuno, o afferrato e trattenuto agli angoli delle strade e, secondo i dettami di un’educazione grossolana e sciocca, messo tutto il giorno in berlina a osservare chi ti passa dinanzi: chi ti guarda ammirandoti come una rarità, chi arresta il passo quando t’incontra, chi curvandosi si accosta al compagno e gli sussurra non so che nell’orecchio sommessamente, oppure chiede di te a quelli in cui s’imbatte; chi ti spinge tra la folla dandoti fastidio, o ti cede il passo dandoti ancor più fastidio; chi ti porge la mano, chi se la porta al capo; chi si appresta a farti un lungo discorso quando c’è poco tempo, chi ammicca senza parlare e passa avanti stringendo le labbra. Quanto valuti, infine, non invecchiare tra i fastidi, non premere sempre ed esser premuto fra uno stuolo di salutatori, non aver mozzo il respiro, né sudare in pieno inverno colpito da tristi esalazioni; non disimparare l’umanità in mezzo agli uomini e, infastidito, prendere in odio ogni cosa, gli uomini, gli affari, coloro che ami, te stesso? non dimenticare le cose che ti stanno a cuore per dedicarti a molte che non ti fanno piacere? Senza contravvenire, infine, alle parole dell’Apostolo rivolte ai Romani – «nessuno di noi vive per se stesso, nessuno muore per se stesso: perché se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore»1 –, per te stesso vivere o morire, in modo da vivere e morire non per altri che per il Signore? Frattanto, stare come in un posto di vedetta, osservando ai tuoi piedi le vicende e gli affanni degli uomini, e vedere ogni cosa – e particolarmente te stesso – passare con tutto l’universo; e non dover sopportare le molestie di una vecchiaia furtivamente insinuantesi, prima di averne sospettato l’appressarsi (questo accade a tutte le persone indaffarate), ma vederla molto tempo prima, e prepararle un corpo sano e un animo sereno. Sapere che questa non è la vita, ma l’ombra della vita; un albergo, non una casa; una strada, non la patria; una palestra, non una stanza. Non amare ciò che è transitorio e desiderare ciò che rimane: ma finché quello ci è accanto, sopportarlo in pace. Ricordar sempre di essere mortali, cui tuttavia è stata assicurata l’immortalità. Far andare indietro la memoria, vagabondare con l’animo per tutti i tempi, per tutti i luoghi; fermarsi qua e là, e parlare con tutti quelli che furono uomini illustri2; dimenticare così gli autori di tutti i mali che ci sono accanto, talvolta anche noi stessi, e spinger l’animo tra le cose
1. «nessuno … Signore»: la citazione è tratta dalla Lettera ai Romani di san Paolo (14, 7-8).
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2. tutti … illustri: l’autore si riferisce alla prefazione del suo De viris illustribus.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
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celesti innalzandolo al di sopra di sé; meditare su ciò che lì accade, accendere con la meditazione il desiderio, ed esortare per converso te stesso, accostando al tuo cuore già in fiamme le fiaccole, per così dire, delle parole ardenti. È questo un frutto – e non è l’ultimo – della vita solitaria: chi non l’ha gustato non l’intende. Frattanto – per non tacere di occupazioni più comuni – dedicarsi alla lettura e alla scrittura, alternando l’una come riposo dell’altra, leggere ciò che scrissero gli antichi, scrivere ciò che leggeranno i posteri, a questi almeno, se a quelli non possiamo, mostrare la gratitudine dell’animo nostro per il dono delle lettere ricevuto dagli antichi; e verso gli antichi stessi non essere ingrati nei limiti che ci sono consentiti, ma render noti i loro nomi se sconosciuti, farli ritornare in onore se caduti in dimenticanza, trarli fuori dalle macerie del tempo, tramandarli alle generazioni dei pronipoti come degni di rispetto, averli nel cuore, averli sulle labbra come una dolce cosa; in tutti i modi insomma, amandoli, ricordandoli, esaltandoli, render loro un tributo di riconoscenza, se non proporzionato, certo dovuto ai loro meriti. F. Petrarca, Opere latine, cit.
Analisi del testo Petrarca sviluppa qui una delle sue tesi preferite, di cui si trovano esempi in numerose poesie: la predilezione per la «vita solitaria» e la sua utilità per chi voglia dedicarsi allo studio delle lettere.
> La vita cittadina Inautenticità e alienazione
L’uomo più vicino a Dio
La continuità della tradizione letteraria
La solitudine è considerata la condizione ideale perché l’uomo possa realizzare le proprie più autentiche aspirazioni: la libertà, il contatto con la natura, la padronanza di sé, l’assenza di inutili distrazioni. La vita cittadina, al contrario, è fonte di infiniti fastidi e preoccupazioni, costringe ad essere diversi da quello che si vorrebbe, forzando e alterando la reale natura delle persone. Ne deriva una generale condizione di inautenticità, che Petrarca non enuncia in astratto, ma rappresenta felicemente in maniera vivace e concreta, con risultati di un automatismo quasi macchiettistico (che corrisponde a quella che adesso chiameremmo l’“alienazione” dell’individuo, mentre la rapida sequenza dei vari “tipi” e delle diverse situazioni esprime la caotica vita della città, a proposito della quale non manca neppure l’accenno all’atmosfera inquinata).
> La solitudine e la vita intellettuale
Lontano da queste turbolenze e dalle vane preoccupazioni, l’uomo è più vicino a Dio e a se stesso; vive in sintonia con l’universo e, da questa più alta prospettiva, può giudicare con distacco critico le azioni degli altri, attribuendo alle cose un più giusto significato e il loro valore reale (che è spesso l’opposto dei pregiudizi e delle convinzioni comuni). La mente, non distratta da altri pensieri, può ripercorrere le memorie del passato, colloquiando con i suoi «uomini illustri»; così come «l’animo» riesce a innalzarsi «tra le cose celesti» e a nutrirsi delle «parole ardenti» (rr. 36-40). Sono queste le condizioni che, staccandosi dal presente, Petrarca riconosce come costitutive dell’esperienza poetica: in questo senso la vita solitaria è la più adatta alla meditazione e all’esercizio letterario, che consiste essenzialmente nel «leggere ciò che scrissero gli antichi, scrivere ciò che leggeranno i posteri» (rr. 43-44). Il programma petrarchesco, superando le difficoltà del presente, si sforza di saldare il passato e il futuro, ricostruendo la continuità della tradizione letteraria. Ma l’insegnamento del
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L’età comunale in Italia
passato deve essere ricostruito con un sapiente ed umile lavoro di ricerca, che riscopra e renda nuovamente accessibili le opere dei classici; la nascita della filologia umanistica, a cui lo stesso Petrarca recò importanti contributi, è qui rievocata con espressioni di venerazione e d’amore, come fosse l’oggetto di un culto religioso. Città e campagna
L’umanesimo cristiano
> L’esempio dei classici
In queste pagine Petrarca ricalca evidentemente tesi e movenze stilistiche dei classici: la condanna della vita affannosa e inautentica della città e l’esaltazione della vita semplice della campagna, dedicata solo a ciò che è autentico, è un topos ricorrente nella letteratura latina, che torna più volte nelle pagine di Virgilio, di Orazio, di Seneca e di altri. Ma Petrarca non si limita a riprendere i classici; in essi immette, come si può leggere, un nuovo senso cristiano: il suo obiettivo non è solo l’equilibrio interiore, la saggezza, come per gli autori antichi, ma la salvezza. Fra i classici e la verità cristiana per lui non vi è contraddizione, anzi, vi è una sostanziale continuità: l’attività letteraria eleva l’animo e lo predispone alla considerazione delle cose che veramente contano, quelle eterne. Si può vedere qui in atto quello che è stato definito l’“umanesimo cristiano” di Petrarca.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quali aspetti della vita cittadina descritta da Petrarca sono esemplari dell’«automatismo quasi macchiettistico» di cui si parla nell’Analisi del testo? Perché?
> 2. Individua nel testo riferimenti all’attività filologica dell’autore. > 3. Delinea la posizione che emerge dal brano riguardo al cosiddetto umanesimo cristiano di Petrarca, come spiegato nell’Analisi del testo.
AnALIzzAre
> 4.
Stile Individua l’immagine, espressa attraverso un efficace paragone, con cui l’autore evidenzia nel testo la condizione di privilegiato isolamento dell’intellettuale. > 5. Stile Quali figure retoriche individui nell’espressione «leggere ciò che scrissero gli antichi, scrivere ciò che leggeranno i posteri» (rr. 43-44)? > 6. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni presenti nel testo rimandano alla sfera dell’interiorità? > 7. Lingua Individua la frequenza nel testo dei verbi posti all’infinito presente e ipotizzane una spiegazione.
APProfondIre e InTerPreTAre
> 8.
esporre oralmente Quale luogo rappresenta l’ideale di vita solitaria di Petrarca? E quali esperienze di segno opposto sembrano essere in contraddizione con tale ideale? Rispondi in max 3 minuti.
Per IL PoTenzIAmenTo
> 9.
Contesto: latino Effettua un confronto tra l’ideale dell’otium letterario di Petrarca e quello praticato da autori del mondo latino (ad esempio Cicerone). PASSATo e PreSenTe L’intellettuale oggi tra impegno e disimpegno
> 10. Chi è oggi l’intellettuale? La sua condizione ideale è riconducibile all’otium o al negotium? Discuti il tema in classe, con i compagni e l’insegnante, prima facendo riferimento ai concetti di “cultura”, di “impegno” e “disimpegno” nella contemporaneità, poi provando ad individuare nel contesto attuale figure esemplari in tal senso.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
4 Dante e i classici
Petrarca e la coscienza del distacco
L’attività filologica
Testo critico M. Santagata
La nostalgia del mondo antico
Le opere “umanistiche” Petrarca e il mondo classico A questo punto è necessario affrontare direttamente il problema del rapporto di Petrarca con il mondo classico. Il confronto con Dante può riuscire ancora una volta chiarificatore. Anche nel poeta della Commedia avevamo notato un vero culto per i classici: basti solo ricordare il ruolo di Virgilio, il «nobile castello» del Limbo, l’incontro con Stazio. Ma il suo atteggiamento era ben diverso da quello che è proprio di Petrarca. Dante, come tutta la cultura medievale, non avendo coscienza della frattura esistente tra il mondo antico e quello a lui contemporaneo, poteva assimilare figure e temi della cultura classica, adattandoli alla propria visione della realtà. La prova più eloquente è proprio il personaggio di Virgilio, che è definito «nostra maggior musa» ed è inteso, secondo la mentalità medievale, come il grande saggio che «tutto seppe» (Paradiso, XV, v. 26 e Inferno, VII, v. 3). Invece Petrarca ha ormai una coscienza chiara del distacco: per questo non assimila più il mondo antico al presente (nonostante rimangano residui di interpretazione allegorica), ma sente il bisogno di coglierlo nella sua fisionomia più autentica, liberandolo da quella deformazione che ad esso l’“età di mezzo” aveva sovrapposto. Nasce di qui l’attività filologica di Petrarca. La filologia (dal greco philos, “amico”, e logos, “parola”) è la scienza, corredata delle relative tecniche, che ha come fine la ricostruzione dei testi letterari nella loro forma più vicina all’originale, emendandoli da errori di trascrizione e deformazioni varie, e che consente una loro comprensione più precisa attraverso la ricostruzione rigorosa, condotta su documenti attentamente vagliati, della loro genesi e dei loro contesti. In questa attività, che si svilupperà soprattutto a partire dal Quattrocento, Petrarca è un vero precursore. Innanzitutto egli sente la viva curiosità di conoscere anche quegli autori e quelle opere che la cultura medievale aveva lasciato ai margini, facendoli sprofondare nella dimenticanza. Perciò durante i suoi numerosi viaggi in Europa e in Italia fruga nelle antiche biblioteche, in cerca di quei testi di cui si era perduta la tradizione (testi latini, perché Petrarca non giunse mai a padroneggiare il greco). Arriva così a scoperte di grande rilievo, come quella delle epistole di Cicerone all’amico Attico, che gli forniscono l’impulso a ordinare le proprie epistole latine sul modello ciceroniano. Ma la venerazione che egli sente per i classici si estende anche alla correttezza dei manoscritti che hanno trasmesso le opere; perciò compie un accurato lavoro di confronto tra quelli che può consultare, per emendarli dagli errori dei copisti; parallelamente si preoccupa di annotare i testi, con chiarimenti storici ed eruditi su persone, luoghi, fatti, con rimandi a passi di altri autori. Non solo ma, grazie alla sua fitta rete di corrispondenti italiani ed europei, mette in circolo il suo lavoro nella cultura contemporanea. Con Petrarca, insomma, vediamo prendere le mosse un’attività destinata ad assumere presto un posto centrale nella cultura della nuova età, la filologia. Il lavoro filologico di Petrarca fornirà un esempio e un modello alle generazioni successive degli umanisti. La coscienza del distacco è all’origine dell’atteggiamento con cui Petrarca si rapporta agli scrittori classici. In essi egli scorge un modello insuperabile di sapienza (anche nella direzione di una vita cristiana, come abbiamo appena visto), di magnanimità nell’azione, di perfezione stilistica; perciò guarda ad essi con un misto di venerazione e di struggente nostalgia, perché sente quanto quel modello sia lontano dalla realtà presente. Attraverso la lettura assidua delle loro pagine nasce in lui il bisogno di emularli, di conformare al loro esempio sia la sua vita quotidiana sia la sua attività letteraria. La nostalgia genera in lui il bisogno di trasportarsi idealmente in mezzo ad essi, di divenire loro contemporaneo, astraendosi dall’epoca meschina e barbara in cui gli è toccato vivere. È significativo che le lettere dell’ultimo libro delle Familiari siano indirizzate ai grandi dell’antichità, come se fossero ancora viventi e fosse possibile colloquiare direttamente con loro. 403
L’età comunale in Italia
Le raccolte epistolari
Le raccolte
La trasfigurazione letteraria della realtà
L’immagine esemplare del letterato
Testi • Un’autobiografia di Petrarca: l’epistola «Ai posteri» • Gli antichi e l’età contemporanea dalle Epistole
Il gusto classicistico
Testi Il giudizio di Petrarca su Dante dalle Familiari
Il ritorno alla separazione degli stili
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Questo culto dei classici informa, in generale, tutte le raccolte epistolari di Petrarca. Lo scrittore attese lungo tutto l’arco della sua vita a raccogliere, ordinare, rielaborare le sue lettere in prosa latina, indirizzate di norma (salvo l’esempio sopra citato) ad altri intellettuali suoi amici, o a grandi signori o a dignitari ecclesiastici. Ne risultano ventiquattro libri di epistole Familiari e diciassette di Senili, risalenti agli anni più tardi. A parte si collocano le lettere Sine nomine (“Senza nome”), così chiamate perché, per ragioni di prudenza, non viene indicato il nome del destinatario, in quanto contengono un’aspra polemica contro la corruzione della Chiesa contemporanea. Al di fuori di queste raccolte ordinate dal poeta stesso si collocano le Varie, lettere rintracciate e riunite da amici e collaboratori. Già nella stesura originaria le lettere non erano solo colloqui confidenziali con i destinatari, ma veri e propri componimenti letterari, squisitamente elaborati. Nel raccogliere e nel rivedere tutto il materiale per la pubblicazione, Petrarca lo sottopone ad un’ulteriore elaborazione, togliendo ogni riferimento troppo preciso a fatti, persone, luoghi, sostituendo ai nomi reali di persona degli pseudonimi e a quelli di luogo perifrasi classicheggianti, trasformando situazioni e sentimenti sul modello di quelli incontrati nei testi classici, in specie nelle epistole ciceroniane. La conseguenza è che le lettere petrarchesche non sono documenti immediati di vita vissuta, ma trasfigurazione letteraria della realtà. C’è bensì in esse un’autentica sostanza autobiografica, il bisogno di esplorare la propria interiorità, di studiarsi e di confessarsi; ma questa materia originaria, per quanto torbida e aggrovigliata, arriva ad esprimersi solo attraverso il filtro dei modelli classici, attraverso le forme composte e armoniche da essi consacrate. Mediante questa trasfigurazione letteraria, costruendo sul modello dei classici il proprio ritratto, Petrarca vuole fissare un’immagine ideale del letterato e del dotto, che abbia un valore esemplare. Questa immagine costituirà poi il modello dell’intellettuale per secoli, sino alle soglie dell’età contemporanea (e non si può dire che sia del tutto scomparsa ai giorni nostri). Gli elementi che la compongono sono: la fede in una cultura disinteressata, che deve solo tendere a raffinare e nobilitare l’animo; il fastidio per le attività pratiche e gli affari quotidiani, che distraggono dalla vera vita, che è quella dello spirito; il sogno idillico di un’esistenza quieta ed appartata, tutta dedicata ai libri, lontana dal tumulto delle città, nella solitudine di un ameno paesaggio agreste, propizio alla meditazione e alle riposate letture; ma, per contro, anche la consapevolezza del fatto che l’elevatezza intellettuale e morale del dotto devono assumere una funzione pubblica, per cui il letterato deve proporsi come esempio, e dall’alto della sua saggezza e della sua dottrina deve ammonire, consigliare, offrirsi come guida al proprio tempo. Se da un lato gli epistolari forniscono la chiave per capire gli aspetti fondamentali della personalità di Petrarca, dall’altro sono anche preziosi a chiarire il gusto letterario che è sotteso a tutta la sua opera. La legge che presiede alla composizione di queste pagine, si è visto, è quella della selezione e dell’idealizzazione: in primo luogo i particolari della vita quotidiana sono accuratamente selezionati, con l’esclusione di tutto ciò che è troppo realistico, concreto o dimesso; in secondo luogo tutti gli aspetti della vita subiscono una costante trasfigurazione letteraria, che conferisce ad essi dignità e nobiltà. Ebbene, selezione e idealizzazione sono i princìpi costitutivi del classicismo, cioè di quella tendenza letteraria che si rifà al modello dei classici antichi. Torna ad imporsi nell’opera latina del Petrarca quella rigorosa separazione degli stili che era propria della cultura greca e latina, e che il Medioevo con Dante aveva ribaltato. Ad intendere appieno il senso e la portata di questa restaurazione dell’ideale letterario classico perpetuata da Petrarca, basti pensare all’impavida mescolanza di sublime e quotidiano, di nobile e di turpe che caratterizzava la Commedia dantesca, in cui potevano convivere il tripudio degli angeli nell’Empireo e lo sterco di Malebolge: con Petrarca tutta una zona della realtà, quella bassa e quotidiana, viene di nuovo
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Le irrequietudini religiose
esclusa dalla letteratura, dove trova diritto di cittadinanza solo ciò che è più nobile ed elevato. Anche in questo Petrarca anticipa il gusto che sarà del Rinascimento. E non sarà un caso se nel Cinquecento il petrarchismo, l’imitazione di Petrarca, sarà un aspetto dominante ( La fortuna di Petrarca nel Rinascimento). Tuttavia, al di là di questa nitida e levigata forma classica, si colgono anche nelle epistole latine le irrequietudini che costituiscono la sostanza della psicologia petrarchesca, e che erano alla base dell’accanita ricerca interiore delle opere religiose. Anche qui il poeta è spesso chino su se stesso, a scandagliare contraddizioni, oscillazioni, debolezze, tormenti. Esemplare è la lettera in cui è narrata l’ascesa al Monte Ventoso ( T4, p. 407), dove lo scrittore, con procedimenti non dissimili da quelli del Secretum, mette a nudo la sua incapacità di distaccarsi dai beni del mondo, e al tempo stesso la sua tendenza a mascherare ai suoi stessi occhi colpe e debolezze.
L’Africa
I classici come modello
La meditazione pessimistica
L’ideale classico si concreta significativamente anche nell’Africa. Si tratta di un poema epico in esametri latini, concepito a Valchiusa nel 1338 o nel 1339 e ripreso più volte negli anni senza mai essere portato a termine. A questo poema Petrarca pensava di affidare la sua fama presso i posteri. Con esso intendeva continuare idealmente la letteratura latina, collocandosi a fianco dei grandi scrittori da lui tanto venerati. Argomento dell’opera è la seconda guerra punica, che il poeta pensava non fosse mai stata trattata dai poeti classici (ignorava l’esistenza delle Puniche di Silio Italico, poeta dell’età dei Flavi, I secolo d.C.). I modelli sono naturalmente latini: la materia è ricavata dalle Storie di Livio, ma moduli narrativi e stilistici, episodi e caratteri sono ispirati all’Eneide virgiliana. Il proposito che muove il poeta è esaltare la gloria e la grandezza di Roma, in particolare le gesta di Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale. Ma accanto agli intenti epici, che derivano da un entusiasmo tutto letterario per il racconto delle gesta eroiche trovato nelle pagine degli storici e dei poeti antichi, e che si risolvono in generale in un’oratoria altamente intonata ed in un’enfasi celebrativa, compaiono altri motivi, più soggettivi e sofferti. È significativo l’episodio più famoso del poema, quello di Magone morente, sulle cui labbra compaiono, sia pur chiusi nell’armonia classicheggiante di concise sentenze, i temi più
microsaggio La fortuna di Petrarca nel Rinascimento Petrarca fu forse lo scrittore che esercitò la più vasta e profonda influenza sulla cultura italiana per diversi secoli. Innanzitutto la sua attività di studioso, di filologo, di scrittore in latino, che mirava a far rinascere la poesia classica, influenzò il movimento umanistico e formò una vera e propria scuola (lo stesso Boccaccio in tale campo fu devoto discepolo, oltre che amico, di Petrarca). Di conseguenza i contemporanei e i primi umanisti esaltarono soprattutto il dotto, l’erudito, e privilegiarono le opere latine (a cui d’altronde Petrarca stesso pensava di affidare la sua fama), considerando le opere poetiche volgari, il Canzoniere e i Trionfi, come parte minore della sua produzione. Il Canzoniere esercitò influenza sui poeti del Trecento, e nel Quattrocento cominciò a delinearsi il fenomeno dell’imitazione petrarchesca: tuttavia il suo influsso non fu unico, ed accanto ad esso si può riconoscere quello di altri, gli stilnovisti e il Dante della Vita nuova.
Nel Cinquecento, soprattutto ad opera di Pietro Bembo, il massimo arbitro del gusto rinascimentale, Petrarca fu assunto come modello supremo della lirica volgare, nonché come perfetto esemplare di lingua poetica. Il nitore, l’armonia, la levigatezza dello stile e della lingua petrarcheschi erano in sintonia infatti con il gusto classicistico del Rinascimento. Nacque così il fenomeno del “petrarchismo”: fu d’obbligo per i poeti lirici riprodurre schemi psicologici e movenze stilistiche della poesia del Canzoniere. In realtà il modello divenne artificioso, salvo poche eccezioni. Sull’onda della fortuna europea del nostro Rinascimento, la fama e l’influenza di Petrarca si estesero anche a paesi stranieri. Anche all’interno dell’Arcadia, a fine Seicento e poi durante il Settecento, vi è tutto un filone petrarcheggiante (che però guarda anche al petrarchismo cinquecentesco).
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Testi Il lamento di Magone morente dall’Africa
cari alla meditazione religiosa di Petrarca: la vanità delle cose umane, la vita che trascorre tra illusioni ingannevoli e continui travagli, l’inquietudine dell’uomo che non trova mai requie, e, al fondo di tutto, la morte, unica cosa certa tra tante apparenze, che solo insegna ciò che veramente vale. Persino la gloria di Roma, che tanto esalta il poeta, finisce per essere guardata dall’infinita distanza dell’eterno, che ribalta le prospettive del mondo terreno. In definitiva, come nelle opere di meditazione religioso-morale si afferma umanisticamente la fede nei valori della cultura e della bellezza formale, così, inversamente e complementarmente, i mesti accenti del pessimismo ascetico medievale risuonano in quelle opere che più direttamente sono ispirate agli ideali del classicismo. Le due tendenze sono in Petrarca sempre compresenti.
Il De viris illustribus
Le biografie di grandi uomini della classicità
Questa compresenza si può verificare anche in altre opere latine, a cui Petrarca contava di affidare la sua fama di dotto continuatore e restauratore della cultura classica. Il De viris illustribus (“Gli uomini illustri”) è un’opera per così dire storica, una raccolta di biografie di illustri personaggi romani – Cesare, Scipione, Catone ecc. – concepita contemporaneamente all’Africa (con l’aggiunta posteriore di biografie di personaggi biblici). Anche quest’opera è animata dall’intento di celebrare la grandezza di Roma, sulle orme delle Storie di Livio e di altri storici latini; ma anche qui troviamo gli stessi spunti pessimistici, di ispirazione cristiana, sulla fugacità della gloria e sulla miseria della condizione umana. Inoltre il racconto storico si tinge spesso di colori soggettivi, perché lo scrittore proietta nei personaggi le sue inquietudini e i suoi dubbi.
visualizzare i concetti
Le principali opere in latino di Petrarca TIPoLoGIA
Opere religioso-morali
di polemica filosofica
– Invectivae contra medicum quendam (“Invettive contro un medico”) – De sui ipsius et multorum ignorantia (“Sull’ignoranza propria e di molti altri”)
di meditazione morale
– Secretum (“Il [mio] segreto”) – De vita solitaria (“La vita solitaria”)
enciclopedia morale
– De remediis utriusque fortunae (“I rimedi della buona e della cattiva sorte”)
epistole
– Familiari – Senili – Sine nomine (“Senza nome”) – Varie
d’ispirazione classica
– Africa – De viris illustribus (“Gli uomini illustri”)
Opere “umanistiche”
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oPerA
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Analisi interattiva
T4
L’ascesa al monte ventoso
Temi chiave
• la narrazione di un’esperienza
dalle Familiari, IV, 1
esemplare
• l’inquieta esplorazione interiore La lettera, che fa parte delle Familiari, narra la scalata al Monte • la scalata al monte come allegoria Ventoso, presso Avignone, compiuta da Petrarca nel 1336 indella conquista della verità e della sieme col fratello Gherardo. È indirizzata a Dionigi da Borgo salvezza spirituale San Sepolcro, il frate agostiniano che gli aveva donato la copia delle Confessioni di sant’Agostino che egli portava sempre con sé. Petrarca afferma di aver scritto l’epistola subito dopo l’ascensione, ma in realtà essa fu stesa, o comunque rielaborata, parecchi anni dopo, nel 1352-53.
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Oggi1, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso2. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. Ebbi finalmente l’impulso di realizzare ciò che mi ripromettevo ogni giorno, soprattutto dopo essermi imbattuto, mentre giorni fa rileggevo la storia romana di Livio, nel passo3 in cui il re dei Macedoni Filippo – quello che fece guerra con Roma – salì sull’Emo, monte della Tessaglia, e di lassù credette di vedere, secondo si diceva, due mari, l’Adriatico e l’Eusino4. Se vero o falso non so, sia perché quel monte è troppo lontano da noi, sia perché le discordanze tra gli scrittori rendono la cosa dubbia. [...] Senonché, quando dovetti pensare a un compagno di viaggio, nessuno dei mei amici, meravìgliati pure, mi parve in tutto adatto: tanto rara, anche tra persone care, è una perfetta concordia di volontà e di indoli. Questi era troppo pigro, quello troppo vivace; questi troppo fiacco, quello troppo svelto; questi troppo sventato, quello troppo prudente rispetto a quanto desiderassi; di questo mi spaventava il silenzio, di quello la loquacità; di questo la pesantezza e la pinguedine, di quello la magrezza e la debolezza; di questo mi deprimeva la fredda indifferenza, di quello l’ardente attività: tutti difetti che, sebbene gravi, in casa si sopportano (tutto compatisce l’affetto e l’amicizia non rifiuta alcun peso), ma che in viaggio divengono troppo pesanti. E così, esigente com’ero e desideroso di un onesto svago, pur senza offendere in nulla l’amicizia, mi guardavo intorno soppesando il pro e il contro, silenziosamente rifiutando tutto quello che mi pareva potesse intralciare la gita progettata. Finalmente – che pensavi? – mi rivolgo agli aiuti di casa e mi confidai con l’unico fratello5, di me più giovane e che tu ben conosci. Nulla avrebbe potuto ascoltare con maggiore letizia, felice di potersi considerare, verso di me, fratello ed amico. Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che «l’ostinata fatica vince ogni cosa6». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il
1. Oggi: la lettera, datata Malaucena, 26 aprile 1336, racconta l’ascensione avvenuta tra il 24 ed il 26 aprile. 2. Ventoso: è il Mont Ventoux nei pressi di Valchiusa.
3. nel passo: il passo è contenuto nel libro XL (cap. 21,2) della Storia di Roma (Ab Urbe condita libri) di Tito Livio. 4. Eusino: altro nome del Mar Nero. 5. l’unico fratello: si tratta di Gherardo, na-
to nel 1307; nel 1342, sei anni più tardi, si farà monaco certosino. 6. ma ben disse … cosa: il poeta è Virgilio, il passo qui citato è tratto dalle Georgiche, I, vv. 145-146.
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corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e c’incamminiamo alacremente7. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto8. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi9 e pentito, oramai, di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato10 oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo son invisibili e occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono11, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. Tutti vogliono giungervi, ma come dice Ovidio12, “volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo”. Tu certo, se non ti sbagli anche in questo come in tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi con ardore. Cosa dunque ti trattiene? nient’altro, evidentemente, se non la strada più pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra e che a prima vista sembra anche più agevole; ma quando avrai molto vagato, allora sarai finalmente costretto a salire sotto il peso di una fatica malamente differita verso la vetta della beatitudine, oppure a cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati; e se mai – inorridisco al pensiero – le tenebre e l’ombra della morte13 lì dovessero coglierti, dovrai vivere una notte eterna in perpetui tormenti». Non so dirti quanto tale pensiero mi rinfrancasse anima e corpo per il resto del cammino. E potessi compiere con l’anima quel viaggio cui giorno e
7. alacremente: instancabilmente. 8. io soprattutto … sempre più in alto: a Francesco, più fiacco, incline a cercare varchi agevoli, si contrappone da questo punto Gherardo, che invece senza incertezze sale verso l’alto. 9. Annoiatomi: la noia, sentimento vicino all’accidia, è uno stato d’animo frequente
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in Petrarca. 10. Ciò che … provato: comincia la digressione del monologo interiore: una pausa di riflessione nella narrazione dell’evento. Qui si rende scoperta l’allegoria prima solo presunta: l’ascensione al monte è assimilata alla vita beata, meta che, essendo collocata in alto, richiede di percorrere la ripida via della virtù.
11. come dicono: Matteo, 7, 14. 12. Ovidio: Publio Ovidio Nasone (43 a.C. 17 d.C.), attivo negli ultimi anni dell’età di Augusto, di cui rappresenta l’involuzione subita dalla letteratura. La frase citata appartiene alle Epistole dal Ponto, III, I, 35. 13. le tenebre … morte: è una citazione dai Salmi (106, 10-14).
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notte sospiro così come, superata finalmente ogni difficoltà, oggi l’ho compiuto col corpo! E io non so se quello che in un batter d’occhio e senza alcun movimento locale può realizzare l’anima di sua natura eterna e immortale, debba essere più facile di quello che si deve invece compiere in una successione di tempo, con il concorso di un corpo destinato a morire e sotto il peso grave delle membra. C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non forse per ironia, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo14 nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma15 rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico16 e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze17. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi: «Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna18: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto19 da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino: “Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”20. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta21: “Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia”. Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria22; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me». Così andavo col pensiero a quel passato decennio. Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo: «Se ti accadesse di prolungare per altri due
14. l’Athos e l’Olimpo: sono due monti della Grecia, celebrati dai poeti dell’antichità, latini e cristiani. Il primo fu sede di numerosi monasteri e di fronte ad esso affondò la flotta persiana di Dario. L’Olimpo era considerato dagli antichi greci la sede degli dèi. 15. feroce … Roma: si tratta di Annibale che, secondo il racconto dello storico romano Tito Livio, nell’attraversare le Alpi avrebbe distrutto con fuoco e aceto una rupe che ostruiva il passaggio.
16. l’amico: secondo alcuni Dionigi, che in quel periodo risiedeva con tutta probabilità ad Avignone; per altri si tratterebbe di Giacomo Colonna. 17. confermate … testimonianze: Petrarca sovrappone agli eventi della sua vita quelli dei grandi del passato. 18. hai abbandonato Bologna: Petrarca aveva lasciato nel 1326 Bologna dove aveva seguito gli studi di diritto. 19. porto: è la metafora della vita beata.
20.“Voglio … Dio mio”: il passo è tratto dalle Confessioni (II, I) di Agostino. Il richiamo ad Agostino è costante ed indica la consonanza spirituale avvertita da Petrarca nei confronti del pensatore. 21. un … poeta: si tratta di Ovidio, Amori, III, II, v. 55. 22. un’altra … contraria: la volontà buona, quella che induce lo spirito alla purificazione e alla redenzione.
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lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insorgere della nuova volontà contro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia23, non potresti forse allora, se non con certezza almeno con speranza24, andare incontro alla morte sui quarant’anni e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza rimpianti?». Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e il perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte, lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi25: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani26, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande.
Sandro Botticelli, Sant’Agostino nello studio, 1480, affresco staccato, Firenze, Chiesa di Ognissanti.
23. protervia: arroganza. 24. almeno con speranza: se non sicuro della salvezza eterna, almeno sperando in essa.
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25. Lo chiamo … lessi: Petrarca chiama a testimoniare Dio e il fratello che il primo passo su cui cadde il suo sguardo fu quello nel quale lesse le parole che seguono, tratte
dalle Confessioni di Agostino (X, VIII, 15). 26. filosofi pagani: Petrarca si riferisce ad una lettera, precisamente la VIII, 5, indirizzata a Lucilio dal filosofo Seneca.
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Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri; tanto più che ricordavo ciò che di se stesso aveva pensato Agostino quando, aprendo il libro dell’Apostolo27, come lui stesso racconta, lesse queste parole: «Non gozzoviglie ed ebbrezze, non lascivia e impudicizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze28». La stessa cosa era già accaduta ad Antonio quando, leggendo nel Vangelo29 «se vuoi essere perfetto va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli», come se quelle parole fossero state scritte per lui (lo dice Atanasio30 autore della sua vita), si guadagnò il regno celeste. E come Antonio, udite quelle parole, non chiese altro; e come Agostino, letto quel passo, non andò oltre, così anch’io raccolsi tutta la mia lettura in quelle parole che ho riferito, riflettendo in silenzio quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, trascurando la loro parte più nobile, si disperdono in mille strade e si perdono in vani spettacoli, cercando all’esterno quello che si potrebbe trovare all’interno; pensando a quanta sarebbe la nobiltà del nostro animo se, spontaneamente tralignando, non si allontanasse dalle sue origini e non convertisse in vergogna le doti che Dio gli diede in suo onore. Quante volte quel giorno – credilo – sulla via del ritorno ho volto indietro lo sguardo alla cima del monte! eppure mi parve ben piccola altezza rispetto a quella del pensiero umano, se non viene affondata nel fango delle turpitudini terrene. Ed anche questo pensiero mi venne quasi ad ogni passo; se non ho esitato a spendere tanta fatica e sudore per accostare solo di un poco il mio corpo al cielo, quale croce, quale carcere, quale tormento potrebbero atterrire un’anima nel suo cammino verso Dio, mentre calpesta le superbe vette della temerarietà e gli umani destini; e quest’altro: quanti non vengono distratti da questo sentiero per timore dei patimenti o per amore dei piaceri? Veramente felici, se pur ce ne sono, coloro dei quali credo volesse dire il poeta31: «felice chi poté scoprire il perché delle cose e tiene sotto di sé calpestando ogni timore e il destino implacabile e lo strepito dell’esoso Acheronte». Ma quanta fatica dovremo durare per tenere sotto i piedi non una terra più alta, ma le passioni che si levano da istinti terreni! Tra questi ondeggianti sentimenti del mio cuore, senza accorgermi del sassoso sentiero, nel profondo della notte tornai alla capanna da cui m’ero mosso all’alba, e il chiarore della luna piena ci era di dolce conforto, nel cammino. Mentre poi i servi erano affaccendati nel preparare la cena, mi sono ritirato tutto solo in un angolo della casa per scriverti, in fretta e quasi improvvisandole, queste pagine; non volevo infatti che, differendole, magari mutando con i luoghi i sentimenti, mi si spegnesse il desiderio di scriverti. Tu vedi dunque, amatissimo padre, come io non ti voglia nascondere nulla di me, io che con tanta cura ti svelo non solo tutta la mia vita, ma tutti i miei segreti pensieri, uno per uno; prega per essi, te ne supplico, perché erranti e incerti da tanto tempo, finalmente si arrestino, e dopo essere stati trascinati inutilmente per ogni dove, si rivolgano all’unico bene, veramente certo e duraturo. Addio. Da Malaucena, 26 aprile F. Petrarca, Le familiari, vol. I, trad. it. di U. Dotti, Argalia, Urbino 1974
27. il libro dell’Apostolo: si tratta dell’apostolo Paolo nella Epistola ai Romani (13, 1314). Agostino racconta di quella lettera nelle Confessioni (VII, XII, 29). 28. concupiscenze: voglie.
29. Vangelo: è il Vangelo secondo Matteo, 19, 21. 30. Atanasio: autore di una Vita del Beato Antonio Abate. 31. il poeta: è ancora il Virgilio delle Georgiche
(II, vv. 490-492). L’interpretazione del passo fornita da Petrarca è quella comunemente diffusa nel Medioevo, che leggeva il brano in chiave allegorica forzandone il significato. In realtà questi versi sono un elogio di Lucrezio.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo L’exemplum e il significato allegorico
La conquista del mondo esteriore
Un bilancio interiore
Il «doppio uomo»
La presa di coscienza della vanità del mondo esteriore
Il rovesciamento del significato allegorico
La sapienza antica e la sapienza cristiana
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> mondo esteriore e ricerca interiore
Il racconto assume chiaramente il valore di un exemplum, cioè della narrazione di un’esperienza esemplare che deve servire di insegnamento, secondo un modulo tipicamente medievale; e l’ascesa al monte possiede un significato scopertamente allegorico. Ciò che spinge Petrarca a intraprendere la scalata è in primo luogo la curiosità di scoprire il mondo e le sue bellezze, ma in secondo luogo vi è anche la volontà “umanistica” di emulare l’esperienza di un antico, Filippo di Macedonia, quale è stata tramandata dagli scrittori classici. Sono insomma motivazioni squisitamente “laiche”: di conseguenza il primo significato allegorico dell’ascesa al monte è la conquista del mondo esteriore, raggiunta vincendo difficoltà e ostacoli grazie ad un’energica virtù umana (in questo, lo spirito che muove inizialmente Petrarca può ricordare quello dell’Ulisse dantesco). Ma poi, raggiunta la meta, la cima del monte, il significato allegorico dell’ascesa muta profondamente. Infatti le prime riflessioni suscitate dalla vista del paesaggio (le Alpi che segnano il confine dell’Italia) vengono a costituire un esame di coscienza, un bilancio interiore. La vista del mondo esterno, faticosamente conquistata, spinge Petrarca soprattutto ad indagare se stesso. Il bilancio mira a saggiare i cambiamenti operatisi in lui rispetto alla prima giovinezza, il disgusto per le colpe e le turpitudini degli anni passati. È questo un passo esemplare dell’inquieta esplorazione interiore che è costante nell’opera petrarchesca: lucidamente, lo scrittore sa vedere a fondo nel proprio animo, mette in luce «quel doppio uomo» che è in lui, dissolve gli autoinganni con cui cerca di mascherare a se stesso le proprie colpe e le proprie vergogne: «Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità» (rr. 106107). L’esame di coscienza si conclude con un’aspirazione alla purificazione dell’animo, che porti alla serenità e al superamento dei conflitti.
> L’illuminazione decisiva
Questo passaggio psicologico prepara l’illuminazione decisiva, la presa di coscienza centrale di tutta l’esperienza dell’ascesa: la scoperta che la conquista del mondo esteriore è vana e che ciò che veramente conta è la conoscenza dell’interiorità. Come gli aveva insegnato il maestro Agostino, Petrarca arriva a capire che la verità abita nell’interiorità dell’uomo. Non è un caso quindi se, nel disegno esemplare del racconto, egli sceglie una frase di Agostino come fonte della sua presa di coscienza («E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti [...] e trascurano se stessi», rr. 145-149). Come si vede, il significato dell’ascesa al monte si rovescia, rispetto a quanto appariva all’inizio: da conquista “laica” del mondo esteriore diviene allegoria del superamento delle lusinghe terrene e della conquista della verità e della salvezza spirituale. Ma è da notare che l’illuminazione del passo agostiniano era stata preparata dal ricordo della sapienza dei «filosofi pagani» (Seneca, per l’esattezza): essi avevano insegnato a Petrarca che «niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande» (rr. 155-156). Si può verificare qui quanto si era anticipato: per Petrarca non vi è contrasto tra la cultura classica e il cristianesimo; l’insegnamento degli antichi avvia a quella saggezza, che è la base anche della sapienza cristiana.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quale comportamento assume Gherardo rispetto a Francesco? Quale significato attribuisci ad esso? AnALIzzAre
> 2. Quali elementi formali di questa lettera appartengono al genere epistolografico? > 3. A quale esigenza risponde la costante, progressiva e graduale citazione di autori, personaggi, situazioni e testi del passato? Elencali sinteticamente. > 4. Scegli liberamente, nell’ambito del testo, un passo particolarmente significativo per ognuna delle seguenti categorie: a) azioni; b) pensieri; c) descrizioni. Commentane quindi l’efficacia sul piano dell’espressione, secondo l’esempio proposto. Esempio: Azioni: «Partimmo … e molto a stento», rr. 25-27: l’inizio del viaggio, sottolineato dai verbi al passato, viene narrato nella fase preparatoria alla salita tanto attesa, di cui si ribadisce la difficoltà attraverso una forma avverbiale in conclusione.
APProfondIre e InTerPreTAre
> 5.
Testi a confronto: esporre oralmente Il motivo del viaggio inteso come allegoria dell’esistenza, posto al centro della lettera, ti invita a riflettere sulle diverse situazioni narrative e a confrontarle con il I canto dell’Inferno di Dante ( cap. 4, T15, p. 300). Completa la tabella, secondo esempio proposto, e utilizzala per effettuare oralmente (max 5 minuti) un paragone tra i due testi, ricorrendo anche ad opportuni riferimenti testuali.
Familiari
Inferno, I
Il monte
Il......................................................................................................................................................................................................................................... colle illuminato dal sole
L’ascesa
.........................................................................................................................................................................................................................................
Le difficoltà del percorso
.........................................................................................................................................................................................................................................
L’atteggiamento dubbioso e timoroso di Petrarca
.........................................................................................................................................................................................................................................
La felice conclusione dell’esperienza per Petrarca
.........................................................................................................................................................................................................................................
PASSATo e PreSenTe La verità è ancora dentro di noi?
> 6. La verità del nostro “io” è oggi ancora dentro di noi, nelle profondità insondabili del nostro animo, o al di
fuori di noi, nel mondo reale e virtuale in cui viviamo? Esponi la tua posizione personale dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe sul tema scaturito dalla lettura di questa lettera.
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Incontro con l’Opera Il Canzoniere
5
Il disprezzo per il volgare
La maggior dignità del latino
L’innalzamento del volgare
Dante, Petrarca e il volgare
414
Petrarca e il volgare
Videolezione
Mappa interattiva
Si è già osservato come la massima parte dell’opera petrarchesca sia scritta in latino. In volgare sono solo le liriche del Canzoniere e un poema allegorico, i Trionfi, rimasto incompiuto. È curioso per noi, oggi, constatare che Petrarca si attendeva la fama e l’immortalità presso i posteri non da quello che noi unanimemente consideriamo il suo capolavoro, ma dalle opere latine. Egli riteneva di essere il continuatore degli autori classici, colui che riportava in vita il gusto del bello e la magnanimità di sentire che erano stati propri della civiltà latina, e per questo si proponeva di emulare gli antichi scrivendo poemi epici come Virgilio, storie come Livio, epistole come Cicerone. Per contro, ostentava di tenere in poco conto le proprie liriche in volgare, come componimenti di dignità minore, tanto da definirle “inezie, bazzecole”. Ma questo atteggiamento è contraddetto dalla cura con cui lavorò per anni, sino agli ultimi giorni di vita, a limare e a rendere perfetti i suoi versi volgari, a ordinare e ad arricchire la loro raccolta. Ciò non vuol dire che l’atteggiamento di sufficienza verso la poesia volgare fosse solo una posa esteriore e falsa. Petrarca era effettivamente convinto della maggior dignità del latino. Lo si può verificare chiaramente nella lettera in cui discute con Boccaccio della Commedia, dove, pur riconoscendo la grandezza di Dante, sostiene che avrebbe raggiunto un più alto livello letterario se avesse usato la lingua di Roma. Però egli era persuaso (e lo afferma esplicitamente) che la letteratura latina avesse toccato un culmine di perfezione che non poteva più essere superato: in quel campo, dunque, non restava che imitare gli antichi, riprodurre i loro temi e le loro forme. La lingua volgare invece offriva un campo aperto, un terreno pressoché vergine per chi volesse raggiungere l’eccellenza poetica. Ciò spiega l’impegno accanito a perfezionare i suoi versi volgari. Egli si prefiggeva una duplice impresa: da un lato ridar lustro alla lingua antica, restaurandone la genuina classicità, il lessico, la sintassi, i procedimenti retorici, dall’altro elevare la lingua volgare alla dignità formale del latino. Pur convinto che la lingua per eccellenza della letteratura fosse il latino, Petrarca voleva dimostrare che era possibile far poesia di livello alto anche in volgare. Questo duplice sforzo di Petrarca è storicamente significativo e denso di anticipazioni del futuro. Nell’età successiva, quella del pieno Umanesimo e quella rinascimentale, si avrà in un primo tempo una rinascita ed un predominio del latino, poi si affermerà una letteratura in lingua volgare modellata sui classici. Ma se vogliamo spingere lo sguardo verso il passato, oltre che verso il futuro, tale atteggiamento ci consente di cogliere la distanza che ancora una volta separa Petrarca da Dante. Questi puntava tutto sul volgare, si lanciava in un’appassionata difesa di esso, come lingua della prosa filosofico-scientifica e della poesia lirica; concepiva un vero e proprio trattato di retorica per codificare la nuova lingua letteraria, nel suo stile sublime (il De vulgari eloquentia), ed in questa lingua osava addirittura scrivere il «poema sacro», che doveva abbracciare la totalità del reale, «e cielo e terra». Con Petrarca si ha un percorso per così dire all’inverso, in quanto il latino riconquista la sua supremazia. Ma non è veramente un tornare indietro: il
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
latino petrarchesco non è più il latino medievale, bensì una lingua che mira a riprodurre l’idioma letterario antico in tutta la sua purezza. E se accanto al latino viene accolto e consacrato letterariamente anche il volgare, esso non ha più nulla a che vedere con la lingua di Dante, quella lingua multiforme e ricca di tensioni interne, ma è una lingua selezionata e raffinatissima, che vuole uniformarsi alla compostezza e regolarità del latino.
La formazione del Canzoniere
Le varie redazioni Il manoscritto definitivo
Il titolo
Petrarca cominciò a scrivere versi in volgare sin dalla prima giovinezza, probabilmente quando era a Bologna a seguire i corsi di diritto, e continuò sino agli ultimi anni di vita. Ben presto pensò anche a raccogliere organicamente le sue liriche, e copie di queste redazioni ancora parziali sono giunte sino a noi. Gli studiosi sono riusciti a ricostruire ben nove redazioni successive della raccolta. La sistemazione definitiva risale proprio all’ultimo anno di vita del poeta, il 1374, ed è contenuta nel manoscritto Vaticano 3195, in parte di pugno del Petrarca stesso. È quindi un fatto di eccezionale importanza possedere un’opera del tardo Medioevo, nella stesura definitiva, in buona parte autografa: ciò evita quelle incertezze nella trasmissione testuale che sono proprie dei testi anteriori alla stampa (si pensi solo al caso della Commedia, per cui è impresa ardua stabilire un testo attendibile). Egualmente prezioso è un altro codice petrarchesco della Biblioteca Vaticana, il cosiddetto “codice degli abbozzi”, che contiene stesure diverse di numerosi componimenti, con note a margine di pugno del poeta, e ci permette di seguire da vicino l’assiduo, accanito lavoro di Petrarca, che corregge, sostituisce o sposta una parola, sino a quando il verso non raggiunge quella che ai suoi occhi è la perfezione. Il titolo che Petrarca pone sul manoscritto definitivo è Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose in volgare”), in cui si può cogliere la punta di sufficienza che il poeta ostentava nei confronti delle sue liriche in volgare. L’opera si suole anche designare con la formula Rime sparse, ricavata dal primo verso del sonetto che funge da proemio («Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono»), oppure, più semplicemente, come Canzoniere. Esso è costituito da 366 componimenti, quindi ripeterebbe il numero dei giorni dell’anno, escludendo quello proemiale. In massima parte si tratta di sonetti (317), ma anche di canzoni, ballate, sestine, tutte le forme metriche consacrate dalla tradizione lirica precedente, dai trovatori provenzali ai rimatori siciliani agli stilnovisti.
L’amore per Laura
Una passione terrena
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Testi Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno • I’ vo piangendo i miei passati tempi dal Canzoniere
Testo interattivo Tutta la mia fiorita e verde etate dal Canzoniere
Il tortuoso percorso interiore che abbiamo seguito attraverso le opere latine è la via indispensabile per penetrare nel mondo del capolavoro petrarchesco. La materia quasi esclusiva del Canzoniere è costituita dall’amore del poeta per una donna, chiamata Laura, incontrata «il dì sesto d’aprile», venerdì santo, in una chiesa di Avignone, nel 1327. Nel libro si percorre il diagramma di una passione tutta umana e terrena, che non esclude l’aspetto sensuale. È un amore perpetuamente inappagato e tormentato ( T19, p. 464). Il poeta è chino su se stesso ad esplorare moti e conflitti interiori, e spesso assapora quasi il piacere di soffrire e di piangere («un certo piacere di soffrire», diceva già nel Secretum). Gli stati d’animo rappresentati dalla poesia riflettono un continuo oscillare tra poli opposti, senza mai una risoluzione definitiva: ora il poeta tesse intorno alla donna complesse architetture d’immagini, giocando simbolicamente sul nome Laura, che richiama il “lauro” poetico (sono le cosiddette rime “dafnee”, poiché Dafne, amata da Apollo, si era trasformata in alloro, T11, p. 437); ora contempla l’immagine della donna, creata dal sogno, dalla fantasia o dalla memoria (poiché Laura è sempre lontana, “altrove”, nello spazio o nel tempo, T12, p. 439, e T17, p. 459) e si nutre di vane speranze; ora lamenta la sua crudeltà e indifferenza, paragonandola ad una «fera bella e mansüeta», e invoca pietà per le proprie sofferenze; talvolta, stanco di tendere ad un fine irraggiungibile e di sopportare vani tormenti, si protende verso la liberazione e la pace interiore, elevando la sua preghiera a Dio ( T10, p. 435), e confessa che di tanto «vaneggiar» unico frutto è la 415
L’età comunale in Italia
In morte di Laura
L’aspirazione alla pace
vergogna, il pentimento e il conoscere chiaramente «che quanto piace al mondo è breve sogno» ( T5, p. 422); ma nonostante tutto la forza della passione lo riprende e lo domina, riconducendolo alla vicenda ben nota di sogni, fantasticherie, desideri, lacrime, sospiri. Questa vicenda ha una svolta con la morte della donna (1348). In tal modo il Canzoniere risulta nettamente diviso in due parti, le “rime in vita” e le “rime in morte” di Laura. Alla morte della donna amata il mondo sembra improvvisamente scolorire, farsi vuoto e squallido ( T21, p. 469). Ma non per questo la passione si estingue. Il poeta si volge indietro con desolato rimpianto verso un tempo che non può ritornare, crede ancora di vedere Laura come se fosse viva nei luoghi consueti, sullo sfondo di «verdi fronde» mosse dall’aria estiva o di limpide acque correnti ( T16, p. 457), oppure la vagheggia in cielo, dove si è trasferita lasciando in terra il «bel velo» corporeo che aveva suscitato in lui tanti desideri. Nel sogno Laura appare «più bella e meno altera» ( T17, p. 459), più mite e compassionevole verso le sue sofferenze. Ma dopo il lungo «vaneggiar» il poeta sente il peso del peccato e il desiderio di una purificazione; guarda con angoscia il trascorrere del tempo, che trascina con sé tutte le cose belle e fuggevoli, la vita che «fugge, e non s’arresta un’ora» e avvicina inesorabilmente l’ora della morte ( T15, p. 455). La morte non appare come un porto tranquillo in cui trovare rifugio, ma un «dubbioso passo», pieno di insidie e di pericoli. Per cui il poeta vorrebbe volgersi verso qualcosa di più saldo e duraturo che non gli ingannevoli beni terreni, verso il cielo: il libro, con la tormentata vicenda che lo percorre, si conclude con una canzone di preghiera alla Vergine, in cui il poeta esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E «pace» è appunto l’ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro.
La figura di Laura L’architettura del libro
Tra autobiografia e trasposizione letteraria
L’indefinitezza della figura di Laura
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Il poeta, nel raccogliere le sue poesie scritte in varie occasioni e su un lungo arco di tempo, benché le definisca «rime sparse» si preoccupa in realtà di ordinarle in un’architettura unitaria, in modo da delineare una precisa vicenda. Il Canzoniere, insomma, non è solo l’addizione di una serie di poesie in sé indipendenti, ma vuole offrirsi come un libro compiuto. E certo vi è alla base di esso un’esperienza reale e sinceramente vissuta. Tuttavia sarebbe sbagliato interpretarlo (come spesso è stato fatto) quale confessione diretta di vicende autobiografiche, ricavarne un “diario” o un “romanzo”, con una trama e un vero e proprio svolgimento, corrispondente alle esperienze del poeta. Sarebbe un modo di leggere moderno, romantico (prodotto cioè da una stagione culturale che ha esaltato la poesia come trascrizione spontanea dei sentimenti), che risulterebbe del tutto inadeguato alla sottile e intellettualistica tessitura della lirica medievale, che opera su convenzioni rigidamente definite. E la poesia di Petrarca è pur sempre un prodotto della cultura medievale, sia pure dell’“autunno” del Medioevo; ma comunque il discorso non cambierebbe di molto per la cultura classicistica e cortigiana del Rinascimento. Quindi, se nel Canzoniere si delinea una vicenda, essa non è identificabile immediatamente con l’esperienza vissuta dal poeta, ma va considerata come una trasfigurazione letteraria, come una costruzione ideale, esemplare, che segue determinati codici, e quindi allontana e sfuma la realtà da cui prende le mosse. Già per la poesia stilnovistica e per la Vita nuova si era sottolineata l’atmosfera rarefatta e irrealistica in cui erano immersi attori e situazioni della vicenda d’amore. Col Canzoniere questa atmosfera si fa ancora più impalpabile. È vero, come è sempre stato messo in rilievo, che Laura è molto più umana delle remote e inattingibili immagini femminili degli stilnovisti e di Dante, poiché rientra in una dimensione psicologica più viva e mossa, più vicina all’esperienza comune, e poiché è inserita nella dimensione del tempo, sottoposta alla sua azione disgregatrice. Tuttavia è ben lontana dall’avere la concretezza corposa di un personaggio reale. Compaiono spesso nel Canzoniere notazioni riferite alla sua bellezza fisica, ma la sua figura resta oltremodo evanescente: i vari particolari su cui il poeta insiste, i «capei d’oro», il «vago lume» dei «begli occhi», il «dolce riso», le «rose vermiglie» delle
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Galleria di immagini Il volto di Laura
labbra, la «neve» del viso, il collo «ov’ogni latte perderia sua prova», il «bel giovenil petto», le «man bianche e sottili», l’«angelico seno» della gonna, il «bel fianco», il «bel piè», gli «atti soavemente alteri», l’«andar» che non è «cosa mortale, ma d’angelica forma», non compongono un’immagine definita, ma rispondono ad un formulario tradizionale ed hanno l’eleganza astratta di una cifra, di un emblema. L’immagine complessiva di Laura, quale resta nella memoria dopo la lettura del Canzoniere, è il vago profilo di una bella donna bionda, che si staglia di regola su un ridente sfondo naturale.
Il paesaggio e le situazioni della vicenda amorosa Il paesaggio idillico
L’assenza della realtà storica
L’unica realtà è quella interiore
Anche il paesaggio non si delinea nell’urgenza materiale e sensibile delle sue forme, dei suoi colori, dei suoi profumi, e risulta anch’esso da elementi estremamente stilizzati: erbe, fiori, fronde, monti, selve, acque limpide, cieli sereni, tutti gli elementi che compongono l’immagine del locus amoenus (“luogo ameno”) consacrata da una lunga tradizione, che risale ai poeti classici e giunge sino ai trovatori e agli stilnovisti ( T9, p. 433, e T18, p. 461). Un’analoga mancanza di concretezza realistica presentano le situazioni e gli episodi in cui si articola la vicenda amorosa: apparizioni di Laura, saluti e sguardi negati o concessi, smarrimenti del poeta, sogni e fantasticherie, passeggiate solitarie, notti insonni, colloqui con la natura, lacrime, sospiri: sono tutte, dal più al meno, situazioni codificate dalla lirica amorosa precedente, dalla Provenza alla Toscana stilnovistica. Insomma, nel Canzoniere non si compone una trama di eventi esteriori, di fatti corposi, che si articolino nella successione cronologica di una vicenda vissuta. E come la natura si assottiglia in uno stilizzato arabesco, e la privata vicenda amorosa sfuma in una vaga sequenza di situazioni stereotipate, così è quasi del tutto assente dalla poesia del Canzoniere il mondo della storia contemporanea con i suoi conflitti, quel mondo che si imponeva con violenta immediatezza nella Commedia (se si eccettuano due canzoni politiche, Italia mia e Spirto gentil, e pochi altri componimenti, come i sonetti contro la corruzione della Curia avignonese). L’orizzonte della poesia, che con il poema dantesco si era allargato ad abbracciare il reale in tutte le sue manifestazioni, dal caotico mondo della storia umana all’immobile perfezione del mondo divino, torna nuovamente a restringersi entro i limiti di un’esperienza squisitamente soggettiva e privata. Leggendo il Canzoniere si ha l’impressione che la realtà esterna non esista, se non come remota e pallida memoria, o cifra puramente allusiva, e che l’unica e autentica realtà sia l’interiorità del poeta.
Laura e Amore trasformano Petrarca in pianta di alloro, 1550 ca., affresco, Arquà (Padova), Casa di Francesco Petrarca, Stanza delle metamorfosi.
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L’età comunale in Italia
Il “dissidio” petrarchesco L’amore come simbolo di una generale condizione interiore
L’aspirazione all’assoluto e la labilità delle cose
Testi Passa la nave mia colma d’oblio • Quanto più m’avicino al giorno estremo • I’vo piangendo i miei passati tempi • Quel rosignuol, che sì soave piagne dal Canzoniere •
L’assenza di soluzioni
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Se per Petrarca l’unica realtà che conta è quella interiore, la sua poesia, più che come racconto di una vicenda d’amore, va letta come lucida analisi della coscienza. La tormentata esperienza d’amore è assunta come simbolo di un’esperienza più vasta, sentimentale, intellettuale e religiosa insieme, quella già analizzata nelle prose latine di confessione. Il tema amoroso per il poeta non è che l’occasione per concentrare intorno ad un nucleo stabile l’accanita esplorazione interiore, l’esame dei suoi sentimenti oscillanti e contraddittori e delle sue preoccupazioni morali e religiose, la stanchezza e il peso della carne, la vergogna per la debolezza del volere e la schiavitù del peccato, gli aneliti di purificazione e i ripiegamenti delusi. Anche nel Canzoniere si impone in piena evidenza quel dissidio interiore che era stato così acutamente analizzato nel Secretum. Ciò che caratterizza la spiritualità di Petrarca è un bisogno di assoluto, di eterno, di un approdo stabile in cui l’animo trovi una «pace» perfetta. In contrasto con queste aspirazioni fondamentali, egli sente con angoscia la labilità di tutte le cose umane. Come attesta l’ultimo verso del sonetto che funge da proemio al libro, in lui è chiara la consapevolezza che «quanto piace al mondo è breve sogno» ( T5, p. 422). Tutti i piaceri e le gioie che gli uomini inseguono affannosamente, impiegando nella ricerca il loro tempo e le loro forze, sono illusioni effimere, destinate a dissolversi col sopraggiungere della realtà ultima e definitiva, la morte ( T7, p. 428). La gloria, che Petrarca stesso tanto desidera, è cosa vana, che non appaga e che si dilegua subito; anche l’amore è un sogno, che la realtà delude. Gli occhi di Laura, i «duo bei lumi, assai più che ’l sol chiari», nella morte sono diventati anch’essi «terra oscura»; e questa misera fine insegna «come nulla qua giù diletta e dura». Nella poesia petrarchesca risuonano spesso gli accenti del medievale disprezzo del mondo e dei piaceri materiali. Da questa delusione deriva al poeta una continua inquietudine, un senso di inappagamento perpetuo ( T17, p. 459; T20, p. 466; T22, p. 486). Già nel Secretum affermava, riecheggiando sant’Agostino, «sento qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre». Deluso dalla vita terrena, stanco sotto il «fascio antico» del peccato che grava su di lui, vorrebbe rivolgersi interamente al cielo, abbandonare ogni vanità, condurre una vita assolutamente pura. Perciò, nella sua interna architettura, il Canzoniere vorrebbe offrirsi, secondo il modello medievale della “conversione” consacrato dalle Confessioni di sant’Agostino e dalla Commedia dantesca, come la vicenda di un’anima che si libera dalle impurità umane e si innalza a Dio, trovando in lui la pace e la salvezza. Il disegno è evidente nell’ordinamento della raccolta che, dopo aver tracciato il percorso dei «perduti giorni» e delle «notti vaneggiando spese» ( T10, p. 435), si conclude con la preghiera alla Vergine e con l’invocazione alla «pace». Ma il Canzoniere non è la Commedia: il viaggio dell’anima non può concludersi, e il dissidio interiore al termine del libro non trova una soluzione (come già non la trovava nel Secretum). Per usare un’immagine della Commedia, mentre Dante scrive la sua opera quando già è uscito «fuor del pelago a la riva» e può voltarsi a guardare ormai al sicuro l’«acqua perigliosa», Petrarca compone il Canzoniere quando è ancora immerso nelle acque tempestose; anzi, dinanzi a sé, per tutto il corso della vita, non vede che tempesta, anche in quello che dovrebbe essere il «porto», la morte («veggio al mio navigar turbati i vènti; / veggio fortuna [fortunale, tempesta] in porto»). Se il poeta è inappagato dall’umano, non può neppure trovare la pace e la liberazione in Dio: al mondo e ai suoi beni resta, comunque, indissolubilmente legato. Ma ciò avviene perché il suo ideale autentico non è il semplice rifiuto del mondo, bensì la conciliazione del divino e dell’umano: assicurare alle cose terrene la stabilità delle cose celesti, che le preservi dalla corrosione del tempo e della morte e tolga alle gioie della terra il loro
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Il sogno di una conciliazione tra umano e divino
carattere peccaminoso, conferendo ad esse piena e totale dignità. E il suo tormento si origina dalla coscienza dell’irrealizzabilità di questo sogno. Quindi il “dissidio” di Petrarca si apre non tanto, come si suole genericamente indicare, tra carne e spirito, umano e divino, ma tra una concezione ascetica, che impone una totale rinuncia al mondo per trovare la pienezza e la beatitudine, e il sogno impossibile di una conciliazione tra terra e cielo, che dia pieno valore alle cose umane (Bosco). Alla luce di queste considerazioni si può dire che il Canzoniere, come il Secretum, riflette non solo una crisi individuale, ma la crisi di un’epoca: mentre il conflitto tra terra e cielo era tipico della visione medievale, la conciliazione tra umano e divino sarà invece il grande sogno filosofico del Rinascimento ( T13, p. 444; T14, p. 453).
Il superamento dei conflitti nella forma
Il filtro letterario
I modelli letterari
La ricomposizione dei dissidi nella forma
Testo critico N. Sapegno
Poiché la materia della poesia petrarchesca è questo groviglio di contraddizioni e di inquietudini senza soluzione, sarebbe lecito aspettarsi che le tensioni interiori si esprimessero in una forma tormentata e involuta. Invece la dizione poetica del Canzoniere è limpida, equilibrata, armoniosamente perfetta, dotata di una miracolosa fluidità musicale. Il fatto è che per Petrarca la poesia è bensì esplorazione accanita dei processi interiori, ma non sfogo immediato del sentimento. I conflitti dell’animo non si riversano sulla pagina con il calore e la violenza scomposta con cui nascono nell’intimo, ma devono sempre passare come attraverso un filtro, che li decanta e li purifica: e ciò che assume questa funzione di filtro è la letteratura. Petrarca ha un concetto altissimo del decoro e della disciplina formali ed è colmo di ammirazione per i classici antichi che di quel decoro rappresentano ai suoi occhi il modello insuperabile. Per questo li tiene sempre presenti nello scrivere e si sforza anche nella sua poesia volgare di riprodurne le forme armoniose ed eleganti. La conseguenza è che i sentimenti del poeta, per quanto intensamente e sinceramente vissuti, si esprimono sempre attraverso formule, cadenze, immagini consacrate dalla letteratura antica. Nei testi del Canzoniere è possibile trovare una serie innumerevole di reminiscenze letterarie, citazioni, soluzioni stilistiche tratte da altri poeti; e non solo dai prediletti autori latini, ma anche dai testi biblici (specie i Salmi), dagli scrittori cristiani, e persino dai “classici” moderni, i trovatori, i siciliani, gli stilnovisti, Dante. Non si tratta di un esercizio artificioso e freddamente erudito, ma di un processo in certo qual modo spontaneo: quelle formule, quelle immagini fanno parte della coscienza di Petrarca allo stesso modo dei suoi sentimenti; perciò il suo mondo interiore, al momento di esprimersi, ricorre naturalmente alle reminiscenze letterarie. E proprio nel calarsi entro formule fissate dalla tradizione letteraria, nel comporsi entro la limpida e rigorosa dizione di un classico, la sua tormentata esperienza interiore trova come una conferma e una consacrazione solenne, e al tempo stesso una chiarificazione e una purificazione. Alla stessa esigenza di chiarezza e decantazione risponde la cura della perfezione formale, il minuziosissimo, assiduo lavoro di lima che il poeta applica ai suoi versi, affinché non vi resti nulla di grezzo, di approssimativo, di scomposto. In tal modo il dissidio interiore, se non può essere superato nei fatti, viene almeno fissato in forme limpide ed equilibrate, può essere contemplato in una luce ferma e pacata e può trovare una sorta di ricomposizione nel nitore della bella pagina, classicamente atteggiata. Il poeta stesso dimostra di avere piena coscienza della funzione del classicismo formale della sua poesia quando afferma: «Cantando il duol si disacerba»: raggiungere il perfetto dominio della forma è per lui l’unico modo per raggiungere il dominio di un mondo interiore inquieto e lacerato, e per attingere ad una forma di catarsi (Sapegno). 419
L’età comunale in Italia
Classicismo formale e crisi interiore
La selezione del reale
L’assenza di un inquadramento unitario del reale
Il classicismo come conseguenza della crisi spirituale
Ma per conquistare questo dominio è necessario un esercizio quasi ascetico di rinuncia. Nel poema dantesco, come si è visto, aveva trovato la più piena realizzazione la tendenza medievale alla mescolanza degli stili, che rovesciava la separazione classica: nella Commedia Dante raccoglieva impavidamente tutti i molteplici aspetti della realtà, dai più elevati e spirituali ai più materiali e plebei. Petrarca, al contrario, torna ad operare nella realtà una rigorosissima selezione, escludendo dall’ambito della poesia ogni aspetto concreto o umile della vita quotidiana. Lo si è constatato già nelle prose latine, ma ciò è tanto più vero per le liriche del Canzoniere. La matrice di questo diverso modo di accostarsi alla realtà è da individuare nella crisi della coscienza petrarchesca. Dante poteva riversare nella poesia tutto il reale nella molteplicità dei suoi aspetti perché possedeva un saldo e organico sistema concettuale, che gli permetteva di inquadrare e dominare la realtà, in quanto ogni elemento nell’ordine universale trovava una collocazione e un senso. Petrarca non possiede più questo sistema; anzi, come si è visto, rifiuta esplicitamente, e con vigore, il sistema filosofico della Scolastica a cui Dante faceva riferimento. Per lui l’unica realtà certa, di cui si può dare autentica conoscenza, è l’interiorità. Per questo Petrarca esclude dalla poesia tutte quelle presenze che sa di non poter sistemare entro i termini di un inquadramento concettuale; per questo si chiude nell’interiorità e la realtà esterna, il mondo della natura, la stessa bellezza fisica della donna amata sono così rarefatti, assottigliati, privati di ogni urgenza materiale e di ogni carattere troppo concretamente particolare. L’unico dominio che gli è consentito è quello formale, letterario, sui moti della propria anima. Il classicismo formale di Petrarca, che si manifesta come selezione e idealizzazione del reale, viene così ad essere la diretta conseguenza della sua crisi spirituale, della sua impossibilità ad attingere a definitive certezze, della sua rinuncia ad affrontare nella poesia il vasto mondo esterno e della sua concentrazione esclusiva sul mondo interiore. Come ha affermato Contini con una formula pregnante, «è il suo romanticismo che è condizione del suo classicismo».
Lingua e stile del Canzoniere
Il plurilinguismo dantesco
L’unilinguismo di Petrarca
Il ripudio dell’asprezza linguistica dantesca
420
Questo diverso modo di accostarsi al reale si riflette inevitabilmente sulla lingua e sullo stile. Nella Commedia la molteplicità di presenze reali si traduceva nella molteplicità di piani linguistici: Dante mescolava materiali provenienti dai campi più diversi, i dialetti, il latino, la lingua d’oc e quella d’oïl, coniava neologismi vertiginosi, accostava termini crudi e plebei a quelli designanti le realtà più sublimi e cercava deliberatamente lo scontro tra i vari livelli, le dissonanze e gli stridori, al fine di potenziare la carica espressiva del suo linguaggio. Per questo si è parlato di “plurilinguismo dantesco” ( cap. 4, p. 287). La rigorosa selezione a cui Petrarca sottopone il reale, invece, si traduce in una lingua che impiega un numero ristrettissimo di vocaboli; non solo, ma il linguaggio petrarchesco è anche rigorosamente uniforme: i pochi termini ammessi sono attinti tra quelli più piani e generici. Petrarca rifiuta ogni parola troppo corposa e precisa, troppo realistica ed espressiva, troppo aulica e rara o troppo pedestre, ed evita ogni scontro violento tra livelli stilistici, ogni stridore di suono e significato. Contini, per definire lo stile petrarchesco, ha parlato di «unilinguismo». Nessuna parola spicca mai, come intensa macchia di colore, nel tessuto del discorso: esso tende piuttosto a creare un tono medio, un’armonia d’insieme in cui nessun particolare predomini. Di qui nasce l’impressione di levigatezza, di nitore, di semplicità, di piana scorrevolezza, di dolce fluidità musicale comunicata dai versi petrarcheschi. Come il poeta stesso afferma, il suo assiduo, infaticabile lavoro di lima sui testi tende a «far soavi e chiare» le rime «aspre e fosche». In queste parole, e soprattutto nel termine chiave «aspre», si può forse cogliere una segreta allusione allo stile dantesco, quel
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
La spiritualità medievale e il gusto classico
Dante che proclamava nelle rime petrose «Così nel mio parlar voglio esser aspro» e che nella Commedia invocava le «rime aspre e chiocce» per dipingere convenientemente il «tristo buco» infernale: un’allusione che suona come un fermo ripudio, un’inconciliabile discordanza di gusto. In sintesi la fisionomia complessiva del capolavoro petrarchesco risulta dalla quasi miracolosa fusione di due aspetti apparentemente antitetici; da un lato l’inquieta e tormentata visione di un’epoca di crisi e di trapasso della civiltà, ancora tutta impregnata di spiritualità cristiano-medievale; dall’altro un gusto poetico eminentemente classicistico. Questo secondo aspetto del Canzoniere inaugura una tendenza destinata a dominare per molti secoli nella letteratura italiana, una tendenza le cui caratteristiche salienti saranno un ideale altissimo di perfezione formale e di aulica dignità, una selezione schifiltosa degli aspetti della vita reale e la sovrapposizione costante di un velo letterario sulla rappresentazione della realtà e sull’espressione dei sentimenti. Questo gusto si affermerà soprattutto in età rinascimentale, tra Quattro e Cinquecento, resterà vivo nell’età barocca e tornerà pienamente in auge nel Settecento e nel primo Ottocento neoclassico.
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Autori a confronto dAnTe
Dante e Petrarca PeTrArCA
Mantiene uno stretto legame con la realtà municipale
Cambia spesso luogo di residenza ed è aperto ad un “panorama nazionale”
Partecipa attivamente alla vita politica del Comune di Firenze (modello dell’intellettuale cittadino)
Si dispone al servizio dei grandi signori (modello dell’intellettuale cortigiano)
Crede fermamente nell’ordine perfetto e divino del Creato e nella possibilità di dominare tutte le manifestazioni del reale attraverso rigorosi schemi concettuali (modelli: Aristotele e san Tommaso)
Rinuncia a inquadrare in un sistema la complessità del reale e si rinchiude esclusivamente nella contemplazione soggettiva della sua interiorità (modello: sant’Agostino)
Assimila figure e temi della cultura classica e li adatta alla propria visione della realtà
Acquista coscienza del distacco tra mondo antico e presente e si accosta ai testi antichi con maggior senso della prospettiva storica
Supera la teoria della separazione degli stili elaborata dalla cultura classica e mescola nelle sue opere sublime e quotidiano (plurilinguismo)
Ristabilisce la teoria della separazione degli stili, procede ad una rigida selezione dei vocaboli e usa un linguaggio piano e uniforme (unilinguismo)
Riconosce la nobiltà del latino, ma ritiene che il volgare sia più indicato per esprimere compiutamente tutti gli aspetti della realtà
Ritiene che il latino sia l’unica lingua della cultura e su imitazione di questa tenta di innalzare il volgare, per proporre una norma linguistica raffinata ed elegante
Descrive la figura della donna amata (Beatrice) come una creatura sovrannaturale e inaccessibile, che viene esaltata in tutto il suo valore simbolico e rappresenta il mezzo per raggiungere la salvezza (dimensione teologica e metafisica)
Delinea la figura della donna amata (Laura) in modo più concreto e fisico e analizza il sentimento d’amore come una forza incontrollabile che ostacola il raggiungimento della pace interiore (dimensione soggettiva e psicologica)
421
L’età comunale in Italia
T5
Analisi interattiva
voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
Temi chiave
• l’amore come errore giovanile • la vergogna e il pentimento del poeta • la vanità di tutte le cose
dal Canzoniere, I
Il sonetto è posto come proemio all’intero libro. Fu composto probabilmente nel 1347, quando Petrarca metteva mano al secondo ordinamento della raccolta, ma forse fu già concepito nel 1343, all’epoca del Secretum, alla cui tematica è vicino.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
4
Voi ch’ascoltate1 in rime sparse2 il suono di quei sospiri ond’io nudriva ’l core3 in sul mio primo giovenile errore4 quand’era in parte altr’uom5 da quel ch’i’ sono,
8
del vario stile6 in ch’io piango e ragiono fra le vane speranze e ’l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore7, spero trovar pietà, nonché perdono.
11
Ma ben veggio or sì come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno;
14
e del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto, e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.
Audio
versi 1-4 O voi che ascoltate in (queste) poesie staccate fra di loro (sparse) il suono di quei sospiri con i quali (ond’) io alimentavo il cuore al tempo del mio primitivo traviamento (errore), iniziato durante la giovinezza, quando ero in parte un uomo diverso (altro) da quello che sono (ora). 1.Voi ch’ascoltate: espressione vocativa che si estende all’intera quartina, quasi staccandola rispetto al resto del componimento; la quartina successiva, infatti, non riprende, come ci aspetteremmo, la seconda persona plurale, ma muta, con una sottile forma di anacoluto, la costruzione, passando alla terza (chi) e poi alla prima persona singolare (spero). Gli ascoltatori ai quali si rivolge Petrarca
non sono delle presenze fisicamente identificabili, di fronte alle quali la poesia debba essere letta; si tratta di un lettore ideale, che, per poterla intendere e apprezzare, deve possedere una particolare predisposizione intellettuale e sentimentale. 2. rime sparse: è la traduzione poetica del titolo latino, Rerum vulgarium fragmenta. 3. core: personificato, attraverso l’espressione metaforica del verbo, come sede della passione amorosa. 4. errore: ha anche il senso etimologico di “errare”, ossia vagare qua e là senza meta, dopo aver perso la retta via. Si riferisce all’amore per Laura. 5. in parte altr’uom: è solo in parte diverso
da quello che era in passato, dal momento che, nonostante il trascorrere del tempo e il pentimento dell’età matura, la passione non si è ancora estinta. versi 5-8 spero di trovare pietà, non solo (nonché) perdono, del (mio) stile mutevole (vario) nel quale (in ch’) io piango e ragiono, fra le speranze inutili (vane) e l’inutile dolore, se c’è qualcuno che conosca il significato (intenda) dell’amore, per averlo direttamente provato (per prova). 6. del vario stile: è retto da spero trovar pietà, v. 8. Il vario stile corrisponde alle rime sparse del verso iniziale e riguarda la diversità delle soluzioni stilistiche, a seconda dei sentimenti che muovono il poeta: in particolare le speranze e il dolore, come poli estremi di una oscillazione psicologica cui corrispondono, in forma di chiasmo, i verbi piango e ragiono (quest’ultimo indica un andamento più razionalmente espositivo, che riguarda soprattutto, però, il ragionamento amoroso). Contini ha visto qui un’opposizione fra le «poesie in vita e poesie in morte dell’amata»; ma l’interpretazione ci sembra troppo rigida, e finisce per tradire il carattere mutevole e volutamente oscillante dell’intero Canzoniere. 7. ove sia … amore: il verso precisa le caratteristiche del “lettore modello” che Petrarca prevede per le sue poesie. versi 9-14 Ma vedo chiaramente (ben) adesso come per lungo tempo fui oggetto di chiacchiere (favola) da parte della gente (popol tutto), per cui (onde) spesso mi vergogno di me medesimo con me stesso (meco); e il frutto della mia follia (vaneggiar) è la vergogna, il pentimento, e il conoscere chiaramente che tutti i piaceri terreni (quanto … mondo) sono vani come un breve sogno (che subito svanisce).
Pesare le parole Favola (v. 10)
> Deriva dal latino fàbulam. Nel sonetto petrarchesco la > Nella lingua più arcaica e in quella letteraria si può tro-
>
422
parola ha il significato di “oggetto di chiacchiere, dicerie” (e in tale accezione è in uso ancora oggi: es. per il suo comportamento è la favola del paese). Il senso più corrente nella lingua attuale è però “breve narrazione avente per oggetto fatti immaginari, i cui protagonisti sono animali o cose (le favole di Esopo, di Fedro)” o “racconto popolare di argomento fantastico, con personaggi immaginari quali fate, gnomi, streghe, avente spesso intenti morali ed educativi” (es. le favole dei fratelli Grimm). Di qui deriva il senso traslato di “cosa inventata” (es. non raccontar favole).
>
vare anche la forma contratta fola (Leopardi, La ginestra, v. 154: «superbe fole»). Sempre da fàbulam viene anche fiaba, ma attraverso la forma del latino parlato flabam. Da fàbulam proviene ancora confabulare (cum + fabulàri, “parlare con qualcuno”), “conversare a bassa voce, in disparte, in un’atmosfera di segretezza”. Sempre dalla radice di fàbulam, ma dal diminutivo fabèllam, derivano favella, “facoltà di parlare”, e favellare, “parlare, discorrere”, termini dotti e letterari, non più in uso nella lingua parlata oggi, se non in qualche modo di dire, come “perdere, acquistare la favella”.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Analisi del testo
> I motivi
L’incoerente oscillare
La speranza di trovar pietà
La vanità del tutto
La catarsi nella forma
In questo sonetto, che è posto all’inizio della raccolta ma risale ad anni già abbastanza avanzati, il poeta si volge indietro a considerare l’esperienza amorosa che ha occupato un lungo periodo della sua esistenza ed insieme la produzione poetica che ne è stata il frutto. Il bilancio è severamente negativo. Il nutrire il cuore di sospiri amorosi è stato un «errore», perché ha generato un oscillare incoerente fra «speranze» e «dolore», e tutto ciò è stato un disperdersi tra cose «vane». Il poeta può trarre questo bilancio perché è ormai «altr’uom» da quello che era, ha superato l’errore (anche se solo «in parte», poiché il superamento non è approdato e non approderà mai ad una conversione definitiva). La condanna non colpisce solo moralmente il comportamento, ma anche il frutto letterario di quell’errore: cioè il «vario stile», l’oscillare tra temi diversi, senza coerenza e organicità, che dà origine a «rime sparse». La severa analisi della coscienza, e il bilancio negativo che ne scaturisce, sono confortati, nella seconda quartina, dalla speranza di trovare compassione e pietà, non solo perdono, nel pubblico dei lettori, almeno in una cerchia limitata, coloro che hanno anch’essi provato quell’errore. Ma la speranza cade subito, quando il poeta riflette su come sia stato «gran tempo» la «favola» della gente. Non c’è scampo alla vergogna. Per questo il discorso nelle due terzine si fa più duro e amaro. L’ultima terzina sintetizza il bilancio negativo con un’implacabile concatenazione logica: l’amore è stato un «vaneggiar», una follia nel seguire cose vane; il frutto che ne è derivato è la «vergogna»; conseguenza di questa è il pentimento, e del pentimento, a sua volta, la lucida consapevolezza della vanità di tutte le cose. L’incalzare della requisitoria sfocia nella secca sentenza che conclude il sonetto, «che quanto piace al mondo è breve sogno». È il riecheggiamento di una famosa sentenza d’un testo biblico, l’Ecclesiaste, vanitas vanitatum et omnia vanitas (“vanità delle vanità, e tutto è vanità”). È una conclusione desolata: ma trova espressione in una forma limpida e precisa, e per di più consacrata dall’autorità di un modello antico. Si può vedere scattare qui il processo di cui si è parlato, la catarsi che le contraddizioni interiori raggiungono nel comporsi entro la bella forma letteraria ( Il superamento dei conflitti nella forma, p. 419).
> Gli aspetti formali
La costruzione a chiasmo
La sintassi riproduce il tortuoso percorso interiore
Questo vale per tutta l’organizzazione formale del sonetto. Si può constatare subito, in apertura di libro, quanto si diceva, che il torbido groviglio di contraddizioni e di sensi di colpa, che ne costituisce la materia, si esprime in forme armoniose e perfette. Verifichiamo ciò ai vari livelli del discorso poetico. Livello sintattico Il sonetto poggia su un’architettura sintattica rigorosa, studiatissima (come sempre, in Petrarca). Nella prima quartina il vocativo iniziale, «Voi», trova espansione in una lunga serie di subordinate: la relativa «ch’ascoltate», da cui dipende l’altra relativa «ond’io nudriva», da cui dipende ancora la temporale «quand’era». Nella seconda quartina si ha una simmetria rovesciata: il nucleo germinale del periodo, da cui si diparte la serie di complementi e di proposizioni subordinate, non è più collocato all’inizio della strofa (come era il «Voi»), ma al fondo: «spero», nel verso conclusivo (v. 8). Vi è cioè una studiata costruzione a chiasmo. Osservando nella sua globalità questo ampio periodo sintattico che abbraccia le due quartine, risalta la grande distanza frapposta tra il destinatario dell’invocazione («Voi») e l’invocazione stessa («spero trovar pietà», v. 8). In mezzo vi è un lungo percorso, in cui il discorso sembra ristagnare, o divergere in direzioni impreviste, in obbedienza a improvvise associazioni. La struttura sintattica pare così riprodurre il tortuoso percorso dell’esame interiore, arduo, problematico e doloroso. Ma, appunto come si osservava, nonostante questa tortuosità non si ha la sensazione del groviglio, del caos, perché il tutto è regolato dall’armoniosa costruzione architettonica della sintassi. 423
L’età comunale in Italia
Lo stacco fra quartine e terzine
Le rime vocaliche e consonantiche
Gli aggettivi negativi
Le allitterazioni
I tempi verbali
Il fonema /v/
424
Vi è una bipartizione netta tra quartine e terzine: più secca è infatti la struttura sintattica delle terzine, in coerenza con il tono più duro e desolato della seconda parte del sonetto, come testimonia l’andamento rotto e faticoso dei versi 9 e 11. La terzina finale è caratterizzata da una struttura a brevi membri, legati dal polisindeto: «e del mio vaneggiar [...] e ’l pentersi, e ’l conoscer». L’incalzare di coordinate del polisindeto rende il senso incalzante dell’analisi dell’io, che si stringe in una concatenazione logica senza vie di scampo (vaneggiar ➝ vergogna ➝ pentimento ➝ conoscer chiaramente). Livello metrico La bipartizione tra quartine e terzine, tra invocazione speranzosa di pietà e ripiegamento sulla severa condanna di sé, è segnata anche dalle rime: nelle quartine si hanno tutte rime con sillaba aperta, -ono, -ore, cioè rime vocaliche; nelle terzine invece con sillaba chiusa, -utto, -ente, con scontro di consonanti (Amaturo). Il suono più duro risponde alla maggiore durezza dell’impietosa conclusione del bilancio. Significativa poi è la cesura al verso 4, «quand’era in parte altr’uom // da quel ch’i’ sono», dopo il troncamento del sostantivo «uom»: essa vale a sottolineare la frattura col passato, la diversità, sia pur parziale, dell’uomo di ora da quello antico. Livello lessicale Gli aggettivi nel sonetto sono pochi e molto sobri. Ma è significativo che si tratti costantemente di aggettivi dal valore negativo: «sparse», «vario», «vane», «van», «breve». L’aggettivazione costruisce una serrata trama verbale, che mette in risalto un tema dominante, nel sonetto come in generale nell’opera petrarchesca, la vanità delle cose mondane e la debolezza incoerente di chi le segue. Un aggettivo sembra restare escluso da questa trama: «giovenile»; ma in realtà ne fa parte anch’esso, e lo chiarisce il sostantivo a cui si accoppia, «errore»: la gioventù è appunto il tempo del «vaneggiar», del correre dietro alle cose vane. Livello retorico Si è già sottolineata una costruzione a chiasmo. Si possono notare ancora le allitterazioni. Un esempio: «me medesmo meco mi» mette in rilievo il pronome di prima persona, che ricorre sempre nelle forme oblique (cioè pronomi nelle forme che hanno funzione di complemento indiretto). Il «frangersi e moltiplicarsi del pronome personale nelle forme oggettivate e oblique» riflette una «scissione ed oggettivazione del soggetto» (Noferi): infatti vi è nel sonetto una scissione dell’io, che è sia soggetto sia oggetto della scrittura, colui che scrive e colui di cui si scrive. Livello morfologico Il bilancio tratto nel sonetto è un confronto tra la vita passata (il tempo dell’errore) e la presente (il tempo del pentimento), per cui è essenziale e significativa nella poesia l’oscillazione dei tempi verbali, fra il passato e il presente («nudriva», «era», «fui» – «sono», «veggio», «mi vergogno», «è»). Fin dal sonetto iniziale del libro Petrarca mette in primo piano quella dimensione del tempo che è centrale nella sua poesia. Del tempo Petrarca sente angosciosamente il fluire, che trascina con sé tutte le cose; di qui il senso della precarietà dell’esistere e della vanità delle realtà terrene, che è la nota che chiude il sonetto. Livello fonico L’unità architettonica del sonetto è cementata anche dal ricorrere costante di determinati fonemi, come la /v/, che non a caso connota la serie «vane»-«vaneggiar»-«vergogna». Si può notare anche il gioco tra «veggio» e «vaneggiar», in cui tornano gruppi fonemici identici; ma le due parole hanno valore semantico opposto, indicando l’uno la chiarezza della presa di coscienza attuale e l’altro la follia di un tempo.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Qual è l’argomento trattato nel sonetto? > 2. Riassumi il contenuto delle terzine in circa 12 righe (600 caratteri). ANALIZZARE
> 3.
Stile Completa la tabella rintracciando nel sonetto gli elementi tipici dell’exordium classico, indicando anche i versi di riferimento, secondo l’esempio proposto.
Elementi dell’exordium
Versi
Testo
captatio
1 ...............................................................................................................................
«Voi ch’ascoltate» ...............................................................................................................................
8 ...............................................................................................................................
...............................................................................................................................
richiamo al genere e allo stile adottati
...............................................................................................................................
...............................................................................................................................
anticipazione della materia trattata
...............................................................................................................................
...............................................................................................................................
> 4.
Stile In che modo le parole in rima nelle quartine e nelle terzine aiutano il lettore a cogliere i temi centrali del libro? > 5. Lessico Rifletti sul significato del verbo «vaneggiar» (v. 12).
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Scrivere Il Canzoniere si inserisce nel solco di una tradizione letteraria, quella della lirica d’amore, che dai provenzali agli stilnovisti giunge fino a Dante: rintraccia, a partire da questo sonetto proemiale e facendo riferimento alla storia dell’amore per Laura, gli elementi di continuità e le novità rispetto al passato. Scrivi un testo di circa 10 righe (500 caratteri). > 7. Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato attentamente l’immagine, rispondi alle seguenti domande. a) Com’è rappresentato l’ambiente circostante alle due figure? b) Quali caratteristiche presenta l’abbigliamento del poeta? E quello di Laura? c) Quali gesti li caratterizzano?
Petrarca e Laura, 1470, miniatura da Rime e Trionfi di Francesco Petrarca, part., incunabolo Ven. 546, Venezia, Libreria Marciana.
PER IL RECUPERO
> 8. A chi si rivolge Petrarca? A quale tipo di pubblico? Che cosa sta a significare l’espressione «per prova»? > 9. Che cosa chiede, infine, il poeta? > 10. Spiega le espressioni «rime sparse» (v. 1) e «vario stile» (v. 5). > 11. Dopo aver sottolineato nel testo le forme verbali, distingui quelle al passato da quelle al presente. Quale dialettica si instaura tra l’io che scrive nel presente e l’io che è vissuto nel passato?
PER IL POTENZIAMENTO
> 12.
Scrivere Scrivi un testo di circa 24 righe (1200 caratteri) sulla lingua e sullo stile del Canzoniere, mettendo in rilievo come l’autore superi, a livello formale, quel dissidio interiore caratteristico del suo animo (puoi consultare il manuale ai seguenti paragrafi: Il superamento dei conflitti nella forma, p. 419; Lingua e stile del Canzoniere, p. 420).
425
L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
T6
era il giorno ch’al sol si scoloraro dal Canzoniere, III
Temi chiave
• la rievocazione del giorno dell’innamoramento
• il parallelismo tra la sofferenza del poeta e quella di Cristo
Il sonetto fu abbozzato il 30 novembre 1349, come apprendiamo da una nota del manoscritto degli abbozzi (Vaticano 3196).
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, DCE.
4
Era il giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo fattore i rai1, quando i’ fui preso2, e non me ne guardai3, ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.
8
Tempo non mi parea da far riparo contra colpi d’Amor: però4 m’andai secur, senza sospetto5; onde i miei guai nel commune dolor s’incominciaro.
11
Trovommi Amor del tutto disarmato ed aperta la via per gli occhi al core, che di lagrime son fatti uscio e varco:
14
però al mio parer non li fu onore ferir me de saetta in quello stato, a voi armata non mostrar pur l’arco.
1. Era … rai: perifrasi per indicare il Venerdì Santo, in cui si commemora la Passione di Cristo, corrispondente al 6 aprile 1327: il giorno in cui i raggi (rai) del sole si oscurarono (si scoloraro) per il dolore e la pietà nei confronti del loro creatore (fattore). Si ricollega al Vangelo di Luca: «Il sole si oscurò». 2. preso: catturato, in quanto i begli occhi della donna lo legarono, come indica la me-
tafora ripresa nel verso successivo (mi legaro). 3. non … guardai: non mi misi in guardia (ma ha piuttosto la funzione subordinata di: mentre non stavo in guardia). Riprendendo e variando l’immagine metaforica prima ricordata, il verbo ritorna, con calcolato procedimento simmetrico, all’inizio della seconda quartina: il poeta era privo di difese dal momento che il giorno, consacrato al lutto e al
dolore, sembrava escludere ogni pericolo, inducendolo a non cercare riparo (nel senso, proprio della tecnica militare, di guardia difensiva), contro i colpi che Amore poteva portare. 4. però: perciò (causale). 5. senza sospetto: è variazione minima del secur che precede. Contini ha richiamato in proposito il v. 129 di Inferno V («soli eravamo e sanza alcun sospetto»).
Analisi del testo
> Un parallelismo che nasconde un’antitesi
Le sofferenze del poeta e la Passione di Cristo
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Il sonetto rievoca il giorno dell’innamoramento per Laura, stabilendo una corrispondenza con il giorno della Passione, il Venerdì Santo. Alla base del discorso vi è dunque un parallelismo voluto: le sofferenze del poeta hanno inizio nel giorno della sofferenza di Cristo e di tutti i cristiani (vv. 7-8). Ma il parallelismo cela un’antitesi implicita: quello del poeta è un dolore vano («’l van dolore», T5, p. 422) e colpevole, a differenza di quello del Redentore e dei fedeli; quando Cristo muore per salvare gli uomini e tutti i cristiani sono afflitti, il poeta si fa prendere nei lacci di una passione profana e sensuale.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
La perdita di ogni valenza religiosa dell’amore
I richiami alla poesia cortese e stilnovistica
La coincidenza assume un carattere quasi empio: siamo di nuovo di fronte ad una confessione e ad un’analisi della coscienza che va a fondo ad esplorare miserie e colpe (anche se il poeta adduce la scusante che è stato colto di sorpresa, nel momento in cui era più lontano dal sospettare un’insidia, cioè durante una mesta ricorrenza religiosa). Il parallelismo tra la sofferenza del poeta e quella di Cristo, se paragonato ai parallelismi simbolici che ricorrono nella poesia amorosa dantesca, permette di cogliere la distanza che separa i due poeti. Nella Vita nuova i segni che accompagnano la morte di Beatrice (nella visione premonitrice di Dante) sono gli stessi della morte di Gesù: con questo Dante vuol sottolineare il significato mistico della donna, che è «figura» di Cristo. In Petrarca invece l’amore per la donna e l’immagine di Cristo sono in opposizione, anzi, l’amore è di ostacolo alla salvezza. Non solo, ma in Petrarca scompaiono i sensi teologici e simbolici attribuiti all’amore: domina la pura dimensione esistenziale, psicologica e morale, lo scavo accanito nella coscienza, a frugare debolezze umane e colpe.
> La sofisticata costruzione letteraria
Ma il parallelismo collocato nel cuore del sonetto è anche un chiaro indizio di un altro suo aspetto fondamentale, il suo carattere di sofisticata costruzione letteraria. Viene innanzitutto ripetuta qui tutta una serie di tópoi della poesia cortese e stilnovistica: i begli occhi della donna che legano l’amante, Amore personificato che ferisce con le sue saette il cuore, Amore che arriva al cuore attraverso gli occhi (Voi che per li occhi mi passaste ’l core di Cavalcanti, cap. 2, T9, p. 162). Spia del carattere tutto letterario del sonetto sono poi altre antitesi, che non hanno la valenza esistenziale e problematica di quella con la Passione di Cristo, ma rientrano solo in un compiaciuto gioco letterario: il poeta disarmato che viene ferito da Amore, mentre la donna armata viene risparmiata; gli occhi che sono la via al cuore, e al tempo stesso «uscio e varco» alle «lagrime» (v. 11). Questi procedimenti formali rasentano il concettismo, cioè il gioco metaforico cerebrale e fine a se stesso. Non a caso questo aspetto artificioso fu poi sviluppato dal petrarchismo successivo. Il sonetto, insomma, è un esempio del Petrarca più “letterato” e manierato.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Svolgi la parafrasi delle due terzine. AnALIzzAre
> 2. Quali elementi del testo contribuiscono a collocare la vicenda amorosa in un tempo passato? > 3. Stile Individua le allitterazioni in /s/ presenti nel testo. > 4. Stile Analizza la rima «varco»/«arco»: quale particolarità presenta? > 5. Lingua Individua nel testo i complementi di causa e le congiunzioni subordinanti causali, motivandone la frequenza.
APProfondIre e InTerPreTAre
> 6.
Testi a confronto: esporre oralmente Confrontando il sonetto con la poesia Voi che per li occhi mi passaste ‘l core di Guido Cavalcanti ( cap. 2, T9, p. 162): a) elenca, distinguendoli nei due testi, tutti i vocaboli o le espressioni che rimandano ad una valenza “militare” dell’amore; b) spiega, anche con l’ausilio di un dizionario etimologico on line, il significato del termine «fattore» (v. 2) presente nel testo petrarchesco; c) individua nel testo cavalcantiano i vocaboli che rimandano alla sfera della psiche: sono in egual misura presenti anche nel testo petrarchesco?
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L’età comunale in Italia
T7
Se la mia vita da l’aspro tormento dal Canzoniere, XII
Temi chiave
• l’umanizzazione della figura femminile • il trascorrere inesorabile del tempo • la pietà della donna in età ormai avanzata
Alcuni fanno risalire il componimento al periodo avignonese, altri lo ritengono più tardo, posteriore al 1350.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.
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Se la mia vita da l’aspro tormento si può tanto schermire, e dagli affanni, ch’i’ veggia1 per vertù degli ultimi anni2, Donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,
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e i cape’ d’oro fin farsi d’argento, e lassar le ghirlande e i verdi panni, e ’l viso scolorir, che ne’ miei danni a lamentar mi fa pauroso e lento3;
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pur mi darà4 tanta baldanza Amore, ch’i’ vi discovrirò de’ mei martiri qua’ sono stati gli anni, e i giorni e l’ore5;
versi 1-11 Se la mia vita si può difendere (schermire) dall’aspro tormento amoroso e dagli affanni tanto a lungo che io, donna, arrivando sino alla vecchiaia (ultimi anni) veda spenta la luminosità dei vostri begli occhi, e i capelli d’oro imbiancarsi (farsi d’argento) ed essere abbandonati (lassar) ornamenti e vestiti di vivaci colori adatti all’età giovanile (verdi panni), e scolorire quel viso che ora mi rende timido e lento a
lamentarmi nel mio dolore; finalmente (pur) Amore mi darà tanto coraggio che io vi rivelerò quali siano stati gli anni, i giorni e le ore delle mie sofferenze. 1. veggia: il verbo regge il complemento oggetto il lume, con il predicativo dell’oggetto spento, e poi tre infinitive, con verbo riflessivo, farsi, o transitivo passivo, lassar, o intransitivo, scolorir. 2. per vertù … anni: arrivando alla vecchia-
ia, potrà veder invecchiare anche Laura. 3. ne’ miei … lento: pur soffrendo, l’amante è reso così timido dalla vista della bella donna che non osa lamentarsi. 4. mi darà: è il verbo reggente di tutto il lungo periodo che occupa i versi 1-11. 5. vi discovrirò … ore: ricostruirò la storia delle mie sofferenze seguendole dettagliatamente anno per anno, giorno per giorno, ora per ora.
Scuola veneta, Petrarca nei panni di Apollo suona la lira da braccio in un ampio paesaggio con due conigli, 1500 ca., da Canzoniere, Trionfi, Nota de Laura, Fragmentum cuiusdam epistulae, codice I.12, Trieste, Biblioteca Civica.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
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e se ’l tempo è contrario ai be’ desiri, non fia ch’almen non6 giunga al mio dolore alcun soccorso di tardi sospiri.
versi 12-14 E se l’età (avanzata) non sarà più adatta ai desideri amorosi, arriverà alme-
no qualche conforto (soccorso) di tardi sospiri (di Laura) al mio dolore.
6. non … non: le due negazioni si annullano, dando origine a un’affermazione.
Analisi del testo
> I temi
La donna sottoposta al tempo
Il tema della fuga del tempo
La fantasticheria consolatoria
La pietà dell’amata
Un unico, ampio periodo sintattico
I polisindeti
La doppia negazione Il gioco delle rime
La poesia presenta un tema di fortissima originalità rispetto alla tradizione della lirica amorosa cortese, stilnovistica e dantesca: la donna non è una creatura più che umana, immobilizzata nella sua perfezione fuori del divenire temporale, ma una creatura tutta terrena, soggetta alle miserie della carne e sottoposta all’azione corruttrice del tempo. Il poeta spinge lo sguardo al futuro, agli ultimi anni della vita, e immagina come sarà divenuta nella vecchiaia la donna bellissima che ora gli provoca tanti affanni e tanti tormenti. Il tema sarà ripreso più avanti nel Canzoniere da un sonetto molto famoso e significativo, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi ( T11, p. 437). All’umanizzazione della figura femminile si associa un altro grande tema petrarchesco, quello dell’inesorabile trascorrere del tempo che muta o cancella ogni cosa, tema in cui è implicita la consapevolezza del carattere precario ed effimero della vita e delle realtà mondane. Ma, pur nella malinconica prospettiva di questo decadimento fisico della donna, il poeta trova il modo di abbandonarsi, come è sua consuetudine, a una fantasticheria intorno all’amata, che può fornirgli una forma di consolazione. Nella vecchiaia Amore gli darà ancora la baldanza per confessare a Laura tutta la storia delle sue sofferenze, che evidentemente adesso, non osando svelarsi, tiene chiuse nel segreto della sua anima. L’azione del tempo non consentirà più l’appagamento dei suoi desideri, ma almeno il suo dolore troverà il conforto dei sospiri pietosi della donna, che nella tarda età, intenerita all’udire la storia dell’amante e sicura che la propria virtù non corra più rischi, abbandonerà la durezza fino allora dimostrata e potrà muoversi finalmente a pietà, anche se ormai tardi.
> Gli aspetti formali
Colpisce del sonetto la particolare struttura sintattica: i primi undici versi costituiscono un unico, ampio periodo, di carattere ipotetico, di cui la protasi, con la proposizione condizionale introdotta dal «Se», occupa le due quartine, e l’apodosi la prima terzina. L’ampiezza del periodo rende il senso dell’abbandono all’onda delle fantasticherie, in cui il poeta si immerge interamente. Dal punto di vista stilistico si può notare anche il polisindeto (vv. 4-7), con l’incalzare della serie di «e» che scandisce l’affollarsi delle immagini della donna ormai sfiorita nella fantasia del poeta. Il polisindeto torna nel sintagma «gli anni, e i giorni e l’ore» (v. 11), a rendere la presenza costante, incombente, dei «martiri» amorosi in ogni momento della sua esistenza. Da notare ancora la doppia negazione «non fia ch’almen non giunga» (v. 13), che conferisce alla frase un andamento tortuoso e faticoso, quasi a tradire il carattere incerto di questo sogno consolatorio. Non è privo di significato anche il gioco delle rime: «Amore» rima con «dolore», a sottolineare l’identificazione dei due sentimenti, e con «ore», a mettere in rilievo la presenza costante di essi nel vissuto del poeta. Così «martiri» rima con «desiri», coppia che riprende il tema precedente, e, in chiusura del componimento, con i «sospiri» dell’amata, che dovrebbero essere il balsamo capace di lenire la sofferenza. 429
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Spiega, in base alla lettura del sonetto, la definizione di «fantasticheria» data nell’Analisi del testo, riferita alla rivelazione a Laura del tormento d’amore da parte del poeta.
AnALIzzAre
> 2.
Stile Quale particolarità osservi nelle rime «affanni» / «anni» / «panni» / «danni» (vv. 2, 3, 6, 7) e «Amore» / «ore» / «dolore» (vv. 9, 11, 13)? > 3. Stile Individua nel testo l’anafora e spiegane la funzione in rapporto al tema trattato. > 4. Stile Individua le metafore presenti nel testo e spiegane la funzione. > 5. Lessico Individua nel testo il lessico dell’interiorità di Petrarca presente anche in altre liriche del Canzoniere. > 6. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni, nel sonetto, sono solitamente riferiti all’aspetto fisico di Laura e quali al suo comportamento? > 7. Lingua Individua nel testo un secondo periodo ipotetico, meno ampio di quello con cui si apre il sonetto, distinguendo in esso la protasi e l’apodosi. > 8. Lingua Da quale forma verbale dipendono gli infiniti «farsi», «lassar», «scolorir» (vv. 5, 6, 7)? Di quale costrutto si tratta?
APProfondIre e InTerPreTAre
> 9.
Audio
esporre oralmente La rappresentazione che Petrarca propone di se stesso muta con il trascorrere del tempo? In un’esposizione orale (max 3 minuti) motiva la tua risposta. > 10. Altri linguaggi: musica I cantautori italiani Fabrizio De André e Angelo Branduardi, rispettivamente nel 1964 e nel 1986, realizzarono brani musicali – Valzer per un amore (o campestre) e Quando tu sarai – ispirati al tema trattato dal sonetto di Petrarca seppure attraverso gli echi nel tempo di Ronsard e di Yeats. Dopo aver ascoltato le due canzoni e averne analizzato i testi, esprimi le tue personali considerazioni sulla “vitalità” e validità del tema anche in ambiti diversi dalla letteratura.
Fabrizio De André, 2010, fotografia, da Fabrizio De André. La Mostra, Roma, Museo dell’Ara Pacis.
SCrITTUrA CreATIvA
> 11. Prendendo a modello la lezione di Petrarca sia per la sua profondità, sia per la capacità di analisi dell’animo
umano, come immagini te stesso/a e la persona che ami in un lontano futuro? Ipotizza il contesto in cui collocare un giorno di ordinaria quotidianità di una vita a due, e scrivine il resoconto come se si trattasse di una pagina di diario redatta a fine giornata in circa 40 righe (2000 caratteri).
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
T8
movesi il vecchierel canuto e bianco
Temi chiave
• il contrasto tra amor sacro e amor profano
• l’irrequietezza del poeta • la vanità della ricerca di Laura
dal Canzoniere, XVI Si è formulata l’ipotesi che il sonetto sia stato scritto durante un soggiorno a Roma nel 1337, ma sono stati avanzati dubbi.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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Movesi il vecchierel1 canuto e bianco2 del dolce loco ov’à sua età fornita3 e da la famigliuola sbigottita che vede il caro padre venir manco4;
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indi traendo poi l’antiquo fianco5 per l’estreme giornate di sua vita6, quanto più pò, col buon voler s’aita7, rotto dagli anni, e dal camino stanco8;
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e viene a Roma, seguendo ’l desio, per mirar la sembianza di colui9 ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:
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così, lasso10, talor vo cercand’io, donna, quanto è possibile, in altrui11 la disïata vostra forma vera12.
1. Movesi il vecchierel: primo termine di una similitudine di cui il secondo è al verso 12. Il vecchio lascia la famiglia per recarsi in pellegrinaggio. 2. canuto e bianco: dai capelli bianchi, palli-
do in volto. Altri intende bianco come sinonimo di canuto. 3. del dolce loco … fornita: dal luogo al quale sono legate le memorie a lui care e dove ha trascorso la sua vita.
4. venir manco: venir meno, partire, senza ragionevole certezza di un ritorno. 5. indi … fianco: quindi trascinando poi il corpo vecchio (e stanco). Fianco è una sineddoche. 6. per … vita: per gli ultimi giorni della sua vita. 7. col buon … s’aita: con la buona volontà sopperisce alla forza fisica. 8. rotto … stanco: disfatto dall’età, stanco per il lungo cammino. Si noti il chiasmo. 9. la sembianza di colui: la vera icona (o Veronica), l’immagine del volto di Cristo, conservata in San Pietro. Si tratta di un velo con cui, secondo una leggenda, una donna avrebbe deterso il volto di Cristo, bagnato di sudore e sangue durante la Passione, cosicché la sua immagine vi sarebbe rimasta miracolosamente impressa. 10. lasso: ahimè. 11. in altrui: in altre donne. 12. la … vera: l’effigie vera del vostro bel volto, che desidero ardentemente vedere
Competenze attivate
Analisi attiva
• Leggere, comprendere ed interpretare
testi letterari: poesia
ComPrendere
> ricerca sacra e ricerca profana
Il sonetto, tra i più noti del Petrarca, si fonda su una similitudine tra il vecchio pellegrino che cerca nella Veronica le sembianze di Cristo e il poeta che cerca nel viso di altre donne la «disïata [...] forma» di Laura. Sembra, a prima vista, l’illustrazione di una particolarità della psicologia amorosa. In realtà, sotto la similitudine, si cela un contrasto implicito, tra la devota aspirazione religiosa del «vecchierel» e la ricerca tutta profana dell’innamorato, prigioniero di un desiderio terreno.
> 1. Dopo aver fatto la parafrasi del sonetto, individua le due parti, di lunghezza diseguale, in cui esso è diviso.
> 2. La vicenda del pellegrino che lascia tutto e si reca a Roma è ricostruita con singolare ampiezza ed è articolata in tre momenti: la partenza, il viaggio, l’arrivo. Indica quale spazio essi occupano rispettivamente nel testo e spiegane sinteticamente i contenuti.
> 3. Nella seconda terzina l’attenzione si sposta, a sorpresa, sulla condizione del poeta. Quale verso chiarisce che l’avventura del «vecchierel» costituisce il primo termine di una similitudine?
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L’età comunale in Italia
AnALIzzAre
> Il contrasto della struttura sintattica
La terzina finale opera un rovesciamento di prospettiva rispetto alle strofe precedenti. Il contrasto tra le due parti si traduce nella struttura sintattica, che è strettamente legata al contenuto. Le tre strofe dedicate al «vecchierel» si svolgono secondo un ampio e lento movimento sintattico, articolato in tre proposizioni tra loro coordinate («indi […] poi […] e […]»), ricche di complementi e subordinate. Il movimento è solenne ma fluido. La terzina finale è invece secca e concisa, e al tempo stesso il suo andamento è spezzato e faticoso, rotto da numerosi incisi e da continue pause («lasso», «donna» e «quanto è possibile»), che gli conferiscono un carattere tipicamente raziocinante.
> Il contrasto tra lo sguardo del vecchio e quello dell’amante
Oltre al contrasto nel movimento sintattico vi è ancora il contrasto tra lo sguardo del vecchio rivolto al cielo e quello dell’amante rivolto alle cose terrene, fra l’amore per le cose celesti e l’amor profano.
> Il motivo della vecchiaia
Al motivo religioso si collega quello della vecchiaia, che evoca il trascorrere del tempo che distrugge le cose umane, il peso della carne che si accentua con l’avanzare degli anni; il «vecchierel» diviene quasi l’allegoria della vita umana, carica di fatiche e di miserie, e insieme dell’aspirazione dell’uomo a una liberazione («lassù nel ciel vedere spera» v. 11).
> Il motivo della pietà e degli affetti
Il motivo pessimistico della debolezza creaturale dell’uomo è tuttavia mitigato dal motivo della pietà degli affetti («dolce loco», «caro padre»).
> 4. Il mutamento di ritmo a livello sintattico tra le prime tre strofe e l’ultima assume un particolare significato espressivo. Quale, a tuo parere? > 5. Quali tratti accomunano la vicenda del pellegrino a quella del poeta? Da quali simmetrie e riprese lessicali è messa in risalto la corrispondenza?
> 6. Quali tratti distinguono invece il pellegrino e il poeta, tenendo presente le differenti mete del loro vagabondare?
> 7. L’effetto di contrasto è sottolineato ai versi 10 e 13 dalla rima, che oppone «colui» ad «altrui». Chiarisci il significato dei due termini nel testo. > 8. Cerca gli aggettivi e i participi che insistono sulla stanchezza fisica e la fragilità del pellegrino.
> 9. Quale figura retorica riconosci nel sintagma «l’antiquo fianco» (v. 5)? Spiega in che cosa consiste questa figura retorica. > 10. Il gioco delle rime in o nelle due quartine contribuisce a mettere in evidenza il tema? Motiva la tua risposta.
> 11. Rileva i diminutivi e gli altri aggettivi che conferiscono alla scena un clima di dolcezza e di affettuosa intimità.
APProfondIre e InTerPreTAre
> L’antitesi sacro-profano e la centralità dell’io lirico
Sia il pellegrino sia l’io lirico sono animati da una forte aspirazione che si manifesta tuttavia con diverso segno e in direzione opposta. Quella del «vecchierel» comporta la separazione dal luogo natio e dagli affetti più cari in nome di ideali spirituali e della salvezza dell’anima. Deviando dalla fede, l’aspirazione del poeta è invece tutta tesa al conseguimento di un desiderio terreno. Al centro del componimento si pone l’inquietudine del poeta, accentuata dalla consapevolezza della vanità di una ricerca destinata comunque al fallimento. Rispetto al vecchio, con cui condivide nonostante la giovane età il sentimento della fugacità del tempo, egli è di fatto molto più infelice.
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> 12. Leggi attentamente il dialogo del Secretum ( T2, p. 394) in cui Agostino contrappone la concezione cristiana dell’amore a quella cortese proposta da Francesco e accusa il poeta di aver amato Laura più di Dio («Ha distolto l’animo tuo dall’amore del divino, dal Creatore lo ha indirizzato a desiderare la creatura. Questa, e solo questa, è stata la via più rapida verso la morte»). Alla luce di quel brano, quale significato assume qui l’accostamento tra il pellegrino e il poeta?
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Analisi interattiva
T9
Solo e pensoso i più deserti campi
• il desiderio di solitudine • la natura partecipe delle pene
dal Canzoniere, XXXV
• la sofferenza e il colloquio interiore
Temi chiave
d’amore
Il sonetto risale probabilmente al 1342.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti, e gli occhi porto per fuggire intenti ove1 vestigio uman l’arena stampi.
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Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi:
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sì ch’io mi credo omai che monti e piagge e fiumi e selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui.
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Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch’2Amor non venga sempre ragionando con meco, ed io con lui.
versi 1-4 Solo e pensieroso percorro (vo mesurando) con lentezza (a … tardi) le località più solitarie (deserti campi), e volgo attorno (porto) con attenzione (intenti) lo sguardo per evitare luoghi segnati da tracce umane (ove … stampi). 1. ove: vale al tempo stesso come avverbio di luogo (dove) e come congiunzione condizionale (qualora).
versi 5-8 Non trovo altro riparo (schermo) che mi permetta di sfuggire (mi scampi) all’evidente (manifesto) accorgersi (della mia condizione) da parte degli altri (de le genti), infatti dai miei atteggiamenti mesti (d’alegrezza spenti) si comprende chiaramente (di fuor si legge) come io arda (avampi) dentro di me: versi 9-14 tanto che io ormai sono per-
suaso che monti, campagne (piagge) e fiumi e selve avvertano di quale genere (tempre) sia la mia vita, che nascondo all’indiscrezione degli altri. Ma tuttavia (pur) non riesco a trovare (cercar non so) strade tanto (sì) impervie (aspre) né tanto isolate (selvagge) che Amore non mi segua parlando con me (venga … ragionando) ed io con lui. 2. ch’: dipende da sì aspre e sì selvagge.
Analisi del testo
> I motivi
Il paesaggio stilizzato
La sofferenza interiore
Al centro del sonetto vi è il motivo della solitudine, che deve salvare il poeta dalla vergogna di rivelare agli altri uomini il suo tormento interiore, chiaramente leggibile nel suo aspetto mesto e malinconico. Il motivo richiama il sonetto proemiale Voi ch’ascoltate ( T5, p. 422): «al popol tutto / favola fui gran tempo». Fuggendo gli uomini, egli stabilisce però un legame con la natura, che diviene come partecipe e confidente delle sue pene. Il paesaggio, come è consueto in Petrarca, è privo di concretezza realistica e di urgenza fisica, materiale, ed è evocato con notazioni estremamente generiche («deserti campi») o addirittura con serie di nudi sostantivi («monti e piagge / e fiumi e selve», vv. 9-10). La scena non si colloca in uno spazio preciso, ma è come fuori dello spazio e del tempo, posta in una dimensione che è puramente interiore (Friedrich). Ma nel fuggire gli uomini il poeta non trova scampo dalle sue sofferenze: lo accompagna pur sempre il pensiero ossessivo d’amore. La solitudine è in realtà colloquio assiduo con se stesso («sempre / ragionando con meco, ed io con lui» vv. 13-14). La materia del com433
L’età comunale in Italia
La ricomposizione nella forma
La costruzione architettonicamente proporzionata
La simmetria binaria
La scorrevolezza musicale
Le pause interne
Le metafore
Gli accenti sulle stesse vocali
ponimento è dunque la sofferenza interiore che non conosce requie, il dissidio che non trova mai soluzione: una materia tormentata e dolorosa. Però come è consueto nella poesia di Petrarca le dissonanze e le lacerazioni trovano una forma di superamento nell’armonia equilibratrice della costruzione poetica. Vediamo analiticamente attraverso quali procedimenti tecnici questo “miracolo” si realizza.
> Gli aspetti formali
Livello sintattico. La fluidità e l’armonia equilibratrice sono create in primo luogo dall’ampio giro dei periodi e dalla loro disposizione architettonicamente proporzionata. Le quartine sono divise simmetricamente in due coppie di versi (2+2, 2+2). Nella prima quartina le due coppie sono coordinate fra loro dalla congiunzione «e» che apre il secondo membro: «e gli occhi porto [...]» (v. 3). Nella seconda la coordinazione è sostituita da una proposizione causale («perché», v. 7). La simmetria ritorna anche nelle unità sintattiche minori. Spicca la costruzione architettonica delle coppie di aggettivi, «Solo e pensoso» all’inizio del verso, «tardi e lenti», in esatta simmetria, all’estremo opposto, al termine del distico. La costruzione binaria domina dunque il componimento (e la poesia petrarchesca in generale). Come ha indicato Emilio Bigi, essa sembra riflettere la lacerazione interiore, il dissidio di Petrarca; ma le armoniche simmetrie, a loro volta, rendono il senso di quella ricomposizione che Petrarca riesce a trovare nella forma. Si vede qui come una tormentata spiritualità, ancora legata al mondo cristiano medievale, si risolva in un ideale di armonia formale che ha chiare ascendenze classiche. Livello ritmico e metrico. Al di là delle simmetrie architettoniche, l’elemento che determina la fluidità del movimento poetico è il ritmo. Rarissime sono le cesure e le pause interne ai versi, e non vi sono enjambements di forte inarcatura (come quelli che separano soggetto e verbo, aggettivo e sostantivo, o simili): tutto ciò dà il senso di una impareggiabile scorrevolezza musicale. Pause interne ricorrono solo ai versi 11, 13 e 14, che, non a caso, sono i versi in cui si propone l’impossibilità di trovare scampo al tormento e si delinea l’assiduo scavo meditativo del colloquio interiore; comunque anche qui ricorrono perfette simmetrie tra i due membri dei versi separati dalle pause. Livello retorico. Raro è l’uso metaforico, coerentemente con il tono del componimento, che è come un colloquio piano e intimo. Se si eccettua l’obbligata personificazione di Amore, le metafore in tutto il sonetto sono solo due, «spenti» (v. 7) e «avampi» (v. 8). Ed anche esse sono legate dalla consueta legge binaria dell’antitesi, in quanto i due rispettivi campi semantici sono opposti. Livello fonico. Spesso, all’interno dei versi, gli accenti tonici cadono sulle stesse vocali, collegando parole semanticamente omogenee: ad esempio «Sólo e pensóso», «àspre ... selvàgge». Anche questa omogeneità delle vocali toniche contribuisce a dare un senso di fluidità al discorso poetico.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Qual è l’argomento centrale del sonetto? Che cosa desidera intensamente il poeta? Perché? > 2. Quale rapporto si instaura tra l’io lirico e la natura? > 3. Quale conclusione comporta la congiunzione «Ma» all’inizio del verso 12? AnALIzzAre
> 4. Stile Quali figure retoriche di inversione riscontri nei versi 1-2, 4, 5, 7 e 12-13? > 5. Stile «Campi» / «scampi»: di quale rima si tratta? > 6. Stile Quale funzione espressiva svolge il polisindeto «monti e piagge / e fiumi e selve» (vv. 9-10)? > 7. Lingua Sottolinea nel sonetto il nesso, tipico della lirica italiana antica, che ricorre due volte “andare/venire”
più gerundio. Quale effetto produce?
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
APProfondIre e InTerPreTAre
> 8.
Scrivere Il vero protagonista del Canzoniere è l’io del poeta. Argomenta tale assunto in un testo di circa 15 righe (750 caratteri). > 9. esporre oralmente Elabora la scaletta per un’esposizione orale (max 8 minuti) sul tema della fuga dal “mondo” e della solitudine nell’opera di Petrarca, facendo opportuni confronti con altri testi del poeta a te noti. Quale condizione interiore essi indicano? Si può cogliere nella biografia di Petrarca un riflesso di tale condizione?
Per IL reCUPero
> 10. Sottolinea nel testo i luoghi in cui il poeta ricerca la solitudine. Il paesaggio è descritto nei particolari o solo
accennato? > 11. Con l’ausilio dell’Analisi del testo, rintraccia gli elementi di quella struttura binaria che emerge nel sonetto a livello retorico, metrico e contenutistico. PASSATo e PreSenTe La reazione alla sofferenza
> 12. Il poeta cerca (inutilmente) di alleviare il suo dolore fuggendo la compagnia degli altri uomini e immer-
gendosi nella natura: come reagisci tu nei momenti di sconforto? Rispondi dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
T10
Padre del ciel, dopo i perduti giorni
Temi chiave
• l’amore come vera ossessione • il ricordo del tempo perduto nella colpa
dal Canzoniere, LXII Come si desume dal verso 9, il sonetto risale al 1338.
• la poesia come preghiera volta a ottenere la grazia divina
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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Padre del ciel1, dopo i perduti giorni2, dopo le notti vaneggiando spese3, con quel fero desio ch’al cor s’accese, mirando gli atti per mio mal sì adorni4,
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piacciati omai col Tuo lume5 ch’io torni ad altra vita ed a più belle imprese6, sì ch’avendo le reti indarno tese, il mio duro avversario se ne scorni7.
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Or volge, Signor mio, l’undecimo anno ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo8 che sopra i più soggetti è più feroce9.
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Miserere10 del mio non degno11 affanno; reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo12; ramenta lor come oggi fusti in croce13.
1. Padre del ciel: Petrarca si rivolge a Dio nei toni di una vera e propria preghiera. 2. perduti giorni: sono gli undici anni in cui fu vittima dell’amore per Laura, anni perduti, sottratti a Dio. 3. vaneggiando spese: trascorse in vane, inutili angosce.
4. con quel … adorni: tormentato dalla tremenda passione che divampò nel mio cuore, nel guardare con meraviglia i gesti di Laura, tanto attraenti, per mia sfortuna. 5. col Tuo lume: aiutato dalla tua grazia. 6. ad altra … imprese: ad una esistenza più degna e ad atti meritori.
7. sì ch’avendo … scorni: in modo che il diavolo (il mio duro avversario) dopo aver inutilmente tentato di irretirmi (avendo le reti indarno tese), risulti sconfitto. 8. Or volge … giogo: ora si compie, mio Signore, l’undicesimo anno da quando fui sottomesso alla spietata passione (al dispietato giogo) d’amore (Petrarca aveva incontrato Laura per la prima volta il 6 aprile 1327). 9. che sopra … feroce: che infierisce con più crudeltà sui più assoggettati alla passione. 10. Miserere: abbi pietà. È l’inizio del Salmo 50: «Abbi pietà di me, o Signore, secondo la tua grande misericordia». 11. non degno: perché nasce da una passione dei sensi. 12. reduci … luogo: riconduci i miei pensieri erranti lontano dal vero bene a una meta migliore (al cielo). 13. ramenta … croce: ricorda che oggi ricorre il giorno della tua crocefissione; infatti il 6 aprile, come si legge in un’annotazione di Petrarca stesso, era il giorno della passione di Cristo.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo La tematica religiosa
Il bisogno di purificazione
> La passione degradante
Il sonetto è caratterizzato da una sofferta tematica religiosa, che richiama le analisi interiori del Secretum. Innanzitutto vi è il disgusto per una passione terrena, che fa soffrire di una sofferenza degradante. L’amore è visto non come sentimento sublime che raffina l’animo, secondo le convenzioni cortesi, né come forza trascendente che innalza a Dio, secondo l’impostazione dantesca, ma come «fero desio», violento desiderio sensuale, una vera ossessione, una schiavitù che induce a sprecare l’esistenza e che impedisce una vita autentica. Da questa presa di coscienza nasce il bisogno di liberarsi dell’ossessione, di purificarsi, rivolgendo le proprie energie verso oggetti più degni e più alti. La passione amorosa diviene così l’occasione per un impietoso scavo interiore, per mettere a nudo le proprie debolezze e miserie. Sono temi già comparsi nel sonetto proemiale Voi ch’ascoltate ( T5, p. 422): torna difatti la parola chiave cara a Petrarca, “vaneggiare”.
> Passato, presente e futuro
La preghiera
La richiesta di misericordia
Il problema del rimorso e del pentimento riproduce l’oscillazione inconfondibile della poesia petrarchesca: fra il passato, come tempo della debolezza e dell’errore, e il futuro, come attesa della liberazione e del riscatto. Il presente risulta così il tempo della precarietà e dell’incertezza, che solo la fede in Dio può risolvere. Non a caso il sonetto è strutturato come una preghiera. L’invocazione a Dio, con cui si apre, è seguita dal ricordo del tempo perduto nel vaneggiamento e nella colpa; una specie di confessione, che prelude, nella quartina successiva, alla richiesta della grazia e dell’aiuto divini, per sconfiggere le forze e gli inganni del «duro avversario». Questa articolazione è riecheggiata nelle terzine (si noti, nel verso iniziale, la ripresa del vocativo, «Signor mio»): la prima ribadisce la denuncia dei propri errori, indicando con precisione il lungo tempo della condotta peccaminosa («Or volge [...] l’undecimo anno»), per sottolineare la difficoltà di sottrarsi al «dispietato giogo»; la seconda invoca la misericordia e rinnova la richiesta della grazia, ricordando il giorno della passione di Cristo. Allo scopo di ribadire la struttura prescelta, il sonetto si apre e si chiude con il riferimento a preghiere famose: il Pater noster («Padre del ciel» è una riduzione del «Padre nostro, che sei nei cieli») e il Miserere.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Dopo aver letto attentamente il testo, sintetizza la richiesta rivolta dal poeta a Dio. AnALIzzAre
> 2. A quale corrente o scuola poetica fanno riferimento i vocaboli «desio» (v. 3) e «mirando» (v. 4)? > 3. Stile Riguardo all’ordine e ai significati delle parole, quali figure si possono notare nell’espressione «dopo i
perduti giorni, / dopo le notti vaneggiando spese» (vv. 1-2)? > 4. Lingua Analizza, prendendo in considerazione soprattutto la punteggiatura, la sintassi del testo rispetto alla metrica: che cosa osservi? > 5. Lingua In quale verso, e con quale funzione, è collocata l’azione della proposizione principale del periodo che occupa le prime due quartine del sonetto? > 6. Lingua Che cosa accomuna le forme «Miserere», «reduci», «ramenta» (vv. 12-14)? Perché queste forme verbali sono concentrate, a tuo giudizio, nell’ultima terzina?
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca APProfondIre e InTerPreTAre
> 7.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 8 minuti) illustra il rapporto fra Petrarca e la fede, considerando della vita e dell’opera dell’autore sia la dimensione dell’interiorità, sia l’appartenenza al mondo ecclesiastico.
Per IL reCUPero
> 8. Quali elementi del testo autorizzano la definizione di “preghiera” per questo sonetto? > 9. Lessico «Vaneggiando» (v. 2): perché è vocabolo ricorrente nella poesia petrarchesca? In quale altro testo lo hai incontrato?
PASSATo e PreSenTe noi e la fede
> 10. Attraverso un confronto con l’insegnante e i compagni discuti il tema proposto dal sonetto, in rapporto al quale sei invitato a riflettere sull’autentico bisogno di spiritualità dell’uomo di oggi, partecipe di un contesto culturale e religioso diverso rispetto al passato, ma afflitto da problemi e ansie caratterizzanti ogni epoca.
Analisi interattiva
T11
erano i capei d’oro a l’aura sparsi dal Canzoniere, XC
Temi chiave
• la rievocazione dell’amore • l’apparizione sovrannaturale di Laura • il decadere della bellezza fisica
La datazione del sonetto non è sicura: risale forse al 1342.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, DCE.
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Erano i capei d’oro a l’aura sparsi1 che ’n mille dolci nodi gli avolgea, e ’l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;
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e ’l viso di pietosi color’ farsi, non so se vero o falso, mi parea: i’ che l’ésca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di sùbito arsi?
Audio
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Non era l’andar suo cosa mortale, ma d’angelica forma, e le parole sonavan altro, che pur voce umana.
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Uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch’i’ vidi; e se non fosse or tale, piaga per allentar d’arco non sana.
versi 1-8 I capelli color oro (di Laura) erano sparsi all’aria (aura) che li (gli) intrecciava (avolgea) in mille dolci nodi, e l’incantevole (vago) luce di quei begli occhi, che ora ne sono così privi (scarsi), ardeva in modo eccezionale (oltra misura); e mi pareva – non so se si trattasse di verità o illusione (vero o falso) – che il suo viso manifestasse un’espressione di compassione verso di me (pietosi … farsi): perché meravigliarsi (qual maraviglia) se
io, che avevo un’indole incline ad amare (l’ésca … avea), arsi immediatamente (d’amore per lei)? 1. Erano … sparsi: la presenza di Laura è occultata attraverso l’uso convenzionale del senhal l’aura ( L’età cortese, cap. 1, p. 63), che crea anche un bisticcio giocato sui termini omofoni (l’aura e Laura). Il procedimento ricorre frequentemente nel Canzoniere. versi 9-14 Il suo incedere (l’andar suo) non era proprio di un essere mortale, ma di
un’essenza (forma) angelica, e le (sue) parole avevano un suono diverso (sonavan altro) da quello della voce di una semplice creatura umana. Uno spirito celestiale, un sole divenuto vivo fu ciò che io vidi; e se pure ora non fosse più quello che era un tempo (tale), la mia ferita (piaga) (d’amore) non può guarire (non sana), come non guarisce la ferita provocata da una freccia, per quanto si allenti la corda dell’arco che l’ha scagliata (per allentar d’arco).
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo
> L’apparizione sovrannaturale
I temi di ascendenza stilnovistica
La distanza di Petrarca dai modelli
Laura patisce l’azione del tempo
Il sonetto, rievocando l’innamoramento per Laura, ha al centro il motivo dell’apparizione della donna in tutto il fulgore della sua bellezza. È un motivo di chiara ascendenza stilnovistica: lo sottolinea l’insistenza sul carattere sovrannaturale di quella bellezza e l’uso di formule tipiche, l’«angelica forma», lo «spirto celeste», le parole che suonano «altro, che pur voce umana». Il sonetto si può dunque accostare a testi celeberrimi come Io voglio del ver la mia donna laudare di Guinizzelli ( cap. 2, T7, p. 157), Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira di Cavalcanti ( cap. 2, T8, p. 160), Tanto gentile e tanto onesta pare di Dante ( cap. 4, T6, p. 247). Anche i tratti fisici della bellezza, i capelli d’oro, i begli occhi luminosi, l’incedere armonioso, richiamano le convenzioni cortesi e stilnovistiche. Ma si può misurare qui tutta la distanza che separa la poesia amorosa petrarchesca da quella stilnovistica. In quei modelli l’apparizione della donna-miracolo avveniva in un eterno presente fuori del tempo; qui invece è collocata nel corso del tempo: la figura della donna è proiettata nel passato ed è richiamata solo da un movimento della memoria. Ne deriva una conseguenza fondamentale: le donne angelo dello Stilnovismo erano creature sovrumane, di astratta, intangibile perfezione, avvolte da un’aura remota e sottratte all’azione del tempo; la bellezza di Laura, invece, essendo immersa nel fluire della temporalità, ne patisce tutta la forza distruttrice. Laura non è, nonostante la ripetizione delle formule canoniche, una creatura sovrannaturale, ma una donna, sottoposta al peso della carne mortale e alle sue miserie. È questo un motivo di straordinaria novità e originalità, tipicamente petrarchesco (sarebbe impensabile una Beatrice che invecchia e sfiorisce).
> La fuga del tempo Il tema della labilità delle cose
Il decadere della bellezza fisica precipiterà poi nella morte, che ne segnerà il disfacimento totale. È il gran tema della fuga del tempo e della labilità di tutte le cose, caro a Petrarca, che viene a coinvolgere il motivo della bellezza femminile, sacro alla poesia d’amor cortese. Per questo tutta la struttura compositiva del sonetto poggia su una contrapposizione tra passato e presente: si noti l’avverbio di tempo «or» ripetuto due volte, al verso 4 e al verso 13, ed il gioco dei tempi verbali («Erano», «avolgea», «ardea», «parea», «avea», «arsi», «era», «sonavan», «vidi»; «son», «non so», «non sana»).
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quali sono le tematiche principali del sonetto? Quale vicenda è richiamata alla memoria? > 2. Quali particolari dell’aspetto fisico della donna vengono rievocati? AnALIzzAre
> 3. > 4.
Dietro il nome di Laura si cela un personaggio reale o un simbolo? Individua nel testo i seguenti artifici retorici: a) metafora; b) poliptoto; c) litote. > 5. Lessico Spiega le espressioni «ch’or ne son sì scarsi» (v. 4) e «se non fosse or tale» (v. 13). > 6. Lessico Rileva nel sonetto il lessico e gli elementi propri della poesia stilnovistica. > 7. Lingua Sottolinea nel testo le voci verbali. Quale tempo ricorre? Quali altri tempi e modi vengono utilizzati? Con quali intenzioni? Stile Stile
APProfondIre e InTerPreTAre
> 8.
Testi a confronto: scrivere In un testo di circa 24 righe (1200 caratteri) istituisci un confronto tra questo sonetto e quello della Vita nuova di Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare ( cap. 4, T6, p. 247).
Per IL reCUPero
> 9. Individua nel testo il senhal e l’iperbole.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Analisi interattiva
T12
Chiare, fresche e dolci acque dal Canzoniere, CXXVI Per la datazione sono state avanzate varie ipotesi: taluni collocano la canzone nel 1340-41, altri propendono per il 1345, altri ancora per il 1350.
> metro: canzone di cinque strofe di tredici versi ciascuna, ende-
Temi chiave
• la rievocazione di Laura • la stilizzazione della figura femminile e del paesaggio
• la donna mediatrice tra l’uomo e il cielo
• l’incombere della morte
casillabi e settenari; schema delle rime: abC abC cdeeDfF.
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Chiare, fresche e dolci acque1, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna2; gentil ramo ove piacque (con sospir’ mi rimembra) a lei3 di fare al bel fianco colonna; erba e fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno4; aere sacro5, sereno, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse6: date udïenza insieme a le dolenti mie parole estreme7. S’egli8 è pur mio destino, e ’l cielo in ciò s’adopra, ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda9, qualche grazia il meschino corpo fra voi ricopra, e torni l’alma al proprio albergo ignuda. La morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo10: ché lo spirito lasso non poria mai in più riposato porto né in più tranquilla fossa fuggir la carne travagliata e l’ossa.
versi 1-6 O acque trasparenti (Chiare), fresche e care (dolci), nelle quali (ove) immerse le sue belle membra Laura, colei che per me è l’unica donna al mondo; o ramo gentile a cui a lei piacque (me ne rammento
con rimpianto) di appoggiare il suo bel corpo (di fare … colonna); 1. acque: sono le acque del Sorga, fiume nelle vicinanze di Valchiusa. È vocativo, come i seguenti ramo, erba e fior’, aere.
2. donna: vi è anche il senso del latino domina, “signora”. 3. a lei: va unito a piacque. versi 7-13 O erba e fiori che la gonna elegante (leggiadra), con il suo angelico lembo (seno), ricoprì (ricoverse); o aria sacra, limpida e luminosa (sereno), dove Amore, attraverso la vista dei begli occhi (di Laura), mi aprì il cuore (ad amare): ascoltate (date udïenza) tutti insieme queste mie dolenti, ultime (estreme) parole. 4. seno: ha il senso del latino sinus (piega della veste). 5. aere sacro: è la presenza di Laura a renderlo tale. 6. il cor m’aperse: mi ferì il cuore. 7. estreme: perché il poeta si sente prossimo alla morte. versi 14-19 Se è proprio (pur) il mio destino, e il cielo si adopera perché ciò avvenga, che Amore chiuda questi occhi piangenti, qualche grazia divina faccia in modo che il (mio) misero (meschino) corpo sia sepolto (ricopra) fra voi, e la mia anima, priva del corpo (ignuda), torni al cielo, la sua vera sede (albergo). 8. egli: pleonasmo. 9. ’l cielo … chiuda: cioè se il cielo vuole che io muoia d’amore. versi 20-26 La morte sarà (fia) meno dolorosa, se porterò con me questa speranza (spene) in quel momento temuto (dubbioso passo): infatti (ché) lo spirito stanco (lasso) non potrebbe (poria) fuggire dal suo corpo, tormentato dalla passione (carne … l’ossa), affidandolo ad un porto più sereno (riposato), in una tomba (fossa) più tranquilla che in questo luogo. 10. dubbioso passo: il passaggio dalla vita alla morte; è dubbioso perché è sempre incerta la sorte eterna dell’anima.
Pesare le parole Albergo (v. 19)
> Qui significa “sede”. Viene dal gotico haribergo, “allog-
gio”. Per noi il senso più comune è divenuto “edificio adibito all’abitazione di persone in transito”. Nella lingua letteraria è usato nel senso di “ricovero, rifugio” (es. dare albergo a uno straniero), anche in senso figurato (es.
dare albergo a una speranza), oppure semplicemente di “casa” (Leopardi, Le ricordanze, v. 5: «questo albergo ove abitai fanciullo», la casa paterna di Recanati). Sempre di uso letterario è il verbo albergare, nel senso di “racchiudere” (es. albergare nell’animo nobili sentimenti).
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L’età comunale in Italia
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versi 27-39 Forse verrà un tempo in cui la belva (fera) bella e mansueta tornerà al luogo (soggiorno) (da lei) abitualmente frequentato (usato), e volga lo sguardo (vista) desideroso e lieto, cercandomi, là dove (’v’) ella mi vide (scorse) nel giorno benedetto: e, o visione dolorosa (pieta)!, constatando che sono già divenuto terra fra le pietre (del sepolcro), Amore suggerisca a Laura affetti nuovi (l’inspiri), in modo (in guisa) che sospiri così dolcemente da ottenere per me (m’impetre) il perdono e la misericordia (mercé) del cielo, e da mutare la volontà di Dio (faccia … cielo) asciugandosi le lacrime col bel velo.
Tempo verrà ancor forse ch’a l’usato soggiorno11 torni la fera bella e mansüeta12, e là ’v’ella mi scorse nel benedetto giorno13, volga la vista disïosa e lieta14, cercandomi: ed, o pieta!, già terra in fra le pietre vedendo, Amor l’inspiri in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé m’impetre, e faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo. Da’ be’ rami scendea (dolce ne la memoria) una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo; ed ella si sedea umile in tanta gloria15, coverta già de l’amoroso16 nembo. Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito e perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra, e qual su l’onde; qual con un vago errore girando parea dir: Qui regna Amore.
11. usato soggiorno: le rive del Sorga. 12. fera … mansüeta: Laura è una fera, perché è crudele verso il poeta, ma in sé è bella e mansueta. L’accostamento di fera e mansüeta è un ossimoro. 13. nel … giorno: il giorno in cui la vide sulle sponde del Sorga. 14. la vista … lieta: disïosa di rivedere il poeta e lieta nell’attenderlo. versi 40-45 Una pioggia di fiori (piacevole da ricordare) cadeva dai bei rami sul suo grembo; ed ella era seduta umilmente tra tanta gloria, già ricoperta dalla nube (nembo) amorosa. 15. tanta gloria: come già osservò Sape-
gno, Petrarca interpreta la caduta naturale dei fiori come un atto di omaggio e glorificazione della natura verso Laura. 16. amoroso: perché è segno dell’amore della natura intera. versi 46-52 Qualche fiore cadeva sul lembo (della sua veste), qualche altro sulle (sue) trecce bionde, che quel giorno a vederle erano oro lucente (forbito) e perle; qualche altro si posava in terra, e qualche altro (cadeva) sull’acqua (del fiume); qualche altro muovendosi con un leggiadro volteggiare nell’aria (con … errore) pareva dire: Qui regna Amore.
Pesare le parole Forbito (v. 48)
> Qui nel senso di “lucente”, dal francone forbian, “pu-
lire le armi” (è quindi voce di origine germanica). Il verbo forbire significa “pulire” o “lustrare” (es. forbirsi la bocca, forbire le maniglie di ottone) ed è di uso colto e letterario (Dante, Inferno, XXXIII, vv. 1-3: «La
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bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto»). Il participio forbito, usato anche come aggettivo, ha il senso figurato di “curato, elegante” (es. un discorso forbito).
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
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Quante volte diss’io allor pien di spavento: Costei per fermo nacque in paradiso. Così carco d’oblio il divin portamento e ’l volto e le parole e ’l dolce riso m’aveano, e sì diviso da l’imagine vera, ch’i’ dicea sospirando: Qui come venn’io, o quando?; credendo esser in ciel, non là dov’era. Da indi in qua mi piace questa erba sì, ch’altrove non ho pace. Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, poresti arditamente uscir del bosco, e gir in fra la gente17.
versi 53-65 Allora quante volte io dissi pieno di spavento: Costei di certo (per fermo) nacque in paradiso. A tal punto l’andatura (portamento) divina, il volto, la voce e il sorriso soave (dolce) (di Laura) mi avevano colmato (carco) di oblio ed estraniato (diviso) dalla sua immagine reale (vera), che
mi chiedevo (dicea) sospirando: Come sono giunto qua, o quando? Credendo di essere in paradiso, non là dove (in realtà) ero. Da quel giorno in poi (Da … qua) questo luogo (erba) mi piace a tal punto, che altrove non ho pace. versi 66-68 (O canzone), se tu avessi tanti
pregi artistici (ornamenti) quanti ne vorresti, potresti, senza timidezza (arditamente), uscire da queste selve ed andare (gir) fra la gente. 17. Se tu … gente: è il commiato. Bosco allude al paesaggio idillico in cui la canzone è ambientata, lontano dai luoghi frequentati.
Analisi del testo
> La donna e la natura
La stilizzazione della figura femminile
La stilizzazione della natura
La realtà come costruzione mentale
Anche al centro di questa canzone, come nel sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi ( T11, p. 437), vi è l’evocazione dell’immagine della bella donna attraverso un movimento della memoria. Il componimento esemplifica perfettamente il processo di stilizzazione a cui nel Canzoniere è sottoposta la figura femminile ( La figura di Laura, p. 416). Viene enumerata una serie di particolari fisici, «belle membra», «bel fianco», «begli occhi», «gonna / leggiadra», «treccie bionde» come l’«oro forbito»; ma sono tutti elementi raffinatamente convenzionali, che rimandano ad una lunga tradizione di poesia amorosa e che non definiscono una figura concreta, corposa, ma possiedono l’eleganza astratta di una cifra, di un emblema. Egualmente stilizzata è la natura su cui campeggia l’immagine femminile. Le componenti del paesaggio sono quelle abituali del topos, classico e medievale del locus amoenus, un luogo idealizzato e piacevole caratterizzato da acque limpide, erbe fiorite, aria serena, rami da cui piovono fiori. Anche la natura, come la figura femminile, non è presentata nell’urgenza fisica delle sue forme, dei suoi colori, dei suoi profumi (come può esserlo nella poesia ottocentesca di un Carducci o di un d’Annunzio), ma si assottiglia in un raffinato arabesco (si noti soprattutto il «vago errore» del fiore che scende dal ramo). Come Laura non è una persona definita, così il luogo della sua apparizione non è un luogo preciso, ma è uno spazio astratto, che è dovunque e in nessun luogo. Siamo di fronte ad un esempio perfetto di quella rigorosa selezione e rarefazione a cui la poesia petrarchesca sottopone la realtà esteriore, per poterla ammettere nella gelosa cerchia dell’io perplesso e lacerato. La realtà, insomma, è così rarefatta perché non è un dato oggettivo, ma pura costruzione mentale. Infatti quella che è descritta non è una scena presente, ma è recuperata dalla memoria: il mondo esterno scompare, diviene un elemento del mondo interiore. 441
L’età comunale in Italia
La memoria è tanto importante nel Canzoniere perché Petrarca, come si è visto più volte, sente angosciosamente la fuga del tempo e la precarietà delle cose: la memoria è l’unico mezzo per dar loro in qualche misura stabilità e consistenza. Il lessico selezionato
La scorrevolezza musicale
Le simmetrie
Il gusto classico
Il gioco dei piani temporali
La donna mediatrice tra l’uomo e il cielo
Una metafora mondana
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> Gli aspetti formali
Il corrispettivo formale di questa selezione delle presenze reali è il lessico, anch’esso selezionatissimo, sino ad apparire quasi povero. Si può notare ad esempio che nella prima strofa, a designare la bellezza di Laura, viene usato per ben tre volte l’aggettivo più comune, quasi sbiadito dall’uso: «belle membra», «bel fianco», «begli occhi» (e poi ancora nelle strofe successive: «bella e mansüeta», «bel velo», «bei rami»). È quello che è stato ben definito “unilinguismo” di Petrarca (da Contini, Lingua e stile del Canzoniere, p. 420), che è l’antitesi esatta della forte espressività del “plurilinguismo” dantesco. Le parole del Petrarca, pur così usuali, trovano però una loro verginità poetica grazie alla sapiente collocazione, al ritmo musicale che le avvolge nella sua onda fluida. L’effetto di scorrevolezza è qui dato soprattutto dalla prevalenza dei versi brevi, i settenari (ben nove sui tredici versi di cui è composta la strofa), che hanno un ritmo più agile e sciolto di quello dei più ampi endecasillabi. Dominano poi anche in questa poesia le proporzioni perfette e le simmetrie. Nella prima strofa (che prendiamo come campione di analisi) ad ogni elemento della natura, «acque», «ramo», «erba e fior’», sono dedicati tre versi (tranne che all’ultimo, l’«aere»), e torna ripetutamente la stessa struttura sintattica, vocativo seguito da proposizione relativa («ove...», «ove...», «che...», «ove...»). Questa armonia, questo nitore, questa fluidità rivelano il gusto classico di Petrarca: la realtà esteriore viene privata delle sue asperità col trasferimento nell’io tramite la memoria e il sogno, e le lacerazioni dell’io sono ricomposte con l’armonia della forma. La costruzione architettonica si manifesta anche nell’alternanza delle strofe e nel gioco dei piani temporali che ne deriva. La prima strofa rievoca il passato, l’apparizione di Laura. Solo in chiusura, negli ultimi due versi, si affaccia il presente, la condizione dolorosa da cui il poeta vuol fuggire. La seconda strofa si proietta allora nel futuro, nella fantasia consolatrice di un riposo dopo la morte, tra quelle presenze naturali amiche. Ancora nel futuro è collocata la terza strofa, dove si sviluppa un’altra fantasia consolante, su Laura divenuta pietosa che si commuove sopra la tomba del poeta e intercede per lui presso Dio. La quarta ritorna al passato, ed è perfettamente simmetrica alla prima nel rievocare, attraverso la memoria, l’apparizione miracolosa della donna (compare anche la parola chiave, «dolce ne la memoria», con un richiamo a distanza a «con sospir’ mi rimembra» della prima strofa). La quinta ripropone ancora il passato, l’estasi e il rapimento dell’io dinanzi alla bellezza più che umana. Il ritmo generale della poesia è dato dunque da un ondeggiare continuo tra passato e futuro, tra memoria e sogno.
> Petrarca e la tradizione stilnovistico-dantesca
Come in Erano i capei d’oro ( T11, p. 437), compare nella canzone un motivo di pretta ascendenza stilnovistica e dantesca, la donna come mediatrice tra l’uomo e il cielo («mercé m’impetre […] asciugandosi gli occhi col bel velo», vv. 37-39). Ma in Petrarca scompaiono i sottili significati teologici della poesia dantesca: il tutto è immerso nella dimensione puramente psicologica del sogno. In secondo luogo la mediazione della donna è un motivo elegantemente mondano, una raffinata quanto convenzionale metafora letteraria. Anche il motivo della donna nata «in paradiso», che rapisce l’uomo in cielo, è stilnovistico e dantesco. Anzi, l’immagine di Laura immersa in una nube di fiori può ricordare l’apparizione nel paradiso terrestre di Beatrice (Purgatorio, XXX, vv. 28-33), anch’essa avvolta dalla nube dei fiori gettati dagli angeli tripudianti. Ma, se si guarda bene, in Petrarca il rapimento al cielo non è realtà, è un inganno costruito dal desiderio e dal sogno dell’amante («sì diviso / da l’imagine vera», vv. 59-60). E se Beatrice nel paradiso terrestre è carica di sovrasensi teologici, apparendo come “figura” di Cristo, qui Laura è solo una bella donna oggetto di desiderio sensuale e fatta segno di un complimento iperbolico.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Riassumi in circa 12 righe (600 caratteri) i contenuti della canzone. AnALIzzAre
> 2. Individua:
a) i versi in cui è descritto il topos classico e medievale del locus amoenus; b) i versi in cui è delineato il motivo della donna-angelo. > 3. Spiega per quali ragioni i versi 64-65 conferiscono alla canzone una struttura ad anello. > 4. Stile Precisa la struttura della canzone, formata da endecasillabi e settenari, sottolineando e distinguendo nel testo, all’interno di ciascuna strofa: la fronte (con i piedi), la chiave (con le volte) e, alla fine, il congedo. > 5. Stile Rintraccia nelle prime tre strofe la figura retorica della personificazione e spiegane la funzione. > 6. Lingua Completa la tabella, secondo l’esempio proposto, indicando i tempi verbali presenti nelle singole strofe e la dimensione vissuta, di volta in volta, dall’io lirico: reale, del ricordo o immaginaria. Strofa
Tempi
dimensione
Tematiche
I
..........................................................................................................
presente/passato
della realtà e del ricordo ..........................................................................................................
sulle rive del Sorga, il poeta ricorda Laura ...................................................................................................................................
II
..........................................................................................................
..........................................................................................................
...................................................................................................................................
III
...........................................................................................................
...........................................................................................................
...................................................................................................................................
IV
.........................................................................................................
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V
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...................................................................................................................................
APProfondIre e InTerPreTAre
> 7.
Scrivere Istituisci un confronto in circa 24 righe (1200 caratteri) tra Dante e Petrarca sul tema della memoria della donna amata, centrale in questa canzone come nel sonetto Erano i capei d’oro ( T11, p. 437). > 8. Testi a confronto: esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) confronta la visione dell’amore che emerge in questo componimento e nel sonetto Padre del ciel, dopo i perduti giorni ( T10, p. 435). > 9. Altri linguaggi: arte Tra gli incunaboli del Canzoniere, quello della biblioteca Queriniana, datato 1470, costituisce un vero e proprio capolavoro, in cui un anonimo pittore illustra con disegni policromi, ai margini delle pagine, la storia d’amore tra Laura e Petrarca. Le scene e gli ambienti ricalcano i modi e le atmosfere galanti e raffinate delle corti di fine Quattrocento, con la presenza di simboli e invenzioni immaginose. Dopo aver osservato la raffigurazione di Laura che si bagna nel Sorga, rispondi alle seguenti domande. a) Osserva il boschetto sullo sfondo: come sono disposti gli alberi e qual è la loro forma? b) Quale oggetto si nota tra gli alberi? Che cosa simboleggia? Che cosa è raffigurato alla sua base? c) Descrivi la figura femminile riprodotta nel disegno. Rileggi il testo di Petrarca, in particolare la prima e la quarta strofa, e considera se l’abbigliamento di Laura risulta completamente rispondente a quanto illustrato.
Chiare, fresche e dolci acque, 1470, miniatura da Canzoniere e Trionfi di Francesco Petrarca, incunabolo G V 15, Brescia, Biblioteca Civica Queriniana.
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L’età comunale in Italia
T13
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno dal Canzoniere, CXXVIII
Temi chiave
• la deprecazione delle lotte civili • il problema delle milizie mercenarie • la decadenza dell’Italia rispetto al passato glorioso di Roma la fugacità del tempo
• La canzone fu probabilmente composta nel 1345, in occasione della guerra combattuta intorno a Parma tra Obizzo d’Este da un lato e Filippino Gonzaga e Luchino Visconti dall’altro, che avevano assoldato milizie mercenarie germaniche.
> metro: canzone di sette strofe di sedici versi l’una; schema delle rime: Abc BaC; cDE e Ddf GfG.
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Italia mia, benché ’l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sì spesse veggio1, piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali spera ’l Tevero e l’Arno, e ’l Po, dove doglioso e grave or seggio2. Rettor del cielo, io cheggio che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo diletto almo paese3. Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra4; e i cor’, che ’ndura e serra Marte superbo e fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci e snoda; ivi fa’ che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
versi 1-9 O Italia mia, benché il parlare sia inutile (indarno) (a portare aiuto) alle tue mortali ferite (piaghe), che vedo così numerose
(spesse) nel tuo bel corpo, desidero (piacemi) almeno che i miei sospiri siano quali sperano da me il Tevere, l’Arno e il Po, dove ora risiedo
(or seggio) addolorato e pensoso (doglioso e grave). Rettore del cielo (Dio), io chiedo (cheggio) che la compassione per l’umanità (pietà) che ti indusse a incarnarti in Cristo (condusse in terra) ti spinga a volgere l’attenzione al nobile (almo) paese (l’Italia) da te prediletto. 1. benché … veggio: l’Italia è qui personificata. 2. piacemi … seggio: l’Italia è indicata attraverso i nomi dei fiumi che scorrono nelle varie regioni: Lazio, Toscana, Italia settentrionale, dove Petrarca allora si trovava meditando sulle sventure della sua terra. 3. diletto almo paese: perché sede del papato ed illustre per la sua storia. versi 10-16 O Signore cortese, tu vedi che guerra crudele (ha avuto origine) da tanto futili motivi (lievi cagion’); e, Padre, libera (snoda) e addolcisci (’ntenerisci) gli animi che lo spirito aggressivo e feroce (fero) della guerra (Marte) rende insensibili e crudeli (’ndura e serra); in quegli animi (ivi) fa’ che il tuo messaggio (vero) sia ascoltato attraverso le mie parole (per la mia lingua), qualunque sia il mio valore (qual … sia). 4. guerra: combattuta per il possesso di Parma.
Pesare le parole Spera (v. 5)
> Qui equivale a “spira”, dal latino spiràre, nel senso di “soffiare”, detto soprattutto dei venti (es. spira un gradevole venticello). Altri sensi: “esalare”, in senso fisico (es. dalla fabbrica spirano miasmi pestilenziali), “emanare”, in senso morale (es. la sua presenza spira bontà e serenità). In una forma apparentemente uguale, ma in realtà composta con s- (latino ex-spiràre), vuol dire “esalare l’ultimo respiro, morire” (es. il moribondo sta per spirare). Composto con il prefisso re- dà respirare, in senso fisico, usato sia in forma intransitiva (es. per l’angoscia non respiro più) sia in forma transitiva (es. respirare l’aria inquinata), in senso figurato “riprendere sollievo” (es. il paese respira dopo anni di crisi economica). Composto con in- dà inspirare, “immettere aria nei polmoni”, o ispirare, “infondere un’impressione o un sentimento” (es. ispirare antipatia, fiducia), “suggerire” (es. ispirare una buona idea), “indurre a compiere un’azione” (es. ispirare un’opera buona), “stimolare la creazione di un’artista” (es. la bellezza del paesaggio ispira il pittore), in senso religioso “dare poteri sovrannaturali” (es. Dio ispirava gli Apostoli). Come si vede, dalla stessa parola antica provengono due verbi con si-
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gnificati diversi, inspirare e ispirare: a differenziarli basta che il primo resti più vicino alla forma latina, conservando la n del prefisso in-, e nel secondo la n cada davanti alla s. Dalla stessa radice di spirare viene spirito: innanzitutto nel senso di Spirito Santo, la terza persona della Trinità, in cui c’è l’idea del soffio di Dio che anima il mondo; poi nel senso di “anima”, in contrapposizione al corpo fatto di materia; di qui il senso di “fantasma, spettro”, in quanto anima del defunto che torna tra i vivi (es. è una casa infestata dagli spiriti); in molte religioni, gli spiriti sono entità incorporee benigne o maligne, che animano le cose e governano i fenomeni; in senso psicologico, spirito vale “disposizione d’animo” (es. spirito umanitario, spirito di parte); oppure “arguzia, senso dell’umorismo”, che può manifestarsi in battute di spirito (es. quell’uomo fa sempre dello spirito); altro significato è “complesso di disposizioni intellettuali, artistiche, morali che caratterizza un’epoca” (es. lo spirito del Rinascimento, lo spirito del tempo); può anche voler dire “significato sostanziale, al di là delle forme esterne” (es. ha colto lo spirito della legge, ho capito lo spirito del libro).
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Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade, di che nulla pietà par che vi stringa, che fan qui tante pellegrine spade5? perché ’l verde terreno del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga: poco vedete, e parvi veder molto, ché ’n cor venale6 amor cercate o fede. Qual più gente possede, colui è più da’ suoi nemici avolto. O diluvio7 raccolto di che deserti strani, per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi? Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi e la tedesca rabbia; ma ’l desir cieco, e ’ncontra ’l suo ben fermo, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia8. Or dentro ad una gabbia fiere selvagge et mansüete gregge9 s’annidan sì, che sempre il miglior geme; ed è questo del seme, per più dolor, del popol senza legge, al qual, come si legge, Mario aperse sì ’l fianco, che memoria de l’opra anco non langue, quando assetato e stanco non più bevve del fiume acqua che sangue10. Cesare taccio che per ogni piaggia fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro mise11. Or par, non so per che stelle maligne, che ’l cielo in odio n’aggia: vostra mercé12, cui tanto si commise13.
versi 17-22 O voi (Signori d’Italia) a cui un caso favorevole (Fortuna) ha (à) posto in mano il governo (freno) delle varie regioni d’Italia (belle contrade), delle quali pare che non vi tocchi (vi stringa) nessuna pietà, che cosa fanno qui tanti soldati stranieri (pellegrine spade)? Forse perché le verdi regioni italiane (terreno) si arrossino del sangue dei barbari? 5. pellegrine spade: i mercenari tedeschi. versi 23-27 Un vano errore vi illude (lusinga): vedete poco e credete di essere lungimi-
ranti (veder molto), perché voi cercate lealtà e fedeltà (amor … fede) nel cuore di gente venale. Colui (Qual) che ha al suo seguito più milizie mercenarie (più … possede), quello è più circondato (avolto) dai nemici. 6. ’n cor venale: perché le milizie mercenarie sono al servizio dei Signori italiani, o fingono di servirli, solo per avidità di guadagno. versi 28-32 O diluvio che sei stato raccolto da chissà quali regioni deserte e selvagge (deserti strani) per inondare le nostre pianure amene (dolci campi)! Se questo ci ac-
cade (n’avene) per opera delle nostre stesse mani, chi potrà salvarci (fia … scampi)? 7. diluvio: le milizie reclutate in Germania (deserti strani) sono paragonate ad un diluvio che inonda le pianure amene della penisola. versi 33-38 La natura ben provvide alla nostra sicurezza (stato), quando alzò un riparo (schermo pose) con le Alpi tra noi e la ferocia delle popolazioni germaniche; ma l’avidità (desir) cieca (dei Signori), ostinata (fermo) contro il proprio vantaggio (ben), si è poi tanto adoperata da procurare un turpe morbo (scabbia) al corpo sano (dell’Italia). 8. ma ’l desir … scabbia: la presenza di truppe mercenarie è per metafora assimilata alla presenza di parassiti che infestano un corpo (la scabbia è una malattia della pelle provocata da acari): continua la personificazione dell’Italia. versi 39-48 Ora dentro la stessa (una) gabbia si trovano a convivere (s’annidan) belve selvagge e greggi mansuete, cosicché a essere vittima (geme) è sempre il migliore; e quello che accresce il nostro dolore (per più dolor) è che tale strazio viene inferto dai discendenti (seme) di un popolo selvaggio (senza legge) al quale il generale romano Mario, come si legge (nei libri di storia), inflisse una così bruciante sconfitta (aperse sì ’l fianco), che non è ancora venuto meno (non langue) il ricordo dell’impresa (opra), quando (i Romani) assetati e stanchi, non bevvero dal fiume più acqua che sangue. 9. Or dentro … gregge: l’una gabbia è per metafora, la medesima terra italiana; le fiere selvagge sono i mercenari tedeschi, quelle mansüete, le popolazioni civili italiane. 10. non più … sangue: la strage fu tale che i Romani assetati e stanchi, recatisi al fiume per bere, vi trovarono più sangue dei nemici sconfitti che acqua. Petrarca ricorda l’episodio della sconfitta inferta da Caio Mario presso Aquae Sextiae in Provenza ai Teutoni che, nel 102 a.C., stavano per invadere l’Italia. versi 49-54 (E) non parlo di Cesare, che in tutti i territori (piaggia) sbaragliò i barbari, ovunque portò i nostri eserciti in armi (’l nostro ferro), rendendo i campi rossi (erbe sanguigne) per il sangue (vene) dei nemici sterminati. Ora pare, non so per quali nemiche influenze astrali (stelle maligne), che il cielo ci abbia in odio, grazie a voi (Signori d’Italia) a cui fu affidato (si commise) un compito tanto alto. 11. Cesare taccio … mise: è una preterizione retorica. 12. vostra mercé: è ironico: in realtà vale per colpa vostra. 13. cui … commise: ossia il governo d’Italia.
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Vostre voglie divise guastan del mondo la più bella parte14. Qual colpa, qual giudicio o qual destino fastidire il vicino povero, e le fortune afflitte e sparte perseguire, e ’n disparte cercar gente e gradire, che sparga ’l sangue e venda l’alma a prezzo? Io parlo per ver dire, non per odio d’altrui, né per disprezzo. Né v’accorgete ancor per tante prove del bavarico15 inganno ch’alzando il dito16 colla morte scherza? Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove più largamente, ch’altr’ira vi sferza17. Da la matina a terza18 di voi pensate, e vederete come tien caro altrui che tien sé così vile. Latin sangue gentile, sgombra da te queste dannose some19; non far idolo un nome20 vano senza soggetto: ché ’l furor de lassù, gente ritrosa, vincerne d’intelletto, peccato è nostro, e non natural cosa. Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui21 sì dolcemente? Non è questa la patria in ch’io mi fido, madre benigna e pia, che copre l’un e l’altro mio parente?
versi 55-64 Le vostre discordi aspirazioni (voglie divise) danneggiano l’Italia (del mondo … parte). Quale responsabilità umana (colpa), quale giudizio divino, quale fatalità (vi induce) a tormentare (fastidire) i vicini meno potenti (povero), a infierire sui beni già rovinati e dissipati (afflitte e sparte), a cercare e a gradire eserciti fuori dall’Italia (’n disparte), che vengano ad uccidere e a ven-
dere per denaro la loro vita (l’alma)? Io parlo per dire la verità (ver), non (mosso) da odio o disprezzo verso di voi. 14. del mondo … parte: perifrasi. versi 65-70 E dopo tante prove non vi rendete conto dell’inganno dei mercenari bavaresi che fingono di combattere (colla morte scherza), alzando il dito? A mio parere è peggio la beffa (strazio) che il dan-
no; ma è il vostro (degli Italiani) il sangue che viene versato (piove) più copiosamente, poiché un odio ben diverso vi istiga (vi sferza). 15. bavarico: “bavarese”, per sineddoche sta per “germanico” in generale. 16. alzando il dito: nel momento del pericolo in segno di resa. 17. altr’ira vi sferza: l’odio fratricida istiga gli italiani a combattersi tra loro con ben altro accanimento. versi 71-80 Dalla prima alla terza ora del giorno riflettete su voi stessi (di voi pensate), e capirete (vederete) che chi considera se stesso tanto poco (da vendersi per denaro) non può aver caro qualcuno ed essere fedele a costui (come … vile). Nobile stirpe (sangue gentile) latina, allontana (sgombra) da te questo peso che reca rovina (dannose some), non rendere oggetto di culto (idolo) un nome vuoto privo di corrispondenza con la realtà (senza soggetto): poiché è imputabile a nostra colpa (peccato è nostro) e non ad un dato naturale (natural cosa) che la selvaggia popolazione germanica (de lassù), restia (ritrosa) alla civiltà, ci superi in avvedutezza (vincerne d’intelletto). 18. Da la matina a terza: cioè, per breve tempo. 19. dannose some: il peso delle milizie mercenarie. 20. non far … nome: il valore militare dei tedeschi. versi 81-86 Non è questa la terra che toccai per prima (nascendo)? Non è questa la dimora in cui vissi così dolcemente? Non è questa la patria nella quale ripongo fiducia (in ch’io mi fido), madre benevola e pietosa (pia), nella quale è sepolto (che copre) l’uno e l’altro mio genitore (parente)? 21. nudrito fui: letteralmente: fui nutrito.
Pesare le parole Parente (v. 86)
> Ha qui il senso del latino parèntes, “genitori”, da pàrere
“generare” (da cui parto); nel nostro linguaggio ha invece assunto il significato di “congiunto, persona unita da legami di parentela”: fratelli, cugini, zii ecc. Il senso latino è rimasto solo nella lingua letteraria (Leopardi, Canto nottur-
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no di un pastore errante dell’Asia, vv. 50-51: «Altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole», dove ufficio vale “compito” e grato “gradito”). In francese invece, oltre al senso nostro, parents ha conservato quello originario latino di “genitori” (cfr. anche l’inglese parents, “genitori”).
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Perdio, questo la mente talor vi mova, e con pietà guardate le lagrime del popol doloroso, che sol da voi riposo dopo Dio spera; e pur che voi mostriate segno alcun di pietate, vertù contra furore prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto: ché l’antiquo valore ne l’italici cor’ non è ancor morto. Signor’, mirate come ’l tempo vola, e sì come la vita fugge, e la morte n’è sovra le spalle. Voi siete or qui; pensate a la partita: ché l’alma ignuda e sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle22. Al passar questa valle23 piacciavi porre giù l’odio e lo sdegno, vènti contrari a la vita serena24; e quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche atto più degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, in qualche onesto studio si converta: così qua giù si gode, e la strada del ciel si trova aperta. Canzone25, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica, perché fra gente altera26 ir ti convene, e le voglie son piene già de l’usanza pessima ed antica, del ver sempre nemica. Proverai tua ventura fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace. Di’ lor: – Chi m’assicura? I’ vo gridando: Pace, pace, pace27–.
versi 87-96 In nome di Dio (Perdio), questo pensiero almeno qualche volta vi smuova l’animo (la mente), e guardate con pietà le lacrime del popolo doloroso (gli italiani) che solo da voi, dopo Dio, spera la pace (riposo); basta soltanto (pur) che voi (signori d’Italia) mostriate un qualche segno di pietà, e il valore ben regolato ed avveduto (vertù) (del popolo italiano) si slancerà contro la furia bestiale (furore) (dei barbari), e il combattimento sarà breve (corto): perché l’antico valore non è ancora morto nei cuori italiani.
versi 97-102 Signori, riflettete su (mirate) come il tempo vola, e come la vita fugge, e la morte ci incalza da vicino (n’è sovra le spalle). Voi ora siete qui; pensate al giorno della morte (partita): perché l’anima, spoglia degli onori del mondo e priva di difese (ignuda e sola), deve pur giungere al varco pericoloso (dubbioso calle, la morte). 22. dubbioso calle: è il varco che immette da una vita all’altra. versi 103-112 Durante la vita (Al passar
questa valle) vogliate deporre l’odio e l’ira (sdegno), venti contrari alla vita serena; e quel tempo che viene impiegato nel recare pena ad altri (’n altrui), sia piuttosto utilizzato (si converta) in qualche attività più degna, compiuta o con le azioni (di mano) o con l’intelletto (d’ingegno), in qualche opera meritevole di lode, in qualche impegno onorevole (onesto studio): in questo modo si può ottenere pace in terra (qua giù) e ci si apre la strada della beatitudine eterna (ciel). 23. questa valle: la vita è designata nelle Scritture come una «valle di lacrime». 24. vènti … serena: come i venti contrari ostacolano la navigazione, così quelle passioni tempestose impediscono la serenità. versi 113-122 O canzone, io ti invito a esporre cortesemente i tuoi argomenti (tua ragion), perché è necessario che tu vada (ir ti convene) tra persone d’alto rango e superbe, e le passioni (voglie) degli uomini sono dominate (piene) ormai, dall’uso pessimo ed antico (le adulazioni), sempre nemico della verità. Sarai bene accolta (Proverai tua ventura) fra quei pochi magnanimi cui sta a cuore il pubblico bene. Chiedi loro: – Chi mi difende? Io vado gridando: Pace, pace, pace –. 25. Canzone: comincia la strofa del congedo o commiato. 26. gente altera: i principi italiani. 27. Di’ lor … pace: cioè chiedi loro che ti difendano dal momento che diffondi un messaggio di pace.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo
> Una poesia politica
Le lotte civili L’intellettuale e la nuova realtà signorile
Le motivazioni esistenziali
Le milizie mercenarie
Germani e Latini
Il mito della rinascita
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La canzone è un esempio della poesia politica di Petrarca, non frequente nel Canzoniere, nel quale domina il motivo amoroso o comunque soggettivo. Si colgono due temi centrali: la deprecazione delle lotte civili tra i signori italiani e la condanna dell’impiego di milizie mercenarie germaniche. Gli interlocutori del poeta sono i signori. Petrarca si rapporta ormai alla nuova realtà signorile che si è affermata nella penisola e, come grande intellettuale, si propone nelle vesti del saggio al di sopra delle parti, colui che ammonisce, esorta, guida e indirizza al bene chi ha la responsabilità del potere. Si può misurare qui la lontananza da Dante, che, pur già inserito anch’egli, nel periodo dell’esilio, nella nascente realtà signorile, ha ancora essenzialmente come riferimento la dimensione municipale e comunale, o dall’altro lato quella dei grandi poteri universali, Impero e Chiesa. Inoltre, mentre Dante, di fronte alla realtà politica dei suoi tempi, ha l’atteggiamento apocalittico del profeta che si erge a giudicare in nome del giudizio finale di Dio e minaccia terribili castighi dal cielo sulla corruzione contemporanea, Petrarca sceglie un tono diverso, commosso e in certi punti persino dolente ed elegiaco. Si vedano le ultime due strofe, in cui viene in primo piano la mozione dei sentimenti, l’equazione patria-madre, l’appello ai più profondi legami familiari (e si noti l’immagine intensamente affettuosa del «nido»). Inoltre le motivazioni dell’appello ai signori non sono soltanto politiche (l’esigenza di concordia e di pace), ma anche di tipo esistenziale: nella penultima strofa il poeta richiama i temi a lui cari della fuga del tempo, della labilità della vita, della morte incombente; in nome di questo, del «dubbioso calle» che attende anche i potenti, egli li invita a deporre odi ed ire, a dedicarsi a più degne imprese, per aprirsi la strada del cielo.
> Civiltà e barbarie
Il secondo motivo è quello delle milizie mercenarie germaniche, che invadono il suolo italiano e combattono non per ragioni ideali ma solo per interesse, passando disinvoltamente da un campo a quello avverso a seconda delle migliori offerte. Il motivo si specifica nella contrapposizione tra la nobiltà del sangue latino da un lato e la rozza crudeltà dei costumi tedeschi dall’altro. Su questo contrasto, riferito al presente, si innesta quello riferito al passato, tra la potenza romana e i popoli germanici, che appare come opposizione tra civiltà e barbarie. Se i Germani di oggi sono barbari e feroci come quelli antichi, gli Italiani appaiono gli eredi diretti dei Latini. Vi è per Petrarca una continuità tra civiltà romana e italiana; egli ha il culto di un passato glorioso di grandezza politica e di virtù guerriera, che vorrebbe perpetuato nel presente. Depreca quindi la decadenza italica ed invita ad una rinascita dello spirito antico, a ritrovare la «virtù» romana lottando contro i «barbari». Tutta la canzone, col suo mito di Roma e della rinascita italica, avrà in seguito grande risonanza e fortuna, fino al Leopardi della canzone All’Italia e ai patrioti del Risorgimento. Bisogna precisare però che la nozione petrarchesca di «Italia» è diversa da quella che sarà poi propria dell’Ottocento. Non è per il poeta un’entità nazionale e politica (non c’è l’idea di un’unità statale), ma soprattutto culturale, come erede di una tradizione di civiltà che ha le sue radici in Roma e nella sua cultura.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Completa la tabella indicando, per ogni strofa della canzone, i riferimenti alla storia passata, quelli alla situazione politica contemporanea all’autore e quelli relativi alla geografia italiana, secondo l’esempio proposto. Strofa
riferimenti alla storia passata
riferimenti alla situazione politica contemporanea all’autore
riferimenti alla geografia italiana
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L’Italia è ferita nel suo bel corpo e vi ..........................................................................................................
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sono conflitti generati per futili motivi ..........................................................................................................
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II III IV V VI VII Congedo
Tevere, Arno e Po
AnALIzzAre
> 2. Rintraccia nel discorso proposto dalla canzone il passo che sottolinea il tema, che sarà poi caro al Risorgimento, della «rinascita italica» e quello in cui il poeta sembra concentrare temi e motivi ricorrenti nella sua personale meditazione. > 3. Stile Quali figure retoriche (di suono, di ripetizione lessicale, e relative all’ordine delle parole) compaiono nell’espressione «poco vedete, e parvi veder molto» (v. 24)? > 4. Lessico Spiega l’accezione del termine «vero» che compare nella prima strofa e nel congedo (vv. 15 e 118). > 5. Lingua Ricerca nella prima strofa i tre appellativi con cui si fa riferimento a Dio e indica quale funzione logica svolgono nelle diverse frasi in cui sono inseriti. Quale significato assumono nel corpo del testo? > 6. Lingua Considera i versi 16, 43, 49, 52, 64, in cui compare la preposizione «per» e, dopo aver analizzato il contesto di ciascuna frase, spiega quale tipo di complemento introduce. APProfondIre e InTerPreTAre
> 7.
esporre oralmente Confrontando l’atteggiamento di Petrarca verso la politica con quello di Dante, elabora un’esposizione orale organica e coerente (max 10 minuti) basata sulla scaletta di seguito riportata: a) il contesto storico-culturale in cui vivono rispettivamente i due autori; b) le esperienze politiche reali in Dante e in Petrarca; c) gli ideali politici in Dante e Petrarca in base ai testi più significativi in cui essi sono espressi; d) l’atteggiamento dei due autori nei confronti della politica (se pragmatico o idealistico).
Per IL reCUPero
> 8. Individua tutte le espressioni che denotano l’Italia, soffermandoti sull’aggettivazione. Com’è rappresentata?
Rispondi facendo un elenco degli aggettivi utilizzati da Petrarca; indica quindi l’aggettivo che non è più in uso nell’italiano contemporaneo e quello che è usato in un’accezione differente.
SCrITTUrA CreATIvA
> 9. Scrivi in un testo di circa 40 righe (2000 caratteri) un appello rivolto all’Italia del tuo tempo – quasi fosse
personificata – scegliendo i toni dell’invettiva o dell’elegia. Immagina quindi i rispettivi contesti di riferimento: la crisi morale e materiale che attraversa attualmente il nostro paese nel primo caso, oppure le sue bellezze naturali e la sua storia millenaria fatta di arte e di cultura nel secondo. Presta particolare attenzione agli aspetti linguistico-espressivi, che prevedono registri diversi per ognuno dei due generi.
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L’età comunale in Italia
Interpretazioni critiche
Ugo dotti Il ruolo intellettuale di Petrarca: il rapporto con la Signoria e la rivendicazione della «libertà»
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Il critico esamina la nuova figura di intellettuale rappresentata da Petrarca, che rinuncia al ruolo dell’intellettuale Ugo Dotti adotta un metodo di tipo sodell’età comunale, ancora rappresentato da Boccaccio, e si ciologico, cioè il suo discorso si concenpone al servizio della nuova istituzione che sta diventando tra non tanto sull’analisi dell’opera petrardominante, la Signoria. A ciò si accompagna in Petrarca una chesca, quanto sulla figura dello scrittore, sul ruolo da lui ricoperto come intelletferma rivendicazione della propria autonomia (che fu tuttatuale nella società del suo tempo, e in via un’illusione, in quanto egli non poté evitare un’effettiva primo luogo sui suoi rapporti con il potedipendenza dal mecenatismo). La scelta comporta una rire politico. nuncia a una diretta responsabilità politica, ed un rivolgere la propria attività ad una sfera meno impegnata sul piano del politico quotidiano, quella degli studia humanitatis. Petrarca circoscrive i compiti dell’umanista: non deve dare consigli tecnici, condurre affari, amministrare la cosa pubblica. Ciò non esclude un altro impegno di Petrarca, perseguito nelle sue varie missioni diplomatiche: il nuovo intellettuale vuole agire per il bene dell’umanità e per la pace.
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L’insediamento di Petrarca presso il Visconti, che pur gli aveva dato formali assicurazioni di rispettarne l’indipendenza, fu tuttavia tutt’altro che bene accolto dagli amici, quelli fiorentini in particolare, che si sentirono traditi. Milano, in piena espansione [...], era appena stata in guerra con Firenze. A Firenze, patria della libertà e della repubblica, il Visconti appariva inoltre come il «tiranno». Più che naturali, quindi, le reazioni. La più aspra, come è noto, gli venne dal Boccaccio, che in una sua lettera (l’epistola IX), destinata a rimanere senza risposta, giunse a definire l’amico «suddito dell’altrui giogo e carico di disoneste ricchezze» [...]. Più pacate rimostranze gli giunsero anche da altre parti: dal Nelli, per esempio, e dal cancelliere della corte di Mantova Giovanni Aghinolfi. A costoro rispose e si giustificò, anche se con argomenti un po’ speciosi (Fam., XVI, 11 e 12; XVII, 10). La sua collera esplose invece due anni dopo, quando venne a sapere che un cardinale francese, Jean del Caraman, aveva sparlato di lui definendolo «amico dei tiranni». L’invettiva che gli lanciò contro (il cardinale viene già definito nel titolo «uomo d’alta condizione ma senza dottrina e senza virtù») è particolarmente violenta anche perché, questa volta, Petrarca era libero di riprendere la sua polemica contro la Babilonia papale. Ma se nei confronti degli ambienti di Curia, disprezzati per la loro corruzione, il distacco poteva considerarsi definitivo (ne fa fede il grande affresco antiavignonese delle Sine nomine1, completate a Milano), più difficile era rendere ragione, per una cultura che voleva fondarsi sull’autonomia e sull’indipendenza, sulla «libertà» (libertà di coscienza come sorgente di indipendenza, anche politica), l’essersi posto alle dipendenze sia pure privilegiate di un signore, e sia pure d’un signore-mecenate. «Io sto con loro, non sotto di loro; vivo nel loro territorio, ma non nella loro casa», non si stanca di ripetere in questi tempi Petrarca. Ma quali che fossero le giustificazioni addotte, l’aver preso dimora presso i Visconti significava di fatto rinunciare a proseguire la missione dell’intellettuale dell’età comunale, quale in gran parte fu ancora rappresentata dal Boccaccio. Significava rinun-
1. Sine nomine: Le raccolte epistolari, p. 404.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
ciare ad assumere responsabilità dirette di politica culturale e volgersi invece all’elaborazione di quegli «studia humanitatis»2 che pur tutto comprendendo e nulla disdegnando, si muovevano in una sfera molto più alta ed esclusiva, assai meno impegnata sul piano del politico quotidiano (e non per nulla Petrarca tenne sempre a ribadire la distinzione tra arti 30 «liberali» e arti «meccaniche», celebrando le prime e spregiando le seconde). Significava, in concreto, realizzare la cerchia dei nuovi intellettuali muovendo da sé, dalla propria attività di studioso e abbandonando le illusioni, o le delusioni, di un energico inserimento nella vita politica. Quietatisi i primi furori, tredici anni dopo, Boccaccio tornò a scrivere a Petrarca rimprove35 randolo di soggiacere ancora al «tiranno». E il Petrarca in risposta:
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Deponi il tuo timore sul mio conto e sta’ sicuro che fino ad ora, anche quando può essere sembrato che io fossi soggetto ad un giogo durissimo, sono sempre stato il più libero tra gli uomini; e aggiungerò che continuerò ad esserlo nel futuro se si potesse conoscere con certezza ciò che in futuro avverrà. Mi sforzerò ad ogni modo, e spero di riuscirvi, di non imparare da vecchio a servire e di rimanere spiritualmente libero in qualsiasi luogo venga a trovarmi, anche se sarà necessario che nel corpo e nelle altre cose sia soggetto ai potenti, siano essi un solo padrone, come nel mio caso, siano essi numerosi, come nel tuo [allusione al governo repubblicano di Firenze]. Né saprei dirti quale dei due gioghi sia più grave e molesto. Credo però che sia più facile sopportare la tirannia di un uomo che quella di un popolo intero. Se così non fosse stato, se non avessi potuto vivere sempre libero nello spirito, la mia stessa vita sarebbe già giunta al termine, o almeno la mia serenità e la mia felicità; e tu meglio di ogni altro puoi testimoniare che è stato proprio il contrario. Né io saprei adattarmi a servire chiunque, se non spontaneamente e sotto il comando dell’amore (Sen., VI, 2).
Se da un lato, di fronte a queste asserzioni, si deve riconoscere con la sincerità e la buona fede, la difesa compiuta da Petrarca della sua dignità d’uomo e d’intellettuale, dall’altro, come ha scritto Antonio La Penna, si deve anche riconoscere che l’orgoglio di una cultura autonoma, quale certamente fu quella dell’umanista, fu destinato ad essere «per secoli la maschera di un’effettiva dipendenza dalla classe dominante, realizzata dapprima attraverso il mecenatismo, poi attraverso i molteplici e complicati condizionamenti economici dell’organizzazione capitalistica». Certo in Petrarca prende forza la separazione tra anima e corpo, tra «libertà» dell’una e sudditanza dell’altro, tra celebrazione della vita spirituale, liberamente crescente su di sé e dispregio per quel che di materiale (e di materialistico) c’è nella sfera stessa della cultura: lo vedremo meglio nei suoi atteggiamenti verso il sapere scientifico, soprattutto nelle ultime polemiche contro i medici e la filosofia averroistica3. Una separazione, comunque, che era anche postulata dalle esigenze della nuova classe signorile. Forse, ancor più di un alibi, la speranza di poter vivere in indipendenza fu per Petrarca un’illusione, di cui non si saprebbe dire se lo stesso poeta fosse o no consapevole. L’Italia vedeva sorgere ed affermarsi, nella sua parte settentrionale, la signoria e, nell’attività intellettuale, la divisione e la gerarchizzazione dei compiti. Lo stesso Petrarca tendeva a circoscrivere uffici e doveri dell’umanista: esso ad esempio non doveva dare consigli tecnici, condurre gli affari, amministrare la cosa pubblica. Si faceva inoltre chiara e rigorosa distinzione tra studi giuridici e studi letterari, anche se poi il fine dei nuovi studi, per quanto circonfuso di nobiltà e di grandezza, rimanesse, quanto agli scopi pratici, imprecisato. Naturale che essi finissero per rispondere alle esigenze propagandistiche di quella signoria alla cui ombra erano cresciuti. Ma ciò in prospettiva.
2. «studia humanitatis»: ossia “studi di umanità”, con cui si faceva riferimento all’interesse per le discipline letterarie e per gli autori classici.
3. filosofia averroistica: corrente di pensiero che si ispirava al filosofo arabo Averroè (1126-98) e aderiva all’aristotelismo radicale, riteneva cioè che bastassero gli strumenti
razionali nella ricerca della verità, prescindendo dalla rivelazione delle Sacre Scritture.
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L’età comunale in Italia
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Non stupisce però, in questo quadro, che negli otto anni della sua residenza milanese Petrarca compisse, per conto dei suoi signori, importanti missioni diplomatiche. A Venezia, subito nel 1354, per mediare le preoccupazioni della Serenissima per l’allargamento dell’influenza viscontea su Genova; a Praga nel 1356, per chiedere l’appoggio dell’imperatore contro i nemici italiani di Milano; a Parigi sul finire del 1360 per complimentarsi, sempre a nome dei Visconti, per la liberazione del re francese Giovanni II dalla prigionia inglese. Più tardi, in una senile al Boccaccio (la XVII, 2), proprio menzionando queste tre missioni, Petrarca rimpiangerà il tempo che fu costretto a perdere e a strappare agli studi; ma intanto, a partire più o meno dal diciassettesimo libro delle Familiari, le lettere politiche si infittiscono, anche perché lo scrittore volle lasciare ai posteri la testimonianza dei suoi interventi per il bene degli uomini e per la pace tra i popoli e le città, soprattutto italiane. U. Dotti, Francesco Petrarca, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bàrberi Squarotti, vol. I, Dalle origini al Trecento, utet, Torino 1990
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quale funzione ha la parte informativa iniziale (rr. 1-15)? > 2. Quali sono le condizioni della rinuncia, da parte di Petrarca, all’impegno politico che caratterizzava la figura dell’intellettuale nell’età comunale (rr. 16-33)? > 3. Nella lettera a Boccaccio, con quali espressioni Petrarca esprime il concetto di libertà (rr. 34-62)? > 4. Con quale formula è possibile sintetizzare l’opinione del critico sulla libertà di Petrarca (rr. 63-72)? > 5. In che cosa si concretizza l’impegno ugualmente politico dell’intellettuale (rr. 73-84)? AnALIzzAre
> 6.
Lessico Dopo aver consultato il dizionario, definisci l’esatto significato delle espressioni sottolineate nel testo: «Babilonia papale», «organizzazione capitalistica», «gerarchizzazione dei compiti», «esigenze propagandistiche».
APProfondIre e InTerPreTAre
> 7.
esporre oralmente In riferimento a quanto affermato nelle righe 63-72, discuti le conseguenze – in termini di vantaggi e svantaggi – della “specializzazione” dell’intellettuale avviata nel corso del XIV secolo ( Petrarca come nuova figura di intellettuale, pp. 385 e ss.). PASSATo e PreSenTe Libertà dell’intellettuale e classe dominante
> 8. Rifletti sulla seguente affermazione di Antonio La Penna riportata dal critico a proposito del ruolo dell’umanista, che fu «per secoli la maschera di un’effettiva dipendenza dalla classe dominante…» (rr. 53-56). Come giudichi, in base ai tuoi studi e alla tua esperienza personale, il ruolo dell’intellettuale oggi? E chi è oggi l’intellettuale? In che cosa consistono l’impegno e il disimpegno? L’intellettuale è davvero libero? Motiva le tue risposte dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
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L e t t e r a t u r a e Politica
T14
fiamma dal ciel su le tue treccie piova dal Canzoniere, CXXXVI
Testo e realtà
Il sonetto (il primo di una triade dedicata alla corruzione della Curia avignonese) è collocabile abbastanza tardi, agli anni 1352-68, per le consonanze di argomenti e di modi stilistici con le epistole Sine nomine.
Il sonetto pone al centro della riflessione il tema della corruzione della Chiesa nel periodo della cattività avignonese
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.
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Fiamma dal ciel su le tue treccie piova, malvagia1, che dal fiume e da le ghiande per l’altrui impoverir se’ ricca e grande2, poi che di mal oprar tanto ti giova3;
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nido di tradimenti4, in cui si cova quanto mal per lo mondo oggi si spande5, de vin serva, di letti e di vivande, in cui Lussuria fa l’ultima prova6.
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Per le camere tue fanciulle e vecchi vanno trescando, e Belzebub in mezzo co’ mantici e col foco e co li specchi7.
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Già non fostù nudrita in piume al rezzo, ma nuda al vento, e scalza fra gli stecchi: or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo8.
1. Fiamma … malvagia: O chiesa malvagia, ti colpisca la punizione divina! Nell’invettiva contro la Chiesa avignonese, la Curia pontificia è rappresentata come la meretrice dell’Apocalisse (cap. XVII); su di essa il Petrar-
ca invoca la punizione divina, il fuoco (fiamma) che castiga e purifica. 2. che … grande: che, riducendo in povertà gli altri (per l’altrui impoverir), abbandonata la sobria abitudine di dissetarti con semplice
acqua (fiume) e nutrirti di ghiande. Secondo la tradizione, le ghiande erano il nutrimento degli uomini primitivi, semplici e incorrotti. 3. poi che … giova: dal momento che tanto ami (tanto ti giova) la vita peccaminosa. 4. nido di tradimenti: apposizione di malvagia: tu, o Chiesa, che sei… 5. si cova … spande: si prepara tutto il male che poi si diffonde per il mondo. 6. de vin … prova: asservita ai piaceri del bere (de vin; Petrarca più volte ricorda quanto i pontefici apprezzassero il vino francese), della carne e del cibo, in cui il peccato di lussuria (letti) è spinto al suo grado più elevato. 7. Per le camere … specchi: nei tuoi palazzi fanciulle con anziani prelati compiono orge; fra loro è il demonio con i mantici, il fuoco, gli specchi, «per attizzare l’incendio dei sensi» (Contini). 8. Già non fostù … lezzo: al tempo delle origini tu non fosti allevata tra gli agi (in piume, letteralmente: su comodi letti), in ozio (al rezzo, letteralmente: al fresco), ma vivesti esposta alle intemperie e camminasti scalza su un cammino difficile, irto di spine (stecchi): ora vivi in modo talmente corrotto che la puzza di questa corruzione possa giungere fino a Dio.
Analisi del testo
> Le immagini e gli aspetti formali dell’invettiva
L’invettiva apocalittica
Le immagini corpose Un Petrarca vicino a Dante
È un esempio di poesia politica: l’oggetto è la corruzione della Curia di Avignone, dove il papa aveva trasferito la sede pontificia. Il tono è di violenta invettiva e si risolve in prospettive profetiche e apocalittiche. Apocalittica è infatti la prima immagine, la minaccia delle fiamme dal cielo sulla città peccatrice, che rimanda all’episodio biblico della punizione di Sodoma e Gomorra. Biblica è anche l’immagine delle «treccie», che richiama la meretrice delle visione dell’Apocalisse, interpretata nell’esegesi medievale come riferimento alla Chiesa corrotta: «Ti mostrerò la dannazione della grande meretrice, che siede su molte acque, con la quale han fornicato i re della terra» (XVII, 1). L’invettiva si traduce in immagini molto concrete e corpose, del tutto inusuali nella poesia petrarchesca, come quella del vecchio e della fanciulla che si sfrenano in orge nel chiuso delle camere, mentre Belzebù attizza con i mantici il fuoco amoroso sopito. Per l’argomento e il tono profetico-apocalittico, per l’intensità corposa delle immagini, abbiamo qui un Petrarca molto più vicino a Dante. Tipicamente dantesche sono poi le rime aspre e difficili in -ecchi ed -ezzo, che si intonano all’asprezza del tono e delle immagini. 453
L’età comunale in Italia Il rimpianto della Chiesa delle origini La fusione di cultura cristiana e classica
Allo sdegno per la corruzione presente si contrappone il rimpianto per un’età semplice e innocente: vi è il sogno che era stato proprio di tutti i riformatori medievali, di una Chiesa riportata alla condizione originaria di povertà e purezza di costumi, secondo l’insegnamento evangelico. Ed è significativo che la purezza evangelica sia assimilata all’età dell’oro, cantata da tanti poeti classici (il «fiume» e le «ghiande»); si vede qui la presenza delle due culture che si fondono in Petrarca, quella cristiano-medievale e quella classico-umanistica: anche la riforma della Chiesa assume vesti classiche.
> La corruzione della Curia di Avignone
e il rimpianto per la Chiesa del passato
Antitesi e figure retoriche
La contrapposizione tra corruzione presente e purezza passata si concreta in una serie di forti antitesi. Un’antitesi a distanza si crea tra «fiume» e «ghiande» da un lato, «vin», «letti» e «vivande» dall’altro; immediate invece sono quelle tra l’«altrui impoverir» e la Chiesa «ricca e grande», tra «in piume al rezzo» e «nuda al vento, e scalza fra gli stecchi», dove vi è una studiata disposizione a chiasmo. Il discorso è poi ricchissimo di figure retoriche, di metafore (il «nido di tradimenti», il «vento», gli «stecchi»), metonimie («treccie», «fiume», «ghiande», «letti», «camere», «piume»), personificazioni (la Chiesa come meretrice, la «Lussuria»). Visione della grande meretrice, XIV secolo, part. dall’Arazzo dell’Apocalisse, Angers (Francia), Castello.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Giustifica, facendo diretto riferimento al testo, la definizione del sonetto come esempio di poesia politica e di invettiva. > 2. L’apostrofe indirizzata alla Chiesa presenta i peccati secondo la concezione dell’inferno dantesco? Motiva la tua risposta. AnALIzzAre
> 3. > 4. > 5.
Quale figura retorica di posizione individui al verso 1, e quale funzione assume? Individua altre eventuali antitesi presenti nel sonetto e non segnalate nell’Analisi del testo. Stile Quale vocabolo, nella seconda quartina, è collegato alla metafora del «nido»? E quale, invece, attraverso la metonimia, la riprende nell’ultima terzina? > 6. Lessico Il vocabolo «fiamma» (v. 1) appare collegato, sul piano del significato, ad altri termini presenti nel sonetto: quali? > 7. Lingua Analizza dal punto di vista grammaticale le forme verbali «piova» (v. 1) e «vivi» (v. 14). Stile Stile
APProfondIre e InTerPreTAre
> 8.
Contesto: storia In relazione al tema della povertà della Chiesa, ricostruisci il contesto storico e culturale dell’età immediatamente precedente e contemporanea a Petrarca. PASSATo e PreSenTe La Chiesa oggi: povera o potente e ricca?
> 9. La Chiesa oggi: finalmente povera o ancora fondata, nel suo immutato potere, sull’attaccamento ai beni materiali? Motiva la tua risposta dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
454
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Analisi interattiva
T15
La vita fugge, e non s’arresta un’ora
Temi chiave
• la fuga del tempo • l’oscillazione tra passato, presente e futuro
• il dissidio e la sofferenza esistenziale • la metafora della vita come
dal Canzoniere, CCLXXII Il sonetto fa parte della sezione in morte di Laura.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
navigazione in un mare tempestoso
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La vita fugge, e non s’arresta un’ora1, e la morte vien dietro a gran giornate2, e le cose presenti e le passate mi dànno guerra, e le future ancora3;
8
e ’l rimembrare e l’aspettar m’accora, or quinci or quindi4, sì che ’n veritate, se non ch’i’ ò di me stesso pietate, i’ sarei già di questi pensier’ fora5.
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Tornami avanti, s’alcun dolce mai ebbe ’l cor tristo6; e poi da l’altra parte veggio al mio navigar turbati i vènti7;
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veggio fortuna in porto8, e stanco omai il mio nocchier9, e rotte arbore e sarte10, e i lumi bei che mirar soglio, spenti11.
1. e non … un’ora: e non si arresta un attimo. 2. a gran giornate: rapidamente. Traduce l’espressione latina magnis itineribus, “a marce forzate”. 3. e le cose … ancora: il presente e il passato mi tormentano, ed anche il futuro. 4. e ’l rimembrare … quindi: il ricordare il passato e l’aspettare il futuro mi angosciano, ora da una parte (il passato) ora dall’altra (il futuro).
5. se non … fora: se non fosse per la pietà che nutro verso me stesso mi sarei già liberato da queste angosce dandomi la morte. 6. Tornami avanti … tristo: mi ritorna in mente se qualche gioia (dolce) mai provò il cuore dolente. 7. veggio … vènti: metafora della vita come navigazione in un mare tempestoso. 8. veggio … porto: vedo alla fine della vita (in porto) una violenta tempesta (fortuna).
9. nocchier: la ragione. 10. rotte … sarte: spezzati alberi (fuor di metafora la virtù della fortezza) e sartie (tutte le altre virtù dell’uomo). 11. e i lumi … spenti: e privi di luce (spenti) gli occhi belli di Laura che solevo guardare (paragonati alle stelle che servono all’orientamento nella navigazione).
Pesare le parole Rimembrare (v. 5)
> Viene dal latino rememoràri (da memòria), “ricordarsi”,
ma attraverso il francese arcaico remembrer. Nell’italiano moderno è vocabolo usato solo nella lingua letteraria (Leopardi, A Silvia, v. 1: «Silvia, rimembri ancora […]»); in inglese invece è pienamente in uso to remember, che proviene anch’esso dal francese. Ne deriva il sostantivo rimembranza, anch’esso assunto attraverso
il francese (remembrance), come tutte le parole in -anza. Termine essenzialmente letterario, è ancora in uso nella toponomastica di alcune città, dove un Viale o un Parco della Rimembranza è denominato così in onore dei caduti in guerra (particolarmente della Prima guerra mondiale): il vocabolo arcaico è impiegato per dare maggiore solennità.
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L’età comunale in Italia
Competenze attivate
Analisi attiva
• Leggere, comprendere ed interpretare
testi letterari: poesia
ComPrendere
> Un sonetto meditativo
Dopo la morte della donna amata, il poeta manifesta la propria desolazione e s’abbandona a un’intensa meditazione sulla brevità dell’esistenza e sulla precarietà dei valori umani. Il componimento è uno dei più significativi sonetti di introspezione, di analisi di una condizione interiore caratterizzata dal dissidio e dalla sofferenza esistenziale.
> 1. Dopo una prima lettura, riassumi il contenuto del testo in non più di dieci righe.
> 2. Il componimento fa parte della sezione in morte di Laura. Da quale indizio del testo si può desumere?
AnALIzzAre
> La fuga del tempo
Torna un motivo caro a Petrarca e già incontrato più volte: la fuga inarrestabile del tempo e l’incombere della morte, che vanifica il senso dell’esistenza. Ma la consueta oscillazione tra presente e passato si allarga qui ad abbracciare il futuro, che conferisce al dramma interiore un senso maggiore di incertezza e precarietà. La condizione del poeta appare egualmente negativa nel passato, nel presente e nel futuro, senza vie di scampo. Anche la morte, che dovrebbe essere un porto, un rifugio tranquillo, appare fonte d’angoscia, in quanto la salvezza dell’anima è dubbia. L’angoscia deriva inoltre da un senso di logoramento delle forze fisiche e spirituali, che non consente più al poeta di affrontare la tempesta del vivere. L’ultima desolata constatazione è che egli ha perduto la sua guida, Laura. La realtà appare disgregata e l’io irrimediabilmente diviso, privo di punti di riferimento e di certezze.
> Il precipitare del tempo e la struttura del polisindeto
Il motivo centrale della poesia, il precipitare del tempo che genera la crisi esistenziale, è reso mediante la struttura sintattica del polisindeto, che domina tutto il discorso poetico. L’effetto creato dal polisindeto è ribadito dall’affollarsi di verbi di movimento.
> 3. In quali versi compare in primo piano il motivo della fuga inarrestabile del tempo?
> 4. Quali piani temporali entrano in gioco? Qual è l’atteggiamento del poeta verso ciascuno di essi? Da quali espressioni o termini del testo lo deduci? > 5. Rifletti sulle caratteristiche dell’io lirico rappresentato nel sonetto. In particolare, come si rapporta Petrarca al suicidio? E alla vecchiaia?
> 6. Individua le proposizioni coordinate mediante il polisindeto. Come sono distribuite fra quartine e terzine? > 7. Che rapporto si può scorgere tra l’andamento incalzante, quasi affannoso, conferito dal polisindeto e il motivo centrale della fuga del tempo? > 8. Ricerca e isola nel testo i verbi di movimento: sono anch’essi da collegare al tema della fuga del tempo?
> opposizioni binarie
> 9. Ricerca, oltre a quelle già indicate, tutte le opposizioni binarie.
> forti metafore
> 10. La metafora, piuttosto usuale, della vita come navigazione in balia della burrasca è tracciata dal poeta attraverso una serie di immagini di forte intensità. Indivi-
La lacerazione interiore si traduce poi in forti opposizioni binarie, com’è abituale nella poesia petrarchesca: il «rimembrare» e l’«aspettar», «or quinci or quindi». A livello retorico due costruzioni metaforiche si impongono, all’inizio del componimento e alla fine: quella della «guerra» che passato, presente e futuro danno al poeta, anticipata dalle «gran giornate» dell’avanzare della morte, che è modo di dire
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
del linguaggio militare; poi quella, in chiusura, del tempestoso «navigar», che evoca l’idea di un “naufragio” esistenziale.
dua e spiega tutte le espressioni in cui si articola la metafora.
APProfondIre e InTerPreTAre
> L’equilibrio e l’armonia della forma
L’introspezione, tuttavia, non si traduce in uno sfogo spontaneo e tormentato del groviglio di tensioni e inquietudini senza soluzione. Per dare espressione a un mondo interiore contraddittorio, Petrarca ricorre a una forma limpida, equilibrata e armoniosamente perfetta.
T16
> 11. A partire dall’analisi di questo sonetto, e con gli opportuni riferimenti ad altri testi del poeta, spiega in che cosa consiste il classicismo petrarchesco.
Se lamentar augelli, o verdi fronde dal Canzoniere, CCLXXIX
Temi chiave
• l’apparizione di una Laura più umana • la visione della morte come rinascita
Il sonetto fu probabilmente scritto a Valchiusa nella primavera del 1351.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABAB, BABA, CDC, DCD.
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Se lamentar augelli, o verdi fronde mover soavemente a l’aura estiva, o roco mormorar di lucide onde s’ode d’una fiorita e fresca riva,
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là ’v’io seggia d’amor pensoso e scriva, lei che ’l ciel ne mostrò, terra n’asconde1, veggio, ed odo, e intendo ch’ancor viva di sì lontano a’ sospir’ miei risponde.
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«Deh, perché inanzi ’l tempo ti consume? – mi dice con pietate – a che pur versi degli occhi tristi un doloroso fiume?
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Di me non pianger tu, ché’ miei dì fersi morendo eterni, e ne l’interno lume, quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi».
versi 1-8 Se si odono il lamentare degli uccelli, il dolce stormire (mover soavemente) delle foglie alla brezza estiva, il roco mormorio delle acque limpide (lucide onde) da una riva fiorita e ombreggiata, là dove io siedo (seggia) immerso nei pensieri d’amore e scrivo, vedo (veggio) e odo colei che il cielo ci (ne) ha mostrato, la terra in cui è se-
polta ci nasconde, e capisco (intendo) che ancora viva risponde da così lontano ai miei sospiri. 1. mostrò … asconde: si noti l’antitesi. versi 9-14 «Perché ti struggi (consume) prima che sia venuto (inanzi) il tempo (della morte)? – mi dice (Laura) pietosa – perché (a
che) versi dagli occhi tristi un doloroso fiume (di lacrime)? Tu non piangere per me, perché la mia vita (miei dì) è diventata eterna dopo la morte (fersi … eterni), e quando sembrò (mostrai) che io chiudessi (de chiuder) alla vita i miei occhi, fu allora che li apersi alla luce interna dell’anima (interno lume), in Dio».
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo
> L’apparizione di Laura morta
Il paesaggio idillico
Una Laura più umana
È un sonetto di consolazione, che indica un possibile superamento della situazione di crisi descritta in La vita fugge ( T15, p. 455). Si apre con un paesaggio idillico, che è evocato, come di consueto, con linee estremamente stilizzate e richiama tanti altri paesaggi di poesie precedenti (in particolare di Chiare, fresche e dolci acque, T12, p. 439). La natura su cui tante volte aveva campeggiato la figura di Laura suscita nel pensiero del poeta l’immagine della donna: ne scaturisce una visione, in cui Laura ricompare come se fosse viva. Mentre nelle “rime in vita” Laura appariva costantemente remota, altera e inaccessibile, nelle “rime in morte” si fa più umana, si piega a parlare affettuosamente all’amante. È vero che in tutto il Canzoniere Laura è sempre una costruzione mentale del poeta (in Erano i capei d’oro vi è una confessione quasi esplicita: «e ’l viso di pietosi color’ farsi, / non so se vero o falso, mi parea», T11, p. 437); ma ora che, dopo la morte, non è più possibile il riscontro con il reale, Petrarca ama costruire della donna un’immagine più conforme al suo sogno, più consolante, dolce e compassionevole.
> L’accettazione della morte Il passaggio all’eterno
Il superamento della crisi consiste nell’accettazione della morte, che nasce da una presa di coscienza della sua vera natura. Attraverso le parole attribuite a Laura, il poeta espone il suo punto d’approdo: quello che appare un annullamento della persona è in realtà rinascere in una vita più autentica, liberarsi dal peso delle cose terrene, passare alla dimensione dell’eterno e aprire gli occhi alla suprema verità. L’affermazione finale («ne l’interno lume [...] gli occhi apersi») rovescia e supera così la desolata affermazione del verso 6 («terra n’asconde»). Nella struttura funzionale del sonetto, il sereno paesaggio iniziale appare in tal modo legato alla conclusione e si offre come un preannuncio di questa situazione finale di serenità, o meglio, di dolore accettato e purificato.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Dove si trova il poeta? Quale scenario naturale evoca il ricordo dell’amata? > 2. Che cosa immagina il poeta che Laura risponda, vedendolo addolorato? AnALIzzAre
> 3.
Stile Analizza il componimento dal punto di vista metrico; osserva in particolare le due quartine, confrontandone lo schema con i sonetti precedenti e i successivi presenti nel volume: è ricorrente o si tratta di un esempio isolato? > 4. Stile Individua nel testo esempi di rima inclusiva. > 5. Stile Quale figura individui nel verso 2? > 6. Stile Rileva nella prima quartina la figura del chiasmo. > 7. Stile Individua le antitesi presenti nel sonetto. > 8. Stile Come sono coordinati i tre verbi al verso 7? La loro successione quale figura produce? > 9. Lingua Come si articola il sonetto dal punto di vista sintattico in relazione al metro e rispetto ai contenuti espressi?
APProfondIre e InTerPreTAre
> 10.
Scrivere Questo sonetto appartiene alla seconda parte del Canzoniere, che raccoglie le “rime in morte” di Laura. A partire dalla sua analisi, in un testo di circa 15 righe (750 caratteri) rifletti sugli elementi di novità che si possono cogliere nella rappresentazione dell’amata rispetto alle “rime in vita”.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
T17
Levommi il mio penser in parte ov’era
Temi chiave
• la beatificazione di Laura • l’affettuoso colloquio con il poeta • la soddisfazione del desiderio cercata
dal Canzoniere, CCCII
nel sogno
Il sonetto fu composto a Valchiusa fra l’estate del 1351 e la primavera successiva.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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Levommi il mio penser in parte ov’era quella ch’io cerco, e non ritrovo in terra1: ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra2, la rividi più bella e meno altera3.
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Per man mi prese, e disse: – In questa spera sarai ancor meco, se ’l desir non erra4: i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra, e compie’ mia giornata inanzi sera5.
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Mio ben non cape in intelletto umano6: te solo aspetto, e quel che tanto amasti e là giuso è rimaso, il mio bel velo7 –.
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Deh perché tacque, ed allargò la mano? Ch’al suon de’ detti8 sì pietosi e casti poco mancò ch’io non rimasi in cielo.
1. Levommi … terra: il mio pensiero mi elevò in un luogo (il cielo) nel quale era Laura, colei che io cerco e non trovo sulla terra. 2. fra … serra: fra coloro che hanno eterna dimora nel terzo cielo del paradiso, il cielo di Venere, ossia degli spiriti amanti. 3. più bella … altera: la bellezza di Laura ha trovato il suo compimento celeste, dunque
è più perfetta; il suo atteggiamento verso Petrarca è meno altèro, ossia più dolce ed affettuoso che sulla terra, dove cedere alle richieste di colui che l’amava sarebbe equivalso a compromettere la virtù. 4. In questa … erra: sarai un giorno con me in questo cielo (spera), se il desiderio non mi inganna.
5. i’ so’… sera: io sono colei che tanto ti fece soffrire e conclusi la mia esistenza prima di giungere alla vecchiaia (sera). 6. Mio ben … umano: la mia beatitudine non può essere concepita da intelletto umano. 7. velo: corpo (che risorgerà il giorno del giudizio). 8. detti: parole.
Pesare le parole Altera (v. 4)
> Altero viene da alto e significa “che ha alta opinione
di sé, della propria superiorità, superbo, orgoglioso” (es. un uomo altero), oppure “atteggiamento che deriva da tale concezione” (es. sguardo, portamento altero). Sinonimo è altezzoso, sempre dalla radice di alto. Non ha parentela con alterare, che viene invece
dal latino alter, “altro”, e vuol dire “render altro, modificare qualcosa, specialmente peggiorandolo” (es. il caldo altera i cibi), oppure “falsificare” (es. alterare i registri contabili), e in senso figurato “rendere irascibile” (es. basta un niente per alterarlo), anche nella forma riflessiva, alterarsi, “adirarsi”.
Analisi del testo
> La visione di Laura in cielo
Laura mite e benevola
Il sonetto riprende una tematica cara a Petrarca, la beatificazione di Laura trasformata in creatura celeste, e presenta la donna in atteggiamento di affettuoso colloquio con il poeta. Il “pensiero” dell’amante suscita la visione di Laura in cielo. Come altrove, il poeta si costruisce un’immagine di Laura mite e benevola. In questa visione Laura confessa il suo 459
L’età comunale in Italia
amore e il suo desiderio che l’amante possa ricongiungersi con lei in paradiso. La soddisfazione del desiderio del poeta diviene un fatto puramente immaginario, è possibile soltanto nel sogno, ed è condizionata da una totale spiritualizzazione del sentimento, dal definitivo rifiuto di ogni impulso sensuale: l’unione sarà possibile solo in cielo, e quando anche Petrarca avrà abbandonato la sua spoglia mortale.
> La ripresa di motivi cortesi e stilnovistici
Iacopo da Lentini
Dante
Petrarca
Un sogno consolante
La visione della donna amata in paradiso riprende un motivo tipico della poesia d’amore cortese e stilnovistica: si è visto il sonetto Oltre la spera che più larga gira di Dante ( cap. 4, T7, p. 251). Ma si può di nuovo misurare (come già per Erano i capei d’oro, T11, p. 437 e Chiare, fresche e dolci acque, T12, p. 439) la distanza che separa Petrarca da quei modelli che pure riecheggia ed il senso diverso che egli impone a quelle tematiche. Nel sonetto di Iacopo da Lentini la collocazione della donna in cielo è una forma iperbolica di complimento galante, che obbedisce alle convenzioni dell’amor cortese. L’atmosfera cortese si riflette anche sulla rappresentazione del paradiso, che si presenta nelle apparenze di una “corte d’amore” feudale («u’ si mantien sollazzo, gioco e riso»). La “gloria” finale della donna non ha nulla di mistico, allude semmai alla preminenza della donna in un ambito elegantemente mondano dove essa è fatta oggetto d’amore e di corteggiamento. In Dante si impone invece decisamente una dimensione mistico-teologica. Gli elementi caratterizzanti della visione sono infatti il richiamo alla concezione cosmologica fissata dalla teologia (le sfere celesti, l’Empireo); l’«intelligenza nova» che nasce dall’amore e che innalza l’anima al cielo; Beatrice splendente di luce nell’Empireo; la contemplazione estatica dello spirito separatosi dal corpo; il carattere oltreumano dell’oggetto della visione, che si traduce nell’ineffabilità (il poeta non intende il “pensiero” che gli narra la visione, tanto parla «sottile»). In Petrarca scompare ogni dimensione mistico-teologica. Se la Beatrice dantesca era una creatura sovrannaturale, inaccessibile, che poteva solo essere contemplata e adorata nella luce della sua gloria, senza che alcun dialogo si instaurasse tra lei e il «peregrino spirito», Laura è molto umana, tanto che può piegarsi a colloquiare affettuosamente col poeta, ponendosi sul suo stesso piano. La visione nasce dal bisogno di veder soddisfatto uno struggente desiderio («quella ch’io cerco, e non ritrovo in terra», v. 2); con la fantasia, Petrarca si costruisce una Laura che ricambia il suo amore e desidera ardentemente di ricongiungersi con lui: non siamo di fronte a una visione mistica, ma ad una fantasticheria consolante, ad un sogno ad occhi aperti. Dalla dimensione teologica e metafisica di Dante si passa ad una dimensione puramente psicologica.
> due visioni del mondo Un’esperienza puramente psicologica
460
La «gloria» di Beatrice ha per Dante un’indubitabile oggettività; Laura invece è una costruzione tutta soggettiva, che ha la sua sede solo nell’intimità dell’anima. Per cui la beatitudine paradisiaca, a cui Petrarca allude nell’ultima terzina, è una pura metafora, dietro cui si cela l’esperienza psicologica della soddisfazione del desiderio cercata nel sogno. Allargando gli orizzonti del discorso, la distanza che separa le due immagini femminili fa sentire la distanza fra le complessive visioni del mondo dei due poeti: Dante rappresenta oggettivamente un’esperienza di rapimento mistico perché è fiducioso nell’ordine oggettivo del mondo, garantito dall’«orma» impressavi da Dio (Paradiso, I, vv. 103-108); Petrarca si chiude nell’esperienza soggettiva perché l’unica realtà certa e dominabile è per lui quella interiore ( Le opere religioso-morali, p. 387, e Classicismo formale e crisi interiore, p. 420).
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quale affermazione presente nel testo denuncia la forte componente psicologica e non realistica? > 2. Che cosa intende il poeta con l’espressione «là giuso» (v. 11)? > 3. Laura appare angelo o creatura terrena? Motiva la tua risposta. AnALIzzAre
> 4.
Stile Individua nel sonetto: a) le allitterazioni; b) le rime inclusive; c) le antitesi. > 5. Lessico Quale significato assume il verbo «Levommi» (v. 1)? Considera sia il motivo della visione al centro di questo sonetto sia la condizione psicologica da cui esso scaturisce ( Analisi del testo). > 6. Lingua Individua e commenta, tenendo conto anche della loro disposizione, la presenza degli aggettivi possessivi e dei pronomi personali nella prima terzina. > 7. Lingua Indica il valore delle proposizioni subordinate «se ’l desir non erra» (v. 6) e «ch’io non rimasi in cielo» (v. 14).
APProfondIre e InTerPreTAre
> 8.
esporre oralmente
Scrive Jorge Luis Borges a proposito della Beatrice dantesca:
Morta Beatrice, perduta per sempre Beatrice, Dante giocò con la finzione di ritrovarla, per mitigare la tristezza; io personalmente penso che abbia edificato la triplice architettura del suo poema per introdurvi quell’incontro. J. L. Borges, L’incontro in un sogno, a cura di T. Scarano, in Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001
Commenta liberamente in un’esposizione orale (max 5 minuti) l’affermazione del celebre scrittore argentino e spiega se tale teoria può essere applicata anche al personaggio di Laura per Petrarca. > 9. Competenze digitali Elabora un prodotto multimediale che comprenda: a) la registrazione (in podcast audio) di una tua personale, ma accurata e rispettosa della metrica, lettura del sonetto; b) un accompagnamento musicale a tua scelta che tenga conto del tema trattato e del commento effettuato nel corso della lezione.
T18
zefiro torna, e ’l bel tempo rimena dal Canzoniere, CCCX
Temi chiave
• il ritorno della primavera • il contrasto tra la serenità della natura e il dolore per la morte di Laura
È un sonetto di anniversario (si ricordi che l’incontro con Laura avvenne «il dì sesto d’aprile»), ed è databile probabilmente al 1352.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABAB, ABAB, CDC, DCD.
4
1. ’l bel tempo rimena: riporta la buona stagione. 2. sua … famiglia: fiori ed erbe sono il naturale seguito (famiglia) della primavera annunciata da Zefiro, il tiepido vento che
Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena1, e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia2, e garrir Progne e pianger Filomena3, e primavera candida e vermiglia. soffia da occidente, che prelude alla bella stagione. 3. e garrir … Filomena: completano il quadro primaverile il garrire della rondine (Progne) e il canto dell’usignuolo (Filomena).
Secondo il mito classico le giovani Progne e Filomena furono trasformate nei due uccelli. La leggenda è nota a Petrarca attraverso le Metamorfosi di Ovidio.
461
L’età comunale in Italia
8
Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena; Giove s’allegra di mirar sua figlia4; l’aria e l’acqua e la terra è d’amor piena; ogni animal d’amar si riconsiglia5.
11
Ma per me, lasso, tornano i più gravi sospiri6, che del cor profondo tragge quella ch’al ciel se ne portò le chiavi7;
14
e cantar augelletti, e fiorir piagge, e ’n belle donne oneste8 atti soavi sono9 un deserto, e fere10 aspre e selvagge.
4. Giove … figlia: Giove pare rallegrarsi nel vedere la luce del pianeta Venere divenuta più intensa e luminosa. Ancora un riferimento mitologico, questa volta a Venere, figlia di Giove. Venere, dea dell’amore, esercita intensamente il suo influsso a primavera.
5. ogni … si riconsiglia: ogni essere animato si dispone ad amare. 6. Ma … sospiri: se per tutte le altre creature la primavera segna il ritorno della gioia e dell’amore, per il poeta è causa di maggior dolore, perché la donna amata è morta.
7. quella … chiavi: colei, Laura, che portò con sé in cielo le chiavi del mio cuore (la mia vita). 8. oneste: decorose. 9. sono: sono per me. 10. fere: fiere.
Analisi del testo Il ritorno della primavera
Lo stile riflette l’antitesi di fondo
I cambiamenti di ritmo
Il senso d’intimità
462
> La struttura ad antitesi
Il sonetto è costruito su un’antitesi: il ritorno della primavera, stagione della vita e della gioia, porta con sé serenità e amore, che pervadono tutta la natura; da tanta serenità è escluso il poeta, anzi la gioia della natura accentua, per contrasto, il suo dolore per la morte della donna amata. Di qui deriva il rovesciamento di prospettive operato dalle terzine (segnato dalla forte avversativa «Ma» all’inizio del primo verso della seconda parte). L’estraneità del poeta al trionfo della gioia e dell’amore riduce ai suoi occhi la vita più rigogliosa e la bellezza più soave ad un arido «deserto». Il motivo del ritorno della primavera è folto di reminiscenze classiche: Catullo («Già la primavera riporta i tepori che sciolgono il gelo, già la furia del cielo nel periodo equinoziale si placa ai soavi soffi di Zefiro», Canzoniere XLVI, vv. 1-3:); Orazio («Si scioglie il pungente gelo dell’inverno al gradito ritorno della primavera e di Favonio », Odi, I, 4, v. 1; «Si sono dissolte le nevi, torna già l’erba nei campi», Odi, IV, 7, v. 1). Agli echi dei poeti classici si mescolano i preziosi rimandi mitologici (Progne, Filomena, Giove e la figlia Venere). Il ritorno della primavera è inoltre un motivo caro alla poesia trobadorica. Sul modello classico e cortese, e secondo la consuetudine abituale di Petrarca, la rappresentazione della natura primaverile è estremamente stilizzata e ricalca tutta la serie dei topoi fissati dalla convenzione letteraria.
> L’organizzazione stilistica
L’antitesi tra le due parti del sonetto si riflette nella sua organizzazione stilistica. Nelle quartine, il senso di slancio vitale e gioioso è reso mediante l’agilità veloce e scorrevole della paratassi e del polisindeto («[...] e ’l bel tempo rimena, / e i fiori e l’erbe [...] / e garrir Progne e pianger Filomena, / e primavera [...]»; «l’aria e l’acqua e la terra [...]»). Anche il ritmo dei versi è dolcemente cantabile: la scorrevolezza musicale è data dalla perfetta coincidenza dei membri sintattici con la misura del verso, senza fratture interne né enjambements, e dal gioco vario degli accenti. Il ritmo cambia bruscamente nella prima terzina, dove si affaccia la sofferenza del poeta: è rotto da incisi («lasso») e da due duri enjambements («gravi / sospiri», «tragge / quella»), che separano elementi strettamente legati dal punto di vista sintattico (aggettivo-sostanti-
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
vo, predicato-complemento oggetto). Nella seconda terzina, con il richiamo alla natura gioiosa, vi è una ripresa momentanea del polisindeto agile e musicale («e cantar [...]», «e fiorir [...]», «e ’n belle donne»); ma l’andamento scorrevole è di colpo troncato dal verso di chiusura, spezzato a metà dalla cesura («sono un deserto, // e fere aspre e selvagge»), e caratterizzato da suoni aspri («deserto», «fere», «aspre», «selvagge»).
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. In circa 5 righe (250 caratteri) riassumi il contenuto delle quartine. > 2. Svolgi la parafrasi degli ultimi tre versi, in cui il poeta riprende (vv. 12-13) e rovescia (v. 14) quanto espresso nelle quartine. Che cosa si trasforma in «deserto» e «fere aspre e selvagge»?
AnALIzzAre
> 3. > 4. > 5.
Spiega la metafora «quella ch’al ciel se ne portò le chiavi» (v. 11), riferita al cuore del poeta. Quale figura retorica è presente nel verso 5? Lessico «Torna» (v. 1), «rimena» (v. 1), «si riconsiglia» (v. 8), «tornano» (v. 9): quale tema mettono in evidenza questi verbi? Stile Stile
APProfondIre e InTerPreTAre
> 6.
Testi a confronto: scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) svolgi un confronto con il sonetto Solo e pensoso i più deserti campi ( T9, p. 433), cogli le somiglianze dal punto di vista lessicale e rifletti sul senso di esclusione che accomuna i due componimenti. > 7. Altri linguaggi: arte La rinascita della natura nella stagione primaverile è raffigurata in modo esemplare nella Primavera di Botticelli. Elemento comune nell’opera del pittore fiorentino e nel sonetto petrarchesco, oltre all’atmosfera primaverile evocata attraverso «i fiori e l’erbe», «i prati, e ’l ciel», è la figura di Zefiro. Osserva nel dipinto tale particolare e rispondi alle seguenti domande. a) In alto a destra Zefiro, vento dell’ovest, annuncia la Primavera mentre cattura, guardandola negli occhi e preso dalla passione, la ninfa Cloris alla quale, come ci racconta Ovidio nei Fasti, concederà il dono di far fiorire tutto ciò che tocca. Come è raffigurato il vento? Con quali colori e con quale espressione del volto? Perché? b) Che cosa accade a Cloris? Quale metamorfosi subisce? Noti elementi di continuità tra questa figura e quella di Flora, posta accanto e personificazione della Primavera?
Sandro Botticelli, Primavera, 1477-82, tempera e olio su tavola, part., Firenze, Galleria degli Uffizi.
Per IL reCUPero
> 8. Qual è il motivo centrale del sonetto? > 9. Rintraccia nel sonetto la costruzione paratattica e il polisindeto: dove ricorrono? Che cosa comunicano? > 10. C’è coincidenza, nelle quartine, tra sintassi e misura del verso? E nelle terzine? Ci sono spezzature o enjambements? Come risulta, pertanto, in queste ultime il ritmo dei versi? PASSATo e PreSenTe La visione soggettiva della realtà
> 11. La poesia lirica si basa sulla possibilità di leggere il mondo in modo completamente soggettivo. Prova a descrivere l’ambiente che ti circonda e poi confronta le tue percezioni con quelle dei compagni, per cogliere le differenze di prospettiva. Quanto influiscono sulla descrizione della realtà lo stato d’animo e la personalità?
463
L’età comunale in Italia
T19
Sento l’aura mia antica e i dolci colli dal Canzoniere, CCCXX
Temi chiave
• l’assenza della donna amata • il ricordo • un paesaggio noto e desolato
Il sonetto risale quasi sicuramente all’estate del 1351 ed è ispirato da un ritorno di Petrarca in Provenza.
> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.
4
Sento l’aura mia antica, e i dolci colli veggio apparire1, onde ’l bel lume nacque, che tenne gli occhi mei mentr’ al ciel piacque bramosi e lieti, or li ten tristi e molli2.
8
O caduche speranze, o penser’ folli3! Vedove4 l’erbe e torbide son l’acque, e voto e freddo ’l nido in ch’ella giacque5, nel qual io vivo e morto giacer volli,
11
sperando alfin da le soavi piante e da’ belli occhi suoi, che ’l cor m’hann’arso, riposo alcun de le fatiche tante6.
14
Ho servito a signor crudele e scarso7: ch’arsi quanto ’l mio foco8 ebbi davante, or vo piangendo il suo cenere sparso.
1. Sento … apparire: il poeta ritorna ad Avignone, il luogo in cui era vissuto a lungo nel passato e dove aveva conosciuto Laura. 2. onde … molli: dove nacque la bella luce (Laura) che mantenne i miei occhi bramosi e lieti (di vederla), sinché il cielo volle, ora li tiene tristi e umidi di lacrime. 3. O caduche … folli: le speranze di essere riamato da Laura si sono rivelate effimere
ed i pensieri concepiti intorno a lei folli: la morte della donna ha dissolto ogni cosa. 4. Vedove: prive della presenza di Laura. 5. ’l nido … giacque: il luogo in cui ella visse. 6. e morto … tante: è un evidente riferimento alla canzone Chiare, fresche e dolci acque, strofe 2-3 ( T12, p. 439), in cui Petrarca vagheggiava la morte come liberazione dai suoi tormenti e sperava che Lau-
ra venisse sulla sua tomba e provasse finalmente pietà per lui. Le piante sono i piedi che Laura, nella fantasia del poeta, doveva posare sulla terra che lo ricopriva. 7. signor … scarso: Amore, un signore crudele e avaro nel concedergli quanto desiderava. 8. ’l mio foco: Laura, che accendeva in lui il fuoco d’amore.
Analisi del testo Il rovesciamento di Se lamentar augelli
Il rovesciamento di Chiare, fresche e dolci acque
464
> I luoghi del passato
L’impostazione del sonetto è antitetica a quella di Se lamentar augelli, o verdi fronde ( T16, p. 457): là un paesaggio idillico e ridente evoca l’immagine di Laura morta, a cui ridà vita il sogno del poeta; qui un analogo paesaggio idillico appare vuoto e desolato, proprio per l’assenza della donna. La poesia è costruita sul consueto gioco di piani temporali e sul motivo del ricordo. Il poeta ritorna sui luoghi del passato, che sollecitano dolci memorie. Ma il presente è la negazione di quei ricordi e il rovesciamento delle speranze di un tempo. I luoghi legati alle memorie liete sono gravati da un senso di morte, che toglie serenità e gioia al paesaggio. La poesia è anche la ripresa a distanza dei motivi della canzone Chiare, fresche e dolci acque ( T12, p. 439). I luoghi salutati al ritorno sono quelli in cui al poeta, allora, era apparsa Laura nel trionfo della sua bellezza. Ma quei motivi sono rovesciati: le erbe, che la gonna di Laura ricopriva con «l’angelico seno» ( T12, v. 9, p. 439), sono «vedove» della sua presenza, le acque, che erano «chiare» e «fresche», ora appaiono «torbide».
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Sul paesaggio si proietta lo stato d’animo cupo di chi l’osserva. Il poeta richiama anche le fantasticherie d’un tempo, il vagheggiarsi morto nella speranza che Laura, venendo sulla sua tomba, provasse finalmente pietà per lui: ma morta invece è Laura, ed egli è rimasto in vita. Le antitesi
Il procedimento binario
> La costruzione formale
Il contrasto di situazioni su cui si regge la poesia e l’opposizione di piani temporali si traduce in una serie studiata di antitesi: gli occhi un tempo «bramosi e lieti» ora «tristi e molli», «io vivo» e «morto giacer volli», «arsi» e «foco» a cui si contrappongono «piangendo» e «cenere sparso» (dove spargere lacrime, evocando l’idea dell’acqua, è il contrario dell’ardere, e la cenere è il contrario del fuoco). Accanto alle antitesi si collocano poi le coppie di sostantivi accompagnati da aggettivo, oppure le coppie di soli aggettivi: è il procedimento binario caro a Petrarca, che abbiamo altre volte sottolineato e che riproduce da un lato la lacerazione interiore, dall’altro la volontà di ricomporla armonicamente: «aura mia antica» e «dolci colli», «caduche speranze» e «penser’ folli» (dove la simmetria è sottolineata dalla rima «colli» / «folli» e dalla collocazione al primo verso di ogni quartina), «Vedove» [...] erbe» e «torbide [...] acque», «soavi piante» e «belli occhi», nido «voto e freddo», signor «crudele e scarso».
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Riassumi il contenuto della prima quartina. > 2. A quale momento si riferisce l’espressione «morto giacer volli» (v. 8)? A quale episodio? AnALIzzAre
> 3.
Stile Individua tutte le figure di ripetizione presenti nel sonetto (ivi compresi i poliptoti e le figure etimologiche). A quali temi esse si collegano e danno risalto? > 4. Stile Con quali immagini è indicata Laura?
APProfondIre e InTerPreTAre
> 5.
Audio
Scrivere Con l’aiuto dell’Analisi del testo, spiega in un testo di circa 15 righe (750 caratteri) quale funzione svolge in questo sonetto la descrizione del paesaggio. Si tratta a tuo avviso di una funzione ricorrente nel Canzoniere petrarchesco? Rispondi facendo opportuni riferimenti esemplificativi a questo e ad altri testi a te noti. > 6. Altri linguaggi: musica Quello della malinconia e del dolore per la perdita dell’amata è tema di tutti i tempi ed interessa tutte le arti: la storia del cantore Orfeo e della ninfa Euridice, in particolare, ripresa e celebrata nella letteratura classica da Virgilio (Georgiche IV, 464-566) e da Ovidio (Metamorfosi, X, 1-77), tematizza tale condizione. Dopo aver ascoltato ed analizzato il testo della canzone Orfeo ed Euridice del cantautore contemporaneo Roberto Vecchioni, rileva analogie e differenze rispetto alla versione originaria del mito. Che cosa rappresenta, in generale, Orfeo? Quale scelta singolare compie nel testo di Vecchioni?
Roberto Vecchioni in concerto, 2012, fotografia.
465
L’età comunale in Italia
T20
o cameretta che già fosti un porto dal Canzoniere, CCXXXIV
Temi chiave
• la paura della solitudine • la fuga del poeta da se stesso • il tormento interiore
Nel sonetto il tema della sofferenza interiore s’intreccia con quello della solitudine, affrontato in modo inconsueto.
> metro: sonetto; schema delle rime ABBA, ABBA, CDE, CDE.
4
O cameretta1 che già fosti un porto a le gravi tempeste2 mie dïurne, fonte se’ or di lagrime notturne, che ’l dì celate per vergogna porto.
8
O letticciuol3 che requie eri e conforto in tanti affanni, di che dogliose urne4 ti bagna Amor, con quelle mani eburne5, solo ver’ me crudeli a sì gran torto!
11
Né pur il mio secreto e ’l mio riposo6 fuggo, ma più me stesso7 e ’l mio pensero, che, seguendol, talor levommi a volo;
14
e ’l vulgo a me nemico e odïoso (chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero: tal paura ho di ritrovarmi solo.
versi 1-8 O cameretta che un tempo (già) fosti un luogo di rifugio (porto) alle (mie) gravi tempeste quotidiane (dïurne), ora sei causa di lacrime notturne, che durante il giorno cerco di nascondere (celate … porto) per la vergogna. O lettino che eri (per me fonte) di riposo (requie) e conforto fra tante angosce, di quali lacrime dolorose (dogliose) ti bagna Amore, come se le versasse da due urne, con quelle mani d’avorio (eburne), tanto ingiustamente crudeli solo nei miei confronti! 1. O cameretta: è uno spazio caro a Petrarca, che ad essa si rivolge oggettivando i propri sentimenti. 2. tempeste: cioè i tormenti d’amore. 3. O letticciuol: altro vocativo diminutivo. 4. dogliose urne: gli occhi del poeta. 5. eburne: nel senso di bianchissime; sono le mani di Laura. versi 9-14 Né fuggo solamente il mio rifugio (secreto) e il mio riposo, ma (fuggo) maggiormente me stesso e il mio pensiero, che, quando talvolta l’ho seguito, mi ha condotto verso alti ideali (levommi a volo); e cerco (chero) come mio rifugio (chi mai l’avrebbe creduto?) la compagnia della gente comune (vulgo) che ha sempre suscitato in me ostilità e disprezzo (nemico e odïoso):
466
tanta è la paura (che) ho di ritrovarmi solo. 6. il mio secreto … mio riposo: rispettivamente la cameretta e il letticciuol.
7. ma più me stesso: più che la cameretta ed il letticciuol il poeta rifugge la solitudine con se stesso.
Francesco Petrarca nel suo studio, 1370-74, affresco, part., Padova, Palazzo Liviano, Sala dei Giganti.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Analisi del testo Una contraddizione psicologica
La paura della solitudine
Questo sonetto è espressione di una contraddizione psicologica ed esistenziale, di un turbamento che altera i rapporti con la realtà, introducendo una frattura nella percezione delle cose. I vocativi che aprono le quartine esprimono, rievocandola affettuosamente in forma diminutiva, una situazione intima e domestica, che, per effetto della passione, ha mutato il suo aspetto e la sua funzione: prima («già») fonte di serenità e di pace, adesso («or») di affanno e di dolore. Il contrasto fra presente e passato, sottolineato dal mutamento del registro temporale, appare così il segno di una dissociazione esistenziale, che pone il poeta davanti al proprio tormento interiore. La fuga da se stesso coincide allora con la paura della solitudine, con lo stupore (indicato dalla parentesi dubitativa e interrogativa) che deriva dalla scoperta folgorante di una verità paradossale: dover cercare rifugio fra la gente che un tempo fuggiva come nemico odioso ( Solo e pensoso i più deserti campi, T9, p. 433).
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Completa la tabella sintetizzando il contenuto di ogni strofa in un sommario, secondo l’esempio proposto. Strofa
Sommario
I
Invocazione del poeta alla propria “cameretta”, che, a differenza del passato, ora è motivo e luogo di sofferenza. ..............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
II
..............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
III
..............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
IV
..............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
AnALIzzAre
> 2. Stile Nel testo sono presenti rime equivoche e inclusive: individuale. > 3. Stile Individua i due casi di enjambement unito a un’anastrofe, e commentali in base al significato dei vocaboli interessati. > 4. Stile Individua la fitta rete di antitesi presenti nel testo. > 5. Stile «Cameretta» (v. 1) e «letticciuol» (v. 5): perché Petrarca ricorre ai diminutivi? A quale registro appartengono? > 6. Lessico Individua nel testo i termini colti e aulici. > 7. Lingua Analizza i tempi verbali presenti nel sonetto proponendo uno schema che sintetizzi il rapporto passa-
to/presente espresso dal poeta.
APProfondIre e InTerPreTAre
> 8.
Scrivere Rifletti sulle caratteristiche del tormento interiore che angoscia il poeta e sulla concezione della solitudine presente nel sonetto, facendo eventuali confronti con altri componimenti a te noti che sviluppino un tema analogo. Quale figura di intellettuale si delinea nel sonetto? È un intellettuale sicuro di sé, in grado di offrire certezze, o lacerato dal dubbio? Rispondi in un testo di 10 righe (500 caratteri).
Per IL reCUPero
> 9. Quale metafora è sviluppata nella prima quartina? Dopo averla individuata, prima trasformala in similitudine, poi commentala in base alla poetica dell’autore.
> 10. Individua nel testo tutti i vocaboli (pronomi personali, aggettivi possessivi) che rimandano alla soggettività dell’autore.
PASSATo e PreSenTe La solitudine del discorso amoroso
> 11. Il critico letterario, linguista e semiologo francese Roland Barthes afferma che «il discorso amoroso è oggi
d’una estrema solitudine», e questa sua condizione lo rende «luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione» (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, trad. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1979): qual è il tuo pensiero in proposito? Ritieni che gli attuali mezzi di comunicazione (i social network, ad esempio) permettano facilmente all’individuo di condividere con altri le sofferenze d’amore abbattendo così la solitudine? Esponi le tue idee dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.
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L’età comunale in Italia
6 L’aspirazione all’organicità conclusiva
Il De remediis
I Trionfi
Immagine interattiva I Trionfi dipinti
Il fallimento della costruzione unitaria
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L’aspirazione all’unità: i Trionfi e il De remediis utriusque fortunae
Videolezione
Le opere sin qui esaminate offrono il percorso delle contraddizioni intime del poeta e del loro riscatto mediante la bella forma letteraria. Ma in Petrarca sussiste pur sempre l’esigenza di superare realmente i suoi dissidi, di comporli in una effettiva unità. Questa aspirazione si traduce nell’intento di esprimere le sue esperienze non più in opere occasionali e frammentarie (si tenga presente la punta di disprezzo con cui il poeta intitola la sua raccolta Rerum vulgarium fragmenta e la definisce «rime sparse»), ma in opere di vasto disegno, organiche e conclusive. Non a caso, per concretare questi propositi sistematici, Petrarca deve ricorrere a schemi costruttivi tipicamente medievali, il poema allegorico con i Trionfi e l’enciclopedia morale col De remediis utriusque fortunae (“I rimedi della buona e della cattiva sorte”): solo nella cultura più strettamente medievale egli poteva trovare impalcature formali capaci di reggere il suo disegno. Le due opere furono iniziate probabilmente durante il soggiorno milanese (1353-61) e portate avanti sino alla vecchiaia. Nel De remediis, scritto in latino come tutte le sue opere in prosa, Petrarca passa in rassegna tutti i mezzi con cui l’uomo può resistere sia alle lusinghe della sorte favorevole, sia ai colpi di quella avversa; per far questo, si fonda sulla sua personale esperienza, proponendosi come modello di superiore saggezza. I Trionfi sono invece un poema in volgare costruito in forma di visione, che rimanda evidentemente, nell’impianto, nelle soluzioni narrative, e persino nel metro (la terzina a rime incatenate, ABA, BCB...), al modello della Commedia. Il poeta narra di assistere alla sfilata di varie figure allegoriche, nell’ordine l’Amore, la Pudicizia, la Morte ( T21, p. 469), la Fama, il Tempo, l’Eternità, al cui seguito compaiono schiere di personaggi esemplari, tratti dal mito e dalla storia, antica e recente. Dietro alle astratte strutture allegoriche si può scorgere il riflesso della vicenda personale del poeta, quella stessa che è esplorata nel Canzoniere. Come indica la successione delle figure allegoriche elencate, i momenti di questa vicenda sono: la passione d’amore del poeta, il freno ad essa imposto dalla virtù di Laura che non cede ai suoi desideri, la morte che placa le inquietudini della carne sottraendo alla vita terrena la donna amata, l’aspirazione alla gloria che dovrebbe vincere la morte, lo scorrere del tempo che cancella ogni cosa, anche il ricordo della gloria, e infine l’ansia della pace eterna, in cui si compone ogni contrasto. Anche i Trionfi dunque, come il Secretum e le Rime, vorrebbero offrire il diagramma di una “conversione”, di una rinuncia al mondo per attingere alla salvezza e alla pace celeste. Ma, a differenza di quelle sue due opere, Petrarca intende abbandonare il piano dell’esperienza puramente soggettiva e individuale per innalzarsi, sul modello della Commedia, ad un piano universale, sottolineando nella propria vicenda il destino di tutti gli uomini e proponendola come occasione di meditazione e ammaestramento morale. Nonostante questa aspirazione ad un superamento delle contraddizioni e ad una soluzione conclusiva, il poeta non riesce a raggiungere il «riposato porto» della pace. Benché egli tenda alla salda costruzione unitaria, di tipo dantesco, non è poi in grado effettivamente di costruire, perché gli manca quella sicura e organica visione del mondo che stava alla base delle architetture della Commedia e ne costituiva l’intima sostanza e la forza. Quindi la trama concettuale dei Trionfi non è animata dalla vitalità del poema dantesco e si riduce ad una serie di schemi astratti, di simbologie intellettualistiche, soffocate da una minuta quanto arida erudizione. Anche il movimento narrativo è solo apparente, e si traduce in una schematica addizione di episodi, in tediose rassegne e interminabili elenchi, che vanamente il poeta tenta di ravvivare variando con la sua perizia retorica le formule di presentazione dei personaggi. Anche i Trionfi perciò, con il fallimento della costruzione artistica, testimoniano l’impossibilità da parte del poeta di giungere ad una sistemazione coerente e stabile delle sue contraddizioni. Ed è significativo che il poema sia rimasto incompiuto.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
T21
La morte di Laura: «morte bella parea nel suo bel viso» da Il Trionfo della Morte, vv. 103-172
Temi chiave
• la morte di una «bella donna» • la contemplazione estetica della morte • la personificazione della morte
Laura, tornando dal trionfo della Pudicizia sull’Amore, è affrontata da una donna in vesti nere: la Morte.
> metro: terzine dantesche.
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I’ dico che giunta era l’ora estrema1 di quella breve vita gloriosa e ’l dubbio passo di che il mondo trema2. Era a vederla3 un’altra valorosa schiera di donne, non dal corpo sciolta4, per saper s’esser pò Morte pietosa5; quella bella compagna6 era ivi accolta7 pur8 a vedere e contemplare il fine che far convensi, e non più d’una volta9: tutte sue amiche, e tutte eran vicine10. Allora di quella bionda testa svelse11 Morte co la sua mano un aureo crine12; così del mondo il più bel fiore scelse, non già per odio, ma per dimostrarsi più chiaramente ne le cose eccelse13. Quanti lamenti lagrimosi sparsi fur14 ivi, essendo que’ belli occhi asciutti15 per ch’io lunga stagion16 cantai ed arsi! E fra tanti sospiri e tanti lutti tacita, e sola lieta, si sedea del suo ben viver già cogliendo i frutti17. «Vattene in pace, o vera mortal Dea18!» dicean; e tal fu ben19, ma non le valse contra la Morte, in sua ragion sì rea20. Che fia de l’altre21, se questa arse ed alse22 in poche notti, e si cangiò più volte23? O umane speranze cieche e false! Se la terra bagnâr24 lagrime molte per la pietà di quell’alma gentile, chi ’l vide, il sa; tu25 ’l pensa che l’ascolte.
1. l’ora estrema: l’ora della morte. 2. e ’l dubbio … trema: il passo pericoloso di cui gli uomini hanno timore. 3. Era a vederla: era (sottinteso giunta) per vederla. 4. non dal corpo sciolta: ancora viva. 5. per saper … pietosa: per vedere se la Morte può rivelare qualche pietà. 6. compagna: schiera. 7. accolta: radunata. 8. pur: solo. 9. il fine … d’una volta: la fine della vita che di necessità si affronta una sola volta.
10. vicine: concittadine. 11. svelse: strappò. 12. un aureo crine: un capello biondo come oro. 13. non già … eccelse: non già perché nutrisse odio per Laura, ma per rivelare con maggiore evidenza il suo potere sulle cose più alte. 14. fur: furono. 15. essendo … asciutti: mentre i soli occhi di Laura non versavano lacrime. 16. per ch’io … stagion: per i quali io per lungo tempo. 17. del suo … frutti: cogliendo già la ricom-
pensa della sua vita virtuosa. 18. mortal Dea: ossimoro. 19. e tal fu ben: e fu veramente tale, ossia una dea. 20. in sua … sì rea: così crudele nel proclamare i suoi diritti. 21. Che fia de l’altre: che cosa accadrà delle altre donne. 22. arse ed alse: bruciò e gelò per la febbre. 23. si cangiò più volte: passò più volte da una condizione ad un’altra. 24. bagnâr: bagnarono. 25. tu: il poeta si rivolge al lettore.
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L’ora prima era, il dì sesto d’aprile26, che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse27: come Fortuna va cangiando stile! Nesun di servitù già mai si dolse né di morte quant’io di libertate e de la vita, ch’altri non mi tolse28. Debito al mondo e debito a l’etate29 cacciar me inanzi, ch’ero giunto in prima30, né a lui tôrre ancor sua dignitate31! Or qual fusse ’l dolor qui non si stima32, ch’a pena oso pensarne, non ch’io sia ardito di parlarne in versi o ’n rima33. «Virtù mort’è, bellezza e leggiadria!» le belle donne intorno al casto letto triste diceano «omai di noi che fia?34 chi vedrà mai in donna atto perfetto? chi udirà il parlar di saver35 pieno e ’l canto pien d’angelico diletto?36» Lo spirto, per partir di quel bel seno con tutte sue virtuti in sé romito, fatto era in quella parte il ciel sereno37. Nesun de gli avversarii fu sì ardito ch’apparisse già mai con vista oscura fin che Morte il suo assalto ebbe fornito38. Poi che, deposto il pianto e la paura, pur39 al bel volto era ciascuna intenta, per desperazion fatta sicura40, non come fiamma che per forza è spenta, ma che per se medesma si consume, se n’andò in pace l’anima contenta, a guisa d’un soave e chiaro lume cui nutrimento a poco a poco manca41, tenendo al fine il suo caro costume42. Pallida no, ma più che neve bianca che senza venti in un bel colle fiocchi43,
26. L’ora … d’aprile: era l’ora prima del 6 aprile. 27. che già … sciolse: che allora mi legò (facendomi innamorare) ed ora, ahimè, mi ha liberato (con l’intervento della morte). 28. quant’io … tolse: quanto io mi addoloro per la libertà (ottenuta dopo la morte di Laura) e per la vita che la Morte (altri) non ha voluto sottrarmi. 29. Debito … l’etate: sarebbe stato un atto dovuto al mondo e all’età. 30. cacciar … prima: far morire me, nato prima. 31. né … dignitate: e non privare il mondo (lui) di Laura, suo ornamento. 32. qui non si stima: dalle mie frasi (qui)
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non se ne può ricavare un’idea. 33. in versi o ’n rima: in versi latini o rime volgari. 34. Virtù … che fia?: con Laura sono morte virtù, bellezza e leggiadria, così che ora le donne si sentono abbandonate e sole e dicono tristi: «Ora cosa ne sarà di noi?». 35. saver: da intendersi come insieme di nobiltà e gentilezza. 36. e ’l canto … diletto: e il canto che dilettava come quello di un coro di angeli. 37. Lo spirto … sereno: lo spirito di Laura, partendo dal suo bel seno, in sé raccolto (romito) nella concentrazione del trapasso da una vita all’altra, con tutte le sue virtù aveva
rischiarato il cielo in quella parte verso cui ascendeva. 38. Nesun … fornito: nessuno dei demoni ebbe il coraggio di manifestarsi con il suo cupo aspetto finché la morte non ebbe concluso (fornito) il suo assalto. 39. pur: con intensità. 40. per desperazion … sicura: ogni speranza è finita, si è concluso l’evento doloroso. 41. a guisa … manca: come una luce limpida e luminosa a cui poco per volta viene meno l’alimento. 42. tenendo … costume: mantenendo sino alla fine il suo aspetto consueto. 43. fiocchi: scenda.
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parea posar44 come persona stanca: quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi, sendo lo spirto già da lei diviso, era quel che morir chiaman gli sciocchi45: morte bella parea nel suo bel viso.
44. parea posar: pareva immersa nel riposo. 45. quasi … sciocchi: essendosi l’anima
già allontanata da lei, quello che gli sciocchi chiamano morire sembrava un dolce dormire negli occhi di Laura. Solo gli scioc-
chi lo chiamano morire, perché in realtà è l’inizio di una vita eterna.
Analisi del testo
> La morte di Laura e quella di Beatrice
Dante: un’atmosfera d’incubo Petrarca: una compostezza classica
Dante: i sensi mistici
Petrarca: la contemplazione estetica
I Trionfi e lo stile della Commedia
La morte di Laura richiama evidentemente la visione della morte di Beatrice al capitolo XXIII della Vita nuova. Ma, nonostante gli innegabili rapporti, si può cogliere qui la grande distanza di concezioni e di soluzioni formali tra i due poeti. La scena dantesca, sia nella prosa sia nella canzone, è come avvolta da un’atmosfera d’incubo, percorsa da segni arcani, sovrannaturali e paurosi, il sole che si oscura, le stelle che cambiano colore come se piangessero, gli uccelli che cadono morti, i «grandissimi terremoti». Nella scena petrarchesca invece tutto possiede un’eleganza e una compostezza classiche. Significativo è ad esempio il particolare dell’«aureo crine» strappato dalla morte al capo di Laura, che rimanda all’episodio della morte di Didone nell’Eneide, in cui Iride pone fine alla difficile morte della regina tagliandole dal capo un biondo capello (IV, vv. 704-705). Inoltre i segni che accompagnano la morte di Beatrice ricordano quelli della morte di Cristo nei Vangeli, e sottolineano il valore simbolico della figura femminile, vista come una creatura celeste, portatrice di una missione di salvezza tra gli uomini; nessun recondito senso teologico è invece legato alla figura di Laura, che è semplicemente una donna dotata di «virtù», «bellezza e leggiadria», «atto perfetto», dal parlare «di saver pieno» e dal «canto pien d’angelico diletto», come si esprime il coro di donne gentili che la circonda (vv. 145-150). La contemplazione della donna morta è in Dante tutta spiritualizzata, carica di sensi mistici: vi è una forte tensione verso la trascendenza, rivelata dalla visione della nuvoletta bianchissima (l’anima di Beatrice) che sale al cielo tra una moltitudine di angeli tripudianti. In Petrarca non si ha l’assunzione al cielo di una creatura sovrannaturale, ma il morire di una «bella donna»: la contemplazione ha un carattere tutto estetico, teso a cogliere la bellezza, la grazia estenuata, la gentilezza della morente, come indicano eloquentemente le similitudini della neve che fiocca sul «bel colle» e del «dolce dormir». Sintomatico in questa direzione è il verso conclusivo, «morte bella parea nel suo bel viso»: è la confessione più aperta del fatto che è l’aspetto estetico della morte che attira in definitiva il poeta (e si noti quante volte l’epiteto «bello» torna in questi versi finali dell’episodio). Il carattere estetico della visione si traduce, coerentemente, nel movimento musicale dolce e molto sensuale che percorre questi versi, nella loro squisita eleganza.
> Lo stile
Si è insistito sul paragone con la Vita nuova; non bisogna però dimenticare che i Trionfi riprendono la terzina della Commedia, insieme a movenze narrative e a stilemi del poema dantesco: ad esempio «con tutte sue virtuti in sé romito» (v. 152) richiama il «tutta in sé romita» dell’anima di Sordello (Purgatorio, VI, v. 72). Tuttavia, in realtà, non vi è nulla qui dello stile dantesco: non la sintassi nervosa ed energica, non le mescolanze tonali e gli scontri di livelli lessicali, né le espressioni ardite, dense e a volte bizzarre: tutto è eguale, piano, levigato e nitido. 471
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Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Come viene rappresentato il personaggio di Laura? > 2. Come viene rappresentata la Morte? > 3. Come reagisce il poeta alla morte di Laura? AnALIzzAre
> 4.
Stile Individua nel testo un esempio per ciascuna figura retorica di seguito elencata: metafora, ossimoro, antitesi, metonimia, similitudine. > 5. Lessico Attraverso quali vocaboli e/o espressioni presenti nel testo è possibile ripercorrere la vicenda sentimentale esplorata dal poeta nel Canzoniere? > 6. Lingua In base a quanto affermato nell’Analisi del testo, spiega, prendendo ad esempio una o più terzine del passo, perché rispetto alla Commedia dantesca il volgare utilizzato da Petrarca è «eguale, piano, levigato e nitido».
APProfondIre e InTerPreTAre
> 7.
Contesto: esporre oralmente Analizza in un’esposizione orale (max 3 minuti), in base anche all’Analisi del testo, il profilo storico-letterario relativo all’opera ( L’aspirazione all’unità: i Trionfi e il De remediis utriusque fortunae, p. 468): quali caratteristiche generali sono riscontrabili nelle terzine analizzate? > 8. Altri linguaggi: arte Nell’immagine proposta è evidente la raffigurazione di Laura morta posta su di un carro trainato da cavalli neri al centro di una rappresentazione, fitta di presenze e di particolari, che reca sullo sfondo anche un ameno paesaggio e una città dalle alte torri. Quali elementi dell’immagine rimandano direttamente al testo? E quali personaggi presenti nel testo non compaiono nell’immagine?
Il trionfo della morte, 1503, miniatura dai Trionfi di Francesco Petrarca, codice Fr. 594, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
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Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Interpretazioni critiche
Gianfranco Contini Plurilinguismo dantesco e unilinguismo di Petrarca
bassa
Riportiamo le pagine famose (risalenti al 1951) in cui il grande filologo e critico Gianfranco Contini ha fissato la distinzione tra «plurilinguismo» dantesco e «unilinguiGianfranco Contini svolge un’indagine smo» di Petrarca. Contini ravvisa in Dante: 1) pluralità di linguistica e stilistica non fine a se stessa, stili e generi letterari; 2) pluralità e compresenza di stranon si limita a descrivere tecnicamente gli ti lessicali (sublime, grottesco, linguaggio comune); 3) aspetti formali della poesia petrarchesca, l’interesse a riflettere teoricamente sulle proprie scelte ma usa i rilievi tecnici come veicolo per stilistiche (dalla Vita nuova al Convivio al De vulgari eloun’interpretazione globale di quella poequentia); 4) l’incessante sperimentare (le opere intersia e della visione del mondo che essa rotte, lo stilnovismo che diviene allegorismo). In Dante presuppone. la pluralità di stili e strati linguistici trova un centro all’infinito, cioè nella fede in un ordine trascendente del mondo. A queste qualificazioni se ne contrappongono altrettante e inverse in Petrarca: 1) unilinguismo, netta divisione latino-volgare: il latino è per lui anche lingua normale della comunicazione quotidiana, il volgare invece non può essere usato per fini pratici, è solo strumento per «esperienze assolute» (Contini); 2) unità di tono e di lessico, trovata lontano dagli estremi dell’aulico e del prosaico; 3) non vi è opera di riflessione teoretica su queste scelte stilistiche; 4) non vi è nessun esperimento: Petrarca lavora tutta la vita intorno agli stessi testi fondamentali. Se Dante trovava il centro nel trascendente, Petrarca si richiude nella propria interiorità. La rinuncia allo scontro fra gli estremi (definita da Contini «classicismo») è consentita dal suo fissarsi sull’interno della sua anima (definito metaforicamente «romanticismo»).
Dei più visibili e sommarî attributi che pertengono a Dante, il primo è il plurilinguismo. Non si allude naturalmente solo a latino e volgare, ma alla poliglottia degli stili1 e, diciamo la parola, dei generi letterarî. [...] Ecco in Dante convivere l’epistolografia di piglio apocalittico, il trattato di tipo scolastico, la prosa volgare narrativa, la didascalica, la lirica tragi5 ca e la umile, la comedìa. In secondo luogo, pluralità di toni e pluralità di strati lessicali va intesa come compresenza: fino al punto che al lettore è imbandito non solo il sublime accusato o il grottesco accusato, ma il linguaggio qualunque. Terzo punto: l’interesse teoretico. Basterà rammentare come l’ansia di giustificarsi lingui10 sticamente varî dalla Vita Nuova al De vulgari (armatura teorica d’una tragedìa in volgare già collegialmente attuata2), dal Convivio agli spunti di quella che la fin de siècle avrebbe chiamata «filosofia linguistica» entro la Commedia. Quarto punto: la sperimentalità incessante. A tacer d’altro, si ricordi l’inconsistenza d’un Canzoniere organico, l’interruzione, che sarebbe troppo facile considerare semplicemente 15 casuale, di qualche opera teorica, si ricordi soprattutto la rapida derivazione delle esperienze: lo stilnovismo puro fa presto a deviare in allegorismo.
1. poliglottia degli stili: come un poliglotta padroneggia più lingue, Dante utilizza stili diversi, spesso compresenti in una stes-
sa opera, come dice il critico stesso poche righe più avanti. 2. collegialmente attuata: non solo da Dan-
te ma anche dagli altri poeti, dai trovatori agli stilnovisti.
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L’età comunale in Italia
[...] Si comparino mentalmente con Petrarca, da tutti alienissimo: un campione di «realismo» quale 20
tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia3
(tanto per intenderci, neanche la gamba è ammessa in Petrarca, egli non risale più sopra del bel pie’); uno specimine4 di violenza sublime quale 25
E non er’anco del mio petto esausto l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi esso litare stato accetto e fausto5;
un esempio di tramezzante6 soavità come
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L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina7
(tremolare è inconcepibile in Petrarca, e in fatto si constata che neppure mattutino risponde all’appello); da ultimo un esempio di normalità ordinaria come 35
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Oscura e profonda era e nebulosa, tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa8.
E finalmente, saggi così disparati, non solo varî nel tempo, ma varî nell’istante, non possono comporsi che in un punto trascendente. Come le composizioni orizzontali dell’arte figurativa di accento bizantino, come le innumerevoli mansions9 o luoghi deputati della scena medievale10, l’enciclopedia e dottrinale e stilistica di Dante può trovare un centro solo all’infinito, fuori di lui. [...] Alle qualificazioni ora riassunte fanno contraltare altrettante e inverse di Petrarca. [...] In primo luogo, dunque, unilinguismo, se non è dir troppo. Posta quella cultura, il bilinguismo con frontiere ben segnate è la soluzione più rigorosa. [...] Il latino è la lingua normale anche della comunicazione [...], il volgare non è passibile di usi pratici. [...] Il volgare è solo sede di esperienze assolute, la sua pluralità e curiosità Petrarca le sposta verso il latino. Pertanto, se non monoglottia letterale, è certa l’unità di tono e di lessico, in particolare, benché non esclusivamente, nel volgare. Questa unificazione si compie lungi dagli estremi, ma lontano anche dalla base, sopra la base, naturale, strumentale, meramente funzionale e comunicativa e pratica. Tuttavia codesto lume trascendentale del linguaggio è un ideale assolutamente spontaneo, non compatibile con razionale opera di riflessione. Nessun lacerto teoretico sulla lingua si può avellere11 da Petrarca. [...] Quarto punto: nessun esperimento, ove non sia quello di lavorare tutta una vita attorno agli stessi testi fondamentali. [...] In opposizione al teocentrismo necessario a Dante, non oserei da ultimo inferir nulla circa una laicità, fosse pure meramente metaforica, di Petrarca. Vorrei sottolineare soltanto che il suo non è già il Dio che compone le contraddizioni, [...] ma è quel Dio che interviene a sedare il tedio e consolare la stanchezza, s’introduce insomma come tema
3. tra … trangugia: Inferno, XXVIII, vv. 25-27. 4. specimine: esempio. 5. E … fausto: Paradiso, XIV, vv. 1-3. 6. tramezzante: che sta nel mezzo, implicita.
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7. L’alba … marina: Purgatorio, I, vv. 115117. 8. Oscura … cosa: Inferno, IV, vv. 10-12. 9. mansions: dimore, castelli signorili.
10. scena medievale: nella sacra rappresentazione. 11. lacerto … avellere: nessun brano di riflessione teorica sulla lingua si può strappare.
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psicologico, esorbita dalle strutture e dai sistemi che descriviamo. Psicologia: è proprio in questi paraggi che si rivela il paradosso di Petrarca. L’innovazione riduttiva per pacata rinuncia agli estremi è consentita a Petrarca dalla sua introversione. Usiamo termini grossolani, e diciamo: è il suo romanticismo che è condizione del suo classicismo. Questo rilievo dichiara probabilmente la paternità di Petrarca a noi: quando però non si scordi che il romanticismo dei moderni è introversione e analisi associata a vitalità, a libidine dell’agire. G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970 (1951)
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quale rapporto sussiste in Petrarca fra latino e volgare? (rr. 42-55) > 2. Quale novità presenta l’opera di Petrarca riguardo la concezione di Dio? (rr. 56-66) > 3. Spiega il senso dell’affermazione «è il suo romanticismo che è condizione del suo classicismo» (r. 63). AnALIzzAre
> 4.
Lessico Ricerca sul dizionario l’esatto significato, in riferimento al contesto del discorso, dei seguenti vocaboli sottolineati nel testo: «poliglottia», «alienissimo», «inferir», «meramente», «libidine».
APProfondIre e InTerPreTAre
> 5.
Scrivere In riferimento a quanto sostenuto dal critico alle righe 56-66 riguardo al rapporto fra Dio e tema psicologico, sviluppa una breve trattazione di circa 12 righe (600 caratteri) dedicata a un componimento di Petrarca da te studiato che avvalori tale posizione.
Per IL PoTenzIAmenTo
> 6.
esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) spiega, attraverso puntuali riferimenti alla vita e all’opera di Petrarca, l’affermazione «Il latino è la lingua normale … verso il latino» (rr. 44-47).
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Che CoSA CI dICono AnCorA oGGI I CLASSICI
Petrarca Le InCerTezze dI PeTrArCA e Le noSTre La crisi dei moduli d’ordine Petrarca, si è visto, è l’interprete di un’epoca di crisi, caratterizzata dal crollo delle grandi certezze medievali che avevano sorretto la fiducia di Dante in un ordine oggettivo del cosmo: non possiede più un sistema concettuale che gli permetta di inquadrare nelle sue coordinate tutta la realtà e di dominarla. Noi viviamo in un’età di crisi per certi aspetti affine, in cui non esistono più moduli d’ordine che consentano di interpretare unitariamente il mondo, e per questo sentiamo le incertezze di Petrarca vicine alle nostre, nonostante la lontananza temporale e le specifiche differenze fra le due epoche.
Lo SCAvo InTerIore Si è visto che per il poeta, se il mondo esterno non è dominabile concettualmente, l’unica realtà certa resta l’interiorità: per cui la sua opera, nelle prose di confessione come nelle liriche del Canzoniere, è essenzialmente scavo nel mondo interiore, percorso nei suoi labirinti tortuosi, nelle sue contraddizioni e nei suoi conflitti. Il rifugio nel privato e nel soggettivo È un aspetto che può trovare rispondenza oggi, quando molti, specie fra i giovani, dinanzi a una realtà complessa e difficilmente affrontabile, che provoca traumi e angosce, tendono a chiudersi nella dimensione soggettiva, a vivere solo nella propria interiorità e nella sfera privata, lasciando cadere ogni interesse per la dimensione collettiva e i processi della storia. La fuga del tempo Non solo, Petrarca sente dolorosamente la labilità dell’esistenza, la fuga inesorabile del tempo che cancella le cose e avvicina alla morte: sono problemi eterni, che come tali non possono non toccarci personalmente nel profondo. L’«accidia» Un altro aspetto di questo scavo che ci fa sentire il poeta particolarmente vicino è l’insistenza sulla propria «accidia» nelle pagine del Secretum: Petrarca, dopo i classici greci e latini, è il primo autore della nostra letteratura che ha lucidamente analizzato il male esistenziale, quel male che toglie il gusto alla vita, e che
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Video Intervista ad A. Bertolucci
Testi M. Santagata
la nostra epoca per tante ragioni ben conosce, anzi ha esasperato.
LA fenomenoLoGIA AmoroSA L’amore: i sogni, la memoria, il desiderio, la perdita Nella poesia petrarchesca è dominante la tematica d’amore, e vi troviamo minutamente analizzata la psicologia amorosa in tutta la sua casistica: l’idealizzazione della persona amata, i sogni e le fantasticherie intorno ad essa, l’assaporamento della sua immagine nella memoria (basti pensare a Chiare, fresche e dolci acque, T12, p. 439), l’urgenza del desiderio e la sofferenza per l’impossibilità di appagarlo, l’alternanza di speranze e di disillusioni, il dolore per la perdita e l’evocazione dell’immagine amata nei suoi luoghi consueti. È la fenomenologia eterna dell’amore, che ciascuno può avere sperimentato in prima persona, e che dovrebbe toccare particolarmente la sensibilità giovanile.
IL ConforTo deLLA BeLLezzA Il riscatto nella forma Ma se l’opera petrarchesca insiste su una tematica dolorosa e tormentata, si è visto come il poeta cerchi un superamento di essa nella bella forma; ebbene, l’idea del conforto della bellezza, che può illimpidire i tormenti interiori e aiutare a superarli, è valida anche per noi oggi: leggere un bel libro, ascoltare musica, osservare un quadro, vedere un film o uno spettacolo teatrale, può rasserenarci in momenti di cupezza o di ansia. I valori umanistici Petrarca è anche il cultore per eccellenza dei valori umanistici, l’iniziatore di una tradizione destinata a durare secoli: e come già si osservava per Dante, in un’epoca come la nostra, in cui quei valori vanno perdendo sempre più il loro prestigio in conseguenza del predominio di una mentalità praticistica ed efficientistica o di miti tecnologici, la lettura delle pagine petrarchesche può contribuire a farci prendere coscienza dell’insostituibile necessità dell’umanesimo (come ci ha indicato anche il recente libro di un’importante filosofa, Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica).
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
dISTACCo dAI BenI TerrenI e ConSUmISmo ATTUALe Un tema centrale dell’opera di Petrarca è il dissidio fra l’attrazione dei beni terreni e la volontà di staccarsene per attingere a una vita spirituale più pura. Vi si esprime un ascetismo ancora medievale, che certo è ormai lontano da noi, ma vi possiamo cogliere egualmente una suggestione, naturalmente traducendola nei termini della nostra vita attuale: il monito a non farci imprigionare dal consumismo. Il feticismo degli oggetti Petrarca, per questo aspetto, ci può far riflettere sul fatto che c’è qualcosa di più importante del feticismo degli oggetti, che ci vengono imposti non da reali bisogni ma dalla pura logica del mercato e dai meccanismi subdoli della pubblicità, come, per fare solo qualche esempio, smartphone di ultima generazione, tablet, televisori da settanta pollici, auto superaccessoriate, abiti firmati, scarpe o felpe di quella data marca: ciò che è più importante sono i rapporti umani, la cultura e le bellezze artistiche, la natura da preservare, la vita della polis e le sue necessità, e, per chi ha una fede, i valori religiosi, da salvare nella loro autenticità da pratiche puramente esteriori e convenzionali. E questo vale particolarmente per tanti giovani, che di quel feticismo consumistico sono le vittime privilegiate.
Le discordie civili Nella canzone All’Italia risuona poi un appello alla concordia rivolto ai principi italiani, che con i loro conflitti devastano il paese. Questa condanna delle discordie civili ricorda la polemica dantesca contro le divisioni faziose all’interno delle città, e come quella fa riflettere sulle contrapposizioni che lacerano la scena politica attuale.
Edward Reginald Frampton, Flora nei campi, XX secolo, dipinto.
LA dImenSIone PUBBLICA La corruzione della Curia papale Ma se per gran parte l’attenzione di Petrarca è concentrata sulla vita interiore, nella sua poesia non mancano agganci con la realtà pubblica e storica, come l’aspra polemica contro la corruzione della Curia avignonese. È una polemica che risveglia in noi precisi echi: le «fanciulle» e i «vecchi» che «vanno trescando» insieme ci fanno pensare, mutato ciò che occorre mutare, allo scandalo dei preti pedofili, che tanto ha travagliato la Chiesa in tempi recenti.
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dIALoGhI ImmAGInArI
Petrarca e Dante moderatore La vostra poesia è caratterizzata anche da una profonda ispirazione religiosa. Quali sono le differenze che si possono individuare?
Dante Nella mia Commedia la religione rappresenta la giustificazione e il fine ultimo del destino umano; è quello che ho voluto rappresentare immaginando il mio viaggio nell’oltretomba, nel percorso di purificazione che, dal pericolo di essere condannati alle pene infernali, può condurre l’uomo alla salvezza eterna. La fede, in questo senso, costituisce l’impianto dottrinale e la chiave dell’interpretazione allegorica dell’opera, che non esita a confrontarsi con i grandi problemi teologici e l’ineffabile natura del divino, oltre a dare senso e valore all’enciclopedia delle conoscenze umane. Voglio dire che per me la religione è un valore universale, le cui certezze non possono essere messe in discussione; ma credo anche che i problemi della fede non debbano far dimenticare al cittadino gli impegni della partecipazione e della lotta politica.
Petrarca Anche per me la religione rappresenta un valore indiscutibile, ma io l’ho vissuta – ed espressa nelle mie opere – in maniera diversa, sul piano di una meditazione interiore. Lo si vede bene, sin dal titolo, nel mio Secretum, in cui ho immaginato di dialogare con sant’Agostino in presenza della Verità. Era un modo per poter confessare le mie colpe, esprimere le incertezze e i dubbi che mi tormentano, portare una luce più chiara dentro la confusione della mia vita. Se la Commedia di Dante può richiamarsi alla Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino, io ho scelto come guida Agostino, la cui autobiografia, le Confessioni, mi sembra di una straordinaria modernità. Agostino ci dice come dalla conversione possa uscire 478
l’uomo nuovo, rinnovato nella sua vita spirituale; qualcosa del genere ho avvertito anch’io, quando sono salito sul monte Ventoso e ho aperto il libro di Agostino. Questi problemi si riflettono anche in molte delle mie Rime, dove sottolineo il contrasto fra l’attrazione per i beni terreni e l’aspirazione alla felicità ultraterrena. È questo il dissidio religioso che ho vissuto dentro di me e che ho voluto esprimere, quasi confessare, nelle mie poesie. Dove si può vedere il dramma di un’anima che si dibatte fra opposti desideri e pensieri, che riflette perplessa sull’inesorabile trascorrere del tempo («La vita fugge, e non s’arresta un’ora», ho scritto da qualche parte), che lascia la moltitudine per cercare di restare sola con se stessa. Anche per me la religione è una certezza, ma una certezza che rende sofferta e problematica l’esistenza dell’uomo. moderatore Assai diverso, quindi, è il rapporto che avete avuto con la vita pubblica e la politica.
Dante Personalmente ho preso parte attiva alle vicende politiche della mia città. E quando Firenze mi ha mandato in esilio, ho reagito sdegnosamente, rifiutando di accettare ogni forma di compromesso. La passione politica, che ho sentito vivamente, era per me il dovere di operare per il bene dei cittadini, dimostrando sempre coerenza e dignità; per questo, al di là delle scelte di parte, ho cercato soprattutto di combattere la corruzione, la politica che si prostituisce, che guarda solo agli interessi personali. Nella Commedia ho duramente condannato questi comportamenti spregevoli e indegni, anche quando se ne fosse reso colpevole un pontefice come Bonifacio VIII, che – ne sono convinto – sarà condannato alle pene infernali.
Petrarca Anch’io ho cercato di combattere questi mali, scrivendo tre sonetti contro la
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
corruzione della Curia avignonese; anch’io mi sono preoccupato delle misere sorti dell’Italia, componendo una canzone che molti conoscono. Non solo, ma ho sperato invano che qualcuno (la nobile famiglia dei Colonna, o Cola di Rienzo) prendesse in mano le sorti della penisola e ne promuovesse il riscatto. E tuttavia, pur essendo trascorsi pochi decenni, i tempi erano cambiati e le possibilità di intervento erano sempre più ristrette. Dalla società dei Comuni si sta passando a un nuovo sistema politico, dove, rispetto alla libertà del cittadino, predomina il potere delle corti.
ispirazione dava il meglio di sé nella misura breve del sonetto, al massimo nella canzone. Mi sono impegnato soprattutto nella cura formale di questi singoli componimenti, anche se poi – forse per una certa invidia nei confronti di Dante – ho cercato di dare un ordine al mio canzoniere, dividendolo nelle rime in vita e nelle rime in morte di Laura.
moderatore Questa diversa condizione ha avuto un riflesso sulle vostre opere?
Dante All’inizio io ho cantato la donna amata, attribuendole un senhal, un nome fittizio, secondo i modi dei miei amici stilnovisti (Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, ricordate?), anche se mi rendevo conto – lo aveva spiegato molto bene un altro Guido, Guinizzelli – che non era giusto, e forse andava addirittura contro i princìpi dell’ortodossia, attribuire lodi divine a una creatura umana, trasformandola in una “donna angelicata”. Nella Vita nuova, un prosimetro concepito come una sorta di autobiografia simbolica, ho inteso trascrivere questa vicenda, dall’infanzia alla morte di Beatrice; una morte dolorosa, ma che purificava così ogni forma di amore carnale, trasferendolo in una dimensione ultraterrena. Per questo ho scritto alla fine che non avrei più parlato di lei fin che non fossi stato in grado di dire cose mai udite prima. Ed è quanto ho fatto nella Commedia, dove davvero Beatrice diventa colei che, puro spirito, può guidare alla beatitudine, la fonte della grazia divina.
Petrarca Penso di poter rispondere, se Dante me lo permette, anche a nome suo. Nella Commedia Dante ha voluto comporre un poema universale, che comprendesse tutte le esperienze terrene e ultraterrene. Il titolo che gli ha dato, oltre che frutto della sua modestia, nasce soprattutto dal linguaggio medio che ha usato, perché fosse comprensibile alla maggior parte delle persone. Ma la concezione dell’opera, l’architettura delle sue parti, l’impianto allegorico che la sostiene vanno ben oltre il semplice disegno di un viaggio che dal «tristo inizio» giunge al “lieto fine”; la sua potrebbe essere definita un’“opera-mondo”, un’opera che ha voluto racchiudere in sé la “totalità” del mondo. Diverso è il caso delle mie «rime», che fin dall’incipit del sonetto proemiale ho voluto definire «sparse». Non avevo le certezze assolute e la fede incrollabile di Dante, e quindi non potevo dare vita a un’opera rigorosamente unitaria, capace di interpretare l’intera realtà. Ho tentato anche esperienze di più ampio respiro, come i Trionfi, e addirittura un poema epico in latino, ma non le ho portate a termine o non ho ottenuto risultati soddisfacenti. La mia
moderatore A questo proposito, qual è il ruolo che hanno svolto per voi le figure femminili, Beatrice e Laura?
Petrarca Il mio amore per Laura non è stato
un avvicinamento a Dio ma, insieme con quello per la gloria (così intensamente ho sentito l’analogia fra la mia Laura e la “laurea” poetica!), è stata una fortissima attrazione, che è venuta a frapporsi tra me e la conquista di quella perfezione spirituale a cui avrei dovuto mirare. 479
L’età comunale in Italia
Mi sono sempre reso conto, come ho già detto, della vanità dei beni terreni (vanitas vanitatum, come si legge nell’Ecclesiaste), ma non sono mai riuscito a staccarmene, nemmeno dopo la morte di Laura… L’amore per la donna, contrapposto all’amore divino, è stato per me fonte di sofferenza, di incertezze e di turbamenti, di insoddisfazioni e di rimpianti. moderatore Petrarca ha parlato prima di una sua ricerca della perfezione formale. Che rapporto avete pensato di stabilire fra lo stile e la materia dei vostri versi?
Dante Nella Commedia ho rappresentato un’infinità di casi e di situazioni, dai più bassi ai più elevati, fino a cercare di esprimere l’ineffabile dell’essenza divina; a queste varie condizioni ho cercato di adattare il linguaggio di volta in volta usato. Quando nel canto V faccio parlare Francesca, le metto in bocca espressioni tipiche dell’esperienza stilnovistica (la triplice anafora che inizia con «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende»), da cui mi ero da tempo allontanato per condannarla. C’è il linguaggio dei mestieri («Quale nell’arzanà de’ Viniziani […]»), il linguaggio infantile («il “pappo” e ’l “dindi”»), il linguaggio plebeo e scurrile dei diavoli («ed elli avea del cul fatto trombetta»), e tanti altri: da quello, corposo e anche violento, della politica e della passione civile a quello, sempre più rarefatto, della filosofia e delle più alte verità teologiche. Pur nella costruzione
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allegorica, c’è nella Commedia la ricerca di un legame fra l’uso delle parole e la realtà a cui vengono adattate; per questo ci sono, si può dire, tanti e diversi linguaggi.
Petrarca La scelta compiuta da Dante si spiega col fatto che la sua è una poesia narrativa, la versificazione di un lungo racconto che attraversa momenti e situazioni diverse; io ho privilegiato l’esperienza lirica, che, concentrandosi soprattutto (anche se non solo) sul motivo amoroso, è espressione di stati d’animo, di turbamenti e di dissidi interiori, quasi il bisogno di confessare a se stesso e di partecipare al lettore i propri sentimenti. Nella breve misura di questi componimenti, ho cercato con particolare cura la levigatezza dell’espressione, la suggestione stilistica basata sull’equilibrio armonico della frase, con l’uso di un linguaggio uniforme e selezionato, riferito a realtà sempre elevate e raffinate; il solo, per me, che si adatti alla lirica e che spero abbia anche in seguito degli imitatori. moderatore Se ho ben capito, si tratta di opposte modalità stilistiche, adattabili a situazioni tematiche e a generi letterari diversi. Si potrebbe parlare, se siete d’accordo, di una scelta “plurilinguistica” e di una scelta “monolinguistica”: due strade che avete chiaramente indicato agli scrittori che verranno dopo di voi (Dante e Petrarca annuiscono).
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
facciamo il punto L’eSPerIenzA dI vITA
1. Quale immagine di sé Petrarca offre nelle epistole ( T4, p. 407)? 2. Qual è l’atteggiamento di Petrarca nei confronti dell’esperienza religiosa? Rispondi facendo almeno un
riferimento ai testi antologizzati. LA formAzIone
3. Rifletti sulla formazione culturale di Petrarca (ad esempio, quali autori, classici e non, sono da lui cono-
sciuti e influenzano la sua produzione?). 4. Individua gli aspetti nei quali maggiormente il poeta è debitore della cultura classica (ad esempio, la sua concezione di Roma e del mondo antico; l’importanza attribuita al latino). 5. Rifletti sulle ragioni che portarono Petrarca a rifiutare la Scolastica e l’aristotelismo e a prediligere il pensiero agostiniano. 6. In quale misura l’attività di filologo di Petrarca prefigura l’Umanesimo? Ad esempio, come legge gli scrittori classici? Quale ruolo assegna a Roma? IL modeLLo d’InTeLLeTTUALe
7. Quale modello d’intellettuale rappresenta Petrarca? (Ad esempio, rifletti sul suo cosmopolitismo, sul superamento del municipalismo, sul suo rapporto con i signori e la corte, sulla funzione che attribuisce all’intellettuale, sulla sua concezione di patria, sui suoi rapporti con gli intellettuali contemporanei, sul giudizio espresso sulla Chiesa del tempo.) Le oPere
8. Compila la seguente tabella. Genere
Lingua
forma (prosa/poesia)
Temi principali
Secretum
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De vita solitaria
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Epistole
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Africa
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De viris illustribus
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Canzoniere
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Trionfi
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De remediis utriusque fortunae
9. Individua gli aspetti dell’opera di Petrarca che rivelano da un lato la sua appartenenza ancora al
Medioevo, dall’altro il suo preannunciare l’Umanesimo (ad esempio, rifletti sull’architettura rigorosa del Canzoniere, sulla rilevanza data ai valori cristiani, sulla concezione terrena dell’amore, sul culto per i classici). 10. Rifletti sui motivi che portarono il Canzoniere a essere il modello della lingua letteraria e della lirica amorosa per secoli soprattutto in Italia, ma anche nel resto dell’Europa.
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L’età comunale in Italia
Ripasso visivo
FRANCESCO PETRARCA (1304-74) Mappe interattive
Ripasso interattivo
ELEMENTI BIOGRAFICI
• Nasce ad Arezzo da una famiglia fiorentina borghese • È costretto a trasferirsi ad Avignone, al seguito del padre, guelfo di parte bianca (come Dante), dove nel 1327 incontra Laura
• Alterna viaggi in diverse città italiane ed europee a lunghi ritiri a Valchiusa, luogo eletto all’otium letterario • Prende gli ordini minori e in seguito supera una profonda crisi religiosa • Muore ad Arquà, sui colli Euganei, dove si ritira per dedicarsi agli studi e alla scrittura POETICA E PENSIERO
• Rappresenta il più celebre esempio di intellettuale
cosmopolita e cortigiano, che difende strenuamente la sua autonomia e considera l’attività letteraria anche come strumento di impegno politico e civile • È tormentato da un dissidio interiore che nasce dal desiderio di conciliare la dimensione terrena con quella celeste • Analizza a fondo le sue debolezze: la crisi della volontà (l’accidia), il desiderio di gloria terrena e la passione d’amore per Laura
• Si accosta alle opere del passato con atteggiamento filologico
• Attribuisce alla poesia la funzione di analisi della
coscienza e insieme di ricerca di equilibrio e perfezione formale, per questo procede a un’attenta selezione del linguaggio e dei temi secondo criteri di eleganza e purezza (classicismo) • Considera il latino la vera lingua letteraria, ma usa anche il volgare in cui compone il Canzoniere, l’opera che lo renderà immortale nei secoli
OPERE IN VOLGARE POESIA
• Canzoniere • Trionfi
– genere: poema allegorico in terzine
IN LATINO PROSA • Secretum (“Il segreto”) – genere: dialogo morale – personaggi: Francesco (l’autore) e sant’Agostino – consiste in un’analisi approfondita delle debolezze dell’autore di fronte all’amore e al desiderio di fama • De vita solitaria (“La vita solitaria”) – genere: trattato morale
• De viris illustribus (“Gli uomini illustri”) – genere: raccolta di biografie
• De remediis utriusque fortunae
(“I rimedi per la buona e la cattiva sorte“) – genere: enciclopedia morale • Epistole (Familiari, Senili, Sine nomine, varie) – genere: epistolario POESIA
• Africa
– genere: poema epico in esametri
CANZONIERE
LA STRUTTURA
• Raccolta di 366 liriche (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali)
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LA MATERIA
• Il racconto di un’espe-
rienza sentimentale, intellettuale e religiosa, caratterizzato da un alto livello di trasfigurazione letteraria
I TEMI PRINCIPALI
LA LINGUA E LO STILE
• L’amore, il desiderio di
• È composto in un
fama, la caducità dei beni terreni e l’eterno, la memoria, il tormento interiore, il culto dei classici e il pensiero politico
linguaggio piano e selezionato (unilinguismo) e persegue il perfetto dominio della forma attraverso un assiduo lavoro di lima
In sintesi
frAnCeSCo PeTrArCA (1304-74) Verifica interattiva
coscienza della frattura tra mondo antico e presente, e cerca pertanto di cogliere i testi classici nella loro fisionomia più autentica, senza adattarli alla mentalità contemporanea. Il culto dei classici lo spinge inoltre a cercare nelle biblioteche testi latini dimenticati e a curarne l’edizione correggendo gli errori dovuti ai copisti; prende così il via la moderna attività filologica, destinata ad assumere un peso importantissimo nella cultura dell’Umanesimo.
Personalità inquieta e tormentata da tendenze di segno opposto, Petrarca rispecchia le contraddizioni e le incertezze della sua epoca, nella quale la visione medievale della realtà e della cultura è al tramonto, ma i nuovi valori umanistico-rinascimentali sono ancora lontani dall’esser definiti. Tale crisi si manifesta, sia nell’opera sia nella biografia petrarchesca, come dissidio interiore tra spiritualità cristiana e amore profano, tra disprezzo dei beni terreni e desiderio di ottenere fama e riconoscimenti, tra bisogno di pace e di raccoglimento e smania di viaggiare e conoscere ambienti diversi. Petrarca rappresenta inoltre una figura di scrittore nuova rispetto a quella tipica del Duecento. Egli non s’identifica infatti con una precisa realtà municipale, ma è un intellettuale cosmopolita, legato a diversi ambienti e istituzioni: alla Chiesa, in quanto chierico che trae sostentamento dalle rendite ecclesiastiche, ma anche alle corti signorili, presso le quali soggiorna per lunghi periodi e da cui ottiene favori e vantaggi materiali.
L’ePISToLArIo
Le oPere reLIGIoSo-morALI
L’AFrICA e IL De vIrIS IlluStrIbuS
Un consistente gruppo di opere petrarchesche, tutte scritte in latino, è incentrato sulla polemica filosofica o sulla riflessione morale. Nelle prime, l’autore prende le distanze dalla Scolastica, a cui contrappone la “vera” filosofia, che dovrebbe occuparsi dell’interiorità dell’uomo.
Tra le opere ispirate alla classicità si annoverano anche l’Africa (concepito nel 1338-39), poema epico in esametri sulla seconda guerra punica, al quale Petrarca pensava di legare la sua gloria postuma, e il De viris illustribus, raccolta di biografie di illustri personaggi romani.
IL SeCretum
IL CAnzonIere
La più significativa tra le opere di riflessione morale è il Secretum (1342-43), strutturato come dialogo tra sant’Agostino (filosofo cristiano della tarda antichità latina), che rappresenta la superiore coscienza morale e religiosa di Petrarca, e Francesco, che ne rappresenta invece le più intime debolezze. Il dialogo, che avviene al cospetto della Verità (allegoricamente rappresentata come una donna), si traduce in un’analisi dell’io dell’autore, lacerato da profonde inquietudini e pervaso dal bisogno – che resterà inappagato – di raggiungere la pace interiore.
IL De vItA SolItArIA Al tema della solitudine è dedicato il De vita solitaria (“La vita solitaria”, 1346), nel quale l’ideale cristiano di vita ritirata dedita alla preghiera e alla meditazione si fonde con quello classico dell’otium, ossia del distacco da ogni attività pratica per un impegno letterario totale.
Le oPere “UmAnISTIChe” Petrarca anticipa per molti versi l’atteggiamento nei confronti della cultura classica che sarà proprio dell’Umanesimo. A differenza degli intellettuali medievali, egli ha piena
L’atteggiamento classicista caratterizza le quattro raccolte di lettere, scritte in latino e indirizzate per lo più ad amici e a importanti personalità del tempo. Anche se nascono da effettive esperienze autobiografiche, Petrarca sottopone le epistole a un’accurata elaborazione letteraria, eliminando ogni riferimento alla realtà quotidiana, e fornisce di sé un ritratto ideale che abbia valore esemplare, applicando i princìpi di selezione e idealizzazione costitutivi del classicismo.
Benché convinto che la lingua letteraria per eccellenza sia il latino, Petrarca s’impegna altresì sul versante del volgare, cercando di elevarlo alla dignità formale dell’espressione classica. Da questo impegno nasce il Canzoniere (il titolo originale è Rerum vulgarium fragmenta, “Frammenti di cose in volgare”), raccolta di 366 liriche di cui si conserva la stesura definitiva di pugno del poeta in un codice risalente al 1374. Materia quasi esclusiva dell’opera è l’amore per Laura, una passione tutta umana e terrena perennemente inappagata, che neppure la morte della donna riesce a spegnere. La vicenda d’amore delineata dal Canzoniere ha certamente un nucleo di verità autobiografica alla base, ma l’esperienza reale è così intensamente rielaborata in chiave letteraria da risultare inafferrabile. Anche se il poeta allude velatamente agli effetti del tempo sulla bellezza di Laura, la sua figura rimane evanescente e fortemente stilizzata, così come privi di concretezza reale sono i luoghi che le fanno da sfondo: l’unica realtà che conta è l’interiorità del poeta, accanitamente e continuamente analizzata nelle sue aspirazioni, delusioni e contraddizioni.
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L’età comunale in Italia
Al bisogno di spiritualità e di pace si contrappone infatti la ricerca di piaceri terreni che si rivelano illusori e caduchi, come la bellezza di Laura, ma ai quali il poeta rimane comunque indissolubilmente legato. L’inquietudine e il tormento, mai superati nei fatti, sono ricomposti in qualche modo nella forma, che scorre limpida, equilibrata e armoniosamente perfetta: la lingua volgare è infatti modellata sulle strutture morfosintattiche di quella latina e il lessico è accuratamente selezionato, con l’esclusione di vocaboli troppo espressivi, realistici o anche solo fonicamente aspri.
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I TRIONFI E IL DE REMEDIIS UTRIUSQUE FORTUNAE Nel periodo milanese (1353-61) Petrarca inizia a comporre due opere che per la loro organicità si collocano nel solco della cultura medievale: i Trionfi, poema allegorico in lingua volgare, e il De remediis utriusque fortunae (“I rimedi della buona e della cattiva sorte”, 135466), una sorta di enciclopedia morale in latino. Nell’impianto sistematico che le contraddistingue si riconosce l’esigenza petrarchesca di superare i propri dissidi esprimendoli in una forma unitaria e conclusiva.
Capitolo 5 · Francesco Petrarca
Bibliografia La critica
` eDizioni Delle oPeRe Per la ricerca nel web
L’Edizione Nazionale delle Opere di Francesco Petrarca ha sinora pubblicato le seguenti opere in edizione critica, presso l’editore Sansoni di Firenze: Africa, a cura di N. Festa (1926); Le Familiari, a cura di V. Rossi, U. Bosco (1933-42); Rerum memorandarum libri, a cura di G. Billanovich (1945); De viris illustribus, a cura di G. Martellotti (vol. I, 1964). Si segnalano, ancora, Le Familiari nella traduzione di U. Dotti (Argalia, Urbino 1974, edizione da cui provengono i brani antologizzati). L’intera produzione in volgare del poeta è stata di recente riproposta con commento per la collana “I Meridiani” Mondadori nei due volumi Opere italiane, a cura di M. Santagata (Milano 1996): il primo raccoglie il Canzoniere, il secondo i Trionfi, le Rime estravaganti e il Codice degli abbozzi. Per il Canzoniere si ricorda il testo critico curato da G. Contini, Einaudi, Torino 1959 (edizione critica di riferimento), più di recente commentato da R. Bettarini (Einaudi, Torino 2005). Tra le altre numerose raccolte parziali sono da segnalare: Rime, Trionfi e poesie latine, a cura di F. Neri, Ricciardi, Milano-Napoli 1951 (da cui si cita); Prose, a cura di G. Martellotti e altri, Ricciardi, Milano-Napoli 1955; Opere, a cura di E. Bigi, G. Ponte, Mursia, Milano 1963; Opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1975; Opere latine, a cura di A. Bufano, utet, Torino 1975 (edizione base per la scelta antologica dei brani tratti dal Secretum).
` BiogRAFie
E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, trad. it. di R. Ceserani, Feltrinelli, Milano 1964 (1961) • U. Dotti, Vita di Petrarca, Laterza, RomaBari 1987.
` sToRiA DellA cRiTicA
E. Bonora, Francesco Petrarca,
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` sTuDi cRiTici
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Competenze Analisi interattiva
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Pace non trovo e non ho da far guerra dal Canzoniere, CXXXIV Il componimento è un’analisi insistita del dissidio interiore del poeta.
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Pace non trovo e non ho da far guerra1, e temo e spero2; ed ardo e son un ghiaccio3; e volo sopra ’l cielo e giaccio in terra4; e nulla stringo, e tutto ’l mondo abbraccio5.
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Tal m’ à in pregion, che non m’apre né serra6, né per suo mi riten né scioglie il laccio; e non m’ancide Amore e non mi sferra7, né mi vuol vivo né mi trae d’impaccio8.
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Veggio senza occhi e non ho lingua e grido9; e bramo di perir e cheggio aita10; ed ho in odio me stesso ed amo altrui.
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Pascomi di dolor, piangendo rido11; egualmente mi spiace morte e vita12: in questo stato son, Donna, per voi13.
1. e non ho … guerra: non ho mezzo per fare guerra (vale a dire per liberarsi dal tormento o per far sì che Laura lo ricambi). 2. temo … spero: temo di non essere amato, e al tempo stesso spero di esserlo. 3. ardo … ghiaccio: ardo di passione e sono ghiacciato dalla delusione. 4. e volo … terra: volo sopra il cielo nei momenti di gioia, e giaccio a terra prostrato nei momenti di sconforto. 5. e nulla … abbraccio: non ottengo
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nulla, e a volte invece mi sembra di possedere tutto il mondo. 6. Tal … serra: mi tiene prigioniero una donna, che non mi lascia libero (apre), respingendomi del tutto, né mi imprigiona, accettando il mio amore. 7. non m’ancide … sferra: Amore non mi uccide e non mi toglie le catene (sferra). 8. né mi trae d’impaccio: s’intende con la morte. 9. Veggio … grido: la passione mi ha
accecato, eppure continuo a vedere, la sofferenza mi ha tolto la facoltà di esprimermi con parole, eppure grido di dolore. 10. bramo … aita: desidero morire, e chiedo aiuto (per continuare a vivere). 11. Pascomi … rido: mi nutro di dolore, piango e rido insieme. 12. egualmente … vita: la vita e la morte mi risultano egualmente insopportabili. 13. per voi: per causa vostra; voi e altrui (v. 11) costituiscono una rima siciliana.
Nuovo esame di Stato
COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Sintetizza il contenuto del componimento in circa 50 parole.
> 2. Il testo è strutturato su coppie di termini antitetici (spesso metaforici), a partire da «pace» / «guerra» del verso d’apertura. Individua e chiarisci le più significative.
> 3. Per quale ragione l’ultimo verso si differenzia dai precedenti? Perché risulta di particolare importanza all’interno del componimento?
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti. GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dal sonetto Pace non trovo e non ho da far guerra di Petrarca, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: – la peculiarità sintattica del componimento, che traduce l’opposizione e contemporaneamente la coesistenza di sentimenti laceranti; – la tipologia metrica del testo, con particolare attenzione alle rime che in questo componimento hanno un significativo rapporto semantico; – la strutturazione binaria del lessico, tipica della poesia petrarchesca. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo. Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: – lo “sdoppiamento” come caratteristica peculiare della personalità e dell’opera di Petrarca; – l’evoluzione della figura femminile dalla lirica trobadorica alla Laura petrarchesca; – l’incertezza, la contraddizione, il dissidio interiore possono caratterizzare quelle fasi della vita in cui si è alla ricerca di se stessi, ma forse è proprio attraverso un percorso lungo e tortuoso che si può giungere alla definizione di sé.
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito letterario Alberto Asor Rosa
La lingua di Petrarca: classicismo e modernità Alberto Asor Rosa (1933) ha insegnato Letteratura italiana all’Università “La Sapienza” di Roma. Il testo che segue è tratto dalla sua Storia europea della letteratura italiana.
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Diversamente da Dante Alighieri, Petrarca non ci ha lasciato una trattazione organica del suo punto di vista in materia linguistica, né dalle sue opere si possono evincere particolari dichiarazioni teoriche su questo punto. Tuttavia, le scelte che il grande poeta aretino compì nell’organizzazione linguistica e stilistica della sua immensa produzione letteraria risultano con assoluta chiarezza e equivalgono, per molti aspetti, a una inversione di rotta rispetto all’autore della Comedía. Come sappiamo, tra la fine del xiii e la prima metà del xiv secolo latino e volgare si contendono la scena e si dividono lo spazio sia nelle scritture letterarie (poesia e prosa) sia nelle scritture di carattere pratico. In questo quadro Dante, pur non contestando l’importanza del latino come mezzo di espressione dell’alta cultura filosofica e scientifica, aveva fatto guadagnare non pochi punti al volgare, utilizzandolo, fra l’altro, come veicolo per la trattazione filosofico-letteraria del Convivio e sancendone il primato («nobilior est vulgaris») fin dalle prime righe del De vulgari eloquentia, l’incompiuto trattato, scritto nei primi anni del secolo, con l’intento di caratterizzare la lingua più idonea alla «canzone» e agli argomenti di massimo impegno intellettuale. La Comedía aveva poi rappresentato una gigantesca opera di promozione del volgare, fatto strumento di complessive finalità di rigenerazione etico-politica, e a tal fine aveva sperimentato e arricchito sul piano formale, in tutti i possibili registri, la sua parlata fiorentina: da quelli umili e perfino triviali, usati in certe terzine dell’Inferno, a quelli strettamente tecnici, di sapore filosofico-teologico, usati nei canti del Paradiso. In questo senso la critica ha spesso parlato di «plurilinguismo» dantesco. In Petrarca si assiste a una sorta di rovesciamento della prospettiva. Intanto, vi è un aspetto quantitativo: la stragrande maggioranza dei suoi testi è scritta in latino e non in volgare; quest’ultimo trova impiego solo nella prassi poetica dei Trionfi e dei Rerum vulgarium fragmenta (e già l’uso, per le rime, di una titolazione latina è significativa: il titolo tràdito e scolastico di Canzoniere risale infatti non all’autore, ma al Cinquecento). Petrarca affida al latino opere celeberrime come il Secretum, il De vita solitaria e il De otio religioso, finalizzate all’espressione del suo punto di vista filosofico-morale. Latina è la vastissima produzione epistolografica, inclusiva dei ventiquattro libri delle Familiares e dei diciassette delle Seniles, oltre a un certo numero di epistole sparse e alla raccolta di lettere politiche note come Sine nomine: si tratta – si badi – di raccolte che Petrarca aveva pensato come vere e proprie autorappresentazioni e forme di celebrazione della
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sua carriera di pensatore e letterato, e dunque sorrette da un’attentissima regia compositiva e strutturale. […] Ma al latino si rivolge anche una parte importante della produzione poetica: si pensi alle Epistole metrice, ma soprattutto al poema epico Africa, imperniato sulla figura di Scipione, un’opera non fra le letterariamente più riuscite del Petrarca, ma dalla quale egli soggettivamente si attendeva il massimo del prestigio e della gloria. Come si vede, Petrarca usa (e dunque mostra di considerare) il latino come la lingua normale della comunicazione colta, nel suo versante sia etico-religioso, sia politico, sia storico-letterario. Il volgare viene sottratto alle finalità culturali allargate cui Dante l’aveva asservito, e ricondotto nell’ambito della produzione poetica, anzi di un certo tipo di produzione poetica. Il latino del Petrarca non implica però un puro e semplice ritorno alle posizioni proprie della tradizione tardo-medievale, perché anzi esso è cosa ben diversa dalla forma di linguaggio codificata nella cultura universitaria. Il latino del Petrarca si sgancia con piena consapevolezza teorica dai modelli morfosintattici e lessicali propri della trattatistica filosofica e teologica degli ambienti accademici, per rifarsi direttamente alle fonti classiche – quelle cui, com’è ben noto, il poeta riserva la sua attentissima opera di recupero filologico e storico. […] In tal modo le scelte linguistiche fanno corpo con il progetto culturale complessivo del Petrarca: la ricerca dell’antico è per un verso il recupero di una dimensione storica «altra» rispetto all’epoca medievale (che già Petrarca legge e intende come età «buia», di crisi e decadenza); per altro verso è un messaggio sincronicamente attivo, da utilizzare come mezzo di identificazione della nuova cultura e della nuova forma della vita intellettuale, che con Petrarca tende per la prima volta a assumere forme «professionali» di tipo moderno. (A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. I, Le origini e il Rinascimento, Einaudi, Torino 2009)
COMPRENSIONE E ANALISI
> 1. Riassumi il testo in circa 120 parole. > 2. Qual è la tesi sostenuta dall’autore del testo? > 3. Rifletti sulla struttura del testo argomentativo: attraverso quali passaggi ragionativi l’autore giunge a formulare la sua tesi? In che modo la suffraga?
> 4. Quali sono le caratteristiche del latino di Petrarca? Qual è il significato della sua «ricerca dell’antico»?
> 5. Che cosa intende l’autore con l’espressione «rovesciamento della prospettiva» (r. 22)? PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno al passo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri). Sei d’accordo con l’idea che la ricerca della modernità possa passare anche attraverso il recupero della tradizione? Oppure ritieni che ogni epoca necessiti di caratteristiche nuove ed esclusive? Sostieni la tua tesi portando elementi a favore della tua posizione. Puoi riferirti ad esempi della storia e della realtà attuale, avvalendoti delle tue conoscenze ed esperienze.
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Capitolo 6
Giovanni Boccaccio Una “commedia umana” Se la Commedia dantesca è stata definita “divina”, a buon diritto il Decameron di Boccaccio merita l’appellativo di “commedia umana”. Nell’opera si manifesta un’aperta disponibilità alla vita terrena in tutti i suoi aspetti. Una presenza vastissima di casi, situazioni, personaggi, oggetti si accumula nelle pagine del libro: vi si presentano tutte le classi sociali, tutti gli aspetti del mondo naturale, e soprattutto assume pieno rilievo quel tipico prodotto umano che è la città, sede delle attività, degli scambi, dei rapporti, dei conflitti. Anche lo scenario geografico è amplissimo, l’Italia, l’Europa, il Mediterraneo, così come la serie dei tempi, dal presente al passato recente a quello più remoto dell’antichità. 490
Una narrazione coinvolgente Su questo scenario sono collocate le vicende delle cento novelle. Ciò che rende viva e attuale la loro lettura sono le narrazioni coinvolgenti di casi avventurosi e di amori felici o infelici, le battute taglienti o argute con cui personaggi di pronta intelligenza sanno cavarsi d’impaccio in situazioni difficili, le beffe esilaranti ai danni di sciocchi sprovveduti e creduloni, i gesti di straordinaria nobiltà e generosità.
L’ordine del mondo Tutti questi multiformi aspetti del mondo non si accumulano in forma caotica, ma si presentano ordinati in schemi armonici e in architetture rigorose. Tuttavia si tratta di un ordine ormai molto diverso da quello che regnava nella Com-
Videolezione d’autore
Il culto del «saper vivere» Di qui scaturisce il culto dell’intraprendenza dell’uomo, dell’intelligenza che supera ostacoli e avversità, altro aspetto che apre la strada alla realtà moderna; ad esso si affianca il culto di un «saper vivere» mondano, il vagheggiamento delle forme di vita raffinate ed eleganti di una superiore civiltà.
La concezione dell’amore Alla visione laica concorre la concezione dell’amore e dell’eros. La fama di oscenità che ha circondato le novelle decameroniane è del tutto immeritata: per Boccaccio l’eros è una forza della natura sana e innocente, che è peccato contrastare e reprimere, e che egli guarda con occhio sereno, sgombro di ogni malizia o morbosità. Anche per questo lo sentiamo vicino a noi.
Amor può troppo più che né voi né io possiamo (Decameron, IV, 1, Tancredi e Ghismunda)
La varietà dello stile media: in Dante l’ordine era calato sul mondo dall’alto, era voluto e imposto da Dio; l’unità verso cui il molteplice convergeva era collocata fuori dello spazio terreno, in una dimensione trascendente. Nel Decameron invece l’ordine nasce dall’interno della stessa realtà terrena: quello di Boccaccio è un mondo interamente umano, retto da forze che operano autonomamente rispetto al piano provvidenziale di Dio (anche se la religione non è affatto negata). Comincia cioè a profilarsi nel Decameron una visione che diventerà poi quella moderna.
Piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno (Decameron, Proemio)
Alla varietà del mondo rappresentato corrisponde la varietà dei registri stilistici. Spesso la prosa boccacciana ama il periodare ampio e complesso, alla latina, ma non per puro gusto retorico: l’ordine rigoroso delle parole riflette la volontà di dominare intellettualmente la molteplicità del mondo e di disporla entro rigorosi moduli d’ordine. La complessità del periodo può talora spaventare il lettore moderno, abituato a una prosa più snella, ma, superato il primo sconcerto, addentrarsi in questa prosa comunica appunto il senso affascinante di un perfetto dominio del reale. Non solo, ma spesso, quando la narrazione lo richiede, il periodo si fa più agile, per assecondare la dinamicità dell’azione. Vi sono poi le infinite voci dei personaggi, che variano a seconda degli ambienti sociali, delle situazioni, degli argomenti, dando luogo anche a battute di dialogo frizzanti, ricche di espressioni del parlato, che rendono viva la lettura. 491
L’età comunale in Italia
1 La brillante vita presso la corte angioina
La vocazione letteraria
La vita Videolezione
La formazione negli anni napoletani
Giovanni Boccaccio nacque nel 1313, probabilmente a Certaldo, borgo di cui la famiglia paterna era originaria, o forse a Firenze, figlio illegittimo del mercante Boccaccino di Chellino. Legittimato e accolto in casa dal padre, fu avviato ai primi studi a Firenze. Nel 1327 Boccaccino si recò a Napoli in qualità di socio della potente banca fiorentina dei Bardi, che finanziava la corte angioina e ne amministrava gli affari, e, poiché intendeva indirizzare il figlio alla sua stessa professione, lo portò con sé per fargli fare pratica mercantile. A Napoli Boccaccio rimase poi sino all’inverno 134041. Questo soggiorno ebbe un’importanza determinante nella sua formazione. Innanzitutto, nella sua pratica al banco veniva quotidianamente a contatto con una varietà di persone, mercanti, gente di mare, avventurieri, che confluivano nella grande città, uno dei più importanti centri politici ed economici del Mediterraneo; poté così maturare quello spirito di osservazione, quella conoscenza dei caratteri, dei costumi, dei più vari strati sociali, in una parola quella concreta e multiforme esperienza della realtà che sarà alla base della sua arte di narratore e che trasfonderà nelle novelle del Decameron. Al tempo stesso, quale figlio di un socio della potente banca dei Bardi, da cui dipendeva tutta l’economia della corte angioina, poteva partecipare alla vita raffinata e gaudente dell’aristocrazia e della ricca borghesia napoletane. Sin dagli anni giovanili si delineano così le due fondamentali direttrici lungo cui si muoverà tutta l’esperienza letteraria boccacciana: quella “borghese”, attenta alla realtà concreta della vita sociale ed economica, e quella “cortese”, nostalgicamente protesa verso un mondo splendido di costumi signorili e di magnanimi comportamenti. In questi anni napoletani si afferma in Boccaccio anche la vocazione letteraria, destinata a trionfare ben presto sulle speranze del padre, che lo voleva mercante e banchiere, o almeno avviato alla lucrosa professione di esperto di diritto canonico.
Boccaccio e il suo tempo
Linea del tempo
Caccia di Diana Teseida Nasce probabilmente a Certaldo; è figlio naturale di un mercante, che lo legittima e lo tiene con sé. Trascorre l’infanzia a Firenze
Si trasferisce a Napoli insieme col padre (socio della banca dei Bardi), per far pratica mercantile
Certaldo-Firenze
1313
Legge i classici antichi, la poesia cortese e stilnovista, i romanzi cavallereschi, Dante e Petrarca
Frequenta l’ambiente raffinato e gaudente della corte angioina
È costretto a tornare a Firenze a causa della crisi della banca dei Bardi
Vive in ristrettezze economiche e cerca invano una sistemazione come “cortigiano”
Periodo napoletano
1327 La banca dei Bardi finanzia gli affari di Roberto d’Angiò, re di Napoli
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Filostrato Filocolo
Comedìa delle Ninfe fiorentine Amorosa visione Elegia di Madonna Fiammetta Ninfale fiesolano
1337 Inizia la guerra dei Cent’anni, tra Francia e Inghilterra
1340
1346
Crisi economica e finanziaria; la crisi coinvolge le banche fiorentine
Fallisce la banca dei Bardi
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio La tradizione cortese e l’amore per i classici
Gli scrittori a lui contemporanei
Le prime prove letterarie
Alla letteratura Boccaccio si accosta con l’avidità che è propria dell’autodidatta. In primo luogo subisce il fascino della tradizione cortese, dei versi d’amore e dei romanzi cavallereschi, che erano molto letti ed amati negli ambienti aristocratici da lui frequentati. Ma, sotto lo stimolo di alcuni dotti personaggi della corte angioina, che era un centro molto vivo di cultura, comincia ad affermarsi in lui anche la devozione per i classici latini. Accanto ai classici antichi, Boccaccio ammira anche i classici nuovi, quelli della recente letteratura volgare: i poeti stilnovisti, ma soprattutto Dante e Petrarca, il giovane letterato che, con la sua fama e la sua dottrina, già domina la cultura contemporanea. È una formazione, come si vede, eterogenea e composita; ma da questa avidità di esperienze culturali scaturirà poi quella tendenza inesauribile a sperimentare generi e forme, che caratterizzerà l’opera boccacciana. Di queste esperienze di vita e di cultura si sostanziano le prime prove, le Rime, i romanzi e i poemi in volgare, Filocolo, Filostrato, Teseida.
Il ritorno a Firenze
La ricerca di una sistemazione
Ma questa esistenza serena, fatta di svaghi aristocratici, amore e poesia, è troncata di colpo nel 1340: a causa della crisi della banca dei Bardi, Boccaccio è costretto a tornare a Firenze. Alla festosa vita cortese napoletana subentra il grigiore opprimente di una vita borghese, segnata dalle ristrettezze economiche. Allo scrittore si presenta anche il problema di una sistemazione: si reca presso vari signori, in cerca di appoggio; coltiva per anni la speranza di una definitiva sistemazione presso la corte napoletana, a cui lo legano le memorie giovanili, ma queste speranze vengono sempre sistematicamente deluse. La sua città comunque lo ama come personaggio illustre e si vale di lui in numerose missioni e ambascerie. Nel 1348 vive l’esperienza della peste, che dopo aver colpito tutta l’Europa arriva a flagellare anche Firenze, e ne trae spunto per la cornice narrativa in cui inserirà le cento novelle del suo capolavoro, il Decameron.
Decameron
Opere erudite in latino Opere su Dante
Corbaccio
Conosce Petrarca. Svolge incarichi diplomatici per il Comune fiorentino
Crisi religiosa: prende gli ordini
È allontanato dagli incarichi pubblici, perché indirettamente coinvolto in una congiura
Si ritira a Certaldo Torna a ottenere incarichi pubblici
Tiene un commento pubblico della Commedia su incarico del Comune
Muore a Certaldo
Periodo fiorentino
1348 Un’epidemia di peste si diffonde in Italia
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Calo demografico, crisi economica e rivolte popolari in tutta Europa
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L’età comunale in Italia Il travaglio religioso e l’attività erudita
Il ritiro a Certaldo
Negli ultimi anni un’importante evoluzione spirituale si verifica in Boccaccio. È determinante per lui l’amicizia con Petrarca, che si sviluppa in vari incontri diretti, ma anche attraverso un fitto scambio di lettere, libri, informazioni letterarie. Sotto l’influenza di Petrarca, che egli considera suo maestro, Boccaccio è spinto a concepire una devozione entusiastica per i classici, ma anche una concezione più austera del valore morale delle lettere. Abbandona l’idea di una letteratura intesa essenzialmente al diletto, rivolta ad un pubblico non letterato, e coltiva un tipo di letteratura più solenne e moralmente impegnata. Toccato personalmente da un travaglio religioso, come l’amico Petrarca sceglie la condizione di “chierico”: nel 1360 il papa lo autorizza ad avere cura d’anime. Questa crisi spirituale si inquadra anche in un periodo di delusione politica: nel 1360 il fallimento di una congiura, in cui erano implicati amici di Boccaccio, mette in cattiva luce lo scrittore stesso, che viene allontanato da ogni incarico pubblico. Nel 1362 si ritira allora a Certaldo, dove conduce una vita appartata, dedita allo studio, alla meditazione e alla stesura di opere erudite. Dal 1365 torna di nuovo ad ottenere incarichi pubblici. La sua casa diviene il centro d’incontro di un gruppo di intellettuali, che sono il primo nucleo del futuro Umanesimo fiorentino: tra di essi il cancelliere della Repubblica, Coluccio Salutati. Il culto umanistico dei classici latini non esclude però in Boccaccio il culto dei classici nuovi, sorretto da una ferma fiducia nella lingua volgare. La sua ultima fatica è un commento alla Commedia, che egli, su incarico del Comune, tiene nella chiesa di Santo Stefano di Badia tra il 1373 e il 1374. La morte lo coglie il 21 dicembre 1375.
Carta interattiva
I luoghi e la vita di Boccaccio
1 CERTALDO Nasce verosimilmente a Certaldo nel 1313, figlio del mercante Boccaccino di Chellino.
FIRENZE
5 CERTALDO Nel 1360, ottenuti gli ordini ecclesiastici, torna a vivere nella città natale, dove muore nel 1375.
CERTALDO 2 FIRENZE
Trascorre l’infanzia a Firenze, dove è avviato ai primi studi. 4 FIRENZE
NAPOLI 3 NAPOLI Nel 1327 si trasferisce a Napoli con il padre, socio della banca fiorentina dei Bardi. Qui partecipa alla vita raffinata e aristocratica di corte e approfondisce lo studio dei classici.
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Nel 1340, a seguito del fallimento della banca dei Bardi, è costretto a lasciare Napoli e a tornare a Firenze, città presto colpita dalla peste nera. Svolge per il Comune importanti incarichi diplomatici.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
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Le opere del periodo napoletano Videolezione
Nelle opere scritte da Boccaccio durante il suo giovanile soggiorno napoletano si proiettano i vari e disordinati interessi dell’autodidatta e al tempo stesso una materia schiettamente autobiografica. L’avida curiosità intellettuale spinge l’autore a riprendere sia i testi classici sia la più recente tradizione medievale, quella letteratura cavalleresca e cortese che esercitava tanto fascino sull’aristocratica società napoletana, senza trascurare le ingenue narrazioni popolaresche, i cantari. Ma è significativo nello scrittore il proposito di innalzare questa materia romanzesca, conferendole la dignità formale della letteratura antica.
La Caccia di Diana e il Filostrato
La Caccia di Diana: i temi dell’amore cortese
Il Filostrato: le analogie con il ciclo “classico” in lingua d’oïl
La prima opera è la Caccia di Diana, un poemetto in terzine anteriore al 1334. Le ninfe seguaci di Diana, casta dea della caccia (dietro alle quali è facile identificare le belle dame napoletane), si ribellano alla dea ed offrono le loro prede a Venere, che trasforma gli animali in bellissimi uomini; tra questi vi è anche l’autore che, grazie alla gentilezza dell’amata, diviene uomo pieno di virtù. Alla base del poemetto vi è dunque il basilare principio cortese secondo cui l’amore è fonte di ingentilimento e di elevazione. La prima opera d’impegno è costituita dal Filostrato (1335-38; ma la datazione e l’ordine di composizione di queste opere giovanili sono quanto mai incerti e controversi). Si tratta di un poemetto scritto in ottave, il metro tipico dei cantari popolari (sono strofe di otto endecasillabi, con rime ABABABCC). Ricava il suo argomento dalla narrativa medievale in lingua d’oïl, e più esattamente da un romanzo del ciclo “classico”, il Roman de Troie (“Romanzo di Troia”) di Benoît de Sainte-Maure. Come è proprio di tale ciclo, Boccaccio presenta le vicende di personaggi del mito omerico con vesti e psicologie feudali e cavalleresche. Il titolo, in un’approssimativa etimologia greca, vorrebbe appunto significare “vinto d’amore”, ed è il nome che l’autore stesso assume nel dedicare l’opera alla donna amata. È evidente come Boccaccio vi voglia proiettare, trasfigurandola romanzescamente, l’esperienza autobiografica dei suoi amori napoletani. La narrazione, lineare, piacevole ed elegante, doveva rispondere appieno ai gusti cortesi e sentimentali del pubblico a cui era indirizzata.
Il Filocolo
La commistione tra romanzo francese e romanzo grecoalessandrino
Testi Gli amori infantili di Florio e Biancifiore dal Filocolo
Diverso è il carattere del Filocolo, risalente forse al 1336. Il titolo, dall’etimologia greca sempre molto approssimativa, vorrebbe significare “pena” o “fatica d’amore”. Si tratta ancora di un’opera narrativa, ma in prosa. Riprende una vicenda anch’essa cara al romanzo medievale francese, la storia delle peripezie di due giovani amanti già narrata in un poemetto in lingua d’oïl che aveva goduto di grande successo e diffusione ed era stato ripreso da uno dei primi cantari toscani, il Cantare di Florio e Biancifiore. Ma il nucleo narrativo originale, molto semplice, è complicato dalla sovrapposizione degli schemi del romanzo greco-alessandrino, che presenta intricate peripezie, separazioni, avventure degli amanti, pericoli, equivoci, sorprese e colpi di scena, agnizioni risolutive (cioè riconoscimenti della vera identità dei personaggi); tale schema romanzesco aveva avuto larga fortuna nel Medioevo. Come lo scrittore afferma nell’introduzione all’opera, era sua intenzione dar forma letterariamente degna ai «fabulosi parlari degli ignoranti», cioè ai rozzi cantari che avevano tramandato questa materia. Sicché egli sovraccarica la trama narrativa di tutta la sua erudizione, infittendola di descrizioni, divagazioni mitologiche, storiche, geografiche, letterarie, di lunghissimi monologhi sentimentali; inoltre adopera una 495
L’età comunale in Italia L’erudizione e il realismo
prosa complessa ed elaboratissima, secondo i dettami della retorica medievale. Nonostante questo peso erudito e retorico, il lungo romanzo rivela doti di penetrazione e finezza psicologica nell’analisi del sentimento amoroso, ma soprattutto raccoglie già una vastissima materia narrativa, una varietà sbalorditiva di caratteri, casi umani, ambienti, rivelando quell’apertura verso la realtà in tutte le sue forme, quel piacere del raccontare che saranno poi caratteristici del Decameron.
Il Teseida
Le ambizioni letterarie
L’opera successiva è il Teseida delle nozze d’Emilia, scritto tra il 1339 e il 1340 e forse rivisto più tardi a Firenze. È un poema in ottave ed è così intitolato perché narra le guerre del mitico re Teseo contro le Amazzoni e contro Tebe (materia ricavata dai romanzi cavallereschi del ciclo tebano, come il Roman de Thèbes). È quindi nuovamente una materia medievale di armi e di amori ad essere assunta da Boccaccio, ma le ambizioni culturali sono ancora più alte che nel Filocolo: il poeta si propone di dare per primo alla letteratura italiana un poema epico all’altezza dell’Eneide virgiliana. Al centro della storia sono le vicende di Arcita e Palemone, legati da profonda amicizia, che si innamorano ambedue di Emilia, regina delle Amazzoni e cognata di Teseo. La vivezza della vicenda amorosa spicca, come di consueto; ma la narrazione è appesantita e resa arida dalle preoccupazioni retoriche ed erudite. Interessante è anche il vagheggiamento di prove di magnanimità, splendore, cortesia, rivelatore di un gusto che sarà sempre una componente centrale dell’arte di Boccaccio, soprattutto nel Decameron.
Emilia nel suo giardino, XV secolo, miniatura da Le livre de Thezeo o Le Theseide di Giovanni Boccaccio, codice 2617, Vienna, Österreichische National bibliothek.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
3 L’inserimento nel nuovo ambiente culturale
Le opere del periodo fiorentino Lasciare l’aristocratico e gioioso mondo napoletano e trasferirsi a Firenze costituì per Boccaccio, come si è detto, un’esperienza dolorosa. Tuttavia egli avvertì subito l’esigenza di inserirsi nel nuovo ambiente culturale. La via più naturale che gli si apriva era la ripresa della poesia allegorico-dottrinaria, che era stata viva nella cultura fiorentina sin dal Duecento e che aveva trovato la sua più compiuta realizzazione nella Commedia dantesca. Se dunque nella Napoli cortese aveva scritto prevalentemente romanzi, ora compone opere sul modello del poema di Dante: la Comedìa delle Ninfe fiorentine (nota anche col titolo inesatto di Ninfale d’Ameto) e l’Amorosa visione.
La Comedìa delle Ninfe fiorentine
Testi Napoli cortese e Firenze borghese dalla Comedìa delle Ninfe fiorentine
Lo spirito mondano e gaudente
La Comedìa è una narrazione in prosa, inframmezzata da componimenti in terzine, cantati dai vari personaggi, e riprende schemi della poesia pastorale antica, popolata da stilizzati pastori e leggiadre ninfe, sovrapponendovi gli schemi allegorici medievali, attinti soprattutto da Dante (come rivela già il titolo). Il pastore Ameto incontra le ninfe dei colli fiorentini, che rappresentano allegoricamente le virtù, e grazie all’amore si trasforma da essere rozzo ed animalesco in uomo: si vede così ritornare il principio cortese secondo cui l’amore ingentilisce e raffina l’animo. L’allegoria del componimento infatti non ha più nessuna delle valenze religiose dell’allegoria dantesca, ha un significato esclusivamente mondano. L’opera è un omaggio alla bellezza delle donne fiorentine, che traspaiono chiaramente dietro le figure delle ninfe. Nel vagheggiamento della loro bellezza compaiono una serenità ed un edonismo che sono ormai lontani dall’idealizzazione della donna di tipo stilnovistico e aprono la strada a un’idea della bellezza femminile che sarà propria del Rinascimento. I racconti delle ninfe, d’altro lato, hanno già le caratteristiche di vere e proprie novelle, a volte persino comiche ed erotiche, e fanno presentire il Decameron.
L’Amorosa visione
Il gusto per le allegorie e la cultura enciclopedica
L’Amorosa visione è invece un poema in terzine di cinquanta canti, composto nel 1342-43. Sotto la guida di una donna gentile, il poeta visita in sogno un castello, dove vede dipinti i trionfi della Sapienza, della Gloria, dell’Avarizia, dell’Amore e della Fortuna, insieme a personaggi che servono a esemplificare queste astrazioni. La visita al castello è il pretesto per aride esposizioni erudite ed enciclopediche. Anche in quest’opera, come si vede, lo schema allegorico dantesco è trasformato in senso laico: non si tratta di un viaggio mistico a Dio, ma della conquista di una saggezza morale tutta umana.
L’Elegia di Madonna Fiammetta
Il racconto di una donna abbandonata
Al mondo dell’esperienza giovanile Boccaccio torna con un altro romanzo in prosa, l’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44). L’opera segna tuttavia una svolta rispetto all’autobiografismo insistito delle opere di quella prima fase: Boccaccio prende le distanze dall’esperienza napoletana, oggettivandola attraverso una sorta di rovesciamento dei dati biografici. Egli infatti narra non dal proprio punto di vista, bensì da quello di una dama napoletana abbandonata dall’amante, il giovane fiorentino Panfilo, che è tornato nella sua 497
L’età comunale in Italia
Ovidio come modello
La donna da oggetto a soggetto della passione
città e l’ha dimenticata. Fiammetta attende invano il suo ritorno, ricordando i tempi dell’amore felice, mentre si strugge per la sua passione impossibile e per la gelosia. Il tormento è accresciuto dal fatto che Fiammetta è sposata e deve nascondere al marito il vero motivo della sua infelicità. Il marito, per confortarla, la conduce proprio in quei luoghi della riviera napoletana che le ricordano la passata felicità, esacerbandone la disperazione. L’opera ha la forma di una lunga lettera, rivolta alle donne innamorate. Essa riprende in prosa, dilatandolo alla misura di un vero e proprio romanzo, lo schema delle Eroidi di Ovidio, elegie sotto forma di lettere in versi in cui eroine del mito si rivolgevano ai loro amanti confessando le proprie pene d’amore. La lunga confessione dell’eroina consente una minuziosissima introspezione psicologica, che per noi acquista un sorprendente sapore di modernità. È molto importante che la parola sia data alla donna stessa: nella tradizione cortese la donna era solo oggetto del vagheggiamento da parte dell’uomo, idolo remoto e irraggiungibile, privato di una propria soggettività; qui invece la donna diviene soggetto amoroso e confessa la propria passione, che è sentimentale ma anche carnale e sensuale. Un antecedente può essere trovato nella Francesca del V canto dell’Inferno ( cap. 4, T16, p. 308), che confessa il suo amore per Paolo in termini arditamente sensuali, ma mentre per Dante, da una prospettiva rigorosamente religiosa, l’infelice eroina era un esempio negativo di lussuria, da condannare senza remissione, Fiammetta, nel suo desiderio sensuale impossibile, ha tutta la simpatia e la partecipazione dell’autore. Agisce infatti qui una concezione naturalistica dell’amore, che è considerato non più peccato, ma istinto naturale, legittimo in tutta la gamma delle sue manifestazioni; concezione che sarà alla base della rappresentazione dell’amore nel Decameron.
Il Ninfale fiesolano
Testi L’amore giovanile dal Ninfale fiesolano
Un mondo idilliaco e popolare
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La simpatia per la tradizione fiorentina si esprime nella sua forma più compiuta nel Ninfale fiesolano. Si tratta di un poemetto in ottave, di ambiente idillico-pastorale, che rievoca le leggendarie origini di Fiesole e di Firenze. Al centro vi è essenzialmente l’amore di due giovani, il pastore Africo e la ninfa Mensola, contrastato dalle ferree leggi imposte dalla dea Diana, che costringe le ninfe alla castità. Il poemetto risente di numerosi modelli classici (Virgilio e Ovidio in particolare), ma è assente il peso erudito che caratterizza le altre opere fiorentine di Boccaccio; manca anche lo schema allegorico della Comedìa delle Ninfe fiorentine: qui vi è solo la rappresentazione di un mondo popolare, nei suoi costumi semplici e nei suoi sentimenti elementari. Anche il linguaggio e il metro hanno il ritmo facile, la grazia fresca e spontanea dei cantari popolareschi toscani. Questi amori pastorali, che si svolgono sullo sfondo di una natura idillica, sono avvolti da un’atmosfera di ingenua favola. La concezione dell’amore che vi domina è quella naturalistica che si è già sottolineata: lo sbocciare del sentimento e del desiderio tra i due giovani è qualche cosa di innocente, tanto che in confronto ad esso appaiono barbare e crudeli le leggi della dea Diana che impongono la castità. Quello dell’innocenza dell’amore giovanile è un tema che avrà poi molto peso nel Decameron.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
T1
La dissimulazione amorosa dall’Elegia di Madonna Fiammetta, V
Temi chiave
• il contrasto tra essere e apparire • la relatività del reale • l’impossibilità di rivelare un amore
Fiammetta è una gentildonna napoletana, sposata, che è illecito stata abbandonata dal suo amante, il fiorentino Panfilo. Invano ne attende il ritorno, dando sfogo incessantemente al suo dolore e rimpiangendo, in una continua alternanza di speranze e delusioni, i tempi dell’amore felice. Svolgendosi su quest’unico tema, il romanzo ha la forma di una lunga lettera, indirizzata alle «donne pietose», in quanto sanno comprendere e compatire i tormenti della passione.
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A così fatta vita e a peggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione così picciola1, come udite; né intendiate consolazione che me di dolore privi, sì come l’altre suole2: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza più prestarmi de’ suoi beni3. Seguitando adunque le mie fatiche4, dico che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l’altre giovani della mia città di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini5; le quali feste vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l’antico ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono6: – O donna, adórnati; venuta è la solennità di cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento7. – Ohimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l’addentato cinghiaro alla turba de’ cani, a loro rispondeva turbata, e con voce d’ogni dolcezza vôta8, già dissi: – Via, vilissima9 parte della nostra casa, fate10 lontani da me questi ornamenti: brieve roba11 basta a coprire gli sconsolati membri, né più alcuno tempio né festa per voi12 a me si ricordi, se la mia grazia13 v’è cara. – Oh, quante volte già, come io udii, furono quelli14 da molti nobili visitati, li quali più per vedermi, che per devozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla dicendo senza me valere quella festa15! Ma come che16 io così le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta
1. picciola: piccola, debole; è la speranza che Dio ponga fine alle sue sofferenze, o favorendo il ritorno di Panfilo o facendola morire. Fiammetta si rivolge alle donne che sanno comprendere le sue sofferenze (come udite), invocate spesso con l’appellativo di «pietose». 2. né intendiate … suole: né intendiate una consolazione che mi liberi dal dolore, come è solita liberare le altre (donne). 3. essa … beni: (tale consolazione) distoglie solo qualche volta i miei occhi dal piangere, senza concedermi altri sollievi (beni). 4. Seguitando … fatiche: proseguendo il racconto delle mie pene. 5. con ciò sia cosa che … cittadini: sebbene in passato (per addietro), io, bellissima tra le altre giovani della mia città, fossi solita
non tralasciare nessuna festa, che si facesse nelle chiese, e i cittadini non ritenessero che nessuna di queste feste fosse bella senza la mia presenza. I divini templi sono i luoghi di culto, dove si celebrano le solenni funzioni sacre durante le festività; a una di queste cerimonie Fiammetta aveva visto per la prima volta Panfilo e se ne era innamorata. 6. le quali … dicono: quando le feste si avvicinavano, le mie serve erano solite incitarmi a parteciparvi, e ancora esse, conservando l’antica consuetudine, preparati abiti lussuosi, talvolta mi dicono. 7. per compimento: per risultare perfetta, interamente compiuta. 8. a loro … vôta: rivolgendomi furiosa a loro, non diversamente dal cinghiale azzannato che si rivolge alla turba dei cani, ri-
spondevo turbata e con la voce priva di ogni dolcezza. 9. vilissima: spregevolissima (parte in quanto le serve “appartengono”). 10. fate: tenete. 11. brieve roba: un vestito modesto, di poco conto. 12. per voi: da voi. 13. grazia: benevolenza. 14. quelli: si riferisce ai templi. 15. li quali … festa: i quali, venuti più per vedermi che per qualche pratica di devozione, non vedendomi, se ne tornavano indietro turbati, dicendo che quella festa non valeva nulla senza di me. Nulla si collega a valere (la costruzione infinitiva è latineggiante). 16. come che: sebbene.
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vedere17, con le quali io semplicemente e di feriali18 vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come già feci, cerco, ma, rifiutando li già voluti19 onori, umile, ne’ più bassi luoghi tra le donne m’assetto20; e quivi diverse cose, ora dall’una ora dall’altra ascoltando con doglia nascosa quanto io più posso, passo quello tempo che io vi dimoro21. Ohimè! quante volte già m’ho io udito dire assai d’appresso22: – Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare23 ornamento della nostra città, così rimessa24 e umile è divenuta? Qual divino spirito l’ha spirata? Ove le nobili robe?25 Ove gli altieri26 portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite? – Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volentieri risposto: «Tutte queste cose, con molte altre più care, se ne portò Panfilo dipartendosi27». Quivi ancora dalle donne intorniata28, e da diverse domande trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare29. L’una con cotali voci mi stimola: – O Fiammetta, senza fine di te me e l’altre donne fai maravigliare, ignorando quale sia stata sì sùbita la cagione che30 le preziose robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli31 alla tua giovane etade; tu, ancora fanciulla, in sì fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualità32. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi33. Vedi qui qualunque di noi34, più di te attempate, ornate con maestra35 mano, e d’artificiali36 drappi e onorevoli vestite, e così tu similemente dovresti essere ornata. – A costei e a più altre aspettanti le mie parole rendo io con umile voce cotale risposta: – Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l’anima ornata di virtù basta, né forza fa37, se il corpo di cilicio38 fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati, per le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si richieggiono39. Ma io di ciò non ho cura,
17. me le … vedere: non posso fare a meno, essendone costretta, di parteciparvi. 18. feriali: che si indossano nei giorni feriali, comuni. 19. voluti: desiderati, ambiti, e quindi cercati. 20. m’assetto: mi siedo. 21. e quivi … dimoro: e qui ascoltando con dolore diverse cose, ora dall’una ora dall’altra, passo nascosta quanto più posso il tempo che vi rimango. 22. d’appresso: da vicino. 23. singulare: singolare, straordinario. 24. rimessa: dimessa. 25. Ove … robe?: dove sono (sottinteso) i suoi lussuosi vestiti? 26. altieri: fieri. 27. se ne … dipartendosi: portò via con sé Panfilo, quando si è allontanato.
28. intorniata: attorniata. 29. da diverse … satisfare: tormentata da diverse domande, a tutte devo soddisfare, dare una risposta, con viso finto, ingannevole (in quanto non può esprimere apertamente i suoi pensieri). 30. sì sùbita la cagione che: così improvvisa la ragione per cui. 31. dicevoli: che si addicono, convenienti. 32. lasciandolo … qualità: se rifiuti adesso gli abiti sontuosi, in futuro non potrai più indossarli. Impiega gli anni giovanili secondo le loro necessità, le loro convenienze (la loro qualità). 33. Questo … innanzi: l’abito così umile e dimesso che hai indossato non ti mancherà occasione (non ti falla) di indossarlo più avanti (quando sarai più vecchia). Si noti co-
me l’uso di termini tipicamente stilnovistici (onestade, umile) non indichi più delle qualità interiori, ma si riferisca all’aspetto esterno, che è oltretutto simulato e ingannatore. 34. qualunque di noi: tutte noi. 35. maestra: sapiente. 36. artificiali: aggiustati con arte. 37. né forza fa: né avrebbe importanza. 38. cilicio: stoffa grossolana, ruvida e pungente. 39. con … si richieggiono: poiché la maggior parte delle persone, sviate da false apparenze, giudicano dalle cose esteriori quelle interiori, confesso che gli ornamenti usati da voi e da me in passato sono necessari (si richieggiono, si richiedono).
Pesare le parole Feriali (r. 22) Dal latino fèriae, “giorni in cui non si lavora, festivi”, in rapporto a cerimonie di culto (ha radice comune con fèstum, “festivo”). Il senso antico è rimasto nella parola ferie, “periodi di riposo a cui ha diritto il lavoratore”. Feriale al contrario oggi vuol dire “non festivo, lavorativo” (es. aperto nei giorni feriali). Il motivo del rovesciamento di senso rispetto a quello origina-
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rio è questo: nell’uso liturgico della Chiesa cattolica si chiamavano feriali i giorni dedicati alla festa di un santo, cioè tutti i giorni della settimana tranne la domenica, dedicata al Signore (domenica da dies domìnica, “giorno del Signore”). Il senso di “festivo” è rimasto in Ferragosto, dal latino feriae Augusti, “festa di agosto”.
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anzi, dolente delle passate vanità, volonterosa d’ammendare40 nel cospetto d’Iddio, mi rendo quanto posso dispetta41 agli occhi vostri. – E quinci le lagrime dell’intrinseca verità42 cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce così con meco43 medesima dico: «O Iddio, veditore de’44 nostri cuori; le non vere parole dette da me non m’imputare in peccato. Come tu vedi, non volontà d’ingannare, ma necessità di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne45, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che ’l malvagio esemplo levando, alle tue creature il do buono46: egli m’è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma più47 non posso». Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquità48 pietose lagrime ricevute, dicendo le circustanti donne me devotissima giovane di vanissima ritornata49! Certo, io intesi più volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe50; e più volte ancora dalle sante persone per santa51 fui visitata, non conoscendo esse quel che nell’animo nascondea il tristo52 viso, e quanto li miei desiderii fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo, quanto possono53 in te gl’infinti54 visi più che li giusti animi, se l’opere sono occulte! Io, più peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però che55 quelli velo56 sotto oneste parole, sono reputata santa; ma conoscelo Iddio57, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce58 di me sgannerei59 ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene; ma non si puote.
40. ammendare: fare ammenda, correggermi. 41. dispetta: sgradita, spregevole. 42. intrinseca verità: la verità che sta dentro di lei e che non può rivelare. 43. con meco: con me, tra me. 44. veditore de’: che vedi nei. 45. mi strigne: mi obbliga, mi costringe (a dire le non vere parole). 46. ’l malvagio … buono: do il buon esempio alle tue creature, mentre elimino, tolgo (levando) quello cattivo.
47. più: fare altrimenti. 48. iniquità: comportamento malvagio, dovuto alla necessità di mentire. 49. dicendo … ritornata: poiché le donne che mi stavano intorno dicevano che mi ero trasformata da giovane molto vanitosa in una giovane molto devota. 50. io intesi … sarebbe: ho sentito più volte che era opinione di molte che io fossi legata con Dio da tanta amicizia, che nessuna grazia da me domandata a lui sarebbe stata negata.
51. per santa: come se fossi una santa. 52. tristo: triste. 53. quanto possono: quanto potere hanno. 54. infinti: falsi, ingannatori. 55. però che: poiché. 56. velo: copro, nascondo. 57. conoscelo Iddio: lo sa Iddio. 58. vera voce: voce che dice la verità. 59. sgannerei: farei ricredere, svelando l’inganno.
Analisi del testo
La maschera della menzogna
Verità e finzione
Il personaggio si trasforma col mutare delle situazioni narrative. Abbandonata da Panfilo, Fiammetta ha perso ogni gioia di vivere: se un tempo indossava abiti sontuosi per partecipare ai divertimenti ed essere ammirata, adesso, mentre la sua bellezza sta sfiorendo, rinuncia ad ogni cura e ornamento, presentandosi in modi dimessi e trascurati. Alla trasformazione esteriore della figura e della personalità corrisponde un profondo contrasto interiore, dovuto all’impossibilità di rivelare una passione illecita e peccaminosa. Fiammetta deve quindi continuamente fingere e mentire, indossando di fronte agli altri una specie di maschera, con cui nascondere quello che effettivamente prova. Si delinea così una contraddizione fra l’essere e l’apparire, che riguarda la duplicità dei comportamenti e delle azioni umane. Il personaggio rivela una sua doppia identità. Sul contrasto fra verità e finzione si innesta infine un nuovo “rovesciamento”, dovuto al punto di vista e al giudizio degli altri. Il comportamento e le parole – ingannevoli e menzognere – fanno di Fiammetta una specie di santa, attribuendole una personalità che è del tutto estranea alla sua natura. Non è difficile vedere, in questo episodio, un preannuncio della celebre novella di Ciappelletto, con cui si apre il Decameron ( T4, p. 526). La novità della Fiammetta consiste nell’aver collegato la relatività del reale, nelle molteplici prospettive da cui si può osservare e giudicare, a una dimensione di conflitti psicologici e interiori. 501
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Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quali passi del testo rivelano la spietata autoanalisi della protagonista? Motiva la tua risposta. > 2. Quale informazione interessante sugli usi e sui costumi della società del tempo ricavi dal brano? AnALIzzAre
> 3.
narratologia Quali elementi del testo, alle righe 1-4, rivelano la focalizzazione, nell’ambito del racconto autodiegetico, sul narratore e non sul personaggio? > 4. Stile La dissimulazione di Fiammetta è costruita attorno a un elemento che, nella sua concretezza, ricorre in tutto il passo, sia nei discorsi delle altre donne, sia nelle riflessioni della protagonista: quale? > 5. Stile Individua nel brano la similitudine. > 6. Lessico Individua nel brano il ricorrere del termine «viso»: a quale significato riconduce? > 7. Lingua Nella seguente tabella sono riportati alcuni verbi al gerundio che introducono proposizioni subordinate implicite: indica qual è il valore delle subordinate e riscrivile in forma esplicita, secondo l’esempio proposto.
riga
Gerundio
Valore della subordinata
Forma esplicita
7
«vegnendo»
causale .........................................................................................
poiché venivano, sopraggiungevano ......................................................................................................................................................
19
«veggendomi»
.........................................................................................
......................................................................................................................................................
37
«lasciandolo»
.........................................................................................
......................................................................................................................................................
53
«levando»
.........................................................................................
......................................................................................................................................................
> 8.
Lingua Riscrivi la conclusione del brano (rr. 61-66) in italiano corrente, prestando particolare attenzione alla sintassi, che dovrà essere lineare.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 9.
esporre oralmente Il personaggio di Fiammetta presenta, agli occhi degli altri, caratteristiche riconducibili al “tipo” femminile cantato dalla tradizione cortese e stilnovistica; si tratta tuttavia di un’immagine fallace e contrastante con la vera personalità della donna. Approfondisci questo aspetto in un’esposizione orale (max 5 minuti), mettendo in evidenza come la figura di Fiammetta rovesci i luoghi comuni della lirica amorosa.
SCrITTUrA CreATIVA
> 10. Facendo riferimento al tema amoroso, scrivi una lettera di circa 30 righe (1500 caratteri), attuando la tecni-
ca del rovesciamento, fingendo che l’autrice sia un personaggio letterario femminile da te conosciuto e/o studiato (ad es. Beatrice, Francesca da Rimini, Laura ecc.).
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Incontro con l’Opera Il Decameron
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La brigata
Testi La brigata dei novellatori dal Decameron
La “cornice’’
Mappa interattiva
Il titolo
Argomenti delle giornate
La struttura dell’opera
Videolezione
Il Decameron è una raccolta di cento novelle, inquadrate entro una cornice narrativa. Fu scritto probabilmente tra il 1348 e il 1353. L’autore racconta come, durante la peste che nel 1348 devasta Firenze, una brigata di sette fanciulle e tre giovani di elevata condizione sociale decida di cercare scampo dal contagio e dalla dissoluzione morale e sociale della vita cittadina ritirandosi in campagna. Qui i dieci giovani trascorrono il tempo tra banchetti, canti, balli e giochi, e per occupare piacevolmente le ore più calde del pomeriggio decidono di raccontare ogni giorno una novella ciascuno. Quotidianamente viene eletto dalla brigata un re, a cui tocca fissare un tema ai narratori; tuttavia a uno di essi, Dioneo, è concesso di non rispettare il tema generale, e due giornate, la prima e la nona, hanno un tema libero. Nell’introduzione a ogni giornata viene descritta la vita gioiosa e idillica della brigata, in cui non si verificano mai avvenimenti di rilievo, ma tutto si svolge secondo precisi rituali. Tra novella e novella si inseriscono ancora i commenti degli uditori su ciò che hanno ascoltato, e ogni giornata è chiusa da una “conclusione”, in cui è inserita una ballata, cantata a turno da uno dei giovani. Questi non hanno caratteri e psicologie definite, che facciano di loro autentici personaggi (tranne in parte Dioneo, irriverente e malizioso). I loro nomi richiamano o personaggi delle opere precedenti di Boccaccio stesso (Fiammetta, Panfilo, Filostrato), o personaggi letterari, Lauretta (Petrarca), Elissa (la Didone virgiliana), o la mitologia (Dioneo allude alla dea Venere, figlia di Dione). L’esercizio del raccontare occupa dieci giorni (vengono esclusi il venerdì e il sabato): di qui proviene il titolo dell’opera, che in greco significa appunto “di dieci giorni” (sottinteso “novelle”). Il titolo conferma quel gusto per la lingua greca che Boccaccio aveva manifestato sin dalle opere giovanili (Filocolo, Filostrato), ed è modellato sull’Hexameron di sant’Ambrogio, che racconta dei sei giorni della creazione. Ecco l’elenco degli argomenti così come sono esposti dall’autore nei titoli-sommari premessi a ciascuna giornata, detti rubriche perché nei manoscritti medievali era uso scrivere i titoli dei capitoli in inchiostro rosso (dal latino rubrum, “rosso”): I. «Libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado» (sotto il reggimento di Pampinea). II. «Sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine». III. «Si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto desiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse». IV. «Sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine». V. «Sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse». VI. «Sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi, con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno». VII. «Sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatto a’ lor mariti, senza essi essersene avveduti o no». 503
L’età comunale in Italia
VIII. «Sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno». IX. «Sotto il reggimento d’Emilia, si ragiona, ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada». X. «Sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberamente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa».
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La struttura del Decameron ProemIo
10 GIornATe ScHeMA DI cIAScUNA GIoRNAtA: INtRoDUzIoNe ALLA GIoRNAtA coN SceLtA DeLL’ARGoMeNto priMA NOvEllA coM co MMeNtI SECONDA NOvEllA coM co MMeNtI TErZA NOvEllA coM co MMeNtI QUArTA NOvEllA
coRNIce NARRAtIvA
SESTA NOvEllA coM co MMeNtI SETTiMA NOvEllA coM co MMeNtI OTTAvA NOvEllA coM co MMeNtI NONA NOvEllA coM co MMeNtI DECiMA NOvEllA coM co MMeNtI coNcLUSIoNe DeLLA GIoRNAtA coMPReNDeNte UNA BALLAtA
ConCLUSIone deLL’AUTore
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PARTI AUTORIALI
coM co MMeNtI
NARRATORE DI I GRADO
QUiNTA NOvEllA
NARRATORI DI II GRADO (I GIOVANI DELLA BRIGATA)
coM co MMeNtI
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Il Proemio, le dichiarazioni di poetica dell’autore e il pubblico
Il pubblico femminile
L’ammenda al «peccato della fortuna»
Il motivo amoroso
Testi La conclusione dell’autore dal Decameron
Il libro si apre con un Proemio ( T2, p. 515), che è di fondamentale importanza perché vi si delineano i motivi che domineranno nell’opera intera. Lo scrittore si preoccupa di giustificare il proprio libro e afferma il proposito di voler con esso giovare a coloro che sono afflitti da pene d’amore, dilettandoli con piacevoli racconti e dando loro utili consigli. Dal Proemio si delinea così chiaramente il pubblico a cui l’opera è rivolta: le donne, e più precisamente «quelle che amano», dove l’amore, sulla linea cortese, è assunto come simbolo di nobile sentire e di un civile costume. Ciò individua il livello letterario a cui vuol collocarsi il Decameron: una letteratura intesa al piacevole intrattenimento di un pubblico non composto di letterati di professione (le donne erano tradizionalmente escluse dagli studi e dall’alta cultura), anche se raffinato ed elegante. Sempre nel Proemio, Boccaccio spiega di volersi rivolgere alle donne per rimediare al «peccato della fortuna»: le donne, egli sostiene, possiedono in misura molto minore degli uomini la facoltà di trovare distrazione dalle pene d’amore, perché ad esse sono preclusi la caccia, il gioco, il commerciare, tutte le attività che possono occupare l’esistenza dell’uomo; nelle novelle perciò esse potranno trovare diletto e utili suggerimenti, che allevieranno le loro sofferenze. In questo motivo dell’ammenda al «peccato della fortuna» è suggerito il tema fondamentale del Decameron: la capacità dell’individuo di superare le avversità, di imporre il suo dominio su una multiforme e imprevedibile realtà regolata dalla Fortuna. Un altro spunto fondamentale, suggerito dalla dedica alle donne, è il peso che nell’opera ha il motivo amoroso. In effetti, gran parte delle novelle tocca questa tematica. Essa può assumere anche forme licenziose, e questo aspetto suscita reazioni negative in un certo pubblico retrivo. Nell’Introduzione alla IV giornata, e poi ancor più esplicitamente nella Conclusione dell’autore, Boccaccio affronterà anche questo problema, rivendicando il suo diritto ad una letteratura libera dagli impacci moralistici eccessivamente arcigni, ispirata ad una concezione naturalistica dell’eros. Si delinea un’idea di letteratura del tutto laica e mondana, svincolata dalle pregiudiziali religiose e morali di tanta letteratura medievale, compresi la Commedia e il Canzoniere.
La peste e la cornice La peste come disgregazione della società
La brigata e la ricomposizione della socialità
L’arte del vivere
L’armonia contemplativa della cornice e la realtà multiforme delle novelle
La narrazione, nell’Introduzione alla I giornata, ha inizio con una lunga descrizione della peste che devasta Firenze, per trovare scampo alla quale i dieci giovani si rifugiano in campagna ( T3, p. 519). L’atteggiamento fondamentale di Boccaccio di fronte al flagello è una forma di disgusto misto ad angoscia per il disgregarsi e il degenerare di quelle norme sociali, di quei civili e raffinati costumi per i quali egli ha un vero e proprio culto. L’iniziativa dei dieci giovani, che trovano scampo dalla peste in una lieta esistenza, secondo norme precise e gioiosamente rispettate, ha proprio la funzione di ricomporre la socialità minata e sconvolta dal flagello. La cornice è dunque un elemento essenziale alla struttura del libro e al suo significato: come ha indicato Getto, la disgregazione sociale superata nella socialità serena e decorosa della brigata è uno schema in cui si riflette il motivo centrale del Decameron, l’osservazione degli ostacoli che la natura e la Fortuna oppongono all’esistenza umana e la celebrazione della forza e dell’intelligenza dell’uomo, che sa affrontare e superare quegli ostacoli. In questo conflitto si manifesta un’arte del vivere, che si attiva secondo un ideale tutto mondano, nell’ambito di una realtà sociale. La vita serena e armoniosa ritratta nella cornice esprime la fiducia boccacciana nella possibilità di imporre un ordine umano alla realtà, travagliata da forze avverse che portano alla disgregazione e al caos. La cornice è legata alle novelle da un rapporto necessario anche perché documenta il clima di civiltà e di gusto da cui nascono e a cui si rivolgono le novelle. Sempre Getto ha osservato come la cornice sia caratterizzata da un ideale signorile di armonia e di equilibrio, cioè da un’atmosfera diffusamente contemplativa, distaccata e immobile, a differenza delle novelle, in cui domina l’energia dinamica e l’azione; nella cornice si ha inoltre un’ideale uniformità di spazi e di condizioni sociali, mentre nelle novelle (e lo vedremo 505
L’età comunale in Italia
Il bisogno di dominare intellettualmente il molteplice
meglio tra poco) brulica tutto un mondo vario e multiforme. Ebbene, questo ideale di armonia contemplativa è essenziale nella struttura del libro. Come ha indicato Getto, la cornice serve a filtrare la realtà molteplice e percorsa da conflitti e tensioni, vale a distanziarla in modo da consentire una distaccata contemplazione. Boccaccio nelle novelle si immerge in quel mondo brulicante e caotico, ma al tempo stesso, nella cornice, si solleva al di sopra di esso, guardandolo da lontano. Alla realistica attenzione al concreto si affianca un bisogno di idealizzazione, nei termini di una signorile misura di vita. La cornice ha la funzione essenziale di oggettivare questo bisogno di dominare intellettualmente il caos del molteplice, di ricomporlo in un’armonica unità, questo bisogno di trascrivere una scabra realtà materiale in cifre elegantemente stilizzate. Lo stesso bisogno, come vedremo, si tradurrà anche nelle architetture e nelle simmetrie interne che legano il corpus nelle novelle.
La realtà rappresentata: il mondo mercantile cittadino e la cortesia Immagine interattiva La società Trecentesca in Boccaccio e Ambrogio Lorenzetti
La realtà mercantile
L’«industria» umana
I limiti della «ragion di mercatura»
La nostalgia cortese
La fusione tra virtù «cortesi» e «borghesi»
Testo critico G. Petronio
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Non sono molte nel Decameron le novelle di impianto del tutto favoloso, che si svolgano in un tempo e in uno spazio imprecisati; è più frequente che le vicende siano ambientate in una realtà storica determinata e ben riconoscibile: può essere a volte un più lontano passato, un mondo barbarico o feudale, ma più spesso al centro dell’attenzione è una realtà cittadina, borghese e mercantile, contemporanea o di un recente passato. Al mondo dei mercanti, che è anche il suo ambiente sociale di provenienza, Boccaccio dedica nelle sue novelle molta attenzione. Grande rilievo ha pertanto la realtà del calcolo prudente, dello scambio vantaggioso, del maneggio accorto di denaro, dell’accumulo di ricchezza. Boccaccio è attento alle basi materiali ed economiche della realtà: non vi è più traccia in lui dell’aspra condanna religiosa dell’avidità che era propria di Dante. Egli anzi guarda con compiacimento l’abilità e l’intraprendenza umana che si manifestano nella difesa e nell’acquisto del denaro. Uno dei temi centrali del Decameron è l’«industria», l’umana iniziativa che sa superare le avversità opposte dalla Fortuna e dagli uomini, che sa dominare, con il calcolo accorto e con l’azione energica, la realtà oggettiva e piegarla ai propri fini: ebbene, questo valore dell’«industria» è chiaramente il prodotto della civiltà mercantile, che esalta l’iniziativa dell’individuo e la sua capacità di creare autonomamente tutto un mondo. Però in Boccaccio non si può vedere la pura e semplice celebrazione del mondo borghese e mercantile: egli ne sa vedere anche i limiti. L’esclusivo attaccamento alla «ragion di mercatura», l’interesse economico anteposto a tutti gli altri valori, può generare una grettezza disumana e può condurre a gesti di estrema crudeltà. Esemplare è il caso dei fratelli di Lisabetta da Messina ( T9, p. 577), che, in nome dell’arida «ragion di mercatura», uccidono il giovane amato dalla sorella e causano a Lisabetta atroci sofferenze, che la portano alla morte. In Boccaccio, accanto alla rappresentazione della realtà mercantile, vi è anche la nostalgia di un mondo cavalleresco, ispirato al valore della cortesia. Tra questi due poli, passato feudale e realtà presente dei traffici e della mercatura, non vi è tuttavia per lui conflitto insanabile, come non vi è tra i valori che quei due mondi esprimono, la «cortesia» generosa da un lato e dall’altro l’«industria» individuale e il calcolo accorto degli interessi. Boccaccio vagheggia anzi una fusione tra i due ordini di valori. Egli crede che la nuova realtà del denaro possa conservare il gusto della cortesia e del vivere splendido, della generosità e della magnanimità disinteressata. Questa fusione di due ordini di valori, appartenenti a due sistemi sociali difformi e a due epoche diverse, non è solo il sogno utopico di un intellettuale, ma una realtà storica, vissuta direttamente dallo scrittore: la nuova classe dirigente fiorentina, composta di grandi mercanti e di banchieri, sentiva realmente il fascino della passata civiltà cortese e cercava di assimilarne valori e stili di vita; d’altro canto, la vecchia nobiltà di origine feudale si era ormai integrata nel nuovo ordine cittadino. Boccaccio è quindi l’intellettuale che, grazie alla sua multiforme esperienza, nella Napoli cortese prima e nella borghese Firenze poi, dà espressione compiuta a questo processo sociale, proiettandolo nelle figure esemplari che vivono nella sua arte narrativa.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio Una visione statica della struttura sociale
Alla base della visione borghese vi è fondamentalmente una concezione dinamica della realtà, in quanto il borghese “si fa da sé”, con le sue forze e la sua intelligenza, salendo nella scala sociale sino a soppiantare i vecchi ceti dirigenti. Ma la grande borghesia, una volta raggiunta la posizione di dominio nel corpo sociale, e una volta assimilatasi all’aristocrazia, chiude ogni possibilità di un ulteriore processo dinamico, escludendone i ceti inferiori, piccoli mercanti, bottegai, artigiani, il popolo minuto dei mestieri, dei lavoranti, dei servitori. Perciò il dinamismo della visione di questa borghesia cittadina medievale ha precisi limiti. Boccaccio, l’intellettuale che ne è l’espressione, ne è il fedele interprete. Egli arriva a riconoscere che virtù magnanime vi possono essere in individui di quei ceti inferiori, ma ciò non implica mescolanza di ceti, e meno ancora la possibilità di un’ascesa sociale di chi sta in basso.
Le forze che muovono il mondo del Decameron: la Fortuna
La visione medievale della Fortuna
La vita dei mercanti è sottoposta continuamente all’imprevisto, che può favorire un’iniziativa o portarla al fallimento. Propria del nuovo mondo dei traffici e degli scambi è dunque l’idea che la realtà è dominata da una forza capricciosa e imprevedibile, la Fortuna. L’idea della Fortuna era già presente nella coscienza medievale, ma essa era ritenuta una forza subordinata al superiore disegno della provvidenza divina; Dante infatti, nel canto VII dell’Inferno, fa della Fortuna una gerarchia angelica che è preposta alla sfera delle cose terrene. Al contrario nella visione della società mercantile, e di Boccaccio che ne è l’interprete, la Fortuna diviene solo un complesso accidentale di forze, non più regolato da alcuna volontà superiore: quello che noi diremmo il caso. È una visione ormai laica, che non esclude certo la presenza di Dio nel mondo (a Dio Boccaccio si richiama continuamente), ma che ritaglia una sfera autonoma, avente in sé i suoi fini, la sfera terrena dell’agire umano.
I lamenti di Beritola sulla riva del mare; due navi, quella che l’ha portata con i suoi compagni e il figlio e quella che li ha portati via, 1430-50, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice 5070, giornata seconda, sesta novella, Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
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L’età comunale in Italia La concezione laica della Fortuna
La Fortuna è la risultante oggettiva di una serie multiforme e complessa di forze e di agenti, naturali e sociali: essa può manifestarsi attraverso i fenomeni naturali oppure attraverso il combinarsi imprevisto di azioni umane (ad esempio la serie di incontri notturni di Andreuccio da Perugia, sino al finale arrivo della seconda compagnia di ladri che lo libera dalla tomba dell’arcivescovo, T7, p. 551). La Fortuna può essere avversa o favorevole, può contrastare o assecondare l’agire dell’uomo. Essa è la grande antagonista dell’«industria» umana, che per misurarsi con essa deve dar prova di saper calcolare, prevedere in anticipo, porre difese, ma deve anche sapersi dimostrare rapida a escogitare ripari dinanzi a colpi subitanei, decisa ed energica nel mettere in atto le decisioni.
Le forze che muovono il mondo del Decameron: l’amore
La concezione naturalistica dell’amore tra Medioevo e Rinascimento
Le varie forme dell’amore
L’assenza di oscenità nelle novelle erotiche
L’altra grande forza che anima l’universo del Decameron è l’amore: è essa che costituisce il tema centrale di molte novelle e muove l’iniziativa di molti personaggi. Anche l’amore è visto in una prospettiva tutta laica e terrena. Non è più «l’Amor che muove ’l sole e l’altre stelle» della Divina Commedia, ma una forza che scaturisce dalla Natura. In quanto tale, per Boccaccio è una forza in sé sana e positiva, che è assurdo e vano frenare o reprimere. Anzi, soffocarla è una colpa, che può generare sofferenza e morte (come indicano le novelle di Lisabetta, T9, p. 577, e di Nastagio degli Onesti, T10, p. 584). Per questo, Boccaccio vede con favore gli eroi che adoperano ogni mezzo per raggiungere il loro fine amoroso, e soprattutto guarda con intenerita e sorridente approvazione lo sbocciare del desiderio naturale nei giovani. La concezione naturalistica dell’amore che domina nel Decameron anticipa quella che sarà propria del Rinascimento: non a caso Boccaccio sarà autore molto amato e imitato in quella età (anche se, come si è visto, vi era tutto un filone della cultura medievale che esaltava la naturalità della vita amorosa, ed anche questa tradizione viene a confluire in Boccaccio, fondendosi con la nuova visione della vita della civiltà mercantile). L’amore nel Decameron si presenta nelle più varie forme. Può essere fonte di ingentilimento, secondo i dettami cortesi, portando individui rozzi ad una superiore sensibilità e altezza d’animo, oppure può costituire uno stimolo all’«industria», aguzzare le capacità dell’individuo per il raggiungimento dei propri fini. Inoltre l’amore può dare origine alla commedia dei sensi, animando una serie di novelle licenziose, fondate sulla beffa e l’adulterio; però può dare origine anche alle situazioni più tragiche, sublimi e patetiche, come, in genere, in quelle della IV giornata, dedicata a coloro «li cui amori ebbero infelice fine» ( T8, p. 566). In queste novelle Boccaccio riprende e sviluppa l’antico tema cortese dell’“amore e morte”, consacrato dai romanzi di Tristano e Isotta, che vede i due amanti, separati in vita da forze avverse, riunirsi nella morte. L’argomento erotico di numerose novelle ha contribuito nei secoli a creare intorno a Boccaccio una fama di oscenità. Al contrario, la realtà della carne e del desiderio sensuale, essendo considerata come manifestazione di una forza di natura fondamentalmente spontanea e innocente, è sempre contemplata da Boccaccio con occhio sereno e sgombro di malizia. Egli non indugia mai nella descrizione di situazioni erotiche con malsana curiosità, né insiste su particolari crudi, ma passa accanto a queste realtà senza soffermarsi eccessivamente, accennandovi in modo rapido e velandole di sorridenti metafore. Pertanto non vi è mai in lui grossolanità oscena: pur manifestando un contegno di aperta disponibilità nei confronti della vita del sesso, anche negli aspetti più materiali, egli sa mantenere un superiore, distaccato equilibrio di fronte alle situazioni più audaci.
La molteplicità del reale nel Decameron
La legge essenziale del mondo poetico petrarchesco, come abbiamo visto ( cap. 5, p. 420), era la selezione rigorosissima delle presenze reali, che derivava dalla crisi della coscienza e dall’impossibilità di far riferimento a sicuri moduli d’ordine in cui inquadrare la realtà nella sua interezza. Boccaccio invece ignora ogni selezione ed 508
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Il mondo sociale
Il mondo naturale
Il mare
La città
Lo spazio e il tempo
esclusione e dimostra un’aperta disponibilità verso la vita, in tutti i suoi aspetti. In effetti, come ha indicato Getto attraverso una puntuale analisi, una molteplicità variatissima di presenze reali, di casi, situazioni, persone e oggetti si addensa nelle pagine del Decameron. Tutte le azioni della vita sono compiute dai personaggi boccacciani, dalle più basse funzioni fisiologiche alle più alte attività spirituali, intellettuali e artistiche, dai gesti più quotidiani e banali alle azioni più rare ed eroiche. Parimenti tutti gli aspetti della società e della natura sono registrati nelle cento novelle, senza alcuna scelta in senso idealizzante, anzi, si direbbe con la volontà di esplorare sistematicamente tutte le possibilità del reale, senza arrestarsi dinanzi alle manifestazioni più ruvide e corpose. In queste pagine si allinea una lunga sfilata di figure che occupano i gradi più diversi della società. Vi sono i rappresentanti degli ordinamenti del passato, re, grandi feudatari, alto e basso clero, ma la presenza più folta è data dai ceti della moderna civiltà urbana, mercanti e banchieri, l’aristocrazia cittadina, la borghesia delle professioni (notai, giudici, medici), artigiani e bottegai, intellettuali, artisti. Al di sotto vi è la plebe urbana, operai, servi, e, più ai margini, gli abitanti della campagna. Come il mondo sociale, così quello naturale è esplorato esaustivamente. Tutti i luoghi e i fenomeni naturali sono registrati, mari, fiumi, boschi, strade, giardini, case; così pure le ore del giorno, dalle ore notturne propizie agli inganni e ai sotterfugi alle ore piene del giorno, le varie stagioni, i fenomeni atmosferici, pioggia e neve, calure ardenti e gelo. Si può notare, tra i luoghi, una speciale predilezione per il mare che, col suo mutare capriccioso e imprevedibile, diviene metafora della Fortuna e fa da sfondo alle novelle più avventurose. Il mare ha però anche una dimensione realistica, in quanto richiama la concreta vita dei mercanti, che al mare spesso affidavano gli averi e la vita, nella ricerca incessante di moltiplicare le loro ricchezze. Ma l’ambiente di gran lunga prediletto è la città, che può a buon diritto annoverarsi tra i grandi protagonisti del Decameron. La città è spesso rappresentata da Firenze, il centro per eccellenza degli scambi e dei traffici ma anche di una viva socialità, che ama la beffa o il motto arguto e pungente oppure le splendide usanze cortesi. Si allineano poi tante città italiane, dalla Napoli dei bassifondi a Bologna, a Siena, a Venezia, a Messina. La città è uno spazio aperto e disponibile a tutte le esperienze, anche all’avventura, come prova la novella di Andreuccio ( T7, p. 551). Nel labirinto delle sue vie, nell’intersecarsi imprevisto di destini umani che si incrociano e si dividono, nella molteplicità dei ceti e dei tipi che entrano in contatto fra loro, assurge anch’essa a emblema del gioco mutevole della Fortuna, non diversamente dal mare. Boccaccio è l’espressione di una civiltà eminentemente urbana, e della città, nelle pagine del suo libro, tesse la più vibrante celebrazione. Questo brulicare multiforme di presenze reali si colloca sullo sfondo di una geografia precisa e concreta, l’Italia, l’Europa, il vasto mondo del Mediterraneo, e sullo sfondo di un tempo storico parimenti concreto, che va dal presente borghese al passato feudale alle età più antiche, di Grecia e di Roma.
molteplicità e tendenza all’unità Il proposito di ordinare il reale
Le simmetrie interne
Testi Griselda dal Decameron
Nel mondo del Decameron tutte queste presenze, per quanto infinitamente molteplici e varie, non sono accumulate in forma caotica: in Boccaccio c’è bensì la volontà di raccogliere nelle sue novelle tutto il reale, ma al tempo stesso il chiaro proposito di ordinarlo in schemi armonici. Il primo indizio è proprio la presenza della cornice: se la pluralità di brevi racconti riproduce la molteplicità del reale, la costruzione della cornice vale immediatamente a sistemarla entro ordinate prospettive. Ma poi, all’interno della cornice, le novelle stesse tendono a collocarsi secondo armoniche simmetrie. La disposizione delle novelle non è certo casuale, ma risponde a evidenti intenzioni architettoniche. Balza agli occhi ad esempio il rapporto che lega la prima novella del libro, dedicata al peggior uomo che sia mai vissuto, ser Ciappelletto ( T4, p. 526), e l’ultima, dedicata alla sublime, quasi sovrumana virtù di Griselda. La contrapposizione 509
L’età comunale in Italia
Il Decameron e la Commedia di Dante
si estende al corpo intero delle due giornate estreme: nella I si parla essenzialmente di vizi, di gesti gretti e meschini, nella X delle più eroiche virtù e dei gesti più magnanimi. Il centro ideale del libro è la VI giornata, dedicata alla celebrazione dell’arte della parola, che è al tempo stesso una celebrazione della civiltà fiorentina. E la prima novella di questa giornata, quella di Madonna Oretta ( T12, p. 601), offre una dichiarazione di poetica proprio sull’arte di raccontar novelle: non è un caso allora che occupi esattamente il centro del libro. Simmetricamente rispetto alla VI giornata si pongono due giornate dedicate all’amore (la IV e la V) e due dedicate all’intelligenza umana, che si esprime essenzialmente nelle beffe (la VII e l’VIII). Spesso queste simmetrie si manifestano a livello di microstrutture: si pensi al chiaroscuro che si crea in molti casi tra due novelle successive nella stessa giornata, come ad esempio tra l’intelligenza aristocratica di Guido Cavalcanti ( T15, p. 613), collocata sullo sfondo urbano di raffinate costumanze cortesi, e l’intelligenza volgare e ciarlatanesca di frate Cipolla ( T16, p. 617), posta sullo sfondo di una realtà rusticale, il borgo di Certaldo rinomato per le sue cipolle. Un atteggiamento egualmente aperto verso la realtà, un’analoga aspirazione a rendere la totalità del reale nella molteplicità infinita dei suoi aspetti, unita ad una simile preoccupazione di sistemare i dati entro un ordine armonico, erano riscontrabili nella Commedia. Ma in Dante il principio ordinatore era imposto sulle cose dall’esterno e dall’alto ed era ricavato dalla fiducia in un ordine metafisico del mondo, voluto da Dio. L’unità verso cui tutto il molteplice convergeva era situata fuori del mondo terreno, in una dimensione trascendente. Nel Decameron invece gli schemi d’ordine nascono all’interno della stessa realtà umana e derivano da una visione del mondo essenzialmente laica. In Boccaccio non vi è certo un atteggiamento irreligioso; tuttavia dal mondo del Decameron è assente la dimensione del sovrannaturale, del divino come del demoniaco. Essa è presupposta in astratto, ma concretamente non è operante nella realtà rappresentata. Quello del Decameron è un mondo interamente umano ed è retto da forze umane, che operano in una loro sfera autonoma: l’amore, la sapienza di vita che ricerca le forme più squisite ed eleganti dell’esistenza, l’intelligenza e l’energia che vincono gli ostacoli frapposti dalla Fortuna, dalla natura e dagli altri uomini, plasmando secondo i loro fini la realtà. Come ha giustamente osservato Picone, la visione di Dante è verticale, perché il poeta riferisce il mondo terreno ad un punto di vista trascendente (sulla verticalità dello
Guido Cavalcanti, seduto su un’arca, è motteggiato dalla brigata di Betto Brunelleschi, 1430 ca., disegno a penna in inchiostro bruno colorato ad acquarello dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice It. 63, giornata sesta, nona novella, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
spazio dantesco, cap. 4, p. 291); quella di Boccaccio è orizzontale, perché è tutta calata nella dimensione terrena. Perciò il mondo di Dante ha un ordinamento rigidamente gerarchico, subordinato all’Uno assoluto che è Dio, mentre Boccaccio è semplicemente curioso di investigare tutto il molteplice, e di conseguenza i suoi moduli d’ordine non istituiscono gerarchie fra terreno e divino.
Gli oggetti e l’azione umana Gli oggetti
Gli ambienti
Le scelte narrative e la visione del mondo: la centralità dell’agire umano
I ritratti fisici dei personaggi L’assenza dell’analisi psicologica
Se nel Decameron si accumula una molteplicità di aspetti reali, non si riscontra però mai l’indugio gratuito a descrivere gli oggetti, per il puro gusto di rappresentare o di dipingere. Gli oggetti della realtà esterna non ricevono da Boccaccio un interesse per se stessi: hanno rilievo solo in quanto sono funzionali all’azione umana. Così è per il vino, le tovaglie bianchissime, i bicchieri «che parevano d’ariento» di Cisti ( T13, p. 604), per le arche di marmo nella novella di Guido Cavalcanti ( T15, p. 613), per la cassa di Landolfo Rufolo ( T6, p. 544), per il sarcofago di Andreuccio ( T7, p. 551), per la penna di pappagallo di frate Cipolla ( T16, p. 617), per le pietre di Calandrino ( T17, p. 627). Anche gli ambienti e i paesaggi non sono oggetto di una descrizione fine a se stessa: Boccaccio richiama di essi solo quel tanto che serve allo svolgimento dell’azione narrativa. Si pensi alla stanza della siciliana nella novella di Andreuccio: vi è una sobria descrizione, ma solo per motivare il fatto che il giovane sia indotto a credere negli alti natali della donna e possa cadere nell’inganno. Ma il più delle volte ambienti e paesaggi che sono sullo sfondo dei racconti non sono affatto descritti: essi si costruiscono nella fantasia del lettore solo attraverso le azioni che vi compiono i personaggi. Un esempio significativo è sempre la novella di Andreuccio: la Napoli notturna dei bassifondi e della malavita non è mai oggetto di un indugio descrittivo compiaciuto, del tipo di quelli a cui amano abbandonarsi i romanzieri realisti e naturalisti dell’Ottocento, Balzac, Dickens, Zola. Eppure le strade notturne, le case, la cattedrale si delineano vive nella memoria del lettore, perché prese nel vortice del dinamico agire dei personaggi. Queste scelte narrative di Boccaccio sono indicative della sua visione del mondo. Tale visione determina non solo la scelta della realtà da rappresentare, come si è visto nei paragrafi precedenti, ma anche il modo di rappresentarla: al centro della concezione boccacciana vi è l’agire dell’uomo, la fiducia nella sua energia e nella sua capacità di istituire un dominio sul mondo esterno; per questo ogni aspetto della realtà interessa allo scrittore solo nella misura in cui entra nel raggio di questo agire umano. Questa fiducia si indebolirà nei narratori dell’Ottocento e del Novecento: per questo nei loro romanzi il mondo delle cose avanza sino quasi a sommergere e a cancellare l’uomo. Il privilegio conferito all’agire umano condiziona anche la tecnica di rappresentazione dell’uomo stesso. Nelle novelle del Decameron raramente si trova il ritratto “in posa”, che elenchi con minuzia analitica tutti i particolari fisici: i profili dei personaggi per lo più si compongono attraverso le azioni che essi svolgono via via nell’arco della vicenda. Parimenti è estraneo a Boccaccio il gusto della minuta analisi psicologica, che si addentra nelle più nascoste pieghe dell’animo, quale si avrà nei narratori moderni: sentimenti e moti psicologici hanno rilievo e realtà solo in quanto si traducono in azioni. In luogo dell’analisi, Boccaccio può usare il discorso del personaggio stesso. Così è ad esempio per lo scambio di ampie battute tra Federigo degli Alberighi e monna Giovanna ( T11, p. 594), in cui si esprimono i sottili e delicati sentimenti che animano i due personaggi.
Il genere della novella Le radici storiche e il pubblico della novella
Con il Decameron raggiunge la sua forma più compiuta il genere della novella, il racconto breve in prosa; anche il termine si afferma definitivamente solo nel Trecento. La novella ha le sue radici in una lunga e multiforme serie di esperienze narrative, sviluppatesi nel periodo precedente, e da esse trae materia e spunti: l’exemplum morale e religioso, il romanzo cavalleresco, i fabliaux francesi, i racconti arabi e orientali, diffusi 511
L’età comunale in Italia
La duttilità del genere asseconda la molteplicità del reale
in Occidente attraverso vari canali, le fiabe e i racconti popolari, i racconti orali delle brigate aristocratiche e cittadine. È un genere che ha per fine l’intrattenimento, l’evasione, il piacere che nasce dal seguire casi avventurosi, dal motto pungente e arguto, dalla vicenda sentimentale felice o infelice, dalle situazioni maliziose ed erotiche, dalle beffe. È indirizzato essenzialmente ad un pubblico di non letterati, che nella lettura ricerca un’occupazione dilettevole ( cap. 3, pp. 190 e ss.). Di questo Boccaccio è ben consapevole, come dimostrano i suoi interventi in prima persona nel Proemio e nell’Introduzione alla IV giornata. Essendo svincolato dai codici che regolano la letteratura “alta”, il genere consente allo scrittore grande libertà di trattare i temi più diversi, tragici ed elevati o comici e grotteschi; gli permette di proporre modelli di vita raffinati e cortesi come di compiacersi dello scherzo irriverente e delle situazioni licenziose, di delineare i sentimenti più nobili ed elevati come la materialità più corposa della vita erotica. La forma della novella, cioè, offre lo strumento espressivo più duttile per riprodurre quell’esperienza della realtà vasta e multiforme di cui Boccaccio, come si è visto, è avido. Non solo, ma la stessa raccolta di più novelle costituisce la forma più idonea per rispecchiare un mondo molteplice e vario: ben più che la complessa trama del romanzo, l’addizione di tanti brevi frammenti narrativi consente di introdurre infiniti e diversi personaggi, ambienti sociali, eventi, luoghi; per di più la folla dei personaggi vale a proporre una molteplicità cangiante di punti di vista sul reale, di linguaggi, di valori.
Gli aspetti della narrazione La varietà di tipologie narrative
La tecnica del discorso: il narratore
La focalizzazione sul personaggio
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La molteplicità delle situazioni rappresentate si traduce in una grande varietà di tipologie narrative. Le cento novelle del Decameron presentano forme di narrazione molto diverse tra loro: c’è la novella avventurosa, che allinea in forma riassuntiva una pura serie di eventi (come sono spesso quelle della II giornata, ad esempio quella di Andreuccio, T7, p. 551), e c’è la novella che ha un impianto molto scenico, si risolve in scene vivide, animate dal dialogo, dai gesti dei personaggi, dalla mimica (ad esempio la confessione di ser Ciappelletto, T4, p. 526); altre, brevissime, convergono tutte verso un motto arguto (così le novelle della VI giornata); a volte il dialogo è fatto di battute rapide ( T14, p. 609), a volte lo scambio di battute si avvolge nelle volute di una raffinata eloquenza (Federigo degli Alberighi, T11, p. 594). La tecnica del discorso narrativo si incentra su un narratore eterodiegetico e onnisciente, che però è in genere molto sobrio negli interventi a commento della narrazione (a differenza di quanto avviene nella narrativa ottocentesca, nei Promessi sposi ad esempio). I narratori sono in realtà diversi da novella a novella (i dieci giovani della brigata che si alternano a raccontare), però essi non hanno fisionomie nettamente definite e individuali, di conseguenza dal loro alternarsi non viene a crearsi un vero e proprio gioco di punti di vista diversi (l’unico narratore che spicca con caratteristiche autonome è Dioneo, arguto, malizioso, irriverente, compiaciuto nel narrare le novelle più licenziose). L’adottare questi narratori, anziché narrare direttamente con la sua voce, consente a Boccaccio un gioco sottile di distacco dalla materia. Ciò non toglie che i narratori siano spesso portavoce della visione dell’autore stesso: le considerazioni che essi premettono alle varie novelle possono così fornire preziose chiavi di lettura. La narrazione di Boccaccio non conosce ancora l’arte della focalizzazione interna o restrizione di campo, che si affermerà pienamente solo con la narrativa ottocentesca. Ma nelle novelle è egualmente ravvisabile qualche embrione di tale procedimento. In certi punti noi vediamo attraverso gli occhi del personaggio, cioè il punto di osservazione degli eventi narrati coincide con la sua percezione del reale, soggettiva e ristretta, anziché con il punto di vista generale e onnicomprensivo del narratore. Ciò avviene soprattutto nei momenti di maggior tensione narrativa; ad esempio quando Andreuccio da Perugia girovaga smarrito, di notte, per la città sconosciuta, senza sapere dove dirigersi e andando incontro a continue sorprese.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio Il tempo narrativo
Boccaccio sa anche fare un uso sapiente del tempo narrativo. Di norma, l’ordine delle vicende raccontate rispetta quello della storia, senza anacronie, cioè inversioni dell’ordine cronologico degli avvenimenti; non è quindi su questo aspetto che egli punta, a differenza degli autori moderni, che hanno una visione estremamente inquieta dell’ordine temporale dei fatti (si pensi alla Coscienza di Zeno di Svevo). Più significativo è invece il gioco sulla durata. Tra le varie novelle, o anche all’interno della stessa novella, possono alternarsi narrazioni di tipo riassuntivo, in cui il tempo del discorso è minore del tempo della storia (TD < TS, cioè molti fatti o lunghi periodi di tempo sono scorciati in breve) e vere e proprio “scene”, in cui il tempo del discorso coincide sostanzialmente con quello della storia (TD = TS). Boccaccio manovra questi strumenti con grande duttilità, a seconda delle esigenze del racconto.
La lingua e lo stile: la voce narrante
La lingua del narratore
Il periodo ricco di subordinate
L’ordine sintattico e l’ordine del mondo
Il lessico
Alla varietà del mondo del Decameron, con la sua sterminata pluralità di presenze reali, corrisponde anche una pluralità di registri stilistici. Prima di esaminarli occorre però una distinzione preliminare, tra la lingua della voce narrante e la lingua dei personaggi. Più propriamente, nel primo caso, bisognerebbe parlare di voci, data la pluralità dei narratori; ma poiché, come si è visto, essi non presentano caratteristiche nettamente distinguibili, le diverse voci si possono assommare in un’unica funzione indifferenziata, ed è legittimo parlare di narratore in generale. Alla sua voce va altresì assimilata quella dell’autore stesso, quando prende direttamente la parola in prima persona nel Proemio, nelle introduzioni alle giornate, nella Conclusione dell’autore. Il discorso “autoriale” (chiamiamo così per convenzione la voce dell’autore e dei narratori suoi delegati) è caratterizzato di norma da uno stile “alto” e sostenuto. Esso è costituito soprattutto da periodi molto lunghi, costruiti con ampie architetture di subordinate, gerarchicamente disposte intorno alla principale. Vi si accompagna poi tutta una serie di procedimenti retorici, disposizioni di membri paralleli, inversioni, collocazione del verbo al fondo del periodo, costruzioni col verbo all’infinito, alla latina, disposizioni a chiasmo, anafore, dittologie. È un tipo di periodare che guarda intenzionalmente al modello della prosa latina. In esso si riflette però anche il gusto tutto medievale delle artes dictandi (“arti dello scrivere”) che ama organizzare la prosa in clausole ritmiche, a volte persino in strutture metriche (non è rara la possibilità di isolare veri e propri endecasillabi nella prosa boccacciana). Il periodare classicamente costruito non risponde però ad un mero fine retorico, al solo intento di riprodurre formalmente i modelli illustri, ma possiede un’intima esigenza espressiva, che si collega al nucleo più profondo della stessa visione boccacciana. Il periodo gerarchicamente costruito sulla subordinazione vale a mettere in evidenza nella proposizione principale ciò che è essenziale, collocando invece nelle subordinate ciò che è accessorio, gli antefatti, le circostanze concomitanti; vale cioè a dare un ordine rigoroso, perfetto, agli elementi della sintassi. Questa costruzione riflette la volontà di sistemare in modo rigoroso anche gli aspetti della realtà che la parola designa: lo stile è il riflesso più eloquente della fiducia boccacciana nella possibilità di dominare intellettualmente la molteplicità brulicante del mondo, di disporla entro precisi moduli d’ordine; il mondo viene ordinato anche mediante la sua traduzione in architetture verbali. Per quanto riguarda lo stile si ritrova quella tendenza a ridurre ad unità armonica la molteplicità che abbiamo verificato ad altri livelli dell’opera. Questo tipo di prosa non esaurisce però le possibilità stilistiche delle parti “autoriali”: dove la narrazione lo richiede, il periodo si fa più agile, breve, a volte addirittura secco, per assecondare la rapidità delle azioni e dei movimenti. Anche dal punto di vista lessicale la lingua di Boccaccio è ricca di componenti e di registri: sulla base del fiorentino illustre e letterario si possono trovare latinismi, francesismi, termini tecnici, e persino modi popolareschi. Ciò avviene soprattutto nelle parti più maliziose, 513
L’età comunale in Italia
Testo critico E. Auerbach
dove viene usato il linguaggio metaforico corrente. Un solo esempio: di ser Ciappelletto il narratore dice «Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni» ( T4, p. 526). A differenza di Dante, però, Boccaccio non spinge al massimo limite la divaricazione dei registri, non tocca gli estremi dell’aulico-prezioso o del volgare-plebeo; in secondo luogo evita gli scontri immediati e violenti di livelli, le parossistiche tensioni del plurilinguismo dantesco: pur nella sua multiformità, il linguaggio boccacciano tende ad osservare una medietà decorosa.
La lingua e lo stile: le voci dei personaggi I linguaggi multiformi
Lo stile alto dei discorsi
Le espressioni del parlato
Esistono poi le voci dei personaggi. Essi sono una folla multiforme, appartenente ai più diversi ceti sociali e alle più varie aree geografiche, quindi i loro linguaggi sono multiformi. Non solo, ma poiché Boccaccio ha il culto della parola ed esalta il suo potere di plasmare e dominare la realtà, è sempre molto attento alla parola dei personaggi e si compiace di riprodurla con fedeltà. I linguaggi degli attori delle vicende, che si esprimono di norma tramite il discorso diretto variano a seconda delle condizioni sociali, ma soprattutto degli argomenti. Boccaccio fa poco uso dell’indiretto, e ovviamente non conosce ancora quello strumento squisitamente moderno che è l’indiretto libero. Nelle novelle di materia tragica ed elevata Boccaccio si compiace di riprodurre ampi discorsi in stile sostenuto ed alto. Ma discorsi di tono elevato possono trovarsi anche in contesti più “comici”: si pensi al lungo racconto menzognero con cui la siciliana tesse il suo inganno ad Andreuccio ( T7, p. 551). In ogni caso, questi discorsi di tono alto presentano caratteristiche stilistiche molto simili a quelle delle parti “autoriali”. Ma, in contesti “comici”, le battute del dialogo fra i personaggi possono farsi rapide, frizzanti, ricche di elementi dialettali. Un esempio di vera pirotecnia verbale, mista di linguaggio parlato e di giochi di parole, è il discorso di frate Cipolla ai contadini certaldesi, tutto impostato sul doppio senso e l’allusione maliziosa ( T16, p. 617).
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La tecnica narrativa delle novelle del Decameron
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Compaiono forme di narrazione molto diverse tra loro: alcune novelle sono d’impianto prevalentemente narrativo, altre di tipo scenico, altre ancora, brevissime, sono incentrate sulla battuta finale
TIPoLoGIe nArrATIVe
Varie
nArrATorI
Di II grado, eterodiegetici e onniscienti
FoCALIzzAzIone
Sul narratore, con procedimenti embrionali di focalizzazione interna
Il punto di vista dal quale sono raccontati i fatti è normalmente quello generale del narratore onnisciente (f. sul narratore), anche se in alcuni momenti esso tende a coincidere con quello del personaggio (f. interna)
TemPo
Fabula e intreccio coincidono
L’ordine dei fatti del discorso (intreccio) rispetta solitamente quello della storia (fabula)
dUrATA deL rACConTo
Varia
Il tempo della storia può coincidere con quello del racconto (scena) oppure essere molto maggiore (sommario)
SPAzIo
Vario e precisamente individuato
Le vicende si collocano in uno spazio definito, spesso corrispondente a luoghi geografici precisi; tale spazio non è tuttavia mai oggetto di descrizione fine a se stessa, ma fa da sfondo all’azione dei personaggi
Sono i giovani della brigata, personaggi della cornice (la quale presenta un’altra voce narrante, eterodiegetica e onnisciente anch’essa), ma esterni rispetto alle novelle narrate
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
T2
Il Proemio: la dedica alle donne e l’ammenda al «peccato della fortuna»
Temi chiave
• il dovere di consolare gli afflitti, soprattutto se per amore
• la condizione infelice delle donne • il progetto del Decameron
dal Decameron, proemio È questo il Proemio premesso dall’autore al libro.
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Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere1 e hannol trovato in alcuni; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che2, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato3 d’altissimo e nobile amore4, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse5, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito6: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea7. Nella qual noia tanto rifrigerio8 già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto9. Ma sì come a Colui10 piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine11, il mio amore, oltre a ogn’altro fervente12 e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare13, per se medesimo in processo di tempo si
1. come … mestiere: e per quanto (avere compassione degli afflitti) sia opportuno ad ogni uomo (a ciascuna persona stea bene), ciò è un dovere in modo particolare per coloro che hanno avuto necessità del conforto altrui. 2. Per ciò che: poiché. 3. essendo … stato: essendo stato acceso. 4. d’altissimo e nobile amore: è il nobile amore nutrito per una donna di elevatissima condizione; Boccaccio ne ha fatto il tema delle opere giovanili, dando alla donna il nome di Fiammetta. 5. forse … richiedesse: forse molto più no-
bile di quanto non sembrerebbe conveniente alla mia umile condizione, se lo narrassi. 6. quantunque … appetito: benché presso coloro che erano assennati (discreti) e che ne vennero a conoscenza io ne fossi lodato e molto più stimato, tuttavia mi costò molta fatica sopportarlo, non certo per la crudeltà della donna amata, ma per l’eccessiva passione amorosa (fuoco), fatta nascere nel mio animo da un desiderio (appetito) poco regolato. 7. il quale … facea: (questo amore), poiché non mi permetteva di accettare alcun opportuno limite, sovente mi provocava più dolore (noia) di quanto fosse necessario.
8. rifrigerio: sollievo. 9. porto … morto: sono pienamente persuaso che grazie a quelle consolazioni io non sia morto. 10. a Colui: a Dio. 11. diede … fine: impose per legge immutabile che tutte le cose del mondo avessero fine. 12. oltre … fervente: ardente più di ogni altro. 13. il quale … piegare: tale che neppure la forza dei proponimenti, delle decisioni, della vergogna che ne sarebbe derivata, o del pericolo che avrebbe potuto scaturirne, aveva potuto spezzare o piegare.
Pesare le parole Mestiere (rr. 2-3) Qui ha il senso di “bisogno, necessità”; oggi non è più usato in tale accezione, se non nella lingua letteraria. Viene dal francese antico mestier, a sua volta dal latino ministèrium, “servizio, funzione”, legato a minìstrum, “servitore”, già riscontrato nella vita nuova dantesca ( cap. 4, T2, p. 234). Nel senso oggi corrente indica
un’attività lavorativa, specie manuale, frutto di abilità, esperienza e pratica, a scopo di guadagno (es. mestiere di sarto, di idraulico); in senso più generale vale “professione” (es. il mestiere della spia, del boia, delle armi, essere scrittore di mestiere); indica anche abilità in un certo lavoro (es. per riuscire ci vuole mestiere).
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diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando14; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso15. Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche16; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte17. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare18 e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare19. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto20. E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare?21 Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate22: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti23 de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del
14. per se … navigando: da solo col passar del tempo diminuì in modo che ora mi ha lasciato di sé nell’animo solo quel piacere che esso è solito offrire a chi non si avventura troppo a navigare nei suoi mari più oscuri (cioè profondi, pericolosi; pelaghi è un latinismo). 15. per che … rimaso: per questo, mentre prima mi opprimeva, adesso, allontanatisi gli affanni, avverto che è restato come un sentimento gradevole. 16. non per ciò … fatiche: non per questo è scomparso il ricordo dei benefici già ricevuti da parte di coloro ai quali arrecavano dolore (erano gravi) le mie pene (fatiche) per il bene che mi volevano.
17. né … morte: né (la memoria) svanirà mai, se non per la mia morte. 18. commendare: lodare. 19. ho meco stesso … prestare: ho stabilito di voler concedere qualche sollievo (alleggiamento) per quel che sta in me, in cambio di quanto ho avuto, adesso che sono in grado di definirmi libero, se non a quelli che mi sono stati di aiuto, cui forse non serve, a causa della loro assennatezza e buona sorte, almeno a quelli a cui può essere utile. 20. E quantunque … avuto: e benché il mio sostegno, o se si preferisce conforto, possa essere poca cosa per i bisognosi, tuttavia
mi sembra che debba porgersi piuttosto là dove il bisogno appare maggiore, sia perché sarà più utile sia perché risulterà più gradito (caro). 21. E chi … donare?: e chi negherà che questo aiuto, per quanto limitato possa essere, convenga molto più darlo alle donne leggiadre che agli uomini? 22. le quali … provate: quanta più forza abbiano le fiamme amorose nascoste che non quelle palesi, lo sanno coloro che le hanno provate. 23. ristrette … comandamenti: costrette dalla volontà, dai capricci, dagli ordini.
Pesare le parole Avventura (r. 29) Qui, preceduto dalla preposizione per, significa “per caso”. Viene dal latino ad più ventùra, participio futuro del verbo venire, quindi propriamente “le cose che verranno, la sorte”. Il termine ventura ha conservato per noi il senso di “sorte” in espressioni come predire la ventura, da parte di indovini, cartomanti e simili, andare alla ventura, affidandosi al caso. Le compagnie di ventura dal Tre al Cinquecento erano schiere di soldati mercenari, guidate da un condottiero (es. capitano di ventura). Avventura indica nella lingua attuale un avvenimento fuori del comune, spesso rischioso
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(es. un’avventura di viaggio, libro di avventure); in senso amoroso vale “relazione breve e non impegnativa” (es. Svevo, Senilità: Emilio Brentani vagheggia con Angiolina «un’avventura facile e breve»). Originariamente designava le imprese di cui andavano in cerca i cavalieri dei romanzi e poi dei poemi cavallereschi. Il verbo avventurarsi significa “affidarsi alla sorte, mettersi a rischio” (es. avventurarsi nel mare in burrasca); avventuriero è chi cerca di fare fortuna con mezzi poco leciti, l’imbroglione.
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tempo nel piccolo circuito24 delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa25: senza che26 elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere27; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar28 quello, per ciò che a loro, volendo essi29, non manca l’andare a torno30, udire e veder molte cose, uccellare31, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare32: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso33 pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno34, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio35, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie36 che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta37 brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta38, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto39. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti40 si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare41: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire42. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri.
24. piccolo circuito: ambito ristretto. 25. E se … rimossa: e se per questi pensieri si introduce nei loro animi un umor nero (malinconia), causato dall’ardente desiderio, è inevitabile che in quelle camere le donne stiano con grande sofferenza, se tale sofferenza non è scacciata da nuovi discorsi. 26. senza che: senza contare che. 27. sostenere: sopportare (quelle sofferenze). 28. da alleggiare o da passar: per mitigare o per allontanare. 29. volendo essi: se essi desiderano. 30. non manca … torno: non manca la possibilità di andare in giro. 31. uccellare: cacciare uccelli servendosi di reti, panie, trappole di vario tipo. 32. giucare o mercatare: giocare o occuparsi di commerci. 33. noioso: doloroso. 34. acciò che … sostegno: affinché da parte mia venga posto rimedio in parte al torto (fatto alle donne) dalla fortuna, la
quale fu più avara di sostegno dove c’era meno forza, come noi vediamo nelle delicate donne; con l’espressione peccato della fortuna Boccaccio designa la condizione di inferiorità della donna nella società del tempo, che l’autore attribuisce ad una mera circostanza sociale sfavorevole, non a limiti legati al sesso. 35. in soccorso … arcolaio: per fornire soccorso e rifugio a quelle che amano, perché alle altre è sufficiente cucire e filare la lana. È la distinzione, propria della cultura cortese, tra le donne che sanno amare, e quindi sono «gentili», e le altre, che sono «femine comuni». 36. novelle … istorie: con questi termini Boccaccio vuole indicare i vari tipi di racconti che si trovano nel suo libro. Come commenta il Branca, novelle è il termine generico e onnicomprensivo; favole ricorda i francesi fabliaux ( L’età cortese, Il contesto, p. 31); parabole allude agli esempi, e quindi alla volontà didascalica che talora è esplicitata nei
prologhi e negli epiloghi delle novelle; istorie indica le novelle che hanno per protagonisti personaggi storici illustri. 37. onesta: nobile, decorosa. 38. nel pistelenzioso … fatta: costituitasi nel periodo della pestilenza, che aveva provocato tante morti (la peste del 1348). 39. al lor diletto: a loro piacere. 40. piacevoli … avvenimenti: Boccaccio espone l’argomento del libro: vicende d’amore con finale lieto o tragico, casi avventurosi. 41. le già dette … seguitare: le donne di cui ho parlato, che leggeranno queste novelle, potranno ricavare al tempo stesso piacere dalle cose divertenti in esse narrate e utile ammaestramento (consiglio), in quanto potranno conoscere ciò che sia da evitare e ciò che parimenti sia da seguire. 42. senza … intervenire: non credo che possano accadere senza che i loro affanni se ne vadano.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo Il pubblico
Le «donne»
Un pubblico di condizione elevata
Nel Proemio l’autore, parlando in prima persona, espone gli intenti che lo muovono a comporre il Decameron e indica il pubblico a cui esso è rivolto: sono indicazioni estremamente preziose a intendere il carattere e il significato dell’opera. Innanzitutto il pubblico è identificato con le donne. Se si tiene presente che nella società medievale la donna era di norma esclusa dall’alta cultura, le «donne» di cui parla Boccaccio vengono metaforicamente a rappresentare un pubblico composto di non letterati, che legge per diletto ed evasione. Di qui si delinea il carattere dell’opera, che vuole essere di piacevole intrattenimento, non di dottrina o di edificazione religiosa e morale. Ma le donne a cui lo scrittore si rivolge sono «quelle che amano» (r. 55). Nella tradizione della letteratura romanza, l’amore vale come segno di nobile sentire, di un costume elegante e civile. L’opera quindi, pur non essendo riservata al pubblico colto, vuol collocarsi sulla linea di una tradizione letteraria in volgare destinata a un pubblico di condizione elevata, appartenente all’aristocrazia cittadina o alle élites borghesi (si pensi a Paolo e Francesca nel V canto dell’Inferno, che trascorrono il loro tempo ozioso appassionandosi alla lettura del romanzo di Lancillotto). L’ammenda al «peccato della fortuna»
La condizione della donna
La Fortuna e la «virtù»
Testo critico G. Getto
Un altro spunto importante del Proemio è il proposito di fare ammenda, con le novelle, al «peccato della fortuna» (r. 53), di cui sono vittime le donne. Nelle novelle vi sarà una costante attenzione, da parte di Boccaccio, alla condizione della donna, alla costrizione a cui essa è condannata in ambito familiare da un costume patriarcale che affida un potere tirannico a padri e mariti. Ma anche il motivo di un riparo da porre ai colpi inferti dalla Fortuna, come ha osservato Getto, sarà ricco di risonanze nelle novelle, in cui spesso gli eroi misureranno la loro «virtù» nel contrastare la Fortuna capricciosa, e dimostreranno così la loro capacità di imporre il dominio umano sul reale, superando avversità e ostacoli. Questo tema si riflette immediatamente nell’Introduzione alla I giornata, nella condizione dei dieci giovani che pongono riparo all’imperversare della calamità cercando rifugio in villa e passando il tempo in piacevoli racconti. L’autore afferma inoltre di voler spaziare «ne’ moderni tempi» come «negli antichi» (e noi, come suggerisce Muscetta, aggiungeremmo anche nei luoghi più lontani, su un amplissimo scenario geografico). Si delinea così, in scorcio, il vasto mondo del libro, brulicante delle più varie forme di vita.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Riassumi in circa 10-12 righe (600 caratteri) il contenuto del testo, seguendo questa “scaletta”: • in quale situazione l’autore ha ricevuto conforto dagli amici? • in che modo intende ricambiare il beneficio ricevuto a suo tempo? • perché sceglie di rivolgersi alle donne e a quali donne in particolare? • in che modo intende contribuire affinché «s’amendi il peccato della fortuna» (r. 53) di cui esse sono vittime? > 2. Perché nel sottotitolo dell’opera il Decameron è definito «prencipe galeotto»?
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio AnALIzzAre
> 3. narratologia completa la seguente tabella, riportando le informazioni contenute nell’ultima parte del Proemio
(rr. 53-67), secondo l’esempio proposto.
cento novelle, o favole o parabole o istorie
contenuto dell’opera
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Narratori
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tempo in cui le storie sono narrate
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Argomenti delle storie narrate
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tempi in cui le storie sono ambientate
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Destinatari dell’opera
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Modalità di fruizione dell’opera
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Il diletto deriva da
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L’utile deriva da
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> 4.
Stile Il Proemio nei poemi classici è il luogo in cui tradizionalmente l’autore anticipa l’argomento dell’opera (protasi o propositio), cui fa seguito l’invocazione della divinità (in genere la Musa) e la dedica ad uno specifico destinatario. Individua nel proemio del Decameron questi tre elementi.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 5. Testi a confronto: esporre oralmente Nel brano, alle righe 4-22, l’autore rievoca un’esperienza di natura amorosa, alleviata dal conforto degli amici: si tratta di un ricordo giovanile, mentre si accinge a presentare la sua nuova opera. In un’esposizione orale (max 3 minuti) rifletti su quali coordinate cronologiche, interne al Decameron, permettono di stabilire l’età dell’autore quando compone o raccoglie le novelle. Si tratta di un periodo in cui ha superato l’urgenza della passione amorosa, come accade a Petrarca quando scrive il Canzoniere ( cap. 5, T5, p. 422). Quali analogie si possono riscontrare anche con Dante che intraprende il viaggio infernale ( cap. 4, T15, v. 1, p. 300)? Per IL reCUPero
> 6. Nel dedicare l’opera alle donne, Boccaccio descrive la loro condizione, contrapponendola a quella degli uo-
mini (rr. 35-52). Individua e sottolinea nel testo, con colori diversi, i riferimenti alle prime e ai secondi. Riassumi poi, aiutandoti con le note, quanto hai letto in circa 10-12 righe (600 caratteri). PASSATo e PreSenTe Un libro per le donne
> 7. Le donne, «quelle che amano», come destinatarie privilegiate di un’opera letteraria: avrebbe senso anche
oggi una scelta simile da parte di uno scrittore? Se sì, perché? e in quali contesti sarebbe, oltre che efficace, altamente significativa? Rispondi dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in un dibattito in classe.
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La peste dal Decameron, I, introduzione
Temi chiave
• il rispetto per la verità storica • la descrizione della peste • la disgregazione della società
L’Introduzione alla I giornata si apre con la famosa descrizione della peste che afflisse Firenze. La pestilenza, narra Boccaccio, dopo essere nata in oriente si diffonde in occidente e nella primavera del 1348 giunge a Firenze. I sintomi sono gonfiori all’inguine e sotto le ascelle, che poi si diffondono nel resto del corpo. Nessuna cura sembra che valga a vincere il morbo. Pochi guariscono, anzi quasi tutti, poco dopo l’apparizione dei sintomi, muoiono. taluni per fuggire la peste vivono con molta sobrietà, isolandosi dagli altri, taluni invece ritengono la miglior medicina abbandonarsi agli eccessi del bere e della lussuria in compagnia.
E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stre-
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mi, che uficio alcuno non potean fare1: per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era d’adoperare2. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via3, non strignendosi nelle vivande quanto i primi, né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano4, e senza rinchiudersi andavano attorno portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie5, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare6, con ciò fosse cosa che7 l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso8 e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento9, come che10 per avventura più fosse sicuro, dicendo niun’altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona, come il fuggire loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado11, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere, li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta12. E come che questi così variamente oppinanti13 non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti14 e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano15, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse16, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri
1. era la reverenda … fare: l’autorità delle leggi religiose e civili (divine e umane), degna di essere riverita, era quasi del tutto decaduta e dissolta a causa di coloro che dovevano applicarle, i quali, come gli altri uomini, erano tutti morti o malati o rimasti quasi privi di sottoposti, di modo che non potevano svolgere alcuno dei loro compiti. 2. era a ciascuno … adoperare: diventava per ciascuno lecito fare (adoperare) tutto ciò che desiderava. 3. tra questi … una mezzana via: tenevano una via di mezzo tra i due comportamenti sopra indicati (la sobrietà e l’eccesso). 4. non strignendosi … usavano: senza limitarsi nel cibo come i primi, né abbando-
nandosi (allargandosi) al bere e alla altre dissolutezze quanto i secondi, ma usavano dei beni a sufficienza secondo il bisogno. 5. maniere di spezierie: generi di spezie. 6. estimando … confortare: ritenendo ottima cosa confortare il cervello con simili odori. 7. con ciò … che: poiché. 8. compreso: impregnato. 9. sentimento: animo. 10. come che: e cioè pensavano che. 11. e cercarono … contado: e cercarono il contado di altre città o almeno della loro. 12. quasi l’ira di Dio … esser venuta: come se l’ira di Dio non si muovesse a punire attraverso quella pestilenza le iniquità degli uomini ovunque essi fossero, ma una volta
scatenata (commossa) si volgesse (intendesse) ad annientare solo quelli che si trovassero all’interno delle mura della loro città, o come se ritenessero (avvisando) che nessuno doveva più rimanere vivo a Firenze e che fosse scoccata l’ultima ora della città. 13. così variamente oppinanti: dalle opinioni così diverse. 14. di ciascuna molti: molti che manifestavano palesemente ciascuna di queste opinioni. 15. avendo … rimanevano: avendo essi stessi, quando erano sani, dato l’esempio a quelli che rimanevano sani (cioè abbandonando i malati senza soccorrerli). 16. schifasse: evitasse.
Pesare le parole Schifasse (r. 24) Qui il verbo schifare ha il senso del nostro schivare, cioè “evitare”; per noi oggi significa invece, in forma transitiva, “avere a schifo, in dispregio” (es. schifare un piatto) o “provocare nausea, disgusto” (es. il tuo comportamento mi schifa), in forma intransitiva vale “provare disgusto” (es. mi sono schifato della politica attuale). Schivare ha un senso meno forte, “evitare, scansare” (es. schivare un pericolo, un pugno). Entrambi derivano però dalla stessa origine, dal francone skiuhjan, “avere riguardo” (sono
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quindi di origine germanica): ancora un caso di due parole che hanno la stessa etimologia ma significati diversi, e si differenziano per un piccolo particolare fonetico, /f/ o /v/. A sua volta schifo, sostantivo, significa “senso di ripugnanza” (es. quel film fa schifo), mentre schivo, aggettivo, vuol dire “ritroso, sdegnoso” per timidezza o orgoglio, oppure designa chi non ricerca ciò che comunemente si desidera (es. schivo di onori).
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e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano17. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi), o l’avarizia18 de’ serventi, li quali, da grossi salari e sconvenevoli tratti, servieno19, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini e femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno20; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdevano21. E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici, e avere scarsità di serventi, discorse22 un uso quasi davanti23 mai non udito: che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi24 uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del suo corpo aprire25 non altrimenti che ad una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse: il che, in quelle che ne guarirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione26. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno27: di che28, tra per lo difetto degli opportuni servigi li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine di quelli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire, non che a riguardarlo29. Per che, quasi di necessità, cose assai contrarie a’ primi costumi30 de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che più gli appartenevano31 piangevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità32 del morto vi veniva il chericato33, ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato34. Le quali cose, poi che a montar35 cominciò la ferocità della pistolenza36, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono, e altre nuove in loro luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza avere molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’erano di quelli che di questa vita senza testimonio37 trapassavano; e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole38; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietà39, per la salute di loro avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati; li quali non gli orrevoli e cari40 cittadini sopra gli omeri portavano, ma una
17. li padri … schifavano: i padri e le madri evitavano di visitare e curare i loro figli, quasi non fossero i loro. 18. avarizia: avidità. 19. da grossi … servieno: servivano attirati da salari alti ed eccessivi. 20. quantunque … morieno: sebbene, per questi compiti non fossero rimasti molti: ed i pochi fossero uomini e donne di natura volgare (grosso ingegno) ed i più non abituati a tali incombenze, costoro non servivano ad altro che ad offrire qualcosa che fosse chiesta dai malati o a restare a guardarli quando morivano. 21. e servendo … perdevano: e prestando tali servizi contraevano il male e perdevano la vita insieme col guadagno. 22. discorse: si diffuse. 23. davanti: prima.
24. non curava d’avere a’ suoi servigi: non si dava preoccupazione nel farsi assistere. 25. aprire: mostrare. 26. cagione: va collocato subito dopo fu forse: questo comportamento, in quelle che guarirono, fu forse causa di minore onestà, nel tempo successivo. 27. ne seguio … sarieno: ne derivò la morte di molti che forse, se fossero stati aiutati (atati), sarebbero sopravvissuti. 28. di che: di conseguenza. 29. uno stupore … riguardarlo: era motivo di stupore sentirlo raccontare, non solo a vederlo. 30. a’ primi costumi: ai costumi precedenti la pestilenza. 31. quelle che più gli appartenevano: le parenti più strette.
32. secondo la qualità: a seconda del rango sociale. 33. chericato: i religiosi. 34. sopra gli omeri … portato: era portato sulle spalle dei cittadini di pari grado sociale alla chiesa da lui scelta prima della morte, con cerimonie funebri rese solenni da candele accese e canti. 35. montar: dilagare. 36. pistolenza: pestilenza. 37. senza testimonio: soli, senza la presenza di alcuno. 38. festeggiar compagnevole: divertimenti collettivi. 39. posposta … pietà: trascurata la pietà che era propria delle donne. 40. orrevoli e cari: onorati e illustri.
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maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara41, e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto, ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume42, e tal fiata43 senza alcuno: li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio44 o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata45 trovavano più tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno46: per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né atati47 d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione tutti morivano48. E assai n’erano che nella strada publica o di dì o di notte finivano49, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti, che altramenti, facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno50. Era il più da’ vicini una medesima maniera servata51, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse che da carità la quale avessero a’ trapassati52. Essi, e per sé medesimi e con lo aiuto d’alcuni portatori, quando averne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti agli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti vedere senza numero chi fosse attorno andato53; e quindi fatto venir bare (e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola ne ponieno54), né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure55 una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ’l marito, gli due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella; e, dove un morto credevano avere i preti a seppellire, n’aveano sei o otto, e tal fiata più56. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre [...]. E acciò che dietro ad ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada57, dico che così inimico tempo correndo per quella58, non per ciò meno d’alcuna cosa risparmiò il circustante contado59; nel quale, lasciando star le castella60, che simili erano nella loro piccolezza alla città, per le sparte ville e per gli campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno61. Per la qual cosa essi così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi62, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettas-
41. una maniera … alla bara: una specie di beccamorti provenienti da famiglie di condizione molto umile, che si facevano chiamare becchini e prestavano questi servizi dietro pagamento (prezzolata concorda con minuta gente); sollevavano la bara e se la collocavano sulle spalle. 42. con poco lume: con poche candele. 43. e tal fiata: e talvolta. 44. uficio: funzione religiosa. 45. disoccupata: vuota. 46. Della minuta gente … pieno: la vista del popolo minuto e della borghesia suscitava molta più compassione. 47. atati: aiutati. 48. quasi senza … morivano: quasi tutti
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morivano senza possibilità di sottrarsi al male. 49. finivano: morivano. 50. tutto pieno: va sottinteso: “era”. 51. Era il più … servata: per lo più i vicini osservavano il medesimo uso. 52. mossi … trapassati: mossi dal timore che la decomposizione potesse loro nuocere più che da carità verso i defunti. 53. n’avrebbe … andato: chi fosse andato in giro ne avrebbe potuti vedere innumerevoli. 54. quindi fatto … ponieno: quindi, fatte arrivare delle bare, li collocavano in esse, ma per carenza di bare ne dovettero talvolta collocare alcuni su semplici tavole di legno. 55. pure: solo. 56. tal fiata più: talvolta di più.
57. E acciò che … vada: perché non mi soffermi su ogni dettaglio delle miserie capitate alla nostra città. 58. così inimico … quella: mentre trascorreva un periodo così nefasto in Firenze. 59. non per ciò … contado: nondimeno non risparmiò il contado circostante di alcun male. 60. castella: borghi circondati da mura. 61. per le sparte … morieno: per i casolari sparsi e per i campi i contadini poveri e miserevoli e le loro famiglie morivano per le vie, per i loro campi coltivati e per le case, di giorno e di notte indifferentemente, senza alcuna cura di medico o aiuto di servitore, non come uomini ma quasi come bestie. 62. lascivi: trascurati.
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sero63, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti64 si sforzavano con ogni ingegno. Per che addivenne65 i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli, e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per gli campi, dove ancora le biade abbandonate erano, sanza essere, non che raccolte, ma pur segate66, come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali67, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case, senza alcuno correggimento68 di pastore, si tornavano satolli69. Che più si può dire, lasciando stare il contado e alla città ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltà del Cielo, e forse in parte quella degli uomini, che in fra ’l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveano i sani, oltre a cento milia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti? che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti70. O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri71, per addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante, rimaser vòti72! O quante memorabili schiatte, quante amplissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito73 rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ippocrate o Esculapio74 avrieno75 giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ loro parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenarono con li loro passati76!
63. quasi … aspettassero: come se aspettassero la morte quel giorno stesso sino a cui erano riusciti ad arrivare. 64. si trovavano presenti: avevano a disposizione. 65. addivenne: accadde. Va sottinteso “che” da collegare con se n’andavano. 66. ma pur segate: ma neanche mietute.
67. razionali: esseri dotati di ragione. 68. correggimento: comando. 69. satolli: sazi. 70. forse … avuti: forse, prima dell’arrivo della peste, non si sarebbe stimato che tanti fossero i cittadini di Firenze. 71. abituri: abitazioni. 72. di signori … vòti: rimasero vuoti di si-
gnori e di signore, sino al più umile dei servitori. 73. successor debito: erede legittimo. 74. Galieno … Esculapio: Galeno ed Ippocrate sono i più noti medici dell’antichità. Esculapio era il dio della medicina. 75. avrieno: avrebbero. 76. passati: antenati.
Pesare le parole Colti (r. 96) Deriva da cùltum, participio passato del verbo latino còlere, “coltivare”, quindi significa qui “campi coltivati”. Il senso nostro di colto, “fornito di cultura”, deriva dalla stessa parola latina, ed è un senso figurato: acquisire e assimilare vaste cognizioni è equiparato a “coltivare” la mente per renderla fertile e produttiva. Dalla stessa radice latina derivano sia cultura, “complesso di tradizioni storiche, letterarie, filosofiche, artistiche di un popolo, civiltà”, o “patrimonio intellettuale di chi è colto”, sia coltura, “coltivazione di un terreno agricolo” (agricoltura viene sempre da còlere più àgrum, “campo”). Le due parole si distinguono solo per una lettera: quella che si riferisce alle attività spirituali, più dotta, conserva la /u/ della forma latina, mentre quella che riguarda le attività materiali, più comune, se ne è allontanata, in seguito ai processi di trasformazione dal latino al volgare (la /u/ che diviene /o/). Sempre da còlere deriva culto, “complesso di cerimonie e usanze attraverso cui si esprime il sentimento religioso”; in senso figurato “rispetto quasi religioso per una persona, un’opera letteraria e artistica, un ideale” (es. avere un culto per la madre, un culto per la Divina Commedia, per la bellezza). Culto della personalità è
espressione spregiativa a indicare l’esaltazione fanatica della persona di un governante, in genere un dittatore, e l’obbedienza servile alle sue direttive. Si può osservare che la parola culto, a differenza di colto, ha conservato la /u/ della forma latina di cùltum.
Lascivi
(r. 98)
lascivo, dal latino lascìvum, significa “impudico, dissoluto, dedito ai piaceri carnali” (es. è un uomo lascivo, sempre a caccia di avventure erotiche), ed è voce del linguaggio colto. Nonostante le apparenze non ha parentele con lasciare, che viene dal latino laxàre, “allentare, sciogliere”, quindi vale “cessare di tenere, abbandonare, rinunciare, concedere, permettere” (es. vuole lasciare l’italia, il rumore non mi lascia dormire). Il composto con re-, rilasciare, può voler dire “concedere, consegnare” (es. rilasciare un certificato) o “liberare” (es. rilasciare un ostaggio). Dalla stessa origine proviene rilassare, “allentare una tensione fisica o psicologica” (es. rilassare i muscoli, rilassare la mente). Anche qui dalla stessa parola latina derivano due verbi con significati diversi, che si differenziano per una minima particolarità fonetica.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo Il significato della peste
Il rispetto per la verità storica
L’ammenda al «peccato della fortuna»
Tra le varie e suggestive interpretazioni di queste famose pagine boccacciane, la più persuasiva resta quella proposta da Giovanni Getto (1958). Come suggerisce il critico, la peste si offriva a Boccaccio come soluzione narrativa verisimile per giustificare la prolungata consuetudine dei dieci novellatori, il loro distacco dalla realtà esterna, ed inoltre come scusante per la libertà spesso licenziosa del narrare: solo una condizione straordinaria come la peste, che aveva scardinato ogni convenzione sociale, poteva risultare perfettamente funzionale all’intento dell’autore. Ma a questo si aggiunge un altro motivo (enunciato esplicitamente da Boccaccio stesso), il rispetto per la verità storica. Già in questo si manifesta il gusto, tipico di Boccaccio, di legare la sua narrazione alla realtà consacrata dalla storia e convalidata dalla sua esperienza personale, di indicare riferimenti a nomi, luoghi, fatti concreti. Inoltre, come suggerisce sempre lo stesso Boccaccio, il quadro cupo e opprimente della peste assume il valore funzionale di rendere più gioiosa e piacevole l’immagine della vita della brigata e del novellare dei giovani, con una sorta di gioco tonale di chiaroscuro. Ma la contrapposizione tra la peste e la vita serena della brigata ha un significato più profondo, che si collega allo stesso nucleo centrale dell’ispirazione del Decameron. Ciò che caratterizza la descrizione boccacciana della peste è la dissoluzione di tutte le leggi sociali, di tutti quei civili e raffinati costumi, che ai suoi occhi rivestono un carattere quasi sacro. L’iniziativa dei dieci giovani, che si allontanano dalla città sconvolta, trascorrendo la vita su sfondi ameni di campagne e di eleganti dimore, dividendo sapientemente il tempo tra banchetti, riposi, racconti e danze, ha proprio la funzione di ricomporre quella socialità che è stata distrutta dalla peste. Ebbene, si può individuare qui il motivo dell’ammenda al «peccato della fortuna» già comparso nel Proemio, e che ritornerà costantemente nelle novelle. Centrale è in Boccaccio il vagheggiamento della «virtù» con cui l’uomo sa affrontare e superare ostacoli e difficoltà che la natura e la Fortuna gli contrappongono, celebrando così un’arte del vivere tutta terrena e mondana. La disgregazione della socialità
I vari aspetti del quadro negativo
Echi nel tempo Il motivo della peste nella letteratura moderna
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In effetti il disgusto per il corrompersi di tutte le norme sociali e di tutti i civili costumi è il motivo conduttore di tutta la descrizione della peste. Distruggono il legame sociale coloro che si chiudono in casa e vivono «da ogni altro separati», senza più alcun contatto con il mondo esterno, senza neppure voler avere notizia della malattia e delle morti, ma lo stesso fanno anche quelli che si abbandonano ad ogni licenza e dissolutezza. È compromesso un valore sacro come la proprietà: ciascuno abbandona le sue case, ed esse diventano comuni a tutti. L’autorità della legge e di chi dovrebbe farla rispettare si dissolve, per cui diviene lecito a ciascuno fare ciò che più gli aggrada. La stessa città, luogo per eccellenza della socialità, si svuota e si fa deserta, per le continue morti ma anche perché i cittadini l’abbandonano. Cadono i vincoli di vicinanza, di amicizia, di parentela, si disgrega la famiglia, si abbandonano fratelli, coniugi, figli. Scompare il pudore (giovani donne non hanno vergogna a mostrarsi a inservienti mercenari). Cadono in abbandono i rituali delle onoranze ai defunti, non vi è più pietà per i morti, che vengono considerati non diversamente dalle bestie. Anche i costumi dei contadini si corrompono, e viene trascurato un valore sacro come è il lavoro: i campi sono abbandonati con le messi mature, che non vengono neppure mietute. Il quadro desolato culmina, nell’ultima pagina, con le vibranti esclamazioni sulle belle case vuote, sulle illustri famiglie estinte, sulle ricchezze rimaste senza eredi: è un compianto commosso sulla scomparsa delle più belle forme di un vivere raffinato e civile.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Individua nel brano il passo in cui, con toni apocalittici, si racconta delle prime reazioni al dilagare della peste
da parte degli abitanti di Firenze. > 2. Dopo aver illustrato la reazione al contagio da parte delle donne fiorentine e degli abitanti del contado, prova a motivare l’attenzione del narratore per queste due precise categorie sociali. Puoi avvalerti, se lo ritieni opportuno, delle considerazioni espresse nella rubrica Pesare le parole ( p. 523) a proposito delle forme «colti» e «lascivi» che le riguardano direttamente. AnALIzzAre
> 3.
Stile Individua nel brano e illustra le figure retoriche della preterizione e dell’esclamazione: quale funzione hanno nel testo?
> 4.
Lessico Ricerca, avvalendoti anche delle risorse della rete, il significato e l’etimologia dei vocaboli «cerebro» (r. 10) e «atati» (r. 44).
> 5. Lingua Spiega per quale motivo il periodo «Della minuta gente … tutti morivano» (rr. 69-73) rappresenta un esempio classico del periodare di Boccaccio, caratterizzato da ampiezza e sintassi complessa ma ordinata. Per rispondere, rileggi anche il paragrafo La lingua e lo stile: la voce narrante ( pp. 513-514). APProFondIre e InTerPreTAre
> 6.
Scrivere Qual è il significato della conclusione del brano proposto («Quanti valorosi uomini … cenarono con li loro passati!», rr. 115-118)? elabora un commento di circa 5 righe (250 caratteri).
> 7.
osservando il disegno, in cui sono illustrate tre scene della fase iniziale dell’epidemia, indica quale forte elemento simbolico e non realistico compare nella prima. Perché per la seconda e la terza scena è possibile parlare di dialettica interno/esterno riguardo i doveri imposti dalla vita sociale (che Boccaccio racconterà nella sua disgregazione per le fasi successive della pestilenza)? Altri linguaggi: arte
(Attrib.) Giovanni Boccaccio, Trionfo della morte ed episodi della peste a Firenze, XIV secolo, disegno a inchiostro bruno dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice It. 482, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
Per IL PoTenzIAmenTo
> 8.
Testi a confronto Il poeta latino Lucrezio (I sec. a.c.) e Alessandro Manzoni descrivono gli effetti devastanti della peste rispettivamente nel poema didascalico De rerum natura e nei Promessi sposi: la città di Atene del 430 a.c. e la Milano del XvII secolo, malgrado le differenze dei contesti di riferimento, sembrano presentare problematiche comuni alla Firenze del trecento. Metti a confronto un passo lucreziano tratto dal libro vI (vv. 1215-1286, in traduzione) con il celebre episodio della madre di cecilia (cap. XXXIv) nel romanzo ottocentesco: come si manifesta il tema della disgregazione della socialità analizzato anche da Boccaccio? Sono presenti, invece, tentativi di ricomposizione delle più elementari norme del vivere civile? Se sì, quali?
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Immagine interattiva Ciappelletto “visualizzato”
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Ser Ciappelletto dal Decameron, I, 1 È la prima novella della prima giornata, in cui ciascun giovane è libero di trattare la materia che più gradisce. Il narratore è Panfilo. L’ambiente è mercantile.
Temi chiave
• l’ambiguità di ciappelletto • l’uso abile della parola • i diversi punti di vista e di lettura della vicenda
• il meccanismo del capovolgimento
Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi 1; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato2 per santo e chiamato san Ciappelletto.
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Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le dea principio3. Per che, dovendo io al vostro novellare, sì come primo, dare cominciamento4, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in Lui, sì come in cosa impermutabile, si fermi5 e sempre sia da noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica e a infiniti pericoli sogiacere6; alle quali senza niuno fallo7 né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci8, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento9 non ci prestasse. La quale10 a noi e in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignità mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo ora con Lui eterni son divenuti e beati11; alli quali noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo oportune gli porgiamo12. E ancor più in Lui, verso noi di pietosa liberalità pieno, discerniamo13, che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione14 ingannati, tale dinanzi alla sua maestà facciamo procuratore che da quella con eterno essilio è iscacciato15: e nondimeno Esso, al quale niuna cosa è occulta, più alla purità del pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato, così come se quegli fosse nel suo cospetto beato, essaudisce coloro che ’l priegano16. Il che manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando17.
1. muorsi: muore. 2. è … reputato: da morto è considerato. 3. Convenevole … principio: è opportuno, carissime donne, che tutto ciò che l’uomo fa abbia inizio dal mirabile e santo nome di Colui (Dio) che fu il creatore di tutte le cose. 4. dovendo io … cominciamento: a parlare è Panfilo, a cui è stata affidata la narrazione della prima novella della prima giornata. 5. la nostra speranza … si fermi: la nostra speranza sia saldamente riposta in Lui, come in cosa immutabile. 6. come … sogiacere: come le cose soggette al tempo sono transitorie e destinate a perire, così in sé e fuori di sé sono piene di dolore, angoscia e fatica e sono esposte a infiniti pericoli. Esser e sogiacere sono infiniti dipendenti da manifesta cosa è (costruzione alla latina). 7. senza … fallo: senza alcun dubbio.
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8. durare né ripararci: resistere né evitarle. 9. avvedimento: avvedutezza. 10. La quale: la Grazia di Dio. 11. da’ prieghi … beati: e ottenuta grazie alle preghiere di coloro (i santi), che furono mortali come siamo noi e, avendo seguito la volontà di Dio (i suoi piaceri) mentre erano in vita, ora sono divenuti eterni e beati insieme a Lui. 12. noi medesimi … porgiamo: noi stessi, forse timorosi di rivolgere direttamente le nostre preghiere a un giudice così alto (ossia a Dio), porgiamo tali preghiere sulle cose che noi riteniamo necessarie (ai santi), come a intermediari che conoscono per esperienza la nostra fragilità umana. Gli, complemento oggetto di porgiamo, è riferito a prieghi. 13. E ancor … discerniamo: «E in Lui, che è pieno di pietà e di liberalità verso di noi, scorgiamo qualcosa anche di più grande, di
più liberale…» (Branca). 14. oppinione: falsa opinione. 15. tale … iscacciato: scegliamo come intermediario presso la maestà divina persone che sono invece condannate da Dio per l’eternità (l’eterno essilio è l’inferno, così definito da Dante in Inferno, XXIII, v. 126, e Purgatorio, XXI, v. 118). 16. e nondimeno … priegano: e tuttavia Egli, a cui nulla è nascosto, esaudisce egualmente coloro che Lo pregano, tenendo conto più della purezza di chi prega che della sua ignoranza o della dannazione eterna del destinatario delle preghiere, come se questi fosse davvero beato al suo cospetto (in paradiso). Cioè Dio esaudisce anche le preghiere rivolte a intermediari indegni, che magari sono dannati all’inferno. 17. non … seguitando: seguendo non il giudizio di Dio ma quello degli uomini.
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Ragionasi18 adunque che essendo Musciatto Franzesi19 di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra20, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso21, sentendo egli li fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare22, pensò quegli commettere23 a più persone e a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni24. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali25; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza26 avere, che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato27, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il quale molto alla sua casa in Parigi si riparava28; il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo29, non sappiendo li franceschi30 che si volesse dir Cepparello, credendo che “cappello”, cioè “ghirlanda” secondo il loro volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto31 il chiamavano: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepparello il conoscieno. Era questo Ciappelletto di questa vita32: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato33; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quegli più volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato34. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti35 grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava36, in commettere37 tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa38, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire39 e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava40 giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli41. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni42; del contrario43 più
18. Ragionasi: si narra. 19. Musciatto Franzesi: «Musciatto di Messer Guido Franzesi […], accumulò grandi ricchezze trafficando in Francia, e fu uno dei più ascoltati e malvagi consiglieri di Filippo il Bello, inducendolo a falsificar moneta e a razziare i mercanti italiani» (Branca). 20. Carlo Senzaterra: Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, re di Francia, scese in Italia nel 1301, chiamato da Bonifacio VIII: è l’episodio che portò all’esilio di Dante. Il soprannome di Senzaterra era rimasto a Carlo «dal tempo in cui non godeva di proprio appannaggio e dall’aver avuta solo nominalmente corona e dai suoi vani tentativi di procurarsi un regno» (Branca). 21. promosso: sollecitato, indotto. 22. sentendo … stralciare: rendendosi conto che i suoi affari erano molto ingarbugliati in vari luoghi, come spesso lo sono quelli dei mercanti, e che non potevano essere facilmente e prontamente sbrogliati.
Stralciare è infinito alla latina, retto da sentendo. 23. commettere: affidare (altro infinito alla latina). 24. fuor … borgognoni: rimase solamente in dubbio su chi potesse lasciare, capace di riscuotere dei crediti da lui fatti ad alcuni abitanti della Borgogna (regione della Francia). Cui è complemento oggetto di lasciar. 25. riottosi … misleali: litigiosi e di indole malvagia e sleale. 26. fidanza: fiducia. 27. E sopra … stato: essendo stato lungamente a riflettere sopra questa indagine. 28. si riparava: si rifugiava, dimorava. 29. assettatuzzo: agghindato. 30. li franceschi: i francesi. 31. Ciappelletto: da chapelet, diminutivo di chapel, cappello, usato anche nel senso di “corona”, “ghirlanda”. 32. Era … vita: seguiva questa condotta, questo tenore di vita.
33. quando … trovato: quando uno dei suoi atti notarili, anche se ne faceva pochi, non fosse trovato falso. È compito invece di un notaio garantire la correttezza dei propri atti. 34. salariato: compensato. Amava cioè il male per se stesso, preferendo redigere degli atti falsi gratuitamente, piuttosto che dei documenti veridici a pagamento. 35. saramenti: giuramenti (dal francese serments). 36. forte vi studiava: fortemente si ingegnava. 37. in commettere: nel suscitare. 38. rea cosa: azione malvagia. 39. fedire: ferire. 40. non usava: non andava. 41. usavagli: amava frequentare. 42. Delle femine … bastoni: detto ironicamente per antifrasi: amava le donne come i cani amano i bastoni. Era un omosessuale, come viene chiarito subito dopo. 43. del contrario: dei rapporti con gli uomini.
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che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato44 con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe45. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia46. Giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne47. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto48, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato49. Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere esser tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare50 a riscuotere il mio da loro più convenevole51 di te. E perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente52, ove a questo vogli intendere53, io intendo54 di farti avere il favore della corte55 e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia». Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo56 e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato57, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò58, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea: e quivi fuori di sua natura benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo59. E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi a usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infer-
44. Imbolato … rubato: i verbi significano rispettivamente: «portar via di furto» e «rapire con violenza» (Branca). 45. che … offerrebbe: con la quale un sant’uomo farebbe l’elemosina. 46. sconciamente … noia: gli provocava effetti dannosi e disgustosi. 47. Giucatore … solenne: era un gran giocatore e usava dadi truccati. 48. La cui … Musciatto: per lungo tempo la potenza e l’elevata condizione di messer Musciatto protesse la sua malvagità.
49. per cui … fu riguardato: per cui molte volte fu risparmiato, gli fu usato riguardo, da privati, a cui spesso aveva arrecato danni e offese (iniuria), e dalla giustizia, a cui continuamente ne arrecava. 50. lasciare: affidare. 51. convenevole: adatto (va unito a non so cui). 52. al presente: adesso. 53. intendere: badare. 54. intendo: ho in mente. 55. corte: la corte reale, in questo caso, che
doveva autorizzarlo a riscuotere le imposte per conto di messer Musciatto (in questo consistevano i suoi affari in Borgogna). 56. scioperato … mondo: senza occupazioni e in non buone condizioni economiche. 57. e lui … stato: e vedeva andarsene colui (messer Musciatto) che era stato a lungo sua difesa e protezione. 58. si diliberò: si decise. 59. al da sezzo: alla fine.
Pesare le parole Scioperato (r. 74) Qui vale “senza occupazioni”. Scioperare viene dal latino ex- privativo più operàre, “lavorare”. Il senso più comune di scioperato oggi, nel linguaggio colto, è negativo, “individuo che non ha voglia di lavorare e vive alla giornata, in modo disordinato e vizioso”. Sinonimi sono in questo senso: scapestrato, da capestro più s- privativo, cioè alla lettera “liberato dal capestro” (cappio con nodo scorsoio usato per impiccare o per legare le bestie), quindi “che conduce una vita priva di freni”; sfaccendato, da s- più faccenda, dal gerundivo latino faciènda, “cose da fare”: alla lettera “chi non ha nulla da fare”; scapigliato, da spiù capegli, plurale arcaico di capelli, alla lettera “con i capelli scompigliati”, quindi “disordinato”; dissoluto, da dis- più solùtum, participio passato del latino sòlvere,
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“sciogliere”, quindi “senza legami, senza freni”, con un’immagine affine a quella implicita in scapestrato; sfrenato, da s- più freno (a sua volta dal latino frèndere, “stringere i denti facendoli stridere”), altra immagine analoga; sregolato, da s- più regola, “senza regola” (dal latino règere, “dirigere”); licenzioso, da licenza, “eccessiva libertà”. Il gran numero di sinonimi a indicare questa condizione rivela di quanta riprovazione essa sia oggetto nell’ambito della vita associata, ma probabilmente anche quanta attrattiva eserciti. Il verbo scioperare oggi ha assunto un senso preciso, “astenersi collettivamente dal lavoro da parte di lavoratori dipendenti, per ottenere fini economici, normativi o politici”.
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mò60. Al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti61 che il servissero e ogni cosa oportuna alla sua santà62 racquistare. Ma ogni aiuto era nullo63, per ciò che il buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio come colui che aveva il male della morte64; di che li due fratelli si dolevan forte. E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimo cominciarono a ragionare. «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani65: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacer ci debbia66, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori67. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo, che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane68. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili, che il simigliante n’averrà69, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere: per che, non assoluto70, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverà a romore71 e griderà: “Questi lombardi cani72, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion più sostenere73”; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno ma forse ci torranno oltre a ciò le persone74: di che noi in ogni guisa75 stiam male se costui muore». Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo aver gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare e disse loro: «Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate76 né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’averrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate77: ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà78; e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più79 che aver potete, se alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò80 i fatti vostri e’ miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti». I due fratelli, come che molta speranza non prendessono81 di questo, nondimeno se n’andarono a una religione82 di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate
60. infermò: si ammalò. 61. fanti: servi. 62. santà: salute. 63. nullo: vano, inutile. 64. il male della morte: una malattia mortale. 65. Noi abbiamo … alle mani: ci troviamo, per causa sua, davvero in una situazione difficile. 66. debbia: debba. 67. vederlo mandar fuori: anacoluto. Occorrerebbe invece una proposizione sempre retta da veggendo che e coordinata con l’avessimo ricevuto, come ad esempio “lo abbiamo mandato fuori”. 68. sarà gittato … cane: nei fossati che cingevano le mura cittadine, dove si gettavano
i suicidi, gli eretici, gli scomunicati e anche gli usurai, che non potevano essere sepolti in terra consacrata. 69. il simigliante n’averrà: succederà la stessa cosa. 70. assoluto: assolto. 71. romore: tumulto. 72. lombardi cani: «Lombardi erano chiamati in Francia tutti gli Italiani della parte settentrionale della penisola, Toscana inclusa, e “lombardo” era sinonimo di prestatore e usuraio, cui si accompagnava spesso il dispregiativo “chien” (cane)» (Branca). 73. non … sostenere: non si devono più tollerare (ci sta per qui). 74. correrannoci … persone: daranno l’as-
salto alle nostre case e forse ci ruberanno non solo gli averi ma oltre a ciò ci toglieranno anche la vita. 75. guisa: modo. 76. d’alcuna … dubitiate: di nulla temiate per causa mia. 77. dove … avvisate: se la faccenda andasse così, come voi pensate. 78. né più … farà: non ne farà nemmeno caso, oppure non sarà nulla. 79. il più: sottinteso “santo e valente”. 80. acconcerò: aggiusterò, sistemerò. 81. come che … non prendessono: sebbene non nutrissero molte speranze. 82. religione: convento.
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antico83 di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura84 e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono85. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarsi ogni settimana almeno una volta, senza che86 assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi che io infermai, che son passati da87 otto dì, io non mi confessai tanta è stata la noia88 che la infermità m’ha data». Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi89; e veggio che, poi90 sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di dimandare». Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così: io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente91 di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì che io nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntalmente92 d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; e non mi riguardate93 perché io infermo sia, ché io amo molto meglio94 di dispiacere a queste mei carni che, faccendo agio loro95, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò96 col suo prezioso sangue». Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli97 argomento di bene disposta mente: e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato98 questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero temendo di non peccare in vanagloria». Al quale il santo frate disse: «Dì sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giammai». Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò99: io son così vergine come io usci’ del corpo della mamma mia100». «Oh, benedetto sie tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’albitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son constretti101». E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per ciò che, con ciò fosse cosa che102 egli, oltre alli digiuni delle quaresime103 che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran
83. antico: anziano e quindi degno di rispetto. 84. in Iscrittura: delle Sacre Scritture. 85. lui menarono: lo condussero (da ser Ciappelletto). 86. senza che: oltre al fatto che. 87. da: circa. 88. la noia: il dolore. 89. si vuol … innanzi: si deve fare d’ora in poi. 90. poi: poiché. 91. confessare generalmente: fare quella che la Chiesa chiama «confessione generale», la quale consiste nel confessare i peccati di tutta la vita. 92. puntalmente: punto per punto.
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93. non mi riguardate: non usatemi riguardo. 94. amo molto meglio: preferisco di gran lunga. 95. faccendo agio loro: usando loro dei riguardi. 96. ricomperò: riscattò. 97. parvongli: gli parvero. 98. commendato: lodato. 99. e io il vi dirò: ecco che io ve lo dirò. 100. io son … mamma mia: il solo caso in cui Ciappelletto dice la verità discende da quello che era allora ritenuto un vizio infamante, l’omosessualità.
101. faccendolo … constretti: astenendoti dalle donne, hai tanto più meritato quanto più avevi libertà di fare il contrario che noi e chiunque altro sia vincolato da una regola. Allude alla regola religiosa monastica, che prescrive la castità. Ser Ciappelletto, non vincolato da alcun voto, avrebbe più agevolmente potuto abbandonarsi ai peccati della carne. 102. con ciò fosse cosa che: sebbene. 103. quaresime: non solo la Quaresima propriamente detta, ma tutti i periodi di digiuno prescritti dalla chiesa e osservati in occasioni particolari.
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bevitori il vino104; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa105, e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli106. Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la coscienza tua che bisogni107. A ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare108 e dopo la fatica il bere». «Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi: ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine109 d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca». Il frate contentissimo disse: «E io son contento che così ti cappia nell’animo110 e piacemi forte la tua pura e buona conscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato disiderando più che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti?». Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti111 perché io sia in casa di questi usurieri112: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli113 da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse così visitato114. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio115; e poi, per sostentar la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie116 e in quelle ho disiderato di guadagnare. E sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo117, la mia metà convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei118». «Bene hai fatto»: disse il frate «ma come ti se’ tu spesso119 adirato?». «Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere120, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare121 i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii122? Egli sono state assai volte il dì123 che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio». Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre; ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria124?». A cui ser Ciappelletto rispose: «Oimè, messere, o125 voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? o126 s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque
104. con quello diletto … il vino: aveva bevuto l’acqua con quel piacere e con quell’appetito con cui i grandi bevitori gustano il vino, specialmente quando avesse sopportato qualche fatica pregando o andando in pellegrinaggio. 105. in villa: in campagna. 106. alcuna volta … digiunava egli: talora il mangiare gli era sembrato più desiderabile e appetitoso di quanto dovesse parere a chi digiuna per devozione, come digiunava lui. Osserva Branca: «La ripetizione di “parere” (tre volte) e di “digiunare” è una di quelle sottigliezze linguistiche cui il Boccaccio ricorre spesso per esprimere situazioni interiori (qui la untuosa complicatezza dell’ipocrita; e vedi altri esempi simili più sotto)». 107. che bisogni: di quanto bisogna.
108. manicare: mangiare. 109. ruggine: macchia, qualsiasi cosa che, benché minima, offuschi la purezza delle azioni umane. Il gioco delle parti si sta addirittura rovesciando: è ser Ciappelletto, adesso, che tiene una lezione di morale religiosa al santo frate. 110. che … nell’animo: che così ti stia nell’animo, che tu la pensi a questo modo. 111. guardasti: sospettaste. 112. usurieri: usurai. 113. gastigare e torgli: rimproverare e allontanare. 114. visitato: «è termine proprio del linguaggio devoto per indicare che le tribolazioni sono una grazia di Dio, come mezzo di perfezionamento morale» (Branca).
115. per Dio: in opere di beneficenza. 116. mercatantie: commerci, affari. 117. partito per mezzo: diviso a metà. 118. di bene … miei: ho fatto prosperare i miei affari. 119. come … spesso: quante volte, quanto spesso. 120. tenere: astenere. 121. servare: osservare. 122. giudicii: castighi, punizioni. 123. Egli … il dì: soggetto impersonale: molti sono stati i giorni in cui. 124. ingiuria: come in latino, ha un senso più forte che l’attuale, vale “recar danno”. 125. o: eppure (uso fiorentino). 126. o: forse che: «altro uso toscano di o per introdurre l’interrogazione dubitativa» (Branca).
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s’è127 l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Idio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini128, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno129, sempre ho detto: “Va, che Idio ti converta”». Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sie tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno o detto male d’altrui130 o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono?131». «Mai messer sì132», rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che batter la moglie, sì che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella133, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica134». Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?». «Gnaffé135», disse ser Ciappelletto «messer sì, ma io non so chi egli si fu: se non che, uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto e io messigli in una mia cassa senza annoverare136, ivi bene a un mese137 trovai ch’egli erano quatro piccioli138 più che esser non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele139, io gli diedi per l’amor di Dio140». Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti». E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte141 rispose a questo modo; e volendo egli già procedere alla absoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto». Il frate il domandò quale; e egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante142 mio, un sabato dopo nona143, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea». «Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa». «Non144», disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore». Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?». «Messer sì», rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio». Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo». Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta145 come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio». E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?». Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».
127. s’è: si sia, sia. 128. scherani … uomini: malfattori e uomini malvagi. 129. qualunque ora … alcuno: ogniqualvolta ne ho visto qualcuno. 130. d’altrui: degli altri. 131. tolte … sono?: sottratte cose d’altri, senza il consenso del legittimo proprietario? 132. Mai … sì: sì, certamente (l’uso del mai è rafforzativo). 133. cattivella: poveretta (dal latino capti-
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vus, prigioniero). 134. come … dica: come solo sa Dio. 135. Gnaffé: mia fe’, in fede mia. 136. annoverare: contarli. 137. ivi … mese: un buon mese dopo. 138. piccioli: denari. 139. rendergliele: renderglieli (uso del suffisso indeclinabile). 140. io gli diedi … Dio: li diedi in elemosina. 141. delle … tutte: di tutte le quali. 142. fante: servitore.
143. dopo nona: «poiché la celebrazione della festa e quindi il riposo festivo cominciavano dal vespro del sabato, Ciappelletto spinge il suo zelo fino allo scrupolo di aver fatto lavorare il suo servo nell’ora immediatamente precedente il vespro (cioè la nona): in un’ora cioè che considerava già sacra per la vicinanza della festività» (Branca). 144. Non: no. 145. netta: pulita.
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Allora il santo frate disse: «Va via146, figliuolo, che è ciò che tu di’147? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che148 il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, e egli ne fosse pentuto149 e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli150, gliele perdonerebbe liberamente151: e per ciò dillo sicuramente». Disse allora ser Ciappelletto sempre piagnendo forte: «Oimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba152 mai da Dio esser perdonato». A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te». Ser Ciappelletto pur piagnea153 e nol dicea, e il frate pure il confortava a dire; ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e154 egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che155 voi mi promettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai156 una volta la mamma mia». E così detto ricominciò a piagner forte. Disse il frate: «O figliuol mio, or parti157 questo così gran peccato? o gli uomini bestemmiano tutto il giorno Idio, e sì158 perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli». Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che dite voi? la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Idio per me, egli non mi serà perdonato». Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’absoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per159 santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso160 di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi161 sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Idio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacevi egli162 che ’l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo163?». Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì, anzi non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Idio per me: senza che164 io ho avuta sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come che165 io degno non ne sia, io intendo con la vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione166, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano». Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di presente167 gli sarebbe apportato; e così fu.
146. Va via: orsù. «Modo di disapprovare, in tono bonario e confidenziale, quasi per confortare» (Branca). 147. di’: dici. 148. mentre che: finché. 149. pentuto: pentito. 150. confessandogli egli: se egli li confessasse. 151. liberamente: volentieri, di buon grado. 152. debba: possa. 153. pur piagnea: continuava a piangere.
154. e: ecco che. 155. poscia che: poiché. 156. bestemmiai: ingiuriai, maledissi. 157. parti: ti pare. 158. e sì: eppure. 159. avendolo per: ritenendolo. 160. in caso: in pericolo. 161. voi: «Il frate passa dal tu usato nella confessione, come da padre a figlio, al voi per rispetto a chi considera ormai santissimo uomo» (Branca).
162. piacevi egli: siete contento. Egli è pronome personale. Inizia il processo di beatificazione di ser Ciappelletto. 163. al nostro luogo: nel nostro convento. 164. senza che: oltre al fatto che, senza dire che. 165. come che: benché. 166. unzione: chiede che gli venga impartito il sacramento dell’estrema unzione. 167. di presente: subito, quanto prima.
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Li due fratelli, li quali dubitavan forte non168 ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso a un tavolato169, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, e ascoltando leggiermente170 udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano: e fra sé talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora171 s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto?». Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso172 si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo173 ebbe l’ultima unzione e poco passato vespro174, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo175 come egli fosse onorevolmente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia176 secondo l’usanza e la mattina per lo corpo177, ogni cosa a ciò oportuna dispuosero. Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme178 col priore del luogo; e fatto sonare a capitolo179, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea180; e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali181, con li libri in mano e con le croci innanzi cantando andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città182, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate, che confessato l’avea, salito in sul pergamo183 di lui184 cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piangendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Idio gliele185 dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere186 il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la Madre e tutta la corte di Paradiso187». E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede188, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito189 fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato190 a basciargli i piedi e le mani, e tutti i pan-
168. non: che (costruzione alla latina). 169. un tavolato: una parete divisoria fatta di tavole di legno. 170. leggiermente: facilmente (da unire a udivano e intendevano). 171. di qui a picciola ora: fra poco tempo. 172. del rimaso: del resto, d’altro. I due erano preoccupati del fatto che ser Ciappelletto venisse buttato nei fossi come un cane. 173. senza modo: senza speranza. 174. vespro: le nove di sera. 175. ordinato … medesimo: «adoperando i suoi stessi denari» (Branca).
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176. la vigilia: la veglia funebre. 177. per lo corpo: per la sepoltura. 178. fu insieme: «ebbe un colloquio, si accordò» (Branca). 179. a capitolo: per riunire il consiglio dei frati. 180. secondo … avea: secondo quanto aveva concepito grazie alla sua confessione. 181. camisci … pieviali: camici e piviali, paramenti sacri indossati nelle occasioni solenni. 182. seguendo … città: avendo al seguito tutto il popolo della città.
183. pergamo: pulpito. 184. di lui: da unire a cominciò … a predicare. 185. gliele: glielo (riferito a peccato). 186. volgendosi a riprendere: prendendo lo spunto per rimproverare. 187. tutta la corte di Paradiso: tutti i santi. 188. alle quali … fede: alle quali la gente della contrada credeva pienamente. 189. fornito: finito, terminato. 190. da tutti fu andato: tutti andarono.
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ni gli furono indosso stracciati, tenendosi191 beato chi pure un poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente192 notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella: e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a adorarlo193, e per conseguente a botarsi194 e a appicarvi le imagini della cera195 secondo la promession fatta. E in tanto196 crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse197, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver mostrati per lui198 e mostrare tutto giorno199 a chi divotamente si raccomanda a lui. Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che200 la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su lo stremo201 aver sì fatta contrizione, che per avventura202 Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto203, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé riguardando, così faccendo noi nostro mezzano204 un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità205 e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, Lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci raccomanderemo sicurissimi d’essere uditi. – E qui si tacque.
191. tenendosi: ritenendosi. 192. vegnente: successiva. 193. adorarlo: pregarlo. 194. botarsi: far voti, per ottenere delle grazie. 195. imagini della cera: gli ex-voto. 196. in tanto: di tanto, a tal punto. 197. che quasi … botasse: tutti quelli che si
trovavano in qualche avversità non facevano voti ad altro santo che a lui. 198. per lui: tramite lui. 199. tutto giorno: tuttora. 200. come che: benché. 201. in su lo stremo: all’estremo della sua vita, in punto di morte.
202. per avventura: forse. 203. per ciò … occulto: siccome questo non è possibile sapere. 204. mezzano: intercessore. 205. nelle presenti avversità: durante la peste.
Analisi del testo Il conflitto delle interpretazioni
Le motivazioni della falsa confessione: azione gratuita o «ragion di mercatura»
È una novella problematica e ambigua, che ha sollecitato diverse interpretazioni. Discusse sono innanzitutto le motivazioni che spingono Ciappelletto alla falsa confessione dinanzi al frate. Benedetto Croce (1933) e poi, sulla sua scia, Luigi Russo (1939) hanno visto nella confessione un’azione del tutto gratuita, mossa dal compiacimento disinteressato della beffa, e in Ciappelletto una sorta di puro artista. Al contrario Giovanni Getto (1957) e Vittore Branca (1956) hanno sostenuto che Ciappelletto è spinto dalla «ragion di mercatura», quel principio che induce a subordinare qualunque sentimento o norma morale e civile all’interesse, e che domina il mondo dei mercanti e usurai italiani in Borgogna, in cui si svolge la novella: Ciappelletto si risolve ad aiutare i due fratelli fiorentini per uno «spirito di colleganza» o di «omertà» (Getto), e, piuttosto di mettere in pericolo il dominio dei banchieri italiani in quella regione, sceglie in piena coscienza di dannarsi per l’eternità. Tende a conciliare le due interpretazioni opposte Mario Baratto (1970), che parla di «duplice spessore» del racconto: vi è per Ciappelletto un fine concreto da perseguire (la solidarietà
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L’età comunale in Italia
L’atteggiamento dell’autore verso ser Ciappelletto
La celebrazione dell’«industria»
Lo «stupore e orrore»
La canonizzazione del furfante
Testo critico V. Branca
di classe tra mercanti), ma anche una «soddisfazione personale» nel conseguirlo, «l’esecuzione di un grande “numero” di attore». E proprio da questa duplicità di piani la novella ricava per Baratto la sua «sfuggente ambiguità». Egualmente problematico è definire l’atteggiamento di Boccaccio verso questo suo personaggio. Taluni vi hanno colto un tema centrale del Decameron, la celebrazione della «virtù» umana, del «saper vivere», dell’«industria», che sa superare ostacoli e difficoltà con l’intelligenza e l’energia attiva e sa plasmare la realtà secondo la volontà dell’individuo: infatti, con la sua falsa confessione abilmente condotta, Ciappelletto libera i due usurai dall’incubo di incorrere nell’esecrazione di un ambiente ostile e di veder compromessi irreparabilmente gli affari. E questa «virtù» si esercita attraverso un uso abilissimo, magistrale, della parola, altro oggetto di culto da parte di Boccaccio. Questa celebrazione pone tra parentesi ogni giudizio morale: l’autore si concentra esclusivamente sull’intelligenza e sull’energia del personaggio, senza mettere in gioco le norme morali o civili. Secondo altri, invece, la figura di Ciappelletto è circondata da un alone cupo e sinistro. Branca ha parlato di un atteggiamento di «sgomento» da parte di Boccaccio, fatto di «stupore e orrore»; lo scrittore, mentre esalta l’epopea dei mercanti e lo spirito che la muove, avverte anche i limiti e gli aspetti negativi, disumani, di questa «potente e prepotente civiltà». Come si vede, anche per questo aspetto la figura appare altamente problematica, ed è difficile darne una definizione univoca. Di contro all’“eroe” dell’intelligenza si collocano gli anti-eroi: il frate che, seppure per nulla sciocco, resta beffato dalla falsa confessione e il popolo che arriva a venerare Ciappelletto come un santo. Anche questa conclusione della novella, con la canonizzazione del furfante a furor di popolo, ha suscitato diverse interpretazioni. Da molti vi è stato ravvisato lo sguardo beffardo e divertito dello spirito laico e disincantato sulla credulità sciocca del popolo e sulla facilità delle beatificazioni (a riprova, vi è l’analoga irrisione del culto popolare delle reliquie in una novella per molti aspetti simile a questa, quella di frate Cipolla, T16, p. 617). Ma altri, come Branca e Padoan (1964), sostengono che tra il falsario e i devoti apparentemente ingannati sono questi ultimi a ottenere la vittoria finale, perché Dio esaudisce le loro preghiere anche se avanzate attraverso un intermediario indegno come Ciappelletto; e questi, in apparenza vincitore, è in realtà sconfitto, perché diviene strumento di ulteriori trionfi della Chiesa e di Dio. La costruzione narrativa
L’asse sintagmatico
La staticità dei personaggi
La variazione dei punti di vista
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Se il senso del racconto è così problematico, la sua costruzione narrativa appare al contrario limpida e geometrica. Esaminiamo prima il piano della storia sull’asse sintagmatico. Nella fabula si individuano tre nuclei: 1. difficoltà insormontabile (gli effetti negativi della morte di Ciappelletto per gli affari dei due usurai); 2. azione risolutiva (la confessione); 3. difficoltà superata (anche oltre le aspettative, con la canonizzazione di Ciappelletto). A questi tre momenti essenziali è anteposto un preambolo, che è fuori dell’azione vera e propria, ma ne è la premessa: il ritratto iniziale di Ciappelletto per bocca del narratore (sullo spunto della memoria di Musciatto Franzesi). In genere Boccaccio ama costruire dei ritratti di personaggi dinamici, che scaturiscono dalle azioni via via da essi compiute nello svolgimento della vicenda. Qui si ha invece un ritratto statico, in posa. Ma esso perfettamente funzionale all’azione del racconto: è infatti il termine rispetto al quale viene operato il capovolgimento della falsa confessione, che solo in rapporto a quel ritratto iniziale diviene gustosa e godibile. Nella novella ha un grande rilievo la variazione dei punti di vista attraverso cui è presentato l’eroe: 1. Ciappelletto visto dal narratore (e da Musciatto Franzesi); 2. Ciappelletto come è presentato da Ciappelletto stesso, nella confessione; 3. Ciappelletto visto dal frate e dal popolo.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio La legge del capovolgimento
La variazione dei punti di vista fa sì che tutto il discorso narrativo sia retto dalla legge del capovolgimento. Se ne ha un preannuncio già nel ritratto iniziale, in cui l’uomo di piccola statura, pulito ed elegante, si rivela un mostro di malvagità, e il notaio, che dovrebbe essere garante di verità e conciliatore dei dissensi, appare invece promotore di falsità e inimicizie. Ma è nella confessione, dove si impone il punto di vista di Ciappelletto stesso, che avviene il capovolgimento più radicale. Tutte le colpe si rovesciano in virtù: il crapulone dedito al mangiare e al bere diviene severo digiunatore, il sodomita appare castissimo, l’avaro truffatore e ladro si trasforma in benefico e generoso dispensatore di elemosine. Non solo, ma il penitente ad un certo punto capovolge il suo ruolo e giunge a impartire lezioni al suo stesso confessore, quando rimprovera i frati di non rispettare i luoghi consacrati. Nel finale, poi, col trionfo del punto di vista dei frati e del popolo, l’infame diviene santo. Ma, se è vera l’interpretazione di Branca e Padoan, qui avviene l’ultimo, radicale capovolgimento: l’empio bestemmiatore diviene strumento dell’infinita misericordia di Dio.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Dai un titolo ai principali nuclei narrativi della novella, indicati in tabella, secondo l’esempio proposto. nucleo narrativo
Titolo
rr. 1-8
Il.......................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... luogo, il tempo, i personaggi
rr. 18-65
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 81-123
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 124-270
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 271-280
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 281-317
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
rr. 318-331
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
> 2. In riferimento alle righe 124-270, individua i peccati che il protagonista afferma, mentendo, di non aver commesso e i peccati che ammette, ma che poi si rivelano ben poca cosa.
AnALIzzAre
> 3.
Stile Rileggi con attenzione i nuclei narrativi in cui compare la descrizione di ser ciappelletto; in essi si susseguono ben tre diversi punti di vista: individuali e spiega in che senso si possono chiamare in causa, a questo proposito, la figura dell’iperbole e dell’antifrasi, la tecnica del rovesciamento e la parodia. > 4. Lingua Sottolinea nel testo, alle righe 43-65, nel ritratto che il narratore fa del protagonista, la serie dei superlativi che in modo iperbolico ne evidenziano le caratteristiche morali.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 5.
esporre oralmente Dopo aver esaminato la caratterizzazione dei personaggi di Musciatto Franzesi, di ser ciappelletto e dei fratelli che lo ospitano, organizza la scaletta per un’esposizione orale (max 3 minuti) sulla rappresentazione del ceto mercantile che emerge in questa novella. > 6. Scrivere Dopo aver letto con attenzione nell’Analisi del testo le diverse interpretazioni che sono state proposte in merito alla novella, fornisci in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) la tua valutazione personale sul personaggio di ciappelletto e sulle sue azioni.
SCrITTUrA CreATIVA
> 7. A proposito della falsa confessione, Giovanni Getto ha scritto che si tratta della «prima commedia della letteratura italiana», in cui si fronteggiano in una gara virtuosa ser ciappelletto e il «santo frate». trasforma, pertanto, questa scena in un canovaccio per una commedia.
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L’età comunale in Italia
Interpretazioni critiche
Giorgio Padoan Boccaccio e il mondo mercantile: adesione e critica Le pagine del critico puntualizzano con equilibrio l’atteggiamento di Boccaccio verso il mondo mercantile. Nella glorificazione dell’intelligenza Boccaccio mostra aperta adesione alla nuova visione del mondo maturata nell’ambiente borghese comunale. Ma l’adesione è limitata dalla simpatia per il mondo cortese e dalla consapevolezza del declino dell’età eroica dei mercanti. Lo scrittore vede con chiarezza le tragiche conseguenze dell’obbedienza ferrea alla «ragion di mercatura», al puro calcolo dell’interesse (come dimostrano le novelle di ser ciappelletto e di Lisabetta da Messina), che soffoca la religione, la liberalità, i vincoli familiari.
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È il mondo borghese e mercantile che entra a vele spiegate nella letteratura italiana. La realtà economica di Firenze infatti erano i traffici del mondo mercantesco, delle banche e degli affari, i mercanti che dominavano gli empori di tutta Europa. Il ripensamento in sede di storia letteraria degli studi del Sapori1 è stata l’intuizione principale del Branca: quei mercanti, che erano disprezzati da Dante ed ignorati dal Petrarca, sono infatti assunti come protagonisti di non poche novelle, con una intima adesione – al di là dei giudizi sui singoli personaggi – al nuovo costume e alle nuove concezioni fatte trionfare dalla borghesia mercantile, quale non si riscontrerà più nella nostra letteratura. Questo non significa ovviamente che i singoli mercanti siano necessariamente esaltati, né che vi sia consapevole partecipazione dell’autore alle sorti di questa classe, ma piuttosto che la borghesia mercantile diviene essa la protagonista principale del Decameròn, ideologicamente, più ancora che nei personaggi o nei temi: ed è questo un fatto di per sé di eccezionale interesse. Nella glorificazione dell’intelligenza umana il Boccaccio mostra infatti aperta adesione alla nuova visione del mondo e della società maturata nell’ambiente borghese e mercantile; non solo, ma frequenti riflessioni di personaggi decameroniani sono chiaramente rapportabili alla «mentalità economica», al concetto economico dell’utile: «savio» è colui che sa giovarsi della ventura capitatagli, ché «di questo mondo ha ciascuno quanto egli se ne toglie» (V 10, 20); rapporto tra l’uomo e il mondo è l’utilizzazione del reale posta come logica di vita. Mentalità economica che peraltro affiorava già in alcune Rime e nella Fiammetta («così s’usa oggi nel mondo, che ciascuna persona cerca il suo vantaggio, e senza altrui riguardare, quando il truova sel piglia comunque puote»), ma cui l’ambiente fiorentino dà nuove, più precise formulazioni. Questa adesione del Boccaccio è però limitata in parte dalle sue vive simpatie per il mondo aristocratico e cortese e, ancor più, dal fatto che, quando egli scrive, assistiamo al tramonto della grande età dei mercanti fiorentini: alla ricerca appassionata di nuovi mercati da aggiungere al grande impero economico già conquistato subentrava ormai la pigra cautela, il momento della conservazione e quindi dell’inevitabile declino, economico, politico, ideologico. Non solo la nobiltà napoletana ma anche l’alta borghesia fiorentina guardavano con un certo distacco e con una punta di moralistico rimprovero agli eroici pionieri
1. Sapori: Armando Sapori, storico, autore di fondamentali studi di storia economica
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Giorgio Padoan, nel suo fondamentale saggio critico, collegando il Decameron alle dinamiche della società del tempo, coglie nell’opera un momento di crisi dell’età eroica della civiltà mercantile, quella dell’espansione e della conquista dei mercati, a cui segue quella della conservazione e del declino economico e ideologico. Boccaccio registra questa crisi, manifestando un distacco aristocratico dagli aspetti più angusti della mentalità mercantile.
ed in particolare sulla figura del mercante (Studi di storia economica medievale, Sanso-
ni, Firenze 1955; Le marchand italien au Moyen Age, Librairie A. Colin, Paris 1954).
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di quella conquista, che, come tutte le conquiste, era sorta sui sacrifici e sul sangue; e in ciò si affiancavano alla condanna, larvata e puramente platonica, della Chiesa. Da questa precisa situazione e dalla sua particolare sensibilità morale deriva al Boccaccio il ripensamento sulle tragiche conseguenze della ferrea obbedienza alla «ragion di mercatura», cui tutto, moralità ed affetti, doveva essere, nel caso, sacrificato: da ser Ciappelletto ai fratelli della Lisabetta l’autore disegna freddamente questa vittoria del disumano. Il Boccaccio, che sente in pieno – anche se non con chiara consapevolezza critica – e in gran parte accoglie la nuova elaborazione ideologica che la struttura della società comunale ha imposto e il soffio di potente modernità che si sprigiona da quella nuova classe dirigente fiorentina, non si lascia però andare ad adesioni incondizionate, ed esaltazioni o a giustificazioni: egli assume come personaggi questi mercanti che viaggiano da un punto all’altro della terra, ne descrive avventure, mentalità, e mostra anche come la «ragion di mercatura» spinta alle estreme conseguenze finisca con il riconoscere tra uomo e uomo un solo rapporto, quello del nudo interesse, dal momento che il calcolo egoistico spegne i timori della religiosità, soffoca l’entusiasmo cavalleresco, la liberalità e persino i sacri vincoli degli affetti familiari. Solo la speranza d’arricchire dà ai mercanti tanta forza, sì che si spingono in contrade tanto lontane e sconosciute: «Chi farebbe a’ mercatanti lasciare i cari amici e’ figlioli e le propie case, e sopra le navi e per l’alte montagne e per le folte selve non sicuri dagli aguati de’ ladroni, andare, se questa [speranza] non fusse?». Il suo innato senso della misura e della socialità si ribella, alleandosi a quegli ideali cortesi cui aveva sempre guardato con simpatia; e sono anche i tempi nuovi che si fanno sentire. Nelle tarde Esposizioni2 il giudizio su coloro che pensano solo al guadagno – benché si riconosca che, entro certi limiti, il loro lavoro è utile a tutti e quindi lecito (secondo il giudizio di san Tommaso) – si fa più disdegnoso; e tuttavia traspare ancora, nonostante tutto, un certo accento di ammirazione: «Sono adunque alcuni, li quali, non essendo, in tanto disiderio s’accendono di divenir ricchi, che il trapassare l’Alpi e le montagne o’ fiumi e navigando divenire alle nazioni strane3, tirati dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggierissima4 cosa […]. E se questi cotali fossero contenti quando ad alcun convenevole termine pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con onesta fatica e laudevole guadagno, fosse qualche scusa il naturale appetito, il quale abbiamo infisso, d’avere gli troverebbe; ma per ciò che, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio trapassiamo, cioè in soperchio5 volere più che non si conviene» (VI 2, 58-60). Egli dimostra un notevole interesse per gli atteggiamenti di questi mercanti, sempre timorosi del proprio denaro «riguardate con l’occhio della mente quelle [imprese] de’ mercatanti, co’ quali noi continuamente siamo; ogni piccolo movimento ora in Inghilterra, ora in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un’altra, sollicitanto, ricordando, avvisando, li fa scrivere non lettere, ma vilumi6 a’ lor compagni; e inanzi tratto sempre con sospetto l’aportate7 ricevono; ogni vento gli tien sospesi a’ lor navili; né sì piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente non temano delle mercatantie messe in cammino, e quanti sensali parlan loro, tanti fan loro mutare animi e consigli» (III 2, 27). Ma accanto a queste remore moralistiche, già presenti nel Decameròn e che poi divengono più pressanti, è una adesione di fondo al mondo comunale e mercantile, che influì sul Boccaccio in molteplici direzioni, anche ideologiche, e in particolare sul modo di intendere la vita, suggerendogli una visione più spregiudicata e borghese dei rapporti umani. Perciò ben si comprende come il Decameròn fosse assente nelle più ricche librerie del Trecento, e conoscesse invece una straordinaria diffusione extraletteraria tra la borghesia mercantile: il mercante che «nelle pause degli impegni civili o mercanteschi a Firenze a Napoli a Parigi a Bruges a Londra» trasformava se stesso in copista, «per proprio piacere», del capolavoro boccacciano, ne fu il più avido lettore proprio perché poté riconoscervi se stesso e il suo mondo. G. Padoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di G. Boccaccio, in Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Olschki, Firenze 1976 (1964)
2. Esposizioni: l’opera è un commento di Boccaccio ai primi 17 canti dell’Inferno di Dante.
3. strane: straniere. 4. leggierissima: facilissima. 5. soperchio: eccessivo.
6. vilumi: volumi. 7. l’aportate: le lettere che ricevono.
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L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Rispondi ai quesiti facendo riferimento alle righe del testo riportate fra parentesi.
a) Quale aspetto fortemente innovativo presenta il Decameron di Boccaccio rispetto all’opera di Dante e Petrarca (rr. 1-21)? b) Quali limiti presenta l’adesione di Boccaccio al mondo mercantile (rr. 22-30)? c) La tesi del critico si fonda sulla dimostrazione che Boccaccio non può aderire alla «vittoria del disumano» determinata dalla cieca obbedienza alla «ragion di mercatura»: perché (rr. 31-48)? d) Boccaccio, nel suo duplice atteggiamento nei confronti della logica mercantile, in quali opere della sua vasta produzione ne critica apertamente gli eccessi? e quale aspetto particolare di essa accoglie soprattutto nel Decameron (rr. 48-75)?
AnALIzzAre
> 2.
Stile «È il mondo borghese e mercantile che entra a vele spiegate nella letteratura italiana»: quale figura retorica individui nell’espressione sottolineata (r. 1)? In che cosa consiste la sua efficacia? > 3. Lessico Spiega, con l’ausilio del dizionario, l’esatto significato dei seguenti vocaboli e/o espressioni: «empori» (r. 3); «ventura» (r. 16); «conservazione» (r. 26); «remore moralistiche» (r. 67); «spregiudicata» (r. 70). > 4. Lessico Spiega l’espressione «e in ciò si affiancavano alla condanna, larvata e puramente platonica, della chiesa» (rr. 29-30).
APProFondIre e InTerPreTAre
> 5.
esporre oralmente Prova a ricostruire in un’esposizione orale (max 3 minuti) la genesi della profonda conoscenza, da parte di Boccaccio, sia del mondo mercantile, sia dei valori della società cortese: a quale periodo della sua vita puoi far risalire tali acquisizioni?
T5
melchisedech giudeo
Temi chiave
• l’atteggiamento laico nei confronti
dal Decameron, I, 3
delle religioni
Anche questa novella fa parte della prima giornata, ad argomento libero. oltre al tema religioso, vi compaiono due temi particolarmente cari a Boccaccio, quello dell’«industria» e quello della liberalità. La narratrice è Filomena.
• l’«industria» • la liberalità
Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa1 un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.
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[…] Voi dovete, amorose compagne, sapere che, sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette in grandissima miseria, così il senno di grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande ed in sicuro riposo2. E che vero sia che la sciocchezza di buono stato in miseria altrui conduca, per molti esempli si vede, li quali non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo che tutto il dì mille esempli n’appaiano manifesti3: ma che il senno di consolazion sia cagione4, come premisi, per una novelletta mostrerò brievemente.
1. cessa: evita. 2. Voi dovete … riposo: donne amorose, voi dovete sapere che, come la stupidità spesso toglie uno da una condizione felice e lo pone in estrema miseria, così il senno trae il sag-
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gio da grandissimi pericoli e lo mette in una situazione di grande sicurezza e tranquillità. 3. E che … manifesti: e che sia vero che la stupidità conduca qualcuno da una buona condizione alla miseria, si vede attraverso
molti esempi, che non mi curerò ora di raccontare, considerando che ogni giorno mille esempi ci appaiono evidenti. 4. cagione: causa.
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Il Saladino5, il valore del quale fu tanto che non solamente di piccolo uomo6 il fe’ di Babillonia7 soldano8, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre ed in grandissime sue magnificenze9 speso tutto il suo tesoro, e per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di denari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano avergli potesse10, gli venne a memoria11 un ricco giudeo il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria; e pensossi, costui avere da poterlo servire12, quando volesse, ma sì era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivòltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s’avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata13. E fattolsi chiamare e famigliarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse: – Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti14; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi15 tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina16 o la cristiana. – Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una che l’altro lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione17; per che, come colui il qual pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse; e disse: – Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella, ed a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete. Se io non erro18, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello19 bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore ed in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come maggiore onorato e riverito20. E colui al quale da costui fu lasciato tenne simigliante ordine ne’ suoi discendenti21, e così fece come fatto avea il suo predecessore. Ed in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori, ed ultimamente pervenne alle mani ad uno il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. Ed i giovani, li quali la consuetudine dell’anello sapevano, sì come vaghi ciascuno d’essere il più onorato tra’ suoi, ciascun per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che quando a
5. Il Saladino: Salah ad-din (1138-93), sultano del Cairo, riconquistò nel 1187 Gerusalemme presa dai cristiani nella Prima crociata. Godette fama di magnanimità e generosità nella letteratura e nella fantasia popolare dell’Occidente. 6. piccolo uomo: uomo di bassa condizione. 7. Babillonia: il Cairo. 8. soldano: sultano. 9. magnificenze: lussi. 10. né veggendo … potesse: né vedendo da dove potesse ricavarli così rapidamente come ne aveva necessità. 11. gli venne a memoria: è la proposizione principale, dopo la lunga serie di subordinate, una relativa (il valore del quale fu tanto), due consecutive dipendenti da essa (che… il fé … gli fece avere) e tre gerundi (avendo … speso, bisognandoli, né veggendo);
si ricordi che il soggetto, all’inizio del periodo, era Il Saladino: quindi si ha un cambio di soggetto, cioè un anacoluto. Il complesso periodo riproduce il groviglio di difficoltà in cui si dibatte il sultano. 12. e pensossi … servire: e pensò che costui aveva (le somme necessarie) per poter soddisfare le sue esigenze. 13. s’avvisò … colorata: gli venne l’idea di fargli una violenza che avesse una qualche apparenza di ragione. 14. nelle cose … avanti: sei molto addentro nella conoscenza delle questioni religiose. 15. leggi: religioni 16. saracina: musulmana. 17. s’avvisò … intenzione: capì sin troppo bene che il Saladino mirava a coglierlo in fallo nelle parole (che avrebbe usato nella risposta), per poi muovergli qualche contestazione,
e pensò di non poter lodare nessuna di queste tre (religioni) più delle altre, senza che il Saladino non raggiungesse il suo scopo (cioè appunto di coglierlo in fallo per punirlo). 18. Se … erro: se la memoria non mi inganna. 19. il quale … uno anello: un altro anacoluto. L’anello nel Medioevo era simbolo di autorità. 20. ordinò … riverito: ordinò che quello dei suoi figli presso (appo) cui questo anello fosse stato trovato come lasciatogli da lui, fosse considerato suo erede e dovesse essere onorato e riverito da tutti gli altri figli come il maggiore. 21. tenne … discendenti: ribadì lo stesso ordine per i suoi discendenti.
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morte venisse a lui quello anello lasciasse22. Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere23 a quale più tosto lasciar sel dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente ad un buon maestro24 ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli aveva fare appena conosceva qual si fosse il vero; e venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno l’eredità e l’onore occupare25, e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual di costoro fosse il vero erede del padre, in pendente26, ed ancor pende27. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli28 date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge ed i suoi comandamenti dirittamente29 si crede avere e fare; ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione. – Il Saladino conobbe, costui ottimamente esser30 saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva, e per ciò dispose d’aprirgli31 il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente32, come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladino il richiese il servì, ed il Saladino poi interamente il sodisfece33, ed oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe ed in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.
22. i giovani … lasciasse: i giovani conoscevano la tradizione familiare dell’anello, e ciascuno era desideroso di essere il più onorato tra i suoi fratelli; perciò ciascuno pregava come meglio sapeva per sé il padre, che era già vecchio, che quando morisse lasciasse a lui quell’anello. Anche qui si nota un anacoluto: la frase comincia con il soggetto plurale i giovani, per poi passare al sin-
golare (ciascun … pregava). 23. eleggere: scegliere. 24. maestro: abile artigiano, orafo. 25. occupare: accaparrarsi. 26. si rimase… pendente: rimase aperta. 27. pende: è ancora incerta, non risolta. 28. tre popoli: il cristiano, l’ebraico e il musulmano. 29. dirittamente: a buon diritto.
30. costui … esser: la costruzione con l’infinito è modellata sul latino. 31. aprirgli: rivelargli. 32. discretamente: con tanto discernimento, saggiamente. 33. liberamente … sodisfece: generosamente fornì al Saladino ogni somma che gli aveva richiesta, e il Saladino poi gli restituì tutto.
Analisi del testo Le tre religioni monoteiste
L’apertura culturale
Le attuali tendenze ecumeniche
PASSATo e PreSenTe
La novella tocca un motivo diffuso nella cultura del Medioevo, in Italia già trattato prima di Boccaccio nel Novellino ( cap. 3, T3, p. 188). In contrasto con un tipo di religiosità medievale dogmatica e fondamentalista, il motivo rivela una notevole apertura culturale: non si afferma la superiorità di una delle tre religioni monoteiste sulle altre, ritenute false, ma si riconosce che ciascuna di esse a buon diritto può ritenere di essere quella vera, e che la questione resta aperta, senza possibili soluzioni in qualsiasi senso. In Boccaccio si constata un atteggiamento più “laico” e relativistico rispetto al testo corrispondente del Novellino, dove si afferma che, anche se ciascuna religione crede di essere la buona, vi è certamente una religione migliore delle altre, ma solo Dio sa qual è. Se si pensa alle discriminazioni e alle persecuzioni che la cristianità per secoli ha inflitto agli ebrei, e agli scontri sanguinosi tra popoli cristiani e musulmani, che ancora oggi dopo tanto tempo dalle Crociate fanno vittime, la concezione boccacciana appare in sintonia con le concezioni moderne e anticipatrice delle attuali tendenze ecumeniche all’abbraccio fra le varie religioni. Il tema dell’«industria»
La novella presenta però altri temi particolarmente cari a Boccaccio: innanzitutto quello dell’«industria», che già viene messo in evidenza nell’esordio della narratrice, Filomena, dove si celebra il «senno» che consente di scampare ai pericoli e garantisce al saggio si542
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio La saggezza del vecchio
curezza e tranquillità. Lo svolgimento del racconto conferma questa affermazione di principio, in quanto il vecchio ebreo capisce immediatamente il tranello che il Saladino gli sta tendendo e riesce a sottrarsi alla situazione per lui pericolosa grazie all’accortezza e alla prontezza della sua risposta. Ma a sua volta anche il Saladino aveva mostrato «industria» nel suo piano per indurre Melchisedech a fornire il denaro senza fargli aperta violenza. Vi è insomma tra i due una gara di accortezza, in cui l’ebreo riesce vincitore. La liberalità
Magnanimità dei due personaggi
Si presenta poi anche un altro tema da Boccaccio prediletto, quello della liberalità: Melchisedech, una volta apprese le esigenze del sultano, gli fornisce di buon grado la somma necessaria, smentendo la fama di avaro che lo circondava; a sua volta il Saladino si conferma il magnanimo signore che la leggenda celebrava, poiché, oltre a restituire correttamente la somma prestata, mostra di riconoscere il valore dell’ebreo, colmandolo di doni, considerandolo amico e tenendolo poi sempre in grande onore. La struttura narrativa
Le scatole cinesi
Interessante è anche la struttura della novella, che presenta (come già il testo del Novellino) una tecnica narrativa a scatole cinesi, in quanto vi è un racconto inserito in un altro racconto: per cui Melchisedech, che è personaggio in quello di primo livello, diviene narratore in quello di secondo. Si può ancora notare il tono “parlato” del racconto del vecchio ebreo, come indicano gli anacoluti, le riprese e le ripetizioni di formule, che hanno il compito di mettere in rilievo i punti salienti.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quali motivi inducono il Saladino a convocare presso di sé il ricco giudeo Melchisedech? > 2. Sintetizza in non più di 10-12 righe (600 caratteri) il contenuto della novella dei tre anelli raccontata da Melchisedech.
AnALIzzAre
> 3.
narratologia evidenzia, anche attraverso l’elaborazione di una mappa concettuale (o schema o tabella), quella che vittore Branca definisce tecnica narrativa «a scatola cinese» («metanovella», ovvero una novella dentro un’altra novella) messa in atto da Boccaccio, individuando nel testo e fuori del testo i passaggi significativi. > 4. Lessico Individua nel testo vocaboli ed espressioni che attestano la buona fama di Melchisedech e l’atteggiamento di cortesia e liberalità del Saladino nei suoi confronti. > 5. Lingua Individua, nel passo conclusivo («Il Saladino conobbe … appresso di sé il mantenne») le forme di superlativo e le ripetizioni spiegandone la funzione.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 6.
esporre oralmente Il valore della parola come fondamento di civiltà: come si ricollega questo tema – fra i centrali della novella – all’impianto strutturale e tematico del Decameron? esponi oralmente (max 5 minuti). > 7. Testi a confronto: scrivere In un testo di circa 25 righe (1250 caratteri) confronta la novella con Come il soldano volle coglier cagione a un giudeo (Novellino, LXXIII, cap. 3, T3, p. 188), delineando eventuali analogie e differenze nei contenuti e nella struttura del racconto.
Per IL PoTenzIAmenTo
> 8.
Contesto: storia Il nucleo centrale della novella, la parabola dell’ebreo savio, che ebbe grande diffusione nel Medioevo e nell’età moderna, è presente nella tradizione precedente a Boccaccio (ad esempio, in Novellino LXXIII, cap. 3, T3, p. 188). con l’aiuto del docente di storia prova a delineare il quadro relativo alla presenza degli ebrei in Italia e in europa nel trecento.
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L’età comunale in Italia
L e t t e r a t u r a e Economia
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Landolfo rufolo dal Decameron, II, 4
Testo e realtà
La novella, di carattere avventuroso, fa parte della seconda giornata, in cui si narra di chi, colpito da difficoltà di vario genere, è riuscito ad arrivare a un lieto fine. Il tema centrale è la Fortuna, lo scenario soprattutto marino. La narratrice è Lauretta.
Il testo rappresenta efficacemente il complesso e dinamico rapporto fra lo spirito imprenditoriale del mercante medievale e i fortuiti imprevisti di un caso in grado di sovvertire qualsiasi progetto.
Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale1 e da’ genovesi preso rompe in mare2 e sopra una cassetta di gioie carissime piena scampa3; e in Gurfo4 ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua. 5
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[...] Credesi che la marina5 da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri6. Tralle quali cittadette n’è una chiamata Ravello7, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di radoppiarla, venne presso che fatto di perder8 con tutta quella se stesso. Costui adunque, sì come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi9, comperò un grandissimo legno10 e quello tutto, di suoi denari11, caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri12. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti13; per la qual cagione non solamente gli convenne far gran mercato14 di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via15: laonde egli fu vicino al disertarsi16. E portando egli di
1. corsale: corsaro, pirata. 2. rompe in mare: fa naufragio. 3. sopra … scampa: trova scampo aggrappandosi ad uno scrigno pieno di preziosi gioielli. 4. Gurfo: Corfù. 5. la marina: il litorale. 6. procaccianti … altri: abili nel commercio come pochissimi altri. 7. Ravello: località della costa amalfitana
nella quale è storicamente accertata la presenza della famiglia Rufolo, un membro della quale, Lorenzo, nel 1291 subì, al pari di Landolfo, i contraccolpi della Fortuna, fu corsaro e morì prigioniero. 8. venne … perder: capita di perdere. 9. fatti suoi avvisi: fatti i suoi calcoli. 10. legno: nave. 11. di suoi denari: a proprie spese.
12. Cipri: Cipro. 13. Quivi … venuti: qui trovò che erano venute parecchie altre navi con le stesse qualità di merci che egli aveva portate. 14. far gran mercato: vendere a prezzi molto ribassati. 15. gliele convenne gittar via: gli convenne gettare via. 16. al disertarsi: a rovinarsi.
Pesare le parole Disertarsi (r. 17) Viene dal latino tardo desertàre, rafforzativo di desèrere, “abbandonare”. Il senso che ha qui il verbo, “mandare in rovina”, non è più in uso. Il senso più comune oggi, nella forma transitiva disertare qualcosa, è “abbandonare” (es. gli spettatori disertano le sale cinematografiche). In forma intransitiva significa “abbandonare il reparto in cui si presta il
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servizio militare”; è usato anche in senso figurato, per “abbandonare una causa, un’idea, un partito” (es. dopo anni di militanza nel partito ha disertato). In questo senso il sinonimo è tradire, dal latino tràdere, “consegnare”: il senso viene dal racconto evangelico, in cui Giuda consegna Gesù agli armati che lo imprigionano.
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questa cosa seco gravissima noia17, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi18, acciò che là onde ricco partito s’era povero non tornasse19. E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare20 e quello d’ogni cosa oportuna a tal servigio armò e guernì21 ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo e massimamente sopra i turchi22. Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantia23 stata non era. Egli, forse infra uno anno24, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto ma di gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato25 dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo26 a se medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare27: e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia28, non s’impacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’ remi in acqua, si mise al ritornare. E già nell’Arcipelago29 venuto, levandosi la sera uno scilocco30, il quale non solamente era contrario al suo cammino ma ancora faceva grossissimo il mare31, il quale il suo picciolo legno non avrebbe bene potuto comportare32, in uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva da quello vento coperto, si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore33. Nel quale seno poco stante34 due gran cocche35 di genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggir quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero; le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci a doverlo aver si disposero36. E messa in terra parte della lor gente con balestra37 e bene armata, in parte la fecero andare che de’ legnetto neuna persona, se saettato esser non volea, poteva discendere38; e essi, fattisi tirare a’ paliscalmi39 e aiutati dal mare, s’accostarono al picciol legno di Landolfo e quello con piccola fatica in picciolo spazio40, con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man salva41: e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono42 lui in un povero farsettino ritenendo43. Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver Ponente vegnendo fer44 vela e tutto quel dì prosperamente vennero al lor viaggio; ma nel fare della sera si mise45 un vento tempestoso, il qual facendo i mari46 altissimi divise le due cocche l’una dall’altra.
17. gravissima noia: grande dolore. 18. rubando … suoi: divenendo pirata risarcire le sue perdite. 19. acciò … tornasse: per non tornare povero da dove era partito ricco. 20. da corseggiare: per compiere incursioni piratesche. 21. guernì: attrezzò. 22. diessi … turchi: e si diede a depredare i beni di tutti ed in particolare quelli contenuti sulle imbarcazioni turche. 23. mercatantia: commercio. 24. infra uno anno: in un anno. 25. gastigato: ammaestrato. 26. per non … secondo: per non dover subire una seconda disgrazia. 27. a se … bastare: volle persuadersi che doveva bastargli quello che aveva, senza pretendere di più. 28. pauroso … mercatantia: avendo ormai paura del commercio.
29. nell’Arcipelago: tra le isole dell’arcipelago Egeo. 30. scilocco: scirocco, vento caldo e umido proveniente da sud-est. 31. faceva … mare: rendeva il mare molto agitato. 32. comportare: sopportare, affrontare. 33. in uno seno … migliore: si ritirò in un golfo, che una piccola isola proteggeva da quel vento, proponendosi di attendere lì un vento più propizio. 34. poco stante: poco lontano. 35. due gran cocche: navi ad un albero, con vela latina, con prua e poppa assai elevate sulla superficie del mare. 36. le genti … disposero: gli equipaggi delle quali, vista la navicella e chiusagli la via per cui poteva allontanarsi, udendo a chi apparteneva e sapendo per fama che era ricchissimo, si prepararono a conquistarla, essendo uomini per natura avidi di denaro e rapaci.
37. con balestra: arma da lancio (vale come plurale). 38. in parte … discendere: la collocarono in posizione tale che dalla piccola nave (di Landolfo) nessuno poteva scendere, se non voleva essere colpito dalle frecce. 39. paliscalmi: grosse imbarcazioni a vela o a remi per lo più al servizio di un bastimento (del greco polýskalmos, dai molti remi). 40. in picciolo spazio: in breve tempo. 41. ebbero a man salva: presero senza colpo ferire. 42. sfondolarono: colarono a picco. 43. lui … ritenendo: facendolo prigioniero vestito solo di un farsetto. 44. fer: fecero. 45. si mise: si levò. 46. i mari: i marosi, le onde del mare in tempesta.
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E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia47 percosse in una secca48, e non altramenti che un vetro percosso a un muro tutta s’aperse e si stritolò: di che i miseri dolenti49 che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano50 e di casse e di tavole, come in così fatti casi suole avvenire, quantunque obscurissima notte fosse e il mare grossissimo e gonfiato, notando quegli che notar sapevano51, s’incominciarono a appiccare a quelle cose che per ventura lor si paravan davanti52. Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea53, vedendola presta54 n’ebbe paura: e, come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s’apiccò, se forse Idio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo55; e a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale veduto, guardandosi egli da torno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea e una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo non56 quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse57; e sempre che presso gli venia, quando potea con mano, come che poca forza n’avesse, la lontanava. Ma come che58 il fatto s’andasse, adivenne che solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare sì grande in questa cassa diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo lasciatala andò sotto l’onde e ritornò suso notando59, più da paura che da forza aiutato, e vide da sé molto dilungata60 la tavola: per che, temendo non potere a essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, con le braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non aveva che61, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente. Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che ’l facesse, costui divenuto quasi una spugna62, tenendo forte con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando prendono alcuna cosa63, pervenne al lito dell’isola di Gurfo64, dove una povera feminetta per ventura65 suoi stovigli66 con la rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma67, dubitando68 e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare69 e poco vedea, e per ciò niente le disse; ma pur, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente70
47. Cifalonia: Cefalonia, isola dello Ionio. 48. percosse in una secca: si arenò su una secca. 49. i miseri dolenti: quei poveretti. 50. notavano: galleggiavano. 51. notando … sapevano: nuotando coloro che sapevano nuotare. 52. s’incominciarono … davanti: cominciarono ad aggrapparsi a quegli oggetti che per caso si paravano loro davanti. 53. ancora che … si vedea: benché il giorno precedente avesse invocato più volte la morte, scegliendo fra sé di voler morire piuttosto che tornare a casa sua povero come si vedeva ridotto. 54. vedendola presta: vedendosela davanti.
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55. se forse … allo scampo suo: nella speranza che Dio, mentre egli tentava di rinviare l’annegamento, gli mandasse qualche aiuto per la sua salvezza. 56. temendo non: temendo che. 57. gli noiasse: gli recasse danno. 58. come che: benché. 59. solutosi … notando: scatenatosi all’improvviso un colpo di vento e avendo investito il mare, questo urtò con tanta violenza la cassa, e la cassa con tanta forza colpì la tavola su cui si trovava Landolfo, che, rovesciatala, Landolfo, costretto ad abbandonarla, andò sotto le onde e tornò a galla nuotando. 60. dilungata: allontanata. 61. che: di che cibarsi.
62. divenuto … una spugna: imbevuto d’acqua come una spugna. 63. tenendo … cosa: tenendo forte con entrambe le mani i bordi della cassa come vediamo fare a coloro che stanno per affogare quando afferrano qualche cosa. 64. isola di Gurfo: isola di Corfù. 65. per ventura: per caso. 66. suoi stovigli: vasellame da tavola e da cucina. 67. non conoscendo … forma: non riconoscendo in lui alcuna forma umana (Landolfo è gonfio d’acqua salsa). 68. dubitando: temendo e diffidando. 69. favellare: parlare. 70. più sottilmente: con più attenzione.
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guardando e vedendo conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravisò la faccia e quello esser che era s’immaginò71. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare72, che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa73 il tirò in terra e quivi, con fatica le mani dalla cassa sviluppategli74 e quella posta in capo a una sua figlioletta che con lei era, lui come un piccol fanciullo ne portò nella terra75: e in una stufa76 messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze. E quando tempo le parve trattonelo77, con alquanto di buon vino e di confetto78 il riconfortò, e alcun giorno79 come poté il meglio il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe là dove era80. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la qual salvata gli avea, e di dirgli che ormai procacciasse sua ventura81; e così fece. Costui, che di cassa82 non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere, che alcun dì non gli facesse le spese83; e trovandola molto leggiera assai mancò della sua speranza84. Nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò85 per vedere che dentro vi fosse: e trovò in quella molte preziose pietre e legate e sciolte86, delle quali egli alquanto s’intendea: le quali veggendo e di gran valor conoscendole, lodando Idio che ancora abbandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò. Ma sì come colui che in piccol tempo fieramente era stato balestrato87 dalla fortuna due volte, dubitando della terza88, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere89 a casa sua: per che in alcuni stracci, come meglio poté, ravoltele90, disse alla buona femina che più di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella91. La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori92 del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì; e montato sopra una barca passò a Brandizio93, e di quindi, marina marina94, si condusse infino a Trani, dove trovati de’ suoi cittadini, li quali eran drappieri95, quasi per l’amore di Dio fu da lor rivestito, avendo esso già loro tutti li suoi accidenti narrati fuori che della cassa; e oltre a questo prestatogli cavallo e datagli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto96 diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Idio che condotto ve lo avea, sciolse il suo sacchetto: e con più diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea97, trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno98, egli era il doppio più ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciar99 le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito100 del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; e il rimanente, senza più voler mercatare, si ritenne, e onorevolemente visse infino alla fine.
71. e quello … s’immaginò: immaginò che fosse quello che era, un naufrago. 72. fattasi … mare: inoltratasi un po’ fra le onde. 73. con tutta la cassa: insieme alla cassa. 74. sviluppategli: staccategli. 75. ne portò nella terra: lo portò nel villaggio. 76. in una stufa: in un bagno caldo. 77. trattonelo: tiratolo fuori. 78. di confetto: dolci. 79. alcun giorno: qualche giorno. 80. conobbe … era: riconobbe il luogo dove si trovava. 81. che ormai … ventura: che ormai an-
dasse per la sua strada. 82. di cassa: della cassa. 83. avvisando … spese: pensando che essa non potesse avere così poco valore, che non gli fornisse di che mantenersi per qualche giorno. 84. assai … speranza: gran parte della sua speranza svanì. 85. la sconficcò: ne schiodò il coperchio. 86. legate e sciolte: unite a formare monili o sciolte. 87. balestrato: bersagliato. 88. dubitando della terza: temendo che la fortuna lo colpisse una terza volta. 89. poter conducere: portare. 90. ravoltele: avvolti i gioielli.
91. avessesi quella: e si tenesse quella (la cassa). 92. rendutele … maggiori: resile i maggiori ringraziamenti che poteva. 93. Brandizio: Brindisi. 94. di quindi … marina: e di qui, lungo il litorale. 95. drappieri: mercanti di tessuti. 96. del tutto: assolutamente. 97. con più … avea: esaminata ogni cosa con più cura di quanto non avesse fatto prima. 98. a convenevole … meno: a prezzo adeguato o anche a meno. 99. spacciar: vendere. 100. per merito: in ricompensa.
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L’età comunale in Italia
Analisi del testo
> La «virtù» del mercante
L’intraprendenza dinamica
Il calcolo accorto La mancanza di scrupoli
Come è consueto nella seconda giornata, al centro di questa novella vi è il conflitto tra «virtù» umana e Fortuna, che è uno dei grandi temi del Decameron. La «virtù» dell’eroe assume le forme tipiche del mondo dei mercanti: Landolfo Rufolo è uno degli esponenti più significativi di quella «epopea mercantile» che, come ha insegnato Vittore Branca, viene celebrata nel Decameron. Della mentalità del mercante Landolfo presenta i tratti caratterizzanti: 1. l’intraprendenza e il dinamismo: pur essendo già ricchissimo, non si accontenta di ciò che ha e mira a raddoppiare i suoi averi; vuole cioè far fruttare le sue ricchezze, investendole in attività che diano guadagni. È il meccanismo tipico dell’economia capitalistica: l’investimento di capitale (D) in merci (M) per ottenere un profitto (D1, che deve essere maggiore di D). Il processo è continuo, inarrestabile: il denaro guadagnato deve essere continuamente reinvestito, in una progressione all’infinito (D → M → D1 > D; D1 → M1 → D2 > D1…). Questa mentalità dinamica è opposta a quella statica del mondo nobiliare feudale, che mira solo al consumo, allo sperpero improduttivo di beni acquisiti parassitariamente con le rendite dei possedimenti terrieri; 2. il calcolo accorto, prima di compiere l’investimento («fatti suoi avvisi» r. 12). Il mercante non agisce a caso, d’impulso, ma valuta tutti i fattori in gioco, per dominare perfettamente la realtà e ridurre al minimo l’imprevisto e il rischio; 3. La mancanza di scrupoli: per riottenere ciò che ha perso, Landolfo è disposto a ricorrere anche alla pirateria (caso storicamente non infrequente). Il denaro è fine supremo, superiore alle leggi morali, a qualunque altro valore, tra cui la stessa vita (Landolfo preferirebbe morire piuttosto che tornare a casa povero). È questa la «ragion di mercatura», già vista a proposito di ser Ciappelletto; e Boccaccio, come è facile constatare, non manifesta alcuna riprovazione morale per il comportamento di Landolfo: mette tra parentesi il giudizio morale, considerando solo la «virtù» dell’eroe in se stessa.
> La Fortuna e il mondo mercantile
A questa «virtù» umana si contrappone, nella novella, un’altra grande forza, la Fortuna, vale a dire il caso. Anch’essa, come l’«industria» dell’uomo, è un motivo strettamente legato alla civiltà mercantile. Ed è facile capirne la ragione: il mercante dà tanto rilievo alla Landolfo imbarca i suoi tesori; Landolfo, naufragato, aggrappato a una cassa, viene salvato da una lavandaia di Corfù, 1430-50, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice 5070, Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
La concezione laica della Fortuna
La metafora del mare
Andreuccio e il ruolo attivo della «virtù»
Landolfo e il prevalere della Fortuna
La rinuncia alla mercatura
I tre segmenti fondamentali I tre diversi ritmi narrativi
La focalizzazione interna
Fortuna perché, nelle sue iniziative, deve sempre fare i conti con l’imprevisto, con il caso fortuito, che lo può favorire ma può anche contrastare o addirittura sconvolgere le sue previsioni e i suoi calcoli più attenti. Della Fortuna il mondo mercantile ha una concezione essenzialmente laica, e Boccaccio la riflette fedelmente. Se per la concezione cristiano-medievale la Fortuna è sottoposta alla volontà di Dio, che regola gli eventi umani secondo il suo piano provvidenziale, per Boccaccio la Fortuna è solo un complesso accidentale di casi fortuiti, oggettivo e impersonale, non regolato da alcuna volontà. Nel mondo boccacciano abitualmente si manifesta attraverso due strumenti, la natura e la società (in questo caso rappresentate rispettivamente dalla tempesta e dai genovesi). La Fortuna, nella novella, si concreta nella grande metafora del mare, che con i suoi mutamenti capricciosi e improvvisi ben può diventare simbolo dei capricci del caso. La Fortuna infatti può essere buona o cattiva, favorevole o contraria. Contrasta Landolfo quando va a Cipro a vendere le sue merci, lo favorisce quando diviene pirata, lo colpisce di nuovo facendogli incontrare i genovesi, lo aiuta infine mandandogli la cassa piena di gioielli. In altre novelle, come quella di Andreuccio che segue immediatamente nella stessa giornata, nel confronto con la Fortuna, la «virtù» umana gioca un ruolo rilevante, attivo. La Fortuna da sola non basterebbe a risolvere gli eventi se la «virtù» dell’uomo non fosse pronta e abile nel cogliere le opportunità che le vengono offerte (Andreuccio per uscire dal sepolcro approfitta del coperchio fortunatamente aperto dalla seconda brigata di ladri, ricorrendo alla trovata geniale di spaventare il prete tirandolo per le gambe). In questa novella invece, anche se Landolfo si dimostra molto accorto nei suoi calcoli ed energico nel contrastare gli imprevisti, la Fortuna appare più forte e l’azione umana risulta scarsamente incisiva. Due volte l’«industria» è sconfitta dal capriccio della Fortuna, sia nell’impresa commerciale di Cipro sia nella pirateria, in quanto in entrambi i casi senza sua colpa Landolfo si trova privato di tutte le sue ricchezze. Nel finale, poi, è solo la Fortuna che determina il successo di Landolfo, senza alcun apporto attivo della sua «virtù». Egli anzi, ignaro, tende a respingere la cassa che sarà la fonte della sua nuova ricchezza. La «virtù» di Landolfo si manifesta solo in misura negativa: se non concorre all’acquisto delle ricchezze, contribuisce almeno alla loro difesa, con la prudenza estrema del comportamento dell’eroe, che tiene celato a tutti, sia alla donna che l’ha salvato sia agli amici incontrati a Trani, il contenuto della cassa. Nella conclusione, a sancire quasi una resa della «virtù» alla Fortuna, Landolfo rinuncia al rischio mercantile, interrompe la catena infinita dell’investimento capitalistico e si accontenta di quello che ha. Non era raro in effetti che i mercanti, messa insieme una cospicua ricchezza, preferissero ritirarsi dall’attività, per non sottostare più ai suoi continui imprevisti, e investissero nella terra, più sicura e meno sottoposta a rischi che la mercatura.
> La costruzione narrativa
Per quanto concerne la costruzione narrativa della novella, si possono individuare tre segmenti fondamentali: 1. la sfortunata impresa di Cipro e la pirateria fortunata; 2. la tempesta e l’incontro con i genovesi; 3. il naufragio, la salvezza e la nuova ricchezza. Ai tre segmenti corrispondono tre diversi ritmi narrativi. Nel primo segmento la narrazione è rapida e riassuntiva, cioè il tempo del discorso (TD) è minore del tempo della storia (TS); nel secondo è ancora riassuntiva ma già più lenta, nel terzo si può dire che TD sia uguale a TS e vi è una rappresentazione assimilabile alla scena. È il momento avventurosamente più interessante, su cui più si concentra l’attenzione del narratore. In questa ultima sezione si può notare anche un embrionale processo di focalizzazione interna del racconto La novella è narrata da un narratore eterodiegetico onnisciente, che si colloca all’esterno rispetto ai fatti, ma qui tendiamo a vedere la scena con gli occhi stessi dell’eroe naufrago, condividendo le sue preoccupazioni e paure. La prova è che non ci viene rivelato subito ciò che contiene la cassa: sappiamo solo ciò che può vedere e sapere il personaggio. 549
L’età comunale in Italia
Focalizzazione e capriccio della Fortuna
Lo spazio
La focalizzazione sul suo punto di vista crea un effetto di sospensione e poi, quando Landolfo apre finalmente la cassa, di sorpresa. Il procedimento della focalizzazione, facendo vivere dall’interno al lettore il meccanismo dell’imprevisto, vale quindi a sottolineare il capriccio imprevedibile della Fortuna, che sta manifestando tutta la sua potenza: l’impianto narrativo è perfettamente rispondente al nucleo tematico della novella. Lo spazio narrativo risulta molto ampio. La vastità di orizzonti è anch’essa funzionale allo svolgimento del tema della Fortuna: il mutare degli scenari asseconda il mutare del caso, che sballotta l’eroe qua e là per il Mediterraneo, alternando sventure ed eventi felici.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Dove è ambientata la vicenda? > 2. Da quale desiderio del protagonista prende avvio la storia? AnALIzzAre
> 3.
narratologia Rintraccia e sottolinea, all’inizio della narrazione (rr. 4-37), pensieri, risoluzioni e movenze tipiche della mentalità mercantile (l’avvedutezza, l’intraprendenza, la mancanza di scrupoli, lo spirito d’iniziativa), come emergono nelle azioni di Landolfo Rufolo in risposta ai colpi della Fortuna. > 4. narratologia Dividi la narrazione in sette microsequenze, assegnando a ognuna un titolo da cui emerga quando la Fortuna è favorevole e quando avversa al protagonista, secondo l’esempio proposto.
Sequenza
Titolo
rr. 4-17
Ilv ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................ viaggio a cipro e la sfortunata impresa commerciale ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ................................................................................................................................................................................................................................................................................................................... ...................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
> 5. > 6.
che cosa rappresenta nella novella il mare? Nella novella la Fortuna svolge il ruolo di antagonista; la sorte, l’imprevisto, il caso irrompono nella vicenda e sconvolgono i piani del mercante: sottolinea nel testo l’occorrenza del termine «fortuna» e delle sue varianti lessicali. Stile
Lessico
APProFondIre e InTerPreTAre
> 7.
esporre oralmente L’interesse predominante di Boccaccio per l’agire dell’uomo condiziona le modalità di rappresentazione di luoghi e personaggi ( Gli oggetti e l’azione umana, p. 511): illustra queste scelte narrative con opportuni riferimenti esemplificativi al testo in un’esposizione orale (max 3 minuti). > 8. Competenze digitali Avvalendoti delle risorse della rete, ricostruisci su una mappa geografica del Mediterraneo orientale le tappe dell’“odissea mercantile“ di Landolfo. PASSATo e PreSenTe Avidità e senso della misura
> 9. Alla fine della novella, il protagonista sembra riappropriarsi, come uomo, del senso della misura: messa da
parte l’avidità e il desiderio di guadagno ad ogni costo, si accontenta di ciò che ha e, senza più esercitare la rischiosa arte del mercante, si ritira a vivere dignitosamente nella sua amata Ravello. che cosa vuol dire, oggi, avere il senso della misura, accontentarsi? Di che cosa si può benissimo fare a meno? come si può “rallentare” o “frenare” un ritmo di vita che ha raggiunto livelli vertiginosi? Di che cosa ha davvero bisogno l’uomo contemporaneo? Discutine in classe con i compagni.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi interattiva
T7
Andreuccio da Perugia
Temi chiave
• il percorso formativo del protagonista • il ruolo della Fortuna e dell’azione
dal Decameron, II, 5
umana Anche questa novella, di carattere avventuroso, fa parte della seconda giornata, in cui si narra di chi, colpito da difficoltà di vario genere, è riuscito ad arrivare a un lieto fine. L’ambientazione è cittadina, una Napoli insidiosa e notturna. Al tema della Fortuna si affianca quello dell’«industria» umana. La narratrice è Fiammetta.
Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua. Audio
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[…] Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone1 di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli2, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più3 fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne4, né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto5 più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. E in questi trattati6 stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana7 bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo8, senza vederla egli9, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre. Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere10. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì11: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza12 della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse e donde e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale13 ogni cosa così particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco14 detto egli stesso, sì come colei che15 lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse16 e perché venuto fosse. La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi17, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione18; e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella19, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava.
1. cozzone: mediatore, sensale. 2. era … cavalli: c’era un fiorente mercato di cavalli. 3. mai più: mai prima. 4. e di più … tenne: ed entrò in trattative per acquistare numerosi cavalli. 5. sì come … cauto: inesperto e imprudente. 6. trattati: trattative di compravendita. 7. ciciliana: siciliana. La Sicilia era infatti detta Cicilia.
8. ma disposta … uomo: ma disposta a darsi a qualunque uomo a poco prezzo (pregio). Si tratta di una prostituta. 9. senza … egli: senza che egli la vedesse. 10. da una delle parti … attendere: cominciò ad osservarla stando in disparte. 11. senza … partì: senza indugiare in troppo lunghi discorsi, si allontanò. 12. contezza: familiarità derivante dalla conoscenza.
13. La quale: si tratta della vecchia. 14. per poco: quasi. 15. sì come … che: poiché. 16. dove tornasse: dove abitasse. 17. de’ nomi: i nomi dei familiari di Andreuccio. 18. al suo appetito … intenzione: per soddisfare la sua brama con un sottile accorgimento, fondò sulle informazioni ottenute (sopra questo) il suo disegno (intenzione). 19. fanticella: servetta.
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La qual, quivi venuta, per ventura20 lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò21. Alla quale dicendole egli che era desso22, essa, tiratolo da parte, disse: «Messere, una gentil donna di questa terra23, quando vi piacesse, vi parleria volentieri». Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona24, s’avvisò25 questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli26, e prestamente rispose che era apparecchiato27 e domandolla dove e quando questa donna parlar gli volesse. A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in casa sua». Andreuccio presto28, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: «Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso29». Laonde30 la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio31, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando32, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara33 donna, liberamente34, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già la sua donna35 chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a aspettarlo. Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente36; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese37 con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita38; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta39 disse: «O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!». Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: «Madonna, voi siate la ben trovata!». Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna altra cosa parlare, con lui nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva40, là dove egli un bellissimo letto incortinato41 e molte robe su per le stanghe42, secondo il costume di là, e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo43, fermamente credette lei dovere essere non men che gran donna44. E postisi a sedere insieme sopra una cassa45 che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che46 non mi conosci e per avventura47 mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è48 che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m’ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che49 io disideri di vedervi tutti, io non
20. per ventura: per caso. 21. di lui stesso il domandò: gli chiese proprio di lui (Andreuccio). 22. desso: quello stesso, proprio lui. 23. terra: città. 24. tutto postosi … persona: considerato tutto da cima a fondo e sembrandogli di essere proprio un bel ragazzo. 25. s’avvisò: pensò fra sé. 26.quasi…Napoli: come se allora a Napoli non vi fosse nessun altro bel giovane all’infuori di lui. 27. prestamente … apparecchiato: subito rispose che era pronto. 28. presto: sollecito. 29. appresso: dietro. 30. Laonde: quindi.
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31. Malpertugio: contrada di Napoli così chiamata dalla presenza di un’apertura (“pertugio”) nelle mura che consentiva di raggiungere più speditamente il porto; il prefisso “mal” preannuncia una svolta sinistra nell’avventura: si tratta infatti di un quartiere malfamato. 32. suspicando: sospettando. 33. cara: per bene. 34. liberamente: senza sospetto. 35. donna: padrona. 36. orrevolemente: dignitosamente. 37. essa incontrogli … discese: ella scese tre gradini andandogli incontro. 38. quasi … impedita: come se l’eccessiva tenerezza le impedisse di parlare.
39. voce … rotta: dalla commozione e dal pianto. 40. oliva: olezzava, profumava. 41. incortinato: circondato da cortine, da tende. 42. molte robe … stanghe: numerosi abiti appesi a pertiche di legno. 43. nuovo: inesperto. 44. gran donna: gran signora. 45. cassa: una cassapanca, usata anche come sedile. 46. sì come colui che: dal momento che. 47. per avventura: forse. 48. sì come è: cioè. 49. come che: sebbene.
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morrò a quella ora che io consolata non muoia50. E se tu forse questo mai più51 non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l’amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l’amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de’ fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò52, che io ne nacqui e sonne53 qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata54 (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliuola non nata d’una fante né di vil femina55 dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani56. Ma che è?57. Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare58: la cosa andò pur così. Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti59, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò60 a stare in Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo61, cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo62. Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse63; donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto64 alle molte le quali avavamo), lasciate le terre e li palazzi, in questa terra65 ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici66 in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo
50. io non morrò … muoia: in qualunque momento morirò, morirò contenta. 51. mai più: mai. 52. in tal guisa … dimesticò: in tal modo si legò a lui. 53. e sonne: e sono. 54. forte … mostrata: lo biasimerei fortemente, considerando l’ingratitudine da lui mostrata verso mia madre. 55. non nata … femina: non nata da una serva né da una donna di bassa condizione. 56. la quale … mani: la quale (mia madre), mossa da fedelissimo amore, affidò nelle sue mani i suoi beni e se stessa, senza neppure sa-
pere chi egli fosse. 57. Ma che è?: ma a che serve recriminare su tutto ciò? 58. Le cose … emendare: è molto più facile biasimare le cose mal fatte e passate da gran tempo che porvi rimedio. 59. Gergenti: Agrigento. 60. tornò: venne. 61. come colui che è molto guelfo: essendo un vero guelfo, un guelfo convinto. 62. cominciò … re Carlo: cominciò ad avere qualche intesa con re Carlo d’Angiò. Carlo II d’Angiò fu re di Napoli dal 1285 al 1309. La casata angioina era a capo dello
schieramento guelfo in Italia; la Sicilia nel 1282, in conseguenza alla rivolta dei Vespri, era passata agli Aragonesi, ma a Palermo vi erano ancora dei suoi seguaci. 63. Il quale … fosse: ciò (il quale, cioè l’intesa con Carlo d’Angiò) essendo venuto a conoscenza del re Federico d’Aragona, prima che la cospirazione andasse ad effetto, fummo costretti ad allontanarci dalla Sicilia quando stavo per diventare la moglie del più grande cavaliere dell’isola. 64. per rispetto: in confronto. 65. terra: città (Napoli). 66. ristoratici: risarcitici.
Pesare le parole Riprenderei (r. 76) Qui vale “rimproverare”. Viene dal latino re + prehèndere, che significa sia “trattenere” sia “biasimare”. Il senso che ha nella novella è rimasto nel linguaggio attuale, ma solo a livello colto e letterario. I sensi oggi più comuni sono: “prendere di nuovo” (es. riprendere il proprio posto); “riconquistare” (es. riprendere la fortezza nemica); “riacquistare” (es. riprendere animo); “ricominciare dopo un’interruzione” (es. riprendere le trattative sindacali); “ritrarre, con disegni, fotografia,
cinema, telecamere” (es. è stato ripreso mentre rubava al supermercato); in forma riflessiva, riprendersi, “ricuperare le forze” (es. si è ripreso dopo la malattia). Il sinonimo del senso più antico, rimproverare, cioè biasimare, viene dal latino parlato blastimàre, “bestemmiare”, attraverso il francese antico blasmer. Il sinonimo del senso più corrente, recuperare (o ricuperare) viene dal latino re + càpere, “prendere”, quindi “prendere di nuovo”.
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cognato che è, buona provisione67, sì come tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua68, fratel mio dolce, ti veggio». E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte. Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente69 detta da costei, alla quale in niuno atto70 moriva la parola tra’ denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo71 de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci72, ebbe ciò che ella diceva più che per vero73: e poscia che ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna conscienza aveva di voi se non come se non foste74; e emmi75 tanto più caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo76 e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare77 al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?». Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fé sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene78, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette; e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei79». Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente80, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava81. Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti82 e fé dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne83, ma sembiante fatto di forte turbarsi84 abbracciandol disse: «Ahi lassa me85, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all’albergo?86 Di vero tu cenerai con esso meco87: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d’onore88». Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania89».
67. buona provisione: generosa pensione. 68. la buona mercé … tua: per grazia di Dio e non tua (dal momento che non mi hai mai cercato). 69. così compostamente: con tanta accorta scaltrezza. 70. in niuno atto: in nessun suo atto. 71. per se medesimo: per propria esperienza. 72. onesti basci: baci casti, come si conviene a una sorella. 73. ebbe … per vero: ritenne più che vero ciò che essa gli diceva. 74. nel vero … foste: in verità, o che mio padre, qualunque fosse la ragione per cui lo facesse, non avesse mai parlato di nostra madre o di voi, o che, se ne parlò, non sia venuto alle mie orecchie, io non avevo nessuna conoscenza di voi, come se non esisteste.
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75. emmi: mi è. 76. quanto … solo: quanto più io qui sono solo. 77. di sì alto affare: di così alta condizione sociale. 78. molto … ritiene: si intrattiene molto sovente con me. 79. e se non fosse … sarei: e se non fosse che mi sembrava più conveniente che tu venissi da me, in questa casa che è anche tua, che non io da te in casa d’altri, da gran tempo sarei venuta a trovarti. 80. nominatamente: per nome (aveva appreso i nomi dalla vecchia). 81. quello che … bisognava: quello che avrebbe avuto bisogno di non credere assolutamente. 82. greco e confetti: vino greco (un vino di pregio) e biscotti.
83. in niuna guisa il sostenne: non lo permise in nessun modo. 84. ma … turbarsi: ma facendo finta di rattristarsi grandemente. 85. Ahi lassa me: ahimè. 86. Che è … albergo?: come è possibile pensare che tu ti trovi con una sorella da te mai vista, e in casa sua, dove, venendo qui, avresti dovuto prendere alloggio, e tu voglia uscire da quella casa per andare a cenare in albergo? 87. con esso meco: con me. 88. e perché … d’onore: e benché non ci sia mio marito, fatto che mi dispiace davvero, io saprò tuttavia onorarti un poco, come è capace di farlo una donna. 89. farò villania: commetterò un gesto scortese.
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E ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato90! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare91 a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata92». Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l’era93, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fé vista94 di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; e essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe95, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte96, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante97. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d’esser con costei, stette98. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione99 tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla100, con le sue femine101 in un’altra camera se n’andò. Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto102 e trassesi i panni di gamba103 e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre104, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura105 posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era, per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso106: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura107, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto108, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una. Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso109, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente110 sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi111 prestamente andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde.
90. Lodato … aspettato: figurarsi se non ho in casa qualcuno attraverso cui mandare a dire (ai tuoi amici) di non aspettarti. 91. mandare: se mandassi. 92. di brigata: in compagnia. 93. a grado l’era: le era gradito. 94. fé vista: fece finta. 95. in niuna guisa sofferrebbe: in nessun modo avrebbe permesso ciò. 96. Napoli … notte: Napoli non era una città in cui potersi avventurare durante la notte. 97. e che come … il somigliante: e che, come aveva mandato a dire che non lo attendessero per cena, così aveva fatto lo stesso per
l’alloggio notturno. 98. dilettandogli … stette: provando piacere a stare con costei, ingannato da una fiducia mal riposta, si fermò. 99. non senza cagione: la siciliana mira a far venire molto tardi. 100. nulla: qualche cosa. 101. femine: domestiche. 102. farsetto: panciotto che si indossava sopra la camicia. 103. panni di gamba: pantaloni, calze. 104. diporre … ventre: deve fare i suoi bisogni. 105. per ventura: per caso.
106. la qual … giuso: questa tavola, essendo schiodata dal travicello su cui era collocata dalla parte opposta, si rovesciò e rovesciandosi (capolevando) cadde giù con lui nel fondo della latrina (nel chiassetto: vedi nota 108). 107. bruttura: escrementi. 108. Egli … stretto: la latrina era posta in uno stretto vicoletto. 109. caso: caduta. 110. mattamente: stoltamente. 111. avendo … curandosi: avendo (nelle sue mani) quella borsa (quello) a cui ella, palermitana, aveva teso il laccio, spacciandosi per sorella di un perugino, senza più curarsi di costui.
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Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente112. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere, salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disaventura, cominciò a dire: «Oimè lasso113, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!». E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio e a gridare; e tanto fece così, che molti de’ circunstanti vicini, desti, non potendo la noia114 sofferire, si levarono; e una delle servigiali115 della donna, in vista tutta sonnocchiosa116, fattasi alla finestra proverbiosamente117 disse: «Chi picchia là giù?». «Oh!» disse Andreuccio «o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso». Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi118 e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance119 son quelle che tu di’; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace». «Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine120 si dimentichino, rendimi almeno i panni miei, li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier con Dio». Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, e’ mi par che tu sogni», e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia121 fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira, e per ingiuria122 propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima123 fieramente cominciò a percuoter la porta. La qual cosa molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole124 il quale queste parole fingesse per noiare125 quella buona femina126, recatosi a noia127 il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: «Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine128 e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei129, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine130 stanotte». Dalle quali parole forse assicurato131 uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli132 né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce133 grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?». Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender poté, mostrava di dovere essere un gran bacalare134, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno135 si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della di là entro».
112. ma ciò era niente: ma questo non serviva a nulla. 113. Oimé lasso: oh povero me. 114. la noia: il fastidio. 115. servigiali: serve. 116. in vista … sonnocchiosa: all’apparenza tutta assonnata. 117. proverbiosamente: con tono di sgarbato rimprovero. 118. va dormi: vai a dormire. 119. ciance: discorsi infondati (è voce onomatopeica). 120. in sì piccol termine: in così breve tempo. 121. per doglia: per il dolore.
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122. per ingiuria: attraverso un gesto violento. 123. con troppi … prima: con colpi molto più violenti di prima. 124. alcuno spiacevole: un importuno. 125. per noiare: per dare dei fastidi. 126. buona femina: per gli abitanti del quartiere, che sono tutti dei malfattori, evidentemente la siciliana è una “brava donna”, cioè una come loro. Si instaura una forma di complicità ai danni dell’estraneo, per proteggerla. 127. recatosi a noia: seccatisi. 128. a casa … femine: a casa delle donne
oneste. 129. e se tu … con lei: e se tu hai qualche questione con lei. 130. seccaggine: seccatura. 131. assicurato: incoraggiato. 132. egli: Andreuccio. 133. boce: voce. 134. un gran bacalare: una persona autorevole; il sostantivo deriva da baccalaureus, dottore coronato di alloro. Si tratta del protettore di Fiordaliso, la siciliana. 135. alto sonno: sonno profondo.
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Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido136 assai che prima disse: «Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere137, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona138»; e tornatosi dentro serrò la finestra. Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion139 di colui, umilmente140 parlando a Andreuccio dissero: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì: vattene per lo tuo migliore141». Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’ conforti142 di coloro li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato143, verso quella parte onde il dì144 aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui145 veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana146 si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno, li quali temendo non fosser della famiglia della corte147 o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò148. Ma costoro, quasi come149 a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti150 che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire»; e questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il cattivel151 d’Andreuccio, e stupefatti domandar: «Chi è là?». Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse152: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente.
136. rigido: aggressivo. 137. Io non so … muovere: io non so perché mi trattengo dal venire laggiù a darti (deati “ti dia”) tante bastonate, finché non ti veda più muovere. 138. persona: nessuno. 139. la condizion: la funzione. 140. umilmente: sottovoce. 141. per lo tuo migliore: per il tuo bene. 142. conforti: consigli.
143. de’ suoi denar disperato: del tutto senza speranza di ottenere in restituzione il suo denaro. 144. onde il dì: per la quale durante la giornata. 145. che a lui di lui: che sentiva emanare da sé. 146. Ruga Catalana: imbocca la strada opposta a quella che dovrebbe condurlo al mare. La via si chiama così perché abitata da artigiani provenienti dalla Catalogna. 147. temendo … corte: temendo fossero
della famiglia della corte, ossia guardie. Il verbo temere è costruito alla latina: temere non = temere che. 148. pianamente ricoverò: trovò rifugio senza far rumore. 149. quasi come: come se. 150. ferramenti: arnesi di ferro. 151. il cattivel: quel poveretto. 152. che quivi … facesse: cosa facesse qui così sporco.
Pesare le parole Brutto (r. 224) Qui significa “sporco”. Il senso corrente attuale è invece “ciò che suscita impressioni sgradevoli, il contrario di bello”, in senso fisico (es. una brutta faccia) o morale (es. ha commesso una brutta azione). Si trova anche sostantivato (es. il brutto e il bello sono opinioni soggettive). Viene dal latino brùtum, “bruto”, con raddoppiamento della consonante. Il verbo bruttare ha conservato il significato più antico presente nella novella e significa “sporcare”, ma oggi è di uso solo letterario (Svevo, Senilità, cap. X: «L’amore, per Amalia, restava il puro grande desiderio divino: era nell’effettuazione che la piccola natura umana si trovava bruttata, avvilita», dove «avvilita» ha il senso di “ridotta a poco valore”). Così il sostantivo bruttura può avere il senso di “sudiciume”, ma più comune è il senso di “cosa brutta”, in senso estetico o morale. L’aggettivo bruto, che viene dalla stessa radice latina, ha sensi molto diversi da brutto. Indica genericamente ciò che è caratteristico di esseri viventi privi della ragione
umana (es. sai usare solo la forza bruta, non il cervello), oppure di cose inanimate (es. la materia bruta). È usato anche come sostantivo (Dante, inferno, XXVI, vv. 119-120: «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza»). Nel linguaggio comune ha assunto un senso prevalentemente spregiativo ed è sinonimo di animalesco, violento. Ne derivano l’aggettivo brutale, “bestiale, crudele, violento”, e il verbo abbrutire, “ridurre alla condizione di bruto” (es. l’alcol abbrutisce l’uomo). Abbrutire non è da confondere, come talora avviene, con abbruttire, transitivo “rendere brutto”, intransitivo “divenire brutto”. Soprattutto vanno distinti i due participi, che sono di uso più comune, abbrutito, “divenuto come un bruto”, e abbruttito, “diventato brutto”. È un ennesimo caso di due parole derivate dallo stesso termine latino che assumono sensi diversi e sono distinte solo da una piccola differenza fonetica.
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Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sé153: «Veramente in casa lo scarabone154 Buttafuoco fia stato questo». E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che155 tu abbi perduti i tuoi denari, tu hai molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti156 né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che157, come prima158 adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona159 perduta. Ma che giova oggimai160 di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola». E detto questo, consigliatisi alquanto161, gli dissero: «Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai162». Andreuccio, sì come disperato163, rispuose ch’era presto164. Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo165, e era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il quale valeva oltre a cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare166; e così a Andreuccio fecer veduto167. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato168, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore169, e Andreuccio putendo170 forte, disse l’uno: «Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente171?». Disse l’altro: «Sì, noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente172». Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato levato: per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo173 nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse174 la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero. Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria175, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due176 videro, incontanente177 cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci178 e loro armi e lor gonnelle179, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino, così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costor vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse
153. fra sé: fra loro. 154. scarabone: letteralmente: scarafaggio; qui sta ad indicare il capo di un gruppo di malviventi. 155. come che: sebbene. 156. che quel caso … cadesti: che ti capitò di cadere. 157. vivi sicuro che: sta’ sicuro che. 158. come prima: non appena. 159. la persona: la vita. 160. oggimai: ormai. 161. consigliatisi alquanto: dopo aver alquanto riflettuto fra loro. 162. dove tu vogli … non hai: qualora tu
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desideri essere nostro complice nel compiere un’impresa che ci accingiamo a fare, siamo certi che la parte che ti toccherà varrà molto di più di quanto hai perduto. 163. sì come disperato: disperato come era. 164. presto: pronto. 165. Filippo Minutolo: personaggio storico, vescovo di Napoli, morto nel 1301. 166. a spogliare: a depredare il cadavere. 167. fecer veduto: esposero il loro progetto. 168. più cupido che consigliato: più avido di denaro che avveduto. 169. chiesa maggiore: il duomo. 170. putendo: puzzando.
171. fieramente: in modo così insopportabile. 172. spacciatamente: alla svelta. 173. collarlo: sospenderlo alla fune e farlo scendere nel pozzo. 174. crollasse: scuotesse. 175. famiglia della signoria: gli sbirri. 176. li quali … quegli due: quegli due (i ladri) è soggetto, mentre li quali (gli sbirri) è complemento oggetto di videro. 177. incontanente: immediatamente. 178. tavolacci: scudi in legno. 179. gonnelle: sopravvesti.
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bene attenuto180, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s’incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non sappiendo che181, della sua fortuna182 dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi183 diliberò di partirsi: e andava senza saper dove. Così andando si venne scontrato184 in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che sù l’avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente185 entrarono e furono all’arca186, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro187 il coperchio, ch’era gravissimo188, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà dentro?». A cui l’altro rispose: «Non io». «Né io» disse colui «ma entrivi189 Andreuccio». «Questo non farò io», disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni190 costoro rivolti dissero: «Come non v’enterrai? In fé di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante191 d’uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto».
180. bene attenuto: tenuto saldamente all’orlo del pozzo. 181. dubitando … sappiendo che: temendo, senza saper bene che cosa. 182. fortuna: sfortuna.
183. quindi: di qui. 184. si venne scontrato: si imbatté per caso. 185. leggiermente: facilmente. 186. arca: sarcofago di marmo, in cui è sepolto l’arcivescovo.
187. lor ferro: un loro arnese di ferro, una leva. 188. gravissimo: pesantissimo. 189. entrivi: vi entri. 190. ammenduni: entrambi. 191. tante: sottinteso botte.
Andreuccio cade di notte nelle latrine; egli viene rinchiuso dai ladri nella fredda tomba del vescovo, 1414-19, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice Pal. Lat. 1989, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua192; e ricordatosi del caro193 anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sé; e poi dato il pasturale e la mitra e’ guanti194 e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v’avea195. Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso, rispondendo che nol trovava e sembiante faccendo196 di cercarne, alquanto gli tenne in aspettare. Costoro che d’altra parte eran sì come lui maliziosi197, dicendo pur198 che ben cercasse, preso tempo199, tiraron via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso200. La qual cosa sentendo Andreuccio, quale egli allor divenisse ciascun sel può pensare201. Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto202, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini203 dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato204. E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali, sì come gli avvisava205, quello andavano a fare che esso co’ suoi compagni avean già fatto206: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata207, in quistion caddero208 chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione209 un prete disse: «Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi210? Li morti non mangian gli uomini: io v’entrerò dentro io». E così detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare. Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fé sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati211. La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì della chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all’avventura212, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbatté213; dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine214 de’ fatti suoi. A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente215 si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.
192. s’avisò … sua: decise di costituirsi innanzitutto la sua parte. 193. caro: prezioso. 194. pasturale … guanti: il pastorale, il bastone ricurvo che è l’insegna dei vescovi, il copricapo e i guanti, evidentemente tessuti d’oro e tempestati di pietre preziose. 195. v’avea: c’era. 196. sembiante faccendo: fingendo. 197. maliziosi: sospettosi, furbi. 198. dicendo pur: continuando a dire.
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199. preso tempo: colto il momento adatto. 200. racchiuso: rinchiuso. 201. sel può pensare: se lo può immaginare. 202. da grave dolor vinto: sviene per il dolore provocato dalla fatica e per l’angoscia di essere sepolto vivo. 203. all’un de’due fini: ad una delle due morti. 204. appiccato: impiccato. 205. gli avvisava: gli sembrava. 206. quello … fatto: cioè a spogliare la tomba. 207. puntellata: tengono sollevato il coper-
chio grazie ad alcuni puntelli. 208. in quistion caddero: cominciarono a discutere. 209. tencione: discussione. 210. manuchi: mangi, dal latino manducare. 211. perseguitati: inseguiti. 212. all’avventura: a caso. 213. si abbatté: capitò. 214. in sollecitudine: in ansia. 215. incontanente: immediatamente.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi del testo L’«industria»
Andreuccio antieroe
La formazione del giovane
La sospensione del giudizio morale
Anche in questa novella il motivo centrale è quello del «saper vivere», dell’umana «industria», che sa vincere ostacoli e liberarsi da situazioni difficili. Ma qui, inizialmente, il protagonista si presenta come l’antitesi del tipico eroe boccacciano accorto, malizioso, pronto e abile: Andreuccio appare cioè come un antieroe. Non è uno sciocco, come lo sono invece altri antieroi del Decameron, quale Calandrino; è semplicemente un giovane ingenuo per inesperienza, che si trova calato di colpo in un mondo ben più insidioso di quello a cui era stato abituato: dalla città di provincia passa alla grande metropoli mediterranea, Napoli. Proprio perché non è sciocco, Andreuccio può redimersi da questa iniziale condizione negativa. L’ossatura della vicenda è costituita da un processo di formazione, attraverso cui il giovane acquista esperienza, si scaltrisce, impara ad affrontare ad armi pari le insidie della realtà sociale. Alla fine, quando riesce con abile mossa a liberarsi dal sepolcro, Andreuccio può degnamente collocarsi a fianco degli altri eroi boccacciani del «saper vivere». L’“educazione” di Andreuccio lo porta anche a riparare il danno economico subìto, la perdita dei cinquecento fiorini, grazie all’anello dell’arcivescovo. L’appropriarsi di tale anello non è certo un’azione moralmente lodevole, in quanto si configura come furto e sacrilegio; ma Boccaccio mette tra parentesi il giudizio morale: non gli interessa giudicare moralmente l’agire di Andreuccio, ma registrare il suo acquisto del «saper vivere». La Fortuna
L’azione del caso
Il ruolo dell’azione umana
Antagonista dell’eroe è anche in questa novella, come in quella precedente, la Fortuna, intesa come complesso di circostanze fortuite e imponderabili. Il caso fa incontrare al mercato Andreuccio e la vecchia, il caso lo fa cadere nel chiassetto, gli fa incontrare i due ladri, poi i due sbirri che lo sollevano dal pozzo, il caso fa intervenire la seconda banda di ladri che gli consente di uscire dalla tomba. In questa novella, però, all’azione umana sembra riservata una parte più importante. Innanzitutto la Fortuna si accanisce su Andreuccio solo perché questi non è in grado di contrastarla: se il giovane fosse più accorto, non cadrebbe nel tranello della siciliana. Così, al termine, la Fortuna salva Andreuccio dal morire soffocato nella tomba, ma solo perché questi sa cogliere prontamente l’occasione che gli è offerta. Se altrove nel Decameron la Fortuna sembra onnipotente e la «virtù» umana quasi inoperante, qui l’«industria» umana assume un ruolo decisivo. È difficile pertanto trarre conclusioni definitive sulle concezioni dello scrittore, stabilire se egli ritenga più forte la Fortuna o la «virtù» umana: le soluzioni che egli offre nelle diverse novelle appaiono oscillanti. Lo spazio dell’azione
La città labirintica
Nella novella di Landolfo Rufolo lo scenario su cui si manifestava l’azione della Fortuna era costituito dal mare, che, proprio per il suo variare continuo e capriccioso, appariva ricco di valori simbolici. Qui lo spazio offre uno scenario molto meno vasto, la città; ma è uno spazio labirintico, insidioso, che genera continui incontri e sorprese, e quindi assume una valenza analoga a quella del mare, accordandosi perfettamente col motivo del variare capriccioso della Fortuna. Oltre allo spazio, anche la dimensione temporale, il tempo notturno propizio agli intrighi, ai sotterfugi e alle sorprese, appare adatto ad assecondare il grande tema della Fortuna. La costruzione narrativa: l’asse sintagmatico della storia
Le sequenze narrative
Esaminiamo ora la costruzione narrativa. Innanzitutto, sull’asse sintagmatico, l’intreccio, dopo il prologo che si svolge sul mercato, si suddivide nettamente in tre sequenze 561
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Il movimento di discesa e risalita
I riti di passaggio e la fiaba
narrative: 1. il tranello della siciliana; 2. il vagabondare di Andreuccio per le vie notturne, con i suoi vari incontri fortuiti; 3. il furto nella cattedrale. In tutte e tre le sequenze vi è un momento critico, costituito da un pericolo o da un danno; il pericolo è sempre segnato da un movimento dall’alto in basso, da una caduta o discesa: prima nel chiassetto, poi nel pozzo, poi nella tomba (lo ha osservato Vittore Branca, ripreso da Aldo Rossi); e lo scampato pericolo è sempre segnato dal movimento inverso, dal basso verso l’alto, dal chiuso all’aperto. Questo movimento di discesa in un luogo chiuso è denso di significazioni simboliche. Nelle società arcaiche, i riti di passaggio del giovane all’età adulta consistevano appunto nel chiudere il ragazzo in un luogo buio, per saggiare la sua resistenza alla paura e al pericolo. La reclusione e la successiva liberazione alludevano a un percorso simbolico di morte e rinascita: “moriva” il ragazzo e “nasceva” l’adulto (spesso il giovane veniva calato in una pozza di letame: è chiaro allora il significato del «chiassetto» colmo di lordura). La vicenda di Andreuccio, come si è già notato, traccia proprio un processo di educazione, cioè il rito di passaggio di un giovane: non è un caso perciò che ricalchi questi antichi schemi rituali. Ci si può chiedere come mai questi residui di culture arcaiche si ritrovino nell’espressione letteraria di una raffinatissima civiltà urbana, quale è il Decameron. Il tramite di mediazione è costituito dal patrimonio fiabesco, in cui si conserva proprio la memoria di questi riti di passaggio. E difatti la novella di Andreuccio ha una segreta trama fiabesca. Tant’è vero che un critico, Aldo Rossi, ha potuto rinvenirvi tutte le funzioni caratteristiche della fiaba, quelle individuate da Propp nella Morfologia della fiaba: allontanamento (Andreuccio si allontana da casa per venire a Napoli); divieto e infrazione (Andreuccio al mercato viola il codice della prudenza, mostrando i suoi fiorini d’oro); danneggiamento (l’antagonista, la siciliana, danneggia l’eroe sottraendogli il denaro); marchiatura (la bruttura che imbratta Andreuccio nel «chiassetto»); persecuzione (Andreuccio chiuso nella tomba); salvataggio; ritorno. Anche l’anello appartiene alla tradizione fiabesca, sebbene la sua funzione qui sia diversa: non mezzo magico, ma strumento di compensazione economica, in armonia con la condizione economico-sociale del protagonista, quella di «mercatante». Il discorso narrativo
La voce del narratore
La focalizzazione sul personaggio
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Sul piano del discorso, colpisce l’incidenza che ha nella novella la voce del narratore. Si tratta di un narratore, come sempre, eterodiegetico e onnisciente, che spesso interviene a pronunciar giudizi sulle ingenuità e gli errori dell’eroe nel corso dell’azione. Gli insistiti interventi della voce narrante fanno sentire quanto Andreuccio sia lontano dall’ideale boccacciano del «saper vivere» e fanno percepire il distacco dello scrittore dal suo eroe (il narratore è evidentemente qui il suo portavoce). Se si eccettuano questi interventi giudicanti, la presenza del narratore è però discreta: non interviene mai a preannunciare svolgimenti e soluzioni della vicenda. Il racconto infatti è spesso focalizzato sul protagonista: nei momenti cruciali seguiamo gli avvenimenti attraverso il suo punto di vista, sappiamo sostanzialmente solo quanto sa lui (tranne che nella prima sequenza, quella della siciliana, in cui il lettore, grazie alle informazioni del narratore, ne sa più del personaggio, con un effetto di distacco ironico). Questa focalizzazione sul personaggio, senza una visione dall’alto che consenta di prevedere gli sviluppi futuri dell’azione, è essenziale per creare il clima di sospensione e sorpresa che domina l’intreccio e fa sentire l’incidenza del capriccio imprevedibile della Fortuna (come nella precedente novella di Landolfo Rufolo, T6, p. 544).
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Quali errori commette Andreuccio per ingenuità o inesperienza nel corso del suo “processo di formazione”? Rispondi sinteticamente in circa 10-12 righe (600 caratteri).
AnALIzzAre
> 2.
narratologia Individua nel testo gli interventi del narratore, in particolar modo quelli in cui si determina un distacco ironico dagli eventi narrati. > 3. narratologia È presente nel testo il “racconto nel racconto”, procedimento caro a Boccaccio? Se sì, quale, e con quali caratteristiche e finalità? > 4. Lessico In riferimento al lungo ed eloquente discorso di Fiordaliso (rr. 63-93), individua e commenta i vocaboli e/o le espressioni a cui la prostituta fa ricorso per blandire Andreuccio e rassicurarlo sull’attendibilità del grado di parentela che gli ha appena rivelato. In quest’ultima prospettiva, quale particolare valore assume la scelta lessicale «riprenderei» (r. 76, Pesare le parole, p. 553)? > 5. Lingua Nel lungo discorso di Fiordaliso prevale la paratassi o l’ipotassi? Motiva la tua risposta attraverso l’analisi del periodo di almeno un paio di esempi ricavati dal testo, e prova ad ipotizzare le ragioni di tale struttura.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 6.
Contesto: storia Alcuni elementi del testo, opportunamente esplicitati alle note 62-63 (p. 553), consentono non soltanto di datare precisamente gli eventi narrati, ma anche di ricostruire il quadro storico generale dei territori a Sud della penisola nel Due-trecento. Metti in correlazione tali elementi con il contesto relativo all’autore ( La formazione negli anni napoletani, p. 492), avvalendoti anche degli studi di storia effettuati nel corso dell’anno. > 7. Testi a confronto Istituisci un confronto tra il protagonista di questa novella, Andreuccio da Perugia, e quello della precedente, Landolfo Rufolo ( T6, p. 544), entrambi mercanti in lotta con la Fortuna. > 8. Competenze digitali La novella presenta un preciso sfondo storico, ma soprattutto ambientale, che mette in evidenza la straordinaria corrispondenza fra la topografia (ovvero la descrizione e rappresentazione dei luoghi) del racconto e quella della realtà cittadina del tempo. Avvalendoti delle nuove tecnologie, realizza una mappa o carta degli spazi in cui si svolge la narrazione, inserendo anche immagini o elementi grafici di altro tipo. considera che alcuni dei luoghi indicati da Boccaccio corrispondono a quelli della Napoli attuale.
Per IL reCUPero
> 9. Dopo aver riletto attentamente la novella e l’Analisi del testo (in particolare, La costruzione narrativa: l’asse
sintagmatico della storia, pp. 561-562), prova a completare le tabelle incentrate rispettivamente sulla suddivisione in sequenze narrative e sul movimento di discesa e di risalita, secondo l’esempio proposto. Sequenza
Corrispondenze testuali
definizione spazi
Scansione tempi e azioni
Il tranello della siciliana
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Di ritorno dal mercato e a ..............................................................................................
La siciliana progetta e ..............................................................................................
casa ..............................................................................................
predispone il tranello ..............................................................................................
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Andreuccio per le vie
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notturne
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Dalla riga 33 alla riga 34 Dalla riga 44 alla riga 162 Il vagabondare di
Il furto nella cattedrale
Dalla riga … alla riga …
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LeTTerATUrA e CInemA
Popolare e borghese: il Decameron di Pasolini Un film-saggio Nel 1971 Pier Paolo Pasolini dirige Decameron, rileggendo l’opera di
Boccaccio alla luce delle proprie riflessioni sul rapporto tra cultura popolare e cultura borghese. D’altra parte il capolavoro boccacciano si presentava ai suoi occhi come un testo di studio ideale proprio per il suo essere una celebrazione delle virtù della nuova classe mercantile fiorentina allora in ascesa.
La novella di ser Ciappelletto Il film si divide in due parti, ognuna caratterizzata dalla messa in immagini di alcune novelle. Pasolini sceglie però di sostituire la cornice presente nell’opera letteraria con due novelle giudicate da lui di particolare interesse. La prima è quella di ser Ciappelletto ( T4, p. 526). Il protagonista, interpretato dal bravissimo Franco Citti, è un criminale incallito, dedito ai peggiori vizi, spedito dal suo protettore in terra straniera allo scopo di riscuotere dei crediti. Ma la sorte vuole che Ciappelletto si ammali gravemente poco dopo il suo arrivo. I due usurai che lo ospitano non sanno cosa fare: sarebbe infatti terribile per la loro reputazione chiamare un confessore per impartirgli l’estrema unzione, a causa dei peccati mortali di Ciappelletto. Così sarà il moribondo stesso a risolvere la situazione: si fingerà puro e onesto al cospetto del prete, tanto che dopo la sua morte inizierà a essere adorato come santo. Un eroe ambiguo Come per Boccaccio, anche per Pasolini il personaggio contiene in
sé tutte le ambiguità della «ragion di mercatura»: sul letto di morte, infatti, egli preferisce mentire al proprio confessore pur di salvaguardare gli affari dei suoi compari usurai. La novella si presta comunque a interpretazioni contrastanti ( Analisi del testo, p. 535). Pasolini sceglie anche di far apparire a Ciappelletto una visione ispirata ai quadri del pittore fiammingo Bruegel il Vecchio: delle strane figure si muovono su un prato dominato da teschi e da numerosi riferimenti alla morte. In questo modo il regista vuole forse gettare un’ombra inquietante sull’ottimismo della borghesia rampante rappresentata da Ciappelletto. La spregiudicatezza negli affari e l’accumulo di ricchezze non possono infatti salvare la nuova classe sociale dal destino comune che aspetta tutti gli uomini, e cioè la morte. L’allievo di Giotto come autoritratto del regista A fare da cornice alla seconda parte del film vi è invece la vicenda di un allievo di Giotto incaricato di affrescare il muro di una chiesa. Il pittore è interpretato da Pasolini stesso. Anche lui, come Ciappelletto, ha una visione: una serie di figure sono radunate, come in un enorme quadro, attorno alla Madonna, interpretata da Silvana Mangano. Siamo di fronte a una sequenza fortemente metadiscorsiva, nella quale cioè il film parla di se stesso e dichiara di essere un film e cioè un prodotto di finzione. La visione rimanda infatti all’immagine ideale del mondo popolare che ha ispirato il regista nella realizzazione della pellicola. Per questo il pittore interpretato da Pasolini, una volta terminato l’affresco, si chiede: «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?». Il poeta infatti, all’alba degli anni Settanta, considera scomparsa la cultura popolare italiana, sostituita dalla cultura di massa veicolata dalla televisione: per lui la prima può esistere ormai solo nell’immaginazione.
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Una delle novelle trascritte cinematograficamente da Pasolini è quella di Andreuccio da Perugia ( T7, p. 551). L’ingenuo giovane, interpretato da Ninetto Davoli, è vittima di un imbroglio e perde tutto il suo denaro. Ma sarà in grado di trovare una fortuna ben più grande grazie all’astuzia e alla spregiudicatezza maturate durante la sua avventura. In questo modo diventa un personaggio boccaccianamente “positivo” perché riesce a piegare la sorte avversa in suo favore.
In questo fotogramma è possibile ammirare la qualità pittorica della visione che appare nella seconda parte del film. Il mondo così rappresentato è ancora medievale: vi regna infatti l’assoluta staticità dell’ordine delle cose terrene e ultraterrene. Sopra vi è il paradiso, nettamente separato dal mondo. compito dei vivi che stanno in basso è ammirare la corte celeste e, allo stesso tempo, non dimenticare l’inferno che attende i peccatori, rappresentato a destra.
Esercitare le competenze
Video Il Decameron di Pasolini
UTILIzzAre Le moderne Forme dI ComUnICAzIone VISIVA e mULTImedIALe
> Dopo aver preso visione del Decameron di Pier Paolo Pasolini, prova a rielaborare i dati raccolti per un’intervista immaginaria al regista da pubblicare in un sito Internet o in un blog di settore.
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Tancredi e Ghismunda
Temi chiave
dal Decameron, IV, 1 Si tratta di una novella tragica: infatti la quarta giornata è quella che tratta degli amori che hanno avuto una fine infelice. La narratrice è Fiammetta. L’ambiente è socialmente elevato, il palazzo del principe di Salerno.
• l’amore contrastato • l’antitesi tra padre e figlia • i diritti dell’amore • la vera nobiltà
Tancredi, prenze1 di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore.
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Fiera materia di ragionare2 n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione3. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati4 l’ha fatto: ma che che se5 l’abbia mosso, poi che a me6 non si conviene di mutare il suo piacere7, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò. Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno8, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate9; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito10, non sappiendola da sé partire11, non la maritava: poi alla fine a un figliuolo del duca di Capova12 datala, poco tempo dimorata13 con lui, rimase vedova e al padre tornossi.
1. prenze: principe. 2. Fiera … ragionare: argomento doloroso su cui parlare. 3. le quali … compassione: le quali non si possono dire senza che chi le dice e chi le ascolta provi compassione. 4. letizia … passati: si riferisce alle novelle, per lo più allegre e piacevoli, narrate nelle giornate precedenti.
5. che che se: qualsiasi cosa, ragione. 6. me: è Fiammetta a parlare, incaricata di raccontare la prima novella della quarta giornata. 7. piacere: volontà. 8. ingegno: indole. 9. nell’amoroso … bruttate: non si fosse sporcato le mani con il sangue dei due amanti (il particolare anticipa il contenuto della novella).
10. avanzata … marito: superata l’età del matrimonio («cioè i quindici anni circa», annota Branca). 11. non … partire: non riuscendo a separarsi da lei. 12. Capova: Capua (nei pressi di Salerno, quasi per ribadire il desiderio di avere sempre la figlia vicina). 13. dimorata: rimasta.
Pesare le parole Ingegno (r. 9) Viene dal latino ingènium, da in e gènium, il dio che nella concezione antica governava la natura umana, influiva sulla nascita, accompagnava l’uomo nella vita come dio tutelare e determinava il suo destino. In latino ingènium significa “indole, inclinazione naturale”, e questo è il senso che possiede nella novella boccacciana il derivato italiano. Per noi invece indica comunemente la facoltà intellettuale di apprendere, la vivacità di mente, l’acume e la capacità creativa, anche l’astuzia (es. per inventare quella macchina ci è voluto un grande ingegno); e il genio per noi è il talento inventivo e creativo nelle sue manifestazioni più alte, eccezionali (es. Einstein era un genio). Da ingegno deriva il verbo ingegnarsi, “sforzarsi con l’ingegno per raggiungere determinati fini” (es. si è in-
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gegnato per uscire dalle difficoltà economiche), anche in senso spregiativo, “ricorrere a espedienti più o meno onesti”. Sinonimi: arrabattarsi, dallo spagnolo arrebatarse, “andare in collera”, quindi il verbo italiano vale “agitarsi per ottenere qualche cosa”; arrangiarsi, dal francese arranger, da rang, “schieramento”, quindi alla lettera uscire dalle difficoltà è “rientrare nelle schiere”; industriarsi, da industria, nel senso più antico, che ricorre anche in Boccaccio, di “operosità ingegnosa”. Sempre dalla stessa radice provengono il sostantivo ingegnere (meccanico, elettrotecnico ecc.), e l’aggettivo ingegnoso, “che ha l’ingegno agile ed è capace di superare le difficoltà, di trovare soluzioni” (es. è un artigiano molto ingegnoso), oppure “che denota ingegno sottile e acuto” (es. ha avuto una trovata ingegnosa).
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Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea14. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze15, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più16 maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo17, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente18 un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri19, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’20 costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto21 del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione22 assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro23 le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ognora24 più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto25, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa26. In cotal guisa27 adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia28. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare29 il dì seguente per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciolo30 di canna, sollazzando31 la diede a Guiscardo e dicendo: «Fara’ne questa sera un soffione32 alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco». Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliene aver donato e così detto33, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa: e guardando la canna e quella vedendo fessa34, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala e ben compreso ciò che
14. gagliarda … richiedea: di animo forte, coraggioso, e saggia più di quanto fosse eventualmente (per avventura) richiesto ad una donna. Viene affermato così il carattere di superiorità della donna. 15. in molte dilicatezze: fra molti agi, raffinatezze. 16. più: di nuovo, una seconda volta (va dopo maritarla). 17. né … richiedernelo: né a lei pareva cosa onorevole (onesta) richiederglielo (cioè di essere nuovamente maritata). 18. occultamente: di nascosto. 19. nella corte … altri: frequentare la corte del padre, nobili e non nobili.
20. e’: e i. 21. valletto: scudiero, persona al servizio di un signore. 22. nazione: nascita, origine. 23. che altro: di ogni altro (compresi i nobili di sangue). 24. fieramente … ognora: appassionatamente s’innamorò, sempre. 25. ancora … avveduto: inoltre (oltre alle qualità prima ricordate) era perspicace. 26. l’aveva per sì … rimossa: si era in tal modo innamorato di lei, che aveva quasi distolto la mente da ogni altra cosa che non fosse amar lei (non pensava quasi più ad altro).
27. guisa: modo. 28. a dovergli … malizia: per indicargli il modo (sottinteso di ritrovarsi) pensò fra sé e sé, ideò un accorgimento inusitato. 29. a fare: era da fare. 30. bucciolo: «è il tratto di canna che sta tra nodo e nodo» (Branca). 31. sollazzando: scherzando. 32. soffione: «canna forata con cui si soffia nel fuoco per ravvivarlo» (Branca). 33. avvisando … detto: ritenendo che non senza una ragione precisa doveva averglielo regalato e parlato in quel modo. 34. fessa: bucata.
Pesare le parole Nazione (r. 25) Dal latino natiònem, “nascita” e anche “popolazione”. Nella novella ha il primo significato; nel linguaggio attuale è rimasto invece il secondo, ma con una gamma di implicazioni più profonde, a partire dal Romanticismo: indica il complesso di valori che fa di un popolo un’unità, a cui concorrono non solo le istituzioni dello Stato ma la lingua, la cultura, la storia, le tradizioni, i costumi, e soprattutto la coscienza di avere questo patrimonio comune. Degenerazione del senso della nazione è il nazionalismo, la tendenza politica che sostiene il primato di una data nazione e mira a imporre il dominio di essa sulle altre. In Italia il movimento nazionalista, attivo agli inizi
del Novecento, confluì nel fascismo e portò a guerre di conquista coloniale come quella contro l’Etiopia (193536) e alla partecipazione alla Seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista (nazismo è la contrazione di nazionalsocialismo), con le aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia, che si risolsero in spaventosi disastri. Ma il nazionalismo è stato causa di terribili devastazioni e di lutti in varie fasi della storia novecentesca (basti pensare alle sanguinose guerre che hanno portato alla disgregazione della Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento)
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a fare avea, il più contento uom fu che fosse già mai e diedesi a dare opera di dovere a lei andare secondo il modo da lei dimostratogli35. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti36 fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza37 nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato38; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la donna teneva39, si poteva andare, come che40 da uno fortissimo uscio serrata fosse. E era sì fuori delle menti41 di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga42, l’aveva nella memoria tornata43 alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir44 quello uscio: il quale aperto e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per45 quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata46 l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire47 Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa e sé vestito d’un cuoio che da pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire a alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato48 bene l’uno de’ capi della fune a un forte bronco49 che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò50 nella grotta e attese la donna. La quale il seguente dì, faccendo sembianti51 di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio nella grotta discese, dove, trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e dato discreto ordine52 alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo, e ella, serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente, sù per la sua fune sagliendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a casa; e avendo questo cammino appreso più volte poi in processo di tempo53 vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento54 la letizia de’ due amanti rivolse55 in tristo pianto. Era usato56 Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare57 là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella58 senza essere stato da alcuno veduto o sentito entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto59, trovando le fine-
35. a dare … dimostratogli: ad architettare come dovesse andare da lei secondo il modo da lei indicatogli. 36. di … davanti: da moltissimo tempo (è, come nota Branca, una costruzione «rara», che si ripete poco dopo). 37. fatto per forza: «praticato artificialmente» (Branca). 38. il quale … riturato: il quale, poiché la grotta era abbandonata, era quasi ostruito da cespugli spinosi e da erbe che vi erano nate sopra. 39. teneva: occupava (la quale è complemento oggetto). 40. come che: sebbene, per quanto. 41. sì … menti: così cancellata dalla memo-
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ria (dal momento che, come si legge poco dopo, quasi nessuno si ricordava della sua esistenza). 42. che non pervenga: da non poter pervenire, giungere (dipende da agli occhi). 43. tornata: fatta tornare. 44. con suoi … d’aprir: con degli arnesi (che si era procurata) si era affaticata prima che riuscisse ad aprire. 45. per: passando attraverso. 46. disegnata: indicata. 47. Alla … fornire: per realizzare questo piano. 48. accomandato: annodato, fissato. 49. bronco: arbusto, spuntone. 50. si collò: si calò.
51. faccendo sembianti: fingendo. 52. dato … ordine: stabilita una regola attenta. 53. in processo di tempo: in progresso di tempo, in seguito. 54. con doloroso avvenimento: per uno sventurato incidente. 55. rivolse: trasformò, rovesciandola. 56. usato: abituato. 57. dietro mangiare: dopo pranzo. 58. in quella: sottintesa “camera”. 59. lei … diletto: disturbare Ghismunda, togliendola dai suoi divertimenti.
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stre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute60, a piè di quello in un canto sopra un carello61 si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente62 si fosse nascoso, quivi s’adormentò. E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se ne entrò nella camera: e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su il letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano. E dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito63 di tacersi e di starsi nascoso, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo64 di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio65 insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta e ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella66 si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in sul primo sonno67 Guiscardo, così come era nel vestimento del68 cuoio impacciato, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: «Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai69, sì come io oggi vidi con gli occhi miei». Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: «Amor può troppo più che né voi né io possiamo». Comandò adunque Tancredi che egli chetamente70 in alcuna camera di là entro guardato71 fosse; e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità72 pensate, appresso mangiare73 secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola: dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire: «Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato74; di che io, in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba, sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi75, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole76 fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti77 Guiscardo, giovane di vilissima78 condizione, nella nostra corte quasi come per Dio79 da piccol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te
60. le cortine del letto abbattute: le tende del letto abbassate. 61. carello: «cassetta bassa, o sgabello con cuscino e con ruote, da tenersi sotto il letto» (Branca). 62. studiosamente: a bella posta, di proposito. 63. prese partito: decise. 64. caduto nell’animo: venuto in mente. 65. spazio: tempo. 66. di quella: si riferisce a camera, come il precedente della quale (forma di anacoluto, che, annota Branca, «lascia sospeso l’inizio della frase»).
67. in sul primo sonno: nelle prime ore della notte. 68. del: di. 69. la quale … m’hai: che mi hai procurato nei miei affetti (ma il termine cose vuole forse indicare il sentimento di possesso che Tancredi ha nei confronti della figlia). 70. chetamente: con discrezione. 71. guardato: custodito. 72. novità: «cose insolite, cose strane e quindi terribili» (Branca). 73. appresso mangiare: dopo aver mangiato.
74. che tu … pensato: che tu avessi, non dico fatto, ma neppure pensato di sottoporti ad un uomo, che non fosse tuo marito. 75. poi che … dovevi: siccome dovevi condurti a tanta disonestà, ossia commettere un’azione così disonesta. 76. decevole: conveniente (il contrario di disdicevole). 77. eleggesti: scegliesti. 78. vilissima: bassissima. 79. per Dio: per carità, per misericordia (virtù proprie della bontà di Dio).
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mi pigliare80. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne81; ma di te sallo82 Idio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae83 l’amore il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso84 per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi85 vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca86: ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire87». E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto. Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo88, dolore inestimabile89 sentì e a mostrarlo con romore90 e con lagrime, come il più91 le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà92 vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò93, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto94 il suo Guiscardo. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa95, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato così al padre disse: «Tancredi96, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia97; e oltre a ciò in niuno atto98 intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ’l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni difender99 la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto100 io viverò, che sarà poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò101 d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del102 maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dové, Tancredi, manifesto103, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei104, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali105 e con che forza vengano le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo106, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii, non dovevi di meno107 conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che108 ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di
80. di che … pigliare: per questo tu mi hai procurato un grandissimo turbamento, non sapendo io che decisione prendere su di te. 81. Di Guiscardo … farne: di Guiscardo, che io feci catturare stanotte, quando usciva dallo spiraglio, e che tengo in prigione, ho già deciso cosa fare (come punirlo). 82. sallo: lo sa. Non ha ancora deciso come comportarsi con la figlia, per i motivi che spiega subito dopo. 83. trae: spinge. 84. preso: concepito. 85. quegli … questi: l’amore … lo sdegno, come sentimenti contrastanti. 86. contro … incrudelisca: facendo forza alla mia naturale predisposizione infierisca contro di te (ma l’espressione contro a mia natura è ancora più pregnante, dal momento che Ghismunda è la figlia tanto amata di Tancredi). 87. a questo dei dire: a queste mie accuse devi rispondere. 88. conoscendo … Guiscardo: accorgen-
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dosi che non solo il suo segreto amore era stato scoperto ma anche che Guiscardo era stato imprigionato. 89. inestimabile: inconcepibile. 90. romore: strepiti e grida. 91. il più: per lo più, di solito. 92. viltà: debolezza (è complemento oggetto di vincendo; soggetto è il suo animo). 93. fermò: compose, atteggiò (per non fare trasparire i moti interni dell’animo). 94. seco … morto: fra sé, prima di dover rivolgere qualche preghiera in sua difesa, decise di non rimanere più in vita, pensando che già era morto. 95. non … valorosa: non come donna addolorata o rimproverata per il suo errore, ma come donna non curante e coraggiosa. 96. Tancredi: si noti che, per sottolineare la sua orgogliosa indipendenza, Ghismunda non usa l’appellativo di padre. 97. per ciò … vaglia: dal momento che né la prima cosa (negare) mi gioverebbe, né la seconda (pregare) voglio che mi giovi.
98. in niuno atto: con nessun atteggiamento conciliante, in nessun modo. 99. difender: dipende da intendo, come l’infinito che segue. Si noti l’insistenza sulla verità, come esigenza da rivendicare ad ogni costo: il vero confessando, con vere ragioni, fino all’esplicita confessione (Egli è il vero che…). 100. quanto: finché. 101. mi rimarrò: cesserò. L’amore di Ghismunda va al di là della morte, rendendo vana la vendetta del padre. 102. sollecitudine del: premura di. 103. Esser … manifesto: doveva (ma il verbo è al passato remoto) esserti chiaro. 104. dei: devi. 105. chenti e quali: quante e di che natura. 106. come che … uomo: sebben tu, essendo un uomo. 107. non … meno: nondimeno dovevi (iperbato). 108. non che: oltre che.
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concupiscibile disidero109, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento110. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano111, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare112. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta113 via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva114: e questo, chi che ti se l’abbia mostrato o come che tu il sappi115, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi116, come molte fanno, ma con diliberato consiglio117 elessi innanzi a ogni altro e con avveduto118 pensiero a me lo ’ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio119. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare opinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta120: in che121 non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi122, la quale assai sovente li non degni a alto leva123, abbasso lasciando i degnissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii124 delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze125, con iguali vertù create126. La vertù primieramente127 noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano128 nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza129 poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta130 dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama, commette difetto131. Raguarda132 tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani133. Delle virtù e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò134 mai tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che135 valoroso uomo dee essere commendato? E
109. concupiscibile disidero: desiderio sessuale. 110. maravigliosissime … compimento: straordinarie forze ha dato il fatto che ho già conosciuto, essendo stata sposata, quale piacere derivi dal soddisfare tale desiderio. 111. tiravano: spingevano. 112. opposi … fare: «tentai di evitare con ogni mia forza, e in quanto stesse in me, di volere procurare vergogna a te con quello che mi induceva a fare un istinto sia pure peccaminoso: cioè, come spiega subito dopo, cercando di tenere il suo peccato d’amore gelosamente nascosto» (Branca). 113. occulta: nascosta, segreta. 114. senza … perveniva: senza che nessuno se ne accorgesse, giungevo a soddisfare i miei desideri. 115. chi che … sappi: chiunque te lo abbia rivelato o come tu sia venuto a saperlo. 116. per … tolsi: per caso presi.
117. diliberato consiglio: meditato proposito. 118. avveduto: accorto. 119. goduta … disio: ho goduto del mio desiderio (costruzione latina). 120. Di che … posta: di questo, oltre che dell’aver peccato sessualmente, sembra che tu con maggiore asprezza (amaritudine) mi rimproveri, seguendo più l’opinione corrente (del volgo) che la verità, dicendo che io mi sono messa con un uomo di bassa condizione, come se tu non ti saresti turbato se io avessi scelto un uomo nobile per questo scopo (cioè soddisfare i miei desideri). 121. in che: nella qual cosa, così dicendo. 122. riprendi: rimproveri. 123. a alto leva: solleva in alto. 124. riguarda … a’ principii: considera l’origine, l’essenza. 125. potenze: potenzialità. 126. create: enuncia il principio dell’uguaglianza degli uomini, che si distinguono fra
loro per la virtù, non per la nobiltà di sangue. 127. La vertù primieramente: il valore personale originariamente. 128. adoperavano: mettevano in pratica, realizzavano concretamente. 129. contraria usanza: consuetudine opposta. 130. guasta: rovinata, corrotta. 131. e per ciò … difetto: e perciò colui che opera virtuosamente mostra manifestamente di essere nobile (gentile), e se qualcuno lo definisce diversamente, commette un errore non colui che è così definito (cioè non nobile) ma colui che lo definisce. 132. Raguarda: considera. 133. villani: ignobili (indica la virtù contraria alla nobiltà). 134. il commendò: lo lodò, per la stima che aveva di lui. 135. che: in cui.
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certo non a torto: ché, se’ miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi136: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, ché così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato137; ma la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere138. Molti re, molti gran prencipi furon già poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne139. L’ultimo dubbio che tu movevi140, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir141, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato142, se peccato è; per ciò che io t’acerto143 che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante144, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi». Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano145, come diceva; per che, da lei partitosi e da sé rimosso146 di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni147 raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono; e trattogli il cuore a lui il recassero. Li quali, così come loro era stato comandato, così operarono148. Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo149 famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: «Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa150 che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava». Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse151, per presta152 averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento153 e con le parole del prenze, con forte viso154 la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: «Non si convenia sepoltura men degna
136. niuna … vedessi: nessuna lode gli fu data da te che io non gli vedessi mettere in atto (operarla), e più ammirevolmente che le tue parole potessero esprimere. 137. per avventura … stato: se per caso tu dicessi che mi sono messa con una persona povera, si potrebbe ammettere con tua vergogna, perché così hai saputo elevare un uomo di valore tuo servo. È detto in maniera ironica, perché Tancredi non ha saputo innalzare la condizione sociale ed economica di una persona che pure elogiava e stimava. 138. la povertà … avere: la povertà non toglie nobiltà ad alcuno, bensì gli toglie solo l’avere, le ricchezze. 139. sonne: sono (ne sono). Questa situazione è stata rappresentata da Boccaccio in varie novelle.
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140. movevi: avanzavi. 141. giovane … incrudelir: da giovane non usasti fare, cioè comportarti in maniera crudele. 142. usa … peccato: «usa la tua crudeltà contro di me, che non sono disposta a rivolgere alcuna preghiera a te, poiché tu sei la prima causa di questo peccato» (Branca). 143. t’acerto: ti accerto, ti assicuro. 144. il simigliante: la stessa cosa. 145. in tutto … sonavano: del tutto lei così deliberatamente disposta a fare quello che le sue parole dicevano. Boccaccio distingue qui fra il «suono» delle parole, il significante, e il loro effettivo significato. Tancredi non capisce che la passione retorica corrisponde a un deliberato proposito. 146. rimosso: allontanata ogni intenzione.
147. con … danni: cioè uccidendo Guiscardo. 148. così operarono: fecero, eseguirono (così, ripetuto, è pleonastico). 149. segretissimo: che sapeva mantenere con assoluta sicurezza i segreti. 150. cosa: Guiscardo, mentre il ciò che segue indica Ghismunda. Si noti che ogni sentimento di umanità è venuto meno, dal momento che Tancredi indica le persone come le cose. 151. stillò … redusse: e ne fece una pozione. 152. presta: pronta. 153. presento: dono (è detto con tragica ironia). 154. forte viso: aspetto impassibile, coraggioso.
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che d’oro a così fatto cuore chente155 questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato156». E così detto, appressatoselo alla bocca, il basciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre e infino a questo stremo157 della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai158; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai, di così gran presento, da mia parte gli renderai». Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: «Ahi! dolcissimo albergo di159 tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui160 che con gli occhi della fronte161 or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato162: venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre: lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche e dal tuo nemico medesimo163 quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava a aver compiute essequie164, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Idio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi165; e dateleti166, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già tanto cara guardasti167. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti168 che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro169 e riguarda i luoghi de’ suoi diletti170 e de’ miei e, come colei che ancora son certa che m’ama171, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata». E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun
Bernardino Mei, Ghismunda, 1650-59, olio su tela, Siena, Pinacoteca Nazionale.
155. chente: quale. 156. discretamente … adoperato: opportunamente, saggiamente mio padre ha operato (ancora una nota ironica, qui in senso tragico e patetico, che verrà ripresa e amplificata nel capoverso successivo). 157. stremo: momento estremo. 158. ora più … mai: ora più che mai. 159. albergo di: luogo in cui riponevo. 160. colui: Tancredi. 161. gli occhi della fronte: gli occhi reali, posti sotto la fronte (si contrappongono agli occhi della mente, dell’immaginazione e del desiderio, che, è detto con dolente ironia, erano sufficienti per vagheggiare, in ogni momento, il cuore
della persona amata). 162. Tu hai … spacciato: tu hai finito il corso della tua vita e «ti sei liberato di tale corso (di vita) quale la fortuna ti aveva concesso» (Branca). 163. nemico medesimo: ancora Tancredi. 164. compiute essequie: onoranze funebri perfette, degne del tuo valore. 165. le quali … proposto avessi: affinché tu avessi tali esequie (cioè le lacrime) Dio suggerì al mio spietato padre che ti mandasse da me e io te le darò, sebbene mi fossi proposta di morire con gli occhi asciutti e con viso non spaventato da alcuna cosa. 166. dateleti: dopo avertele date (le lacrime, come estremo tributo).
167. che la … guardasti: «che la mia anima si riunirà, col tuo aiuto, a quell’anima che tu (o cuore) custodisti sì caramente. L’anima, secondo la scienza medievale, aveva sede nel sangue e quindi nel cuore» (Branca). 168. a’ luoghi non conosciuti: ai luoghi sconosciuti dell’aldilà. 169. quincentro: «qui nelle vicinanze» (Branca). 170. diletti: piaceri (comuni a Guiscardo e Ghismunda). 171. come colei … m’ama: poiché sono certa che essa (l’anima di Guiscardo) ancora mi ama. Il come ha valore causale.
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feminil romore172, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare173, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson174 dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente175 della cagion del suo pianto domandavano invano e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla. La qual poi che quanto le parve ebbe pianto176, alzato il capo e rasciuttisi177 gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito178, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia179». E questo detto, si fé dare l’orcioletto180 nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello181 e al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che182 esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire; il qual, temendo di quello che sopravenne183, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo ne’ termini ne’ quali era184, cominciò dolorosamente a piagnere. Al quale la donna disse: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa185, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente186 di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu187 che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ’l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare, morto palese188 stea». L’angoscia del pianto189 non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: «Rimanete con Dio190, ché io mi parto». E velati gli occhi e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì. Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete: li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto191 della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente ammenduni192 in un medesimo sepolcro gli fé sepellire.
172. feminil romore: strepito proprio delle donne (si noti la distinzione, che adesso sarebbe facile definire misogina, fra il carattere dell’uomo e quello della donna). 173. riguardare: vedere. Branca osserva che si tratta di un «pianto silenzioso e quasi sovrumano, come quello di Lisabetta» ( T9, p. 577). 174. volesson: volessero. 175. pietosamente: mosse da pietà. 176. La qual … pianto: la quale (Ghismunda), dopo aver pianto per tutto il tempo che le parve opportuno. 177. rasciuttisi: asciugatasi del tutto. 178. ogni … fornito: «ogni mio dovere verso di te è compiuto» (Branca).
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179. né più altro … compagnia: né altro più mi resta da fare se non di venire con la mia anima a far compagnia alla tua. 180. orcioletto: il recipiente. 181. quello: il letto. Si noti la compostezza, il decoro con cui Ghismunda, dopo aver bevuto il veleno, attende la morte. 182. come che: sebbene (esse è pleonastico). 183. di … sopravenne: quello che poi accadde. 184. veggendo … era: vedendo le condizioni in cui si trovava. 185. a meno … questa: per una sventura meno desiderata di questa. L’ironia si fa qui tagliente e a sua volta crudele, dal momento che, come si precisa subito dopo, lo stes-
so Tancredi aveva voluto questa fine. 186. niente: qualcosa. 187. poi … fu: poiché non ti piacque. 188. palese: palesemente (si contrappone a tacitamente e di nascoso), Ghismunda chiede che il suo amore abbia in morte quel pubblico riconoscimento che in vita gli era stato negato. 189. L’angoscia del pianto: l’affanno del pianto, i singhiozzi. 190. Rimanete con Dio: forma di estremo saluto. 191. pentuto: pentito. 192. onorevolmente ammenduni: con tutti gli onori entrambi.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi del testo La donna come eroina
La donna protagonista
L’eroina
L’antagonista
Mentre le novelle precedenti erano condotte al livello del “comico” giocoso o realistico, intonato agli ambienti borghesi e mercantili, questa novella punta decisamente al tragico e al sublime, nelle soluzioni narrative come nello stile, ed è collocata in ambiente aristocratico. La vicenda poggia sul tema dell’amore contrastato. Il sistema dei personaggi riproduce perciò il classico schema triangolare, Amante-Oggetto amato-Antagonista che si oppone all’amore. Ma è rilevante il fatto che qui il soggetto attivo della passione sia la donna: è lei che ha l’iniziativa, che sceglie l’uomo, che mette in opera sapientemente tutti gli accorgimenti per soddisfare il desiderio amoroso. Ghismunda è una tipica eroina boccacciana. Le sue «virtù» sono la magnanimità di sentire, l’intelligenza nell’architettare, la decisione nell’eseguire, il coraggio e la dignità di fronte alla sventura, il sapiente dominio della parola. Anch’essa si scontra con la Fortuna (è il caso che fa scoprire i suoi amori), ma il tema non ha particolare rilievo: il suo antagonista è essenzialmente umano, il padre. Tancredi è figura complessa ed anche ambigua. Il suo tenerissimo amore per la figlia può rovesciarsi nella più disumana crudeltà, rivelando un fondo torbido, inconfessabile. L’attaccamento di Tancredi a Ghismunda è troppo geloso, tanto da apparire malsano: cela evidentemente qualcosa di incestuoso; è un segreto che non affiora mai alla coscienza dei personaggi, né tanto meno al livello di discorso esplicito del racconto, ma resta come molla nascosta di tutto l’intreccio. Tancredi è l’antitesi di Ghismunda: tanto essa è lineare, limpida nei suoi ragionamenti, ferma e coerente nelle scelte e nei comportamenti, dignitosa di fronte al dolore, tanto Tancredi è tortuoso e incoerente, ma soprattutto è debole, privo di dignità, come prova il suo piangere continuo, che spicca dinanzi all’eroica dignità della figlia, sino ad attirare la sua riprovazione sprezzante («Or via, va con le femine a spander le lagrime», rr. 188-189). L’orazione di Ghismunda
La rivendicazione dei diritti dell’amore Ghismunda vs la Francesca dantesca
La vera nobiltà
Il conflitto tra mondi storicamente diversi
Questa antitesi tra padre e figlia emerge soprattutto nel loro lungo dialogo. Nelle sue accuse alla figlia Tancredi insiste sull’onore da lei violato e sul disprezzo aristocratico per la «vilissima condizione» dell’amante. Al padre Ghismunda risponde con ferma dignità, rifiutando di assumere le vesti di colpevole; anzi, nella sua difesa, si trasforma in un’implacabile accusatrice. La difesa poggia su due punti fondamentali. 1. La rivendicazione dei diritti dell’amore, in quanto conformi alle leggi stesse della natura: Ghismunda afferma come suo pieno diritto la soddisfazione dei desideri della carne, che, in quanto naturali, sarebbe barbaro e colpevole contrastare. Quest’eroina femminile, che difende appassionatamente il suo sentimento amoroso, può ricordare la Francesca di Dante, nel canto V dell’Inferno. Ma l’atteggiamento di Boccaccio nei confronti del suo personaggio è l’opposto di quello di Dante. Questi, in nome di un’etica rigidamente cristiano-medievale, proponeva Francesca come exemplum negativo di cedimento al peccato di lussuria, e coinvolgeva nel suo giudizio tutta una tradizione di letteratura amorosa cortese; Boccaccio, in nome del suo laico naturalismo, esclude ogni idea di peccato in relazione all’amore carnale e propone l’eroina come exemplum sublime di dedizione ai diritti della passione, fino al sacrificio totale, nonché di magnanimità cortese nella fedeltà all’amore. 2. La rivendicazione della vera nobiltà, che è quella dell’animo, non quella della nascita, e consiste nel valore dell’individuo, non nell’appartenenza ad un ceto. Ghismunda afferma con forza l’originaria eguaglianza di tutti gli uomini in quanto creati da Dio: solo la virtù personale differenzia poi gli individui. L’antitesi che oppone Ghismunda al padre, quindi, non è solo contrasto tra persone e caratteri, ma tra due concezioni della vita e due mondi storicamente diversi. Il punto di vista di Tancredi è quello degli antichi privilegi aristocratici e feudali, ma anche dei pregiudizi e delle convenzioni che imprigionano la vita sociale in rigidi schemi; il punto di vista di Ghismunda rappresenta invece l’apertura verso una nuova mentalità e una nuova cultura. 575
L’età comunale in Italia Il tema cortese dell’”amore e morte”
La conclusione della novella, con il suicidio di Ghismunda, riproduce un motivo ricorrente della narrativa romanzesca cortese, il binomio “amore e morte”: gli amanti separati in vita da crudeli divieti possono congiungersi solo nella morte, nell’essere sepolti fianco a fianco (si pensi alla vicenda di Tristano e Isotta). Anche il rituale di bere il veleno nella coppa contenente il cuore dell’amato rimanda ad atmosfere tipiche del romanzo cortese. E, dinanzi a questo gesto dell’eroina, vi è quell’ammirazione di Boccaccio per i gesti eroici e magnanimi, che poi costituirà il tema dominante della X giornata.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. completa la tabella, elaborando per ogni episodio della novella un sommario, secondo l’esempio proposto. episodio
Sommario
rr. 3-12 «Fiera materia … avuta non avesse»
Premessa del narratore ........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 12-16 «costei fu … tornossi»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 17-29 «era costei … aveva la mente rimossa»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 30-68 «In cotal guisa … vi ritornò»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 69-70 «Ma la fortuna … in tristo pianto»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 71-91 «era usato tancredi … si tornò»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 92-100 «e per ordine … e così fu fatto»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 101-121 «venuto … un fanciul ben battuto»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 122-190 «Ghismunda … uccidi»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 191-202 «conobbe … egli più amava»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 203-254 «Ghismunda … aspettava la morte»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 255-270 «Le damigelle sue … si dipartì»
........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 271-274 «così doloroso … gli fé sepellire»
........................................................................................................................................................................................................................................
AnALIzzAre
> 2.
narratologia Individua nel testo le anticipazioni del narratore riguardo la tragedia oggetto della novella: quale funzione hanno? > 3. narratologia Dopo aver prestato attenzione ai luoghi in cui si svolge il racconto, prova a interpretare in chiave simbolica le immagini della «grotta» e del «palazzo». > 4. narratologia Individua nel testo gli elementi che rivelano, riguardo il comportamento dei personaggi, l’ambigua fragilità di tancredi e la forza virile di Ghismunda. > 5. Stile Avvalendoti delle note al testo, spiega i tratti ironici del discorso di Ghismunda, individuando contemporaneamente anche gli elementi di forte pathos. > 6. Lingua Quale funzione assume nel contesto della narrazione il tempo verbale di «aspettava» (r. 253)? Nel rispondere, osserva gli altri tempi verbali presenti nell’intero periodo.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 7.
esporre oralmente Rifletti sulla visione della nobiltà e dell’amore che emerge in questa novella, cogliendo analogie e differenze rispetto alle concezioni elaborate a questo proposito dai poeti del «dolce stil novo». Prepara una scaletta per un’esposizione orale (max 8 minuti). PASSATo e PreSenTe Libertà e appartenenza sociale
> 8. I nuovi valori sostenuti da Ghismunda, fondati sulla libertà e sul diritto di ogni individuo a non essere im-
prigionato dalla propria condizione sociale, possono essere condivisi anche nel contesto odierno? Nel confrontarti con l’insegnante e con i compagni in una discussione in classe, rifletti sulle possibili cause che fungono da ostacolo a un rapporto d’amore contrastato oggi. Se preferisci, concentrati invece sul rapporto – difficile e controverso in ogni epoca – fra genitori e figli.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi interattiva
T9
Lisabetta da messina
Temi chiave
• il contrasto tra amore e «ragion
dal Decameron, IV, 5
di mercatura»
È un’altra novella tragica in cui l’amore della protagonista va incontro a una fine infelice. La narratrice è Filomena. L’ambiente è mercantile.
• l’accettazione silenziosa
delle imposizioni familiari
• il culto delle reliquie dell’amante • il sogno come proiezione dell’immaginario
I fratelli d’Ellisabetta uccidono l’amante di lei: egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterato; ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo1 di bassilico, e quivi sù piagnendo ogni dì per una grande ora2, i fratelli gliele3 tolgono, e ella se ne muore di dolor poco appresso.
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[…] Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi4 dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano5; e avevano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata6, la quale, che che se ne fosse cagione7, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in un lor fondaco8 un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta guatato9, avvenne che egli le incominciò stranamente10 a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori11, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna12 che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi13, fecero di quello che più disiderava ciascuno. E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare, che una notte, andando Lisabetta là dove Lorenzo dormiva, che14 il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso15 gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio16, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò17. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto aveva la passata notte d’Elisabetta e di Lorenzo raccontò; e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso18. E in tal disposizion dimorando19, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati20 erano, avvenne che, sembianti faccendo21 d’andare fuori della città a diletto22 tutti e tre, seco menaron Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro23, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa
1. testo: vaso di terracotta. 2. per … ora: per lungo tempo. 3. gliele: glielo (il vaso). 4. rimasi: rimasti. 5. San Gimignano: esistevano effettivamente, a Messina, nel Due e Trecento, colonie di mercanti di San Gimignano, cittadina non lontana da Siena. 6. costumata: gentile. 7. che … cagione: qualunque fosse il motivo. 8. fondaco: magazzino con bottega per la vendita. 9. guatato: guardato.
10. stranamente: straordinariamente. 11. lasciati … di fuori: lasciati altri suoi amori con donne estranee alla casa. 12. bisogna: faccenda. 13. assicuratisi: sentendosi sicuri. 14. che: dopo l’inciso viene ripetuto il che retto da non seppero … fare. 15. noioso: doloroso. 16. più onesto consiglio: un pensiero più cauto, più attento all’onore della famiglia. 17. trapassò: attese. 18. diliberò … viso: affinché non ne derivasse qualche disonore né a loro né alla so-
rella (sirocchia), decise a questo proposito di lasciar stare la cosa senza parlarne, e dissimulare del tutto di aver veduto o saputo alcunché finché venisse un momento in cui, senza danno o vergogna per essi, potessero togliersi da sotto gli occhi questa infamia, prima che andasse più avanti. 19. dimorando: restando. 20. usati: abituati. 21. sembianti faccendo: facendo finta. 22. a diletto: a spasso. 23. veggendosi il destro: vedendo giunto il momento opportuno.
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che niuna persona se n’accorse. E in Messina tornatisi dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo24; il che leggiermente25 creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati. Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollecitamente26 i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava27, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente28, che l’uno de’ fratelli disse: «Che vuol dir questo? che hai tu a far di Lorenzo, che tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più29, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene». Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che30, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse; e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava. Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava e essendosi alla fine piagnendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato31 e co’ panni tutti stracciati e fracidi32: e parvele che egli dicesse: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’atristi e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci33, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E disegnatole34 il luogo dove sotterato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. La giovane, destatasi e dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire alcuna cosa a’ fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto35. E avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto36, in compagnia d’una che altra volta con loro era stata37 e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto poté là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato38, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto: per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere39, se avesse potuto volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo ’mbusto40 la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo41 gittata, messala in grembo alla fante42, senza essere stata da alcun veduta, quindi si dipartì e tornossene a casa sua. Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo43, di questi ne’ quali si pianta la persa44 o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo; e poi messavi sù la terra, sù vi piantò parecchi piedi45 di bellissimo bassilico salernetano, e quegli da niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci46 o delle sue lagrime non inaffiava giammai. E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo disidero vagheggiare47, sì come quello che
24. dieder … luogo: sparsero la voce d’averlo mandato da qualche parte per loro faccende. 25. leggiermente: facilmente. 26. sollecitamente: con premura. 27. dimora … gravava: il lungo ritardo angosciava. 28. instantemente: con insistenza. 29. più: ancora. 30. non sappiendo che: non sapendo esattamente di che cosa. 31. rabbuffato: coi capelli scompigliati.
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32. fracidi: fradici. 33. ritornarci: tornare qui, tra i vivi. 34. disegnatole: indicatole. 35. paruto: apparso. 36. fuor della terra a diporto: fuori della città per svagarsi. 37. una … stata: una donna che era stata a loro servizio un’altra volta. 38. né … cavato: e non ebbe scavato molto. 39. che … piagnere: che non era questo il tempo e il luogo per piangere. 40. ’mbusto: il busto.
41. l’altro corpo: il resto del corpo esanime di Lorenzo. 42. alla fante: alla serva. 43. testo: vaso. 44. persa: maggiorana, pianta aromatica. 45. piedi: piantine. 46. o rosata … d’aranci: acqua aromatizzata con petali di rosa o fiori d’arancio. 47. vagheggiare: riflette al tempo stesso l’adorazione, la contemplazione e il rimpianto di Lisabetta per Lorenzo.
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il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea48. Il basilico, sì per lo lungo e continuo studio49, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta50 che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto; e servando la giovane questa maniera del continuo51, più volte da’ suoi vicin fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti52, il disser loro: «Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene la cotal maniera». Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa53 e non giovando, nascosamente da lei fecero portar via questo testo; il quale non ritrovando ella con grandissima instanzia54 molte volte richiese, e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò55, né altro che il testo suo nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo adimandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sì consumata, che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non56 questa cosa si risapesse: e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono57, se n’andarono a Napoli. La giovane non restando58 di piagnere e pure59 il suo testo adimandando, piagnendo si morì, e così il suo disaventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun60 che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè: Qual esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta61, et cetera.
48. piagnere … piagnea: il pianto apre e chiude il capoverso (La giovane … amaramente pianse). 49. studio: cura. 50. corrotta: in decomposizione. 51. e servando … continuo: mantenendo la giovane il medesimo comportamento. 52. occhi … fuggiti: gli occhi sono tanto incavati che sembrano della testa fuggiti,
secondo un’espressione popolare. 53. ripresa: rimproverata. 54. instanzia: insistenza. 55. infermò: si ammalò. 56. temettero non: temettero che. 57. ordinato … ritraessono: date disposizioni per trasferire di lì tutti i loro affari e le loro cose. 58. non restando: non cessando.
59. pure: continuamente. 60. alcun: un cantore popolare. 61. che mi furò la grasta: che mi rubò il vaso. Sono i primi versi di un canto popolare dal titolo La canzone del basilico, raccolto nel suo testo integrale da Carducci: Cantilene e ballate dei secoli XIII e XIV.
Analisi del testo Il triangolo amoroso
Lisabetta e Ghismunda
La novella ricalca la struttura di quella di Ghismunda: il triangolo Donna amante - Oggetto d’amore - Antagonista, cioè l’amore irregolare e segreto, contrastato dall’istituzione familiare, che va incontro ad una sorte tragica, ma resta saldo fino alla morte. Le differenze tuttavia sono subito evidenti: nella novella di Ghismunda l’ambiente è elevato, aristocratico e feudale; qui è un ambiente modesto, borghese-mercantile; Ghismunda è un’eroina, che si ribella all’oppressione del padre, mostrando la sua fierezza e magnanimità, difendendo i propri diritti con lucida determinazione e scegliendo volontariamente la morte; Lisabetta invece non compie gesti eroici di rivolta: la sua risposta all’oppressione familiare è quella dell’accettazione silenziosa e delle lacrime, attraverso le quali ella dimostra la sua fedeltà incrollabile all’amato; al livello tragico si sostituisce un tono elegiaco, dolente e commosso. Le due eroine sono però accomunate da una sorta di culto delle reliquie dell’amante, il cuore di Guiscardo e la testa di Lorenzo, sempre secondo i moduli di un patetismo romanzesco che risale alla tradizione cortese (che esclude quindi ogni compiacimento per il macabro e l’orrore: il particolare della testa sepolta nel vaso di basilico ha esclusivamente una connotazione fiabesca). 579
L’età comunale in Italia
Il conflitto delle interpretazioni
La lettura sociologica Amore e «ragion di mercatura»
La vittoria dell’amore
La lettura psicoanalitica
I richiami mitici
La novella è stata fatta oggetto di un interessante esperimento, cioè è stata letta con diversi strumenti critici da parte di vari specialisti (AA.VV., Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del «Decameron», a cura di M. Lavagetto, Pratiche, Parma 1982, Interpretazioni critiche, p. 582). Rimandiamo al volume, che è folto di indicazioni preziose. Ne cogliamo qui qualche spunto particolarmente interessante. Mario Baratto, prendendo le mosse da un acuto giudizio di Branca («il pietoso, sconsolato appassire e morire del fiore dell’amore nel terreno indurito dall’assoluto dominio della “ragion di mercatura”»), individua nella novella lo scontro tra due forze potenti, che portano alla rovina: l’amore e la «ragion di mercatura». La prima, nel racconto, si incarna in Lisabetta, che obbedisce solo alla forza irrefrenabile della natura giovanile, innamorandosi di Lorenzo; la seconda nei fratelli, che contrastano l’amore solo perché potrebbe danneggiare il loro buon nome e compromettere i loro interessi di mercanti in un paese straniero e ostile. Sono due logiche che non possono incontrarsi: donde l’impossibilità di comunicare tra Lisabetta e i fratelli. Opporsi alla forza dell’amore è però impossibile. Lisabetta, per quanto vittima, risulta alla fine vincitrice: disgrega il nucleo familiare che i fratelli volevano tenere unito anche a prezzo di un delitto e li costringe, con il suo comportamento, a fuggire da Messina. Neppure la segretezza può essere preservata: il triste caso viene divulgato dalla canzone popolare di vasta diffusione. L’amore appare più forte della logica mercantile, anche se questa ha dalla sua parte il potere e sembra in un primo tempo trionfare: cioè la Natura è più forte delle convenzioni sociali. È una chiara manifestazione del naturalismo di Boccaccio. Il messaggio ideologico della novella è la necessità di un’apertura laica della morale familiare e sociale, che attenui la forza repressiva dei codici dominanti sulle forze spontanee della natura: una morale più libera per quanto riguarda sia i rapporti tra i sessi, sia i rapporti tra ceti sociali diversi. Affrontando la novella da una prospettiva psicoanalitica, Alessandro Serpieri sottolinea una reticenza del narratore: qual è la molla che spinge i fratelli a contrastare l’amore di Lisabetta e a uccidere Lorenzo? Non sembra una semplice ragione di convenienza sociale, ma piuttosto un motivo profondo. I tre fratelli appaiono incapaci, passivi (tutti i loro affari sono gestiti da Lorenzo), repressi. L’infrazione di Lisabetta li sconvolge in modo esorbitante, perché sentono la sessualità della sorella come vergogna personale, che li contamina. In questo appare l’ombra di un rapporto segretamente incestuoso. Per quanto riguarda Lisabetta, il sogno in cui le appare Lorenzo è chiaramente una proiezione dell’immaginario. Da questo momento, l’immaginario opera in ogni sua azione, sino alla follia. La testa di Lorenzo è l’oggetto parziale, su cui si sposta il suo desiderio represso e negato. La testa si carica, nell’immaginario di Lisabetta, di un valore simbolico: è il figlio, e il vaso in cui essa viene sepolta è il grembo sostitutivo, che deve costituire una riparazione alla morte, una rinascita. E il figlio metaforico e sostitutivo è costituito dalla bellissima pianta di basilico, che cresce e si sviluppa rigogliosa. Ma il crescere della pianta dal vaso in cui è sepolta la testa richiama anche gli antichi riti di fertilità: la testa di Lorenzo ricorda la testa del dio della vegetazione sepolta nella terra all’inizio dell’inverno come segno di rifecondazione delle piante a primavera. Nel quadro si inseriscono così fitti richiami mitici. Sulla borghese fanciulla del Trecento si riflettono i lineamenti di Iside che riscatta la mutilazione del dio Osiride smembrato. Il suo pianto è la pioggia fecondatrice. La costruzione narrativa
Il silenzio di Lisabetta
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Sul piano della struttura narrativa, Cesare Segre osserva come Lisabetta non prenda mai la parola, a differenza dei personaggi di Boccaccio, che di solito parlano molto e con grande eloquenza: i suoi discorsi non sono mai riferiti dal narratore. Questo silenzio è usato da Boccaccio per indicare la sua soggezione, la sua condizione insuperabile di vittima. Il suo silenzio si scontra con quello simmetrico dei fratelli. Essi, in quanto detentori del potere nell’ambito familiare, hanno diritto alla parola, ma non hanno necessità di usarla. Non vogliono conoscere, ma reprimere. Il loro parlare è l’agire, uccidere Lorenzo, sottrarre il vaso.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio Laboratorio interattivo
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. completa la tabella, elaborando per ogni episodio della novella un sommario, secondo l’esempio proposto. episodio
Sommario
rr. 4-13: «erano adunque … ciascuno»
vengono presentati i protagonisti della vicenda. Lisabetta e Lorenzo ........................................................................................................................................................................................................................................ si innamorano. ........................................................................................................................................................................................................................................
rr. 14-25: «e in questo … dal viso»
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rr. 26-32: «e in tal disposizion … da torno usati»
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rr. 33-40: «Non tornando … si stava»
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rr. 41-48: «Avvenne una notte … pianse»
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rr. 48-61: «Poi la mattina … a casa sua»
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rr. 62-75: «Quivi … cotal maniera»
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rr. 75-79: «Il che udendo … domandava»
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rr. 79-84: «I giovani … a Napoli»
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rr. 85-89: «La giovane … et cetera»
........................................................................................................................................................................................................................................ ........................................................................................................................................................................................................................................
AnALIzzAre
> 2.
narratologia I verbi che esprimono l’insistenza con cui Lisabetta, sottomessa ai fratelli, rivolge loro domande si concentrano in due momenti fondamentali della narrazione (rr. 33-40: «domandandone», «domandandone», «domandi», «domanderai», «risposta», «domandarne»; rr. 78-85: «richiese», «domandava», «adimandare», «adimandando»). Descrivi sinteticamente la situazione relativa al primo e al secondo momento, e delinea il rapporto che intercorre fra i personaggi. > 3. Lessico Individua e sottolinea nel testo i vocaboli e/o le espressioni con cui Boccaccio rappresenta il personaggio di Lisabetta nella fase iniziale della vicenda, in cui si innamora di Lorenzo e vive anche la gioiosa fisicità della relazione (rr. 5-13). > 4. Lingua effettua l’analisi del periodo «Il quale … trapassò» (rr. 16-19). > 5. Lingua Prendendo in esame il passo relativo all’apparizione di Lorenzo in sogno e all’iniziativa presa da Lisabetta al suo risveglio («Avvenne … a casa sua», rr. 39-58), sostituisci ai vocaboli che seguono espressioni equivalenti dell’italiano corrente, adattandole al contesto del discorso e mantenendo invariata la loro funzione grammaticale: «fieramente» (r. 45); «per ciò che» (rr. 45-46); «levata» (rr. 48-49); «ardire» (r. 49); «quanto più tosto» (r. 52); «niuna» (r. 54); «guasto» (rr. 54-55); «spiccò» (r. 58).
APProFondIre e InTerPreTAre
> 6.
Testi a confronto In un confronto con la novella di tancredi e Ghismunda ( T8, p. 566), metti in relazione i momenti-chiave delle due vicende: quello del taglio e della conservazione della testa di Lorenzo da parte di Lisabetta, e quello del gesto estremo di Ghismunda determinato dalla scoperta del cuore di tancredi nella coppa.
Per IL PoTenzIAmenTo
> 7.
Altri linguaggi: arte L’immagine proposta sembra rappresentare soltanto due dei diversi episodi della novella. a) Perché, a tuo parere, il miniatore ha scelto di raffigurare questi due episodi? b) Nel testo letterario si parla esplicitamente di una fitta vegetazione riguardo il luogo in cui viene sepolto e ritrovato il corpo di Lorenzo? Quali momenti della narrazione, invece, corrispondono puntualmente alla rappresentazione della città lontana sullo sfondo?
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L’età comunale in Italia
c) Quali particolari presenti nella narrazione il miniatore ha omesso, modificato o trasformato nel tradurla in immagine? Nel rispondere, presta particolare attenzione alla seconda scena e alle azioni compiute dai personaggi rappresentati, osservando che la «fante» è collocata sulla sinistra e Lisabetta sulla destra.
I tre fratelli di Elisabetta uccidono l’amante della sorella; Elisabetta, dissotterrandolo in segreto, ne raccoglie la testa e la nasconde in un vaso di basilico, 1430-50, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice 5070, Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
SCRITTURA CREATIVA
> 8. Dopo aver riflettuto sul significato dei silenzi della protagonista della novella, prova a elaborare il testo di uno scritto (lettera, testamento, o altro) che si configuri come una sorta di “bilancio” dell’intera vicenda, lasciato da Lisabetta ai fratelli perché possano leggerlo dopo la sua morte. Non superare 50-60 righe (3000 caratteri).
Interpretazioni critiche
Mario Baratto Il conflitto tra amore e «ragion di mercatura» nella novella di Lisabetta da Messina Baratto parte da un’osservazione di Branca, che ha colto la struttura bipolare e conflittuale della novella: il «fiore dell’aMario Baratto ravvisa nell’opera di Bocmore» appassisce e muore «nel terreno indurito dal dominio caccio una bipolarità: da un lato un’aperdella ragion di mercatura». La borghesia mercantile soffoca tura alla molteplicità del reale, dall’altro ogni slancio affettivo che non convenga ai propri interessi, ai una tensione all’unità, all’ordine, al dominio razionale. Il critico, come risalta nel vantaggiosi contratti che essa intende stipulare anche mepasso riportato, è attento alla dimensione diante i propri matrimoni. Questo antagonismo irriducibile sociologica della rappresentazione boctra due logiche si riflette nella struttura della novella, che si cacciana, ma al tempo stesso è sensibile basa sulla sistematica alternanza di blocchi narrativi concerai modi formali della narrazione. nenti ora Lisabetta ora i fratelli. Nella conclusione l’indifesa passività di Lisabetta trionfa sui fratelli, sovverte i loro disegni: l’amore appare più forte della spietata logica mercantile. Il messaggio ideologico è l’inutilità di opporsi alla natura d’amore. È la proposta di un’apertura laica nella morale familiare e sociale, rivolta ad una moderna classe dirigente da un intellettuale aperto e innovatore, per quanto socialmente moderato e non eversivo. La pagina è un esempio di critica sociologica, che ricostruisce il messaggio ideologico veicolato dal testo e ne individua la funzione in un determinato contesto sociale. Ma il discorso di Baratto rivela poi interessi più ampi e si allarga anche a considerare le strutture formali in cui l’ideologia si esprime.
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Si rifletta alla struttura della novella: essa è costituita da una serie di blocchi narrativi che concernono ora Lisabetta ora i fratelli, e non possono che alternarsi, appunto, a significare la mancanza, tanto più straordinaria in uno spazio così piccolo, di ogni contatto effettivo che non sia quello rispettivamente della vigilanza e della paura; e quando tale contatto avviene per un momento (Lisabetta che chiede invano notizie di Lorenzo), esso rende definitivamente invalicabile quella distanza, sospinge la vittima in una più grave e definita solitudine. Ma è nel procedimento a sequenze alternate, che si incalzano a vicenda in un gioco serrato di azioni indirette e mediate, la struttura drammatica della novella. E da tale strana e insistente tensione conflittuale deriva tutto il senso del racconto; in essa si precisa, e a un livello e con responsabilità quotidiani, la tragicità della vicenda. […] Perché dunque l’alternanza dei soggetti dell’azione, e delle conseguenti sequenze narrative, ha un senso nella novella, ne determina anzi la struttura? Perché tale scansione delle vicende è strettamente connessa a un paradosso di fondo proprio del racconto: al fatto cioè che la più grande e indifesa passività può trasformarsi in minacciosa, non resistibile attività. Punita due volte dai fratelli, privata prima dell’amante e poi di quanto continua a ricordarlo, Lisabetta li punisce a sua volta, disgrega quel nucleo familiare che essi volevano mantenere intatto dallo scandalo, li costringe a fuggire, sovverte insomma i loro disegni. La statica e silenziosa rassegnazione finisce col prendere una dura rivincita sulla decisione fredda e inesorabile; e l’amore appare più forte (e può essere dunque più forte, se ha un senso la logica del racconto) dell’accortezza e della spietata lucidità mercantili. Grazie ad Amore, il piano dell’apparenza dei fatti tende così a rovesciarsi: e il caso singolare che i personaggi della novella siano tutti giovani, capaci certo di riflettere e di agire ma privi di lunga esperienza, rende ancora più eloquente, oggettiva come una legge di natura, la loro alterna vicenda. E rende anche più complesso l’aspetto narrativo della novella: che, a un primo livello, presenta uno scontro, del tutto impari, tra la forza del potere e una debolezza inerme; a un secondo, mette in movimento un meccanismo che trasforma la vicenda in uno scontro tra due forze, ugualmente potenti, che portano alla rovina entrambi i contendenti. […] È sciocco dunque opporsi alla natura di amore, è bene comporre, con tutta la segretezza e l’avvedutezza possibili, con tale forza possente […]. Si tratta […] di una morale intellettuale proposta da un intellettuale: il quale chiede, in questo campo, insieme segretezza e indulgenza, una più comprensiva saggezza nel comportamento, perché è consapevole della necessità, per una classe dirigente moderna, di un’apertura laica nella morale familiare e sociale. Narrando e cercando di ricomprendere il mondo terreno, il Boccaccio si propone come l’intellettuale che deve illuminare gli elementi essenziali di incivilimento di una società più progredita; e proporli a una classe dirigente (ai tempi del Boccaccio, l’aristocrazia cittadina e la grossa borghesia finanziaria che stanno stringendo un’alleanza che li protegga dalle minacce che vengono dagli strati inferiori) capace di farli propri, di stabilire una nuova egemonia culturale. M. Baratto, Struttura narrativa e messaggio ideologico, in AA.VV., Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del «Decameron», a cura di M. Lavagetto, Pratiche, Parma 1982
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. In che cosa consiste il «paradosso di fondo proprio del racconto» (r. 13)? con quali affermazioni il critico esprime l’idea del trionfo di Lisabetta nel conflitto tra amore e «ragion di mercatura»?
AnALIzzAre
> 2. In quali righe del testo il critico definisce e analizza la struttura e l’impianto narrativo della novella? Motiva la tua risposta. Lessico Dopo aver consultato il dizionario e contestualizzato nel discorso l’uso del vocabolo, spiega l’esatto significato del verbo «ricomprendere» sottolineato nel testo (r. 32).
> 3.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 4.
esporre oralmente Dopo aver individuato nel brano il punto in cui il critico ribadisce l’importanza della ricaduta sociale del messaggio ideologico di Boccaccio, rifletti sulla validità delle sue affermazioni e prova a sostenerle in un’esposizione orale (max 5 minuti), in base agli studi da te finora effettuati sull’autore e sulla sua opera.
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L’età comunale in Italia
T10
nastagio degli onesti
Temi chiave
• l’amore a lieto fine grazie
dal Decameron, V, 8
all’«industria»
• la caccia infernale Il tema della novella, in accordo con quello generale della • il rovesciamento dell’exemplum quinta giornata, è l’amore che raggiunge un lieto fine. La medievale narratrice è Filomena. Nella vicenda realistica si inserisce una visione sovrannaturale. La fonte della novella è probabilmente lo Speculum historiale di vincenzo di Beauvais (vissuto tra il XII e il XIII secolo), che raccoglie il mito di origine nordica della “caccia infernale”, molto diffuso nella letteratura medievale. Alla stessa leggenda s’ispira, per uno degli esempi edificanti del suo Specchio di vera penitenza, Iacopo Passavanti ( cap. 1, T4, p. 120), monaco domenicano fiorentino contemporaneo di Boccaccio. Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari 1, spende le sue ricchezze senza essere amato; vassene pregato da’ suoi a Chiassi 2; quivi vede cacciare a un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui a un desinare, la quale 3 vede questa medesima giovane sbranare e temendo di simile avvenimento 4 prende per marito Nastagio. 5
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Come la Lauretta si tacque, così per comandamento della reina cominciò Filomena: – Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata5: il che acciò che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi6, mi piace di dirvi una novella non meno di compassion piena che dilettevole. In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e gentili uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima7 rimase ricchissimo. Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere8 di doverla trarre a amar lui. Le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica9 gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva10. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare11, che per dolore più volte dopo essersi doluto gli venne in disidero d’uccidersi; poi, pur tenendosene12, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o se potesse d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più multiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare13; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare, per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese14. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollecitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo15; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo
1. Onesti … Traversari: famiglie aristocratiche di Ravenna. 2. Chiassi: Classe, località dove si estende l’omonima pineta, presso Ravenna. 3. la quale: è la donna amata, Bianca Traversari. 4. temendo … avvenimento: temendo che accada anche a lei la stessa cosa. 5. come … vendicata: come in noi donne la pietà è lodata, così la crudeltà è rigorosamente punita dalla giustizia divina; i due sentimenti di cui si parla (pietà e crudeltà) ri-
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spondono alla tipologia dei valori cortesi e non di quelli cristiani: pertanto in questo caso la pietà è la virtù della donna che contraccambia il desiderio dell’amante. 6. il che … da voi: perché io possa chiarirvi questo e fornirvi l’occasione di cacciare del tutto la crudeltà da voi. 7. senza stima: inestimabilmente. 8. opere: sono gli strumenti di cui Nastagio intende avvalersi per conquistarla: cortesia e liberalità. 9. cruda … salvatica: crudele, scontrosa e ostile.
10. né egli … piaceva: non le piaceva Nastagio né alcuna cosa che a lui piacesse. 11. a comportare: da sopportare. 12. pur tenendosene: malgrado se ne astenesse. 13. che egli … consumare: che egli stesse per distruggere se stesso e il proprio patrimonio. 14. per ciò che … spese: perché, così facendo, avrebbe posto un limite all’amore e allo sperpero di denaro. 15. disse di farlo: disse che l’avrebbe fatto.
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lontano andar volesse, montato a cavallo e da’ suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossen a un luogo fuor di Ravenna forse tre miglia, che si chiama Chiassi; e quivi fatti venir padiglioni e trabacche16, disse a color che accompagnato l’aveano che starsi volea17 e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio cominciò a fare la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s’era18. Ora avvenne che, venendo quasi all’entrata di maggio, essendo un bellissimo tempo e egli entrato in pensiero della sua crudel donna19, comandato a tutta la sua famiglia20 che solo il lasciassero per più poter pensare a suo piacere, piede innanzi piè se medesimo trasportò pensando21 infino nella pigneta. E essendo già passata presso che la quinta ora22 del giorno e esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi23 da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse e maravigliossi nella pigneta veggendosi24. E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé25; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove la giugnevano26 la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier27 nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco28 in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa a un’ora29 maraviglia e spavento gli mise nell’animo e ultimamente30 compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone e cominciò a farsi incontro a’ cani e contro al cavaliere. Ma il cavaliere che questo vide gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare31, lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato».
16. padiglioni e trabacche: tende di foggia e dimensioni diverse. Le trabacche sono più piccole dei padiglioni e sono destinate al seguito. 17. starsi volea: voleva fermarsi lì. 18. come usato s’era: come si era abituato. 19. egli entrato … donna: ricorrendogli alla mente il pensiero della donna spietata. 20. famiglia: servitù.
21. piede … pensando: assorto nei suoi pensieri, passo dopo passo giunse. 22. quinta ora: la prima ora del giorno corrisponde alle nostre sei, pertanto la quinta ora era l’equivalente delle nostre undici antimeridiane. 23. guai … messi: gemiti molto acuti emessi. 24. veggendosi: vedendosi (assorto nei suoi pensieri d’amore), Nastagio non si era
accorto di essersi addentrato nella pineta. 25. piagnendo … mercé: che gridava e chiedeva ad alta voce pietà. 26. la giugnevano: la raggiungevano. 27. corsier: cavallo. 28. stocco: spada. 29. a un’ora: al tempo stesso. 30. ultimamente: da ultimo. 31. non t’impacciare: non t’immischiare.
Pesare le parole T’impacciare (r. 53) Qui ha il senso di “impicciarsi”, cioè “immischiarsi, intromettersi, ingerirsi”, mentre impacciare nel linguaggio attuale significa “impedire, intralciare, ostacolare l’azione o il movimento” (es. gli abiti troppo larghi lo impacciano nella corsa). Lo stesso significato ha impicciare nella forma non riflessiva ma transitiva (es. la balbuzie lo ha molto impicciato). D’altronde i due verbi hanno la stessa origine, il provenzale antico empachar e il francese antico empechier, che a loro volta vengono dal latino tardo impedicàre, da pèdica, “laccio, trappola” (che ha la stessa radice di pèdem, “piede”, quindi “qualcosa che lega i piedi”). impaccio è o l’imbarazzo di chi è impacciato (es. prova sempre impaccio a parlare in pubblico), o l’ostacolo, l’impedimento che impaccia (es. gli è stato d’impaccio mentre cercava di salire sull’autobus); im-
piccio, oltre che “intralcio”, significa “seccatura, fastidio” (es. è riuscito a cavarsi dagli impicci). È sempre interessante risalire alle etimologie dei vari sinonimi, cercandovi le idee e le immagini che vi sono sottintese. Per impicciarsi: immischiarsi, da in- + mischiare, dal latino parlato misculàre, forma iterativa di miscère, “mescolare”; intromettersi, composto di intro-, “nell’interno”, e mìttere, “gettare”, quindi alla lettera “gettarsi dentro”; ingerirsi, dal latino in- più gèrere, “portare”, quindi “portarsi dentro”, con un’immagine analoga alla precedente. Per impacciare: impedire, da in- e pèdem, quindi letteralmente “legare i piedi”; intralciare, da in- più tralcio, “ramo di vite o di pianta rampicante”, quindi “avviluppare in un intrico di rami”; ostacolare, dal latino obstàculum, da obe stàre, quindi “stare davanti, opporsi”.
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E così dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopragiunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so chi tu ti se’ che me così cognosci, ma tanto32 ti dico che gran viltà è d’un33 cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica: io per certo la difenderò quant’io potrò». Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco34, e eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi35, era troppo più innamorato di costei che tu ora non se’ di quella de’ Traversari; e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato. Né stette poi guari tempo36 che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato37, similmente fu e è dannata alle pene del Ninferno38. Nel quale come ella discese, così ne39 fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla40 come mortal nemica, non come amata donna; e quante volte io la giungo41, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena42, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sì come tu vedrai incontanente43, le caccio di corpo e dolle44 mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio45 che ella, sì come la giustizia e la potenzia di Dio vuole, come se morta non fosse stata46, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga47, e i cani e io a seguitarla. E avviene che ogni venerdì in su questa ora io la giungo qui e qui ne fo lo strazio che vederai; e gli altri dì non credere che noi riposiamo, ma giungola48 in altri luoghi ne’ quali ella crudelmente contro a me pensò o operò; e essendole d’amante divenuto nemico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa49 tanti anni seguitar quanti mesi ella fu contro a me crudele50. Adunque lasciami la divina giustizia mandare a essecuzione, né ti volere opporre a quello a che tu non potresti contrastare». Nastagio, udendo queste parole, tutto timido51 divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi adietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso a aspettare quello che facesse il cavaliere; il quale, finito il suo ragionare, a guisa d’un cane rabbioso con lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e da’ due mastini tenuta forte gli gridava mercé52, e a quella con tutta sua
32. tanto: solamente. 33. d’un: da parte di un. 34. d’una … teco: della tua stessa città. 35. Guido degli Anastagi: gli Anastagi erano una nobile famiglia di Ravenna, ma di un Guido non si ha testimonianza. 36. Né stette … tempo: e non trascorse molto tempo. 37. come … meritato: poiché riteneva che quello fosse un merito, non un peccato. 38. Ninferno: inferno. 39. ne: ci.
40. seguitarla: inseguirla. 41. la giungo: la raggiungo. 42. aprola per ischiena: la squarto. 43. incontanente: subito. 44. dolle: le do. 45. Né … spazio: e non passa poi molto tempo. 46. morta … stata: non fosse stata uccisa. 47. fugga: caccia. 48. giungola: la raggiungo. 49. me la … guisa: sono costretto in questo modo. 50. tanti … crudele: Boccaccio rielabora
Pesare le parole Incomincia … a seguitarla
(r. 75)
È una costruzione sintattica che non sarebbe tollerata nell’italiano moderno: al secondo membro della frase viene sottinteso “incominciamo da capo”, mentre noi non potremmo sottintenderlo, perché rispetto a inco-
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qui il modello, molto diffuso nella letteratura medievale, della caccia infernale (si veda l’introduzione al testo), pena cui erano destinate le anime del purgatorio, per le quali aveva un senso la temporaneità della pena, mentre Guido degli Anastagi e la donna da lui amata sono dannati nell’inferno: il riferimento alla durata limitata della pena è dunque contraddittorio. 51. timido: timoroso. 52. mercé: grazia.
mincia cambiano sia la persona (dalla terza alla prima) sia il numero (dal singolare al plurale). La sintassi dei classici del passato è in genere più libera della nostra.
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forza diede per mezzo il petto e passolla dall’altra parte53. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, così cadde boccone sempre piagnendo e gridando: e il cavaliere, messo mano a un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa da torno54, a’ due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari55 che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola: e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora56 si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli57 poté vedere. Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso: e dopo alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere58, poi che ogni venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a’ suoi famigliari se ne tornò, e appresso, quando gli parve, mandato per più59 suoi parenti e amici, disse loro: «Voi m’avete lungo tempo stimolato che io d’amare questa mia nemica mi rimanga60 e ponga fine al mio spendere, e io son presto di61 farlo dove voi una grazia m’impetriate62, la quale è questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer Paolo Traversari e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi vi piacerà, qui sieno a desinar meco. Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora». A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare; e a Ravenna tornati, quando tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse63 il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v’andò con l’altre insieme. Nastagio fece magnificamente apprestar da mangiare e fece le tavole mettere sotto i pini dintorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel donna; e fatti metter gli uomini e le donne a tavola, si ordinò, che64 appunto la giovane amata da lui fu posta a seder di rimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire65. Essendo adunque già venuta l’ultima vivanda, e66 il romor disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato a udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse e niuno sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e ’l cavaliere e’ cani; né guari stette che essi tutti furono quivi tra loro. Il romore fu fatto grande e a’ cani e al cavaliere67, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare ma tutti gli spaventò e riempié di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v’aveva68 (ché ve ne aveva assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano dell’amore e della morte di lui) tutte così miseramente piagnevano come se a se medesime quello avesser veduto fare. La qual cosa al suo termine fornita69, e andata via la donna e ’l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e varii ragionamenti70. Ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita e conosciuto che a sé più che a altra persona che vi fosse queste cose toccavano71, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggire dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi.
53. diede … parte: la colpì in mezzo al petto e la trapassò da parte a parte. 54. ogni … torno: ogni altro organo intorno al cuore. 55. Né stette guari: e non passò molto tempo. 56. in picciola ora: in poco tempo. 57. gli: li. 58. questa … valere: che questa cosa gli sarebbe potuta tornare utile. 59. mandato … più: fatti chiamare parecchi.
60. stimolato … mi rimanga: esortato a smettere di amare questa mia nemica. 61. presto di: pronto a. 62. m’impetriate: otteniate per me. 63. e come che … fosse: benché fosse molto difficile. 64. si ordinò, che: si disposero le cose in modo che. 65. intervenire: succedere. 66. e: ecco che.
67. Il romore … cavaliere: si fece un gran chiasso contro i cani ed il cavaliere. 68. quante … v’aveva: tutte le donne che c’erano. 69. al suo … fornita: portata a termine. 70. mise … ragionamenti: diede … molti e vari motivi di discussione. 71. toccavano: si riferivano.
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E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che72 questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide, il quale quella medesima sera prestato le fu, che73 ella, avendo l’odio in amor tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacere d’andare a lei, per ciò che ella era presta di74 far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado75 molto, ma che, dove76 le piacesse, con onor77 di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse78, gli fece rispondere che le piacea. Per che, essendo ella medesima la messaggera79, al padre e alla madre disse che era contenta d’essere sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto. E la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze80, con lei più tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane81 donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo82 più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano83.
72. acciò che: affinché. 73. prima … che: non si lasciò sfuggire l’occasione che quella stessa sera le si presentò. 74. per ciò … presta di: perché era pronta a. 75. a grado: gradito. 76. dove: qualora. 77. con onor: salvaguardando l’onore di lei.
78. che da lei … fosse: che era dovuto solo a lei non essere diventata moglie di Nastagio. 79. la messaggera: la persona che presenta alla famiglia della sposa la richiesta di matrimonio. 80. sposatala … nozze: il primo termine
indica la promessa solenne, il secondo il matrimonio vero e proprio. 81. ravignane: di Ravenna. 82. troppo: molto. 83. che … erano: di quanto non fossero state prima.
Analisi del testo Boccaccio e Passavanti: il significato antitetico dei due racconti
Passavanti: la condanna del peccato carnale
Boccaccio: la concezione naturalistica
Boccaccio e Passavanti vivono nella stessa città e negli stessi anni. Ma lo stesso racconto nei due scrittori assume coloriture narrative e significati molto diversi, che sono indicativi di diversi orientamenti culturali. Innanzitutto le finalità dei due esempi sono opposte. In Passavanti la donna e l’amante sono puniti (nel purgatorio) per aver ceduto alla passione e per aver commesso peccato di lussuria e di adulterio (che porta con sé un peccato ancor più grave, l’omicidio del marito); in Boccaccio la donna è punita (all’inferno) per non aver corrisposto all’amore, per averlo rifiutato, inducendo così l’amante al suicidio. Nel predicatore domenicano si riflette cioè la tradizionale concezione del cristianesimo medievale, che vedeva nel sesso un peccato mortale da condannare e fuggire, ed una fonte di altri terribili peccati; Boccaccio invece riflette la concezione nuova, laica e naturalistica, per cui il desiderio amoroso è prodotto di natura e come tale è buono e innocente, e colpevole è semmai contrastarlo ( la novella di Lisabetta, T9, p. 577). È una visione più aperta, nata dalla civiltà urbana comunale e borghese, che fa già presentire quella rinascimentale. Il racconto di Boccaccio si può quindi vedere come il rovesciamento deliberato dell’exemplum medievale; si è persino parlato di parodia, a proposito del comico ribaltamento finale per cui la fanciulla ritrosa diventa di colpo arrendevole sotto l’impulso della paura, con quella ulteriore coda maliziosa sulle donne ravennati divenute da allora molto più disponibili all’amore. Le diverse soluzioni narrative
La caccia infernale ha un peso diverso nei due racconti
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L’impostazione ideologica opposta dei due racconti dà vita a soluzioni narrative molto diverse. Passavanti insiste tanto sui particolari crudeli e orripilanti in obbedienza alla finalità dell’exemplum, che è quella di terrorizzare l’uditore con la visione delle pene
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
dell’aldilà e di indurlo a fuggire il peccato; tale intento è del tutto estraneo a Boccaccio, che non vuole certo spaventare, ma suggerisce il suo messaggio con malizioso sorriso. A questo si collega un altro elemento fondamentale: la caccia infernale ha un peso ben diverso nell’economia dei due racconti. Nell’esempio di Passavanti costituisce la totalità della narrazione; in Boccaccio è solo un episodio inserito nella novella, che poi mira ad altro: la visione infernale è sfruttata da Nastagio, con l’«industria» tipica degli eroi boccacciani, per raggiungere i suoi fini e ottenere la soddisfazione del suo desiderio amoroso. Il racconto nel racconto
Una fitta serie di corrispondenze
A tal proposito Cesare Segre ha osservato che la novella è un racconto in cui è inserito un altro racconto. Tra i due racconti vi è una fitta serie di corrispondenze: i due uomini, Nastagio e Guido, amano non riamati, e sono indotti dall’amore infelice alla tentazione del suicidio; le due donne sono egualmente crudeli: come la fanciulla dei Traversari è indifferente alle sofferenze di Nastagio, così l’altra donna prova malvagio godimento per la morte di Guido. La stessa Traversari, dopo la visione, si identifica con la donna sino a sentirsi già inseguita da Nastagio con i mastini. La prima apparizione della caccia infernale sembra il materializzarsi delle fantasticherie di Nastagio: egli si è addentrato nella pineta, immerso nei suoi pensieri che ruotano intorno alla donna crudele, ed è proprio allora che gli appare l’altra donna inseguita. Nella visione si hanno così gli sviluppi possibili della situazione di Nastagio, quello che avrebbe potuto succedergli: il suicidio a causa dell’amore infelice, la persecuzione infernale della malvagia Traversari. Ma appunto la «virtù» di Nastagio sfrutta la visione per stornare questa infausta possibilità. La novella narra così il passaggio da una situazione iniziale di amore simmetrico (N ama T – T non ama N) ad una d’amore simmetrico (N ama T – T ama N). Il racconto di livello primo (quello di Nastagio) non è che il racconto di livello secondo capovolto.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Descrivi la condizione socioeconomica di Nastagio e quella della fanciulla da lui amata. > 2. come si mostra la giovane nei confronti di Nastagio e del suo amore? Quali sono le reazioni di quest’ultimo di fronte al rifiuto della fanciulla?
> 3. Perché gli amici e i parenti inducono Nastagio a lasciare Ravenna? > 4. In che modo Nastagio sfrutta ciò che ha visto per conquistare la sua donna? > 5. come reagiscono gli invitati di fronte alla caccia? e la giovane amata? AnALIzzAre
> 6.
narratologia A proposito di questa novella e della caccia infernale, cesare Segre ha osservato che si tratta di un “racconto nel racconto”: individua, allora, e circoscrivi la vicenda di Guido degli Anastagi.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 7.
esporre oralmente oltre alla virtù dell’«industria», si possono riconoscere, attraverso i comportamenti dei personaggi e le osservazioni del narratore, alcuni dei valori legati al mondo cavalleresco o mercantile che Boccaccio esalta continuamente nella sua opera. Individuali e organizza la scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) sulla concezione del mondo e dei rapporti tra gli uomini che si viene a delineare nel Decameron. > 8. Competenze digitali Realizza una presentazione multimediale sul tema La caccia infernale in Decameron, V, 8, istituendo relazioni e confronti.
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Galleria di immagini
La novella di nastagio degli onesti illustrata da Botticelli Il pittore fiorentino Alessandro Filipepi (1445-1510), noto come Sandro Botticelli, fu uno dei grandi protagonisti dell’arte italiana del Quattrocento. Egli elaborò uno stile originale, basato sull’adozione di una linea sottile e dinamica che definisce figure di una bellezza idealizzata, e si fece interprete dell’atmosfera culturale, incentrata sul recupero della classicità, che permeava la corte di Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze. Intorno al 1483 Botticelli realizzò quattro tavole raffiguranti La novella di Nastagio degli Onesti
Sandro Botticelli, La visione di Nastagio, 1483 ca., tecnica mista su tavola, Madrid, Museo del Prado.
Nella Visione di Nastagio, Botticelli, per illustrare la parte iniziale della novella, scandisce l’immagine in una sequenza di tre momenti attraverso la ripetizione della figura del giovane ravennate, riconoscibile dalle calze rosse e dalla tunica azzurra. Tale sequenza ha inizio sullo sfondo, all’estrema sinistra della tavola, con Nastagio in prossimità delle tende che ospitano lui e il suo seguito; prosegue in primo piano con il giovane che vaga da solo per la pineta; culmina al centro con l’apparizione della caccia infernale e Nastagio che raccoglie da terra un ramo per cercare di difendere la donna aggredita dai cani. La scena è ambientata nella pineta di Classe, in un «boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni» che Botticelli trasforma in un paesaggio luminoso e ordinato, in cui i personaggi agiscono tra radi alberi ad alto fusto, espediente che gli consente di ottenere un efficace effetto tridimensionale. 590
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio Galleria di immagini Il Decameron nell’arte figurativa del Novecento
come regalo di nozze per Giannozzo Pucci e Lucrezia Bini, esponenti di due ricche famiglie legate ai Medici, probabilmente su commissione dello stesso Lorenzo. Le tavole di Botticelli sono spalliere destinate alle pareti o al letto della camera nuziale degli sposi, la cui originalità risiedeva nel soggetto raffigurato, non un consueto tema tratto dalla mitologia greco-romana, ma una novella dai contenuti cruenti di un autore medievale. La scelta di tale soggetto è da attribuire al successo che il Decameron, a più di un secolo dalla sua stesura, riscuoteva presso la corte di Firenze e al valore augurale della novella, una storia d’amore a lieto fine. Botticelli ideò e disegnò le quattro scene delle spalliere, che furono poi dipinte da suoi stretti collaboratori. Le prime tre sono fedeli trasposizioni visive del testo di Boccaccio, non prive però di elementi liberamente interpretati dall’artista, mentre la quarta è un’immagine celebrativa della ricca borghesia fiorentina.
Sandro Botticelli, Guido degli Anastagi strappa il cuore all’amata, 1483 ca., tecnica mista su tavola, Madrid, Museo del Prado.
Nella seconda tavola, il racconto riprende in primo piano con il cavaliere che, dopo aver ucciso la donna, le strappa il cuore e lo dà in pasto ai cani (a destra), mentre Nastagio ha un moto di orrore di fronte a tanta crudeltà. Prosegue poi sullo sfondo, dove Guido degli Anastagi e la donna che respinse il suo amore hanno ripreso la caccia, il tormentoso contrappasso a cui sono condannati per l’eternità. Botticelli non differenzia mondo reale e visione infernale, ma adotta per entrambi lo stesso registro espressivo, anche se nelle figure della visione si concentra la sua libertà interpretativa nei confronti del testo di Boccaccio. Trasforma infatti il «corsier nero» in un cavallo bianco, il «cavalier bruno» in un cavaliere dall’armatura dorata e il mantello rosso, i «due grandi e fieri mastini» in due bei cani, uno bianco e l’altro nero, dall’aspetto non particolarmente feroce. 591
L’ArTe InConTrA LA LeTTerATUrA
Sandro Botticelli, Il banchetto nella pineta, 1483 ca., tecnica mista su tavola, Madrid, Museo del Prado.
La scena del terzo dipinto è quasi interamente dedicata al banchetto che Nastagio allestisce per Bianca Traversari e la sua famiglia nel luogo in cui si svolge la caccia infernale, affinché tutti possano assistervi. Botticelli si concentra sullo spavento e l’orrore che provano i commensali all’apparire dei due dannati, cogliendo il momento in cui essi si alzano in piedi di scatto, agitano in maniera scomposta le mani e fanno rovesciare a terra le stoviglie, il cibo e addirittura un tavolo. Nastagio è di fronte a loro, rivolto verso Bianca, la terza fanciulla da sinistra. Tra i tanti dettagli, anche minuti, di cui è ricca l’immagine, sono da segnalare gli stemmi dei Pucci, dei Medici e quello bipartito Pucci-Bini, che compaiono, da sinistra a destra, su tre alberi che delimitano l’area destinata al banchetto. In secondo piano, all’estrema destra della scena, vicino alle tende, Nastagio è a colloquio con la cameriera inviata da Bianca. A questo punto si placa il ritmo della narrazione, sempre incalzante, in tutte e tre i dipinti, quando compare la visione infernale.
Esercitare le competenze STABILIre neSSI TrA LeTTerATUrA e ArTI VISIVe
> A partire dalle tavole di Sandro Botticelli, rifletti sulla trasposizione iconografica che l’artista fa della novella boccacciana, soffermandoti a considerare i seguenti aspetti: a) la diversità del codice utilizzato; b) la trasposizione più o meno fedele nella realizzazione pittorica della vicenda e la scelta dei momen-
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Sandro Botticelli, Il pranzo di nozze di Nastagio, 1483 ca., tecnica mista su tavola, Collezione privata.
Nella quarta e ultima tavola, Botticelli prende spunto dal veloce accenno di Boccaccio alle nozze di Nastagio e Bianca per raffigurare uno sfarzoso banchetto nuziale della ricca borghesia fiorentina del Quattrocento. I matrimoni fornivano infatti, alle illustri famiglie della città, l’occasione di esibire il proprio potere economico e sociale. A differenza delle altre scene, ambientate nella pineta di Classe, il banchetto si svolge all’interno di una splendida architettura classica, cioè in uno spazio completamente umano, dove la natura è ridotta a semplice elemento decorativo. Tale architettura, che rimanda ai sontuosi palazzi che stavano mutando il volto di Firenze, consiste in una grandiosa loggia a due navate, in fondo alla quale si erge un arco di trionfo. La raffigurazione di un monumento dell’antichità è legata al soggiorno di Botticelli a Roma, iniziato nel 1481 e terminato intorno alla metà dell’anno successivo, durante il quale l’artista prese parte alla decorazione della Cappella Sistina. Sotto la loggia si fronteggiano il tavolo delle donne e quello degli uomini: tutti i convitati sono composti, eleganti e, cosa molto rara per l’epoca, mangiano con le forchette. Nastagio è seduto davanti alla sposa, vestita di bianco, e le offre il pegno della riconciliazione. Sui primi tre pilastri, sotto i capitelli, sono presenti rami di mirto, che simboleggiano amore eterno, mentre sopra di essi compaiono nuovamente, e nel medesimo ordine, gli stemmi familiari raffigurati nella tavola precedente.
ti da rappresentare; c) la resa narrativa degli eventi a livello dell’organizzazione dello spazio (le modalità con le quali il pittore ha reso, ad esempio, la “ripetitività” della caccia, e l’idea del succedersi dei fatti); d) la committenza e la destinazione delle tavole.
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L’età comunale in Italia
Analisi interattiva
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Federigo degli Alberighi
• l’amore a lieto fine grazie alla
dal Decameron, V, 9
nobiltà d’animo
Anche questa novella tratta di un amore che ha felice fine, grazie non più all’«industria» ma alla nobiltà d’animo del protagonista. La narratrice è Fiammetta.
• la fusione di valori cortesi e borghesi
Federigo degli Alberighi ama e non è amato, e in cortesia spendendo si consuma1 e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro, dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la qual, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fallo ricco.
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[…] Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi2, il quale fu nella nostra città, e forse3 ancora è, uomo di grande e di reverenda auttorità ne’ dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo4 e degno d’eterna fama, essendo già d’anni pieno, spesse volte delle cose passate co’ suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare5: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare che altro uom seppe fare. Era usato di dire6, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi7, in opera d’arme e in cortesia8 pregiato sopra ogni altro donzel9 di Toscana. Il quale, sì come il più10 de’ gentili uomini avviene, d’una gentil donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava11, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva12. Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando13, sì come di leggiere14 adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente15 vivea, e oltre a questo un suo falcone16 de’ miglior del mondo. Per che, amando più che mai né parendogli più potere essere cittadino17 come disiderava, a Campi18, là dove il suo poderetto era, se n’andò a stare. Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertà comportava19. Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo20, che il marito di monna Giovanna infermò21, e veggendosi alla morte venire fece testamento; e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì22, e morissi23.
1. si consuma: consuma tutti i suoi averi. 2. Coppo … Domenichi: personaggio storico, cittadino di Firenze, citato da Boccaccio con grande deferenza. 3. forse: il dubbio è determinato dall’infierire della pestilenza in città. 4. per costumi … chiarissimo: illustre per i costumi e per la virtù molto più che per la nobiltà di sangue. 5. ragionare: parlare. 6. Era … dire: comincia qui l’elegia del passato, il tempo delle belle cose raccontato da un autorevole rappresentante dell’antica Firenze. 7. Federigo … Alberighi: apparteneva ad una delle famiglie più nobili di Firenze.
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Temi chiave
8. in opera … cortesia: due valori fondamentali del perfetto cavaliere. 9. donzel: giovane aspirante cavaliere. 10. come il più: come per lo più. 11. giostrava: partecipava a tornei. 12. niente … faceva: non si curava per nulla di queste cose fatte per lei e di colui che le faceva. 13. niente acquistando: senza ottenere nulla in cambio dalla donna amata. 14. di leggiere: facilmente. 15. strettissimamente: in penosa ristrettezza. 16. falcone: rappresenta la sopravvivenza del simbolo di status ed il permanere delle abitudini aristocratiche: la caccia con il falcone era infatti uno dei passatempi preferiti
dalla società nobiliare. 17. essere cittadino: vivere in città. Si noti come la città sia ormai l’ambiente per eccellenza in cui si colloca la cortesia. 18. a Campi: Campi sul Bisenzio, allora un villaggio, non lontano da Firenze. 19. uccellando … comportava: andando a caccia di uccelli con il falcone e senza chiedere aiuti a nessuno, tollerava pazientemente la sua povertà. 20. divenuto allo stremo: ridotto in miseria. 21. infermò: si ammalò. 22. suo erede substituì: nominò sua erede in sostituzione del figlio. 23. morissi: morì.
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Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l’anno di state24 con questo suo figliuolo se n’andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo. Per che avvenne che questo garzoncello s’incominciò a dimesticare25 con Federigo e a dilettarsi d’uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente26 piacendogli, forte disiderava d’averlo ma pure non s’attentava27 di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro. E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò; di che la madre dolorosa molto, come colei che più no’ n’avea28 e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava29 di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, ché per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse30. Il giovanetto, udite molte volte queste proferte, disse: «Madre mia, se voi fate che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire31». La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette32 e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura33 aveva avuta, per che ella diceva: «Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone, che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo34? E come sarò io sì sconoscente35, che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre36?». E in così fatto pensiero impacciata, come che37 ella fosse certissima d’averlo se ’l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava38. Ultimamente tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo, che che esser ne dovesse39, di non mandare ma d’andare ella medesima per esso e di recargliele40, e risposegli: «Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza, che io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò». Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento. La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di diporto41 se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare42. Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d’uccellare43, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare44; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse. La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza45 levataglisi incontro, avendola già Federigo reverentemente salutata, disse: «Bene stea46 Federigo!» e seguitò: «Io son venuta a ristorarti47 de’ danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale, che io intendo con questa mia compagna insieme desinar teco dimesticamente48 stamane». Alla qual Federigo umilmente rispose: «Madonna, niun danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e
24. l’anno di state: ogni anno d’estate. 25. dimesticare: fare amicizia. 26. stranamente: straordinariamente. 27. non s’attentava: non osava. 28. più no’ n’avea: non aveva altri figli che quello. 29. non restava: non cessava. 30. procaccerebbe … avesse: farebbe in modo di ottenerla. 31. io mi credo … guerire: credo che guarirò presto. 32. alquanto … stette: meditò fra sé a lungo.
33. guatatura: sguardo. 34. il mantien nel mondo: gli dà di che vivere. 35. sconoscente: indiscreta. 36. torre: togliere. 37. come che: benché. 38. si stava: indugiava. 39. che … dovesse: qualunque ne fosse la conseguenza. 40. recargliele: portargli il falcone. 41. per modo di diporto: come per una passeggiata. 42. fecelo adimandare: fece chiedere di lui.
43. non era … d’uccellare: non era la stagione della caccia agli uccelli, né (egli) vi era stato in quei giorni. 44. faceva … acconciare: sorvegliava l’esecuzione di alcuni lavori da parte del contadino. 45. donnesca piacevolezza: grazia femminile. 46. Bene stea: stia bene. 47. a ristorarti: a ricompensarti. 48. dimesticamente: alla buona.
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per l’amore che portato v’ho adivenne49. E per certo questa vostra liberale50 venuta m’è troppo più cara51 che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste siate venuto52»; e così detto, vergognosamente53 dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tener compagnia a altrui54, disse: «Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far mettere la tavola». Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue ricchezze55; ma questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere. E oltre modo angoscioso56, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo57, né denari né pegno58 trovandosi, essendo l’ora tarda e il disidero grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere59, gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga; per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però60, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone61 e arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato. Laonde62 la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede63 le serviva, mangiarono il buon falcone. E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare: «Federigo, ricordandoti tu della tua preterita64 vita e della mia onestà, la quale per avventura65 tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione66 sentendo quello che per principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata. Ma come che67 tu no’ n’abbia, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni dell’altre madri68 fuggire; le cui forze69 seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e dovere70, chiederti un dono il quale io so che sommamente t’è caro: e è ragione71, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione lasciata t’ha la tua strema fortuna72; e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliele porto, io temo che egli non73 aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda. E per ciò ti priego,
49. se io mai … adivenne: se ho mai avuto qualche pregio, esso ha avuto origine dall’amore che ho nutrito per voi e dalla nobiltà che voi mi avete ispirato. La risposta di Federigo è intessuta di espressioni conformi al linguaggio cortese: le virtù maschili si attuano per merito della donna che fa innamorare l’uomo. 50. liberale: generosa. 51. troppo più cara: tanto più cara. 52. come che … venuto: malgrado siate venuta nella casa di un povero ospite. 53. vergognosamente: con vergogna (della sua povertà).
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54. a cui … a altrui: alcun altro da cui farle tenere compagnia. 55. non s’era … ricchezze: non si era ancora accorto, nella misura in cui avrebbe dovuto, di aver dissipato le sue ricchezze. 56. angoscioso: pieno d’angoscia. 57. or qua … trascorrendo: aggirandosi ora qua ora là. 58. pegno: oggetto da impegnare per ricavare denaro. 59. ma il lavorator … richedere: ma non volendo chiedere neppure al suo contadino. 60. E però: e perciò. 61. schedone: spiedo.
62. Laonde: quindi. 63. fede: riverenza. 64. preterita: passata. 65. per avventura: forse. 66. presunzione: audacia. 67. come che: poiché. 68. le leggi … madri: l’amore materno, istinto naturale delle madri. 69. le cui forze: la forza delle quali leggi. 70. oltre … dovere: contro mia voglia ed ogni dovere di convenienza. 71. e è ragione: ed è giustamente. 72. strema fortuna: misera condizione. 73. temo che … non: temo che.
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non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente se’ tenuto74, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato75». Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo76 che servir non ne la potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse. Il qual pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé dipartire il buon falcon divenisse77 più che da altro, e quasi fu per dire che nol volesse78; ma pur sostenutasi79, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse: «Madonna, poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto80; ma tutte sono state leggieri81 a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella82 abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi dirò brievemente. Come io udi’ che voi, la vostra mercé83, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara84 vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l’altre persone s’usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, degno cibo da voi il reputai85, e questa mattina arrostito l’avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea86; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m’è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare87». E questo detto, le penne e’ piedi e ’l becco le fé in testimonianza di ciò gittare avanti. La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d’aver per dar mangiare a una femina88 ucciso un tal falcone89, e poi la grandezza dell’animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare90, molto seco medesima commendò91. Poi, rimasa fuori della Dopo il pasto Federigo degli Alberigi può offrire alla sua compagna solo le zampe e le piume del falcone, 1430-50, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice 5070, Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
74. al quale … tenuto: rispetto al quale tu non hai alcun dovere verso me. 75. averloti … obligato: tenerlo per sempre riconoscente nei tuoi confronti. 76. sentendo: rendendosi conto. 77. divenisse: dipendesse. 78. che nol volesse: che non lo voleva. 79. sostenutasi: trattenutasi. 80. sonmi … doluto: mi sono lamentato di lei.
81. ma tutte … leggieri: ma tutte sono state da poco. 82. ella: la fortuna. 83. la vostra mercé: per vostra grazia. 84. cara: preziosa. 85. bontà … reputai: lo considerai cibo degno di voi, ricordandomi della sua abilità ed eccellenza. 86. il quale … avea: e io pensavo di averne
fatto buon uso. 87. m’è sì … dare: non potervi soddisfare è per me motivo di un dolore tale che non me ne potrò mai dare pace. 88. a una femina: ad una donna. 89. tal falcone: un falcone così prezioso. 90. rintuzzare: mortificare. 91. commendò: ammirò e lodò.
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speranza d’avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì92 e tornossi al figliuolo. Il quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ’nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar moltai giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò. La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa93 ricchissima e ancora giovane, più volte fu da’ fratelli costretta94 a rimaritarsi. La quale, come che95 voluto non avesse, pur veggendosi infestare96, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia97 ultima, cioè d’avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: «Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei98; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi». Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: «Sciocca, che è ciò che tu di’99? come vuoi tu lui che non ha cosa del mondo100?». A’ quali ella rispose: «Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo101». Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto102, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta donna e cui103 egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio104 fatto, terminò gli anni suoi.
92. rimasa … si dipartì: persa la speranza di avere il falcone e per questo temendo per la salute del figlio, tutta triste si allontanò. 93. rimasa: rimasta. 94. costretta: spinta. 95. come che: malgrado. 96. infestare: sollecitare con insistenza.
97. magnificenzia: atto generoso e magnanimo. 98. mi starei: rinuncerei a risposarmi. 99. di’: dici. 100. non ha … mondo: non possiede più nulla. 101. io voglio … d’uomo: preferisco un uomo privo di ricchezze che un uomo ricco
ma privo di virtù, di animo meschino (frase sentenziosa di reminiscenza classica). 102. da molto: (sottinteso: come uomo) di grandi qualità. 103. e cui: e che. 104. massaio: amministratore (del patrimonio).
Pesare le parole Massaio (r. 161) Qui significa “uomo accorto nell’amministrazione dei propri beni”. Viene dal latino medievale massàrium, da màssa, “insieme dei fondi agricoli”. Non è rimasto nell’uso attuale se non al femminile, massaia, propriamente “donna che tiene l’amministrazione della propria casa”,
ma nell’uso più comune sinonimo di casalinga, “donna che non svolge altro tipo di lavoro che quello di occuparsi della propria casa”. Come si vede il senso originario è andato restringendosi.
Analisi del testo Le basi materiali della cortesia
L’ammirazione e la critica della civiltà cortese
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Il protagonista, nella parte iniziale della novella, incarna perfettamente gli ideali dell’aristocrazia cortese. Ne ha i due tratti distintivi, la liberalità e l’amor fino: Federigo spende senza ritegno i suoi averi, giostrando, armeggiando, facendo feste e donando, e lo fa per conquistare la donna amata, secondo il principio cortese del “servizio d’amore”, pur sapendo bene di non poter ottenere nulla da lei. Boccaccio indubbiamente ammira queste virtù cavalleresche dell’eroe, ma non ne vuole fare semplicemente la celebrazione: la sua prospettiva è più sottilmente problematica. Innanzitutto lo scrittore porta risolutamente in primo piano ciò che la letteratura cortese aveva sempre ignorato, le basi materiali della cortesia, il fatto che per essere perfetti
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
La cortesia si autodistrugge
Il vicolo cieco di Federigo
cavalieri cortesi occorre molto denaro. Boccaccio è figlio della civiltà mercantile e finanziaria fiorentina, che conosce bene il valore e l’incidenza del denaro nella vita reale. Per cui non idealizza la realtà, ma ha chiara percezione delle forze concrete che la muovono. Per questo, pur ammirando profondamente la civiltà cortese e i suoi valori, vede anche i limiti che la indeboliscono, se essa non sa fare i conti con le sue basi materiali. Boccaccio in questa novella conduce per così dire una dimostrazione per assurdo, mettendo in luce l’intimo paradosso della cortesia. Praticata con assoluto rigore e spinta ai suoi limiti estremi, essa giunge ad autodistruggersi: con lo spendere largamente, consuma infatti le sue basi materiali, e così pregiudica le condizioni stesse della sua esistenza, le ricchezze. Il paradosso si manifesta chiaramente nel vicolo cieco in cui viene a trovarsi Federigo proprio quando finalmente ha l’occasione, tanto desiderata e mai avuta, di onorare la donna amata in casa sua: l’eroe si vede nell’impossibilità di farlo perché, proprio per “servirla” cortesemente, ha speso tutto il suo avere ed è rimasto povero. Compie allora un ultimo, disperato, nobilissimo gesto, sacrificando il suo falcone, ma ciò segna il culmine del paradosso: il sacrificio gli impedisce di soddisfare la prima richiesta che gli viene fatta dalla donna e provoca la morte del figlio; un gesto sublime è proprio ciò che impedisce il gesto sublime di generosità in cui si dovrebbe realizzare compiutamente la sua cortesia, il dono del falcone alla donna amata. Questo vicolo cieco in cui Federigo viene a trovarsi è la conseguenza inevitabile di una prima scelta sbagliata: se assurde sono le conseguenze, assurde dovevano essere le premesse; era cioè sbagliato sperperare tutto il patrimonio in nome della cortesia. «Liberalità» e «masserizia»
La conciliazione di «liberalità» e «masserizia»
Federigo diviene «massaio»
Il matrimonio
L’unica soluzione che si prospetta è conciliare la «larghezza» cortese con il culto borghese del denaro, la «liberalità» con la «masserizia» (il termine con cui, nella civiltà mercantile del tempo, si designava l’oculata amministrazione del patrimonio). La «masserizia» è condizione necessaria per l’esercizio della cortesia: solo se si amministra saggiamente il patrimonio, le ricchezze possono durare e consentire agli uomini di essere giustamente «liberali»; ma a sua volta la «liberalità» è necessaria per correggere la «masserizia» e impedire che divenga avarizia, grettezza, meschinità. L’ideale è il perfetto cavaliere che sia anche «massaio»; o, visto dall’altro lato, il savio e avveduto borghese che sappia assurgere alla virtù della cortesia. In questo, Boccaccio è l’interprete di quella nuova aristocrazia borghese della società comunale che fonda il suo potere sul denaro, ma eredita dalla civiltà passata il culto delle belle forme, del vivere signorile, della generosità disinteressata, dei gesti magnanimi, del bel parlar gentile. Federigo è il perfetto rappresentante di questa fusione degli ideali cortesi e dei valori della borghesia urbana: se all’inizio ha solo la virtù della cortesia, e la porta sino all’assurdo, poi, ammaestrato dall’esperienza negativa, diviene miglior «massaio» e impara ad amministrare oculatamente il denaro; ma, evidentemente, non abbandona con questo la sua signorile liberalità: le due virtù raggiungono in lui un esemplare equilibrio. È il rappresentante del mondo aristocratico e feudale del passato, che sa trasformarsi e adattarsi alle nuove esigenze del presente, senza però tradire gli ideali originari. Ed il sacrificio del falcone, un elemento tipico della società feudale, assume in questa prospettiva un significato simbolico. Ma è anche molto indicativo che Federigo divenga «miglior massaio» (r. 161) sposandosi: l’amor cortese escludeva rigorosamente il matrimonio, mentre l’esaltazione del matrimonio e della famiglia come condizione indispensabile per la compiuta realizzazione dell’individuo era propria della cultura della borghesia mercantile urbana. Anche il matrimonio, dunque, è il segno dell’integrazione del «donzel» (r. 11) Federigo nel mondo borghese.
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L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Sintetizza il contenuto della premessa (rr. 4-11) e spiegane la funzione. AnALIzzAre
> 2.
narratologia Rintraccia nel testo tutti gli esempi di comportamento che si riferiscono alle buone maniere, improntate alla cortesia e all’eleganza, dei protagonisti. > 3. Stile Alle righe 155-157 è presente, in modo evidente, una figura retorica di posizione: quale? Prova a darne una definizione a partire dal testo. > 4. Lessico osserva l’impiego del vocabolo «ricchezza» (r. 156) al singolare: è una semplice variante di “ricchezze” o assume in questa forma un altro significato? > 5. Lessico Individua nel testo le espressioni e/o i vocaboli che fanno riferimento rispettivamente all’ambito dell’economia e a quello dei sentimenti e/o affetti. Rifletti, infine, sull’insistita presenza del sostantivo «dono» e del verbo «donare» nei discorsi pronunciati dai due personaggi: a quale ambito tra i due appartengono? > 6. Lessico con quali vocaboli è indicato il figlio di monna Giovanna? Dopo averli individuati nel testo, prova a commentare, con l’ausilio di un dizionario, le varianti: hanno tutte lo stesso significato? > 7. Lingua «con tutto che la sua povertà fosse strema» (r. 74): di quale proposizione si tratta? In quali altre varianti potrebbe essere resa con la medesima funzione?
APProFondIre e InTerPreTAre
> 8. Testi a confronto confronta il personaggio di Federigo degli Alberighi con quello di Nastagio, altro protagonista delle novelle della v giornata ( T10, p. 584), in cui si raccontano storie d’amore a lieto fine. In che cosa le loro vicende sono simili? In che cosa differiscono? considera gli aspetti di seguito proposti, in rapporto alle due narrazioni: a) la condizione sociale dei due protagonisti; b) il sentimento d’amore inizialmente non corrisposto; c) la liberalità e il rapporto con il denaro dei due personaggi; d) la conclusione della vicenda; e) il diverso tono delle novelle. > 9. Competenze digitali Prova a raccontare per immagini la novella, facendo riferimento ai forti elementi simbolici (ad esempio il falcone) e iconografici presenti nella narrazione e utilizzando parti del testo come didascalia per ogni immagine. Puoi reperire le immagini in rete, utilizzando il ricco repertorio di dipinti riferito all’età medievale o a successive rielaborazioni artistico-grafiche, e puoi avvalerti di PowerPoint per realizzare il tuo lavoro. Per IL reCUPero
> 10. Aggiungi ad ogni segmento della “rubrica” di Boccaccio gli elementi mancanti fondamentali nella narrazione, secondo l’esempio proposto. Segmento della rubrica
elementi mancanti
«Federigo degli Alberighi ama e non è
Federigo è un giovane aspirante cavaliere, ama una gentil donna, considerata ................................................................................................................................................................................................................................................................
amato,»
tra le più belle di Firenze ................................................................................................................................................................................................................................................................
«e in cortesia spendendo si consuma»
................................................................................................................................................................................................................................................................
«e rimangli un sol falcone,»
................................................................................................................................................................................................................................................................
«il quale, non avendo altro, dà a mangiare
................................................................................................................................................................................................................................................................
alla sua donna venutagli a casa;»
................................................................................................................................................................................................................................................................
«la qual, ciò sappiendo, mutata d’animo, il
................................................................................................................................................................................................................................................................
prende per marito e fallo ricco.»
................................................................................................................................................................................................................................................................
SCrITTUrA CreATIVA
> 11. Il confronto tra monna Giovanna e Federigo, scena culminante della novella, rivela una dimensione scoper-
tamente teatrale, con l’accorata richiesta di lei e il pianto dirotto di lui. Prova a elaborare e a mettere in scena una riscrittura per il teatro della novella, tenendo presente che gli altri episodi della narrazione possono essere resi attraverso monologhi “a parte” dei protagonisti o attraverso un’opportuna rielaborazione del dialogo.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
T12
madonna oretta
Temi chiave
• l’arte del bel parlare • l’ideale cortese e signorile
dal Decameron, VI, 1
La novella, che apre la sesta giornata, dedicata all’uso sapiente della parola, è essenzialmente una dichiarazione di poetica sull’arte di raccontare. La narratrice è Filomena.
Un cavaliere dice1 a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo2, e, malcompostamente3 dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
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Giovani donne, come ne’ lucidi sereni4 sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’ verdi prati, e de’ colli i rivestiti albuscelli5, così de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti belli sono i leggiadri motti6; li quali, per ciò che7 brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. È il vero che, quasi sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che a’ nostri secoli sia portata da’ cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è, la qual ne sappi ne’ tempi opportuni dire alcuno, o, se detto l’è, intenderlo come si conviene8: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto9, più oltre non intendo di dirne; ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza a’ tempi detti10, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi. Sì come molte di voi o possono per veduta11 sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari12 che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante13, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina14: la quale per avventura15 essendo in contado16, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando per via di diporto17 insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì Il cavaliere in sella con Oretta racconta la sua storia alle persone che lo seguono a piedi, XV secolo, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice Add. 35323, part., Londra, The British Library.
1. dice: propone. 2. portarla … cavallo: il racconto della novella da parte del cavaliere è equiparato metaforicamente a un percorso a cavallo. 3. malcompostamente: maldestramente. 4. lucidi sereni: notti limpide. 5. rivestiti albuscelli: gli arboscelli che li rivestono. 6. così … motti: così i motti arguti sono l’ornamento dei lodevoli costumi e dei bei discorsi. 7. per ciò che: poiché. 8. È il vero … conviene: è vero che oggi poche
donne, o nessuna, sono rimaste che sappiano pronunciare qualche motto al momento opportuno, o, se viene detto loro, (riescano a) capirlo come si conviene, quale che sia la causa, o la cattiva qualità (malvagità) della nostra indole (ingegno) o un malefico influsso esercitato dai cieli sulle nostre generazioni (secoli). 9. assai … detto: nella decima novella della prima giornata Pampinea affronta l’argomento in termini simili. 10. a’ tempi detti: i motti detti al momento opportuno.
11. per veduta: per averla vista. 12. non è ancora guari: non è ancora trascorso molto tempo. 13. costumata … ben parlante: dai costumi cortesi, capace di parlare bene. 14. madonna … Spina: Oretta Malaspina, moglie di Ruggieri Spina, ricco banchiere fiorentino, che compare nella novella di Cisti fornaio ( T13, p. 604). 15. per avventura: per caso. 16. in contado: in campagna. 17. per via di diporto: per diletto.
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avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d’andare intendevano18, disse uno de’ cavalieri della brigata: – Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte de la via che ad andare abbiamo, a cavallo con una delle belle novelle del mondo19. Al quale la donna rispuose: – Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi20 carissimo. Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che ’l novellar nella lingua21, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé22 era bellissima, ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: – Io non dissi bene, – e spesso ne’ nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente23 la guastava24; senza che25 egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che26 accadevano, proffereva27. Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se, inferma, fosse stata per terminare28; la qual cosa poi che più sofferir29 non poté, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio30 né era per riuscirne31, piacevolmente disse: – Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè. Il cavaliere, il qual per avventura32 era molto migliore intenditore che novellatore33, inteso il motto, e quello in festa e in gabbo preso34, mise mano in altre novelle35, e quella che cominciata avea e mal seguita, senza finita36 lasciò stare.
18. di là … intendevano: da dove partivano fino a dove tutti volevano andare. 19. a cavallo … mondo: allevierò la fatica del viaggio, come se vi portassi a cavallo, raccontandovi una delle più belle novelle del mondo. 20. sarammi: per me sarà. 21. non stava … lingua: non portava meglio la spada al fianco di quanto sapesse raccontare novelle. Si ricordi che il portare la spada era l’insegna del cavaliere: l’espressione vuol dire che il cavaliere non era all’altezza del suo titolo, così come non è in grado di raccontare.
22. da sé: di per sé. 23. fieramente: terribilmente. 24. guastava: rovinava. 25. senza che: senza contare che. 26. secondo … che: in relazione alle. 27. proffereva: esponeva. 28. terminare: morire. 29. sofferir: sopportare. 30. era … pecoreccio: si era cacciato nei pasticci. Il pecoreccio è «quel letame fangoso che fanno le pecore dove dormono la notte» (Branca).
31. né … riuscirne: e non ne sarebbe uscito rapidamente. 32. per avventura: per fortuna. 33. migliore … novellatore: era più pronto a capire che a raccontare novelle. 34. in festa … preso: accettato il motto di spirito allegramente, come uno scherzo (gabbo). 35. mise … novelle: cominciò a raccontare altre novelle. 36. senza finita: senza finirla.
Analisi del testo Una dichiarazione di poetica
La collocazione al centro del poema
La novella inaugura la giornata dedicata al bel parlare, che è tutta una celebrazione della civiltà fiorentina, la quale, del culto della parola arguta o elegante, ha fatto il centro della sua visione della vita. È la 51a novella del Decameron: questa sua collocazione esattamente al centro del libro ne mette in rilievo la funzione, che è quella di proporre una dichiarazione di poetica, di esplicitare gli ideali che regolano l’arte narrativa di Boccaccio. È infatti una novella sull’arte di raccontar novelle, una “metanovella”. L’arte del narrare
L’antitesi tra Filomena e il cavaliere della novella
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La tesi centrale è che non è da tutti raccontare: non basta che la materia del racconto sia bella, interessante, piacevole; è indispensabile un’arte scaltrita nel proporre l’argomento, una sapienza estrema nel distribuire la materia, nello scegliere i tempi, nell’usare la parola adatta. È proprio quell’arte che i dieci novellatori della cornice possiedono. Perciò si crea un’antitesi tra il personaggio del cavaliere che non sa narrare ed il modo abilissimo con cui Filomena, la narratrice, tratta di lui. Se il cavaliere offre un perfetto esempio di come non si deve raccontare una novella, ingarbugliandosi, ripetendosi, usando espres-
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
sioni inadatte, Filomena, che descrive in modo così efficace gli errori del cavaliere, offre in alternativa un esempio di come la storia avrebbe dovuto essere raccontata: alla rappresentazione dell’errore, la forma narrativa della novella affianca la correzione dell’errore stesso (come ha osservato Franco Fido). Arte della parola e cortesia
Una dote indispensabile nel mondo cortese
Ma il significato della novella va ancora oltre. Il saper narrare è un attributo indispensabile in una società elegante e squisita, quale è quella che si delinea intorno a madonna Oretta. Il bel parlare è una componente essenziale di quell’ideale cortese e signorile, dominato dal culto delle belle forme e del «saper vivere», che è centrale in Boccaccio. Tanto che il fallimento del cavaliere nel raccontare induce la narratrice Filomena a mettere in dubbio la sua nobiltà («al quale forse non stava meglio la spada allato che ’l novellar nella lingua» rr. 24-25): nella raffinata civiltà urbana del Trecento, per un’autentica nobiltà non bastano più i tradizionali valori cortesi, prodezza nelle armi, liberalità, leggiadria di comportamento, ma occorre anche una dote formale e intellettuale, l’uso elegante e arguto della parola.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Amplia la “rubrica” integrandone il testo con le informazioni che ritieni importanti ricavate dalla novella. > 2. Quale funzione hanno le critiche che la narratrice esprime nei confronti delle donne? AnALIzzAre
> 3. > 4.
Distingui, anche predisponendo una tabella, le considerazioni della narratrice dalla fabula. Nella dimensione metanarrativa del testo si evidenzia un vago riferimento alla situazione dei novellatori della cornice del Decameron: quale? > 5. Stile «Giovani donne … leggiadri motti» (rr. 3-5): quale figura retorica individui nel passo? e quale funzione ha nella parte introduttiva del discorso? > 6. Lessico Individua, a partire dalla rubrica, tutti i termini appartenenti all’area semantica relativa all’azione del “dire”, del “parlare” o del “narrare”. > 7. Lingua Nel passo «cominciò una sua novella … fieramente la guastava» (rr. 25-28), quale funzione hanno l’insistito ricorso al gerundio, il reiterato ricorso ai numerali e il polisindeto? narratologia narratologia
APProFondIre e InTerPreTAre
> 8.
Scrivere Perché Boccaccio sceglie una forma così breve per una novella fondamentale nell’ambito della definizione della sua poetica? Rispondi in circa 5 righe (250 caratteri).
Per IL reCUPero
> 9.
esporre oralmente esercita le tue abilità di novellatore – da solo o insieme a uno o più dei tuoi compagni di classe – proponendo oralmente (max 5 minuti) una tua personale versione della novella di madonna oretta. Puoi modificarne il finale, ad esempio, ipotizzando una diversa reazione del cavaliere o della stessa gentildonna, oppure puoi immaginare una diversa ambientazione (anche contemporanea) in cui collocare una vicenda analoga. PASSATo e PreSenTe La parola e l’immagine
> 10. Secondo il politologo Giovanni Sartori nella società contemporanea l’avvento della televisione ha segnato il passaggio da Homo Sapiens a Homo Videns, determinando il predominio dell’immagine sulla parola e indebolendo così il pensiero astratto e l’attività simbolica propri dell’essere umano. condividi tale opinione, o ritieni che oggi l’uso e l’arte della parola siano ancora di fondamentale importanza? e in quali ambiti, oggi, la parola non ha perduto il suo millenario primato? elabora un testo argomentativo di circa 40 righe (2000 caratteri).
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L’età comunale in Italia
T13
Cisti fornaio dal Decameron, VI, 2 Il tema della novella, in accordo con quello dell’intera giornata, è l’uso sapiente della parola, che riesce a superare una situazione imbarazzante e accomuna classi sociali lontane fra di loro. Si fronteggiano infatti un personaggio di modesta condizione e un aristocratico. La narratrice è Pampinea.
Temi chiave
• l’«industria» del protagonista • l’arte della parola • la generosità • un’utopica sintonia tra classi sociali differenti
Cisti1 fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina2 d’una sua trascutata3 domanda.
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Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò: – Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi4, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo5, o la fortuna apparecchiando a un corpo, dotato d’anima nobile vil mestiero6, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima7 e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino8. Le quali io avviso che9, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’ futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose ne’ più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti, sepelliscono10, e quindi ne’ maggior bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E così le due ministre del mondo11 spesso le lor cose più care nascondono sotto l’ombra dell’arti reputate più vili12, acciò che di quelle alle necessità traendole13 più chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ’ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m’ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi14. Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato15, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne16, essendo essi in casa di messer Geri smontati17, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione18, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi19 passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva20. Al quale
1. Cisti: Cisti deriva da Bencivenisti, nome abbastanza comune al tempo. 2. Geri Spina: Ruggieri Spina, personaggio storico, cittadino di Firenze, banchiere, militò nella fazione dei Neri. Qui è presentato insieme agli ambasciatori inviati da Bonifacio VIII a Firenze nel 1300 per trattare la pace fra Bianchi e Neri. 3. trascutata: azzardata. 4. in questo si pecchi: in questo si commette un errore. Questo anticipa i due casi che seguono. 5. apparecchiando … corpo: fornendo ad un’anima nobile un corpo brutto, sgraziato. 6. vil mestiero: un mestiere spregevole, di bassa condizione. 7. discretissima: oculata. 8. come che … figurino: anche se gli sciocchi la rappresentano cieca.
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9. Le quali io avviso che: ritengo che la natura e la fortuna. 10. incerti … sepelliscono: incerti sul futuro, per ogni evenienza seppelliscono le loro cose più preziose nei luoghi più spregevoli delle loro case, perché destano minori sospetti. 11. le due ministre del mondo: la fortuna e la natura che governano il mondo. 12. arti … vili: i mestieri più spregevoli. 13. di quelle … traendole: traendole fuori all’occorrenza da quelle occupazioni. 14. Il che … dimostrarvi: voglio mostrarvi con una novella molto breve come Cisti dimostrasse la verità sopra enunciata in un’occasione di poco conto, facendo comprendere una cosa a Messer Geri Spina, che mi è stato riportato alla mente dalla novella di Madonna Oretta ( T12, p. 601), che fu sua moglie.
15. appo … stato: presso il quale messer Geri Spina godeva di grandissimo favore. Esercitava infatti il servizio di tesoreria presso la curia pontificia. 16. gran bisogne: si tratta dell’ambasceria giunta a Firenze nel 1300 per sedare i conflitti tra Bianchi e Neri. 17. smontati: scesi. Sono ospiti di messer Geri Spina. 18. che … cagione: qualunque fosse il motivo. 19. Santa Maria Ughi: chiesa nei pressi di palazzo Strozzi, fatta edificare dai conti Ughi. La strada percorsa dagli ambasciatori tra le case dei Cerchi, capi dei Bianchi, e dei Donati, capi dei Neri, passava necessariamente davanti ad essa. 20. la sua arte esserceva: esercitava il suo mestiere.
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quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente21 vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattima davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s’avisò22 che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo23 ma pensossi di tener modo24 il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto25 bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano26, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto27 bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento28, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e29 egli, poi che una volta o due spurgato s’era30, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti. La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente è31, Cisti? è buono?». Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’ io dare a intendere32, se voi non assaggiaste». Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l’usato avuto33 o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: «Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo»; e con loro insieme se n’andò verso Cisti. Il quale, fatta di presente34 una bella panca venire di fuor dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari35, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi36 d’assaggiarne gocciola!». E così detto, esso stesso, lavati quattro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino, diligentemente37 diede bere a messer Geri e a’ compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti38 bevuto; per che, commendatol molto39, mentre gli ambasciador vi stettero40, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri. A’ quali, essendo espediti41 e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito, al quale invitò una parte de’ più orrevoli42 cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione43 andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense44. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco45.
21. splendidissimamente: agiatamente, ma anche circondandosi di cose belle e pregevoli, e facendone uso con liberalità cortese. 22. s’avisò: pensò. 23. non gli … d’invitarlo: invitarlo gli pareva un atto di presunzione sconveniente (non … onesta): troppa infatti è la distanza sociale tra l’umile fornaio e il grande signore. 24. tener modo: agire in modo. 25. farsetto: panciotto. 26. il dimostravano: lo facevano apparire. 27. orcioletto: vaso di terracotta. 28. d’ariento: d’argento. Bisogna tener pre-
sente che non erano di vetro ma di metallo. 29. e: ecco che (congiunzione pleonastica). 30. spurgato s’era: si era schiarito la voce per attirare l’attenzione. 31. Chente è: com’è. 32. dare a intendere: farvi capire. 33. o la qualità … avuto: o la stagione (estiva e quindi calda) o la fatica avvertita con maggiore intensità del consueto. 34. di presente: subito, con premura. 35. famigliari: servi. 36. e non … voi: e non aspettatevi. Il vino è pregiato, quindi può essere bevuto solo da
signori, non da gente di bassa condizione. 37. diligentemente: con attenta cura. 38. gran … davanti: da molto tempo. 39. commendatol molto: lodatolo molto. 40. mentre … stettero: per tutto il tempo che gli ambasciatori rimasero a Firenze. 41. espediti: liberi al termine dell’ambasceria. 42. orrevoli: onorevoli, ragguardevoli. 43. per niuna condizione: a nessun costo. 44. alle prime mense: alla prima portata. 45. tolse … fiasco: prese un gran fiasco (in modo che, dopo avere offerto il vino agli ospiti, ne rimanesse ancora per lui).
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Il quale come Cisti vide, disse: «Figliuolo, messer Geri non ti manda a me». Il che raffermando46 più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: «Tornavi e digli che sì fo47: e se egli più così ti risponde, domandalo a cui48 io ti mando». Il famigliare tornato disse: «Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te». Al quale Cisti rispose: «Per certo, figliuol, non fa». «Adunque,» disse il famigliare «a cui mi manda?». Rispose Cisti: «A Arno49». Il che rapportando50 il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ’ntelletto51 e disse al famigliare: «Lasciami vedere che fiasco tu vi porti»; e vedutol disse: «Cisti dice vero»; e dettagli villania52 gli fece torre un fiasco convenevole. Il quale Cisti vedendo disse: «Ora so io bene che egli ti manda a me», e lietamente glielo impié. E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente53 portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: «Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato54; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì55 co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, cioè che questo non sia vin da famiglia56, vel volli staman raccordare57. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano58, tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace». Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendé che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe59 e per amico.
46. raffermando: ribadendo. 47. che sì fo: che faccio così (che ti invio io). 48. a cui: a chi. 49. A Arno: cioè con un fiasco così grande si può andare ad attingere acqua al fiume, non a chiedere quel vino così prezioso. Cisti, che ha sensibilità per le buone convenienze, ha subito capito che non può essere stato un gentiluomo così squisito come Geri Spina a mandare il servo con quel fiasco. E difatti messere Geri intendeva offrire solo un bicchiere ciascuno ai suoi ospiti.
50. rapportando: riferendo. 51. gli occhi … ’ntelletto: subito capì. Si noti come, mentre il servo non capisce la battuta, tra messer Geri e Cisti vi sia pronta intesa, perché condividono sia il codice della cortesia sia quello dell’arguzia. 52. dettagli villania: rivoltogli un aspro rimprovero. 53. soavemente: delicatamente, per evitare che i sobbalzi smuovessero il deposito. 54. non vorrei … spaventato: Cisti non vuole che Geri creda che abbia rifiutato di ri-
empire il gran fiasco per avarizia. Intendeva solo evitare che il vino fosse bevuto dai servi. 55. a questi dì: nei giorni passati. 56. da famiglia: da servitù. 57. raccordare: ricordare. 58. non intendo … guardiano: non intendo essere più custode. È un modo delicato di dire che il vino è interamente di messer Geri, e che Cisti ne è solo il custode. È un comportamento esemplarmente “liberale”. 59. per da molto l’ebbe: lo tenne in grande stima.
Analisi del testo Virtù borghesi e cortesi
L’«industria»
La parola
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Cisti è un altro eroe tipicamente boccacciano. Ha innanzitutto la virtù dell’«industria»: dinanzi ad una difficoltà, riuscire ad usare una cortesia ad un gentiluomo senza violare le convenienze che vietano ad un inferiore di invitare direttamente un appartenente ai ceti superiori, si trae d’impaccio con un’abile trovata d’ingegno. In secondo luogo si rivela padrone della parola, dimostrandosi capace di motti arguti e pungenti, e questo rientra nella tematica della giornata, che è appunto la celebrazione dell’arte della parola, così intimamente connaturata con la civiltà fiorentina. Accanto all’«industria» e all’arte della parola, tipici aspetti di una civiltà borghese e urbana, Cisti possiede poi anche le virtù cortesi: in primo luogo la liberalità, la generosità disinteressata. Da questa virtù è mosso a fare una gentilezza a messer Geri, e agisce senza esserne richiesto, come esige appunto il codice della vera liberalità cavalleresca. In Cisti si può di nuovo vedere all’opera quella fusione dei valori borghesi e dei valori cortesi che è tipica del
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Il vivere splendido
mondo boccacciano. Rappresenta il caso simmetricamente inverso rispetto a Federigo degli Alberighi ( T11, p. 594): questi è il gentiluomo che con la cortesia fonde la «masserizia», Cisti è il borghese che sa assurgere alle virtù cortesi. Oltre a ciò, Cisti ama le belle forme del vivere, che della cortesia sono la cornice necessaria: si noti l’insistenza del narratore sulla bontà dei vini, sulla pulizia degli abiti e dei bicchieri, che paiono d’argento tanto brillano. Uno spaccato delle classi sociali fiorentine
La perfetta sintonia tra fornaio e signore
La realtà storica: conflitti tra ceti medi e classe dirigente Una visione ideale della società
Tra Cisti e messer Geri si instaura una perfetta sintonia: il signore, attratto dal vino e dall’apparato invitante predisposto dal fornaio, non disdegna di autoinvitarsi inaugurando una piacevole consuetudine; successivamente invita Cisti al ricevimento offerto agli ambasciatori del papa, poi i due dialogano a distanza, tramite il servo, e si intendono immediatamente: Geri capisce al volo l’arguzia dell’«Arno», e intuisce l’indelicatezza del servo, che si è recato a chiedere vino prezioso con un enorme fiasco; infine Geri giunge sino a considerare Cisti un amico. Da questa sintonia resta escluso il servo: pur facendo da tramite nel dialogo tra Geri e Cisti, non capisce nulla, specie dell’arguzia; inoltre non è ammesso a godere, al pari del resto della servitù, del vino prezioso, che non è «vin da famiglia» (r. 81). Questa sintonia che si crea tra il fornaio e il signore, accomunati dallo stesso codice di valori, e che esclude i servi, può essere l’occasione di importanti considerazioni. La novella offre un piccolo ma vivido spaccato degli strati sociali esistenti nella Firenze tra Due e Trecento: si hanno l’alta borghesia della finanza, che costituisce la nuova aristocrazia cittadina (Geri), i ceti medi dei bottegai e artigiani (Cisti), ed infine i ceti inferiori, rappresentati qui dai lavoranti di bottega e dalla servitù di messer Geri. Questo non significa però che lo scrittore dia qui una rappresentazione “realistica” dei rapporti tra le classi sociali della Firenze trecentesca. La realtà storica era ben diversa. Nella novella si ha la visione di un’armonia perfetta tra ceti medi e ceti dirigenti; i ceti medi, rappresentati da Cisti, accettano di buon grado di restare nella loro condizione, senza presumere di innalzarsi al livello delle classi superiori. Nella realtà, invece, esistevano a Firenze aspri conflitti e i ceti medi, rappresentati dalle Arti mezzane e minori, premevano per essere ammessi nell’area del potere accanto alle Arti maggiori. Boccaccio, insomma, rappresenta la realtà sociale del suo tempo non come è, ma come desidera che sia: una stratificazione sociale in cui ogni strato si accontenti della posizione che occupa, in cui però regni una perfetta armonia, sulla base di una comune visione della vita e di comuni valori, in particolare quello della cortesia. Si osservi ancora come la visione ideale dell’armonia sociale arrivi a comprendere i ceti intermedi, ma escluda quelli inferiori. I bottegai e gli artigiani possono attingere ai valori della cortesia, della liberalità, del vivere splendido, ma non i lavoranti e i servitori. Tutto il racconto si impernia sul fatto che il vino pregiato di Cisti non è «vin da famiglia» e non deve essere gustato dai servi. L’utopia boccacciana ha precisi confini verso il basso della scala sociale. La costruzione narrativa
Rapporti spaziali e rapporti sociali
Sul piano della costruzione narrativa, è importante osservare l’opposizione spaziale su cui si fonda la novella. Cisti non esce mai dal suo spazio, la bottega, per entrare in quello di Geri (rifiuta infatti di recarsi al banchetto d’addio agli ambasciatori del papa); è semmai il signore che si degna di entrare nello spazio di Cisti. I rapporti spaziali tra i personaggi sono la perfetta trascrizione dei rapporti sociali che li legano: il gentiluomo può abbassarsi sino al fornaio, ma il fornaio non può presumere di innalzarsi sino al livello del gentiluomo. Si può ancora osservare l’opposizione moto-immobilità. Geri si muove continuamente in uno spazio esterno, le strade fiorentine; Cisti invece appare costantemente fermo nella sua bottega. Anche questo assume un valore emblematico, è la rappresentazione fisico-spaziale di una condizione sociale: la libertà di movimento è prerogativa solo dei ceti superiori; l’immobilità di Cisti entro i confini del suo luogo di lavoro riproduce invece la sua immobilità all’interno della scala sociale. 607
L’età comunale in Italia
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Riassumi la novella (dalla r. 20) in circa 20-24 righe (1200 caratteri). > 2. In quali passaggi della narrazione Boccaccio crea i presupposti per il gesto sconveniente del servo? AnALIzzAre
> 3. > 4.
Spiega la funzione dell’introduzione alla novella da parte della narratrice, Pampinea. con quale metafora il narratore introduce il passo in cui Geri Spina prende atto del «leggiadro motto» del fornaio cisti? In quale altro punto del testo puoi individuarla? > 5. Lessico Nella sequenza «Il quale … a’ morti» (rr. 30-41) compaiono due espressioni che fanno riferimento ai valori cortesi: quali? > 6. Lingua Analizza il periodo compreso tra le righe 20-25, e individua la proposizione principale e le subordinate temporali e causali. narratologia Stile
APProFondIre e InTerPreTAre
> 7.
Testi a confronto: esporre oralmente In base all’analisi effettuata, e facendo riferimento sia alla novella di Federigo degli Alberighi ( T11, p. 594) sia alla precedente novella di madonna oretta ( T12, p. 601), delinea in un’esposizione orale (max 5 minuti) la posizione di Boccaccio riguardo ai rapporti fra classi e ruoli sociali. > 8. Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato attentamente le due scene della miniatura, rispondi alle domande. a) Prova a identificare i personaggi principali della novella riferendoli a due momenti distinti dell’episodio scelti dal miniatore. b) L’immagine di cisti, in ciascuna delle due scene, presenta elementi corrispondenti alla narrazione di Boccaccio? c) Quali elementi della rappresentazione della seconda scena lasciano intendere l’appartenenza di Geri Spina a una classe sociale più elevata?
Cisti manda indietro il servitore di messer Spina; Cisti spiega il suo gesto a Spina, 1430 ca., miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice Fr. 239, Parigi, Bibliothèque Nationale de France.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi interattiva
T14
Chichibio cuoco
Temi chiave
• l’abilità di trarsi d’impaccio attraverso
dal Decameron, VI, 4
la battuta di spirito
Il tema della novella, in accordo con quello dell’intera giornata, è l’uso sapiente della parola, che è lo strumento con cui l’uomo può togliersi dalle difficoltà. La narratrice è Neifile.
• l’intervento della Fortuna • la contrapposizione fra classi sociali
Chichibio1, cuoco di Currado Gianfigliazzi2, con una presta parola a sua salute3 l’ira di Currado volge in riso e sé campa dalla mala ventura4 minacciatagli da Currado. Audio
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[…] – Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti, a’ dicitori5, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de’ paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone che mai a animo riposato per lo dicitore si sareber sapute trovare6: il che io per la mia novella7 intendo di dimostrarvi. Currado Gianfigliazzi, sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo continuamente in cani e in uccelli8 s’è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare9. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola10 una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò a un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio e era viniziano; e sì gli mandò dicendo che a cena l’arostisse e governassela11 bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo era così pareva12, acconcia13 la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocer la cominciò. La quale essendo già presso che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta14 della contrada, la quale Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina, e sentendo l’odor della gru e veggendola pregò caramente15 Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando16 e disse: «Voi non l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì17 da mi». Di che donna Brunetta essendo turbata18, gli disse: «In fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia», e in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna19, spiccata20 l’una delle cosce alla gru, gliele diede. Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere21 messa la gru senza coscia, e Currado, maravigliandosene fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta
1. Chichibio: nome derivante da cicibìo, voce onomatopeica che nel Veneto indicava il verso del fringuello. Chichibio è infatti veneziano, come si dirà nel testo. Il nome è attestato anche nell’accezione di “buono a nulla”. 2. Currado Gianfigliazzi: vissuto tra fine Duecento e inizi del Trecento, appartenne ad una grande famiglia di banchieri fiorentini ed ebbe fama di signore munifico e magnanimo. 3. con una … salute: con una pronta battuta (detta) per salvarsi (a sua salute). 4. sé campa … ventura: si salva dalla brutta fine. 5. parole … dicitori: suggerisce spesso parole utili e belle a chi parla (dicitori), a seconda dei casi (accidenti). 6. la fortuna … trovare: anche la fortuna, che talvolta aiuta i paurosi, pone improvvisamente sulla loro lingua tali parole (di quelle)
che mai chi parla avrebbe potuto trovare con animo tranquillo. Per lo dicitore è complemento di agente (per deriva dal par francese). 7. per … novella: con la mia novella. 8. in cani e in uccelli: nella caccia, in cui si impiegavano cani e falconi. 9. le sue … stare: per non parlare al presente di sue azioni di maggiore importanza. Si riferisce alla partecipazione alla vita pubblica di Firenze e all’attività di banchiere. 10. Peretola: località nel contado fiorentino. 11. governassela: la preparasse. 12. il quale … pareva: il quale era un fatuo chiacchierone e tale pareva. Bergolo è parola veneta che Boccaccio usa spregiativamente. Il sentimento antiveneziano era diffuso allora a Firenze, che vedeva Venezia come rivale in campo politico ed economico. 13. acconcia: preparata.
14. feminetta: donna giovane e di bassa condizione sociale. 15. caramente: «con amorosa insistenza» (Branca). 16. cantando: il dialetto veneziano, per la varietà delle intonazioni, può essere sentito dai non veneziani come un canto. Ma il discorso di Chichibio è vicino al canto anche nelle parole rimate e ripetute. 17. avrì: avrete (che è forma antica veronese, non veneziana). 18. turbata: stizzita. 19. la sua donna: è ironico: donna era l’appellativo usato dalla poesia amorosa, e vale “signora” (latino domina); si tenga presente che Brunetta è definita poco prima feminetta. 20. spiccata: staccata. 21. forestiere: ospite venuto di fuori.
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l’altra coscia22 della gru. Al quale il vinizian bugiardo23 subitamente rispose: «Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba». Currado allora turbato disse: «Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? non vid’io mai più gru che questa24?» Chichibio seguitò: «Egli è25, messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi26». Currado per amore de’ forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare27, ma disse: «Poi che tu di’ di farmelo veder ne’ vivi, cosa che io mai più non vidi né udi’ dir che fosse, e28 io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che29 io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai30, del nome mio». Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato31 si levò e comandò che i cavalli gli fossero menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana32, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò33 dicendo: «Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io». Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli conveniva pruova della sua bugia34, non sappiendo come poterlasi fare cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora adietro e dallato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piè35. Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che a alcun vedute36 sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano37, sì come quando dormono soglion fare; per che egli, prestamente mostratele a Currado, disse: «Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno». Currado vedendole disse: «Aspettati38, che io ti mostrerò che elle n’hanno due», e fattosi alquanto più a quelle vicino, gridò: «Ho, ho!», per lo qual grido le gru, mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire; laonde39 Currado rivolto a Chichibio disse: «Che ti par, ghiottone40? parti41 che elle n’abbian due?» Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse42, rispose: «Messer sì, ma voi non gridaste “ho, ho!” a quella d’iersera; ché se così gridato aveste ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste». A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse «Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare». Così adunque con la sua pronta e sollazzevol43 risposta Chichibio cessò44 la mala ventura e paceficossi45 col suo signore.
22. che fosse … coscia: che cosa fosse avvenuto dell’altra coscia. 23. vinizian bugiardo: un altro accenno antiveneziano ( nota 12). 24. non vid’io … questa?: non ho mai visto altre gru che questa? 25. Egli è: la cosa sta. 26. il vi … vivi: ve lo farò vedere nelle gru vive. Gru poteva essere anche maschile; o forse è sottinteso “animali”, “uccelli”. 27. non volle … andare: non volle continuare la contesa. 28. e: ebbene. 29. che: ripetizione del che dopo la propo-
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sizione parentetica. 30. sempre che … viverai: finché tu vivrai in questo mondo (ci). 31. gonfiato: gonfio d’ira. 32. fiumana: fiume. 33. nel menò: ve lo condusse. 34. far … bugia: doveva provare quanto aveva affermato con la sua bugia. 35. e ciò che … piè: Chichibio crede di vedere dovunque gru che stanno su due zampe, l’idea che lo ossessiona. 36. gli venner … vedute: gli capitò di vedere prima di ogni altro. 37. in un … dimoravano: stavano dritte su
una zampa sola. 38. Aspettati: aspetta. 39. laonde: quindi. 40. ghiottone: furfante. 41. parti: ti pare. 42. non sappiendo … venisse: non sapendo neppure lui da che parte (della mente) gli venisse (quella risposta). Si veda a tal proposito il preambolo della narratrice. 43. sollazzevol: divertente. 44. cessò: evitò. 45. paceficossi: si rappacificò.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Competenze attivate
Analisi attiva
Competenze Esposizione orale
ComPrendere
> Una battuta di spirito per trarsi d’impaccio
Anche la novella narrata da Neifile rientra nel tema della sesta giornata, che, dedicata ai motti e alle risposte pronte, celebra appunto l’arte della parola. Il racconto conduce rapido ed essenziale alla fortunata risposta che salva un personaggio di umile estrazione, il cuoco veneziano Chichibio, da un’inevitabile punizione, convertendo l’ira del suo padrone, il magnanimo Currado, in una allegra risata.
• Leggere, comprendere
e interpretare testi letterari: prosa • Dimostrare consapevolezza
della storicità della letteratura
> 1. che cosa intende dimostrare la narratrice Neifile con questa novella, secondo quanto dice lei stessa nel preambolo?
> 2. Riassumi il contenuto del testo in circa 10 righe (1000 caratteri).
AnALIzzAre
> La struttura della novella
La narrazione si articola in brevi quadri, ambientati in luoghi diversi: nel primo è rappresentata con grande vivacità la schermaglia amorosa (colorita dalle cadenze veneziane del linguaggio) tra Brunetta e Chichibio; la situazione precipita nel secondo quadro per la sfrontata risposta del cuoco davanti ai commensali del signorile convivio; il terzo quadro culmina nell’imprevedibile esito della rocambolesca cavalcata che avrebbe dovuto smascherare l’imbroglio del cuoco.
> 3. Dal punto di vista dell’impostazione narrativa, prevale la narrazione riassuntiva o la scena? Quante e quali scene si possono riconoscere?
> 4. Su quali sfondi sono collocate le scene? Individuali e spiega come i diversi spazi sottolineino la disparità di condizione sociale tra i personaggi.
> I personaggi
> 5. Nella presentazione iniziale, chichibio appare come un personaggio positivo? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo.
> La parola abile
> 6. L’uso della parola abile assume qui il carattere dell’involontarietà e dell’improvvisazione. che ruolo gioca, in questo, la provenienza regionale del cuoco?
> L’intervento della Fortuna
> 7. Nel racconto è preponderante l’ingegno dell’uomo o la Fortuna, il caso fortuito? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti al testo.
Se il personaggio di Currado è descritto all’inizio della novella mediante un ritratto a “tutto tondo”, quello di Chichibio è invece indirettamente presentato dall’autore attraverso epiteti ed espressioni fortemente connotate: il nome onomatopeico, gli appellativi di «nuovo bergolo» (r. 13) e di «vinizian bugiardo» (r. 27). Chichibio non è fiorentino, non appartiene quindi a quella civiltà che fa della parola pronta la sua insegna. Egli è chiamato due volte a far uso della parola per togliersi dalle difficoltà: la prima quando Currado gli chiede ragione della gru imbandita a tavola con una coscia sola, la seconda quando si trova davanti alla serie di gru che fuggono su due zampe, smentendo, come era inevitabile, la sua improbabile giustificazione. Nel primo caso la risposta, trovata sui due piedi, è malaccorta ed accresce la sua difficoltà perché suscita l’ira del padrone e lo mette in una situazione senza via d’uscita; nel secondo, la risposta è azzeccata ed efficace, dotata di una sua arguzia, ma non nasce da accorta ponderazione né da prontezza d’intelligenza, anzi viene detto esplicitamente che Chichibio non sa neppure da dove gli venga. Come spesso risulta dalla VI giornata, la parola abile che salva dalle difficoltà è prerogativa di uomini forniti di pronto ingegno e di «industria». Questa novella presenta invece un caso diverso: dimostra come la parola risolutrice a volte nasca semplicemente dalla paura, che funziona in tal caso da stimolo dell’ingegno; e la paura è generata da cause occasionali.
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L’età comunale in Italia
> Le classi sociali
In questa novella si fronteggiano due classi sociali lontane fra loro: si contrappongono un padrone e un servitore, e il padrone è investito di tutto il suo potere dispotico (la minaccia di conciare Chichibio in maniera che si ricorderà del suo nome finché vivrà), che a capriccio si può anche convertire in benevolenza dinanzi alla casuale risposta arguta del sottoposto; il sottoposto a sua volta è dominato dalla paura di fronte al padrone.
> 8. Il contrasto tra chichibio e currado si esprime, oltre che nella diversa provenienza geografica, nella disparità di condizione sociale, sottolineata anche dagli ambienti (la cucina di chichibio e l’ambiente del convivio di currado o i suoi possedimenti per la caccia): alla luce di queste considerazioni, analizza il rapporto tra i due personaggi.
> 9. confronta il personaggio di chichibio con quello del fornaio cisti ( T13, p. 604): di quali valori si fa portatore cisti? che cosa motiva la sua battuta? Qual è invece il movente del motto di chichibio?
APProFondIre e InTerPreTAre
> I valori dello spirito
Nel finale, il motto sagace è accolto da Currado a risarcimento del furto maldestro e dell’ostinazione nella bugia. Per Boccaccio, l’arguzia di cui Chichibio dà prova vale ad annullare, anche se solo per un momento, le evidenti disparità sociali e culturali tra i due personaggi.
> 10. Analizza la conclusione della novella. Riflette, a tuo avviso, l’atteggiamento aperto verso la realtà e l’aspirazione a indagare i concreti comportamenti umani, al di là di monolitiche certezze e criteri tradizionali di giudizio, propria del mondo del Decameron?
Emanuele Luzzati, Chichibio e le gru, collage e pastello, illustrazione per il Decamerone di Giovanni Boccaccio, Milano 2000.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
T15
Guido Cavalcanti
Temi chiave
dal Decameron, VI, 9 Ancora una novella incentrata sulla parola. Lo scenario è Firenze, l’ambiente aristocratico, ma vi si distingue l’aristocrazia dell’intelligenza da quella della nascita. La narratrice è elissa.
• la fusione di valori cortesi e borghesi • la celebrazione della cultura • l’armonia tra spirito e corpo
Guido Cavalcanti 1 dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprapreso l’aveano2.
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[…] Dovete adunque sapere che ne’ tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé della avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate3. Tralle quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade4 e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese5, e oggi l’uno, doman l’altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata6; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de’ cittadini7: e similmente si vestivano insieme8 almeno una volta l’anno, e insieme i dì più notabili9 cavalcavano per la città e talora armeggiavano10, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella città. Tralle quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi11, nella quale messer Betto e’ compagni s’erano molto ingegnato di tirare Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti12, e non senza cagione: per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’ miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale13 (delle quali cose poco la brigata curava), si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto14 e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente15 seppe meglio che altro uom fare; e con questo16 era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse17. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo18, e credeva egli co’ suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli
1. Guido Cavalcanti: è il famoso poeta stilnovista, grande amico di Dante. 2. dice … l’aveano: con un motto di spirito rimette elegantemente al posto loro alcuni cavalieri fiorentini che lo avevano colto alla sprovvista. 3. mercé della avarizia … discacciate: a causa dell’avidità, cresciuta insieme con le ricchezze, che ha allontanato tutte le lodevoli usanze. 4. Tralle quali … contrade: tra queste buone usanze ve n’era una tale, che in vari luoghi per Firenze si radunavano insieme i nobili di diversi quartieri della città. 5. facevano … le spese: si univano in compagnie costituite da un certo numero di perso-
ne, che venivano accettate nel gruppo solo a patto che fossero in grado di sostenere le spese. 6. per ordine … brigata: a turno organizzavano un banchetto per tutta la compagnia, ciascuno nel proprio giorno. 7. e in quella … cittadini: e in questi banchetti venivano onorati sia i nobili stranieri, quando ve ne capitavano, sia i nobili cittadini. 8. insieme: allo stesso modo. 9. i dì più notabili: nelle principali ricorrenze dell’anno. 10. armeggiavano: partecipavano ai tornei. 11. Betto Brunelleschi: di benestante famiglia fiorentina, militava tra i Guelfi neri. Fu ucciso da un Donati nel 1311. 12. s’erano … Cavalcanti: avevano cercato
in ogni modo di attirare Guido, figlio di Cavalcante dei Cavalcanti. 13. oltre a quello … naturale: oltre al fatto che Guido fu uno dei migliori filosofi (loici) del mondo e ottimo conoscitore delle scienze naturali. 14. leggiadrissimo … molto: fu molto elegante, di modi gentili e molto eloquente nel parlare. 15. pertenente: adatta. 16. con questo: per di più. 17. chiedere … valesse: quanto più si può chiedere sapeva onorare chi egli riteneva lo meritasse. 18. non era mai … d’averlo: non era mai riuscito ad averlo (nella sua compagnia).
Pesare le parole Avarizia (r. 4) La parola conserva qui il senso latino, “avidità di denaro, smania di acquistare sempre maggiori ricchezze”; per noi invece il senso prevalente è “tendenza, a volte mor-
bosa, a trattenere il denaro, a non spendere” (può essere avaro anche un povero): sinonimi sono spilorceria, taccagneria, tirchieria, tutti con accezione spregiativa.
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uomini divenia19; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse20. Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele21 e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni22, il quale spesse volte era suo cammino23, essendo arche24 grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata25, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido26 che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: «Andiamo a dargli briga27»; e spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole28 gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: «Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?29». A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente30 disse: «Signori31, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace»; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo32 era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò. Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato33 e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla34, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a fare più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro35. Alli quali messer Betto rivolto, disse: «Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso: egli ci ha onestamente36 e in poche parole detta la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti: le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati37 siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati38, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra». Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi, né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi39 messer Betto sottile e intendente40 cavaliere.
19. speculando … divenia: riflettendo di continuo sulle questioni filosofiche si allontanava dai comuni interessi degli uomini. 20. e per ciò … non fosse: e poiché propendeva alquanto per le teorie degli Epicurei, si diceva tra il volgo (incapace di comprendere l’alta speculazione di Guido) che queste sue meditazioni filosofiche miravano solo a cercar di dimostrare che Dio non esisteva. Gli Epicurei erano i seguaci del filosofo greco Epicuro (IVIII secolo a.C.). Così erano definiti nel Medioevo coloro che non credevano all’immortalità dell’anima, considerati eretici dalla Chiesa. 21. Orto San Michele: la chiesa di San Michele in Orto, presso la quale sorgevano le case dei Cavalcanti. Fu distrutta ai primi del Trecento, e nello stesso luogo fu costruito l’edificio attuale dallo stesso nome. 22. San Giovanni: il battistero di Firenze (attraverso la precisa indicazione dei nomi dei luoghi, viene ricostruita la topografia cittadina).
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23. il quale … cammino: era un percorso a lui abituale. 24. arche: sarcofaghi. 25. Santa Reparata: cattedrale antistante il battistero di San Giovanni. Al suo posto sorge oggi Santa Maria del Fiore. 26. del porfido: di porfido. Nel battistero, fiancheggiano la porta del Paradiso. 27. briga: fastidio. 28. a guisa … sollazzevole: come per un assalto scherzoso. 29. quando … fatto?: quando avrai dimostrato che Dio non esiste, che cosa avrai ottenuto? 30. prestamente: prontamente. 31. Signori: l’appellativo non è scelto a caso. Guido non usa “messeri”, che sarebbe un titolo generico, ma un termine «che indica effettiva autorità e dominio, come di padroni di casa, in quel luogo» (Zingarelli). L’appellativo è quindi un anticipo del successivo motto.
32. leggerissimo: agilissimo. L’aggettivo fa parte di una serie di indicazioni, inaugurate dall’avverbio prestamente, che è completata dalle espressioni fusi gittato (si proiettò), sviluppatosi (liberatosi), che intendono sottolineare come all’abilità di parola in Guido si accompagni l’agilità fisica (fatto eccezionale per la tipologia dell’intellettuale). 33. smemorato: stolto. 34. non veniva a dir nulla: non voleva dir niente. 35. con ciò … loro: poiché in quel luogo non erano a casa loro più di ogni altro cittadino, Guido compreso. 36. onestamente: con belle maniere. 37. idioti e non letterati: ignoranti e incolti. 38. scienziati: colti. 39. tennero per innanzi: considerarono da quel momento in poi. 40. intendente: intelligente.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi del testo Un ideale di uomo
La cortesia dell’eroe
L’«industria»
La cultura come essenza dell’uomo
Guido Cavalcanti rappresenta la realizzazione più alta dell’ideale di uomo vagheggiato da Boccaccio. Possiede infatti al grado di massima perfezione le virtù che lo scrittore ammira. Innanzitutto la cortesia: è «leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto» (r. 18), sa far meglio di ogni altro ciò che è pertinente a «gentile uom» (r. 19), è generoso della sua ricchezza e sa onorare chi ritiene che lo meriti. Questa virtù dell’eroe si proietta sullo sfondo delle «belle e laudevoli» (rr. 3-4) usanze cortesi della Firenze del passato richiamate dal preambolo della novella, e su tale sfondo assume rilievo. Ma Guido possiede, a ben vedere, anche la virtù borghese dell’«industria»: prontezza ed energia nel cavarsi d’impaccio in situazioni difficili e nel superare ostacoli, che egli dimostra sia con l’azione rapida e sicura, sia nel dominare la realtà grazie al dominio della parola. In Cavalcanti così si vedono nuovamente fondersi i due ordini di valori, quelli cortesi e quelli borghesi, quelli del passato e quelli del presente, come è proprio del mondo boccacciano. Ma Cavalcanti possiede un’ulteriore virtù, che lo distingue dagli altri eroi e lo rende immensamente superiore ad essi: la cultura. Proprio a celebrare questa virtù è inteso il suo motto, che costituisce il centro della novella. Esso viene a dire che senza la cultura l’uomo è come morto, è equiparabile ai minerali, ai vegetali, ai bruti. Nella cultura risiede quindi l’essenza dell’uomo, ciò che lo distingue dagli altri esseri. La cultura è indispensabile a rendere l’uomo armonico e perfetto, è la sua presenza che invera le virtù “mondane” della cortesia e dell’«industria» e conferisce ad esse definitivo valore. Infatti i gentiluomini della brigata, nonostante possiedano la cortesia, sono equiparati ai «morti» (r. 49), poiché non hanno la cultura. Si può già cogliere, in questo breve motto del personaggio boccacciano, il germe di quella concezione della cultura come portatrice dell’humanitas che sarà propria dell’Umanesimo quattrocentesco. La virtù fisica
L’ascetismo medievale Il naturalismo rinascimentale
Ma nella gamma delle virtù di Cavalcanti deve esserne annoverata ancora una essenziale. Insieme al motto tagliente assume grande rilievo nel cuore del racconto il gesto di Cavalcanti, l’agilissimo balzo con cui egli si libera dalla stretta della brigata. Alle virtù spirituali si unisce strettamente una virtù fisica: l’agilità e la forza del corpo. Anche questa armonia tra parte spirituale e parte fisica dell’uomo anticipa quella che sarà una delle concezioni fondamentali del Rinascimento. La rivalutazione del corpo è uno dei cardini di questa civiltà. L’ascetismo medievale condannava il corpo, ne aveva orrore. Nel Rinascimento si auspica invece, sul modello classico, un perfetto equilibrio tra spirito e corpo. Del corpo si esalta non solo la materialità, ma anche la bellezza, l’armonia, l’innocenza, come testimoniano tanta pittura e tanta scultura del Quattro e Cinquecento, che celebrano la bellezza e le proporzioni perfette di corpi maschili e femminili. Il corpo non è fonte di peccato, ma di piacere, il quale, essendo conforme alle leggi di natura, non va mortificato ma ricercato. Questa concezione naturalistica è già presente in Boccaccio, come abbiamo avuto modo più volte di constatare. La costruzione narrativa
La novella in un’unica scena
La novella, sul piano della costruzione narrativa, è quasi interamente risolta in un’unica scena, rappresentata in modo molto immediato e vivido. Brevi sono i due preamboli, l’uno inteso a rievocare i costumi cortesi della Firenze del passato, l’altro a tracciare il ritratto di Cavalcanti. Dopo questo ritratto “in posa”, il personaggio entra subito in azione e in movimento. La scena centrale è impostata con grande dinamicità e perfetto equilibrio di parti. L’organizzazione spaziale
Lo spazio chiuso e costrittivo
Rilievo fondamentale assume anche l’organizzazione spaziale. Dopo la rapida carrellata delle vie attraverso cui si svolge la passeggiata solitaria e meditabonda dell’eroe, l’azione si concentra in uno spazio unico, che, con lo spronare dei cavalieri verso Guido, tende 615
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La liberazione finale
rapidamente a restringersi in una zona chiusa e costrittiva. Questo spazio chiuso rappresenta la trascrizione emblematica della situazione difficile in cui viene a trovarsi l’eroe. Parimenti l’arca di marmo è la rappresentazione concreta, fisica, dell’ostacolo che Guido si trova di fronte, l’ostilità della brigata che vuol prendersi gioco di lui: ed è proprio superando questa barriera fisica che l’eroe si libera. Il balzo al di là dell’ostacolo fisico appare così come l’equivalente materiale del motto con cui Guido rovescia la sua situazione, passando da motteggiato a motteggiatore.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Perché risulta fondamentale la premessa sulle «brigate»? Motiva la tua risposta valutando con attenzione la riflessione del narratore sull’«avarizia» (rr. 4-5).
> 2. Un passo centrale del testo (rr. 26-31), attraverso precisi riferimenti alla topografia cittadina, rivela l’attenzio-
ne per una particolare tipologia di edificio pubblico: quale? Quali elementi ne vengono messi in evidenza? e quale significato potrebbe assumere il passo nella prospettiva del significato del «salto» di cavalcanti?
AnALIzzAre
> 3.
narratologia Analizza e commenta il ritratto di Guido cavalcanti: quali elementi del suo carattere e del suo comportamento privilegia il narratore? Perché è considerato un “diverso” dai compagni di Betto Brunelleschi? > 4. Stile commenta liberamente l’assenza di ampiezza e di retorica nel «leggiadro motto» di Guido cavalcanti: qual è la forza della sua risposta? Leggi attentamente la nota 31 a p. 614, e valuta sia la successione dei pronomi o aggettivi o particelle pronominali «voi», «vostra», «vi», sia la pregnanza del termine comunissimo «casa». > 5. Lessico Ricostruisci l’etimologia del termine «brigate», facendo anche riferimento all’espressione «dare briga» cui fa ricorso il narratore alla riga 32.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 6.
esporre oralmente organizza la scaletta per un’esposizione orale (max 5 minuti) incentrata sulla fervente dimensione culturale della Firenze dell’età comunale (e sulla sua decadenza nel periodo in cui vi si trasferì Boccaccio), e sulla figura storico-letteraria di Guido cavalcanti, facendo riferimento alla trattazione proposta dal libro di testo ( cap. 2, A5, p. 159).
Per IL PoTenzIAmenTo
> 7.
Testi a confronto Il luogo simbolo del cimitero collegato alla figura di cavalcanti era stato proposto, prima di Boccaccio, da Dante Alighieri nel canto X dell’Inferno (vv. 52-72), in cui il poeta immagina se stesso a colloquio con il padre di Guido tra gli avelli infuocati e scoperchiati nei quali sono collocate le anime dannate degli epicurei. Prova a effettuare un confronto fra i due episodi e a ricostruire le possibili ragioni della presenza nei due passi di elementi fortemente consonanti e affini.
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Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
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Frate Cipolla dal Decameron, VI, 10 Rispetto all’ambiente aristocratico della novella precedente, qui l’uso abile della parola si verifica in un contesto sociale molto più basso, fra i contadini. Il narratore è Dioneo, a cui si devono le narrazioni più argute e divertenti.
Temi chiave
• l’uso sapiente della parola • il gusto carnevalesco del rovesciamento
• la polemica antiecclesiastica
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo1 Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
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[…] Certaldo2, come voi forse avete potuto udire, è un castel3 di Valdelsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura4 vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi5 un de’ frati di santo Antonio6, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volentieri, con ciò sia cosa che7 quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante8 del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo9, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico10 l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano11: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benvogliente12. Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta; e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno13 venuti alla messa nella calonica14, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse: «Signori e donne15, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri del baron messer santo Antonio16 del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre17; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia18 scritti sono, quel poco debito19 che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l’abate, stato mandato20; e per ciò con la benedizion di Dio, dopo nona21, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia22 vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una
1. agnolo: angelo. 2. Certaldo: tra Firenze e Siena, luogo di origine del Boccaccio. 3. castel: borgo che sorge intorno a un castello. 4. buona pastura: laute offerte. 5. a ricoglier … dagli sciocchi: a raccogliere le elemosine fatte loro dai contadini sprovveduti e ingenui. 6. frati di santo Antonio: ordine religioso risalente a sant’Antonio Abate, un monaco egiziano dei primi secoli. L’ordine era noto nel Medioevo per il comportamento privo di scrupoli con cui i frati abusavano, nelle questue, dell’ingenuità dei fedeli contrabbandando false reliquie. Per questo furono puniti dal pontefice Gregorio IX nel 1240. 7. con … che: poiché.
8. brigante: gioviale, amante delle allegre compagnie. 9. niuna … avendo: pur non avendo alcuna istruzione. 10. gran rettorico: un maestro di oratoria. 11. Tulio … Quintiliano: Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), oratore e uomo politico romano; Marco Fabio Quintiliano (39-95 d.C.), autore del più famoso trattato latino di retorica, l’Institutio oratoria. 12. compare … benvogliente: in scala: padrino (di battesimo, cresima), amico, compagno piacevole, cordiale. 13. ville da torno: i borghi circostanti. 14. calonica: chiesa canonica o parrocchiale. 15. donne: più elevato di “femmine”; il termine è scelto per captare la benevolenza delle ascoltatrici, come anche l’appellativo
signori riferito a dei contadini. 16. baron … Antonio: al santo vengono attribuiti appellativi eterogenei: onorifici (baron messer) e devoti (santo). 17. acciò … vostre: anche nel presente il santo è venerato quale protettore degli animali domestici. Ma vi è anche un doppio senso comico: il santo nelle parole del frate è degradato a guardiano di buoi, asini o porci. 18. compagnia: confraternita. 19. debito: quota. 20. Alle quali … mandato: a raccogliere le quali quote io sono stato mandato dal mio superiore, cioè dal signor abate. 21. dopo nona: dopo le tre del pomeriggio. 22. di spezial grazia: per un particolare privilegio.
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delle penne dell’agnol Gabriello23, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne a annunziare in Nazarette24». E questo detto si tacque e ritornossi alla messa. Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini25, li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che26 molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di27 questa penna alcuna beffa. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello28 con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada, e all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono con questo proponimento, che Biagio dovesse tenere a parole il fante29 di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e torgliele30, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco31; il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto32. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: «Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità33. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove34!»; e essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose e35 egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi: egli è tardo, sugliardo36 e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato37, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle con queste, che si taccion per lo migliore38. E quel che sommamente è da rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione39; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante femine il veggano tutte di lui
23. e questa … Gabriello: è la prima reliquia della bizzarra raccolta di frate Cipolla. 24. Nazarette: Nazareth. 25. Giovanni … Pizzini: nomi di note famiglie certaldesi. 26. ancora che: malgrado. 27. di: a riguardo. 28. castello: parte alta del borgo. 29. tenere … il fante: intrattenere con chiacchiere il servitore. 30. chente … torgliele: quale che essa fosse, e sottrargliela.
31. Guccio Balena … Porco: tre nomi per alludere alla pesantezza, sporcizia, libidine del servitore di frate Cipolla. 32. il quale … cotanto: era così inetto, che nemmeno Lippo Topo (personaggio proverbiale, a cui si attribuivano stranezze e facezie) avrebbe potuto farne di altrettanto grosse. 33. Salamone … santità: Salomone, re di Israele (960-927 a.C.), simbolo di saggezza (vertù); Aristotele, filosofo greco (IV secolo a.C.) di acutezza di pensiero (senno); Seneca, filosofo latino (I secolo d.C.), di attenzio-
ne per le questioni morali (santità). 34. avendone nove: riferito a cose, cioè difetti. 35. e: ecco che. 36. sugliardo: sudicio (francesismo). 37. trascutato: negligente, che non pensa a nulla. 38. ha alcune altre … migliore: ha alcuni altri difettucci, che è meglio tacere per pudore. Teccherelle da teccola, tacca (di derivazione gotica), nel senso di difetto, pecca. 39. tor … pigione: prendere casa in affitto.
Pesare le parole Cattivo (r. 40) Viene dal latino captìvum, “prigioniero”, attraverso il modo di dire cristiano captìvus diàboli, “prigioniero del diavolo”. Qui ha il significato di “inetto, incapace”, mentre oggi il significato più corrente è “malvagio”, il contrario di “buono”; ma ha anche il senso di “non idoneo ad adempiere alla propria funzione” (es. ha una cattiva memoria, è un cattivo medico); oppure può significare “di qualità scadente” (es. il mobile è fatto di legno cattivo), o ancora “negativo, sfavorevole” (es. cattiva notizia, tempo cattivo, cattiva salute), “non pregevole esteticamente” (es. l’attore ha dato una cattiva interpretazione), “sgradevole” (es. un cattivo odore). Come si vede, è un termine generico che si riferi-
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sce a una vasta gamma di realtà negative. Sinonimi: malvagio, dal provenzale malvatz, a sua volta derivato dal latino tardo malefàtium, composto da màlum, “cattivo”, e fàtum, “destino”, quindi alla lettera “che ha un cattivo destino”: è curioso come dalla sfortuna sia fatta discendere la malvagità; perfido, dal latino per-, “al di là”, e fìdes, “fedeltà, lealtà”, cioè “chi viola lealtà”; perverso, dal latino pervèrtere, “stravolgere, rovesciare”, cioè “chi stravolge i princìpi morali”; scèllerato, dal latino scèlus, “delitto”, quindi “chi si è macchiato di delitti”; maligno, dal latino malìgnum, dalla radice di màlum, “malvagio”. Il Maligno è il malvagio per eccellenza, il demonio.
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s’innamorino40, e essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia41. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto42, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga43». A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre. Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago44 di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna45, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci46, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna47, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò; e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta48 aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore49 e che egli aveva de’ fiorini più di millantanove50, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno51, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pur unquanche52. E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio53, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani54, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il Siri di Ciastiglione55, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese56 e trarla di quella cattività57 di star con altrui e senza gran possession d’avere58 ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai: le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite59, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente. Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la loro fatica era cessata60, non contradicendolo alcuno61 nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa62 per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado63 fasciata una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d’un pappagallo, la quale avvisarono64 dovere esser
40. gli par … s’innamorino: gli sembra di essere tanto bello che s’illude che tutte le donne che lo vedono si innamorino di lui. 41. perdendo la coreggia: perdendo la cintura, cioè i pantaloni. È un modo per dire che non ha alcun ritegno. 42. grande aiuto: è detto ironicamente. 43. prestamente … convenga: Guccio è cioè un impiccione indiscreto. 44. vago: desideroso. 45. se fante … niuna: se si accorgeva che c’era qualche serva. 46. de’ Baronci: famiglia fiorentina che abitava nei pressi di Santa Maria Maggiore, i cui esponenti erano noti per la loro bruttezza (Boccaccio ne ha parlato nella novella IV, 6). 47. non altramenti … carogna: alla delicata similitudine dell’usignolo segue questa che rappresenta l’avida bramosia per un oggetto disgustoso. 48. Nuta: Benvenuta. 49. gentile … procuratore: gentiluomo per
procura. È una perifrasi contorta per dire che non lo è affatto; ma col giro di parole spera di ingannare e abbagliare la serva. Guccio usa espedienti verbali che imitano quelli del padrone, come vedremo poco dopo. 50. millantanove: una cifra che suona come esagerata, iperbolica, ma di fatto inesistente. 51. senza … meno: senza contare quelli che doveva restituire ad altri, che erano una somma ancora maggiore. È il solito gioco illusionistico: Guccio cerca di far passare all’attivo, ascrivendole alle sue ricchezze, somme che invece vanno al passivo, e devono essere detratte. 52. che domine pur unquanche: che nemmeno il suo padrone avrebbe saputo fare o dire altrettanto bene. 53. il calderon d’Altopascio: l’enorme pentolone di Altopascio, nei pressi di Lucca, in cui due volte alla settimana veniva cotta dai frati la minestra per i poveri.
54. un suo farsetto … indiani: un suo panciotto sdrucito e rattoppato, e intorno al collo e sotto le ascelle (ditella) coperto da uno strato di sudiciume, che lo rendeva liscio e lucente, con più macchie e di più colori di quanti ve ne fossero nei tessuti dei tartari e degli indiani. 55. Siri di Ciastiglione: il signore di Châtillon (per intendere un gran signore). 56. in arnese: a posto. 57. cattività: schiavitù. 58. d’avere: di ricchezze. Possession d’avere è espressione dantesca (canzone Le dolci rime), che qui è usata con effetto comico. 59. in vento convertite: vanificate. 60. cessata: evitata. 61. non … alcuno: senza che alcuno si opponesse. 62. venne lor presa: fu da loro presa. 63. zendado: drappo di seta. 64. avvisarono: pensarono.
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quella che egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente65 far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d’Egitto66, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero67, in quella contrada quasi in niente erano dagli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà68 degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avea ricordare69. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia70 come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono71 nel castello, che appena vi capeano72, con disidero aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a73 Guccio Imbratta che là sù con le campanelle74 venisse e recasse le sue bisacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto75, con le cose addimandate con fatica lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato76, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica e in acconcio de’ fatti suoi77 disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con gran solennità la confessione, fece accender due torchi e soavemente sviluppando il zendado78, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione79 dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non sospicò80 che ciò Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto81, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa82, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente, trascutato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: «O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!». Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: «Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole83, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto
65. leggiermente: facilmente. 66. morbidezze d’Egitto: le raffinatezze orientali. 67. e dove … fossero: e malgrado fossero poco note altrove. 68. rozza onestà: i costumi primitivi ma onesti. 69. E certo … ricordare: uno dei rari interventi del narratore volto a rammentare, non senza rimpianto, usi e abitudini del passato. 70. racconcia: rimessa a posto. 71. concorsono: accorsero. 72. appena vi capeano: a mala pena vi stavano.
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73. mandò a: mandò a chiamare. 74. con le campanelle: quelle che erano suonate all’esposizione delle reliquie. 75. divelto: staccato. 76. ragunato: radunato. 77. in acconcio … suoi: secondo quanto richiedeva la circostanza, traendo profitto per il suo caso. 78. fatta … zendado: recitato il Confiteor con gran solennità, fece accendere due grossi ceri e svolgendo con delicatezza il drappo. 79. a laude e a commendazione: in lode e gloria.
80. non sospicò: non sospettò. 81. nol … tanto: non lo riteneva capace di tanto, di fare un simile scherzo. 82. commessa: affidata. 83. in quelle … sole: il sole appare ovunque, quindi frate Cipolla è inviato in luoghi qualsiasi, ma la sostenutezza formale della predica conferisce a ciò che è normale un che di straordinario. Gli ascoltatori sono indotti a credere «dove sorge il sole», cioè in Oriente.
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che io trovassi i privilegi del Porcellana84, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi85. Per la qual cosa messom’io in cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna86. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando?87 Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia88, paesi molto abitati e con gran popoli, e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni89 trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilità vedessero seguitare90, nulla altra moneta spendendo che senza conio91 per quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti92, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime93; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca94: da’ quali alle montagne de’ Bachi pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiù95. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino96 in India Pastinaca97, là dove io vi giuro per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati98, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio99, il quale gran mercatante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio100. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in là si va per acqua101, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state102 vi vale il pan freddo quatro denari e il caldo103 v’è per niente. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace104, degnissimo patriarca di Ierusalem. Il quale, per reverenzia dell’abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva, e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate105, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello
84. i privilegi del Porcellana: i feudi del Porcellana. Nell’improvvisare il suo discorso, frate Cipolla attribuisce ai luoghi esotici nomi comuni della topografia fiorentina. Porcellana infatti era il nome di un ospedale di Firenze; allude anche al soprannome di Guccio. 85. li quali … a noi: è l’espediente consueto, di far intendere il contrario di quanto si dice, usando un giro tortuoso di parole. Qui in sostanza si dice che quei titoli sono inutili. 86. di Vinegia … in Sardigna: tutto il periodo è costruito sull’equivocità della toponomastica, secondo un procedimento retorico detto anfibologia, che consiste nell’uso di termini che ammettono più significati: Vinegia tra il nome antico di Venezia e quello di una via fiorentina, Vinegia, appunto, vicina a piazza della Signoria; Borgo de’ Greci tra un richiamo a terre orientali ed un’altra strada del centro di Firenze; lo reame del Garbo tra un regno nordafricano e una strada fiorentina (oggi via Condotta); Baldacca tra Baldack (in Arabia) o Bagdad ed una strada vicino ad Orsanmichele; Parione una via da Santa Trinità alla Carraia; Sardigna una zona deserta fuori San Frediano; Braccio di San Giorgio tra una località d’oltrarno ed il Bosforo. La Sardegna è menzionata quale località remota ed esotica, alle orecchie dei contadini.
87. Ma perché … divisando?: ma perché vi sto elencando tutti i paesi da me percorsi? 88. in Truffia e in Buffia: i paesi delle truffe e delle beffe. Basterebbero i nomi a svelare l’inganno, se i contadini non fossero così sprovveduti. Il frate si diverte a giocare quasi allo scoperto, certo di non essere smascherato. Il fatto che quei paesi siano molto abitati allude al gran numero di truffatori e beffatori in circolazione. 89. religioni: ordini religiosi. Di nuovo gioca quasi allo scoperto. 90. li quali … seguitare: tutti evitavano il disagio per amor di Dio, curandosi poco delle fatiche altrui, dove vedessero che potevano ricavare un utile (che è il contrario del dovere dei frati). 91. moneta … senza conio: chiacchiere vuote. Una moneta senza conio è qualcosa di inesistente. 92. terra d’Abruzzi … monti: gli Abruzzi sono citati come contrade remote e favolose. Andare con gli zoccoli su per i monti è cosa comunissima per i contadini, ma qui è citato come un fatto straordinario. Vi è però un doppio senso: l’espressione allude alla sodomia. 93. rivestendo … medesime: insaccando i porci nelle loro stesse budella (busecchie), ossia producendo insaccati, niente di straordinario. 94. che portano … sacca: che portano il
pane a forma di ciambella infilato nei bastoni e il vino negli otri. Anche qui un fatto comune viene fatto apparire come portentoso. 95. corrono alla ’ngiù: altro particolare normale presentato come straordinario. 96. mei infino: addirittura fino. 97. India Pastinaca: viene accostato al nome della penisola indiana quello di una pianta dalle radici dolci (pastinaca). 98. i pennati: altro doppio senso: pennati, coltelli per potare, pennati o pennuti, uccelli. Che gli uccelli volino è ovviamente cosa normalissima, ma i contadini intendono che volino i coltelli, cosa portentosa. 99. Maso del Saggio: famoso burlone. 100. a ritaglio: al minuto (cosa del tutto assurda). 101. si va per acqua: si va per mare, navigando. Secondo le concezioni antiche, l’India era l’ultima terra, al di là della quale vi era solo l’Oceano. 102. l’anno di state: durante l’estate. 103. il caldo: altro doppio senso: è ovvio che il caldo d’estate non costi niente, ma frate Cipolla vuol far intendere «il pane». 104. Nonmiblasmete Sevoipiace: nome immaginario coniato su quello di personaggi del Roman de la rose o del Tesoretto; equivale all’espressione «Non mi biasimate per piacere». 105. sconsolate: deluse. Usa il femminile per cortesia verso le donne presenti.
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Spirito Santo106 così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell’unghie de’ gherubini107, e una delle coste del Verbum-caro-fatti-alle-finestre108 e de’ vestimenti della santa Fé109 catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, e una ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole110, e la mascella della Morte di san Lazzero111 e altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e d’alquanti capitoli del Caprezio112, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli partefice113 delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti della Santa Croce e in una ampoletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone114 e la penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna115 (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di Bonsi116, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito117; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle118 tutte. È il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non s’è se desse sono o no119; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa120 l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì121. E per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor122 di quel santissimo corpo mi fé pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco123, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta124». E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e,
106. il dito dello Spirito Santo: comincia l’elenco delle reliquie. 107. gherubini: cherubini. 108. Verbum … finestre: storpiatura buffonesca della formula evangelica Verbum caro factum est, il “Verbo si fece carne”. 109. santa Fé: la santa Fede, concetto astratto, è presentata come una santa in carne ed ossa, di cui restano i vestiti come reliquie. 110. diavole: diavolo. 111. la mascella … Lazzero: la mascella della morte che colpì Lazzaro (poi risuscitato da Gesù). La morte era tradizionalmente raffigurata come uno scheletro. 112. piagge … Caprezio: i pendii di Monte Morello, montagna presso Firenze; Caprezio è un nome inventato, che ricorda nomi di illustri studiosi, come Boezio (e si noti il gioco burlesco bue-capra). Entrambi i nomi han-
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no un significato osceno. Così pure gli feci copia, che vale donai, ma può anche voler dire far dono di sé in senso carnale (Segre). 113. partefice: partecipe. 114. suono … Salomone: a parte che il tempio di Salomone a Gerusalemme non aveva campane, che sono proprie delle chiese cristiane, chiudere un suono in un’ampolla è una cosa assurda. 115. san Gherardo da Villamagna: francescano (1174-1267), seguì la regola con grande rigore. 116. Gherardo di Bonsi: autorevole cittadino di Firenze, esponente dell’Arte della lana, priore nel 1317, devoto del san Gherardo citato e che da lui prende nome. Per convalidare le sue panzane il frate inserisce anche alcuni particolari reali. 117. carboni … arrostito: secondo la leggenda, san Lorenzo martire fu bruciato sui
carboni ardenti. 118. holle: le ho. 119. È il vero … o no: è vero che il mio superiore (l’abate) non ha mai permesso che io le mostrassi, sinché non è dimostrato con certezza se esse sono vere o no. 120. mi vien presa: mi accade di prendere. 121. che la festa … due dì: che la festa di san Lorenzo (10 agosto) è fra due giorni. 122. omor: gli umori, usciti dal corpo di san Lorenzo. 123. tocco: toccato. 124. che non si senta: senza che sia sentito. È l’ultimo gioco verbale: alla lettera significa che chi viene toccato dal fuoco lo sente, come è ovvio. Ma il giro tortuoso di parole e negazioni (nol cocerà … non si senta) fa intendere ai contadini il contrario, che chi è toccato dai carboni miracolosi resterà per un anno immune dalle scottature.
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migliori offerte dando che usati non erano125, che con essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno126. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggiori croci che vi capevano127, affermando che tanto quanto essi scemavano128 a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato. E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati129 i certaldesi, per presto accorgimento130 fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li quali stati131 alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse132 e con che parole, avevan tanto riso, che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono e appresso gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse133 non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
125. migliori … non erano: dando offerte più generose del solito. 126. che con essi … ciascuno: ciascuno lo pregava che lo toccasse con i carboni. 127. capevano: potevano essere contenute.
128. scemavano: diminuivano, si consumavano. 129. crociati: segnati con una croce. 130. per presto accorgimento: con la sua veloce risoluzione.
131. stati: essendo stati. 132. il nuovo … si fosse: il rimedio insolito (nuovo) da lui trovato e come fosse partito da lontano. 133. gli valse: gli procurò in offerte.
Analisi del testo L’«industria» e la parola
Frate Cipolla “eroe” boccacciano oltre ogni moralità Una realtà parallela costruita dalla parola
Anche frate Cipolla possiede la virtù dell’«industria», l’abilità di superare ostacoli e di trarsi da situazioni difficili grazie alla prontezza dell’ingegno e grazie alla capacità di dominare la realtà, di plasmarla a proprio favore con la parola. Il frate è certo un personaggio moralmente negativo, un truffatore di mezza tacca che approfitta della credulità degli sprovveduti. Dante l’avrebbe sprezzantemente collocato in una delle Malebolge. Ma Boccaccio, come per Andreuccio che ruba l’anello dell’arcivescovo, mette tra parentesi il giudizio morale e ammira solo la «virtù» del personaggio, compiaciuto e divertito dalla sua prontezza e dalla sua abilità di parola. Anche frate Cipolla è quindi un “eroe” boccacciano: solo che si colloca all’ultimo gradino di quella ideale scala di virtù eroiche, di cui Cavalcanti occupa il gradino supremo. Come già ser Ciappelletto ( T4, p. 526), frate Cipolla, con la sua turbinosa parlantina, riesce a costruire una vera e propria realtà parallela, sostituendola alla realtà effettuale. Si tratta di un mondo surreale in cui tutto è ambiguo: le strade più note di Firenze possono apparire esotiche e favolose contrade, i «pennati» (r. 137) possono essere oggetti da lavoro o volatili. In questo mondo parallelo le attività più usuali, insaccare salsicce, cuocere pani a forma di ciambella, mettere il vino negli otri, o il semplice scorrere dell’acqua all’ingiù, divengono fatti strabilianti, prodigiosi; le cose più ovvie si avvolgono in tali labirinti di parole da apparire rovesciate nel loro contrario («fuoco nol cocerà che non si senta», r. 177). La dimensione comica e satirica
Il carnevalesco
La predica di frate Cipolla rientra in un gusto popolare diffuso, che è connesso con la cultura “carnevalesca” ( cap. 2, p. 180), festosa, gioiosa, irriverente, che esalta le realtà più basse e rovescia comicamente i valori costituiti. Innanzitutto, infatti, il discorso del frate buontempone si regge tutto sul meccanismo del rovesciamento. Per l’irriverenza verso le cose sacre, poi, si pensi a sant’Antonio, che nelle parole del frate si trasforma beffardamente in una sorta di guardiano di buoi, asini, porci e pecore. 623
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La satira antiecclesiastica
Al gusto carnevalesco risale anche l’invenzione verbale, il gioco sull’ambiguità e il doppio senso, con allusioni sia alle realtà gastronomiche sia a quelle sessuali. Per tutti questi aspetti, il discorso di frate Cipolla appare molto vicino ad una composizione giullaresca. E non c’è da meravigliarsi: spesso i frati, specie quelli degli ordini mendicanti, per la loro predicazione facevano proprie le tecniche di intrattenimento dei giullari. Per costruire il discorso del suo frate, Boccaccio ha tenuto presente questa realtà. Nella predica si può ravvisare inoltre la parodia dei racconti dei viaggiatori su paesi lontani abitati da curiosi popoli e pieni di realtà strane e prodigiose (si pensi al Milione, cap. 3, pp. 197 e ss.). La figura del frate truffatore sembra contenere una polemica antiecclesiastica, contro la degenerazione degli ordini religiosi. Ma siamo lontani qui dall’asprezza delle condanne pronunciate da Dante contro la corruzione del clero. Per la società in cui vive Boccaccio la corruzione ecclesiastica è una realtà ormai scontata, che può essere considerata con disincanto e diviene oggetto di puro riso divertito. Lo stesso si può dire della polemica contro l’abuso delle reliquie che sfrutta la superstizione e la credulità popolare: anche qui si rivela l’atteggiamento di uno spirito ormai adulto e smaliziato, che guarda con aristocratico distacco le credenze popolari, e al tempo stesso le fa oggetto di goduto divertimento, senza con questo lanciarsi in una crociata laica e “illuministica”. È ovvio che un atteggiamento del genere non implica per nulla un disprezzo per la religione in sé e per i suoi princìpi: Boccaccio resta un convinto credente, pieno di ossequio per la sacralità religiosa. Quelli che abbiamo definiti atteggiamenti irriverenti sono più che altro la ripresa di motivi diffusi della cultura popolare, che ama il rovesciamento parodico del sacro e l’uso in chiave comica di simboli, riti e termini religiosi: si tratta insomma, per Boccaccio, di un puro divertimento letterario. Guccio “doppio” di frate Cipolla
L’uso illusionistico della parola
Testo critico F. Bruni
La parodia del comico
La scena di cui è protagonista Guccio può parere un puro divertimento gratuito, svincolato dal resto della novella; in realtà essa ha un preciso valore funzionale nella struttura del racconto. Guccio è una sorta di “doppio” di frate Cipolla: in lui si riflette in modo distorto la «virtù» del frate, l’uso illusionistico della parola che mira a dominare la realtà. Difatti il servo vuole imitare il padrone, e per conquistare la Nuta usa gli stessi accorgimenti verbali che poi vedremo tornare nella predica. La tentata seduzione della sguattera funziona pertanto come una sorta di prefigurazione della “seduzione” dei contadini di Certaldo da parte di frate Cipolla. Ma è una prefigurazione del tutto maldestra e destinata al fallimento. Se Guccio è il “doppio” di Cipolla, ne è anche un doppio degradato e parodico. Ma il frate è già di per sé un personaggio comico: Guccio risulta perciò parodia del comico, un comico alla seconda potenza. È come il buffone che accompagna il signore imitandone e contraffacendone in forma ridicola i modi: solo che qui il parodiato è anch’esso un buffone.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Riassumi il contenuto della novella in circa 10-12 righe (500-600 caratteri). AnALIzzAre
> 2.
narratologia Soffermati a descrivere brevemente il personaggio di Frate cipolla così come viene presentato all’inizio della novella (rr. 3-13).
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> 3.
Narratologia Il discorso di Frate Cipolla alla folla nasconde in realtà più di un destinatario, come risulta evidente dallo schema sottostante, da completare, costruito secondo la tecnica del “racconto nel racconto”.
il racconto del frate è rivolto ai seguenti destinatari: Brigata dei ...................................................................................................
Giovanni Bragoniera e ...................................................................................................
Abitanti di ...................................................................................................
Lettore del ...................................................................................................
> 4. Stile Nella descrizione scherzosa che Frate Cipolla fa del servo Guccio Imbratta (rr. 39-56) compaiono aggettivi, a gruppi di tre, come in rima o in un gioco di assonanze e in climax. Individuali e sottolineali sul testo > 5. Stile Il discorso di frate Cipolla ai certaldesi è definito da Vittore Branca una «epopea oratoria» o ancora una «girandola semantica», a sottolineare l’espressività del linguaggio, che cresce su se stesso, fatto di doppi sensi e spesso di frasi prive di significato, ma formalmente sostenute. A tale proposito, sottolinea nella sua predica ai certaldesi (rr.120-177) quelle espressioni in cui un fatto comune viene presentato come straordinario. APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 6.
Testi a confronto: scrivere Svolgi un confronto in un massimo di 30 righe (1500 caratteri) tra questa novella e quella di ser Ciappelletto ( T4, p. 526), mettendo in rilievo le analogie e le differenze rispetto ai comportamenti dei protagonisti e l’atteggiamento mostrato dall’autore nei loro confronti. PASSATO E PRESENTE Il potere della parola
> 7. Rifletti sul potere della parola e sull’importanza che quest’ultima riveste nei rapporti sociali ed economici.
Quanto credi che sia determinante la capacità di destreggiarsi in ogni situazione attraverso la parola per affermarsi nel proprio ambiente sociale o per raggiungere i propri obiettivi? Discutine in classe con i tuoi compagni.
Microsaggio
La satira del villano Il riso che nella novella di frate Cipolla ricade sui contadini di Certaldo non è un fenomeno isolato nella cultura tardo-medievale. La “satira del villano” è un tema che torna di frequente, sino a dare origine a un genere letterario, destinato a durare nei secoli. Il contadino nella letteratura cortese Nella letteratura cortese il contadino aveva un rilievo del tutto marginale: trattandosi di una letteratura che ignorava le basi materiali della vita, la figura di chi lavora maLa visione fiabesca nualmente e produce i beni materiali non poteva suscitare interesse. Al massimo, come ha sottolineato o idilliaca del Contini, poteva comparire in una luce fiabesca, come villano-bestia, essere animalesco e quasi mostruocontado so che il cavaliere incontrava nelle sue peregrinazioni in cerca di avventura (un esempio se ne ha all’inizio dell’Ivano di Chrétien de Troyes); oppure in chiave idillica nelle “pastorelle” provenzali, che cantavano il tentativo da parte del cavaliere di piegare alle finezze d’amore la donna del contado. Una figura Il contadino nella società comunale Nella cultura della società comunale e mercantile, più attenta alla negativa dimensione materiale e concreta del vivere, comincia a comparire la figura del contadino; però, di norma,
essa è presentata in una luce negativa: il “villano” (il termine, che in origine significava solo “abitante della
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villa”, cioè della campagna, assume poi un vero e proprio significato spregiativo) appare come essere rozzo, sciocco e ottuso, animato solo da voglie animalesche quali il cibo e il sesso, ed è, per questo, fatto oggetto di riso e di disprezzo. Un esempio significativo è il Detto di Matazone da Caligano, componimento di area e lingua lombarda della metà del trecento, di tipo giullaresco, in cui si paragonano la nascita del contadino e quella del cavaliere, il primo dal peto di un asino, il secondo dall’unione di una rosa e di un giglio. Le ragioni storiche Le ragioni profonde della satira del villano Le ragioni di questo atteggiamento verso i contadini vanno e sociali ricercate nella conformazione sociale della civiltà urbana. Nelle città si erano sviluppate forme di vita ci-
vili e raffinate, unite ad una mentalità più aperta; le campagne erano invece rimaste in una condizione di maggiore arretratezza materiale e intellettuale. era naturale perciò che il cittadino, di qualunque classe sociale, aristocratico, borghese o popolano, guardasse con disprezzo il contadino, che continuava a vivere in condizioni bestiali, era vittima di credenze superstiziose ed ignorava ogni raffinatezza del vivere. Il cittadino, dall’alto della sua superiorità, faceva dell’abitante della campagna un oggetto di scherno e di divertimento. Il conflitto borghesi-contadini Ma, sotto questo riso, si celavano tensioni più profonde. Il ceto dirigente delle città era subentrato in larga misura ai signori feudali nel possesso delle terre del contado; e il proprietario borghese, attento al guadagno, era ben più esoso nel controllare il lavoro dei contadini e nell’esigere il pagaPadroni e mento delle rendite, in denaro o in natura. Il rapporto cittadino-contadino era dunque un rapporto sfruttatocontadini re-sfruttato. Il contadino, di conseguenza, nutriva odio e rancore per l’agiato borghese, che si appropriava dei frutti della sua fatica bestiale, lasciando a lui solo il minimo per sopravvivere, tra stenti, fame e malattie. Il cittadino, per parte sua, era ben conscio di questo odio, e ne aveva paura. Non erano infrequenti, nel Medioevo, le rivolte dei contadini (le cosiddette jacqueries, dal nomignolo sprezzante che si dava in Francia al contadino, “Jacques Bonhomme”), che sfogavano la rabbia repressa di una condizione inumana in una selvaggia e incontrollata furia devastatrice. Il riso divertito dei cittadini appare dunque, in questa luce, come una forma di esorcizzazione della paura, suscitata dalla presenza minacciosa dei contadini. Il disprezzo, a sua volta, sfoga l’odio e l’aggressività dei proprietari verso quei minacciosi antagonisti. Il conflitto tra popolo cittadino e contadini come si vede, dietro un tema letterario si celano reali, materiali conflitti di interesse. Lo stesso discorso vale per il proletariato urbano: nel dileggio verso il miserabile e animalesco contadino, il lavorante a giornata o il piccolo artigiano della città trovavano risarcimento alla loro miseria e alla loro frustrazione sociale, scorgevano una forma di riscatto simbolico nello sfogare il loro Uno scontro disprezzo verso chi appariva ancora al di sotto di loro nella scala sociale. Ma anche qui vi erano al fondo di classi conflitti materiali: i salariati temevano l’inurbamento dei contadini, e la concorrenza che ne derivava sul mercato del lavoro; il contadino affamato venuto in città si accontentava di un salario minore e poteva soppiantare il lavorante cittadino. Il fenomeno dell’inurbamento del proletariato rurale è consistente nel Medioevo; ne troviamo un’eco persino in Dante: «tal fatto è fiorentino e cambia e merca / che si sarebbe volto a Simifonti, / là dove andava l’avolo alla cerca» (chi ora è divenuto fiorentino ed esercita l’attività bancaria e mercantile, sarebbe rimasto nel paese originario di Simifonti [in valdelsa], dove il suo antenato esercitava il commercio al minuto; Paradiso, XvI, vv. 61-63).
Un contadino insegna a suo figlio come arare un campo, XIII secolo, miniatura dalle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X il saggio, Madrid, Monastero dell’Escorial, Biblioteca.
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Calandrino e l’elitropia
Temi chiave
• la beffa come massima
dal Decameron, VIII, 3
espressione dell’intelligenza
Il tema della giornata, e della novella, è la beffa, un tema tipico della civiltà fiorentina. La narratrice è elissa.
• il sogno del paese dell’abbondanza
Calandrino, Bruno e Buffalmacco1 giù per lo Mugnone2 vanno cercando di trovar l’elitropia3 e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia4 e egli turbato5 la batte, e a’ suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui. 5
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[…] Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti6 è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi7 costumi. Il quale il più del tempo con due altri dipintori usava8, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli9 molto ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa10 prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza in ciascuna cosa che far voleva, astuto e avvenevole11, chiamato Maso del Saggio12; il quale, udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi13 col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa14. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni15 e vedendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli del tabernaculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi16, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo insieme incominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario17. A’ quali ragionamenti Calan-
1. Calandrino … Buffalmacco: si tratta di tre pittori realmente esistiti. 2. Mugnone: fiume che scorre nelle vicinanze di Firenze. 3. elitropia: pietra dalla magica proprietà, descritta nei lapidari medievali, di rendere invisibile chi la recava addosso. 4. il proverbia: lo rimprovera. 5. turbato: adirato. 6. varie … genti: costumi differenti e perso-
naggi particolari, strani. 7. nuovi: fuori dalla norma, nel senso di ingenui e sprovveduti. 8. usava: trascorreva. 9. sollazzevoli: amanti dello spasso. 10. gran festa: gran divertimento. 11. avvenevole: fortunato. 12. Maso del Saggio: anch’egli personaggio realmente vissuto: fu un mediatore di professione, noto soprattutto per la passio-
ne per gli scherzi. 13. prender … suoi: divertirsi alle sue spalle. 14. nuova cosa: cosa strana. 15. San Giovanni: è il battistero di Firenze. 16. non … postovi: collocato in quel punto da non molto tempo. 17. solenne … lapidario: un autentico intenditore di pietre.
Pesare le parole Credenza (rr. 20, 101) Viene dal latino crèdere, “credere, ritenere vero, essere di una certa opinione”, ma anche “riporre fiducia in qualcuno o qualcosa”, “affidare”. Qui ha il senso di “segreto affidato da qualcuno, da non rivelare”. Il senso più comune del sostantivo oggi è “atto del credere”, “fede”, soprattutto religiosa (es. le credenze dei popoli primitivi), oppure “opinione, convinzione” (es. è credenza comune che l’anima sopravviva dopo la morte). La credenza è anche un armadio in cui si ripongono i cibi, e l’origine del termine è curiosa: anticamente era l’assaggio precauzionale dei cibi prima di servirli a un personaggio importante, per assicurarlo che non fossero avvelenati, di qui poi la parola è passata a indicare la tavola apparecchiata, e infine il mobile in cui i cibi erano riposti. Da credere deriva credito, che assume vari significati: “l’es-
ser creduto” (es. ciò che dice non merita credito), “buona reputazione” (es. come professionista gode di molto credito), “somma di denaro a cui si ha diritto” (es. sono riuscito a incassare dal debitore il mio credito), “dilazione di pagamento” (es. in questo negozio non si fa credito), “attività bancaria consistente nel prestare denaro” (es. la banca ha aperto una linea di credito alla sua fabbrica). Credenziali sono i documenti che accreditano un diplomatico, ed il termine è usato anche in senso figurato (es. ha tutte le credenziali per aspirare a quel posto). Il credo è l’insieme delle dottrine fondamentali di una religione (es. il credo cattolico, evangelico), o più in generale, all’infuori delle religioni, il complesso di idee e principi politici, morali, artistici di una persona o di un gruppo (es. il suo credo di artista lo porta a rappresentare fedelmente la realtà).
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drino posta orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza18, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole19, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose20 si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone21, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta22; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia23, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. «Oh!» disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro?». Rispose Maso: «Mangiansegli i baschi tutti». Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai?». A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille24». Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha25?». Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta26». Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là che Abruzzi27». «Sì bene», rispose Maso «sì è cavelle28». Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo29 e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità è più manifesta, e così l’aveva per vere; e disse: «Troppo ci è lungi a’ fatti miei30: ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con esso teco pur per veder fare il tomo a quei maccheroni e tormene una satolla31. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?». A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù. L’una sono i macigni da Settignano e da Montisci32, per vertù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina33, e per ciò si dice egli in que’ paesi di là che da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine; ma ècci34 di questi macigni sì gran quantità, che appo noi35 è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Monte Morello36, che rilucon di mezzanotte vatti con Dio37; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero38 e portassele al soldano39, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidarii appelliamo elitropia, pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è40».
18. non era credenza: non c’era segreto. 19. seguendo … parole: proseguendo il suo discorso. 20. così virtuose: dagli effetti tanto portentosi. 21. Berlinzone: località di pura fantasia il cui etimo si ricollega a berlingaio, “ghiottone”. Anche il paese di Bengodi è immaginario, e riproduce il motivo popolare del paese di Cuccagna. I baschi sono citati come paese lontano e poco conosciuto. 22. avevavisi … giunta: era possibile ottenere con un denaro (cifra molto modesta) un’oca con l’aggiunta di un papero. 23. vernaccia: un vino pregiato. 24. così … mille: Maso gioca sull’ambiguità: la sua risposta sembra affermare, invece nega. E proprio sull’ambiguità gioca per ingannare lo sciocco. 25. ci ha: dista.
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26. Haccene … canta: ce ne sono più di millanta. È un numero indeterminato; la frase in rima successiva è priva di senso, ed è usata solo per farsi beffe di Calandrino. 27. Abruzzi: è una regione usata per indicare un luogo remoto. 28. Sì bene … cavelle: di certo … è proprio un bel niente. Le frasi si alternano senza seguire sempre un senso logico. 29. fermo: imperturbabile. 30. Troppo … miei: dista troppo per me. 31. per veder … una satolla: per veder cadere quei maccheroni e farmene un’abbondante mangiata. 32. da Settignano e da Montisci: località collinari nei pressi di Firenze. 33. macine … farina: Maso spaccia come virtù portentose l’impiego comunissimo dei macigni come macine per il grano.
34. ècci: c’è. 35. appo noi: presso di noi. 36. Monte Morello: anche questa è una località nelle immediate vicinanze di Firenze. 37. vatti con Dio: nella frase Maso rivolge un’espressione villana (vatti con Dio, vai a quel paese!) a Calandrino che non la coglie. 38. chi facesse … si forassero: chi facesse connettere in collana le macine prima di bucarle. È evidentemente impossibile. 39. soldano: il sultano d’Egitto. 40. dove non è: Calandrino continua ad essere bersagliato dai giochi di parole del suo interlocutore. Che uno non sia veduto dove non è, è cosa ovvia; ma Maso lo afferma con un giro così tortuoso di parole, da indurre Calandrino a credere il contrario; e Calandrino è indotto a crederlo anche perché era comune la credenza che l’elitropia rendesse invisibili.
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Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?». A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? o che colore è il suo?». Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è più, alcuna meno41, ma tutte son di colore quasi come nero». Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate42, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso e seco propose di volere cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di43 Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente44 amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare45, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli. Ultimamente, essendo già l’ora della nona passata46, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza47, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro e chiamatigli così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze: per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra48 non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercar. Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco49; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella50 e andare alle tavole de’ cambiatori51, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi52 e di fiorini, e torcene53 quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare54 le mura a modo che fa la lumaca». Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra se medesimi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio55 di Calandrino; ma domandò Buffalmacco come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta56, era già il nome uscito di mente; per che egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome poi che noi sappiamo la vertù57? A me parrebbe che noi andassomo a cercare senza star più58». «Or ben» disse Bruno «come è ella fatta?». Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo a essa59; e per ciò non perdiam tempo, andiamo». A cui Bruno disse: «Or t’aspetta»; e volto a Buffalmacco disse: «A me pare che Calandrino dica bene, ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro60 e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé bianche, delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere61: e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì da lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassomo faccendo e forse farlo
41. varie … meno: in realtà Maso non dà alcuna indicazione; l’elitropia può essere grossa come piccola. 42. notate: Calandrino prende nota come se avesse ricevuto una descrizione molto precisa della pietra. 43. senza saputa di: all’insaputa di. 44. spezialissimamente: in modo del tutto particolare. 45. prima … cercare: per andare a cercare la pietra prima di qualcun altro. 46. l’ora … passata: dopo le tre pomeridiane.
47. donne di Faenza: monache di via Faenza. 48. la porta sopra: l’indossa. 49. io la conosco: in realtà Maso gli aveva dato una descrizione genericissima. 50. scarsella: borsa attaccata alla cintura. 51. cambiatori: cambiavalute. 52. grossi: monete in argento. 53. torcene: prendercene. 54. schiccherare: insudiciare. La prospettiva di arricchirsi induce Calandrino a guardare con disprezzo e fastidio la sua professione di pittore. 55. consiglio: piano, disegno.
56. era di grossa pasta: era di scarsa intelligenza. 57. la vertù: la proprietà. 58. senza star più: senza indugiare oltre. 59. tanto … a essa: fintanto che non ci imbattiamo in essa. 60.dà…entro: illumina la vallata del Mugnone. 61. per che … nere: in realtà è il contrario: alla mattina le pietre, bagnate, appaiono nere anche se sono bianche. Rovesciando la logica, i due burloni si prendono gioco di Calandrino, ma vogliono anche indurlo a caricarsi di una maggiore quantità di pietre.
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essi altressì; e potrebbe venire alle mani a loro62, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura63. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover far da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga». Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s’accordò: e ordinarono64 che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogni altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza65. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti66 affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra se medesimi. Calandrino con disidero67 aspettò la domenica mattina: la qual venuta, in sul far del dì si levò. E chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi cominciarono a andare in giù della pietra cercando. Calandrino andava, e come più volenteroso, avanti e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva si gittava e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato68, che egli il seno se n’ebbe pieno, per che, alzandosi i gheroni della gonnella69, che alla analda non era70, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia71 attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empié. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avicinava, secondo l’ordine da sé posto72 disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?». Buffalmacco, che ivi presso sel vedea, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi». Disse Bruno: «Ben che fa poco!73 a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare e noi ha lasciati nel farnetico74 d’andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone». «Deh come egli ha ben fatto» disse allor Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che75 noi fummo sì sciocchi, che noi gli credemmo. Sappi76! chi sarebbe stato sì stolto, che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?». Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la vertù d’essa coloro, ancor che loro fosse presente77, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura78, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro se ne cominciò a venire. Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che faremo? ché non ce ne andiam noi?». A cui Bruno rispose: «Andianne79; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto80 nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa»; e il dir le parole e
62. potrebbe … loro: (la pietra) potrebbe capitare in mano a loro. In realtà Bruno e Buffalmacco non vogliono gente, altrimenti la beffa di far credere a Calandrino di essere diventato invisibile sarebbe irrealizzabile. 63. il trotto per l’ambiadura: massima popolare. Significa, in senso lato: avremmo perduto tutto (come colui che, per insegnare al cavallo l’ambio, un’andatura particolare, gli faccia dimenticare il trotto, passo naturale per il quadrupede). 64. ordinarono: stabilirono. 65. a lui … credenza: a lui era stata riferita in gran segreto.
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66. saramenti: giuramenti. 67. con disidero: con ansia. 68. guari … andato: non era andato molto avanti. 69. gheroni della gonnella: lembi della veste. 70. alla analda non era: era capace ed ampia, non come quella corta in uso nell’Hainault (località belga famosa per le industrie tessili). 71. alla coreggia: alla cintura in cuoio. 72. secondo … posto: secondo il piano precedentemente stabilito fra loro. 73. Ben che fa poco!: altro che poco fa! 74. nel farnetico: in questa impresa farneti-
cante. 75. poscia che: dal momento che. 76. Sappi: figurati. Dando così dello stolto a se stesso, Buffalmacco vuole in realtà dare dello stolto a Calandrino. Ma rovescia anche la realtà, facendo passare per beffati, agli occhi di Calandrino, i beffatori. 77. ancor … presente: sebbene fosse davanti a loro. 78. ventura: fortuna. 79. Andianne: andiamocene. 80. io gli darei … ciotto: lo colpirei con tale violenza con questo ciottolo.
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l’aprirsi81 e ’l dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare ma pur si tacque e andò oltre. Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ codoli82 che raccolti avea, disse a Bruno: «Deh vedi bel codolo: così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino!» e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa; e in brieve in cotal guisa, or con una parola e or con un’altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri83 si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole84 alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse per ciò che quasi a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua. Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente85 donna, in capo della scala: e alquanto turbata della sua lunga dimora86, veggendol venire cominciò proverbiando87 a dire: «Mai, frate, il diavol ti ci reca!88 Ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare». Il che udendo Calandrino e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «Oimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto89, ma in fé di Dio io te ne pagherò!» e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso90 corse verso la moglie e presala per le trecce la si gittò a’ piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e’ piedi, tanto le diè per tutta la persona: pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso adosso che macero91 non fosse le diede, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce. Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino; e giunti a piè dell’uscio di lui sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati92, andaron suso e videro la sala piena di pietre e nell’un de’ canti93 la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, dolorosamente piagnere; e d’altra parte Calandrino, scinto e ansando a guisa d’uom lasso94, sedersi.
81. l’aprirsi: lo stendere il braccio per lanciare il ciottolo. 82. codoli: pietre. 83. guardie de’ gabellieri: le guardie che alle porte della città riscuotono il dazio sulle merci in entrata. 84. piacevole: favorevole.
85. valente: intelligente. 86. turbata … dimora: adirata per il suo lungo ritardo. 87. proverbiando: in tono di rimprovero. 88. Mai … reca!: una buona volta, finalmente il diavolo ti riporta qui (a casa)! 89. m’hai diserto: mi hai rovinato.
90. niquitoso: rabbioso e ostile. 91. macero: pesto. 92. turbati: indispettiti. 93. canti: angoli. 94. lasso: sfinito.
Pesare le parole Mercé (r. 154) Il termine viene dal latino mercèdem, che nel senso più corrente vale “paga, ricompensa”, ma nel latino della Chiesa anche “pietà, sentimento di compassione, grazia, aiuto”: qui ha appunto questo secondo senso. Il primo senso si può trovare nella forma non tronca mercede, che però è di uso arcaico e letterario, e oggi può essere usata in senso ironico (è andato a riscuotere la sua lauta mercede di insegnante). Dal senso classico di “paga” proviene mercenario, e dalla stessa radice derivano merito, meritare. Comune con mercèdem è anche la radice di
mercem, “merce”, donde mercante, mercato, commercio (con il sinonimo dotto mercimonio). Mercé è rimasto nel linguaggio attuale in alcune locuzioni colte, come chiedere mercé, “chiedere pietà, grazia, aiuto”, essere alla mercé di qualcuno, “essere in suo potere”; può anche valere “per merito di, per opera di, in grazia di”, spesso in senso ironico (es. sono riuscito mercé il vostro aiuto). Da mercèdem in francese viene merci, “grazie” (ma anche nell’italiano antico si trova un uso analogo: a Dio mercé, “grazie a Dio”).
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Dove, come alquanto ebbero riguardato, dissero: «Che è questo, Calandrino? vuoi tu murare95, ché noi veggiamo qui tante pietre?» e oltre a questo sugiunsero: «E monna Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battuta: che novelle96 son queste?». Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta e del dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccoglier lo spirito97 a formare intera la parola alla risposta; per che soprastando98, Buffalmacco rincominciò: «Calandrino, se tu avevi altra ira, tu non ci dovevi per ciò straziare99 come fatto hai; ché, poi sodotti100 ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo101, a guisa di due becconi102 nel Mugnon ci lasciasti e venistitene103, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia104 che tu ci farai mai». A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: «Compagni, non vi turbate, l’opera sta altramenti che voi non pensate105. Io, sventurato!, aveva quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste106 l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia107 e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate v’entrai innanzi108, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto». E cominciandosi dall’un de’ capi infin la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero109; e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto110 e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza111, sì come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi e ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la vertù a ogni cosa: di che112 io, che mi poteva dire il più avventurato113 uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni114, che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quando ella mai venne in questa casa!». E raccesosi nell’ira si voleva levare per tornare a batterla da capo. Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere, che quasi scoppiavano; ma vedendolo furioso levare per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi alla ’ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna ma egli, che sapeva che le femine facevano perdere la vertù alle cose e non l’aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento115 Idio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua o perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avedeva averla trovata, il dovea palesare. E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono.
95. murare: alzare un muro. 96. novelle: novità. 97. raccoglier lo spirito: tirare il fiato. 98. soprastando: poiché Calandrino esitava. 99. se tu … straziare: se tu eri in collera con noi per altro motivo, non avresti dovuto fare di noi lo strazio che hai fatto. 100. sodotti: indotti con l’inganno. 101. senza … a diavolo: senza salutarci. 102. becconi: sciocchi. 103. venistitene: te ne sei tornato a casa.
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104. sezzaia: l’ultima. 105. non vi turbate … pensate: non siate in collera, le cose sono andate in modo diverso da come voi supponete. 106. primieramente … domandaste: cominciaste a chiedervi dove fossi. 107. braccia: un “braccio” era poco di più di mezzo metro. 108. ve ne venavate … innanzi: ve ne venivate via e non mi vedevate, vi precedetti. 109. come i ciotti … avessero: come i ciot-
toli glieli avessero conciati. 110. far motto: rivolgermi la parola. 111. parola … mezza: mi rivolgesse neanche una parola. 112. di che: per cui. 113. avventurato: fortunato. 114. a quello … veni: e non so perché mi trattengo dal tagliarle le vene. 115. avvedimento: precauzione.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Analisi del testo Le tre sequenze
La novella è scandita in tre sequenze distinte, che danno vita a tre scene di grande vividezza drammatica: 1. i preliminari della beffa, di cui è architetto Maso del Saggio, e che si svolgono in San Giovanni; in questa parte domina nettamente il dialogo; 2. la ricerca della pietra magica lungo il Mugnone; qui sul dialogo prevalgono l’azione e il movimento; 3. il ritorno a casa di Calandrino e lo svanire dell’illusione di possedere la pietra; torna il predominio del dialogo. La prima sequenza
La parola illusionistica Il paese di Bengodi
Nella prima sequenza l’abilità di Maso del Saggio appare analoga a quella di frate Cipolla ( T16, p. 617): anche qui la beffa consiste nel far credere ad una persona semplice le realtà più strampalate e inverosimili. Ricompare quindi il tema della parola illusionistica, che sa costruire una realtà parallela a quella effettuale. Si affaccia però un motivo nuovo, quello del paese di Bengodi. È un motivo che ha radici profonde nelle credenze popolari: il sogno del paese dell’abbondanza, dove è possibile mangiare a sazietà, è chiaramente la proiezione fantasticamente rovesciata di un mondo dove quotidianamente i ceti inferiori dovevano lottare con la fame. La seconda sequenza
Il significato della beffa
L’esercizio gratuito dell’intelligenza
La beffa e la potenza demiurgica dell’uomo
Nella seconda sequenza, in cui c’è la ricerca della pietra lungo il Mugnone, si traduce in azione la beffa semplicemente architettata nella prima. Quello della beffa è un motivo che ha un’importanza centrale nel Decameron. Vi si può scorgere un significato profondo: nella beffa trionfa al massimo grado la virtù dell’«industria», dell’intelligenza attiva, che è il valore centrale della civiltà mercantile e urbana di cui Boccaccio è l’interprete. La beffa può funzionare solo grazie al calcolo accorto, alla sapiente preparazione pratica, all’abilità e prontezza nell’agire, alla capacità illusionistica della parola. A ben vedere, però, l’intelligenza dispiegata nella beffa giocata a Calandrino è diversa da quella usata per superare un ostacolo, fuggire una difficoltà, ottenere un vantaggio, che sono i casi di «industria» sin qui incontrati. Nella beffa di Maso, Bruno e Buffalmacco si ha un esercizio puro dell’intelligenza, assolutamente gratuito e fine a se stesso (diversa ad esempio è la beffa di frate Cipolla ai danni dei contadini, messa in opera per ottenere un vantaggio economico, oltre che per sfuggire ad una difficoltà). Il beffatore è come un puro artista, che si compiace solo di esercitare la sua arte, senza alcun altro fine. Come nella prima sequenza, attraverso la beffa l’intelligenza crea una sorta di realtà parallela a quella effettuale. È una realtà prodotta interamente dall’uomo, di cui egli ha pieno dominio, che può manipolare a piacere. L’uomo, in questo mondo fittizio che egli stesso crea, ha una sorta di onnipotenza divina. La beffa, insomma, diviene metafora della capacità dell’uomo di costruire e dominare il reale, attraverso l’intelligenza, la parola e l’azione. Si vede qui in embrione un motivo che sarà centrale nel Rinascimento, l’esaltazione della qualità demiurgica dell’uomo, creatore del suo mondo. La beffa non è dunque solo un motivo superficialmente comico, fonte di disimpegnato divertimento, ma investe il nucleo stesso della visione del mondo della civiltà che si è creata nelle città italiane, in questa fase di passaggio tra Medioevo e Rinascimento. La terza sequenza
Gli altri aspetti di Calandrino
Nella terza sequenza viene alla luce un aspetto nuovo di Calandrino. Non è solo lo sciocco credulone, facile preda dell’intelligenza dei beffatori: nell’accanimento con cui batte la moglie emerge un suo fondo violento e maligno. È un lato del suo carattere che si poteva già sospettare nel progetto di usare la pietra magica per derubare i cambiatori di moneta e nel comporta633
L’età comunale in Italia
mento disonesto verso Bruno e Buffalmacco, quando, convinto di possedere la pietra, si era guardato bene dal rivelarlo agli amici, evidentemente con l’intenzione di tenerla tutta per sé. Nella violenza contro la moglie si manifesta poi il pregiudizio misogino, la convinzione superstiziosa che le donne facciano perdere la virtù alle cose. E, se si tiene presente che il Decameron è un libro dedicato alle «carissime donne», che alle donne leva sovente le più alte lodi, questo comportamento di Calandrino si offre nella prospettiva di un’implicita quanto dura condanna. L’emergere di tutti questi lati negativi fa sì che la figura di Calandrino assuma maggior spessore e che egli si offra quale “antieroe” per eccellenza nel mondo decameroniano.
Esercitare le competenze ComPrendere
> 1. Riassumi la novella, tenendo conto dei tre momenti in cui è scandita, in circa 10-12 righe (500-600 caratteri). > 2. Procedi ad un’ulteriore sintesi, prendendo a modello, come brevità, la rubrica riassuntiva di Boccaccio. AnALIzzAre
> 3.
narratologia Nelle righe 4-12 individua e sottolinea le caratteristiche (i sentimenti e gli stati d’animo, il posto occupato nella società, le idee e i valori di cui sono portatori), le azioni dei quattro personaggi maschili presenti nella novella ed indica qual è il loro ruolo all’interno della narrazione. > 4. narratologia traccia un ritratto di calandrino, tenendo conto di quanto scritto nell’Analisi del testo a proposito della sua misoginia e di alcuni aspetti inediti della sua personalità, che emergono solo alla fine. > 5. Stile Alla riga 22 ha inizio «la fantasmagorica girandola di nomi favolosi con cui Maso, nuovo frate cipolla, stordisce e incita calandrino». Si tratta di un linguaggio volutamente equivoco, illusionistico, come leggiamo nell’Analisi del testo, atto a creare una realtà parallela e fantastica. Prova a rintracciare nelle righe 22-29 figure di suono, quali allitterazioni, paronomasie e poliptoti. > 6. Lessico Alla riga 148 la figura etimologica «veggendo-veduto» si colloca nell’area semantica del “vedere”, vero e proprio leitmotiv sino alla fine della novella e, a ben guardare, tema centrale della narrazione, giocata tutta attorno al motivo del “visto” e del “non visto”. Rifletti su ciò e sottolinea sul testo, dalla riga 105 alla riga 118, le varie forme verbali ascrivibili a tale area di significato.
APProFondIre e InTerPreTAre
> 7.
Video da Maraviglioso Boccaccio
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Contesto: scrittura Il progetto di calandrino di usare la pietra magica per derubare i cambiatori di moneta invita il lettore a riflettere su alcune particolari attività cittadine nell’età comunale. Delinea in circa 10 righe (500 caratteri) tale contesto in base anche a quanto illustrato in Il contesto ( pp. 81-82). > 8. Altri linguaggi: cinema Il film Maraviglioso Boccaccio (2015), di Paolo e vittorio taviani, incentrato prevalentemente sulla cornice e sul tema della peste, propone cinque novelle scelte fra le meno note (Catalina) e le più conosciute da lettori e studenti di ogni generazione: fra queste ultime Calandrino e l’elitropia, episodio assai riuscito anche per la significativa interpretazione del protagonista da parte dell’attore Kim Rossi Stuart. Dopo aver preso visione dello spezzone proposto, rispondi alle seguenti domande. a) A quale momento della novella di Boccaccio fa riferimento il furto dei denari? b) Quali caratteristiche del personaggio ha messo in rilievo l’attore che interpreta calandrino? Prima di rispondere, analizza attentamente l’espressione del suo volto, la gestualità e i movimenti che compie. c) Dopo aver osservato il finale dello spezzone, ritieni che il personaggio riveli il “lato oscuro” del proprio carattere anticipando, in un certo senso, la conclusione della novella? Motiva la tua risposta. d) osserva attentamente l’ambientazione della scena: i vari figuranti, complici di Bruno e Buffalmacco, e gli oggetti che vi compaiono sono rappresentativi del contesto storico di riferimento? Motiva la tua risposta.
La voce del Novecento
Le nuove avventure di Calandrino: dario Fo riscrive Boccaccio Dario Fo (nato nel 1926), attore, autore teatrale, premio Nobel per la letteratura nel 1997, ha pubblicato nel 2011 questa serie di racconti ricalcati, con invenzioni personali, sulle novelle del Decameron. Riportiamo la parte finale del racconto.
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Bruno decide che si vada tutti insieme alla sua casa. Entrano e richiudono la porta. Di lì a poco ecco che si ode bussare. Bruno dice: «Entrate pure, è aperto!». Ma da fuori nessuno apre la porta. Quindi si sente percuotere il battente. Buffalmacco va ad aprire dicendo: «Eccomi, un attimo!» Apre la porta, Calandrino è lì fermo come una statua e Buffalmacco dice: «Non c’è nessuno! Chi pol1 aver scosso il battacchio?» E con una pedata serra la porta che va a sbattere in faccia a Calandrino, del qual si sente l’urlo da fuori l’uscio, e poi commenta: «Ell’è proprio pericoloso vivere senza essere veduti!» Quindi Calandrino decide di entrare da una finestra trovata aperta. Di là sente un muover di padelle e stoviglie. «Si son posti al desco2» pensa, e quatto quatto entra nella sala e si pone seduto in uno scranno3 lasciato libero. I compari lo notano bene, ma continuano a fingere di non vederlo. Fanno un brindisi levando le coppe, le battono una contro l’altra così da lanciare gran spruzzi contro la sua faccia. Appresso giunge un paiolo di zuppa con gli spàraghi4 e nel distribuire con lo ramaiolo5 inciampano, sì che su Calandrino se ne versi gran copia. Stavolta, miserello, non riesce a trattenere il lamento e anco le maledizioni ed esplode: «E state attenti co’ ’sta broda, che m’avete scottato come uno gallinaccio!» Tutti stupiti i compari si levano all’impiedi e insieme si fanno meraviglia: «Donde so’6 sortite ’ste imprecazioni? Me pareva la voce de Calandrino!» «Temo che quella sia più tosto l’ensulto7 dell’anima sua. Forse ell’è morto!» «No, è ’na voce da vivo! Prova de novo con la broda gittandola de qua e de là!» E così dicendo, sempre fingendo de non lo vedere, gli vanno sbroffando8 altra broda. Al che
1. pol: può. 2. al desco: a tavola. 3. scranno: sedia.
4. spàraghi: asparagi. 5. ramaiolo: mestolo. 6. donde so’: da dove sono.
7. ensulto: insulto. 8. sbroffando: buttando addosso.
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quello, ululando come un cagnolo bastonato, se gitta una cuccuma9 d’acqua in su lo capo, sborsàndone10 di molta anco su li compagni. Poi, conoscendo bene quella casa, va montando le scale per retrovare lo sgabuzzo dove sta la cisterna sottotetto de l’acqua piovana. Cerca de entrarci, ma si encontra con lo cane de casa che l’annusa e gli lecca la broda dalle gambe, gli piace e l’addenta a un polpaccio. Calandrino gli molla una pedata. Così ha inizio una tenzone11 dura fra il bracco e Calandrino, finché a questo gli riesce d’entrare nello sgabuzzo dell’acqua. In una stanza che sta lì dappresso, la giovane sorella di Bruno, Eulalia, sta prendendose il bagno dentro una tinozza e giusto in quell’istante le scende la saponata sugli occhi e così la tintura pei capelli. «Celestrina – dice alla fantesca12 sortendo dalla tinozza – recami l’asciugatoio che vo’ nettarmi13 gli occhi poiché me so’ accecata e nulla vedo.» La fantesca sort14 dalla camera cacciando il cane a colpi di scopa gridando: «E cessa de far cagnara, bestiaccia sozza!» Il bracco le si rivolta e l’azzanna. Quella se ne fugge su per la scala e se rinchiude ne l’asciugatoio per i panni. Calandrino se ne esce seminudo rinfrescato dallo sgabuzzo, asciugandosi il corpo tutto, e finisce di fronte alla camera. Al che la donna, sentiti i passi di Calandrino schioccare sulle tavole e pensandosi che la sua fantesca fosse giunta grida: «Te voi movere? Te sto aspettando! Quanto tempo ci vuole a passarme ’sto asciugatoio!» E Calandrino presto raccatta l’asciugatoio e le si fa vicino. In quella, la figliola si sdraia prona su una tavola bassa e sentendo i passi che da lei s’allontanano dice: «Dove te ne vai ancora? Veni qua, che devi asciugarme!» E voltata di spalle, meglio dir di natiche, a Calandrino gli ordina: «Rassùtta!15» Quello se sente sballonzolare gli occhi e con l’asciugatoio tremando le rassùtta l’acqua. «E che fai? Ma che ti prende? Asciugami! Che aspetti a massaggiarmi? Ecco, accussì, la schiena… giù!, e che è… le natiche le lasci sole?! Ah, come me piace! E scendi ancora più basso… così, li piedi… e ora torna su… senza paura… ma indove sei, che non te vedo? Maledetta ’sta tintura, com’ella brucia! Te dispiace de nettàrme lo viso? Ecco, accussì, bene, bene. Descende, mò! Ma che te piglia? Tieni pudore de toccàrme? Ecco, torno a vederte piano piano… te vedo la figura, ma tutta annebbiata…» E Calandrino sottovoce: «Ecco, m’aveano avvertito! La pietra se sta scaricando de forza16»! «Che dici? Che, se scarica? E che voce tieni?» Indi lo afferra per le spalle: «E chi se’ tu?» «Non gridare, ché se to’ fratello me scorge qua m’ammazza! So’ io, Calandrino… so’ diventato invisibile per la pietra che tengo in saccoccia e ora se sta slanguendo17… ma io non l’ho fatto con malizia de intràr qua dentro al posto de Celestrina, se’ te che m’hai chiamato a entrare!» «Oh Dio! Passame l’abito mio e chiudi la porta co’ lo chiavistello che se s’accorge Bruno e te scopre pure ignudo davvero t’ammazza!» «Deh, te voglio dire, Eulalia, che per quello che ho veduto ne val pure la pena d’essere occìso! Quello per me è stato come intrare in lo paradiso!» «Ah sì? Me trovi così bella davvero?» «Te voglio di’ che se non stavo trasparente e tu non me potea vedé t’avrìa asciugata tutta col corpo mio!»
9. cuccuma: brocca. 10. sborsàndone: rovesciandone. 11. tenzone: lotta. 12. fantesca: serva.
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13. nettarmi: pulirmi. 14. sort: esce. 15. Rassùtta!: asciuga! 16. avvertito … forza: effettivamente
i due burloni lo avevano avvertito che la pietra magica avrebbe perso dopo un po’ la sua forza. 17. slanguendo: indebolendo.
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«Calandrino, non te sapevo così encantatore! E che fai mò, te ne vai? Adesso tu credi de cavàrtela così che tu entri per incidente, me tocchi, me carezzi, me vedi nuda… e te ne vai senza manco un bacio! Eh no, caro, ce dovémo vedere ancora! Nol se pote comenzàre18 una conoscienza così e poi piantarla de botto!» Quando Calandrino sorte di quella camera slacciandose con fatica de l’abbraccio de slangueménto19 con che la figliola lo tratteneva, ei se sente a dir poco sgarellàto20 de mente e de core. Descénne le scale senza manco accorgerse de li gradini, a tre e a quattro a la volta sorvolando. Traversa la camera dove stanno li compagni de buriana21 intenti a giocare a la morra e a bisticciare sui punti. Distratti, quelli lo vedono, lo salutano ma esso non s’encòrge de quelli. «Stai a vedere – Bruno commenta – che mò s’è ribaltato il gioco: noi lo si scorge ma quello non vede noi! Ora tocca a noialtri d’essere gli invisibili!» Calandrino si trova a camminare saltellando giocondo per la via, quando viene quasi travolto da uno stuolo di gente che sta fuggendo da la basilica di Santa Maria de lo Carmine presi dal terrore. Calandrino dimanda la ragione di tanto tumulto e gli vien risposto che dentro la basilica, mentre era in corso la funzione de la Vestizione della Vergine con tutti gli ornamenti donati dai fedeli nei secoli, ha fatto irruzione una masnada de briganti. Quelli, più de cinquanta e anco a cavallo, hanno fatto squàccero22 arrizzàndo23 gli stalloni contro i fedeli e li abbattendo. Il vescovo, che l’era in sacrestia, ha fatto appena in tempo a sortire per lo retro portandosi seco le chiavi del forziere che raccoglie tutte le gioie per la Vergine… e li danari de lo fondo ecclesiale. Nel trambusto ha perso la tiara24, il messale e il bastone a torciglio, come a dire lo pastorale25. Quelli malnati han catturato òmeni, donne, preti e sacrestani, nonché i cantori infanti, e li han spinti a sotto ne la cripta. Quindi lo capobanda in persona, Caracciolo Spaccapànza, ha gridato: «Se entro una mezza ora qui non torna il vescovo co’ le chiavi de lo forziere, io mando a fuoco la basilica tutta con dentro le reliquie, le statue e pure li fedeli ne la cripta!» Fòri, dinnanzi al sagrato, vene avanti un figliolo che ha raccolto gli abiti del vescovo, compreso il pastorale e la tiara d’oro, e dice: «Il vescovo più non si trova! E da dentro dicono che senza le chiavi bruciano ogne cosa!» «Ci vado io da Spaccapànza! – dice Calandrino afferrando il pastorale – Non ci sono le chiavi? Ci vado senza! Dateme la tiara da porre in capo!» «Ma quelli te óccidono!» dicono delle donne. «Se mi vedessero arrivare! – esclama Calandrino – Ma dal momento che per loro sarò trasparente, non c’è pericolo de sorta.» Va deciso verso il portale quando si blocca battendosi ’na pacca su la fronte e ’sclama: «Ah, stavo facendola bella! M’era sorto26 de mente che la pietra ell’è svanita de forza. Ah, stolto che sono… io ne tengo un altra!» Così dicendo s’infila la mano nella scarsella27, ne cava una pietra nova e poi dice: «Questa di certo funziona!» Sul sagrato ce sta seduto un accattone al quale nessuno dei briganti ha fatto caso. Lui si rivolge al poveraccio e gli chiede: «Tu mi vedi?» «No! – risponde quello – Sento la tua voce ma non te vedo. Chi sei?» «Non importa chi sono. Ora rispondi ancora: mi torco girando di faccia a te. Mi vedi, ora?» «No che non ti vedo, non vedo nulla di te!»
18. Nol se pote comenzàre: non si può cominciare. 19. de slangueménto: languido, sensuale. 20. sgarellàto: turbato, fuori di sé. 21. li compagni de buriana: i compagni di baldoria.
22. squàccero: scompiglio. 23. arrizzàndo: spingendo. 24. tiara: copricapo rigido di forma tondeggiante indossato dal vescovo durante le cerimonie solenni. 25. bastone … pastorale: il bastone
del vescovo, il pastorale, è fatto a spirale in cima. 26. sorto: uscito. 27. scarsella: la tasca appesa alla cintura.
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«Allora funziona! ’Sta pietra è quella bona!» Abbraccia il cieco ed entra in chiesa. Fuori, tutta la gente è rimasta impetrita con lo sguardo fissato verso la porta de dove è entrato Calndrino travestito da vescovo. E uno commenta: «Soltanto un miracolo lo puòte salvare, a quello. Però che coraggio! Solo è entrato, con il pastorale e la tiara in capo». «E noi qui come pecore a belare!», dice una donna. E altri di seguito: «Avremo di che vergognarci per tutta la vita quando ce lo butteranno fòri cadavere. Mi spiace, ma io non accetto di stare qui tranquillo da vigliacco impotente!» Così dicendo, l’uomo si avvia di gran passo verso il portale. «Anch’io!» dice un altro, e un altro ancora… un gruppo si muove con loro e anche donne in gran quantità! Dentro la basilica ha fatto il suo ingresso Calandrino, che ha sollevato il pastorale e ha gridato: «Abbassate le armi e andatevi fòri di qua!» «Chi parla?» grida Spaccapànza. Il nostro sta in controluce inondato dal fascio splendente che alle sue spalle sorte dal rosone. Di lui si intravede solo un’ombra leggera ingigantita. «Chi sei? Rispondi! Una visione o un’ànema28 senza corpo?» «No, il corpo ce l’ho ma tu non lo puoi vedere!» gli urla Calandrino. In quel mentre entrano a schiera tutti li fedeli giusto in tempo pe’ vede’ li briganti spronare li cavalli e battere in fuga correndo sul transetto verso la sacrestia. In un attimo tutti sono fuggiti e dal fondo, sotto il rosone, scoppia un grido seguito dal Gloria Deo. La chiesa si sta riempiendo di gente festante. Tra loro c’è anche Eulalia, la sorella di Bruno, con la lor brigata. Tutti l’applaudono e ad alta voce Buffalmacco dice: «Calandrino, tu tieni ’no còre granne che a tutti ce mortifica: noi se facéa lazzi e bufferìe29 contro de te e tu ci hai mostrato la nostra pochezza. Noi fòri a ciacolàre30 e tu derentro a rischià la pelle!» «Hai salvato non solo le gioie de la Vergine – gridano altri – ma anche la nostra dignità! Òmmo de gran coraggio te se’ mostrato!» «No, non esageriamo! – sbocca Calandrino – Qualunque fra voi, se diventasse invisibile come so’ io, avrebbe coraggio: tanto nulla rischia! Anzi sapete cosa vi dico? Vi insegnerò come si diventa tutti trasparenti. Saremo un popolo del tutto invisibile!» Gli altri intorno ridono: «Ell’è anche spiritoso!» Fra tutti se fa strada Eulalia che a braccia spalancate se gìtta addosso a Calandrino ancora travestito da prelato e crida31: «Lassàteme che ancora mai non l’ho baciato, ’nu vescovo!» E così dicendo prende lo viso tutto de quello fra le mani e lo bacia sulla bocca così a lungo da lasciarlo senza fiato. D. Fo, Il Boccaccio riveduto e scorretto, Guanda, Parma 2011
28. ànema: anima. 29. bufferìe: beffe.
30. ciacolàre: chiacchierare. 31. crida: grida.
Analisi del testo Le divergenze dalla trama boccacciana
La prosecuzione della beffa Il tema erotico
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Fo riscrive la novella di Boccaccio dandole sviluppi del tutto diversi. Nella prima parte, sino al momento in cui le guardie del dazio, d’accordo con i due burloni, lasciano entrare in città Calandrino fingendo di non vederlo, viene seguita a grandi linee la trama boccacciana, sia pure con varianti narrative; da questo punto in avanti (ed è la parte che riportiamo) la narrazione comincia a divergere. Prosegue la beffa di Bruno e Buffalmacco, che continuano a fingere che Calandrino sia invisibile, gettandogli addosso la zuppa bollente, ma poi fa la sua comparsa il tema erotico, assente in Boccaccio, con l’ingresso in scena di un nuovo personaggio, Eulalia, la giovane sorella di Bruno che sta facendo il bagno. Calandrino resta lo sciocco che crede ancora
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Gli sviluppi avventurosi
nella potenza della pietra, ma intanto gli si presenta una felice occasione, quella di un piacevole incontro femminile, ed egli non se la lascia sfuggire. Poi il racconto prende una piega avventurosa, con l’episodio dell’assalto dei briganti alla chiesa. Qui la sciocchezza di Calandrino gli consente di compiere un’azione eroica, perché credendosi sempre invisibile non teme di affrontare i briganti; ed è favorito da una serie di circostanze casuali, il cieco che lo conferma nella sua credenza, il controluce che lo trasforma in un fantasma agli occhi dei briganti terrorizzati. Le differenze di visione
Il riscatto eroico di Calandrino
La celebrazione dello sciocco Gli espedienti comici
La mescolanza linguistica
Si riscontra in Fo la volontà di riscattare in qualche modo Calandrino, che, pur restando sciocco, proprio grazie alla sua incoscienza e per l’azione di circostanze esteriori riesce a compiere un’impresa meritevole, attirandosi l’ammirazione dei concittadini e conquistando persino le grazie di una bella fanciulla. Siamo lontani dalla celebrazione boccacciana dell’«industria» umana, e semmai si indulge soprattutto a un’osservazione divertita dei capricci del caso, che può far sì che anche uno sciocco possa raggiungere buoni esiti. In Boccaccio invece, per quanto la Fortuna appaia potente nell’offrire occasioni favorevoli, occorre sempre una cooperazione dell’intelligenza dell’uomo (come conferma una novella dove la strapotere della Fortuna è al centro, come quella di Andreuccio). Non solo, se Boccaccio, in nome del suo culto dell’intelligenza, si fa beffe della sua negazione rappresentata dallo sciocco, Fo sembra esaltare quest’ultimo, in nome del mito della semplicità e della purezza di cuore. Inoltre il racconto di Fo allontana in secondo piano il grande tema boccacciano, in cui è implicita tutta una visione del mondo, della beffa che arriva a plasmare la realtà attraverso l’intelligenza, la parola e l’azione, per puntare più sugli espedienti comici. Anche nella novella di Boccaccio la comicità è esilarante, ma non c’è bisogno di precisare quale dei due testi tocchi notevoli profondità e quale resti a un livello di superficiale piacevolezza narrativa. È da notare poi il gioco stilistico sui vari livelli linguistici, che mescola espressioni arcaiche, di calco boccacciano, passi di stile colloquiale e inserti dialettali padani o romaneschi: un gioco a dire il vero privo di vera necessità espressiva.
Esercitare le competenze COMPRENDERE
> 1. Quali sono le avventure di cui è protagonista il Calandrino di Fo? ANALIZZARE
> 2.
Narratologia Avvalendoti di quanto scritto nell’Analisi del testo, confronta la conclusione di questa novella con quella di Boccaccio. Quale immagine del protagonista emerge dall’una e dall’altra? > 3. Narratologia L’avventura galante con Eulalia, l’incontro di Calandrino con i briganti in chiesa, in cui si veste da vescovo e viene scambiato per fantasma, sono elementi che fanno pensare ad una “contaminazione” con un’altra novella del Decameron, quella di Andreuccio da Perugia ( T7, p. 551): rintraccia all’interno di quest’ultima gli episodi assimilabili alle vicende del Calandrino di Fo.
APPROFONDIRE E INTERPRETARE
> 4.
Esporre oralmente Rifletti e spiega, in un testo che non superi le 10 righe (500 caratteri), da quali situazioni nasce il comico nella novella di Dario Fo. Si tratta di una comicità che nasce dal linguaggio o piuttosto dalle situazioni? Che cosa trovi molto divertente?
SCRITTURA CREATIVA
> 5. Nel libro Il Boccaccio riveduto e scorretto, Dario Fo propone una rivisitazione di alcune delle cento novelle del Decameron, reinventando intrecci, situazioni, cambiando il finale: prova anche tu a riscrivere il finale di una novella a scelta da te studiata.
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L’età comunale in Italia
5 Le Epistole
Le compilazioni erudite
L’“umanesimo” boccacciano e quello petrarchesco
L’interesse per la lingua greca
Dopo il Decameron L’attività erudita e umanistica Gli ultimi vent’anni della vita di Boccaccio furono dedicati agli studi letterari ed eruditi. In particolare, grazie agli stretti rapporti di amicizia con Petrarca, egli si immerse nello studio dei classici, per cui aveva nutrito un’autentica venerazione sin dagli anni giovanili, come già testimoniavano le opere del periodo napoletano. L’amore per l’antichità si riflette innanzitutto nelle Epistole (sono ventisei, quasi tutte in latino), tra le quali interessanti ad illuminare le concezioni dello scrittore sono quelle indirizzate a Petrarca. Ma frutto degli studi classici di Boccaccio furono soprattutto varie compilazioni in prosa latina: De casibus virorum illustrium (“Le sventure di uomini illustri”, 1373), che narra delle vicende di famosi personaggi di varie epoche, passati da uno stato di felicità all’infelicità; De claris mulieribus (“Le donne famose”, 1362), biografie di donne famose di tutte le età della storia, animate spesso da una gioia di narrare che le trasforma in vere e proprie novelle; la più importante è però De genealogiis deorum gentilium (“Le genealogie degli dèi pagani”), a cui Boccaccio lavorò per oltre vent’anni, sino alla morte: è un’immensa enciclopedia della mitologia classica, che ebbe larga rinomanza tra i dotti europei sino agli inizi del Rinascimento. Queste opere erudite sono tutte pervase da un culto appassionato della poesia, sentita come la più alta espressione dell’uomo, quella in cui più compiutamente si realizza la sua essenza. Anche se nei suoi studi classici Boccaccio era profondamente influenzato da Petrarca, e riconosceva nell’amico un vero e proprio maestro, l’“umanesimo” boccacciano è diverso da quello petrarchesco. Innanzitutto quello di Petrarca è un umanesimo cristiano, che vede nei classici una saggezza capace di avviare alle verità della fede; l’umanesimo di Boccaccio è invece essenzialmente laico: egli ammira più che altro la «virtù» degli antichi, visti come modelli di comportamento mondano e come esempi di dignità dell’uomo. In secondo luogo l’umanesimo petrarchesco era rigorosamente limitato ai classici latini, mentre quello di Boccaccio abbraccia qualunque manifestazione di poesia, antica come moderna. Ne è prova il suo interesse per la lingua e la cultura greche, che erano rimaste estranee al mondo medievale dell’Occidente, e di cui Boccaccio si sforzò di impadronirsi con grande impegno ed anche con sacrifici personali, pur non riuscendo mai a padroneggiarlo veramente. Nonostante questa apertura di interessi, l’“umanesimo” boccacciano conserva però molti tratti tipici della visione medievale, ben più di quello di Petrarca. Ad esso manca il rigore filologico che caratterizzerà gli umanisti quattrocenteschi, e ciò induce ad anacronismi, deformazioni, a mescolare i dati con invenzioni romanzesche, ad accettare informazioni senza il dovuto controllo critico.
Il culto dantesco
Le Esposizioni sopra la «Commedia» Il Trattatello in laude di Dante
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Il culto boccacciano delle lettere si estende anche ai moderni. Si è vista la diffidenza di Petrarca per la Commedia, motivata essenzialmente dal fatto che essa era scritta in volgare, non in latino. In amichevoli discussioni con Petrarca, Boccaccio assume sempre il compito di difendere e celebrare il poema dantesco, considerandolo come opera che conferisce al volgare moderno l’eccellenza del latino. Frutto del culto dantesco di Boccaccio sono in primo luogo le Esposizioni sopra la «Commedia», un commento ai primi 17 canti dell’Inferno che raccoglie le pubbliche lezioni tenute su incarico del Comune tra il 1373 e il 1374, in secondo luogo il Trattatello in laude di Dante, una biografia del poeta, che delinea la sua formazione spirituale, i suoi studi e la sua dottrina, mescolando però anche aneddoti e invenzioni romanzesche. Boccaccio proietta nella figura del grande concittadino l’immagine ideale del poeta, ne esalta l’amore per i classici e la volontà di elevarsi ad essi nell’altezza del canto: anche quest’opera si risolve dunque in un’esaltazione della poesia, come le opere latine di ispirazione umanistica.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
Il Corbaccio
Il titolo
La satira delle donne Il rovesciamento degli ideali del Decameron
In questi ultimi anni, dopo il Decameron, Boccaccio scrive una sola opera di invenzione, il Corbaccio (la cui datazione è molto controversa, ed oscilla tra il 1355 e il 1365). Anche il significato del titolo è incerto: forse allude al corvo, come simbolo di aggressiva maldicenza, o come uccello che becca gli occhi delle carogne di cui si ciba, e rappresenta quindi la forza dell’amore che accieca; oppure ancora deriverebbe dallo spagnolo corbacho, scudiscio, con allusione al carattere violentemente satirico dell’opera. Si tratta infatti di un’aspra satira delle donne, che assume la forma di un breve scritto in prosa volgare, costruito sul modello dantesco della visione. La satira delle donne e la negazione dell’amore riprendono spunti della tradizione ascetica medievale e segnano un radicale rovesciamento delle opere giovanili e del Decameron: in quegli scritti l’amore era visto come forza naturale e positiva e come fonte di ingentilimento dell’animo, ora invece viene considerato come causa di abbrutimento e di degradazione; quelle opere erano dedicate proprio alle donne, dichiarando così la volontà di rivolgersi ad un pubblico non letterato con opere piacevoli, intese al diletto e all’intrattenimento, ora le donne sono respinte in nome delle Muse, che rappresentano l’aspirazione ad una letteratura di livello aristocraticamente elevato e moralmente più austera. In questo rovesciamento si proiettano sia i turbamenti religiosi dell’ultimo Boccaccio, sia la sua dedizione all’attività erudita, che lo porta a privilegiare una letteratura di livello “alto”, destinata essenzialmente ai dotti.
Facciamo il punto L’eSPerIenzA dI VITA
1. Quali stimoli intellettuali trasmette al giovane Boccaccio il periodo di vita (1327-40) trascorso a Napoli? 2. Quale rapporto ha Boccaccio con la religione? LA FormAzIone
3. Quali tradizioni letterarie sono conosciute da Boccaccio e concorrono alla sua formazione intellet-
tuale? 4. Quale importanza rivestono le figure di Dante e Petrarca nella vita e/o nelle opere di Boccaccio? IL modeLLo d’InTeLLeTTUALe
5. Quale tipo d’intellettuale rappresenta Boccaccio? È legato a una corte? A una città? A dei signori? Le oPere
6. Completa la seguente tabella. opere
Pubblico
Genere
Lingua
Filocolo
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Teseida
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Filostrato
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Amorosa visione
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Ninfale fiesolano
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Elegia di Madonna Fiammetta
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Decameron
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Corbaccio
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7. Quale rapporto, strutturale e ideologico, lega la cornice del Decameron alle novelle? 8. Quali valori, “cortesi” e “borghesi”, sono esaltati da Boccaccio nel Decameron? 9. In che senso si può parlare di una concezione naturalistica dell’amore nel Decameron?
641
dIALoGhI ImmAGInArI
Boccaccio e Dante moderatore Voi avete scritto le opere più ampie, articolate e complesse, finora apparse nelle letterature romanze. C’è anche, fra di loro, un’analogia, legata al numero cento: cento i canti della Commedia, cento le novelle del Decameron. Sembra quasi che abbiate voluto rappresentare un mondo nella sua totalità. Ma quali sono le differenze?
Dante Nella mia Commedia ho voluto rappresentare la vicenda del destino umano nel legame che unisce l’esperienza terrena con la dimensione dell’eternità, a cui l’uomo è destinato. Per questo ho dato spazio sia ai casi particolari sia ai problemi universali, filosofici e teologici. Mi interessava infatti giungere a una rappresentazione totale della realtà.
Boccaccio Questa, per certi versi, è stata
anche la mia intenzione. A me interessava soltanto soffermarmi sulla realtà terrena, per cercare di cogliere tutti i possibili aspetti di quella che si potrebbe forse definire – in relazione al capolavoro di Dante – una “commedia umana”. Ho osservato le molteplici sorti degli uomini dove la fortuna di certo gioca un suo ruolo; ma io credo soprattutto nella capacità dell’uomo di risolvere i propri problemi, grazie al necessario maturare della propria esperienza (pensate ad Andreuccio da Perugia), alla sua «industria» (voglio dire alla sua tenacia, alla sua intraprendenza e persino spregiudicatezza), grazie infine all’uso di quell’intelligenza che può consentire di liberarsi da situazioni intricate e pericolose. Anche le “beffe” sono il frutto dell’intelligenza così come, a un livello culturale più alto e raffinato, lo sono le “battute” pronte e taglienti, quei “motti” a cui ho dedicato un’intera giornata del Decameron, la sesta. Quella a cui guardo è un’arte del “saper vivere”, che non è certo facile imparare.
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moderatore Sono due visioni del mondo per certi aspetti opposte, che riflettono due concezioni molto diverse della letteratura.
Dante Certo. Io credo ancora che il significato ultimo della vita e della storia vada cercato nell’aldilà; ma non certo per disprezzare – come ha fatto anche recentemente Iacopone da Todi – i beni del mondo. Nel mio libro De monarchia, dove mi occupo del potere, ho scritto che il pontefice deve condurre gli uomini alla beatitudine della vita eterna, mentre l’imperatore deve cercare di assicurare la beatitudine di questa vita. Non mi sono certo disinteressato dei problemi del mio tempo, tutt’altro. Proprio la politica della mia città, e dell’intera penisola, è stata al centro dei miei interessi. Non starò a ripetere che ho partecipato in prima persona alle lotte cittadine e che sono stato mandato in esilio... Basta che leggiate alcuni miei versi, come «Ahi serva Italia, di dolore ostello», oppure quando faccio denunciare a Ciacco le colpe («superbia, invidia e avarizia») che hanno alimentato le discordie cittadine. Forse mi sono illuso, ma ho coltivato a lungo un mio sogno imperiale, sperando che l’imperatore riuscisse a portare ordine e pace negli Stati della cristianità.
Boccaccio Io ho vissuto esperienze diverse.
Nella mia giovinezza sono stato in una corte sfarzosa come quella napoletana. Al mio ritorno a Firenze la società comunale in cui Dante ha operato era in crisi, dopo il crollo delle banche e il declino delle grandi famiglie dei mercanti. Io ho molto amato Dante: ho scritto un Trattatello in suo onore; ho letto e commentato, su incarico del Comune, i canti della sua Commedia in Santo Stefano di Badia. Ma le cose erano cambiate e, per me, l’idea di un ordine universale, che contemperasse i valori religiosi con quelli politici, non aveva più alcun significato. Per questo ho cercato solo di
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rappresentare la natura degli uomini, nell’inesauribile varietà dei casi e delle circostanze in cui possono trovarsi a operare, dimostrando le loro capacità di affrontare i rischi e le difficoltà che la vita – questa vita – continuamente ci propone. moderatore Per lei, dunque, la letteratura non deve avere un fine anche politico?
Boccaccio Nel senso tecnico del termine, no;
ma se per politica si intende la vita civile e sociale, la vita della città – della polis, come dicevano i Greci –, allora le cose cambiano. Ho iniziato la mia opera con una breve “cronaca” di Firenze sconvolta dalla peste del 1348, dove ogni valore era stato distrutto e regnava la più assoluta anarchia. Allora ho immaginato una brigata di giovani (i giovani hanno nelle mani il loro futuro, guai a negarglielo!) che si allontanavano dalla città e, in una villa del contado, ridavano vita a una società ordinata, basata su regole precise, dove tuttavia il rispetto di queste regole non soffocava la libertà dei singoli, ma ne esaltava – armonizzandole in un superiore equilibrio – le doti di intelligenza e il decoro dei costumi. È chiaro che il mio discorso andava oltre l’occasione contingente. Speravo che la decadenza della società borghese potesse essere corretta recuperando i più alti valori del passato, quelli della “cortesia”, della magnanimità e liberalità, da integrare con quelli del presente, della “masserizia” e della “mercatura”; basta che sappiate leggere in maniera intelligente la mia novella di Federigo degli Alberighi. Dante Per me, invece, il discorso non poteva limitarsi a indicare i mali del presente, nella speranza di correggerli. Io ho creduto a quei valori universali che avevano caratterizzato la cultura cristiana e che dovevano alimentare la forma più alta del sapere, il sapere enciclopedico. Qualcuno ha detto – ed era quello che volevo fare – che la mia Commedia è una summa, un concentrato di conoscenze e di sapienza paragonabile, sul piano della
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
costruzione, alla Summa Theologiae del dottore della Chiesa Tommaso d’Aquino. Nel mio viaggio nell’aldilà ho rappresentato anch’io un’infinità di situazioni umane e i personaggi delle più disparate condizioni, del presente e del passato, della storia e del mito, li ho però visti in una prospettiva non solo esemplificativa ma esemplare. I tre regni attraversati dal mio viaggio – inferno, purgatorio e paradiso – simboleggiano il destino dell’uomo, dalla caduta nel peccato alla possibile purificazione, che prelude alla visione del divino. Pur essendo molto attento ai particolari della realtà, li ho inseriti in una visione allegorica, “figurale”. Fin dai primi versi ho voluto chiarire bene il mio procedimento. L’uso della prima persona – dell’“io” – allude a un’esperienza di vita che ho intensamente meditato, per comprenderne a fondo i significati, ma, nel volerla comunicare, l’ho trasferita su un piano superiore, nel quale, in una vicenda individuale, si potesse rispecchiare quella universale, di tutti: la «selva» – dove dico di essermi smarrito – indica la condizione generale del peccato in cui l’uomo rischia continuamente di cadere; le tre fiere – che incontro subito dopo – sono le disposizioni al male e le tentazioni a cui ogni individuo è sottoposto. A un certo momento, come sapete, l’aiuto di Virgilio, cioè della sapienza umana, non poteva più essere sufficiente; ecco allora che, morta ormai Beatrice, la donna che avevo amato in giovinezza e che avevo celebrato nella Vita nuova, ho potuto fare di lei – come simbolo della grazia divina – la guida verso la salvezza, la mia e quella di tutti (Beatrice del resto, come dice il suo nome, diventa colei che può consentire di raggiungere la beatitudine eterna). moderatore Entrambi, quindi, avete dato vita a un mondo fitto di personaggi e di avvenimenti. Ma allora, in ultima analisi, che differenza c’è?
Boccaccio Dante l’ha appena spiegato. Nella sua opera compaiono personaggi storici e mitologici (Virgilio, ad esempio, la guida che rappresenta la sapienza non ancora illuminata
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L’età comunale in Italia
dalla grazia), mentre io ho fatto agire spesso i miei personaggi (alcuni realmente esistiti, la maggior parte frutto della mia invenzione) nella società del presente. Credo che in letteratura non ci sia più posto per una visione allegorico-figurale ma che si debbano rappresentare semplicemente le forze che muovono i sentimenti e gli interessi della gente, anche della gente comune; senza veli e senza infingimenti, con coraggio e con spregiudicatezza. La natura ha delle leggi che non possono essere ignorate, e l’amore è una di queste, l’amore – dico – visto nella completezza delle sue manifestazioni: «noi che amiamo naturalmente operiamo», ho scritto per rispondere a delle accuse, stolte e pretestuose, che mi erano state rivolte. Per questo ho voluto dedicare la mia opera non genericamente alle donne, ma alle «donne che amano», che sanno cioè esprimere la forza e la nobiltà dei loro sentimenti (leggete, se non l’avete ancora letta, la novella di Ghismunda, che esemplifica al più alto livello quanto ho appena sostenuto).
Testi L’autodifesa dalle critiche e la novella delle «papere» dal Decameron
La ragione, poi, deve essere la nostra guida; per questo ho polemizzato, irridendole, con le manifestazioni di una cultura clericale (ho detto clericale, non religiosa!) superstiziosa e bigotta, legata a un passato ormai superato e assolutamente inadatta a soddisfare le esigenze culturali del presente. È la cultura che permette a frate Cipolla di turlupinare un intero paese di sciocchi, la cultura degli exempla con cui i predicatori indottrinavano i fedeli e che io ho voluto polemicamente “rovesciare” nella novella di Nastagio degli Onesti. Anche altrove ho cercato di far capire che non si devono comprimere, quando sono buone, le disposizioni naturali degli individui. L’educazione, come mi sono proposto di dimostrare in una mia novelletta inserita nell’Introduzione alla quarta giornata, deve essere aperta e non repressiva, basata cioè su pregiudizi e imposizioni dogmatiche; il suo scopo è quello di preparare delle persone consapevoli e mature, rispettose dei diritti degli altri nella vita delle relazioni sociali.
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Boccaccio e Petrarca moderatore (rivolgendosi a Petrarca). Non mi pare che lei abbia molto amato il Decameron.
Petrarca È vero, non ho difficoltà ad ammetterlo. L’opera del mio amico – e adesso posso dire discepolo – io l’ho leggiucchiata appena, un po’ qua e un po’ là. Mi hanno spesso infastidito la scelta di una materia “comune” e lo stile “basso”, soprattutto in certi dialoghi troppo immediati e, a parer mio, piuttosto banali. Io ho 644
sempre avuto in mente un altro modello di letteratura. moderatore Nonostante questo, lei ha tradotto in latino l’ultima novella del Decameron, quella che ha come protagonista Griselda.
Petrarca Qui il caso era diverso. Si tratta di una novella in stile elevato, come ce n’è qualcun’altra – ma non molte – nell’opera; non
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
solo, ma poteva essere letta (ricordo che il tradurre è anche interpretare) in chiave simbolica. Griselda mi era subito sembrata una santa che obbedisce ciecamente al volere di Dio, una eroina cristiana superiore a tutte le eroine dell’antichità. Penso sempre di più che sia fondamentale il confronto con la letteratura dei classici, degli antichi, che ci hanno tramandato dei capolavori insuperabili; per questo ho usato il latino, e per questo la novella ha ottenuto una risonanza europea che forse nemmeno Boccaccio poteva immaginare. moderatore (rivolgendosi a Boccaccio). Lei che cosa ne pensa?
Boccaccio Ci sono stati diversi momenti nella
mia attività di scrittore, e alla fine ho condiviso anch’io queste idee, per la grande ammirazione che ho avuto nei confronti di Petrarca. Le prime opere che ho scritto erano legate al soggiorno napoletano, allo sfarzo mondano della corte angioina. Poi, tornato da poco a Firenze, ho scritto la Fiammetta, dove ho voluto rappresentare ancora – ma la situazione era ormai molto diversa – i gusti e le abitudini di quella società raffinata, nella forma per me moderna di un romanzo che tenesse conto anche delle ragioni psicologiche. A Firenze, volevo dire, ho trovato una città grigia, intristita, in piena recessione; poi c’è stata la peste e, nonostante la crisi sempre più profonda, ho cercato – con il mio Decameron – di offrire un modello di comportamento e di vita destinato soprattutto ai ceti più attivi e intraprendenti. Ma forse non si potevano più cambiare le cose. Così, se prima Dante era stato la mia grande passione letteraria, mi sono accostato – pur senza ripudiare Dante – all’insegnamento di Petrarca. Se leggete un’altra mia opera in volgare, il Corbaccio, noterete facilmente questo cambiamento: io avevo dedicato il Decameron alle «donne», e in particolare alle «donne che amano»; adesso mi rivolgevo invece alle «Muse», ossia alle fonti dell’ispirazione classica, chiedendo una specie di cittadinanza ideale presso «Omero e i valorosi antichi». Ho scritto anche, in latino, opere enciclopediche ed erudite, perché ho cominciato a credere nel
programma petrarchesco di una rinascita delle humanae litterae. moderatore (rivolgendosi a Petrarca). Soprattutto lei si è posto il problema del ruolo che hanno in letteratura il latino e il volgare.
Petrarca Io sono convinto, teoricamente, che la letteratura del mondo classico sia stata la più eccellente, e che il genere letterario più elevato e sublime sia l’epica: penso all’Iliade di Omero, all’Eneide di Virgilio; è il genere in cui il grande poeta, degno di essere incoronato con l’alloro, celebra le gesta del grande eroe e lo rende immortale. Per questo ho iniziato a scrivere un poema epico, l’Africa, e l’ho scritto in esametri latini. Purtroppo non l’ho ancora finito, e mi chiedo se riuscirò mai a concluderlo. C’è anche da dire che il grande poeta (e io sono stato incoronato con l’alloro sul Campidoglio, nel cuore dell’antica grandezza romana) non trova più, nella mediocrità del presente, uomini degni di essere cantati, come si legge in una mia epistola rivolta ai posteri, Posteritati. Per questo mi sono soprattutto dedicato alla composizione di “rime”; le ho chiamate Rerum vulgarium fragmenta, brevi testi di cose scritte in volgare, e le ho semplicemente giudicate delle nugae, cose di poco conto. In questi versi ho dato spazio piuttosto ai miei problemi interiori, ho cercato di esprimere le contraddizioni psicologiche della mia esistenza. Ho voluto confrontarmi non con la tradizione storica, ma con me stesso, denunciando i miei limiti e le mie manchevolezze. Ma non sono mai venuto meno a un’idea di perfezione dell’arte, e ho curato questi testi con la massima attenzione. Qualcuno sostiene che proprio qui sia da cercare il migliore Petrarca; io non lo so, ma potrebbe essere così. moderatore Lo penso anch’io, così come penso che il Decameron sarà sempre giudicato l’opera più importante e significativa scritta da Boccaccio. Ma ai posteri – posteritati, per dirla con lei, Petrarca, alla latina – la sentenza.
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Che CoSA CI dICono AnCorA oGGI I CLASSICI
Boccaccio LonTAnAnzA e VICInAnzA dI BoCCACCIo Il Decameron è un libro scritto in un’epoca lontana, molto diversa dalla nostra, in una lingua che per tanti suona ormai difficile. Un classico è, per definizione, un’opera che resta viva e parla attraverso i secoli per la sua grandezza estetica: ma in concreto, al di là dell’ammirazione estetica, che cosa ci può ancora dire il capolavoro boccacciano, quali corde può ancora toccare in noi, quali stimoli ci può offrire per affrontare la nostra vita oggi, per aiutarci a trovare ad essa un senso?
Un mondo InTerAmenTe UmAno Quello del Decameron è un mondo interamente umano, dominato da forze immanenti, terrene, che operano in modo autonomo rispetto al piano trascendente. La libertà di scelta dell’uomo L’opera ci comunica quindi l’idea di una libertà dell’uomo nelle sue scelte, ci dà la fiducia che esse non possano essere determinate da alcuna forza esterna. L’iniziativa umana e le avversità Sempre su questa linea, le novelle boccacciane sono la celebrazione dell’iniziativa umana che riesce a vincere avversità e ostacoli con accortezza ed energia, come possiamo constatare in quelle di ser Ciappelletto, di Andreuccio da Perugia, di Landolfo Rufolo. Specie in epoche di crisi profonda come la nostra, spesso abbiamo la sensazione che siamo prigionieri di un meccanismo sociale ed economico ferreo, che determina ogni nostro atto e persino il nostro modo di pensare, che tutti i giochi siano fatti e non esistano alternative e spiragli per cambiare le cose, e questo stato d’animo può indurci al fatalismo, alla rassegnazione, alla passività. Allora gli esempi di iniziativa vincente che leggiamo in Boccaccio possono contribuire a strapparci da questa passività, indurci a credere nelle nostre forze, ad affrontare con coraggio problemi che appaiono insormontabili.
LA ForzA deLLA PAroLA Il Decameron è anche una celebrazione della parola, pronta, precisa, elegante, efficace, come dimostrano le novelle della sesta giornata, in particolare quella di Guido Cavalcanti.
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La povertà del nostro linguaggio Oggi il linguaggio quotidiano appare sempre più stereotipato, composto di frasi fatte ripetute pigramente, piatto, povero e impreciso, anche a causa del modello predominante dei mezzi di comunicazione di massa, che la scuola non è abbastanza forte da contrastare. La povertà del linguaggio è una grave limitazione, che priva della possibilità di capire i messaggi provenienti dal mondo e di produrre messaggi comprensibili, che stabiliscano canali di comunicazione e incidano sulla realtà; quindi relega a una condizione subalterna, di non pieno esercizio delle nostre potenzialità, e ci sottrae la stessa possibilità di far valere i nostri diritti civili. L’opera boccacciana, mostrandoci come la parola possa risolvere situazioni difficili, modificando o addirittura plasmando la realtà, ci può servire da stimolo per assumere coscienza dell’importanza delle parole e per arricchire il nostro linguaggio, rendendolo più duttile e appropriato, in modo che torni ad essere la chiave per meglio capire la realtà in cui siamo immersi e lo strumento per agire in essa.
mAGnAnImITà ed eLeGAnzA deI modI L’interesse egoistico Al tempo stesso l’opera di Boccaccio esalta la generosità magnanima, il bel gesto disinteressato, come dimostra la novella di Federigo degli Alberighi: e nel nostro tempo, in cui dominano spesso il perseguimento dell’interesse egoistico e la ricerca del profitto che ignora ogni scrupolo, anche per questo aspetto può fornirci uno strumento per sottoporre a critica gli aspetti negativi della nostra epoca e per contrastarla. Maleducazione e volgarità Non solo, ma l’eleganza di modi che è prerogativa di tanti personaggi boccacciani, esponenti di una civiltà raffinata, può, per contrasto, farci percepire con maggior evidenza la rozzezza, la maleducazione, la sgarbatezza, la volgarità oggi trionfanti, di cui ancora una volta i media nei talk show e nei reality ci offrono ogni giorno spettacoli deprimenti, magari nel comportamento di persone di alte responsabilità istituzionali o culturali, e può fornirci l’antidoto per cercare di contrastarle.
Capitolo 6 · Giovanni Boccaccio
LA dIGnITà deLLA donnA Nelle novelle boccacciane si riscontra un’assidua attenzione alla condizione della donna, alle costrizioni a cui essa è condannata all’interno della famiglia da un costume patriarcale, che attribuisce un potere tirannico a padri e mariti, mentre Boccaccio è fautore di un costume più aperto, che consenta alle donne maggiore libertà di autodeterminazione. I diritti della donna Anzi le donne che, in nome dei loro diritti, si oppongono alla tirannia familiare anche a costo della vita appaiono nel Decameron dotate di una statura eroica, per la loro forza d’animo e il loro alto sentire: basti pensare a Ghismunda, che è una vera eroina boccacciana,
per la decisione con cui si sceglie un amante degno, per l’intelligenza con cui architetta i mezzi per incontrarlo, per la fermezza e la coerenza delle sue scelte, per l’energia nell’eseguire il piano, per il coraggio e la dignità nell’affrontare la crudeltà del padre, per il dominio della parola, e per questo è chiaramente oggetto di ammirazione da parte dello scrittore; o a Lisabetta da Messina che, vittima dell’angustia mercantile dei fratelli, rimane ferma nei suoi sentimenti sino alla morte, ed è fatta segno di dolente partecipazione umana. Non c’è bisogno di sottolineare quanto questa tematica tocchi da vicino noi, in un’epoca che ha assistito alle lotte delle donne per la loro emancipazione, per la conquista dei diritti e delle pari opportunità e per rivendicare il valore della differenza.
L’eroS Una forza naturale Infine le novelle del Decameron esaltano l’amore come forza generata dalla natura stessa, e quindi sana e positiva, che è assurdo e vano reprimere; anzi spesso mostrano come soffocarla sia una colpa, che può provocare dolore e morte. Per questo Boccaccio contempla con sorridente, intenerita approvazione lo sbocciare del desiderio amoroso nei giovani, collocandosi dinanzi all’eros con aperta disponibilità, come dinanzi a un fatto naturale e innocente. Permissività e pregiudizi Oggi che i mutamenti del costume hanno fatto cadere molti tabù, una simile visione può apparire in sintonia con la nostra. D’altro lato però, poiché dietro alla diffusa permissività si celano ancora pregiudizi, oscuri sensi di colpa, distorsioni morbose, la frequentazione del sereno mondo boccacciano può indicarci la possibilità di modi diversi di vivere.
Emanuele Luzzati, Riccardo Minutolo e Catella, collage e pastello, illustrazione per il Decamerone di Giovanni Boccaccio, volume secondo, Milano 2002.
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L’età comunale in Italia
Ripasso visivo
GIOVANNI BOCCACCIO (1313-75) Mappe interattive
Ripasso interattivo
ELEMENTI BIOGRAFICI
• Nato a Certaldo da una famiglia borghese, da giovane frequenta gli ambienti aristocratici napoletani • In età adulta svolge importanti incarichi per il comune fiorentino • A seguito di una delusione politica e di una crisi spirituale sceglie la condizione di chierico • Trascorre gli ultimi anni a Certaldo, che diviene centro di incontro di un gruppo di intellettuali POETICA E PENSIERO
• Si rivolge a un pubblico medio • Si propone di descrivere la realtà in tutti i suoi
• Propone un’idea di letteratura laica e mondana,
libera da vincoli religiosi e moralistici e come forma di piacevole intrattenimento • Si dedica allo studio del greco e ad attività filologiche, anticipando così il clima culturale dell’Umanesimo • Negli ultimi anni predilige gli studi eruditi, soprattutto in latino, ed esalta una concezione più aristocratica e raffinata della cultura e della letteratura
aspetti, senza eliminare i particolari “bassi” • Sperimenta molti generi e forme • Ricorre a diversi registri stilistici a fini espressivi • Apprezza la cultura classica e considera gli autori latini come modelli di stile • Riprende la tradizione medievale della letteratura cavalleresca e cortese
OPERE PERIODO NAPOLETANO (1327-40)
PERIODO FIORENTINO (1340-53)
• Caccia di Diana • Filostrato • Teseida
POESIA • Comedìa delle Ninfe fiorentine • Amorosa visione • Ninfale fiesolano
PROSA • Filocolo
PROSA • Elegia di Madonna Fiammetta
POESIA
• Decameron
DOPO IL DECAMERON (1354-75) PROSA LATINA
• De casibus virorum illustrium
(“Le sventure di uomini illustri”)
• De claris mulieribus
(“Le donne famose”)
• De genealogiis deorum gentilium
(“Le genealogie degli dèi pagani”)
PROSA IN VOLGARE • Esposizioni sopra la «Commedia» • Trattatello in laude di Dante • Corbaccio
DECAMERON
LA STRUTTURA
• raccolta di cento
novelle, racchiuse in una cornice narrativa
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LA REALTÀ RAPPRESENTATA
• il mondo mercantile
cittadino, spesso pervaso dalla nostalgia per i valori cortesi espressi dall’antica aristocrazia feudale
I TEMI PRINCIPALI
• l’«industria», ossia la
capacità di superare con astuzia e intelligenza le avversità della Fortuna, forza cieca e imprevedibile • l’amore, concepito come insopprimibile impulso naturale
LA LINGUA E LO STILE
• una pluralità di registri
stilistici corrisponde alla varietà del mondo rappresentato
In sintesi
GIoVAnnI BoCCACCIo (1313-75) Verifica interattiva
Boccaccio rappresenta una figura d’intellettuale difficilmente classificabile entro un’unica categoria. Nonostante l’estrazione borghese, egli subisce il fascino dei modi di vita raffinati dell’ambiente aristocratico napoletano, che frequenta nella giovinezza. In età adulta lo troviamo impegnato nella vita pubblica del comune fiorentino e successivamente nei panni del chierico che beneficia di rendite ecclesiastiche. Queste diverse esperienze si riflettono nella sua multiforme produzione letteraria, nella quale l’attenzione tipicamente borghese alla realtà concreta coesiste con il nostalgico vagheggiamento dei valori cortesi, la formazione mercantile con il culto dei classici, la visione laica della giovinezza e della maturità con la religiosità austera degli ultimi anni.
Le oPere deL PerIodo nAPoLeTAno Al periodo del soggiorno giovanile a Napoli risale una serie di opere di carattere narrativo, in versi e in prosa: la Caccia di Diana (anteriore al 1334), il Filostrato (1335-38), il Filocolo (1336 ca.) e il Teseida (1339-40). In esse si proiettano i vari e disordinati interessi letterari di Boccaccio, che si era avvicinato alla cultura antica e recente da autodidatta. La materia è attinta generalmente da miti classici, rielaborati però in modo tale da riflettere gli ideali tipicamente cortesi e cavallereschi cantati nella letteratura medievale in lingua d’oïl: l’amore come fonte d’ingentilimento, il culto del gesto magnanimo, il gusto per l’avventura; non mancano inoltre motivi tratti da forme letterarie popolari, come i cantari medievali. La tendenza a proiettare la propria esperienza sentimentale nelle vicende narrate, trasfigurandola romanzescamente, conferisce alle opere “napoletane” un carattere velatamente autobiografico.
Le oPere deL PerIodo FIorenTIno Dopo il rientro a Firenze, Boccaccio cercò d’inserirsi nel nuovo ambiente culturale avvicinandosi alla tradizione fiorentina della poesia allegorica. Da questa impostazione nascono la Comedìa delle Ninfe fiorentine (1341-42), narrazione in prosa inframmezzata da versi, che riprende i motivi della poesia pastorale antica, rielaborati secondo gli schemi allegorici medievali, e l’Amorosa visione (1342-43), un poema concepito come viaggio-visione. con il romanzo in prosa Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44) l’autore ritorna all’autobiografismo, raccontando la vicenda della dama napoletana Fiammetta, abbandonata dal giovane fiorentino Panfilo. Rispetto alle opere giovanili, tuttavia, si assiste a una sorta di rovesciamento di prospettiva, in quanto la vicenda è narrata dal punto di vista della donna, anziché da quello dell’autore-personaggio: si tratta di un elemento as-
solutamente innovativo rispetto a una tradizione letteraria nella quale la donna era sempre stata oggetto, e non soggetto, della rappresentazione dell’amore. D’ambiente idillico-pastorale è infine il Ninfale fiesolano, poemetto in cui la materia classica si fonde con la semplice spontaneità dei cantari popolari. In quest’opera, come nelle altre di questo periodo, affiora una visione laica della realtà e dell’amore in particolare, descritto come istinto naturale legittimo anziché come pulsione peccaminosa.
DECAMERON Negli anni tra il 1348 e il 1353 Boccaccio si dedica alla composizione del Decameron, una raccolta di cento novelle. Il Proemio delinea le finalità e i destinatari ideali dell’opera: alleviare le pene delle donne «che amano», ossia intrattenere piacevolmente un pubblico composto non da letterati di professione, ma comunque raffinato ed elegante. Una cornice narrativa racchiude le novelle, presentandole come raccontate in dieci giorni da una brigata di dieci raffinati giovani fiorentini, che si sono ritirati in campagna per sfuggire alla peste. tale cornice rispecchia il motivo fondamentale dell’opera: la socialità serena della brigata è emblema dell’uomo, che con la sua forza e intelligenza sa imporre un ordine armonioso alla realtà, travagliata dalle spinte disgregatrici del caos. La realtà rappresentata dalle novelle, a differenza di quella uniformemente selezionata della cornice, è quanto mai varia: vi compaiono il passato e il presente, personaggi di diversa estrazione, situazioni tragiche e comiche. Un’attenzione particolare è dedicata al mondo dei mercanti, di cui Boccaccio celebra l’«industria», ossia la capacità di superare le avversità con l’intelligenza e l’intraprendenza. Questo atteggiamento convive con la nostalgia per il mondo cavalleresco, ispirato ai valori della cortesia spesso incarnati da personaggi di ceto borghese: in questo senso Boccaccio appare il più autentico rappresentante di quelle classi emergenti che ambivano a presentarsi come eredi dello stile di vita dell’antica aristocrazia feudale. Antagonista per eccellenza dell’«industria» mercantile è la Fortuna, concepita laicamente come forza cieca del caso e non più come manifestazione della provvidenza divina. Accanto alla Fortuna, altra grande forza che anima l’universo del Decameron è l’amore, inteso come impulso naturale e declinato nelle forme più varie, dal nobile sentimento che ingentilisce alla passione fatale che conduce alla morte fino ai livelli più elementari della pura attrazione sessuale. come al caos del reale si contrappone l’ordine dato dall’intelligenza umana, così alla molteplicità della materia del Decameron fa da contrappunto la costruzione unitaria dell’opera, racchiusa in una cornice e resa armonica da una serie di richiami e di corrispondenze interne tra le varie parti.
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L’età comunale in Italia
Le oPere erUdITe Nell’ultima produzione di Boccaccio prevale il carattere erudito e classicheggiante. Il frutto dell’intenso studio dei classici (antichi e recenti) sono varie compilazioni in lingua latina e due scritti dedicati a Dante: un commento della Commedia (le Esposizioni sopra la
«Commedia») e una biografia (il Trattatello in laude di Dante). Agli ultimi anni della vita di Boccaccio risale anche il Corbaccio, un’aspra satira delle donne in forma di visione, che dimostra il radicale cambiamento di mentalità intervenuto nell’autore dopo la crisi religiosa.
Bibliografia La critica
` EDIZIONI DELLE OPERE Per la ricerca nel web
L’edizione critica di Tutte le opere nella collana dei «classici Mondadori», avviata nel 1967 e conclusa nel 1998, è così strutturata: vol. I, Caccia di Diana e Filocolo, a cura di v. Branca e A. e. Quaglio, 1967; vol. II, Filostrato, a cura di v. Branca, Teseida, a cura di A. Limentani, Comedìa delle Ninfe fiorentine, a cura di A. e. Quaglio, 1964; vol. III, Amorosa visione, a cura di v. Branca, Ninfale fiesolano, a cura di A. Balduino, Trattatello in laude di Dante, a cura di P. G. Ricci, 1974; vol. Iv, Decameron, a cura di v. Branca, 1976 (assunta come edizione di riferimento); il vol. v contiene l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Corbaccio, a cura rispettivamente di c. Delcorno e G. Padoan; vol. vI, Esposizioni sopra la «Commedia» di Dante, a cura di G. Padoan, 1965; vol. vII, Genealogiae deorum gentilium a cura di v. zaccaria, 1998; vol. vIII, De montibus a cura di M. Pastore Stocchi; vol. IX, De casibus virorum illustrium, a cura di P. G. Ricci e v. zaccaria, 1983; vol. X, De mulieribus claris, a cura di v. zaccaria, 1967. tra le raccolte di opere scelte: i due volumi della Letteratura italiana. Storia e testi, a cura di N. Sapegno e altri, Ricciardi, Milano-Napoli 1952 e 1965; Opere, a cura di c. Segre, Mursia, Milano 1976. vittore Branca pubblica una prima edizione critica del Decameron nel 1976, per poi continuare a lavorare sul testo introducendo importanti rettifiche, di cui si tiene conto nella più accurata edizione rivista per einaudi nel 1999 (da cui sono tratti i brani in antologia); la più recente edizione, vagliata con rigore filologico, è quella curata da M. Fiorilla (bur, Milano 2013).
` STORIA DELLA CRITICA
G. Petronio, Giovanni Boccaccio, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, La Nuova Italia, Firenze 1960 (ed edizioni successive) • A. tartaro, Boccaccio, Palumbo, Palermo 1976.
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` BIOGRAFIE
v. Branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Sansoni, Firenze 1977. Da segnalare i più recenti volumi: L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Salerno, Roma 2000; L. Surdich, Boccaccio, Laterza, Roma-Bari 2001
` STUDI CRITICI
B. croce, Il Boccaccio e Franco Sacchetti, in Poesia popolare e poesia d’arte, Laterza, Bari 1937 • e. auerbach, Frate Alberto, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. di A. Romagnoli e H. Hinterhäuser (1949), einaudi, torino 1956 • v. branca, Boccaccio medievale, Sansoni, Firenze 1956 • L. russo, Letture critiche del «Decameron», Laterza, Bari 1956 • G. Petronio, La posizione del «Decameron», in «La rassegna della letteratura italiana», LXI, 1957 (ora in I miei «Decameron», editori Riuniti, Roma 1989) • G. getto, Vita di forme e forme di vita nel «Decameron», Petrini, torino 1958 • M. baratto, Realtà e stile nel «Decameron», Neri Pozza, vicenza 1970 (ora editori Riuniti, Roma 1984) • c. Muscetta, Giovanni Boccaccio, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da c. Muscetta, vol. II, tomo 2, Laterza, Roma-Bari 1972 • G. Mazzacurati, Alatiel ovvero gli alibi del desiderio, in Forma & ideologia, Liguori, Napoli 1974 • c. segre, Strutture e registri nella «Fiammetta»; Funzioni, opposizioni e simmetrie nella giornata VII del «Decameron» e Comicità strutturale nella novella di Alatiel, in Le strutture e il tempo, einaudi, torino 1974 • F. Fido, Le metamorfosi del centauro, Bulzoni, Roma 1977 • A. rossi, Il «Decameron». Pratiche testuali e interpretative, cappelli, Bologna 1977 • G. Padoan, Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, olschki, Firenze 1978 (contiene, tra l’altro, il fondamentale studio del 1964, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di Giovanni Boccaccio) • c. segre,
La novella di Nastagio degli Onesti («Decameron», V, 8): i due tempi della visione, in Semiotica filologica, einaudi, torino 1979 • AA.vv., Il testo moltiplicato, Pratiche, Parma 1982 • G. bárberi squarotti, Il potere della parola. Studi sul «Decameron», Federico e Ardia, Napoli 1983 • v. Branca, Boccaccio visualizzato, Sansoni, Firenze 1985 • F. Fido, Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul «Decameron», Angeli, Milano 1988 • G. Petronio, I miei «Decameron», cit. • F. bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Il Mulino, Bologna 1990 • G. zaccaria, Il «Corbaccio»: un’ipotesi di romanzo, in «Giornale storico della letteratura italiana», n. 544, 1991 • A. asor rosa, «Decameron» di Giovanni Boccaccio, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, vol. I, Dalle origini al Cinquecento, einaudi, torino 1992, pp. 473-591 (ora in Genus italicum, einaudi, torino 1997) • Lessico critico decameroniano, a cura di R. Bragantini e P. Forni, Bollati Boringhieri, torino 1995 • F. tateo, Boccaccio, Laterza, Roma-Bari 1998 • S. Marchesi, Stratigrafie decameroniane, olschki, Firenze 2005 • F. cardini, Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno, Roma 2007 • M. bevilacqua, Leggere per diletto. Saggi sul Decameron, Salerno, Roma 2008 • M. Picone, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del Decameron, Longo, Ravenna 2008 • L. surdich, Boccaccio, Il Mulino, Bologna 2008 • F. P. botti, Alle origini della modernità. Studi su Petrarca e Boccaccio, Liguori, Napoli 2009 • R. ricci, Scrittura, riscrittura, autoesegesi. Voci autoriali intorno all’epica in volgare. Boccaccio, Tasso, ets, Pisa 2010 • F. rico, Ritratti allo specchio (Petrarca, Boccaccio), Antenore, Roma-Padova 2013 • G. zaccaria, Giovanni Boccaccio. Alle origini del romanzo moderno, Bompiani, Milano 2014.
PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
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L’autodifesa dalle critiche e la novella delle «papere» dal Decameron, IV, Introduzione In questa Introduzione alla quarta giornata Boccaccio interrompe la narrazione degli ozi e dei divertimenti della brigata e riprende la parola in prima persona. A ciò è indotto da alcune critiche rivoltegli, per difendersi dalle quali narra una novella che intende avere valore esemplare.
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Carissime donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì1 per le cose da me molte volte e vedute e lette, estimava io che lo ’mpetuoso vento e ardente della ’nvidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le più levate cime degli alberi: ma io mi truovo della mia estimazione2 ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito3, non solamente pe’ piani ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato d’andare; il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me4 sono e senza titolo5 , ma ancora in istilo umilissimo e rimesso6 quanto il più si possono. Né per tutto ciò l’esser da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da’ morsi della ’nvidia esser lacerato, non ho potuto cessare7; per che assai manifestamente posso comprendere quello esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi e, alcuni han detto peggio, di commendarvi8, come io fo. Altri più maturamente mostrando di voler dire9, hanno detto che alla mia età non sta bene l’andare ormai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri10 della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso11 che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi
1. sì … sì: sia … sia. 2. estimazione: opinione. 3. rabbioso spirito: l’invidia. 4. per me: da me. 5. senza titolo: probabilmente Boccaccio si riferisce alla prima diffusione delle novelle che avvenne in forma disorganica. 6. rimesso: dimesso. 7. Né … cessare: ebbene, anche facendo
così, non sono riuscito a evitare di essere duramente colpito, e anzi pressoché sradicato, da quel vento, e di finire dilaniato dai morsi dell’invidia. 8. commendarvi: lodarvi. 9. più … dire: volendo dare prova di entrare nel merito della questione più appropriatamente. 10. teneri: benevoli.
11. farei … Parnaso: farei cosa più saggia se mi occupassi di argomenti seri ed elevati. Le Muse, per metonimia, stanno per la poesia, genere più elevato della prosa in relazione sia agli argomenti sia alla forma. Il Parnaso era il monte abitato dalle Muse e dal dio della poesia, Apollo.
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pascendo di vento12. E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io le vi porgo s’ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare13. Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti14, da così atroci denti, da così aguti15, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito16, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto. […] Ma avanti che io venga a far la risposta a alcuno, mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia, quale fu quella che dimostrata v’ho, mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle17; e a’ miei assalitori favelando18 dico. Che nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere19, ma ricco e bene inviato20 e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una sua moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio21 ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’età di due anni era. Costui per la morte della moglie tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse; e veggendosi di quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo22 ma di darsi al servigio di Dio e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio23, senza indugio se n’andò sopra Monte Asinaio24, e quivi in una piccola celletta se mise col suo figliuolo, col quale di limosine25 in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove egli fosse, d’alcuna temporal26 cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol traessero27, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli28. Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze: e quivi secondo le sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto29, alla sua cella tornava. Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliene disse; al quale il garzon disse: «Padre mio, voi siete oggimai30 vecchio e potete male durar31 fatica; perché non mi menate32 voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe’ nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?». Il valente uomo, pensando che già questo suo figliuolo era grande e era sì abituato al servigio di Dio, che malagevolmente33 le cose del mondo a sé il dovrebbono ormai poter
12. E son … vento: e per giunta, ci sono stati alcuni che, parlando più per provocare che mossi dalla saggezza, hanno detto che farei meglio a pensare a come guadagnarmi da vivere anziché impegnarmi in argomenti futili. 13. E certi altri … dimostrare: e certi altri si danno la pena di dimostrare, a danno del mio impegno, che gli eventi hanno avuto uno svolgimento diverso da come ve li ho raccontati. 14. soffiamenti: voci insidiose (riprende la metafora iniziale del vento). 15. da così atroci … aguti: da denti così feroci, così aguzzi.
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16. mentre … milito: mentre io mi impegno al vostro servizio. 17. ma … quelle: bensì vorrei raccontare solo una parte di una novella, in modo tale che la sua stessa incompiutezza dimostri che non rientra tra quelle. 18. favelando: raccontando. 19. assai leggiere: molto umili. 20. bene inviato: ben avviato. 21. studio: impegno. 22. si dispose … mondo: stabilì di non vivere nella società civile. 23. per Dio: in carità. 24. Monte Asinaio: località vicina a Firenze.
25. limosine: elemosine. 26. temporal: mondana. 27. nol traessero: non lo distraessero dal servizio di Dio. 28. dimostrandogli: lasciandogli vedere. 29. secondo le sue ... sovenuto: aiutato nelle sue necessità da uomini caritatevoli. 30. oggimai: ormai. 31. durar: tollerare. 32. menate: portate. 33. malagevolmente: difficilmente.
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trarre, seco stesso disse: «Costui dice bene»; per che, avvendovi a andare, seco il menò. Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza34 vedute no’ n’avea, si cominciò forte a meravigliare e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; e egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E così domandando il figliolo e il padre rispondendo per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze35 venieno: le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il padre disse: «Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle son mala cosa». Disse allora il figliuolo: «O come si chiamano?». Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio36 men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: «Elle si chiamano papere». Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ denari ne’ d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere». «Oimè, figliuol mio», disse il padre «taci: elle son mala cosa». A cui il giovane domandando disse: «O son così fatte le male cose?». «Sì» disse il padre. E egli ancora disse: «Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è37, a me non è ancora paruta vedere alcuna così bella né così piacevole come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli38 dipinti che voi m’avete più volte mostrati. Deh! Se vi cal39 di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere e io le darò beccare40». Disse il padre: «Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano!» e sentì incontanente41 più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi42 d’averlo menato a Firenze.
34. per ricordanza: a quanto gli era dato di ricordare. 35. da … nozze: da un matrimonio. 36. per non destare ... desiderio: per non suscitare nel giovane alcun desiderio
volto a soddisfare lo stimolo sessuale. 37. quanto è: per quel che mi sembra. 38. agnoli: angeli. 39. Se vi cal: Se vi importa. 40. le darò beccare: darò loro cibo da
prendere con il becco. È una metafora sessuale, come il successivo donde (da dove) elle s’imbeccano. 41. sentì incontanente: capì subito. 42. pentessi: si pentì.
COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Riassumi la novella narrata dall’autore in max. 10 righe.
> 2. Chiarisci le immagini presenti nelle prime righe: a che cosa vogliono fare riferimento «l’alte
torri o le più levate cime degli alberi» (r. 3) e poi i «piani» e «le profondissime valli» (rr.. 5-6)?
> 3. Quali sono le quattro accuse che vengono rivolte all’autore? > 4. Parafrasa e spiega la frase con cui termina la novella: «e sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno» (rr. 85-86).
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti.
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L’età comunale in Italia
GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dal testo tratto dall’Introduzione alla quarta giornata del Decameron di Boccaccio, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: – gli aggettivi con cui l’autore si rivolge alle donne, anche in riferimento alla sezione del Decameron in cui Boccaccio le individua come destinatarie dell’opera; – il cambiamento del registro linguistico tra la parte iniziale dell’Introduzione e la narrazione della novella, in relazione agli aspetti sintattici, lessicali e retorici; – il valore espressivo delle metafore presenti nel testo; – la struttura e le funzioni dell’exemplum rilevabili nella novella. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo. Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: – la visione “naturalistica” dell’amore nelle novelle del Decameron; – la distanza tra le figure femminili boccacciane e quelle della tradizione lirica trobadorica e stilnovista; – «La famiglia non è soltanto un rifugio dove trovare, nel migliore dei casi, sicurezza affettiva, morale e materiale ma è anche, e soprattutto, un luogo di promozione delle risorse, dell’autonomia e dell’iniziativa dei singoli membri. L’obiettivo dell’autonomia e dell’indipendenza deve tornare a fare parte dei desideri dei figli e dei genitori. Quando veniamo al mondo siamo sotto la totale responsabilità altrui. Poi dobbiamo assumerci le fatiche, gli oneri, ma anche il piacere delle nostre responsabilità e cominciare a scrivere in proprio, per quanto possibile, la nostra storia» (F. Scaparro, in “Corriere della Sera”, 6 aprile 2002). Approfondisci il tema facendo eventualmente riferimento ad alcuni esempi. PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo
Ambito letterario Roberto Antonelli
Il Decameron oggi Nel testo che segue, il filologo e italianista Roberto Antonelli (1942) prende in esame le ragioni del successo del Decameron.
Il Decameron di Giovanni Boccaccio è ancora oggi una delle opere italiane più amate nel mondo. Al Decameron vengono continuamente dedicati saggi critici, traduzioni, riduzioni cinematografiche (valga per tutte quella di Pier Paolo Pasolini) e perfino alberghi.
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Quali sono le ragioni più forti di tale successo e quali quelle più deboli? È una domanda che richiede evidentemente un tentativo di risposta non limitato ad un’ottica specialistica ma volto a comprendere insieme i meccanismi di una società letteraria globalizzata e insieme quelli di un pubblico di massa. La ragione più semplice, ovvia e in parte vera, è l’importanza che nella raccolta hanno riferimenti espliciti all’amore e alla sessualità, sempre capaci di assicurare un immediato successo. Ma è possibile, in sede critica, limitare il Decameron all’interno di un giudizio relativo alla fruizione di massa e quindi ridurlo ai soli aspetti più trasgressivi (come risulta da un semplice passaggio su Google), per ottenere il facile successo di un pubblico attratto dalle storie più piccanti? Certamente no, pur se la ricezione del Decameron è incontestabilmente segnata, in ogni paese del mondo, proprio dal carattere sensuale e laico delle sue novelle: basterebbe seguirne la storia dal punto di vista della censura. In tale prospettiva non si tratta di un successo del testo ma soltanto della maschera che gli è stata talvolta attribuita. Il Decameron non è però ovviamente, per la società letteraria e per la critica, un libro piccante ma innanzitutto il libro che ha potentemente contribuito a conferire a tutta la letteratura lo statuto di un’arte non solo attentissima ai valori linguistici ma anche ricca di valori conoscitivi ed emozionali essenziali per la convivenza civile: un’arte utile e dunque di interesse generale ed autonoma. Proprio l’attenzione estrema alla lingua e allo stile costituisce semmai ora, paradossalmente, un elemento di debolezza. Appare infatti oggi limitata a pochi capaci di intenderla, soprattutto a causa di una sintassi troppo complessa, pur se i tentativi di traduzione in italiano moderno pertengono proprio alle problematiche di una ricezione di massa e solo lontanamente a quella di un apprezzamento letterario approfondito1: ma non è questo in realtà il destino di ogni opera letteraria, non solo in un mondo globalizzato, ma in ogni epoca, una volta che sia stata pubblicata? E non è proprio questo il segno della grandezza di un’opera, la propria capacità di parlare a strati diversi e vari, nella società, nello spazio e nel tempo? (R. Antonelli, Il Decameron oggi, in “Critica del testo”, vol. XVI, n. 3, 2013)
1. pur se i tentativi … approfondito: la traduzione in italiano moderno è sta-
ta compiuta più per favorire la lettura da parte di tutti che per consentire di cono-
scere e apprezzare a fondo le qualità letterarie dell’opera.
COMPRENSIONE E ANALISI
> 1. Scrivi la sintesi del testo in circa 110 parole. > 2. Qual è la tesi di fondo sostenuta nel testo e su quali aspetti si concentra l’attenzione del critico? > 3. Nel testo l’autore fornisce due argomenti a favore del successo del Decameron, uno più “superficiale” e un altro più profondo: individuali e spiegali con le tue parole.
> 4. Quale elemento di debolezza è presente invece nel Decameron secondo il critico? > 5. Quale considerazione esprime l’autore nella parte finale del brano?
PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno al passo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 caratteri) sulle ragioni del successo e della durata nel tempo di un’opera d’arte. Il critico Roberto Antonelli a un certo punto del testo parla di arte «attentissima ai valori linguistici ma anche ricca di valori conoscitivi ed emozionali essenziali per la convivenza civile: un’arte utile e dunque di interesse generale ed autonoma» (rr. 19-21). Pensi che sia questo il valore di un’opera d’arte e che di conseguenza essa debba essere accessibile anche a un pubblico non specialistico? Cerca alcuni esempi e argomenta le tue affermazioni riferendoti alle tue conoscenze ed esperienze.
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PALESTRA DI ALLENAMENTO
PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito sociale argomento
Condividere storie
I giovani narratori dell’«onesta brigata» del Decameron costituiscono una comunità ideale per la quale narrare, ascoltare e dialogare non sono soltanto una gioia condivisa, ma anche uno strumento privilegiato di conoscenza del mondo e degli uomini. Nell’Introduzione alla terza giornata si coglie l’attesa che precede l’inizio del raccontare: Ma poi che, [...] il viso con la fresca acqua rinfrescato s’ebbero, nel prato vicini alla fontana venuti, e in quello secondo il modo usato postisi a sedere, a aspettar cominciarono di dover novellare sopra la materia dalla reina [regina] proposta. (G. Boccaccio, Decameron, a cura di A. Quondam, M. Fiorilla, G. Alfano, Rizzoli, Milano 2013)
Raccontare e condividere storie, trascorrendo il tempo insieme, può costituire anche oggi non soltanto un momento di divertimento, ma anche un’occasione di crescita. Qual è il tuo pensiero in proposito? Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto
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Il teatro per immagini
Il giullare L’attore protagonista del teatro medievale è il giullare. Si tratta di un professionista dello spettacolo che diverte e intrattiene il pubblico con diversi tipi di esibizioni. Ecco come si esprime Faral, che è il primo studioso ad affrontare il problema della giulleria: «[Il giullare è] un essere multiplo: è un musico, un poeta, un attore, un saltimbanco; è una sorta di addetto ai piaceri della corte di re e principi; è un vagabondo che gira per le strade e dà spettacolo nei villaggi; è il suonatore di ghironda [strumento musicale a corda] che, a ogni tappa, canta le canzoni di gesta ai pellegrini; è il ciarlatano che diverte la folla agli incroci delle strade; è l’autore e l’attore degli spettacoli che si danno i giorni di festa all’uscita della chiesa; è il conduttore delle danze che fa ballare la gioventù; è il cantastorie, è il suonatore di tromba che scandisce la marcia delle processioni; è l’affabulatore, il cantore che rallegra i festini, le nozze, le veglie; è il cavallerizzo che volteggia sui cavalli; l’acrobata che danza sulle mani, che fa giochi con i coltelli, che attraversa i cerchi di corsa, che mangia il fuoco, che fa il contorsionista; il saltimbanco sbruffone e imitatore; il buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini; il giullare è tutto ciò e altro ancora».
Lo spazIo scenIco 1. Nelle rappresentazioni medie vali è assente l’edificio teatrale. Il giullare può esibirsi nelle strade e nelle piazze oppure nei palazzi ari stocratici durante le feste private. Scompare, pertanto, il tradizionale spazio dedicato al palcoscenico che permette all’attore di avere di fronte il pubblico: ora il giullare agisce in mezzo al pubblico. Uno spettacolo molto frequente nella vita cittadina è quello dei prestigia tori che si esibiscono in vari giochi di destrezza come quello, qui raffi gurato, dei tre bussolotti.
De Sphaera, Modena, Biblioteca Estense.
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Il teatro per immagini
I musIcI 2. I musici costituiscono una categoria mol to numerosa nel panorama degli attori medie vali: si tratta di personaggi anche molto diversi tra di loro che possono spaziare da chi suona una musica angelica a chi, invece, produce delle forti e fastidiose dissonanze. La maggior parte degli intrattenitori medievali era in grado di suonare almeno uno strumen to. La scultura, in bronzo, mette in risalto la gestualità e la mimica facciale del suonatore. L’abbigliamento è particolare: una casacca e un cappello a sonagli, caratteristico dei buffoni medievali. 2
4. La musica dei giullari, vista come qual cosa che turba la normale melodia, è spesso connotata in modo negativo. Ecco la rappre sentazione di un suonatore infernale che, con tanto di corna e di ali, suona un corno su cui, a cavalcioni, sta un altro diavoletto che suona la cornamusa.
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3. Abbiamo qui cin que musici tratti da una miniatura del Bas so Medioevo. In senso orario: un suonatore di campanelli, uno di or gano portatile, uno di cornamusa, un altro di ghironda e, infine, uno di tamburelli. La ghi ronda è uno strumento a corde il cui suono vie ne prodotto da una ma novella e modulato at traverso tasti che sono in grado di modificare l’altezza delle corde e quindi emettere note diverse.
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Trèves, cattedrale, pittura murale.
Salterio Luttrell, Londra, British Library.
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I danzatorI
5. Il giullare danza per divertire il suo pubblico come ballerino solista o in gruppo. La danza prevede movimenti ampi e armonici, ma spesso i giullari, anche in questo caso come in quello della musica, amano ribaltare la situazione con la parodia. In questa miniatura abbiamo quattro buffo ni che ballano e due, con una gamba sollevata, sembra si esibiscano in una parodia di un minuetto.
6. In questo bassorilievo ve diamo due danzatori di more sca, un ballo di origine araba che prevedeva anche movimen ti acrobatici. Insieme a loro ci sono due cani ammaestrati. 6
5
Roman d’Alexandre, Oxford, Bodleian Library.
Innsbruck, Goldens Dachl.
7. Nella miniatura vediamo a sinistra quattro persone che danzano in cerchio mentre, al centro, una giova ne donna balla sulle mani; sulla destra una giullaressa fa ruotare un piatto sul dito lanciandolo in aria. È da notare la grazia di tutte le persone raffigurate e, in particolare, della giullaressa equilibrista. 7
Roman de la rose, XIII secolo, miniatura.
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Il teatro per immagini
equILIbrIstI e acrobatI 9
8. I trampolieri sono un particolare tipo di equili bristi che erano soliti arric chire le loro esibizioni con movimenti di danza più o meno buffoneschi, accom pagnati dalla musica. Nella miniatura il trampo liere sembra stia recitando una storia.
9. La colonna acrobatica costitui sce un esercizio piuttosto diffuso. Nel nostro caso abbiamo un uomo, in equilibrio su un piede solo, con sulle spalle una donna che compie gesti ar moniosi con le braccia. Salterio Luttrell, Londra, British Library.
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10. In questa miniatura vediamo, sulla destra, una giullaressa che tie ne in equilibrio una spada aiutandosi con un bastone. Nella parte a sinistra e al centro ab biamo probabilmente una scena di preparazione dello spettacolo che la giullaressa sta eseguendo con un ra gazzo che suona il flauto e il tambu rello e un uomo che dispone le spade su un tavolo per preparare lo spetta colo di equilibrismo. 10
Salterio Luttrell, Londra, British Library.
Cambridge, University Library.
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I contorsIonIstI 11
11. Il contorsionista è un giul lareacrobata che usa il proprio corpo come strumento di abilità per divertire il suo pubblico. In questa scultura abbiamo un contorsionista che flette il busto all’indietro assumendo così una forma quasi mostruosa. Bisogna però tenere conto del fatto che spesso queste sculture sono condi zionate dallo spazio in cui vengo no realizzate e che quindi possono dare luogo a evidenti incongruen ze anatomiche. Foussais, chiesa di St. Hilaire, archivolto.
12. È questa una figura inserita in un capitello e quindi risente delle limitazioni (e deformazioni) formali di cui abbiamo detto nella didascalia della figura 11. L’esercizio che compie il contorsionista è quello che si definisce “ponte” e consiste nel flettere totalmente il corpo fino, come in questo caso, ad afferrarsi le caviglie piegando la schiena all’in dietro.
13. La miniatura rappresenta un contorsionista che flette il proprio corpo al limite del possibile. Il giullare tiene in mano due cembali (strumenti musicali a percussione) con cui batte il ritmo della sua esibizione. 13
12
St. Parize-le-Châtel, capitello della cripta.
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Salterio Rutland, Londra, British Library.
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GLI ammaestratorI dI anImaLI 14. Un altro campo in cui i giullari esercitano la loro funzione di intrattenitori è quella per cui si esibiscono come ammaestratori di animali. La miniatura ci mostra un ammaestratore di cani colto nel momento in cui ne fa saltare uno in un cerchio mentre un altro, sulla sinistra, è pronto a compiere lo stesso esercizio.
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Cambridge, Trinity College Library.
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15. In questa miniatura abbiamo un ammaestratore con una scimmia. L’uomo costringe l’animale a compiere una capriola e lo dirige con un bastone.
Breviario di Marguerite de Bar.
16. È questo un disegno che mostra un ammaestratore di leone nell’atto di frustare un cane. È probabile che i domatori medie vali facessero questo perché il leone avesse paura e così fosse pron to a eseguire gli ordini dell’ammaestratore.
16
Salterio della Regina Maria.
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La condanna deLLa chIesa 17. La Chiesa attacca violentemente e condanna il giullare – e il teatro tut to – per motivi ben precisi. In primo luogo perché l’attore è colui che trasforma e trasfigura il proprio cor po e cioè va contro natura. La Chiesa in ciò è estremamente precisa: ogni ele mento che vada contro natura va contro la volontà di Dio creatore. In secondo luogo l’attore viene condannato perché non ha fissa dimora. L’essere giro vago è una colpa agli occhi della Chiesa e dei potenti del Medioevo dal momento che rappresenta un’anomalia sociale e un’ec cessiva apertura spirituale. La terza accusa è rivolta all’uso che i giul lari fanno della musica. Vengono condan nati coloro che frequentano le taverne e, con la loro esibizione canora, inducono la gente a compiere dissolutezze. In questa stampa, che rappresenta la Stultifera navis (la nave dei folli), vediamo una rappresentazione che accosta giullari buffoni, follia e peccato. Al centro una giullaressa si specchia in un ostensorio in modo blasfemo dal momento che fa coinci dere il peccato della vanità con la parodia dell’oggetto sacro per eccellenza. I buffoni che accorrono sulla nave hanno orecchie animalesche che rappresentano il legame del folle con la forza bruta e prolifica. 18. Questa miniatura è inserita nella lettera D che è la prima del salmo 53 della Bibbia in cui si dice della corruzione cui porta l’ateismo e inizia “Dixit…” “Lo stol to ha detto nel suo cuore: non c’è Dio”. Il giullare stolto e buffone è qui rappre sentato da condannato come esempio di ateismo: è di fronte a un re che indica il cielo per affermare l’esistenza di Dio. Il buffone ha in mano un bastone che porta sulla cima una vescica di porco es siccata, riempita di piselli secchi e usata come sonagliera.
Salterio di Wilton Abbey, Londra, Royal College of Physicians.
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17
Stultifera navis, stampa del 1530.
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19. Il folle (insipiens) nella Bibbia è colui che nega l’e sistenza di Dio. Certe categorie di giullari deriverebbero da questa figura rappresentata nuda, con la testa rasata e con un bastone nella destra e una sfera nella sinistra. Bisogna tenere conto che le rappresentazioni medievali non tendono a restituire la realtà: per questo motivo questa imma gine e quella seguente non è certo si rifacciano a rappresen tazioni giullaresche o invece a stereotipi culturali o ad altro. Resta il fatto che comunque il giullare è spesso visto come un perverso. Nella miniatura vediamo un insipiens che discute col re Da vide.
20. Elementi magici, in questa mi niatura, sono la sfera e il serpente. La prima rappresenta il mondo che il folle pretende di controllare attraver so la magia. Il secondo, simbolo del la metamorfosi, morde l’insipiens a un calcagno rappresentando forse la sua capacità di divenire altro da ciò che è. 20
19
Assisi, Biblioteca del Sacro Convento.
21. Le “feste dei folli” costitui scono un momento del rovescia mento parodico e carnevalesco della vita decisamente condanna to dalla Chiesa. Nella miniatura vediamo un chierico minore, che svolge la parte di “vescovello”, a cavallo di un asino. Il vescovel lo benedice un’altra persona che ride. L’asino è solitamente simbolo della sessualità e della sregolatez za e, in quanto tale, del peccato. Cavalcato al contrario è parodia blasfema di Cristo che entra a Ge rusalemme proprio a cavallo di un asino.
Londra, British Library.
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Lancelot du Lac, New Haven, Yale University Library.
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Glossario N.B. Il presente glossario si riferisce esclusivamente a termini che compaiono nel volume; non pretende in nessun modo di essere un dizionario di retorica, metrica, linguistica, narratologia ecc.
a Accumulazione Figura retorica che consiste nell’allineamento di termini sia in forma ordinata sia accostando in modo disordinato oggetti, sentimenti, concetti ecc. (in tal caso si parla di “accumulazione caotica”). Ady´naton (termine greco, che significa “impossibile”). È una figura retorica, che consiste nel sottolineare con enfasi un fatto impossibile. Ad esempio: «Quando avrò queto il core, asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve» (Petrarca, Giovane donna sotto verde lauro, Canzoniere, XXX, vv. 9-10). Afèresi (dal greco aphairéo, “tolgo via”). È la caduta di una vocale o di una sillaba all’inizio di una parola. Es.: «fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno» (Dante, Inferno, I, 110). Agiografia (dal greco ághios, “santo”, e grápho, “scrivo”). Biografia di un santo, arricchita con notizie leggendarie e meravigliose, con intento celebrativo. A questo genere appartengono ad esempio i Fioretti di san Francesco. Agnizione (dal latino agnitio, “riconoscimento”). Procedimento proprio delle opere narrative o drammatiche. Consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda. Es.: nel Filostrato di Boccaccio, la scoperta che Biancofiore è la figlia di un nobile romano. Alessandrino v. settenario. Allegoria (dal greco állon, “altro”, e agoréuo, “dico”). Procedimento tipico della cultura medievale (ma già presente in quella tardo romana), che consiste nell’individuare, nelle scritture, dei sensi ulteriori, di carattere morale e religioso, al di là della semplice lettera. Ad esempio Fulgenzio, scrittore latino del VI secolo d.C., individuava nelle vicende di Enea, nel poema virgiliano, la storia dell’anima che attraverso prove e ostacoli giunge alla salvezza. Il metodo di lettura allegorico fu poi esteso dalla cultura cristiana medievale alle Sacre Scritture. Oltre a interpretare allegoricamente testi preesistenti, nel Medioevo si composero anche opere di impianto allegorico. Un esempio insigne è la Commedia di Dante. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi (v.) in due o più parole vicine. Es.: «Leone, lasso, or no è» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è
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stagion, v. 31); «come da corda cocca» (Dante, Inferno, XVII, v. 136). Anacoluto (dal greco anakólouthos, “che non segue”). Costrutto in cui avviene una rottura della regolarità sintattica. Es. «Quel hom ke se caza in boca le die impastruliae, / le die non èn plu nete» (Bonvesin de la Riva, Le cinquanta cortesie da desco, vv. 143144: Quell’uomo che si caccia in bocca le dita impiastricciate, le dita non sono piò pulite): come si vede, la frase inizia come se «Quel hom» dovesse essere il soggetto, poi invece soggetto diviene «le die». Anacronia (dal greco aná, “indietro” e chrónos, “tempo”, cioè “sovvertimento temporale”). Nel racconto, la rottura della successione cronologica dei fatti, per cui vengono raccontati dopo fatti avvenuti prima di altri. Ad esempio nel II canto dell’Inferno si racconta la discesa di Beatrice nel Limbo, per sollecitare l’intervento di Virgilio in aiuto di Dante nella selva del peccato: questo evento è anteriore a quelli narrati nel canto I. Anacrusi Fenomeno consistente nell’aggiunta, all’inizio del verso, di una o più sillabe atone, che precedono quella accentata. Lo si riscontra, ad esempio, in numerose laude di Iacopone da Todi. Anafora (dal greco aná, “di nuovo”, e phéro, “porto”). Ripresa della stessa parola, o di un gruppo di parole, all’inizio di più versi o membri del periodo consecutivi. Es.: «S’i’ fosse fuoco, arderei ’l mondo; / s’i’ fosse vento, lo tempesterei; / s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei» (Cecco Angiolieri, S’i’ fosse fuoco, vv. 1-3). Anagramma (dal greco aná e grámma, “inversione delle lettere”). Inversione delle lettere che compongono una parola, per formarne un’altra di diverso significato. Es. «… Quel ch’i’ più bramo. / L’ombra che cade…» (Petrarca, sonetto CLXXXVIII del Canzoniere, vv. 8-9): come si vede, «ombra» contiene, in ordine diverso, le stesse lettere di «bramo». Analessi (dal greco análepsis, “ripresa”). In narratologia indica l’inserimento nel racconto di avvenimenti del passato, che dà origine ad un’anacronia (v., con il relativo esempio). Anastrofe (dal greco anastrophé, “inversione”). Inversione dell’ordine normale delle parole in una frase. Es.: «una lonza leggiera e presta molto» (Dante, Inferno, I, v. 32), dove «molto» è posposto a «presta».
Anfibologia Discorso ambiguo, interpretabile in due modi diversi. Ad esempio nella novella di frate Cipolla, «volare i pennati», dove il termine «pennati» può voler dire sia “pennuti”, sia “roncole per potare”. Antifrasi (dal greco antíphrasis, “locuzione contraria”). Figura retorica che consiste nel fare un’affermazione, intendendo il contrario di quello che si dice. Es. «Onore e segnoria / adunque par e che ben tutto abbiate» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è stagion, vv. 87-88): in realtà l’affermazione è fatta in tono sarcastico, perché i Fiorentini, con la sconfitta di Montaperti, hanno perso tutta la loro potenza. Antitesi (dal greco antíthesis, “contrapposizione”). Figura retorica che consiste nella contrapposizione di due idee, ottenuta accostando termini di significato contrario. Es.: «Pace non trovo, e non ho da far guerra; / e temo, e spero, et ardo, e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere, CXXXIV, vv. 1-2). Antonimo (dal greco antí, “contro” e ónoma, “nome”). Parola che ha significato opposto ad un’altra. Sugli antonimi è fondata l’antitesi (v.). Antonomasia (dal greco antí, “contro”, e ónoma, “nome”: mettere un nome al posto di un altro). Figura retorica che consiste nel sostituire un nome comune con un nome proprio, capace di rappresentare tutta una categoria. Es.: “Tartufo” per “ipocrita”. Viceversa si può designare un nome proprio con un nome comune, quando l’oggetto del riferimento è tanto famoso da essere immediatamente identificabile. Es.: “il Filosofo” per Aristotele. Apostrofe (dal greco apostrophé, “mutamento” [di tono]). Figura retorica che consiste nel rivolgere la parola, in tono vibrante e concitato, ad una persona o a una cosa personificata. Es.: «Italia, mia, ben che ’l parlar sia indarno» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 1). Asindeto (dal greco asy´ndeton, “senza legami”). Coordinazione dei membri della proposizione o del periodo senza l’uso di congiunzioni. Es.: «Di qua, di là, di giù, di su li mena» (Dante, Inferno, V, v. 40). Asse sintagmatico - Asse paradigmatico Concetti fondamentali della linguistica, che hanno trovato applicazione anche nell’analisi dei testi letterari. I rapporti tra le unità costitutive della lingua, fonemi (v.), lessemi (v.), sintagmi (v.) ecc., sono di due tipi. Nel discorso le unità si dispongono insieme con le altre in una successione lineare,
Glossario in cui ciascuna di esse entra in un rapporto di contiguità con quella che precede e con quella che segue: è questo l’asse sintagmatico del linguaggio (o asse della combinazione). Ad esempio nella frase: «Oggi è una bella giornata» l’asse sintagmatico è costituito dalla serie delle varie parole collocate una dopo l’altra, con implicazioni sintattiche tra di loro (soggetto, predicato ecc.). Ma ognuna di queste parole, al di fuori di quella singola frase, ha rapporti con gli altri elementi del sistema linguistico generale. Ad esempio «oggi» con «ieri» o «domani», «bella» con «bellezza», o «brutta», o «bruttezza». Questi non sono rapporti in atto, come quelli sintagmatici, ma virtuali; possono essere istituiti solo dalla memoria del parlante, che richiama per similarità od opposizione altri elementi del sistema linguistico. È questo l’asse paradigmatico (o della sostituzione). Ognuno di noi, parlando o scrivendo, seleziona termini e costrutti nel sistema globale della lingua (secondo l’asse paradigmatico), poi li combina nel discorso a formare frasi e periodi (lungo l’asse sintagmatico). Comporre un testo verbale insomma implica sia un’attività di selezione sia un’attività di combinazione degli elementi selezionati. Le stesse operazioni possono valere per la costruzione o per la lettura di un testo letterario. Ad esempio un testo narrativo si può esaminare nella successione lineare dei vari elementi che costituiscono l’intreccio (v.), la fabula (v.) o il modello narrativo (v.), rilevando i rapporti di contiguità che li uniscono; oppure ogni elemento può essere visto in relazione con altri elementi non contigui, a cui rimanda nel sistema globale del testo, oppure con il sistema dell’opera generale dell’autore, o addirittura con il sistema letterario del momento storico in cui si colloca il testo (motivi, procedimenti narrativi, retorici, stilistici ecc.). Assonanza Si ha quando due o più parole al termine del verso presentano le stesse vocali a partire da quella tonica. Es.: «podagra» / «m’agrava» / «piaga» (Iacopone da Todi, O Segnor per cortesia, vv. 23-25). Autodiegetico Narratore (dal greco autós, “medesimo”, diégesis, “narrazione”). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette. È il Narratore che è protagonista della storia da lui stesso raccontata. Esempio la Divina Commedia, in cui a raccontare è Dante stesso.
b Ballata o canzone a ballo. È un componimento legato in origine alla danza, quindi accompagnato dalla musica. È costituita da versi endecasillabi, spesso misti a settenari, ed è divisa in un numero variabile di strofe, ciascuna delle quali è preceduta da uno stesso ritornello o ripresa. Ogni strofa è divisa in tre parti: le prime due, eguali tra
loro, sono dette piedi; la terza, che di norma è uguale alla ripresa, è detta volta. L’ultimo verso della volta rima sempre con l’ultimo verso della ripresa. A seconda del numero dei versi della ripresa la ballata è detta grande (4 versi), mezzana (3 versi), minore (2 versi), piccola (1 verso). Alla forma della ballata sono riconducibili anche la lauda (ad esempio quelle di Iacopone) e il Canto carnascialesco (ad esempio il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici).
c Cantàri Poemi cavallereschi, di argomento carolingio o arturiano, che venivano cantati nelle piazze o per le strade da cantori girovaghi. Da essi hanno tratto i materiali ed anche certi aspetti narrativi i grandi poemi cavallereschi rinascimentali, il Morgante di Pulci, l’Orlando innamorato di Boiardo, l’Orlando furioso di Ariosto. Canzone È un componimento in origine accompagnato dalla musica, introdotto dai trovatori provenzali (canso). In Italia è stata usata dai poeti siciliani, da Guittone, dagli stilnovisti, da Dante, ed ha assunto la sua forma definitiva con Petrarca. È costituita da un numero variabile di strofe, composte da endecasillabi o da endecasillabi misti a settenari, anch’essi in numero variabile. Si divide in due parti, fronte e sirima, talvolta collegate da un verso, la chiave; la fronte si divide ancora in due piedi, e la sirima in due volte. Lo schema delle rime può essere molto vario, ma esso ritorna costante in tutte le strofe. Spesso al temine si aggiunge una strofa più breve, autonoma nello schema, o ricavata dalla sirima, detta congedo o licenza, perché con essa il poeta si congeda dalla canzone, rivolgendosi al componimento stesso. Diamo come esempio una strofa della canzone Chiare, fresche e dolci acque di Petrarca (CXXVI):
Capfinidas, v. coblas capfinidas. Captàtio benevolèntiae (locuzione latina che significa “tentativo o ricerca di ottenere benevolenza”). In letteratura è un procedimento retorico con cui l’autore, spesso nell’esordio di una composizione (per esempio nel poema epico), cerca di suscitare un atteggiamento benevolo da parte del lettore. Un esempio di captatio benevolentiae è la terza ottava dell’Orlando furioso, in cui Ariosto si rivolge al cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I: «Piacciavi, generosa Erculea prole, / ornamento e splendor del secol nostro, / Ippolito, aggradir questo che vuole / e darvi sol può l’umil servo vostro […]” (Ariosto, Orlando furioso, I, 3). Cesura (dal latino caedo, “tagliare”). Pausa che divide un verso in due membri, detti emistichi (v.). Es.: «Ché siete angelicata // criatura» (Cavalcanti, Fresca rosa novella, v. 18). Chiasmo Disposizione incrociata dei membri di una proposizione o di un periodo. Es.: «… la mia donna laudare / ed asembrarli la rosa» (Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare, v. 1). Il nome proviene dalla lettera greca X, che si legge “chi”. Infatti, indicando i quattro membri dell’esempio con a (complemento oggetto), b (verbo), b (verbo), a (complemento oggetto), e unendo mediante due lineette quelli tra loro corrispondenti, si ha appunto il segno X: a b b a Climax (dal greco klímax, “gradazione”). Una serie di parole disposte secondo un ordine di intensità crescente, o per quanto riguarda il significato o per quanto riguarda aspetti formali. Es.: «in lui non restò dramma / che non fosse odio, rabbia, ira e furore» (Ariosto, Orlando furioso, canto XXIII, 129, v. 7). Coblas capfinidas Procedimento introdotto dalla poesia trobadorica provenzale, per cui l’ultima parola di una strofa (cobla) è ripresa all’inizio della strofa successiva. Es.: «Deritto pera e torto entri in altezza? // Altezza tanto êlla sfiorata Fiore…» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è stagion, vv. 15-16).
Chiare, fresche e dolci acque ove le belle membra pose coli che sola a me par donna;
1o piede
Gentil ramo ove piacque (con sospir mi rimembra) a lei di fare al bel fianco colonna;
2o piede
Fronte
erba e fior, che la gonna leggiadra ricoverse co’ l’angelico seno; aer sacro, sereno, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse; date udienza insieme a le dolenti mie parole estreme.
chiave 1a volta Sirima 2a volta
Lo schema delle rime risulta: abC (1° piede), abC (2° piede), c (chiave); dee (1ª volta), DfF (2ª volta).
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Codice 1. Termine della linguistica e della semiologia: l’insieme di norme che rendono possibile la comunicazione di un messaggio. Per esempio nella comunicazione verbale il codice è la lingua a cui facciamo riferimento: se scriviamo “sole” ci comprendiamo se facciamo tutti riferimento al codice “lingua italiana”, ed intendiamo che si parla dell’astro che ci illumina; chi farà invece riferimento al codice “lingua francese” non comprenderà, o meglio, intenderà tutt’altra cosa, in quanto in francese sole vuol dire “sogliola”. Da questo si può capire come il significante (v.) sia arbitrario: non c’è nessun rapporto necessario tra quella serie di lettere che compongono la parola italiana “sole” e l’oggetto designato (referente, v.); tant’è vero che le stesse lettere in un’altra lingua vogliono dire tutt’altra cosa. Anche per la letteratura esistono codici che rendono possibile la comprensione dei messaggi (i testi): certe convenzioni formali, certi motivi ricorrenti in un dato momento culturale. Ad esempio per noi moderni, che non possediamo più il codice dell’allegoria, risulta difficile comprendere le allegorie di Dante, mentre per i contemporanei, che possedevano quel codice, era del tutto agevole. 2. Libro manoscritto, composto di fogli rilegati insieme. Composta (rima), v. rima. Congedo È l’ultima strofa di una canzone (v.), in cui il poeta si “congeda” dal componimento rivolgendosi direttamente ad esso. Connotazione Concetto della linguistica: indica un valore supplementare che un segno assume, oltre a quello di designare un determinato oggetto, o referente (v.), che è invece il compito della denotazione (v.). Ad esempio il termine “lumi”, in senso denotativo, si riferisce a quegli oggetti che fanno luce; nella poesia amorosa invece designa abitualmente gli occhi della donna amata, con tutte le implicazioni che essi portano con sé nel codice cortese-stilnovistico (la donna portatrice di illuminazione e salvezza, in quanto creatura sovrannaturale e miracolosa ecc.). In termini linguistici, nel processo di connotazione un segno, che è l’unione di un significante e di un significato (v.), viene preso globalmente come significante di un significato più vasto e complesso. Nello schema seguente la linea continua e le minuscole indicano il processo di denotazione, la linea tratteggiata e le maiuscole indicano quello di connotazione. Su questa base torniamo all’esempio citato: i fonemi (v.) /l/, /u/, /m/, /i/ compongono il significante della parola “lumi”, che rimanda al significato “oggetto che fa luce”: questo è il processo di denotazione; ma a sua volta il segno “lumi”, unione di quel significante e di quel significato, diviene il significante di un nuovo significato di livello superiore, più
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ampio e comprensivo, che indica appunto, come si diceva, l’illuminazione beatificante che proviene da quell’essere sovrumano che è la donna amata: questa è la connotazione. 1. significante
2. significato
3. segno I. SIGNIFICANTE
II. SIGNIFICATO
III. SEGNO
Cursus L’insieme delle regole che nella retorica medievale fissavano i vari tipi di cadenze ritmiche dei periodi, determinate dal gioco degli accenti delle parole, che rendevano il discorso in prosa affine alla poesia in versi.
d Denotazione Processo di comunicazione che ha la semplice funzione di designare un oggetto (referente, v.), senza altri sensi supplementari (connotazione, v.). Dentali Fonemi appartenenti alla serie delle consonanti occlusive (v.), cioè quelle che si pronunciano occludendo interamente, per un attimo, il canale della fonazione. Nel caso delle dentali, la chiusura del canale avviene appoggiando la punta della lingua alla base dei denti incisivi superiori. La dentale sorda è la /t/, la sonora è la /d/. Non esistono in italiano dentali fricative (a differenza dell’inglese; cfr. i suoni iniziali delle parole three e the, che sono fricativi interdentali, rispettivamente sordo e sonoro). Esistono però le affricate, che si pronunciano chiudendo e aprendo il canale: la /z/ sorda e sonora (“azione”, “zona”). Determinismo Concezione presente nella filosofia e nella scienza sin dall’antichità, e tornata in auge nell’età moderna. Consiste nel vedere la realtà regolata da rapporti di causa ed effetto necessari e inevitabili, senza possibilità di scarto o libertà di scelta: data una certa causa, non può che scaturire un certo effetto. Ad esempio, lasciato libero un grave, esso non può che cadere verso il basso. Tale concezione va spesso unita con il materialismo. Deviata (rima), v. rima. Diacronia (dal greco diá, “attraverso”, e chrónos, “tempo”). Termine della linguistica: indica le trasformazioni che i fatti linguistici subiscono nel corso del tempo: ad esempio, il mutamento della pronuncia o del senso di certe parole, la caduta in disuso di certi termini e l’ingresso di nuovi. In senso più largo, può indicare lo svolgersi di qualunque altro fenomeno nel corso del tempo (v. sincronia). Dialefe, v. iato. Dialettica Procedimento logico proposto dalla filosofia idealistica tedesca ai primi
dell’Ottocento, in particolare da Hegel. Essa consiste in un superamento della contraddizione tra opposti distribuito in tre momenti, tesi, antitesi e sintesi: la tesi è la proposizione di un concetto astratto; l’antitesi rappresenta la negazione, l’opposto della tesi, e la sintesi costituisce l’unità e l’inveramento dell’una e dell’altra. Poiché per Hegel razionale e reale si identificano, cioè tutta la realtà è pensiero, la dialettica non è solo la legge del pensiero, ma la legge della realtà intera. Tutta la realtà si muove dialetticamente, e perciò la filosofia hegeliana ravvisa dovunque tesi, antitesi e sintesi. Un esempio di dialettica hegeliana è il disegno della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870-71): il Medioevo è l’età dell’ideale, del puro trascendente (tesi); il Rinascimento è l’età del reale, che esclude la trascendenza (antitesi); l’età romantica è l’età dell’ideale calato nel reale, di cui I promessi sposi sono l’esempio più significativo (sintesi). La nozione di dialettica è stata ripresa da Marx e dai suoi seguaci, ma senza il significato idealistico che essa aveva nel sistema hegeliano. Marx critica Hegel perché la sua dialettica rimane chiusa nella sfera della coscienza, non riuscendo mai ad attingere la realtà. Marx, materialisticamente, nega l’identificazione della realtà con il pensiero, e afferma la presenza di una realtà oggettiva al di fuori di esso e non riducibile ad esso; sostiene pertanto che, siccome «in Hegel la dialettica poggia sulla testa, bisogna capovolgerla»: il processo dialettico si svolge non solo tra idee astratte, ma tra realtà concrete. Nel linguaggio corrente il termine designa semplicemente il confronto di posizioni diverse nella discussione (dal greco dialektikè téchne, “arte della discussione”). Dieresi metrica è la pronuncia distinta delle due vocali di un dittongo, le quali pertanto contano come due sillabe. Il segno grafico è costituito da due punti sopra la prima vocale. Es. «Date udïenza insieme / a le dolenti mie parole estreme» (Petrarca, Chiare, fresche e dolci acque, CXXVI, vv. 12-13). Discorso In narratologia (v.) sta a indicare il “come” viene raccontata la storia (v.), cioè le forme dell’espressione di un racconto. Dittologia Coppia di termini (sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi) collegati dalla con-
Glossario giunzione e. Es.: «Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, vv. 1-2).
e Elegia Genere poetico delle letterature greca e latina, composto di distici di versi esametri e pentametri. Originariamente fu usato per trattare vari argomenti, guerreschi, mitici, amorosi ecc. Nella letteratura latina del I secolo, con Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio, trattò invece esclusivamente una materia amorosa e soggettiva, prediligendo i sentimenti dolorosi e malinconici. Perciò, nell’uso corrente, l’aggettivo elegiaco è venuto ad indicare uno stato d’animo o una tonalità poetica di malinconia e di tristezza, di nostalgia e di rimpianto. Nella retorica medievale invece elegiaco indicava lo stile più umile, dopo il tragico e il comico. Ellissi (dal greco élleipsis, “omissione”). In retorica, indica l’eliminazione di qualche elemento della proposizione, che viene sottinteso; es.: «Io leggo libri, tu fumetti (sottinteso leggi)». In narratologia (v.) indica l’omissione dal discorso narrativo di un qualche segmento della storia (v.). Ad esempio, nel III canto dell’Inferno, non viene raccontato come Dante passa l’Acheronte, il fiume che segna il confine della regione infernale. Emistichio (dal greco hemi, “mezzo”, e stíchos, “verso”). Una delle due parti in cui una cesura (v.) divide un verso. Ad esempio «Rosa fresca, aulentissima, // ch’apari inver la state» (Cielo d’Alcamo, v. 1). Empirico (metodo). Metodo conoscitivo che parte dai dati dell’esperienza (in greco empeiría). Endecasillabo Verso di undici sillabe, il più usato della nostra letteratura, ed anche il più vario nel ritmo degli accenti e nelle cesure (v.). Nello schema delle rime è indicato con la lettera maiuscola. I sistemi ritmici più frequenti sono: 1. accento sulla 6a e 10a sillaba: «Nel mezzo del cammìn di nostra vita» (Dante, Inferno, I, v. 1), dove in realtà si possono cogliere accenti secondari sulla 2a e 8a; 2. accenti sulla 4a, 7a e 10a: «Zefiro tórna e ’l bel tèmpo rimèna» (Petrarca, Canzoniere, CCCX, v. 1); anche qui si nota un accento secondario sulla 1ª sillaba; 3. accenti sulla 4a, 8a e 10a: «mi ritrovài per una sélva oscùra» (Dante, Inferno, I, v. 2). La cesura non ha posizione fissa, può collocarsi in vari punti del verso. Gli schemi più frequenti sono: 1. dopo un settenario: «Nel mezzo del cammin // di nostra vita»; in tal caso si ha un endecasillabo a maiore; 2. dopo un quinario: «Solo e pensoso // i più deserti campi» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, v. 1); in tal caso si ha un endecasillabo a minore. Nel primo caso il verso è formato da un settenario più un quinario, nel secondo da un quinario più un settena-
rio. Sette sillabe più cinque dovrebbero dare dodici sillabe: in realtà nel verso dantesco il settenario iniziale è tronco, quindi ha una sillaba in meno; nel verso petrarchesco la vocale finale del primo emistichio e quella iniziale del secondo contano come una sillaba sola (è la sinalefe, v.). Gli endecasillabi non raggruppati in strofe e non rimati si dicono sciolti. Enjambement (dal francese enjamber, “scavalcare”). Si ha quando la fine del verso non coincide con la fine del membro sintattico, per cui l’enunciato “scavalca” il verso e continua in quello seguente. Si ha una forte inarcatura quando vengono divise parole che compongono un sintagma (v.) unitario, come sostantivo-aggettivo, soggetto-predicato, sostantivo-complemento di specificazione, predicato verbale-complemento oggetto ecc. Es.: «… come fa l’aigua il foco / caldo» (Guinizzelli, Al cor gentil, vv. 26-27). L’enjambement può avere varie funzioni stilistiche, a seconda dei casi; in genere determina un ritmo spezzato. Entrelacement Procedimento costruttivo proprio dei poemi cavallereschi, in particolare dell’Orlando innamorato e poi dell’Orlando furioso, che consiste nell’intrecciare nel racconto numerosi fili narrativi che fanno capo a diversi personaggi, di continuo interrompendo l’uno per riprenderne un altro. Ve ne è già qualche embrione nei romanzi di Chrétien de Troyes. Enueg Termine provenzale, che significa “noia”, cioè cosa fortemente fastidiosa. Nella letteratura trobadorica indica un componimento in cui vengono elencate cose o situazioni sgradevoli. Il suo contrario è il plazer (v.). Epanalessi (dal greco epanálepsis, “ripresa”). È la ripresa di una parola o di un gruppo di parole di una frase nella frase successiva. Es. «Tu no te di’ lenze le die; le die, ki le caza in boca…» (Bonvesin de la Riva, Le cinquanta cortesie da desco, vv. 141142: tu non ti devi leccare le dita; le dita, chi le caccia in bocca…). In genere ha una funzione di sottolineatura enfatica. Epidittico (dal greco epidéiknymi, “dimostro”). Genere dell’eloquenza antica che serviva a dimostrare. Epitesi (dal greco epíthesis, “aggiunta”). È l’aggiunta di una sillaba alla fine di una parola. Es.: «salutòe» per salutò, «fue» per fu. Equivoca (rima), v. rima. Eterodiegetico (dal greco héteros, “altro, diverso”, e diéghesis, “narrazione”). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette: indica il narratore che non è presente come personaggio nel racconto. Es.: il narratore del Lancillotto di Chrétien de Troyes, delle novelle del Decameron ecc. È l’opposto di omodiegetico (v.). Eufemismo (dal greco eu, “bene”, e phemí, “parlo”): figura retorica con cui si attenua un’espressione troppo cruda, o sconveniente. Es.: «Passare a miglior vita» per “morire”.
f Fabula Termine della narratologia (v.): indica gli avvenimenti dell’intreccio (v.) ricostruiti nella loro successione cronologica e causale, che nell’intreccio può essere sovvertita. Figura Concetto proprio della cultura medievale: nel disegno divino ogni fatto della storia poteva essere visto come prefigurazione di altri fatti, verificatisi posteriormente. In tal modo veniva letta la storia biblica: ad esempio Mosè che salva gli Ebrei dall’Egitto era considerato come profezia di Cristo, che salva l’umanità dal peccato; in tal caso Mosè è la “figura”, Cristo è l’“adempimento” di essa. In questa concezione “figurale”, sia la “figura” sia l’“adempimento” sono persone o eventi reali, storici, non pure allegorie (v.): Mosè non “significa” un concetto astratto, ma preannuncia un’altra persona reale, che è Cristo. Senza perdere nulla della sua concretezza storica, tuttavia la “figura” si realizza più compiutamente nell’“adempimento”, che si colloca ad un livello più alto di significazione. È chiara quindi la differenza tra “figura” e allegoria: nella “figura” significante e significato (Mosè e Cristo nel nostro esempio) sono storici e reali, mentre nell’allegoria il significante può essere reale o immaginario (le tre fiere del I canto dell’Inferno), ed il significato è sempre un concetto astratto (ad esempio la lupa è la Cupidigia, la lonza è la Frode, il leone è la Violenza). Questa concezione figurale è alla base della Commedia: tutti i personaggi che Dante incontra nei tre regni d’oltretomba nella loro vita terrena erano la “figura” della loro vita nell’al di là, e, viceversa, la loro apparizione nell’al di là è l’“adempimento” della loro esistenza sulla terra. L’esistenza dell’individuo nella vita terrena ha qualcosa di provvisorio e imperfetto, che trova una realizzazione completa solo nella collocazione eterna entro il sistema divino delle pene e delle beatitudini. La concezione figurale nella Commedia è stata messa in luce da Erich Auerbach in numerosi studi. Figura etimologica Figura retorica che consiste nell’accostamento di termini derivanti dalla stessa radice. Es.: «esta selva selvaggia e aspra e forte» (Dante, Inferno, I, v. 5); «D’indegno far così di mercé degno» (Petrarca, Canzoniere, XXIII, v. 102). Focalizzazione Termine della narratologia (v.). È il procedimento per cui i fatti di un racconto sono presentati da un particolare punto di vista, in modo che l’informazione sugli eventi narrati rechi l’impronta della soggettività di chi “vede”. Vi può essere focalizzazione sul Narratore (v.), quando il racconto è presentato attraverso l’ottica del Narratore, focalizzazione sul personaggio quando i fatti della storia sono visti attraverso la prospettiva del personaggio. Gérard Genette dà una sistemazione diversa dalla nostra: parla di focalizzazione zero quando vi è un narratore onnisciente e il canale dell’informazione non subisce restrizioni soggettive, di focalizzazione interna quando il punto di vi-
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sta coincide con quello del personaggio, di focalizzazione esterna quando la narrazione presenta il personaggio solo dall’esterno, attraverso i suoi comportamenti, senza aver accesso alla sua psicologia e senza indicare le motivazioni psicologiche dei suoi atti. Fonema (dal greco phonè, “suono”). È la più piccola unità del linguaggio. In linguistica si indica con le lettere dell’alfabeto tra due barrette, /a/, /p/, /t/, /r/ ecc. Mentre i suoni che l’apparato fonatorio dell’uomo può emettere sono infiniti, i fonemi, le unità dotate di senso, sono in numero limitato: questo perché il fonema è un’astrazione da una molteplicità di suoni concreti, un modello ideale. Ad esempio i vari parlanti A, B, C… Z emettono ciascuno un suono a diverso; ma tutti questi suoni si possono riferire al modello astratto /a/, e ciò permette la comprensione reciproca. I fonemi, combinandosi fra loro, danno origine ai monemi, unità fornite di senso grammaticale e morfologico (in termini semplici, le parole). Fonosimbolismo In poesia (ma anche nella prosa, artistica e non), i suoni che compongono le parole possono assumere significati autonomi, cioè possono significare di per sé, non solo in quanto si combinano a formare la parola. Il caso più comune di fonosimbolismo è l’onomatopea, in cui il suono della parola imita il suono dell’oggetto designato. Es.: «non avria pur da l’orlo fatto cricchi» (Dante, Inferno, XXXII, v. 30), dove il termine «cricchi» col suo suono imita lo scricchiolio della lastra di ghiaccio del Cocito. Ma talora i suoni hanno un potere evocativo più vasto, meno determinato, non sono suoni che imitano altri suoni. Ad esempio nel canto XIII dell’Inferno, cioè nell’episodio della selva dei suicidi, Spitzer ha notato come l’insistenza del poeta su suoni aspri, con scontri duri di consonanti, voglia evocare l’idea dello storpiare, mutilare, smembrare, che è appunto la sorte delle anime punite in quel girone. Fricativa In linguistica, indica una consonante pronunciata senza chiudere totalmente il canale della fonazione, lasciando cioè filtrare dell’aria. Sono consonanti fricative ad esempio /f/, /v/. Mentre le occlusive (v.) danno un suono momentaneo, le fricative danno un suono che può essere prolungato. Fronte È la prima parte della strofa della canzone (v.). Funzione Termine proposto da Vladimir Ja. Propp, studioso russo della fiaba popolare, nella Morfologia della fiaba (1928). Indica le unità minime che compongono il racconto della fiaba, costituite dalle azioni, depurate delle determinazioni particolari ad ogni testo, cioè degli attributi specifici dei personaggi che le compiono. Le stesse funzioni ricorrono in tutto il corpo della “fiabe di magia” studiate da Propp (un centinaio), ed in successione costante, individuando così un modello narrativo (v.) comune a tutte le fiabe. Funzioni del linguaggio Secondo il linguista russo Roman Jakobson, perché vi sia comunicazione linguistica occorre: (1) un emittente, che invia (2) un messaggio a
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(3) un destinatario. Per essere compreso il messaggio richiede (4) il riferimento ad un referente, (5) un codice comune all’emittente e al destinatario, che permetta la decodificazione del messaggio, e infine un contatto, (6) un canale di comunicazione. Questi sei fattori indispensabili possono essere rappresentati secondo questo schema: REFERENTE (o contesto) EMITTENTE MESSAGGIO DESTINATARIO CANALE (o contatto) CODICE A questi fattori rispondono sei funzioni del linguaggio: REFERENZIALE EMOTIVA POETICA CONATIVA FÀTICA METALINGUISTICA Funzione referenziale: si ha quando la comunicazione si incentra sul referente, cioè quando si limita a fornire informazioni sull’oggetto di cui si parla. Funzione emotiva: si ha quando la comunicazione è incentrata sull’emittente, cioè mette il rilievo lo stato d’animo del soggetto nell’emettere il messaggio. Funzione conativa: si ha quando la comunicazione è incentrata sul destinatario, cioè quando col messaggio si cerca di ottenere su di esso un certo effetto, per indurlo a reagire in un certo modo, a compiere certe azioni. Tipiche forme di linguaggio conativo sono il comando, la preghiera, l’esortazione. La funzione conativa ha grande parte, ad esempio, nella predica religiosa, nella lezione dell’insegnante, nel discorso dell’oratore politico che vuol convincere il parlamento o gli elettori, nella pubblicità che deve indurre a comprare un prodotto. Funzione poetica: si ha quando la comunicazione è incentrata prevalentemente sul messaggio in se stesso, quando cioè il messaggio ha una sua autonomia formale: è il caso del testo letterario (o artistico in genere). L’opera letteraria parla di qualcosa (funzione referenziale), esprime i sentimenti dell’autore (funzione emotiva), vuole spesso ottenere certi effetti sul pubblico, diffondere idee, valori (funzione conativa): però ciò che fa di essa un’opera letteraria è la volontà dell’autore di conferire autonomia alla forma in quanto tale. Funzione fàtica: si ha quando la comunicazione si incentra sul canale della comunicazione, per verificare se c’è il contatto col destinatario. Classico esempio è il «Pronto?» della comunicazione telefonica, o il «mi ascolti?» che usiamo parlando con qualcuno, o anche il diffuso intercalare «no?», che serve appunto per saggiare se il destinatario sta seguendo il nostro discorso. Funzione metalinguistica: si ha quando la comunicazione è incentrata sul codice, cioè quando il linguaggio parla del linguaggio stesso (è questo il significato del prefisso meta-). Un esempio è quando l’insegnante, nel fare lezione, spiega certi termini tecnici. Questa stessa voce del Glossario è un esempio di funzione metalinguistica del linguaggio.
Naturalmente queste sei funzioni possono anche essere compresenti contemporaneamente in un unico messaggio (o una parte di esse). Tuttavia vi sarà sempre una funzione predominante a caratterizzarlo.
g Gallicismo Elemento linguistico dell’italiano derivato dalle lingue galliche, il francese (lingua d’oïl) e il provenzale (lingua d’oc). Propriamente si usa gallicismo quando non è possibile determinare con certezza da quale di quelle due lingue derivi il termine italiano; altrimenti è preferibile usare i termini francesismo o provenzalismo.
h Hy´steron próteron (dal greco, rispettivamente “posteriore” e “anteriore”). È un’inversione dei concetti rispetto all’ordine logico, e consiste nel collocare prima il concetto che dovrebbe venire dopo. Es.: «Qual grazia, qual amore, o qual destino / mi darà penne in guisa di colomba, / ch’i’ mi riposi, e levimi da terra?» (Petrarca, Canzoniere, LXXXI, vv. 12-14): come si vede, il “levarsi da terra” precede logicamente il “riposare” nella beatitudine eterna, anche se è posto dopo.
i Iato (dal latino hiatus, “apertura di bocca”). In metrica, si ha quando la vocale finale di una parola e quella iniziale di quella successiva fanno due sillabe distinte, senza dar luogo alla sinalefe (v.). Es.: «O animal grazioso e benigno» (Dante, Inferno, V, v. 88). Incipit (3a persona singolare del verbo latino incipio, “comincio”). Termine tecnico ad indicare l’inizio di un testo letterario. Inclusiva (rima), v. rima. Interna (rima), v. rima. Interrogativa retorica Interrogativa che contiene già implicitamente la risposta, e quindi equivale ad un’affermazione. Es.: «Non è questo il terren ch’io toccai pria?» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 81). Intertestualità Procedimento letterario in cui si può osservare la ripresa, a vari livelli (strutturale, tipologico, tematico, stilistico), di elementi derivati da altre opere. Tale procedimento è assai diffuso nei diversi generi della letteratura medievale, dove conta, più che la ricerca dell’originalità, il rispetto della tradizione, secondo forme e canoni prestabiliti. Intreccio In narratologia (v.) indica la successione degli elementi costitutivi della sto-
Glossario ria (v.), nella forma in cui si presentano concretamente nel discorso (v.): i rapporti temporali possono essere rovesciati da anacronie (v.), personaggi ed azioni conservano i loro attributi individuali e specifici, a differenza che nel modello narrativo (v.), che si colloca invece ad un livello massima astrazione rispetto al testo concreto. Iperbato (dal greco hypérbaton, “inversione”). È un’inversione dell’ordine naturale delle parole. Es.: «Quel che ’n altrui pena / tempo si spende» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 106-7), dove l’aggettivo «quel» è separato dal suo sostantivo «tempo» da un’intera proposizione relativa. È un procedimento stilistico caro in particolare alla poesia classicheggiante, che cerca con esso di riprodurre le inversioni tipiche della lingua latina. Iperbole (dal greco hyperbolé, “lancio oltre il limite”). È l’esagerazione di un concetto o di un’immagine. Sono tutte iperboliche le immagini della donna nella poesia cortese e stilnovistica: «Tenne d’angel sembianza / che fosse del Tuo regno» (Guinizzelli, Al cor gentil, vv. 58-59), «fa tremar di chiaritate l’âre» (Cavalcanti, Chi è questa che vèn, v. 2), «e par cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare» (Dante, Tanto gentile, vv. 7-8). Ipotassi (dal greco hypótaxis, “subordinazione”). Rapporto di subordinazione di una o più proposizioni rispetto alla principale del periodo. Si contrappone alla paratassi (v.), che consiste nell’allineare le proposizioni sullo stesso piano, mediante la coordinazione. Ironia (dal greco eironéia, “dissimulazione”). Procedimento che consiste nell’intendere il contrario di ciò che si sta dicendo esplicitamente; viene spesso usato con intenti parodici o sarcastici. Iterativa (narrazione). Nella terminologia narratologica introdotta da Genette consiste nel raccontare una sola volta ciò che accade n volte.
l Labiale Consonante che si articola chiudendo le labbra. La labiale occlusiva (v.) sorda è /p/, la sonora /b/. Vi sono poi le fricative (v.) labiali, sorda /f/ e sonora /v/, e la nasale /m/. Lassa Strofa con numero di versi non fisso e lunghe sequenze di versi quasi sempre con la stessa rima o la stessa assonanza. Lessema Unità del linguaggio composta dalla combinazione dei fonemi (v.). È il minimo elemento linguistico provvisto di significato. Praticamente consiste nella parola. Linguaggio referenziale, v. referente. Liquida Consonante che si pronuncia con una vibrazione della lingua: /l/, /r/. È durativa, cioè il suono può essere prolungato, a differenza delle occlusive (v.) che sono momentanee.
Lìtote (dal greco litós, “semplice”). Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario, al fine di attenuare l’espressione. Es.: «non molto» per «poco», «non bello» per «brutto».
m Macrocosmo, v. microcosmo. Metafora (dal greco metaphérein, “trasferire”). Figura retorica che consiste nel sostituire un termine proprio con un altro, il cui significato ha con il primo un rapporto di somiglianza. Es.: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?» (Dante, Inferno, I, vv. 79-80). Metateatrale È la parte di un testo teatrale in cui si parla del teatro stesso, delle sue convenzioni, delle sue regole. Tale carattere metateatrale possiedono in genere i prologhi delle commedie cinquecentesche, come ad esempio quello della Mandragola. Metonìmia (dal greco metonymía, “scambio di nome”). Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine proprio con un altro, che ha con il primo un rapporto di contiguità, logica o materiale. Es.: lo scambio di causa ed effetto: «di trista vergogna si dipinse» (Dante, Inferno, XXIV, v. 64), cioè di rossore, effetto della vergogna; la materia per l’oggetto: “legno” per “nave”, “ferro” per “spada”; il contenente per il contenuto o viceversa: “bere un bicchiere”; l’astratto per il concreto: «bavarico inganno» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 66), per “Tedeschi ingannatori”; l’autore per l’opera: “leggere Dante”; il simbolo per la cosa simboleggiata: «L’uno il pubblico segno ai gigli gialli / oppone» (Dante, Paradiso, VI, vv. 100-101), cioè i Guelfi oppongono all’aquila, simbolo imperiale, i gigli d’oro, simbolo della monarchia francese. Microcosmo (dal greco mikrós, “piccolo”, e kósmos, “mondo”). È il singolo uomo, o il singolo essere animato in genere, in rapporto con l’universo intero, o macrocosmo. Già nel pensiero antico si postulava una corrispondenza tra micro e macrocosmo: ciò presupponeva la concezione di un universo come organismo, simile all’uomo, e fornito di anima. Tale corrispondenza fu poi uno dei temi preferiti dalla letteratura magica. La magia infatti intende dominare il mondo naturale sul presupposto che il mondo sia un organismo, e che tutti i suoi aspetti siano controllabili come quelli di un essere vivente. Erano idee molto diffuse in epoca rinascimentale, a partire dal Quattrocento. Su questa base si fondava anche la medicina. Modello narrativo Concetto della narratologia (v.): il modello si ricava attraverso la comparazione di più testi narrativi, individuandone le azioni fondamentali (v. funzione), prescindendo dai soggetti che le compiono e dai loro attributi individuali e specifici in ognuno dei testi particolari. Si colloca sull’asse sintagmatico (v.) del testo.
Monolinguismo Forma della scrittura letteraria caratterizzata da uno stile omogeneo e uniforme (la radice deriva dal greco mónos, “unico”). Secondo i princìpi della poetica e della retorica medievali, lo stile può essere umile, medio o elevato, a seconda della realtà rappresentata e del genere letterario in cui viene trattata. Ogni contenuto presuppone, quindi, uno stile ad esso conveniente e il “monolinguismo” consiste appunto nel rispetto di queste rigide distinzioni. Un esempio significativo di “monolinguismo” è costituito dalla lirica amorosa del Petrarca, in cui sentimenti tutti ideali e spirituali trovano espressione in uno stile particolarmente raffinato e levigato, che si basa sulla musicalità del verso e sulla scelta di parole attentamente selezionate, riferite alle qualità più nobili e preziose dell’esistenza. Ne risulta un sistema linguistico profondamente unitario, dal quale viene respinto ogni elemento contrastante o dissonante. Al “monolinguismo” si contrappone il “plurilinguismo” (o “mistilinguismo”), ossia un tipo di scrittura che utilizza diversi registri stilistici, relativi a realtà anche molto lontane fra di loro. Un esempio di opera plurilinguistica è costituito dalla Divina Commedia, in cui vengono utilizzate le forme di linguaggio più diverse ed eterogenee: tra queste il linguaggio stilnovistico della passione amorosa, nel canto di Paolo e Francesca (Inferno, V); il linguaggio plebeo e scurrile dell’incontro con i diavoli (Inferno, XII); l’arduo e sublime linguaggio filosofico e mistico-religioso di numerosi luoghi del Paradiso. Queste due tendenze, che si possono idealmente ricondurre ai nomi di Dante e Petrarca, caratterizzano l’intero sviluppo della letteratura italiana e sono state indagate, con grande intelligenza, da Gianfranco Contini. Il “monolinguismo” rispetta perlopiù le norme linguistiche stabilite dalla cultura ufficiale; il “plurilinguismo” tende invece a violare queste norme e cerca effetti di più intensa forza espressiva, che, mescolando fra loro gli stili e insistendo sulla loro dissonanza, possono giungere sino alla deformazione parodica, caricaturale e grottesca.
n Narratario Nella terminologia narratologica è il destinatario del racconto del narratore (v.). Ad esempio, nel Decameron, narratari sono gli altri nove giovani della brigata che ascoltano il narratore di turno. Il narratario è una funzione del testo, cioè fa parte della finzione narrativa, quindi non è da confondere con il destinatario reale, in carne ed ossa. Il “lettore” a cui si rivolgono spesso i narratori, tra cui Dante, è un’entità fittizia, postulata dal testo. Tali sono anche i «signori et cavallier» a cui si rivolge il Boiardo. Spesso il narratario è un’entità solo virtuale, non menzionata nel testo, ma l’atto stesso del raccontare presuppone un destinatario a cui si rivolge il racconto.
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Narratologia Disciplina che studia il testo narrativo, sia sul versante della storia (v.) sia su quello del discorso (v.)., in cui si può trovare una trattazione essenziale degli elementi basilari della disciplina. Narratore Nella terminologia narratologica indica la “voce” che racconta. Può essere un personaggio della storia stessa, come nella Commedia di Dante, o come in tanti romanzi moderni (Il fu Mattia Pascal di Pirandello, per esempio): è allora omodiegetico (v.); oppure può essere una voce fuori campo, che non fa parte del mondo della storia narrata, come i narratori dei romanzi di Chrétien de Troyes o dei poemi di Pulci o Boiardo (narratore eterodiegetico, v.). Nel primo caso è ovvio che il narratore è distinto dall’autore reale; ma la distinzione vale anche nel secondo caso: il narratore è una funzione del testo, e fa parte dell’universo della finzione. Nasale Consonante che si pronuncia con una risonanza nelle fosse nasali: si distingue una nasale dentale, /n/, una palatale, /ñ/ (il suono gn di “gnocco”), una labiale, /m/. Naturalismo Termine dai molti sensi. In questo volume si parla di naturalismo rinascimentale, cioè di quella concezione che vede la natura in se stessa con valore autonomo, non più come simbolo di una realtà sovrannaturale, come nel Medioevo. In base a questa concezione, tutto ciò che fa parte della natura è positivo e degno di considerazione, mentre nel Medioevo le cose della natura erano considerate imperfette in sé, quindi da vedere con distacco. Ne deriva anche la rivalutazione degli istinti, in particolare dell’amore, che viene inteso come forza sana e positiva, innocente, che è colpa contrastare: è la concezione che domina il Decameron di Boccaccio, e viene teorizzata nell’Introduzione alla IV giornata. Nuclei Nella terminologia narratologica sono i nodi essenziali dell’intreccio (v.), che non si possono eliminare senza cambiare la logica dell’intreccio stesso.
o Occlusiva Consonante che si pronuncia chiudendo per intero, momentaneamente, il canale della fonazione. A seconda del punto in cui avviene la chiusura, si hanno le velari (/k/, /g/), le palatali (/cˇ /, /gˇ /, i suoni di “cena” e “giorno”), dentali (/t/, /d/), labiali (/p/, /b/). Omodiegetico Narratore (dal greco homós, “uguale”, e diéghesis, “narrazione”). È il Narratore (v.) presente tra i personaggi stessi della storia raccontata. Ad esempio Adso di Melk, il monaco che racconta la vicenda nel Nome della rosa di Eco. Se il Narratore è il protagonista stesso, si parla di Narratore autodiegetico (v.). Omofonia (dal greco homós, “uguale”, e phoné, “suono”). Identità di suoni tra parole diverse. Ad esempio volto, che può avere il
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senso di “viso” (sostantivo), oppure può essere il participio passato di “volgere”. Omoteleuto (dal greco homós, “uguale”, e teleuté, “fine”). Figura retorica che consiste nel far terminare due o più parole, successive o in posizioni simmetriche, allo stesso modo. Nella poesia in volgare la rima è una forma di omoteleuto. Onomatopea Figura retorica che consiste nel riprodurre, mediante i suoni di una parola, un suono naturale (v. fonosimbolismo). Opposizione Termine della linguistica. In un sistema linguistico, ogni elemento si definisce ed acquista significato in quanto si oppone ad altri facenti parte dello stesso sistema. Es.: “cane” e “pane” si distinguono perché il fonema /k/ si oppone al fonema /p/. Il meccanismo per cui il significato di un elemento si definisce in modo differenziale per opposizione ad altri elementi vale per ogni tipo di sistema, anche per il testo letterario. Ad esempio in un sistema di personaggi (v.), il significato di un personaggio si definisce per opposizione rispetto a quello degli altri: come nel caso di Tancredi e Ghismunda nella novella boccacciana, in cui la forza eroica della fanciulla si definisce in opposizione alla debolezza del padre. L’opposizione si indica convenzionalmente con il segno vs, che è l’abbreviazione dell’inglese versus, contro (v.). Ossimòro (dal greco oxy´s, “acuto”, e morós, “insensato”: “acuta insensatezza”). È un’apparente insensatezza, che in realtà è acuta; consiste nella combinazione di due termini tra loro in contraddizione, che sembrano escludersi l’un l’altro. Es.: «Fera bella e mansueta» (Petrarca, Canzoniere, CXXVI, v. 29); «Le die […] brutamente furbie» (le dita sporcamente pulite, Bonvesin de la Riva, Le cinquanta cortesie da desco, v. 142). Ottava Strofa composta in genere di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata: ABABABCC. Usata da Boccaccio per il Filostrato, il Teseida, il Ninfale fiesolano, è poi divenuta la strofa per eccellenza della poesia epico-narrativa nei poemi cavallereschi rinascimentali, il Morgante di Pulci, l’Orlando innamorato di Boiardo, l’Orlando furioso di Ariosto, ma anche nel poema eroico di Tasso, la Gerusalemme liberata. Ottonario Verso di otto sillabe. Come è proprio dei versi con numero pari di sillabe, gli accenti ricorrono di regola sempre nelle stesse sedi, creando un ritmo cadenzato e un po’ monotono. Gli accenti principali cadono sulla 3a e sulla 7a sillaba, con altri due accenti secondari sulla 1a e sulla 5a. Es.: «O Segnòr per cortesìa / mànname la malsanìa» (Iacopone).
p Palatale Consonante che si pronuncia con la lingua contro il palato. Vi sono palatali occlusive, /cˇ /, /gˇ / (cena, giorno) sibilanti,
/š/ (la sc di scena), liquide, / l˜ / (la gl di aglio), nasali, /ñ/ (la gn di gnocco). Tutta la serie palatale mancava nel latino antico ed è comparsa solo nelle lingue romanze. Pertanto l’alfabeto latino non possedeva segni alfabetici per designarle e da ciò deriva il fatto che nelle lingue moderne questi fonemi devono essere indicati con gruppi di consonanti, come gl, gn, sc, oppure da lettere dell’alfabeto (grafemi) che hanno una doppia valenza: c e g infatti in italiano indicano sia il suono palatale sia il suono velare, a seconda della vocale che segue: cena-cane, giornoguerra. In altre lingue europee l’occlusiva palatale /cˇ / si indica invece con un gruppo di grafemi, in francese tch, in inglese ch, in tedesco tsch. Paradigmatico, v. asse paradigmatico. Paradosso (dal greco pará, “contro”, e dóxa, “opinione”). Figura logica che consiste in un’affermazione apparentemente assurda, ma in realtà valida. Ad esempio l’evangelico «gli ultimi saranno i primi». Paraipotattica (da ipotassi, v., e paratassi, v.). Congiunzione che coordina la proposizione principale a una proposizione subordinata precedente. Si vedano i vv. 3-8 del sonetto di Cecco Angiolieri Dante Alleghier, s’i’ so’ buon begolardo: «s’i’ desno con altrui, e tu vi ceni; / s’io mordo ’l grasso, e tu vi sughi el lardo» ecc.; oppure la Storia di fra Michele minorita, in più luoghi (ad esempio paragrafo XXI: «E più oltre, essendogli anche detto, et esso disse quasi sorridendo»). Paratassi (dal greco pará, “vicino”, e táxis, “disposizione”). Rapporto di coordinazione tra varie proposizioni di un periodo. Si contrappone ad ipotassi (v.). Paronomàsia (dal greco pará, “presso”, onomasía, “denominazione”). Accostamento di parole simili nel suono, ma diverse nel significato. Es.: «Miei dì fersi / morendo eterni, e ne l’interno lume» (Petrarca, Canzoniere, CCLXXIX, vv. 12-13): le due parole «eterni»/«interno» hanno un gruppo di ben quattro fonemi in comune. Rientrano in questa categoria anche l’anagramma (v.) e il paragramma, che è l’accostamento di due parole che si distinguono solo per un fonema, esempio viso-riso, cane-pane. Pastorella Genere di composizione poetica introdotto dai trovatori provenzali, in cui un cavaliere, portavoce dei valori cortesi, cerca di piegare all’amore una donna del popolo, in genere di campagna. Pausa Si ha quando, in un racconto, il tempo della storia è = O: il racconto non procede, ed in luogo della narrazione di eventi vi sono descrizioni, divagazioni, spiegazioni ecc. Perifrasi (dal greco períphrasis, “discorso che si aggira intorno”). Si ha quando viene usato un giro di parole per indicare una persona, un oggetto o un concetto. Es.: «La nettarea bevanda ove abbronzato / fuma ed arde il legume a te d’Aleppo / giunto, e da Moca…», per indicare il caffè (Parini, Mattino, vv. 140-143).
Glossario Personificazione Figura retorica che consiste nel conferire esistenza concreta a un’entità astratta, attribuendole comportamenti e/o discorsi. Es.: «Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso» (Dante, Paradiso, XI, vv. 74-75). Plazer (termine provenzale, pronuncia plazér). Forma di componimento poetico introdotta dai trovatori provenzali, in cui vengono elencate cose piacevoli che il poeta augura a sé o ai propri amici. Ne sono un esempio le due corone dei mesi e dei giorni della settimana di Folgòre da San Gimignano ed il sonetto Guido, i’ vorrei di Dante. È il contrario dell’enueg (v.). Pleonasmo (dal greco pleonasmós, “sovrabbondanza”). Si ha quando si usa un numero di parole superiore a quello necessario logicamente. Sono frequenti nella lingua parlata: «A me mi piace», «ma però». Plurilinguismo, v. monolinguismo. Poetica 1. Nella tradizione classica indica i trattati che fissano le norme dello scrivere poetico (la Poetica di Aristotele, l’Arte poetica di Orazio). 2. Oggi il termine è comunemente usato ad indicare il complesso delle concezioni di un autore, o di un movimento, intorno all’arte, ed anche il programma artistico che essi si prefiggono. Poliptòto (dal greco poly´ptotos, “dai molti casi”). Figura retorica per la quale una stessa parola è usata a breve distanza con funzioni sintattiche diverse. Es.: «Ei già scendendo a me, giudice fea / me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio» (Parini, Alla Musa, vv. 38-39). Polisemia (dal greco poly´ s, “molto”, e sèma, “significato”). Indica il carattere proprio della poesia e del testo letterario e artistico in genere, che esprime più significati, interpretabili in più modi. Polisindeto (dal greco poly´ s, “molto”, e syndéo, “lego insieme”). Coordinazione tra più membri sintattici all’interno di una proposizione, o di più proposizioni fra loro, mediante ripetute congiunzioni. Es.: «e ’l riso e ’l pianto e la paura e l’ira» (Petrarca, Canzoniere, XXXII, v. 11). Preterizione Si ha quando si dichiara di voler tacere una cosa, ma proprio attraverso tale dichiarazione la cosa viene enunciata e messa in evidenza. Es.: «Cesare taccio che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne / di lor vene» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 49-51). Prosopopea (dal greco prosopopoiía, “personificazione”). Figura retorica che consiste nel rappresentare come persone reali cose inanimate o astratte. Ad esempio nel Dialogo delle corti di Pietro Aretino, la corte è personificata.
q Quartina Strofa composta di quattro versi (endecasillabi, decasillabi ecc.) variamente
rimati. Può avere rime alternate o incrociate (v. rima); vi sono anche quartine monorime, in cui tutti e quattro i versi presentano la stessa rima (AAAA). Sono quartine di endecasillabi le prime due strofe del sonetto (v.). Queste (termine del francese antico; in francese moderno quête). È la “ricerca” in cui sono impegnati i cavalieri del ciclo bretone nelle loro avventure. L’oggetto può essere la donna, come nel Lancillotto di Chrétien de Troyes, oppure il Santo Graal, la mitica coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo sulla croce, come nel Perceval dello stesso autore.
r Rara (rima), v. rima. Razo (termine provenzale, pronuncia razó). Nelle raccolte manoscritte delle liriche trobadoriche le razos sono i testi in prosa che spiegano le circostanze in cui le poesie sono state composte. Da esse ha tratto spunto Dante per i commenti in prosa alle sue liriche nella Vita nuova. Referente Termine della linguistica: è l’oggetto designato dal segno (v.) linguistico. Ad esempio il referente della parola “albero” è l’albero concreto di cui noi parliamo, che si può vedere fuori della finestra, oppure il concetto generale di “albero”. Referente può anche essere un concetto astratto, la virtù, la felicità. Referenziale è il linguaggio che intende semplicemente designare dei referenti, senza sovrasensi ulteriori; si svolge quindi al livello della semplice denotazione (v.), escludendo ogni forma di connotazione (v.), nonché le altre funzioni del linguaggio, emotiva, poetica, fàtica, conativa, metalinguistica (v. funzioni del linguaggio). Ricca (rima), v. rima. Rima Si ha la rima quando due o più versi hanno uguale terminazione a partire dalla vocale accentata. Vi sono però, oltre a questo che è il caso più semplice, numerosi tipi di rima, che rispondono a vari artifici e sono usati particolarmente dai poeti dei primi secoli. Rima univoca: quando in rima tornano le stesse parole, con lo stesso significato. Es.: «Ennantir sì, che ’l piagar quasi a morte / […] / e perdonò lor morte» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è stagion, v. 40 e v. 44). Rima equivoca: quando in rima compaiono parole identiche nel suono, ma diverse nel significato. Es.: «O cameretta che già fosti un porto / […] / che ’l dì celate per vergogna porto» (Petrarca, Canzoniere, CCXXXIV, v. 1 e v. 4): nel primo verso «porto» è sostantivo, nel secondo 1a persona presente del verbo “portare”. Rima ricca: quando l’identità comprende almeno la consonante che precede la vocale tonica. Es.: «vile reman, né ‘l sol perde calore / […] / lui semblo al fango, al sol gentil valore» (Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 32-34)
Rima composta: quando riunisce più parole, in genere monosillabi. Es.: «Cercando lui tra questa gente sconcia / […] / e men d’un mezzo di traverso non ci ha» (Dante, Inferno, XXX, v. 5 e v. 87): come si vede la rima si ha solo alla pronunzia. Rima al mezzo o interna: quando cade all’interno del verso. Es.: «Gaiamente cantando / vostro fin presio mando – a la verdura» (Cavalcanti, Fresca rosa novella, vv. 4-5): qui la rima interna cade al termine del primo emistichio (v.), che è un settenario come il verso precedente. Rima siciliana: si ha quando rimano i e é chiusa, u e ó chiusa. Es.: «Sanza mia donna non vi vorìa gire / […] / ché sanza lei non poteria gaudere» (Iacopo da Lentini, Io m’aggio posto in core, v. 5 e v. 7); «Pistoia e Colle e Volterre fanno ora / […] / Montalcin sta sigur senza le mura» (Guittone d’Arezzo, Ahi lasso, or è stagion, v. 80 e v. 83). Deriva dal fatto che nella lingua siciliana in luogo di e chiusa e o chiusa si aveva rispettivamente i e u, quindi una rima vera e propria; nella trascrizione toscana rimasero invece queste rime imperfette; ma anche poeti toscani come Guittone, Cavalcanti e Dante vi hanno fatto ricorso, per omaggio alla grande tradizione siciliana. Rima rara: quando riguarda parole che terminano con combinazioni di suoni rari, per cui la rima è difficile da trovare. Es.: «scuffa»/ «muffa»/«zuffa» (Dante, Inferno, XVIII, vv. 1048); «Lucca»/«zucca»/«stucca» (ibidem, vv. 122-26). Rima derivata: avviene tra due parole che hanno la stessa radice. Es.: «disagio»/ «agio». Rima inclusiva: quando una delle due parole in rima è contenuta nell’altra. Es. «raggio»/ «miraggio». A seconda della loro disposizione nella strofa le rime prendono vari nomi (nello schema si indicano con le lettere dell’alfabeto, maiuscole per i versi lunghi, minuscole per i versi brevi, ottonari, settenari, senari, quinari): Baciate, quando le rime si succedono in versi consecutivi. Schema: AA, BB ecc. Es.: «Né ben se può pensar senza dottrina / la summa maiestate alta e divina» (Boiardo, Orlando innamorato, libro I, canto XVIII, v. 44). Vi può essere rima baciata anche tra versi di diversa lunghezza, come endecasillabo e settenario. Es.: «e torni l’alma al proprio albergo ignuda. / La morte fia men cruda» (Petrarca, Canzoniere, CXXVI, v. 19-20). Alternate, quando i versi dispari rimano con i dispari ed i pari con i pari. Schema: ABAB. Es.: «Io m’aggio posto in core a Dio servire / com’io potesse gire in Paradiso, / al santo loco ch’aggio audito dire, / u’ si mantien sollazzo, gioco e riso» (Iacopo da Lentini). Incrociate o chiuse, quando il primo verso rima col quarto e il secondo col terzo. Schema: ABBA. Es.: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ’l core / in sul mio primo giovenile errore / quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono» (Petrarca, Canzoniere, I, vv. 1-4). Incatenate, quando in una serie di terzine
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Scena Nella terminologia narratologica, si ha quando tempo della storia (v.) e tempo del discorso (v.) coincidono. Segno Nella terminologia linguistica, ciò che vale a designare un certo concetto (significato, v.) attraverso un’espressione fonica (significante, v.): il segno è dato quindi dall’unione di un significante ed il significato. Vi sono però anche segni non linguistici (una vignetta disegnata, un cartello stradale, un modo di vestire, un gesto o una mimica). Semantica (dal greco semáino, “significo”). La parte della linguistica che studia i significati. Semiologia (dal greco sèma, ”segno”, e lógos, “scienza”). È la scienza che studia i segni (v.) linguistici e non linguistici. Fu postulata dal fondatore della linguistica strutturale, Ferdinand de Saussure (1857-1913), ed ha recentemente avuto grandi sviluppi (oggi si preferisce usare il termine semiotica). In particolare la semiotica letteraria studia, con i metodi semiotici, quel particolare segno che è il testo letterario. Senhal (termine provenzale, pronunzia segnàl). Poiché l’amore cortese deve restare segreto, il poeta non può menzionare il nome della donna amata nelle sue poesie; ricorre quindi a pseudonimi o indicazioni allusive. Ancora Petrarca dissemina senhal di Laura nei suoi versi. Es.: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi», «Giovene donna sotto verde lauro». Sestina 1. Strofa composta di sei versi; schema più comune ABABCC. 2. Si indica anche semplicemente come “sestina” la canzone sestina, una forma di canzone composta di sei strofe di sei versi ciascuna, in cui ritornano sempre, di strofa in strofa, le stesse sei parole in rima, ma in ordine diverso. È un tipo di componimento altamente artificioso, che esige eccezionale perizia tecnica. Fu usato dai trovatori provenzali, in particolare da Arnaut
Significato In linguistica, il concetto a cui rimanda l’espressione fonica, il significante (v.). Sillaba aperta-chiusa La sillaba è aperta quando finisce in vocale, chiusa quando finisce in consonante. Esempio, in “pa-ne” pa è sillaba aperta, in “pan-na” pan è sillaba chiusa. Sillogismo (dal greco sylloghismós, “coordinazione di concetti”). È una forma di ragionamento definita da Aristotele, che ebbe poi grande fortuna nel pensiero medievale, dominato dall’aristotelismo della Scolastica. Ve ne sono varie forme, ma quella fondamentale è composta da una premessa universale, evidente di per sé, da una premessa minore e da una conclusione che scaturisce dalla combinazione delle due precedenti. Esempio classico: «Tutti gli uomini sono mortali» (premessa generale); «Socrate è uomo» (premessa minore); «Socrate è mortale» (conclusione). Similitudine Figura retorica che consiste nel confrontare due termini facendo uso di avverbi o espressioni di paragone (“come”, “simile a”, “sembra”, “pare”). Es.: «Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie, / similemente il mal seme d’Adamo / gittansi di quel lito ad una ad una, / per cenni come augel per suo richiamo (Dante, Inferno, III, vv. 112-117). Sinalefe (dal greco sy´ n, “insieme”, e aleípho, “unisco”). In metrica è la fusione della vocale finale di una parola con quella iniziale della parola successiva nel verso. Le due vocali si pronunciano distinte, ma metricamente contano come una sillaba sola. Es.: «Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, vv. 1-2). Sincronia (dal greco sy´ n, “insieme”, e chrónos, “tempo”). Termine della linguistica. Una descrizione sincronica di una lingua esamina i rapporti funzionali che si istituiscono fra i vari elementi del sistema linguistico (fonemi, lessemi…) in un dato momento del suo sviluppo, prescindendo dagli stati precedenti e successivi. Si oppone all’analisi diacronica (v. diacronia), che studia invece le trasformazioni del sistema linguistico nel corso del tempo. Oltre ai sistemi linguistici anche altri sistemi si possono studiare sincronicamente o diacronicamente: ad esempio il sistema letterario. Si può studiare la letteratura vedendo lo sviluppo di temi, generi, forme, stili ecc. in senso diacronico; ma si può operare una sezione trasversale della letteratura, studiando i rapporti tra tutti questi elementi in un dato momento della storia, in contemporanea. Ad esempio: i rapporti tra il linguaggio aulico della poesia amorosa (siciliani, stilnovisti) e quello delle forme più popolari (rime giullaresche, comico-parodiche) a metà del Duecento (studio sincronico del sistema letterario); oppure l’evoluzione del tema della “satira del villano” dal Medioevo al Rinascimento, sino ai nostri giorni, o ancora le trasformazioni dei rapporti con i classici antichi fra Medioevo e Rinascimento (studio diacronico).
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Daniel, il caposcuola del trobar clus (v.). In Italia fu ripresa da Dante nelle rime “petrose” e da Petrarca. Settenario Verso di sette sillabe. Come è proprio dei versi dal numero di sillabe dispari, lo schema degli accenti può essere molto vario. Restando fisso l’accento sulla penultima sillaba, gli altri possono variare sulla 1a, 2a, 3a, 4a. Il settenario, in combinazione con l’endecasillabo, è il verso abitualmente usato nella canzone (v.) e nella ballata (v.). Due settenari uniti formano il verso alessandrino, così detto perché fu usato per la prima volta nel romanzo francese di Alessandro Magno, XII secolo. Nella letteratura francese è rimasto il verso principe, con una funzione paragonabile a quella del nostro endecasillabo. In Italia, nel Duecento, è usato in componimenti di natura giullaresca, come il Contrasto di Cielo d’Alcamo («Rosa fresca aulentissima // ch’apari inver’ la state», dove il primo dei due settenari è sempre sdrucciolo), ed anche nei componimenti didattici degli scrittori settentrionali, Bonvesin de la Riva, Giacomino da Verona. Siciliana (rima), v. rima. Significante In linguistica, è l’espressione fonica che rimanda ad un concetto (significato, v. ). Ad esempio nella parola “sole” il significante è la serie dei fonemi /s/, /o/, /l/, /e/, combinati in quella successione. Significante e significato danno origine al segno (v.). Vi possono anche essere segni non linguistici, come i cartelli stradali, l’abbigliamento ecc. In un cartello stradale il significante è costituito dalla forma (rotonda, triangolare), dai colori e dalla loro disposizione; ad esempio un triangolo col vertice in basso, bianco orlato di rosso, è un significante che rimanda al significato “dare la precedenza”. I significanti sono arbitrari, cioè non hanno nessun rapporto naturale, intrinseco e necessario con i significati e i referenti: nel senso che nascono da convenzioni tra i parlanti, e tra coloro che comunicano con segni non linguistici. Ad esempio non vi è nessun rapporto necessario tra i fonemi che compongono la parola “sole” e l’oggetto sole; tant’è vero che in altre lingue il significato si esprime con significanti del tutto diversi, francese soleil, inglese sun, tedesco Sonne. Così non vi è nessun rapporto necessario tra il cartello “precedenza” e il concetto di precedenza. Possono però darsi, sempre per convenzione, segni iconici, in cui il significante ha relazione con il significato: ad esempio il cartello «strada sdrucciolevole» che rappresenta un’auto che sta sbandando (ma comunque l’associazione forma triangolare del cartello = “pericolo” è sempre convenzionale e arbitraria). In altre epoche, come ad esempio nel Medioevo, si credeva invece che vi fosse un rapporto necessario tra i significanti e i significati («Nomina sunt consequentia rerum»: “i nomi sono conseguenza delle cose”). Per Dante ad esempio Beatrice è colei che dà la beatitudine.
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(v.) il verso di mezzo di ognuna di esse rima con il primo e il terzo della successiva. Schema: ABA, BCB, CDC ecc. È lo schema della terzina dantesca: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita. // Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinnova la paura!» (Inferno, I, vv. 1-6). Una forma imperfetta di rima è l’assonanza (v.), quando coincidono solo le vocali, a partire dall’accento tonico. Ripresa È il ritornello della ballata (v.). Rispetto (o strambotto). Componimento di carattere popolare, di norma amoroso. Consiste in un’ottava (v.), con lo schema ABABABAB, oppure ABABABCC. Poteva essere usato in serie (rispetti continuati) oppure da solo (spicciolato).
Glossario guente (AAAb, BBBc, CCCd ecc.): è questa la forma del citato Sirventese dei Lanbertazzi e dei Geremei. Sistema È un insieme di elementi, ciascuno dei quali ha una funzione precisa in rapporto a tutti gli altri, di modo che, se viene modificato, si determina una modificazione di tutto l’insieme. Secondo la linguistica strutturale la lingua è un sistema; anzi, ognuno dei suoi livelli (fonologico, morfologico, lessicale, sintattico, semantico) costituisce un sistema. Diamo un esempio a livello lessicale-semantico. Si prenda questa serie di verbi latini: pono (“pongo”), mitto (“mando”), mando (“affido”), fido (“ho fiducia”). Nel passaggio all’italiano si sono verificati spostamenti di significato, che sono avvenuti appunto all’interno di un sistema, nel senso che la “casella“ lasciata libera da uno dei verbi è stata occupata da un altro, a catena: PONO
MITTO
MANDO mando
FIDO
metto
Sineddoche (dal greco synekdoché, “l’accogliere in sé”). È la figura retorica che si ha indicando la parte per il tutto (o viceversa). Es.: «Piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali / spera ’l Tevero e l’Arno, / e ’l Po, dove doglioso e grave or seggio» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 4-6), dove con i tre più importanti fiumi della Penisola si indica l’Italia intera. Sinèresi o sinizèsi (dal greco synáiresis, “contrazione”, e synízesis, “condensazione”). In metrica si ha quando due o più vocali, che appartengono a sillabe diverse, si considerano una sillaba sola. È il contrario della dieresi (v.). Es.: «Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni» (Dante, Inferno, VI, v. 79). Sinestesia (dal greco sy´ n, “insieme”, e áisthesis, “sensazione”). Fusione delle sensazioni. Consiste nello scambiare tra loro sensazioni diverse, di carattere visivo, fonico, tattile e olfattivo; ad esempio un suono può evocare immagini visive. Un caso famoso è il sonetto Corrispondenze di Baudelaire: «Vi sono profumi freschi come carni di bimbo / dolci come oboi, verdi come praterie» (vv. 9-10); una sinestesia è il dantesco «d’ogni luce muto» (Inferno, V, v. 28). Sintagma (dal greco sy´ n, “insieme”, e tásso, “ordino, dispongo”). Gruppo di parole collegate fra loro da legami sintattici. Può anche essere un’unità inferiore alla proposizione, ad esempio il gruppo sostantivo-aggettivo, sostantivo-complemento di specificazione. Es.: «i più deserti campi» (Petrarca, Canzoniere, XXXV, v. 1); «una pioggia di fior» (Petrarca, Canzoniere, CXXVI, v. 42). Gli elementi di un sintagma si combinano lungo l’asse sintagmatico (v.) del discorso, cioè in sequenza lineare, uno dopo l’altro. Sintagmatico (asse), v. asse sintagmatico. Sirima È la seconda parte della strofa della canzone (v.). Sirventese (dal provenzale sirventés). Componimento poetico praticato dai trovatori provenzali. Il nome deriva da sirvén, “servente”, cioè cortigiano, oppure dal fatto che il componimento si serve dello schema metrico della canzone. In effetti, nella lirica provenzale, la sua struttura è quella della canzone, ma mentre questa tratta temi amorosi, il sirventese tratta problemi morali e politici, oppure satirici. In Italia il sirventese, che deriva il nome da quello provenzale, è una forma che fiorisce nel Due e Trecento, e mantiene i contenuti morali e politici (ad esempio il Sirventese dei Lambertazzi e dei Geremei, che tratta delle lotte fra le fazioni a Bologna nel 1275); mutano però le forme metriche, che non sono più quelle della canzone. Possono essere usati distici monorimi (AA, BB, CC ecc.) come nel Tesoretto di Brunetto Latini; oppure terzine a rime incatenate, ABA, BCB ecc. come nella Commedia di Dante; oppure strofe di quattro versi a rime alternate, ABAB, CDCD ecc.; il sirventese caudato presenta invece strofe di tre endecasillabi monorimi, seguiti da un quinario che anticipa le rime degli endecasillabi della strofa se-
affido
Anche il testo letterario è un sistema. Ad esempio in un testo narrativo i personaggi compongono un sistema di personaggi, in cui ognuno di essi ha significato non in sé, ma in relazione funzionale a tutti gli altri. Ad esempio nei Promessi sposi:
Renzo (eroe) Gertrude innominato I don Abbondio (oppositori)
I Lucia (eroina)
I don Rodrigo (avversario)
fra Cristoforo Federigo innominato II (aiutanti)
Sommario Nella terminologia narratologica, la narrazione in cui il tempo del discorso (v.) è minore del tempo della storia (v.): TD < TS, in cui cioè un lungo arco temporale, con molti eventi, è scorciato in una narrazione molto riassuntiva. Sonetto Forma metrica che compare la prima volta in Italia con la scuola siciliana nella prima metà del Duecento, e ottiene in seguito larga diffusione, imponendosi come uno dei metri più tipici della letteratura italiana sino all’Ottocento. In varie forme è stato poi ripreso da altre letterature europee. Consta di quattordici versi endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Agli inizi le quartine presentano rime alternate, ABAB, ABAB, poi i poeti stilnovisti introducono la rima incrociata ABBA, ABBA (la forma originaria tuttavia continuerà ad essere usata anche in seguito, sino a Foscolo, Carducci, D’Annunzio). Nelle terzine le rime mutano, e possono presentare vari schemi: CDE, CDE, oppure CDC, DCD, oppure ancora CDC, CDC. La parola sonet esisteva già in provenzale, ma con il significato generico di “componimento poetico accompagnato dalla musica”; solo in Italia viene a designare quella forma metrica specifica. Il primo a introdurre il sonetto fu pro-
babilmente Iacopo da Lentini. L’origine del componimento è molto discussa. Taluni sostengono che esso deriva da una forma di poesia popolare, lo strambotto, che, nella sua forma siciliana, è composto da otto endecasillabi a rime alternate, ABABABAB. Tuttavia gli strambotti giunti sino a noi sono tutti posteriori all’epoca in cui compare il sonetto. Altri invece sostengono che sia nato da una stanza di canzone, usata singolarmente. Infatti le due quartine potrebbero corrispondere alla fronte e le due terzine alla sirima (v. canzone). Vi è però una difficoltà: nessuna delle canzoni siciliane presenta strofe di soli endecasillabi, con un sistema di rime analogo a quello del sonetto. Storia Nella terminologia narratologica è il “che cosa” viene raccontato dal discorso (v.) narrativo. Non esiste in sé, separata dal discorso che la veicola, ma solo in quanto prende forma in tale discorso. Perciò si può ricavare dalle forme concrete del discorso di un testo narrativo, che abbiamo sotto gli occhi, solo mediante un processo di astrazione. Si può articolare, a livelli crescenti di astrazione, in intreccio (v.), fabula (v.), modello narrativo (v.). Strambotto Forma di poesia per musica che fa parte della poesia “cortigiana”; metricamente si divide in ottave di endecasillabi ed è possibile anche che sia strutturata in forma abbreviata. Straniamento Procedimento che consiste nel presentare un oggetto familiare, consueto, da una prospettiva estranea, diversa, in modo da farlo apparire strano, inconsueto o addirittura irriconoscibile. L’oggetto, in altre parole, viene distanziato, guardato da una prospettiva lontana. Lo straniamento pertanto è il contrario dell’immedesimazione. Ad esempio Ariosto guarda Orlando innamorato e pazzo da una distanza ironica, mentre Tasso si immedesima nei suoi eroi, come in Tancredi che uccide l’amata Clorinda dando origine alla propria sventura. Strofa (o stanza) Unità metrica composta di più versi. A seconda del numero di essi si ha il distico, la terzina (v.), la quartina (v.), la sestina (v.) l’ottava (v.).
t Tempo della storia / tempo del discorso Il tempo della storia è il tempo occupato dai fatti narrati nella storia. Ad esempio l’avventura di Andreuccio da Perugia si svolge nell’arco di una notte, dalla sera all’alba successiva. Tempo del discorso è il tempo impiegato dal discorso per narrare la storia. Mentre il tempo della storia è precisamente misurabile in ore, giorni, mesi, anni (se il testo fornisce le necessarie indicazioni), il tempo del discorso è un’entità convenzionale, non quantificabile in misura precisa. Tenzone (dal provenzale tenso, pronuncia tensò). È un dibattito fra due o più poe-
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Glossario ti, ciascuno dei quali sostiene una tesi contrapposta a quella dell’altro, su argomenti letterari, amorosi, filosofici. Può avvenire all’interno di uno stesso componimento, in cui i contendenti intervengono con una strofa ciascuno, oppure con lo scambio di più componimenti. Spesso la risposta è per le rime, cioè impiega le stesse rime e lo stesso schema metrico del primo componimento. È un genere diffuso nella letteratura provenzale, ma ripreso poi nella nostra poesia duecentesca. Terzina Strofa formata di tre versi. È stata consacrata da Dante nella Commedia, nella forma delle rime incatenate, ABA, BCB, CDC ecc. Topos (in greco “luogo, luogo comune”). Tema o immagine letteraria ricorrente, stereotipata. Ad esempio il topos del giardino, che percorre la letteratura nelle varie epoche, dall’antichità classica al Novecento. Traslato o tropo (dal latino translatus, “trasportato”, e dal greco trópos, “trasformazione”). Si ha quando si conferisce alla parola un significato che non è quello proprio (ma che comunque mantiene con esso relazioni di va-
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rio genere, di somiglianza o contiguità). Sono traslati la metafora (v.) la metonimia (v.), la sineddoche (v.), l’iperbole (v.). Trobar clus / trobar leu (termini provenzali: poetare “chiuso” e poetare “leggero”). Sono due tendenze della lirica trobadorica: la prima consiste in un tipo di poesia difficile e oscura, con eccesso di artifici retorici e metrici, termini rari e preziosi e immagini astruse e lambiccate; la seconda è caratterizzata da un discorso più chiaro e scorrevole, da un lessico più piano e da tecniche meno astruse.
u Univoca (rima), v. rima.
v Velare Consonante che si pronuncia appoggiando la lingua al velo pendolo. In italia-
no abbiamo la velare occlusiva sorda /k/ (“cane”) e quella sonora /g/ (“gatto”). Vida (termine provenzale: “vita”). Narrazioni in prosa premesse ad alcune raccolte di liriche trobadoriche, in cui si racconta la biografia dei poeti, con la mescolanza di elementi leggendari e romanzeschi. Voce Nella terminologia narratologica indica chi racconta in un testo narrativo. Vs È l’abbreviazione del termine inglese (di origine latina) versus, che significa “contro”. È il segno convenzionale ad indicare l’opposizione (v.).
z Zéugma (dal greco zéugma, “giogo”). È la dipendenza da un solo verbo di più termini, che esigerebbero ciascuno un proprio verbo. Es.: «Parlare e lagrimar vedrai insieme» (Dante, Inferno, XXXIII, v. 9), dove «parlare» richiederebbe un «udrai», non «vedrai».
Indice dei nomi A Adalberone di Laon, 6 Ageno Brambilla, F., 107 Agostino (sant’), 8, 13, 284, 286, 361, 382, 387, 388, 389, 391, 394, 395, 396, 397, 398, 399, 407, 409, 410, 411, 412, 418, 432, 478, 483 Agostino di Dacia, 285 Alberic, 45 Alexandre de Berney, 45 Alfieri, V., 132, 380 Amaturo, R., 424 Ambrogio (sant’), 13, 503 Angiolieri, C., 90, 175, 176-179, 180, 182 Annaud, J.-J., 220, 222 Anonimo Romano, 207 Aretino, P., 62 Ariosto, L., 35, 292 Aristotele, 91, 159, 265, 268, 284, 297, 387, 388, 618 Arnaut Daniel, 63, 64, 68-71, 73, 136, 227, 256, 288, 365 Attico, 403 Auerbach, E., 36, 41, 46, 51, 286, 287, 293, 361-363 Averroè, 159, 297, 320, 348, 451
B Bachtin, M.,180 Baglioni, C., 104 Balzac, H., 511 Baratto, M., 535, 536, 580, 582-583 Barbieri, G. M., 138 Barthes, R., 467 Bembo, P., 405 Benoît de Sainte-Maure, 31, 45, 495 Benvenuto da Imola, 318 Bernardino da Siena (san), 90, 98, 129 Bernardo di Chiaravalle (san), 231, 281, 284, 285, 287, 299, 355, 356, 357, 359, 360, 361 Bernart de Ventadorn, 63, 64, 65-68, 73 Béroul, 44 Bertran de Born, 63 Bigi, E., 434 Blake, W., 307 Boccaccio, G., 57, 89, 90, 92, 94, 121, 176, 186, 189, 190, 191, 192, 223, 244, 283, 310, 311, 325, 383, 385, 386, 405, 414,
450, 452, 478, 490-656 Boezio, S., 311 Boiardo, M. M., 35 Bonagiunta da Lucca, 150, 244 Bonaventura da Bagnoregio (san), 8, 96, 283, 284, 299 Bonvesin de la Riva, 91, 283 Borges, J. L., 313, 344, 379, 461 Borlenghi, A., 194 Bosco, U., 419 Botticelli, S., 463, 590, 591, 592, 593 Branca, V., 517, 526, 527, 528, 529, 531, 532, 533, 534, 535, 536, 537, 543, 548, 562, 566, 567, 568, 569, 571, 572, 573, 574, 580, 582, 602, 609, 625 Branduardi, A., 430 Bruegel il Vecchio, 564 Buzzati, D., 376, 377
C Calvino, I., 205 Cappellano, A., 26-28, 30, 33, 56, 74, 154, 310, 311 Carducci, G., 132, 441, 579 Casella, M., 99, 101 Cassiodoro, 12 Cataldi, P., 294-296 Caterina Benincasa da Siena (santa), 90, 119, 123-128, 129 Catone, M. P., 285, 286, 287, 363, 406 Catullo, 462 Cavalca, D., 90, 119, 129 Cavalcanti, G., 59, 67, 90, 136, 149, 150, 151, 154, 159-166, 176, 182, 183, 226, 229, 232, 239, 245, 255, 257, 258, 262, 319, 320, 323, 332, 348, 363, 372, 427, 438, 510, 511, 614, 615, 616, 623, 646 Cavani, L., 104 Chaucer, G., 92 Chrétien de Troyes, 31, 43, 44, 45-51, 65, 73, 625 Cicerone, M. T., 91, 329, 389, 402, 403, 414, 617 Cielo d’Alcamo, 90, 170-174 Cimabue, 112, 372 Cino de’Sigibuldi da Pistoia, 90, 149, 150, 272 Colocci, A., 170 Compagni, D., 92, 144, 206, 207-210, 213, 214, 223 Contini, G., 56, 58, 107, 110, 111, 135, 138,
144, 146, 147, 152, 153, 155, 157, 161, 162, 172, 173, 178, 183, 188, 207, 248, 249, 257, 260, 261, 420, 422, 426, 442, 453, 473-475, 625 Corti, M., 330, 332 Croce, B., 289, 535 Curtiz, M., 104
D D’Annunzio, G., 132, 137, 310, 441 Dante, 7, 8, 9, 31, 45, 56, 64, 67, 68, 71, 89, 90, 91, 94, 101, 121, 130, 132, 137, 142, 148, 149, 150, 151, 154, 155, 158, 159, 165, 170, 176, 182, 206, 207, 210, 213, 223, 224-379, 381, 382, 385, 387, 388, 391, 397, 398, 399, 403, 404, 405, 413, 414, 415, 416, 418, 419, 420, 421, 425, 427, 438, 440, 443, 448, 449, 453, 460, 461, 471, 473, 476, 478, 479, 480, 489, 491, 493, 497, 498, 506, 507, 510, 511, 514, 519, 526, 527, 539, 540, 557, 575, 613, 616, 623, 624, 626, 641, 642, 643, 645, 650 De André, F., 113, 430 Debenedetti, S., 139 De Luca, G., 218 De Sanctis, F., 213, 312 Dickens, C., 511 Domenico di Guzmán (san), 79, 119, 129 Doré, G., 344 Dotti, U., 450-452
E Eco, U., 204, 205, 220-222, 279, 281 Epicuro, 318, 614 Esopo, 422
F Fanon, F., 376 Faral, E., 658 Fedro, 422 Fido, F., 603 Fo, D., 114, 169, 635-639 Folgòre da San Gimignano, 90, 175, 176 Forese Donati, 256 Foscolo, U., 132, 312, 380 Francesco d’Assisi (san), 79, 90, 96, 97, 98104, 106, 112, 118, 129, 187, 188, 207, 217, 219, 220
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Frescobaldi, D., 149 Friedrich, H., 433 Füssli, J. H., 315
G Garin, E., 207 Getto, G., 97, 105, 119, 126, 265, 304, 306, 505, 506, 509, 518, 524, 535, 537 Giacomino da Verona, 91, 283 Giano della Bella, 210, 227 Giotto di Bondone, 96, 102, 230, 326, 372, 373, 564 Girolamo (san), 361, 397 Goffredo di Monmouth, 44 Goffredo di Strasburgo, 44 Gorni, G., 369 Greenaway, P., 378, 379 Guglielmo IX d’Aquitania, 63, 74-75 Guido delle Colonne, 131 Guillaume de Lorris, 56 Guinizzelli, G., 28, 59, 90, 133, 137, 150, 151-158, 159, 160, 161, 162, 176, 182, 187, 226, 232, 245, 246, 248, 253, 265, 310, 363, 365, 372, 438, 479 Guiraut de Bornelh, 63 Guittone d’Arezzo, 90, 142-148, 149, 150, 151, 182, 226, 244, 245
H Hauser, A., 29
I Iacopo da Lentini, 131, 132-137, 150, 156, 182, 460 Iacopo da Varazze, 119, 129 Iacopone da Todi, 90, 98, 105-118, 119, 128, 129, 180, 219, 360, 642
J Jean de Meung, 56
K Köhler, E., 29
L Lambertini, L., 379 La Penna, A., 452 Lapo Gianni, 149, 257, 258 Latini, B., 91, 226, 229, 283 Lavagetto, M., 580
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Leopardi, G., 137, 160, 257, 305, 380, 422, 439, 446, 448, 455 Levi, P., 204, 333-337, 376, 377, 378 Livio, T., 206, 351, 405, 406, 407, 409, 414 Lombardo, M., 288 Lorenzetti, A., 85 Lucano, 227 Lucilio, 410 Lucrezio, C. T., 411, 525
M Malespini, R., 205 Manzoni, A., 525 Maria di Francia, 31 Matazone da Caligano, 170 Mengaldo, P. V., 273 Mineo, N., 245, 265 Montaldo, G., 204 Montale, E., 392-393 Muscetta, C., 518
N Nitardo, 16 Nobili, C. S., 376 Noferi, A., 424
O Odifreddi, P., 216 Omero, 329, 645 Orazio, 280, 329, 402, 462 Orbicciani, B., 90 Orff, C., 169 Ortolani, R., 104 Ovidio, N. P., 46, 227, 281, 329, 341, 396, 408, 409, 461, 463, 465, 498
P Padoan, G., 536, 537, 538-540 Pascoli, G., 132 Pasolini, P. P., 378, 564, 565 Passavanti, I., 90, 119-122, 129, 584, 588, 589 Pellico, S., 310 Pergolesi, G. B., 113 Petrarca, F., 10, 64, 67, 68, 87, 89, 90, 94, 132, 137, 224, 257, 380-489, 493, 494, 503, 519, 540, 640, 641, 644, 645 Phillips, T., 378, 379 Picone, M., 510 Pier della Vigna, 131, 288 Piovani, N., 254 Plinio il Vecchio, 386
Polo, M., 82, 83-84, 89, 92, 197-203, 204, 205, 206, 223 Priamo della Quercia, 314 Propp, V., 562 Protonotaro, S., 131, 138-141 Pulci, L., 35
Q Quasimodo, S., 254 Quintiliano, M. F., 617
R Raimbaut de Vaqueiras, 64 Raimondo da Capua, 123 Riccardo da San Vittore, 231, 284 Rigaut de Berbezilh, 139, 140 Ristoro d’Arezzo, 91 Roncaglia, A., 74 Ronchi, G., 199 Ronsard, P. de, 430 Rossellini, R., 102, 103, 104 Rossi, A., 562 Rossini, G., 113 Rudel, J., 63, 166 Ruggieri Apugliese, 170 Russo, L., 535 Rustichello da Pisa, 89, 197, 223 Rustico di Filippo, 90, 175, 176
S Saba, U., 132 Sacchetti, F., 92, 191, 192-195, 223 Sacchetti, G., 192 Sanguineti, F., 376 Santagata, M., 488 Sapegno, N., 239, 256, 373, 419, 440 Segre, C., 42, 173, 580, 589, 622 Seneca, L. A., 329, 389, 397, 402, 410, 412, 618 Serpieri, A., 580 Shakespeare, W., 381 Silio Italico, 405 Singleton, C., 231, 238, 245, 281, 285, 348, 398 Stazio, 227, 329, 338, 346, 365, 403 Svevo, I., 513, 516, 557
T Tasso, T., 132, 137 Tertulliano, 361 Thomas d’Inghilterra, 44, 52-56 Tolomeo, 193, 195
Indice dei nomi
Tommaso da Celano, 97 Tommaso d’Aquino (san), 8, 13, 235, 283, 284, 299, 387, 478, 643 Toschi, P., 106
U Uc di Saint Circ, 64 Uguccione da Pisa, 280 Ungaretti, G., 68
V Vecchioni, R., 465 Villani, F., 211 Villani, G., 92, 206, 211-216, 223
Villani, M., 211 Vincenzo di Beauvais, 584 Virgilio, P. M., 9, 71, 206, 226, 281, 284, 285, 286, 288, 289, 290, 296, 297, 298, 300, 301, 302, 303, 305, 306, 307, 308, 309, 311, 313, 314, 315, 316, 318, 320, 324, 325, 326, 327, 329, 331, 338, 344, 345, 346, 347, 348, 349, 363, 365, 376, 385, 396, 397, 402, 403, 407, 411, 414, 465, 498, 643, 645 Vivaldi, A., 113
Y Yeats, W. B., 430
Z Zancan, M., 128 Zeffirelli, F., 104 Zola, É., 511
W Wace, R., 44
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Indice delle rubriche e delle schede ChE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI Dante, 364 Petrarca, 476 Boccaccio, 646
LETTERATURA E... Economia, 202, 214, 544 Politica, 453 Società, 325, 350
LA VOCE DEL NOVECENTO Il male dell’anima in Petrarca e Montale, 392 La Storia di Fra Michele minorita nel Nome della rosa di Umberto Eco, 220 Le nuove avventure di Calandrino: Dario Fo riscrive Boccaccio, 635 Primo Levi e il canto di Ulisse nell’inferno del Lager nazista, 333
L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA La fortuna di Paolo e Francesca nell’arte figurativa, 314 La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Botticelli, 590
LETTERATURA E CINEMA Lo spirito francescano secondo Rossellini e altri registi, 103 Popolare e borghese: il Decameron di Pasolini, 564
MICROSAGGI La lauda, 106 Il sonetto, 132 La canzone, 137 Il carnevale e la letteratura carnevalizzata, 180 La configurazione fisica e morale dell’oltretomba dantesco, 296 La fortuna di Petrarca nel Rinascimento, 405 La satira del villano, 625
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Indice delle rubriche e delle schede
EChI NEL TEMPO La figura della mater dolorosa, 113 Riletture e suggestioni novecentesche del Milione, 204
DIALOGhI IMMAGINARI Petrarca e Dante, 478 Boccaccio e Dante, 642 Boccaccio e Petrarca, 644
PESARE LE PAROLE Abito (Dante), 266 Affettüoso (Dante), 309 Albergo (Petrarca), 439 Altera (Petrarca), 459 Angustïato (Iacopone da Todi), 108 Autore (Dante), 303 Avarizia (Boccaccio), 613 Avventura (Boccaccio), 516 Brutto (Boccaccio), 557 Cadendo … sì la riprese / Partendosi il cavaliere … gridò / E domandando il Conte … rispuose (Passavanti), 121 Cattivo (Boccaccio), 618 Colti (Boccaccio), 523 Convegno (Dante), 338 Coraggio (Guinizzelli), 153 Corrotto (Guittone d’Arezzo), 145 Cortese (Dante), 244 Credenza (Boccaccio), 627 Dimora (Dante), 320 Disertarsi (Boccaccio), 544
Dispitto (Dante), 319 Elegge (Dante), 305 Favola (Petrarca), 422 Feriali (Boccaccio), 500 Fernosia (Iacopone da Todi), 115 Forbito (Petrarca), 440 Fortuna (Dante), 257 Gentil(e) (Guinizzelli), 153 Gentile, onesta, pare (Dante), 248 Incomincia … a seguitarla (Boccaccio), 586 Ingegno (Boccaccio), 566 Lascivi (Boccaccio), Manduca (Dante), 338 Massaio (Boccaccio), 598 Mercé (Boccaccio), 631 Mestiere (Boccaccio), 515 Mira (Cavalcanti), 160 Nazione (Boccaccio), 567 Noia (Dante), 303 ’ntennate (Iacopone da Todi), 108 Parente (Petrarca), 446
Parole (Dante), 233 Pietà (Dante), 308 Pietate (Cavalcanti), 165 Preso (Iacopone da Todi), 107 Ragionar(e) (Dante), 257 Riguardi (Dante), 330 Rimembrare (Petrarca), 455 Riprenderei (Boccaccio), 553 Salute (Guinizzelli), 157 Schifasse (Boccaccio), 520 Scioperato (Boccaccio), 528 Skappare (san Francesco d’Assisi), 100 Si ministra (Dante), 235 Spera (Petrarca), 444 Studio (Dante), 253 T’impacciare (Boccaccio), 585 Valor(e) (Guinizzelli), 153 Vertute (Guinizzelli), 153 Vigilia (Dante), 330 Vile (Guinizzelli), 153 Villania (Dante), 244
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Indice delle illustrazioni » p. XXIV Giuseppe Piermarini, Teatro alla Scala, 17761778, Milano. » p. XXIV nico.
Un’orchestra di studenti suona su un palcosce-
» p. XXV Luchino Visconti e la sua troupe durante le riprese di Morte a Venezia, 1971. » p. XXV Bansky, La ragazza col timpano perforato, 2014, graffito, Bristol. » pp. 2-3 Il banchetto di Erode, 830 ca., affresco dalle Storie dell’Antico e Nuovo Testamento, part., Müstair (Svizzera), Convento di San Giovanni, Chiesa. » pp. 20-21 La partenza dei Crociati, XII secolo, affresco dalla Seconda Crociata, part., Cressac-Saint-Genis (Francia), Cappella dei Templari. » p. 34 La morte di Viviana, XIII secolo, miniatura dall’Histoire de Merlin di Robert de Boron, codice Fr. 95, part., Parigi, Bibliothèque Nationale de France. » pp. 76-77 Altichiero da Zevio, Supplizio di santa Lucia, terminato nel 1384, affresco, part., Padova, Oratorio di San Giorgio. » p. 95 Simone Martini, Maestà, 1312-21, affresco, part., Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo. » p. 130 Andrea Bonaiuti, Salita al Calvario, 1365-67, affresco, part., Firenze, Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli. » p. 184 Altichiero da Zevio, Battesimo di Lupa e consacrazione del santuario, 1372-75, affresco, part., Padova, Basilica del Santo, Cappella di San Giacomo. » p. 220 Beth A. Keiser, Umberto Eco nel suo albergo a New York, 2005, fotografia. » pp. 224-25 Sandro Botticelli, Ottavo cerchio (Malebolge), 1480-95, punta metallica, penna e inchiostro su pergamena con aggiunte di colore, dalla Divina Commedia di Dante, Inferno, canto XVIII, part., Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett. » p. 225 William Blake, Dante e Virgilio si avvicinano all’angelo che fa la guardia all’entrata del Purgatorio, 1824-27, matita, inchiostro e acquerello su carta, Londra, Tate Gallery.
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» pp. 226, 478 e 642 (Attrib.) Giovanni del Ponte, Ritratto di Dante Alighieri, XV secolo, miniatura dal codice Riccardiano 1040, part., Firenze, Biblioteca Riccardiana. » p. 228 Anonimo (Scuola di Bernardo Daddi), La città di Firenze, 1342, affresco dalla Madonna della Misericordia, part., Firenze, Orfanotrofio del Bigallo. » p. 282 Maestro della Vitae Imperatorum, I consiglieri fraudolenti, 1440 ca., miniatura dalla Divina Commedia di Dante, Inferno, canto XXVI, codice 76, part., Imola, Biblioteca Comunale. » p. 282 Aldo Sguanci, I golosi, 1902, olio su tela, Purgatorio, canto XXIV, part., Pistoia, Collezione Valiani-Risaliti. » p. 282 Federico Zuccari, Nel quinto cielo di Marte i beati compongono una croce nella quale fiammeggia Cristo, 1585-88, penna e matita rossa su carta dal Dante historiato da Federico Zuccaro, Paradiso, canto XIV, part., Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe. » p. 294 Vincent Van Gogh, Natura morta con libri, 1887, olio su tela, part., Amsterdam, Van Gogh Museum » p. 333 Rene Burri, Primo Levi nella sua casa a Torino, 1985, fotografia. » pp. 380-81 Anselm Feuerbach, Laura nella chiesa, 1865, olio su tela, part., Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Sammlung Schack. » p. 381 Ritratto di Laura de Noves, XVI secolo, dipinto, Innsbruck (Austria), Schloss Ambras. » pp. 382 e 478 Ritratto di Francesco Petrarca, XVI secolo, dipinto, part., Innsbruck (Austria), Schloss Ambras. » p. 384 Piero della Francesca, La città di Gerusalemme (in realtà Arezzo), 1452-66, affresco da Storie della Croce. Ritrovamento e verifica della Vera Croce, part., Arezzo, Chiesa di San Francesco, Cappella Maggiore. » p. 392 Fedele Toscani, Eugenio Montale, 1960-69, fotografia. » p. 414 Pagine miniate, 1470, da Canzoniere e Trionfi di Francesco Petrarca, incunabolo G V 15, part., Brescia, Biblioteca Civica Queriniana.
Indice delle illustrazioni
» p. 414 Laura de Noves, XV secolo, miniatura da Canzoniere e Trionfi di Francesco Petrarca, codice scritto a Siena, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. » p. 414 Laura incorona il poeta, 1466-76, miniatura dal Canzoniere di Francesco Petrarca, codice Ashb. 1263, part., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. » pp. 490-91 John William Waterhouse, Il Decameron, 1916, olio su tela, part., Liverpool, National Museums Liverpool, Lady Lever Art Gallery. » pp. 492 e 642 Ritratto di Giovanni Boccaccio, 1450, miniatura dal Corbaccio di Giovanni Boccaccio, codice It. X, part., Venezia, Biblioteca Marciana.
» p. 503 Nell’albergo, tre letti con cinque persone; l’oste e sua moglie si danno spiegazioni, 1430-50, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, codice 5070, giornata nona, sesta novella, part., Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. » p. 503 John Everett Millais, Isabella e Lorenzo, 184849, olio su tela, part., Liverpool, Walker Art Gallery. » p. 635 Dario Fo nel suo appartamento, 9 aprile 2014, fotografia a colori. » p. 657 Teatro visto attraverso il sipario, fotografia.
» p. 494 Firenze, XIV secolo, miniatura, part. » p. 503 Maestro dell’Echevinage di Rouen, Epidemia di peste a Firenze e i dieci narratori del Decameron rifugiati al di fuori delle mura della città, XV secolo, miniatura dal Decameron di Giovanni Boccaccio, part., Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
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Referenze fotografiche p. XX: Bassouls/Sigma/Corbis; p. XXIV: Rob Tilley/Corbis; p. XXIV: Hill Street Studios/Getty Images; p. XXV: Courtesy Everett Collection/Contrasto; p. XXV: Bansky; p. 2: Sandro Vannini/Corbis; p. 10: Gianni Dagli Orti/Corbis; p. 16: J.E. Bulloz/De Agostini Picture Library/Getty Images; p. 20: Leemage/Corbis; p. 24: A. Dagli Orti/De Agostini Picture Library/Contrasto; p. 34: Mondadori Portfolio/Akg Images; p. 40: The Bridgeman Art LibraryNationality/Archivi Alinari, Firenze; p. 51: Columbia Pictures/Courtesy Everett Collection/Contrasto; p. 54: White Images/Scala; p. 58: Historical Picture Archive/Corbis; p. 70: Mondadori Portfolio/Akg Images; p. 76: Archivio Seat/ Archivi Alinari; p. 103: Webphoto; p. 104: Rue Des Archives/Agf; p. 112: Mondadori Portfolio/Electa/Sergio Anelli; p. 117: Archivi Alinari, Firenze; p. 125: Geoffrey Clements/Corbis; p. 184: Mondadori Portfolio; p. 189: David Lees/Corbis; p. 220: Beth A. Keiser/Corbis; p. 222: 20th Century Fox Film Corp./Everett Collection/Contrasto; p. 225: Lebrecht/Contrasto; p. 239: Mary Evans/Scala, Firenze; p. 248: Christie’s Images/Bridgeman Images; p. 294: Corbis; pp. 297, 298, 299: Giovanni Manna; p. 307: Feltron Bequest/Bridgeman Images/Archivi Alinari; p. 315: Mondadori Portfolio/Akg Images; p. 328: Bibliothèque Nationale de France; p. 333: Rene Burri/Magnum/Contrasto; p. 344: Stefano Bianchetti/Corbis; p. 380: Foto Scala, Firenze/Bpk, Bildagentur für Kunst, Kultur und Gesichte, Berlin; p. 381: Leemage/Corbis; p. 382: Leemage/Corbis; p. 384: Foto Scala, Firenze, su concessione Ministero Beni e Attività Culturali; p. 386: Mondadori Portfolio/Akg Images; p. 392: Archivio Toscani/Gestione Archivi Alinari, Firenze; p. 430: Mimmo Frassineti/Agf; p. 454: Tuul & Bruno Morandi/Corbis; p. 465: Splash News/Corbis; p. 472: Leemage/Corbis; p. 477: Fine Art Photographic Library/Corbis; p. 489: Mondadori Portfolio/Akg Images; p. 496: Historical Picture Archive/Corbis; p. 503: Leemage/Corbis; p. 507: Leemage/ Corbis; p. 510: Bibliothèque Nationale de France; p. 548: Bibliothèque Nationale de France; p. 565: Webphoto; p. 582: White Images/Scala, Firenze; p. 590: Leemage/Corbis; p. 591: Leemage/Corbis; p. 592: Leemage/Corbis; p. 597: White Images/Scala, Firenze; p. 608: Bibliothèque Nationale de France; p. 612: Per l’immagine di Emanuele Luzzati © Nugae srl - Museo Luzzati, Genova; p. 626: Gianni Dagli Orti/Corbis; p. 635: Matteo Bazzi/Ansa/Corbis; p. 644: Leemage/Corbis; p. 647: Per l’immagine di Emanuele Luzzati © Nugae srl - Museo Luzzati, Genova; p. 657: Moodboard/Corbis
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